Valerio Zurlini. Il rifiuto del compromesso

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MerisNicoletto

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Meris Nicoletto insegna materie letterarie in un liceo scientifico ed attualmente è dottoranda di ricerca in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo presso l’Università di Padova. Ha pubblicato articoli e saggi sul cinema e sulla fiction televisiva, con particolare attenzione all’aspetto didattico e formativo.

ISBN 978-88-89782-16-3

VALERIO ZURLINI

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La filmografia di Valerio Zurlini è un cantiere aperto. L’officina degli attrezzi però è chiusa per sempre. Una contraddizione, non apparente, purtroppo concreta che in un canone ancor poco dinamico come è quello della storia del cinema italiano riesce ad essere indigesta. E che nei fatti relega il regista de Il deserto dei tartari in un cono d’ombra (...). Lo scorrimento orizzontale della sua bibliografia urta con la verticalità della filmografia. (...) Il campo d’azione è pienamente novecentesco; proprio il “secolo breve” per Zurlini si trasforma in un tempo di delusioni, individuali e collettive, e ancora una volta con la metafora angolare, urbana, territoriale, della “zattera della medusa”, sembra un “nostro contemporaneo”.

VALERIOZURLINI

VALERIO ZURLINI

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€ 22,00

EDIZIONI EDIZIONI FALSOPIANO

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VIAGGIO

IN ITALIA

una collana diretta da Fabio Francione


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ai miei genitori


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Ringraziamenti Ringrazio il prof. Gian Piero Brunetta per aver sostenuto il mio lavoro di ricerca e seguito con i suoi preziosi suggerimenti le varie tappe della tesi di laurea, di cui questo volume è una rielaborazione. La mia gratitudine va anche alla prof.ssa Bianca Maria Da Rif, direttrice del Centro Studi Buzzati di Feltre (Belluno), e alla dott.ssa Patrizia Dalla Rosa, responsabile della consulenza e ricerca bibliografica presso lo stesso Centro, che mi hanno fornito utili indicazioni in merito alla revisione del capitolo su Il deserto dei Tartari. Vorrei qui ricordare anche Margherita Dalla Libera e Margherita Carniello per essermi state vicine con i loro affettuosi consigli nei momenti di maggiore difficoltà incontrati durante il mio lavoro.

In copertina: La ragazza con la valigia (1961) In quarta di copertina: Il deserto dei Tartari (1976)

Š Edizioni Falsopiano - 2011 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini Stampa: LaserGroup s.r.l. - Milano Prima edizione - Settembre 2011


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INDICE Nota editoriale

p. 11

Introduzione

p. 11

CAPITOLO PRIMO Valerio Zurlini: quale collocazione nella storia del cinema?

p. 15

Un regista appartato Il rapporto letteratura-cinema Gli intellettuali e il 1968 Un cineasta senza “maestri”

p. 15 p. 29 p. 33 p. 38

CAPITOLO SECONDO L’esordio come documentarista

p. 61

Uno sguardo al documentario sociale degli anni cinquanta Il documentario zurliniano tra post-neorealismo e metafora esistenziale

p. 61 p. 74

CAPITOLO TERZO L’esordio alla regia: Le ragazze di Sanfrediano

p. 103

Una commedia italiana ma un po’ diversa Bob, il latin lover dalle “galline d’oro”

p. 103 p. 111

CAPITOLO QUARTO Estate violenta e l’“impossibilità della coppia”

p. 123

Genesi del film tra ricordi autobiografici ed esigenze produttive e registiche Una commedia sentimentale?

p. 123 p. 127


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CAPITOLO QUINTO Il terzo lungometraggio: La ragazza con la valigia

p. 139

La storia di un incontro L’amore come forza liberatrice Il tema dell’“onore” nel dittico Estate violenta e La ragazza con la valigia Un’insolita coppia: clavicembalo e chitarra

p. 139 p. 141 p. 151 p. 163

CAPITOLO SESTO Cronaca familiare : “Un film sui sentimenti allo stato puro”

p. 171

Il vero incontro con Pratolini Il fior de’ tuoi gentili anni caduto La madre assente come pre-figurazione della morte Una dolorosa meditazione sulla vita e sulla morte La pittura che diventa cinema e il cinema che diventa pittura

p. 171 p. 175 p. 187 p. 191 p. 192

CAPITOLO SETTIMO Le soldatesse: un mea culpa coraggioso

p. 201

Un film scomodo La guerra come negazione della giovinezza e dell’amore La coppia oppresso-oppressore sullo sfondo della guerra L’infedeltà al testo letterario come coerenza d’autore

p. 201 p. 205 p. 214 p. 217

CAPITOLO OTTAVO Seduto alla sua destra: la solidarietà verso gli oppressi

p. 239

La genesi di un “apologo sulla grazia” La vittoria del bene sul male

p. 239 p. 243


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CAPITOLO NONO La prima notte di quiete: “Eros” e “Thanatos”

p. 253

La “costola” di un progetto fallito “Un Lord Jim casalingo” La poesia, la pittura e la musica come espressione del cupio dissolvi Un film antinomico: “un viaggio tra cielo e terra”

p. 253 p. 256 p. 262 p. 266

CAPITOLO DECIMO Il deserto dei Tartari: la morte della speranza

p. 277

Tra mille difficoltà L’attrazione per il deserto in Buzzati e Zurlini La “fedeltà” cinematografica: un falso problema Dalla “favola” al “mito” della storia La passione per l’arte Morricone e la “voce del cuore” I personaggi: dal romanzo al film Giovanni Drogo: tra inettitudine e acettazione

p. 277 p. 281 p. 283 p. 290 p. 296 p. 301 p. 303 p. 309

CAPITOLO UNDICESIMO Il rifiuto del compromesso

p. 327

Gli anni delle immagini perdute La zattera della Medusa (1968-1982) Verso Damasco (1973-1974) Il sole nero (1978) Altri sogni nel cassetto

p. 327 p. 328 p. 332 p. 339 p. 343

CAPITOLO DODICESIMO Biofilmografia e altri scritti

p. 357

Schede dei film e bibliografia

p. 363


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Valerio Zurlini al lavoro e (in basso) con Luchino Visconti

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Nota editoriale di Fabio Francione La filmografia di Valerio Zurlini è un cantiere aperto. L’officina degli attrezzi però è chiusa per sempre. Una contraddizione, non apparente, purtroppo concreta che in un canone ancor poco dinamico come è quello della storia del cinema italiano riesce ad essere indigesta. E che nei fatti relega il regista de Il deserto dei tartari in un cono d’ombra illuminato soltanto dall’analisi collettiva del periodo in cui ha lavorato e nel raffronto con colleghi, spesso ritenuti erroneamente di seconda fascia, rispetto ai tre, quattro mostri sacri del nostro cinema. Eppure non si tratta di far fuori i nomi; si tratta al contrario di rendere pariglia ai buoi e di avviare un serio dibattito intorno ad una figura che la prospettiva storica rovesciata dell’oggi consente di cogliere tutti i motivi anticipatori del suo cinema. Lo scorrimento orizzontale della sua bibliografia urta con la verticalità della filmografia, i punti d’incidenza sono la letteratura (testi e critica), la storia dell’arte (artisti, critici e collezionisti), la musica (il rapporto con il compositore, non strettamente cinematografico) e infine il cinema (come notato “senza maestri”). Il campo d’azione è pienamente novecentesco; proprio il “secolo breve” per Zurlini si trasforma in un tempo di delusioni, individuali e collettive, e ancora una volta con la metafora angolare, urbana, territoriale, della “zattera della medusa” sembra un “nostro contemporaneo”. Trent’anni prima. Non è però la sua una critica alla cultura; semmai è una posizione che ha come spalliera un rigore estetico fuori dal comune e come braccioli uno stile che mai tradiva le predilezioni e le passioni per un tempo, forse mai esistito o comunque irraggiungibile nella sua mobile inattualità.

INTRODUZIONE “Sono tanti anni… tanti anni che aspetto questo giorno… tutto gli ho sacrificato… tutto… e adesso … adesso che il nemico, che la guerra… non voglio partire… non mi puoi chiedere questo…”: con tali accorate parole Giovanni Drogo si rivolge al maggiore Simeon, che gli ordina di abbandonare la Fortezza Bastiano, proprio quando l’esercito del Nord sta sopraggiungendo. La disperazione e l’amarezza del protagonista de Il deserto dei Tartari rispecchiano i sogni di tanti personaggi dei film di Valerio Zurlini e del regista stesso. Ogni volta che la felicità o il conseguimento delle proprie speranze sembra a portata di mano, un destino ineluttabile si abbatte contro l’individuo. Sembra di sentire nelle parole di Drogo il medesimo sentimento di impotenza provato dal cineasta bolognese (1926-1982) quando si vedeva rifiutare, rinviare o cancellare i progetti per film cui aveva dedicato anni di intenso lavoro e fatica. Siamo partiti dall’ultimo lungometraggio di Zurlini per introdurre un protagonista “discreto”, un regista “appartato” della cinematografia italiana. Queste sono le espressio11


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ni più utilizzate dalla critica per cercare di catalogare un autore che non amava le etichette, come non amava essere considerato un erede di qualche “maestro” del cinema. Ripercorrere le tappe della carriera di Valerio Zurlini, dall’esordio come documentarista, negli anni cinquanta, alla realizzazione di otto lungometraggi (dal 1954 al 1976), permette di rivalutare un artista spesso dimenticato e di collocarlo accanto ad altri registi italiani, osannati dalla critica, come Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, i fratelli Taviani, Marco Bellocchio. Il suo cinema, in apparenza “superato” per le tematiche affrontate, è di fatto “in anticipo” per la capacità di captare le trasformazioni sociali e i mutamenti del pensiero del suo tempo. “In anticipo”, in quanto la “poetica dei sentimenti”, che è il filo rosso che percorre tutta la produzione di Zurlini, lo spinge a delineare ritratti indimenticabili di giovani di fronte alle difficoltà della vita: come non ricordare la sequenza di quattro minuti in cui l’adolescente Lorenzo Fainardi, ne La ragazza con la valigia (1961), seduto sul dondolo della terrazza del Jolly Hotel, osserva Aida mentre balla con un uomo. La macchina da presa riesce a tradurre, attraverso l’uso del primo piano, per un intenso minuto, i sentimenti contrastanti di cui è in balia il ragazzo: rabbia, gelosia, desiderio di vendetta, disperazione. Di questa rara capacità di scendere nei recessi dell’interiorità sono una testimonianza le toccanti figure di donna che popolano il cinema di Zurlini: Roberta, Aida, Eftichìa, Vanina chiedono a piena voce di essere trattate nel contesto familiare e storico-sociale come degli esseri umani e pertanto sono animate da un desiderio di libertà e di emancipazione, tradotto sullo schermo con rara sensibilità. Avido lettore di opere letterarie, oltre che collezionista e critico d’arte, Valerio Zurlini ha trasferito sullo schermo queste sue profonde passioni, facendo in modo che la pagina scritta e le immagini in movimento si compenetrassero in maniera armonica. I protagonisti dei suoi film sono per lo più giovani-soli che entrano in contatto con altri esseri umani per un periodo di tempo troppo breve perché ci possa essere speranza nel futuro. Non esiste amore che tenga, amicizia che duri, secondo Zurlini, perché le storie d’amore finiscono e gli amici prima o poi ci tradiranno. Ecco perché c’è un trait d’union in tutta la sua produzione filmica che culmina con il film testamento, Il deserto dei Tartari (1976): il fine dell’esistenza è la morte affrontata con la consapevolezza che più della vita vale il rispetto di se stessi. Giovanni Drogo muore in perfetta solitudine abbandonato da tutti, minato da una malattia fisica che è metaforicamente malattia dell’anima. Muoiono altrettanto soli Lalubi e Oreste in Seduto alla sua destra (1968), Lorenzo in Cronaca familiare (Leone d’oro a Venezia nel 1962) e Daniele Dominici ne La prima notte di quiete (1972). E sole sono anche le protagoniste femminili. Rimane impressa nella memoria la valigia di Aida, in primo piano nei titoli di testa del film, a simboleggiare l’esistenza precaria di questa giovane subrettina. Eppure anche lei va incontro ad un percorso di maturazione che la condurrà a capire che quell’adolescente impacciato ed ingenuo, Lorenzo, è stato l’unico ad averla trattata come un essere umano, ad averla 12


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amata senza secondi fini. L’addio tra i due giovani, alla stazione, luogo di separazione per eccellenza, sancisce ancora un destino di solitudine per Aida, priva di punti di riferimento affettivi. Pure lei, come le soldatesse, Vanina, Lorenzo Casati, Lalubi e Oreste, Giovanni Drogo e il tenente von Amerling sono figure di “umiliati e offesi”. Il riferimento più diretto va indubbiamente a Dostoevskij, ma soprattutto a Manzoni, i grandi autori del romanzo ottocentesco, le cui opere il regista amava leggere e rileggere e nelle quali trovava un’affinità sentimentale straordinaria. Grande spazio occupa, nella breve attività cinematografica del regista, ridotta a pochi titoli, la coppia “impossibile”: Carlo e Roberta in Estate violenta (1959), Lorenzo e Aida ne La ragazza con la valigia, Martino e Eftichìa ne Le soldatesse (1965), Daniele e Vanina ne La prima notte di quiete. Il sentimento d’amore, per questi giovani, costituisce un momento di crescita interiore, un passaggio verso l’età adulta, che presenta però sempre un “conto da pagare”. L’esito spesso tragico di ogni singola storia, anche di quelle non d’amore – in altre parole la mancanza del “lieto fine” – in tutto il cinema dell’artista bolognese, non va interpretato in chiave del tutto pessimistica: i sentimenti arricchiscono l’animo dei personaggi e li costringono a compiere delle scelte fondamentali per la loro vita o ad acquisire una maggiore consapevolezza di se stessi e del loro ruolo nel mondo. Un talento, quello di Zurlini, non sempre riconosciuto, in quanto egli concepiva il ruolo del regista svincolato da condizionamenti e compromessi. Certamente ha pagato a caro prezzo la sua indipendenza girando un numero di lungometraggi nettamente inferiore ai progetti in cantiere e mai realizzati. La zattera della Medusa (1969), Verso Damasco (1973-74) e Il sole nero (1978) sono alcune delle sceneggiature pubblicate di film rimasti nel cassetto, in cui ritroviamo le tracce di una poetica d’autore coerente e capace di essere sempre la cartina di tornasole dell’epoca in cui Zurlini è vissuto. Questa monografia indaga la produzione filmica di un grande autore del cinema italiano del dopoguerra, affrontandone anche, per la prima volta, i progetti rimasti sulla pagina scritta, che gettano luce su un percorso professionale ed umano di indubbia originalità, nonostante l’amaro avvertimento lasciatoci dal regista stesso nel libro postumo, Gli anni delle immagini perdute (1983, 2009²): un’opera non conclusa è “una tappa di vita non percorsa, un traguardo non raggiunto, una somma di anni inutilmente perduti, una cicatrice in più, uno sterile anticipo di morte”.

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Una lettera di Federico Fellini (da Valerio Zurlini. Una regione piena di cinema, Regione Emilia Romagna, Bologna, 2005)

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Capitolo primo VALERIO ZURLINI: QUALE COLLOCAZIONE NELLA STORIA DEL CINEMA?

Un regista appartato Zurlini è sempre stato considerato un regista “appartato”, nel panorama cinematografico che va dagli anni cinquanta agli anni settanta, a tal punto da non meritare la “promozione” alla “prima classe”, quella di coloro che occupano un posto nel pantheon dei “maestri”, come appunto Pasolini, Bertolucci, Bellocchio, Olmi, Rosi, Damiani e tanti altri. Come afferma Aldo Tassone, Zurlini appartiene ad un gruppo di autori che per “fortuna” o “moda”, sono costretti a viaggiare in “seconda classe”: Ci sono autori che si trovano a viaggiare in prima classe tutta la vita anche quando fanno dei “brutti” film (è accaduto in passato a De Santis, e più recentemente a Pasolini, Bertolucci), e altri che sono condannati – quando non si condannano con le loro mani – a viaggiare sempre in seconda, anche quando sfornano dei “capolavori” […]. Anche Valerio Zurlini appartiene a questa categoria di cineasti diffidati dai produttori, perché troppo colti o troppo intransigenti o troppo poco intriganti, e trascurati da critici e saggisti 1.

Gian Piero Brunetta in Cent’anni di cinema italiano 2 dedica al cineasta bolognese un trentina di righe nel capitolo riservato a Gli autori degli anni del boom cinematografico. Qui il suo nome appare accanto a Maselli, Petri, Pontecorvo, Orsini, Montaldo, Vancini, Brusati, Brass, la Wertmuller e la Cavani in un sottocapitolo intitolato Registi in armi e profeti disarmati tra rivoluzione impossibile e rivoluzione sessuale. Nella più ampia Storia del cinema italiano, precisamente nel volume Dal miracolo economico agli anni novanta, Brunetta colloca Zurlini accanto a Vancini, Brusati, Brass e Samperi, inserendolo in un capitolo piuttosto ampio: Tre generazioni a contatto e a confronto. Il critico precisa fin da subito che i primi tre registi, vale a dire Vancini, Zurlini e Brusati sono accostati per ragioni puramente esteriori: la loro formazione ha qualche punto di contatto e forse il dato più comune è l’attenzione al ruolo dei sentimenti privati nel rapporto con la storia. Personalità per un verso o per l’altro un po’ appartate, rispetto alle linee di sviluppo dominanti nel cinema degli ultimi vent’anni, tutti e tre realizzano opere importanti e assai rappresentative dello sforzo di portare sul piano della massima comunicabilità e diffusione temi di grande portata storica, filosofica, esistenziale, politica 3.

Morando Morandini, dal canto suo, in un saggio, intitolato Autorialità e alto arti-

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gianato, pubblicato ne La storia del cinema italiano nelle Edizioni di Bianco & Nero, colloca il regista accanto a nomi di autori attivi nei primi anni sessanta, come Lattuada, Pietrangeli, Petri, Rossi, Maselli, Vancini, Damiani, Lizzani. Zurlini viene menzionato tra un gruppo di “registi colti per buone letture, che, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, fanno un cinema di taglio intimistico, ora elegiaco ora crepuscolare, alimentato da storie personali e ricerche del tempo perduto (Bolognini, Brusati, Rossi e qualche altro) […]” 4. Purtroppo non sono state pubblicate molte opere critiche su Valerio Zurlini, ad eccezione di una monografia di Gianluca Minotti 5 nelle edizioni del Castoro Cinema e di un’analisi delle sue opere filmiche ad opera di Francesco Savelloni 6, in cui è assente un inquadramento storico del periodo in cui tali opere furono realizzate. Manca di fatto un lavoro di contestualizzazione dell’attività del regista, all’interno della produzione cinematografica italiana, a fronte di alcune raccolte di Atti, talune anche molto apprezzabili, pubblicate in occasione di convegni, come Elogio della malinconia, a cura di Alberto Achilli e Gianfranco Casadio, Atti del convegno tenutosi a Ravenna il 20 e 21 ottobre 2000, o Valerio Zurlini, a cura di Alberto Cattini, Atti del convegno del 30-31 marzo 1990, Casa del Mantenga, Circolo del Cinema di Mantova. Esistono inoltre una raccolta con diversi contributi, dal titolo Valerio Zurlini, pubblicata nel 1993, a cura di Sergio Toffetti, e un quaderno di “Circuito Cinema”, a cura di Cesare Biarese, dato alle stampe nel settembre del 1984. L’opera di restauro di due lungometraggi del regista ha prodotto la pubblicazione di due volumi di saggi critici: il primo del 2003, curato da Lino Micciché e intitolato La prima notte di quiete di Valerio Zurlini. Un viaggio ai limiti del giorno 7, e il secondo del 2005, curato da Sergio Toffetti: Cronaca familiare, un film di Valerio Zurlini 8. Un “cinema dei sentimenti”, come quello di Zurlini, non poteva trovare la dovuta comprensione della critica del dopoguerra, soprattutto di quella di sinistra, sempre attenta a stroncare i film non impegnati sul piano ideologico e politico, oppure poco fedeli allo spirito del testo scritto, qualora essi fossero la trasposizione cinematografica di un romanzo. E la prima stroncatura per il regista bolognese è avvenuta con il suo esordio al lungometraggio nel 1954 con Le ragazze di Sanfrediano, versione cinematografica dell’omonimo romanzo di Vasco Pratolini. È un film girato più per commissione che non per un autentico “amore” per il libro dello scrittore fiorentino. Zurlini era invece pronto a portare sugli schermi Cronaca familiare, sempre dello stesso scrittore, ma i tempi non erano ancora maturi, perché Pratolini sentiva che il rimorso, per la morte prematura del fratello Ferruccio, era ancora molto vivo. Il cineasta non ha mai amato Le ragazze di Sanfrediano, un film troppo lontano dalle sue corde, troppo in odore di “commedia”, di quella commedia ascrivibile al filone “rosa” che la critica di sinistra aveva sempre osteggiato, in quanto espressione di una spensieratezza idillica e “intrinsecamente reazionaria”, una versione deteriore del “neorealismo”. Guido Aristarco infatti dalle pagine di “Cinema Nuovo” critica aspramente Pane 16


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amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini, che avrebbe dato il via alla produzione leggera del “neorealismo rosa” di ambiente contadino, culminata con la serie “cittadina” dei Poveri ma belli (1957) di Dino Risi 9. Per il critico si sarebbe trattata di un’operazione produttiva in linea con le aspettative della classe politica al potere, contraria a mostrare al mondo e agli italiani un’immagine del nostro paese così dimessa come quella proposta da Umberto D. di De Sica (1952), un’Italia povera e stracciona. Ma al di là di questa “direttiva” politica, in tale produzione “rosa”, affermatasi negli anni cinquanta, la condizione di miseria dei personaggi viene rappresentata in maniera vivace e divertente. Inoltre, essendo Aristarco un critico militante di sinistra che accusava alcuni registi, tra cui Risi, di aver tradito gli ideali della Resistenza, la sua posizione è del tutto comprensibile, quando si mostra non del tutto d’accordo nel rintracciare l’origine della formula “neorealismo rosa” nel film di Castellani Due soldi di speranza (1951). Nella cronistoria del cinema italiano del dopoguerra, e quindi nell’avvicendarsi delle evoluzioni e involuzioni del neorealismo, i titoli dei film hanno avuto spesso un significato diretto o indiretto alquanto preciso; si pensi, in merito ai passi indietro di un certo tipo, a Pane amore e fantasia figlio sviato di Due soldi di speranza, che dal padre ha preso solo i lati negativi più o meno latenti o concreti, tralasciandone i positivi, che non sono pochi e trascurabili 10.

Il direttore di “Cinema Nuovo” individua nel lungometraggio di Castellani una rappresentazione vivace e divertita dei modi di vivere ma anche aspetti della società e del costume nazionale: il problema del reduce e quello della disoccupazione sono alla partenza stessa di Due soldi di speranza, dove sono inoltre riscontrabili alcuni elementi tipici del nostro popolo, e del meridione in specie. Tali elementi sono invece anonimi in Pane amore e fantasia, quando non addirittura accantonati, spavaldamente messi da parte magari con semplici battute […] 11.

Il film di Risi Poveri ma belli, che esce a tre anni di distanza da Pane amore e fantasia, è sulla stessa linea “involutiva del neorealismo”: “appartiene alla generazione de Gli innamorati, dei Racconti romani e de Le ragazze di Sanfrediano: è loro coetaneo e compagno, con la sola differenza che è costato meno […]” 12. È tuttavia altrettanto giustificabile quanto afferma Vittorio Spinazzola a proposito delle riserve suscitate da Due soldi di speranza: Castellani rifiutava la dimensione ideologica e sociale, collocava fatti e figure in un ambito di sentimenti strettamente privati, guidava infine il racconto a un esito apparentemente animato da una fervida volontà di protesta, in realtà umiliato sui toni di una mistificata consolazione: mirava insomma a persuadere che la chiave della felicità sta solo nell’appagamento delle più individuali esigenze affettive 13.

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Questa breve presentazione delle diverse, e antitetiche, posizioni della critica nei riguardi di film usciti negli anni cinquanta ci consente di osservare quanto vivo fosse il dibattito in quegli anni di passaggio dal “neorealismo”, che aveva ormai esaurito la sua parabola ascendente già alla fine di quel decennio, a una produzione che, pur conservando con quella precedente un cordone ombelicale non facilmente recidibile, si apriva ad esplorare altre strade e percorsi. I tempi erano cambiati, come sottolinea Spinazzola: A dispetto dell’enorme successo di Pane, amore e fantasia e Pane, amore e gelosia e della vasta influenza esercitata sul piano delle strutture narrative e del linguaggio comico, la linea della commedia paesana venne presto abbandonata. […] Lo sforzo del neorealismo rosa era ormai concentrato nella creazione di un epos sorridente della moderna vita cittadina 14.

Già Castellani aveva offerto dei lungometraggi di ambientazione urbana prima ancora di girare la commedia rustica Due soldi di speranza (1951), vale a dire Mio figlio professore (1946), Sotto il sole di Roma (1948), È primavera … (1950). Ma, ancora prima, altri registi, attivi nel Ventennio, avevano per certi aspetti anticipato questo “neorealismo” tinto di “rosa”: il Camerini de Gli uomini che mascalzoni (1932), il Blasetti di Quattro passi tra le nuvole (1942) 15, il Bonnard di Avanti c’è posto (1942), Campo de’ Fiori (1943), il Mattoli de L’ultima carrozzella (1943) 16. E in seguito Luciano Emmer con Domenica d’agosto (1950), Parigi è sempre Parigi (1951), Le ragazze di piazza di Spagna (1952), Terza liceo (1954) e ancora Blasetti con Prima comunione (1950). Giungiamo così – afferma Spinazzola – al 1954-55, l’anno di Pane, amore e gelosia e assieme di L’oro di Napoli di De Sica, Peccato che sia una canaglia di Blasetti, Il segno di Venere di Risi, Accadde al commissariato di Simonelli, Un americano a Roma di Steno, Le signorine dello 04 di Franciolini, Le ragazze di Sanfrediano di Zurlini, Il seduttore di Rossi, Buonanotte avvocato di Bianchi: una lunga collana di successi che, con qualche esclusione e qualche apporto occasionale, ci fa conoscere quasi tutti i principali responsabili del neorealismo rosa 17.

Il successo di botteghino della “commedia rosa” è legato alla necessità di recuperare il rapporto con il pubblico che, dopo l’iniziale successo dell’attore preso dalla strada 18, era sempre più attirato dal divismo profuso a piene mani dal cinema americano, ostracizzato dalla dittatura fascista. Per questo si cercò di creare attraverso l’esordio di attori, ma soprattutto di attrici giovani, uno star system autoctono; e i primi concorsi di bellezza permisero a numerose “bellezze italiche” di mettere in mostra doti naturali finora nascoste. Basti pensare alla provocante sensualità di Gina Lollobrigida, la prima “maggiorata”, secondo la definizione di Blasetti, nella serie dei “paneamore” o alla “diva” italiana per eccellenza, Sophia Loren, dalla carriera 18


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più versatile e duratura, “grazie anche ad una serie di esperienze nel cinema americano” 19. Dello star system entrano a far parte anche altre “maggiorate” come Silvana Mangano, Lucia Bosè, Eleonora Rossi Drago e Silvana Pampanini. Non possiamo tuttavia dimenticare, accanto a queste “dive”, un gruppo di attrici che emersero proprio grazie alla produzione “rosa”, come Marisa Allasio, Lorella De Luca, Alessandra Panaro, Giovanna Ralli, Anna Maria Ferrero, Antonella Lualdi, Cosetta Greco, Rossana Podestà, solo per citarne alcune. Proprio perché i divi costavano e provocavano un consistente aumento della spesa complessiva per realizzare un film, una parte dei produttori, attivi negli anni della crisi dell’industria cinematografica di metà anni cinquanta, decise di avviare una politica di contenimento dei costi, come farà la Titanus di Lombardo producendo la serie dei Poveri ma belli, film a basso costo con “maggiorate fisiche” e “fusti trasteverini”. Tale produzione di “intrattenimento puro”, in cui la bellezza si qualifica “più esplicitamente in senso erotico, come sessualità” 20, non infastidisce più di tanto la “cultura censoria di Andreotti”, bensì “il moralismo comunista” 21. Questo perché si ritiene meno pericoloso il film con qualche centimetro di pelle scoperta in più che quello dal contenuto politico ed ideologico. E i film del filone “rosa” sono castigati e inoltre non hanno alcuna pretesa di denuncia né sociale né politica. Le vicende si concludono sempre con il trionfo dei sentimenti: gli avvenenti “seduttori” trasteverini, dopo tante avventure galanti, più false che reali, sposano le ragazze della porta accanto o comunque le “fidanzate” di sempre. Questi bulli e pupe, questi galletti e pollastrelle trasteverini ostentano continuamente i propositi più bellicosi, ma si guardano bene dal porli in atto: la loro spavalderia è tutta verbale: in realtà sono fior fiore di bravi ragazzi e ragazze, che tranne l’uso del bikini e qualche battuta a doppio senso non si sognano nemmeno di dare scandalo sul serio 22.

L’anno in cui escono Le ragazze di Sanfrediano, prodotto dalla Lux, vede apparire sullo schermo 201 film, un boom produttivo senza eguali che segnala anche la facilità di esordire per Zurlini, dopo alcuni anni dedicati al documentario. Purtroppo la commedia non è il genere prediletto, come abbiamo detto, dal giovane regista in grado tuttavia di realizzare una “prima opera” di tutto rispetto. La pellicola, sebbene possieda tutte le caratteristiche del film nato dalla contaminazione dei generi, soprattutto il filone “rosa” e l’esperienza neorealista, viene accolto tiepidamente dalla critica, non tanto per aver fatti propri gli stilemi della commedia, ma per aver tradito lo spirito del romanzo di Pratolini. Il lungometraggio d’esordio di Zurlini è perciò l’esemplare dimostrazione dei limiti, soprattutto ideologici, della critica del periodo: Sorto nei primissimi anni ’50, il neorealismo rosa ha avuto il compito di riportare il cinema italiano nell’alveo della commedia, incorporando quelle istanze realistiche da cui non si poteva più prescindere. […] Accusati per molti anni dalla critica e dalla storiografia di “bozzettismo”, questi film hanno svolto la fondamentale funzione di

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coniugare diverse esigenze di stile e di contenuto: l’istanza autoriale e quella di “genere”, la capacità di fotografare l’evoluzione culturale e comportamentale dell’Italia e quella di non tradire regole e strutture del rècit classico. Nel periodo preso in esame si rafforzano queste istanze ma diminuisce la dose di “buonismo” che vi era alla base, traghettando la commedia verso le inquietudini e le contraddizioni del boom 23.

Con la produzione “seriale” di Poveri ma belli, Belle ma povere (1957) e Poveri milionari (1959) si esaurisce la stagione del filone rosa, soppiantato ormai dai generi 24 e dall’affermarsi sempre più incisivo della “commedia all’italiana” che mise in scena il carattere, i tic, le angosce, le idiosincrasie di un popolo intero; fece spettacolo con le sue debolezze, le viltà camuffate, la microcultura locale. La vita quotidiana divenne eccesso comico, spettacolo dell’indigenza negata, epica dello scacco e della rinuncia. La commedia italiana fece spettacolo di quanto già – per la singolarità storica e culturale del Paese – era spettacolo quotidiano. Il radicamento della commedia italiana nel quotidiano e nel banale; l’esagerazione degli aspetti del costume; lo scandaglio del “privato” più allucinato e grottesco; la messa a nudo di quanto veniva accuratamente tenuto nascosto, insabbiato nelle maschere del perbenismo o dell’indifferenza più cinica; l’accostamento deformante agli stereotipi della vita di ogni giorno e ai trucchi per sopravvivere. In una parola, quel tallonamento dell’individuo che la poetica zavattiniana aveva teorizzato come stile e come impegno civile, nella commedia diventa deformazione e degenerazione, rigonfiamento, spettacolo allo stato puro di un altro spettacolo: quello dei vizi e della furberia nazionale 25.

Da questi pochi accenni possiamo constatare quanto la “poetica zurliniana” fosse distante dal “macrogenere” della commedia, che procede parallela alla produzione del regista. Certamente Le ragazze di Sanfrediano rispecchiano la temperie di un’epoca dominata da trasformazioni molto veloci della società, indirizzata verso il boom economico degli anni sessanta, ma allo stesso tempo, nella spensieratezza giovanile e nel carattere divertito e brioso della vicenda raccontata, sentiamo tutta l’onestà di un regista che cercava di destreggiarsi tra un lavoro su commissione, e quindi di chiara derivazione dal filone “rosa”, e un “sentire” del tutto personali, che troverà una più facile realizzazione in Estate violenta, il secondo lungometraggio del 1959. Il film d’esordio di Zurlini, come avremo modo di approfondire, non si conclude con l’happy ending del romanzo pratoliniano e di molti film ascrivibili all’etichetta del “neorealismo rosa”. Come esempio valgano tre pellicole: Le ragazze di piazza di Spagna (Luciano Emmer, 1952), Due soldi di speranza (Renato Castellani, 1951), Peccato che sia una canaglia (Alessandro Blasetti, 1955). Si tratta, secondo Maurizio Grande, di tre commedie “centrate sull’ingresso nella vita adulta attraverso il matrimonio” 26. Anche se il film di Zurlini mostra dei legami di contenuto e di ambientazione con Gli uomini che mascalzoni di Mario Camerini e Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani, ci sembra più convincente un confronto con il film di Emmer, Le ragazze di piazza di Spagna: 20


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L’obiettivo, la destinazione, la meta, il traguardo delle tre ragazze è comunque il matrimonio, ma ciascuna di esse vi arriverà in modo diverso, dopo aver dolorosamente accettato uno scacco, una sconfitta, che le porterà a sublimare nella meta precostituita e denegata (il matrimonio) la rinuncia al successo 27.

Nulla di tutto questo avviene nella trasposizione cinematografica di Zurlini: nessuno dei personaggi femminili ha il “privilegio” di sposare il protagonista Bob sia perché gli eventi alla fine precipitano, e il giovane deve rendere conto a tutte le donne ingannate della sua condotta ipocrita ed egoistica, sia perché il personaggio “rimane prigioniero di una maschera e non riesce a diventare, come avrebbe potuto, il prototipo di una generazione che, all’indomani della guerra, doveva fare i conti con un vuoto culturale e una crisi di valori che investivano tutta la società” 28. In tal senso forse va interpretata la scelta del regista di non rimanere fedele al romanzo di Pratolini che si conclude con una severissima e umiliante lezione inferta a Bob dalle sue ragazze. La “poetica zurliniana” si preannuncia già, fin dal film d’esordio e ancora prima nella produzione documentaria, poco incline alla satira di costume, una delle armi più diffuse nella “commedia all’italiana”, e orientata invece per “vocazione” all’analisi dei sentimenti, come avverrà nell’opera seconda Estate violenta (1959), girata a ben cinque anni di distanza da Le ragazze di Sanfrediano. Arriviamo quindi al 1959, considerato un anno fondamentale per la cinematografia italiana: al XX Festival del cinema di Venezia vincono il Leone d’oro ex aequo due film italiani: Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini e La grande guerra di Mario Monicelli: è l’atto di rinascita o meglio di ripresa di una tematica che per tutti gli anni cinquanta era stata considerata tabù: la guerra, il fascismo, l’antifascimo e la Resistenza 29. Adelio Ferrero invita ad una valutazione non generica delle opere e degli autori per giungere ad una comprensione più obiettiva e distaccata. Registi non più giovani e giovani ora volgono lo sguardo agli anni della lotta partigiana e del dopoguerra, ma pure ai momenti cruciali della nostra storia nazionale, al 25 luglio e all’8 settembre, che il cinema del “neorealismo” aveva ignorato o soltanto intravisto. Si assiste pertanto ad un arricchimento dei temi ed anche ad una rielaborazione problematica di quel periodo storico. E infatti il critico afferma che tale filmografia batte più sulle crisi individuali che sulle risoluzioni collettive, o almeno tende a proporre i problemi e le prospettive di una condizione individuale in rapporto a un più largo contesto, storico e collettivo. L’esigenza di approfondire e articolare il discorso si accompagna a una acuta diffidenza degli schemi e degli inquadramenti troppo facili, a una spiccata tendenza alla diseroicizzazione delle figure, a una ossessiva disposizione antiretorica che si riflette in varia misura nella raffigurazione degli oppressori e degli oppressi, dei fascisti e degli antifascisti, dei tedeschi e dei partigiani 30.

Vittorio Spinazzola si pronuncia su questa produzione con tali parole: 21


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Non negheremo che essa abbia potuto avere una efficacia educativa, inducendo un’insistente polemica contro l’indifferentismo etico, l’assenteismo civile, la tendenza al compromesso e al doppio gioco; e certo è valsa, in alcuni casi, ad assicurare un ampio dialogo con le platee. Ma sta di fatto che il nostro cinema si è rivelato incapace, per scarsità di vigore fantastico, di raggiungere quell’obiettivo in cui era pur stato lecito, per qualche tempo, sperare: la creazione di un grande repertorio della tematica antifascista, tale da assolvere una funzione spettacolare e civile analoga a quella dei film americani sulle guerre d’indipendenza e di secessione – per non fare il nome dei western 31.

Lino Micciché ritrova le origini della nascita del filone “storico-resistenziale” in un’esigenza del sistema produttivo 32 e nel dibattito politico esistente nel nostro paese negli anni in cui “le ambizioni neocapitalistiche e le speranze riformatrici si incontravano nella comune necessità di liquidare storicamente il fascismo”. E sul piano internazionale si faceva ormai strada, dopo la fine della “guerra fredda”, la necessità di una “coesistenza pacifica” tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Era implicito in queste tendenze nazionali e internazionali che si storicizzasse il fascismo e che lo si rappresentasse con il disincanto psicologico e il distacco critico di una società, nazionale e internazionale, che si voleva ormai definitivamente corazzata nei confronti di quella esperienza storica. Tuttavia i quaranta e più film sulla guerra, il fascismo, l’antifascismo e la Resistenza, realizzati nel cinema italiano tra il 1960 e il 1963, dimostrano quali e quanti fossero i limiti di questa consapevolezza, e come in realtà in essa si annidassero i limiti stessi del tentativo riformistico verso cui il paese in quegli stessi anni si annidava […]. La carenza di quel filone cinematografico fu soprattutto ideologica. In buona parte dei film la rievocazione e la rappresentazione della notte fascista, e dei giorni di furore con cui si era conclusa, assunse non a caso connotazioni da “commedia”, oscillando tra la satira e la farsa, con un’esplicita rinuncia a ogni saldo approfondimento analitico 33.

La critica marxista salverà pochissime di queste opere considerandole un tradimento dell’epica resistenziale del neorealismo post-bellico. Con distacco ideologico Gian Piero Brunetta rivaluta questo filone del nostro cinema: Il filone storico-resistenziale e (diciamo pure tra virgolette) antifascista esercita un peso non trascurabile nel panorama dei primi anni sessanta. Da una parte, consente di riprendere temi accantonati da tempo, proporli alla luce di una diversa distanza emotiva e considerarli – a tutti gli effetti – come prodotti spettacolari; dall’altra, ridà la parola al discorso antifascista in un momento in cui si profilano possibilità di pericolose aperture politiche a destra. […] I film che si occupano di fascismo e di lotta antifascista non intendono rimettere in discussione il quadro interpretativo generale (il dibattito storiografico sul fascismo si è riaperto sulla base di nuove categorie e angolature differenti solo negli anni settanta), né scalfire la logica celebrativa e monumen-

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tale di determinati valori positivi. Piuttosto cercheranno di apportare alcuni correttivi per quanto riguarda la rappresentazione in negativo del fascismo. Alle alte gerarchie sarà di preferenza riservata una rappresentazione grottesca, mentre il fascismo quotidiano comincerà a godere di una più bonaria tolleranza 34.

Sulla stessa lunghezza d’onda Pasquale Iaccio: Dal 1959 al 1963 fu realizzata una quarantina di opere dedicate soprattutto alla seconda guerra mondiale e all’uscita dal fascismo, che contribuirono in modo tutt’altro che marginale al particolare rigoglio del cinema italiano del periodo. La rapida evoluzione sociale, il terremoto provocato dal vertiginoso aumento della produzione e dei consumi, un rapido e generale rimescolamento di valori, costumi e mentalità, processi generazionali e rottura di equilibri consolidati in campo politico e culturale, accelerazioni e sinergie nel mondo della comunicazione e dello spettacolo, predisponevano il pubblico ad accogliere un rinnovamento dei generi e dei temi anche nel settore cinematografico 35.

La produzione del cosiddetto filone “storico-resistenziale” tende a convergere su una certa tipologia di personaggio, definito “negativo”, ma con una certa “approssimazione”, come sottolinea Adelio Ferrero: E si pensi infatti alle figure più ricorrenti e significative di questa recente filmografia (il Della Rovere e l’Esperia di Rossellini e la ciociara di De Sica, il Carlo di Zurlini e il Franco Villani di Vancini, la Edith di Pontecorvo e, ancora, il tenente Innocenzi di Comencini e il ‘gobbo’ di Lizzani sino ai congiurati de Il processo di Verona) per notare che se di personaggio ‘negativo’ non sempre si tratta, pure, al di là delle sfumature e delle diversificazioni anche nette, c’è un denominatore comune che unisce questi personaggi e li fa partecipi di una stessa sensibilità critica: il disegno di una figura umana non statica e definita sin dall’inizio, ma in movimento e ricca di contraddizioni e incertezze, che spesso muove da una natura e da una disposizione ‘negativa’, egoistica o conformistica o qualunquistica, per giungere a rompere la crosta di indifferenza e della propria singolarità, pervenendo a una presa di coscienza e a un rapporto attivo col mondo, con gli altri e con le loro ragioni di vita 36.

In linea generale la riflessione di Ferrero è condivisibile, anche se non va dimenticato che la tendenza “comica” del filone 37 proponeva, secondo Micciché, un tipo umano che portava il pubblico a ridere giocando sulla sdrammatizzata rappresentazione della propria ambivalenza fascismo/antifascismo, cioè proprio su quella costante della psicologia piccolo-borghese nazionale che andava esorcizzata e che – a quindici anni dal crollo della dittatura e a quaranta dal suo inizio – evidenziava ancora inestirpate radici 38.

Gian Piero Brunetta, dal canto suo, puntualizza: 23


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In pratica fascismo e antifascismo non vengono più interpretati secondo un’ottica ideologica, ma, al massimo, da un punto di vista morale. L’antifascismo appare come un presupposto comune, ma anche come il dato meno importante del film, che pone in primo piano l’intreccio e subordina l’evento storico a funzioni emotive. […] Così, per uno strano fenomeno di avvicinamento e distanziazione, questi film riescono ancora a produrre – grazie ai meccanismi spettacolari – fenomeni di identificazione emotiva, risate liberatorie, mentre dal punto di vista storico fanno ormai sentire la distanza e l’irripetibilità del fenomeno. La monumentalizzazione della Resistenza e dello spirito antifascista consiste proprio nella adozione comune di meccanismi narrativi, di topoi che rimbalzano da un film all’altro, permettendo di raggiungere un pubblico di massa 39.

Compiuto dunque un lavoro di inquadramento generale del periodo (all’incirca dalla fine degli anni cinquanta fino ai primi anni sessanta), senza alcuna pretesa di esaustività, riprendiamo la definizione di Ferrero, piuttosto datata cronologicamente, ma ancora attuale, di “presa di coscienza” del “personaggio negativo”, per tentare di collocare, con i necessari e doverosi distinguo, un’opera come Estate violenta all’interno di questa fioritura di film “storico-resistenziali”. Il protagonista maschile Carlo Caremoli (Jean-Louis Trintignant) sembra avere dei punti di contatto con alcuni protagonisti di film più o meno coevi. Ma si nota fin da subito che i personaggi, in cui l’elemento drammatico si fonde con la componente della commedia, diventano meno confrontabili con quelli del filone “serio”. Si pensi al protagonista de Il generale Della Rovere di Rossellini, Bertone (Vittorio De Sica), che, come Carlo Caremoli, ha in comune la mancanza di ideali, l’incapacità di compiere delle scelte, insomma una certa indifferenza. Contrariamente però a Bertone-Della Rovere il giovane protagonista di Estate violenta proviene da una background del tutto diverso, se non altro per la differente età anagrafica e la condizione sociale medio-alta. La netta contrapposizione tra i due personaggi tuttavia si gioca su un altro piano in cui le differenziazioni sociali, ambientali e anche storiche perdono quasi tutta la loro importanza. Ovvero la “presa di coscienza” di Carlo avviene all’interno di un contesto storico preciso, ma si compie per mezzo di un sentimento d’amore. In altre parole, mentre la presa di coscienza di Bertone matura grazie ad un progressivo avvicinamento alle forze della Resistenza e al contatto diretto con le drammatiche realtà della guerra (la tortura del partigiano), esperienze vissute molto profondamente sul piano emotivo che concorrono a compiere una scelta eroica, Carlo invece appartiene alla “gioventù dorata” degli anni del fascismo ubriacata dalla propaganda del regime e incapace di assumersi delle responsabilità politiche ed ideologiche. Se Carlo non è assimilabile ad un Bertone, non lo è nemmeno a Franco Villani, il protagonista del film d’esordio, Gli sbandati (1955), dell’enfant prodige del cinema italiano, Francesco Maselli. Va dato atto a Maselli di aver operato una più convincente fusione tra eventi storici e vicende individuali, che sembra (ripetiamo sembra) a tutt’oggi uno dei limiti della pellicola di Zurlini. 24


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I giovani borghesi del film di Maselli tuttavia sono tratteggiati in maniera molto superficiale sul piano dell’approfondimento psicologico. Il regista schematizza eccessivamente le parti assegnate ai personaggi ridotte alla presenza del buono (il cugino Carlo), del cattivo (l’amico Ferruccio) e dell’incerto (il conte Franco Villani). E il contatto con la Storia si riduce di fatto alla presenza di alcuni militari sbandati, fuggiti da un treno e rifugiatisi nella villa di Franco. La “presa di coscienza” del personaggio non si completa perché egli, dopo aver deciso di seguire gli sbandati assieme al cugino e a Lucia, la ragazza partigiana di cui è innamorato, cambia idea convinto dalle parole della madre, sopraggiunta nel frattempo con un alto ufficiale tedesco. Franco scoppia in un pianto disperato appena sente i colpi di arma da fuoco che hanno colpito il camion degli sbandati: è il pianto puerile di un giovane che non è stato in grado di portare fino in fondo la propria scelta per mancanza di coraggio o per incapacità di rinunciare ai legami con la classe sociale di appartenenza. Sono i giovani, secondo Ferrero, a produrre i risultati più convincenti del ciclo resistenziale: da Estate violenta (1959) di Valerio Zurlini a Gli sbandati (1955) di Francesco Maselli, da La lunga notte del ’43 (1960) di Florestano Vancini 40 a Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo 41, da Tiro al piccione (1961) di Giuliano Montaldo a Un giorno da leoni (1961) di Nanni Loy 42. Tra i risultati più persuasivi del filone sul fascismo la critica si trova d’accordo su Il terrorista (1963) di Gianfranco De Bosio, che si può considerare l’opera più coerente sul piano ideologico-politico: uno dei pochi film “che mettono a confronto in maniera dialettica le diverse componenti ideologiche della Resistenza” 43. Anche Lizzani, dopo il film d’esordio Achtung! Banditi! (1951), ha girato alcuni lungometraggi di diverso esito artistico ma ascrivibili a questo filone storico resistenziale, quali Il gobbo (1960), L’oro di Roma, Il processo di Verona (1963), in cui la storia si irrigidisce “in cornice ambientale, in convenzione drammatica” 44. Estate violenta “sembra” appartenere a questo filone, perché la vicenda d’amore tra un giovane ricco borghese, che ha evitato l’arruolamento grazie alle conoscenze del padre, un gerarca fascista, e una donna più grande di lui, vedova di un eroico ufficiale di Marina, scoppia sullo sfondo di un anno cardine della storia d’Italia, il 1943. Zurlini rompe il silenzio dopo cinque anni con un film che va “contro la fluente corrente di un cinema italiano abbandonato ai facili accontentamenti del cattivo gusto e ai compromessi dei bassi commerci” 45. Significativa l’intervista pubblicata nel 1960 su “Schermi”, in cui egli attacca il “sistema” cinematografico italiano perché non è riuscito ancora a girare La ragazza con la valigia. E non per motivi di censura 46. I produttori sanno sempre di che cosa parlano i suoi soggetti, in quanto questi non sono mai di poche pagine ma di “trecento”. Le difficoltà incontrate da Zurlini riguardano quindi non la storia in sé, l’amore di un ragazzo per una donna, ma gli attori adatti e “gli agganci commerciali”. Il regista non risparmia di alcuni affondi il mondo del cinema affermando che “la censura siamo noi”, vale a dire i registi e poi i produttori. 25


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Se uno fa un film morale (intendiamoci se non fa un film contro il Papa o se non fa vedere delle monache stuprate), se fa un film morale, dico, sulla società italiana, anche violentissimo, fatto con dignità artistica e trova il produttore, riesce, se si impunta, a far passare quasi tutto alla censura. Quasi tutto, se non tutto 47.

Zurlini si sente un “alcolizzato” nei confronti della realtà di cui non riesce più a cogliere, come altri registi, i gravi problemi attuali: Eppure cinque anni fa la crisi del matrimonio mi entusiasmava: che cos’è il matrimonio in Italia; che cos’è un adulterio in Italia; qual è la situazione della donna in Italia. Adesso non m’interessano più perché mi hanno alcolizzato. E come me hanno alcolizzato gli altri, credo 48.

Il regista intercala queste critiche alla società che lo circonda parlando anche del suo ultimo film, Estate violenta, in cui ha espresso la stanchezza di essere polemico con la realtà presente, in quanto tutto si è acquietato, smorzato, “il cervello della gente è stato limato”. Allora si guarda al passato per trovare una riposta al presente. Questo spiegherebbe l’uscita nel 1959 di tre film che guardano “indietro”: oltre a Estate violenta di Zurlini, Il generale Della Rovere di Rossellini e La grande guerra di Monicelli. Il “personaggio negativo” (Ferrero) è rappresentato da Carlo Caremoli che alla fine non decide nulla. Ma la sua incertezza non è giudicata in modo negativo da Zurlini, anzi: (Il giovane) decide sulla necessità di decidere qualcosa. Ma credo che questo sia tipico di quel momento. Siamo nell’agosto del ’43, non nel settembre o dopo. Nel settembre si sa già dove andare, da una parte o dall’altra, ma in quel momento? 49.

La Storia ha quindi il suo peso nello sviluppo di questo amore: Roberta Parmesan (Eleonora Rossi Drago) non si innamorerebbe di un ragazzo, se mancasse questa condizione di precarietà e di pericolo determinata dagli eventi storici. La medesima incertezza domina l’esistenza di Carlo, che si trova a “dover” diventare uomo in quella precisa situazione storica e trova un punto di riferimento in una donna molto più grande di lui, un’ancora di salvezza nella provvisorietà del vivere. Zurlini finalmente realizza nel 1961 La ragazza con la valigia, rimanendo fedele al tema del “breve incontro”, su cui aveva basato il soggetto di Guendalina e il suo secondo lungometraggio Estate violenta. Anche ne La ragazza con la valigia, che precede nella stesura il film del 1959, il regista continua a sviluppare la sua poetica al di là delle mode legate ai filoni e ai generi; il terzo lavoro si concentra ancora di più sulla dialettica dei sentimenti; in questo caso sullo sbocciare di un amore tra un giovane rampollo dell’aristocrazia parmense e una giovane e procace subrettina. Non c’è infatti sullo sfondo alcun avvenimento pubblico che incida sulla storia rac26


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contata, come in Estate violenta. Il regista ha perseguito la sua vocazione più autentica e sentita, ovvero quella di raccontare la nascita e lo sviluppo di un sentimento d’amore con grande delicatezza e pudore, perfezionando ancora di più lo scavo nei recessi dell’interiorità, il linguaggio dello sguardo, dei gesti e del “non detto”. Per me, l’ideale sarebbe fare un film sui sentimenti allo stato puro, al di fuori di ogni condizionamento sociale. Non so se ciò sia possibile, se è possibile che nascano sentimenti senza condizionamenti sociali, è una cosa tutta da verificare 50.

La ragazza con la valigia tuttavia non è un’opera del tutto avulsa dalla temperie socio-culturale dell’epoca, perché sono presenti, alla stregua di numerosi altri lungometraggi degli anni sessanta, un certo modo di concepire la donna, una cultura di provincia, che stigmatizza il rapporto tra un ragazzo poco più che adolescente e una giovane più matura, tra l’altro appartenenti a classi sociali diverse, situazione che, in parte, si ripete anche in Estate violenta. Vittorio Spinazzola per questo motivo colloca Estate violenta e La ragazza con la valigia nell’ambito di un “neorealismo psicologico e di costume”, sorto negli anni sessanta che esprime la polemica contro il filiteismo passatista, l’esigenza di un adeguamento dei canoni morali, la volontà di guardare con chiarezza realistica alle cose del sesso; tali sono i motivi essenziali d’interesse dei registi. La rappresentazione potrà vertere sulle inquietudini erotiche dei giovani oppure sul contrasto fra l’educazione sentimentale dei figli e quella dei padri: in entrambi i casi l’accento batte soprattutto sulla crisi dell’istituto familiare 51.

Alberto Lattuada aveva già aperto la strada alla tematica dei turbamenti adolescenziali, dapprima con Guendalina (1957) 52, film tratto da un soggetto di Zurlini, e poi con I dolci inganni (1960) in cui raccontava le prime esperienze sessuali e sentimentali di un’adolescente, una giovanissima Catherine Spaak nel ruolo di Francesca 53. Nella seconda metà degli anni cinquanta il cinema guarda di fatto con interesse al mondo degli adolescenti, in modo particolare alle “giovani donne un momento prima dell’ingresso nella vita adulta” 54. Basti pensare, oltre ai film di Zurlini (Le ragazze di Sanfrediano) e di Lattuada, a Nata di marzo (1957-1958) di Antonio Pietrangeli, a Le diciottenni (1955) di Mario Mattoli, tratto da una commedia di Aldo De Benedetti, a Le amiche (1955) di Michelangelo Antonioni da un racconto di Cesare Pavese (Tra donne sole). Sempre dalla letteratura (Alberto Moravia) esce anche La romana (1954) di Luigi Zampa. Il cinema è perciò una sorta di cartina di tornasole che osserva i cambiamenti in atto nella società, come si può vedere nel personaggio di Esterina, protagonista dell’omonimo film di Carlo Lizzani del 1959 55. 27


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Il personaggio di Esterina segna una ormai matura transizione; sembra di essere lontani anni luce da Marisa Allasio; della maggiorata non resta più nulla, e sono già distanti anche i corpi acerbi delle adolescenti diciottenni. Il personaggio di Carla Gravina dà vita a un tipo nuovo di fisicità tutta moderna 56.

Il personaggio femminile esprime però un disagio del tutto sconosciuto ai lungometraggi degli anni cinquanta. Rispetto a una “scena familiare” che nella commedia dei primi anni ’50 “dà ordine alla strategia dei sentimenti ed è il perno ideologico di un passaggio normalizzante alla società civile”, si è ormai di fronte all’ ‘individualismo disgregante’ della commedia degli anni ’60; l’irrequietezza di Esterina prelude alla definitiva mancanza di traiettoria de La ragazza con la valigia di Valerio Zurlini (1961) o alla perdita di sé della protagonista de L’avventura di Michelangelo Antonioni (1960) 57.

Gli anni in cui Zurlini realizza il numero maggiore di lungometraggi sono gli anni sessanta, che vedono sia l’esplosione della “commedia all’italiana” sia l’affermazione di una cinematografia dalle plurime sfaccettature: i primi film di Pasolini con Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), l’esordio alla regia di Bertolucci con La commare secca (1962), dei fratelli Taviani con Un uomo da bruciare (1962), solo per citare alcuni “giovani”. Ma ci sono pure autori che hanno già alle spalle una certa attività di registi, di documentaristi o di assistenti alla regia, come Rosi, che nel 1961 realizza il suo terzo film Salvatore Giuliano e nel 1963 Le mani sulla città e, sempre sulla linea dell’impegno civile, Damiano Damiani con Il rossetto (1960); Maselli con I delfini del 1960 e Gli indifferenti del 1963 continua a raccontare, con esiti artistici diversi, la crisi della società borghese. Superfluo ricordare che il 1960 è una “grande annata” per il cinema italiano: è l’anno della Dolce vita, dell’Avventura, di Rocco e i suoi fratelli, tre opere capitali a cui spetta il merito di aver esercitato un decisivo ruolo di spinta e contribuito a rilanciare l’immagine del cinema italiano sul mercato nazionale e internazionale 58.

Questa sintetica presentazione non ha alcuna pretesa di risultare esaustiva nei riguardi della produzione cinematografica degli anni sessanta, ma intende solo fornire alcune coordinate per comprendere gli umori e le tendenze all’interno delle quali Zurlini si è trovato ad operare. D’altra parte siamo di fronte ad un decennio composto “da personalità più che da tendenze, da autori più che da movimenti, da poetiche individuali più che da poetiche di gruppo” 59.

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Il rapporto letteratura-cinema Il cinema italiano nel corso della sua storia ha sempre attinto alla letteratura 60; cercheremo ora di comprendere per quale motivo, senza la pretesa di addentrarci all’interno di un argomento assai vasto e complesso, numerosi lungometraggi a partire dagli anni cinquanta in poi abbiano intensificato questa tendenza alla riproduzione filmica di opere letterarie. Come scrive Massimo D’Avack: Un libro, una “pizza” di un film sono beni di consumo allo stesso modo di un frigorifero e di un televisore. Allo stesso modo di questi, films e libri hanno simultaneamente un valore d’uso per lo spettatore e il lettore, un valore di scambio per il produttore e l’editore. È chiaro quindi che in un’epoca di altissimi consumi di massa, i prodotti dell’industria editoriale e cinematografica devono necessariamente seguire la regola base dell’economia capitalistica, per cui ad un consumo di massa corrisponde una produzione di massa 61.

Quando il neorealismo concluse la sua parabola ascendente, il cinema italiano era in crisi e, nel contempo, stava assumendo anche una struttura industriale. Di qui la necessità per i produttori italiani di ripiegare su film spettacolari o di evasione che venissero incontro alle aspettative del pubblico (produzione di genere, il “filone” del “neorealismo rosa”, ecc.). Per comprendere il rapporto letteratura – cinema è quindi necessario non dimenticare, secondo D’Avack, che libro e film sono prodotti di consumo e pertanto un best seller, per esempio, può offrire al produttore maggiori garanzie di successo nella sua trasposizione cinematografica, vale a dire un altro genere di prodotto, rispetto ad una sceneggiatura originale. Con questo non vogliamo offendere la sensibilità artistica dei registi: è chiaro che dire prodotto di consumo non significa necessariamente dire prodotto scadente o deteriore; anzi i films che in questi ultimi tempi sono stati tratti da romanzi italiani di successo, grazie proprio alla preparazione dei loro realizzatori, dimostravano tutti una dignità lodevolissima e un apprezzabile decoro formale. Dire che un film del genere è un prodotto di consumo significa alludere, in realtà, a qualcosa di più generale: alla crisi di tutte le arti, dovuta in gran parte alla nostra civiltà industriale che tende, inesorabilmente, a sostituire il prodotto artistico con quello commerciale, più adatto ad un adeguato sfruttamento, ad un elevato consumo di massa, e che la civiltà industriale è in grado di fornire meglio e più celermente delle arti 62.

A questo proposito D’Avack, in un’intervista pubblicata nel volume citato, chiede a Francesco Rosi se il cinema ricorra sempre più al romanzo per ragioni di tipo commerciale. Il regista dichiara: Può essere. Prendiamo Moravia. Egli è uno scrittore molto noto. I suoi libri hanno una tale diffusione da convincere un produttore a farne dei film. Ma per altri autori non è

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così. Prendiamo il caso di Senilità. Il libro era conosciuto presso gli intellettuali. Evidentemente a Bolognini piaceva rendere proprio quella opera letteraria 63.

Vasco Pratolini 64, le cui opere letterarie sono state molto trasposte in film, si mostra del tutto contrario alla scelta del cinema italiano di ricorrere sempre di più alle opere letterarie: Per me fa male, l’ho già detto in altre occasioni. Fa male il cinema e fanno male i registi che si affezionano ad un lavoro già elaborato da un altro, ad un’altra espressione d’arte e che pensano che sia una mediazione già definita mentre invece non fanno, anche nella migliore delle ipotesi, che compiacere la loro pigrizia 65.

Anche Zurlini viene intervistato da D’Avack assieme a Libero Bigiaretti 66, che ammette che produttori e uomini di cinema ingaggiano lo scrittore al fine di realizzare un vero e proprio “affare”: la vendita dei diritti sul romanzo consente all’autore “di integrare i guadagni piuttosto scarsi degli scrittori”. Inoltre Bigiaretti reclama un ruolo più rilevante per il romanziere, che dovrebbe nella sua collaborazione con i registi limitarsi non solo a scrivere soggetti ma “l’intera sceneggiatura” 67. Zurlini non è affatto d’accordo e infatti replica: Gli scrittori possono dire ciò che vogliono. Le assicuro che nel 90 per cento dei casi sono ben felici di dare la loro opera, per motivi, non fosse altro economici. Ma non solo: specialmente oggi, l’autore può avere delle garanzie che il film venga fatto con una grande dignità formale e con un notevole rispetto per quello che è stato il parto originale. Non ho mai visto un autore che mi dicesse di no alla possibilità di ridurre un suo libro. L’unico fu, a suo tempo, Pratolini, ma per delle ragioni eminentemente private e interiori. Gli scrittori, poi, vorrebbero essere interpellati come sceneggiatori, perché suppongono che sia facile per loro scrivere anche una sceneggiatura: il che non è vero. È molto difficile che uno scrittore impieghi lo stesso tempo, la stessa applicazione, la stessa passione in una pagina di sceneggiatura in egual modo che in una pagina di un suo libro 68.

Il cineasta bolognese, nel libro postumo, ritorna sul rapporto tra letterati e uomini di cinema affermando che “gli unici copioni irrimediabilmente mal scritti”, che egli aveva letto, “recavano tutti, salvo qualche eccezione, la firma di letterati celebri o di famosi scrittori, almeno in Italia” 69. Per tale motivo Zurlini non ricorre molto agli sceneggiatori e, se proprio è necessario, cerca di trovare “degli scrittori nuovi, di cinema” 70. Dopo questa breve panoramica sui rapporti tra uomini di cinema e letterati, che rivelano la coesistenza di posizioni spesso antitetiche nei confronti sia dell’adattamento dell’opera letteraria sia del ruolo dello scrittore nella fase della realizzazione filmica, è utile citare ancora Pratolini, che, in un suo intervento su “Bianco e Nero” del 1948, coglie non un rapporto di “identità” tra cinema e letteratura, ma di “solidarietà”:

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Guardiamo più da vicino le ragioni di questa solidarietà e i limiti entro i quali essa resta attiva. C’è un modo per introdursi al riconoscimento dell’opera d’arte, improprio a volte, ma che riferito al romanzo si dimostra pressoché infallibile: si suol dire, cioè, che l’autentico narratore non enuncia mai una tesi e, se anche, l’affida tutta alle circostanze. Di conseguenza, il romanzo reca implicita nei fatti la sua morale, la verità ch’esso esprime è in rapporto alla linearità della sua azione, alla costante intensità del suo tempo narrativo, ed in definitiva alla obiettività (ed all’accanita perseveranza) con cui lo scrittore riferisce sui suoi personaggi seguendoli nello svolgimento dei loro atti, sentimenti e pensieri. Se ciò è vero, come è vero, film e romanzo appaiono, ancora una volta immedesimarsi. Entrambi si propongono di dar conto della natura dell’uomo speculando unicamente sulle sue gesta, e riescono edificanti e suggestivi in misura dell’immediatezza, della logicità ed inconfutabilità ottenute nel riprodurre la successione degli eventi. Ma il rapporto è ancora apparente. Ciò che li distingue, e li separa, è ovvio a dirsi. Il romanzo accumula fatti e circostanze servendosi delle parole; ha quindi bisogno, per esistere, che il lettore gli presti la complicità della propria immaginazione; il suo movimento è subordinato all’intelligenza, allo stato d’animo, alla salute del lettore. […] Al contrario, il film presenta bello ed ottenuto il risultato di questa mediazione. Quella immedesimazione che il teatro stesso esige al punto da trasportare lo spettatore sulla scena, il cinema non è che la rifiuta, la presume già prestata ed acquisita. Lucia è questa Lucia, ed è cosi che cammina, si siede e ragiona; la pioggia è questa pioggia, in questo preciso modo Renzo ne resta inzuppato; “posò il bicchiere”, questo bicchiere e in questo esatto modo lo posò. Il film ha già operato la sintesi tra realtà ed immaginazione; la sua verità è esplicita: impura e tuttavia aggressiva come il gesto che l’accompagna. Là dove ogni altra arte affida ai sensi, all’intelletto, il proprio moto vitale, e perciò stesso la sua immobilità è un perpetuo fluire, la sua finzione una realtà indistruttibile; là dove il romanzo in particolare sollecita un contributo volontario e avventuroso della memoria per liberare le proprie immagini, il film capovolge la operazione intellettuale, storicizza il movimento, parte da quello che per le altre arti è il punto d’arrivo; ripercorre il cammino dell’uomo, lo riconduce in concreto alla propria origine 71.

Essendo Zurlini d’accordo con questa posizione di Pratolini, possiamo credere che la sua trasposizione di ben quattro romanzi (due da Pratolini, uno da Pirro e l’ultimo da Buzzati), senza contare quelli che avrebbe voluto portare sullo schermo senza riuscirvi, è concepita come creazione autonoma, pur nel rispetto dell’universo dell’autore. Gian Piero Brunetta dichiara in proposito: D’altra parte l’industria favorisce una sempre più intensa attività integrata e parallela di sfruttamento dei romanzi di successo sul piano cinematografico. Il panorama è pertanto mosso: scrittori che esordiscono nella regia, per esplorare l’interscambiabilità delle scritture (Pasolini), sceneggiatori che diventano registi (Scola), registi che alternano la realizzazione di soggetti originali con la trascrizione di testi letterari di rilievo (Visconti, Bolognini, Lattuada). Un processo comune a tutte le operazioni di traduzione, trasposizione, riscrittura visiva, è quello di una lettura in chiave attualizzante del testo letterario 72.

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Zurlini inoltre si inserisce accanto ad un numero consistente di registi che hanno girato film tratti da autori per lo più contemporanei a dimostrare che “la letteratura vive una situazione in qualche modo parallela, e, per quanto concerne il ricorso all’elemento lirico, intimistico, ‘romanzesco’, anticipatrice rispetto al cinema” 73. Un cinema che ha vissuto a lungo alle spalle di un repertorio periodicamente ripreso senza variazioni lascia il posto a esplorazioni di testi di autori come Moravia, Sciascia, Cassola, Bassani, Tomasi di Lampedusa, Fenoglio, Bianciardi, Tobino, Brancati, Ginzburg, Pratolini, Lussu, Arpino, Chiara. Si rivisitano anche testi dell’ottocento e primo novecento, muovendosi tra Pratesi e Pirandello, D’Annunzio e Svevo. E negli anni settanta si realizza, purtroppo con trent’anni di ritardo, il sogno dei registi neorealisti di portare sullo schermo Uomini e no di Vittorini, Cristo si è fermato a Eboli di Levi, Fontamara di Silone, L’Agnese va a morire di Renata Viganò 74.

Tra gli scrittori più “adattati” dal cinema, negli anni del boom, emerge Moravia, che dal 1960 al 1964 assiste alla versione filmica di undici sue opere, tra cui La ciociara (1960) di Vittorio De Sica, La giornata balorda (1960) di Mauro Bolognini, ispirata ai Racconti romani, Agostino (1962) sempre di Mauro Bolognini, La noia (1963) di Damiano Damiani, Gli indifferenti (1964) di Francesco Maselli. Carlo Cassola è un altro romanziere, di cui vengono trasposti sul grande schermo due romanzi: La ragazza di Bube (1963) di Luigi Comencini e La visita (1963) di Antonio Pietrangeli. Leonardo Sciascia invece dovrà aspettare la seconda metà degli anni sessanta, quando si affermerà il cinema di impegno civile. Nel 1962, quando Zurlini ottiene da Pratolini il consenso di girare Cronaca familiare, il film indica questa “fedeltà” nella trasposizione del romanzo di Vasco Pratolini 75 citando nei titoli di testa l’opera dello scrittore fiorentino (Vasco Pratolini, Cronaca familiare 1945), mentre l’ultima inquadratura ri-cita il titolo del libro con la data di uscita del film (Cronaca familiare 1962), come a dire: quest’opera è la riproduzione fedele di un romanzo, del mondo interiore del suo autore, ma nella maniera in cui “io”, lettore-regista, l’ho “incarnata” nell’assoluto delle immagini. Profondamente zurliniani, legati come sono alla dialettica dei sentimenti, anche gli altri due lungometraggi trasposti da testi letterari: Le soldatesse (1965) e Il deserto dei Tartari (1976). A proposito del rapporto tra letteratura e cinema, ci sembra significativa la conclusione cui giunge Giorgio De Vincenti: […] piuttosto che di “fedeltà” o “infedeltà” al romanzo trasposto in cinema, sarà utile parlare del modo in cui il film “lavora” il romanzo, e cioè del tipo di lavoro critico, del tipo di lettura e interpretazione che il primo fa del secondo 76.

Per dirla in altre parole con André Bazin:

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Non si tratta più di tradurre nel modo più fedele e intelligente possibile, e ancor meno di ispirarsi liberamente, con amorevole rispetto, in vista di un film che raddoppi l’opera, ma di costruire sul romanzo, attraverso il cinema, un’opera di secondo grado 77.

Gli intellettuali e il 1968 I prodromi della contestazione studentesca, che raggiungerà il suo apice nell’anno 1968, vanno rintracciati già negli anni cinquanta, nel corso dei quali si afferma un nuovo “giovanilismo”, cioè un nuovo modo di essere giovani, che si esprime attraverso un atteggiamento di ribellione contro la società e gli stili di vita che essa propone. La società italiana è profondamente cambiata grazie alla rapidità con cui il nostro paese è andato incontro ad un inedito e straordinario sviluppo economico. I giovani rimangono frastornati dalla maniera in cui la modernizzazione impone nella psicologia collettiva i suoi modelli consumistici. Non accettano di essere considerati dalla società del benessere una leva di consumatori ed esprimono il loro rifiuto attraverso nuove mode e gusti musicali. Il movimento giovanile è un fenomeno planetario che si trova sulla stessa lunghezza d’onda in molti paesi del mondo e contesta le ingiustizie sociali, la religione, l’ignoranza, la guerra, la repressione sessuale. Esso si pone al di fuori della società oggetto di feroce critica cercando forme di aggregazione come la “banda”: mods, teddy boys, blousons noirs. Si tratta di un fenomeno di emancipazione di una generazione che assorbe i miti provenienti dall’America: dall’eroe negativo impersonato da James Dean in Gioventù bruciata (1957) al trasgressivo rock and roll di Elvis Presley. La frattura con la società materialista e consumistica conduce i giovani a comportamenti devianti e quindi all’emarginazione. Molti di loro vengono considerati degli asociali e dei teppisti e sono in genere chiamati con disprezzo “capelloni”. Verso la metà degli anni sessanta il comportamento anticonformista di questi giovani assume connotazioni più marcatamente politiche e si trasforma in esplicita contestazione. La gioventù di questo decennio non solo critica la società dei consumi e si rifiuta di integrarsi al suo interno, ma è anche alla ricerca di stili di vita alternativi, di nuovi ideali e di riferimenti culturali in cui credere. Ecco allora che inizia a incanalare la propria energia in forme di solidarietà, come per esempio simpatizzando per le lotte di liberazione del Terzo Mondo. Anche in Italia i giovani si sentono in sintonia con i movimenti di protesta che si stanno diffondendo a macchia di leopardo in tutta Europa e negli Stati Uniti. Negli anni 1966-67 la rivolta studentesca assume carattere di massa e diventa un movimento collettivo sempre più politicizzato. Lo sviluppo di questa ondata di protesta si diffonde ovunque in Italia. Mentre in altri paesi europei, quali la Germania e la Francia, la contestazione rimane un fenomeno circoscritto agli atenei delle città più importanti, nel nostro paese tutte le università sono investite dalla protesta sia al 33


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Nord che a Sud della penisola, sia in città che in campagna. La mobilitazione, quando non c’è un’università, è promossa dalle scuole superiori e, quando anche queste non sono presenti sul territorio, da gruppi e circoli spontanei di giovani. Le richieste degli studenti vengono in quasi tutte le università disattese a tal punto che in molte di esse diventa impossibile fare lezione e tenere le sessioni d’esame. Le lotte e le iniziative politiche degli studenti trovano l’adesione di ampi settori del mondo intellettuale: non solo alcune avanguardie culturali raccolte intorno alle riviste “Quaderni piacentini” o “Quindici”, la rivista del “Gruppo ’63”, fondato da Umberto Eco, ma ampi settori del mondo artistico. Questa adesione degli intellettuali alle ragioni del movimento si manifestò soprattutto in due occasioni: la Biennale di Venezia e la Mostra del cinema. Nel primo caso 18 artisti su 22, che avevano accettato l’invito a esporre le loro opere, le ritirarono per solidarietà con gli studenti della Accademia delle Belle arti di Venezia e con un gruppo di giovani artisti, colpiti dalla repressione poliziesca per aver contestato la Biennale di quell’anno, accusata di essere “strumento di mistificazione della produzione artistica e di organizzazione e controllo di una cultura riservata alla classe dominante”. Nel secondo un gruppo di giovani cineasti, tra cui Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci e i fratelli Taviani, insieme con un nutrito gruppo di “vecchi maestri” del neorealismo italiano, primo fra tutti Cesare Zavattini, occuparono la Mostra del cinema di Venezia, criticandone il carattere di competizione commerciale funzionale agli interessi dell’industria cinematografica. Era il segnale inequivocabile che gli autori più significativi del cinema italiano avevano recepito la “lezione” del movimento studentesco e decisero di fare confluire la loro voce nell’ondata di protesta antisistemica in corso. Film come La Cina è vicina di Bellocchio, Lettera aperta a un giornale della sera di Maselli, Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci o Cannibali della Cavani testimoniano con chiarezza questa ricollocazione ideale del giovane cinema italiano all’interno di una concezione del proprio mestiere come impegno militante. Questa scelta non mancò di influenzare complessivamente il cinema d’autore italiano – basti pensare a Queimada di Gillo Pontecorvo, girato nel 1969 e tutto intriso di tematiche terzomondiste – e anche quello commerciale caratterizzato dalla diffusione di un nuovo genere il “western all’italiana”, dove un maestro del cinema, Sergio Leone, inserì nella tradizione del film d’avventura tematiche dichiaratamente politiche e una insistenza sul tema della rivoluzione – Giù la testa ne è l’esempio più evidente e riuscito – che indubbiamente risentiva del “clima del ’68” 78.

Anche Zurlini con Le soldatesse (1965) e Seduto alla sua destra (1968) tenta di realizzare un tipo di cinema più impegnato sul piano ideologico, rimanendo tuttavia fedele alla sua poetica. Gian Piero Brunetta ritiene che questi due lungometraggi di Zurlini non presentino più i “toni sommessi” dei suoi primi film. Soprattutto in Seduto alla sua destra “ci si trova di fronte ad un autore che urla la sua protesta con violenza imprevedibile e tutto sommato eccezionale anche per il cinema di quegli 34


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anni” 79. In questo film, come ne Le soldatesse, il regista esprime il rispetto per i popoli oppressi e condanna esplicitamente gli oppressori. Ne Le soldatesse, una libera trasposizione del romanzo omonimo di Ugo Pirro, viene affrontato per la prima volta nel cinema italiano un tema scomodo, vale a dire quello della guerra di occupazione italiana in Grecia. Zurlini recita un “atto di dolore” 80 coraggioso con un’opera di forte impatto emotivo. Seduto alla sua destra è del 1968 e fu realizzato per rispondere alla critica che accusava il regista di fare film “intimisti”: “era forse una sfida per dimostrare a se stesso che anche quelle tematiche non gli erano estranee” 81. Il film a tutt’oggi, nonostante i vistosi difetti, rimane “uno degli esempi più significativi della penetrazione di tematiche terzomondiste nel cinema italiano” 82. Prima di quest’opera alcuni scrittori ed intellettuali avevano realizzato dei film inchiesta, come Fabrizio Gabella che gira Questo mondo proibito (1963) con un’introduzione di Salvatore Quasimodo, oppure Luigi Vanzi con America, paese di Dio (1965), commentato da Italo Calvino. Per la prima volta alcuni leader dei paesi colonizzati partecipano nel 1967 al documentario di Stanislao Nievo Mal d’Africa. Da ricordare anche Africa addio (1965), il “discusso film” di Jacopetti e Prosperi, che fu un successo al botteghino e divenne un punto di riferimento “per tutto il documentarismo terzomondista” 83. Gualtiero Jacopetti concentra la sua attenzione “sulla fine del colonialismo e sull’emergere, dalle nuove guerre e dagli eterni massacri, di una nuova e inquietante borghesia nera” 84. Prevalgono immagini di violenza e di orrore volte ad esprimere una visione cupamente pessimistica. Altri registi hanno mostrato un sincero interesse nel raccontare la fine del colonialismo, tra cui Gillo Pontecorvo con La battaglia di Algeri (1966) e poi Pier Paolo Pasolini con Appunti per un’Orestiade africana (1973), in cui coglie nella Tanzania decolonizzata “il passaggio da un mondo barbaro preda delle Eumenidi alla civiltà democratica e socialista” 85. Giovanni Spagnoletti si è chiesto, guardando alla produzione cinematografica di questi anni, se esista un Sessantotto nel cinema italiano. La lista potrebbe comprendere i due noti episodi realizzati per Amore e rabbia 86, 1969, da Bernardo Bertolucci (Agonia con il Living Theatre, garanzia doc di sessantottismo) e Marco Bellocchio (Discutiamo, discutiamo, sorta di profetica radiografia della pletora oratoria del movimentismo), che rimangono ancor oggi dei piccoli gioielli; e ancora i generosi e irrisolti Partner (1968) dello stesso Bertolucci e Sotto il segno dello Scorpione (1969) dei fratelli Taviani, alla distanza molto offuscati dal tempo e da un’ipertrofia di dialogicità (soprattutto il secondo); o viceversa l’inossidabile Dillinger è morto (1969) di Marco Ferreri che rappresenta, a nostro avviso, uno dei massimi traguardi del cinema italiano dell’epoca, senza voler scomodare la puntata americana di Michelangelo Antonioni in Zabriskie Point (1970) 87.

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La tendenza generale è quella di negare “l’idea di un cinema del Sessantotto”, in quanto non ci fu un fertile scambio di idee tra gli uomini di cinema e il movimento degli studenti. Quello che in fondo riemerge oggi, riguardando dall’interno il rapporto dei cineasti con la “contestazione globale” inscenata in quella manciata di anni, è in un certo senso molto fedele allo spirito del movimento: che esistono tanti Sessantotto quante sono le esperienze personali che lo hanno attraversato. E così il Sessantotto ci sembra destinato a restare di necessità quel che era in principio: un’ipotesi aperta, una rivolta in forma di domanda, un’analisi senza possibilità di sintesi 88.

Gian Piero Brunetta esprime una valutazione più approfondita e convincente: In genere, su tempi brevi, il ’68, che aveva alla base del suo programma la volontà di una sfida istituzionale, produce, quasi paradossalmente, effetti contrari a quelli desiderati. Il sistema produttivo si dimostra dotato di ampi margini di tolleranza e la produzione, nei suoi livelli medi e negli autori riconosciuti, esce rafforzata. Visconti, Fellini, Pasolini, Bertolucci, Ferreri, Olmi, Petri, Rossellini, Rosi, i fratelli Taviani aumentano il potere contrattuale e godono di budget fino a poco tempo prima insperati e realizzano alcuni dei risultati più alti della produzione mondiale del periodo. Poche altre cinematografie in tutto il mondo rimangono per qualche tempo – col pieno consenso e appoggio dell’industria – così a ridosso della storia, della cronaca, dell’attualità e del costume. […] Si può anzi dire che a cavallo degli anni sessanta e settanta si registra il picco più alto della tensione e della convinzione di poter usare la macchina da presa come mezzo di conoscenza e come arma 89.

Lo stesso Zurlini usa parole molto critiche nei riguardi del ’68 nel corso dell’intervista rilasciata a Gianni Da Campo. Per il regista, il ’68, con la contestazione alla Mostra di Venezia, e il concetto di “cinema d’autore” non sono stati che “un’enorme padella di aria fritta”. La contestazione è stata un sacco di fiato sprecato. Il cinema d’autore, il concetto di cinema d’autore è sempre esistito: non è certo il ’68 che ce l’ha fatto apprendere. Caso mai c’erano più difficoltà per gli autori, nel senso che gli autori, per esprimersi, dovevano tener conto del pubblico. Ma io arriverei a dire che è quasi condizione estetica del cinema il fatto di dover piacere al pubblico. Cioè non puoi ignorare il destinatario di un certo prodotto. Se il pubblico è formato da alcuni milioni di persone, tu devi sapere che il tuo linguaggio deve essere adatto e comprensibile a questi milioni di persone: il che non vuol dire assolutamente parlare a dei cretini in un linguaggio cretino. Vuol dire parlare a un pubblico eterogeneo e vasto in un modo molto diretto e molto semplice. […] Quindi il ’68 crea il film d’autore. Tanto peggio perché fa credere all’autore di essere più importante della cosa che dice. Fa credere all’autore di essere più importante della persona che lo deve ascoltare. Per quello è aria fritta, se non peggio 90.

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Secondo il cineasta bolognese, non c’è stata una crisi dei registi della seconda generazione, come insinua Da Campo: Bellocchio, Bertolucci, la Cavani e altri non cedono alle offensive del cinema commerciale 91. La crisi non è nemmeno imputabile al cinema di genere, ma alla mancanza di produttori degni di questo nome, in grado di comprendere che il cinema è “anche un rischio, e che, in fondo, creare un nuovo linguaggio avrebbe portato prima o poi i suoi frutti”; invece l’Italia ha avuto una “classe ridicola di produttori”, “mediatori di denaro, ricercatori proprio dell’incasso immediato” 92. In effetti nel passaggio dagli anni ’60 ai ’70 molte cose sono cambiate in ambito cinematografico-produttivo: Nei primi anni sessanta, in sintonia col cinema mondiale, il cinema italiano va alla scoperta dei giovani e, come si è visto, il numero di esordi importanti è superiore – in termini quantitativi e qualitativi – a quello di qualsiasi altra cinematografia. Negli anni settanta la contrazione e l’assestamento produttivo restringono la possibilità d’esordio e rendono difficile la continuazione del lavoro a quei registi che pure si sono segnalati con notevoli opere prime 93.

A Brunetta sembra che la “produzione media” degli anni settanta si accontenti di vivere di materiali di riporto della cultura postsessantottesca, o preferisca appoggiarsi a testi letterari o spostare la macchina del tempo in senso antiorario anziché rischiare nella ricerca di nuovi soggetti più sintonizzati con la trasformazione profonda dell’assetto politico, ideologico e culturale del paese. […] I primi ad abdicare alla rappresentazione del presente sono gli autori più affermati, che, per la prima volta, dopo quasi un quarto di secolo, dichiarano conclusa l’esperienza mimetica e realistica e iniziano a praticare i sentieri dell’allegoria, della metafora dell’immaginario, della ricostruzione del passato 94.

Gli anni settanta vedono uno Zurlini sempre più schivo e deluso dall’apparato cinematografico italiano. La prima notte di quiete del 1972 sembra essere la traduzione di questo sentimento di impotenza del regista di fronte ad un’esistenza di cui urla l’invivibilità. Nel suo penultimo lungometraggio la figura del protagonista, Daniele Dominici (Alain Delon), giunto alla resa dei conti con la vita, è la proiezione auto-biografica di un uomo, oltre che di un regista. Nonostante questo film trasmetta un sentimento di “nichilismo”, Zurlini si conferma un autore attento a quanto accade intorno, un acuto osservatore della realtà sociale e politica del tempo in cui vive. La prima notte di quiete infatti nasce dal rifiuto radicale di una società “alla deriva” contro la quale l’unica forma di opposizione è un lacerante desiderio di morte. Non c’è più alcuna fede nella Storia, come appare evidente anche nelle sceneggiature mai realizzate come La zattera della Medusa (1969) e Il sole nero (1978), pubblicate nel libro postumo. 37


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Mentre il cinema italiano dell’inizio degli anni settanta era diviso tra la decadenza del suo periodo più felice (la commedia all’italiana), l’emergere del western spaghetti e l’affacciarsi del cinema sedicente impegnato, gli Autori proseguivano lungo la loro strada dorata praticabile in tutte le stagioni. Accanto alle rendite alla Fellini c’era chi continuava a filmare al di fuori di questi schemi, disorientando quindi l’apprezzamento critico e accontentandosi talvolta delle sole soddisfazioni di botteghino. È il caso di questo film di Zurlini tanto gradito al pubblico quanto snobbato dalla critica 95.

Vale la pena segnalare anche la rivalutazione ad opera di Lino Micciché, avvenuta trent’anni dopo l’uscita sugli schermi de La prima notte di quiete, per provare quanto Zurlini sia un regista destinato ad essere “compreso” con il passare del tempo. Il critico, in occasione del restauro del film avvenuto nel 2000, ha scritto: Rivisto oggi, il film mette in evidenza non soltanto sottili legami con la precedente progettualità zurliniana (si pensi alla saga familiare di cui Il paradiso all’ombra delle spade avrebbe dovuto essere il primo episodio), ma anche contrastate connessioni con quelle problematiche stagioni di postcontestazione e riflusso, di ripresa del “boom” e di inizio degli “anni di piombo”, nei cui confronti Daniele/Zurlini reagiva a proprio modo, lasciandole come un riferimento quasi del tutto extradiegetico ma implicito e rifugiandosi, reattivamente anche se non esplicitamente, nel solipsismo febbricitante di una rivolta tutta e soltanto personale, di – “un personaggio…che si vota all’annientamento”, di “uno degli ultimi campioni di un altero individualismo” che si porta dietro “il gusto del peccato e della morte” e reagisce alla propria interna disperazione non optando per la solidarietà internazionalista con la guerriglia latinoamericana o per la solidarietà classista degli “autunni caldi” operai di quegli anni, ma infognandosi “nella costa più depravata e ignobile d’Italia” fino a morirne, in un’opzione quasi suicida, dopo avere vissuto come un delirio le titubanze di un amore impossibile 96.

Un cineasta senza “maestri” In merito a possibili paternità, Zurlini ha sempre riconosciuto in Antonioni un maestro che ha influenzato lo stile del cinema italiano: Il grande sviluppo stilistico del cinema italiano porta un grande nome, quello di Michelangelo Antonioni, del quale noi siamo tutti figli, piccoli, grandi, bastardi, eredi… perché il primo a portare il discorso all’interno del personaggio e quindi a non fidarsi solo della realtà che vedeva è stato Michelangelo Antonioni. Antonioni è il punto di passaggio fra due generazioni di autori: i grandi maestri e noi che siamo i figli. Degni o indegni, non sta a me giudicare 97.

Qualche critico ha cercato di individuare la presenza di grandi “maestri” cui il regista bolognese si sarebbe ispirato. Paolo Vecchi, per esempio, rintraccia nell’ope38


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ra cinematografica di Zurlini l’influenza di Visconti per quanto riguarda “lo scrupolo letterario, l’amore e perfino la venerazione per i classici, la preoccupazione di tenersi agganciato al mondo della cultura nazionale”, e quella di Antonioni per quanto concerne “l’esigenza primaria della ricerca del linguaggio filmico come imprescindibile attributo dell’autore e della sua individualità” 98. Giacomo Martini, dal canto suo, esprime la convinzione che si può leggere le contraddizioni di una società anche attraverso la metafora, la parabola, l’ironia e il paradosso e attraverso un’analisi di carattere psicologico ed esistenziale. La storia si può raccontare mettendo i fatti e gli avvenimenti più eclatanti fuori dalla porta, facendola rivivere “dentro” all’anima e al dolore dei personaggi che come marionette recitano un dramma collettivo partendo dalla loro dimensione privata ed esistenziale 99.

Zurlini ha effettuato il suo apprendistato trascorrendo, dal 1945 fino al primo documentario del 1949, tutti i pomeriggi al cinema: Andavo a vedere molti film, dei buoni film, che a poco a poco imparavo a selezionare: ecco, non andavo al cinema così, tanto per passare due ore, ma andavo alla ricerca del film migliore, anche sulla scorta delle indicazioni di varie storie del cinema e dei movimenti che si erano creati attorno al cinema 100.

Un apprendistato molto simile ai registi della Nouvelle Vague francese, con la differenza che in Italia non sono sorti dei movimenti simili e soprattutto legati anche ad una intensa attività critica, promossa dagli stessi autori. Pur amando alcuni cineasti italiani, come Fellini, con la cui poetica però non sentiva alcuna affinità, o come Visconti di cui apprezzava opere quali Bellissima, La terra trema, Il Gattopardo, Morte a Venezia, Zurlini non ha “parentele con altri autori italiani”, come dichiarerà egli stesso a Cesare Biarese. E poi aggiungerà: […] Ho ammirato molto certi registi minori, o stupidamente considerati “minori”: trovo I migliori anni della nostra vita un film splendido, non bello, sottolineo splendido, che se solo avesse trattato con un minimo di cautela in più certi risvolti sentimentali – c’è qualcosa in più di patetico – sarebbe un quadro dei reduci, di questi uomini che tornano alla vita civile dopo la guerra, che nessuno si è mai sognato di fare. È un film pieno della maturità di un uomo, un regista dal quale bisogna andare a scuola. Wyler bisognerebbe proiettarlo al Centro Sperimentale, continuamente, obbligare i candidati registi a vedere Wyler dalla mattina alla sera! E imparare. Ford è un poeta? Ebbene, Wyler è un’altra cosa: è “solo” un grande, grandissimo regista. Ci sono poi alcuni film di Huston che sono stupendi, altro poeta, strano…101

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Il regista bolognese sicuramente ha scoperto una sorta di “affinità elettiva” nei film di William Wyler, il cineasta americano noto soprattutto per la regia del colossal Ben Hur (1959), Vacanze romane (1953), Il grande paese (1958). Zurlini però amava in modo particolare I migliori anni della nostra vita (1946), in cui, oltre alla straordinaria capacità di Wyler di assegnare il massimo di significato alla singola immagine, riuscendo al suo interno a mantenere a fuoco più personaggi e quindi a diminuire l’importanza del montaggio a favore della costruzione interna all’inquadratura, emerge la figura di una tipologia di individuo, posto spesso di fronte ai sentimenti o a situazioni di emergenza. A Gianni Da Campo Zurlini confessava: “Alcune persone che mi conoscono bene dicono che io sono un regista di uomini che obbediscono ad un codice morale e d’onore, visti in situazioni di difficoltà. Può essere che sia vero” 102. Come non vedere nei protagonisti de I migliori anni della nostra vita oppure in Pietà per i giusti (1951) degli uomini posti di fronte a situazioni impreviste e animati da un profondo “codice morale e d’onore”? 103. I personaggi di Wyler sono uomini e donne, dotati di un così profondo spessore umano e psicologico da attirare sicuramente l’ammirazione di Zurlini attento indagatore, nel suo cinema, dei più reconditi recessi dei sentimenti. Zurlini, come molti altri registi italiani, tra cui Pasolini, Fellini, Visconti, ha avuto inoltre due grandi passioni nella sua vita, oltre al cinema: la letteratura e l’arte. Del suo rapporto con queste altre due forme di espressione artistica ha affermato: Ci sono dei romanzi che non solo ho letto in un’età determinante per la formazione dell’individuo (che va, secondo me, dai 14 ai 25 anni), ma che ho poi continuato a leggere per tutta la vita: posso farle vedere la copia di Guerra e pace, ogni volta che lo leggo segno dietro la data; credo di essere arrivato alla 24ª lettura… purtroppo questo costituisce un po’ anche una paralisi, nel senso che, ancorandosi a certi grandi romanzi, si guarda poi con estrema sufficienza a quelli che vengono dopo. Ma questo è vero solo fino a un certo punto, perché oltre tutto Tolstoj, che è stato evidentemente le livre de chevet di sempre, c’è anche un’analoga esperienza con Dostoevskij, c’è un’analoga appassionatissima esperienza con l’unico romanzo italiano, I promessi sposi, altro libre de chevet, che leggo continuamente. E poi, se vogliamo, ci sono tutti gli incontri e i “visti e perduti” lungo la strada: c’è Conrad, molto; alcuni americani, da Conrad appunto a Melville, ma sempre un po’ nella zona dei classici; i francesi, Stendhal, Flaubert, Balzac e altri. Ha sempre funzionato un po’ in me questo ragionamento: perché leggere una cosa nuova quand’è così piacevole leggerne una vecchia? Questo non toglie che abbia avuto anni di lettura, diciamo, indiscriminata 104.

Sappiamo poi che, oltre a leggere i grandi classici del romanzo ottocentesco, Zurlini era anche un avido lettore della produzione a lui coeva: basti ricordare il grande amore per Pratolini, Bassani, Buzzati e altri letterati italiani e stranieri. La passione del regista per l’arte nasce, come per la letteratura, negli anni giovanili, frequentando all’università le lezioni di Lionello Venturi.

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L’arte è stata un po’ di casa nella mia vita, l’ho respirata subito: ho avuto la grande fortuna, nell’immediato dopoguerra, di essere amico di alcuni dei più grandi artisti italiani, da Giorgio Morandi a Ottone Rosai, con il quale c’è stata una vera e propria amicizia; e poi Renato Guttuso, Alberto Burri, Mario Mafai; un grandissimo amico di oggi è Balthus… tutte persone con le quali ho condiviso lunghi giorni della mia vita. Insomma, ho sempre vissuto in mezzo a pittori e, per mia fortuna, in mezzo a grandi pittori 105.

Questa vastissima cultura artistica si respira vedendo il cinema di Zurlini. Come ha scritto Sergio Toffetti: “La scrittura filmica di Zurlini è saldamente intessuta di pittura almeno quanto di romanzo” 106. E infatti in quasi tutti i suoi lungometraggi appaiono quadri con una funzione allusivo-simbolica, come il quadro di Rosai in Cronaca familiare, la “testa d’arte”, ne Le soldatesse, “incastonata in un vagone abbandonato su un binario morto”, che altro non è che “il particolare dell’inconfondibile giovane che sorregge il Cristo nella Deposizione del Pontormo” 107. E inoltre La Madonna del parto di Piero della Francesca ne La prima notte di quiete, Il Satiro e la Ninfa ne Il deserto dei Tartari, solo per citare alcuni esempi significativi. Antonio Costa definisce questa “interferenza del modello pittorico con quello filmico” “pittura diegetica” o “diegetizzata” 108. La presenza d’un sistema di figurazione statica dentro il flusso d’una figurazione dinamica ha una motivazione nella scena rappresentata. Nello stesso tempo, però, si stabilisce un confronto, i due modelli sono messi in interazione, se non altro sul piano percettivo. In La prima notte di quiete (1972) di Valerio Zurlini, il protagonista (Alain Delon) porta la sua giovane allieva, della quale è innamorato, a vedere La Madonna del parto di Piero della Francesca, a Monterchi. In un film ambientato sulla costa romagnola d’inverno, in cui si ha una netta prevalenza di interni squallidi, paesaggi nebbiosi, vedute marine o dettagli della spiaggia del tutto intercambiabili che producono un’impressione di spazio senza prospettiva (nel senso tecnico e nel senso metaforico dell’espressione), l’immagine pittorica assume una funzione contrappuntistica. Allo spazio “destrutturato” della realtà si contrappone idealmente, come un miraggio d’impossibile salvezza, l’architettonica organizzazione dei volumi dell’opera d’arte. Non è solo il commento del professore sul “miracolo di questa dolce contadina adolescente, altera come la figlia di un re” che imprime un significato “narrativo” all’immagine, ma sono soprattutto le forme perfette di questa “icona”, in cui è il corpo umano il principio organizzatore dello spazio, a creare una contrapposizione alla spazialità “svuotata” che prevale nel film 109.

Pure la “messa in quadro” richiama spesso ad una cultura figurativa che il regista trasfigura nell’immagine in modo del tutto naturale. Persino il suo film che ha ottenuto meno riconoscimenti in assoluto di critica e di pubblico, ma che lui ha amato più di tutti, Seduto alla sua destra, presenta dei riferimenti pittorici “non cercati intenzionalmente”, ma scaturiti “da dentro”: vedendo le immagini si sente la presenza di Rouault, di Rembrandt, di Caravaggio “per il tono dell’illuminazione generale” 110. 41


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Anche Cronaca familiare è un film già “pensato” dal regista “rigorosamente a colori” perché Firenze, la città in cui viene ambientato il romanzo di Pratolini, è Ottone Rosai: Rosai non può essere ridotto al “pittore delle stradine e dei cipressi”, come per lo più è conosciuto e divulgato. Ogni volta che torno a Firenze, il ricordo di questo grande artista mi assale con violenza incredibile e mi commuove, perché mi rendo conto che sono riuscito a vedere la città, a coglierne la “dimensione”, attraverso i suoi occhi 111.

Ne La prima notte di quiete e ne Il deserto dei Tartari la disposizione delle figure nello spazio rinvia talvolta alla pittura metafisica. In questo caso risulta illuminante la definizione fornita sempre da Antonio Costa, che ha utilizzato in una seconda accezione l’espressione di “effetto dipinto 112 nel senso di effetto quadro”. L’inquadratura evoca quindi una pittura, o perché la cita esplicitamente, o perché ne riproduce determinati effetti luministici, cromatici o di organizzazione spaziale, o perché ne imita la staticità, la sospensione temporale, la selettività cromatica, o perché si inscrive nella logica compositiva o iconografica d’uno stesso genere (per esempio, la veduta paesaggistica, o il ritratto o il decorativismo astratto). Effetto dipinto quindi nel senso di effetto quadro. […] nel caso dell’effetto quadro, l’istanza metalinguistica si traduce in un confronto tra due modelli, due modi di strutturare le coordinate spazio-temporali e i valori luministici e cromatici. In altri termini, l’effetto quadro produce un effetto, più o meno evidente, di tempo sospeso, di spazio definito (o concluso) e di selezione cromatica, mentre invece il piano cinematografico si caratterizza come una sorta di calco iconico della durata, della percorribilità dello spazio e della variabilità cromatica 113.

Nel cinema di Zurlini la sospensione resa possibile dall’effetto quadro e l’utilizzo di immagini fisse, come la sequenza di diapositive in Cronaca familiare, Le soldatesse, La prima notte di quiete, Il deserto dei Tartari, “scollegano” la narrazione creando da un lato “delle aspettative” 114, dall’altro “un tramite tra l’attore e il regista” 115. In particolare l’“effetto diapositiva” fa sì che “il movimento” non venga più “percepito”, ma “pensato” 116. Questa tecnica registico-compositiva, in cui “l’arresto sull’immagine congela lo spazio perché sospende il tempo” 117, viene impiegata da Zurlini, soprattutto nei lungometraggi in cui la narrazione segue il filo della memoria, come nei film tratti dai romanzi, Cronaca familiare fra tutti. Per evidenziare ulteriormente quanto Zurlini sia un autore di originale e notevole maestria registica è altamente esemplificativa la scena del ballo durante la festa improvvisata in casa di Carlo Caremoli in Estate violenta, in cui notiamo come il cineasta riesca abilmente ad elaborare forme filmiche facendole scaturire da altre forme:

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La sequenza è suddivisa in tre parti: una prima di ballo per la durata di una canzone, la seconda appena menzionata, e una terza ancora di ballo per la durata di un’altra canzone. Il regista lavora sulle tre parti e sui loro tempi in modo che nell’ultima avvenga una sorta di prolungamento: Roberta si scioglie dal cavaliere e scende in giardino; Carlo la segue e, prima di raggiungerla, la osserva un attimo dall’alto della scala esterna. Mentre il motivo si dilata e le coppie nella casa continuano a ballare (abbiamo visto le loro sagome controluce, come in una coreografia), Carlo si avvicina lentamente a Roberta e la prende fra le braccia. Il bacio suggella la tensione di tutta la sequenza, ma proprio in quel momento sopraggiunge la ragazza di Carlo, Rossana, che a sua volta scende la scala e si avvicina. La musica del ballabile tace, sostituita dall’eco notturno e dai grilli, Roberta e Carlo si staccano per poi disporsi plasticamente schiena contro schiena, Rossana resta immobile per un tratto ma, sull’attacco jazz che arriva dalla casa, rientra correndo. La sequenza prende spessore dalla propria chiave sottaciuta; ossia, racconta il desiderio di Roberta e Carlo ricorrendo a canoni correnti, ma poi intreccia ad essi, con misura disinvolta pari all’intensità, gesti di teatro, di balletto, di musical 118.

Pure la scenografia possiede una fondamentale funzione diegetica, ma anche simbolica: ne La prima notte di quiete, per esempio, mentre i “vitelloni” attempati si riuniscono in un appartamento per giocare d’azzardo, la mdp gira due volte attorno al tavolo e, nello stesso tempo, scorre sulle pareti. Non è davvero come sarà nella casa di Drogo; qui non c’è una memoria, un gusto da abbandonare per un destino di perdita. Qui la perdita, almeno per Daniele Dominici, si è consumata da anni; questi uomini ormai privi di tradizioni sembrano ignorare un luogo che li ignora, restano come sospesi in una scenografia fredda 119.

Da questi pochi accenni si può misurare che siamo in presenza di un regista abile nel dirigere un film con rara eleganza formale, ma anche dotato di un innato talento in grado di sublimare l’assoluto delle diverse forme artistiche nell’assoluto dell’opera filmica. Sergio Toffetti ha cercato di collocare Zurlini all’interno di una produzione nostrana in bilico tra passato e futuro: Se alla fine degli anni ’50, in Francia, i giovani hitchcock-hawksiani dei “Cahiers du Cinéma” si muovono con lo sguardo frontalmente rivolto in avanti verso un cinema futuro, nel cinema italiano questa produttiva soluzione di continuità si rivela impossibile. Valerio Zurlini, e con lui tutta una leva di cineasti (più o meno negli stessi anni esordiscono autori come Olmi, Pasolini, Rosi, De Seta, Ferreri), si trova a doversi misurare direttamente con i predecessori immediati ancora nel pieno della loro maturità creativa: e liberarsi dei fratelli maggiori è un’operazione indubbiamente più complessa che sbarazzarsi del “cinema di papà”. Ne deriva, almeno nelle opere migliori, una modernità meno appariscente di quella rappresentata nel cinema italiano dalla generazione successiva dei Bellocchio e dei Bertolucci e, nel cinema in generale, dalla

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coeva generazione della Nouvelle Vague. Dunque un cinema che muove verso il futuro tenendo lo sguardo fisso al passato: definizione cui Valerio Zurlini corrisponde perfettamente, sia nelle opere successivamente realizzate, sia nell’acuta consapevolezza teorica che sviluppa nelle riflessioni sul mestiere di regista. Nasce probabilmente da qui la “riscoperta” recente di film come Cronaca familiare, Estate violenta, La prima notte di quiete, che appaiono ai nostri giorni, in quello che è il loro “futuro”, di una sorprendente modernità, opere a noi talmente contemporanee da non meravigliare come abbiano potuto essere sottovalutate all’epoca della loro uscita 120.

In linea generale le affermazioni del critico sono condivisibili, anche se vanno fatte delle distinzioni, in quanto siamo di fronte ad un autore volutamente “fuori dagli schemi”, che ha girato solo opere che gli piacevano e trasposto dei film da libri, quando questi libri erano “estremamente simili” 121 a lui. La “modernità” di Zurlini consiste innanzitutto nella sua capacità di utilizzare la macchina da presa in modo originale: in particolare per quanto riguarda la continuità di ripresa e la profondità di campo. Alberto Boschi, ricordando che Zurlini ha curato di persona il montaggio di quasi tutti i suoi film, ha elogiato tale “scelta estetica del tutto consapevole e pienamente autoriale”. Si può citare a questo proposito una bella inquadratura appartenente a una sequenza de La ragazza con la valigia, quella in cui Lorenzo introduce per la prima volta Aida nella villa di famiglia. Dapprima la cinepresa ci mostra la stanza d’ingresso inquadrata dall’alto, in plongèe, con i due personaggi ripresi in figura intera, poi, quando il protagonista sale rapidamente l’imponente scalone che conduce al piano superiore, lo segue con una panoramica “diagonale” fino a inquadrare il suo volto in primissimo piano (quando il personaggio ridiscende, la macchina da presa torna alla posizione iniziale con un movimento simmetrico al primo). Questo singolare passaggio dal campo lungo al primo piano realizzato in una sola inquadratura, senza tagli di montaggio, ci permette di sottolineare un ultimo aspetto, forse il più peculiare, dello stile visivo di Zurlini, ovvero la tendenza a utilizzare la continuità di ripresa per inquadrature molto ravvicinate, che isolano il volto del personaggio dallo spazio in cui è inizialmente situato. Ciò può essere ottenuto riprendendolo in primissimo piano oppure, negli esterni, inquadrandolo lievemente dal basso in modo da escludere dall’immagine gli edifici o il paesaggio, cosicché la sua figura si staglia sul fondo neutro e uniforme del cielo. Pochi registi hanno osato soffermarsi così a lungo con la camera fissa sul volto immobile di un personaggio 122.

Alberto Cattini ha addirittura parlato di una “poetica del piano-sequenza” riferendosi sempre a La ragazza con la valigia, e in particolare alla scena sopra menzionata, in cui il regista fa scendere le scale ad Aida sullo sfondo di un quadro con cui la giovane viene identificata da Lorenzo: “una Maddalena dal corpo ignudo appena cinto da un velo” di cui l’adolescente “accoglie il messaggio d’aiuto” 123.

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Il piano-sequenza, di per sé – e citiamo i nomi prediletti, di coloro che lo hanno illustrato in modo magnifico, e reso paradigmatico per un certo tipo di narrazione: Mizoguchi e Welles, Antonioni e Anghelopulos, – assolve a un movimento durata che si vuole carico di un’angoscia esistenziale ultimativa, simbolo dell’inautenticità dei rapporti sociali, dello sfinimento del viaggio, dell’impegno politico, addirittura del sipario della mente che opera un foro nel tempo verso la scena archetipica, o al contrario testimone di un attentato che si innesca o tarda a esplodere, e del coinvolgimento di un’altra coppia che inevitabilmente precipita in un incubo disperato. Occhio di chi sa, occhio del regista che narra, il piano sequanza cerca di unire, ma nulla può contro il precipitare degli eventi come in un agone tragico 124.

La scelta invece di Zurlini di inquadrare leggermente dal basso i personaggi potrebbe ricordare Ozu, ma anche Bresson, Dreyer, ma, a ben guardare, questo tipo di ripresa appare una scelta stilistica d’impronta zurliniana, quasi a voler attribuire ai corpi quella tridimensionalità che il cinema, arte bidimensionale, sembra escludere. Il fine è sotto gli occhi dello spettatore, soprattutto quando la macchina da presa si avvicina ai corpi dei personaggi con l’intento di renderne sia la “plasticità” sia la “bellezza” di una forma colta nella sua potenza fisica. Il regista guarda anche ai “maestri” del cinema “classico” americano, in particolare a quelli più “proiettati in avanti”, come il già ricordato William Wyler, che, nel suo cinema, introduce elementi di modernità, come un uso innovativo del deep focus: Privo, almeno in apparenza, di tagli e di spezzature, lo sguardo segue un suo lento movimento avvolgente, illudendo lo spettatore di poter scegliere: nei sei film realizzati in collaborazione con l’operatore Gregg Toland, in particolare – e cioè nel decennio che va da These Three (1936) a The Best Years of Our Lives –, una straordinaria pregnanza figurativa segna un vertice raramente eguagliato nell’ambito del cinema “classico”, recuperando la terza dimensione nella profondità di campo, e la quarta, quella della durata, nelle scansioni del “montaggio nel quadro”. È questo il cinema che piaceva ad André Bazin, e che gli ispirava le famose pagine di elogio alla “democrazia” wyleriana, al suo “stile senza stile” improntato al massimo rispetto nei confronti dello spettatore. Sta a ciascuno di noi, in teoria, decidere chi o che cosa privilegiare nell’immagine (un volto, un dettaglio rivelatore, un gioco marginale di ombre e di luci), quasi potessimo scegliere i nostri percorsi, quelli che l’Arnheim di Art and Visual Perception (1954) definisce, non a caso, avenues of freedom 125.

Ne La ragazza con la valigia, per esempio, il regista bolognese mostra di saper muoversi con disinvoltura nel disporre con sapiente equilibrio i personaggi nello spazio preferendo il piano-sequenza al decoupage analitico tradizionale. Un buon esempio compare all’inizio di La ragazza con la valigia, quando Marcello, il fratello maggiore del protagonista, si rifugia nella villa di famiglia per sfuggire ad Aida, che ha sedotto e abbandonato. All’inizio la cinepresa inquadra Lorenzo seduto

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in primo piano e la domestica in piedi sullo sfondo; poi, quando squilla il telefono, compie una panoramica verso sinistra per seguire la donna che si dirige verso l’apparecchio. Questo spostamento ha per effetto di relegare fuori-campo Lorenzo, includendo nell’inquadratura Marcello, che viene ad occupare la porzione destra dell’immagine, ripreso in p.p., mentre nella parte sinistra, in profondità di campo, vediamo la domestica che risponde al telefono 126.

Sarà lo spettatore a svolgere progressivamente il suo compito di decodificazione della sequenza arrivando a comprendere sia l’incapacità di Marcello di nascondere il proprio disagio sia l’identità della persona al telefono. Gli esempi potrebbero continuare, ma quello che ci preme sottolineare è che, dietro l’apparente “classicità” di Zurlini, c’è invece un autore che da un lato “presenta nel suo cinema soluzioni formali che rimandano all’orizzonte della Nouvelle Vague vera e propria (riprese in continuità, uso della profondità di campo, ecc.)” 127, mentre dall’altro sembra sottrarsi a qualsiasi “incasellamento”. L’insistente tentativo della critica di “incastonare” Zurlini all’interno di gruppi, tendenze, filoni o generi, al fine di conferirgli una possibile identità, appare sempre più forzato e dovuto quasi sempre a comodità storiografiche. Anche Anna Di Martino, che avvicina il cinema di Zurlini a quello di Antonioni perché riscontra numerose parentele, finisce col separare i due registi, considerando i diversi esiti del loro percorso artistico: la “dimensione del deserto”, per quanto riguarda il primo, e “l’estetica del vuoto”, per il secondo. Zurlini approda alla “dimensione del deserto”, intesa come “solitudine” e “sconforto”, che si attraversa con la recondita speranza di incontrare poi, alla fine, un’oasi, un luogo in cui si possa condurre un’esistenza “felice”, senza angosce e afflizioni. Il vuoto di Antonioni è invece uno stato totale in cui i personaggi vivono e sono costretti a “girare”128.

E a proposito di se stesso, come autore, Zurlini dichiarava a Biarese nel luglio 1981, a meno di un anno dalla morte: Io mi sento un autore isolato, non un autore che non ha un seguito (di pubblico). L’isolamento in un paese che tende sempre più ad aggregarsi è certamente una nonqualità. Io la considero una qualità 129.

Tale sentimento di “solitudine” è il prezzo che il regista ha dovuto pagare per salvarsi dall’omologazione socio-culturale imperante. In tutti i suoi lungometraggi egli racconta storie di individui inseriti in una dimensione storica e sociale che, pur rimanendo quasi sempre sullo sfondo, incide sul destino di ognuno. Zurlini ha portato sullo schermo in forme diverse sempre la stessa vicenda, che si conclude inevitabilmente con la sconfitta dell’Ideale 130, incarnato da personaggi che credono sempre di meno nella Storia, concepita sempre di più, soprattutto a partire da La prima notte di 46


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quiete, come “fato” contro il quale si dimostra inutile qualsiasi resistenza, se non una stoica accettazione. Per questo si può affiancare, senza la benché minima intenzione di istituire una scala gerarchica, la produzione cinematografica di Zurlini a quella di cineasti, molto diversi tra di loro, del calibro di Bernardo Bertolucci, di Pier Paolo Pasolini, di Marco Ferreri, dei fratelli Taviani, di Marco Belloccchio, e di altri ancora. Se facciamo un confronto tra quello che è considerato il capolavoro di Marco Ferreri, Dillinger è morto, uscito nel 1969, notiamo nella rappresentazione della condotta del protagonista Glauco, sotto l’apparente banalità e ritualità del quotidiano, il manifestarsi di un comportamento deviante, espresso con assurda normalità a testimoniare la condizione di nevrosi e di alienazione dell’uomo contemporaneo incapace di trovare una soluzione ai suoi problemi, se non nell’illusione del sogno (la partenza del protagonista per Tahiti rappresenta l’evasione da una realtà di morte), “che riflette, in termini di delusione, disillusione e ‘fuga’ le eco, indirette, della ‘grande contestazione’ sessantottesca” 131. La stessa delusione si respira, sotto forma di metafora o allegoria, nei film di Bertolucci, Il conformista (1970) e La strategia del ragno (1970), e dei fratelli Taviani, Sotto il segno dello scorpione (1969) e San Michele aveva un gallo (1972), di Marco Bellocchio, Nel nome del padre (1972), di Ettore Scola, C’eravamo tanto amati (1974), solo per citare alcuni titoli. Da questi pochi esempi emerge una società che porta i segni della lacerazione e della sconfitta delle grandi aspettative e speranze, che avevano alimentato la contestazione studentesca. In tal senso un film come La prima notte di quiete (1972) è sia espressione del clima post-sessantottesco sia del processo in atto nella società di quegli anni di un’involuzione etico-morale, come risposta in negativo agli ideali contestatari in cui la rivoluzione studentesca aveva illusoriamente creduto. Non è un caso che il Preside (Salvo Randone) del liceo, presso il quale viene assunto il protagonista, Daniele Dominici (Alain Delon), sia l’ideale rappresentante di una scuola reazionaria e codina che non accetta alcuna forma di contestazione e che pretende invece disciplina, come nel film di Bellocchio Nel nome del padre. Allo stesso modo gli studenti, con le loro richieste di essere i protagonisti della vita scolastica, esprimono le ultime velleitarie rivendicazioni contro un sistema scolastico che non ha saputo rinnovarsi. Il professore, Daniele Dominici, è l’unico a farsi portavoce di una visione lucida e disincantata del tempo in cui vive: ha compreso che, se molte cose sono cambiate dopo la contestazione, per lui tutto è rimasto come prima. Con tali parole risponderà ad uno studente che gli propone di firmare un ordine del giorno: “Sono fatti vostri, io non voglio entrarci (…). Io sono qui soltanto per spiegarvi perché un verso del Petrarca è bello e presumo di saperlo fare. Tutto il resto mi è estraneo, mi annoia. Tanto vale che ve lo dica subito. Per me neri o rossi siete tutti uguali, i neri sono più cretini”. La “dimensione del deserto” pertanto appartiene a tutti i personaggi zurliniani: anche a Daniele, che, votato alla morte come unica speranza di salvezza da un’esistenza falsa e insopportabile, viene richiamato brevemente alla vita da un amore per 47


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una sua giovane studentessa (Sonia Petrova), ma alla fine, sconfitto ancora una volta dalla storia, si arrende alla “prima notte di quiete”. Lo stesso destino attende anche Giovanni Drogo, il protagonista de Il deserto dei tartari (1976): fin dall’inizio il percorso del giovane sotto-ufficiale conduce metaforicamente alla morte che egli affronta con dignità, una volta compreso, come Daniele, l’insensatezza del vivere. Tale visione drasticamente pessimistica sul proprio tempo procede parallela con il giudizio espresso dal regista sul cinema italiano ormai “morto”. Già nel 1967 Zurlini, nel corso di un’intervista avvenuta a Genova, dov’era impegnato per le riprese televisive di Pietà di novembre, rispondeva in questo modo alla domanda di Carlo Brusati che gli chiedeva una sua opinione sulla produzione cinematografica nostrana: Niente. Il cinema italiano è morto – non esiste più – e che esistano degli autori non vuol dire che esista un cinema. Il cinema italiano è asservito a vieti ed esclusivi interessi economici. La situazione si aggrava poi per l’intervento dei capitali americani. In particolare per la presenza di produttori ignoranti ed incapaci. Sul piano dell’arte oggi come oggi siamo spernacchiati. Del resto è giusto che sia così. Ogni società ha il cinema che si merita 132.

Micciché, nel suo volume sul cinema degli anni settanta, è sulla stessa lunghezza d’onda. Rispetto agli anni sessanta, ora i film italiani sono meno graditi al pubblico a vantaggio di quelli americani. La produzione di qualità si sostenta dei pochissimi autori solitari e distaccati da tutto il resto – i Taviani, gli Olmi, gli Antonioni, i Fellini, i Rosi ecc. – che producono quei film cui poi vengono attribuite palme e statuette nei festival, accreditando la leggenda di un “cinema italiano” ancora in epoca aurea 133.

E poi ci sono i registi che realizzano un prodotto dignitoso che però spesso scade nel sottoprodotto. Il cinema italiano non esiste schiacciato da “un enorme gruppone di confezionatori di pellicola impressionata, raffazzonatori di paccottiglia filmata, veri e propri magliari del cinema” 134. Valerio Zurlini incontra sempre più difficoltà a realizzare i suoi progetti: il suo ultimo film esce sugli schermi nel 1976 e ottiene meritati riconoscimenti di pubblico e di critica. Ma Il deserto dei Tartari è anche la dimostrazione che non basta aver girato un capolavoro per continuare a svolgere con passione il proprio lavoro, come non bastano i film d’autore per far cambiare le “leggi del mercato”.

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Note

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Aldo Tassone, Un Autore di “seconda classe”, in Cesare Biarese (a cura di), Valerio Zurlini, Quaderno n. 25 di “Circuito Cinema”, vol.II, Il Formichiere, Milano, 1980, p. 2. 2

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, vol. II, Laterza editore, Bari-Roma, 1995. 3

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta (1960-1993), vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 2001, p. 294. 4

Morando Morandini, Autorialità e alto artigianato, in AA.VV., Storia del cinema italiano, vol. X – 1960/1964 (a cura di Giorgio De Vincenti), Marsilio Edizioni di Bianco & Nero, Venezia, p. 49. 5

Gianluca Minotti, Valerio Zurlini, Il Castoro Cinema, Milano, 2001.

6

Francesco Savelloni, La spiaggia nel deserto. I film di Valerio Zurlini, Firenze Atheneum Oxenford, Firenze, 2007. 7

Il restauro de La prima notte di quiete è avvenuto grazie all’Associazione Philip Morris Progetto Cinema in collaborazione con la Titanus e la Fondazione Scuola Nazionale di Cinema-Cineteca Nazionale. L’Associazione Philip Morris Progetto Cinema interpreta il processo di restauro nei suoi termini più rigorosi, che prevedono non soltanto la stampa di una copia tendenzialmente conforme all’intenzionalità espressiva dell’autore, ma l’intervento sul negativo originale e la predisposizione di materiali di preservazione che consentano la ristampa del film secondo i parametri della nuova versione restaurata. Ma soprattutto, oltre alla volontà di riproporre i capolavori del passato all’attenzione di un nuovo pubblico, ogni film salvato è occasione per una riflessione critica sul suo processo produttivo e sulla sua consistenza testuale. Riflessione che si concretizza nella redazione di una collana curata da Lino Miccichè, con una serie di volumi che raccolgono interventi critici, testimonianze, la trascrizione dell’intero film, proponendosi come un ideale completamento delle operazioni tecniche di laboratorio. 8

Il progetto di restauro, iniziato nel 2004 e concluso ad aprile 2005, è stato realizzato dal Centro sperimentale di cinematografia-Cineteca nazionale in collaborazione con la Titanus, con la supervisione di Rotunno. I materiali di partenza sono stati il negativo originale che giaceva alla Technicolor di Los Angeles ed era di proprietà della Warner che aveva tutti i diritti all’estero, ma non per l’Italia. E poi il negativo suono che è stato invece rintracciato alla Technicolor di Roma, di proprietà della Titanus, casa produttrice del film. 9

La distinzione tra “commedia paesana” e “commedia cittadina” risale a Vittorio Spinazzola

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che la utilizza per demarcare il diverso contesto che fa da sfondo alla “commedia idillica” o “rosa”, in Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia (1945-1965), Bompiani, Milano, 1974. 10

Guido Aristarco, “Pane amore e fantasia” e “Poveri ma belli”, in Antologia di “Cinema Nuovo” (1952-1958), Guaraldi, Firenze, 1975, pp. 744-745. 11

12

13

14

Ivi, p. 742-743. Ivi, p. 745. Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico, cit., p. 102. Ivi, p. 110.

15

Fu considerato, con Ossessione di Visconti e I bambini ci guardano di De Sica, entrambi del 1943, uno dei film che anticiparono il neorealismo postbellico. 16

Si tratta di pellicole che vanno ben al di là della storiellina d’amore e che confermano le note simpatie per gli strati sociali meno abbienti da parte del cinema di regime del periodo 1940-45. 17

Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico, cit., p. 111.

18

Come scrive Gian Piero Brunetta: “Mentre fallisce, dopo pochi anni e nonostante gli esiti clamorosi delle interpretazioni di Lamberto Maggiorani ed Enzo Staiola di Ladri di biciclette o dei pescatori della Terra trema o degli interpreti di Rossellini e Castellani, il tentativo di negare la figura professionale dell’attore in nome dell’immediatezza e si deve prendere atto che la mitologia del ‘buon selvaggio cinematografico’ non rende in termini commerciali (e anche in termini artistici non è ripetibile), il sistema divistico che si rimette in moto tenta, con tutti i mezzi disponibili, di lanciare un ponte verso i modelli americani, Zavattini continua ad inseguire il proprio sogno di far diventare protagonisti tutti gli italiani e di registrarne con la macchina da presa le infinite storie: di fatto però il miracolo dell’immediatezza e della spontaneità non si concilia con le leggi dello spettacolo e con le ragioni produttive”. Cent’anni di cinema italiano, cit., pp. 99-100. 19

20

Ivi, p. 106. Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico, cit., p. 115.

21

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal neorealismo al miracolo economico (1945-1959), vol. III, Editori Riuniti, Roma, 1998, p. 77.

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22

Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico, cit., pp. 115-116.

23

Bruno Di Martino, Transizioni: tra neorealismo rosa e commedia all’italiana, in AA.VV., Storia del cinema italiano, vol. IX - 1954/1959 (a cura di Sandro Bernardi), Marsilio Edizioni di Bianco & Nero, Venezia, p. 111. 24

La cineopera, il melodramma, i film storico-mitologici, i “makaroni western”, la serie di Don Camillo e l’onorevole Peppone, ecc. Non ci addentriamo nella discussione che condusse la critica neorealista a stroncare la produzione filmica di genere. Come ha scritto Gian Piero Brunetta: “Mentre la critica neorealista, ‘pur nella volontà di cercare un dialogo nuovo con gli spettatori’ (Spinazzola), non riesce a conquistare e mantenere un pubblico popolare e, in alcuni casi neppure a raggiungerlo, i film popolari hanno il loro punto di forza proprio nella produttività del tratto opera-pubblico. Il neorealismo esalta il momento espressivo e il segmento che lega l’autore alla realizzazione del testo, i film popolari annullano la nozione di autore e spingono tutta la loro azione in direzione del pubblico”. Storia del cinema italiano. Dal neorealismo al miracolo economico ( 1945-1959), vol. III, cit., p. 77. 25

26

27

Maurizio Grande, La commedia all’italiana, Bulzoni, Roma, 2003, p. 55. Ivi, p. 58. Ivi, p. 59.

28

Doriana Leondeff, Pratolini e Zurlini tra letteratura e cinema, in Giacomo Martini (a cura di), Valerio Zurlini. Una regione piena di cinema, Regione Emilia Romagna, Bologna, 2005, p. 36. 29

Questi due film furono accolti da numerose polemiche e dissensi piuttosto prevedibili. Qualcuno vide nel nuovo film di Rossellini l’auspicato ritorno alle tematiche del neorealismo senza prendere in considerazione la precedente produzione degli anni cinquanta proiettata verso un “cinema dei sentimenti” (Stromboli, Europa ‘51). Fu proprio una parte della critica di sinistra a contribuire a questa interpretazione distorta. Molto polemico si dimostrò anche Guido Aristarco nei riguardi de Il generale Della Rovere. Si veda per un ulteriore approfondimento il suo articolo I volti e le possibilità astratte, in “Cinema Nuovo”, VIII, n. 141, settembre-ottobre 1959. 30

Adelio Ferrero, Guido Oldrini, Da “Roma città aperta” alla “Ragazza di Bube”, Edizioni di “Cinema Nuovo”, Milano, 1965, pp. 59-60. 31

Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico, cit., p. 237.

32

Micciché ritiene La grande guerra il primo film non retorico del conflitto 1915-18. Nell’antieroismo dei due protagonisti del film Busacca (Vittorio Gassman) e Jacovacci (Alberto Sordi) il critico riconosce “ i progenitori niente affatto segreti dei molti ‘antieroi’ piccolo-borghesi del ‘film medio’ del decennio interpretati dagli stessi attori”. Inoltre Il critico

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individua a partire da questo film la nascita della “formula De Laurentiis”, una “vera e propria ricetta produttiva”, fondata sul riproporsi dello stesso schema (la morte “eroica”) in altri lungometraggi del periodo. Lino Micciché, Cinema italiano: anni ’60 e oltre, Marsilio, Venezia, 1995, pp. 94-95. 33

Ivi, pp. 47-48.

34

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta (1960-1993), vol. IV, cit., pp. 192-193. 35

Pasquale Iaccio, Il cinema rilegge cent’anni di storia italiana, in AA.VV., Storia del cinema italiano, vol. X - 1960/1964 (a cura di Giorgio De Vincenti), cit., p. 192. 36

Adelio Ferrero, Guido Oldrini, Da “Roma città aperta” alla “Ragazza di Bube”, cit., pp. 60-61. 37

Si può parlare più precisamente di un sottofilone comico tra la satira e la farsa che include film, tanto per citare i più rappresentativi, come Il Federale (1961) di Luciano Salce, Tutti a casa (1960) e La marcia su Roma (1962) di Dino Risi, Anni ruggenti (1962) di Luigi Zampa. 38

Lino Micciché, Cinema italiano: anni ‘60 e oltre, cit., p. 50.

39

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta (1960-1993), vol. IV, cit., pp. 196-197. 40

Il film tratto da una delle Cinque storie ferraresi (1956) di Bassani è stato paragonato da Adelio Ferrero (“Cinema Nuovo”, 1960) a Estate violenta e a Kapò per la tematica affrontata. In realtà si tratta di tre opere molto diverse. In particolare La lunga notte del ‘43 racconta una storia d’amore sullo sfondo di eventi storici che incidono sull’esistenza di tutti i protagonisti. I personaggi sono tutti negativi: dal fascista Carlo Aretusi (Gino Cervi) a Franco Villani (Gabriele Ferzetti), figlio del professore antifascista, a Pino Barilari (Enrico Maria Salerno), che assiste impotente all’eccidio degli antifascisti avvenuto di fronte a casa sua per mano degli squadristi. 41

Il film di Gillo Pontecorvo è “singolare soprattutto per il suo intendimento di rovesciare lo schema classico del cinema postbellico sul genocidio nazista, sottintendendo come l’efferatezza nazista fosse diretta a uccidere la dignità dell’uomo prima ancora della sua esistenza fisica”. Lino Micciché, Cinema italiano: anni ’60 e oltre, cit., p. 114. 42

Questi sono i film citati da Adelio Ferrero, Guido Oldrini, in Da “Roma città aperta” alla “Ragazza di Bube”, cit.

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43

Pasquale Iaccio, Il cinema rilegge cent’anni di storia italiana, in AA.VV., Storia del cinema italiano, vol. X - 1960/1964 (a cura di Giorgio De Vincenti), cit., p. 197. 44

45

Adelio Ferrero, Guido Oldrini, Da “Roma città aperta” alla “Ragazza di Bube”, cit., p. 95. Morando Morandini, Estate violenta, “La notte”, 14-11-1959.

46

Zurlini dichiara in questa intervista di non aver avuto problemi di censura nemmeno con Estate violenta. 47

48

49

Valerio Zurlini, La censura siamo noi, “Schermi”, 1960, p. 18. Ivi, p. 21. Ivi, p. 19.

50

Jean Gili, Intervista con Valerio Zurlini, in Sergio Toffetti (a cura di), Valerio Zurlini, Lindau, Torino, 1993; ora in Giacomo Martini (a cura di), Valerio Zurlini, cit., p. 146. 51

Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico, cit., p. 281.

52

Il film ottenne un notevole successo e lanciò un’attrice come Jacqueline Sassard. La storia racconta l’amore di una ragazza, viziata e capricciosa, appartenente alla borghesia medio-alta, per un coetaneo di estrazione sociale molto più bassa. Si conclude con una separazione senza drammi tra i due ragazzi. 53

La pellicola fu sequestrata nel novembre del 1960 e poi rimessa in circolazione nell’aprile del 1961 con tagli di circa 10 minuti. Nel 1963 ritornò sugli schermi nella sua forma originale, dopo l’assoluzione dall’accusa di oscenità. 54

Paola Valentini, L’immagine della donna, in AA.VV., Storia del cinema italiano, vol. IX – 1954/1959 (a cura di Sandro Bernardi), cit., p. 393. 55

È una sorta di road movie in cui la protagonista, a servizio fin da bambina, decide di utilizzare i suoi risparmi per aiutare due camionisti in difficoltà ottenendo in cambio che la conducano con loro. 56

Paola Valentini, L’immagine della donna, in AA.VV., Storia del cinema italiano, vol. IX – 1954/1959 (a cura di Sandro Bernardi), cit., p. 396. 57

Ivi, p. 397.

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58

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal neorealismo al miracolo economico (1945-1959), vol. III, cit., p. 189. 59

Lino Micciché, Cinema italiano: anni ’60 e oltre, cit., p. 119.

60

Il cinema attinge copiosamente dalla letteratura negli anni trenta per poi allontanarsi da essa negli anni del neorealismo. Come scrive Silvio Guarnieri: “Il nostro cinematografo del recente dopoguerra si rivela come un’arte ancora giovane, di scoperta, lontana dalla letteratura che invece si sente impegnata in altro compito, più deciso e risolutore. Nei suoi migliori risultati esso è perciò estraneo alla letteratura ed appunto quando nella letteratura rientra, quando si possono trovare i suoi precedenti letterari, ricade inevitabilmente in quella retorica, in quel conformismo che gli erano propri nel periodo precedente, tra le due guerre”. Silvio Guarnieri, Cinema e letteratura: dal fascismo al dopoguerra, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Cinema e letteratura, Zanichelli, Bologna, 1976, p. 72. 61

62

63

Massimo D’Avack, Cinema e letteratura, Canesi, Roma, 1964, p. 10. Ivi, p. 15. Ivi, p. 35.

64

Pratolini esprime in maniera più completa ed esaustiva la sua contrarietà alla riduzione delle opere letterarie sullo schermo in un articolo pubblicato su “Cinema Nuovo”, VI, nn. 120121, 15 dicembre 1957. 65

66

67

68

Massimo D’Avack, Cinema e letteratura, cit., p. 34. Libero Bigiaretti (Matelica 1905 – Roma 1993) è stato un poeta e scrittore italiano. Massimo D’Avack, Cinema e letteratura, cit., pp. 50-51. Ivi, pp. 51-52.

69

Valerio Zurlini, Gli anni delle immagini perdute, Prandi, Reggio Emilia, 1983; ora in Valerio Zurlini, Pagine di un diario veneziano Gli anni delle immagini perdute, Parma, Mattioli 1885, p. 81. 70

Massimo D’Avack, Cinema e letteratura, cit., p. 52.

71

Vasco Pratolini, Per un saggio sui rapporti fra letteratura e cinema, “Bianco e Nero”, IX, n. 4, giugno 1948; ora in Andrea Vannini, Vasco Pratolini e il cinema, Edizioni La Bottega del cinema, Firenze, 1999, pp. 53-54.

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72

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta (1960-1993), vol. IV, cit., p. 82. 73

Giorgio De Vincenti, Il cinema italiano negli anni del boom, in AA.VV., Storia del cinema italiano, vol. X - 1960/1964 (a cura di Giorgio De Vincenti), cit., p. 17. 74

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta (1960-1993), vol. IV, cit., pp. 83-84. 75

Vasco Pratolini, nonostante le sue posizioni sulla trasposizione cinematografica del romanzo in genere (si veda l’articolo citato pubblicato, nel 1948, su “Bianco e Nero”) di fatto collaborò spesso con gli uomini di cinema. Il suo nome compare accanto a quello dei migliori registi del nostro cinema del dopoguerra in film come Paisà di Rossellini, Rocco e i suoi fratelli di Visconti, La viaccia di Bolognini. Oltre a Zurlini, che ha tradotto in immagini due suoi romanzi (Le ragazze di Sanfrediano e Cronaca familiare) e che ha scritto anche la sceneggiatura, rimasta incompiuta, de Lo scialo, Monicelli ha diretto Un eroe dei nostri tempi (1955) e Pasquale Festa Campanile La costanza della ragione (1965). Anche Bolognini ha trasposto per lo schermo un romanzo pratoliniano, Metello, nel 1970. 76

Giorgio De Vincenti, Un falso problema: la “fedeltà”, in Ivelise Perniola (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia, 2002, p. 112. 77

André Bazin, Journal d’un Curé de Campagne e la stilistica di Robert Bresson, in Giovanna Grignaffini (a cura di), La pelle e l’anima. Intorno alla Nouvelle Vague, La Casa Usher, Firenze, 1984, p. 132. 78

Marcello Flores, Alberto De Bernardi, Il Sessantotto, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 224225. 79

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta (1960-1993), vol. IV, cit., p. 297. 80

Ibidem.

81

Giacomo Martini, Zurlini e le contraddizioni del sessantotto, in Alberto Achilli, Gianfranco Casadio (a cura di), Elogio della malinconia. Il cinema di Valerio Zurlini, Atti del Convegno, 20-21 ottobre 2000, Edizioni del Girasole, Ravenna, 2001, p. 90.

82

Alberto Farassino, Esotismo, internazionalismo, terzomondismo, in AA.VV., Storia del cinema italiano, vol. XI – 1965/1969 (a cura di Gianni Canova), Marsilio Edizioni di Bianco & Nero, Venezia, p. 213.

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83

84

85

Ivi, p. 211. Ivi, p. 212. Ivi, p. 215.

86

Amore e rabbia era nato con il titolo di Vangelo ‘70 su iniziativa dei dirigenti dell’Italnoleggio, in particolare di Mario Gallo. Anche Zurlini avrebbe dovuto partecipare con il suo mediometraggio Seduto alla sua destra a questo progetto, ma poi, su consiglio di Pasolini, che apprezzò moltissimo l’opera, il film divenne un lungometraggio, sempre finanziato dall’Italnoleggio. 87

Giovanni Spagnoletti, C’è ma non si vede: il Sessantotto nel cinema italiano, in AA.VV., Storia del cinema italiano, vol. XI – 1965/1969 (a cura di Gianni Canova), cit., pp. 366-367. 88

Ivi, p. 367.

89

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta (1960-1993), vol. IV, cit., p. 428. 90

Gianni Da Campo (a cura di), Intervista a Valerio Zurlini, in Alberto Cattini (a cura di), Valerio Zurlini, Atti del Convegno, 30-31 marzo 1990, Casa del Mantegna, Circolo del Cinema, Mantova, 1991, pp. 165-166. 91

Florestano Vancini, per esempio, grande amico di Zurlini, con lo pseudonimo di Stan Vance gira dei film western per continuare a fare film. 92

Gianni Da Campo (a cura di), Intervista a Valerio Zurlini, in Alberto Cattini (a cura di), Valerio Zurlini, cit., p. 166. 93

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta (1960-1993), vol. IV, cit., p. 429. 94

Ivi, pp. 430-431. Gli autori cui il critico si riferisce sono Pasolini, Bertolucci, Rossellini, Ferreri, Bolognini, Bellocchio, Lattuada, Antonioni, Fellini ma anche esordienti, come Faccini, Leto e Avati. 95

Massimo Marchelli, La prima notte di quiete, in Melodramma in cento film, Le Mani editore, Recco-Genova, 1996, pp. 217-218. 96

Lino Micciché, Una malinconia senza rimedio, in Lino Micciché (a cura di), “La prima notte di quiete” di Valerio Zurlini. Un viaggio ai limiti del giorno, Lindau /Associazione Philip

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Morris-Progetto Cinema, Torino, 2000, p. 106. 97

In “Cinemasessanta”, n. 6, novembre-dicembre 1982. L’intervista è tratta dal programma “Venezia 50 anni”, realizzato per la RAI dall’Istituto Luce in collaborazione con la Biennale; ora in Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Valerio Zurlini: realismo ed errore, in Sergio Toffetti (a cura di), Valerio Zurlini, cit., pp. 100-101. 98

Paolo Vecchi, Tra vuoto e nulla. Appunti su “Il deserto dei Tartari”, in Alberto Achilli, Gianfranco Casadio (a cura di), Elogio della malinconia, cit., p. 59. 99

Giacomo Martini, Zurlini e le contraddizioni del sessantotto, in Alberto Achilli, Gianfranco Casadio (a cura di), Elogio della malinconia, cit., p. 88.

100

Marino Bellaria (a cura di), Valerio Zurlini, Cineforum di Legnano, febbraio 1984; anche in Cesare Biarese, Quando Zurlini parlava di/su Valerio Zurlini, “Bianco e Nero”, n. 3, lugliosettembre 1984, p. 7. 101

Ivi, p. 34.

102

Gianni Da Campo, Intervista a Valerio Zurlini, in Alberto Cattini (a cura di), Valerio Zurlini, cit., p. 165. 103

Il film di Wyler racconta la storia di tre reduci della Seconda Guerra Mondiale che tornano nei loro paesi d’origine, in America, scoprendo che nel frattempo tutto è cambiato. Il reinserimento sociale per loro è ancora più difficile del previsto e ognuno dei tre deve affrontare nuove, difficili realtà: il bancario Al Stephenson lotta contro le proprie ansie, l’ex capitano aeronautico Fred Derry accusa il colpo di una moglie traditrice e Homer Parrish, che ha perso entrambe le braccia in guerra, è angosciato dall’idea di perdere la propria fidanzata. 104

Marino Bellaria (a cura di), Valerio Zurlini, cit; anche in Cesare Biarese, Quando Zurlini parlava di/su Valerio Zurlini, cit., p. 8. 105

Ivi, pp. 8-9.

106

Sergio Toffetti, L’angelo della storia. Valerio Zurlini nel cinema contemporaneo, in Sergio Toffetti (a cura di), Valerio Zurlini, cit., p. 18. 107

Alberto Cattini, Le stazioni di un’anima, in Sergio Toffetti (a cura di ), Valerio Zurlini, cit., p. 137. 108

Antonio Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2002, p. 297.

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109

Ivi, pp. 297-298.

110

Marino Bellaria (a cura di), Valerio Zurlini, cit.; anche in Cesare Biarese, Quando Zurlini parlava di/su Valerio Zurlini, cit., p. 31. 111

Ivi, p. 28.

112

Costa impiega il termine “effetto dipinto” “per indicare l’impiego del mezzo pittorico per ottenere un certo risultato illusionistico, cromatico, luministico, ecc. In questi casi si tratta di veri e propri effetti speciali scenografici […]. Ad esempio, il paesaggio lunare e l’obice di Le voyage dans la Lune sono effetti dipinti in questa prima accezione, cioè effetti scenografici pitturati: l’azione è ambientata in una scenografia dipinta”. Antonio Costa, Il cinema e le arti visive, cit., p. 306. 113

Ivi, pp. 311-312.

114

“Ne La prima notte di quiete, per esempio, dopo che Dominici in classe ha conosciuto i suoi allievi, una sequenza di ‘diapositive’ blocca il momento in cui si presenta agli studenti e fa intuire che presto in quella situazione accadrà qualcosa. Alle inquadrature-diapositive di Rimini segue infatti il primo scambio di sguardi tra il professore e Vanina Abati”. Anna Di Martino, I caratteri distintivi dell’enunciazione zurliniana, in Giacomo Martini (a cura di), Valerio Zurlini, cit., p. 58. 115

Ivi, pp. 58-59.

116

Dominique Chateau, Diegesi ed enunciazione, in Lorenzo Cuccu, Augusto Sainati (a cura di), Il discorso del film. Visione, narrazione, enunciazione, Edizioni Scientifiche Italiane, Roma, 1987, p. 153. 117

Ivi, p. 154.

118

Tullio Masoni, Confidare nell’arte. Zurlini, la pittura e il romanzo, in Alberto Achilli, Gianfranco Casadio (a cura di), Elogio della malinconia, cit., p. 18. 119

120

Ivi, p. 17. Sergio Toffetti, L’angelo della storia, in Sergio Toffetti (a cura di), Valerio Zurlini, cit., p.

16. 121

In “Cinemasessanta”, n. 6, novembre-dicembre 1982, cit.; anche in Marino Bellaria (a cura di), Valerio Zurlini, Cineforum di Legnano, febbraio 1984, p. 9.

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122

Alberto Boschi, Continuità di ripresa e profondità di campo nel cinema di Zurlini, in Alberto Achilli, Gianfranco Casadio (a cura di), Elogio della malinconia, cit., p. 63. 123

Alberto Cattini, Il disonore del mondo. La ragazza con la valigia, in Alberto Achilli, Gianfranco Casadio (a cura di), Elogio della malinconia, cit., p. 73. 124

125

Ivi, pp. 73-74. Guido Fink, William Wyler, Il Castoro Cinema, Milano, 1989.

126

Alberto Boschi, Continuità di ripresa e profondità di campo nel cinema di Zurlini, in Alberto Achilli, Gianfranco Casadio (a cura di), Elogio della malinconia, cit., p. 61. 127

Giacomo Martini, Zurlini, Pasolini e la nouvelle vague italiana, in Alberto Achilli, Gianfranco Casadio (a cura di), Elogio della malinconia, cit., p. 80. Martini si è rifatto ad uno dei paragrafi di Cent’anni di cinema italiano di Gian Piero Brunetta, in cui il critico inserisce, sotto questa etichetta di Nouvelle Vague italiana, un numero piuttosto considerevole di registi: Pasolini, Olmi, Bertolucci, i fratelli Taviani, Ferreri, Bellocchio, Rosi, Maselli, Pontecorvo, Orsini, Montaldo, Damiani, Vancini e naturalmente Zurlini. L’inserimento di Zurlini risulta per Martini piuttosto forzato, se messo a confronto con lo spirito di ribellione espresso dagli altri autori; in altre parole Brunetta, pur considerando Zurlini una “figura di rilievo nel cinema italiano di quegli anni”, mostrerebbe una certa “riluttanza ad inserirlo stabilmente in questo settore della storia del cinema”. 128

Anna Di Martino, I caratteri distintivi dell’enunciazione zurliniana, in Giacomo Martini (a cura di), Valerio Zurlini, cit., pp. 62-63. 129

Marino Bellaria (a cura di), Valerio Zurlini, cit; anche in Cesare Biarese, Quando Zurlini parlava di/su Valerio Zurlini, cit., p. 42. 130

Vittorio Giacci, Le stagioni del disincanto, in Sergio Toffetti (a cura di), Valerio Zurlini, cit., p. 27. 131

Lino Micciché, Cinema italiano degli anni ’70, Marsilio, Venezia, 1980, p. 23.

132

Carlo Brusati, Per Valerio Zurlini il cinema italiano è morto, “La Rivista del Cinematografo”, n. 6, giugno 1967, p. 359. 133

134

Lino Micciché, Cinema italiano degli anni ’70, cit., p. 13. Ivi, pp. 13-14.

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I blues della domenica (1952)

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MerisNicoletto

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Meris Nicoletto insegna materie letterarie in un liceo scientifico ed attualmente è dottoranda di ricerca in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo presso l’Università di Padova. Ha pubblicato articoli e saggi sul cinema e sulla fiction televisiva, con particolare attenzione all’aspetto didattico e formativo.

ISBN 978-88-89782-16-3

VALERIO ZURLINI

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La filmografia di Valerio Zurlini è un cantiere aperto. L’officina degli attrezzi però è chiusa per sempre. Una contraddizione, non apparente, purtroppo concreta che in un canone ancor poco dinamico come è quello della storia del cinema italiano riesce ad essere indigesta. E che nei fatti relega il regista de Il deserto dei tartari in un cono d’ombra (...). Lo scorrimento orizzontale della sua bibliografia urta con la verticalità della filmografia. (...) Il campo d’azione è pienamente novecentesco; proprio il “secolo breve” per Zurlini si trasforma in un tempo di delusioni, individuali e collettive, e ancora una volta con la metafora angolare, urbana, territoriale, della “zattera della medusa”, sembra un “nostro contemporaneo”.

VALERIOZURLINI

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