Fashion Magazine N 2 2025

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Woman Power

Dopo la vendita di Woolrich, Cristina Calori guida con le figlie Gaia e Carlotta la ripartenza di WP Lavori in Corso. Un team di donne e una sfida comune: conquistare il pubblico femminile

IL PROSSIMO PASSO

Federico Marchetti porta in America

il suo sogno di umanesimo digitale, fatto di emozioni e bellezza

IN MOVIMENTO

Il running come motore di cultura, business e community, raccontato dai suoi nuovi protagonisti

LA RINCORSA

Dopo l'accelerazione della moda sul direct-to-consumer, i multimarca recuperano posizioni

In copertina

La sfida di Cristina Calori dopo la vendita di Woolrich: conquistare le donne con WP Lavori in Corso, insieme alle figlie Gaia e Carlotta. Ph. Francesca Turrin, Assistente fotografa Giorgia Pettinari, Make-up & Hair Stylist Chiara Fedi

Sommario

COVER STORY

WP LAVORI IN CORSO

Cristina Calori: «È come se fossimo una start-up»

Pagina 6

BARBOUR BOOM!

È riesplosa la Barbourmania

Pagina 12

PROTAGONISTI

FEDERICO MARCHETTI

Dalla parabola dell’e-commerce all’impegno con Re Carlo, l’inventore di Yoox racconta la sua nuova fase da «filantropo per le imprese»

Pagina 14

MATTIAS MAGNUSSON

Il ceo di Acne Studios punta a raggiungere 500 milioni di ricavi, senza rinunciare allo spirito indie del brand

Pagina 19

YUSUKE TAKAHASHI

L’ex designer di Issey Miyake Men porta avanti un approccio sostenibile con il suo marchio Cfcl

Pagina 23

IL POLSO DEL MERCATO

IL SUMMIT DI FASHION

The Future of Retail: la parola a 25 speaker

Pagina 29

BUYERS’ SURVEY MENSWEAR SS25 «Concreto e cauto, ma più fidelizzabile: oggi l’uomo compra così»

Pagina 44

TOP RETAILER

Verso ad Anversa: professione brand builder Pagina 54

USA

Una sfida da affrontare nonostante l’incertezza Pagina 56

FLASH SALES

Veepee: «Il carrello maschile è trainato dallo sportswear» Pagina 62

PREVIEW SS2026 Maschile plurale Pagina 65

ITALIAN STORIES

Il Pungetti-pensiero?

Nessun clamore, a parlare è il prodotto Pagina 80

PITTI STORIES

Vitale Barberis Canonico e Digel: il formale alla scoperta dell’infotainment Pagina 84

BRAND TO WATCH Pagina 87

ITALIAN STORIES

Edoardo Di Luzio

«Il problema non è partire: la vera sfida è fra il terzo e il quinto anno. Lì arriviamo noi»» Pagina 92

RUNNING CULTURE

Fenomeno corsa: perché piace a tutti, anche alla moda Pagina 94

INNOVAZIONE

SMART TOOL

AI generativa nel design: utile e divertente, a patto di restare autentici Pagina 108

DATABOUTIQUE.COM

Il nuovo Farfetch: boutique sì, big brand forse Pagina 112

TOP JOBS

A.A.A. marketplace manager cercasi. Digital expert, ma non solo Pagina 114

RUBRICHE

L’EDITORIALE

Back to basics! Pagina 5

UN VOCALE DA NEW YORK

Tre gemme nascoste della moda europea a NY Pagina 60

CONTROCORRENTE

Simon Whitehouse: «Con Ebit vorrei regalare al mondo una pillola di felicità» Pagina 118

LOCAL HERO

Quantum Retail: il maestro del franchising Pagina 120

OLTRE IL SOFFITTO DI CRISTALLO

Emanuela Pignataro: «Metto al centro le persone. Il mio motto? Lead by example» Pagina 122

NEWCOMERS

Come Giulio Maragno riscopre le sue radici Pagina 124

LIFESTYLE

Marco Bruni: «Cosa c’entra il pesto con la moda? Più di quanto si immagini» Pagina 126

Back to basics!

Bisogna dirlo chiaramente: è un momento difficile per la moda. Non solo dal punto di vista congiunturale, ma anche strutturale. Per molti clienti la moda ha perso importanza. Preferiscono spendere i loro soldi per una cena in un ristorante stellato o un weekend benessere, piuttosto che per un cappotto o un paio di scarpe nuove. Il settore ha una parte di responsabilità in questo allontanamento.

Molti marchi del lusso hanno aumentato i prezzi senza investire a sufficienza nella creatività e nella qualità dei prodotti.

“Value for money”? I dubbi sono fondati. Nell'attuale numero di Fashion Magazine mostriamo come la moda possa riconquistare l'entusiasmo dei clienti, tornando alle vecchie virtù. Il motto deve essere “ritorno alle origini”, “back to basics”.

A partire dal prodotto. Abbiamo visitato Alessandro Pungetti nel suo atelier e Yusuke Takahashi nel suo showroom parigino. Pungetti disegna capi per l'eternità con il marchio Ten C. «Vorrei che chi acquista i nostri capi si sentisse a proprio agio in ciò che indossa». Takahashi è un mago della maglieria. Per il suo marchio CFCL utilizza una tecnologia 3D, che gli permette di creare silhouette straordinarie.

Inoltre, evita il più possibile gli sprechi. «Credo che la moda abbia il potere di cambiare le persone nei loro sentimenti, nel loro modo di pensare e di agire», afferma.

La distribuzione è un secondo fattore chiave. Negli ultimi tempi si è parlato molto di direct-to-consumer. Questo ha fatto passare in secondo piano il canale multimarca, che rimane essenziale per la maggior parte delle aziende di moda italiane. È una delle conclusioni del nostro primo summit “The Future of Retail”, che si è tenuto il 5 maggio a Milano e che abbiamo riassunto in questo numero.

I rivenditori multimarca sono molto più che semplici punti vendita. Sono una «palestra per i marchi», come afferma il presidente di Herno, Claudio Marenzi. Sono una «Disneyland dello shopping», come André Maeder, ceo di Selfridges Group, definisce il famoso grande magazzino londinese. E sono un luogo

di «storytelling», afferma Didi Corbetta, titolare di Valtellini in Franciacorta, molto attiva sui social media.

La cultura è il terzo aspetto. Se la moda vuole essere veramente rilevante, non può che essere parte della vita quotidiana. Le persone devono scoprirla da sole e parlarne tra di loro.

Per questo non servono campagne pubblicitarie eleganti, ma offerte e narrazioni che soddisfino bisogni reali.

Il running ne è un esempio perfetto. Nel nostro speciale su questo numero spieghiamo come questa disciplina si sia trasformata da sport a movimento incentrato sulla comunità e sul benessere. «Amiamo il running: corriamo per stare bene», afferma Gabriele Casaccia di Mental Athletic, che ha sviluppato un marchio partendo da un progetto editoriale.

Abbiamo dedicato la copertina a Cristina Calori. Dopo aver venduto Woolrich, l'imprenditrice si è concentrata nuovamente sulla WP Lavori in Corso, l'azienda che ha fondato con il padre Giuseppe nel 1982.

Da quando ha ricominciato, è stato tutto un crescendo. Perché? Cristina e le sue due figlie Gaia e Carlotta offrono prodotti che durano una vita, li presentano in negozi e contesti accattivanti e coinvolgono le persone con racconti appassionanti. “Back to basics”.

«Credo molto nella moda femminile. È più fantasiosa e divertente di quella maschile. Mi manca un po’, perché per Woolrich rappresentava il 70% del fatturato. E mi piacerebbe acquistare un bel marchio donna»

Cristina Calori, WP Lavori in Corso
Fotografa: Francesca
Turrin
Assistente fotografa: Giorgia PettinariMake up & Hair Stylist: Chiara Fedi

«È COME SE FOSSIMO UNA START-UP»

Dopo la vendita di Woolrich, Cristina Calori si concentra con una nuova energia su WP Lavori in Corso. Al suo fianco ci sono

le figlie Gaia e Carlotta. Il futuro

è rosa: l’abbigliamento femminile è infatti il principale motore della crescita

Il numero è vertiginoso. Ben 100mila capi sono immagazzinati all'interno di due capannoni. Giacche cerate di Barbour, giacche Harrington di Baracuta, camicie button-down di BD Baggies, cappotti peacoat di Spiewak, field jacket di Filson

I capi provengono da tutti i decenni. Sono appesi con cura su grucce di metallo che si estendono lungo le pareti, a destra e a sinistra del corridoio centrale. Come in una biblioteca, ogni fila è numerata, in modo che il visitatore non si perda nell’enorme quantità di capi. L’archivio di 100mila pezzi non racconta solo il passato di WP Lavori in Corso, ma guarda anche al futuro. Non è un punto di arrivo, ma di partenza.

Dopo aver venduto nel 2018 il marchio di abbigliamento sportivo premium Woolrich alla società di private equity L-Gam, Cristina Calori si concentra nuovamente sull’azienda che ha fondato nel 1982 insieme al padre Giuseppe WP Lavori in Corso possiede i marchi Baracuta, BD Baggies, Spiewak e Avon Celli. Inoltre, l’azienda distribuisce Barbour, Blundstone, Filson e, da poco, il marchio Universal Overall, specializzato nei pantaloni. «Siamo ripartiti come se fossimo una start-up - dice Cristina -. È stato divertente».

L’analogia con una start-up non è un’esagerazione. A causa della vendita di Woolrich, il fatturato consolidato della società WP Holding Srl è crollato in

un solo colpo da 205 milioni di euro a 33 milioni nel 2019. Tuttavia, grazie al boom dell’heritage - di cui beneficia in primo luogo il marchio Barbour - le cifre sono in costante aumento. «Cresciamo anche quest’anno, nonostante il periodo tragico che tutti stiamo attraversando - afferma Cristina Calori -. Il prodotto heritage è "anti-moda", non fa paura ed è continuativo. Lo metterai sempre e più lo usi, più è bello». Nel 2023 il fatturato era di 60 milioni di euro e nel 2024 di 70 milioni. Per il 2025, Cristina prevede 80 milioni di euro. Il numero dei dipendenti, compreso il personale dei negozi, è salito da 50 a circa 200 in cinque anni. Per affrontare la fase successiva, ha de-

ciso di assumere Lorenzo Sani, ex dirigente di WP e Woolrich e recentemente de La Sportiva.

Uno dei motori della crescita è l’abbigliamento femminile: «Credo molto nella moda donna. È più fantasiosa e divertente di quella maschile. Mi manca un po’, perché per Woolrich rappresentava il 70% del fatturato - afferma l'imprenditrice -. Mi piacerebbe acquistare un bel marchio di womenswear».

È quindi perfetto che Cristina sia affiancata da due donne. Dal 2020 sono entrate a far parte dell’azienda le sue figlie Gaia (38) e Carlotta (30).

Gaia è piena di idee e fa molte cose contemporaneamente. Vibra letteralmente di energia creativa. Come il suo cellulare, perché riceve continuamente messaggi. Sua sorella Carlotta, che in precedenza ha lavorato nel retail e nel trade marketing presso Woolrich, è più tranquilla e sistematica. «Sono super competenti e sono soprattutto complementari. Hanno caratteristiche che si compensano benissimo», sostiene Cristina. Le sorelle hanno riordinato l’archivio, introdotto linee di capi vintage e upcycled, come WP Archivio e Reparo, e conferito ai negozi WP un’atmosfera più accogliente. Si occupano anche di WP Relais, il portafoglio di 35 immobili per vacanze in Italia, Spagna, Svizzera e Stati Uniti, che Cristina ha creato nel 2015 e continuato ad ampliare negli anni. Le sorelle hanno arredato le case e gli appartamenti con grande attenzione ai dettagli. Alcuni articoli per la casa, come ceramiche, quaderni e penne, sono in vendita nel negozio online di WP Lavori in Corso.

Con il trio madre-figlie, il mondo di WP Lavori in Corso, a lungo all’ombra di Woolrich, sta rifiorendo. Del resto, fin dall’inizio WP Lavori in Corso è stato più di un distributore e licenziatario. Cristina e suo padre Giuseppe hanno espresso il loro gusto personale e

WP

Lavori in Corso in crescita a doppia cifra dal 2019

il loro stile di vita attraverso la selezione dei marchi e il modo in cui li presentavano. Erano come i proprietari di un concept store alla Merci.

Risale al 1985 l'apertura del loro primo negozio WP, in via dei Mille 17 a Bologna. Ne sono seguiti altri a Milano, La Spezia, Parma, Ravenna e Rimini. C’erano anche dei corner, ad esempio da Guichardaz a Courmayeur Più tardi Cristina ha fatto il grande passo all’estero, avviando store nel quartiere newyorkese di Brooklyn e a Seul, in Corea del Sud. I Calori non si occupavano solo di moda, ma anche di cultura e sottocultura. Sponsorizzavano concerti, tra cui un’esibizione del musicista jazz Chet Baker. Cristina e Giuseppe realizzavano i cataloghi dei prodotti sotto forma di fumetti - per i quali ingaggiavano artisti underground come Filippo Scozzarie di romanzi d’avventura illustrati. Uno racconta un viaggio in Marocco, a bordo di un furgone Mercedes. Una foto, in particolare, mostra Cristina su un’altura e sotto di lei si intravedono le pareti scoscese delle Gole di Todra. Indossa un maglione bianco con un mo-

tivo a trecce. Lo scatto è accompagnato dalla didascalia: «Il maglione Barbour D475 è perfetto anche on the road». Con la sua filosofia, WP Lavori in Corso si differenzia dall’azienda torinese BasicNet, proprietaria di brand storici come Kappa, K-Way e Sebago. Il fondatore di BasicNet, Marco Boglione, non lo ha concepito come un curatore e un trend setter ma come un marketplace, in cui licenziatari e produttori possono incontrarsi.

I figli di Boglione, Lorenzo e Alessandro, da poco co-amministratori delegati, hanno scorporato i marchi BasicNet in società separate. Ciò facilita la loro vendita o quotazione in Borsa. È quanto è successo con K-Way, di cui la società di private equity Permira ha acquisito una quota di minoranza.

Cristina, Gaia e Carlotta stanno andando nella direzione opposta Stanno ridefinendo il profilo di WP Lavori in Corso come se fosse un brand, riunendo i singoli marchi all'interno di un’opera d’arte totale.

Ufficialmente, Gaia è direttrice creativa dei due negozi WP di Bologna e Firenze, che esistono ancora oggi. Ma in realtà Chief Disruption Officer sarebbe la definizione più appropriata per lei. Come un torrente che scende a valle, si fa strada nell’azienda di famiglia e travolge ciò che incontra sul suo cammino. Ha infuso un po’ della sua indole creativa nel prodotto di Avon Celli e si è appassionata al marketing: «Shooting, Instagram...Stiamo cercando di comunicare diversamente e regalare informazioni, anziché dire "compra questo prodotto"». Adesso le piacerebbe entrare in Baracuta: «Vorrei capirne le dinamiche e vedere cosa manca».

Gaia ha iniziato dall’archivio: «Mi sono inventata un’attività che non richiedesse che avessi qualcuno sopra di me». Nei due capannoni di fronte agli uffici WP, in via dell'Arcoveggio 59/5 a Bo-

Da sinistra, Gaia e Carlotta Vitolo, figlie di Cristina Calori, all’interno degli uffici di WP Lavori in Corso a Bologna
Fonte: WP Holding Srl - *previsione Cristina Calori
«Le mie figlie sono super competenti e sanno essere complementari»
Cristina Calori, WP Lavori in Corso

logna, si è ritrovata in un “caos”. Come un’archeologa che scava e registra reperti antichi, ha rovistato tra montagne di vestiti, li ha spolverati e catalogati.

La sorella di Gaia, Carlotta, è responsabile della Corporate Social Responsability & Wellbeing. L’ambiente le sta molto a cuore. Ama la pesca in apnea, «ma vedendo quanto il mare sia invaso dalla plastica e quanto il pesce sia sempre più scarso, ho scelto di cambiare. Ora mi dedico alle immersioni subacquee e a raccogliere plastica».

È lei ad avere convertito la flotta di WP

Lavori in Corso in veicoli elettrici. Nel parcheggio sono state installate stazioni di ricarica e sul tetto ha fatto attivare pannelli solari. Con i brand sta testando nuovi materiali più sostenibili: in particolare, con Baracuta sta lavorando a una versione più ecologica dell’iconica giacca G9.

Allungare la vita dei prodotti è la missione di Carlotta. All’insegna del motto “Repair & Rewax”, i capi vengono riparati e le vecchie giacche Barbour ricerate. Gli articoli difettosi che WP Lavori in Corso ritira e immagazzina vengono riparati e rimessi in circolazione. Reparo è il nome della linea per la quale Carlotta e Gaia hanno cercato artigiani in tutta Italia.

Le iniziative Archivio e Reparo sono diventate elementi fondamentali del modello di business di WP Lavori in Corso L’archivio è aperto, a pagamento, ai team di design di altre aziende. Una selezione di capi vintage e la linea Reparo sono in vendita nei negozi e nello shop online WP. «È un modello scalabile», afferma Gaia con convinzione.

Secondo lei, il vintage e l’usato sono la risposta all’ipertecnologizzazione della modernità: «La creatività è un motore che si accende per sopravvivere a uno stato di noia. Con la tecnologia siamo sempre potenzialmente occupati e il

WP LAVORI IN CORSO I marchi del gruppo

BRAND DI PROPRIETÀ

Baracuta

BD Baggies

Avon Celli

Spiewak (In licenza a Itochu, WP gestisce la distribuzione in EU e USA)

BRAND DISTRIBUITI

Universal Overall (Tutta Europa, escluso UK)

Barbour (Italia e Svizzera)

Blundstone (Italia, Svizzera e Spagna)

Filson (Tutta Europa)

motore si avvia con più difficoltà. Quindi si recupera quello che c'era nel passato». Il futuro di WP Lavori in Corso è rosa. Nel vero senso della parola Il potenziale maggiore dell’azienda risiede nella moda femminile. Ne è la prova Barbour. Da oltre quattro decenni esiste una partnership tra WP e il marchio cult britannico.

In occasione del 40esimo anniversario, Margaret Barbour e sua figlia Helen hanno invitato la famiglia Calori a South Shields, vicino a Newcastle, nel Nordest dell’Inghilterra. «Ci hanno organizzato una festona», ricorda Cristina. Barbour ha vissuto alti e bassi. Il marchio era molto in voga in Italia all’inizio degli anni ’80/’90, grazie a Raul Gardini. L’imprenditore del gruppo Ferruzzi era un appassionato velista, che partecipava all’America’s Cup con il suo yacht Il Moro di Venezia.

Oggi il marchio è tornato di gran moda soprattutto grazie alla donna, che secondo Cristina rappresenta circa il 40% del fatturato. Se un tempo Barbour aveva solo due modelli, Beaufort e Bedale, in due colori, oggi il brand ha ampliato la sua gamma, anche grazie a

WP Lavori in Corso. Un ruolo importante è stato svolto dalla it girl e designer Alexa Chung, che dal 2018 al 2025 ha disegnato diverse capsule collection. Gli altri marchi WP sono ancora al debutto nel settore della moda femminile. Cristina ha affidato Spiewak al gruppo Itochu. I giapponesi sono riusciti a riprodurre il tessuto Titan. In collaborazione con il designer brand Sacai, hanno lanciato una collezione femminile: «Noi ci avevamo provato per una vita e non siamo mai riusciti. Loro invece sì - racconta Cristina -. È meraviglioso lavorare con loro». Filson (di cui lei deteneva una quota, ma ora si occupa solo di distribuzione) ha un nuovo direttore generale, Tim Bantle, che vanta un’esperienza maturata presso Patagonia, The North Face ed Eddie Bauer. Il responsabile del prodotto è Alex Carleton, che lavora nell’azienda da oltre un decennio. «La linea femminile di Filson sta andando molto bene negli Stati Uniti», afferma l'imprenditrice. Blundstone ha nel suo assortimento stivali da donna e presto ci saranno anche i sandali. Dopo un tentativo di rilancio, Cristina Calori ha per ora accantonato il progetto di riportare in auge il marchio di maglieria Avon Celli, fondato nel 1922. Avon Celli deve essere sinonimo di lusso Made in Italy: «Devo trovare un conduttore che gestisca quel tipo di business, legato al lusso, e sappia parlare quel linguaggio». «Ma è possibile che presto ci siano novità. Avrei il produttore già pronto», rivela. È anche merito di Gaia: durante la creazione dell’archivio, è stata lei a notare che c’erano pochi capi di Avon Celli. Ha setacciato mercatini dell’usato, armadi di ex clienti e rimanenze di negozi che avevano chiuso l’attività. Su questa base è stata disegnata una collezione disponibile nel negozio online WP. Si parte dall'archivio. ■

TOBIAS BAYER E MARIA CRISTINA PAVARINI

«Offriamo principalmente un prodotto heritage. Ci crediamo perché è “anti-moda”, rassicurante, continuativo. Lo metterai sempre, perché più lo indossi e più diventa bello»

Cristina Calori, WP Lavori in Corso

CROCS La più recente delle colab è fresca di debutto. In questa nuova liason la protezione delle giacche Barbour incontra la giocosità, il colore e il comfort di Crocs. Mentre sabot e stivali sono decorati da divertenti Jibbitz Pins, le giacche più classiche si reiventano in un patchwork di materiali che danno un tocco nuovo ai classici capi outdoor.

NOAH Barbour fa breccia anche tra i fan dello stile skate e surf, come quello del marchio uomo di NY. Nuove proporzioni, check alternativi e colori inattesi reinventano l’estetica del brand inglese per eccellenza, donando ai capi più British un’immagine urban, secondo dinamiche inaspettate che scatenano la febbre dei collezionisti più accaniti.

BARACUTA Quando due British icon s’incontrano, il successo è assicurato. È accaduto con Baracuta x Barbour, capsule che ha debuttato con la FW 2023 e che tornerà nei negozi a breve. Il Mod Casual Parka, omaggio al movimento Mod degli anni ’60, si incontra con stili dell’era Brit-Pop degli anni ’90, in un mix di tartan, nuove proporzioni e must-have unici.

BARBOUR BOOM!

È riesplosa la Barbourmania. La giacca più amata da chi pratica caccia, pesca e sport outdoor, già una hit negli anni ’80 grazie a Lady Diana, è tornata letteralmente a essere la “regina” degli armadi di fashion victim e non. È avvenuto grazie a Her Majesty Queen Elizabeth e a serie TV come The Crown, trasmessa da Netflix, senza contare l’ulteriore impulso dato dalla capsule collection firmata da Alexa Chung dalla FW 2018/2019 alla SS 2025. Ma esistono moltissime altre colab, tutte da scoprire e collezionare.

FLOWER MOUNTAIN Barbour incontra il brand giapponese di calzature. Dettagli in colori vivaci, ricami floreali e patchwork di tartan diversi si mescolano ad applicazioni di fili colorati. La capacità artigianale giapponese si contrappone alla funzionalità delle giacche waterproof, per look perfetti from-head-totoe, adatti a rallegrare le grigie giornate di pioggia.

GANNI L’artigianalità ed expertise britannica di Barbour si mixano perfettamente con lo stile scandinavo 2.0 di Ganni, brand danese ironico e divertente. Giacche cropped o impermeabili oversize, macro-colletti in velluto e mix di materiali - dal denim all’animalier - reinventano l’immaginario di queste due inimitabili icone di stile.

ALEXA CHUNG La modella e stilista ha collaborato per più stagioni con Barbour come creative director e designer. Ha ricreato capi ispirati al suo guardaroba, ai suoi interessi e ai ricordi d’infanzia - tra cavalcate nell’Hampshire e concerti nel fango di Glanstonbury. Pur rispettando il dna del brand, Chung ha esplorato nuovi colori, stili e accessori.

ERDEM La femminilità poetica di Erdem, brand dello stilista turco-canadese Erdem Moralioglu, non poteva trovare un miglior compagno in Barbour. Pieghe, arricciature e silhouette uniche reinventano la tela cerata di quattro giacche, dando vita a capi dalle proporzioni e dalla bellezza inaspettata, perfetti per stupire qualsiasi Barbour fan.

TO KI TO Il brand inglese e lo stilista giapponese Tokihito Yoshida (meglio noto come To Ki To) hanno realizzato più capsule insieme. Tra le altre, la SS 2025 si ispira alla passione per la funzionalità innovativa e l’attenzione ai dettagli care al designer, coniugate con l’heritage e il savoir-faire del marchio pensato per vivere all’aria aperta.

Federico Marchetti

Dalla parabola dell’e-commerce all’impegno con
Re Carlo, l’inventore di Yoox racconta la sua nuova fase da “filantropo per le imprese”.«Ynap? La sogno tra le 100 più capitalizzate al mondo, anche da ex»

L’effetto sorpresa non scatta al momento delle presentazioni. Chi ha letto la sua autobiografia Le avventure di un innovatore sa già cosa aspettarsi: un Federico Marchetti informale, fedele al suo dress code quotidiano con tuta in cashmere Armani e Adidas in plastica riciclata. Nemmeno il primo sguardo al suo nuovo appartamento milanese a CityLife sorprende davvero, per quanto bello. Anche questo, in fondo, era stato anticipato nel libro, dove ricorre spesso il nome di Luca Guadagnino, amico e regista a cui Marchetti ha affidato il design di molte delle sue case. «L’input era il Brasile», spiega, mostrando la grande sala piena di piante, che richiama certi interni modernisti di San Paolo: volumi ampi, avvolgenti, da giungla urbana. La sorpresa arriva durante l’intervista. Colpisce la sua naturalezza nel cambiare registro, passando da un tema all’altro con ritmo serrato, ma mai disorientante. Ogni pensiero è supportato da dati, aneddoti, esempi. In un’ora, il fondatore di Yoox ed ex ceo di Ynap spazia dal recente incontro a Ravenna con Re Carlo III - che gli ha affidato la presidenza della Fashion Task Force per la sostenibilità - all’analisi del futuro dell’e-commerce. Snocciola termini come digital product passport, ma parla anche con un linguaggio umanistico, riflesso del suo approccio e della nuova missione. «Secondo Brunello Cucinelli, ora faccio filantropia per le imprese», dice lasciando da parte il lavoro su cui era concentrato fino a un momento prima: l’analisi dei risultati sul progetto del Digital Product Passport. «È un tema cruciale - afferma -. Nel 2021 l’ho indicato come priorità della Task Force. Un anno dopo, la Commissione UE lo ha adottato».

Federico Marchetti, fondatore di Yoox ed ex ceo di Ynap, ha portato l’azienda a una valutazione di 5,4 miliardi di euro, conquistando il titolo di “geek of chic” sul New Yorker. Oggi guida la Fashion Task Force per la moda sostenibile voluta da re Carlo d’Inghilterra

«Ynap la sentirò sempre un po’ mia: l’ho desiderata, rincorsa, costruita. L’execution della fusione con Mytheresa sarà complessa, ma se riusciranno sarà un grande risultato»

Mentre molti stanno ancora implementando, voi siete già oltre... Siamo nella fase di analisi dei dati dei clienti e questo ci mette un passo avanti. I membri della Task Force stanno raccogliendo feedback aggregati. Posso anticipare che l’interesse dei consumatori è concreto: passano da uno a quattro minuti sul DPP. La prima informazione che cercano è l’autenticità del prodotto, che li porta in modo naturale a esplorare anche la tracciabilità. È un po’ come un cavallo di Troia: entrano da una porta familiare e scoprono molto di più. Ma oltre non posso dire, devo ancora condividere con Sua Maestà i risultati…

Ormai Re Carlo III sembra essere una presenza costante nel suo percorso. Recentemente lo ha anche accompagnato, con la Regina Camilla, nella “sua” Ravenna. Com’è andata quella giornata? È stato un momento straordinario. Li ho accompagnati nella visita ai mosaici come “guida emotiva”, mentre una professoressa curava gli aspetti storici e tecnici. Tutto è stato organizzato in modo impeccabile dall’Ambasciatore e dal Console inglesi. Ma il momento più toccante è stato vedere la felicità negli occhi dei bambini. Ravenna, colpita da due alluvioni in due anni, ha vissuto la visita come un’iniezione di orgoglio e speranza. Era una giornata di primavera, con un sole inaspettato: fortunatissimi. Nelle strade balli, liscio romagnolo, un clima di festa autentico. E poi l’arrivo del Re e della Regina: un messaggio potente per quei bambini. “Se vengono qui, allora Ravenna è importante”. Ho visto felicità contagiosa, un senso di appartenenza mai percepito altrove. Per questo ho deciso di includere questo episodio come finale della versione americana del libro. Il romanzo inizia e finisce a Ravenna, con l’arrivo del Re. Un cerchio che si chiude.

Così Le avventure di un innovatore arriverà anche in America? Sì, si intitolerà The Geek of Chic (letteralmente, Il nerd dello stile, come è stato definito dal New Yorker, ndr).

Il libro che racconta il percorso dell’imprenditore italiano uscirà a settebre anche in America

Bel titolo! Ma un sogno americano “made in Italy” può davvero conquistare gli Usa, dove già dominano storie di nerd e garage? In Italia sono stato una mosca bianca. Ma la mia storia è diversa anche da quella dei tech entrepreneur della Silicon Valley. Con Yoox ho seguito un percorso alternativo: moda, creatività, umanesimo. Negli Usa molti partono da poco e arrivano in alto, ma il mio è un punto di vista italiano: non freddo, tutto algoritmi, ma fatto di innovazione e cultura. Un binomio a cui loro non sono abituati. E poi c’è la moda, che li ossessiona ma in cui non hanno mai eccelso. Jeff Bezos, ad esempio, non ne ha mai colto il vero valore. Il suo approccio - massimizzare l’efficienza - è l’opposto del lusso, che si basa su unicità, identità, esperienza. La moda richiede sensibilità ed estetica. È un linguaggio complesso. E penso che la mia storia possa parlare anche al pubblico americano, proprio perché porta emozione, bellezza e umanesimo.

Torniamo in Europa: che impressione le ha fatto l’acquisizione di YNAP da parte di Mytheresa? Tutto mi pare molto ragionevole e sano. L’a.d. Michael Kliger si è sempre dimostrato un eccellente gestore alla guida di

Mytheresa. In realtà, la direzione di separare in modo chiaro off-season e in-season era già tracciata quando guidavo il gruppo. Il piano industriale prevedeva una distinzione precisa tra Yoox e Net-a-Porter, proprio come tra off-season e in-season. Certo, alcune componenti tecnologiche erano condivise - come il data layer per analizzare i comportamenti di acquisto tra i due mondi - ma dal punto di vista del front-end e dell’esperienza per il cliente, la separazione era già netta.

La strategia di Kliger le sembra in continuità o una rottura col passato? Onestamente, seguendo la vicenda sui giornali, non ho mai letto nulla che mi abbia fatto sobbalzare sulla sedia. Tutte le dichiarazioni mi sono sembrate mosse da buon senso e razionalità. Auguro il meglio a Kliger e a tutto il team.Ynap la sento ancora un po’ mia: è una creatura che ho desiderato, rincorso, costruito. So che l’execution sarà complessa: Ynap è una realtà più grande e articolata di Mytheresa, sia per mercati che per brand e organizzazione. Ma se riusciranno nell’impresa, sarà un grande risultato. Glielo auguro di cuore.

Si è confrontato con loro in questa fase? Hanno cercato il suo parere? No, non mi hanno contattato.

Se lo facessero?

Non ci ho pensato e non so neanche se sarebbe corretto che lo facessero. Questa eventualità non è nei miei pensieri.

Nei suoi pensieri oggi ci sono Re Carlo, la task force, Re Giorgio come membro del board di Armani. Ma l’e-commerce lo segue ancora? Il momento sembra complicato… Non sono catastrofista, anche se è innegabile che il mercato si sia contratto. La verità è che per realtà come Ynap le possibilità di fare business si sono ridotte. Il servizio che Yoox offriva ai brand per realizzare e gestire i loro e-shop monomarca, ad esempio, oggi è residuale: ormai se lo fanno in casa. Abbiamo inse-

gnato loro il mestiere ed è naturale che oggi siano diventati bravi a farlo da soli. Ma era prevedibile.

Cosa intende dire?

È un modello classico per le aziende di moda, in tutti i settori in cui operano: si comincia con un partner e poi si internalizza. Non mi ha sorpreso vedere quindi spegnersi il mercato di chi realizza i monomarca online contoterzi. Noi però, avendolo fatto per primi, abbiamo avuto quasi 15 anni di vantaggio. Abbiamo lanciato il primo monobrand nel 2006 con Marni, mentre la joint venture con Kering è addirittura del 2012. È stato un successo, che ha moltiplicato il fatturato online dei brand del gruppo in modo esponenziale. Abbiamo insegnato il mestiere, com’è naturale.

E sul fronte degli e-commerce multimarca?

È un mercato maturo. Oggi c’è meno spazio per l’innovazione e più per la gestione. Il problema è che le piattaforme sono tutte un po’ uguali. Io mi sentivo il consumatore zero di Yoox, facevo il modo che fosse diverso dagli altri: c’era più arte, cultura, cose assurde, sorprese per il cliente. Non era uguale a nessun altro. Oggi guardando il mondo dell’online fashion vedo poca differenziazione. Quando questo succede, vuol dire meno creatività, meno idee e anche meno innovazione: si finisce per competere solo su prodotto e prezzo. Ma il prezzo è una leva nel breve termine, mai una strategia nel lungo.

Ha sempre seguito un suo approccio, anche controcorrente. Ha resistito pure alle logiche di marketing, vero?

Sì. Per esempio, da Yoox non c’erano prezzi barrati finché sono rimasto in azienda. Io volevo che la gente comprasse per il valore, non per lo sconto. Una mentalità diversa. I direttori marketing hanno sempre fatto fatica con me. Ogni nuovo arrivato chiedeva una riunione per propormi i prezzi barrati. Io dicevo sempre di no. Dopo 21 anni, appena sono uscito, li hanno messi subito.

C’è ancora spazio per nuove idee?

Avevo coniato il termine “entertailer”, da entertainer+etailer, intrattenimento e commercio. Facevo intrattenimento

Due immagini di Federico Marchetti con i suoi “re”. In alto è con Re Carlo III fuori dalla Basilica di San Vitale a Ravenna. Sotto con Giorgio Armani, che l’inventore di Yoox conosce dai tempi della relazione con Roberta Armani, nipote dello stilista. Oggi i due sono legati anche dal fatto che Marchetti siede nel cda della Giorgio Armani

e non lo vedo più fare. L’esperienza di Yoox era arte, cultura, sorprese. Poteva non piacere, ma era unica. Ricordo Rosamond Bernier, una 90enne che mostrava il suo armadio vintage, prima che queste iniziative diventassero un trend o il lancio di JW Anderson e Simone Rocha. E il tema della sostenibilità, lanciato nel 2008, prima di tutti.

L’AI può aiutare l’entertailer?

Se l’AI serve per valorizzare meglio le idee e la creatività, ben venga. Ma se non porta a nulla, allora no. Sono un umanista: il nome Yoox lo dimostra. Gli artigiani non devono essere al servizio della tecnologia, che è uno strumento, pensato per il cliente finale: una persona con emozioni, cultura, voglia di imparare e di essere sorpresa.

Pensando a Ynap oggi, con lo sguardo di chi l’ha fatta crescere, che augurio le fa per il futuro?

L’ho già raccontato in altre interviste: il mio sogno è sempre stato aprire il Financial Times a 80 anni, su una spiaggia, e vedere Yoox tra le 100 aziende più capitalizzate al mondo. È il sogno di un imprenditore che ama il suo progetto, anche dopo averlo lasciato.

E invece lei pensa di tornare a fare impresa o investire in startup?

Mi piace quello che sto facendo con la Fashion Task Force. Brunello Cucinelli dice che sto facendo filantropia per le imprese. Aiuto Armani col cotone organico in Puglia, Cucinelli nel progetto del cashmere realizzato in Himalaya, spingo i brand a usare il passaporto digitale. Non ci guadagno niente, ma mi dà soddisfazione. Metto la mia esperienza al servizio di imprese e collettività. E sto vivendo una vita felice.

Su quali fronti vale la pena investire?

Innovazione e sostenibilità insieme. Anche se ci sono forze contrarie - penso all’atteggiamento di Trump sull’ambiente - credo che il trend, anche se rallentato, sia ancora fortissimo. Nel corso che ho ideato in Bocconi, Creating a Start-up in a Digital and Sustainable Economy, tutti i progetti degli studenti erano centrati lì. C’è spazio per chi vuole lavorare su questi fronti. E forse anche più di prima: con il presidente Usa che frena su questo tema, i giovani hanno l’occasione per arrivare prima degli altri.

Nutre forti aspettative sui giovani?

Sì. La mia generazione non ha fatto cose utilissime per il pianeta. Sono super ottimista sulle nuove generazioni, non credo affatto a chi dice che non hanno voglia di lavorare o fare sacrifici. Il vero problema non sono loro, ma il sistema educativo. L’arretratezza è nel sistema, non nei ragazzi che sono pronti a mettersi in gioco e a creare lavoro, più che a cercarlo.

È ottimista anche per la moda?

I designer emergenti sono tanti, ma pochi ce la fanno…

C’è un ricambio generazionale in corso, bisogna vedere come sarà gestito. Chi ha fatto grande il Made in Italy deve trovare successori. Spero che il passaggio avvenga con benevolenza verso i nuovi talenti.

A proposito di nuove generazioni, sua figlia Margherita ha la stoffa per l’impresa? Nel libro dice che è brava nelle trattative…

È una ragazzina, ha tante qualità e dovrà scoprire da sola la sua strada. Io la mia l’ho trovata solo a 29 anni, con Yoox. ■

ANDREA BIGOZZI

Mattias Magnusson

Mentre a Parigi Acne Studios apre uno spazio culturale permanente, il suo ceo punta a raggiungere 500 milioni di ricavi, senza rinunciare allo spirito indie del brand:
«Ai clienti diamo creatività e condivisione»

Èun marchio afflitto - o forse sarebbe meglio dire benedetto - dalla sindrome di Peter Pan: Acne Studios sembra non invecchiare mai. Come un giovane è curioso, sperimenta, guarda avanti, si adatta al contesto, pensa fuori dagli schemi. È creativo, costruttivo. Tutte qualità che lo definiscono dagli esordi e che il tempo non ha intaccato nonostante abbia ormai una “certa età”. Il brand, noto per i suoi capi Scandi-cool e per il packaging rosa, nel 2026 compirà infatti 30 anni. Fondato a Stoccolma nel 1996, oggi registra un fatturato di 320 milioni di euro e punta a raggiungere i 500 milioni in tre anni. A guidarlo, è Mattias Magnusson, entrato nel 2004 direttamente dall’università e ceo dal 2010. Con lui, Acne Studios ha rafforzato la identità indipendente, puntando su investimenti nel retail fisico, una selezione più accurata dei partner wholesale e un posizionamento culturale sempre più strutturato. «Credo che, essendo un brand svedese, offriamo una visione diversa del lusso, dove la creatività è centrale. Non ci sentiamo solo una casa di moda», racconta. Un’affermazione che trova riscontro in un nuovo progetto: l’apertura a Parigi, il 26 giugno, di Acne Paper Palais Royal, uno spazio permanente tra galleria e laboratorio culturale, che proporrà mostre, incontri con artisti, lanci di riviste.

Acne Studios sta per compiere 30 anni. Com’è cambiato il brand? Non siamo più i nuovi arrivati, questo è certo. Dopo quasi 30 anni, Acne Studios sta entrando in una nuova fase, in cui si mescolano consapevolezza ed entusiasmo. Guardiamo con rispetto al percorso fatto, ma abbiamo ancora molto da dire. La nostra ambizione è crescere, certo, ma non solo nei numeri: vogliamo lasciare un’im-

Mattias Magnusson è entrato in Acne Studios nel 2004, direttamente

«Se decidessimo solo in base ai dati economici, ci bloccheremmo. O impazziremmo. È tutto troppo fluido. Usiamo un mix di istinto ed esperienza» Mattias Magnusson

pronta culturale, partecipare attivamente al dialogo creativo del nostro tempo.

Puntate a un fatturato di 500 milioni. A che punto siete?

Sì, è un obiettivo che resta valido. Probabilmente ci vorranno altri tre anni, ma ci stiamo arrivando. Nell’anno fiscale che si è chiuso ad agosto 2024 abbiamo raggiunto 320 milioni. È un target ambizioso ma realistico. In un periodo difficile per molti, siamo fieri della nostra crescita costante.

Investite anche in tempi incerti…

Se oggi si prendessero decisioni solo in base ai dati economici, ci si bloccherebbe. O si impazzirebbe. È tutto troppo fluido. Certo, osserviamo ciò che succede intorno, ma poi seguiamo ciò che riteniamo giusto per il brand. C’è l’istinto, ma anche l’esperienza costruita negli anni. Crediamo molto nel retail fisico: è il modo più diretto per trasmettere il nostro mondo. E resterà una parte centrale degli investimenti.

Negli ultimi anni avete cambiato anche approccio alle location. Oggi puntiamo su flagship store in vie strategiche. Quest’estate apriremo il nostro negozio più grande ad Aoyama, a Tokyo, una location iconica. Quello attuale è già tra i nostri migliori, ma è il momento di fare un passo in più.

Quali aree geografiche vedete in crescita nei prossimi anni? Le opportunità, per un brand della nostra scala, sono ovunque. Ma vale la pena citare il Giappone e il Sud-Est asiatico. Oltre alla nuova apertura a Tokyo, in autunno sbarcheremo anche a Bangkok.

In Italia prevedete nuovi opening?

Ci piace l’Italia e vorremmo espanderci. Per ora siamo solo a Milano e ci sentiamo pronti per Roma, ma stiamo ancora cercando lo spazio giusto. E poi chissà...

Molti brand stanno tagliando sul wholesale. Voi come vi muovete?

Per noi è importante avere il controllo sul nostro percorso e su come il brand viene

percepito. I nostri canali diretti ci permettono di comunicare al meglio chi siamo. Detto questo, il wholesale ci interessa quando è ben gestito. Anche se i partner validi sono meno, ci sono ancora collaborazioni eccellenti. Continueremo a lavorare con un numero più selezionato, ma più solido. In Italia abbiamo attualmente 55 account attivi. Continueremo a lavorare in modo selettivo e solido.

La vostra proposta culturale si sta strutturando sempre di più. Come nasce il progetto di Parigi?

Acne Paper Palais Royal nasce come estensione naturale del nostro magazine. Vogliamo creare uno spazio dove dialogare con arte, fotografia, artigianato, editoria. Un luogo vivo, che rifletta la nostra curiosità e la voglia di condividere.

Jonny Johansson è alla guida creativa da sempre. Quanto conta questa continuità?

Moltissimo. Jonny ha un talento raro: riesce a evolvere senza perdere l’essenza del brand. La sua energia creativa è contagiosa e dà il tono a tutta l’azienda. In un panorama dove i direttori creativi cambiano di continuo, credo che i nostri clienti percepiscano questa coerenza come un valore.

Quali categorie stanno crescendo di più nel vostro portafoglio?

Abbiamo sempre voluto costruire un universo completo. Il ready-to-wear resta tuttora il nostro core, denim e maglieria inclusi. Tra le categorie in crescita, le borse si stanno affermando con forza: chi le acquista spesso torna. Offriamo qualcosa di distintivo. E poi c’è la fragranza con Frédéric Malle: siamo solo all’inizio, ma è un territorio molto promettente. Ci saranno novità a breve.

Tra cinque anni come sarà Acne Studios?

Spero più presente, più forte, più connesso. Ma sempre fedele allo spirito libero e creativo con cui siamo nati. ■

Il finale dello show FW 25 a Parigi, dove Acne Studios sfila dal 2012
Lo store di Parigi in rue Froissart: nel 2025 Acne Studios aprirà nuove location a Tokyo e Bangkok
Il nuovo Acne Paper: la rivista prodotta dal brand svedese è giunta alla sua 20esima edizione
ANDREA BIGOZZI

Yusuke Takahashi

Ex designer di Issey Miyake Men, Yusuke Takahashi persegue un approccio coerente e sostenibile con il suo marchio CFCL. Le sue idee, innovative e altamente tecnologiche, rendono i capi unici nel loro genere

La linea “Pottery” mantiene ciò che promette il suo nome. Gli abiti, le gonne e i top somigliano infatti a tanti vasi fatti a mano. L’abito ricorda nella parte superiore un peplo. In vita si apre in una gonna a palloncino, che sfida la forza di gravità. Sembra che sotto ci sia nascosta una sottogonna che mantiene tutto in forma. Ma non è così. L’effetto di assenza di gravità è ottenuto esclusivamente grazie a una sequenza di maglie accuratamente calcolata, che non richiede alcun elemento di sostegno. I capi scultorei e all’avanguardia che Yusuke Takahashi disegna per il suo marchio CFCL (Clothing For Contemporary Life) sono piccole meraviglie tecniche. L’ex designer di Issey Miyake Men utilizza macchine per maglieria 3D controllate da computer e fibre sintetiche come l’acetato o il poliestere, che sono resistenti ma anche elastiche. Il risultato è una collezione esteticamente raffinata, ma anche comoda da indossare e sostenibile. Grazie al know-how informatico di Takahashi, la produzione genera pochi scarti. Poiché ogni capo è elastico e si adatta al corpo, le taglie sono poche. Lo stilista 39enne è un virtuoso della maglieria, che sta aprendo nuove strade e diventando sempre più famoso a livello internazionale. Con il suo marchio ha vinto il Japanese Newcomer’s Prize, lo Shiseido Sponsorship Award, il Mainichi Fashion Grand Prix e il Fashion Prize of Tokyo. Nel 2024 è stato selezionato da Vogue Business tra i 100 innovatori dell’industria della moda nel campo della sostenibilità. «Credo che la moda abbia il potere di cambiare le persone nei loro sentimenti, nel loro modo di pensare e di agire», afferma Takahashi in un ottimo inglese. Il designer ci riceve nella sua

Nel 2024 Yusuke Takahashi è stato selezionato

«Credo che la moda abbia il potere di cambiare le persone nei loro sentimenti, nel loro modo di pensare e di agire» Yusuke Takahashi

showroom parigina. È molto alto. Ha i capelli neri lunghi, che deve scostare dal viso durante la conversazione. È vestito completamente di nero. Avrebbe voluto diventare architetto, come suo nonno, ma ha abbandonato l’idea: «Sono un grande fan di Issey Miyake. Da giovane volevo lavorare solo lì». Nella speranza di ottenere un posto, si era iscritto alla Bunka Fashion University per studiare design tessile. Lì Takahashi ha trovato una forte concorrenza. I suoi compagni erano esperti nella creazione di cartamodelli e nel cucito, «Io no». Per distinguersi, ha frequentato il corso di programmazione informatica. Nel corso speciale di maglieria ha imparato a conoscere la macchina per maglieria 3D di Shima Seiki. Ha vinto un premio per la sua tesi di laurea. «Mi ha sorpreso», dice quasi scusandosi. Alla fine il suo sogno si è avverato Nel 2010 ha iniziato a lavorare per Issey Miyake, dove ha fatto rapidamente carriera. Già tre anni dopo, all’età di 28 anni, è stato nominato direttore creativo della linea di abbigliamento maschile. Ha ricoperto questa carica per sette anni. Poi è scoppiata la pandemia di Covid, è nata sua figlia e il designer ha deciso di mettersi in proprio con CFCL. Un marchio con cui è rimasto fedele alla macchina per maglieria Shima Seiki, che aveva usato durante gli studi. Risale agli anni ‘80 e originariamente serviva per produrre guanti a maglia in un unico pezzo. In Giappone ci sono circa dieci produttori che utilizzano questa macchina, principalmente per realizzare maglioni e cardigan senza cuciture. Takahashi non si accontenta di questi articoli di base

Con silhouette e materiali insoliti, spinge i suoi dipendenti e fornitori a cercare soluzioni innovative.

Tira fuori il cellulare e riproduce un video. Mostra un edificio di sei piani a Tokyo, dove ha sede CFCL. Si vede il nuovo laboratorio, per il quale ha acquistato una macchina Shima Seiki. Su di essa vengono realizzati prototipi insoliti, ad esempio in fili metallici. La telecamera inquadra un uomo anziano seduto davanti a uno schermo. È un programmatore

A volte ci vogliono fino a dieci giorni per realizzare un solo modello della collezione

settantenne. Takahashi dice che a volte ci vogliono fino a dieci giorni per realizzare un solo modello. Per i suoi capi il designer utilizza fibre sintetiche come il poliestere, con cui ha acquisito esperienza presso Issey Miyake. Ha saputo cogliere il fascino di Miyake per questo materiale: «È resistente, si lava facilmente in lavatrice, si asciuga rapidamente e mantiene la forma senza sgualcirsi. Con la lana o il cotone non potrei ottenere questi risultati». Il designer è consapevole dei problemi legati all’abrasione delle microfibre e dell’impatto ambientale della produzione di petrolio, la materia prima di questi filati. Per garantire un approccio sostenibile, cerca soluzioni nel riciclo A seconda del modello, la percentuale di

fibre riciclate è attualmente compresa tra il 75 e l’80%. Entro il 2030, tutti i capi di abbigliamento dovranno essere realizzati con materiali riciclati al 100%. Il filato proviene da un produttore giapponese, ma il riciclo delle bottiglie in PET avviene in Cina.

«Come molti Paesi europei, il Giappone esporta i propri rifiuti in Cina e nelle aree in via di sviluppo - dice -. Non è l’ideale. Parlo regolarmente con i politici del mio Paese per trovare delle soluzioni. Nel frattempo, facciamo attenzione a non utilizzare filati misti per facilitare il riciclo. Raccogliamo anche indumenti usati nei nostri negozi e li ripariamo». È convinto che, nonostante la difficile situazione economica attuale e il crescente disinteresse nei confronti delle questioni ambientali, molte cose stiano andando nella giusta direzione: «Da quando ho fondato il marchio, l’offerta di fibre riciclate è aumentata e la qualità è migliorata».

Lo stilista ha fissato nuovi obiettivi per CFCL: una maggiore trasparenza della catena di fornitura, la riduzione delle emissioni di Co2 fino alla neutralità e l’informazione dei consumatori sui metodi di produzione: «Una supply chain pulita ha un prezzo e glielo dobbiamo spiegare». Pensa spesso a sua madre, che ha lasciato la moda per dedicarsi all’impegno sociale: «Si è sempre preoccupata di come si potesse guadagnare con l’attivismo per la giustizia sociale e la tutela dell’ambiente». Sembra che Takahashi abbia trovato con CFLC una risposta che la rassicura. Il marchio, con sede a Tokyo, fattura circa 20 milioni di euro e presenta le sue novità alla fashion week di Parigi, dove si trova un ufficio creativo con relativa showroom. Tra il 60% e il 70% dei filati dell’anno precedente viene riutilizzato. La collezione è strutturata in modo da coprire tutte le stagioni. Grazie all’automazione della produzione, da giugno 2025 sarà possibile riordinare su richiesta alcuni modelli precedenti. La distribuzione si articola in negozi propri e circa 100 punti vendita, in Giappone e nel mondo. ■

BARBARA MARKERT

CAMERA SHOWROOM MILANO

CSM è un’associazione autonoma, libera ed indipendente.

CSM è dedicata a tutti gli showroom multibrand di Milano più rappresentativi del fashion e con una forte vocazione internazionale.

CSM ha tra i suoi obiettivi fondamentali l’esigenza, resa ancor più forte dalla recente situazione congiunturale, di fare squadra.

CSM ha concretizzato, grazie alla collaborazione con Confartigianato Moda, importanti attività durante le Fashion Week di Milano:

ARTISANAL EVOLUTION + CSM MEETS SUSTAINABILITY

CAMERA SHOWROOM MILANO ringrazia

1ST FLOOR

999 SHOWROOM

ARETE’ SHOWROOM

ASESTANTE SHOWROOM

BOIOCCHI SHOWROOM

BRERAMODE

CASILE & CASILE

CONTINUO

DANIELE GHISELLI SHOWROOM

DMVB SHOWROOM

ELISA GAITO SHOWROOM

FATTORE K MILANO

GARAGE MARINA GUIDI

K-LAB

MANNERS

MANUEL MENCARELLI SWOWROOM

MODERN SWOWROOM

PANORAMA MODA

PERCORSI OBBLIGATI

PROGETTO MILANO

RENZO VESENTINI MILANO

S5 SHOWROOM

SD SHOWROOM

SHOWROOM A. FICCARELLI

SHOWROOM DUNE

SHOWROOM JE T’AIME

SHOWROOM PAPAVERI

SPAZIO 38

SPAZIO COLTRI

SPAZIO LIBERTY

STUDIO 360 SHOWROOM

STUDIO POGGIO

STUDIO TATO SOSSAI

STUDIO ZETA

STYLE COUNCIL SHOWROOM

THE PLACE SHOWROOM

ZAPPIERI MILANO

Thank you all! CSM - PERCHÈ

THE FUTURE OF RETAIL

25 speaker d'eccezione si sono dati appuntamento a Milano il 5/5/25 per il summit di Fashion, moderato dal direttore Tobias Bayer. La numerologia parlerebbe di cifre karmiche e forse un po' lo sono, visto che la sfida era interrogare il futuro. Operazione non facile in tempi incerti come l'attuale. Eppure alcuni concetti sono emersi con forza.

1 C'è ancora (tanto) spazio per il wholesale e il negozio fisico

2 L'online, a partire dai markeplace, è di default per la new gen e non solo

3

Nel retail non c'è una strada obbligata, ma una bussola infallibile: il consumatore

SCENARI IN TRASFORMAZIONE

SUL RING

DELLA MODA UN MATCH

SENZA

ESCLUSIONE DI COLPI

Il fashion system sta attraversando, a livello globale, uno dei momenti più difficili degli ultimi anni. Si assiste a una forte polarizzazione tra vincitori e vinti, grandi gruppi che devono difendere le proprie posizioni e catene del fast fashion che si fanno più aggressive e insidiose: basti pensare a Zara, che da qualche stagione ha deciso di alzare qualità, contenuti fashion e prezzi dei suoi capi, dando qualche grattacapo ai marchi premium e lusso. Intanto il segmento medio e medio-alto, con cui si identificano tanti marchi italiani, lotta per restare a galla. Per tutti il 2025 si presenta come un anno costellato di incognite: quali scenari si profilano nei prossimi mesi? E vale ancora la famosa regola dell'opportunità come altra faccia della crisi? In apertura del nostro convegno abbiamo cercato risposte a queste e altre domande insieme ad Achim Berg (esperto insider e fondatore di FashionSights) e a imprenditori come Claudio Marenzi e Luigi Fedeli, presidenti rispettivamente di Herno e Fedeli

ACHIM BERG «CI DOBBIAMO RIPRENDERE DAI POSTUMI

DI UNA SBORNIA»

Già veterano di McKinsey & Co. e fondatore del think tank FashionSights, Berg ha ipotizzato una ripartenza dei settori moda e lusso nel 2026, ma solo a determinate condizioni

Qualcuno l’anno scorso aveva pronosticato che il 2025 sarebbe stato di ripresa, ma si sbagliava. Un concetto emerso forte e chiaro dalla testimonianza di Achim Berg, per quasi 25 anni senior partner di McKinsey & Co. e co-fondatore dello State of Fashion Report. Esperto insider, ha recentemente dato vita a FashionSights, think tank aziendale e società di consulenza con un focus sulla moda. «Molti se lo aspettavano, ma non è successo - ha detto -. Il 2025 non sarà un anno di svolta e per un vero cambiamento dovremo forse aspettare il 2026». Secondo Berg i fattori destabilizzanti sono molti, a partire dall’elevato turnover di direttori creativi (e, in parte, anche di ceo), che genera nell’immediato incertezza, comportando per i brand un ripensamento non certo solo stilistico ma anche organizzativo e disorientando, almeno in un primo momento, il consumatore. «Il momento attuale è stimolante ma difficile - ha osservato -. Siamo ben lontani dalle atmosfere del 2016 e degli anni successivi e anche l’euforia post-pandemia è sfumata. È come se stessimo vivendo i postumi di una sbornia». Per ritrovare un equilibrio ci vorrà tempo. La Cina non si è ancora risollevata del tutto e Trump con i suoi dazi fa paura: «Anche se venissero aboliti, gli strascichi rimarrebbero». Di soldi in giro ce ne sono, ma «per spendere bisogna ave-

re quella fiducia che adesso manca», ha rimarcato il fondatore di FashionSights, ricordando che i prezzi alti restano un deterrente anche nell’alto di gamma Al di là di direttori creativi, Cina, incognite Usa e poca voglia di spendere, non va sottovalutato l’appiattimento dell’offerta: «Il consumatore cerca idee nuove ed emozionalità, ma trova poca innovazione. Per far rigirare la ruota occorre un’iniezione di nuova creatività». Le realtà di grandi dimensioni riescono a mantenere la rotta anche in acque agitate. Non

«Siamo ben lontani dalle atmosfere del 2016 e degli anni successivi.

Oggi i titolari delle Pmi devono essere dei supereroi»

solo. Hanno i mezzi per investire in ambiti come il digitale e la sostenibilità. «Diverso è il caso delle Pmi, i cui titolari oggi devono essere dei supereroi». In Italia di realtà come queste ce ne sono tante e Berg è uno dei loro fan, soprattutto quando si parla di menswear. «Mi vengono in mente Boglioli, Santoni, Fedeli, ognuna con qualcosa di speciale da dare alla clientela. Mi riferisco all’alta qualità, all’appetibilità delle proposte e alla capacità di costruire una propria dimensione». A livello internazionale, un esempio di longevità è Ralph Lauren: «Vende ancora le stesse polo e gli stessi modelli di quando andavo all’università - ha concluso - ma ha saputo mantenere viva la sua attrattività e desiderabilità, connotandosi come premium brand e tuttavia non rinunciando agli outlet. Che dire? Sta giocando una partita incredibile». ■

ALLA RICERCA DI NUOVI EQUILIBRI

L’IMPRENDITORE NAVIGATO CHE SI SENTE UN PO’ STARTUPPER CLAUDIO MARENZI «PERSINO ORA LO SPAZIO PER CRESCERE SI TROVA»

Il presidente di Herno ha offerto vari spunti su come fare azienda, gestire i canali distributivi, generare empatia con il consumatore finale e saper osare al momento giusto, che potrebbe anche essere quello attuale

Dall’excursus di Herno, di cui Claudio Marenzi è presidente, si può imparare molto. Correva il 2005 quando decise di proiettare un’azienda familiare nata nel 1948 in una dimensione internazionale, rilanciando il marchio Herno nonostante le perplessità del resto della famiglia e riuscendo nell’impresa. «Con una bella collezione, una buona distribuzione e una giusta gestione, lo spazio nel mercato si trova - ha sintetizzato -. Una regola valida anche oggi che tutto sembra, ed è, molto sfidante. Le opportunità ci sono sempre». Su un dna aziendale improntato alla funzionalità (alla base di Herno c’è l’impermeabile), l’imprenditore ha innestato una massiccia dose di innovazione, ampliando e diversificando l’offerta e arrivando a lanciare nel 2010 la linea Laminar, prima all’interno di Herno e in un secondo momento come collezione a sé. Risale al 2021 l’acquisizione della maggioranza del marchio Montura, legato al mondo dello sci, da sempre una passione di Claudio Marenzi. «Nel 2005 il fatturato di Herno era sotto il milione di euro, quindi in un certo senso avevo in mano una startup - ha spiegato -. Da cosa sono partito? Da quello che sapevamo fare, la manifattura, perché la mia è un’azienda innanzitutto di pro-

dotto, non di fashion. Nel caso specifico di Laminar, abbiamo saputo capire in tempo che l’iper-performance applicata ai contesti urbani avrebbe potuto essere una chance. Ci abbiamo azzeccato». Essere se stessi e non pigiare troppo l’acceleratore sui prezzi secondo Claudio Marenzi premia sempre. «Il mondo del lusso è diventato autoreferenziale - ha precisato -. I prezzi sono lievitati e i consumatori hanno iniziato a pensare che questo possa essere eticamente sbagliato. Il rischio che si corre è che spendere per la moda non sia più di moda». Per capire davvero quanto si rischia e quanto si vale, essere distribuiti nel wholesale è per Marenzi una palestra: «Se vendi nel tuo negozio il cliente ti ha già scelto. Ma è nel multimarca che, essendo uno dei tanti, capisci quanto vali». «Attenzione ai sistemi troppo chiusi», ha aggiunto accennando ai big brand, che puntano a disintermediare completa-

«I

prezzi sono lievitati e il consumatore ha iniziato a pensare che fosse sbagliato.

Il rischio è che spendere per la moda non sia più di moda»

mente - saltando fiere, multibrand e persino le fashion week -, finendo per creare «un sistema noioso, fatto solo di 30 marchi globali che si parlano addosso. Una visione orwelliana che, per fortuna, non si è ancora avverata». Ma i consumatori vogliono di più, soprattutto se si tratta di giovani: «I 25-35enni sono alla ricerca di trasparenza e autenticità. Lo stile non basta: vogliono sapere chi produce, dove e come». ■

«Occhi puntati sugli Usa ma noi ne sappiamo qualcosa, essendo il nostro primo mercato di esportazione. Le regole d’oro? Crederci, investirci e non farsi spaventare da Trump. Tutto sommato c’è più preoccupazione qui che dall’altra parte dell’oceano»

NEWS DA LONDRA ANDRÉ MAEDER

«MOLTO PIÙ DI UN GRANDE MAGAZZINO: SELFRIDGES È UNA DISNEYLAND DELLO SHOPPING»

Con 28 ristoranti, un cinema e 350 eventi l'anno nel solo department store londinese, Selfridges continua a vendere sogni e ispirazioni, anche se il forte rialzo dei prezzi del luxury brand ha stornato parte del traffico verso segmenti più accessibili

Dici Selfridges e pensi a un gigante della distribuzione, che conta 18 negozi in tre Paesi, tra Uk, Irlanda e Paesi Bassi. Solo nella città di Londra, il department store in Oxford Street accoglie al suo interno oltre 3mila brand di diversa estrazione, da H&M a Louis Vuitton, fino a Hermès, ma anche etichette sconosciute che lo staff va a stanare in giro per il mondo, dagli Usa all'Africa, fino al Giappone. André Maeder, ceo della catena nell'orbita di Central Group, lo definisce una specie di Disneyland: «Non vendiamo ciò di cui la gente ha veramente bisogno ma sogni, ispirazioni, l'idea di una vita migliore e la possibilità di trascorrere qualche ora piacevole». Varcate le sue porte, si hanno a disposizione 28 ristoranti dove mangiare, un cinema e molto altro. Vengono organizzati quasi 350 eventi l'anno e ospitati oltre 600 popup store. «Non è un grande magazzino come lo intendete voi in Italia, ma molto di più», ha sottolineato. Qui convivono brand di lusso, premium o sub-premium, anche se gli equilibri sono cambiati da quando i marchi della fascia più alta del mercato hanno iniziato ad alzare i prezzi, con un impatto sui volumi di vendita. «Il 60-65% dei nostri clienti luxury di

Selfridges sono aspirazionali, ossia comprano lusso da una a tre volte l'anno, oppure tre volte nella vita - ha spiegato Maeder -. Questo significa che se una borsa costava 5mila euro cinque anni fa e adesso ne costa 10mila, questo tipo di acquirente finisce per scegliere prodotti a prezzi più bassi». Una dinamica con effetti anche sui marchi che prima si posizionavano nella fascia media: «Ora sono molto più forti e stanno puntando a posizionarsi nel premium», ha chiarito il ceo. Che però tira in ballo anche altri fattori che in questo momento rischiano di raffreddare lo shopping, minando l'attrattività di una metropoli, come quella inglese, da sempre gettonatissima come meta turistica. «Si dice che Londra perde appeal? Penso che il governo Uk dovrebbe cambiare rotta - ha chiosato il manager - perché se si applica una tassa del 20% sui prodotti di lusso più costosi, non

PIQUADRO TRA I PRECURSORI MARCO PALMIERI

«ECCO

PERCHÉ ABBIAMO SCELTO LA DISTRIBUZIONE SELETTIVA»

I«Il governo britannico dovrebbe

cambiare rotta

e supportare la vendita tax free, per far tornare i turisti in una città appealing come Londra»

è il caso di fare dei calcoli: con quei soldi ci si pagherebbe il volo, il pernottamento in albergo e uno o due pasti eccellenti in Italia o a Parigi». Perché un turista straniero dovrebbe pagare di più?, si chiede. «Prima del Covid vendevamo per il 65% ai clienti locali e il 35% a quelli esteri. Adesso i nostri customer sono solo per il 15% stranieri, contro un 85% di residenti nel Regno Unito. Abbiamo cambiato il nostro modello di business e ne siamo felici. Ma se un giorno tornassero i turisti lo saremmo di più». ■

l team di Piquadro ha lavorato per sei mesi sul piano legale per formalizzare criteri e contratti, ma il gioco è valso la candela. Tra i precursori nel settore fashion&luxury, il marchio di pelletteria ha introdotto una leva chiave per proteggere il proprio brand e amplificarne il valore sul mercato: la distribuzione selettiva. Come ha spiegato il presidente e ceo Marco Palmieri, si tratta di «un istituto giuridico, ma soprattutto di uno strumento di posizionamento strategico, che permette all'azienda di scegliere i partner commerciali in base a criteri oggettivi come qualità, servizio, formazione e immagine». I benefici? Il modello non consente solo di selezionare i rivenditori, ma anche di esercitare un controllo sulla comunicazione e la narrazione del prodotto nel canale wholesale, riducendo anche l'esposizione ai marketplace, che tendono ad appiattirne gli elementi distintivi. Ogni partner è tenuto a rispettare linee chiare e condivise ed è soggetto a un sistema di richiami e sanzioni economiche in caso di violazioni. La scelta strategica di Piquadro ha già portato risultati tangibili: l'80% dei rivenditori non autorizzati su Amazon è stato eliminato e si è registrato un forte incremento del traffico diretto sul sito proprietario. Nonostante una riduzione del 5-6% del numero di clienti wholesale, «il 95% del network - ha detto Palmieri - ha riconosciuto il valore della decisione». Non solo: il ceo ha inquadrato la distribuzione selettiva anche come un antidoto al mercato parallelo, perché «definisce regole, limiti e responsabilità nella rete». «Non si tratta solo di difendersi - ha concluso - ma di creare un ecosistema sostenibile per il valore del brand nel tempo». ■

UN CANALE CHE DEVE RIPENSARSI IL MULTIMARCA HA IL FIATO CORTO, O FORSE NO: I BRAND CI CREDONO MA SERVE

UNA NUOVA PROSPETTIVA

Sebbene il canale wholesale sia tra quelli più esposti alla congiuntura negativa, ha nel suo dna i presupposti per tornare a crescere. Creatività distintiva e visione omnicanale sono una conditio sine qua non, ma oggi urge risolvere anche il nodo dei prezzi

Crisi cinese, domanda debole negli Usa, rincari delle materie prime, escalation dei prezzi, storno della spesa su altre tipologie di beni, culturali e immateriali. L'incertezza economica e le turbolenze geo-politiche si sono abbattute con virulenza su tutto il sistema produttivo e distributivo, ma a farne particolarmente le spese sono stati i multimarca, complice il fatto che negli ultimi

«Oggi il consumatore è molto più informato e non accetta un prezzo che non giustifich il prodotto»

anni i big brand hanno spinto particolarmente sui propri canali retail e online per aumentare i margini e alcune grandi piattaforme digitali si sono imposte come "ingiocabili" competitor, dilagando senza freni a colpi di sconti aggressivi. In base alla ricerca The new wave of luxury: rivoluzione digitale e nuovi scenari di consumo, condotta da HeyLight, Compass Banca e Gruppo Mediobanca, in collaborazione con Deloitte su 88 boutique associate a Camera Buyer Italia e oltre 1.000 consumatori finali, il canale wholesale nel 2019 rappresentava il 60% delle vendite, mentre nel 2024 è sceso al 52%.

Il segmento dunque sta soffrendo, ma ci sono spiragli di ripresa, visto che lo studio ipotizza che questa percen-

IL WHOLESALE RAPPRESENTA

OGGI PIÙ DELLA METÀ DELLE VENDITE DEL PAESE E SI CANDIDA A CRESCERE FINO AL 55% ENTRO IL 2030

tuale salga al 55% entro il 2030. Dalla loro parte i multibrand hanno grandi potenzialità, perché per loro natura sono monadi distributive con un'identità peculiare e veri incubatori di ricerca, grazie alla loro particolare selezione, soprattutto quando esula dal mainstream. Di fronte a una concorrenza feroce devono però giocoforza cambiare marcia. «Il modello di business va rivisto e rivalutato», ha detto a chiare lettere Maura Basili, a capo di Camera Buyer Italia, associazione dei dettaglianti di alta gamma che rap52%

presenta 500 punti vendita italiani, con un totale di 3 miliardi di fatturato. Oltre a un assortimento che per merchandising mix riesca davvero a evitare il déja vu - e in questo si aprono nuove chance anche per i giovani talenti - per riprendere a crescere è indispensabile superare l'impasse dei costi alle stelle. «Oggi il consumatore è molto più informato - ha evidenziato Basili - e dunque non accetta un prezzo che non giustifichi il prodotto. È essenziale avere un listino corretto, etico e soprattutto non speculativo». «Sarà un problema che dovranno risolvere i grandi produttori di lusso - ha aggiunto - anche se non credo lo faranno tagliando i listini». Naturalmente le sfide da affrontare, oltre a questa, sono molteplici, sebbene tante realtà imprenditoriali abbiano iniziato da tempo la trasformazione: in primis investire nell'esperienza d'acquisto personalizzata del cliente finale, grazie anche alle nuove tecnologie, e rafforzare la propria presenza digitale, integrandola in modo sinergico con quella fisica. Dogmi che a livello teorico sono condivisi in maniera plebiscitaria, ma che per una parte del cluster commerciale restano ancora un obiettivo da centrare. Resta il fatto che, nonostante i multimarca siano tra i negozi più esposti all'attuale congiuntura negativa, i brand continuano a crederci. «Se parliamo di canali distributivi, penso siano tutti validi», ha commentato Piero Braga, ceo di Slowear, azienda che recentemente ha deciso di riunire sotto questo unico branding i quattro marchi in portafoglio, espressione di diverse specialità (pantaloni, maglieria, camiceria e capispalla). «Ogni marchio - ha precisato

Maura Basili CAMERA BUYER ITALIA
Piero Braga SLOWEAR
Massimo Berloni SEAFARER
Andrea Collesei SCHOLL
«Per Slowear è il momento di un riposizionamento, aprendosi maggiormente al confronto con il wholesale»

- ha il compito di trovare il suo giusto mix per essere competitivo in quel preciso momento e, quanto a Slowear, in passato molto sbilanciato sul retail, è il momento di un riposizionamento, aprendosi maggiormente al confronto con il wholesale». Sì, perché, come messo in luce da più di un imprenditore durante il convegno Future of retail, il canale multimarca rappresenta un coro a più voci, dove non c'è spazio per logiche autoreferenziali. E poi, fattore non secondario, è parte integrante del tessuto distributivo del nostro Paese, nonché espressione della creatività italiana: «Noi continuiamo a credere nella forza dei canali per così dire "tradizionali" del wholesale e dei negozi fisici, perché fanno parte della nostra storia», ha confermato Massimo Berloni, presidente di Seafarer, marchio nato a Brooklyn nel 1896 e rilevato nel 2019 da Academy. Ma c'è anche chi in questo business è pronto a debuttare, fiducioso nelle sue potenzialità. È il caso di Scholl, attivo in ambito medicale-ortopedico da un lato e fashion dall'altro: «Stiamo entrando nei multimarca moda e collaborando con il wholesale per ampliare la nostra presenza», ha informato il ceo Andrea Collesei. Una mossa che permette al brand di «intercettare un pubblico trasversale, dal consumatore luxury al cliente che cerca comfort e well-being». Il momento è difficile, ma le boutique continuano a esere un pilastro della filiera. Per questo Maura Basili ha spinto per avviare un dialogo con il governo a supporto di aziende e negozianti. «I multimarca - ha ribadito - sono una categoria da salvaguardare. Si è già tenuto un incontro e a breve ne è previsto un secondo. Occorre mettere al corrente i retailer delle agevolazioni che possono ottenere, dal magazzino alla costituzione di un albo professionale, perché molti negozi nostri associati hanno più di 100 anni e meritano un riconoscimento». ■

Tiziana

Fausti

10 CORSO COMO

«Più creatività e meno numeri per il futuro»

Didi Corbetta VALTELLINI

«Basta saldi, per quelli c'è l'outlet»

Ginevra Gozzoli

BERNARDELLI
«Il multibrand deve dettare la sua visione»

Tiziana Fausti non ha bisogno di presentazioni. Titolare dell'omonimo concept store a Bergamo, è anche artefice del rilancio dell'iconico 10 Corso Como a Milano, dove transitano ogni giorno migliaia di turisti internazionali e dunque un buon osservatorio sull'andamento dei consumi. «È evidente - ha commentato - che stiamo vivendo un momento difficile. Nelle ultime stagioni i brand hanno praticato strategie che hanno destabilizzato il mercato». L'imprenditrice si riferisce all'innalzamento dei prezzi, che ha finito per allontanare la clientela: «Se a Milano c'è spazio per ricerca e sperimentazione, Bergamo invece, che si basa al 90% sui big brand, sta soffrendo molto». Fausti nota inoltra che oggi le attività dei marchi sono più ancorate ai numeri che alla creatività. Una proporzione che si deve ribaltare, se si vuole contribuire a «ridefinire il settore del retail multibrand».

Didi Corbetta rappresenta la seconda generazione dell'azienda fondata dai suoi nonni negli anni Quaranta e riavviata dalla madre nel 1983 come store multibrand. Un percorso che ha avuto diverse evoluzioni (passando dallo sportswear al pret-à-porter, fino a includere oggi abbigliamento uomo, donna e bambino) e trasformazioni: «Nelle ultime stagioni - ha detto l'imprenditrice - abbiamo diversificato l'offerta, eliminando i tradizionali saldi di stagione e proponendo invece un outlet tutto l'anno». Un modo, questo, per disciplinare l'argomento scontistica e garantire un assortimento sempre appealing. «Credo molto nel riassortimento - ha aggiunto - perché mantenere lo stock aggiornato è essenziale». Lo storytelling, anche sui social, ha un ruolo di primo piano, perché «non sempre il cliente si rende conto del lavoro che sta dietro la selezione, il trasporto e l'organizzazione dei capi in negozio».

Ginevra Gozzoli ha le idee chiare su dove vuole andare con Bernardelli, sinonimo di sette multimarca tra Mantova e Carpi dedicati a uomo, donna e bambino. «Non siamo solo un negozio ma uno stile di vita - ha spiegato -. Un approccio che si riflette nei servizi da noi offerti, perché quello che vogliamo è creare connessioni autentiche, umane». A questo fine molto lavoro viene fatto sul merchandising: «Molti marchi blasonati vogliono che si seguano determinate linee guida, ma secondo me il multibrand deve dettare la propria visione per evitare di essere un copia-incolla in ogni città». In quest'ottica cruciale è la ricerca, che però dà più frutti offline che online, dove invece l'acquisto vira più verso brand conosciuti».

C’È MARKETPLACE E MARKETPLACE LA SFIDA (VINTA) È USCIRE

DALLA GABBIA DEI PREZZI

Lo sconto perenne come esca per i consumatori? Un marketplace come Miinto decide di smontare questa regola ed è ripagato dalla crescita. Anche i clienti di Zalando chiedono alla piattaforma molto di più: ispirazioni, esperienzialità, servizio. E nel B2B l’azienda berlinese gioca la carta Zeos

Imarketplace stanno cambiando pelle, come dimostra la case history di Miinto, piattaforma fondata nel 2010 in Norvegia, di cui ha parlato la partner growth director Laura Alsoni. «Partiti come realtà locale, ora siamo un player da oltre 250 dipendenti e 650mila clienti, con un carrello medio intorno ai 300 euro, presente in 15 Paesi (ultimi in ordine di tempo Regno Unito e Usa). Potremmo definirci più che altro un “collettivo” di oltre 900 negozi indipendenti e più di 3mila brand. Il nostro fatturato? Circa 250 milioni di euro», ha esordito, ricordando il 2016 come un anno chiave, in cui Andres Holch Povlsen, proprietario del gruppo Besteller, ha acquisito la maggioranza dell’azienda. Decisiva è stata la scelta di andare controcorrente. «Spesso si associa il marketplace al posto dove il Black Friday dura 365 giorni l’anno - ha sottolineato la manager -. Noi non siamo così. Abbiamo scelto di puntare sulle fasce luxury e contemporary, che oggi riguardano la metà delle vendite, investendo su marchi dalla forte identità, tra cui

molti “local hero”: ne abbiamo 14 volte di più rispetto ai competitor e questo ci ripaga. I ribassi? Molto contenuti e mai oltre il 25% nel caso specifico del Black Friday. E con 40 top brand realizziamo il 40% circa del gmv (gross merchandise value)». Con partner e brand il rapporto è personalizzato: «Lavoriamo a quattro mani e l’AI è una grande alleata». Due anni prima della nascita di Miinto muoveva i primi passi a Berlino Zalando, diventato un colosso da oltre 15 miliardi di gmv, con ricavi 2024 che sfiorano gli 11 miliardi, 6mila brand in catalogo e oltre 50 milioni di clienti attivi. Ma si può fare ancora di più, partendo anche in questo caso dal presupposto che i consumatori cambiano: «Due su tre si dicono disposti a spendere di più per la qualità in ogni fascia prezzo - ha sottolineato Marta Cecilia Grassi, head of Strategy for Italy and Spain dell’azienda tedesca - e, soprattutto se giovani o giovanissimi, acquistano in base all’ispirazione». Come accade per Miinto, il prezzo diventa un “di cui”: «Contano l’espe-

Laura Alsoni

MIINTO

«Con 40 top brand otteniamo circa il 40% del gmv»

Iacopo Cricelli e Marco Ruffa

«Oggi due clienti su tre sono disposti a spendere di più per la qualità»

rienzialità, la curiosità accesa da collab esclusive e testimonial d’impatto (tra cui Sarah Jessica Parker e Mahmood), la possibilità di usufruire di strumenti come il Body Scanning, il Size&Fit e la Virtual Fitting Room e un prodotto trasversale tra moda, beauty, wellness e lifestyle. Su tutto tre regole: differenziazione nella qualità, lifestyle, entertainment». Zalando è anche - e sempre più - B2B, ossia servizi tecnologici, logistici e strategici, pensati per aziende e marchi che si rivolgono a questa e altre piattaforme, attraverso il network Zeos. Allo stato attuale il giro d’affari delle attività B2B è molto inferiore a quello del B2C per la società berlinese: 240 milioni di euro contro quasi 2,20 miliardi nel primo trimestre di quest’anno. Ma la crescita nel quarter è stata importante (+11,6%) e i vertici non nascondono un’ambizione, fare di quest’area di business la nuova gallina dalle uova d’oro. Arrivare al miliardo già nel medio termine secondo loro è tutt'altro che un’utopia ■

«In un mercato dominato dall’incertezza, l’intuito non basta più per assortire e riassortire uno store», hanno detto al nostro convegno Iacopo Cricelli e Marco Ruffa, rispettivamente ceo e direttore generale di Data Life, società di consulenza e sviluppo software in ambito Decision

Intelligence e AI generativa e predittiva. «Noihanno spiegato - vediamo un futuro di integrazione fra essere umano, dati e AI utilizzata a fini previsionali. Un modello di "Integrated Intelligence" aiuta a risparmiare tempo, migliorare l'efficienza, cogliere opportunità e agire, indirizzando meglio le energie. Ha effetti positivi sul circolante, riduce le rimanenze ed evita la sovraproduzione, permettendo anche un maggiore allineamento ai parametri Esg». Inoltre, un progetto di demand forecast e gestione del prodotto con l’AI si ripaga bene: «Il ritorno è fino a 22 volte l’investimento in 12 mesi, mentre i margini possono aumentare anche dell’8%, con una distribuzione ottimizzata e un minore ricorso al markdown».

Marta Cecilia Grassi

FRANCESCO MASSARA «LA RETAIL PEOPLE È LA SKIN OF THE COMPANY»

Focus sul personale degli store, cui sono affidate la gestione operativa e la cerimonia di vendita. Un «organo vitale» per i brand

Francesco Massara, founder dell'Osservatorio Retail dell'Università Iulm, ne è convinto: il personale di vendita è un organo vitale per le aziende, in quanto interfaccia con i propri clienti, il modo in cui il brand viene vissuto all'esterno. Nello studio Retail People Quality 2025, la retail people viene definita «skin of the company». Monitorarne lo stato di salute è dunque un compito prioritario per le case di moda, se vogliono garantire un'immagine valoriale coerente in ogni ganglo del business. Ecco che lo "Store Barometer", un indice del benessere percepito dai lavoratori del retail messo a punto dell'Osservatorio, mette in relazione fattori di "sollievo", capace di motivare la workforce aziendale, e fattori di "pressione", che producono demotivazione e stress. Risultato: dal questionario somministrato a 2.117 persone tra sales assistant, operatori di negozio, cashiers e store manager emerge che per il 50% i fattori di stress non sono mitigati da quelli di compensazione, il 28,7% è in una posizione di equilibrio e solo il 21,3% si dichiara soddisfatta. Quale l'ago della bilancia? «In primis l'attenzione e l'ascolto del personale da parte dell'azienda - risponde Massara - con un rapporto headquarters-store non verticale ma collaborativo». ■

21,3% MENO DI UN QUARTO DEL PERSONALE DICHIARA DI ESSERE SODDISFATTO

«Empatia ed emozione rinsaldano il legame tra audience e marchio, creando relazioni che durano nel tempo»
L'INIZIATIVA

DI GOLDEN GOOSE DANILO PIARULLI «CLIENTI AL CENTRO CON

LA CO-CREATION»

Il progetto di personalizzazione ha consentito di rafforzare il legame tra utenti e brand, anche online

Affermare che il consumatore è al centro è diventato ormai un mantra, in ogni area dello shopping. Trasformare però questo assioma teorico in driver operativo non è da tutti. Golden Goose è uno di quei brand che su questo fronte si è messo in gioco, come racconta Danilo Piarulli, chief consumer officer del brand di calzature e abbigliamento. «Ci siamo concentrati sul concetto di "consumer" qualche anno fa, spinti dalla volontà di differenziarci, vista l'ampia offerta sul mercato - ha spiegato - e in quest'ottica abbiamo sviluppato il nostro progetto di co-creation, permettendo ai clienti finali di personalizzare le proprie sneaker attraverso messaggi, colori, memorie personali». Un'iniziativa portata avanti con il supporto dei sarti artigiani di Golden Goose, che ha permesso di rinsaldare il legame tra pubblico e brand, anche online, cercando di portare le stesse emozione ed empatia in ambito digitale, con un servizio di co-creazione a distanza. «Una grande sfida - ha concluso Piarulli - vinta grazie alla tecnologia». ■

IL VADEMECUM DI PERCASSI RETAIL MATTEO MORANDI

«SONO LE PERSONE IL VOLANO

DEL BUSINESS»

Per il ceo di Percassi Retail quello che sta succedendo oggi nella distribuzione è una vera rivoluzione copernicana. Che ruota intorno alle persone

Per interpretare una realtà in evoluzione come quella di oggi servono strumenti nuovi. O meglio, strumenti collaudati, ma rivisti e riadattati. Matteo Morandi, ceo di Percassi Retail, è convinto siano cambiate le cosiddette "P" del marketing, con asset come "Place" (rendendo appealing lo spazio di vendita), "Pragmatismo" (non basta essere visionari e strateghi, bisogna anche fare cassa), "Prestazione" (ottenere conversion rate e average ticket) e - appunto - "Persone" (una risorsa sempre più scarsa da riuscire a por-

«Sono

cambiate le "P" del marketing, con Persone e Passione come essenziali»

tare a lavorare in negozio) e "Passione" (un classico ma, secondo Morandi, quando le persone fanno le cose col cuore si sente la differenza). In particolare, il modo in cui le persone operano può creare valore o disvalore per il manager, che ha parlato anche di tre "V" capaci di fungere da acceleratori: "Velocità" («Puoi avere tutte le più belle idee del mondo, ma se non fai in fretta i competitor ti scavalcano»), "Valore" (la capacità di capire al volo chi entra in negozio per ingaggiarlo) e "Vero" (per vendere è necessario essere veri ambasciatori del brand). Un set di concetti che possono fare da vademecum per il futuro. ■

NUOVI TALENTI LANCIARE

IL PROPRIO MARCHIO, UNA SCOMMESSA “MOSTRUOSA” MA POSSIBILE

Con Stefano Martinetto di Tomorrow London e Andrea Grossi, fresco del debutto del suo brand di menswear Grossi, il punto su un tema ricorrente, gli emergenti, che non sanno mai se osare o scegliere la comfort zone di un impiego in una casa di moda. Ma forse è proprio ora che potrebbero provarci

Griffe che ritoccano i prezzi al rialzo, direttori creativi che si spostano come pedine su una scacchiera, confusione e incertezza generale, ma anche una certezza per i negozi multimarca: è il momento di tornare a fare scouting, il che potrebbe significare una chance per marchi emergenti come Grossi, fondato da Andrea Grossi e al debutto sul mercato con l’autunno-inverno 2025/2026. E realtà come Tomorrow London, co-fondata da Stefano Martinetto, come si rapportano ai nuovi scenari? Il direttore di Fashion magazine, Tobias Bayer, è partito da qui per parlarne con i diretti interessati iniziando con Martinetto, la cui azienda non è ingabbiabile nella definizione di showroom, ma si presenta come un vero incubatore e acceleratore di talenti, tramite una rete capillare di sedi internazionali e oltre 200 dipendenti. L’imprenditore, scherzando ma non troppo, ha definito il suo percorso di lavoro «qualcosa che ricorda la psicoterapia. Adottiamo procedure rigorose: arriviamo a valutare anche 1.000-1.500 profili, senza contare il monitoraggio delle scuole e di concorsi come l’Andam». Tutto viene passato al setaccio, confrontandosi anche direttamente con gli stilisti e sondando le loro motivazioni. Alla fine restano quei pochi o pochissimi dotati del famoso quid in più, che è rarissimo trovare. «Più che incentivare, disincentiviamo - ha ammesso Martinetto - nel senso che non vogliamo creare illusioni o false speranze. Farcela è una scommessa mostruosa e per noi scegliere uno stilista è anche pensare se si pagherà l’affitto». Con questo metodo Martinetto e il suo team hanno scovato diamanti grezzi come A-Cold-Wall (passato poi a

Stefano Martinetto

TOMORROW LONDON

«Per fare scouting bisogna essere un po’ psicoterapeuti»

Andrea Grossi GROSSI

«In Italia è più difficile affermarsi rispetto all’estero»

Four Marketing), Coperni, Charles Jeffrey Loverboy e Martine Rose. Quanto ad Andrea Grossi, ha ammesso di avere iniziato la sua avventura con Grossi «con uno spirito un po’ naïf», anche se in realtà lui, classe 1996, di gavetta ne ha già fatta, distinguendosi al Festival di Hyères, lavorando nel team di Glenn Martens in Diesel e coltivando la sua passione di sempre, il denim. «Grossi è in fase embrionaleha raccontato - ma l’esordio alla fashion week milanese con la FW25/26 mi ha dato fiducia». Andrea, ex allievo del Polimoda e figlio di un ferroviere, ha attinto alle sue radici per esprimere con gli abiti molto di se stesso e della provincia emiliana in cui è nato. «Ho già conquistato i primi clienti e questo mi dà coraggio, anche se in Italia è più difficile farsi strada rispetto a quanto accade, per esempio, in UK e in Francia - ha spiegato -. Lì l’approccio è ben diverso, a partire dal mondo della formazione e universitario. Da noi, inoltre, non è facile che si attivi quel circolo virtuoso tra designer e

laboratori artigianali che dovrebbe essere nel nostro dna». «In Italia manca ancora uno Stato che decida di investire, anche a fondo perduto, sulla moda e i giovani stilisti - ha ribadito Martinetto -. Non esiste che la via obbligata per un designer sia quella di dipendente o collaboratore di una casa di moda, seppur ben remunerato». Ma gli emergenti di talento non devono mollare la presa: «Tutto sta cambiando e così le strategie di buying dei negozianti multimarca, che tra Italia ed estero sono uno zoccolo duro. I marchi che possono vivere di dtc sono pochi - ha concluso -. Credo in questa tesi e infatti ci ho costruito sopra un’azienda». ■

Lello Caldarelli

ANTONY MORATO

«Il nostro cliente tipo non ci cerca, ma ci incrocia»

Saper intercettare il proprio target di riferimento è l'ABC su cui fondare le proprie strategie: lo ha ribadito al summit di Fashion Lello Caldarelli, ceo di Antony Morato, marchio dallo stile urban-contemporaneo che intorno al suo dna ha costruito un immaginario trasversale, legato per esempio anche al mondo musicale con il contest The Sound of Unity. «Ci siamo fatti, ancora di più dopo il Covid, una domanda semplice e difficile al tempo stesso - ha detto -. A chi ci rivolgiamo? Questo ci ha permesso di sfrondare cose inutili e concentrarci sulle priorità a livello di prodotto, distribuzione e comunicazione, con una consapevolezza: il nostro cliente tipo non ci cerca, ci incrocia. Dobbiamo andare dove va lui». Per una realtà come Antony Morato, che genera il 75% dei ricavi dal wholesale, il Crm è oro: «Mappando la community differenziamo il servizio, perché un conto è relazionarsi con un piccolo negozio e un altro con le catene».

300

MILIONI DI NUOVI

GIOVANI CONSUMATORI SI

RIVERSERANNO NEL MERCATO

DEL LUSSO NEI PROSSIMI

10 ANNI: LO HA RICORDATO

CLAUDIA D'ARPIZIO, PARTNER DI BAIN&COMPANY

ACTIVE, SPORTSWEAR, RUNNING UN’OVERDOSE DI PERFORMANCE.

OGGI IL CONSUMATORE CERCA STIMOLI ED EMPATIA

In settori giovani per definizione - anche se spesso il pubblico ha un’età trasversale - conta entrare in sintonia con gli appassionati. Che conoscono il prodotto meglio degli addetti alla vendita e si sentono parte di una community evoluta

Si fa presto a dire active sportswear. Gli interventi di Gabriele Casaccia (founder e direttore creativo della piattaforma Mental Athletic) e David Pujolar (ceo di Footasylum, retailer di spicco del settore) hanno messo in chiaro che oltre al prodotto c’è molto di più. Un mondo associato ai giovani, ma giovani sono soprattutto le strategie per comunicarlo e commercializzarlo, visto che ormai anche gli over 40, 50 e persino 60 apprezzano questo genere di abbigliamento e accessori, con il running in crescita e trasformazione continua. «Quando parliamo di movimento, intendiamo non solo un movimento fisico, ma culturale. Nella nostra sede milanese in Porta Venezia si viene per condividere esperienze, non necessariamente per comprare outfit», ha detto Casaccia, cui è dedicato un approfondimento in questo numero. Pujolar, da tempo appassionato di running, ha sottolineato l’importanza di conoscere molto bene il consumatore e relazionarsi con lui in modo creativo. «Portiamo avanti molte attività in cui coinvolgiamo gli influencer - ha raccontato - tra cui Lock In, una sorta di reality trasmesso su YouTube. Giunto alla quinta stagione, ha totalizzato 17 milioni di viewer». «Ovviamente - ha proseguito - i protagonisti indossano i prodotti che noi vendiamo. Stiamo raggiungendo i 15 brand nostri, tutti trendy, ma con prezzi

Gabriele Casaccia

MENTAL ATHLETIC

«La condivisione di esperienze è più importante degli outfit»

David Pujolar

FOOTASYLUM

«Su YouTube 17 milioni di viewer per il nostro “reality”»

inferiori a big come Nike e Adidas». L’importante, secondo Pujolar, è sintonizzarsi continuamente sull’evoluzione del mercato e del consumatore, anche grazie a «un team fantastico che viaggia in tutto il mondo» e a personale in store particolarmente empatico: «Puoi avere anche un venditore esperto come Wikipedia, ma contano persone che sappiano rapportarsi con i clienti Perché spesso chi entra è già informato su tutto, più del commesso stesso». ■

Matteo Sinigaglia

REPLAY

«I giovani vogliono autenticità. Chi meglio di noi può dargliela?»

Comerestare “forever young”, anche con una storia di quasi 50 anni alle spalle? Replay, marchio di denimwear fondato nel 1978 da Claudio Buziol e rilevato da Matteo Sinigaglia nel 2010, ha la risposta: individuando connessioni e punti di contatto con la Gen Z, una fascia di mercato su cui sta investendo, insieme all'impegno di potenziare la parte donna. «È proprio partendo dal nostro dna, testimoniato da un archivio di 70mila capi, che contiamo di rafforzare il legame con giovani e giovanissimi - ha spiegato Sinigaglia nel suo intervento alla Fondazione Cariplo -. Osservando approfonditamente questo segmento abbiamo notato che si tratta di generazioni imprenditoriali, competitive e attente. Capita di girare per l’Europa e vedere ragazzini che si fanno i loro jeans, animati da serietà e da una profonda passione per il denim». «Quello che li differenzia dalla mia generazione - ha proseguito - è che, soprattutto attraverso il digitale, conoscono molto bene e in fretta le dinamiche del settore. Sono abilissimi nel riconoscere una fake news da una vera e con un easy check riescono a valutare il prodotto, le sue caratteristiche e i prezzi».

La loro realtà sembrerebbe lontana da un brand fondato nell’epoca in cui sono nati i genitori, ma secondo l’imprenditore non è affatto così. «La loro è una forte ricerca di autenticità e noi di autenticità ne abbiamo da vendere - ha concluso Matteo Sinigaglia -. Certo, siamo agli inizi nell’approcciare questo target, ma instaurare un dialogo con quella che a tutti gli effetti è la clientela del futuro è uno stimolo continuo. Gli argomenti comuni non mancano».

RAFFINATEZZA E INTENZIONALITÀ CIFRANO LA COLLEZIONE DAVIDOFF DI ACCESSORI MASCHILI

In esclusiva a Pitti Immagine Uomo, design innovativi, funzionalità migliorate e combinazioni di materiali inaspettate, per vivere la promessa del marchio: scoprire la bellezza dell’inaspettato

Il vero lusso risiede nell’attenzione verso i dettagli, l’esperienza e le persone. La filosofia di Davidoffmarchio fondato in Svizzera da Zino Davidoff e ispirato alla sua instancabile curiosità - prende le mosse da questa convinzione. Dagli accessori e profumi da uomo agli occhiali, dal caffè al cognac, infatti, ogni prodotto riflette la ricerca della raffinatezza ed è pensato per celebrare la gioia condivisa dei piaceri della vita. Una collezione fatta per accompagnare giorni vissuti con intenzionalità, celebrando la maestria artigianale come rituale quotidiano da sperimentare e ricordare. All’edizione estiva di Pitti Immagine Uomo, le collezioni di accessori Davidoff sono presentate nell’ambito di una più ampia evoluzione del

brand, che riposiziona la storica maison come un marchio di lifestyle moderno la cui direzione creativa, trasversale alle categorie di prodotto, promuove una cifra stilistica di mascolinità autentica, vita consapevole e scoperta continua. Affondando le radici nell’eredità del fondatore, la nuova direzione del marchio celebra il Gentleman Explorer: un uomo moderno definito dalla presenza magnetica, dalla generosità, dalla curiosità e dall’eleganza raffinata che premia i dettagli, asseconda la riflessione e si abbandona alle gioie del quotidiano. Icon, Venice e Paris: questi i nomi delle linee dal design senza tempo, che spaziano tra articoli in pelle di alta gamma, gemelli e sciarpe, ciascuno

progettato per riflettere un’atmosfera e un momento particolare della giornata di questo dandy contemporaneo, che si muove con disinvoltura ovunque la vita lo porti. Nella ricerca dell’eleganza contemporanea che non esclude la tradizione artigianale, gli accessori diventano strumenti di raffinatezza, un modo discreto per esprimere il proprio stile e la propria personalità. Ogni cucitura, chiusura, piega è pensata non per apparire, ma per appagare il silenzioso desiderio di eleganza di chi è attento ai dettagli. «Il lusso non è appariscente - afferma Adrian Meili, CEO di Davidoff - è la maniera in cui qualcosa si muove con te. Il suono che fa quando lo apri. Il modo in cui cambia nel tempo».

Concreto e cauto ma più fidelizzabile: oggi l'uomo compra così

Dalle risposte del nostro panel sulle vendite di stagione emerge l'identikit di un cliente che cerca più che mai un prodotto "sincero" e dal prezzo corretto, ma che va anche conquistato con eventi e lifestyle. Il mercato è ancora avaro di soddisfazioni: solo un quinto degli intervistati indica un sell out in crescita

Prodotto, prodotto e ancora prodotto: è questo che cerca oggi più che mai l’uomo, in base alle risposte fornite dagli oltre 50 retailer premium e di alta gamma che hanno aderito al nostro sondaggio sulle vendite di stagione dedicato alla primavera-estate 2025. Se si chiede loro cosa conti di più in questo momento per la clientela maschile, oltre un terzo non ha dubbi: il prodotto. Meno determinanti il servizio personalizzato (23%), i programmi di fidelizzazione e l’utilizzo di Whatsapp e dei social (entrambi al 15%), il visual merchandising

COME SONO STATE LE VENDITE UOMO DELLA SS 2025?

(13%) e la griffe (3%). Quest’ultima, alla domanda «Su quali leve volete puntare di più nel menswear?», si accaparra solo un 2% di preferenze, mentre quasi la metà del campione indica di voler investire di più in marchi aziendali di qualità. Non è un caso che sia un brand di prodotto, Stone Island, il best seller di stagione sia nell’offline che nell’online, mentre negli accessori continua a brillare la stella di Autry, che si gioca la partita testa a testa con Golden Goose. «Chi entra nel nostro negozio cerca capi di valore e con un giusto

Un'immagine di Wise Boutique a Cremona, dopo il restyling a cura di Baciocchi Associati

QUAL È STATO IL MARCHIO BEST SELLER UOMO NELLA SS25?

1 2 3

prezzo», sintetizza Claudio Nodari di Freeport, agganciandosi a un altro risultato della nostra Buyers’ survey, relativo ai capi che hanno ottenuto risultati di vendita al di sotto delle aspettative: con il 37% delle preferenze, a rimanere sugli scaffali sono stati quelli troppo costosi, che hanno battuto con distacco i modelli eccessivamente vistosi o formali, entrambi fermi al 17%. Nodari sottolinea che «il nome blasonato sull’etichetta non è una necessità molto sentita dal consumatore» e così la pensano altri intervistati, peraltro consapevoli del

STONE ISLAND

TAGLIATORE

C.P. COMPANY

CHI HA VINTO INVECE

NEL CANALE ONLINE?

1 2 3

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C.P. COMPANY

GOLDEN GOOSE, AUTRY

E NEGLI ACCESSORI?

MC2 SAINT BARTH HOGAN, PRADA 1 2 3

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GOLDEN GOOSE

COSA CONTA DI PIÙ PER CONQUISTARE LA CLIENTELA MASCHILE?

31%

PRODOTTO

24%

SERVIZIO PERSONALIZZATO

15%

PROGRAMMI DI FIDELIZZAZIONE

15%

USO DI WHATSAPP E SOCIAL

12%

VISUAL MERCHANDISING

3% GRIFFE

TOMMASO NUNZIATI

General manager di Wise Boutique

Si parla sempre di crisi e incertezza generale ma voi siete andati controcorrente, investendo in un restyling importante per una delle boutique del vostro gruppo, quella di via Mazzini a Cremona. Cosa vi ha spinto a farlo?

Volevamo dare un segnale forte e positivo alla nostra clientela. Se non si rende un negozio vivo, interessante ed esperienziale, alla fine questo negozio non ha chance.

Cosa intende per esperienziale?

Un luogo non solo d'impatto a livello visivo e architettonico, ma anche dotato di un'offerta calibrata tra i super brand e realtà contemporary, come Ganni e Our Legacy. E, periodicamente, sede di eventi. Esperienzialità significa anche andare a casa dei clienti con gli abiti da far provare, dando consigli sulle scelte. Le griffe lo fanno con i loro monomarca e anche noi seguiamo questa regola. I luxury brand vengono messi in discussione, soprattutto per i prezzi: vale ancora la pena di investirci?

Per i nostri clienti sono ancora importanti, quindi la risposta è sì. Crediamo in marchi come Prada, Miu Miu, Gucci, Dior, Saint Laurent e Celine. Certo, occorre selezionare, ma questa è una regola che vale sempre.

Avete anche punti vendita a Desenzano e Reggio Emilia: che caratteristiche hanno?

Come a Cremona, a Reggio Emilia la clientela è più locale, mentre Desenzano è una piazza internazionale di riferimento, in particolare per l'area Dach: è il nostro numero uno per fatturato. Qual è il vostro stato d'animo in questo momento?

Positivo. Di sicuro questo è un anno che definirei attenzionale, ma controllando bene l'equilibrio tra costi, margini e ricavi (che per Wise si aggirano sui 70 milioni, ndr), si riesce a mantenere la rotta. Spesso i problemi di altri sono nati da uno scarso controllo dei canali e da una valutazione sbagliata degli investimenti.

10 Corso Como - Milano
Valtellini - Rovato in Franciacorta (Bs)
Nugnes - Trani (Bt)

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18%

CALZATURE SPORTIVE

fatto che non è con le sole griffe che ci si può garantire una marginalità soddisfacente. Sicuramente su questa tendenza pesa il fattore prezzo, ma c’è chi fa una riflessione diversa: in sostanza, alcuni dettaglianti non ragionano in un'ottica di nome sì o no. «Più che altro - afferma per esempio Luca Italiani di Italiani - il brand deve trasmettere al consumatore un valore aggiunto percepibile: a quel punto il prezzo viene tuttora accettato e così il marchio, che si tratti di una griffe o di una realtà del segmento contemporary o premium, come appunto Stone Island». Diventa fondamentale per un retailer, come sostiene Tommaso Nunziati di Wise, saper selezionare con molta attenzione l'offerta: «Si può dire che siamo tornati al buying “vecchio stile”». Cresce la tendenza dei wholesaler a farsi i brand da sé, specie se parte di un'associazione: l'ultima notizia in ordine di tempo è che Camera Buyer Italia si sta interfacciando con il Gruppo Florence per lanciare la propria private label. Un nodo è l'atteggiamento verso le realtà giovani ed emergenti: al momento solo il 2% del panel le considera una leva su cui scommettere, il che è comprensibile in un frangente in cui i passi falsi si pagano cari ma non così lungimirante, visto che i big brand si stanno spostando sempre più sul canale diretto e si aprono gap da riempire nell’offerta dei multimarca. In generale, i dettaglianti escono da una stagione molto faticosa: è vero che un quinto di loro sostiene di aver registrato un sell out in crescita, ma che dire di quel 47% che indica un calo? Un terzo, invece, se la cava con la stabilità.

15%

PANTALONI SPORTIVI

12%

GIACCHE SPORTIVE

9% MAGLIERIA

9% POLO

8% T-SHIRT

5%

ABITI FORMALI, CAPISPALLA SPORTIVI, CAPI CERIMONIA

4%

ABITI SPORTIVI

3% SPEZZATI

* Risposte multiple

Va notato che già nel giugno 2024 la situazione era tutt'altro che ottimale: allora, a fronte di un 16% del campione che indicava un incremento, per più del 40% la stagione si chiudeva in flessione e per la stessa percentuale non c'erano state oscillazioni rispetto alla SS23. A distanza di 12 mesi, la situazione è questa: chi ha archiviato la stagione in negativo ha incassato perdite anche piuttosto consistenti (un terzo del campione

I CAPI RIMASTI SUGLI SCAFFALI: ERANO TROPPO... 37%

%

%

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La griffe o il marchio hanno ancora appeal sulla clientela? La risposta è sì, ma solo in presenza di un valore chiaramente percepito

accenna a un -10%-15% di vendite e il 9% addirittura a una riduzione tra il 20% e il 30%). Chi invece è cresciuto, nella metà circa dei casi è progredito tra il +6% e il +10%. Un intervistato precisa: «Nel nostro caso a tutt'oggi i ricavi hanno tenuto, ma abbiamo assistito a una contrazione della domanda e delle visite in negozio». Questo può derivare da due fattori: un diverso approccio ai canali di vendita (meno fisico e più onli-

Gino Baudino - Torino
Papillon - Corigliano Calabro (Cs)
Sir Andrew's - Carpi (Mo)
COSA

Agnetti - Macerata

QUAL

È STATA

LA SPESA MEDIA DELL’UOMO NELLA SS25?

64%

TRA 500 E 1.000 EURO

18%

OLTRE 1.000 EURO

18%

FINO A 500 EURO

RISPETTO ALLA SS24

LA SPESA MEDIA DELL’UOMO È…

58%

RIMASTA STABILE

24% DIMINUITA

18% AUMENTATA

ne) o i prezzi elevati: meno clienti, ma scontrini più alti. Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda ItaliaConfcommercio oltre che titolare di Felloni a Ferrara, fa il punto sulla situazione nazionale: «In base ai nostri dati, la partenza della stagione è stata molto lenta, con lievi segnali di stabilità a maggio, periodo di cerimonie». «L'acquisto maschile è stato più ragionato - conferma Gino Cuccuini di Cuccuini - ma

Italiani - Pescara

SU COSA VOLETE PUNTARE DI PIÙ PER L’UOMO?

49%

MARCHI AZIENDALI DI QUALITÀ

33%

MARCHI INNOVATIVI

8%

MARCHI SPORTIVI

6% ACCESSORI

2%

NOMI NUOVI E DI RICERCA

2% GRIFFE

LUCA ITALIANI

Contitolare di Italiani insieme al fratello Giovanni

La vostra boutique si trova a Pescara: com'è vendere moda, e in particolare lusso, in questa città da poco meno di 120mila abitanti? Pescara è considerata un po' la Milano dell'Abruzzo. La voglia di cose belle e bei vestiti c'è e non solo tra il pubblico femminile. La nostra è una clientela solo maschile, spesso giovane, tra i 25 e i 35 anni. Vendiamo griffe come Prada, Bottega Veneta, Saint Laurent e brand un po' più "difficili" come Rick Owens, che finisce per avere clienti più fidelizzati di altri. Tutto per voi inizia a opera di vostro nonno, commerciante di tessuti, nell'ormai lontano 1963. Come siete arrivati fino a qui?

Per descrivere questo percorso mi piace parlare di "rivoluzioni". La prima è stata a opera di mio padre, quando trasformò la bottega di tessuti in un negozio di abbigliamento. La seconda risale agli anni Ottanta, con l'introduzione dei marchi degli stilisti. La terza, tuttora in corso, è quella del digitale: siamo stati tra i primi a essere contattati da Farfetch e all'inizio non ci rendevamo neanche conto del fatto che con un clic si potesse vendere un abito sartoriale dall'altra parte del mondo. Ma siamo ancora qui. E la concorrenza?

Nell'online è spietata...

liquidare la questione con un fatto di dna, uomo più conservatore e donna più fashion victim, è una banalizzazione». Nell'attuale fase di mercato «si sono fatte sentire varianti legate al contesto macroeconomico che stiamo attraversando. Per esempio, molti nostri clienti sono imprenditori o lavorano nella finanza. I dazi di Trump e le Borse che oscillano hanno avuto ripercussioni negative sull'inclinazione alla spesa, così

Vero, e si fa sentire anche nel negozio fisico, quando il cliente arriva con il cellulare in mano e fa confronti. Ci vuole attenzione a muoversi nella giungla dei prezzi, senza scendere di livello. Ma è il mercato: succede lo stesso anche quando si compra un biglietto aereo o del treno. Come ha deciso di seguire le orme di suo padre e di suo nonno?

Io e mio fratello siamo nati e cresciuti in negozio. Facevo Economia e Commercio, amavo lo stile minimalista di Yamamoto quando ancora andava il massimalismo. Compravo i vestiti per me e ho deciso di mettermi in gioco, vendendo le cose che mi piacevano.

COSA VORRESTE VEDERE A PITTI E/O A MILANO MODA UOMO?

44%

PIÙ INNOVAZIONE E RICERCA

40%

PIÙ ATTENZIONE AI PREZZI

11% PIÙ QUALITÀ

5%

PIÙ NOMI NUOVI

COME SARÀ IL VOSTRO BUDGET PER L’UOMO DELLA SS26?

62% STABILE

33% IN CALO

5% IN CRESCITA

come la sovraesposizione mediatica di alcuni brand dell'alto di gamma, in seguito alle vicende giudiziarie di alcuni loro subfornitori, è un fattore che può rivelarsi destabilizzante». Il dettagliante toscano elenca altre complessità, a partire dai cambi alle direzioni creative delle griffe, che richiedono tempo per essere metabolizzati dal consumatore, fino alla "scomparsa" nella sua regione di tante piccole aziende di prodotto che, entrate nell'orbita delle griffe, lavorano solo per loro. Ci sono poi i macro problemi di sempre. Al di là dei prezzi alle stelle, il Black Friday tutto l'anno, gli outlet, le imposizioni di acquisto da parte dei brand, certi produttori che vogliono fare i commercianti anziché stare dalla parte dei wholesaler e consumatori un po' confusi a vari livelli, tra cui il significato del termine sostenibilità: «Un trend che a volte ha finito per abbassare il percepito o la voglia di prodotto, convincendo alcuni che la prima sostenibilità sia acquistare meno e utilizzare l'esistente», riflette Marco

COSA METTE PIÙ A RISCHIO LA VENDITA?

54%

RAPPORTO SQUILIBRATO QUALITÀ/PREZZO

31%

MANCANZA DI NOVITÀ NELL’OFFERTA

8%

ASSISTENZA IN STORE INADEGUATA

7%

POCHI SERVIZI OMNICHANNEL

Più che l'omnicanalità e la preparazione degli addetti alla vendita, è il rapporto qualità/prezzo a determinare l'acquisto

Cassina di Peter Ci. Per fortuna c'è chi, come Didi Corbetta di Valtellini (neo vice presidente dell'associazione Histores), vede il bicchiere mezzo pieno: «Il cliente maschile è più fidelizzabile rispetto alla donna e, a lungo termine, più fidelizzato. Da noi il valore dello scontrino è leggermente aumentato anche grazie alla profumeria artistica, un reparto in espansione, con cui arriviamo in modo nuovo soprattutto all'uomo». Orfeo Lumina di Modamica indica nella cerimonia, sostenuta da un'attenzione speciale al servizio, un asset tuttora attuale e Cassina conclude: «Tutti noi, ognuno a suo modo, dobbiamo avere un disegno ben definito sul nostro progetto retail». Nel suo caso funzionano il lavoro sulle relazioni con i clienti, il servizio che conta quanto il prodotto, i trunk show all'estero e la fiducia: «Non abbiamo mai chiesto un euro all'ordine e non abbiamo mai avuto un cliente che non ha pagato». ■

ALESSANDRA BIGOTTA
Deflorio dal 1948 - Noicattaro (Ba)
Moras - Intimiano (Co)
Tiziana Fausti - Bergamo
Paolo Pessina - Monza

RINGRAZIAMO PER LA COLLABORAZIONE

10 Corso Como Milano

Agnetti Macerata

Bernardelli Mantova

Biffi Boutique Milano, Bergamo

Chiesa Serafino Store Villafranca

di Verona (Vr)

Chirico Store Messina

Colognese 1882 Montebelluna (Tv)

Cotton Club Monza

Creative99 Altopascio (Lu)

Cuccuini Livorno, Forte dei Marmi (Lu) e altre sedi

Deflorio dal 1948 Noicattaro (Ba)

Divo Boutique Santa Maria a Monte (Pi) e Pontedera (Pi)

Edward Uomo Trani (Ba)

Felloni Ferrara

Fiacchini Forte dei Marmi (Lu) e Portovenere (Sp)

Flanella Bologna

Filippo Marchesani Cupello e Vasto (Ch)

Freeport Clusone (Bg)

Galiano Napoli e Sorrento (Na)

Giglio Palermo

Gino Baudino Torino

Giordano Boutique Pompei (Na)

Guarini Pescara

Isella Moda Meda (Mb)

Italiani Pescara

Julian Fashion Rimini, Milano Marittima (Ra), San Marino

La Boutique di Adani Modena

L’Eliseo Caldiero (Vr)

Level Store Siracusa

Li-Mon Concept Store Bergamo

Mantovani San Giovanni Valdarno (Ar), Castiglione della Pescaia (Gr), Greve in Chianti (Fi)

Marcello Uomo Benevento

Marcos Mondovì (Cn)

Mario & Sons Seregno (Mb)

Marinotti 126 e Marinotti 160 Cortina d’Ampezzo (Bn)

Michele Inzerillo Palermo

Minciarelli Todi

Modamica Valbrembo (Bg)

Moras Boutique Intimiano (Co)

Noha (Brindisi)

Nugnes Trani (Bt)

Papillon Corigliano Calabro (Cs)

Paolo Pessina Monza

Peter Ci Como

Petronio Mantova

Porrini Moda Besozzo (Va)

Raffaele Panarelli L’Aquila

Sir Andrew’s Carpi (Mo)

Tiziana Fausti Bergamo

Tufano Moda Pompei (Na) e Scafati (Sa)

Valtellini Rovato in Franciacorta (Bs)

Wise Cremona, Desenzano del Garda, Reggio Emilia (Bs)

Zer0 Verbier (Svizzera)

Chirico Store - Messina
Filippo Marchesani - Cupello (Ch)
Li-Mon Concept Store - Bergamo
Modamica - Valbrembo (Bg)
Freeport - Clusone (Bg)
Peter Ci - Como
Noha - Brindisi
Zer0 - Verbier

Professione brand builder

50 anni fa Luc Dheedene ha iniziato la sua carriera come rappresentante commerciale. Oggi lui e suo figlio sono proprietari di un impero nel settore della vendita al dettaglio. Il fiore all'occhiello è il negozio di lusso Verso ad Anversa, dove si possono acquistare marchi come Fendi, Dior e Gucci

Ètutto un gioco di spazi ampi e angusti. In alto, la sala è sovrastata da una cupola di vetro che lascia entrare la luce. Al centro, un sole circolare risplende con i suoi raggi, mentre ai bordi brillano i 12 segni zodiacali. Sul pavimento, sotto il sole, una scala a chiocciola si snoda verso il basso. È stretta e nera come la pece. Termina in una cantina buia. Nelle pareti sono incassati armadietti grigi, dove un tempo i clienti custodivano i loro averi e oggi sono esposte sneaker e slipper che valgono una piccola fortuna, essendo firmate da marchi come Burberry, Fendi e Maison Mihara Yasuhiro.

«Questa è la nostra cassaforte delle sneaker», dice Luc Dheedene. Nel 2003 l'imprenditore belga ha trasformato la casa a schiera affacciata sulla Lange Gasthuisstraat ad Anversa, risalente al XVI secolo, dotata di cupola nel 1927 e un tempo filiale della Deutsche Bank, nel tempio del lusso chiamato Verso. È il fiore all'occhiello di un impero del retail che Dheedene ha costruito in oltre 50 anni. Con Fashion Club 70 possiede una delle più grandi agenzie della regione del Benelux. Distribuisce 50 collezioni, tra cui Armani Exchange ed Emporio Armani, Coach e Michael Kors, Guess e Rag&Bone, ma anche Joseph e Vince, a circa 1.100 negozi multimarca. Dheedene gestisce inoltre negozi in franchising di Liu Jo, 7 For All

Mankind e K-Way, nonché un ristorante stellato, Le Pristine, dove il famoso chef Sergio Herman dà vita a piatti magici. Verso somiglia a un grande magazzino, come Harrods a Londra o Galeries Lafayette a Parigi, solo in miniatura. Qui sono riuniti i megabrand. In vetrina protagonista è Christian Dior. L'installazione all'ingresso è riservata a Celine. Una sala è dedicata

Oggi, con i suoi 545mila abitanti, è solo una città europea di media grandezza. Le dimensioni e la posizione geografica sono due dei fattori hanno reso Anversa una mecca del commercio multimarca. Per i marchi del settore lusso già presenti a Parigi e Amsterdam spesso non vale la pena aprire un negozio anche qui. Gucci ci ha provato, ma ha chiuso il negozio. Anche Hermès, che va di successo in successo, in questo caso ha fallito.

«Mi manca un po' la creatività. Oggi è tutto basato sui numeri»
Luc Dheedene

alle icone del quiet luxury, come Brunello Cucinelli e Bottega Veneta. Questo negozio di lusso è come la città di Anversa: grande e piccola allo stesso tempo. Secoli fa, la città sulla Schelda era una delle più importanti metropoli commerciali d'Europa. Era situata in posizione strategica sull'asse che collega Parigi a Bruxelles e Amsterdam.

Ciò spiega perché Verso è uno dei pochissimi rivenditori di lusso in Europa ad avere ancora i marchi Lvmh e Kering nel proprio assortimento. I gruppi parigini hanno ridotto drasticamente il wholesale. Basti pensare a Gucci di Kering, che rifornisce solo dieci partner in questo canale al di fuori dell'Italia. Verso è uno di questi. È un grande riconoscimento per Dheedene, uomo che si è fatto da solo. Capelli bianchi come la neve, giacca nera di Prada. Colpiscono i suoi occhi, che hanno qualcosa di ironico. È originario di Waregem, nelle Fiandre occidentali, un comune di 40mila anime, famoso per la sua squadra di calcio. A fine novembre 1985 la squadra incontrò il Milan nella Coppa Uefa. Quando gli amici milanesi di Dheedene arrivarono a Waregem, gli chiesero beffardamente: «Ma dov'è la metropolitana?». L'arroganza venne punita. Il Waregem eliminò il Milan

Tutte le foto sono di Nicolas Vantomme / Courtesy Verso
Affari di famiglia: Luc Dheedene ha ceduto la gestione quotidiana dell'azienda al figlio Miguel

dalla competizione, in modo sensazionale e inaspettato.

Nella vita tutto è possibile. Nel 1975 Dheedene, la cui famiglia aveva un'azienda di import-export di frutta e verdura, era seduto nell'ufficio di un produttore belga di maglieria e meditava di lasciare il suo lavoro di contabile. Gli capitò tra le mani un numero di Uomo Vogue, dove il marchio “Cleo e Pat” dello stilista Giorgio Correggiari attirò la sua attenzione. «Ho mandato un telex. All'epoca non c'era ancora il fax», ricorda. La risposta arrivò subito: «Vieni a trovarci». Dheedene partì a tutta velocità con la sua Fiat 500, «dalle Fiandre a Vicenza». La vecchia utilitaria è oggi esposta nell'atrio dell'azienda Dheedene l'ha dipinta di colore oro. Correggiari esponeva al Pitti Uomo di Firenze. Alla fiera Dheedene conobbe la famiglia Girombelli di Ancona Orlando Girombelli era responsabile della collezione di abbigliamento maschile Reporter, suo fratello Arnaldo della linea femminile Genny. Poco dopo iniziò l'era dei designer, guidata da Giorgio Armani, Gianni Versace e Gianfranco Ferré. Dheedene è diventato “l'uomo del Benelux” per il settore italiano di alta moda Ha vissuto gli alti e bassi del settore e sa che il momento attuale è difficile. Verso risente della crisi di Gucci & co. L'affluenza nel negozio è inferiore al solito. Gli uomini, in particolare, sono diventati più scettici. Spesso si fermano a lungo nel punto vendita e controllano sui loro cellulari se gli articoli sono disponibili a prezzi più convenienti su Internet. I mocassini Saint Laurent vendono ancora abbastanza bene, così come le camicie e i capi in maglia crochet di Casablanca. Per il resto, le vendite procedono a rilento. Il settore femminile è decisamente più vivace. Mentre per gli uomini continua a dominare il quiet luxury, per le donne sono le emozioni a fare la parte del leone. «I capi più appariscenti e vistosi sono quelli che vendiamo meglio», afferma Elisa Barbadoro, responsabile degli acquisti di abbigliamento femminile da Verso. Sono richiesti modelli che costano dai 5mila ai 6mila euro. Va per la maggiore la pelle scamosciata: «Giacche,

borse e anche scarpe da ginnastica». Miu Miu è molto forte nel prêt-à-porter. «Un successo che a che fare con il marketing. E con lo styling curato da Lotta Volkova», afferma Barbadoro. Negli accessori, il numero uno è il modello Andiamo di Bottega Veneta: «Appena arriva in negozio, è già esaurito». Alcuni prodotti non vengono nemmeno esposti, perché le clienti Vip li ordinano in anticipo: «Abbiamo una clientela molto fedele». Quando arriva la nuova merce, Barbadoro e il suo team informano le clienti più importanti via WhatsApp e prenotano per loro i capi desiderati. Per la prova, la parte posteriore del negozio viene talvolta discretamente nascosta con una tenda. Verso è piuttosto cauta con i designer emergenti e i marchi giovani. Lo stesso vale per il segmento premium o le categorie di prodotti complementari. Libri, candele, elettronica o oggetti d'arredamento come lampade o poltrone? Niente da fare. È una scelta consapevole: dopotutto Verso deve distinguersi da tutti gli altri multimarca di Anversa. Sono

noti il negozio Princess, che vende brand come La Double J, MC2 Saint Barth e Demellier, ma anche Step by Step, che ha in assortimento Isabel Marant e Alexander Wang. Renaissance presenta invece colori forti e silhouette stravaganti di Coperni, The Attico e Darkpark. Enes è specializzato in marchi francesi, tra cui Vanessa Bruno e scandinavi, vedi Ganni e Baum und Pferdgarten. È disponibile anche il designer tedesco Lutz Huelle. Ad Anversa si respira l'aria del mondo, ma nella moda al dettaglio c'è molta concorrenza. Ci vogliono intuito, esperienza e disciplina per trovare la propria nicchia. E collaboratori altamente qualificati. Dheedene ha fiuto per i talenti. Molti di coloro che hanno iniziato con lui oggi ricoprono posizioni dirigenziali presso marchi e retailer: «Meriteremmo lo status di università», scherza l'imprenditore. Il Fashion Club 70 si estende su 15mila metri quadri in un vecchio magazzino tessile sulla Ijzerlaan, nella zona Nord della città. Dheedene ha mantenuto l'aspetto di un magazzino. Le pareti sono spoglie, dal soffitto pende una gru, il pavimento è rivestito con assi di legno. C'è una sala per la stampa, dove i redattori scelgono i capi per i loro servizi fotografici. Il Fashion Club 70 è anche un'agenzia di pubbliche relazioni. Un team si occupa di garantire che marchi come Coccinelle, Moose Knuckles e Vicolo appaiano sulle riviste di moda belghe e olandesi. I 150 dipendenti sono coccolati. Ci sono un ristorante con caffetteria, un giardino con alberi potati a forma di lecca-lecca rettangolari e un laghetto con i pesci. Dheedene ripensa con nostalgia ai primi anni: «Mi manca la creatività. Oggi è tutto molto più orientato ai numeri». Ha ceduto il posto di a.d. al figlio Miguel. In teoria ha più tempo di prima. Nel suo ufficio può esercitarsi a giocare a minigolf. Ma sembra solo un set, perché lui è sempre in viaggio. Ad aprile era al Salone del Mobile di Milano. Sta per partire per la Spagna. A giugno andrà al Pitti e alla Fashion Week. L'ufficio è troppo piccolo. Il mondo lo chiama. ■

TOBIAS BAYER
La cupola del negozio raffigura lo zodiaco
Le sneaker di lusso sono racchiuse in cassaforti

Gli Usa? Una sfida da affrontare nonostante l’incertezza

Brand italiani che investono all’estero, rappresentanti di organizzazioni di categoria, organizzatori di fiere, analisti finanziari e consulenti d’azienda spiegano il perché ha ancora un senso guardare oltreoceano

EssiLux, Lvmh e Richemont le più esposte agli States, tra le quotate del lusso

A fine maggio Bernstein ha alzato le previsioni di crescita organica del settore nel 2025, portandole dal -2% allo 0%. Nel grafico, le stime delle esposizioni al mercato americano, in termini di vendite annuali, delle principali società quotate studiate dagli analisti

Mentre stiamo per andare in stampa sono appena entrati in vigore i dazi al 50%, imposti dal presidente Usa Donald Trump, su acciaio e alluminio e resta un rischio di escalation, che ha portato l’Ocse a tagliare il tasso di incremento del Pil mondiale per il 2025 e 2026 (+2,9%, dal +3,3% del 2024 in entrambi gli anni), allertando che l’indebolimento delle prospettive economiche si farà sentire in tutto il mondo e che «i dazi aggiuntivi ridurranno ulteriormente le prospettive di crescita a livello globale e alimenteranno l’inflazione». Il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha stimato di recente che la corsa ai dazi «potrebbe sottrarre quasi un punto percentuale alla crescita mondiale nell’arco di un biennio» e che sta «spingendo l’economia globale su una traiettoria pericolosa», met-

tendo a rischio già ora il 5% del commercio globale. La moda americana è talmente preoccupata per la guerra commerciale del presidente Trump, che Stephen Lamar, ceo dell’American Apparel & Footwear Association (all’attivo più di 1.100 fra marchi, retailer e manifatture della moda Usa), Steven Kolb (ceo del Cfda, la Camera della Moda Usa) e Anna Wintour (direttrice di Vogue America) sono andati alla Casa Bianca, per sostenere che le tariffe aggiuntive mettono le aziende e i designer indipendenti in una posizione di svantaggio sproporzionata, rispetto ad altri settori. Nelle pagine che seguono gli analisti di Bernstein, esperti del lusso quotato, non prevedono una débâcle per il 2025 ma una crescita pari a zero, dopo un primo semestre difficile. La società di consulenza manageriale BearingPoint vede nel

possibile incremento delle tariffe un’opportunità: «L’inizio di un cambiamento strutturale che passa per la diversificazione dei mercati, l’integrazione della filiera e un adattamento dell’offerta». «L’America è un mercato insostituibile, ma le nostre imprese devono guardare al mondo, in particolare America Latina, India, Medio Oriente e Asia», gli fa eco la Fondazione Altagamma. «Gli Stati Uniti sono un mercato vasto e ancora fortemente attratto dal valore del made in Europe e in Italy», incoraggiano gli organizzatori dell’evento tessile A Fabric Affair, di scena a New York e Los Angeles. Ma un vero (forse un po’ incosciente) ottimismo trapela dalle interviste ai brand italiani che stanno continuando a scommettere sul Paese a stelle e strisce. In barba al clima di incertezza e a tutti gli stop and go di Trump. ■

Fonte: Bernstein analysis
DI ELISABETTA FABBRI

Landi-L’Impermeabile

Gli Usa sono sempre stati interessanti per noi, anche se difficili. Dall’avvio del 2025 riscontriamo un leggero incremento nel numero di clienti e delle collaborazioni con distributori locali. Di recente abbiamo avviato una collaborazione con una showroom donna e con un ufficio a New York per le PR. Partecipiamo a Chicago Collective Men e Coterie New York, per attrarre clienti nuovi e dare supporto agli agenti e siamo abbastanza positivi sull’affluenza alle prossime edizioni, in attesa di sviluppi sul fronte dazi. Siamo presenti da alcuni anni in multimarca selezionati di livello medio-alto nelle città maggiori e presso le mete turistiche. Andare più in profondità è complicato, per una questione di gusti e di approccio al prodotto. Comunque cerchiamo di coprire più segmenti tra L’Impermeabile e le linee Zerosettanta Studio, Landi e Capalbio: chissà che, dopo i butteri, questo marchio non arrivi a conquistare i cowboy. I nostri clienti stanno aspettando, come noi, notizie certe sulle tariffe, ma non ci sembrano molto allarmati degli sviluppi. Quanto a noi siamo più preoccupati della situazione mondiale e tentiamo di bilanciare la presenza sui vari mercati di riferimento. In Ue si parla più delle tariffe di Trump che di dumping. Bisognerebbe invece ragionare su una politica industriale nazionale che contrasti l’invasione di certi prodotti e la mancanza di reciprocità negli scambi. Per il momento cerchiamo di mantenere i prezzi in linea con il valore e la qualità intrinseca del prodotto. Se il prezzo dovesse aumentare un po’, pensiamo che il consumatore sarà in grado di capire le nostre proposte premium. Abbandonare questo mercato non ha senso, meglio rimanere nel modo più corretto possibile. Non è facile fare previsioni, ma penso che, nel tempo, gli States ci daranno soddisfazioni inattese. Bisogna essere positivi. ■

. Luigi Fedeli e Figlio

Il tira e molla sui dazi sotto la presidenza Trump ha rotto equilibri e creato incertezza, ma siamo più preoccupati noi qui in Italia, che dall’altra parte dell’oceano. Va detto pure che i clienti di un marchio che si posiziona nel top di gamma, come Fedeli, sono più resistenti alle fluttuazioni dei prezzi. Tanti hanno perso molti soldi in Borsa ma questo non influisce sul loro modo di vivere. Se i cartellini aumentano, per loro non sarà certamente un dramma. Prima della pandemia, partivamo dal nulla negli Usa, ma cliente dopo cliente siamo riusciti piano piano ad affermarci e a crescere, tanto che oggi sono diventati il nostro primo mercato, capace di generare il 20% dei ricavi. Merito di un prodotto di altissima qualità e consono alle richieste dei consumatori locali, con un alto potenziale di spesa, ma anche di oculate strategie distributive, come il “no department store”, eccetto Bloomingdale’s, e il “sì specialty store e wholesaler tradizionali”: questo ha permesso al marchio di orientarsi sul territorio e di migliorare i margini, evitando problemi come i resi e il conto vendita. L’asse Monza-Los Angeles ha funzionato anche grazie a precise scelte logistiche. Se si vuole vincere la partita negli Usa, bisogna andare là. Crederci e investire. Si deve parlare la loro lingua. Fare il loro gioco. Meglio se attrezzati di un servizio impeccabile, con stock service tutto l’anno. Anche l’organizzazione di trunk show è fondamentale. ■

Crediamo profondamente nel potenziale del mercato americano, al di là dei cicli politici e delle dinamiche contingenti e continueremo a investire con visione e responsabilità, monitorando con attenzione l’evoluzione del contesto e adattando le nostre strategie con flessibilità. La recente apertura di un punto vendita nel South Coast Plaza, in California e l’inaugurazione di un flagship store a Toronto, confermano quanto sia strategico il mercato nordamericano. L’obiettivo è consolidare il nostro posizionamento luxury, non con dinamiche di prezzo aggressive, ma cercando il giusto equilibrio tra valore e qualità, per prodotti destinati a durare nel tempo. Nei primi quattro mesi dell’anno,il brand ha registrato una crescita del 22%, rispetto allo stesso periodo del 2024, e del 14% a parità di perimetro, a conferma della solidità della strategia commerciale. Siamo presenti nei principali department store di fascia alta, dove cresciamo a doppia cifra. I consumi si mantengono stabili soprattutto per quanto riguarda i prodotti iconici e trasversali e notiamo che lo shopper americano è sempre più attento e preparato: riconosce la qualità nel prodotto, ma anche nei valori che il brand esprime. Operare negli States richiede visione a lungo termine, capacità di ascolto e adattamento costante. Eleventy affronta la sfida con determinazione, supportata da un progetto solido e da una crescita concreta, che riflette la fiducia dei consumatori e dei partner commerciali. Ma rimarrà sempre made in Italy, non ci sarà una produzione made in Us. L’artigianalità italiana è il cuore del nostro progetto e garanzia di eccellenza ■

Davide Sambin Zara Chief commercial officer

Barena Venezia

Per il primo monomarca Barena ci piacerebbe New York - in particolare il quartiere Nolita lungo Mulberry Street, Elizabeth Street, Mott Street e Prince Street - ma vista l’attuale situazione politica ed economica, attualmente stiamo cercando a Milano e Parigi. Resto comunque fiducioso: credo che il mercato a stelle e strisce rappresenti un’opportunità di crescita per noi, anche in questo momento difficile. Puntiamo su clienti che cercano un prodotto di alta qualità, sinonimo di Made in Italy e auspichiamo che il rallentamento nell’alto di gamma dia una spinta al lusso accessibile. Barena è una nicchia nella nicchia della nicchia, quindi spero che riusciremo a distaccarci dai macro-trend. Negli Usa avevamo un contratto di esclusiva con Barneys, ma da quando ha chiuso stiamo ricostruendo il mercato locale. Siamo presenti da Saks e dalla stagione AI 2025/2026 saremo da Bergdorf Goodman. I grandi magazzini ci danno la possibilità di scalare, cosa quasi impossibile con gli specialty store. Naturalmente speriamo di poter conquistare anche loro. Abbiamo appena organizzato un evento con Cueva, uno dei nostri partner con sede a Brooklyn, e Chez Ma Tante, ristorante francese che si trova proprio di fronte. Protagonisti le overshirt e i pantaloni, ma anche i grembiuli, con cui Barena ha debuttato nel lontano 1993. ■

Fondazione Altagamma

La globalizzazione come l’abbiamo conosciuta e immaginata - motore di sviluppo e crescita del mercato dei beni di lusso - si sta infrangendo contro il ritorno dei nazionalismi, delle politiche protezionistiche e delle barriere commerciali. Ancora più preoccupante è che anche alleati storici come gli Stati Uniti sembrano allontanarsi. Le recenti tensioni e l’ipotesi di dazi fino al 50% sui beni europei rischiano di compromettere l’accesso delle nostre imprese a un mercato chiave come quello americano, strategico e irrinunciabile per l’alto di gamma italiano. Unione europea e Italia dovrebbero lavorare per abbattere queste barriere in un mercato che, dopo un periodo di fortissima crescita, sta attraversando un momento di normalizzazione. L’auspicio è che venga chiarito il prima possibile il dialogo tra Europa e Stati Uniti, perché abbiamo bisogno di certezze per definire le nostre strategie. L’unico modo per avere una voce forte a livello internazionale è che l’Ue sia coesa. Nel frattempo occorrerà anche diversificare. L’America è un mercato insostituibile, ma le nostre imprese devono guardare al mondo, in particolare all’America Latina, all’India, al Medio Oriente e all’Asia. La stessa cosa devono fare le istituzioni e l’Ue. ■

Afine maggio abbiamo aggiornato le stime di crescita del lusso per tutto il 2025, alzandole dal -2% allo 0% (contro un +0,4% registrato nel 2024), mentre le relazioni internazionali sembrano portare a un allontanamento dallo scenario “Cigno Nero” ipotizzato in marzo, che include una ripresa dell’inflazione (perché i marchi trasferiscono i dazi Usa sulle importazioni ai consumatori), un calo sensibile del Pil Usa e la conseguente riduzione della spesa discrezionale, tasse sul lusso oltre il 25% e alti dazi alle importazioni per i prossimi anni. Nell’ipotesi del Balck Swan c’è pure una guerra tariffaria su vasta scala, che blocca i flussi commerciali globali, mentre le principali economie (Usa, Cina, Ue) diventano protezioniste e le tendenze delle aziende alla globalizzazione si attenuano. In Cina la crescita del Pil rallenta, poiché l’export subisce danni materiali e i prezzi degli immobili locali tornano a scendere, a causa del rallentamento dell’economia e della stagnazione sul fronte salariale. Riteniamo che l’impatto del “Liberation Day” del presidente americano Donald Trumpin termini di incertezza economica, inflazione e volatilità delle valute - peserà ancora, mentre le decisioni relative a M&A e a investimenti significativi sono sospese. Il primo semestre 2025 sarà quindi difficile: il settore lusso potrebbe registrare un -1,7% su base organica nel primo trimestre (rispetto a un anno prima) e un -1,9% nel secondo. Per il terzo e il quarto trimestre stimiamo invece un +2,7% e un +2,1% rispettivamente. Lo scenario di crescita zero presuppone un allentamento delle tensioni commerciali internazionali, con dazi sulle importazioni negli Usa che restano al 10% (o leggermente superiori, per alcuni Paesi) e tariffe al 30% in vigore per la Cina. I luxury good sono in una situazione peggiore rispetto a quella di inizio anno. Il contesto per una svolta, in particolare per i marchi già deboli o in difficoltà, rimane difficile ■

Consumer Goods & Retail Lead

BearingPoint Italia

Nonostante l’incertezza politica e la minaccia di nuovi dazi, il mercato americano resta strategico per il made in Italy. Nel lusso l’impatto potrebbe essere contenuto, perché chi acquista alta gamma è meno sensibile al prezzo. Tuttavia, la complessità delle filiere, spesso radicate in Asia, e la natura globale dell’industria della moda richiedono visione e cautela, per presidiare gli Usa senza sacrificare margini o identità. In quest’area il consumatore è attento a sostenibilità, circolarità e resale: una leva per i brand italiani. Ma dazi e instabilità normativa possono minare la fiducia dei clienti. Serve rafforzare storytelling e valore percepito, per giustificare eventuali rincari. Inoltre bisogna tener presente che negli States non esiste un unico tipo di shopper: strategie locali, differenze culturali, economiche e climatiche, eventi e stagionalità influenzano le performance e solo un modello flessibile e data-driven valorizza un mercato così eterogeneo. Mentre la questione dazi è sospesa, vanno ridefinite le strategie di prezzo. Nei segmenti price-sensitive, la cooperazione lungo la filiera è cruciale per assorbire i costi. Nel lusso è più efficiente trasferire il rincaro al consumatore, oltre a una comunicazione chiara e orientata al valore. Delocalizzare negli Usa? Vale solo per aziende strutturate, perché complesso, rischioso e spesso antieconomico. I dazi potrebbero però segnare l’inizio di un cambiamento strutturale. Diversificare mercati, integrare la filiera e adattare l’offerta potrebbe essere decisivo al fine di rafforzarsi e - nel caso delle realtà meno strutturate - per contenere l’impatto su margini e costi. ■

Credere negli Stati Uniti significa credere in un mercato vasto e ancora fortemente attratto dal valore del made in Europe e in Italy. L’amministrazione Usa può generare incertezze normative, per via di decisioni repentine e inversioni di rotta difficili da prevedere, ma una porzione non trascurabile di consumatori americani, nonché designer, brand e retailer, continua a cercare eccellenza e unicità. Durante gli eventi di A Fabric Affair si percepisce rispetto e curiosità verso la nostra cultura tessile. L’affluenza è sempre molto qualificata, pur con sensibilità e gusti differenti. E se l’edizione di New York - capitale creativa della moda americana - attrae designer, brand affermati, start-up e studi indipendenti, quella di Los Angeles è in via di trasformazione. Nella città del denim e delle T-shirt stanno emergendo stilisti e label che fanno ricerca e investono in qualità e che, nella patria del jersey stretch, parlano di organza jacquard con la passione di un couturier parigino. Alle prossime edizioni di A Fabric Affair mi piacerebbe coinvolgere anche i confezionisti. Inoltre stiamo ipotizzando di unire gli appuntamenti in un unico momento commerciale per il Nord America. A NYC arrivano anche da Filadelfia, Chicago, Houston, Boston, Sunderland, ma anche professionisti dal Canada Orientale. L.A. attira visitatori da tutta la California e dal Canada Occidentale. A volte i clienti migliori non sono di Manhattan o Downtown Los Angeles, ma lavorano in un loft a Toronto o in un ufficio a Portland: basta dare loro un motivo per salire su un aereo. Il consiglio è di essere presenti nei poli creativi, ma con la consapevolezza che il bacino di influenza è molto ampio. Non è un azzardo esplorare nuovi territori, purché si abbia una strategia chiara e si partecipi ad appuntamenti mirati, dove l’offerta venga valorizzata. Considerato il clima di incertezza e il calo trasversale nella

industry del 2024 e inizio 2025, nutro un cauto ottimismo per il futuro, soprattutto nel medio-alto di gamma. L’edonismo dell’acquirente americano medio è noto, ma riscontro anche un’evoluzione da un consumismo impulsivamente iperbolico a una crescente voglia di autenticità, originalità e durata. Il modello del fast fashion soffre e molti stilisti stanno tornando alla ricerca di materiali unici, responsabili e carichi di identità. Si comincia a comprendere che la vera sostenibilità deriva da una riduzione dei consumi, che vanno concentrati su materiali time-proof. La domanda di qualità c’è, ma è selettiva, premia chi ha una proposta chiara e sa raccontare la propria eccellenza. Stiamo entrando in un’epoca in cui la narrazione dietro un tessuto conterà quanto il design. La questione dei prezzi andrebbe gestita con trasparenza e un focus sulla qualità percepita. Il cartellino deve riflettere un valore concreto: materia prima, ma anche creatività, flessibilità produttiva e know-how tecnico. I dazi vanno e vengono come le stagioni a Washington. La qualità, invece, ha cicli molto più lunghi e resistenti. La costruzione di rapporti solidi con i clienti americani è centrale: chi comprende il valore del prodotto è disposto a investire, anche in un contesto di incertezza. Il made in Italy resta un riferimento, mentre una delocalizzazione negli States mi sembra poco probabile. La cultura tessile italiana affonda le radici nel Medioevo. Il tessuto industriale italiano ed europeo si basa su decenni, talvolta secoli, di storia, ricerca, cultura e competenze radicate. Riprodurli altrove richiederebbe tempi lunghi e investimenti ingenti. È un’ipotesi affascinante in teoria, ma difficilmente realizzabile nel medio termine. Permettetemi una battuta: al momento non possiamo pensare di inventarci un Chianti in Oregon. Forse tecnicamente è possibile, ma è tutta un’altra cosa. ■

Sun vocale da New York

Fashion editor, vive a New York e appartiene alla Gen Z. Con lei andiamo alla scoperta della città che non dorme mai.

e ci si attiene alle notizie, si ha l’impressione che l’America e l’Europa si stiano allontanando. Tuttavia, almeno per quanto riguarda la moda e il retail newyorkese, non è così. Un settore, quest’ultimo, che trae molta ispirazione dall’osservazione della cultura europea e dalla comprensione dalle correnti di moda che hanno origine oltreoceano. Vi accompagno in una passeggiata attraverso la giungla di cemento e vi mostro tre gemme nascoste del retail multimarca che portano negli States un po' di moda europea.

Ven.Space è uno di quei negozi di Brooklyn che trasudano moda e chic. È come se l'aria del centro e di South Brooklyn sprigionassero una freschezza che a volte manca a Manhattan. Non c'è da stupirsi, dato che Brooklyn è la patria di designer, artisti e di una delle migliori scuole d'arte del mondo come il Pratt Institute. Quando sono entrata da Ven.Space sono stata immediatamente colpita dall’atmosfera minimalista e dalla moda maschile ricercata di marchi come Dries Van Noten, Lemaire e Margaret Howell, ma anche di brand giapponesi come Auralee, Rototo e Taiga Takahashi.

Ven.Space non urla, ma stupisce. Se visiti il loro sito web, ti ritrovi su una pagina in bianco e nero dove vedi l’indirizzo e un elenco di marchi. Se clicchi su “Journal”, i proprietari condividono la loro playlist Spotify, presentano artisti e mostrano questionari compilati dai clienti. Ven-Space, si potrebbe dire, è una comunità affiatata di trendsetter Negli Stati Uniti gli standard della moda maschile sono molto diversi rispetto a quelli europei. In Europa le proposte da uomo possono essere eleganti quanto quelle femminili, mentre negli Usa, anche in una città favolosa come New York, lasciano un po' a desiderare. Questo potrebbe essere dovuto a una differenza culturale, al fatto che molti uomini americani non capiscono molto di estetica. Tuttavia, Ven.Space sa esattamente cosa sta facendo. I suoi prodotti sono costosi, ma lo sono a ragione. In negozio entrano solo gli articoli migliori e - siamo onesti - il lusso ha un costo

Tre gemme nascoste della moda europea a New York

Il susseguirsi di dichiarazioni nel segno dell'“America First” sembra significare che gli Stati Uniti stiano voltando le spalle all’Europa. Fortunatamente ci sono molti retailer newyorkesi che stanno facendo esattamente il contrario. Eccone tre

Michael's Consignment, la "fonte dell’eterna giovinezza della moda", come mi piace chiamarla con i miei amici, è uno dei miei posti preferiti in tutta Manhattan per fare shopping di second hand. Non sto esagerando: sebbene ci siano tantissimi negozi di articoli used in tutta New York, questo negozio è in g rado di raccogliere una moltitudine di marchi, soprattutto europei. Tra questi figurano, solo per citarne alcuni, Prada, Saint Laurent, Zadig & Voltaire, Gucci, Fendi, Dolce&Gabbana, Hermès, Chanel e, naturalmente, etichette americane intramontabili come Ralph Lauren e Calvin Klein.

Uno dei motivi per cui questo negozio è una vera chicca è che capiscono davvero che il prezzo di vendita deve essere una frazione del prezzo originale. Qualche settimana fa, mentre facevo una delle mie passeggiate quotidiane in città ascoltando un podcast, non ho resistito alla tentazione di dare un’occhiata se c’era qualcosa di nuovo per me. Dopo aver controllato ogni

articolo su tutti gli scaffali, ho trovato un paio di pantaloni vintage di Prada a 100 dollari! Non solo erano in condizioni perfette, ma mentre li indossavo ho potuto percepire il lusso e riconoscere la meticolosa fattura del capo. Sono diventati i miei pantaloni preferiti, perché riesco ad abbinarli a una varietà di capi che già possiedo: un acquisto migliore di quanto avrei potuto immaginare. Khata, la terza "gemma", è un negozio vintage da non perdere. È radicato nella cultura ucraina. Il suo nome, che in ucraino significa “casa”, incarna proprio questo: è un luogo sicuro dove ti senti a casa dal momento in cui entri. È frutto dell'ingegno delle ex modelle

Sasha Knysh e Helga Hitko, che hanno sfilato per griffe come Miuccia Prada, Marc Jacobs e Raf Simons. Hanno portato il loro gusto raffinato nel negozio, che espone opere di artisti, ceramiche artigianali e una varietà di pezzi vintage realizzati con una qualità impeccabile. Qui si possono trovare un abito asimmetrico di Ann Demeulemeester, una giacca di Sarah Pacini e una gonna Etro con stampa paisley.

Ciò che contribuisce all’esperienza complessiva è il fatto che il negozio racconta davvero una storia. Il touch femminile è qualcosa che ti avvolge non appena se ne varca la soglia: una sensazione che non si trova spesso negli altri posti, rendendo Khata un vero omaggio alla moda in una città frenetica. La mia generazione è cresciuta con la tecnologia digitale. Siamo abituati a comprare online e ottenere tutto con un clic. Tuttavia sono un po’ stanca di tutta questa comodità. Penso che il retail fisico sia tornato a essere importante, soprattutto per quanto riguarda i multimarca. Se la moda è protagonista sulle riviste, sulle passerelle durante le fashion week e nelle collezioni dei marchi, è nei negozi che prende forma lo stile. E quello vero non è seguire le tendenze, ma permettersi di indossare ciò che si vuole, quando si vuole, senza bisogno dell’approvazione degli altri. Soprattutto dei seguaci dell’America First. ■

Veepee: «Il carrello maschile, trainato dallo sportswear»

Nel 2024 l’interesse degli utenti della piattaforma francese si è concentrato soprattutto sulla categoria performance, tra funzionalità e innovazione

Le donne sono protagoniste delle flash sales di moda ma forse non tutti sanno che gli acquisti al maschile risultano in crescita, specie per alcune tipologie di prodotto. Lo rileva la piattaforma Veepee (ex vente-privee), dove gli utenti uomini hanno coperto il 30% delle vendite del 2024. L’abbigliamento sportivo è risultato il settore più dinamico, con un +16% realizzato lo scorso anno. «La categoria performance (abbigliamento e accessori sportivi tecnici) ha accelerato del 27%, a conferma dell’interesse maschile per prodotti altamente funzionali e innovativi», precisa Valentina Corbetta, country manager di Veepee Italia. Tra i prodotti più ricercati hanno spiccato le scarpe da running in colori classici come il nero e il bianco, eventualmente arricchiti dalle tonalità neon. Anche le tute sportive sono state molto apprezzate, in particolare quelle in grigio chiaro, blu navy e nero. Per i pantaloni sportivi meglio il nero, mentre nel caso delle giacche a vento e softshell i colori più gettonati sono stati blu navy, verde militare e arancione. Dallo shopping sulla piattaforma francese si nota pure che i clienti prediligono, tra gli sport, il padel. Tanto che le vendite di racchette sono raddoppiate nel 2024, mentre borse, protezioni e abbigliamento dedicato sono risultati tra i prodotti più richiesti. I trend del 2024 confermano che a dominare lo shopping maschile sulla piattaforma francese è il fashion e che c’è un’attenzione crescente alla qualità e al design. «In questo scenario - osserva Corbetta - emerge il ruolo centrale dei brand del made in Italy in

IN CIFRE

82 milioni

I prodotti venduti nel 2024 da Veepee fra moda, casa, bambini, gourmet e viaggi

più di 250mila

Gli ordini spediti in un anno

7.000 I marchi partner

10 I Paesi europei serviti

2,3 milioni

I visitatori unici giornalieri

3,3 miliardi di euro

Il fatturato 2024

Europa, che contribuiscono fortemente a segnare la crescita del menswear per il nostro sito». Gli e-shopper hanno comprato anche utility wear e classici intramontabili. Preferiti soprattutto i capi pratici e funzionali come giacche cargo, pantaloni con tasche multiple e giubbotti tecnici in materiali resistenti e rifiniture dettagliate come cerniere e fibbie. A questa tendenza si affianca il layering, vale a dire l’accostamento di giacche strutturate, maglioni, camicie e t-shirt, per un look dinamico che non rinuncia all’eleganza. Il carrello si è arricchito anche di blazer e giacche da completo, soprattutto in colori neutri e sobri come bianco, nero, blu, grigio e beige. Per quanto riguarda gli accessori, risultano in crescita costante sulla piattaforma di vendite flash, riflettendo un’attenzione sempre maggiore degli uomini verso i dettagli, che completano e valorizzano il loro stile. Si tratta, in particolare, di calzature, soprattutto sneaker ispirate agli

«In Europa emerge il ruolo centrale dei brand del made in Italy»

Valentina Corbetta

Country Manager Veepee Italia

anni ‘80 e ‘90, che mixano design retrò e comfort. Anche le loafer sono diventate un elemento imprescindibile nel guardaroba maschile. Le stringate in pelle completano i look eleganti mentre i boot, specialmente gli stivali Chelsea, hanno guadagnato popolarità, soprattutto nella stagione fredda. Nel settore beauty gli acquisti si sono concentrati sui prodotti per la cura della barba, con schiume e lozioni dopobarba, seguiti da profumi e deodoranti. In forte aumento anche il segmento skincare, connotato da linee idratanti e anti-età. Anche grazie al menswear, lo scorso anno le vendite di Veepee sono salite a 3,3 miliardi di euro: il 3% in più, rispetto all’anno prima e in un contesto macroeconomico «fluttuante», come lo definsce Corbetta. Nel 2024 sono stati venduti 82 milioni di prodotti (nei settori abbigliamento, calzature, beauty, casa, bambini, gourmet e viaggi) e spediti più di 250mila ordini in 10 Paesi. Sono circa 7mila i marchi partner (900 in Italia) e 2,3 milioni i visitatori unici giornalieri. Nel corso del 2024 sono state proposte agli utenti registrati 22mila flash-sale, che restano il core business di Veepee. Il legame con l’Italia è a doppio filo: si tratta di uno dei mercati chiave dell’azienda, con un +9,5% per le vendite evento nel 2024. Inoltre c’è una solida relazione e una collaborazione di lungo termine con i brand del made in Italy che - conclude Corbetta - «giocano un ruolo fondamentale per il successo di Veepee in Europa». ■

ELISABETTA FABBRI

alberto-pants.com

MASCHILE PLURALE

Non fossilizzarsi su una sola tendenza, scardinare le regole del formale per renderlo contemporaneo, sperimentare inedite contaminazioni, abbattere gli steccati della stagionalità. Le nuove collezioni maschili ostentano un eclettismo che non sfocia mai nell’esibizionismo: l’obiettivo è costruire un guardaroba dove eleganza e destrutturazione trovano un punto di incontro.

A CURA DI ALESSANDRA BIGOTTA
LUIGI BIANCHI SARTORIA

La giacca proporzioni riscritte, tessuti nobili

LUIGI LARDINI

DIRETTORE CREATIVO

LARDINI

«Un capo che da status symbol diventa emblema di una nuova libertà»

Più comfort, meno formalità. Su queste direttive si sviluppano le nuove coordinate della moda maschile, come sottolinea Luigi Lardini, direttore creativo di Lardini, presentando alcune proposte della SS26, come la giacca maglia effetto chevron in viscosa e cotone nella foto a fianco, da abbinare a una camicia con collo open in 100% lino, un foulard in cotone e seta, un pantalone a vita alta dove la seta si abbina al cotone e, tocco finale, un paio di scarpe flat in pelle marrone. «Le giacche più richieste - spiega - presentano una silhouette più “svuotata”. Di conseguenza, anche il completo viene ripensato nelle linee e proporzioni». «Del resto - riflette il direttore creativo - già negli anni Novanta Armani aveva rotto il protocollo, lanciando l’accoppiata T-shirt e abito». La pochette, che solo pochi anni fa resisteva come simbolo del bel vestire maschile, «sta praticamente scomparendo. Allo stesso modo, visto che l’uomo non disdegna alternative più easy alla camicia, a partire dalla polo, anche la cravatta soffre». «Il cliente sa riconoscere i materiali nobili e li apprezza - sottolinea Luigi Lardini - meglio se con armature mosse, in grado di rinnovare le superfici. La sfida? Vestire anche i 20enni, un target difficile perché è un target che spesso non mette l’abbigliamento tra le sue priorità, ma che dobbiamo tenere in considerazione perché rappresenta il futuro». Massima l’attenzione di Lardini al pricing, «per far capire al consumatore che stiamo dalla sua parte e non lo prendiamo in giro». Così il prezzo sell-in medio di una giacca può aggirarsi sui 300-350 euro e quello di un abito sui 430-450 euro. Il fatturato del brand è realizzato per il 60% all’estero, con Giappone, Corea - dove il brand vorrebbe riaprire negozi su strada - ed Europa in pole position. In ascesa il Medio Oriente e allo studio l’America, «tra i pochi mercati che funzionano». La distribuzione si articola tra una ventina tra e monomarca e corner e circa 320 multimarca.

LARDINI
DANIELE ALESSANDRINI
TAGLIATORE
TOMBOLINI - ZERO GRAVITY HOLIDAY
PMDS

GABRIELE PASINI

ART DIRECTOR E DESIGNER

GABRIELE PASINI

«L’eleganza? È luce interiore e rispetto»

Per lui la contaminazione tra arte e moda è «una necessità» e lo stile un modo di esprimere innanzitutto la nobilità d’animo. Quattro domande a Gabriele Pasini, creativo, viaggiatore, esteta e instancabile sperimentatore.

Cos’è per lei l’eleganza?

È una questione di luce interiore. La parola eleganza deriva dal latino eligere, che significa “scegliere”. Ed è educazione, rispetto, comprensione. Un abito sartoriale con cravatta o un jeans abbinato a una T-shirt possono risultare eleganti, se chi li porta lo fa con autenticità e sicurezza.

Dna romagnolo, grande passione per la sartoria partenopea: come si coniugano?

Il punto d’incontro sono io! Entrambe queste terre hanno un’anima genuina, spontanea, diretta. La sartoria partenopea mi ha conquistato da subito. Napoli è stata un riferimento costante, non solo per la maestria sartoriale, ma per il suo spirito: il senso di appartenenza, l’accoglienza, la capacità di raccontarsi attraverso l’eleganza e la tradizione. La Romagna è terra di autenticità, energia e di un pragmatismo che si traduce in ricerca della qualità e della bellezza senza ostentazione.

La collezione primavera-estate 2026: quali i capi simbolo?

Preferirei parlare di concetti-simbolo. Ad esempio ho sperimentato con i tessuti di gusto inglese, portandoli nell’estivo. Il tweed, e il suo effetto bottonato, è protagonista, trasformato attraverso il lino e le sue affascinanti fiammature. Ho inoltre sviluppato il Solaro in fantasie nuove, trasformandolo in giacche doppiopetto con bottoni dorati, soprabiti e bermuda. Il Solaro nasce dalle divise militari, ma io l’ho reso più gentile, arricchendolo con applicazioni di rose, spille e dettagli raffinati.

L’intesa con Locman negli orologi: il primo passo per una brand extension?

Dietro ci sono un’amicizia decennale e una condivisione di valori profondi: passione, italianità e innovazione. L’orologio nato da questa sinergia è un perfetto equilibrio tra eleganza e funzionalità, con linee pulite ed essenziali. Un progetto che ha fatto incontrare due realtà storiche: Locman appunto, e Lubiam, che dal 2021 realizza e distribuisce le mie collezioni. In futuro mi piacerebbe continuare su questa strada con nuove collaborazioni. Alcune idee sono già pronte, vedremo cosa succederà...

SEBAGO
GABRIELE PASINI
BOGLIOLI

Bomber e blouson alleggeriti e multitasking

GIACOMO SERRATI SALES MANAGER TATRAS

«L’estate è il nuovo laboratorio del capospalla»

L’estate è un terreno sfidante per Tatras, legato al capospalla tecnico e imbottito. Ma è proprio questa stagione a diventare un banco di prova per nuove merceologie. A spiegarlo è Giacomo Serrati, sales manager del brand: «Il capospalla è il dna, ma la SS26 segna un ampliamento verso felpe, pantaloni e T-shirt, da abbinare a giacche leggere e sfoderate e bomber, che sono il cuore dell’offerta». Una sfida anche climatica: «Si vendono sempre più capi leggeri d’inverno mentre in primavera, spesso, il capospalla non è percepito come necessario. Abbiamo così alleggerito il piumino: meno imbottitura, più tecnica e versatilità». La SS26 anticipa una strategia più ampia, che coinvolgerà anche la FW, con la componente non-capospalla ancora più rilevante. «C’è una volontà di internazionalizzazione - spiega Serrati - che si riflette sull’ampliamento dell’offerta e sull’investimento in nuove categorie. I nostri 20 store giapponesi, che generano il 65% del fatturato totale, ci richiedono un’identità di brand sempre più completa. In Europa, dove operiamo quasi esclusivamente nel wholesale, vogliamo mantenere il livello altissimo di partner come Tiziana Fausti, Ratti, 10 Corso Como». I prezzi sono aumentati tra l’8% e il 12%, in linea con l’impennata dei costi di materie prime e trasporti. Niente compromessi sulla qualità: «Una parte dell’incremento viene assorbito dall’azienda, perché crediamo in un prodotto durevole. I nostri piumini, in piuma d’oca polacca e nylon giapponesi, hanno un prezzo al pubblico tra i 550 e i 600 euro nell’invernale, 280 per le giacche estive: un entry price competitivo». La collezione uomo-donna si mantiene bilanciata (55% donna) e si punta a testare nuovi segmenti. A settembre nei negozi di Tokyo e Milano arriveranno i primi capi bimbo, una prova per valutare l’eventuale lancio del kid: «Siamo in una fase di costruzione del marchio ma il mercato apre spazi e opportunità. Non vogliamo abbassare la qualità, ma fare le cose per bene. Anche in estate». (an.bi.)

TATRAS
OVER D
HERNO
AERONAUTICA MILITARE
C.P. COMPANY
ANTONY MORATO
BLAUER
KEELING
DUNO
DISTRETTO 12

La maglieria 100% ricerca, zero esibizionismo

MARCO SIMONE MARTUCCI

FOUNDER & CREATIVE DIRECTOR

SIMONE MARTUCCI «Essere artigiani significa custodire valori»

Alla sua seconda collezione, il brand Simone Martucci non è una start-up qualsiasi. Dietro c’è la storia di una famiglia radicata nel settore maglieria, che ha trasmesso al fondatore e direttore creativo del marchio, Marco Simone Martucci, la passione per questo mestiere. «Con Simone Martucciracconta - ho voluto dare voce a una visione costruita su quanto ho appreso, ma spinta dal bisogno di rinnovare e ridefinire un’arte antica». Martucci descrive il cliente tipo del marchio come «colui, o colei, che desidera capire da dove arriva ciò che indossa, chi l’ha creato, come lo ha pensato» e con cui creare una relazione. Una persona che «apprezza la qualità non urlata, il dettaglio silenzioso e la durata nel tempo, si affeziona alla materia e a chi la lavora». «La nostra azienda - spiega - è un laboratorio artigianale di proprietà in provincia di Perugia. Siamo in sei, formati per operare secondo i più alti standard qualitativi. Essere artigiani è il nostro modo di custodire valore». Il lavoro è per lo più manuale: «Chi investe su un nostro modello deve poter contare sulla perfezione». Questo sia che si tratti di un ordine Bespoke (il su misura applicato alla maglieria è un fiore all’occhiello) o che venga destinato a uno dei selezionatissimi partner retail. «Accanto al servizio su misura - spiega Marco Simone Martucci - realizziamo capsule ready-to-wear numerate, solitamente di dieci pezzi a modello». I prezzi sell-in variano in base a lavorazioni, trattamenti e dettagli: nell’invernale si va da 400-500 euro per le costruzioni più essenziali, ai 1.000-1.500 per i capi tecnici, sperimentali o imbottiti. Nell’estivo, in cui il brand punta su blend di fibre nobili come lino, seta e cashmere, la cifra media è di 300 euro. A livello distributivo, i partner sono tre: Fiacchini in Italia, Polo Avenue in Nigeria e una realtà russa con cui l’azienda sta finalizzando un’intesa. L’obiettivo per la prossima stagione è raggiungere 15-20 boutique internazionali. Nel 2024 è stato inaugurato un temporary atelier a Londra: «Per il futuro non immaginiamo monomarca, ma un “atelier itinerante” con incontri diretti, trunk show e vendite personali. Aspiriamo a costruire relazioni umane prima che commerciali».

FERRANTE
SIMONE MARTUCCI
UMBERTO VALLATI
KANGRA
LORENZONI

Il denim autentico e con la sostenibilità come sfida

ALBERTO CANDIANI CO-FOUNDER TRC CANDIANI

«Lo scenario è complesso ma per chi vuole emergere le opportunità ci sono»

«Il mercato è ‘lento’ per la situazione causata dall’instabilità globale. E il menswear sembra risentirne in modo particolare», dice Alberto Candiani, co-founder di TRC, brand sportychic maschile alla terza stagione. «Nonostante ciò, ci sono opportunità per chi vuole emergere, perché, come in ogni crisi, c’è un piccolo spazio in cui inserirsi», continua spiegando come il marchio, benché all’inizio, già riscuota risultati commerciali positivi presso il Candiani Corner di piazza Mentana, a Milano. TRC è nato dalla collaborazione tra due esperte aziende tessili italianeCandiani Denim, azienda produttrice di denim premium fondata 80 anni fa, di cui Alberto è proprietario di quarta generazione - e Grassi, specialista nel workwear e nei tessuti tecnici che ha appena spento 100 candeline. Candiani ha voluto riscoprire le origini della sua azienda nata nel 1938 come produttrice d’abbigliamento da lavoro, quando si chiamava TRC-Tessitura Robecchetto Candiani, come la cittadina dove ha sede. Ha realizzato il progetto in partnership con l’amico Roberto Grassi, per onorare l’heritage delle due aziende e i loro know-how.Tra artigianalità e gusto urban, ogni capo segue un’estetica moderna che unisce l’esperienza dei due player all’innovazione. Offre giacche boxy con cappuccio, utility top con dettagli in tessuto rip-stop e pantaloni 5-tasche loose. Cargo pant con coulisse alla caviglia, cargo short, gilet multitasca e ampie camicie completano l’offerta: «Per la SS2026 abbiamo usato i tessuti “più workwear” e “meno denim” di Candiani, elaborando capi ad alta funzionalità. Sono stati mixati tessuti cotonieri e materiali tecnici», racconta l’imprenditore. Tra le novità i jersey, i pesi leggeri e i trattamenti su capo. Alcuni 5-tasche sono in denim cimosato, il top di gamma fra le tele denim, reinterpretate in toni sabbia con effetti vintage, oltre a tinture soft dal mood estivo. L’attenzione all’ambiente è un elemento chiave per TRC, che usa cotone rigenerativo, cioè coltivato secondo tecniche che migliorano la qualità del suolo per mitigare il cambiamento climatico. (m.c.p.)

TRC
ROY ROGER’S WORKWEAR
RAG&BONE
REPLAY
CAPOBIANCO
MANTO ITALIA

Il pantalone espressione di un equilibrio armonico

MASSIMO GIANFRATE DIRETTORE CREATIVO BERWICH

«Il fit perfetto? È una questione soggettiva»

A tu per tu con Massimo Gianfrate, direttore creativo del marchio pugliese di pantaloni di alta gamma. Presente in 600 multimarca e in un monomarca in via Manzoni a Milano, Berwich ha raggiunto ricavi pari a 13 milioni nel 2024, anno in cui ha investito molto sul servizio (soprattutto sul Never Out of Stock) e sullo sviluppo della donna, che oggi rappresenta il 20% del business. Recente la nomina Mario Stefano Maran a direttore commerciale e marketing: la sua missione sarà rafforzare il posizionamento nel luxury tailoring.

Nel pantalone maschile cosa si può ancora inventare?

Per quanto ci riguarda, mi viene da citare la capsule Enfasi, che debutta con la SS26 e punta su un equilibrio armonico tra volumi ampi e modellistiche raffinate in tessuti fluidi, dal popeline di lana superfine al lyocell. Importanti i dettagli heritage rivisti in chiave contemporanea: pince profonde, passanti larghi, giochi di taschini e pattine.

Qual è il vostro cliente tipo e che valore dà al prezzo?

Si tratta di clienti altospendenti fra i 30 e i 55 anni. Un pubblico che sa riconoscere e capire il valore culturale ed estetico del vestire bene. La nostra fascia prezzi? Tra i 200 e i 500 euro, cifre che riflettono l’eccellenza manifatturiera e la ricerca sui capi. Vi state aprendo a nuovi segmenti? ll target dell’utente fidelizzato al brand resta invariato, ma con lo sviluppo delle capsule ci affacciamo a nuove fasce d’età, che dimostrano un rinnovato interesse per l’eleganza, lontana dalle silhouette skinny.

Come si ottiene il fit perfetto?

Non è un’idea assoluta: è tale quando, una volta indossato da qualcuno con il fisico che avevi immaginato in fase di progettazione, funziona esattamente come lo avevi pensato.

BERWICH
ALBERTO
MANUEL RITZ

T-shirt e polo dove l’utility incontra la creatività

MENNILLO FONDATORE E DIRETTORE CREATIVO

VM ART «Le mie T-shirt sono messaggi da portare nel mondo»

Menti curiose, giovani fuori e dentro, ribelli gentili: sono loro i destinatari delle VM-shirt di Vincenzo Mennillo, creativo a tutto tondo che definisce questo progetto «la mia vita. Niente a che vedere con il merchandisedice -. Le VM-shirt nascono da un’urgenza artistica. In un mercato saturo servono contenuti e visione. Ogni collezione è curata come una mostra: concept, storytelling e palette seguono un filo concettuale, che inizia dall’arte e arriva al prodotto finito». Tutto parte nel 2002 da un personaggio autobiografico, M€uro (Me+Euro), «un essere che può esistere solo attraverso il consumo, icona tragicomica della nostra società». M€uro accompagna Mennillo negli anni successivi: è al centro dei suoi disegni, fatti su materiali di recupero come le mattonelle della ristrutturazione di casa sua, delle sue aspirazioni (vuole farne una versione animata) e a un certo punto trova una fidanzata, Miss Dollarina. Intanto Vincenzo si dedica all’architettura e al design, viaggia ed è a Shanghai che nel 2016, in seguito a un incontro con un amico, decide di far uscire M€uro nel mondo, stampandolo su T-shirt «dove ogni grafica è un messaggio, spesso provocatorio o surreale, e un capo è un’opera d’arte viva». Una fonte di ispirazione è Keith Haring: «E’ come se io scrivessi e lui disegnasse». In questo progetto Mennillo è tutto - fondatore, direttore creativo, illustratore -, ma la sua attività si nutre di continue collaborazioni e contaminazioni. Ultimamente ha iniziato a costruire intorno a VM-shirt una rete più strutturata, instaurando intese con agenzie pubblicitarie in Olanda, Portogallo e Italia e avvalendosi di team dedicati a web, logistica e rapporti con fornitori in grado di garantire sostenibilità e trasparenza. L’idea è che VM-shirt diventi il centro di una community estesa e di collaborazioni internazionali. «Nel frattempo - concludemi immagino anche in giro per il mondo a realizzare su edifici, muri e tetti i graffiti di M€uroland, trasformando i paesaggi urbani in una voce condivisa di pace e amore».

CONTE OF FLORENCE
VM-SHIRT
HARMONT & BLAINE
VINCENZO

LEGOR: METALLI PREZIOSI E NON PREZIOSI SI TRASFORMANO PER INNOVARE

L’innovazione, alimentata da costanti investimenti in ricerca e sviluppo, come strumento per fare di una criticità un’opportunità di crescita per il settore e l’intera filiera

Mantenere l’eccellenza estetica e qualitativa, contenendo i costi e garantendo sostenibilità economica e ambientale: questo il terreno di gioco in cui si muove Legor - Società Benefit che dal 1979 trasforma i metalli in leghe, polveri e soluzioni galvaniche di eccellenza per la produzione di gioielli e accessori moda - per continuare a valorizzare l’oro, da sempre simbolo di valore, bellezza e status, in un contesto di mercato dove il prezzo in costante crescita impone all’industria della moda e del lusso una riflessione strategica. Non solo. Per assicurare una produzione etica e sostenibile, Legor ha deciso di utilizzare, per la realizzazione dei propri prodotti, soltanto metalli preziosi da fonti 100% riciclate e di poterlo dichiarare grazie a certificazioni di terze parti, come RJC - Responsible Jewellery Council. Inoltre, grazie a una partnership nel settore del recupero e affinazione dei metalli preziosi, continua il suo percorso verso il controllo della filiera di approvvigionamento di materiali preziosi, garantendone la provenienza al 100% da economia circolare e fonti riciclate.

Una sfida, quella di rispondere alla richiesta di eccellenza tecnica con un impatto ambientale ridotto, che si traduce in una gamma completa di leghe per Oro a bassa caratura per gioielli e di soluzioni galvaniche che permettono di ottimizzare l’uso dei metalli preziosi nei depositi degli accessori moda, come risposta concreta e responsabile di Legor, che è pronta con un portafoglio di soluzioni tecniche all’altezza della situazione, senza rinunciare a qualità e valore estetico.

L’approccio è innanzitutto tecnologico, in quanto le leghe per basse carature - a partire dal 9kt (375) - offrono vantaggi concreti e misurabili: dal minore contenuto d’oro, quindi minore costo complessivo del metallo prezioso, all’ottima lavorabilità, sino alla brillantezza e stabilità dei colori e alle eccellenti proprietà meccaniche. Mentre, per quanto riguarda le soluzioni galvaniche, Legor ha studiato specifici processi sviluppati per ridurre gli spessori dei depositi galvanici di oro, ridurre le percentuali di oro nei bagni galvanici e proteggere gli strati esterni con vernici e-coating trasparenti o colorate.

L’approccio è anche sistemico: attraverso l’integrazione delle attività di recupero, affinazione e riutilizzo dei metalli preziosi – in sinergia con i servizi offerte dall’acquisita Refimet e da Valmet (di cui Legor detiene il 60% delle quote) – infatti, viene promossa una circolarità concreta, tracciabile e trasparente, che mira a promuovere un futuro più responsabile nell’industria del lusso. Per arrivare a questo, forte dell’esperienza quarantennale nel settore, Legor si è trasformato da produttore specializzato in leghe e soluzioni galvaniche per gioielli e accessori moda a fornitore di soluzioni integrate per l’intera filiera dei metalli preziosi. Rispetto a quarant’anni fa, oggi l’offerta è più ampia e include servizi come affinazione, recupero e consulenza tecnica; è inoltre aumentata la capacità di innovazione, grazie a investimenti in R&D e additive manufacturing (stampa 3D in metallo con tecnologia Binder Jet) ed è centrale, nei valori aziendali, il concetto di filiera corta, tracciabile e controllata, dove Legor si pone come partner a 360° per il cliente: dalla materia prima al prodotto finito e alla sua rigenerazione.

Le calzature tra contaminazioni e back to classic

ENTERPRISE JAPAN

BARRACUDA

FLOWER MOUNTAIN

D.A.T.E.

VALSPORT

CARLOTTA MAZZA

SALES & MARKETING DIRECTOR PREMIATA

«Con il nostro progetto ibrido abbattiamo gli steccati»

Il brand Premiata corre su due binari paralleli e complementari: da un lato le sneaker - «Il cuore del nostro business», come precisa la Sales & Marketing director Carlotta Mazzae, dall’altro, le scarpe in cuoio, che appartengono al dna dell’azienda marchigiana. «La storia di Premiata comincia nel 1885 - racconta - proprio con le calzature in cuoio fatte a mano, che oggi camminano fianco a fianco con i modelli sportivi». «Non a caso stiamo investendo in un nuovo “progetto ibrido” completamente nuovo: sarà una sorpresa nella nostra offerta maschile», anticipa la manager, che non vuole rivelare molto, ma fornisce alcuni dettagli: «Troveremo un punto d’incontro tra le sneaker e la nostra “Prima Linea” uomo in cuoio, che rappresenta una proposta di eccellenza in un panorama sempre più omologato. Un prodotto che si ispirerà alle scarpe da lavoro degli anni ‘80, quando iniziarono a circolare i modelli con il puntale rinforzato che si riallacciavano agli anfibi punk dei primi anni ‘70». Decenni che saranno evocati più in generale nelle proposte per la SS26, con sneaker in pieno mood retro-running, accanto ai nuovi modelli in knit. Premiata sta inoltre potenziando l’abbigliamento e la donna. Lavori in corso, infine, per un nuovo quartier generale, che si troverà a Montecosaro, in provincia di Macerata, e ospiterà sia gli uffici che la produzione. L’inaugurazione potrebbe avvenire a inizio 2026, ma tutto è ancora da definire. «Sarà il fiore all’occhiello della nostra evoluzione», conclude Carlotta Mazza. Allo studio per l’azienda da 115 milioni di euro di fatturato, esposta per il 90% sul wholesale, un’espansione nel canale diretto.

VOILE BLANCHE
PREMIATA
4US PACIOTTI
LOTTO LEGGENDA

ARC’TERYX

GREENGEORGE

RICCARDO RIBOLLA CHIEF COMMERCIAL OFFICER E HEAD OF STYLE GROUPE RAUTUREAU

«Per No Name the best is yet to come»

NON SOLO SCARPE La borsa riscopre

l’heritage

Protagonista a Pitti, la collezione Davidoff punta sul dna di un marchio forte e sulla qualità delle materie prime. Nella foto, una weekender bag della Paris Collection, tributo allo charme e allo stile di una città la cui storia si intreccia da sempre con quella della moda.

Nel 1991, ben prima dell’attuale ondata di brand indipendenti di sneaker, la famiglia francese Rautureau lanciava il brand No Name. «Il primo modello iconico aveva un plateau di 4-5 centimetri, che dava alla donna una nuova prospettiva sulla moda: più alta, audace e libera», racconta il chief commercial officer e head of style del gruppo Rautureau Riccardo Ribolla, aggiungendo che «ancora oggi questa firma estetica si ritrova nella maggior parte delle collezioni, con l’inconfondibile suola alveolare». Nel 2024 sono state vendute 350mila paia e l’obiettivo per il 2025 è superare le 400mila, con un prezzo medio sell-in di circa 50 euro. «L’anno scorso - prosegue Ribolla - abbiamo consolidato l’export, che rappresenta il 55% del fatturato e vede l’Italia tra le aree chiave, e strutturato il team in un’ottica di crescita. Siamo attivi in tutta Europa, con passi avanti in mercati come Benelux e Germania e l’imminente ingresso in Grecia, Cipro e Polonia. Stiamo inoltre potenziando la presenza in Giappone e ci prepariamo ad aumentarla in Cina con una piattaforma a Hong Kong. Come si suol dire, the best is yet to come». Il manager ha idee precise sul settore delle sneaker, che nel 2024 ha superato i 75 miliardi di dollari e punta ai 100 miliardi entro il 2026: «Bisogna puntare su una visione chiara, un posizionamento coerente e un prodotto che fa la differenza». No Name investe su tre asset: «Innovazione, messaggio forte e leggibile e correttezza, ossia garantire un’esperienza stilistica responsabile, funzionale ed economicamente giusta». Tra i modelli clou della SS26 Carter 2.0 Tech (evoluzione del best seller del brand), Willo Protect (urban con anima outdoor) e Tyler, ispirato al tennis e con l’iconica suola alveolare.

BALDININI
TOD’S
FABI

Il Pungetti-pensiero? Nessun clamore, a parlare è il prodotto

Oggi l'Italia è diventata famosa per l'abbigliamento sportivo.

Una star del settore è Alessandro Pungetti. Dopo 20 anni al servizio di C. P. Company, ora è responsabile del design del progetto di lusso Ten C. Lo abbiamo incontrato nel suo studio a Bologna

Un loft illuminato dal sole. Soffitti alti. Stanze ariose. E poi l'archivio. Due piani. Montagne di tessuti. Scatole da cui fuoriescono filati. Cartelle piene di dettagli sui prodotti e schizzi. File di appendiabiti su cui sono appesi parka, giacche militari, varianti di aviator, carcoat e blouson Harrington di decenni gloriosi. Ben 4mila capi. I gioielli della corona dell'abbigliamento sportivo di provenienza italiana. Benvenuti nel regno di Alessandro Pungetti

Su un appendiabiti Pungetti ha raccolto una dozzina dei suoi capi preferiti. Uno dopo l'altro, li tira fuori e li spiega nei minimi dettagli. Vestibilità, occhielli, materiali. Sembra un bibliotecario che parla con entusiasmo delle sue letture più belle: leggete Dante, leggete Goldoni, allora capirete il mondo. Pungetti è un gigante nel suo campo. E un gigante anche per la modestia con cui porta questo ruolo: «Non ho mai cercato le luci della ribalta». Nemmeno quelle di Instagram

«La scelta di creare prodotti destinati a durare nel tempo continua a convincerci»

Alessandro Pungetti

I grandi creativi dell'abbigliamento sportivo italiano sono sempre rimasti nascosti dietro marchi prestigiosi. Invisibili, ma così importanti. È presuntuoso paragonarli a Giorgio Armani, il profeta del buon gusto nell'Italia degli anni '80? A Miuccia Prada, figura di spicco dell'avanguardia? A Nino Cerruti, Gianni Versace e altre icone del Made in Italy? L'abbigliamento sportivo all'italiana ha

segnato epoche. Tutto inizia con Massimo Osti. Osti, il genio. Morto troppo presto, nell'estate del 2005. Senza di lui non ci sarebbe stata C.P. Company Senza di lui non ci sarebbe stata Stone Island. Osti li ha lanciati. Bologna, la vivace città della cultura, ha offerto a lui e poi ad altri il palcoscenico per promuo-

vere più sperimentazione, più innovazione tecnica e nuovi codici stilistici nella moda. Questo avrebbe influenzato generazioni. Pungetti afferma: «Massimo Osti ha liberato l'abbigliamento sportivo in Italia. Prima di lui non c'era nulla». Dopo sì. La gioventù edonista, soprattutto maschile, inizia ad appassionarsi a questa estetica così fresca e moderna e a metterla in mostra. Ci si incontra al bar dei panini: Milano diventa il palcoscenico di una nuova sottocultura, quella dei paninari. Indossano felpe dai motivi stravaganti, abbinandole a giacche a vento colorate e dall'aspetto tecnico, in netta contrapposizione al look trasandato dei capelloni degli anni Settanta.

La tendenza continua. I tifosi di calcio britannici che vengono in Italia e quelli che fanno il percorso opposto verso l'Inghilterra alimentano la popolarità della nuova identità. Sugli spalti di tutto il mondo Stone Island e C.P. Company godono ancora oggi di uno status Vip. Nel frattempo i loro proprietari sono cambiati e i marchi si sono espansi. Moncler ha acquisito Stone Island. C.P. Company fa parte della Tristate Holdings Limited di Hong Kong. I loro artefici, creativi dietro le quinte, hanno forgiato simboli della cultura urbana. Abbigliamento maschile all'avanguardia, per andare al lavoro, in bicicletta, in scooter, allo stadio, in discoteca.

Sempre al centro lui, Alessandro Pungetti. Nel Duemila assume la direzione creativa di C. P. Company. Alle spalle ha diverse esperienze, tra cui Stone Island. Rimane per più di due decenni. Al suo fianco, Paul Harvey. Anche lui, ex designer di Stone Island, rimane per quasi due decenni. Un duo affiatato. Fratelli nello spirito.

Ten C diventa il loro progetto del cuore, fondato nel 2010 in aggiunta a C.P. Company. Abbigliamento esterno di lusso. Senza compromessi. Enzo Fusco di Fgf Industry gestisce la distribuzione. Harvey si ritira dopo i primi anni. Da allora il design è affidato a Pungetti. Branding sottile. Nessun clamore. Solo il prodotto: «Pensando a persone il cui senso dello stile va oltre le tendenze». Pungetti si considera al passo con i tempi. Ci parla di clienti sensibili, del nuovo potere proveniente dall'Asia e sa rispondere anche alla domanda su cosa renda così romantici i tessuti tinti in pezza.

Il business della moda sembra rallentato e frena la propensione al consumo. Anche il lusso e l'alta moda hanno perso slancio. Qual è la sua sensazione?

Quello che noto, come spesso accade in periodi come questo, è che le persone valutano con più attenzione le proprie spese. Lo shopping irrazionale e dettato dal momento continua a esistere ma, in generale, la moda si sta allontanando dal consumo effimero e non è storia di oggi. Il valore e la qualità duratura sono percepiti come più importanti.

sviluppo di qualità eccezionali a determinare se un capo rimarrà intramontabile. Ten C è un prodotto prezioso. Ha il suo prezzo. Vorrei che chi acquista i nostri capi si sentisse a proprio agio in ciò che indossa. E penso che i nostri tessuti, in particolare l'OJJ, un jersey di produzione giapponese, rendano questo possibile.

Qual è il segreto?

Lavoriamo con il jersey interlock in poliestere e nylon. Prima tingiamo i tessuti e poi, con l'obiettivo di rendere il materiale più fine, tingiamo il capo finito. Questo si traduce in una qualità più compatta. Il prodotto sviluppa caratteristiche fantastiche. Quando è umido, diventa molto morbido. Al contrario, quando è asciutto, tende a diventare duro e compatto. Mi piace questa certa rigidità iniziale, che però si perde con l'uso: il tessuto si ammorbidisce e si adatta al corpo. Tutto questo è molto affascinante.

Parliamo dell'Asia: è considerata la culla dell'innovazione...

Assolutamente. Il Giappone continua ad avere un'influenza enorme e la Corea del Sud non è da meno. La scena creativa di entrambi i Paesi ha un occhio attento ai dettagli, un senso della tecnologia e un ottimo gusto per i tagli e le proporzioni. Anche i nostri prodotti sono convincenti. L'immagine complessiva è più minimalista e rigorosa. Un trend, del resto, già anticipato da Jil Sander, Prada e Watanabe negli anni '90. Tutto questo è vicino al nostro modo di pensare.

E la Cina? Sembra molto più di un semplice banco di lavoro... Se i cinesi sono in grado di costruire automobili e di competere con noi in questo settore, non sarà diverso nel campo della moda. La produzione di un'auto è un po' più complessa di quella di una giacca. Alcuni nomi noti di origine occidentale sono oggi sotto la guida cinese. Penso ad Amer Sports con Arc'teryx e Veilance. Oppure alla stessa C.P. Company. A Soho, New York, Urban Revivo, concorrente cinese di Zara, ha aperto un negozio di 30mila metri quadrati. Ci sono alcuni gruppi molto potenti in arrivo.

Sente che la sua visione oggi trova un riscontro sul mercato?

Con Ten C ci rivolgiamo a una nicchia. La scelta di creare prodotti destinati a durare nel tempo continua a convincerci. Del resto, questo è sempre stato il mio modo di pensare, anche quando ero in C.P. Company. Capispalla dal design accattivante e funzionali: una combinazione che ritengo vincente ieri come oggi, al di là di qualsiasi trend.

Si sente più uno stilista o un ingegnere?

Probabilmente entrambe le cose. Certo, le prestazioni e il fascino dei tessuti mi stimolano. Penso che sia soprattutto lo

Il mondo di Ten C si basa su un concetto di fascino senza tempo, ma richiede input e idee. Dove le trova? Il mio archivio è il mio nucleo. Non ho bisogno di molto altro. Guardo cosa c'è e penso ai prossimi passi, tecnici e stilistici. La rivista Hypebeast è fonte di ispirazione e così Highsnobiety: vale la pena di dare un'occhiata ogni tanto, tutto qui.

Che tipo di negozi preferisce?

Vado poco in quelli della moda, per lo meno non per trovare idee. Se lo faccio, li cerco al di fuori di questo mondo. Ce ne sono alcuni che mi piacciono».

Quali?

Non credo sarebbe carino metterli in evidenza.

La Cina sta anche aprendo la strada a prodotti incredibilmente economici. Ma non mancano le lamentele. Alcuni marchi affermati che producono lì, soprattutto nell'abbigliamento sportivo, si differenziano sempre meno in termini di stile. Solo nel prezzo si fanno concorrenza a vicenda. Sì, si avverte molta pressione. Cè poco spazio nella catena di fornitura per distribuire i costi crescenti e questo va a scapito della creatività. Però ce n'è bisogno. A meno che non si possegga un marchio che eccelle su tutti. Ma chi ce l'ha? La differenziazione è fondamentale. Blauer, che appartiene allo stesso gruppo di Ten C, sembra riuscirci piuttosto bene. Si fa portavoce di uno stile che si distingue e che piace soprattutto alla comunità dei giovani. Alcuni "colleghi" pure. Ma è chiaro che Ten C gioca su un livello com-

Alcuni capi iconici di C.P. Company, dove Pungetti è entrato come direttore creativo nel Duemila, rimanendo in carica per due decenni

pletamente diverso in termini di eccellenza del prodotto e struttura dei prezzi. Noi produciamo in Italia. Con giacche a partire da 1.000 euro in su, serviamo una nicchia di intenditori di tutto il mondo. Essere convincenti non è affatto scontato. Ma noi ci crediamo.

Manipolate i tessuti, li lavate, levigate, tingete, rivestite, spruzzate, combinate fibre altamente innovative per creare prodotti dall'aspetto interessante. Allo stesso tempo, siete considerati coloro che hanno rivoluzionato lo stile dell'abbigliamento sportivo. Tutto affonda le radici nel mio ingresso in C.P. Company, all'inizio degli anni 2000. Quando Carlo Rivetti, allora proprietario del marchio, mi ha chiesto di occuparmi del design, mi è stato subito chiaro che dovevamo aggiungere più modernità al look, pur mantenendo i tessuti al centro. Iniziava allora una nuova era dell'abbigliamento maschile all'avanguardia.

Di cosa si sentiva il bisogno?

All'epoca nell'abbigliamento sportivo dominavano forme oversize. Nel design lo stile era caratterizzato dal vintage e dall'autenticità. Ma i tempi stavano cambiando. C'era più ritmo, lo sport e il fitness erano diventati simboli di uno spirito moderno e la moda era onnipresente nella realtà urbana dei nostri clienti. Io stesso avevo alle spalle esperienze di Iceberg, Moschino, Zegna, Cruciani e molti altri marchi per cui avevo lavorato. Era chiaro che anche l'abbigliamento sportivo aveva bisogno di un'estetica più fresca.

Con una maggiore attenzione alla forma dei capi e ai particolari?

Sì, soprattutto questo, con un pizzico di aggressività in più. Nelle cerniere, nei bottoni, nelle tasche, nelle cuciture. Alcuni definivano tutto ciò rivoluzionario. Ok. Ora siamo tornati a forme più tradizionali. Come creativo, devi sempre avere presente il contesto in cui ti muovi. Tuttavia, mi sono sempre sentito più legato al design che alla moda. La moda è effimera. Io voglio qualcosa che duri nel tempo.

La variazione nella continuità, la ricerca del guardaroba perfetto: l'antitesi del fast fashion...

Mi viene da pensare alla fiaba "I vestiti nuovi dell'imperatore". L'idea alla base della creazione di un marchio come Ten C è tutt'altro: abbiamo scelto di apprezzare i prodotti che rimangono fedeli a se stessi, liberi dalle oscillazioni della moda, che abbracciano chi li indossa, invecchiano con lui e non perdono mai la loro attualità. Il fast fashion è un altro pianeta.

Lei non è un fan delle tendenze, ma parliamo di Zeitgeist, spirito del tempo. Come spiega il revival dello stile britannico? Barbour, Baracuta e altri marchi di questo genere godono di grande popolarità. Ho lavorato per Baracuta per sette anni. I codici del brand dunque non mi sono affatto estranei. Penso che sia chiaro perché uno stile come questo sia così popolare nella fase attuale. I prodotti sono molto funzionali. Si possono indossare in più stagioni, praticamente tutto l'anno e questo piace ai clienti. I materiali

naturali suggeriscono un legame con la campagna e i suoi stili di vita. La mente va allora ai paesaggi della Gran Bretagna, all'immagine di una vita tranquilla. Questa associazione di idee e i desideri che ne derivano sono sicuramente molto attuali, vista la realtà sempre più virtuale e digitalizzata in cui viviamo.

Questo contesto in che modo può influire sul suo lavoro per Ten C? Si adatta all'aspetto tecnico dell'abbigliamento maschile "progressista" che lei preferisce?

Anche la tecnologia può trasmettere un'idea di sensualità. Il processo di tintura in capo conferisce calore ai tessuti. Sembrano “già indossati”. Mi baso da sempre su questa idea, cercando di cogliere l'aspetto "romantico" insito nella tecnologia. Sono coerente in quello che faccio. Il mio intento è stato fin dagli inizi, e anche ora, quello di trasformare la tradizione. Se non sei il detentore di questa tradizione, come Barbour, devi reinventarne l'immagine. Nella nuova collezione Ten C si ritrova un'idea di stile britannico, questo posso dirlo. Ma interpretata dal mio punto di vista.

Può dirci qualcosa di più?

L'impressione sarà più pulita, direi metallica: nylon canvas, poche cuciture o addirittura nessuna. Ma la realizzazione dei capi è tutt'altro che banale, soprattutto quando si parla del total look, che coltiviamo sempre di più. Ci stiamo ancora lavorando ■

MICHAEL WERNER

Lo stile di Ten C: funzionale, ma con una buona dose di creatività, made in Italy e destinato a intenditori di tutto il mondo

Il formale alla scoperta dell'infotainment

Il settore dell’abbigliamento formale fatica ancora a dare ai propri prodotti un tocco narrativo accattivante.Vitale Barberis Canonico e Digel vogliono trasmettere un segnale di cambiamento con un evento speciale a Pitti Uomo, all'insegna della multisensorialità

Un modello di Digel Move realizzato con Wool.X, tessuto di Vitale Barberis Canonico in 98% lana con una piccola percentuale di elastam

Un tour nella fabbrica di Vitale Barberis Canonico è come un viaggio nel tempo, che inizia nel passato e conduce al futuro. Su diversi pannelli appesi alle pareti viene raccontata la storia dell’azienda tessile, le cui origini risalgono al 1663 e che oggi è gestita dalla tredicesima generazione composta da Alessandro, Francesco e Lucia e fa parte dell’illustre circolo Les Hénokiens, aziende che da almeno 200 anni vedono la famiglia fondatrice detenere la maggioranza. Ma la fabbrica non ha nulla di museale. Chi passa in rassegna le singole fasi, dalla pulizia della lana alla filatura, fino a orditura, tessitura e finissaggio, rimane stupito dalla modernità dei macchinari. I telai sono racchiusi in cabine che assorbono il rumore. Nel magazzino le bobine di lana sono conservate in cestini di metallo. Trasloelevatori sfrecciano tra le file, afferrano i cestini e li posizionano su un nastro trasportatore. Potrebbe ricordare Apple o Amazon. Alta tecnologia a Biella

La visita alla Vitale Barberis Canonico è un’esperienza che può essere comunicata in modo eccellente attraverso testi, immagini e video. Ma, a differenza dei grandi marchi di lusso e sportivi, abituati a narrazioni coinvolgenti e orchestrate con cura, le aziende di abbigliamento formale come Vitale Barberis Canonico hanno ancora difficoltà a raggiungere il cliente finale con il loro storytelling.

Per ribaltare questa situazione, Vitale Barberis Canonico ha stretto una collaborazione con Digel, sviluppando Wool.X, un tessuto in lana ed elastam utilizzato nella linea giovane Digel Move, realizzata dallo specialista del tailoring con sede a Nagold, nella Foresta Nera. Grazie all’effetto stretch, il risultato è un abito da viaggio ideale: comodo, non si sgualcisce e può essere lavato in lavatrice.

Vitale Barberis Canonico e Digel presentano tutte queste caratteristiche alla 108esima edizione di Pitti Uomo, invitando buyer e stampa il 17 giugno sulla terrazza panoramica del Grand Hotel Baglioni a Firenze per un Rooftop Party. «Il nostro settore parla troppo poco del prodotto ed è un grave errore - afferma Michael Bischof, presidente del consiglio di sorveglianza di Digel -. Chi ha un prodotto bello come il nostro deve parlarne. Di che tessuto è fatto? Da dove arriva questo tessuto? Come viene prodotto? Il personale di vendita può poi trasmettere tutte queste informazioni al cliente, basandosi su un fantastico infotainment». L’aspetto interessante dell’incontro tra Digel Move e Vitale Barberis Canonico è il «contrasto», afferma Bischof: «Da un lato c’è Digel Move, una linea che si rivolge a

una clientela amante della moda, che desidera vestirsi in modo moderno ma elegante. Dall’altro Vitale Barberis Canonico, un’azienda da secoli sinonimo di artigianato. Trovo questo contrasto davvero sexy». È fine aprile e il presidente del consiglio di sorveglianza di Digel si recano a Pratrivero con il direttore creativo Ralf Kammerer, per visitare lo stabilimento di Vitale Barberis Canonico. I due sono seduti su un divano in pelle nella sala di ricevimento insieme al ceo di VBC, Alessandro Barberis Canonico. Nella stanza si respira un’atmosfera da club per gentiluomini. Sparse sul tavolo riviste come The Rake, Monsieur

«Il nostro settore parla troppo poco del prodotto. Ritengo che questo sia un grave errore. Chi ha un prodotto bello come il nostro deve raccontarlo»

Michael Bischof, presidente del consiglio di sorveglianza di Digel

e Monocle. Non mancano libri illustrati, che spaziano dalle automobili a Oscar Niemeyer e i tempi d'oro Hollywood. A catturare l'attenzione una foto incorniciata: un ritratto di re Carlo III e della regina Camilla, scattato da Mario Testino. Sotto l’immagine, tre righe di testo in caratteri piccoli e corsivi: «Sua Altezza Reale indossa un abito realizzato con il tessuto Revenge di Vitale Barberis Canonico».

I tre discutono per più di un'ora sul mercato. «La paura è estrema e c'è il rischio di una recessione globale», afferma Barberis Canonico. La situazione negli Usa? «Imprevedibile». La Cina? «Non si sta sviluppando come desiderato». Il lusso? «Per 20 anni è andato bene. Ora la tendenza si è arrestata». Le previsioni? Incerte: «Aspettiamo di vedere cosa succederà». Ci sono alcuni spiragli di luce, come la moda per la cerimonia e la produzione industriale su misura. Dal punto di vista della moda, alcuni temi hanno un potenziale da sviluppare. Come le overshirt o le field jacket, che sostituiscono la classica giacca. Anche i volumi stanno cambiando: «La tendenza è verso silhouette ampie», afferma il direttore creativo Kammerer. La partnership va a vantaggio sia di Vitale Barberis Canonico che di Digel. Attraverso Digel, VBC raggiunge i negozianti e anche il cliente finale. Per Digel, la collaborazione rappresenta un’opportunità per posizionarsi più in alto.

L’etichetta VBC è un «marchio di qualità», afferma Bischoff. Il marchio VBC è associato alla qualità e al know-how. «Abbiamo chiesto ai buyer di importanti rivenditori al dettaglio quale tessitura preferissero. La maggior parte di loro ha citato Vitale Barberis Canonico». È la seconda volta in breve che Digel e VBC collaborano. Digel ha lanciato nel 2024 la linea Platinum, che utilizza i tessuti superfini di Vitale Barberis Canonico e rappresenta il top di gamma, con prezzi al dettaglio per un abito di 599 euro in Germania e 649 euro in Italia. Con la gamma più affordable Wool.X Digel punta ora ad attirare un nuovo gruppo di clienti e a vendere quantità maggiori rispetto a Platinum. La sensazione al tatto è importante. Sfiorando Wool.X non si sente solo la morbidezza della lana, ma anche qualcosa di croccante, quasi friabile. Ralf Kammerer parla di un «tocco moderno»: «È molto diverso da tutti gli altri nostri prodotti, in particolare dai nostri articoli 150s». La festa a Firenze sarà un’esperienza multisensoriale, con gli ospiti invitati a toccare il tessuto e a prendersi il tempo necessario per raccogliere e descrivere le loro impressioni. Il consiglio? Chiudere gli occhi per qualche istante.

Durante i corsi di formazione della Fabric Academy, istituita nel 2014 da VBC per i dipendenti e i clienti, i partecipanti devono toccare con mano i tessuti, nascosti in piccole scatole. Il test alla cieca è un «trucco» per affinare i sensi, afferma il ceo di Vitale Barberis Canonico. Qualcosa che si potrebbe definire un cinema sensoriale. ■

TOBIAS BAYER
Alessandro Barberis Canonico, ceo di Vitale Barberis Canonico
Michael Bischof, presidente del consiglio di sorveglianza di Digel e Ralf Kammerer, direttore creativo del marchio

BRAND to WATCH

Founder Ivana Batakovic

Distribuzione Marcona 3 batakovic.com

BATAKOVIC BELGRADE

Lei si chiama Ivana Batakovic e viene da Belgrado. Con base a Milano, da quattro stagioni firma Batakovic Belgrade, una collezione luxury che, come dice lei stessa, si ispira al tailoring maschile attraverso una lente femminile. «Struttura e fluidità, potere e grazia» si intersecano e si arricchiscono a vicenda, dando vita a pezzi, soprattutto capispalla, che puntano su un'ottima vestibilità, per donare carisma e distinzione. Realizzata in Serbia con tessuti di pregio, tutti italiani, la linea ha iniziato il suo percorso wholesale in Italia (la si trova da Antonia, Vinicio, Di Vincenzo Boutique), ma sta riscontrando interesse anche in Svizzera, Francia, Medio Oriente e Cina. Con prezzi medi retail intorno ai 1.300 euro, il brand si appoggia alla showroom milanese Marcona 3, oltre a vendere direttamente dal proprio e-shop batakovic.com

Founder Roberto Corona

Distribuzione Mdc Showroom badatmath.shop

BAD AT MATH

Il brand è nato nel 2020, quando Roberto Corona lavorava come stylist negli Usa. Cercava un accessorio particolare e, visto che non riusciva a trovarlo, se lo è fatto da solo. Bad at Math è nato così, ma con un'identità chiara sin dall'inizio: pop, ironica, fuori dagli schemi. «In un mondo in cui tutto deve tornare, come in matematica, io preferisco quando qualcosa stona al punto giusto. Il mio motto? - dice il designer -. Sono qui per creare, non per quadrare». A distanza di cinque anni, le borse con le perline in silicone sono vendute sull'e-shop del brand e in negozi come Deliberti a Napoli, Level Shoes a Dubai, Ships a Tokyo, Esmeranda a Portocervo, Zoe a Pietrasanta e Rebelle a Osaka, tramite la showroom Mdc a Milano. I prezzi retail: da 80 euro per un portacarte fino a 400 euro per le borse più elaborate.

AMARÁNTO

Founder GGZ (famiglia Zanchi)

Distribuzione Alessandro Squarzi, Icona amarantobrand.it

Amaránto è l'ultimo nato in casa GGZ, realtà di Pozzonovo (Pd) nata nel 1968 come produttrice conto terzi di maglieria e abbigliamento. Gestita dalla famiglia Zanchi, l'azienda nel tempo ha capitalizzato la sua expertise con lo sviluppo di brand in house: Vicolo nel 1992, Solotre nel 2015 e Vicolo Girl nel 2019. Nel 2021 è stata appunto la volta di Amaránto: la prima collezione di menswear per la realtà veneta, che sceglie di scommettere su colori vibranti, un gusto a cavallo tra streetwear e high-end, materiali di qualità e una distribuzione selezionata. A oggi la linea è presente in top shop come Nugnes 1920, Maximilian, Ratti, Tessabit e Divo, con prezzi medi retail intorno ai 250 euro. Showroom di riferimento sono Alessandro Squarzi e Icona

Founder Denisa Rad

Distribuzione diretta denisarad.com

Founder Will Wang

Distribuzione diretta evenrealities.com

EVEN REALITIES

Will Wang ha fatto tanta strada per arrivare a creare il suo brand Even Realities: prima l'incarico in Apple (dove ha lavorato allo sviluppo di prodotti iconici come iPhone) e in Apple Watch, poi in Anker e Oppo e infine da Imgo. Nel 2023 il lancio dei suoi smart glasses e l'arrivo, nel giugno 2024, di Even G1, un modello per l'utilizzo quotidiano che unisce tecnologia e comfort, «andando oltre gli ingombranti occhiali intelligenti». Tante le funzioni, tra cui tradurre instantaneamente in 22 lingue, ottenere indicazioni stradali, avere supporto in tempo reale per discorsi e presentazioni. Con un prezzo base di 699 euro, Even G1 ha già conquistato oltre 300 negozi di ottica in Europa. In Italia è presente in 22 store come Lipari, Oonconventional e Occhial House a Milano e Ottica La Fege a Roma. Attivo anche l'e-commerce evenrealities.com

DENISA RAD

Il marchio Denisa Rad è una primizia. Il womenswear per la FW2026 ha debuttato alla fashion week milanese di febbraio, puntando su un'estetica che riecheggia il bon ton degli anni Sessanta con linee ad "A" e tessuti bouclé, ma con modellature e dettagli adatti per la Gen Z. Diplomata alla NabaAccademia di Belle Arti nel 2022, Denisa ha deciso di scendere in campo en solitaire, vendendo la collezione direttamente su denisarad.com, con l'idea di proseguire successivamente con un percorso wholesale, posizionando il prodotto nei negozi che credono in un progetto «di qualità e sostenibile». Il marchio punta infatti su «una moda durevole, che faciliti il riciclo e il riutilizzo» e promuove attivamente la cura e la manutenzione dei capi. I prezzi retail sono compresi tra i 250 e i 900 euro.

RUE MADAM PARIS

Founder Davide Peretti e Mattia Beltramello

Distribuzione Wivian's Factory ruemadam.it

Quando, nel 2018, Davide Peretti e Mattia Beltramello scendono in pista con il loro brand, dopo esperienze diverse nel settore moda, hanno un'idea ben precisa: rompere gli schemi e portare freschezza nel mondo degli accessori. Un progetto affidato a Rue Madam Paris, sinonimo di borse che puntano su raffinatezza alla francese e manifattura italiana, ma anche di altre categorie come il beauty, ora disponibile su ruemadam.it. A partire dalla SS25 il brand di Castelnuovo del Garda (Vr) fa un altro salto e amplia la rete distributiva con il coordinamento della showroom milanese Wivian's Factory e dei soci del gruppo Bolivox. Attualmente Rue Madam Paris è presente in circa 250 multibrand in Italia, 120 in Spagna e 120 in Portogallo, con partner come Five a Brescia, Maximilian a Bressanone, Le Follie a Verona e Bonavoglia a Reggio Calabria. I prezzi retail della SS25 vanno dai 51 ai 240 euro.

Founder Luca Micco

Distribuzione

Darlen, Mdc demiur.it

ANNAMARIAPALETTI

Founder Anna Maria Paletti

Distribuzione Dmvb

annamariapaletti.it

«Figlia d'arte, ma con una propria arte»: si definisce così Anna Maria Paletti, seconda generazione della realtà bresciana Giodue, fondata oltre 40 anni fa da Giovanni Paletti Il suo progetto parte nel 2023 dalla camiceria, core business dell'azienda, e di stagione in stagione si amplia, fino a includere capispalla, maglieria, gonne e pantaloni pensati per una donna che viaggia, lavora e cerca «capi di qualità, originali e funzionali». Le materie prime vengono lavorate da laboratori produttivi del distretto, il disegno delle stampe è spesso realizzato in esclusiva, i vari pezzi sono facilmente coordinabili tra loro. Con prezzi retail compresi fra 150 e 600 euro, la collezione ha intrapreso un percorso wholesale, con tappe, tra le altre, da La Rinascente e nei multimarca Ngf e Wise. La distribuzione è curata dalla showroom milanese Dmvb

DEMIUR

Demiur rappresenta la seconda avventura di Luca Micco. Nato e cresciuto a Moncalvo, nel Monferrato, è il designer che nel 2011 ha brevettato il metodo per applicare oro 24kt sui tessuti in maniera lavabile e indelebile. Un'invenzione che lo portò a lanciare il suo primo brand, Horo, ceduto nel 2017 a una holding italiana. Dopo aver collaborato con Etro ed essere diventato direttore creativo della Gallo Tessile (azienda produttrice di tessuti e capi in jersey di alta gamma per le griffe), ruolo che ricopre tuttora, Micco si concentra sulla creatività artigianale fatta di pezzi unici di Demiur, apprezzata non solo nell'atelier di Moncalvo ma anche in boutique e department store europei come Symbol in Ucraina, Avart a Lugano, Perlei in Austria, Bosco di Ciliegi e No One in Russia e in Usa, grazie all'intermediazione commerciale delle showroom Darlen e Mdc. Tra gli obiettivi anche quello di aprire un atelier a Milano con lo stesso concept made to measure. I prezzi retail vanno dai 350 ai 1.300 euro.

LE DAF

Founder Fernando Pezzuto

Distribuzione

Diretta dafdesign.it

Le borse di Le Daf prendono vita nel Salento, in un ex tabacchificio nella periferia barocca e vivace di Lecce. Fernando Pezzuto, fondatore del marchio, parla di un laboratorio immerso nella campagna dove «un team di artigiani sognatori si dedica anima e corpo» alla creazione di questi modelli fatti a mano, che vogliono essere in primis la testimonianza di «armonia nelle relazioni interpersonali e di un lavoro fatto con arte e passione». Dall'immagine gitana e un po' bohemienne, Le Daf hanno scelto vetrine come White Milano, Coterie New York e Cabana Miami per far conoscere la tradizione manifatturiera pugliese, e sono sbarcate in circa 150 multimarca tra Europa, America e Corea, oltre a essere vendute sull'e-shop dafdesign.it. I prezzi medi retail sono intorno ai 150 euro.

E«Il problema non è partire: la vera sfida è fra il terzo e il quinto anno. Lì arriviamo noi»

Edoardo Di Luzio racconta Underscore District, la holding che sostiene brand indipendenti come Magliano e GR10K e il multibrand store Wok, aiutandoli nel passaggio «da emergenti a qualcosa in più»

doardo Di Luzio ha capito presto che all’Italia della moda indipendente mancava qualcosa. Osservando le fashion week, ha notato come, nonostante la crescente attenzione ai nomi emergenti, mancassero strumenti per accompagnarli nel tempo. Tanta visibilità, sì, ma poco supporto concreto. Così nasce Underscore District: non un semplice investitore, ma un partner strategico che costruisce un ecosistema attorno ai brand, offrendo risorse operative, visione imprenditoriale e supporto costante. Oggi, con il suo team, Di Luzio affianca realtà come Magliano (dal 2022), GR10K (dal 2024) e il retailer milanese Wok Store, con un approccio pragmatico e rispettoso dell’identità creativa. La missione? Aiutare questi progetti a superare l’etichetta di “emergente” e diventare solide aziende. Perché, come sottolinea Di Luzio, la creatività non basta. «La vera sfida arriva tra il terzo e il quinto anno, quando bisogna ragionare come un’azienda».

Come vede oggi la scena dei newcomer in Italia?

In Italia c’è un vero hub di talenti. Tante realtà valide - come il Cnmi Fashion

«A Magliano diamo libertà espressiva, il resto lo gestiamo noi. Il commerciale ha un nuovo modello ibrido»

Edoardo Di Luzio, ceo e co-founder di Underscore District

Trust, di cui faccio parte - aiutano i giovani a emergere. Ma la vera sfida è strutturarsi fra il terzo e il quinto anno, quando l’entusiasmo iniziale svanisce e molti rischiano di fermarsi.

È qui che entra in gioco

Underscore District?

Esatto. Dopo dieci anni nella finanza, ho capito che molti brand hanno idee forti ma mancano di strumenti gestionali. Noi offriamo proprio questo: aiutiamo a costruire basi solide. All’inizio ci si muove sull’onda dell’entusiasmo, magari si entra in showroom, si raccolgono ordini, anche in quantità sproporzionata rispetto alle capacità produttive. È lì che i marchi iniziano a perdere slancio, perché prendono le decisioni sbagliate senza accorgersene.

Come scegliete i brand con cui lavorare?

Non incubiamo start-up. Interveniamo quando un marchio ha già una clientela e almeno un milione di fatturato. L’obiettivo è portarli a 5, 6, 7 milioni. Lavoriamo su produzione, logistica, gestione finanziaria, e-commerce, sempre rispettando la direzione creativa. Con Magliano, ad esempio, affianchiamo

Ph. Davide Frandi (dfphoto._)

Luca lasciandogli piena libertà espressiva. Il resto lo gestiamo noi.

Gestite anche la parte commerciale?

Preferiamo un modello ibrido, adattandoci a ogni mercato. Sempre con Magliano, il back office è gestito da 247, ci sono un agente americano esterno e un direttore commerciale interno. Non crediamo in un unica showroom globale: ogni mercato ha le sue esigenze.

Avete lavorato anche sulla filiera produttiva?

Abbiamo mantenuto Arcari e Co. come partner principale ma abbiamo ampliato la rete di fornitori, ad esempio per il denim. L’obiettivo è diversificare, senza compromettere la qualità.

Marchi come Magliano sono molto legati al wholesale. Come affrontate la crisi del canale?

Lavoriamo con una rete di store indipendenti molto varia, evitando la dipendenza dai grandi department store. Stiamo investendo sul direct-to-consumer e su progetti speciali, sempre coerenti con l’identità del brand.

Vale lo stesso per GR10K?

Sì. Collaboriamo con Slam Jam per la distribuzione e agenti selezionati. È un progetto unico in Italia e ci crediamo molto. I primi risultati si vedranno nei prossimi 18 mesi.

E per Wok Store?

Wok è un multibrand. Lo abbiamo acquisito nel 2022, in piena crisi del wholesale. In due anni abbiamo praticamente raddoppiato il fatturato, aperto un nuovo punto vendita e mantenuto il focus sulla ricerca. È stato il primo store italiano a proporre Jacquemus, per fare un esempio.

Cosa avete in programma per i prossimi mesi?

Stiamo affinando i criteri di selezione: niente investimenti troppo avventati. Puntiamo su marchi già strutturati, dotati di basi solide. L’obiettivo è farli crescere davvero, non conseguire turnaround rapidi.

Quindi puntate su brand con fatturati più alti rispetto al passato?

Sì. Passare da 1 a 3 milioni è spesso più complicato che da 3 a 10. Per questo vogliamo concentrare le risorse su realtà pronte al salto. Ma restiamo aperti a progetti promettenti, anche con numeri più piccoli.

È un buon momento per investire?

Non proprio. Poche le storie di crescita nell’ultimo anno. Nei prossimi mesi ci concentreremo sull’ottimizzazione interna. A fine 2025 valuteremo ulteriori inserimenti.

Il vostro è un progetto di lungo periodo?

Assolutamente sì. Non investiamo per tre anni per poi uscire. Vogliamo costruire alternative solide nel sistema moda. Nel caso mi chiedessero se sono intenzionato a lavorare con Magliano per 20 anni, la risposta sarebbe sì, senza alcun dubbio. ■

ANDREA BIGOZZI
Underscore District è un acceleratore di brand moda fondato da Edoardo Di Luzio nel 2022. Nato per supportare brand emergenti attraverso capitale e servizi strategici (e-commerce, marketing, finance), ha in portfolio i brand Magliano (in alto a sinistra), GR10K (in alto a destra) e il retailer Wok Store (sopra).

FENOMENO CORSA: PERCHÉ PIACE A TUTTI, ANCHE ALLA MODA

Courtesy of Satisfy
Ph. Will Jivcoff

Il mondo della corsa si è trasformato nel fenomeno più autentico e dirompente della moda contemporanea. Non più solo una nicchia per appassionati, ma una piattaforma culturale, dove performance e stile dialogano in modo nuovo. Resterà appannaggio degli specialisti o diventerà un’opportunità anche per il fashion system? La risposta passa dalla capacità di coniugare prodotto e distribuzione: da un lato il dtc, che racconta autenticità e connessione, e dall’altro il multimarca moda, che per essere rilevante deve accendere il desiderio senza perdere coerenza. Il futuro appartiene a chi saprà costruire un ecosistema reale, fatto di contenuti veri, relazioni e qualità tangibile

Nel 2024 il mercato globale delle scarpe da running ha raggiunto i 12 miliardi di euro, secondo un’analisi FiloBlu su dati Statista. Un dato sorprendente non solo per la sua entità, ma perché supera il fatturato complessivo della moda maschile italiana, fermo a 11,4 miliardi nello stesso anno. Non è un confronto diretto - si tratta di mondi diversi, non in competizione - ma il paragone è indicativo. Che una nicchia come le scarpe da corsa valga più di un intero guardaroba maschile dice molto sulle priorità dei consumatori. Oggi, soprattutto tra i più giovani, a guidare le scelte non sono più l’estetica o l’aspirazione, ma il significato e il senso di appartenenza. E le scarpe da running, con il loro carico simbolico e la forza delle community che le circondano, incarnano più di molte collezioni moda questa nuova direzione. Un’evoluzione che non si spiega solo con la forza dei grandi marchi, ma anche - e forse soprattutto - con l’emergere di nuovi player, capaci di interpretare la trasformazione culturale in atto. A guidare questa crescita - che potrebbe portare il segmento a sfiorare i 15 miliardi entro il 2029, con effetti anche sull’abbigliamento da corsa - non sono infatti solo

giganti come Nike e Adidas. A fare la differenza sono nomi come Salomon, Hoka, On, Satisfy, Bundit Running e Soar, nati perlopiù nei primi anni 2010. Marchi che hanno intuito prima degli altri un cambiamento profondo, proponendo la corsa come stile di vita, più che come attività sportiva. Offrono prodotti che uniscono performance e valori autentici, rispondendo a un bisogno crescente di benessere, cura di sé e connessione. Questo approccio - un passaggio dall’aspirazione alla rilevanza - è forse l’aspetto più interessante. Perché il mondo del running sta vincendo la sfida di riattivare il desiderio nei consumatori, spingendo sulla rilevanza culturale più che sul marketing superficiale.

Ma oggi anche il lusso inizia a seguire questa direzione. Come ha sottolineato David Fischer, founder e ceo di Highsnobiety, durante un evento di Cnmi e Zalando a Milano, «la percezione del settore lusso è cambiata negli ultimi cinque anni. Si cercano autenticità culturale, qualità tangibile e storie coinvolgenti, più che novità effimere». Il lusso sta dunque passando dal vendere un sogno all’abbracciare la realtà - un percorso che il mondo del running ha anticipato, trasformando un’attività individuale in un’esperienza culturale e col-

La corsa continuerà fino al 2029 (trainata dall'online)

Crescita per l’intero mercato (CAGR 2025–2029: +4%), trainata dal canale online (CAGR 2025–2029: +9,5%).

lettiva. I nuovi player del running, infatti, non puntano sull’esclusività, né sul prezzo come leva principale. Costruiscono invece un dialogo autentico con il consumatore, rafforzato dalla forza delle community. È il caso dei run club, cresciuti del 59% a livello globale secondo l’app fitness Strava. Queste community, aperte a runner amatoriali e professionisti, hanno trasformato la corsa in un’attività sociale, in cui anche lo stile personale e la narrazione individuale trovano spazio. È anche per questo che Fashion dedica al fenomeno un dossier speciale: dati, analisi e case study delle realtà più promettenti in un settore che da nicchia tecnica si è trasformato in paradigma culturale. Un’opportunità concreta anche per la distribuzione multimarca, che può intercettare una clientela nuova e profondamente diversa, iniziando così a ripensare radicalmente la propria offerta. Il runner contemporaneo è il simbolo di questo nuovo consumatore. E con lui cambiano anche le modalità con cui desidera essere servito. «Correre non significa partecipare a una gara, ma è uno stile di vita, un modo di comportarsi ogni giorno», spiega Paolo Mantovani, buyer, runner amatoriale e titolare dell’insegna omonima dedicata al lusso, oltre che del multimarca Max di San Giovanni Valdarno. Max, specializzato in sportswear e streetwear, sta ampliando la sua selezione con marchi come Satisfy, Saucony, Hoka e On. «Esiste una community sempre più ampia che cerca prodotti capaci di coniu-

è il nome del progetto realizzato a Pitti Uomo 107 in collaborazione con Knees Up all'interno di I Go Out

«La distinzione rigida tra clienti “performance”, orientati alla velocità, e clienti “lifestyle”, attenti all’estetica, è superata»

Antonio Cristaudo Direttore commerciale di Pitti Uomo

gare stile e performance. Chi lavora in negozio deve saper parlare questa lingua. Servono competenze, tempo e spazi dedicati», aggiunge Mantovani. Secondo il buyer questa nuova clientela cerca autenticità e contenuto. «Il running non si nutre di sogni, ma di esperienze reali», afferma, sottolineando come questo approccio - tipico di chi vive lo sport - possa diventare d’ispirazione per il mondo della moda. «Il successo di questa nicchia dimostra che serve una narrazione più concreta, fondata sull'autenticità», conclude. Anche Antonio Cristaudo, direttore commerciale di Pitti Uomo, conferma il superamento delle vecchie categorie: «La distinzione rigida tra clienti “performance”, orientati a velocità e comfort, e clienti “lifestyle”, attenti solo all’estetica, è ormai superata», spiega. «Gli sportivi integralisti esistono ancora, ma oggi le persone si avvicinano al running anche per gratificarsi, per vivere un’emozione. Non è più solo

Knees Up Running Space
Dati espressi in miliardi di euro

una categoria funzionale, ma anche profondamente emotiva».

Il mercato appare pronto ad accogliere questa visione più ibrida, coinvolgente e reale. La crescita delle sneaker da running è destinata a proseguire, e con essa quella del segmento apparel, finora relegato alla sfera tecnica. Prevista inoltre una maggior attenzione del pubblico femminile, storicamente meno coinvolto ma ora sempre più partecipe. A questo punto, però, la domanda è inevitabile: il running resterà una nicchia ultra-esclusiva o si aprirà a un pubblico più ampio? I brand sono chiamati a scegliere a chi vogliono parlare, con quale tono e attraverso quali valori. Una scelta che ha implicazioni dirette anche sulla distribuzione - uno degli ambiti più in crisi del sistema moda.Oggi convivono modelli differenti. Da una parte i running store specializzati e multimarca, come Distance a Parigi, Knees Up a Londra (che ha collaborato sei mesi fa con Pitti Uomo per il progetto speciale dedicato al running all'interno di I Go Out) o Renegade a Oakland, in California. Questi spazi parlano con credibilità a un pubblico che si muove fluidamente tra moda e sport, grazie a un’offerta curata e a un servizio costruito sull’expertise. Dall’altra ci sono i multimarca legati alla moda tradizionale, che potrebbero facilitare la scoperta di questi brand presso un pubblico nuovo, ma con il rischio di snaturarne l’identità e il legame costruito con le community. «Tra i segreti per +59 % la partecipazione ai running club è cresciuta significativamente nel 2024 secondo l'app Strava

essere credibili non c'è solo la comunicazione, ma anche la coerenza nella distribuzione. Se finisci in un contenitore che non ti rappresenta, rischi di perdere credibilità», osserva Alessandro Zanchi, fondatore di Family First

Per questo motivo il lancio della nuova linea FFirst, dedicata al running, avverrà con una strategia direct-to-consumer, sia

«Il running non è sogno ma esperienze vere. È un modello di autenticità che può insegnare molto alla moda»

Paolo Mantovani

Buyer, imprenditore e runner

«I

consumatori cercano autenticità culturale, prodotti con doti tangibili e storie coinvolgenti, più che novità effimere»

David Fischer Founder e ceo di Highsnobiety

online che attraverso pop-up legati agli eventi del brand. «Attualemte è il canale più coerente con la nostra filosofia, in futuro magari ci saranno contaminazioni con la prima linea», racconta Zanchi. Il progetto è nato dalla passione per Aerox, una gara focalizzata sulla corsa. «Abbiamo creato una collezione tecnica ma essenziale: legging, giacche, materiali traspiranti, dettagli catarifrangenti. Tutto pensato per chi corre». Un percorso non semplice, ma che per Zanchi è necessario: partire da una nicchia autentica. Proprio per questo FFirst ha puntato sulla collaborazione con run club della Soho House, attivazioni mirate e sulla propria community, che ruota attorno allo showroom milanese: uno spazio che è al tempo stesso palestra, studio creativo e piattaforma di contenuti. Il futuro del running si gioca lungo un continuum che include multimarca (specializzati e moda), dtc, online e offline. Perché i consumatori non ragionano più in termini di canale, ma di esperienza. «Cercano coerenza e connessione», sottolinea Andrea Corradoin, senior retailer manager di FiloBlu, realtà che supporta l’accelerazione digitale di brand e retailer. «Per essere rilevanti, i brand devono costruire ecosistemi digitali coerenti e integrati. Non basta avere un e-commerce: è fondamentale affiancare allo storytelling di prodotto il racconto dell’impatto che il marchio genera nelle community di runner, locali e globali». ■

Max è il multimarca giovane di Mantovani, che ha aperto la sua selezione a marchi come Satisfy, Saucony, Hoka e On
ANDREA BIGOZZI
Fonte: Runner Moderni:
«Mentalità

couture e approccio tecnico. Così ci alleniamo a crescere»

Si può unire tecnica e stile nel running: è la scommessa del marchio di abbigliamento Satisfy, che ora punta su sneaker e linea donna. «La scarpa ci posiziona accanto ai big, ma con le nostre regole», afferma il chief brand officer Daniel Groh

Marchio di abbigliamento sportivo, griffe del lusso (la T-shirt in cotone parte da 120 euro), fenomeno culturale: le definizioni per Satisfy possono essere molte. «In realtà non è solo qualcosa che indossi per correre, è un segnale», spiega Daniel Groh, chief brand officer del marchio fondato a Parigi dieci anni fa da Brice Partouche. Un segnale che parla a una community in crescita, capace di generare nel 2024 un fatturato di 11 milioni di euro, quasi il doppio rispetto all’anno precedente e su cui ha deciso di scommettere anche David Wertheimer, figlio del comproprietario di Chanel, che ha investito nel brand tramite la sua società di private equity, 1686 Partners. Le ambizioni non si fermano: è in arrivo una sneaker, sta per debuttare la linea femminile - molto attesa visto che il 30% della fanbase del marchio è già composta da donne - e l'obiettivo è chiaro: decuplicare i ricavi entro cinque anni. Il segreto del successo? «Applichiamo la mentalità tipica della couture alla performance», svela Groth.

Negli ultimi anni il running è cambiato. Cosa è successo?

Il cambiamento è avvenuto quando le persone hanno smesso di inseguire solo il cronometro e hanno iniziato a cercare un significato più personale. Correre è diventato un atto espressivo, meno legato alla performance in senso classico, più a come ti fa sentire: fisicamente, emotivamente, spiritualmente..

Cos’è allora Satisfy oggi per un runner?

È un sistema tecnico per chi corre tanto, ma anche un modo per entrare in questo mondo con il proprio stile. Più di tutto, è una connessione a una cultura che mette l’espressione di sé davanti al risultato. La vostra estetica è molto definita. Come nasce?

Creiamo solo capi che vorremmo davvero indossare. L’ispirazione viene da musica,

design, skate, natura. Non rincorriamo le mode, ma evolviamo la silhouette del runner restando fedeli alla nostra identità. Cultura e business: come convivono?

Per noi la cultura è il business. Se riusciamo a connetterci a livello emotivo - far sentire le persone ispirate, incluse, curiose - il resto viene da sé. Costruiamo un mondo in cui le persone vogliono entrare.

Come riuscite a unire espressione creativa e funzionalità?

Non è un compromesso, è come un mixer audio. Un canale per la performance, uno per l’espressione. Regoliamo entrambi, finché non troviamo la frequenza giusta. Ogni dettaglio deve essere performante e bello da vedere.

Il prezzo giustifica sempre il prodotto?

Applichiamo alla performance una mentalità tipica della couture. Tutto parte dal design, testato sul trail, realizzato con materiali scelti con ossessione. Ogni elemento deve guadagnarsi il posto. La nostra prima sneaker è frutto di oltre un anno di test. Che ruolo avrà questa sneaker nella vostra identità?

Completa il sistema. Ora possiamo vestire il runner dalla testa ai piedi. Ci posiziona accanto ai big, ma con le nostre regole. È un’occasione per crescere nella distribuzione, mantenendo la nostra unicità.

«Funzioniamo come un mixer audio: un canale per la performance, uno per l’estetica. Regoliamo entrambi per trovare la giusta frequenza»

I consumatori vi guidano nelle scelte?

Sì, soprattutto quando ci indicano un’esigenza reale. Un esempio è CloudMerino™: i runner ne amavano morbidezza e le doti termoregolatrici, ma chiedevano più resistenza. Così è nata CloudMerino Cordura, stesso confort, maggiore durata. Abbiamo preso il feedback e lo abbiamo reinterpretato secondo la nostra visione. E sulla distribuzione?

Vogliamo essere presenti dove si trova il nostro pubblico. Negozi selezionati, ecommerce, collaborazioni. Ogni canale ha un ruolo, non c’è una gerarchia rigida. L’importante è esserci nel modo giusto. Siete nati come brand di nicchia. Come crescere senza perdere intensità?

Crescere non vuol dire diventare generici. Ogni passo è un’occasione per affinare il brand. Per noi esclusività non vuol dire chiusura, ma intenzionalità. Più cresciamo, più restiamo fedeli a cultura e community. ■

ANDREA BIGOZZI
Sopra, una campagna Satisfy. Sotto, i capi del Winter Pack, la gamma di prodotti pensati per correre a basse temperature e composta da tessuti termoregolatori

Saucony:

«In campo dal 1898 per vincere. Tra performance e lifestyle»

Il running è lo sport del momento. Forte del suo dna, Saucony vuole crescere in Europa come sneaker da corsa che sa essere stilosa. È partito da Londra dove sta aprendo il suo primo monomarca

La corsa sta vivendo un boom, non solo come attività sportiva, ma sempre più come stile di vita e fenomeno di aggregazione crescente. «Oggi le persone corrono di più e i run club spuntano come funghi. Rappresentano momenti d’aggregazione per incontrare nuovi amici e socializzare», spiega Cameron Black, vicepresidente e direttore generale di Saucony Emea.

«Chiunque lo può praticare. Basta un paio di scarpe da corsa per uno sport che non comporta grandi costi, né richiede un abbonamento a una palestra, ma permette d’essere attivi partecipando a iniziative in gruppo o da soli. Inoltre, è amatissimo da 20-30enni, dai single e non solo», sottolinea. Saucony è un'autorità in questo sport. Nato nel 1898, è probabilmente il marchio di scarpe da corsa con più storia. E, nonostante offra da sempre sneaker adatte alle esigenze di chi corre, propone vari stili, in base al trend del momento e al vasto archivio di più decadi da cui attinge per trovare ispirazione. I consumatori del nostro Paese, ad esempio, amano il marchio che qui è distribuito da oltre un decennio, per il suo mix funky di materiali e colori e per le iconiche bande laterali.

«Gli italiani ricordano meglio i nomi dei nostri bestseller Jazz e Shadow piuttosto del marchio», spiega Black e sottolinea come la mission qui sia di far conoscere tutte le anime di Saucony, e far crescere il business in Europa, mercato che insieme agli Usa, rappresenta una buona parte delle vendite del brand.

Impegnato a diffondere e capitalizzare l'eredità di questo marchio è Cameron Black, manager dalla vasta esperienza nel settore sportivo globale per gruppi come Amer Sports e Decker Brands, holding di Teva e Hoka. Dal 2023 è in Saucony per far crescere il brand in UE attraverso il running, benché il mercato sia affollato da molti competitor, grandi e piccoli. Ha iniziato nel 2024 dall’UK, Paese che porta al brand il 10% delle vendite totali, dove circa l'80% degli acquisti è fatto online e la cor-

«Siamo uno dei brand di sneaker più indossati durante le principali maratone del mondo, ma crediamo anche nel prodotto lifestyle»

sa è la hit del momento. Hanno un'importanza simile, per il fatturato del marchio, la Francia, il Nord Europa (con Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia), e l'Italia, dove Saucony vende in circa 600 negozi. Dopo Londra, nel 2025 ha realizzato iniziative a Parigi e dal 2026, sarà la volta di Italia e Germania.

I risultati sono tangibili: dopo attivazioni e corse organizzate a Londra, Saucony le vendite sono cresciute in maniera significativa rispetto al 2023 e la popolarità del marchio è schizzata su Google.

Il 19 giugno aprirà, poi, il primo monomarca del brand, The Saucony Pioneer Store, a Londra, a Covent Garden, in una delle strade più frequentate d'Europa, con un footfall di 42-44 milioni di persone all’anno.

Durante la Paris Fashion Week d'inizio 2025, hanno organizzato una settimana di attivazioni, party e talk che replicherà dal 24 giugno con nuove iniziative e il lancio di due modelli di sneaker iconiche. Sperano, inoltre, di aprire un altro store a Parigi entro l'inizio del 2026 e di procedere in modo analogo in Italia e Germania, seguendo le stesse orme in ogni Paese.

«Siamo uno dei brand di sneaker più indossati durante le principali maratone del mondo e circa due anni fa, ci siamo resi conto che da un lato eravamo considerati un marchio d’élite, e dall'altro come un marchio di sneaker lifestyle, soprattutto in Italia. Per questo, durante eventi frequentati da chi conosce i nostri modelli da corsa, promuoviamo quelli più lifestyle e viceversa. Negli ultimi due anni, poi, abbiamo introdotto più sneaker ispirate dal nostro passato e investito di più nel lifestyle.

Ma abbiamo anche voluto far conoscere le nostre scarpe performance per rivolgerci a un nuovo consumatore che ci apprezzasse sia in ambito corsa che moda», ha spiegato.

«In Italia stiamo posizionandoci presso un pubblico più giovane, richiamando l’attenzione sul nostro dna running, per poi concentrarci su una distribuzione lifestyle. Questo accelererà la nostra crescita e il posizionamento nel mercato», ha aggiunto.

Dal 2012 Saucony appartiene a Wolverine World Wide, gruppo americano che possiede anche Merrell, Hush Puppies e Sweaty Betty, oltre alla licenza footwear di Caterpillar e Harley Davidson. A fine 2024 il marchio ha raggiunto vendite per 406 milioni di dollari. L'outlook per il 2025 per il primo quarto è positivo perchè è cresciuto da 100,1 milioni del 2024 a 129,8 milioni del 2025 registrando +31,3%. ■

MARIA CRISTINA PAVARINI
Partecipanti alla staffetta The Maze, a Parigi, febbraio 2025

Nordic Tigon: dai corridori per i corridori

Magliette ultra sottili, body e calze a compressione in giallo neon: il marchio Nordic Tigon si rivolge ai corridori amatoriali e agli atleti professionisti. La fondatrice svedese Moa Ståhlberg è lei stessa una runner determinata e sa esattamente cosa desidera la community

«S

tiamo creando un marchio sviluppato dai corridori per i corridori. Sei tu al centro dell’attenzione». Questo è il testo introduttivo del questionario che Moa Ståhlberg ha inviato ai suoi contatti tramite il network professionale LinkedIn. La giovane svedese sta lanciando il marchio di abbigliamento sportivo Nordic Tigon insieme al padre. Il debutto è previsto questa estate. Il duo offre calze a compressione, magliette e pantaloncini, nonché body per corridori amatoriali, ma anche per atleti professionisti. Il colore del marchio è il giallo neon.

Fin dall’inizio Moa Ståhlberg, che vive a Singapore e attualmente si trova spesso in Cina, ha adottato il punto di vista del cliente. Lei stessa è un’ambiziosa runner. Si allena con i migliori corridori kenioti e completa una mezza maratona in poco più di 1 ora e 20 minuti. In Asia è tra le migliori, in Svezia si avvicina alla top 10. «Chiediamo ai clienti di che cosa sentono la mancanza», dice la fondatrice. Lo fa tramite sondaggi online, colloqui personali nei campi di allenamento o scambi spontanei prima e dopo le gare a cui partecipa. Sebbene giganti come Adidas, Nike o Under Armour offrano un’ampia scelta, ai corridori manca ancora molto. Desiderano magliette e pantaloncini sottilissimi, che sembrino una seconda pelle, e pantaloncini con molte tasche per riporre i vari integratori. Moa Ståhlberg stessa ha bisogno di calze a compressione, con un’imbottitura più spessa nella parte anteriore

«Anche quando ho una giornata no, dopo aver corso mi sento sempre felice»

Moa Ståhlberg

per proteggere le dita dei piedi dall’impatto. All’inizio Moa voleva limitarsi alle calze a compressione. Ma suo padre l’ha incoraggiata a pensare in grande e a offrire subito diverse categorie di prodotti. “Vogliamo diventare la Lululemon del running”, afferma con sicurezza. L'imprenditrice svedese è estremamente ambiziosa e sempre in movimento. Ha studiato economia internazionale e ha già vissuto in Europa, Sud America e Asia. Parla correntemente il mandarino e sta imparando la sua sesta lingua. Ama l’equitazione, in particolare la disciplina dei

Mounted Games. Si tratta di uno sport equestre di squadra che richiede velocità, coraggio e abilità. La corsa è per lei uno «stile di vita», una «meditazione»: «Anche quando ho una giornata no, dopo aver corso mi sento sempre felice».

Il nome Nordic Tigon deriva dallo zodiaco cinese. Moa è nata nell’anno della tigre, suo padre in quello del drago. Dalle parole “tigre” e “drago” i due hanno creato il mitico essere androgino “Tigon”.

Nordic Tigon punta prima all’Asia, poi all’Europa. Il marchio si posiziona nel segmento premium accanto a brand come Soar Running e District Vision

Le magliette costeranno dai 60 agli 80 euro, i reggiseni sportivi dai 60 agli 80, i pantaloncini dai 70 ai 90, le canotte dagli 80 ai 100 e le calze a compressione comprese tra i 30 i 50.

Un capo chiave potrebbe essere il body, con prezzi tra i 115 e i 135 euro. Questo tipo di body, già noto nel mondo dello yoga, è ancora una novità nel settore del running. «Vediamo se diventerà una tendenza. Potrebbe essere la prossima grande novità», si augura Moa Ståhlberg, che ha già ricevuto molti feedback positivi direttamente dalle donne. Per la distribuzione, Nordic Tigon si concentra sul proprio e-commerce. Si stanno inoltre valutando partnership con piattaforme digitali come Zalando. L’obiettivo è acquisire come clienti anche grandi magazzini e negozi multimarca. Ad esempio Nordiska Kompaniet in Svezia. A medio termine, la fondatrice immagina di aprire anche un negozio fisico, «forse a Shanghai». La comunità è molto importante per Nordic Tigon. La fondatrice condivide i suoi allenamenti e le sue gare con i follower su Instagram e sui suoi canali social in Cina. «Come runner europea, qui in Asia ricevo moltissima attenzione», afferma. Sta anche pianificando eventi fisici e stringendo partnership con organizzatori di gare. Durante la maratona di Singapore terrà un seminario sulla corsa e modererà una sessione di domande e risposte con atleti kenioti. Guardando al futuro, Nordic Tigon potrebbe diventare molto più di un marchio di running. Moa ha una buona rete di contatti. Ha contatti nel mondo della Formula 1 e ha conosciuto il manager della star del calcio brasiliano Ronaldo. «Nordic Tigon può diventare qualcosa di grande. Ma stiamo procedendo un passo alla volta». Perché ogni corridore lo sa: chi parte troppo veloce rischia di rimanere senza fiato. ■

TOBIAS BAYER
Per Moa Ståhlberg (sotto) il body potrebbe diventate il capo chiave del brand, al debutto con la SS25

«Per noi di Distance contano i prodotti non i brand»

Un progetto retail che unisce running, cultura e community, con store a Parigi, Lione, Copenhagen, Iten (e forse presto Milano), proponendo solo ciò che i fondatori vivono e amano. «Le partnership nascono dalla condivisione, come le amicizie»

er Guillaume Pontier e Xavier Tahar la vera passerella non è quella delle fashion week, né le hall affollate delle fiere. È in gara o a bordo strada che i due buyer e imprenditori fanno scouting, selezionano brand, osservano gli stili di corsa e captano segnali culturali, che poi trasferiscono all'interno di Distance, il loro running store, diventato ormai un ecosistema identitario che fonde performance, estetica e senso di comunità. «I migliori prodotti non li troviamo nei saloni asettici - assicurano - ma nella fatica di uno sforzo vero o nella passione di uno scambio tra chi corre davvero».

PFondato nel 2018 a Lione, Distance nasce dall’alleanza tra due visioni: Pontier, cresciuto tra le piste con un padre allenatore, porta l’anima sportiva; Tahar, ex manager finanziario, visione imprenditoriale e struttura. «Ci siamo capiti subito - raccontano -. La nostra idea era chiara fin dal primo giorno: trascendere la corsa per farne uno stile di vita».

L'insegna è presente a Parigi, Lione, Copenaghen e Iten, in Kenya, patria dell’atletica mondiale. Ogni apertura è un progetto unico, pensato come un atto di cocreazione con il territorio. «Rifiutiamo il modello standardizzato - dicono -. Ogni progetto è una pagina bianca, da scrivere con i runner locali, gli atleti, le persone che animano la città di riferimento». Col tempo, il negozio nel Marais di Parigi è diventato un hub di eventi, corse collettive, talk, screening sportivi e ini-

ziative come “Rob it to get it”: i clienti potevano tenere un capo solo se riuscivano a fuggire da un velocista professionista. Solo due su 76 ce l’hanno fatta. L’esperienzialità è il cuore del progetto. «La nostra forza viene da un dna ibrido - spiegano - : forgiato nell’atletica di alto livello, nutrito dall’amore per il design e la moda». E la passione per la moda si intuisce negli store, che ricordano le boutique del lusso: cemento grezzo, legno naturale, installazioni minimali, luci industriali. Ma è sugli scaffali che si nota la differenza con le classico brand mix da sfilate: scarpe Norda, capi Satisfy, occhiali District Vision, tutti nomi an-

«Rifiutiamo il modello standardizzato: ogni store che apriamo è una pagina bianca, da scrivere con le community locali»

Guillaume Pontier e Xavier Tahar

cora poco presenti nella distribuzione moda tradizionale, ma di grande richiamo. L’offerta di Distance va da abbigliamento e calzature a slide post-corsa, profumi d’ambiente, gamma food e libri fotografici. A questo si aggiunge una linea Distance - calzini, T-shirt, felpe, trail cup - in continua espansione. «Ci guida la passione per il prodotto, non per il brand», sottolineano. In un mercato dominato da storytelling costruiti a tavolino e trend passeggeri, Distance punta sulla credibilità “vissuta”. «Una cosa che non si compra: si vive. Noi siamo i primi utilizzatori. Con i brand vale la stessa regola: proporre solo ciò che amiamo davvero, che usiamo ogni giorno. È la nostra bussola».

Per Distance nessuna fiera, nessuna showroom: solo incontri reali. «Costruiamo collaborazioni come un’amicizia - spiegano -: sulla base di fiducia ed esperienze condivise. È l’istinto a guidare tutto». Da qui le collaborazioni con il marchio On e con il brand coreano Post Archive Faction (ospite speciale a Pitti Uomo di giugno 2025).

La visione, però, dal punto di vista della strategia di espansione non si ferma alla Francia e al Kenya. Distance sta progettando nuove aperture retail. «Guardiamo a Europa, Asia, Stati Uniti», anticipano Pontier e Tahar. Per l'insegna si parla di possibili opening a Londra, New York, Los Angeles e anche Milano. «Sì, Milano è nella nostra road map - confermano - ma preferiamo non dare troppi dettagli al momento». L’idea è scegliere città dove cultura, sport e innovazione si intrecciano naturalmente. «Non si tratta solo di espansione geografica, ma dell’estensione del nostro sogno. Le metropoli sono il nostro focus. Ma non aspettatevi scelte prevedibili: un negozio Distance potrebbe sbocciare in una città inattesa, dando il la a un nuovo capitolo». Anche sul fronte prodotto, Distance continua a evolvere. Il criterio di selezione resta invariato: «Mettiamo la funzione e l’innovazione al primo posto. Lo stile è essenziale, ma deve servire la tecnica, non il contrario. Solo così un oggetto diventa un must-have».

Intanto si rafforza anche la linea interna, sempre nel segno dell’autenticità, della coerenza e della qualità. «La nostra ambizione - concludono - non è crescere a ogni costo, ma lasciare un segno. Vogliamo costruire un marchio iconico, capace di ispirare una generazione a vivere la corsa non come sport, ma come forma di espressione. E farlo correndo». ■

In alto Guillaume Pontier e Xavier Tahar, fondatori di Distance. Sopra la sneaker in collaborazione con On

Mark Batista, una vita «on the run»

Per l'agente, organizzatore di fiere e negoziante inglese, la passione per il running è diventata business e motivo d’incoraggiamento a migliorare. Nella corsa, come nella vita. Sempre

«Correre ti permette di prenderti cura di te stesso - fisicamente e mentalmente - e migliorare sempre» spiega il fondatore di Progress Running Club, negozio cult per molti runner londinesi.

Queste poche parole definiscono la parabola di Mark Batista, appassionato runner, oltre che insider del settore moda inglese che da 26 anni distribuisce, principalmente, marchi di moda maschile d’ispirazione anglosassone e sportswear attraverso il suo showroom Brand Progression. Inoltre, dal 2018 organizza la fiera Welcome Edition che si svolge due volte all’anno a Parigi e New York. Dal 2021, poi, gestisce Progress Running Club, negozio londinese che ha fondato per offrire abbigliamento e sneaker per il running, ma anche club e punto d’incontro per i fan di questo sport.

«Tutto è nato da una T-shirt che ho realizzato nel 2020, nell’ultima fase del covid. Volevo lanciare un brand e ho iniziato da una maglietta che ho cominciato a regalare ai miei amici appassionati di corsa. Hanno iniziato a indossarla e a postare foto su Instagram creando attenzione e spingendo molti a chiedermi dove comprarla», racconta Batista, un insider del settore fisico atletico, che indossa spesso abbigliamento sportivo, un baseball cap e, ça va sans dir, che corre da 30 anni. Con il boom di richieste, occorreva avere un magazzino per il brand Progress Running Club e Batista ne ha realizzato uno vicino a casa sua, nella zona Est della città, insieme a un piccolissimo negozio che teneva aperto per tre giorni alla settimana e che presto ha iniziato a offrire, oltre al suo marchio, anche altri brand amati da chi corre aggiungendo, per esempio, Ciele Athletics, Etonic e Merrell Il business è talmente cresciuto che dal 2023 il brand è in licenza a un

«Non vogliamo essere etichettati. Preferiamo che la clientela, entrando, trovi opzioni diverse»

Mark Batista

partner per il Giappone che lo distribuisce nei più bei negozi del Paese, come Beams e United Arrows. In seguito, da febbraio 2024 lo store ha traslocato in una location più grande di circa 120 mq nel Nord di Londra, a Spitalfields, al 98 di Commercial Street, in un’area di maggior passaggio.

Benché il marchio che ha dato il nome al negozio rimanga il bestseller, molti altri brand hanno voluto essere presenti in questa vetrina londinese. Tra loro ci sono sia sneaker per running di New Balance, Saucony, Nike, Brooks e Altra, abbigliamento adatto alla corsa come Satisfy, Soar, Over Over, The North Face Running e calze Pure Sport, ma anche moda lifestyle di nomi come come Portu-

guese Flannel, legato al surf, Nanga, amato da chi pratica climbing, oltre a Barbour e Carhartt, per citrarne alcuni. Non mancano poi cult magazine di questo mondo come, ad esempio, Run like the Wind, Lung Magazine e altri ancora. A completare l’offerta ci sono anche gel e integratori, ma non ancora smart watch o tool per chi pratica a livello agonistico. «Non vogliamo essere etichettati. Preferiamo avere un approccio ampio verso la clientela e far sì che chiunque entri trovi opzioni diverse - anche perché i confini tra abbigliamento da running e lifestyle sono sempre meno definiti. Infatti, spesso c’è chi arriva per acquistare articoli da corsa ed esce con un Barbour, o viceversa», spiega raccontando come i prezzi dei prodotti in vendita possano variare dalle 2,5 sterline d’un gel fino a giacche da 500 sterline.

Tuttavia, il negozio non solo ha un’ottima performance commerciale, ma è anche diventato un luogo d’incontro particolarmente vivo, «soprattutto prima della London Marathon», racconta Batista sottolineando l’obiettivo di essere un punto d’aggregazione - per corridori e non.

La clientela è vasta. «Qui entrano dal teenager al settantenne. Abbiamo, tendenzialmente più clienti uomini, ma stiamo lavorando per offrire più prodotti adatti anche alle taglie e ai gusti delle donne».

Il negozio è volutamente essenziale. «Esponiamo alcune vecchie pubblicità di Nike, foto vintage appese e prodotti disposti in maniera ordinata, ma non vogliamo intimidire nessuno. Preferiamo un ambiente familiare e super confortevole. È importante sentirsi a proprio agio e fare una chiacchierata», sottolinea Batista.

Ma non è tutto, perché Progress Running Club organizza anche corse. Ogni martedì sera alle 18, chi vuole, può partecipare al club. «Il numero dei partecipanti può variare da 30 a 50 e talvolta anche 100, come qualche recente corsa organizzata da Nike, ma l’atmosfera non è mai competitiva. Se vuoi superare un tuo record personale è meglio che tu vada altrove. Abbiamo fissato il limite di corse da 5 km perché tutti possano partecipare. Non importa se non sei un ultra-runner. Da noi l’atmosfera è rilassata e amichevole. Anche chi non ha mai corso può partecipare e migliorarsi, ma qui non gareggiamo».

Lo spirito dello shop è sentirsi parte di questa comunità. Bastano un paio di sneaker e il desiderio di stare all’aperto. La corsa è tutto questo. E molto di più. ■

MARIA CRISTINA PAVARINI
Sopra: partecipanti a una corsa realizzata in collaborazione tra Progress Running Club e Nike a Londra. Sotto: a sinistra, Mark Batista
OUTFIT ITALY represents the contemporary men’s wardrobe, which the clothes themselves are the true and proper essentials to be composed freely, to be worn now and forever. Determined tailoring and fresh shirts, light and lively knitwear, for a new fashion vision. From fine fabrics to clean cuts with a new elegant flavor, OUTFIT ITALY is inspired by international influences, always enhancing its Italian DNA and company’s tradition synonymous with timeless and boundless credibility and savoir-faire.

«Mental Athletic genera vibe e cultura, per questo Salomon ci ha scelti»

L'ex Slam Jam Gabriele Casaccia racconta come attraverso il suo media ha trasformato la corsa in un racconto culturale di lifestyle, capace di appassionare una community, conquistando marchi come Salomon con cui lancerà una capsule, preparando nuovi progetti con altri brand. «Anche noi siamo un brand»

«N

on si tratta solo di correre. Si tratta di creare un linguaggio, un’atmosfera, una cultura».

Così Gabriele Casaccia, founder e direttore creativo di Mental Athletic, riassume la filosofia del suo progetto. Nato come media indipendente, Mental Athletic è oggi una piattaforma editoriale e creativa, che usa la corsa come punto di partenza per esplorare lifestyle, estetica, valori condivisi e senso di comunità.

Fin da subito, il progetto ha superato i confini di un semplice magazine. «Abbiamo creato un vibe. Non è solo un prodotto editoriale, ma un brand, un nuovo modo di raccontare lo sport e tutto ciò che lo circonda», spiega Casaccia. Mental Athletic si esprime attraverso un bimestrale cartaceo, un digital journal, una community globale su Instagram e collaborazioni con brand come Salomon, con cui a settembre lancerà una capsule collection dedicata al trail running. «Ed è solo l’inizio: nel 2026 arriveranno altre collaborazioni importanti», anticipa.

Per Casaccia, Mental Athletic - che ha registrato come trademark globale - riflette un cambiamento profondo nel mondo del running: da sport individuale a fenomeno culturale connesso al lifestyle e sempre più presente nella distribuzione moda. «Chi lavora nel retail, moda o sport, deve capirlo. Non si tratta più solo di vendere abbigliamento tecnico, ma di entrare in sintonia con una community consapevole, con valori e identità precisi. E per farlo, non basta improvvisare», dice il creativo-imprenditore, che in passato ha maturato una lunga e significativa esperienza in Slam Jam, realtà pioniera della street culture in Italia e punto di riferimento nel dialogo tra moda, arte e musica. Non è solo una questione di trend, sot-

«I retailer non possono puntare solo sui big brand: così tutto resta legato a prezzo e quantitativi. Così si perde la capacità di far nascere progetti collettivi e nuove community»

Gabriele Casaccia

tolinea Casaccia. Non si tratta semplicemente dell’alternanza di uno sport sull'altro. Il punto è che il consumatore sta cambiando. È più consapevole, più orientato al benessere, più interessato al self-care in senso ampio e l’abbigliamento sportivo può diventare una delle espressioni di questa attitudine. «Prima l’outdoor, ora il running. Domani forse il ciclismo. Ma il punto resta: le persone vogliono appartenere a qualcosa. Chi opera in questo

settore deve condividere davvero questa energia». Si tratta di una trasformazione culturale e sociale, prima ancora che commerciale.

La parola chiave è experience: «Se vuoi farti seguire, devi offrire esperienze reali. Con Mental Athletic abbiamo voluto superare l’immagine dell’atleta performativo. Siamo amatori: corriamo per stare bene, per condividere, per sentirci vivi. Questo messaggio ci ha fatto crescere. È lo stesso approccio che consiglio nel retail: costruire qualcosa che rispecchi davvero il proprio pubblico». Ma ogni realtà deve trovare la sua voce. «Troppi store sembrano uguali, con gli stessi brand», osserva. «Serve più coraggio. Puntare su marchi indipendenti, investire nello scouting, costruire narrazioni capaci di parlare davvero alle persone. Solo così si esce dalla guerra dei prezzi e si costruisce una community fedele».

In questo contesto, il retail fisico acquista un nuova centralità. «Altro che crisi dell’offline. L’e-commerce da solo non basta più. Le persone cercano luoghi dove riconoscersi e incontrarsi. Per questo abbiamo trasformato la sede di Mental Athletic in una vera destination. Non solo uffici, ma uno spazio vivo, dove accadono cose: fotografia, musica, performance, cultura. Tutto quello che rappresenta il nostro modo di intendere il movimento».

Anche la percezione del prodotto sta cambiando: «Il mercato del running è ancora troppo orientato al maschile, ma il pubblico femminile cresce. Non basta offrire più womenswear: bisogna superare queste categorie. Lo sport, come la cultura, non ha genere. Le nuove generazioni si identificano con valori, non con etichette».

La sneaker resta centrale: «È il punto di incontro tra innovazione, storytelling e identità. Ma cresce anche il bisogno di total look: capi che parlino di te anche quando non corri. Serve un linguaggio nuovo, non solo tecnico, e qui i brand indipendenti stanno facendo la differenza. E infatti ci sono molte realtà in crescita».

Per Casaccia, quindi, il futuro passa dall’ascolto e dal supporto alle nuove voci: «Emergere non è facile, soprattutto per i piccoli brand. Ma sono loro a costruire community, a portare nuove estetiche. Se ti affidi solo ai grandi nomi, giochi su prezzo e volumi. Ma perdi il vibe». E per Mental Athletic, il vibe è tutto. ■

street smart

l Running è molto più di una semplice tendenza del momento su TikTok. Lo sanno bene Christian Weigert, del blog  Runners_highest, e Timo Winter, che con il suo podcast  Chain Reaction parla regolarmente della cultura che sta dietro alla corsa, ai club di running e alle maratone. Il running è diventato un vero e proprio movimento globale.

L’allenamento

Solo dieci anni fa, la corsa era un’attività puramente agonistica. I marchi di abbigliamento sportivo osservavano da lontano mentre il mercato lifestyle era dominato da sport come il calcio, il basket e il tennis. I runner non erano certo degli outsider, ma la scena sembrava convinta che la loro attività non avesse nulla a che fare con lo stile, e tanto meno con la coolness. Ma si sbagliavano. Grazie al gorpcore e al techwear, l’abbigliamento funzionale ha invaso sempre più gli armadi degli hypebeast e una pandemia globale ha dato l’impulso decisivo a questo fenomeno.

Il riscaldamento

Con il coronavirus, le palestre chiuse sono state sostituite dalle strade aperte. Quella che era iniziata come una necessità si è rapidamente trasformata in un’esperienza. I primi amici hanno iniziato a incontrarsi, i club di corsa sono cresciuti e la corsa è diventata sempre più una cultura. «Per molti, la corsa è diventata una forma di cura di sé e parte della loro identità», afferma Timo. Anche Christian osserva: «Si vedevano sempre più pantaloncini, giacche da corsa e capi funzionali nella vita di tutti i giorni. Le prestazioni erano già da tempo parte del guardaroba. La corsa era la logica conseguenza».

La partenza

Club di corsa come division:bpm, Berlin Braves o Bandit Running lo dimostrano: ormai non si tratta più solo di velocità. Con marchi come Satisfy o Norda, l’atteggiamento fashion necessario sta entrando nel mondo del-

Un'immagine della Load Berlin

Running club:

le nuove settimane della moda?

Lo sport più solitario del mondo sta diventando un fenomeno globale che riunisce marchi e consumatori, dà vita a collettivi e influenza enormemente la cultura pop e lo stile

dia. Sono stati loro, infatti, a dominare il mercato per anni e a dettare l’estetica. Ma chi vuole vendere come “esclusiva” la settecentesima versione della stessa sneaker con dettagli appena modificati, prima o poi finirà per illudere solo se stesso. I nuovi beniamini degli appassionati di sneaker sono innovativi, futuristici e soprattutto inclusivi.

La maratona

Ciò che distingue la corsa da qualsiasi altra moda passeggera è il forte senso di comunità. Mentre in passato si era grati ai grandi marchi per aver almeno messo un banner pubblicitario nella piccola città, brand come Hoka, New Balance o On mostrano come si fa. Si dialoga con i club di running e si organizzano eventi alla pari. Mentre un tempo solo influencer e stampa specializzata ricevevano regali, oggi anche le persone comuni, senza grandi canali, possono godersi i seeding. Di per sé, la formula del successo è piuttosto semplice: la community sostiene i marchi e i marchi ringraziano la community. E naturalmente, in tempi di completa saturazione di modelli e brand tutti simili, gli appassionati di sneaker sono più inclini a cercare marchi più piccoli con cui distinguersi dal mainstream.

Finish

lo sport: pulito, essenziale, funzionale. Timo lo descrive così: «Satisfy è un esempio lampante: l’estetica incontra l’atteggiamento. Ma anche marchi più piccoli come Unna o Tiempos dimostrano che oggi il running funziona quasi come una rivista indie». Uno sviluppo che i grandi marchi osservano con invi-

Sempre più modelli da running vengono indossati in un contesto lifestyle. Marchi un tempo puramente lifestyle iniziano a emulare l’estetica dei brand di running, o addirittura a lanciare intere linee di diffusione, pur di accaparrarsi una fetta della torta. In realtà, però, l’autenticità prevale sull’estetica artificiale. Sia Timo che Christian sono d’accordo: è la community a decidere. I club di running stanno diventando un’istituzione creativa con cui i marchi devono fare i conti oggi. E la cosa migliore è che non si tratta solo di stile, ma anche di attitudine. Timo lo riassume così: «La corsa è per tutti. Chi la celebra con stile è cool. Chi corre con vecchie magliette è fantastico. L’importante è uscire e fare qualcosa per sé stessi». ■

Credit Maurice Pehle
Esperto di street culture e di Giappone, è la nostra finestra sul mondo delle sneaker e non solo

AI generativa nel design: utile e divertente, a patto di restare autentici

Oggi uno sketch si realizza anche con soluzioni potenziate dall'Intelligenza Artificiale. Un vero plus o un limite? Tra entusiasmi e lecite perplessità, una cosa è certa: la tecnologia sarà sempre più parte integrante del processo creativo ma, alla base, ci deve essere una visione. Meglio se umana

La designer Sabrina Mandelli ha creato il marchio Ssheena (“S” di Sabrina, il resto da “Sheena is a punk rocker” dei Ramones) nel 2015 e ha all’attivo esperienze di spessore. Dopo il diploma in Fashion Design all’Istituto Marangoni (nel 2008), ha lavorato per Dolce&Gabbana, il Gruppo Antonioli e Off-White, il marchio fondato da Virgil Abloh, dove per otto anni è stata design director del womenswear. Come c’era da aspettarsi, non si fa trovare impreparata nel parlare di design “AI powered”. Un tema che divide e che porta con sé una serie di interrogativi, tra cui il destino della stessa professione di stilista ma anche quello dell'innovazone di prodotto, anche se siamo solo agli albori. Da un report di McKinsey & Company e Business of Fashion emerge, infatti, che nel 2024 il 73% degli executive della moda intervistati metteva l’AI generativa tra le priorità, ma solo il 28% la stava provando nei processi creativi.

«Credo che l’AI sia uno strumento potente, se usato con criterio», dichiara Mandelli, mentre lavora alla pre-collezione uomo e donna per la prossima primavera estate, che presenterà il 22 giugno nel calendario ufficiale della Camera Nazionale della Moda Italiana. «In Ssheena - puntualizza - la utilizziamo per sviluppare grafiche e pattern all-over: ci dà spunti inaspettati, a volte anche provocatori, ma resta sempre un supporto, non un sostituto della creatività umana. L’intuizione, il gusto, l’identità: queste sono cose che l’AI non può imitare davvero». La fondatrice di Ssheena non disegna a mano nel senso classico. «Lo schizzo sì - puntualizza - ma oggi si fa direttamente su iPad: è il mio taccuino digitale, un’estensione naturale del

processo creativo, che mi consente di lavorare in modo fluido e immediato. Uso anche software specifici per lo sviluppo e la finalizzazione, ma tutto parte da un gesto personale, anche se digitale». «Le soluzioni AI powered - prosegue Mandelli - entrano nel nostro processo creativo, in particolare, per generare idee grafiche, per creare varianti ed esplorare composizioni visive in modo molto rapido. Si tratta di acceleratori creativi, non di piloti automatici». Ciò che apprezza particolarmente è la capacità dell’AI di generare visioni alternative, partendo da un input semplice: «Mi piace poter esplorare decine di versioni di una stessa idea in poco tempo o spingere una texture oltre i limiti “manuali”. È utile soprattutto nei momenti in cui cerchiamo qualcosa di fuori scala, di più astratto o ibrido». Si sa pure che l’AI è anche in grado di elaborare e incrociare grandi quantità di dati (provenienti, ad esempio, dalle vendite, dai social media o dai motori di ricerca) per il design data driven. «Io li considero, certo. Ma non mi lascio condizionare - tiene a precisare la creativa -. I dati raccontano cosa è successo, non cosa deve succedere. La mia responsabilità di designer è proporre una visione, non rincorrere gli algoritmi. Osservo, ma non copio» «Il rischio di omologazione c’è, se si usa l’AI per ripetere formule vincenti - risponde -. Ma dipende da chi la usa e perché. Se diventa un mezzo per standardizzare, allora sì, l’omologazione è inevitabile. Se invece è un mezzo per spingersi oltre, per osare, allora può essere molto potente. Serve però prendere una direzione forte a monte, altrimenti la moda perde significato». Si parla anche di analisi predittive grazie all’AI, che dovrebbero orientare su cosa vuole veramente il consumatore

«La mia responsabilità di designer è proporre una visione, non rincorrere gli algoritmi»

Sabrina Mandelli, Ssheena

in un dato momento. «L’unico modo per essere davvero rilevanti oggi è sorprendere - dice Mandelli -. Lavoriamo per creare un immaginario, non per seguire un’indicazione di mercato. Il consumatore può restare affascinato da ciò che non si aspetta: è lì che accade la magia del design». Sulle prospettive della sua professione nel giro di cinque anni dice: «Vedo il design sempre più contaminato da linguaggi diversi: digitale, sociale, performativo. Non sarà solo “cosa” fai, ma “come” e “perché”.

La tecnologia sarà parte integrante del processo, ma conteranno sempre di più la visione e l’identità del brand. Solo chi saprà restare autentico, in mezzo a tutto questo rumore digitale, potrà emergere davvero».

La società di consulenza McKinsey nel 2024 ha previsto che, nel giro di tre o cinque anni, l’AI generativa potrebbe far lievitare i profitti operativi dei marchi di

«Il processo creativo dovrebbe iniziare in versione digital dalle sue primissime fasi»

Objective

current and future market trends.

moda e lussO fra i 150 (nell’ipotesi più conservativa) e i 275 miliardi di dollari. «Nel 2024 i marchi si sono avvicinati all’AI generativa principalmente per risparmiare tempi e costi, ma non va vista come un qualcosa che sostituisce la figura umana», afferma Augusto d’Auria, co-fondatore e ceo di Parallelia, AI Lab milanese che lavora con i fashion brand della moda per la realizzazione di lookbook, campagne editoriali, immagini per l’e-commerce e anche product concept. L’AI generativa, in quest’ultimo caso, viene impiegata per immaginare e concettualizzare nuovi prodotti che siano perfettamente allineati con l’identità, i valori e il pubblico di riferimento del brand. «Nell’ufficio stile l’AI può intervenire nella realizzazione dei moodboard e nel mid journey, a metà percorso del processo creativo - spiega d’Auria -. Ci sono interfacce per velocizzare step specifici. Si usa uno sketch 2D e con l’AI si può sperimentare qualunque texture su qualunque modello». «L’AI può anche “imparare” lo stile di un brand, partendo dagli archivi - aggiunge -. Prima però bisogna digitalizzare ed etichettare i dati, affinché i modelli possano apprendere. Le tempistiche dipendono da come i dati sono stati raccolti. Le aziende più

%

i manager della moda che da un sondaggio di McKinsey-BoF stanno provando l'AI nei processi creativi

avvantaggiate sono quelle che li hanno gestiti e archiviati. A oggi, secondo noi, sono davvero poche quelle che hanno digitalizzato l’archivio». Parallelia può aiutare i team delle fashion company a familiarizzare con le tecnologie oppure fornire soluzioni end to end, essendo dotata di un team interno di creativi. Le startup, dal loro osservatorio, sembrano più aperte rispetto alle aziende più strutturate, dove emergono una certa resistenza, da parte dei creativi, una difficoltà nell’abbracciare la transizione digitale e una scarsa propensione a cambiare il modo di ragionare.

«Lo vediamo anche con l’ideazione delle campagne di comunicazione: è complicato persino fare micro-cambiamenti di una singola immagine», dice d’Auria, che suggerisce: «Il processo creativo dovrebbe iniziare in versione digital sino dalle sue primissime fasi. Si può iniziare dallo sviluppo prodotto lavorando con il design 3D, per poi avere un modello a cui può essere applicata l’AI. La tecnologia potrebbe accentrare singoli dipartimenti, attraverso micro-modelli replicabili in ogni tipo di contesto» A un primo approccio, da parte dei brand, la curiosità non manca, ma poi c’è confusione su quello che si può o non si può fare con l’AI. «Noi interveniamo per schiarire le idee - dice il ceo -. Siamo in una fase embrionale e la parte creativa è spaventata, teme di poter essere sostituita. La complessità non è solo nel riuscire a spiegare le basi dello strumento. C’è anche una questione etica, che riguarda aspetti come il copyright, la consistenza del brand e la sua identità». In più «i rischi di omologazione ci sono e non sono pochi». Bisogna partire già ora, nel parere di d'Auria, per portare ai tavoli di discussione la questione etica. «Con l’AI Act (in vigore dall'agosto 2024 e che dal febbraio 2025 proibisce pratiche

Con le soluzioni di Parallelia basate sull'AI si possono utilizzare dati storici e previsioni di tendenze, per modifiche creative di capi d'archivio
«Con l'AI il design sarà più veloce, fluido, divertente e connesso alle esigenze delle persone»

AI rischiose e impone l'alfabetizzazione obbligatoria nell’intelligenza artificiale, ndr), l’Europa si è mossa con un approccio coerente». Quanto al rischio di produzioni con scarso tasso di innovazione e alla paura dei creativi di essere rimpiazzati dai robot D'Auria dice: «Credo che si possano superare, con soluzioni custom made e modelli proprietari, un’estetica specifica e la protezione dei dati, evitando soluzioni in cloud standardizzate». In futuro immagina che le soluzioni per il design potenziato dall'AI si muoveranno secondo la fisiologica curva di progresso di una nuova tecnologia. «Noi intanto ci occupiamo anche di formazione, per esempio con gli studenti dello Ied (la cattedra è a nome del mio socio Gaetano Di Dio). Di recente abbiamo anche collaborato con Golden Goose, impegnata in un corso di diverse sessioni». «Il nostro tool per il design basato sull'AI è un copilota creativo per gli stilisti», dice Adriana Pereira, co-founder di The Fabricant, azienda di Amsterdam che realizza soluzioni intelligenti powered by AI per la moda, dallo sketch alla vendita. «Basato su dati digitali esclusivi di The Fabricant - spiega - capisce il dna del design di un capo di abbigliamento, dal punto di vista sia artistico che tecni-

275mld

i profitti operativi aggiuntivi stimati entro il 2029 per i brand di moda e lusso che impiegheranno l'AI generativa

co, in modo avanzato. Gli stilisti possono inserire un’atmosfera, un tema o una silhouette e il tool genera foto di concept realistici». Mentre altri strumenti si concentrano sulla ricerca di tendenze o sull’automazione generica, la soluzione di The Fabricant - specifica l'esperta - è profondamente connessa al dataset proprietario, «un ricco archivio di moda digitale costruito in sette anni». Questo fornisce all’Intelligenza Artificiale «una comprensione approfondita, con molteplici sfumature, della struttura dei capi, uno storytelling creativo e un’estetica di nuova generazione» «Al di là della tecnologia, ciò che ci distingue è l’ascolto attento dei creator - sottolinea Pereira -. Il loro feedback plasma l’evoluzione dello strumento. Ogni funzionalità è progettata pensando al loro flusso di lavoro, che siano designer indipendenti o che stiano realizzando una loro etichetta digitale» Questa collaborazione garantisce che il tool rimanga potente e allo stesso tempo utile. «In più - aggiunge - ci differenziamo per la facilità d’uso: lo abbiamo progettato per essere intuitivo, veloce e reattivo, in modo che i creativi possano rimanere aggiornati e concentrarsi sulla creazione, non sulla tecnologia». Che feedback arrivano? «I designer ci dicono costantemen-

te che lo strumento rende il loro processo più veloce, fluido e divertente - risponde -. Ciò che prima richiedeva ore o giorni, adesso necessita di pochi minuti. I designer apprezzano il fatto che l’AI non faccia il lavoro per loro, ma lavori con loro. Migliora la loro visione, non la sostituisce». Qualche preoccupazione relativa all’AI emerge anche dai contatti di The Fabricant. «I dubbi hanno a che fare soprattutto con la proprietà intellettuale: si chiedono chi detiene la proprietà dell’output e come si possa proteggere l’originalità, in un mondo dove il design è generativo - dice Pereira -. Noi abbiamo reso la proprietà un principio fondamentale, garantendo che, ciò che viene ideato, sia veramente del suo creatore» «Ci fanno anche domande sul bias dei dati - aggiunge -. Se un modello riflette solo un tipo di estetica, limita ciò che può essere espresso. Ecco perché il nostro set di dati è intenzionalmente diversificato e perché diamo priorità a quelli che vagliano un’ampia gamma di voci e stili, non solo le tendenze mainstream». Nel parere della fondatrice di The Fabricant, tra qualche anno la moda sarà radicalmente più decentralizzata, personalizzata e inclusiva. Immagina un mondo di creatori indipendenti che guiderà la cultura e dove sotto-comunità, espressioni di estetiche di nicchia e voci sottorappresentate, avranno gli strumenti per lanciare e scalare le proprie narrazioni di moda. «L’AI sarà integrata in ogni flusso di lavoro creativo, non per sostituire i designer, ma per migliorarli - prefigura Pereira -. Il design sarà più veloce, più fluido e più connesso alle esigenze e alle identità delle persone reali». «La moda fisica e quella digitale - conclude - coesisteranno e la produzione sostenibile e on-demand diventerà lo standard». ■

Un look foto-realistico realizzato con il tool Sketch to Image di The Fabricant
ELISABETTA FABBRI

BOUTIQUE SÌ BIG BRAND FORSE

Farfetch ritrova lo slancio grazie a un rinnovato dialogo con le boutique multimarca indipendenti. A favorire il riavvicinamento nuovi servizi e più libertà di pricing per alcuni partner. Restano però fragilità sul fronte dei grandi brand del lusso, sempre più legati ai canali diretti

Il catalogo cresce sia in termini quantitativi che qualitativi: aumentano i brand e lo scontrino medio Dal momento

Top 15 brand aprile 2025

Top 15 brand dicembre 2023

Farfetch torna alle origini e cresce. I numeri del marketplace sono positivi: nel 2024 ha registrato ricavi per 1,7 miliardi di dollari, riducendo le perdite a 34 milioni (ebitda rettificata). Ma il segnale più incoraggiante è il rinnovato rapporto con i negozi multimarca indipendenti. Al contrario, il legame con i grandi marchi del lusso appare più fragile. Secondo i dati elaborati per Fashion da databoutique.com, le Sku presenti sulla piattaforma sono salite del 10% rispetto a dicembre 2023, tornando a sfiorare quota 650mila, dopo il crollo sotto le 600mila durante il salvataggio da parte di Coupang. Cresce anche il numero di brand: 3.575 (+13%). Il prezzo medio dei prodotti è salito a 863 euro, segno di un’offerta più selezionata e premium. Protagoniste della ripresa, le boutique indipendenti, soprattutto italiane. Oggi sono la maggioranza dei 1.400 partner di Farfetch e contribuiscono non solo col prodotto, ma attraverso un dialogo più bilanciato con la piattaforma. Le nuove semplificazioni nelle procedure di carica-

1.400

è il numero di partner di Farfetch, la maggior parte dei quali sono boutique indipendenti, soprattutto italiane

mento immagini e, soprattutto, la possibilità per alcuni partner di fissare i prezzi con più autonomia, hanno migliorato il sentiment degli operatori, dopo un periodo critico. Il catalogo è cresciuto anche grazie alla componente pre-owned, valorizzata dall’acquisizione di Luxclusif nel 2021. La nuova fase è sostenuta da scelte operative: meno sconti, politica di reso estesa a 30 giorni. I prodotti ora partono direttamente dalle boutique e, solo nei casi più delicati - quelli etichettati “sold by Farfetch” - transitano da un hub ad Amsterdam, che ne maschera la provenienza. Tuttavia le sfide restano, a cominciare dalla concorrenza di LuxExperience (Mytheresa, YNAP, Mr Porter), forte di accordi diretti con brand, quelli di Kering inclusi, assenti su Farfetch. ■

ANDREA BIGOZZI
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A.A.A. marketplace manager cercasi. Digital expert ma non solo

È un profilo sempre più richiesto dalle aziende che vogliono sbarcare o migliorare la redditività sulle piattaforme multimarca globali. Un compito sfidante: oltre a competenze "hard" servono quelle "soft", in primis una spiccata capacità negoziale

Se c’è un segmento, nel business della moda, che nelle ultime stagioni è stato destabilizzato da violente onde telluriche, questo è quello dei marketplace, soprattutto se a vocazione luxury. Dopo anni di crescite impetuose, nel post Covid la “normalizzazione” dello shopping che ha riportato i consumatori nei negozi fisici, insieme alla volontà dei big brand di presidiare direttamente il mercato (offline con negozi monomarca, online con siti direct-to-consumer), hanno contribuito a un loro ridimensionamento, seppur con esiti molto diversi a seconda delle piattaforme (pensiamo al salvataggio di Farfetch da parte di Cou-

«I marketplace manager sono dei piccoli direttori generali, chiamati ad avere competenze specialistiche e trasversali e un insieme di skill sia strategiche che operative»
Filippo Quattrone, FiloBlu

pang, all'epilogo di Matches, ma anche alla crescita di dimensioni di Mytheresa, diventata LuxExperience dopo la fusione con Ynap, e di Zalando, che ha appena acquisito About You). Nonostante alcune insidie nascoste nel modello di questi multimarca virtuali - in primis il rischio che le proposte di un singolo brand vengano annacquate nel mare magnum dell’offerta e che l’azienda ospite non possa controllare tutti i processi del business - essi offrono numerosi vantaggi e una potenza di fuoco a disposizione degli imprenditori per espandersi laddove è impossibile spingersi con le proprie forze, andando a stanare nuovi

La cavalcata dei marketplace in Ue: un canale da presidiare con specialisti dalle skill trasversali

potenziali clienti. Secondo una ricerca di Netcomm, in Europa il 29% delle vendite di moda digitale avviene proprio sui marketplace e l’Italia, insieme al Belgio, registra il maggior numero di ricavi tramite questo canale. Fondamentale è però saperlo usare. Ecco perché è indispensabile ci siano figure aziendali adeguate a livello di governance, capaci di gestire la relazione con questi aggregatori, che della massa critica fanno la loro forza per aggiudicarsi la preferenza dei consumatori. Li chiamano marketplace manager e, come dice il nome, sono degli specialisti che hanno il compito di scortare i brand nell’approdo sulle grandi piattaforme come Farfetch, Zalando, Mytheresa, About You e Miinto, per citarne alcune, oppure, se non più neofiti, di aumentare la loro profittabilità su questi canali.

«Dal nostro osservatorio - spiega Iacopo Pecchi, amministratore di Marketplace Generation, società che supporta le aziende nel loro percorso su questi e-tailer - abbiamo notato che se da un lato le performance dell’e-commerce in generale sono piuttosto flat, dall’altro quelle dei multimarca online stanno registrando crescite interessanti. Anche per questo tutte le società, se le dimensioni lo consentono, hanno al loro interno un referente per gestire il mondo marketplace. Figure ibride, con una preparazione sia tecnica che manageriale». Non sono infatti semplicemente degli esperti di digital, come sottolinea Riccardo Adamo, founder e ceo di Aerre Partners, società di consulenza specializzata nella ricerca di designer e talent executive nei settori moda e lusso: «Devono innanzitutto avere una visione omnicanale,

«Si tratta di una figura professionale con ampie possibilità di crescita, grazie a una formazione e a un modus operandi che tocca tutti gli aspetti del business»
Riccardo Adamo, Aerre Partners

oltre a capacità di analisi e interpretazione dei dati, requisiti per stipulare accordi di partnership e gestire i contenuti digitali, una spiccata abilità negoziale e la conoscenza delle modalità di brand protection, in primis sul fronte dei prezzi». Come sintetizza Filippo Quattrone, head of marketplace unit di FiloBlu, si tratta di «piccoli direttori generali», chiamati ad avere competenze specialistiche e trasversali al tempo stesso e un insieme di skill sia strategiche che esecutive: «Non basta il business acumen - spiega -. Serve anche consapevolezza operativa, per esempio nel dialogo con i fotografi e i team tecnici dei vari marketplace, un’arena frastagliata non solo dal diverso po-

sizionamento, ma anche con procedure e practice differenti». Se da un lato sapersi muovere con disinvoltura fuori dal proprio contesto aziendale, cercando di mediare tra le logiche di questi giganti e gli obiettivi del proprio brand, è la priorità di un marketplace manager, dall’altro una delle criticità maggiori non viene dall’esterno ma dall’interno. Ed è lì che servono soprattutto doti di negoziazione. «Gestire il business con l’obbligo di attenersi a regole esogene, quelle dettate dai diversi marketplace, impone uno sforzo di contaminazione dentro le aziende che talvolta provoca attrito - precisa Quattrone -. Ecco allora che ampliare il circolo di influenza interna, per fare in modo che coesistano priorità legate alla propria business unit e interessi “diffusi”, espressione degli altri “silos”, diventa uno dei compiti più ardui». Una frizione che però, come evidenzia il manager, di solito si scioglie man mano che arrivano i primi risultati positivi, che innescano «sinergie e moti virtuosi», finendo per livellare le iniziali disparità. Un altro insider come Andrea Dell’Olio, head of marketplace da Boggi Milano, lo conferma: «Certo, fondamentali sono competenze hard, come saper identificare i canali più idonei e in linea con il proprio brand, capire il potenziale di business, avviare l’intero progetto con la selezione specifica per ogni marketplace, costruire la struttura informatica, logistica e distributiva. Tutte attività che presuppongono un know how in fatto di merchandising, logistica, informatica, finance e accountability, marketing e gestione del budget». «Ma - sottolineaforse ancora più importanti sono le competenze soft, in primis quella di riuscire

Fonte: "Il ruolo chiave dei marketplace in una strategia full-funnel", report di FiloBlu
Ricavi marketplace Ue in miliardi di euro

I grandi marketplace del lusso: e-tailer come Mytheresa-Ynap competono con department store come Nordstrom e Saks

a “formare” internamente il cda e far capire il valore aggiunto insito nell’abbracciare un canale di questo tipo». Dell’Olio lo dice con cognizione di causa, visto che si considera uno dei pionieri in questo ambito e da Boggi Milano, dove è entrato cinque anni fa, ha costruito questo apparato da zero, portando il marchio su Farfetch, Zalando e About You, oltre che su player online multimarca locali come Breuninger, Globus, El Corte Inglés e, a breve, Selfridges e Bloomingdale's, tanto che oggi il 30% dei ricavi digitali del marchio sono generati dai marketplace. «La mia scommessa - spiega - è stata far comprendere che si tratta di canali dove puoi fare brand awareness e marketing non a fondo perduto e che anzi essi rappresentano uno dei touch point con effetto moltiplicatore del business». Il generale rallentamento dei grandi e-tailer nelle ultime stagioni non lo impensierisce più di tanto: «Non siamo stati toccati dalla crisi di alcuni player, che hanno sofferto a causa della frenata del lusso, perché quello che proponiamo noi è un affordable luxury. Ne abbiamo anzi beneficiato, in quanto molti consumatori habitué delle griffe si sono spostati sull’offerta premium».

In ogni caso, al di là dell’andamento congiunturale di questo sbocco commerciale, conditio sine qua non per trasformarlo in un vettore di crescita è garantire la coerenza con il proprio posizionamento. Due i nodi principali, la selezione di prodotto e il pricing, per ovviare al luogo comune che vede i marketplace come un'entità energivora che finisce con il fagocitare le singole identità dei marchi, appiattendole in un calderone dove la partita essenzialmente si gioca

«Fondamentale è la capacità di negoziazione, soprattutto in azienda: la sfida più difficile per un marketplace manager è "formare" e convincere il cda»

sui prezzi. «Per crescere e aumentare la profittabilità su queste piattaforme - dichiara Filippo Quattrone - i brand hanno una grande leva: la gestione oculata del catalogo. Bisogna vendere ciò che il cliente, su quel determinato sito, si aspetta di trovare». Ecco perché il marketplace manager deve essere anche un abilissimo merchandising director: «Inutile e controproducente pubblicare tutto il catalogo - precisa -. Meglio optare per una selezione meno ampia ma più profonda, così da massimizzare la propria creatività distintiva». Un modo, questo, anche per non entrare in conflitto con gli altri canali di e-commerce e generare dunque sinergie virtuose, evitando possibili canniba-

lizzazioni. E, infine, la questione prezzi: la coerenza è d’obbligo, se non si vogliono perdere punti in fatto di immagine e reputation. Oggi la tecnologia può dare una mano sul monitoraggio dei listini, ma anche «un approccio b2c, anziché b2b, nella relazione con il marketplace consente un maggior controllo sull’inventario, sul posizionamento e sui prezzi del proprio brand, evitando di essere travolti dalla deriva di scontistiche selvagge». Tutte scelte che spettano al marketplace manager: pedina dunque fondamentale sulla mappa delle strategie aziendali. «Si tratta di una professionalità con interessanti prospettive di crescitainterviene Riccardo Adamo - e che può schiudere altre possibilità manageriali con responsabilità maggiori, grazie a una formazione, ma anche a un modus operandi, che si interseca con tutti gli aspetti del business». Tanto che ormai buona parte delle accademie di moda offrono interventi formativi in vista di questa professione, come conferma Eva Zimmerman, Business Department Supervisor di Polimoda: «Prevediamo moduli utili alla formazione di un marketplace manager in diversi percorsi, ciascuno con un taglio specifico in base al livello di approfondimento, sia nei corsi post diploma, sia nei Master». Del resto, come ribadito dagli addetti ai lavori, si tratta di una figura con un ruolo sia strategico che operativo: «Le competenze - sottolinea Zimmerman - devono coprire un mix di marketing digitale, gestione commerciale e strategica, analisi dei dati e conoscenza del prodotto moda, oltre che una solida comprensione del settore». ■

Fonte: LuxExperience
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DATA LIFE: L’AI SMETTE

DI ESSERE (SOLO) UN GADGET

L’integrazione dell’AI nei processi di analisi e valorizzazione dei dati offre strumenti pronti all’uso personalizzabili in grado di supportare i decision maker nella gestione della quotidianità del business, accelerando i risultati

Ottenere margini migliori, poter disporre di modelli predittivi nel processo decisionale quotidiano riguardo collezioni, prezzi, approvvigionamenti, valorizzando i propri dati aziendali. Data Life - società fiorentina di consulenza e sviluppo software negli ambiti Decision Intelligence e Artificial Intelligence - nasce per portare alle aziende della moda questi risultati. Come? Affiancando i propri clienti nel delicato percorso di analisi dei propri dati grazie a un team operativo in cui confluiscono esperienze e capacità dai principali settori dell’informatica e con il supporto delle migliori tecnologie oggi disponibili. Il metodo di Data Life - che dispone di uno stack proprietario locale, che parla la stessa lingua dei planner, dei buyer e dei direttori retail - è semplice: l’80% è prodotto pronto all’uso, allenato su miliardi di dati del settore moda e lusso; mentre il 20% è quell’aggiustatura sartoriale cucita

sulle specificità di ogni brand. In questo modo, l’AI entra in produzione nel giro di settimane e comincia subito a generare KPI, consentendo di ottenere la riduzione dei markdown fino al 25%, un sell-through accelerato, una pianificazione just in time che fa respirare cassa e magazzino. Non si tratta di sperimentare l’intelligenza artificiale, ma di adottarla su scala. Dall’esperienza di oltre cento rollout, infatti, alcuni dei quali raccontati sul palco dell’evento organizzato da Fashion Magazine lo scorso 5 maggio, emerge che il vero discrimine è culturale: servono persone formate, processi ridisegnati e governance dei dati. Per questo, Data Life affianca i team di business con academy mirate e un supporto di change management continuo, fino a quando l’AI non diventa una routine e i risultati non finiscono nel conto economico. Un percorso pionieristico, che significa anche scegliere la via lunga, investendo

in ricerca, costruendo modelli proprietari, preservando la sovranità dei dati dei clienti. Una scelta coraggiosa, che permette al brand di parlare di sostenibilità senza retorica: meno sovrapproduzione, meno rimanenze, decisioni più informate. L’efficacia di questi processi è avvalorata da risultati come il demand forecasting che ha tagliato del 17% le rotture di stock di un retailer europeo, la pricingAI che ha restituito 3,4 punti di margine a un marketplace premium e così via. Usecase, metriche, lesson learned e checklist operative che Data Life ha raccolto nella pubblicazione AI nel Fashion&Luxury, che presenta in anteprima: 32 pagine dense di casi reali, domande scomode e roadmap in 90 giorni. È possibile scrivere a info@ datalife.it o visitare www.datalife.it per scaricare gratuitamente la versione digitale e iniziare a trasformare i dati in valore fin da subito. Parlare il linguaggio dei dati attraverso l’AI non è magia, ma business.

Iacopo Cricelli Ceo e Marco Ruffa General Manager di Data Life

Simon Whitehouse «Vorrei regalare al mondo una pillola di felicità»

Simon Whitehouse era uno dei più giovani amministratori delegati del gruppo del lusso Lvmh. Ora sta promuovendo il proprio marchio Ebit, con il quale si impegna affinché la salute mentale non sia più un argomento tabù. È una questione molto personale, perché lui stesso ha sofferto di depressione

Un fotoritratto? Simon Whitehouse non lo possiede: «Non è mai stato importante per me. Le uniche cose importanti sono l’arte e creatività». Sono frasi insolite per un manager come Whitehouse. Nato nel Regno Unito, ha avuto una carriera folgorante nel mondo della moda. È stato Ceo di JW Anderson, Art Partner, Eco-Age, Reference Group e Modes. È stato inol-

tre top manager presso Donna Karan e Diesel. Potrebbe quindi tranquillamente apparire sulla copertina di una rivista. Ma non è quello che vuole. Non vuole che si parli di lui, ma del suo progetto, il marchio di moda Ebit L'acronimo non sta per “Earnings before interest and taxes”, ma per “Enjoy Being in Transition”. È un incoraggiamento a tutte le persone che soffrono perché non

hanno ancora trovato la loro strada nella vita, a godersi il viaggio verso la meta. Per quanto difficile possa essere. La salute mentale è il tema di Ebit e una questione molto personale per Whitehouse. Nella società è ancora un tabù parlarne. Lui vuole cambiare questa situazione e dà il buon esempio. Parla apertamente della sua lotta contro la depressione e del suo tentativo di suicidio nel 2009. «Da al-

Ph.
Mario Maglione

lora, tutto nella mia vita è un bonus», scrive in un post su Instagram, dove esorta a «non temere il giudizio degli altri». Con Ebit, Whitehouse porta all'esterno i conflitti interiori e gli abissi. I capi, dalle T-shirt ai jeans alle salopette, hanno qualcosa di incompiuto, persino imperfetto. Le cuciture sono sfrangiate, i bordi non rifiniti. La silhouette è ampia, come se gli indumenti fossero un'armatura protettiva. Al tempo stesso, i tagli e i top corti lasciano intravedere lo strato sottostante. I capi Ebit conferiscono forza, mettendo in mostra la vulnerabilità.

Nel mondo della moda Ebit è un caso isolato. Impegno per l'ambiente? «Pensi a Patagonia». Protezione degli animali? «Pensi a Stella McCartney». Salute mentale? «Non c'è niente - risponde Whitehouse in una videointervista con la scuola di moda Istituto Marangoni, che ha condiviso sul network professionale LinkedIn -. E questo nonostante la salute mentale riguardi l'intera popolazione». I primi importanti rivenditori di moda stanno dando una possibilità a Ebit e vendono le collezioni. Tra questi figurano Selfridges ed End Clothing a Londra, ma anche The Number 4 in Kuwait e Nighthawks in Giappone.

L'idea di Ebit è venuta a Whitehouse nel 2019, mentre si faceva un tatuaggio nel quartiere newyorkese di Brooklyn. Era un periodo difficile per lui. Sua madre era morta alcuni mesi prima e la moglie era in attesa di un bambino.

Si sedette in un pub e ordinò una Guinness, quando improvvisamente gli venne in mente una frase: «I marchi redditizi seguono la loro bussola morale». Chiese al barista di dargli una penna e scrisse la frase. Una, due, tre volte di seguito. Come se fosse un compito in classe. «Era tutto molto strano», rammenta.

La primavera del 2020 è stata un'altalena emotiva per lui. È nata sua figlia, è scoppiata la pandemia, sono stati imposti i lockdown e tutto si è fermato all'improvviso. Whitehouse ha ascoltato la musica della sua giovinezza: «Gli Happy Mondays, i New Order mi hanno riportato indietro ai miei 12, 13, 14 anni. Allora ero mentalmente lucido, stavo bene. Un'ondata di nostalgia mi ha travolto». I ricordi degli spensierati anni dell'adolescenza si sono scontrati con un presente plumbeo. Nel maggio 2020, l'afroamericano George Floyd è stato ucciso da un poliziotto. Si è scatenata un'ondata di indignazione ed è nato il movimento "Black Lives Matter", che ha organizzato marce di protesta nelle città americane. La sinistra politica è andata in rotta di collisione con la destra politica e il

La fine del tabù

Ebit è stato fondato nel 2021 da Simon Whitehouse, che ha parlato pubblicamente della sua depressione cronica e del tentativo di suicidio nel 2009. Ne 2014 sarebbe diventato ceo di JW Anderson. Con Ebit vuole sensibilizzare la società sul tema della salute mentale.

La vita come le montagne russe

John Skelton è il Cultural & Creative Director di Ebit. Fondatore di LN-CC a Londra, torna alla moda dopo sette anni, caratterizzati da problemi di salute mentale e dalla riabilitazione dalla dipendenza. «Io e John - dice Whitehouse - siamo entrambi del Nord dell'Inghilterra e la nostra amicizia si è rinsaldata durante 20 anni sulle montagne russe della vita e del sistema moda».

L'abbigliamento è solo un mezzo «Il nostro non è un marchio di modaaggiunge John Skelton -. Direi che è l'esatto contrario: si tratta di una piattaforma futuristica e multidisciplinare, che affonda le radici nella libertà dei sentimenti e delle emozioni, nell'apertura mentale e nel concetto di cambiamento. L'abbigliamento è solo uno dei mezzi attraverso cui veicolare il nostro messaggio».

clima si è surriscaldato. «Vorrei regalare al mondo una grande pillola di felicità - pensò -. Un progetto artistico in grado di creare benessere ed esprimere una silenziosa solidarietà». Così è nato Ebit.

Nel suo percorso Whitehouse non è mai stato solo. Ha sfruttato la rete che si è costruito in 25 anni di carriera. Ad aiutarlo, ad esempio, Mathias Augustyniak e Michael Amzalag, fondatori dell'agenzia M/M Paris, ma anche Glen Luchford, Soo Joo Park, Michel Gaubert, DJ John Digweed, Johnny Jewel e Wilson Oryema

Il collaboratore più stretto è John Skelton. Il fondatore del concept store Late

Night Chameleon Café, meglio conosciuto con l'abbreviazione LN-CC, dove erano disponibili marchi come Balenciaga e Rick Owens, è il direttore culturale e creativo di Ebit. Skelton è tornato dopo anni nel mondo della moda con grande impegno. Si potrebbe dire che per lui Ebit è una seconda chance, essendo stato dipendente da droghe e alcol. Nel 2020 si è trasferito a Maiorca e ha iniziato un percorso di disintossicazione, grazie al quale è tornato in forma anche fisicamente, scendendo da 118 a 89 chili.

Skelton ha celebrato il debutto per Ebit con la collezione primavera 2025. Lui e Whitehouse l'hanno battezzata “I love you”. Comprende 50 pezzi in gabardine, denim e jersey, su cui è visibile un ottagono, «simbolo di rinascita e transizione», scrive il duo nel comunicato stampa. Whitehouse e Skelton sono due perfezionisti. Le immagini della collezione primavera 2025 sono state scattate in una piccola stanza a Milano, «con 30 gradi all'ombra». Il servizio fotografico è durato ore: «John era ossessionato dalla parete blu sullo sfondo. Ci è voluta un'eternità prima che riuscisse a ottenere l'ombra che aveva in mente», racconta Simon. Il duo prosegue instancabile il suo cammino. In occasione del World Bipolar Day, il 30 marzo, Whitehouse e Skelton hanno presentato la collezione “Bipolar/ Bicolor”, 50 capi giocati sui contrasti di colori e tessuti. Whitehouse e Skelton parlano di un «mix casual postmoderno» di maglieria di lusso, abbigliamento da lavoro funzionale e sportswear all'avanguardia. I volti della collezione “Bipolar/Bicolor” sono Rosie Viva e Joseph AwuahDarko, entrambi affetti da disturbo bipolare. Lei è una conduttrice televisiva, modella e attivista per la salute mentale, lui un artista ghanese-britannico che crea le sue opere d'arte sulla base di un foglio Excel in cui assegna a ogni ora un colore che riflette i suoi sentimenti. I colori variano dal rosso, che rappresenta la depressione, al blu pastello, che esprime uno stato d'animo positivo.

«Le persone nella loro vita reale, come Rosie e Joseph, sono i miei eroi - afferma Simon Whitehouse -. La forza di mostrarsi vulnerabili e difendere temi delicati è una qualità che, ne sono consapevole, trasmette solidarietà a molte persone che potrebbero sentirsi sole». «Con tutto il rispetto, non vorrei mai una celebrità come Kylie Jenner in una campagna Ebit», chiarisce. Perché a lui non interessa la celebrità e, riascoltando le sue parole, non potrebbe essere altrimenti. ■

TOBIAS BAYER
John Skelton,
Ph. Rosario Rex

Il Maestro del franchising

Quantum Retail è uno dei maggiori franchisee italiani e gestisce negozi di L'Erbolario, Piquadro e molti altri marchi. Il fondatore e ceo Alessandro Cappelleri è convinto che il futuro appartenga al modello di multibrand franchising. Lo dimostra con la sua regola dell'80%-20%

Inumeri sono impressionanti. Si tratta di un totale di 86 negozi, di cui 14 Piquadro, 29 L’Erbolario, quattro Alviero Martini 1a Classe, nove Nau, due PdPaola, due The Longevity Suite, due LaBoutiQ, nove Il Barbiere, 12 Divani & Divani by Natuzzi e tre Dorelan (questi ultimi due brand gestiti tramite una società controllata). Fatturato complessivo? 50 milioni di euro. Tutti questi negozi sono gestiti da un’unica azienda: Quantum Retail S.r.l. Società Benefit. Fondata nel 2006, con quartier generale a Milano, oggi è uno dei maggiori franchisee italiani. Il modello di business è ancora insolito per l’Italia. Oltre al gruppo Percassi, Quantum Retail è uno dei pochi franchisee multimarca, ovvero con più marchi nel proprio portafoglio e attivo in diversi settori.

La gamma spazia dagli accessori (Piquadro, Alviero Martini 1a Classe, LaBoutiQ) agli occhiali (Nau), dai cosmetici (L’Erbolario) ai gioielli (PdPaola), dalla cura dei capelli e della barba (Il Barbiere) al benessere (The Longevity Suite), fino ai componenti d'arredo (Divani&Divani e Dorelan). «Per me avere una società che si occupa di tanti punti vendita e di tanti marchi differenti vuol dire cambiare ogni giorno, misurarmi con problematiche differenti e poter soddisfare la mia curiosità», afferma Alessandro Cappelleri, ceo di Quantum Retail.

Cappelleri ha scoperto la sua passione per il franchising lavorando presso McDonald’s, «che considero una delle società più forti al mondo e simbolo dei sistemi di franchising di successo». Dopo si è messo in proprio insieme a una famiglia di imprenditori. «Abbiamo deciso di applicare il nostro know-how

«Nel futuro del franchising ci sarà sempre meno spazio per l'improvvisazione e i generalisti»

in altri settori e con diversi brand». Ha iniziato con L’Erbolario: «Mi sono innamorato di loro perché è un’azienda con grandi valori». Il suo entusiasmo ha convinto Franco Bergamaschi, fondatore de L’Erbolario, e Andrea Prange (a.d. di L'Erbolario Franchising) a dargli una possibilità. Quantum Retail l’ha colta al volo e ha rapidamente ampliato l’attività, «aprendo ben 20 punti vendita nei quattro anni successivi». Successivamente - correva il 2009 - l'imprenditore si è presentato da Piquadro: «Abbiamo letteralmente bussato alla porta». Anche Marco Palmieri, fondatore del brand bolognese, e il direttore commerciale Pierpaolo Palmieri hanno detto sì. Il contatto diretto con imprenditori come questi è stato cruciale per raggiungere il successo: «Mi ritengo molto fortunato ad aver conosciuto manager e imprenditori che sono persone straordinarie, da cui imparo molto ogni giorno. Con tanti di loro ho un rapporto che va ben oltre il semplice rapporto professionale». Secondo Cappelleri, affinché la partnership sia proficua nel lungo periodo, sia per il franchisor che per il franchisee, devono essere soddisfatte essenzialmente due condizioni. In primo luogo, deve essere garantito un margine sufficiente per entrambe le parti: «Questa è la conditio sine qua non», ribadisce. In secondo luogo, i ruoli e i compiti devono essere chiari.

Il marchio deve occuparsi del prodotto, condividere informazioni con il franchisee e perseguire una strategia a lungo termine, coerente su tutti i canali di vendita: «Le aziende che interpreteranno meglio il concetto di multicanalità avranno molto più successo. Sono convinto che a oggi sono ancora pochis-

Alessandro Cappelleri
Foto di gruppo con Alessandro Cappelleri e tutti i suoi collaboratori

sime le realtà che hanno le idee chiare in tema di multicanalità e la stiano sfruttando al meglio in ottica di drive to store».

Invece il franchisee è tenuto a dimostrare fiducia e rispetto: «È fondamentale - dice Cappelleri -. Deve avere la consapevolezza che l’insegna che ha sulla testa non è la sua, ma può solo usarla al meglio ed essere uno strumento per promuoverla e farla crescere. Oltre al suo interesse personale c’è sempre un interesse superiore di sistema che deve essere la priorità, permettendo che quest’ultimo viva e cresca per il bene di tutti».

Il modello del franchisee multimarca è vantaggioso secondo Cappelleri, che lo motiva con la regola dell’80%20%. Ritiene infatti che l’80% delle competenze necessarie nel retail siano «assolutamente trasversali», ossia identiche per tutti i brand e tutti i settori, mentre solo il 20% sono specifiche del marchio.

La regola dell’80%-20% si riflette nell’organigramma di Quantum Retail. L’amministrazione, il controlling e le risorse umane sono centralizzati, come in una grande azienda alla Lvmh, Pvh o Vf Corporation: «Nel tempo abbiamo creato strumenti e sistemi che ci permettono di replicare in modo relativamente semplice le attività». Per ogni brand vengono invece assegnati degli Area Manager, «che governano i business dedicati e si concentrano sul singolo marchio». Non esiste uno scambio delle persone tra le diverse attività, perché «tutti coloro che lavorano per un determinato brand devono assolutamente acquisire e fare proprio ogni singolo aspetto di quel 20%». Poiché Quantum Retail è spesso presente con più negozi in un centro commerciale o in un outlet, l’azienda è in grado di valutare bene se una location funziona o meno.

«Penso che il mondo della moda dovrebbe concentrarsi su circa 50 centri commerciali, che hanno investito molto e attirano un gran numero di persone, offrendo loro un’esperienza di shopping di alta qualità», afferma.

Prima di optare per un nuovo centro commerciale Cappelleri e il suo team danno un’occhiata in loco, come nel caso di una nuova struttura nel Nord Italia, pubblicizzata dal promotore e dai media come un progetto di prestigio. Quando lui è arrivato in auto per fare un giro, ha notato che mancavano i parcheggi. Ha quindi deciso di rinunciare, «perché più difficile che entrare in un centro commerciale è uscirne».

Quantum Retail è in espansione. Di recente ha iniziato ad aprire negozi del marchio di gioielli PdPaola - «Il piano di sviluppo è molto interessante» - e ha firmato l'apertura di due punti vendita con il gruppo L'Oréal per il marchio NYX L’azienda spinge anche su Alviero Martini 1a Classe. Per il 2025 ha già firmato contratti per quattro nuove aperture. Alta l'attenzione al mondo del mobile, ma alla fine «più che sul settore, scelgo di investire sul brand e sul relativo progetto». Nonostante il momento difficile, Alessandro Cappelleri è ottimista sul franchising: «Se guardiamo a ciò che sta accadendo in altri Paesi, molto simili alla nostra cultura, è chiaro che da noi in Italia ci sono ancora grandi opportunità di crescita». È però convinto che i requisiti diventeranno sempre più stringenti: «In futuro - conclude - verrà sempre più premiata la preparazione. Ci sarà sempre meno spazio per l’improvvisazione e i generalisti». ■

Alviero Martini 1a Classe presso Il Centro di Arese, a pochi chilometri da Milano
La Boutiq a Bergamo
Piquadro al Centro Commerciale La GrandeMela di Sona, nel veronese

EMANUELA PIGNATARO

«Metto

al centro le persone. Il mio motto? Lead by example»

Fanatica di digital, appassionata di moda, irriducibile globetrotter: dopo tante esperienze in Italia e all'estero, dal 2020 Emanuela Pignataro è ceo di Lanieri.

Con noi parla dei suoi "defining moment", degli ostacoli (superati) come manager donna e di quello che ha in mente per il futuro (e non solo per l'azienda dove lavora)

Emanuela Pignataro, ceo di Lanieri, si definisce un «dinosauro digitale». Certo non per questioni anagrafiche, ma perché il fuoco sacro della tecnologia ce l'ha dentro da sempre, fin da quando con una laurea in scienze politiche in tasca è partita da Roma e se ne è andata a New York a fare un master in marketing. «Esterofila, globetrotter e curiosa per natura», altra sua definizione, da quel momento inizia una carriera che la porta a saltare dall'Italia all'Inghilterra e viceversa, calamitata prima dalla passione per pixel, bit e algoritmi e, successivamente, per la moda e le sue creazioni. In sequenza lavora da Media Metrix, Microsoft, Condé Nast Uk, Yoox e Canali, fino ad approdare nel 2018 nel Gruppo Reda come chief marketing officer, all'interno del quale viene promossa alla guida di Lanieri, il marchio italiano digital native di menswear su misura, acquisito dalla realtà tessile nel 2020. Un iter professionale solo apparentemente incongruente, perché sottotraccia ancorato al duplice interesse costante per l'innovazione e il fashion, che la porta a ricoprire ruoli di crescente responsabilità negli ambiti della ricerca, del marketing, del servizio clienti, della comunicazione, dei contenuti editoriali e infine dei tessuti e del capo finito, dalla produzione alla distribuzione online e offline. Come nel caso di Lanieri che, come dice lei stessa, «rappresenta la sintesi di tutto il mio percorso».

Lei ha fatto tante esperienze. Ce ne sono alcune che hanno costituito dei "defining moment"?

Tutte hanno contribuito alla mia formazione e sono state delle palestre importanti. Però ricordo con orgoglio che quando ho avuto l'incarico di aprire la sede italiana dell'istituto di ricerche Me-

dia Metrix ho realizzato il primo report sul comportamento online degli utenti. Pensi che eravamo all'inizio degli anni Duemila! Anche all'epoca di Condé Nast Uk a Londra, come responsabile di tutte le properties digitali del gruppo, ho avuto grandi soddisfazioni, perché sono riuscita a riportare in utile il business online. E poi da Yoox, lavorando fianco a fianco di un imprenditore visionario come Federico Marchetti: ho imparato tantissimo.

Un background che le fa gioco oggi da Lanieri, visto che vendere online abbigliamento sartoriale su misura non è così scontato...

Lanieri è di fatto il primo e-commerce di abbigliamento maschile di questo tipo,

IDENTIKIT

Romana, studi in Scienze Politiche presso l’Università La Sapienza, Emanuela Pignataro dopo la laurea ha conseguito un master in Marketing & Communication alla New York University. Ha iniziato la sua carriera in Inghilterra da Media Metrix (acquisita poi da Jupiter), spostandosi poi a Milano per avviare la sede italiana. Da lì l'ingresso in Microsoft, per cinque anni nel nostro Paese e per due anni a Londra, con il passaggio successivo in Condé Nast Uk, dove rimane fino al 2011, anno in cui fa rientro in Italia per motivi personali. Approda da Yoox, dove resta due anni e nei successivi cinque lavora da Canali, dove si occupa del lancio dell'e-commerce. Nel 2018 l'ingresso nel Gruppo Reda e dal 2020 la nomina a ceo di Lanieri.

oggi diventato omnicanale grazie anche a otto atelier fisici sparsi in Italia e in Europa. Ovviare al naturale limite del digitale, quello di non poter vedere dal vivo e toccare con mano il prodotto, è la sfida principale. Per vincerla ci stiamo concentrando sulla customer experience. Mandiamo a casa campioni di tessuto per rendere possibile una scelta consapevole e sul fronte delle taglie, forse il nodo più critico, accanto a delle app, offriamo un servizio di presa misure nei nostri punti vendita, oltre a organizzare delle videoconsulenze, che funzionano soprattutto con i clienti esteri. Come tutti, stiamo naturalmente studiando le potenzialità dell'intelligenza artificiale: un aiuto nella fase di validazione degli ordini, ma anche per arrivare a un'offerta sempre più personalizzata per il singolo consumatore. Senza togliere la priorità all'intelligenza umana. Sulla sua centralità non ho dubbi, nonostante il mio amore per la tecnologia.

Guardandosi indietro cambierebbe qualcosa del suo percorso?

Non tanto del percorso, quanto forse nel mio modo di pormi. Ho sempre lavorato in organizzazioni con leadership a prevalenza maschile e ho notato un copione che si ripete, ossia il fatto che l'assertività di una manager è spesso interpretata dai superiori come aggressività. In genere le donne sono dirette. Questa caratteristica, che mi appartiene, non l'ho certo modificata, ma nel tempo ho cercato di abbinare la trasparenza a una modalità di relazionarmi più morbida e diplomatica.

Intralci nella carriera dati dal fatto di essere una donna?

No, intralci no. I miei capi hanno sempre riconosciuto la passione che metto nel lavoro. Però qualche screzio con colleghi maschi sì.

Motivo?

L'essere considerata una "bionda" piuttosto, o prima, che una professionista.

Come ci si difende da esperienze di questo tipo?

Solo con la competenza e la professionalità, dimostrando il proprio valore. Su questo non ho mai mollato, nemmeno un secondo.

Oggi però è arrivata sullo scranno più alto. Lei come si rapporta con il team?

Per me le persone devono essere al centro. E non è solo un proclama. Da madre single con due figlie so quali possono essere le necessità dei dipendenti e cerco di andare loro incontro. Sono convinta che quello che dai, ti torna indietro. E poi cerco di delegare, anche se sono sempre presente. Soprattutto, credo nel "lead by example". Sono la prima che arriva in ufficio, l'ultima che va via.

Rimpianti?

Direi di no. O meglio, forse uno. Quando sono rientrata in Italia nel 2011 per motivi

DIETRO LE QUINTE DEL SUCCESSO

«UN BACKGROUND INTERNAZIONALE DI VITA E LAVORO ALL'ESTERO»

• «METTERE AL CENTRO LE PERSONE E IL LAVORO DI SQUADRA»

• «ESSERE FLESSIBILI, SAPERE DELEGARE E GUIDARE SEMPRE ATTRAVERSO L'ESEMPIO»

• «LA FORZA DI VOLONTÀ, NON MOLLARE MAI, NEMMENO UN SECONDO»

personali, da esterofila quale sono ho pensato: "Resto qualche anno, poi riparto". E invece no, alla fine sono rimasta qui.

Ha un sogno per Lanieri?

Da donna, mi piacerebbe vestire la donna. Il su misura, a meno che non si ricorra a una sartoria, è molto difficile da trovare al femminile. E Lanieri potrebbe essere

una risposta moderna, veloce, dal prezzo accessibile. Ci stiamo pensando.

C'è qualcosa che Emanuela Pignataro finora non ha fatto ma che prima o poi farà?

Mi fido a dirlo? Non vorrei mi licenziassero (ride). In futuro mi piacerebbe fare qualcosa di mio. Diventare imprenditrice. Ma non tanto nella moda, quanto nel mondo dei servizi. Creare qualcosa che faciliti la vita alle persone. E poi, se parliamo di sogni, ne avrei uno nel cassetto... Ossia?

Da ragazza, dopo la laurea in Scienze politiche, feci uno stage alla Fao. Mi sarebbe piaciuto occuparmi di progetti umanitari in Paesi in via di sviluppo. Mi avevano offerto di andare in Ruanda, ma mio padre si oppose, proponendomi in cambio di andare a New York. Cosa che ho fatto. Ma da allora mi è rimasto quel "pallino": andare a lavorare in qualche organizzazione non governativa. Chissà, in futuro. Se non sarò troppo vecchia...■

ANGELA TOVAZZI

GIULIO MARAGNO

Come Maragno riscopre le sue radici

Creatività, stile, materiali pregiati, amore per l'ambiente e un invito a rallentare sono solo alcuni dei messaggi che Giulio Maragno consegna a un mercato spesso caotico e povero di contenuti. Insider noto nel settore, poche stagioni fa ha lanciato Maragno: un marchio inclusivo, oltre gli stereotipi e tutto da scoprire

Maragno è un marchio italiano dall’attitude responsabile. È gender-fluid e offre piccole produzioni di capi upcycled in materiali pregiati. La disegna Giulio Maragno, che lo ha fondato nel 2021.

Benché il brand esista da poche stagioni, lo stilista lavora da oltre 16 anni nel mondo della moda e si occupa di design di prodotto, oltre a contribuire a valorizzare con il suo stile campagne pubblicitarie, cataloghi, siti e piattaforme e-commerce di brand di moda come, ad esempio, Max Mara, Ovs, Upim e vari altri marchi di moda italiani.

Fin da bambino è stato affascinato dal mondo della creatività, trovando ispirazione in tutto ciò che lo circonda come la natura, i colori, i profumi e le immagini.

Si è diplomato come grafico pubblicitario con specializzazione in fotografia di moda al liceo, e poi come costumista e scenografo teatrale all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Ha, inoltre, conseguito un master in Stilista per le Arti Performative presso lo Ied di Roma. Il debutto sul palcoscenico di Milano Moda Uomo risale allo scorso gennaio con la prima presentazione dal vivo, nonostante Maragno avesse già partecipato a diverse edizioni precedenti attraverso eventi digitali.

«La mia collezione Radici vuole invitare tutti a fermarsi e rallentare. Ho voluto tornare all’essenziale, a ciò che conta davvero, come il contatto con la terra e le persone»

«La mia collezione FW 2025/2026, Radici, è un invito a fermarsi e rallentare, per staccare dal ritmo frenetico della vita quotidiana e del mondo virtuale. Ho voluto tornare all’essenziale e a ciò che conta davvero, come il contatto con la terra e le persone», ha spiegato, sottolineando il fil rouge che lega tutte le proposte.

In linea con il mantra del designer, la filosofia del marchio si concentra sul desiderio di salvaguardare il pianeta at-

zioni e interpretazioni che ciascuno può decidere liberamente, a seconda del mood e dell’outfit del momento.

Maragno è sinonimo di un ampio total look che comprende, tra gli altri, top, giacche, pantaloni e accessori, enfatizzando l’idea di coccole e calore e avvolgendo chi indossa i capi con i colori della natura, tra cui tabacco, marroni, verdi e nocciola.

Il cerchio di legno è un leitmotiv della stagione e diventa simbolo di legami profondi, di abbracci invisibili e radici sotterranee, che simbolicamente infondono senso di sicurezza, stabilità e vicinanza.

Il marchio Maragno è venduto attraverso il proprio e-shop e in alcuni negozi in Giappone. È anche disponibile nella sua showroom di Thiene, presso la sede del marchio, su appuntamento o in occasione di aperture speciali.

traverso il riciclo creativo di tessuti di pregio come tagli di cashmere, lana e seta provenienti da stock di fine produzione. Altro aspetto essenziale di Maragno è il riconoscimento dell’unicità di ogni individuo. Per questa ragione, il marchio ha scelto di puntare su capi genderless, spesso no-size e facilmente indossabili da chiunque in modi diversi, usando allacciature e sovrapposizioni, secondo propor-

I prezzi al dettaglio vanno da 60 euro per una T-shirt, fino a 370 euro per un paio di pantaloni, 890 euro per un giaccone e 1.250 euro per un cappotto o un capo di maglieria.

In occasione della prossima edizione di settembre di Lineapelle, Maragno è stato scelto dalla manifestazione come protagonista di una sfilata che si terrà nei giorni della fiera. «Sarà un’esperienza stimolante, perché potrò sperimentare nuovi accostamenti, mixando la pelle con materiali come cashmere, seta e cotone, creando nuovi capi», commenta lo stilista, mettendo in luce la sua passione rivolta a esplorare sempre nuovi percorsi creativi.

«Finora - conclude - avevo utilizzato pellami solo per realizzare alcuni accessori. Questa opportunità mi permette di scoprire un’evoluzione interessante». ■

CONSINEE: IL COMFORT È UN GIOCO CON IL CORPO

La ricerca sui materiali è un moltiplicatore di possibilità: indossare un capo diventa un gioco di sovrapposizioni creative per esprimere il proprio stile e rispondere a bisogni ogni volta diversi

Dedicare un libero spazio espressivo ad autori provenienti da diversi campi e culture, con l’intento di mostrare le possibilità e la malleabilità offerte dai materiali, attraverso capi di pura ricerca, non destinati al commercio. Questo il cuore delle special collab che Consinee - gruppo cinese leader a livello globale nella produzione di fibre di cashmere e filati preziosi da filiera certificata e sostenibile - da qualche anno sviluppa in occasione di Pitti Uomo.

Sotto i riflettori della prossima edizione 108, il progetto The

Body Is A Playground, curato ancora una volta dal giornalista e critico Angelo Flaccavento con il fashion designer Luca D’Alena. Una capsule collection di pezzi di maglieria, che esplora il rapporto tra abito e corpo, gestualità e fisicità.

Frammentare per moltiplicare le possibilità di utilizzo. Questo il concept della collezione, che si compone di capi modulari, estensibili, grafici: diverse forme archetipe - il pullover girocollo o a V, la polo, il gilet, il cardigan, la tunica – sono suddivise in moduli dalle trasparenze e densità diverse, che è possibile

combinare per dar vita a capi da indossare in modi differenti e dal differente peso, come se ogni maglia fosse il risultato della sovrapposizione di più maglie, da comporre a piacere ogni volta.

The Body Is a Playground celebra il gesto quotidiano del vestire come atto dinamico, di continua narrazione e reinvenzione. Un progetto dal chiaro intento ludico che verrà presentato il 18 giugno - oltre che con una istallazione e le foto evocative di Alessandro Messina - nel corso di una performance realizzata dal gruppo Kinkaleri, pioniere della ricerca teatrale legata al corpo.

Fondata nel 1999 a Ningbo, Consinee Group - che assorbe il 20% della produzione mondiale di filati in puro cashmere - ha messo a punto una struttura industriale completamente automatizzata e digitalizzata capace di integrare, dalla materia prima alla distribuzione

di filati pregiati, le diverse fasi del processo produttivo, anche grazie all’utilizzo dell’AI. Una modernizzazione che la rende nota come l’azienda leader nell’industria 4.0, la prima “fabbrica del futuro” della provincia di Zhejianggrazie. Per Consinee Group è altrettanto fondamentale poter garantire una produzione etica e responsabile, i cui pilastri sono la protezione dell’ambiente, grazie a basse emissioni di carbonio, il benessere degli animali e la sostenibilità sociale. Alla base di questa politica c’è il valore della trasparenza, ovvero la tracciabilità di tutta la filiera, a partire dalla provenienza delle fibre grezze, grazie a un sistema rigoroso di monitoraggio. Mentre la collezione di filati riciclati dimostra l’impegno dell’azienda a promuovere l’economia circolare, contribuendo a creare un’industria restaurativa e rigenerativa per le future generazioni.

Ph Alessandro Messina
Ph Alessandro Messina

«Cosa c'entra il pesto con la moda? Più di quanto si immagini»

La storia di Marco Bruni, che 15 anni fa ha lasciato una carriera nel fashion system per cambiare vita e aprire un’osteria ligure a Milano, senza però dimenticare gli anni in Camera Moda. «Ho sempre visto U Barba come un lifestyle brand, espressione che all’epoca non era in voga»

Il modo forse più incoraggiante per cominciare un’intervista è sentirsi dire che per tanto tempo la nostra newsletter è stata un segnale inequivocabile dell’orario, senza nemmeno dover guardare l’orologio: «Mi ricordo che appena vedevo apparire Fashion Magazine nella lista delle mail, dicevo: “Già le 18?”». Ma quello che può sembrare un complimento gratuito, una captatio benevolentiae per un’intervista cominciata con qualche minuto di ritardo, è in realtà un segnale rivelatore del passato "fashion" di Marco Bruni, nonché uno dei motivi per cui ci troviamo a intervistarlo. Perché il suo percorso - cominciato proprio nel mondo della moda, tra agenzie, eventi, e collaborazioni con la Camera Nazionale della Moda ai tempi di Santo Versace e Luca Bastagli Ferrari - è uno degli esempi più sinceri di quel cambio vita che oggi è sempre più comune, ma che 15 anni fa sembrava una mezza follia: lasciare il mondo della moda per aprire una trattoria ligure a Milano, U Barba. E farlo senza dimenticarsi di quello che si è imparato. Anzi.

Partiamo dall’inizio: che ruolo ha avuto la moda nei suoi primi passi professionali?

Tutto. Ho iniziato in Hemisphere, l’agenzia di Luca Bastagli Ferrari, allora vicepresidente della Camera Nazionale della Moda. Ho fatto eventi, media buying, marketing. Era un momento d’oro: top model, grandi show, tantissima energia.

Cosa l'ha portata poi a uscire da quel mondo e puntare invece sulla ristorazione?

La voglia di fare qualcosa di mio. Dopo aver lavorato anche nel settore della gioielleria, mi sono guardato dentro. E mi è venuta naturale la voglia di tornare alle mie radici, a quello che avevo respirato da bambino in Liguria: ristoranti, osterie, il lavoro dei miei. Ma non volevo farlo a caso, volevo riuscirci con un’identità forte, come si fa con un brand lifestyle. Solo che all’epoca questo concetto non era ancora in voga.

Lavorare nel settore fashion ti insegna a raccontare. E poi il network: i primi clienti, la stampa… tutto è partito da lì

Quanto l'ha aiutata l’esperienza nella moda con U Barba? Tantissimo. La moda ti insegna a costruire un immaginario, a curare ogni dettaglio. Anche la semplicità può essere pensata. Quando abbiamo ristrutturato la bocciofila, abbiamo seguito quel principio. E poi il network: clienti, stampa, contatti…tutto è partito anche da lì.

Ha detto «costruire un immaginario». In che senso U Barba è anche un brand?

Lo è. Dalla grafica dei menù all’arredo, dal grembiule di jeans al tono della comunicazione. Tutto racconta chi siamo, con una sensibilità che arriva proprio dalla moda.

Oggi food e moda sembrano inseparabili. Come vede questa contaminazione?

Naturale, soprattutto a Milano. Ma se lo fai solo per immagine, si nota. Ognuno deve fare il suo mestiere. Poi ci sono sinergie vere, se c’è coerenza e qualità. Ha un esempio di sinergia ben riuscita?

Da Vittorio. Con Chicco Cerea, che è anche venuto a pranzo da U Barba, abbiamo fatto eventi enormi con la Camera della Moda, anche 20 anni fa. Serate da 1.000 persone a Palazzo Reale, risotti perfetti. Loro possono fare qualsiasi cosa con chiunque, mantenendo sempre il livello. Ci sono state collaborazioni fashion per U Barba?

No, niente di ufficiale per ora. Qualche contatto c’è stato, ma nulla di concreto. Come si differenziano i due ristoranti che gestisce oggi?

U Barba è un’osteria di quartiere, con il rumore, le bocce. A Brera siamo più raffinati, ma sempre fedeli all’identità ligure. Non volevamo essere un locale turistico: per questo ci siamo messi in una via più tranquilla, con una cucina più curata. Per la moda oggi la priorità è l’estero. Lo è anche per voi?

Sì. A un certo punto si era parlato di portare U Barba negli Stati Uniti. Poi è arrivato il Covid e tutto si è fermato. Ora è difficile farlo da soli, servirebbe un partner. Ma l’idea resta, vedremo cosa succede. Tornerebbe a occuparsi di moda?

No, ma la seguo ancora. Ho ancora la vostra newsletter attiva! È un mondo che mi ha dato tanto. Ma oggi sono felice qui. In fondo anche nella ristorazione si costruiscono emozioni, solo che al posto degli abiti usi i piatti. ■

Sopra, il nuovo ristorante U Barba in Brera. Sotto, il titolare Marco Bruni, che esordì lavorando con Luca Bastagli Ferrari, ex vice presidenrte di Camera Moda

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fondo ammortamento immobilizzazioni materiali

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II

Immobilizzazioni

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13. Altri accantonamenti

14. Oneri diversi di gestione

Differenza tra valore e costi della produzione (A-B)

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15. Proventi da partecipazioni

16. Altri proventi finanziari:

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c) da titoli iscritti nell'attivo circolante che non costituiscono partecipazioni

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17. Interessi e altri oneri finanziari:

verso imprese controllate

verso altri (2)

17. Bis Utile e perdite su cambi

utile su cambi

perdite su cambi 0 0

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D) Rettifiche di valore di attività finanziarie

18 Rivalutazioni:

a) di partecipazioni

b) di immobilizzazioni finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni 0 0

c) di titoli iscritti nell'attivo circolante che non costituiscono immobilizzazioni 0 0 19. Svalutazioni:

a) di partecipazioni 0 0

b) di immobilizzazioni finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni 0

c) di titoli iscritti nell'attivo circolante che non costituiscono immobilizzazioni 0 0 Totale delle rettifiche (18-19) 0 0 RISULTATO PRIMA DELLE IMPOSTE (AB+-C+-D) (602.138) (66.929) 20. Imposte sul reddito dell'esercizio

correnti

21 UTILE (PERDITA) DELL'ESERCIZIO

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