53a edizione Scivac Rimini

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ATTI DEL 53° CONGRESSO NAZIONALE SCIVAC

Copertina ATTI 53 congresso

SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA VETERINARI PER ANIMALI DA COMPAGNIA SOCIETÀ FEDERATA ANMVI

®

Atti del

Estratti relazioni Comunicazioni brevi

organizzato da

Eventi Veterinari

certificata ISO 9001:2000


SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA VETERINARI PER ANIMALI DA COMPAGNIA SOCIETÀ FEDERATA ANMVI

®

Estratti relazioni Comunicazioni brevi

organizzato da

Eventi Veterinari

certificata ISO 9001:2000


COMITATO SCIENTIFICO CONGRESSUALE DIRETTIVO SCIVAC 2005-2007 / SCIVAC BOARD OF DIRECTORS 2005-2007 MASSIMO BARONI

Presidente

UGO BONFANTI

Tesoriere

ERMENEGILDO BARONI

Presidente Senior

DAVIDE DE LORENZI

Consigliere

DEA BONELLO

Vice Presidente

GUIDO PISANI

Consigliere

FABIA SCARAMPELLA

Segretario

RESPONSABILI SOCIETÀ SPECIALISTICHE SPECIALISTIC ASSOCIATIONS’ CHAIRPERSONS STEFANO BO, SIMEF

ROBERTO MARCHESINI, SISCA

UGO BONFANTI, SICIV

MASSIMO MARISCOLI, SINVET

MICHELE BORGARELLI, SICARV

BRUNO PEIRONE, SIOVET

FABRIZIO FABBRINI, SIDEV

GUIDO PISANI, SCVI

PAOLO FERRARI, SVIDI

ROBERTO TOVINI, Practice Management

ADRIANO LACHIN, SIARMUV

FABIO VIGANÒ, SIARMUV

UGO LOTTI, SIMIV

ORGANIZZAZIONE CONGRESSUALE / ORGANIZING SECRETARIAT SCIVAC - Via Trecchi 20 - 26100 CREMONA (Italy) - Tel: + 39 0372 403508 - Fax: +39 0372 457091

Coordinatore Congressuale FULVIO STANGA

Segreteria Congressuale Scientifica MONICA VILLA - commscientifica@scivac.it

Segreteria Marketing FRANCESCA MANFREDI - marketing@evsrl.it

Segreteria Iscrizioni PAOLA GAMBAROTTI - info@scivac.it


53° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC

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CURRICULA VITAE DEI RELATORI FRANCESCA ABRAMO Med Vet, Pisa Laureata presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa nel 1986 con 110/110. Negli anni post laurea ha effettuato uno stage di un anno e mezzo presso l’Institut fuer Tierpathologie di Berna e un visiting fellowship presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Guelph (Ontario, Canada). È attualmente Professore Associato presso il Dipartimento di Patologia Animale della Facoltà di Medicina di Pisa e docente di patologia generale comparata. Presso il Dipartimento è responsabile da diversi anni della diagnostica dermatopatologica del Registro Tumori. È autrice di un centinaio di articoli su argomenti di patologia animale pubblicati su riviste nazionali e internazionali e di comunicazioni scientifiche presentate a Congressi sia in Italia che all’estero. SUSANNA ARNOLD Prof Dr Med Vet, Dipl ECAR, Zurigo, Svizzera Si laurea nel 1979 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria a Zurigo. Trascorso un periodo come assistente presso l’istituto di Patologia e Clinica Veterinaria per animali da compagnia si trasferisce, nel 1984, in Australia per un Intership presso l’Università di Sidney nel Dipartimento di Veterinary Clinical Studies. Nel 1985 diventa Senior Assistant in Small Animal Reproduction and Obstetrics. Dal 1989 è capo del Dipartimento di Riproduzione dell’Università di Zurigo ROBERTO BELLENTANI Med Vet, Formigine (MO) Laureato nel 1982 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Parma. Inizia la professione prima in un Ambulatorio a Modena, poi dal 1992 al 1998 fa parte dello staff della Casa di cura San Geminiano, struttura dotata di pronto soccorso e degenza. In questo periodo si occupa di chirurgia generale, diagnostica per immagini ed anestesiologia. Dal 1999 lavora in un Ambulatorio Veterinario a Formigine, di cui è Direttore Sanitario, e collabora con l’Ambulatorio Veterinario San Prospero di Reggio Emilia dove si occupa esclusivamente di anestesia. Da parecchi anni è iscritto al gruppo di studio di anestesia, al quale ha collaborato attivamente con una relazione sul blocco del plesso brachiale con ausilio di elettrostimolatore. Sempre sullo stesso argomento ha presentato una comunicazione libera al 44° Congresso Nazionale SCIVAC. Ha inoltre svolto diversi stage di aggiornamento presso l’Ambulatorio “Città di Tortona” del Dott. Emilio Feltri. ALESSANDRO BENVENUTI Med Vet, Roma Si laurea in Medicina Veterinaria all’Università di Pisa nel 1987 discutendo una tesi sull’utilizzo e sulla tossicità dell’ivermectina. Nello stesso anno ottiene l’abilitazione alla professione di medico chirurgo veterinario. Nel 1987, come primo veterinario italiano, lavora nel Centro di Ricerca e di Riabilitazione di Pieterbureen in Olanda; questo centro diretto dalla Drssa Lenie Hart e dalla Drssa Lies Vedder, è riconosciuto in tutto il mondo per i loro studi e ricerche nel campo delle patologie da inquinamento e contaminazione sui mammiferi marini. Adempie al Servizio Militare come Ufficiale Medico ed esplica la figura, dal 1989 al 1991, di Dirigente Veterinario presso la Legione Roma dei Carabinieri, seguendo in particolare l’allevamento dei cani deputati al servizio anti-droga, anti-esplosivo e antivalanga e al loro necessario addestramento. Dopo essere stato uno dei fondatori di una delle prime cliniche 24 ore a Roma nel 1988, lo Zoospedale Flaminio, di cui era il responsabile dell’ambulatorio, nel ’91 ne esce e diventa Direttore Sanitario presso la propria struttura medico chirurgica veterinaria, sempre a Roma. Per molti anni ha rivestito il ruolo di Responsabile Veterinario Nazionale per il Centro Studi Cetacei per il Programma di Pronto Intervento sugli animali vivi spiaggiati. Autore e relatore di articoli nazionali ed

internazionali di argomenti veterinari e di ecobiologia marina. Membro di varie Società nazionali ed internazionali nell’ambito della medicina veterinaria, delle scienze biologiche e naturali, nel 1996 incomincia ad interessarsi all’omeopatia frequentando L’Homeopathic Pedriatic London Hospital di Londra. Nel 2005 a Milano si diploma presso l’Associazione Medica Italiana di Omeopatia e Omotossicologia. Sta ultimando il Master di Terapia Comportamentale dell’Università di Pisa dove quest’anno riceverà il titolo di specialista. È membro, della F.I.A.M.O. massima associazione di omeopatia in Italia, della S.I.M.V.E.N.C.O. società per la medicina non convenzionale appartenente alla SCIVAC. e dell’A.I.O.T. associazione omo-tossicologica italiana. Ha condotto seminari e corsi per Fondazioni e Associazioni nazionali anche in sedi universitarie italiane come esperto sulla clinica e sul comportamento dei cetacei e sulla tematica delle intolleranze alimentari nei piccoli animali. Ha partecipato come esperto e consulente trattando di ambiente e di animali in vari programmi televisivi sulle reti nazionali: RAI 1 ad Uno Mattina, RAI 2 alla trasmissione In Famiglia, RAI 3 Geo & Geo, Telemontecarlo, Reti Mediaset. Autore di articoli su giornali specializzati, conduce una rubrica settimanale in una delle testate nazionali per il gruppo il “Messaggero”. MARCO BERNARDINI Med Vet, Dipl ECVN, Bologna Si laurea presso l’Università di Bologna nel 1988. Frequenta dal 1992 in Lussemburgo e Svizzera i corsi di neurologia dell’European School for Advanced Veterinary Studies (ESAVS). Nel biennio 1994-95 effettua un Residency in Neurologia presso l’Università di Berna (Svizzera). Nel 1995 consegue il diploma dell’European College of Veterinary Neurology (ECVN). Dal 1997 al 2001 è docente di Neurologia Veterinaria presso l’Università di Barcellona (Spagna) e responsabile del Servizio di Neurologia e Neurochirurgia presso l’Ospedale Veterinario della stessa facoltà. Nel biennio 200203 è Oberassistent in Neurologie presso l’Università di Berna (Svizzera). Attualmente è Professore Associato di Neurochirurgia Veterinaria presso l’Università di Padova ed esercita la libera professione esclusivamente come referente di casi neurologici presso la Clinica Veterinaria Poggio Piccolo a Castel Guelfo (BO). È Past-president della Società Italiana di Neurologia Veterinaria (SINVet) e membro dell’Examination Committee dell’ECVN. Relatore a numerosi corsi e congressi in Italia e all’estero, è autore di articoli, del libro “Neurologia del cane e del gatto” (Poletto Editore, Milano) e coautore del capitolo sulle patologie del midollo spinale nell’“Atlas und Lehrbuch der Kleintierneurologie” (A. Jaggy Ed., Schluetersche). DAVID BETTIO Med Vet, Parma Laureato a Parma nell’anno ’97-’98 con una tesi in dermatologia, ha seguito vari periodi di formazione in ematologia e diagnostica per immagini. Diplomato alla Scuola di Medicina Omeopatica di Verona nel 1999, ora ne è parte del Consiglio Direttivo e Docente effettivo di medicina Omeopatica Veterinaria. È autore di vari articoli pubblicati su riviste italiane di casi clinici trattati con l’omeopatia unicista. Membro della FIAMO e dell’UMNCV, esercita la professione sugli animali da compagnia nel suo ambulatorio, occupandosi di medicina interna e anestesiologia. FRÉDÉRIC BEUGNET Med Vet, PhD, Dipl EVPC, Lion, Francia Medico Veterinario, Professore di Parassitologia presso l’Università di Lione e Maisons-Alfort. Diplomato al College Europeo di Parassitologia Veterinaria. Ha dedicato 10 anni per studiare la chemioresistenza negli artropodi e dal 2000 lavora principalmente sull’epidemiologia delle malattie trasmesse da artropodi con 3 unità di ricerca: ACARUS (Università di Bristol), UMR-BIPAR (Maisons-Alfort) ed Esercito


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militare francese. Ha pubblicato numerosi studi sulle malattie trasmesse da zecche in Francia, Spagna e UK. Recentemente ha indagato con trial di campo, della durata di 1 anno, la prevenzione dell’Ehrlichiosi e della Babesiosi canina in Nord Africa ed Ungheria. DEA BONELLO Med Vet, Phd, SRV, Dipl EVDC, Torino Si laurea nel 1989 alla Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino. Si specializza nel 1997 in Radiologia Veterinaria, nel 2001 consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Medicina Interna e nel 2001 ottiene un contratto di ricerca presso il Dipartimento di Patologia Animale della Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino. Dal 1989 si dedica all’odontostomatologia veterinaria ed in questo settore svolge attività di consulenza per i piccoli ed i grossi animali. Nel 1996 e nel 1998 è stata, a scopo di aggiornamento, all’Università di Davis in California. Dal 1998 è Diplomata dell’European College of Veterinary Dentistry. Relatore a numerosi congressi in Italia ed all’estero e autore di pubblicazioni inerenti l’odontostomatologia veterinaria e comparata. Per molti anni Coordinatore del Gruppo di Studio di Odontostomatologia della SCIVAC, dal 1998 al 2002 è stata Segretario dell’EVDC. Attualmente è Presidente dell’EVDC, Vice Presidente della SIODOV e Vice Presidente della SCIVAC. MICHELE BORGARELLI Med Vet, PhD, Dipl ECVIM-CA (Card), Torino Si è laureato presso l’Università di Torino nel 1989 con una tesi di fisiologia. Dal 1990 si occupa di cardiologia e di ecografia nei piccoli animali. Da allora ha seguito numerosi periodi di aggiornamento in Italia e all’estero. È stato professore a contratto in ecocardiografia per gli anni 1996-97, 1998-99 e 2000-01 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino. Nel 1999 si è diplomato al College Europeo di Medicina Interna (Cardiologia). Attualmente è Ricercatore e Dottorando di ricerca presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino dove segue programmi di ricerca sulla miocardiopatia dilatativa nel cane, sulla insufficienza mitralica nei cani di grossa taglia, sui meccanismi neuro-ormonali in corso di insufficienza cardiaca, e sugli effetti delle malattie sistemiche sull’apparato cardiovascolare. Ha tenuto numerosi seminari scientifici e corsi di perfezionamento su argomenti riguardanti la cardiologia e l’ecografia internistica nei piccoli animali ed ha presentato i risultati dei suoi esperimenti ed esperienze cliniche in congressi nazionali ed internazionali. È segretario e tesoriere della Società Europea di Cardiologia Veterinaria (ESVC). È membro del consiglio direttivo della Società Italiana di Cardiologia Veterinaria (SICARV). È autore di circa 60 pubblicazioni di cardiologia ed ecografia internistica su riviste nazionali ed internazionali. ENRICO BOTTERO Med Vet, Cuneo Si laurea in Medicina veterinaria presso l’Università di Torino nel 1997 con una tesi sulle periodontopatie nel cane. Esperienze professionali presso numerosi ambulatori e cliniche nell’ambito della clinica dei piccoli animali. Ha partecipato a numerosi corsi Scivac. È autore e coautore di articoli su riviste nazionali ed internazionali Relatore dal 2003 al corso di citologia della Scivac. Realtore al corso di endoscopia flessibile presso la clinica San Antonio di Salò nel 2004 e nel 2005. Attualmente libero professionista, free lance nell’ambito dell’endoscopia flessibile presso numerosi ambulatori e cliniche in Piemonte e Liguria. Campo principale di interesse: citologia / gastroenterologia. ANTONELLO BUFALARI Med Vet, PhD, Perugia Conseguita la maturità classica, si è laureato in Medicina Veterinaria nel 1989 con lode. I suoi principali campi di interesse sono l’anestesiologia e la chirurgia. È ricercatore confermato presso il Dipartimento di Patologia, Diagnostica e Clinica Veterinaria, dell’Università di Perugia. Tra i principali aggiornamenti professionali si ricordano un Visiting Fellowship presso il Department of Clinical Sciences, Cornell University, New York, USA, dal 1/02/93 al 30/11/93; un

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Post-doctoral Associate: Department of Clinical Sciences, Faculty of Veterinary Medicine, Cornell University, New York, USA, dal 01/06/96 al 31/07/97. Ha conseguito il titolo di PhD (Philosophy Doctor) presso il Department of Clinical Sciences, Faculty of Veterinary Medicine, Helsinki University, il 27 Marzo 1998. È stato Coinvestigator di una ricerca sperimentale su un nuovo agente analgesico eseguita presso la Cornell University tra il 1996 e il 1997. Attualmente ha incarichi di insegnamento nei corsi di laurea in Anestesiologia, Clinica Chirurgica, Chirurgia Toracica ed Endoscopia rigida presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Perugia. Collabora, inoltre, in programmi di ricerca con il Dipartimento di Chirurgia Generale della Facoltà di Medicina e Chirurgia di Perugia e con il Dipartimento di scienze chirurgiche e perioperative dell’Università di Umea, Svezia. Dal 1991 è membro della Società Italiana delle Scienze Veterinarie (SISVet) e della Società Culturale Italiana Veterinari per Animali da Compagnia (SCIVAC) dal 1993 è Ordinary Member della Association of Veterinary Anaesthesist (AVA), dal 1994 è membro della Società Italiana di Chirurgia Veterinaria (SICV). A partire dal 2003, ha rivestito incarichi di docente ai corsi di anestesiologia organizzati da SCIVAC e dal 2004 è membro del consiglio direttivo SIARMUV. Autore o co-autore di oltre novanta pubblicazioni di cui una decina su riviste internazionali inerenti anestesiologia e chirurgia. È stato relatore a numerosi congressi e seminari nazionali e internazionali. Co-autore di un capitolo su Veterinary Clinics of North America. Autore del manuale: “Concetti di base per l’artroscopia diagnostica e operativa nel cane”. PAOLO BURACCO Med Vet, Dipl ECVS, Torino È professore ordinario di Clinica Chirurgica Veterinaria e Chirurgia presso la Facoltà di Med. Vet. di Grugliasco (Torino). Nel periodo Settembre 1987-Dicembre 1988 è stato Visiting Assistant Professor presso la School of Vet. Med. (Purdue University, Indiana), con Borsa di Perfezionamento Ass. It. Ric. Cancro (AIRC), dove ha svolto attività clinica principalmente rivolta alla diagnosi e terapia dei tumori spontanei del cane e del gatto. È diplomato dal Giugno 1998 al Collegio Europeo dei Chirurghi Veterinari, piccoli animali (E.C.V.S.). È membro della Veterinary Cancer Society, della Società Ital. di Chir. Vet., dell’Europ. Soc. of Vet. Oncology e dell’European College of Veterinary Surgeons. Dal 2005 fa parte dell’Examination Committee dell’ECVS. Relatore in numerosi convegni nazionali e internazionali e autore di oltre 140 pubblicazioni su riviste italiane ed estere MARIO CANIATTI Med Vet, Dipl ECVP, Milano Mario Caniatti si è laureato nel 1985 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano dove oggi svolge la sua attività presso la Sezione di Anatomia Patologica Veterinaria del Dipartimento di Patologia. Ha compiuto periodi di ricerca e studio presso le scuole di veterinaria di Davis (California) e Barcellona. La sua attività lavorativa è imperniata sul Servizio di Citologia Diagnostica del Dipartimento, mentre la sua attività di ricerca è focalizzata sulle neoplasie cutanee e linfoproliferative, nonché sulle patologie croniche del cavo nasale. È autore o coautore di varie pubblicazioni tra cui una ventina su riviste internazionali. Dal 1998 è membro del College europeo dei patologi veterinari (ECVP). DAVID CHIAVEGATO Med Vet, Padova Laureato nel 1984 alla Facoltà di Medicina Veterinaria di Bologna, con 110/110 discutendo una tesi sperimentale svolta in collaborazione con l’Ist. Zoopr. Sperimentale delle Venezie. Si occupa di cardiologia e diagnostica ecografica nei piccoli animali da circa 10 anni. Dal 1996 collabora con il dott. Claudio Bussadori (DM; DVM Dipl. ECVIM – cardiology). È relatore ed istruttore a corsi SCIVAC di “Cardiologia”, e di “Ecografia” dal 1998 e al corso di “Ecocardiografia”. È stato coordinatore del Gruppo di studio di “Diagnostica per immagini” della SCIVAC nel triennio 1999/2001, ed è attualmente vice


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presidente della SICARV (Società italiana di cardiologia veterinaria). Ha tenuto varie relazioni ad incontri di aggiornamento professionale in cardiologia ed ecografia internistica. È stato relatore al congresso nazionale multisala SCIVAC Milano 2001, 2003, 2004. È stato relatore ed istruttore al corso di Ecocardiografia (advanced course “cardiology III”-ESAVS). È stato docente al Master di II livello presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma. È stato professore a contratto per l’anno accademico 2003-2004 presso la facoltà di Medicina Veterinaria dell’Ateneo di Torino. Svolge attività di collaborazione con il dipartimento di Scienze Biomediche (Prof. S. Sartori) della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Ateneo di Padova. Lavora a Padova come libero professionista dove svolge prevalentemente attività di referenza in cardiologia ed ecografia addominale. Principali interessi sono rivolti allo studio dell’ipertensione polmonare ed alla diagnostica ecocardiografica, ed allo studio ed utilizzazione delle cellule staminali. LEAH COHN DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA Leah Cohn è attualmente Professore Associato di Medicina Interna veterinaria presso l’Università del Missouri, Columbia, MO. La dott.ssa Cohn si è laureata all’Università del Tennessee per poi completare sia la sua intership e il suo residency in Medicina Interna dei Piccoli Animali presso l’Università del North Carolina State. Successivamente acquisì il PhD dal NCSU studiando Microbiologia ed Immunologia Veterinaria. Gli interessi della dott.ssa Cohn includono sia le malattie infettive ed immunomediate che la medicina respiratoria. RAIMONDO COLANGELI Med Vet, Dipl Comportamentalista ENVF, Roma Si laurea nel 1982 a Perugia in Medicina Veterinaria. Dal 1995 si occupa di patologia comportamentale. Vice Presidente della SISCA (Società Italiana Scienze Comportamentali Applicate). Ha seguito corsi di base ed avanzati di patologia comportamentale sia in Italia che in Francia. Ha conseguito il diploma di specialità (CES) di Medico Veterinario Comportamentalista nelle ENV francesi nell’ottobre 2002. È stato relatore a seminari, giornate regionali Scivac, congressi nazionali ed internazionali, corsi di patologia comportamentale in Italia e Francia. È Direttore del corso base ed avanzato di Medicina comportamentale della Scivac dal 2002. È relatore della sezione di Medicina Comportamentale alla facoltà di Medicina Veterinaria di Teramo nel Master in “Scienze del comportamento e pet therapy” del 2004. È professore a contratto per l’anno Accademico 2004/2005 e 2005/2006 alla facoltà di Medicina Veterinaria di Teramo. È professore a contratto nel Master Universitario di “Clinica delle malattie comportamentali del cane e del gatto” presso la facoltà di Medicina Veterinaria di Torino per l’anno Accademico 2005/2006. Ha pubblicato articoli di medicina comportamentale su riviste veterinarie. È autore insieme alla Dott.ssa Sabrina Giussani del libro “Medicina comportamentale del cane e del gatto” editore Poletto 2004. È membro dell’associazione dei comportamentalisti francesi Zoopsy e dell’ESVCE (European Society of Veterinary Clinical Ethology). SILVIA COLOMBO Med Vet, Dipl ECVD, Legnano (MI) Laureata all’Università di Milano nel 1992. Ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Medicina Interna Veterinaria presso l’Istituto di Clinica Medica Veterinaria, facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano, nel 1997 e ha percepito una borsa di studio PostDottorato presso la stessa sede, dal 1998 al 2000. Dal 2000 al 2003 ha frequentato un periodo di specializzazione di tre anni in dermatologia veterinaria (Senior Clinical Scholarship in Veterinary Dermatology) presso il Department of Clinical Veterinary Studies, The University of Edinburgh. È stata docente a contratto (Temporary Clinical Fellow in Veterinary Dermatology) presso il Department of Clinical Veterinary Science, University of Bristol, tra il novembre 2003 ed il giugno 2004. Nel luglio del 2004 ha conseguito il Diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (Dip ECVD). Dal 2004 lavora in Italia, presso diverse strutture del nord e del centro, eseguendo esclusivamente consulenze dermatologi-

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che. È membro della Società Italiana di Dermatologia Veterinaria dal 1997 e dell’ESVD (European Society of Veterinary Dermatology) dal 1994. La Dr.ssa Colombo è autrice di numerosi articoli su riviste italiane e straniere. FEDERICO CORLETTO Med Vet, CertVA, Dipl ECVA, MRCVS, Cambridge, UK Nato a Castelfranco Veneto, ha conseguito la Laurea in Medicina Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Padova nel 1997, con il massimo dei voti e la lode. Ha prestato servizio come ricercatore presso la medesima Facoltà, occupandosi di anestesiologia. Nel 2002 ha conseguito il Certificate in Veterinary Anaesthesia rilasciato dal Royal College of Veterinary Surgeons e nel 2003 il Diploma di Specializzazione in Anestesiologia Veterinaria rilasciato dal College Europeo (ECVA). Dal giugno 2003 lavora all’Animal Health Trust (Newmarket), in qualità di Anestesista Veterinario. LUISA CORNEGLIANI Med Vet, Milano Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di Milano nel 1991, lavora come libero professionista nel settore dei piccoli animali dove si occupa di dermatologia dal 1995. Ha frequentato periodi d’aggiornamento all’estero ad indirizzo dermatologico presso strutture private ed universitarie. Full member dell’ESVD sta attualmente seguendo la via alternativa per conseguire il diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria. È inoltre autore di numerosi articoli su riviste nazionali ed internazionali, nonché traduttore di testi di dermatologia veterinaria e co-autore di un cd multimediale dedicato alla dermatologia. Attualmente lavora eseguendo visite dermatologiche di referenza a Milano, Torino, Novara. LORENZO CROSTA Med Vet, Desio (MI) Laureato in Medicina Veterinaria a Milano, con una tesi sugli aspetti ultramicroscopici della Bronchite Infettiva del pollo. Fino al 1999 ha svolto attività libero professionale in Italia, come veterinario di animali esotici, concentrandosi soprattutto sugli uccelli e le collezioni di animali da zoo. Dal 2000 ricopre l’incarico di Direttore Veterinario presso il Loro Parque di Tenerife, che comprende la più grande collezione di pappagalli del mondo, ed inoltre ospita grandi felini, primati (gorilla e scimpanzé), rettili (alligatori e tartarughe delle Galapagos), delfini, leoni marini, un notevole acquario ed uno dei maggiori pinguinari mondiali. È stato rappresentante italiano dell’Association of Avian Veterinarians, della quale è già stato ed è tuttora Chairman europeo. Inoltre è stato membro del Board of Directors della stessa associazione. È socio fondatore ed è stato membro del consigio direttivo della SIVAE (Associazione Italiana Veterinari per Animali Esotici), ed è socio dell’American Association of Zoo Veterinarians. È stato relatore invitato a diversi congressi internazioonali in Europa, USA, Australia e Brasile ed ha scritto o presentato più di 60 fra articoli scientifici e relazioni a vari congressi. Attualmente è consulente ufficiale per i progetti di recupero dell’Ara di Spix a dell’Ara di Laer (i due pappagalli più minacciati del mondo). GUALTIERO WALTER CROTTI Med Vet, Dipl Master in Cardiologia, Civitanova Marche (MC) Laureato a Milano nel 1990, abilitato nello stesso anno. Fino al 1993 ha svolto attività libero professionale su animali di affezione in diverse strutture di Milano e provincia come collaboratore e come turnista di Pronto Soccorso. Trasferitosi a Civitanova Marche, nel 1993, svolge attualmente attività nella propria struttura e consulenza esterna. Si occupa di cardiologia, medicina interna, diagnostica per immagini e medicina di urgenza. Ha conseguito nel 2005 il diploma Master in Cardiologia del cane e del gatto presso l’Università di Torino, con tesi riguardante il cuore di atleta. Dal 2003 collaboratore del Gruppo di Studio di Practice Management. Coautore di relazioni al congresso SCIVAC del 2004 e di pubblicazioni riguardanti il Practice Management.


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GINO D’AGNOLO Med Vet, Trieste Laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università di Bologna. Ha partecipato a numerosi congressi, corsi e seminari in qualità di relatore presentando relazioni riguardanti la cardiologia degli animali da compagnia. Ha collaborato con le Delegazioni della SCIVAC e con la SICARV (Società Italiana di Cardiologia Veterinaria) presentando relazioni di cardiologia durante le giornate di approfondimento e gli incontri regionali. I suoi principali ambiti di interesse comprendono la radiologia toracica, le cardiopatie, l’approccio clinico al paziente cardiopatico. I suoi hobbies sono la pesca e gli sport acquatici. PAOLA DALL’ARA Med Vet, PhD, Milano Laurea in Medicina Veterinaria con discussione di una tesi sperimentale dal titolo “Studio dell’immunità umorale del bovino: protidogrammi sierici di animali in condizioni fisiologiche diverse”, conseguita il 23 febbraio 1989. Conseguimento dell’abilitazione all’esercizio della professione di medico veterinario presso l’Università di Milano nella I sessione dell’anno 1989. Conseguimento del titolo di Dottore di Ricerca (Dottorato in “Biotecnologie applicate alle scienze veterinarie e zootecniche” - V ciclo - 1989/1992), discutendo una tesi finale dal titolo “Produzione, purificazione e applicazione di molecole anticorpali specifiche mediante tecnologie innovative” in data 21 maggio 1993. Conseguimento di una borsa di studio postdottorato dell’area 7 - Scienze Agrarie, con decorrenza maggio 1994-maggio 1995, con un programma dal titolo “Valutazione dei parametri dell’immunità innata e specifica negli animali in condizioni fisiologiche e nel corso di patologie infettive, al fine di interpretare il funzionamento della complessa rete immunitaria attraverso parametri oggettivi”. Ricercatore presso l’Istituto di Microbiologia e Immunologia Veterinaria (area V32A) dal 2 novembre 1995 al 1° novembre 1998. Ricercatore confermato presso l’Istituto di Microbiologia e Immunologia Veterinaria (area V32A) dal 2 novembre 1998 al 28 febbraio 2001. Professore associato presso il Dipartimento di Patologia Animale, Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria, Sezione di Microbiologia e Immunologia Veterinaria (area VET/05 ex-V32A) dal 1° marzo 2001 al 28 febbraio 2004. Professore associato confermato presso il Dipartimento di Patologia Animale, Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria, Sezione di Microbiologia e Immunologia Veterinaria (area VET/05 ex-V32A) dal 1° marzo 2004 a tutt’oggi. Titolare del corso “Immunologia veterinaria” (50 ore) del corso di laurea in Biotecnologie indirizzo veterinario (F29) per gli anni accademici 1999-2000, 2000-2001, 2001-2002 e 2002-2003 (fino a esaurimento del corso di laurea). Titolare del corso “Immunologia veterinaria” (2 crediti) del corso di laurea in Biotecnologie veterinarie (classe 1) dall’anno accademico 20012002 a oggi Titolare (cdc) del modulo “Immunologia comparata” (3 crediti) del corso integrato “Patologia, immunologia e malattie diffusive” del corso di laurea specialistica in Scienze biotecnologiche veterinarie (classe 9/S) dall’anno accademico 2003-2004 (1° anno di attivazione). Titolare (cdc) dei moduli “Vaccini e vaccinazioni” e “Metodologie applicate all’immunologia” del V anno del corso di laurea in Medicina Veterinaria (H08) dall’anno accademico 2004-2005 (1° anno di attivazione). Direttore della Scuola di Specializzazione in “Scienza e Medicina degli Animali da Laboratorio” per il triennio 2003-2006. DAVIDE DE LORENZI Med Vet, SMPA, Dipl ECVCP, Forlì Laureato in Medicina Veterinaria a Bologna nel 1988, con lode; ha conseguito nel 1992 la specializzazione in Clinica e Patologia degli animali da Affezione presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa. Dal 2005 ha conseguito il diploma europeo in patologia clinica veterinaria (ECVCP). È stato ideatore ed è l’attuale coordinatore del Gruppo di studio SCIVAC di Citologia Diagnostica ed inoltre è relatore ed istruttore del Corso di Citologia Diagnostica della SCIVAC. Da alcuni anni tiene un seminario di Citologia Diagnostica alla Scuola di Specializzazione in Clinica e Patologia degli animali da Affezione della Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa. È autore e coautore di oltre trenta fra articoli e comunicazioni su riviste ed a congressi nazionali ed internazionali aventi come oggetto la citologia

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diagnostica e la chirurgia. Ha curato l’edizione italiana del testo “Color Atlas of Cytology of the Dog and the Cat” di Baker e Lumsden. Dal 1993 compie regolari periodi di aggiornamento in Olanda presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Utrecht (Dipartimento Animali da Compagnia); presso la medesima Facoltà ha portato a termine un corso triennale, organizzato dall’ESAVS, avente come soggetto la medicina interna. Esercita come libero professionista a Forlì ed a Padova presso la Clinica Veterinaria S. Marco. FRANCO DEL FRANCIA Med Vet, Cortona (AR) Si laurea in medicina Veterinaria presso la Facoltà di Pisa nel 1950. Dal 1950 al ’52 pratica la libera Professione in provincia di Firenze. Dal 1952 al ’53 è Assistente Sezione di Firenze, Istituto Zooprofilattico per poi diventare Dirigente Sez. Zooprofilattico a Firenze sino al ’55. Dal 1962 al ’66 è Veterinario aziendale, bonifica di Torre in Pietra (Roma). Giudice nazionale della Razza Frisona Italiana, Veterinario Comunale, Foiano della Chiana (Ar), Funzionario Coadiutore Veterinario D.S.L 24 a Cortona (Ar) e dal ’92 al ’95 Funzionario Dirigente Veterinario D.S.L 7. A Siena è stato allievo di D. Mattoli; Medico Omeopata, Firenze, di B. Beucci, Medico Omeopata, Arezzo di A. Santini, Medico Omeopata, Roma, di Masi-Elizalde, Buenos Aires, Argentina e di A Candegabe, Scuola Omeopatica Argentina; Segretario Nazionale per l’Italia, International Association for Veterinary Homeopathy; Vicepresidente della International Association for Veterinary Homeopathy; Presidente Nazionale dell’AI. V.O (Ass. Ital. Vet. Omeop.); Docente e Programmatore di diversi corsi di Omeopatia veterinaria; Direttore della Scuola Superiore di Omeopatia Veterinaria “R. Zanchi” Cortona (Ar), dal 1989 a tutt’oggi. Docente Master Agroalimentare- Scuola Superiore S. Anna a Pisa dal 2001 al 2005; Docente Master Allevamento Biologico- Facoltà di Veterinaria di Pisa - 2005. Autore di numerose pubblicazioni sull’omeopatia. FRANCO FASSOLA Med Vet, Asti Si laurea nel 1989 a Torino in medicina veterinaria. Lavora come libero professionista ad Asti dal 1989. Dal 1995 si occupa di patologia comportamentale. Segretario-tesoriere SISCA dal 1999. Ha seguito corsi di base ed avanzati di patologia comportamentale sia in Italia che in Francia. Ha partecipato al corso per la formazione del diploma “Vetérinaire Comportementaliste des ENV Francaises”, presso l’Ecole Nationale Vétérinaire de Toulouse. Nel 2000 – 2001 – 2002 – 2003 - 2004 – 2005 è stato relatore ai corsi di base e avanzato di Medicina comportamentale della Scivac. È stato relatore a diversi seminari rivolti ai Medici Veterinari, agli educatori e ai padroni degli animali da compagnia. Dal 2002 è Direttore Scientifico della rivista di medicina comportamentale Sisca Observer. Ha pubblicato articoli di patologia comportamentale su riviste veterinarie e di divulgazione. Autore di un libro sull’educazione del cane, destinato al grande pubblico, dal titolo “Educare o Ri-educare il cane”, ha collaborato alla stesura di un capitolo del libro “La medicina comportamentale del cane e del gatto” editore Poletto, autori Dott. Colangeli e Dott. Giussani. È stato nel periodo aprile 2003 – aprile 2004 membro dello staff del Progetto Ex-combattenti dell’ENPA, progetto volto al recupero comportamentale dei soggetti che hanno preso parte a combattimenti tra cani, in qualità di responsabile della parte comportamentale. Fa parte del COMITATO SCIENTIFICO del Master di secondo Livello organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria Università degli Studi di Torino: Master Universitario di “Clinica delle malattie comportamentali del cane e del gatto”. Fa parte della commissione A.N.M.V.I.-A.P.N.E.C. in qualità di esperto di Medicina comportamentale, commissione nata per elaborare una collaborazione tra il mondo veterinario e degli educatori. Fa parte del Consiglio di ANMVI Piemonte, occupandosi dei problemi relativi al benessere degli animali. Sta frequentando il Corso di Laurea Specialistica in Evoluzione del Comportamento dell’uomo e degli animali. È Professore a Contratto, per l’anno accademico 2005 – 2006 nel Master Universitario di “Clinica delle malattie comportamentali del cane e del gatto”, tenuto presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Torino. È membro dell’associazione dei comportamentalisti francesi Zoopsy e dell’ESVCE.


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ANTONIO FERRETTI Med Vet, Dipl ECVS, Legnano (MI) Antonio Ferretti è nato a Cortina d’Ampezzo nel 1948. Dopo quattro anni di Ingegneria Meccanica è passato alla Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano laureandosi nel 1979 con tesi di argomento chirurgico. Si è dedicato fin dall’inizio dell’attività professionale al settore chirurgico sviluppando in particolar modo la Chirurgia Ortopedica e Traumatologica. Nel 1982 ha iniziato lo studio del Metodo Ilizarov e, nell’anno seguente, la sua applicazione clinica. Nel 1988 e nel 1991 ha trascorso un periodo di approfondimento presso il Prof. G.A. Ilizarov, all’Istituto Ortopedico Traumatologico della città di Kurgan (Siberia). Nel 1993 ha conseguito il Diploma dell’European College of Veterinary Surgeons. Svolge l’attività libero professionale esclusivamente nel campo ortopedico nella propria clinica a Legnano (MI). ALESSANDRA FONDATI Med Vet, PhD, Dipl ECVD, Roma Alessandra Fondati si è laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Pisa nel 1981. Si è occupata di dermatologia veterinaria come libero professionista dal 1984 al 1997, prima a Firenze quindi a Roma. Nel 1998 ha ottenuto il Diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (ECVD) e dal 1998 al 2003 ha lavorato come Professore Associato di Dermatologia presso l’Università Autonoma di Barcellona (Spagna). Nel 2003 ha completato un PhD sulla patogenesi del complesso del granuloma eosinofilico felino presso l’Università Autonoma di Barcellona. Attualmente si occupa di dermatologia veterinaria, come libero professionista, a Roma. LUCA FORMAGGINI Med Vet, Dormelletto (NO) Si laurea a Milano nel Febbraio 1991. Dopo vari periodi di tirocinio in Italia e all’estero, dal 1996 lavora presso la Clinica Veterinaria “Lago Maggiore” di cui è socio fondatore. È relatore in diversi corsi SCIVAC di chirurgia, ortopedia e medicina/chirurgia d’urgenza. È stato relatore a diversi congressi e seminari a livello nazionale. Membro SCIVAC, BSAVA, VECCS e EVECCS, è Resident in training per accedere all’esame dello European College of Veterinary Surgery (ECVS). Dal 2004 è vice-Presidente della Società di Chirurgia Veterinaria Italiana (SCVI). I principali campi di interesse sono rivolti a tutti gli aspetti della traumatologia e alla chirurgia mini-invasiva. LAURENT GAROSI Med Vet, Dipl ECVN, MRCVS, Higham Gobion, UK Il Dr. Laurent Garosi è Diplomate of the European College of Veterinary Neurology e RCVS/European Specialist in Veterinary Neurology. Attualmente, è direttore del servizio di neurologia/neurochirurgia della Davies Veterinary Specialists, Higham Gobion, England. I suoi principali interessi clinici e di ricerca riguardano le malattie cerebrovascolari, la diagnostica per immagini neurologica e la chirurgia intracranica. Ha pubblicato molti lavori nel campo della neurologia ed è un relatore regolare del circuito CPD. È membro attivo del comitato editoriale del Journal of Small Animal Practice e membro dell’European College of Veterinary Neurology education committee. ALESSANDRA GHERARDI Med Vet, Ferrara Nel 2000 si laurea a Bologna in medicina veterinaria. Lavora come libero professionista tra Modena e Ravenna. Area di interesse è la patologia comportamentale. Attualmente è specializzanda per il conseguimento del Diploma ENVF in Francia. Ha pubblicato alcuni articoli di patologia comportamentale su riviste veterinarie. Membro dell’Associazione dei comportamentalisti francesi Zoopsy e dell’ESVCE. RAFFAELE GILARDINI Med Vet, Voghera (PV) Si laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università Statale di Milano nel 1988 con una tesi sperimentale dal titolo “Peritonite Infettiva Felina: la tecnica ELISA

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nella diagnosi sierologica” che sarà poi oggetto di una pubblicazione su una rivista scientifica nazionale. Nel 1989 fonda con due soci una struttura veterinaria ed inizia la professione dedicandosi esclusivamente ai piccoli animali, prima nei settori della medicina interna e della chirurgia poi della neurologia, ortopedia e chirurgia. Partecipa a diversi seminari e congressi sia in Italia che all’estero e sostiene la maggior parte dei corsi organizzati dalla SCIVAC dal 1991 al 2003 su argomenti di oculistica, ortopedia, neurologia, oncologia, citologia, chirurgia. Nel 1994 risiede per un periodo presso la “Clinique Veterinarie Vanteaux” di Limoges in Francia dove segue il Dr. Philip Moreau nei suoi lavori di neurologia. Nel 1997 trascorre un periodo presso il Royal Veterinary College di Londra come osservatore nel reparto di neurologia dei piccoli animali diretto dal Dr. Simon Wheeler. Nel 1997 e nel 1998 sostiene presso l‘Istituto di Neurologia dell’Università di Berna un “training programme in Veterinary Neurology” alla European School for Advanced Veterinary Studies. Nell’agosto del 1998 trascorre un periodo presso l’Università del Wisconsin (USA) dove sostiene il “Course in Veterinary and Comparative Neurology and Neurosurgery”. Partecipa in qualità di relatore a diversi congressi nazionali, seminari o incontri di aggiornamento organizzati da associazioni di settore e da Ordini Provinciali con argomenti di neurologia, ortopedia e chirurgia. È autore di alcune pubblicazioni apparse su riviste nazionali o in forma di comunicazioni presentate a congressi nazionali. Da parecchi anni è membro della Società Europea di Neurologia (ESVN) e della Società Europea di Ortopedia e di Traumatologia (ESVOT) oltre che della SINVET, SIOVET e della SCVI. È stato per diversi anni socio della SOVI e della SIMIV. Dal 1989 vive a Voghera e da allora lavora presso la “Clinica Veterinaria Città di Voghera” di cui è socio fondatore e si occupa quasi esclusivamente di casi riferiti di neurologia, ortopedia e chirurgia pur mantenendosi attivo, con i Colleghi, nel lavoro di pronto soccorso ed in quello di formazione dei numerosi neolaureati che sostengono un periodo di tirocinio presso la struttura. SABRINA GIUSSANI Med Vet, Dipl Comportamentalista ENVF, Busto Arsizio (VA) Si laurea cum laude presso la facoltà di Medicina Veterinaria di Milano. Dal 1998 si occupa di Medicina Comportamentale. È consigliere SISCA (Società Italiana di Scienze Comportamentali Applicate) dal febbraio 2002. Ha partecipato a seminari, corsi di base, corsi avanzati di Medicina Comportamentale sia in Italia sia in Francia. Si è diplomata Medico Veterinario Comportamentalista presso l’Ecole Nationale Française nel novembre 2002. È stata relatore a giornate regionali, seminari, corsi di base e avanzati in Italia. Ha pubblicato articoli inerenti la Medicina Comportamentale su riviste del settore scientifico ed è autore, insieme al Dott. Colangeli, del libro”Medicina comportamentale del cane e del gatto” edito da Poletto nel 2004. Consegue nel dicembre 2004 il Master di specializzazione di 2° livello organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria di Padova in “Etologia applicata al benessere animale”. È professore a contratto nel 2005 nel Master inerente alla Medicina Comportamentale organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria di Torino. È socio di Zoopsy e di ESVCE. MARGHERITA GRACIS Med Vet, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Milano La D.sa Gracis si è laureata nel 1993 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano. Dopo la laurea ha lavorato come Libero Professionista presso una clinica veterinaria di Monza. Dal 1996 al 1998 ha effettuato un Residency in Odontostomatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università della Pennsylvania a Philadelphia (USA). Ha poi lavorato come Lecturer in Odontostomatologia Veterinaria nella stessa Facoltà fino a Luglio 2000, quando è tornata a Milano. Nel 1999 ha vinto il “Pharmacia and Upjohn European Veterinary Dental Award” per due studi radiografici del canino superiore del cane e del gatto. Dal 2000 lavora presso due cliniche private a Milano e Monza (Milano), dedicandosi esclusivamente all’odontostomatologia e chirurgia orale. È diplomata dei College Americano (AVDC) ed Europeo (EVDC) di Odontostomatologia Veterinaria. Ha ricoperto la carica di Presidente della Società Italiana di Odontostomatologia Veteri-


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naria (SIODOV) dal 2001 al 2004. Attualmente ricopre la carica di Past President dell’European Veterinary Dental Society (EVDS). La D.sa Gracis è inoltre Consulente della Commissione Scientifica della SCIVAC, e membro del Comitato Scientifico del Journal of Veterinary Dentistry. È relatrice dal 1997 a congressi nazionali ed internazionali e autrice di diversi articoli e pubblicazioni relativi all’odontostomatologia veterinaria. COLIN HARVEY DVM, BVSc, MRCVS, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Philadelphia, USA È Professor of Surgery and Dentistry presso la School of Veterinary Medicine, University of Pennsylvania (USA). Ha ottenuto il titolo di BVSc, MRCVS presso la University of Bristol Veterinary School nel 1966 ed ha portato a termine dei programmi di internato e residenza in chirurgia presso il Veterinary Hospital della University of Pennsylvania, dove ha trascorso tutta la sua carriera. È Diplomate of the American College of Veterinary Surgeons, Fellow of the Royal College of Veterinary Surgeons e charter Diplomate of the American and European Veterinary Dental Colleges. Ha ricevuto i seguenti premi: - Norden Distinguished Teacher Award, University of Pennsylvania 1974. Simon Award for Contributions to Veterinary Surgery, assegnato dalla British Small Animal Veterinary Association, 1983. - Peter Emily Award for Outstanding Contributions to Veterinary Dentistry, assegnato dall’American Veterinary Dental College, 1993. Bourgelat Award for Outstanding International Contributions to Small Animal Practice, assegnato dalla British Small Animal Veterinary Association, 1994. - American Veterinary Dental Society Research and Education Award, 1995. - Golden Scaler Award, American Veterinary Dental College, 1998. È Past President ed attualmente Executive Secretary dell’American Veterinary Dental College, e Director of the Veterinary Oral Health Council. È stato Editor di ‘Veterinary Surgery’ e ‘Journal of Veterinary Dentistry’. Ha scritto o curato 5 libri e redatto 60 capitoli di trattati e 130 articoli su riviste. ADRIANO LACHIN Med Vet, Venezia Laureato presso l’Università degli Studi di nel Parma 1996. Dal 1997 ha iniziato ad occuparsi di Chirurgia Generale frequentando diversi corsi base ed avanzati sull’argomento tenuti dalla SCIVAC, nonché numerosi congressi e seminari; sempre nello stesso anno è entrato in qualità di “ospite frequentatore” nel reparto di Chirurgia Generale dell’Ospedale “Villa Salus” di Mestre (Ve) frequentando attivamente la sala operatoria, successivamente, con le medesime modalità, ha frequentato per tre anni il reparto di Chirurgia Generale dell’Ospedale di Dolo (Ve). Dal 1999 ha incominciato ad interessarsi di Anestesia sotto la guida del Dott. Oscar Grazioli e del Dott. Emilio Feltri. Ha presentato una comunicazione libera al Congresso Multisala di Milano 2002 sull’utilizzo della Ketamina a bassissimi dosaggi per l’analgesia intra e postoperatoria. Relatore ed istruttore al Corso di Anestesia SCIVAC per gli anni 2003, 2004 e 2005. Relatore al 48° Congresso Nazionale Multisala (“Anestesia nel paziente anziano”), nonché relatore a numerosi seminari e corsi privati di livello base ed avanzato sull’argomento, ha inoltre presentato una relazione al Corso di Pronto Soccorso SCIVAC 2003. Ha collaborato alla stesura di un capitolo del libro “Medicina d’urgenza e terapia intensiva del cane e del gatto” (Masson-2004). Membro SIARMUV di cui fa parte del consiglio direttivo per il triennio 20052007; dal 2004 membro della Association of Veterinary Anaesthesist (AVA). I suoi principali campi di interesse professionale riguardano, oltre all’Anestesiologia, anche la Chirurgia Generale. Attualmente svolge l’attività libero professionale nel suo ambulatorio in provincia di Venezia e in due Cliniche Veterinarie a Padova e a Vicenza, di cui è uno dei titolari, occupandosi esclusivamente di Anestesia e di Chirurgia d’emergenza. FRANCISCO LLABRES Med Vet, DVR, Dipl ECVDI, MRCVS, Higham Gobion, UK Francisco Llabres Diaz si è laureato presso l’Università di Saragozza, in Spagna, nel 1996. Dopo un breve periodo di esercizio della professione in Spagna, si è trasferito all’Animal Health Trust, Newmarket. Ha

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ottenuto il RCVS certificate in radiology nel 2000 ed ha dedicato i suoi tre anni di residenza alla diagnostica per immagini, terminando nel 2002. Nell’Aprile del 2005 è passato alla Davies Veterinary Specialists. Ha conseguito il diploma RCVS in radiologia ed il diploma europeo in diagnostica per immagini veterinaria, oltre ad essere uno specialista riconosciuto RCVS in questa materia. Attualmente è presidente della British and Irish Division della European Association of Veterinary Diagnostic imaging. DUNCAN LASCELLES BSc, BVSc, PhD, MRCVS, Cert VA DSAS(ST) Dipl ECVS, Dipl ACVS, Raleigh, USA Duncan Lascelles si è laureato con lode presso la University of Bristol nel 1991 ed ha anche conseguito un First Class intercalated degree in Zoology. È poi tornato alla University of Bristol dove è stato Wellcome Clinical Research Scholar dedicandosi allo studio per il conseguimento di un PhD sugli aspetti dell’analgesia preventiva. Ha ottenuto il PhD su questo argomento nel 1996, dopo avere anche conseguito nel 1994 il Royal College of Veterinary Surgeons Certificate in Veterinary Anaesthesia. È poi passato alla University of Cambridge, UK, come residente in Chirurgia. Ha ottenuto il Royal College of Veterinary Surgeons Certificate in Small Animal Surgery nel 1996 ed il Royal College of Veterinary Surgeons Diploma in Small Animal Surgery (Soft Tissue) nel 1999, ed ha conseguito il titolo di Diplomate of the European College of Veterinary Surgeons nel 1999 e di Diplomate of the American College of Veterinary Surgeons nel 2003. Ha portato a termine il Fellowship in Oncological surgery presso la Colorado State University e poi un periodo di ricerca sul dolore e l’analgesia nel gatto presso la University of Florida ed attualmente è Assistant Professor in Small Animal Surgery alla North Carolina State University Veterinary School, dove conduce attive ricerche sul dolore acuto e cronico. È Director of the Comparative Pain Research Laboratory, e dell’Integrated Pain Management Service. Per rilassarsi, ama la mountain bike, la fotografia, la danza, l’opera, l’arte contemporanea e la musica live. GEORGE E. LEES Med Vet, MS, Dipl ACVIM, Collage Station, USA Il Dr. Lee diventa Medico Veterinario nel 1972 presso la Colorado State University. Svolge l’intership all’Università di Davis in California e porta a termine nel 1979 il suo Residency e MS nell’Università del Minnesota. Si diploma all’American College di Medicina Interna Veterinaria con specializzazione in Medicina Interna dei Piccoli Animali. Negli ultimi 25 anni ha lavorato per il Dipartimento di Scienze cliniche del College of Veterinary Medicine alla Texas A&M University. Il dr. Lees è molto conosciuto per il contributo dato alla nefrologia e urologia veterinaria. Attualmente la sua ricerca è focalizzata sulle nefriti ereditarie nel cane. DAVID H. LLOYD Professor B.VetMed, PhD, FRCVS, Dipl ECVD, ILTM, Herts, UK Il Dr Lloyd è Professor of Veterinary Dermatology presso il Royal Veterinary College (University of London), England. Guida un gruppo clinico e di ricerca che si interessa in particolare della biologia della superficie cutanea, delle infezioni e dell’immunità della cute e della resistenza antimicrobica, con particolare riguardo a stafilococchi e lieviti del genere Malassezia. Il lavoro si svolge su piccoli animali, equini ed animali da reddito. Il Dr. Lloyd è membro fondatore e past-president della European Society of Veterinary Dermatology, dell’European College of Veterinary Dermatology e della Veterinary Wound Healing Association. È anche membro fondatore dell’European Board of Veterinary Specialisation e del World Congress of Veterinary Dermatology. È stato editor fondatore ed Editor-in Chief della rivista Veterinary Dermatology. È stato presidente del 5th World Congress of Veterinary Dermatology, Vienna 2004 ed è membro del consiglio del World Congress of Veterinary Dermatology Association. Il Dr. Lloyd si è laureato presso il Royal Veterinary College (University of London) ed ha conseguito il PhD presso la University of Glasgow, Scotland. È autore e coautore di più di 150 lavori di ricerca e capitoli di libri in dermatologia.


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FRANCESCO LONGO Med Vet, Firenze Laureato in Medicina Veterinaria. Specializzato in Riproduzione Animale. Ha conseguito gli attestati di agopuntura Veterinaria e di Agopuntura Scientifica Veterinaria. Ha conseguito il diploma della I.V.A.S. (International Veterinary Acupuncture Society). È socio fondatore della S.I.A.V. È stato docente nel Master Universitario di ‘Medicine Energetiche in Veterinaria’ presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Udine. È stato docente nel Master Universitario di ‘Agopuntura Veterinaria’ presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Barcellona (E). È docente e direttore dei corsi di Agopuntura Veterinaria organizzati dalla S.I.A.V. Attualmente ricopre le cariche di Vicepresidente della S.I.A.V. e di Vicepresidente della S.I.M.Ve.N.Co. Svolge la propria attività professionale di Agopuntura Veterinaria sui cavalli in giro per l’Italia. Ha pubblicato diversi contributi sull’Agopuntura Veterinaria. GIOVANNI MAJOLINO Med Vet, Parma Laureato a Parma nel 1991 con tesi sperimentale dal titolo: “L’eiaculazione retrograda nella specie canina” e Specializzato nel 1995 presso l’Università di Pisa in “Malattie dei Piccoli Animali” con tesi dal tema: “L’inseminazione artificiale con seme congelato nella specie canina con particolare riferimento alla tecnica chirurgica”. Relatore e co-autore a congressi e seminari di carattere nazionale e internazionale sul tema della riproduzione del cane. È past president della SIRVAC - Società di Riproduzione Veterinaria e membro della Società Europea di Riproduzione delle Piccole Specie. Esercita la libera professione in Collecchio (Pr) dedicandosi con particolare interesse alla riproduzione dei piccoli animali e all’allevamento canino essendo egli stesso allevatore. MAURIZIO MANERA Med Vet, Teramo Il dott. Manera si laurea con lode nel 1992 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Bologna, discutendo una tesi dal titolo “Il tegumento di Anguilla anguilla (Linneo, 1758) in condizioni normali e patologiche. Contributo sperimentale”. Consegue, quindi, il premio “Angelo Bonvicini” (miglior laureato nel biennio a concorso) relativo al biennio 1991 – 1993. Nel 1993 si abilita all’esercizio della professione di medico veterinario e svolge il servizio militare in qualità di ufficiale di complemento nel Corpo Veterinario Militare, occupandosi di ispezione degli alimenti di origine animale e di clinica su cani in servizio di guardia. Nel 1997 consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Discipline Anatomoistopatologiche Veterinarie presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Bologna discutendo una dissertazione dal titolo “Gli aggregati dei macrofagi in orate (Sparus aurata. Linneo, 1758) di allevamento sperimentalmente alimentate con diete arricchite degli oligoelementi rame, ferro, zinco”. Ha svolto attività pubblicistica nel settore dell’acquariofilia ed è stato consulente per una azienda leader in tale settore. Dal 1998 è ricercatore nel settore scientifico disciplinare VET/03 (patologia generale e anatomia patologica veterinaria) presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo ove si occupa di ittiopatologia con particolare riguardo allo studio dei quadri reattivi nei confronti di macroparassiti, nonché della caratterizzazione dei biomarcatori cellulari in pesci sperimentalmente esposti a xenobiotici inorganici ed organici. Ultimamente sta studiando la risposta contrattile in vitro dell’intestino di trota ad agonisti noti, nonché i range di normalità dei principali parametri biochimici clinici nel siero di trota. Il dott. Manera è stato vicepresidente dell’Ordine dei Medici Veterinari della Provincia di Teramo per il triennio 2003 –2005, vicepresidente dell’Anmvi (Associazione Nazionale Medici Veterinari Italiani) Abruzzo, nonché delegato regionale per l’Abruzzo della Sivae (Società Italiana Veterinari Animali Esotici), ha al suo attivo 34 comunicazioni a congressi nazionali ed internazionali, 36 pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali, 30 pubblicazioni su riviste di divulgazione scientifica, 1 capitolo in un testo universitario, 2 relazioni tecnico-scientifiche. È stato, inoltre, curatore e coautore di un testo riguardante le norme igienico-sanitarie nella ristorazione collettiva militare.

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MARINA MARTANO Med Vet, PhD, Torino Laureata in medicina veterinaria a Torino nel 1994, ha collaborato dal ’94 al ’98 con il Dipartimento di Scienze Biomediche e Oncologia Umana, prima a Torino, poi presso l’Istituto per la Cura e la Ricerca sul Cancro di Candiolo (TO), presso il quale ha ottenuto una borsa di studio nel campo della biologia molecolare dell’osteosarcoma canino e umano. Nel 2001 ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Oncologia Veterinaria e Comparata presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino. Ha trascorso un periodo di 6 mesi, in qualità di Visiting Scholar, presso il Veterinary Teaching Hospital di Urbana-Champaign, Illinois (USA), Dipartimento di Chirurgia Oncologica, e un altro presso il Veterinary Teaching Hospital di Madison, Wisconsin. Da febbraio 2002 è titolare di un assegno di ricerca presso il Dipartimento di Patologia Animale di Torino, dove attualmente lavora svolgendo attività clinica in chirurgia dei tessuti molli e oncologia presso l’Ospedale Veterinario Didattico. È autrice e coautrice di pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali e di traduzioni di testi scientifici dall’inglese. VERONIQUE MARTIN-BOUYER Med Vet, Lyon, Francia Veronique Martin-Bouyer si laurea presso l‚Università di Liege nel 2001 e qui completa la sua Internship. Nell‚Ottobre del 2003 si trasferisce all‚Università di Medicina Veterinaria di Ghent dove prosegue il suo programma di residency in anestesia. ALESSANDRO MELILLO Med Vet, Roma Laureato in Medicina Veterinaria presso l’Ateneo degli Studi di Pisa nel 1997 con tesi sperimentale dal titolo: “Anestesia di alcuni ordini di Mammiferi esotici e selvatici: Marsupiali, Chirotteri, Roditori, Lagomorfi, Primati e Carnivori” con punteggio finale di 107/110. Da sempre si interessa e si occupa in maniera quasi esclusiva di “Nuovi Animali da Compagnia” con particolare attenzione agli Uccelli, al Coniglio e al Furetto: ha sempre ritenuto fondamentale l’aggiornamento e il confronto coi colleghi, cercando quindi di frequentare attivamente corsi, convegni e congressi, nonché periodi di tirocinio presso strutture specializzate in vari aspetti della Medicina e della Chirurgia degli Animali non Convenzionali in Italia e all’estero, fra cui ricorda la clinica veterinaria del Loro Parque sotto la direzione del dr. Lorenzo Crosta. Socio fondatore SIVAE e socio AAV, ha partecipato come relatore ed istruttore ai corsi: “Medicina e Chirurgia del Coniglio e dei Roditori da compagnia”, “Medicina e Chirurgia dei Cheloni” e “Medicina e Chirurgia del Coniglio”, “Medicina e Chirurgia aviare” oltre ad aver presentato diverse relazioni e casi clinici agli incontri periodici della SIVAE. Dal 2000 è socio fondatore della Clinica Veterinaria Omniavet di Roma dove è responsabile del settore “Nuovi Animali da Compagnia”. FEDERICA MORANDI Dr Med Vet, MS, Dipl ACVR, Dipl ECVDI, Knoxville, USA Laureata con lode presso l’Università di Parma nel 1996, dopo un anno di Internship in diagnostica per immagini presso la Swedish University for Agricultural Sciences in Uppsala, ha completato la Residency in Radiologia presso la Ohio State University, ove ha anche conseguito il titolo di Master of Science. Dal 2001 è Assistant Professor di Radiologia presso la University of Tennessee. Ha conseguito i Diplomi del Collegio Europeo di Diagnostica per Immagini (ECVDI, 2001) e del Collegio Americano di Radiologia Veterinaria (ACVR, 2002). È autore di numerose pubblicazioni scientifiche in diagnostica per immagini su riviste internazonali, ed ha presentato abstracts di ricerca a numerosi congressi EAVDI e ACVR. Negli Stati Uniti ha tenuto seminari e corsi di aggiornamento per veterinari e tecnici veterinari in medicina nucleare, ecografia e radiologia. EMANUELA MORELLO Med Vet, PhD, Grugliasco (TO) Laurea (1994) in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Torino. Dottorato di ricerca ed assegno di ricerca in “oncologia veterinaria e comparata” presso la stessa Facoltà dove è attualmente ricercatrice


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nel settore di chirurgia. Ha frequentato per un anno la Colorado State University interessandosi principalmente di oncologia e chirurgia dei tessuti molli. Ha svolto successivi periodi di aggiornamento all’estero. Lavora presso l’Ospedale didattico della Facoltà di Veterinaria di Torino occupandosi principalmente di oncologia medica e chirurgica e chirurgia dei tessuti molli. È autrice di pubblicazioni nazionali ed internazionali. È incaricata del modulo “Metodi diagnostici chirurgici” del Corso Integrato di Patologia, Semeiotica Chirurgica e Radiologia Veterinaria (IV anno) e del modulo “Oncologia clinica sperimentale” del Corso Integrato Professionalizzante in Medicina Veterinaria Sperimentale (V anno). DAVID MORGAN BSc, MA, VetMB, CertVR, MRCVS, UK La prima laurea, in Biochimica, conseguita da David Morgan presso l’Università di Cardiff, è stata seguita nel 1986 da quella in Medicina Veterinaria rilasciata dall’Università di Cambridge. Dopo brevi esperienze lavorative libero professionali, maturando esperienze in settori diversi, ha operato per sette anni nel settore degli animali da compagnia, indirizzando i propri interessi principalmente sulla chirurgia e sulla radiologia. Nel 1990 ha ottenuto il diploma in Radiologia Veterinaria. Nel 1993 ha iniziato a lavorare in una società privata, fornendo consulenze tecniche nel Regno Unito, nei Paesi Scandinavi ed in Sud Africa. È frequentemente coinvolto in attività di informazione ed aggiornamento rivolta alla classe medico veterinaria, docenti universitari e studenti. Ha tenuto conferenze in tutta l’Europa ed in Sud Africa, in occasione di congressi sia nazionali che internazionali. PIER PAOLO MUSSA Med Vet, Dipl ECVCN, Grugliasco (TO) Nato a Camerano Casasco (AT) il 27.8.1946. Laureato in Medicina Veterinaria il 10.9.70. Professore ordinario di “Nutrizione ed Alimentazione Animale” dal 1994. Diplomato presso l’European College of Veterinary and comparative nutrition. È autore di oltre 180 pubblicazioni scientifiche che riguardano prevalentemente l’alimentazione animale, in particolare quella dei carnivori domestici e di 13 libri di tipo scientifico e scientifico-divulgativo. ALTRE ATTIVITÀ: 1. Vice-preside della Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino; 2. Presidente del C.I.S.R.A. (Centro interdipartimentale servizio ricovero animali) dell’Università di Torino; 3. Presidente della S.I.A.N.A. (Società italiana di alimentazione e nutrizione animale); 4. Presidente della WAVES (Wild Animals Veterinary Euromediterranean Society) italiana. RON OFRI Med Vet, PhD, Dipl ECVO, Rehovot, Israel Ron Ofri è stato alunno della prima classe della Koret School di Medicina Veterinaria dell’Università Ebrea di Gerusalemme in Israele. Dopo la laurea nel 1989 si è trasferito nella Università della Florida, dove ha trascorso i successivi quattro anni, studiando con Kirk Gelatt e Dennis Brooks e ottenendo il PhD. Durante tale periodo Ron ha sviluppato il suo interesse nella fisiologia della visione, focalizzando i suoi studi sull’elettrofisiologia e sui cambiamenti della funzione visiva causati dal glaucoma. Ritornato in Israele Ron è entrato a far parte della Università d’origine dove attualmente è Senior Lecturer in oftalmologia veterinaria. Presso la medesima università egli ha ampliato il suo interesse di ricerca nella fisiologia comparata della visione nelle specie selvatiche. Le sue ricerche sulla fisiologia della retina e del nervo ottico hanno prodotto più di trenta pubblicazioni su riviste referee e hanno condotto alla collaborazione nella stesura di due capitoli sull’argomento nel testo edito da Kirk Gelatt “Veterinary ophthalmology” ed anche all’invito a partecipare in qualità di docente al Basic Science Course del college Americano di Oftalmologia Veterinaria e ad altri numerosi meeting. Dal 2002 al 2005 Ron ha ricoperto il ruolo di Presidente della Società Europea di Oftalmologia Veterinaria. Nell’anno 2005 Ron ha conseguito il diploma del College Europeo di Oftalmologia veterinaria.

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JOY OLSEN Med Vet, Germania La Dr.ssa Joy Olsen è Veterinary Services Manager della Bayer HealthCare AG nella sede centrale globale per la Salute Animale di Monheim, Germania. Le sue attuali responsabilità comprendono la garanzia del supporto tecnico scientifico per i prodotti per animali da compagnia, con particolare riguardo agli agenti antiparassitari e farmacologici. Si è laureata nel 1990 presso la Kansas State University degli Stati Uniti. Prima di entrare a far parte della Bayer, nel 1994, la Dr.ssa Olsen ha esercitato per diversi anni la professione a San Francisco, California, ed è stata assistant professor in anatomia dei piccoli animali presso la Kansas State University. Prima di venire in Germania, nel 2002, ha lavorato in qualità di veterinario presso i servizi tecnici della Bayer negli USA. Le sue attuali aree di interesse comprendono la medicina interna degli animali da compagnia e la farmacologia. È autrice di un capitolo sulla terapia antimicrobica delle infezioni respiratorie per il numero di Novembre 2000 di Veterinary Clinics of North America. Fra le società di interesse professionale alle quali la Dr.ssa. Olsen è iscritta rientrano l’American Veterinary Medical Association, la British Small Animal Veterinary Association, l’American Association of Feline Practitioners e la European Society of Feline Medicine. MARK A. OYAMA DVM, Dipl ACVIM-Cardiology, Philadelphia, USA Il Dr. Oyama si è laureato presso la University of Illinois in 1994 e, dopo aver effettuato il periodo di residenza alla University of California-Davis dal 1995 al 1997, si è dedicato alla cardiologia veterinaria. Attualmente è associate professor alla University of Pennsylvania. I suoi settori di interesse sono la miocardiopatia del cane e del gatto, la diagnosi delle cardiopatie attraverso l’analisi di campioni di sangue, il trapianto cellulare utilizzando cellule staminali adulte, l’ecocardiografia e i nuovi metodi per il trattamento delle cardiopatie. CLARA PALESTRINI Med Vet, PhD, Dipl ECVBM-CA, Milano Nel Novembre 1995 si laurea in Medicina Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano. Nel Gennaio 1996 ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione di Veterinario presso la Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano. Da Febbraio a Marzo 1996 partecipa all’Attività di consulenza al progetto “Programme d’amelioration de la Race N’Dama (PARN)” al Centre d’appui à l’Elevage de Boké-Guinea Conakry. Da Aprile a Novembre 1996 si dedica all’attività di libero professionista presso l’ambulatorio veterinario “Limito”, Milano. Nel Luglio 1996 ottiene una Borsa di Studio dell’Università degli Studi di Milano per attività di perfezionamento all’estero. Novembre 1996 - Maggio 1997: Birmingham Zoo, Alabama -USA-. Realizzazione del programma di perfezionamento estero inerente la conservazione, tutela e sanità della fauna selvatica in ambiente tropicale e subtropicale. Attività di pratica clinica, terapia e di applicazione di piani di profilassi agli animali dello zoo. Giugno - Ottobre 1997: Whipsnade Wild Animal Park, Institute of Zoology, The Zoological Society of London, United Kingdom. Monitoraggio sanitario, organizzazione e computerizzazione dei dati riguardanti la popolazione di Scimitar Horned Oryx del Parco. Pratica clinica. Novembre 1997 – Ottobre 2000: Borsa di Studio dell’Università degli Studi di Milano, svolta presso l’Istituto di Zootecnica della Facoltà di Medicina Veterinaria correlata all’attività della Scuola di Specializzazione in Etologia Applicata e Benessere degli animali d’affezione per il proseguimento di studi comportamentali sui piccoli animali. Conseguimento del Diploma di Specializzazione in Etologia applicata e Benessere degli animali d’affezione con la votazione di 70/70 e lode. Dal 1997 è componente del gruppo di ricerca in etologia applicata dell’Istituto di Zootecnica della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano, partecipando con varie qualifiche alla progettazione e realizzazione di diversi progetti di ricerca finanziati. Nel 2000 ha partecipato in qualità di responsabile della ricerca al progetto finanziato “Giovani ricercatori” sul tema “Studio delle relazioni tra problemi comportamentali nel cane e caratteristiche del proprietario”. Novembre 2000 – Ottobre 2003: Borsa di Studio per il corso di Dottorato di Ricerca in


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Produzioni Animali (Curriculum: Etologia Applicata) presso l’Istituto di Zootecnica della Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano. Conseguimento del titolo di Dottore di Ricerca in produzioni animali. Dal Marzo 2004: assegno di ricerca per la collaborazione ad attività di ricerca presso l’Istituto di Zootecnica dell’Università degli Studi di Milano per lo svolgimento di attività di ricerca sull’etologia ed il benessere degli animali d’affezione. ROSS PALMER DVM, Dipl ACVS, Fort Collins, USA Il Dr. Palmer ha ottenuto il titolo di Bachelor of Science (1982) e di Doctor of Veterinary Medicine (1984) presso la Kansas State University. Ha portato a termine un periodo di internato in medicina e chirurgia dei piccoli animali presso l’Animal Medical Center di New York City (1985). Mentre completava un periodo di residenza in chirurgia dei piccoli animali alla University of Georgia ha frequentato la scuola di specializzazione, ottenendo il Master of Science in Physiology (1989). È Diplomate of the American College of Veterinary Surgeons. È stato Assistant Professor of Small Animal Orthopedics and Neurosurgery presso la Texas A&M University dal 1988 al 1991. Dal 1991 al 2004 ha esercitato la libera professione nell’area di Silicon Valley/Monterey Bay in California. Attualmente, è Associate Professor of Orthopedics alla Colorado State University, Veterinary Medical Center. È autore di molteplici articoli di riviste e capitoli di libri su argomenti di ortopedia, neurochirurgia e fisioterapia postoperatoria e si impegna attivamente come relatore presso numerosi convegni veterinari (ma è la prima volta con la SCIVAC ed è ben lieto di essere qui!) SAVERIO PALTRINIERI Med Vet, PhD, Dipl ECVCP, Milano Si è laureato a pieni voti con lode in Medicina Veterinaria nel 1990 presso l’Università degli Studi di Milano dove ha anche conseguito il Dottorato di Ricerca in Patologia Comparata degli animali Domestici nel 1994. Nel 1995 è stato nominato Ricercatore presso l’Istituto di Patologia Generale Veterinaria di Milano e dal 2001 è Professore associato di Patologia Generale Veterinaria presso il Dipartimento di Patologia Animale, Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria di Milano. Dal 2002 è diplomato all’European College of Veterinary Clincal Pathology (ECVCP) di cui è uno dei membri fondatori e dal 2003 è presidente della commissione per l’esame d’accesso all’ECVCP. Gli interessi di ricerca sono rivolti principalmente alla valutazione diagnostica e patogenetica delle principali alterazioni ematologiche rilevabili in medicina veterinaria, alle alterazioni funzionali leuco-eritrocitarie in diverse condizioni patologiche, alla patogenesi e diagnosi delle principali malattie infettive della specie felina ed al metabolismo energetico in animali di interesse zootecnico. L’attività di ricerca è testimoniata da numerose relazioni a congressi e pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali MARCO POGGI Med Vet, Imperia Laureato in Medicina Veterinaria nel 1989 presso l’Università di Torino (110/110). Dopo la laurea ha frequentato i laboratori dell’I.Z.S. del Piemonte Liguria e Valle d’Aosta prima in qualità di volontario poi borsista e incarico come Veterinario Collaboratore, approfondendo conoscenze pratiche di laboratorio, in particolare batteriologia e diagnostica sulla Leishmaniosi, e collaborando alla realizzazione di indagini siero epidemiologiche sulla diffusione di questa malattia nella provincia di Imperia, continuando questa collaborazione è stato coautore di pubblicazioni nazionali e internazionali. Ha conseguito la Specializzazione in Sanità Animale presso la Facoltà di Torino nel Giugno 1994 (70/70) con lode, discutendo una tesi dal titolo “La Leishmaniosi canina in Liguria, contributo epidemiologico della città di Imperia”. È stato prima istruttore poi relatore al Corso di Cardiologia SCIVAC dall’anno 1996 al 2005 è attualmente segretario della Società italiana di Cardiologia (SICARV). Autore e coautore di pubblicazioni scientifiche e ha partecipato come relatore a seminari nazionali e congressi riguardanti la Leishmaniosi canina, e sull’Ipertensione sistemica, suoi principali campi di interesse. Esercita la libera professione presso il Centro Veterinario Imperiose dove, in qualità di Direttore Sanitario, si occupa di Cardiologia e Medicina Interna.

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MARZIA POSSENTI Med Vet, Cassano D’Adda (MI) Si Laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Perugia il 7/3/1996. Dal settembre 1993 al marzo 1995, fa tirocinio presso il Giardino Zoologico di Roma. Nel 1996 vince la borsa di studio S. I. S. Vet. per un progetto di ricerca sulle “Variazioni stagionali dei livelli ematici degli ormoni tiroidei e sessuali in daini (Dama dama) allevati in semi-libertà”. In relazione alla suddettta attività di ricerca, ha tenuto un seminario presso l’Istituto Zooprofilattico del Lazio e della Toscana, sede centrale di Roma, argomento trattato: “L’utilizzazione delle aree marginali per l’allevamento degli ungulati selvatici”. Durante il periodo di ricerca tiene, presso la facoltà di medicina veterinaria di Perugia, una lezione sui meccanismi fisiologici dello stress. Dal settembre 1996 esercita la libera professione, prima collaborando con diverse strutture ed in seguito in una struttura propria, occupandosi prevalentemente di medicina del comportamento, di animali esotici e di patologie del comportamento negli animali esotici. Socia SISCA e SIVAE dal 1996, ha partecipato a numerosi corsi e seminari di aggiornamento. Da gennaio 2005 fornisce consulenze via internet sul comportamento del coniglio per diverse associazioni. Ha pubblicato su Sisca observer l’articolo “il comportamento del coniglio: similitudini e differenze fra coniglio selvatico e domestico” e sta per pubblicare su “Veterinaria” un articolo sul comportamento del furetto. Ha tenuto diverse relazioni sulla medicina del comportamento degli animali esotici. Dal gennaio 2006 collabora con la LAV ad un progetto di riabilitazione per gli animali da sperimentazione, in particolare per quanto riguarda conigli e cavie. ROSE RASKIN DVM, PhD, Dipl ACVP, West Lafayette, USA Attualmente è Professor of Clinical Pathology presso il Department of Veterinary Pathobiology della Purdue University School of Veterinary Medicine di West Lafayette, Indiana, USA. I settori in cui si è sviluppata l’esperienza della Dr.ssa Raskin hanno riguardato l’ematologia comparata, le neoplasie emolinfatiche e la citologia. Ha pubblicato più di 50 articoli su riviste e capitoli di libri e partecipato ad oltre 150 convegni e seminari di carattere scientifico e di aggiornamento permanente nel campo della patologia clinica veterinaria. È past-president dell’American Society for Veterinary Clinical Pathology ed attualmente è section editor della rivista Veterinary Clinical Pathology. la Dr.ssa Raskin è co-editor di Atlas of Canine and Feline Cytology. BARBARA RIGAMONTI Med Vet, Genova Laureata in Medicina veterinaria nell’86 e contemporaneamente diplomata in Omeopatia veterinaria presso il corso tenuto dal Dott. Franco Del Francia all’Ordine dei Veterinari di Milano, dallo stesso anno esercito la libera professione e pratico la terapia omeopatica. Nel ’91 conseguo un secondo diploma in Omeopatia classica presso la Scuola Dulcamara di Genova, e da quel momento divento docente della stessa Scuola. Successivamente svolgo attività didattica anche presso la Scuola di Omeopatia di Verona, la Scuola Internazionale di Omeopatia veterinaria Rita Zanchi di Cortona, la Scuola Lycopodium di Firenze, la Scuola CSOA di Milano. Dal 1996 al 1998 partecipo ad un progetto di cooperazione medica internazionale per lo sviluppo dell’omeopatia in Cuba, in veste di responsabile dell’insegnamento veterinario, impartendo seminari di dottrina e di clinica omeopatica veterinaria presso la Facoltà di Scienze mediche dell’Avana e presso il Consiglio veterinario nazionale. Nel 2001 e nel 2002 partecipo come docente ad un master in omeopatia veterinaria presso l’Università Statale spagnola nelle Facoltà di San Sebastian e di Saragozza. Dal 1997 partecipo ai lavori del gruppo di studio di mnc della SCIVAC, ora trasformato in SIMVENCO, società di cui sono al momento Presidente. Attualmente sono Direttore didattico del settore veterinario della Scuola di Omeopatia classica Dulcamara di Genova, dal 2005 centro di insegnamento accreditato dalla Facoltà di Omeopatia del Regno Unito. Ho scritto vari articoli sull’omeopatia pubblicati sulle riviste “Obiettivi e documenti veterinari” e “Il medico omeopa-


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ta”. Socia fondatrice nel 1991 della Federazione italiana delle Associazioni e dei Medici omeopatici, in cui attualmente dirigo il Dipartimento per la Medicina veterinaria. Firmataria del documento “Linee guida in mnc veterinarie” promosso da varie associazioni ed approvato dalla FNOVI, sono tra i fondatori dell’Unione di Medicina non convenzionale veterinaria. ATTILIO ROCCHI Med Vet, Firenze Laureato presso l’Università di Pisa nel 1999, ha iniziato la sua attività lavorando come Medico Veterinario ed assistent manager presso la Marula Estate LTD. a Naivasha, Kenya. Ha completato la sua formazione attraverso la partecipazione a diversi corsi e congressi nazionali ed internazionali. Nel 2001 ha svolto un periodo di formazione intensiva teorico-pratica sull’anestesia nei piccoli animali presso l’Università di Berna sotto la supervisone del Prof Yves Moens. Ha esercitato in diverse strutture in Italia ed è, dal 2003, socio della “Clinica Veterinaria 24 Ore”, Firenze. Dal 2001 è socio SCIVAC. Dal 2002 è socio della Società Italiana di Anestesia Rianimazione e Medicina d’Urgenza Veterinaria (SIARMUV), all’interno della quale ha rivestito da prima il ruolo di Consigliere e dal 2004 di Vice Presidente. Dal 2003 ha partecipato ai corsi SCIVAC di anestesiologia in qualità di relatore ed istruttore; è inoltre relatore in diversi congressi nazionali e seminari. Dal 2004 è Ordinary Member della Association of Veterinary Anesthesist (AVA). Ama l’ozio e la birra belga. GIORGIO ROMANELLI Med Vet, Dipl ECVS, Cusano Milanino (MI) Nato a Milano il 25/7/1956. Laureato in Medicina Veterinaria il 14/7/1981 presso l’Istituto di Clinica Chirurgica della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Milano, relatore il Prof. Renato Cheli. Subito dopo la laurea partecipa ad un programma di chirurgia sperimentale sul trapianto di cuore e di pancreas. Libero professionista lavora a Milano occupandosi totalmente di casi di riferimento. I suoi interessi sono la chirurgia dei tessuti molli e l’oncologia chirurgica e medica. Charter Member e, dal luglio 1993, diplomato all’European College of Veterinary Surgeons. Presidente SCIVAC nel periodo 1993-1995. Ha presentato relazioni ad oltre 60 congressi e meeting nazionali ed internazionali. Ha soggiornato per periodi di studio presso le università di Cambridge (UK), North Carolina (USA) e Purdue-Indiana (USA) I suoi hobbies sono la pesca a mosca e la coltivazione di alberi bonsai. NICOLA RONCHETTI Med Vet, Castelnuovo Rangone (MO) È Direttore Sanitario della Clinica Veterinaria San Francesco con sede in Castelnuovo Rangone (MO) dal 1992; iscritto alla SCIVAC dal 1985, iscritto al American Animal Hospital Association dal 1987 e rappresentante in Italia per la stessa società dal 1995, ora partecipa alla Leadership Council, 100 veterinari di tutto il mondo che comunicano tramite posta elettronica sui più diversi problemi della medicina veterinaria; iscritto alla Veterinary Cancer Society dal 1991. È membro dell’Association of Veterinary Anaesthesist dal 1999; membro della Veterinary Emergency and Critical Care Society dal 2000 e membro dell’European Veterinary Emergency and Critical Care Society dal 2000. Si occupa principalmente di anestesiologia e terapia del dolore, oncologia e citologia. Dal 1992 fino al 2001 ha svolto diversi periodi di international clerkship presso la Michigan State University in anestesiologia con il professor Sawyer, con il professor Twedten per la medicina di laboratorio, l’ematologia e la citologia; presso la Purdue con il prof. De Nicola in citologia e diagnostica di laboratorio, il professor Morrison per l’oncologia. Nel 1994 ha effettuato un corso di gastroenterologia applicata all’endoscopia presso la Texas A&M con i professori Willard, Twedt e Tams. Ha partecipato al gruppo di registrazione della Norfloxacina e del Tramadolo ad uso veterinario per la Formevet. È membro dell’International Association of Fly Fishing Veterinarians (IAFFV).

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ROBERTO A. SANTILLI Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Card), Malpensa (VA) Laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano nel 1990. Si è diplomato all’European College of Veterinary Internal Medicine - Companion Animals (Specialty of Cardiology) nel 1999. Lavora presso la Clinica Veterinaria Malpensa in Samarate (Varese) come referente per la cardiologia. È stato professore a contratto in cardiologia felina per l’anno 1997-1998 presso la Scuola di Specializzazione in Patologia e Clinica degli animali d’affezione dell’Università degli Studi di Milano e per l’anno 2003-2004 presso l’Università degli Studi di Torino per il Master di II° livello in Malattie cardiovascolari. È stato presidente della Società Italiana di Cardiologia Veterinaria. È autore di numerose pubblicazioni di cardiologia ed ecografia addominale su riviste nazionali ed internazionali. I suoi principali settori di ricerca sono la diagnosi e la terapia delle aritmie nel cane. CRISTINA SCHIANO Med Vet, Roma Nel 1999 si laurea alla Facoltà di Medicina Veterinaria di Perugia, Dipartimento di Patologia Diagnostica e Clinica Veterinaria con una tesi sui Camelidi Sudamericani. Dal 2000 al 2001 trascorre periodi di tirocinio in alcune strutture di Roma con particolare interesse alla citopatologia e alla medicina interna. Dal 2001 è iscritta a SCIVAC, SICIV e SIMIV. Lavora a Roma presso la Veterinaria Caffarella di Roma occupandosi esclusivamente di citologia degli animali domestici ed esotici. Segue periodi di aggiornamento in citologia in Italia e all’estero. Nel 2003-2004 ha collaborato all’attività di clinica ed analisi immunoistochimica e citologia su piccoli animali presso Istituto Superiore di Sanità. È stata relatrice su argomenti di citologia e medicina interna a incontri di SICIV, AVULP e SIMIV. PAOLO SELLERI Med Vet Padova Laureato a Perugia nel 1998. Si interessa da subito di medicina degli animali non convenzionali. Fin dai primi momenti della sua carriera trascorre periodi all’estero in cliniche private o strutture universitarie specializzate in medicina degli animali esotici. Ha seguito externships in California, Massachussets, Francia, Missouri e Georgia. Collabora con facoltà Nord Americane a progetti di ricerca e di scambio interfacoltà di studenti. Da Ottobre 2002 è Professore a Contratto presso l’Università di Padova per i corsi “Medicina degli animali selvatici e non convenzionali” e “Chirurgia dei Rettili”. Nel Gennaio 2006 termina un Dottorato di ricerca presso la Facoltà di Padova con una tesi dal titolo “Malattie renali nei rettili”. È autore di pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali di medicina e chirurgia degli animali non convenzionali. È stato relatore a corsi e congressi italiani ed internazionali. È fondatore dell’Associazione Europea Veterinari per Rettili ed Anfibi. Lavora come consulente per la medicina e chirurgia degli animali esotici presso cliniche veterinarie e parchi italiani ed esteri. CORRADO SGARBI Med Vet, Torino Nato a Torino il 06-02-1960 e laureato in Medicina Veterinaria. Medico Veterinario responsabile della Scuola Nazionale Unità Cinofile da Valanga del Corpo Nazionale Soccorso Alpino dal 1989 al 2004. Docente presso la scuola centrale delle Unità Cinofile da Valanga e da Ricerca in Superficie del C.N.S.A.S. (riconosciuta da decreto ministeriale del Dipartimento Protezione Civile nel 1997) dal 1992. È membro del gruppo di lavoro “Standard Cinofilia da Soccorso” presso il Dipartimento della Protezione Civile Ministero degli Interni (con nomina da Decreto n° 4700 del 20/12/2000). Si occupa di medicina comportamentale degli animali da affezione dal 1990. Ha partecipato in qualità di relatore/chairman/docente a numerosi corsi/incontri/congressi nazionali ed internazionali trattando temi di etologia applicata. Vice Presidente della S.I.S.C.A. (Società Italiana di Scienze Comportamentali Applicate), dal 1999


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al 2001, presidente S.I.S.C.A., società specialistica collegata alla SCIVAC, dal 2001 al 2004. Ha pubblicato lavori ed articoli sul tema su riviste di settore e divulgative. Ha collaborato alla stesura di alcuni testi aventi per argomento la formazione e l’addestramento di Unità Cinofile. È stato il direttore del corso base di medicina comportamentale della SCIVAC. È membro dell’E.S.V.C.E. (società europea di etologia clinica veterinaria). Ha svolto l’incarico di professore a contratto presso la facoltà di medicina veterinaria dell’Università di Torino. DEBORAH SILVERSTEIN Med Vet, Dipl ACVECC, Philadelphia, USA Deborah Silverstein è attualmente Assistant Professor di medicina d’Urgenza presso il Matthew J. Ryan Veterinary Hospital dell’Università della Pennsylvania a Philadelphia. Si è laureata nell’Università della Georgia nel 1997 ha completato l’intership in medicina e chirurgia dei piccoli animali e in seguito il residency in medicina d’urgenza nell’Università della California a Davis. Deborah si è diplomata all’American College of Veterinary Emergency and Critical Care nel 2001. I suoi campi di ricerca: gestione e monitoraggio della sepsi nei piccoli animali in particolar modo la fluidoterapia durante lo schok, la terapia con vasopressina, la valutazione del microcircolo ed i marker delle sindromi da aumentata permeabilità vascolare. ANDREW H. SPARKES BVetMed, PhD, Dipl ECVIM-CA, MRCVS, Newmarket, UK Andrew Sparkes si è laureato presso il Royal Veterinary College (University of London) nel 1983 e, dopo un periodo di quattro anni di esercizio della professione generica, nel 1987 è entrato a far parte dello staff della University of Bristol come interno/residente in medicina felina. Dopo aver portato a termine la residenza, andò a coprire un posto da ricercatore presso la University of Bristol per il periodo dal 1990 al 1993, che lo portò a completare con successo gli studi per un PhD (ottenuto nel 1993) sulla dermatofitosi felina. Nel 1993, è stato assunto come docente di Medicina Felina presso il Department of Clinical Veterinary Science della University of Bristol. Nel 1999 venne promosso docente senior in Medicina Felina e poi, nell’estate del 2000, è passato all’Animal Health Trust vicino a Newmarket, nel Regno Unito, per assumere l’incarico di direttore dell’Unità Felina con responsabilità di clinica specialistica e di ricerca. Ha pubblicato molti lavori nel campo della medicina felina ed è Diplomate of the European College of Veterinary Internal Medicine. È specialista riconosciuto (dal RCVS) in medicina felina e fondatore ed attualmente editor-in-chief di Journal of Feline Medicine and Surgery – una rivista internazionale pubblicata da Elsevier, nonché rivista ufficiale della European Society of Feline Medicine e della American Association of Feline Practitioners. È anche l’attuale presidente del Feline Advisory Bureau – un’istituzione benefica del Regno Unito che si preoccupa del mantenimento della salute e del benessere dei gatti. PAOLO SQUARZONI Med Vet, Molinella (BO) Laureato nel 1982 presso l’Università di Bologna con 110 e lode. Dal 1983 lavora come libero professionista esclusivamente nel campo dei piccoli animali. Dal 1987 si occupa di odontostomatologia dei piccoli animali. Dal 1991 ad oggi ha tenuto relazioni presso l’ex Gruppo di Studio di Odontostomatologia della SCIVAC e, attualmente, presso la SIODOV, le Delegazioni Regionali SCIVAC, Università, Aziende del settore, Ordini Professionali, in pubbliche conferenze, durante il Congresso FECAVA (Bologna 1998), durante Congressi Nazionali SCIVAC e durante altre manifestazioni scientifiche nazionali. È stato relatore – istruttore nei corsi di base di odontostomatologia SCIVAC, direttore del corso nel 1997 e istruttore nel corso avanzato di odontostomatologia. Ha pubblicato articoli scientifici su riviste veterinarie e mediche, su pubblicazioni destinate agli allevatori, videocassette ed altri supporti tecnici destinati alla divulgazione scientifica, è inoltre autore del libro “Odontostomatologia del cane e del gatto”. È stato Coordinatore del Gruppo di Studio di Odontostomatologia SCIVAC dal 1994 al 1998. Attualmente è presidente della SIODOV (Società Italiana di Odontostomatologia Veterinaria).

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DOROTHEE STANNECK Med Vet, Dipl ECVP, Leverkusen, Germania Laureata in medicina veterinaria presso la facoltà di Berlino nel 1991. Dal 1991 al 1995 è stata ricercatore all’istituto di parassitologia della facoltà di veterinaria di Berlino. Nel 2005 ha conseguito la specializzazione in parassitologia veterinaria. È membro della FEDESA Ectoparasiticides Experts Ad Hoc Working Group e diplomata al College Europeo di Parassitologia Veterinaria (ECVP). Lavora dal 1995 presso Bayer Health Care divisione Animal Health a Monheim in Germania, dove attualmente si occupa di ricerca e sviluppo come Clinical Project Manager per gli antiparassitari negli animali da compagnia. È autore di numerose pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali. Ha partecipato a congressi nazionali e internazionali come relatore su argomenti di parassitologia e malattie trasmesse da vettore. ANNE-MARIE SVENDSEN DVM, MRCVS, Copenhagen, Denmark Si laurea nel 1992 alla Royal Danish Veterinary and Agricultural University a Copenhagen, Danimarca. Per sette anni ha condotto la sua clinica per piccoli animali. In seguito ha iniziato a collaborare con Hill’s Pet Nutrition fino al 2002 anno in cui si è trasferita in Inghilterra per lavorare come Professional & Veterinary Affairs Manager. ANTONELLA VERCELLI Med Vet, CES Derm, Torino Nata ad Acqui Terme (AL) l’11 Settembre 1961. Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di Torino nel 1985 con 110/110 e lode. Ha conseguito il Diploma in Ofatalmologia (CES) nel 1989 presso l’ENV de Toulouse (F) e il Diploma in Dermatologia presso l’ENV de Nantes e Lyon (F). Lavora dal 1985, come libero professionista, presso l’ambulatorio associato di Torino, dove si occupa prevalentemente di dermatologia, oftalmologia e istologia nel settore dei piccoli animali. È membro fondatore della SIDEV (Società Italiana di Dermatologia) di cui è, nell’attuale Consiglio, Vice-Presidente. È Presidente della SOVI (Società Italiana di Oftalmologia). È full member dell’ESVD (European Society of Veterinary Dermatology) dove svolge il ruolo di Segretaria nell’attuale Board. È autore di varie pubblicazioni ed ha partecipato come relatore ad alcuni Corsi e Congressi di Dermatologia ed Oculistica. ALDO VEZZONI Med Vet, SCMPA, Dipl ECVS, Cremona Laureato in Medicina Veterinaria all’Università di Milano nel 1975, specializzato in Clinica delle malattie dei Piccoli Animali nella stessa università nel 1978, ha conseguito il Diploma di specializzazione europea in chirurgia veterinaria dell’ECVS a Cambridge nel 1993. Dal 1993 al 2004 è stato segretario della ESVOT, la società europea di ortopedia veterinaria e dal 2004 ne è Vice-Presidente. Nel 1996 ha conseguito a Stoccarda l’abilitazione dell’Hoheneimer Kreis alla lettura delle radiografie per la displasia dell’anca del cane secondo il protocollo FCI e nel 1998 quella per la lettura delle radiografie per la displasia del gomito secondo il protocollo IEWG-FCI. Presidente della Fondazione Salute Animale dal 1996 e Chairman della relativa Commissione di lettura per la displasia dell’anca e per la displasia del gomito, accreditata dall’ENCI nel 2002. Dal 1997 al 2002 è stato delegato per il Sud-Europa dell’AO-Vet International ed è stato relatore e direttore di diversi Corsi AO. Membro della Commissione Tecnica Centrale dell’ENCI dal 2000. Relatore in Congressi nazionali ed internazionali nell’ambito della chirurgia e dell’ortopedia dei piccoli animali, ha realizzato numerose pubblicazioni scientifiche ed ha curato l’edizione italiana di numerosi testi stranieri di medicina veterinaria. Dal 1976 opera come libero professionista a Cremona, svolgendo dal 1998 un’attività prevalentemente di riferimento dei Colleghi nell’ambito della diagnostica e della chirurgia ortopedica. Socialmente impegnato per la categoria è stato Socio Fondatore e Presidente della SCIVAC, Socio Fondatore e Consigliere dell’ANMVI; dal 1996 riveste le cariche di segretario FNOVI e di Presidente dell’Ordine dei Veterinari di Cremona, dal 1999 fa parte della Commissione “Terapia del Dolore” del Ministero della Salute e dal 2004 fa parte della Commissione sulla Professione Veterinaria del Ministero della salute.


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FABIO VIGANÒ Med Vet, SCMPA, Milano Il Dott. Fabio Viganò si è laureato nel 1987 e specializzato nel 1995 in malattie dei piccoli animali presso l’università di Milano. Dal 1987 ad oggi svolge soggiorni di studio presso Università e cliniche private negli Stati Uniti. Dal 1993 membro della società americana Veterinary Emergency and Critical Care Society. Socio fondatore, Honorary Treasurer e Membership Secretary della società Europea: European Veterinary Emergency and Critical Care Society. Membro AVA e EAVPT. Relatore a numerosi congressi nazionali ed internazionali. Dal 2000 al 2002 relatore e direttore del corso di pronto soccorso della Scivac. Attualmente impegnato nella direzione di una Clinica veterinaria con pronto soccorso 24 ore e nella ricerca di nuove terapie in medicina d’urgenza e terapia intensiva. Autore di pubblicazioni in medicina d’urgenza e terapia intensiva dei piccoli animali, direttore e relatore di numerosi corsi di pronto soccorso e terapia intensiva. MASSIMO VIGNOLI Med Vet, Spec Rad Vet, Sasso Marconi (BO) Il Dott. Massimo Vignoli si è laureato a Bologna nell’anno 1993, con una tesi di laurea sulla “displasia dell’anca nel cane”. Nel 1997 ha conseguito il diploma di specializzazione in Radiologia Veterinaria all’Università di Torino con una tesi “sull’applicazione del sistema a schermi asimmetrici Insight nella radiografia toracica del cane”. Ha trascorso numerosi periodi all’estero in Europa e USA. Ha completato un programma alternativo per il College Europeo di Diagnostica per Immagini (ECVDI) all’Università di Torino e di Zurigo. Nel luglio 2002 ha conseguito dall’ ECVDI il “Resident Prize” per la migliore presentazione con il progetto sulle “Biopsie TAC guidate nello scheletro”. È relatore SCIVAC ai corsi di Radiologia. Dall’anno 2001 è Presidente della Società Veterinaria Italiana di Diagnostica per Immagini per animali da compagnia (SVIDI). Nel Giugno 2003 ha superato la parte teorica dell’esame per il diploma del College Europeo di Diagnostica per Immagini Veterinario (ECVDI). Svolge attività libero professionale a Sasso Marconi (BO) nella propria struttura ed attività di consulente in numerose altre strutture veterinarie. È autore o coautore di 25 pubblicazioni o comunicazioni a congressi, di cui 15 internazionali. ANNE-MARIE VILLARS Med Vet, Dipl ENVF, Lausanne, Svizzera Io mi occupo di comportamento animale dal 1990! Ho seguito ogni congresso sull’argomento da quella data, compresi i corsi di base, e sono diventata insegnante dopo aver conseguito la mia specializzazione francese (DENVF: Diplomi delle scuole nazionali veterinarie francesi). Possiedo inoltre un diploma sul comportamento, ottenuto dall’etologo Michel Chanton, a Parigi. Sono una relatrice abituale sul comportamento animale, in sedi Europee. Seguo la cinologia da circa 40 anni, sono stata istruttrice di educazione ed agility; con i miei cani ho partecipato a concorsi di cinologia nei campi di sanità, educazione ed agility; sono giudice di agility nell’ambito della FCS; ho partecipato alla formazione di istruttori di agility ed ho condotto dei corsi di perfezionamento nei club; ho lavorato per un anno alla SPA di Nyon; ho condotto regolarmente dei corsi pratici di comportamento animale nel corso di più di 10 anni.

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Ho ottenuto la mia laurea nel 1980 e lavoro a Lausanne da più di 20 anni, come veterinaria; un terzo abbondante della mia buona clientela si rivolge a me per consulenze specialistiche in comportamento, con casi referenziati; ho eseguito delle perizie ufficiali sulla pericolosità degli animali e delle controperizie commissionate dalla magistratura. MARCO VIOTTI Med Vet, Torino Laureato a Torino nel 1994 con una tesi sperimentale sull’embriogenesi cardiaca, si occupa esclusivamente di piccoli animali. Ha frequentato numerosi corsi di aggiornamento Scivac, nonché congressi e seminari. Attualmente vicecoordinatore del Gruppo di Studio di Practice Management, membro del consiglio direttivo di Amnvi Piemonte, si occupa esclusivamente di medicina interna e practice management. DANIELE ZAMBELLI Med Vet, Dipl ECAR, Bologna Daniele Zambelli si è laureato in Medicina Veterinaria all’Università degli Studi di Bologna nel 1991. Presso tale Università, nel 1995, ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Ostetricia e Ginecologia Veterinaria e nel biennio successivo, 1996-1998, ha ricevuto una borsa di studio Post Dottorato. Nella stessa Università ha ottenuto nel 1998 l’incarico di ricercatore presso la Sezione Ostetrico-Ginecologica del Dipartimento Clinico Veterinario. Attualmente presta servizio come professore associato nel medesimo Dipartimento. È diplomato ECAR (European College of Animal Reproduction) dal 2002. Le sue ricerche e pubblicazioni riguardano prevalentemente la riproduzione canina, felina e degli animali esotici con particolare riferimento all’andrologia e alla fecondazione artificiale. Ha partecipato, come relatore, a numerosi seminari e congressi nazionali ed internazionali; è revisore per riviste internazionali di riproduzione. ANDREA ZATELLI Med Vet, Reggio Emilia Laureato con lode presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Parma nel 1991. Dal 1991 al 1998 trascorre periodi di aggiornamento in Europa e negli Stati Uniti finalizzandoli all’esclusivo approfondimento di argomenti di medicina interna e diagnostica per immagini del cane e del gatto. Professore a contratto presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Torino dall’A.A. 2000-2001 all’A.A. 2003-2004. È socio SCIVAC dal 1991, relatore SCIVAC dal 1998 e consulente scientifico della stessa società dal 2001. Relatore a congressi nazionali ed internazionali ha tenuto numerosi seminari scientifici e corsi di perfezionamento su argomenti riguardanti la nefrologia, la ecografia addominale e la terapia intensiva/medicina d’urgenza. È autore di numerose pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali inerenti la nefrologia, l’ecografia addominale e l’ecografia interventistica. Nel 2005 ha ricevuto l’IRIS (International Renal Interest Society) AWARD “in recognition of outstanding fundamental and clinical research performed by an individual in the field of nephrology”. I suoi principali settori di interesse sono lo studio qualitativo della proteinuria nel paziente nefropatico, i biomarkers di nefropatia e le tecniche innovative nel settore dell’ecografia interventistica e dell’ecocontrastografia. Attualmente svolge la libera professione a Reggio Emilia dove, dal 2002, è Direttore Sanitario di una referral practice.


ESTRATTI DELLE RELAZIONI

Gli estratti sono elencati in ordine alfabetico secondo il cognome del relatore. Le relazioni di uno stesso autore sono elencate secondo l’ordine cronologico di presentazione.


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Citologia, istologia ed immunoistochimica dei sarcomi dei tessuti molli Francesca Abramo Med Vet, Pisa

Con il termine “sarcomi dei tessuti molli” si intende, dal punto di vista del patologo, l’insieme delle neoplasie di origine mesenchimale extraossee. Poiché dal mesenchima originano le cellule del tessuto fibroso, adiposo, muscolare (liscio e striato), nervoso, mesoteliale, sinoviale, istiocitario e vascolare, le neoplasie appartenenti a questo gruppo includono il fibrosarcoma, il mixosarcoma, il liposarcoma, il leiomiosarcoma, il rabdomiosarcoma, lo schwannoma, il tumore a cellule granulari, il mesotelioma, il sarcoma sinoviale, il sarcoma istiocitario, l’emangiopericitoma, l’emangiosarcoma e il linfangiosarcoma (WHO, 1998). Per brevità di trattazione non saranno prese in considerazione le neoplasie che originano da sedi viscerali (mesotelioma e vari sarcomi viscerali) e dalle articolazioni, ma solo quelle che insorgono nei tessuti molli di cute, sottocute e pannicolo. Nonostante l’origine comune mesenchimale, i sarcomi sopra indicati manifestano comportamenti biologici dissimili pertanto una corretta identificazione del loro istotipo è necessaria per la formulazione di una prognosi e per la scelta terapeutica. Uno dei compiti principali della patologia diagnostica in campo oncologico è quello di comprendere la reale natura della neoplasia ai fini di un suo inquadramento classificativo che permetterà lo scambio di informazioni tra clinici e patologi. Altrettanto importante è per il patologo esprimersi sull’eventuale comportamento biologico dei sarcomi dei tessuti molli, ma questo passo non sempre è possibile, o può essere effettuato solo in stretta collaborazione con il clinico. che dovrà fornire informazioni riguardanti il segnalamento, la stadiazione clinica (dimensioni, mobilità della massa, metastasi regionali o a distanza) ed eventuali terapie già effettuate. Solo l’integrazione di tutti questi dati consentirà di prevedere, con il minor margine di errore possibile, il probabile comportamento biologico per ogni neoplasia. La diagnosi di un sarcoma dei tessuti molli, come per altre neoplasie, si baserà su esame citologico, esame istopatologico (comprendente descrizione della morfologia cellulare, architettura tissutale, grading del tumore, invasività locale e vascolare, valutazione dei margini, numero di mitosi per campo microscopico) e talvolta anche su indagini di immunoistochimica.

ma, leiomiosarcoma, sarcoma istiocitario) il preparato potrà già fornire indicazioni sull’istotipo della neoplasia, in altri casi in cui la morfologia cellulare non suggerisce un particolare istotipo tumorale, il rilievo di criteri di malignità può indirizzare il chirurgo verso un’asportazione più o meno radicale. Tra i criteri di malignità per i sarcomi dei tessuti molli vanno elencati la cellularità (se si fa eccezione per l’emangiopericitoma e lo schwannoma), l’anisocitosi, l’anisocariosi, la presenza di nuclei voluminosi con nucleoli plurimi e prominenti, la presenza di cellule giganti, di necrosi ed infine il rilievo di figure mitotiche atipiche.

ESAME ISTOPATOLOGICO Una corretta tipizzazione della neoplasia deriva però quasi sempre dall’esame istopatologico attraverso il quale viene fornita la descrizione della morfologia cellulare, dell’architettura del tumore, del grading tumorale, del grado di invasività (locale e vascolare) e la valutazione dei margini.

Architettura tissutale Oltre alle caratteristiche morfologiche (già evidenziabili in citologia) il preparato istologico consente di apprezzare nel suo insieme l’architettura tissutale che spesso è decisiva nel suggerire un particolare istotipo. La distribuzione a cerchi concentrici (“a cipolla”) di cellule fusate attorno a piccole strutture vasali contenenti eritrociti indirizza verso una diagnosi di emangiopericitoma; la presenza di ampi fasci di cellule fusate con lunghi prolungamenti citoplasmatici indirizza verso una diagnosi di fibrosarcoma; cellule con nuclei a palizzata alternate ad aree con minor densità cellulare suggeriscono che la neoplasia possa originare da strutture nervose (schwannoma); ampie lacune vascolari irregolarmente anastomizzate e tappezzate da cellule atipiche indirizzano verso una diagnosi di emangiosarcoma o linfangiosarcoma.

Grading della neoplasia ESAME CITOLOGICO Poiché l’esame citologico fornisce risultati immediati (l’allestimento di un preparato richiede da 10-20 minuti), è di fondamentale importanza effettuare un agoaspirato e/o infissione e/o raschiato dalla neoplasia prima della sua asportazione. In alcuni casi (emangiopericitoma, fibrosarco-

Il grading della neoplasia espresso come grado di differenziazione cellulare, presenza di aree di necrosi ed emorragie, tipo di invasività locale o vascolare e il numero di mitosi per campo microscopico aggiungono informazioni rilevanti per il clinico che dovrà eventualmente associare una terapia adiuvante (radioterapia, chemioterapia) postchirurgica.


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Valutazione dei margini Di fondamentale importanza è l’accertamento da parte del patologo della completa resezione chirurgica. La valutazione dei margini influirà decisivamente sulla prognosi: neoplasie poco aggressive asportate in modo incompleto possono recidivare mentre neoplasie solo aggressive localmente ma asportate in toto possono risultare nella guarigione completa del soggetto. La valutazione dei margini di escissione chirurgica deve ormai far parte integrante di un referto istopatologico ma è purtroppo soggetta a numerose variabili quali la difficoltà nell’orientamento del pezzo anatomico se questo non viene preventivamente segnalato dal chirurgo (inchiostro o punti di sutura) e l’impossibilità di esprimere la tridimensionalità di un campione su preparati istopatologici bidimensionali.

Indagini di immunoistochimica Spesso il carattere indifferenziato di un sarcoma rende il raggiungimento della diagnosi piuttosto difficile sia tramite esame citologico che istologico. In questo caso la definizione di un particolare istotipo può essere raggiunta solo mediante tecniche di laboratorio quali l’immunoistochimica. Sono numerosi i marker di differenziazione per i quali sono attualmente in commercio anticorpi da essere utilizzati in prove di immunoistochimica per l’identificazione dei diversi sarcomi dei tessuti molli. Tra i principali devono essere menzionati alcuni dei filamenti intermedi quali la vimentina (cellule di origine mesenchimale), l’actina e la desmina (cellule di origine muscolare), l’S100 e la GFAP (cellule di origine neuroectodermica) e altri marker come l’antigene correlato al fattore VIII (cellule endoteliali), il Lyve-1, il VEGF e la podoplasmina (cellule dell’endotelio linfatico). Non esistono attualmente marker che siano indicativi dell’origine adipocitaria. Una diagnosi di

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liposarcoma può essere confermata con colorazioni specifiche per i grassi quali l’Oil Red e il Sudan che devono essere però effettuate su campioni per citologia o su campioni congelati o che comunque non abbiano subito una processazione con alcool e xilolo (sciolgono i grassi). Le indagini di immunoistochimica sono quindi consigliate tutte le volte in cui non risulta possibile tipizzare dal punto di vista morfologico e architetturale una neoplasia. Purtroppo in questi casi la marcata anaplasia della cellula fa sì che queste perdano la capacità di esprimere i loro marker di differenziazione o che ne esprimano di diversi, tutto ciò complica ulteriormente la possibilità diagnostica. È per questo che spesso è necessario applicare al campione non solo un anticorpo ma quello che viene definito un “pannello anticorpale”. Questo difficile iter diagnostico in patologia oncologica è utile in ultima analisi per fornire il quadro più completo possibile di una neoplasia in termini di classificazione, istotipo e comportamento biologico. Solo la stretta collaborazione tra le due discipline: clinica (segnalamento, stadiazione clinica), patologica (classificazione, valutazione dei margini, immunoistochimica) e di nuovo clinica (terapia, follow-up) consentiranno di elaborare per ogni distinta neoplasia un particolare comportamento biologico.

Bibliografia Hendrick M.J., Mahaffey E.A., Moore F.M., Vos J.H., Walder E.J. WHO. Histological classification of mesenchymal tumors of skin and soft tissues of domestic animals. Second series, volume 2. Armed Forces Institute of Pathology, Washington USA.

Indirizzo per la corrispondenza: Francesca Abramo Dipartimento di Patologia Animale Università di Pisa abramo@vet.unipi.it


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Incontinenza urinaria nel cane: indagine clinica e diagnosi differenziale Susanna Arnold Prof Dr Med Vet, Dipl ECAR, Zurigo, Svizzera

Reichler Iris,

Med Vet, Zurigo, Svizzera,

Hubler Madeleine, Med Vet, Dipl ECAR Zurigo, Svizzera

Col termine “continenza” si indica la situazione che si ha durante la fase di riempimento della vescica. La condizione fisica necessaria per la continenza richiede che la pressione di chiusura dell’uretra sia superiore a quella vescicale. Ne deriva che nella situazione inversa, in cui la pressione vescicale supera quella di chiusura uretrale, si ha una perdita di urina. È quello che si verifica durante la minzione. Invece, se la pressione vescicale supera quella di chiusura uretrale durante la fase di riempimento della vescica, si ha una perdita di urina incontrollabile, cioè l’incontinenza urinaria. Se le condizioni anatomiche sono normali, l’incontinenza urinaria può essere dovuta a due meccanismi fisiopatologicamente differenti: l’aumento della pressione vescicale con normale funzione di chiusura uretrale oppure l’insufficiente funzione di chiusura uretrale con normale pressione vescicale (incompetenza dello sfintere). Rosin e Barsanti1 hanno dimostrato per la prima volta che l’incontinenza urinaria dopo la sterilizzazione è causata dall’incompetenza dello sfintere. La continenza urinaria è la capacità di controllare la minzione volontariamente. Perché un animale sia continente, è necessario il coordinamento di parecchie funzioni differenti del sistema nervoso e del tratto urinario secondo lo schema seguente2: 1. Gli ureteri devono sboccare nella vescica 2. La vescica deve fungere da serbatoio ed essere in grado di espandersi senza determinare un innalzamento della pressione intravescicale 3. L’uretra deve generare la necessaria “pressione a riposo” per prevenire la perdita di urina durante la fase di riempimento della vescica 4. Una volta che la vescica ha raggiunto il limite della propria capacità, i neuroni efferenti devono inviare un segnale al midollo spinale e da qui al sistema nervoso centrale 5. Il sistema nervoso centrale deve reagire con un appropriato segnale di ritorno 6. L’impulso deve essere trasmesso attraverso il midollo spinale ai neuroni efferenti che, a loro volta, avviano la contrazione dei muscoli addominali e del muscolo detrusore 7. Non appena la vescica si contrae, il collo vescicale si deve rilassare e deve iniziare il riflesso che porta ad una riduzione del tono uretrale. Il requisito per la continenza è un sistema complesso e funzionalmente coerente. Esistono molte possibili cause dell’incontinenza urinaria. Questa viene distinta in neurogena o non neurogena. Tuttavia, in molti casi questo raggruppamento è inadeguato. Ad esempio, l’incontinenza uri-

naria nelle cagne dopo la sterilizzazione viene classificata come non neurogena, perché l’esame neurologico è normale. Nonostante ciò, la maggior parte dei casi risponde al trattamento con agenti alfa-adrenergici, che agiscono come un neurotrasmettitore. Anche se l’incompetenza dello sfintere dovuta alla sterilizzazione è la causa più comune, in tutti gli animali incontinenti è necessario effettuare un esame approfondito. In primo luogo, bisogna raccogliere un’anamnesi dettagliata, che fornisca importanti indicazioni sul tipo di incontinenza ed aiuti a decidere come proseguire l’indagine diagnostica. Se l’incontinenza urinaria era presente prima dell’intervento, si deve prendere in considerazione un’insufficiente educazione dell’animale oppure una malformazione congenita del tratto urogenitale (ectopia degli ureteri, uraco persistente, intersessualità). Se l’insorgenza dell’incontinenza urinaria si è verificata immediatamente dopo l’intervento, la causa potrebbe essere una fistola ureterovaginale iatrogena. Se il problema si riscontra esclusivamente dopo una passeggiata, si deve pensare ad un’urovagina. Le cagne colpite perdono urina principalmente quando si siedono. L’urovagina può anche essere causata da una neoplasia vaginale, che impedisce il passaggio dell’urina attraverso il vestibolo. In molti casi, l’urina si raccoglie nella vagina durante la minzione della cagna, in assenza di una condizione patologica. Se, secondo l’anamnesi, la cagna è incontinente dopo lunghe passeggiate, la causa sottostante potrebbe essere un’instabilità del detrusore. Questa può essere dovuta ad uraco persistente, che impedisce una completa retrazione della vescica vuota. Quindi, l’organo viene forzato in una determinata posizione che può esitare in un’instabilità transitoria del detrusore, in particolare dopo un esercizio intenso. Se l’incontinenza si riscontra esclusivamente durante il sonno ed il letto è bagnato, molto probabilmente si tratta di un’incompetenza dello sfintere uretrale. Se si trovano macchie di urina lontane dal letto si deve piuttosto pensare ad una minzione da emergenza, che non ha nulla a che fare con l’incontinenza. I cani con poliuria e polidipsia sono più predisposti ad urinare durante la notte e vengono erroneamente portati alla visita come incontinenti. Quindi, è necessario informarsi sulla quantità di acqua assunta giornalmente. In molti casi, una cistite batterica provoca delle contrazioni del detrusore durante la fase di riempimento della vescica, con conseguente perdita involontaria di urina. Poiché l’incompetenza dello sfintere predispone la cagna ad una cistite batterica, l’incontinenza urinaria può persistere anche nonostante il successo del tratta-


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mento della cistite. Nelle cagne molto giovani che vengono portate alla visita per un’incontinenza urinaria si deve effettuare un esame con mezzo di contrasto endovenoso, al fine di escludere la presenza di malformazioni congenite. Un’uretrocistografia associata ad una pielografia consente di escludere l’esistenza di fistole ureterovaginali iatrogene nelle cagne che sono diventate incontinenti immediatamente dopo l’intervento. Le possibili neoplasie del tratto urinario delle cagne anziane di solito possono venire accertate mediante endoscopia o radiografia. Se l’anamnesi o l’esame clinico è indicativo di un problema neurologico, si deve condurre un’approfondita valutazione neurologica. A seconda della localizzazione della lesione, sono indicate delle procedure radiologiche oppure l’analisi del liquor per determinare la causa sottostante (degenerazione, neoplasia o infiammazione). Se una cagna incontinente ed ovariectomizzata viene portata alla visita con un’anamnesi tipica (perdita di urina mentre dorme) ed è possibile escludere le cause sopracitate dell’incontinenza, la diagnosi più probabile è l’incompetenza del meccanismo dello sfintere uretrale (USMI) dovuta alla sterilizzazione. I dati minimi di base da raccogliere in una cagna che presenta incontinenza urinaria sono: • Esame clinico (compresa l’accurata valutazione della colonna lombare!) • Esame neurologico (in particolare dei riflessi anale e rotuleo) • Vaginoscopia • Profilo biochimico • Ematologia • Coltura batterica dell’urina • Analisi dell’urina • (Se necessario, esame radiologico) Inoltre, nei cani maschi: • Approfondito esame della prostata (palpazione digitale, ecografia, radiografia) • Esclusione dell’ectopia degli ureteri (a qualsiasi età, anche i maschi sessualmente interi!) Il rischio generale dell’incontinenza urinaria è basso (0,1%) nelle cagne intere3-5. Al contrario, la condizione rappresenta un problema comune nelle cagne sterilizzate, arrivando a colpire fino al 20% dei soggetti6.

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Il meccanismo fisiopatologico sottostante è una riduzione della funzione della chiusura uretrale dopo la sterilizzazione7-9. Si ritiene che esista una correlazione diretta fra la rimozione delle ovaie e l’incontinenza urinaria10. Ciò è stato chiaramente dimostrato dallo studio epidemiologico di Thrusfield11.

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Indirizzo per la corrispondenza: Prof. Dr. Susi Arnol Dept. of Animal Reproduction Vetsuisse-faculty University of Zurich Winterthurerstr, 260 8057 Zurich - Switzerland


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Incontinenza urinaria acquisita nella cagna castrata: eziologia e fisiopatologia Susanna Arnold Prof Dr Med Vet, Dipl ECAR, Zurigo, Svizzera

Reichler Iris,

Med Vet, Zurigo, Svizzera,

Hubler Madeleine, Med Vet, Dipl ECAR Zurigo, Svizzera

L’incontinenza urinaria è il più frequente effetto collaterale dell’ovariectomia, ed è imbarazzante non solo per il proprietario, ma anche per la cagna stessa. Il meccanismo fisiopatologico sottostante dell’incontinenza urinaria da sterilizzazione è una riduzione della pressione di chiusura dell’uretra, nota come “incompetenza del meccanismo dello sfintere uretrale (USMI)”. Entro un anno dalla sterilizzazione, la pressione di chiusura uretrale viene significativamente diminuita. Poiché molte cagne diventano incontinenti solo a distanza di anni dall’intervento, ci è voluto molto tempo perché la sterilizzazione fosse considerata la causa del problema. In uno studio, l’incontinenza si è verificata entro 3-10 anni dall’intervento in 83 cagne su 412 (=20%)1.

Metodo di trattamento chirurgico Alcuni autori presumevano che dopo l’ovarioisterectomia le aderenze intorno al moncone uterino potessero causare qualche danno neuronale, portando ad incontinenza urinaria6,7. Tuttavia, non è stata rilevata una differenza significativa dell’incidenza dell’incontinenza urinaria fra cagne ovariectomizzate ed ovarioisterectomizzate. Su 260 cagne ovariectomizzate, il 21% presentava incontinenza urinaria dopo la chirurgia, mentre su 152 cagne ovarioisterectomizzate era colpito il 19%1. Quindi, l’ipotesi di un danno neuronale dovuto all’intervento può essere scartata.

Momento della sterilizzazione Fattori di rischio Nel 1978 era già stato evidenziato che la tendenza all’incontinenza dopo la sterilizzazione era significativamente più elevata nei cani di grossa taglia in confronto a quelli di mole minore.5 Questo riscontro è stato confermato nel nostro studio: su 205 cagne con peso corporeo inferiore a 20 kg, 19 (=9%) sono diventate incontinenti, mentre fra quelle che pesavano più di 20 kg questo problema si è verificato in 64 casi su 207 (= 31%)1.

Predisposizione di razza In uno studio1 sull’incidenza dell’incontinenza urinaria dopo la sterilizzazione, 7 razze erano rappresentate da più di 10 animali: pastore tedesco (47), bassotto (36), boxer (20), barbone (15), spaniel (14), appenzeller (13) e bovaro Bernese (12). L’incidenza dell’incontinenza nei boxer era molto elevata (65%), ma fra i pastori tedeschi (11%) e i bassotti (11%) era inferiore a quella della media della totalità dei cani (20%). È interessante notare che non sono stati registrati casi di incontinenza per i 14 spaniel ed i 12 bovari bernesi1. Dato il numero limitato dei soggetti delle altre razze, non è possibile fare delle affermazioni circa la loro predisposizione all’incontinenza urinaria. Fra le numerose cagne inviate al Veterinary Animal Hospital di Zurigo per l’iniezione endoscopica di collagene, erano chiaramente ben rappresentati i soggetti di razza Dobermann e schnauzer gigante.

Chiedersi se il momento della sterilizzazione (prima o dopo il primo calore) oppure l’aumentare dell’età della cagna modifichino il rischio di incontinenza è importante per il veterinario. Uno studio inglese ha dimostrato che tre cagne su 14 (21%) sterilizzate dopo la pubertà erano diventate incontinenti, mentre questo problema riguardava solo una cagna su 180 (0,5%) sterilizzata prima della pubertà8. Secondo questi risultati, la sterilizzazione precoce sembra essere vantaggiosa ai fini dell’incontinenza urinaria. È stato quindi condotto uno studio per valutare il rischio dell’incontinenza stessa dopo la sterilizzazione effettuata prima del primo calore9. A 206 proprietari di cagne sottoposte a sterilizzazione precoce sono state poste delle domande relative agli effetti collaterali. L’età media delle cagne al momento dell’indagine era di 7 anni. L’incontinenza urinaria si era verificata nel 9,7% dei soggetti. Conclusione: come conseguenza della sterilizzazione precoce, l’incidenza dell’incontinenza è stata notevolmente ridotta. Questo risultato è stato confermato da uno studio recente10. Tuttavia, quando/se le cagne sterilizzate precocemente diventavano incontinenti, la misura della gravità del problema era marcatamente superiore. Questo relativo svantaggio della sterilizzazione precoce è trascurabile in confronto ai vantaggi, come la minore incidenza dell’incontinenza urinaria e la ben nota protezione dai tumori mammari.

Eziologia La correlazione causale fra la rimozione delle ovaie e l’incontinenza urinaria è chiaramente dimostrata11. Si ignora


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Incidenza dell’incontinenza in cagne sterilizzate prima/dopo il primo calore: confronto fra due studi analoghi Parametri esaminati

Incidenza dopo sterilizzazione precoce9

Incidenza dopo sterilizzazione tardiva1

Analisi statistica sulla sterilizzazione precoce/tardiva

5,1% 12,5%

9,3% 30,9%

SD (p= 0,001)

Tipo di incontinenza: 3. solo durante il sonno 4. nel sonno e nella veglia 5. solo nella veglia

35% 60% 5%

98% 2% --

SD (p= 0,000)

Frequenza dell’incontinenza: - giornaliera - una volta alla settimana - una volta al mese

90% 10% --

57% 30% 13%

SD (p= 0,018)

Tipo di intervento: - ovariectomia - ovarioisterectomia

8% 15%

21% 19%

NS (p= 0,9)

2.8 anni

2.9 anni

NS (p= 0,9)

Incidenza dell’incontinenza: 1. < 20 kg di peso 2. > 20 kg di peso

Tempo trascorso fra la sterilizzazione e la comparsa dell’incontinenza

SD = significativamente differente (p < 0,05); NS = nessuna differenza significativa.

ancora quale sia il meccanismo che scatena l’incontinenza urinaria dopo la sterilizzazione. Inizialmente, si era ipotizzato che la causa sottostante fosse una carenza di estrogeni conseguente all’intervento6. Questa ipotesi viene contrastata da parecchie osservazioni. Ad esempio, le cagne trattate con preparazioni deposito di gestageni per la soppressione dell’estro non presentano un aumento del rischio di incontinenza urinaria, benché questo trattamento esiti in un’atrofia ovarica ed il livello di estrogeni rimanga ai valori basali12. Un altro effetto collaterale dopo la sterilizzazione è l’aumento dei livelli di gonadotropina plasmatica, a causa della mancanza del feed-back negativo delle ovaie13. Circa 42 settimane dopo la rimozione delle ovaie i livelli delle gonadotropine raggiungono un plateau, mentre quelli plasmatici di FSH sono 17 volte la concentrazione iniziale e quelli di LH sono 8 volte la concentrazione iniziale14, ci si potrebbe quindi chiedere se gli elevati livelli plasmatici di FSH ed LH siano responsabili dell’aumento del rischio di incontinenza urinaria nelle cagne sterilizzate. Se così fosse, le cagne colpite potrebbero essere trattate con successo mediante preparazioni deposito di analoghi del GnRH, attraverso una riduzione della sensibilità dei recettori ipofisari del GnRH che a sua volta diminuirebbe i livelli plasmatici di gonadotropine. In effetti, in 7 cagne su 13 colpite da USMI si è ottenuta la continenza, per un periodo medio di 247 giorni, con l’iniezione di analoghi del GnRH15. Tuttavia, è discutibile se il successo di questo trattamento sia dovuto ad un calo dei livelli di gonadotropine, dal momento che i valori riscontrati nei soggetti che rispondevano ed in quelli che non rispondevano non erano differenti16. È possibile che il GnRH eserciti un effetto diretto sul tratto inferiore dell’apparato urinario, ma il successo della terapia non è basato su una normalizzazione della competenza dello sfintere uretrale16. Recenti studi in cagne beagle hanno fatto ipotizzare che il GnRH moduli la funzione della vescica16.

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Trattamento medico e chirurgico dell’incompetenza del meccanismo dello sfintere uretrale (USMI) Susanna Arnold Prof Dr Med Vet, Dipl ECAR, Zurigo, Svizzera

Reichler Iris,

Med Vet, Zurigo, Svizzera, Hubler

Madeleine, Med Vet, Dipl ECAR Zurigo, Svizzera

Il trattamento medico dell’USMI è il metodo d’elezione e deve sempre precedere la terapia chirurgica. L’azione delle sostanze utilizzate determina l’aumento della pressione di chiusura uretrale. Come farmaci di prima linea si impiegano gli agonisti alfa-adrenergici. L’effetto di questi agenti simpaticomimetici viene spiegato dal fatto che il 50% della chiusura uretrale è generato dal sistema nervoso simpatico. Gli agonisti alfa-adrenergici migliorano la pressione di chiusura uretrale attraverso la stimolazione degli alfa-recettori della muscolatura liscia uretrale1-6. Il trattamento con gli agonisti alfa-adrenergici esita nella continenza nel 75% delle cagne incontinenti. Un’alternativa è il trattamento con estrogeni, che ha successo nel 65% dei casi7-9. Tuttavia, con questi ormoni si possono avere effetti collaterali indesiderati come il rigonfiamento della vulva e l’attrazione dei cani maschi8. Oggi si utilizzano soltanto estrogeni ad azione breve10. Le preparazioni deposito utilizzate in passato sono obsolete, in parte perché sono potenzialmente in grado di causare una depressione midollare11. Gli estrogeni aumentano indirettamente la pressione di chiusura uretrale e sensibilizzano gli alfa-recettori alle catecolamine endogene ed esogene12. Se la terapia con agonisti alfa-adrenergici è insoddisfacente, un’associazione con estrogeni può potenziarne l’effetto. Gli alfa-recettori vengono divisi nei sottotipi alfa-1 ed alfa-2. Questi sottotipi recettoriali sono distribuiti in modo differente in ogni singolo effettore. I recettori alfa-1 si trovano in molti organi bersaglio del sistema nervoso simpatico. Con poche eccezioni, i recettori alfa-2 non sono presenti negli organi bersaglio del sistema nervoso simpatico, ma nelle sinapsi neuronali. È ora noto che gli alfa-recettori a livello del collo della vescica e del tratto prossimale dell’uretra della cagna, che sono responsabili della continenza, appartengono al sottotipo 113. Gli effetti collaterali degli agonisti alfa-adrenergici sono spiegati dal fatto che i recettori alfa-1 non si trovano solo a livello del collo vescicale, ma anche in altri organi, in particolare nella parete dei vasi sanguigni. La propanolamina (PPA) agisce selettivamente sugli alfa-1 recettori. Un agente più vecchio, l’efedrina, è meno selettivo della PPA. Inoltre, stimola i beta-recettori e, quindi, ha la tendenza a determinare maggiori effetti collaterali1,2. A differenza di quanto avviene per la PPA, si può avere assuefazione all’efedrina. Per queste ragioni, la PPA costituisce la terapia di prima scelta. Nei pazienti umani, il trattamento con PPA determina talvolta effetti collaterali, come aumento della pressione san-

guigna e mal di testa. Occasionalmente, può scatenare un ictus o un attacco cardiaco e quindi non viene più utilizzato. Impiegando la PPA nel cane alla dose consigliata di 1,5 mg/kg bid o tid non è stato osservato un incremento della pressione sanguigna4,14. Gli effetti collaterali riscontrati nel cane non sono mai stati potenzialmente letali e di solito erano autolimitanti: diarrea, vomito, anoressia, apatia, nervosismo, ed aggressività6,7,15. Per i casi refrattari, è possibile ricorrere a differenti trattamenti chirurgici, fra i quali si effettuano principalmente la colposospensione16, l’uretropessi17 e l’iniezione endoscopica di collagene18, con una percentuale di successo del 50-75%. Con tutte e tre queste tecniche, col tempo è stato osservato un deterioramento della percentuale di risposta. Presso la nostra clinica, preferiamo ricorrere all’iniezione endoscopica di collagene perché si tratta del metodo meno invasivo, con la minore frequenza di complicazioni e con risultati buoni tanto quanto quelli di tecniche più invasive. Colposospensione16: la cagna viene posta in decubito dorsale, con gli arti posteriori flessi. Con un catetere di Foley si svuota la vescica. Il manicotto del catetere viene insufflato con aria e tirato fino a ridosso del collo vescicale. Si pratica un’incisione cutanea nella parte caudale dell’addome, lungo la linea mediana. Su entrambi i lati di questa si espone quindi il tendine prepubico. Si identificano ed evitano i vasi pudendi esterni. La trazione sulla vescica consente l’identificazione del collo dell’organo per la presenza del manicotto insufflato del catetere di Foley. Nella vulva si inserisce un dito indice, servendosene per spostare la vagina cranialmente. Il grasso e la fascia intorno alla parte ventrale del collo vescicale ed al tratto prossimale dell’uretra vengono separati fino a determinare l’esposizione della parete vaginale, dorsolateralmente all’uretra. Su ciascun lato del tratto prossimale dell’uretra, ed alla distanza di circa 1 cm da essa, si afferra la parete vaginale con un paio di pinze tissutali di Allis. Il chirurgo ritira il dito dalla vagina e si cambia i guanti. La vagina viene ancorata al tendine prepubico su ciascun lato dell’uretra prossimale, servendosi di due suture in nylon monofilamento 0 o 1. I punti vengono fatti passare a tutto spessore attraverso la parete vaginale e devono essere applicati preventivamente. Prima di annodarli, si esercita una tensione sulle suture in modo da stabilire che non vi sia uno strangolamento dell’uretra fra la vagina ed il pube. Una volta annodati i punti, con un esame finale ci si accerta che l’u-


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retra sia libera di muoversi fra la vagina ed il pube e non sia compressa in alcun modo. Gli effetti positivi dell’intervento possono essere la conseguente rilocalizzazione della vescica, del collo vescicale e del tratto prossimale dell’uretra in una posizione intraddominale. Uretropessi17: si esegue una laparotomia nella parte caudale della linea mediana. Servendosi di una dissezione per via smussa praticata a livello della linea mediana si visualizza la faccia ventrale dell’uretra in corrispondenza del margine craniale del pube. Caudalmente ad un tendine prepubico si applica una sutura in polipropilene 2-0 o 0, in modo da farla penetrare nella parte caudale dell’addome. Esercitando una trazione sul collo vescicale e sull’uretra attraverso la sutura di ancoraggio applicata sul collo della vescica, si fa passare trasversalmente una sutura in polipropilene attraverso i piani muscolari dell’uretra adiacente. Dopo che ha attraversato l’uretra, la sutura viene fatta passare caudalmente al tendine prepubico opposto per poi fuoriuscire dalla cavità addominale. I capi di sutura vengono tenuti insieme con un paio di pinze emostatiche. La procedura si ripete, con una seconda sutura in polipropilene che viene fatta passare attraverso la parete uretrale, circa 3-5 mm cranialmente alla prima. A questo punto si annodano entrambe le suture in polipropilene. Ciò determina la chiusura della parte più caudale dell’incisione laparotomica e la fissazione dell’uretra alla parete addominale ventrale all’estremità del margine craniale del pube. Il meccanismo d’azione rimane incerto, anche se è probabile che la procedura determini il ricollocamento del collo vescicale in una posizione intraddominale e la produzione di un aumento localizzato della resistenza uretrale. Iniezione di collagene nella sottomucosa uretrale18: lo scopo del trattamento è quello di accentuare la chiusura della parte prossimale dell’uretra. In anestesia generale, il paziente viene posto in decubito dorsale, con gli arti posteriori estesi cranialmente. Quindi, sotto controllo cistoscopico, si iniettano tre depositi di collagene (Zyplast®, Collagen International Inc., Lausanne, Switzerland) secondo un andamento circolare, alla distanza di circa 1,5 cm caudalmente al collo vescicale18. In 19 cagne su 32 (=59%) l’incontinenza urinaria si è risolta con una singola iniezione di collagene, ma in 5 cagne è stato ancora necessario somministrare fenilpropanolamina per ottenere una continenza completa. È stata eseguita una seconda iniezione in 9 cagne, 5 delle quali sono diventate continenti, comprese due nelle quali è stata necessaria una terapia medica aggiuntiva. La percentuale di successo finale era del 75%. Un recente studio ha valutato il successo a lungo termine dell’iniezione endoscopica di collagene. Dopo un periodo medio di osservazione di 33 mesi, la percentuale finale di successo era del 68%19.

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Indirizzo per la corrispondenza: Prof. Dr. Susi Arnol, Dept. of Animal Reproduction Vetsuisse-faculty University of Zurich Winterthurerstr, 260, 8057 Zurich - Switzerland


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Incontinenza urinaria nel cane maschio Susanna Arnold Prof Dr Med Vet, Dipl ECAR, Zurigo, Svizzera

Reichler Iris,

Med Vet, Zurigo, Svizzera,

Hubler Madeleine, Med Vet, Dipl ECAR Zurigo, Svizzera

A differenza di quanto avviene nelle femmine, nel cane maschio l’incontinenza urinaria si osserva raramente. In uno studio su 65 cani con incompetenza del meccanismo dello sfintere uretrale (USMI), solo 5 soggetti (= 7,5%) erano maschi1. L’indagine clinica nei cani maschi incontinenti viene condotta principalmente seguendo lo stesso schema utilizzato per le femmine, ma è necessario valutare alcune caratteristiche specifiche di sesso. Ad esempio, la perdita di secrezioni prostatiche può simulare un’incontinenza urinaria. È necessario escludere preventivamente le malattie della prostata come l’infiammazione, le cisti, le neoplasie e la cistite. Inoltre, nei cani maschi bisogna accertare l’assenza dell’ectopia degli ureteri, una malformazione congenita che spesso causa dapprima un’incontinenza urinaria quando il cane è in età avanzata. Un’altra malformazione congenita che esita nell’incontinenza urinaria già nel cucciolo è la megauretra. Nella maggior parte dei casi, questa alterazione è accompagnata da aplasia prostatica. Nei cani maschi, l’USMI rappresenta soltanto il 13% dei casi di incontinenza urinaria, mentre nelle femmine arriva persino al 44%1. Come nelle cagne, anche nei maschi incontinenti l’esame clinico ed i risultati delle analisi di laboratorio sono normali. Inoltre, come nelle cagne, l’incontinenza urinaria è una malattia acquisita le cui cause sottostanti sono poco chiare2. A differenza di quanto avviene nelle cagne, la metà circa dei cani maschi colpiti da USMI è intera. Nelle cagne, la chiusura uretrale viene determinata dall’intera uretra3,4. Invece, nei maschi è stato riscontrato attraverso l’esperienza clinica che solo il quarto prossimale, rappresentato dalla pars prostatica e dalla pars membranacea è responsabile della continenza. Quindi, il controllo volontario della minzione viene mantenuto anche se i pazienti sono colpiti da urolitiasi del tratto inferiore dell’apparato urinario, quando è necessario eseguire una uretrostomia permanente a livello della pars spongiosa o persino in sede perineale5. La chirurgia a livello della zona di transizione fra pars membranacea e pars spongiosa in condizioni normali non esita in incontinenza. Ciò nonostante, gli interventi effettuati nell’area della pars membranacea possono portare ad un’incontinenza transitoria6 e quelli eseguiti sul tratto prossimale dell’uretra, come ad esempio la rimozione della prostata, sono regolarmente accompagnati da incontinenza7. L’USMI nel cane maschio non si osserva esclusivamente in associazione con la chirurgia dell’uretra. Per ragioni sconosciute, la funzione di chiusura di questo organo va incontro ad un deterioramento spontaneo, che porta ad una perdi-

ta incontrollata di urina. La diagnosi di USMI viene formulata sulla base dell’esclusione delle altre cause oppure può essere confermata attraverso il profilo della pressione uretrale. In uno studio condotto su 5 cani maschi continenti, il valore massimo della pressione di chiusura uretrale entro l’area della prostata era di 20,0 ± 10,3 cm H2O. In 14 cani maschi colpiti da USMI, il valore massimo della pressione di chiusura uretrale era significativamente inferiore, pari a 13,9 ± 5,7 cm H2O. Al contrario, nell’area della pars membranacea tale valore non era significativamente differente (7,5 ± 3,8 cm H2O contro 7,4 ± 3,1 cm H2O)8. Questi risultati depongono a favore della diagnosi di “incompetenza dello sfintere uretrale” nei cani maschi incontinenti, sono in accordo con l’esperienza clinica ed indicano che l’integrità funzionale dell’area prostatica è particolarmente importante per la continenza. Né nel cane maschio né nella cagna la chiusura uretrale è generata da uno sfintere uretrale anatomicamente definito. Dipende invece completamente dalla cooperazione di differenti meccanismi fisiologici. Questi possono essere distinti in componenti neuromuscolari e non neuromuscolari. Il 60% circa della funzione di chiusura uretrale viene attribuito alle componenti neuromuscolari9 e viene controllato principalmente dal sistema nervoso simpatico. Il restante 40% viene assegnato alle componenti non neuromuscolari. Se si tiene conto del contributo relativamente elevato del sistema nervoso simpatico alla chiusura uretrale, risulta ovvio il motivo per cui nelle cagne abbia spesso successo il trattamento con sostanze alfa-adrenergiche. Analoghe percentuali di successo sarebbero prevedibili nei cani maschi, dal momento che non vi sono differenze significative fra i due sessi nell’anatomia della parete uretrale o nei meccanismi fisiologici. Tuttavia, l’esperienza clinica non corrisponde alle aspettative. In uno studio su 12 cani incontinenti,8 solo 4 di essi hanno risposto al trattamento con fenilpropanolamina. Anche la somministrazione di steroidi sessuali ha determinato risultati discutibili. L’ultima speranza spesso è quindi la chirurgia. Deferentopessi/prostatopessi: nei cani maschi si può ottenere un effetto simile a quello della colposospensione sulle femmine attraverso la fissazione dei dotti deferenti o della prostata alla parete addominale. Questa tecnica è stata descritta in 8 cani10-11. Utilizzando una metodica chirurgica classica, con un approccio attraverso la parte caudale della linea mediana, si localizzano le estremità distali dei due dotti deferenti a livello dello sbocco interno del canale inguinale; poi, i dotti vengono tirati delicatamente in


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avanti (stirando così cranialmente l’uretra) e spostati lateralmente fino ad arrivare a formare un angolo di 60° con la linea mediana. Si effettua quindi la pessi dei dotti deferenti alla parete addominale laterale, in una posizione perpendicolare alla laparototomia e ad un terzo della distanza fra la linea mediana e la faccia laterale della colonna vertebrale. La tecnica della realizzazione della pessi prevede di praticare un’incisione nel muscolo retto dell’addome e poi attraversare per via smussa la parete addominale con un paio di pinze emostatiche, afferrare l’estremità del dotto deferente, tirarla attraverso la parete addominale ed ancorarla alla parete stessa esercitando un moderato grado di tensione in modo che la prostata si sposti di circa 1 cm in direzione craniale. In due cani è stata anche descritta una tecnica di pessi della prostata, che viene ancorata al tendine prepubico sui due lati dell’uretra12. Dopo la prostatopessi12 o la deferentopessi10 sia la percentuale di successo (4 cani su 9 sono risultati totalmente continenti senza terapia medica, 4 cani su 9 che avevano ancora bisogno di qualche trattamento medico per ottenere la continenza completa, nessun miglioramento in un caso), nonché lo spostamento craniale del collo vescicale (da 5 a 50 mm) erano simili a quelli ottenuti con la colposospensione13. Presso la nostra clinica abbiamo trattato cani maschi colpiti da USMI con un’iniezione endoscopica di collagene nella sottomucosa uretrale. Allo scopo, è necessario praticare un’incisione lungo la linea mediana e poi ricorrere alla cistotomia dato che l’endoscopio non è flessibile e non può venire introdotto attraverso il pene. I depositi di collagene sono posti in corrispondenza della parte media dell’area prostatica, che risulta ben riconoscibile a livello dei collicoli seminali in rilievo all’interno del lume. Per prevenire il rischio di prostatite da cause iatrogene, i cani maschi interi con USMI devono essere castrati tre settimane prima di questo intervento. La percentuale di successo dell’iniezione di collagene è simile a quella di tecniche chirurgiche invasive, ma con una percentuale di complicazioni molto minore.

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Maschera laringea: valutazione con TAC e suoi possibili impieghi in Medicina d’Urgenza ed Anestesia Roberto Bellentani Med Vet, Formigine (MO)

Rossi Federica, Med Vet, SRV, Dipl ECVDI, Bologna; Vignoli Massimo, Med Vet, SRV, Bologna; Laganga Paola, Med Vet, Bologna

INTRODUZIONE Nel 1981, A.I.J. Brain, un anestesista inglese, mise a punto e successivamente utilizzò per la prima volta in un paziente umano un dispositivo che venne denominato Laryngeal Mask Airway (LMA). Da allora, dopo oltre 100 milioni di utilizzi, la maschera laringea si è imposta in medicina d’urgenza e anestesia umana come possibile alternativa al tubo endotracheale, in particolare nei pazienti non facilmente intubabili, oppure nelle procedure in cui si cerca di mantenere il paziente in respiro spontaneo, dato che, per l’inserimento di questo dispositivo, al contrario del catetere endotracheale (CET), non è necessario eseguire un blocco neuromuscolare. Ciò deriva dal fatto che la LMA, al contrario del CET non penetra nelle vie aeree, bensì si appoggia alla laringe; la forma della sua estremità è lanceolata e ricalca in negativo la struttura anatomica laringea. Questo consente una naturale funzionalità delle strutture laringee come le cartilagini aritenoidi e l’epiglottide e per tal motivo la maschera interferisce molto meno su tutta la funzionalità laringea, consentendo comunque un valido mezzo di isolamento della via respiratoria. Tutto ciò si traduce in una grande tollerabilità da parte del paziente. Attualmente vi sono in commercio due tipi di maschere: reusable (risterilizzabile) presente in otto misure: 1, 1,5, 2, 2,5, 3, 4, 5, 6; single use (monouso) in sette misure: 1, 1,5, 2, 2,5, 3, 4, 5; l’ordine di grandezza è crescente e quindi la 1 viene utilizzata nei neonati e la 5 e la 6 vengono inserite nei maschi adulti.

OBIETTIVI DEL LAVORO Lo scopo di questo lavoro è stato quello di valutare la possibile applicazione della LMA nei piccoli animali. La LMA è un dispositivo studiato e sviluppato tenendo conto dell’anatomia della laringe dell’uomo, pertanto un possibile utilizzo nelle specie animali deve essere dimostrato, considerando che l’anatomia della regione faringo-laringea dei principali animali da compagnia (cane, gatto, coniglio) si discosta parecchio da quella dell’uomo. La bibliografia disponibile in Medicina Veterinaria include solamente lavori scientifici che fanno valutazioni di tipo funzionale, utilizzando il monitoraggio anestesiologico come controllo del corretto posizionamento dell’apparato. Non vi sono pubblicazioni che evidenzino l’adattamento anatomico di questo dispositivo nelle varie specie animali. Inoltre, vista la notevole differenza fra le varie specie e razze in Medicina Veterinaria, risulta importante stabilire una correlazione tra la taglia dell’animale e la misura di LMA da utilizzare. Questo lavoro si prefigge di colmare queste lacune. La metodica diagnostica utilizzata per questo studio è

stata la Tomografia Computerizzata (TAC), che consente di esplorare con estrema accuratezza le strutture della regione faringo-laringea visualizzando, senza sovrapposizione, i tessuti molli, le porzioni a contenuto aereo e le parti scheletriche di questa regione. La radiologia, metodica più economica e di più rapida esecuzione, non avrebbe consentito, a causa della sovrapposizione delle strutture esaminate, di studiare in modo accurato l’esatto rapporto tra la LMA e le parti molli esaminate.

MATERIALI E METODI Sono stati valutati 22 animali: 17 cani, 3 gatti e due conigli (vedi tabella 1). I soggetti che dovevano essere sottoposti alla procedura erano 23, ma il caso n° 22 (coniglio) non ha completato lo studio come vedremo in seguito. Gli animali dovevano essere anestetizzati per eseguire procedure diagnostiche (CT di altri settori) o chirurgiche. I protocolli anestesiologici utilizzati hanno incluso: - premedicazione-sedazione: ACP + morfina IM (n=4), diazepam + ketamina EV (n=4), petidina + medetomidina IM (n=3), petidina + ketamina IM (n=1), petidina + ketamina + medetomidina (n=1), medetomidina + ketamina IM (n=3), petidina IM (n=1), fentanyl + diazepam EV (n=1), nessuna premedicazione (n=5). Totale animali 23. - induzione: ketamina + diazepam (n=5), lidocaina + propofol (n=1), diazepam + fentanil + ketamina + propofol (n=2), diazepam (n=1), diazepam + ketamina + propofol (n=1), propofol (n=5), diazepam + propofol (n=1), fentanyl + lidocaina + propofol (n=1), diazepam + fentanil + propofol (n=2), diazepam + tiopentale (n=1), nessuna induzione (n=2 conigli già premedicati-indotti-mantenuti per via intramuscolare). Totale animali 22. - mantenimento: propofol CRI + O2 (n=4), isofluorano in O2 (n=14), propofol bolo + aria (n=1), diazepam + ketamina bolo + O2 (n=1), O2 senza altri farmaci (n=2). Totale animali 22. Dopo induzione, la maschera laringea è stata posizionata ed insufflato al suo interno il quantitativo di aria suggerito per quella misura, poi è stata assicurata alla mandibola dell’animale. Tutti gli animali hanno usufruito di un monitoraggio durante la procedura costituito da pulsossimetria, capnografia, pressione non invasiva oscillometrica. Per valutare il corretto posizionamento della maschera laringea e il rapporto tra questa e le strutture anatomiche della laringe delle varie specie esaminate è stata utilizzata una CT spirale GE Pro-Speed. La scansione ha incluso la regione laringea fino ai primi due anelli tracheali. L’indagine della laringe ha avuto una durata


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Tabella 1 N.° CASO

SPECIE

RAZZA

SESSO

ETÀ

decubito

N.°maschera

Peso (kg)

1 2 3 4 5 6 7 8 10 11 12 14 15 16 17 18 23 9 13 21 19 20 22

cane cane cane cane cane cane cane cane cane cane cane cane cane cane cane cane cane gatto gatto gatto coniglio coniglio coniglio

maremmano setter labrador meticcio meticcio rottweiller labrador dogue de bordeax meticcio bull mastiff barboncino boxer pastore tedesco meticcio pastore tedesco rottweiller meticcio europeo europeo persiano angora incrocio incrocio

maschio femmina maschio maschio femmina maschio maschio maschio maschio maschio maschio femmina maschio femmina maschio femmina femmina maschio femmina maschio femmina femmina maschio

14 anni 10 anni 4 anni 12 anni 1,5 anni 4 anni 6 anni 8 mesi 12 anni 8 anni 4 anni 9 anni 9 anni 2 anni 9 anni 8 anni 10 anni 10 anni 10 anni 7 anni 1,5 anni 5 mesi 2 anni

sternale dorsale sternale dorsale sternale dorsale sternale dorsale dorsale sternale sternale dorsale dorsale dorsale dorsale laterale dorsale sternale sternale sternale sternale sternale

5 2,5 3 3 3 5 5 5 3 5 2,5 4 5 4 5 5 5 2 2 2 1 1

25 22 25 20 16 50 40 45 15 63 7 25 40 12 36 40 44 9 5 6 2 2,5 1,4

media di 15 secondi e gli animali sono stati posizionati in decubito dorsale (n= 10), sternale (n= 11) o laterale (n=1), a seconda del tipo di indagine TAC che doveva seguire nello specifico caso. La LMA è stata mantenuta per tutta la durata della procedura anestesiologica, per una durata media di 30 minuti. In tutti i soggetti la valutazione TAC è stata eseguita con LMA gonfiata, in uno dei due conigli (caso n° 20) è stata eseguita una seconda scansione con maschera non insufflata, per valutare eventuali variazioni nel posizionamento. Le immagini ottenute sono state rielaborate per ottenere ricostruzioni bidimensionali e 3D della regione esaminata.

RISULTATI In 22 animali è stato possibile inserire la maschera; nei cani e nei gatti l’operazione è risultata estremamente rapida e semplice, nei conigli abbiamo avuto maggiori difficoltà per le caratteristiche anatomiche del muso ed anche per la piccola taglia dei soggetti esaminati (2 e 2,5 kg), nel caso n° 22, coniglio di 1,4 Kg, l’inserimento è stato molto difficile ed il soggetto è diventato cianotico, si è pertanto deciso di sospendere la procedura e risvegliare il soggetto che in questo modo è stato tolto dalla valutazione. La TC ha consentito di evidenziare molto precisamente sia nelle scansioni assiali che nelle immagini 3D la LMA e le strutture anatomiche interessate. In tutti i soggetti di specie canina e felina (per un totale di 20 casi) la maschera si è adattata perfettamente alla laringe e nelle scansioni della tra-

chea è stato possibile evidenziare la pervietà perfetta delle vie aeree ed un ottimo adattamento del dispositivo. Nei due conigli esaminati il posizionamento della LMA non è stato ottimale poiché nel caso n° 19, la maschera era situata troppo cranialmente rispetto alla glottide e la sua parte anteriore tendeva ed infilarsi in trachea ostruendola parzialmente. Nel caso n° 20, era la porzione caudale della LMA a determinare una compressione della regione laringo-tracheale con parziale ostruzione delle vie aeree. In quest’ultimo caso, si è ripetuto il procedimento con maschera sgonfia per valutare se in questo modo essa si adattasse meglio alle vie aeree del coniglio, in realtà, la situazione è addirittura peggiorata. In effetti anche il monitoraggio anestesiologico aveva evidenziato le tendenza alla scomparsa del tracciato capnografico e alla desaturazione dei soggetti in seguito a piccoli movimenti della LMA, ma al momento della scansione in entrambi i conigli la capnografia e la saturazione erano ottimali, a dimostrazione che il monitoraggio anestesiologico non è sempre una garanzia di corretto posizionamento della maschera. In tutti i casi la LMA ha consentito di mantenere un buon piano anestesiologico sia nei soggetti mantenuti con somministrazione endovenosa di anestetico sia in quelli che ricevevano isoflurano in associazione all’ossigeno. È stato possibile ventilare gli animali in caso di apnea transitoria ottenendo un’adeguata espansione toracica. Le maschere a nostra disposizione erano di diversa grandezza ed abbiamo stabilito caso per caso quale fosse la più idonea, considerando la taglia dell’animale, il suo peso e la


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conformazione del cranio. Gli animali in esame sono stati pertanto raggruppati secondo il numero di maschera utilizzata: • LMA n°1: conigli (n=2) • LMA n°1,5: non utilizzata • LMA n°2: gatti (n=3) • LMA n°2,5: cani (n=2: barboncino 7 Kg, setter 22 Kg) • LMA n°3: cani (n=4: Labrador 25 kg, Meticcio 20 Kg, Meticcio 16 Kg, Meticcio 15 Kg) • LMA n°4: cani (n=2: boxer 25 Kg, meticcio 12 Kg) • LMA n°5: cani (n=9: Maremmano 25 Kg, Rottweiler 50 Kg, Labrador 40 Kg, Dogue de Bordeaux 45 Kg, Bull Mastiff 63 Kg, Pastore Tedesco 40 Kg, Pastore Tedesco 36 Kg, Rottweiler 40 Kg, Meticcio 44 Kg) In alcuni dei primi soggetti esaminati, le dimensioni della LMA scelta sono state sottostimate a causa della iniziale difficoltà nella valutazione dello spazio laringeo, come ad esempio nel setter (caso 2) o del Labrador (caso 3) in cui sono state sistemate rispettivamente una maschera n° 2,5 ed una n° 3, ma v’è da sottolineare che la pervietà delle vie aeree era comunque assicurata.

DISCUSSIONE Utilizzi possibili in veterinaria Gestione del paziente in emergenza ed in intensive care. La rapidità di inserimento potrebbe essere sfruttata per raggiungere in tempi rapidissimi e senza l’ausilio di un laringoscopio un primo controllo delle vie aeree in soggetti traumatizzati o incoscienti. Inoltre l’indiscutibile maggior tollerabilità della LMA potrebbe essere di grande aiuto nella gestione di soggetti critici che debbano subire una sedazione per qualsiasi motivo. In questi animali il mantenimento di un adeguato controllo delle vie aeree assume un grande significato e la possibilità di inserire e mantenere la maschera laringea al loro interno utilizzando dosi molto più basse di farmaco è un vantaggio. Tutto questo vale in particolare per le specie animali non facilmente intubabili, come i cani brachicefali, il gatto ed il coniglio (in questa specie, alla luce della nostra esperienza, l’inserimento dovrà essere seguito da un controllo molto attento della ventilazione-ossigenazione del soggetto). Gestione del paziente in anestesia. La maggior parte dei nostri pazienti sono facilmente intubabili senza ausilio di bloccanti neuro-muscolari ma semplicemente inducendo il soggetto in uno stato di narcosi profonda. Tuttavia vi sono alcuni animali nei quali l’intubazione non è sempre così semplice, ad esempio il gatto, nel quale la persistenza dei riflessi laringei costringe spesso a somministrare dosi di induttore relativamente elevate rispetto al cane ed alcuni soggetti non sono intubabili senza l’ausilio di una anestesia locale del laringe. Inoltre, i tentativi di intubazione ripetuti possono, insieme ai farmaci, causare il laringospasmo, eventualità assai pericolosa per il soggetto. Un altro animale che da qualche anno compare con sempre maggior frequenza sui nostri tavoli operatori è il coniglio, notoriamente un soggetto non facilmente intubabile. Recentemente, un articolo comparso su Veterinary Anaesthesia and analgesia indica che nel coniglio la maschera laringea offre parecchi vantaggi nel controllo anestesiologico rispetto alla maschera facciale, spesso utilizzata nei conigli appunto per la difficoltà di inserimento del CET. Vi sono altre situazioni in cui l’uso di questo dispositivo è da considera-

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re anche in soggetti relativamente facili da intubare come i cani. Ci riferiamo a molte procedure di diagnostica per immagini che richiedono di una anestesia relativamente breve ma che deve essere sufficientemente profonda per la necessità di contenere il fastidio che arrechiamo al soggetto con il posizionamento. Un esempio classico è rappresentato dagli esami di diagnostica per immagini che vengono eseguiti in ortopedia, per esempio gli esami radiografici per lo studio delle anche e gomiti in soggetti giovani. In questi casi necessitiamo dell’anestesia per un tempo medio di 15 - 20 minuti, con piano anestesiologico abbastanza profondo, e spesso non ci si preoccupa di avere un adeguato controllo delle vie aeree, in quanto il tempo impiegato per la procedura non giustificherebbe l’intubazione orotracheale. Anche quando si effettua uno studio TC, metodica diagnostica sempre più diffusa, potrebbe essere vantaggioso non dover raggiungere alti livelli di ipnosi necessari ad intubare l’animale. Dato che questa procedura è rapida ed indolore, con l’uso della maschera potremmo mantenere un buon controllo delle vie aeree (con possibilità di visualizzare un capnogramma) a livelli medi di anestesia. Anche molte procedure chirurgiche brevi come le biopsie o le piccole suture cutanee spesso vengono eseguite in sedazione profonda senza inserimento del CET.

CONCLUSIONI La LMA è un dispositivo facile da utilizzare, poco invasivo e idoneo al mantenimento dell’anestesia gassosa nel cane e nel gatto. Nel coniglio abbiamo riscontrato maggiori difficoltà nel corretto posizionamento di questo dispositivo, probabilmente anche a causa della piccola taglia dei soggetti esaminati. In questa specie è necessaria una maggiore attenzione nel monitoraggio anestesiologico per evidenziare prontamente eventuali ostruzioni delle vie aeree che possono essere causate da uno scorretto posizionamento della maschera laringea.

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Indirizzo per la corrispondenza: Roberto Bellentani Ambulatorio Veterinario - Via sant'Antonio 10, Formigine (MO) E-mail: bellentanivet@oksatcom.it


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Nuovo percorso diagnostico nelle intolleranze alimentari Alessandro Benvenuti Med Vet, Roma

Introduzione Le prime osservazioni su come si possano verificare delle diverse reazioni all’assunzione di alcuni alimenti risalgono addirittura ad Ippocrate (460-377 a.C.) di cui c’è stata tramandata la famosa frase: “Lascia che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo”. Questa reazione si attua tramite l’azione del sistema immunitario, un vero e proprio sistema di difesa dell’organismo, nei confronti di tutti quegli agenti esterni all’organismo stesso. Si osservano vari sintomi che possono essere provocati dal solo contatto come nel tratto digerente superiore, edema delle labbra e della lingua, afte e faringiti. Nel tratto gastro-intestinale il solo passaggio dell’alimento può determinare vomito, nausea, spasmi, coliche, gastriti, diarrea, meteorismo; infatti sia il cane che il gatto possono presentare questa sintomatologia gastroenterica che abitualmente inizia con un singolo episodio dal quale l’animale si riprende senza evidenti problemi in poco tempo. Ma a questo punto gli episodi si ripresentano a breve distanza con delle ricadute sempre più intense che si ripropongono ad intervalli sempre più brevi. L’episodio scatenante può essere amplificato da vari motivi (dieta, tossine, parassiti, malattie infettive) che determinano il danneggiamento della mucosa intestinale con una compromissione della funzione di barriera protettiva svolta dalla stessa. Di conseguenza l’organismo non viene più protetto da tutti gli alimenti ingeriti e non digeriti e la mucosa diventa permeabile a queste sostanze. Tuttora ci sono molti equivoci tra le differenze tra allergia ed intolleranza alimentare. Infatti uno dei principali problemi nella letteratura medico-scientifica consiste proprio nella mancanza di omogeneità delle definizioni dei termini utilizzati che si basavano sull’impiego di neologismi anglosassoni come ad esempio quello di “reazioni avverse”. Le Intolleranze Alimentari sono quelle reazioni non immuno-mediate che si determinano per il consumo abituale di un certo cibo e/o additivo e che eliminandone l’assunzione per un certo periodo ne determina la scomparsa dei sintomi. La classificazione che ritengo più efficace per definire e classificare le “reazioni avverse ai cibi” è quella della Società di Allergologia U.S.A., che definisce: 1) Le Allergie alimentari come reazioni immediate, IgE mediate. 2) Le Pseudo-Allergie come reazioni determinate da deficit enzimatici (ad es. la mancata digeribilità delle proteine del latte nel bambino ma anche in alcuni cuccioli; il favismo nell’uomo. 3) Le Ipersensibilità alimentari come reazioni ad alcuni cibi che rilasciano istamina come ad esempio lo sgombro (casi nell’uomo, nel gatto e nel cane), il cioccolato (nell’uomo e nel cane). 4) Le

Reazioni Tossiche agli alimenti come l’avvelenamento da ingestione di funghi o cibo avariato, il botulismo, etc. I sintomi spia che possono far pensare ad un’intolleranza alimentare sono molteplici e riguardano vari apparati come: a) Apparato Cutaneo: prurito non stagionale, formazione di papule, eritemi, pododermatiti, lesioni epidermiche alla base e/o all’interno dell’orecchio e sul collo, irritazione nella zona perianale. b) Apparato Gastro-intestinale: vomito, diarrea, flatulenza, meteorismo, frequenti eruttazioni e singhiozzi, coliti, fenomeni di malassorbimento, stipsi alternata a diarrea. c) Apparato Respiratorio: riniti, sinusiti, sindromi simil-asmatiche ricorrenti (non rispondenti al cortisone). d) Apparato Oculo-congiuntivale: congiuntiviti ricorrenti, frequenti lacrimazioni. e) Apparato Urogenitale: cistiti ricorrenti (soprattutto nel gatto), urinazioni frequenti. f) Sistema Centrale Nervoso: fenomeni di iperattività, sbalzi di umore, crisi epilettiche, generale tendenza ad ingrassare (accompagnata da notevole gonfiore addominale), tendenza a non assimilare (accompagnata da fenomeni di coliti frequenti), affaticamento precoce. Sulle cause delle intolleranze alimentari ci sono più teorie ma quelle più concrete sono due: 1) La teoria dell’alterato assorbimento delle Macromolecole, 2) La teoria dello stress di H. Selye. Nella prima teoria si ipotizza una forte carenza vitaminica legata alla “raffinatezza” dei cibi quotidiani, soprattutto dei carboidrati, che provocherebbero un mancato assorbimento di tutti quegli elementi minerali e vitaminici così importanti per l’organismo. Difatti è importante ricordare come la parete intestinale svolga una funzione fondamentale non solo nell’assorbimento del cibo ma anche nello stimolo del sistema immunitario, essendo la sede di almeno il 60% delle cellule immunitarie IgA. Quando avremo una “disbiosi”, cioè un’alterazione marcata della flora batterica intestinale, verrà a mancare l’azione di modulazione del sistema immunitario. Vengono infatti a mancare quelle azioni fondamentali svolte dalla flora batterica intestinale, quali la regolazione delle dimensioni dei villi e del ricambio degli enterociti, la sintesi delle Vitamine K, B1, B12, dell’acido folico e dell’acido pantotenico. La teoria dello stress viene formulata dal Prof. Hans Selye di Montreal già negli anni ’40 ma i suoi studi andranno avanti fino agli anni ’60; lo stress viene da lui definito come “una lotta di adattamento ad un agente nocivo” di qualunque natura esso sia. Di conseguenza lo stress viene inteso come lo sforzo a cui il corpo è sottoposto tutti i giorni dagli avvenimenti quotidiani. Questo ovviamente viene sempre visto sotto il solo profilo psicologico, come quelle situazioni che causano tensione nervosa e magari ci risulta difficile interpretare lo stato psicologico dei nostri animali,


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anche se oramai le scienze comportamentali e l’etologia lo hanno dimostrato. Possiamo pertanto ipotizzare che se tutto ciò che si verifica nei nostri animali per reazioni chimiche che avvengono a livello cellulare grazie ad una vasta gamma di catalizzatori ed enzimi (perfezionatisi attraverso migliaia di generazioni che vivevano di cibo naturale, come piante, radici selvatiche prima, e carne e grasso di animali viventi allo stato libero poi), andando ad alterare un organismo clinicamente idoneo per la carne con alte dosi di amidi raffinati, zuccheri e tutta una serie di prodotti chimici sintetici, si potrebbe causare l’impoverimento dei processi basilari delle cellule vedendone tutti i giorni le conseguenze (malattie degenerative del cuore, malattie nervose, tumori etc).

Scopo del lavoro Questo lavoro ha avuto lo scopo di verificare l’utilità di un test citotossico nella risoluzione di diverse sintomatologie, spesso ricorrenti, che possiamo evidenziare nella clinica di ogni giorno e che riteniamo possano essere imputabili alla dieta del soggetto in esame.

Metodi impiegati Per determinare la diagnosi delle intolleranze alimentari nel cane e nel gatto viene attualmente considerata solamente la risposta più o meno idonea ad una dieta ad eliminazione, somministrata per minimo 10 settimane consecutive. Tale dieta deve contenere una fonte proteica differente da quella utilizzata in precedenza e dovrebbe essere formulata solo dopo un’attenta valutazione dell’alimentazione abituale dell’animale. Vengono impiegate sia diete casalinghe che commerciali, rispondendo alle esigenze dell’animale e del suo proprietario. Abbiamo testato una nuova metodica per la veterinaria per la determinazione delle intolleranze da alimenti e da additivi. Questa metodica è nuova per noi veterinari ma viene utilizzata con successo da più di venti anni in umana con una casistica di circa 400.000 casi. L’attendibilità è suffragata dai risultati clinici ottenuti con l’astinenza dei soli alimenti risultati positivi e le loro famiglie biologiche, per almeno 60 giorni. Sono stati allestiti 2 kit veterinari: uno per il cane ed il gatto ed uno per il bovino ed il cavallo. La metodica citotossica consiste nel porre a contatto il siero ed i leucociti del paziente con gli estratti alimentari. Ne scaturiranno delle risposte tossiche che verranno interpretate dal-

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l’operatore con una precisa metodica standardizzata e con un codificato sistema di valutazione e che permetteranno al medico di effettuare una precisa dieta ad eliminazione senza perdere tutto il tempo necessario, minimo 10-12 settimane, per effettuare una diagnosi di intolleranza alimentare.

Risultati ottenuti Nella nostra esperienza gli alimenti riscontrati più frequentemente positivi sono a scendere la carne bovina, il grano, il suino, il pollo, il tacchino, il latte, etc per finire con il pesce. Una dieta ad esclusione degli alimenti positivi per un periodo di almeno otto settimane ha portato un significativo miglioramento nel 90% dei pazienti in termine di valutazione clinica prendendo in considerazione quei casi che presentavano risposte negative alle consuete terapie a base di cortisonici ed antibiotici. Si verificavano dei netti miglioramenti non soltanto su casi con sintomatologia dermatologica e/o gastroenterica ma anche su dei casi con delle problematiche comportamentali (pica, aggressività, ansia ed irritabilità). Sono stati evidenziati anche nei cani tre casi di epilessia che una volta diagnosticata e risolta l’intolleranza alimentare oltre alla risoluzione dei problemi dermatologici hanno visto o ridurre in maniera vistosa o scomparire del tutto anche la sintomatologia neurologica.

Conclusioni La nostra esperienza di circa un anno e mezzo ci ha permesso di evidenziare che per i cani le razze più sensibili a questa problematica sono: Pastore Tedesco, Dalmata, Labrador e Golden Retriever, Boxer, Cocker Spaniel, Westhighland Terrier, Setter Irlandese ma anche molti incroci. Per quanto riguarda i gatti invece, le razze più sensibili sono i Persiani, i Norvegesi delle Foreste, i Siamesi e gli Europei. Ovviamente questo è solo il primo passo di una sperimentazione che si è estesa anche ad alcuni centri universitari e non, italiani ed esteri, per permetterci di ampliare la nostra casistica e la nostra ricerca in un campo, come quello delle intolleranze alimentari, ancora purtroppo poco conosciuto ed allo stesso tempo così importante nella clinica di ogni giorno.

Indirizzo per la corrispondenza: Alessandro Benvenuti E-mail: benvet@tiscali.it


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Atipiche neoplasie del Sistema Nervoso Centrale in animali giovani Marco Bernardini Med Vet, Dipl ECVN, Bologna

Cristian Falzone, Med Vet, Monsummano Terme (PT)

Le neoplasie del sistema nervoso centrale (SNC) costituiscono un problema sempre più frequente nella clinica dei piccoli animali12. L’allungamento della vita media, la sempre maggior attenzione dei proprietari e l’avvento di metodiche di indagine per immagini sempre più avanzate (tomografia computerizzata e risonanza magnetica) hanno permesso notevoli passi avanti nella diagnosi di queste patologie. Le neoplasie del SNC possono essere primitive (quelle che originano dal tessuto neuroectodermico, ectodermico, e mesodermico) e secondarie (per contiguità o diffusione ematogena). Difficilmente i tumori del SNC metastatizzano in altri apparati; a volte, la diffusione di cellule tumorali nel liquido cefalorachidiano può portare a metastasi distribuite nel SNC stesso. I tumori del SNC possono essere classificati in base alla loro localizzazione in: 1) intracranici (sopratentoriali o retrotentoriali; intrassiali o extrassiali); 2) midollari (extradurali, intradurali-extramidollari, intradurali). Dalla localizzazione della neoplasia dipende la sintomatologia mostrata dal paziente5. Sono ugualmente possibili, ovviamente, sintomi riferibili a localizzazione all’encefalo anteriore, mesencefalo, ponte, midollo allungato, cervelletto, midollo spinale a vari livelli. In molti casi, la localizzazione clinica può essere complicata dalle variazioni della pressione intracranica causate dalla massa stessa, che a seconda della posizione e del volume può provocare la formazione di notevole edema peritumorale, ostruzione alla circolazione del liquido cefalorachidiano, ernie di porzioni di parenchima cerebrale con secondaria compressione di strutture contigue. Queste variabili, associate con le diverse velocità di crescita della massa, possono fortemente influenzare anche il decorso dei segni clinici. Spesso l’esordio è subdolo e i segni sono lentamente progressivi. Ma le neoplasie possono rimanere a lungo silenti e manifestarsi improvvisamente con fenomeni epilettici o altri sintomi acuti e rapidamente progressivi. Questa evenienza è più probabile quando la crescita di una massa extrassiale è lenta e il parenchima cerebrale può adattarsi alla compressione, oppure quando l’alterazione funzionale della zona colpita non dà segni clinici rilevabili all’esame neurologico. Masse frontali raggiungono spesso dimensioni considerevoli prima di dare segni della loro presenza. I tumori del SNC possono essere classificati anche in base al loro tipo istologico. Si identificano:

1) tumori del tessuto neuroepiteliale (astrocitomi, oligodendrogliomi, tumori dei plessi corioidei, ependimomi, ecc.); 2) tumori delle meningi (principalmente meningiomi); 3) linfomi e tumori ematopoietici (istiocitosi maligna, ecc.); 4) tumori della regione della sella turcica (tumori pituitari, tumori delle cellule germinali soprasellari); 5) altri tumori primari e cisti; 6) tumori metastatici; 7) estensioni locali di tumori regionali. I tumori primitivi hanno di solito uno sviluppo lento. Le razze brachicefaliche (Boxer, Bulldog inglesi e francesi, Boston Terrier), sono a maggior rischio. In generale, i tumori del sistema nervoso sono più comuni in animali adulti e anziani. Sotto i 5 anni di età sono raramente riportati; in questi casi, di nuovo le razze brachicefaliche sono particolarmente rappresentate. Non esistono differenze significative di sesso. La diagnosi dei tumori del SNC prevede fondamentalmente l’uso della diagnostica per immagini avanzata, quale la tomografia computerizzata (TC) e la risonanza magnetica (MRI). A livello spinale, la radiologia tradizionale con mezzo di contrasto (mielografia) può fornire valide immagini. Tramite MRI e TC possono essere evidenziate la localizzazione della massa, la sua forma, le sue caratteristiche di crescita, la presenza di edema peritumorale, l’entità della sua vascolarizzazione. L’indagine MRI è tuttora considerata la migliore metodica per l’evidenziazione del parenchima nervoso e delle sue patologie per la sua eccellente definizione e per la scarsità di artefatti3,11. Per quanto le immagini ottenute via MRI o TC possano indirizzare, a seconda dei casi, con maggiore o minore precisione verso un determinato tipo di neoplasia, l’esatta diagnosi è possibile solo attraverso un esame citologico o istologico. La citologia del liquido cefalorachidiano (LCR) è raramente utile perché le neoplasie tendono a non esfoliare cellule nel LCR, perché le neoplasie benigne eventualmente esfoliano cellule indistinguibili da quelle normali e perché generalmente i tumori intrassiali non vengono in contatto con il LCR1. Inoltre, il solo dato citologico è raramente sufficiente ad emettere una diagnosi certa, per le minime atipie che le cellule spesso manifestano. I tumori metastatici e i linfomi sono le due categorie con maggiore probabilità di diagnosi citologica. Inoltre, l’esame del LCR in genere non viene effettuato tutte le volte che esiste un sospetto di aumento della pressione intracranica per il rischio di erniazioni di porzioni del parenchima encefalico10.


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Sempre maggior peso diagnostico sta assumendo l’esame citologico di campioni prelevati direttamente dalla massa4,15,18. Se, da una parte, le metodiche stereotattiche necessarie per un prelievo extraoperatorio sono per il momento effettuate in pochissimi centri selezionati, l’esame citologico intraoperatorio di campioni di masse superficiali può fornire al chirurgo valide indicazioni9. La terapia consiste nella rimozione chirurgica della massa, quando extrassiale e situata in zone chirurgicamente accessibili. In molti casi, una successiva radioterapia prolunga il tempo di sopravvivenza2,14,16. La sola radioterapia può essere considerata in caso di neoplasie non rimovibili chirurgicamente, soprattutto quelle a carattere infiltrativo. Una efficacia modesta viene rivestita dalla chemioterapia. Dosi antinfiammatorie di steroidi possono dare iniziali benefici, in particolare in caso di linfomi primari del SNC, in generale agendo sull’eventuale edema peritumorale. La prognosi è in generale riservata, quando non infausta, tranne nei casi in cui è stata possibile una valida asportazione chirurgica. L’aspettativa di vita varia a seconda del tipo di tumore, della gravità dei sintomi al momento della diagnosi, del tipo di terapia effettuata, da poche settimane a vari mesi6. Negli animali giovani, al di sotto dei quattro-cinque anni di vita, le neoplasie del SNC non sono comuni. Tuttavia, alcune sono tipiche dei cani giovani, nei primi due-tre anni di vita, per cui questi neoplasmi devono essere presi in considerazione in sede di diagnosi differenziale8,13,17,19. La classificazione di queste neoplasie non è semplice. Classificandoli tra i tumori embrionari, la World Health Organization e l’American Registry of Pathology, contempla: 1) Tumori primitivi neuroectodermici (PNET)7. A questa categoria appartengono i medulloblastomi cerebellari. Sono tumori altamente maligni che tendono a svilupparsi a carico del verme con successiva compressione del sottostante tronco encefalico. Molto raramente, altri tumori primitivi neuroectodermici, istologicamente indistinguibili dal medulloblastoma cerebellare, vengono segnalati al di fuori del cervelletto. 2) Neuroblastomi. 3) Ependimoblastomi. 4) “La neoplasia midollare toracolombare dei cani giovani”, segnalata in passato anche come ependimoma, medulloepitelioma, neuroepitelioma, nefroblastoma, neoplasia intadurale-extramidollare del cane giovane. Di origine sconosciuta, questa neoplasia è segnalata in cani tra 5 e 36 mesi di età, con un picco intorno ai due anni. Non esiste predilezione di sesso, mentre la razza più frequentemente coinvolta risulta essere il Pastore tedesco a livello dei segmenti midollari T10-L2. Inoltre, negli animali giovani vengono talvolta segnalate neoformazioni di difficile classificazione, ma equiparate ai tumori soprattutto per il loro “effetto massa” a danno del parenchima cerebrale, che originano da isole di tessuto eterotopico (cisti dermoidi ed epidermoidi) o normalmente presente in quella sede (amartomi, spesso di origine vascolare). In base a queste valutazioni, sono state considerate rare neoplasie del SNC di animali giovani, quelle neoplasie primarie o metastatiche poco frequenti in assoluto o che si manifestano solo eccezionalmente in animali al di sotto dei 4 anni di età.

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Indirizzo per la corrispondenza: Marco Bernardini Clinica Veterinaria Poggio Piccolo Via San Carlo, 8f/g - 40023 Castel Guelfo (BO) Tel 0542.011248 - Fax 0542.011245 E-mail: marco_bernardini@yahoo.com Cristian Falzone Clinica Veterinaria Valdinievole Via Nigra, 123 - 51015 Monsummano Terme (PT) Tel 0572.952519 - Fax 0572.951499 E-mail: crisfalz@libero.it


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Iperadrenocorticismo e omeopatia: binomio possibile? David Bettio Med Vet, Sorbolo (PR)

APPROCCIO E METODOLOGIA OMEOPATICA CLINICA Visita Clinica: Cane Susy, YST di 10 anni. Diagnosi: Iperadrenocorticismo. Test stimolazione con ACTH del 12-12-04 Cortisolo basale Cortisolo stimolato

125.00 888.00

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Test di soppressione con alte dosi di Desametasone del 18-12-04 Cortisolo basale 192.00 Cortisolo dopo 3 ore 54.30 Cortisolo dopo 8 ore 20.10

Racconto spontaneo: Susy da alcuni mesi beve molto di più e mangia tantissimo. È diventata molto aggressiva e nervosa. In certi momenti cerca addirittura di mordere, cosa che prima non era mai successa. Non è mai stata molto complimentosa, ma mai aggressiva e cattiva come in questo periodo. Anche da piccola ha avuto degli episodi del genere, soprattutto quando aveva la tonsillite, ma pensavamo che fosse per il dolore. Un giorno si è girata per mordermi mentre l’accarezzavo, poi ha cominciato ad abbaiare fortissimo e alla fine ha avuto come una crisi con tremori e spasmi. Forse per la forte agitazione. Dopo l’intervento (OI, ndr) ha avuto un altro periodo così. Era nevorsissima e mordeva. Da alcuni mesi abbiamo notato che mangia e beve tantissimo, è voracissima. Ha anche cominciato a perdere il pelo sulla schiena. Abbiamo paura che sia un fungo. È ingrassata e ha una pancia enorme, ma pensavamo fosse dovuto al’intervento e al fatto che è un pozzo senza fondo. Mangerebbe continuamente. Fame: Mangia di tutto, preferisce la carne e mangerebbe tantissimo pane. Ha un forte desiderio di pesce. Ultimamente ha avuto un cambiamento di preferenze alimentari: rifiuta il latte che prima desiderava. Dopo il pasto è molto più aggressiva di altri momenti. È insopportabile, non la puoi toccare che tenta di mordere. Varie: In questi ultimi mesi è diventata molto nervosa quando ci sono dei rumori in casa e fuori. Non sopporta che ci sia la televisione a volume alto perché comincia ad abbaiare e a grattare sulla cuccia. È innervosita dal collare anche se sa che la portiamo fuori a fare la passeggiata. Sonno: Cerca posti molto tranquilli della casa, come sotto al letto. Di notte cerca la

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nostra compagnia perché vuole salire sul nostro letto ma non vuole essere spostata altrimenti morde. Digerente: La digestione sembra regolare. Susy diventa molto nervosa dopo l’assunzione del cibo tanto da non voler essere disturbata. Da giovane ha avuto degli episodi di diarrea legati al cambiamento delle condizioni atmosferiche a al momento della dentizione. Cutaneo: Da alcuni mesi è comparsa una alopecia bilaterale simmetrica sulla regione dorsosacrale con pelle sottile e fragile. Nella regione inguinale la pelle è tesa e sottile per l’addome pendulo. Presenza di comedoni. Interrogatorio mentale: Susy è un cane timido, non ama molto la compagnia, anzi è infastidita quando in casa non c’è tranquillità, tanto da manifestare una certa aggressività nei confronti dei proprietari. Non tollera la presenza di estranei in casa. Non vuole essere accarezza e soprattutto durante le sue malattie ha manifestato aggressività se si cercava si accarezzarla o toccarla. Se viene sgridata reagisce violentemente abbaiando e aggredendo il proprietario che certi giorni proprio non può avvicinarla. Altre volte invece è tranquilla. Quando riposa in un posto della casa non deve essere disturbata, né spostata a forza. Ha un atteggiamento possessivo nei confronti del cibo che difende fino a mordere. Ha paura di stare al buio perché non sta da sola in una stanza senza luce. Non ama molto la compagnia come quando era giovane, perché non vuole essere accarezzata molto, mentre da piccola era praticamente sempre addosso. Vuole stare nella stanza dove sono i proprietari. Con gli altri cani gioca volentieri, ma ha degli sbalzi di umore improvvisi e per un nonnulla diventa aggressiva e attacca senza paura anche i cani più grandi. Non sopporta che ci siano estranei in casa.


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Scelta dei Sintomi Omeopatici: MENTE - TOCCATO - avversione ad essere (MIND - TOUCHED - aversion to be) °°° MENTE - PAURA - buio, del (MIND - FEAR - dark, of) ° MENTE - IRRITABILITÀ - rumore, a causa del (MIND - IRRITABILITY - noise, from) °° MENTE - TRANQUILLO; desidera stare (MIND - QUIET; wants to be) °°° SINTOMI GENERALI - IMPROVVISA manifestazione (GEN - SUDDEN manifestation) °°° SIN GEN- CIBI e bevande - latte - avversione (GEN - FOOD and DRINKS - milk – aversion) °° 1° prescrizione: Belladonna 15 CH, 3 granuli TID sciolti in poca acqua per 1 mese. 1° visita di controllo: Ci sono due cambiamenti sostanziali: Susy beve molto meno (circa 400450 ml die di acqua) ed è meno vorace. Continua con Belladonna 15 CH 3 granuli TID; 2° visita di controllo: L’assunzione di liquidi si è stabilizzata 400 ml al giorno. Glicemia 97 mg/dl. Permangono zone alopeciche bilaterali. Dal punto di vista comportamentale Susy è diventata più trattabile. In casa accetta di essere coccolata e in ambulatorio accetta le manipolazioni. I proprietari hanno notato una maggiore sensibilità ai rumori per i quali si spaventa, soprattutto al temporale. Inoltre sembra desiderare le uscite anche se sembra stancarsi più velocemente di prima. Per ora l’unico momento in cui rimane aggressiva è quando i proprietari la rimproverano oppure quando li sente litigare. Susy sembra anche diventata più sensibile al freddo. È dimagrita 2 etti. Continua con Belladonna 15 CH 3 granuli TID; 3° visita di controllo del 03-05-2005: Susy si presenta in ambulatorio con una forte congiuntivite infiammatoria. La congiuntiva degli occhi è iperemica, lacrimazione e fotofobia. Il bulbo oculare è iniettato di piccoli vasi di colore scuro. Ultimamente è diventata molto freddolosa nonostante la stagione sia calda. Ogni volta che cambia il tempo dal secco all’umido presenta una tosse leggera. È nervosa quando c’è brutto tempo, soprattutto quando c’è una giornata fredda oppure piovosa. È dimagrita 500 g dall’inizio della terapia. Il pelo sta coprendo gran parte delle zone alopeciche. È diventata molto trattabile a tal punto che cerca la compagnia dei proprietari, soprattutto verso sera. Di notte dorme nella loro camera. Test stimolazione con ACTH del 6-05-05 Cortisolo basale 72.70 Nanomoli/lt (20-250) Cortisolo stimolato 431.00 Nanomoli/lt (0-660) I sintomi omeopatici caratteristici sono cambiati e sono cambiate anche le modalità che ora si presentano con chiarezza. Si è verificata la comparsa di nuovi sintomi intensi e chiari che non coprono più la similitudine espressa da Belladonna. Il caso sta procedendo verso le manifestazioni di patologie acute (congiuntivite), mentre l’aspetto comportamenta-

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le (mentale) sembra più equilibrato, pur mantenendo delle caratteristiche peculiari.

Scelta dei sintomi omeopatici: OCCHI - INFIAMMAZIONE - CONGIUNTIVE °° OCCHI - INIETTATI - CONGIUNTIVA scura, piena di vasi °°° MENTE - COMPAGNIA - DESIDERIO, di notte°° SINTOMI GENERALI - TEMPO FREDDO - UMIDO AGG °°° 2° prescrizione: Calcarea phosphorica 200 K monodose in poca acqua per 3 giorni consecutivi. Visita di controllo: La congiuntivite si è risolta nell’arco di una giornata. L’occhio non è più iniettato. La fotofobia è scomparsa. Visita del 1201-2006: Susy è dimagrita 1,5 kg. Il pelo copre le zone alopeciche del dorso. Beve circa 450 ml di acqua al giorno (glicemia 98 mg/dl). Rimane molto sensibile alle temperature fredde e alle giornate umide.

ANALISI DEI COSTI Terapia omeopatica: Costo 1° rimedio (Belladonna 15 CH granuli – 2 tubetti): 5 € cad. = 10 €; Costo 2° rimedio (Calcarea phosp. 200 K Monodose): 6 €; Costo totale terapia omeopatica: 16 €; Terapia con Mitotano (Lysodren®) Costo di una confezione da 25 cpr da 500 mg: 120 €; Terapia con Trilostano (Modrenal®) Costo di una confezione da 100 cps da 60 mg: 163 €.

Bibliografia AA VV - Prontuario terapeutico veterinario, 4° Edizione 2004, EV. Allen H.C. Encyclopedia of Pure Materia Medica, Encyclopaedia Homeopathica. Boericke W., Pocket Manual of Homeopathic Materia Medica, Encyclopaedia Homeopathica Canello S., Teoria e metodologia omeopatica in Medicina Veterinaria, Ipsia Ed., 1995. Ettinger S.J. e Feldman E.C., Trattato di Clinica Medica Veterinaria, Antonio Delfino Ed., 2000. Hahnemann C.F.S., Organon “Dell’Arte del guarire”, Cemon Ed., 1999. Morrison R., Manuale Guida ai sintomi chiave e di conferma, 1999. Nelson R. e Couto C., Medicina Interna del cane e del gatto, EV, 1995. Schmidt P., The art of case taking, Encyclopaedia Homeopathica. Vithoulkas G., La scienza dell’omeopatia, Ed. Cortina, Verona.

Indirizzo per la corrispondenza: David Bettio Ambulatorio Veterinario Associato Via Marconi, 42 - 43058 Sorbolo (PR), Italia Tel amb: +39.521.697211 Fax: +39.521.1810094 Cell: +39.339.3497871 E-mail: olikos@tin.it; veterinari.sorbolo@virgilio.it


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Importanza e prevenzione delle malattie trasmesse da zecche in Europa Frédéric Beugnet Med Vet, PhD, Dipl EVPC, Lion, Francia

Le tre principali zecche che interessano gli animali domestici sono Ixodes ricinus, Dermacentor reticulatus e Rhipicephalus sanguineus e tutte trasmettono diverse malattie: le babesiosi canine, le ehrlichiosi-rickettsiosi-anaplasmosi, la borreliosi di Lyme e le micoplasmosi feline (ex-haemobartonellosi). Le tecniche di biologia molecolare (PCR) permettono di effettuare delle ricerche epidemiologiche approfondite e consentono anche di rilevare i diversi agenti eziologici presenti nelle zecche vettrici. Dopo l’eliminazione della quarantena per i cani introdotti nel Regno-Unito, uno studio realizzato a Bristol (Acarus Laboratory) ha evidenziato che il 29% (12/42) dei cani era portatore di Babesia e il 2% (1/43) di Ehrlichia canis. Nei cani sottoposti a quarantena classica, il 20% (3/15) era infetto da Babesia, il 36% (5/14) da Ehrlichia canis, e il 27% (3/11) era portatore di Leishmania. La maggior parte di questi cani aveva soggiornato in Italia, Francia o Spagna. Nel 2001-2002, un’indagine con PCR su: 184 zecche, 632 cani, 243 gatti condotta in 55 cliniche veterinarie nel Sud della Francia, ha evidenziato che 62 gatti (26,4%) erano infetti da diverse forme di mycoplasmi (precedentemente Hemobartonella): 79% da Mycoplasma haemominutum, 13%, da Mycoplasma haemofelis e 8% da entrambi. I 2/3 dei gatti risultavano anche positivi da FeLV o FIV e 25 cani (4%) erano portatori di Babesia. Il 14% dei cani era infestato da zecche contro il 21% dei gatti. Sui cani sono stati riconosciuti tutti i tipi di zecche (Ixodes, Rhipicephalus e Dermacentor) mentre il 75% di quelle osservate sui gatti erano Ixodes. Il 43% del totale delle zecche apparteneva al genere Rhipicephalus (79/184), il 31,5% al genere Ixodes (58/184) e il 24,5% al genere Dermacentor (45/184). 15 zecche del genere Rhipicephalus e Dermacentor su 184 (8%) erano infettate da Babesia canis. 30 zecche (16,3%) erano portatrici d’Ehrlichia. La metà di queste erano Ixodes (Anaplasma phagocytophila) e l’altra metà Rhipicephalus (Ehrlichia canis). Il 2,5% delle zecche del genere Rhipicephalus erano portatrici d’Hepatozoon canis. Questa indagine indica che in media 1 zecca su 10 è vettore di almeno un agente patogeno capace d’infettare il cane. Nel 2004-2005, un’indagine condotta nel Sud della Francia (Centro, Rhône-Alpes e Auvergne), ad esclusione dell’estremo Sud già studiato nel 2001-2002, ha permesso di evidenziare delle infestazioni di zecche su cani e gatti. Sono state raccolte 2118 zecche con 690 prelievi da 665 cani, 10 gatti, 9 cavalli, 3 ricci, 1 uomo, 1 bovino e 1 non identificato. Le forme adulte di Ixodes ricinus rappresentavano il

28,3% delle zecche, di Dermacentor reticulatus il 25,8% e di Rhipicephalus sanguineus il 3,7%. Il resto era rappresentato dagli stadi immaturi e/o altre specie. In quest’indagine i gatti erano infestati solo da Ixodes ricinus mentre sui cavalli, il 94% erano Dermacentor, il resto Ixodes. La ricerca di agenti patogeni con tecnica PCR, realizzata con 337 prelievi di zecche della stessa specie, ha dato i seguenti risultati: - Ixodes ricinus (180 prelievi): solo il 36,6% non era infetto. Il 40% era portatore di DNA di un agente potenzialmente patogeno, il 21,7% era infetto da 2 agenti patogeni. L’8% è portatore di DNA di Babesia, il 37% d’Anaplasma e il 3% di Borrelia. Circa il 20% dei batteri identificati erano di rickettsie simbiotiche. - Dermacentor reticulatus (87 prelievi): il 30% era monoinfetto e il 2,3% bi-infetto; il 6% era portatore di DNA di Babesia. Gli altri agenti sono stati considerati come rickettsie simbiotiche. - Rhipicephalus sanguineus (15 prelievi): il 4% era portatore di DNA di Babesia canis, il 17% di DNA di Rickettsie e il 7% di Ehrlichia canis. È evidente che le zecche sono un importante veicolo di agenti patogeni per i carnivori e per l’uomo. Risultati simili si sono ritrovati in diversi paesi europei, con variazioni legate alla prevalenza di una specie sulle altre. Ad oggi la miglior prevenzione di queste malattie resta la lotta contro i vettori. Recenti studi di campo hanno dimostrato che l’utilizzo regolare di acaricidi ad attività residuale permette di proteggere in modo efficace dalla trasmissione di queste malattie (studi pubblicati per la borreliosi di Lyme, l’ehrlichiosi e la babesiosi canina). Nel 2002 è stato condotto uno studio presso i canili dell’esercito militare francese relativo alla prevenzione della trasmissione dell’ehrlichiosi monocitaria canina. L’obiettivo era quello di valutare la protezione conferita da un’applicazione mensile di fipronil spot on per un periodo di 12 mesi. Sono stati trattati 55 cani dell’esercito, a Dakar (Sénégal) o a Djibouti, e confrontati con 133 cani controllo e con 60 cani di civili francesi che vivevano nel medesimo ambiente. Il 100% dei cani autoctoni non trattati ha sviluppato un’ehrlichiosi, contro il 22% dei cani dei civili (trattati irregolarmente). 2 cani (3,6%) dell’esercito hanno subito una sieroconversione senza dimostrare una sintomatologia clinica. Il trattamento regolare dei cani con un acaricida ad elevata attività residuale ha quindi permesso di ottenere un tasso di protezione durante tutto lo studio del 96,4%. Nel 2005 in Ungheria è stato condotto dall’Univeristà degli studi di Budapest uno studio relativo alla prevenzio-


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ne della babesiosi canina. Lo scopo dello studio era quello di verificare l’efficacia del fipronil in formulazione spot on nel prevenire la trasmissione di Babesia canis da parte delle zecche del genere Dermacentor reticulatus. Nella prova sono state arruolate 10 cliniche veterinarie distribuite sul territorio ungherese ritenuto endemico di babesiosi canina. Ciascuna clinica ha inserito 16-20 cani successivamente assegnati in modo random ad 1 dei 2 gruppi. I cani del gruppo 1 sono stati trattati con Frontline® spot-on mensilmente per 6 mesi direttamente presso le cliniche veterinarie per verificare la corretta applicazione del prodotto. I cani del gruppo 2 non sono stati trattati oppure sono stati trattati con antiparassitari diversi dal Frontline®. Tutti i cani venivano portati nelle strutture veterinarie ogni 2 settimane per una visita clinica. Tutte le zecche presenti sugli animali venivano raccolte e successivamente identificate in Università. Se gli animali presentavano segni clinici di babesiosi canina venivano immediatamente eseguiti dei prelievi ematici e successivamente trattati con Imidocarb. Una ricerca con PCR per rilevare il DNA di Babesia è stata eseguita sui campioni ematici e sulle zecche femmine di D. reticulatus. Sono state raccolte 546 zecche dai 99 e 92 cani, rispettivamente del gruppo 1 e 2, di queste 524 erano adulti e 22 erano ninfe. La maggior parte di queste (95,5%) appartenevano a 2 tipi di zecche: Ixodes ricinus (336 zec-

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che) e D. reticulatus (169 zecche). Nessun cane del gruppo Frontline® è risultato positivo al DNA di Babesia mentre il 50% dei cani che ha presentato una sintomatologia clinica è risultato positivo alla ricerca di B. canis canis. 1 campione su 19 (5,2%) e 5 su 45 (11,1%) di D. reticulatus sono risultati positivi alla PCR per B. canis, rispettivamente nel gruppo 1 e 2. I risultati di questo studio dimostrano, sebbene non ci sia una prevenzione dell’aggressione da parte delle zecche sui cani, che l’uso mensile e regolare di Frontline® spot-on sembra prevenire la trasmissione di B. canis da parte delle zecche del genere D. reticulatus in diverse aree endemiche dell’Ungheria. Per la maggior parte delle malattie trasmesse da zecche, tranne la babesiosi e la malattia di Lyme dove è possibile la vaccinazione per i cani che vivono in zone endemiche anche per brevi periodi, la miglior prevenzione è legata all’ispezione regolare degli animali associata all’applicazione regolare di soluzione acaricida ad elevata attività residuale.

Indirizzo per la corrispondenza: Frédéric Beugnet Clinique Vétérinaire Clémenceau 70 Av. Clémenceau 69230 St Genis Laval - France E-mail: cabinetvetclemenceau@voila.fr


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Differenti effetti sulla sintomatologia e sulla sopravvivenza di un monitoraggio specialistico e di base nel cane cardiopatico Michele Borgarelli Med Vet, PhD, Dipl ECVIM-CA (Card.), Torino

Paolo Savarino*, Med Vet, Serena Crosara, Med Vet, Alberto Tarducci, Med Vet

L’insufficienza cardiaca (IC) rappresenta una condizione fisiopatologica nella quale una anomalia della funzione cardiaca è responsabile della insufficienza del cuore a pompare il sangue in quantità adeguata alle richieste metaboliche dei tessuti, oppure ci riesce solo ad una pressione di riempimento elevata. Sebbene le conoscenze concernenti i meccanismi fisiopatologici e le modalità di trattamento dell’IC siano progredite in modo significativo negli ultimi 20 anni, questa condizione continua a rappresentare una delle principali cause di morbilità e di morte sia nell’uomo sia negli animali da compagnia, in particolare nei soggetti anziani. L’insufficienza cardiaca infatti è oggi considerata come una sindrome, determinata dall’attivazione di meccanismi neuro-ormonali complessi, la cui conoscenza è essenziale al fine di ottimizzare la terapia. Sotto questo aspetto la disponibilità di nuovi farmaci nonché le aumentate conoscenze dei loro effetti sulla regolazione neuro-ormonale, consentono oggi di trattare pazienti con IC grave in modo tale da ridurre la sintomatologia garantendo una adeguata qualità di vita, nonché di prolungare anche le aspettative di vita sia nell’uomo, sia nel cane. Tuttavia recenti pubblicazioni in medicina umana hanno evidenziato che, nonostante siano numerosi gli studi condotti in accordo alle linee guida delle “good clinical practice”, che forniscono dati sufficienti per ottimizzare il trattamento del cardiopatico in accordo al concetto di trattamento basato sull’evidenza (evidence based medicine), una percentuale ancora relativamente elevata di pazienti non riceve una terapia adeguata. Le ragioni per cui questo accade sono molteplici e tra di esse possiamo ricordare, una diagnosi non corretta, l’uso scorretto o la non prescrizione di farmaci, la mancata collaborazione da parte del paziente, e la scarsa comunicazione tra i centri specializzati ed i medici di base. Al fine di ridurre il numero di pazienti non trattati adeguatamente in medicina umana, si è ricorsi negli ultimi 20 anni alla creazione di centri specialistici per il trattamento dell’insufficienza cardiaca. L’utilità di tali centri si è dimostrata in numerosi studi randomizzati, che hanno evidenziato come i pazienti seguiti in questi centri presentavano una riduzione della mortalità, del numero di ospedalizzazioni per IC e per ogni altra causa e, di conseguenza, anche del costo sociale di ciascun malato. Il concetto su cui si basano questi centri e quello di un approccio multidisciplinare che coinvolge figure professionali differenti, considerando che nella maggior parte dei casi il paziente cardiopatico con insuffi-

- * Torino

cienza cardiaca è un anziano e quindi presenta problemi medici associati. Sebbene vi siano differenze tra i diversi centri nelle diverse nazioni, essi sono fondamentalmente strutturati su un gruppo di cardiologi con esperienza specifica nel trattamento dell’IC, su un servizio di assistenza infermieristica specializzato, un programma di educazione del paziente, ed un programma di collaborazione con i medici di base. Particolarmente importante è risultato essere il programma di educazione dei pazienti. Infatti, è stato osservato che gli stessi, se non opportunamente educati e seguiti nel tempo, spesso tendono a cessare spontaneamente l’assunzione dei farmaci prescritti, sia perché dopo un certo periodo dalla dimissione non presentano segni clinici, sia perché spesso la terapia è poli farmacologica e i pazienti hanno difficoltà a mantenere la stessa. In linea di principio le stesse difficoltà riscontrate in medicina umana possono essere riportate in medicina veterinaria. Presso il nostro laboratorio sono in corso 2 studi volti a valutare le differenze di diagnosi e di trattamento in cani riferiti per sospetti problemi cardiaci. Il primo studio include cani inviati per sospetta presenza di malattie cardiache o per controlli dell’apparato cardiovascolare prechirurgico in assenza di diagnosi di malattia cardiaca, presso il nostro centro. Il secondo è volto invece a descrivere la storia naturale dell’insufficienza mitralica (CMVD) in un gruppo di cani afferenti a 3 centri di referenza. Nel primo studio al momento sono stati inclusi 81 cani, di cui 47 di questi soggetti riferiti per sospetto di malattia cardiovascolare, mentre l’esame specialistico ha individuato 56 cani affetti da malattia cardiaca. Il sospetto diagnostico non ha coinciso con la diagnosi definitiva in 21 cani, mentre in 4 esso era solo in parte corretto. Tra i 56 cani con malattia cardiaca solo in 22 si è ritenuto che la sintomatologia riferita (es. tosse) fosse determinata dal problema cardiovascolare, mentre solo in 11 soggetti la terapia è stata considerata adeguata. Lo studio nel periodo dal gennaio 2000 al giugno 2005 condotto sui cani con CMVD al momento ha incluso 510 cani in classi differenti di IC. Di questi 261 sono stati classificati in classe I, 137 in classe II e 95 in classe III ISACHC. Centonovantre cani sono morti nel periodo di osservazione per cause cardiache, mentre 102 per problemi non direttamente correlati con la malattia cardiaca. I cani con CMVD in classe I hanno evidenziato una sopravvivenza significativamente migliore rispetto ai soggetti in classe II e III. L’analisi di questi dati conferma che, in modo analogo a quanto avviene nell’uomo,


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la CMVD può essere considerata una condizione relativamente benigna. Tra gli errori più comuni evidenziati in questi lavori sono stati riscontrati l’errata diagnosi e l’errata classificazione dello stadio dell’IC, l’utilizzo inadeguato dei farmaci ed il mancato monitoraggio dei pazienti in classi di IC avanzata. Per quello che concerne l’errata diagnosi sia di malattia cardiaca, sia di classificazione di IC, questa può essere riferita nella maggior parte dei casi ad un insufficiente iter diagnostico. In particolare solo il 50% dei soggetti dello studio 1 e meno del 50% dei cani nello studio 2 sono stati sottoposti ad esame radiografico del torace, che è considerato al momento l’esame di riferimento per la valutazione dei segni di scompenso (congestione ed edema polmonare), e la diagnosi in questi casi si basava solo sul rilievo clinico (es. presenza di un soffio). L’utilizzo inadeguato dei farmaci, includeva sia il loro mancato utilizzo, sia il loro sottodosaggio, sia la prescrizione quando non necessaria. L’analisi della terapia in 56 cani affetti da insufficienza mitralica cronica ha ad esempio evidenziato che 8 soggetti non ricevevano la furosemide, in 6 era sottodosata e in 8 era stata prescritta inappropriatamente, mentre per quello che concerne gli ACE-I in 12 soggetti essi non erano stati prescritti, in 16 erano sottodosati e in 10 erano stati prescritti inappropriatamente. Tali errori derivano sia da una diagnosi errata o insufficiente, sia da una mancanza di corretta informazione, infatti per quello che concerne gli ACE-I l’errata somministrazione includeva sempre soggetti in classe I, pazienti per i quali esistono studi pubblicati che hanno evidenziato come questa classe di farmaci non influenzi il decorso naturale della malattia. Il sottodosaggio dei farmaci dipende da molti fattori, tra cui il più importante la mancata conoscenza dei dosaggi massimi utilizzati negli studi pubblicati, che spesso sono il doppio dei dosaggi consigliati. Il sottodosaggio di un farmaco spesso conduce ad una ridotta efficacia, che induce spesso sia nel medico, sia nel paziente la sensazione che esso sia inutile. Per quello che concerne il monitoraggio dei 56 cani con malattia cardiaca del primo studio, solo 19 sono stati ricontrollati a 3 mesi, e di questi 3 sono stati sottoposti ad esame radiologico del torace, 4 ad esame ecocardiografico, 1 ad esame Holter, e 2 ad un nuovo esame specialistico. Sebbene 40 di questi cani fossero in classe 1 di IC, che generalmente non richiede un monitoraggio così frequente, è evidente

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come la percentuale di soggetti sottoposti a monitoraggio resti in ogni caso relativamente bassa. Il mancato monitoraggio può essere dovuto a ragioni differenti, tra cui la mancata collaborazione da parte del proprietario e il mancato coordinamento tra il medico veterinario di base e il centro specialistico. Nel primo caso la necessità di un adeguato programma di educazione del proprietario appare di importanza fondamentale, infatti i proprietari che hanno dimostrato maggiore interesse a comprendere le motivazioni delle prescrizioni, nonché a riconoscere i segni clinici che individuano un eventuale peggioramento della condizione di IC, erano anche quelli più disponibili ad un monitoraggio attento. Per quello che concerne il mancato coordinamento tra il centro specialistico e il veterinario di base, l’analisi preliminare dei dati dei 2 studi in corso evidenzia la necessità di una comunicazione costante tra le 2 unità, al fine di ottimizzare la terapia basandosi anche su quanto riscontrato nel corso delle visite cliniche periodiche. Sotto questo aspetto appare auspicabile che tale comunicazione si eserciti anche attraverso la produzione di materiale informativo, volto ad aiutare il veterinario non specialista a focalizzare l’attenzione dei controlli su aspetti specifici. In conclusione, sebbene rispetto ad altre patologie comuni in medicina veterinaria il trattamento dell’IC nel cane sia facilitato dall’esistenza di una notevole mole di dati pubblicati, dagli studi in corso appare evidente che, così come per l’uomo, l’ottimizzazione del trattamento non sia applicata in un’elevata percentuale di soggetti affetti da IC. È da osservare che l’ottimizzazione dell’approccio terapeutico risulta in una migliore qualità della vita non solo dei nostri pazienti, ma anche dei proprietari degli stessi, che spesso devono modificare le loro abitudini in conseguenza della malattia dei propri animali. Inoltre il riconoscimento corretto dei soggetti che necessitano di una terapia rispetto a quelli per cui essa non è necessaria, condurrebbe ad una riduzione della spesa farmaceutica delle famiglie in considerazione del fatto che molti dei cani affetti da malattia cardiaca spesso non richiedono terapia. È quindi auspicabile che in futuro anche in medicina veterinaria, si possano elaborare progetti pilota che coinvolgano i centri specialistici, le strutture veterinarie di base e programmi di educazione per i proprietari degli animali affetti da malattie cardiovascolari.


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L’insufficienza cardiaca nel cane: riconoscimento e classificazione Michele Borgarelli Med Vet, PhD, Dipl ECVIM-CA (Card.), Torino

L’insufficienza cardiaca (IC) rappresenta una condizione fisiopatologica nella quale una anomalia della funzione cardiaca è responsabile della insufficienza del cuore a pompare il sangue in quantità adeguata alle richieste metaboliche dei tessuti, oppure ci riesce solo ad una pressione di riempimento elevata. Sebbene le conoscenze concernenti i meccanismi fisiopatologici e le modalità di trattamento dell’IC siano progredite in modo significativo negli ultimi 20 anni, questa condizione continua a rappresentare una delle principali cause di morbilità e di morte sia nell’uomo sia negli animali da compagnia, in particolare nei soggetti anziani. L’insufficienza cardiaca infatti è oggi considerata come una sindrome complessa, determinata dall’attivazione di meccanismi neuro-ormonali complessi, la cui conoscenza è essenziale al fine di ottimizzare la terapia. Sotto questo aspetto la disponibilità di nuovi farmaci nonché le aumentate conoscenze dei loro effetti sulla regolazione neuro-ormonale consentono oggi di trattare pazienti con IC grave in modo tale da ridurre la sintomatologia garantendo una adeguata qualità di vita e nell’uomo di prolungare anche le aspettative di vita. È interessante ricordare che in medicina umana sono nati centri specifici per il trattamento dell’insufficienza cardiaca, e che studi recenti hanno dimostrato come la mancata ottimizzazione della terapia per il trattamento di questa condizione determini la morte di un paziente su 8. In medicina veterinaria l’insufficienza cardiaca è determinata prevalentemente dall’insufficienza mitralica cronica (DVD) e dalla miocardiopatia dilatativa (DCM) nel cane, e dalla cardiomiopatia ipertrofica (CMPI) e restrittiva (CMPR) nel gatto. È importante sottolineare che la presenza di una malattia cardiaca non implica necessariamente la presenza

di una condizione di insufficienza cardiaca, di conseguenza non tutti i soggetti affetti da malattie cardiovascolari debbono essere trattati. Al fine di definire meglio il rischio per pazienti con insufficienza cardiaca, sono stati proposti diversi schemi di classificazione della stessa. In origine si è cercato di adattare il sistema utilizzato nell’uomo (New York Heart Association, NYHA), poiché però questo richiede la descrizione di sintomi da parte del paziente, tale schema è stato più volte modificato al fine di essere utilizzato in medicina veterinaria. Negli anni ’90, in seguito al riconoscimento che l’insufficienza cardiaca rappresenta una condizione frequente negli animali da compagnia, un gruppo di cardiologi veterinari (International Small Animal Cardiac Health Council, ISACHC) si è riunito ed ha proposto un nuovo schema di classificazione, specificamente dedicato alla medicina veterinaria. Tale schema tuttavia non è stato adottato da tutti, e ancora oggi molti lavori pubblicati presentano schemi adattati dalla NYHA. Nel complesso tale situazione ha creato confusione soprattutto nell’ambito del mondo della medicina di base. Nel 2005 un nuovo gruppo di studio il Canine Heart Failure International Expert Forum (CHIEF) si è riunito con lo scopo di elaborare e proporre un sistema di classificazione dell’insufficienza cardiaca nonché alcune linee guida per il suo trattamento. Tale proposta sarà presentata in questa relazione. Qualsiasi sia il sistema di valutazione adottato va ricordato comunque che l’ottimizzazione della terapia dell’IC, richiede da un lato, che ogni paziente affetto sia considerato attentamente come singolo, e dall’altro una conoscenza approfondita dell’azione dei farmaci impiegati, nonché dei meccanismi alla base delle diverse patologie cardiovascolari.


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Diagnosi citologica delle patologie nasali e rinofaringee tramite schiacciamento da biopsia endoscopica Enrico Bottero Med Vet, Cuneo

Davide De Lorenzi, SCMPA, Dipl ECVCP, Forlì

I tumori della cavità nasale e dei seni paranasali nel cane rappresentano il 2% di tutti i tumori. Le razze dolicocefale, e segnatamente il Collie, il pastore delle Shetland, il Golden Retriever ed il Pastore Tedesco sembrano essere a maggior rischio di insorgenza. Queste neoplasie colpiscono gli animali anziani, con un’età media di 10 anni. Alcuni studi hanno evidenziato una lieve predisposizione nei cani di sesso maschile. L’eziologia è sconosciuta; è stato ipotizzato che le particelle atmosferiche inquinanti ed il fumo passivo possano avere un ruolo predisponente, vista la maggior insorgenza negli animali residenti in ambiente urbano. Nel cane circa l’80% dei tumori nasali e paranasali è maligno; tra questi l’istotipo principale è quello epiteliale che ne rappresenta circa il 60-75%. Tra i tumori epiteliali l’adenocarcinoma è il più frequente. I tumori di origine mesenchimale rappresentano circa il 20-30% dei tumori nasali e paranasali e, tra questi, il condrosarcoma è il più frequentemente rappresentato. A carico delle cavità nasali sono anche segnalati, seppur più raramente, tumori a cellule rotonde e tumori di origine neuroendocrina. Queste neoplasie manifestano una notevole aggressività locale, con tendenza ad invasione dei tessuti circostanti e, a volte, dell’encefalo, ma un basso indice metastatico che, ovviamente, aumenta con la progressione della patologia. Le metastasi possono coinvolgere i linfonodi regionali, i polmoni e, raramente, gli organi intraddominali. La presentazione clinica è spesso insidiosa con segni aspecifici e progressivamente aggravantesi. L’impedimento del passaggio della colonna d’aria, lo scolo nasale, l’epistassi e lo starnuto sono rispettivamente i segni clinici maggiormente segnalati. Purtroppo tali segni sono normalmente presenti anche in altre patologie nasali e paranasali di origine infiammatoria infettiva e non, come le riniti micotiche o i corpi estranei endonasali. Risulta quindi fondamentale una diagnosi precoce. Un corretto approccio richiede la raccolta di una anamnesi approfondita, una accurata indagine clinica, il ricorso a tecniche di diagnostica per immagine ed all’esame endoscopico allo scopo di visualizzare direttamente eventuali lesioni endonasali e di prelevare campioni per le valutazioni microscopiche cito-istologiche che, di regola, consentono di ottenere una diagnosi definitiva. L’acquisizione di campioni significativi, ovvero rappresentativi della patologia in corso, rappresenta un fattore critico; dal punto di vista bioptico-citologico esistono numerose tecniche di prelievo dalle cavità nasali, ma in generale, quasi tutte portano a prelievi superficiali e spesso non indicativi della patologia in atto.

Il presente lavoro si pone l’obiettivo di valutare l’efficacia di un campionamento citologico eseguito tramite schiacciamento di frammenti di tessuti ottenuti da biopsie (c.d. “squash prep”) effettuate durante rinoscopia.

Materiali e metodi Il lavoro è stato impostato partendo dal riesame delle cartelle cliniche di cani e gatti che, nel periodo gennaio 2002dicembre 2005, sono stati sottoposti a rinoscopia per aver presentato sintomi clinici riferibili ad affezioni rino-sinusali (starnuti, scolo nasale, rinorragia, rumori respiratori, deformazioni del profilo fronto-nasale). Nello studio sono stati inseriti i pazienti che, all’esame endoscopico sia anterogrado che retrogrado, avevano presentato quadri riferibili a presenza di neoformazioni endonasali o rinofaringee oppure erosioni dei turbinati endonasali, mentre sono stati esclusi tutti quei casi nei quali la topografia e la morfologia delle strutture endonasali e rinofaringee non mostravano alterazioni endoscopicamente rilevabili. Sono stati inoltre esclusi dallo studio tutti quei casi dove non erano stati eseguiti sia l’esame citologico che quello istologico e quelli dove l’esame istologico dava un referto non conclusivo o dubbio. In tutti i pazienti l’esame endoscopico ha sempre fatto seguito all’indagine radiografica eseguita in anestesia generale inalatoria su tre proiezioni (laterolaterale sx-dx, a bocca aperta, sky-line) o da studio su tomografia computerizzata pre- e post-contrasto. L’endoscopia anterograda è stata eseguita con ottiche rigide (K. Storz - diametro 2.7 mm, lunghezza 18 cm, visione frontale 30°, cat n° 64018BS e K. Storz – diametro 1.7 mm, lunghezza 9 cm, visione frontale 30°, cat n° 6331BS) mentre la rinofaringoscopia è stata eseguita con un fibroendoscopio (K. Storz – diametro 5.5 mm, lunghezza 80 cm, cat n° 60001VL). I campioni di tessuto sono stati prelevati attraverso campionamento con pinza bioptica con branche orali fenestrate del diametro di 2 mm, sotto visione endoscopica diretta. I preparati citologici sono stati allestiti con tecnica per schiacciamento: uno o più campioni bioptici sono stati appoggiati su di un vetrino portaoggetti, mentre un secondo vetrino è stato usato per schiacciare i frammenti tessutali; i due vetrini sono stati poi staccati senza farli strisciare, allontanandoli l’uno dall’altro. Per ogni lesione individuata erano disponibili ameno 2 campioni citologici adeguati. I campioni sono quindi stati colorati con May Grunwald-Giemsa in coloratrice automatica (7100 Aerospray® Slide Stainer – Wescor- Logan, Utah) ed


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Tabella 1 SENSIBILITÀ: 89,2% SPECIFICITÀ: 95% Valore Predittivo Positivo: 98% Valore Predittivo Negativo: 76% ACCURATEZZA: 90,7% ISTOLOGIA

Totale casi (cani + gatti)

CITOLOGIA

Neoplastico

Non neoplastico

Neoplastico

50 VP

1 FP

Non neoplastico

6 FN

19 VN

osservati al microscopio. I campioni istologici sono stati fissati in formalina tamponata al 10%, inclusi in paraffina e processati per l’esame istologico. Sezioni dello spessore di 5 µm colorate con ematossilina-eosina sono state esaminate da un patologo non a conoscenza della diagnosi citologica. Le diagnosi citopatologiche sono state confrontate con quelle istopatologiche e sono stati valutati statisticamente gli indici di accuratezza diagnostica (sensibilità, specificità, valore predittivo positivo, valore predittivo negativo ed accuratezza) considerando la diagnosi istologica come “gold standard”.

Risultati Nello studio sono stati inseriti 76 animali, 51 cani (33 maschi e 18 femmine) con una età media di 7,6 anni (età minima 3 mesi ed età massima 15 aa) e 25 gatti (14 maschi e 11 femmine) con una età media di 8,5 anni (età minima 1 anno ed età massima 16 anni). Nella tabella 1 sono raccolti i risultati relativi alla corretta individuazione di una neoplasia tramite esame citologico nella popolazione totale; sono stati inoltre valutati i risultati separatamente nella popolazione canina e felina. Il lavoro ha anche valutato la sensibilità e specificità dell’esame citologico nell’individuazione del corretto citotipo neo-

plastico sia nella popolazione totale degli animali esaminati che rispettivamente nella sola popolazione canina e felina. Complessivamente l’esame citologico per schiacciamento ha dimostrato di essere una buona tecnica sia per l’individuazione delle condizioni neoplastiche endonasali e rinofaringee, sia per l’identificazione del citotipo. Diversamente dal nostro studio, i pochi lavori bibliografici pubblicati su questo argomento indicavano una scarsa sensibilità dell’esame citologico soprattutto nell’identificazione delle neoplasie endonasali di origine mesenchimale; la nostra ipotesi è che la tecnica per schiacciamento da biopsia endoscopica permetta un campionamento di materiale in maggiore quantità e meglio conservato e quindi una migliore valutazione delle caratteristiche citomorfologiche delle cellule neoplastiche mesenchimali che, per loro natura, esfoliando poco sono meno campionabili con le tecniche di apposizione e di brushing. I risultati statistici e le considerazioni citologiche verrano discussi approfonditamente nel corso della presentazione. Indirizzo per la corrispondenza: Enrico Bottero Clinica Veterinaria Albere Via Vivaro 25, Alba Tel. 0173/35122 E-mail: botvet@libero.it


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Gli anestetici oppiacei tradizionali Antonello Bufalari Med Vet, PhD, Perugia

Chiara Adami, Med Vet, Perugia Giovanni Angeli, Med Vet, PhD, Perugia Antonio Di Meo, Med Vet, Perugia MORFINA La morfina è un agonista puro e rappresenta il capostipite degli oppiacei. Nonostante l’uso degli oppioidi di sintesi sia sempre più diffuso in medicina veterinaria, il costo contenuto e l’efficacia analgesica e sedativa della morfina ne giustificano ancora il largo impiego. La molecola è scarsamente liposolubile, pertanto la concentrazione massima nel sistema nervoso è raggiunta lentamente; ciò giustifica la lenta latenza d’azione (l’effetto massimo si osserva dopo circa 40-60 min dalla somministrazione), ma anche il persistere per lungo tempo degli effetti. La dose analgesica (0,1-1 mg/kg nel cane e 0,05 0,1 mg/kg nel gatto) produce un effetto di durata variabile dalle 4 alle 6 ore nel cane e dalle 6 alle 8 ore nel gatto. Inibisce i centri bulbari del respiro provocando, anche a dosaggi terapeutici, riduzione del volume tidalico e ipercapnia. La depressione del centro vasomotore, unitamente al potenziale rilascio di istamina, giustifica la spiccata azione ipotensiva del farmaco, mentre la stimolazione diretta del centro del vomito (CTZ, pavimento del quarto ventricolo), spiega la nausea e le frequenti crisi di vomito nei pazienti trattati. Come per la meperidina, la somministrazione per via endovenosa, può causare ipotensione marcata e liberazione di istamina. Nel gatto si preferisce evitare la via EV. Tra gli effetti collaterali si annoverano anche bradicardia, probabilmente per stimolazione diretta dei centri vagali, e riduzione della motilità gastrointestinale. È metabolizzata in sede epatica tramite reazioni di coniugazione; pertanto la sua emivita nel gatto è di durata maggiore rispetto al cane (3 ore contro 60 minuti). Inoltre, nella specie felina la metabolizzazione epatica favorisce la formazione di metaboliti attivi particolarmente potenti (Richmond, 1993). Da tutto ciò si evince come, nella specie felina, sia relativamente più facile incorrere in fenomeni di sovraddosaggio.

BUTORFANOLO Il butorfanolo è un oppioide di sintesi debole antagonista verso i recettori µ, dotato di attività agonista verso i recettori k (analgesia sopraspinale). La sua potenza analgesica è da 3 a 5 volte superiore rispetto a quella della morfina; tuttavia, mentre si rivela un ottimo farmaco per il trattamento del dolore viscerale, presenta invece scarsa efficacia nei confronti del dolore somatico (Carrol et al., 1998; Ansah et al., 2002). Le proprietà sedative rendono il butorfanolo un farmaco molto indicato in premedicazione. Inoltre, essendo anche un potente farmaco antitussigeno è indicato per il trattamento di pazienti con irri-

tazione delle prime vie respiratorie. Ai dosaggi indicati (0,20,4 mg/kg sia nel cane, sia nel gatto) gli effetti del farmaco hanno durata variabile da 60 a 120 min. Tuttavia, dosi superiori a 0,5 e 0,8 mg/kg non si traducono in un incremento della efficacia e della durata dell’analgesia (effetto tetto). La depressione respiratoria indotta dal butorfanolo, così come gli effetti collaterali rivolti all’apparato cardiovascolare, sono di minor entità rispetto a quelli provocati dalla morfina. Il metabolismo epatico produce due metaboliti principali, idrossibutorfanolo e norbutorfanolo, nessuno dei quali conserva le proprietà antidolorifiche della molecola d’origine. L’eliminazione avviene prevalentemente per via urinaria, e solo in minima parte (dall’11 al 14%) tramite escrezione biliare.

BUPRENORFINA La buprenorfina è un agonista parziale dalle buone proprietà analgesiche. Si lega avidamente ai suoi recettori; pertanto è difficilmente antagonizzabile da parte degli antidoti tradizionali. Questo comporta che, se l’effetto analgesico si rivela insufficiente, la somministrazione di altri oppiacei alle dosi consigliate potrebbe comportare una nulla o ridotta azione degli stessi. Per contro può essere vantaggiosamente impiegato esso stesso come antidoto o antagonista in caso di sovradosaggio da oppiaceo agonista. Ai dosaggi terapeutici (5-20 mcg/kg nel gatto, 10-20 mcg/kg nel cane) produce effetti di durata variabile dalle 6 alle 8 ore. Il picco dell’effetto antidolorifico si osserva dopo circa 30-40 minuti dalla somministrazione parenterale; ne consegue che, per evitare risvegli particolarmente agitati, è opportuno calcolare con precisione il momento in cui è necessaria l’analgesia. L’impiego epidurale prolunga l’azione analgesica fino a 18-24 ore. Recenti studi clinici hanno dimostrato che nella fase postoperatoria la buprenorfina è un analgesico più efficace della morfina nel gatto (Stanway et al., 2002; Slingsby et al., 1998). La somministrazione di dosaggi elevati può determinare la comparsa di lieve depressione respiratoria.

MEPERIDINA La meperidina è un oppioide di sintesi agonista puro, che possiede circa 1/10 della potenza analgesica della morfina (Lascelles et al., 1994). Nonostante la brevità di durata d’azione (circa 90-120 min) e la ridotta efficacia analgesica, la sua validità clinica risiede nella mancanza di effetti collate-


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rali spiacevoli e nelle eccellenti proprietà sedative e spasmolitiche alle dosi terapeutiche (1-5 mg/kg). Il farmaco, infatti, non altera la motilità gastrointestinale e non determina vomito, tuttavia, se somministrata rapidamente per via endovenosa, può causare ipotensione marcata e liberazione di istamina. La meperidina e impiegata nell’uomo per ridurre efficacemente il brivido post-operatorio in quanto abbassa la soglia del brivido. È metabolizzata per demetilazione in sede epatica, ed è ben tollerata sia nel cane sia nel gatto.

METADONE Ha proprietà analgesiche simili alla morfina mentre gli effetti sedativi risultano particolarmente buoni e marcati. Non determina rilascio di istamina se impiegato per via EV. Con un dosaggio di 0,1-1 mg/kg (cane e gatto) la durata d’azione è di 2-6 ore.

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OSSIMORFONE L’ossimorfone è un agonista puro semisintetico circa 10 volte più potente della morfina. Mentre è ampiamente impiegato negli USA, non è disponibile in Europa. Associa valide proprietà sedative ed elevata efficacia analgesica, determinando minor effetto ipnotico e depressione respiratoria rispetto alla morfina (Machado et al., 2006). Può essere somministrato per via parenterale o epidurale, e ai dosaggi consigliati (0,05-0,2 mg/kg nel cane, 0,05-0,4 mg/kg nel gatto) produce una analgesia efficace ma di breve durata (circa 2 ore).

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Indirizzo per la corrispondenza: Antonello Bufalari Sezione di Clinica Chirurgica e Radiodiagnostica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria di Perugia, Via S. Costanzo 4, 06126 Tel/fax 075/5857710, abufalar@unipg.it


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Gli anestetici oppiacei di nuova generazione Antonello Bufalari Med Vet, PhD, Perugia

Chiara Adami, Med Vet, Perugia Salvatore Padua, Med Vet, Perugia Antonio Di Meo, Med Vet, Perugia

Gli analgesici oppiacei esplicano la loro azione farmacologica legandosi ai recettori per gli oppioidi stereospecifici presenti a livello centrale e periferico. Gli effetti dipendono dal tipo di recettori coinvolti, dalla loro localizzazione e dalla selettività del legame con essi. Il meccanismo d’azione consiste in una modulazione inibitoria della trasmissione sinaptica nel SNC. In particolare, a livello pre-sinaptico gli oppiacei determinano una diminuzione della liberazione dei neurotrasmettitori eccitatori (principalmente la sostanza P ed il glutammato). Inoltre, inibiscono l’attività dell’adenilato-ciclasi, cui conseguono diminuzione della produzione di AMPc e, dunque, iperpolarizzazione di membrana neuronale, caratterizzata da riduzione della capacità di scarica, tramite apertura dei canali del potassio, ad opera degli agonisti µ e δ, e per chiusura delle correnti dei canali del calcio ad opera degli agonisti k.

CLASSIFICAZIONE DEGLI OPPIACEI In base al tipo di legame con i recettori specifici, gli oppiacei vengono distinti in tre classi: agonisti puri, agonisti parziali e agonisti antagonisti, antagonisti. • Agonisti puri: questo gruppo include molecole caratterizzate da una elevata affinità nei confronti dei recettori µ, ma in grado di legarsi anche ai recettori k e δ. Appartengono a questa classe la morfina, la meperidina, l’ossimorfone, la codeina, il metadone, il fentanyl, l’alfentanil, il sufentanil, il remifentanil. • Agonisti parziali ed agonisti- antagonisti: le molecole appartenenti a questo gruppo si comportano da agonisti nei confronti di alcuni recettori, e da antagonisti nei confronti di altri, oppure manifestano solo una debole e parziale attività agonista. Sono agonisti-antagonisti il butorfanolo, la pentazocina e la nalbufina; mentre la buprenorfina è un agonista parziale verso i recettori µ. • Antagonisti: questi farmaci si legano al recettore senza tuttavia attivare la trasduzione del segnale; pertanto, non sono in grado di produrre alcun effetto. Vengono impiegati per antagonizzare gli effetti degli altri oppioidi. Appartengono a questa categoria il naloxone, il naltrexone e il nalmefene; la loro azione antagonista è rivolta principalmente nei confronti dei recettori µ ed, in misura minore, verso i recettori δ e k.

GLI OPPIACEI DI NUOVA GENERAZIONE Fentanyl Il fentanyl citrato (Fentanest) è un narcotico di sintesi e possiede una potenza pari a circa 100 volte quella della morfina. È un agonista puro dei recettori µ e viene impiegato come analgesico e blando sedativo in particolar modo nel cane.

Farmacocinetica Agisce rapidamente dopo somministrazione endovenosa o intramuscolare (3-5 minuti), ed è caratterizzato, in virtù della spiccata liposolubulità, da una breve durata d’azione, compresa tra i 5 ed i 20 minuti, in relazione alla dose. Si lega in elevata percentuale alle proteine plasmatiche e subisce una significativa ridistribuzione tissutale; da ciò si evince che la velocità di eliminazione del farmaco è piuttosto variabile. Viene metabolizzato a livello epatico mediante reazioni di dealchilazione ed idrossilazione, ed i suoi metaboliti sono escreti prevalentemente con le urine. L’emivita di eliminazione è di 2-4 ore. Tuttavia, l’emivita di eliminazione terminale è relativamente lunga ed aumenta in maniera esponenziale dopo una o due ore di infusione continua; ciò suggerisce che i dosaggi dovrebbero essere ridotti trascorse due ore di infusione (Nolan,2000).

Effetti collaterali Il fentanyl può indurre una depressione respiratoria dosedipendente che si manifesta con riduzione della frequenza respiratoria e del volume tidalico, aumento della ETCO2 e, nei casi più gravi, apnea. La depressione respiratoria può persistere anche una volta cessata l’azione analgesica; pertanto il monitoraggio del paziente dovrebbe protrarsi anche oltre il termine dell’intervento chirurgico. Analogamente agli altri oppioidi che inibiscono la funzionalità respiratoria, il fentanyl non è indicato in pazienti affetti da trauma cranico che presentino edema o aumento della pressione intracranica, poiché l’ipercapnia determina aumento della perfusione cerebrale. Ad eccezione dell’effetto bradicardizzante, il farmaco a dosaggi terapeutici produce effetti minimi sul sistema cardiovascolare; tuttavia può comparire ipotensione, seppure transitoria, qualora si somministri l’oppioide per via endovenosa in associazione ai barbiturici. Complessivamente il farmaco esercita un’azione simpaticolitica; pertanto tra gli altri possibili effetti collaterali si annoverano rilascio dello sfintere anale e scialorrea.


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Sufentanil Il sufentanil citrato (Fentatienil) è un oppioide agonista puro, analogo tienilico del fentanyl. Studi in vitro hanno dimostrato che la selettività di questo farmaco per i recettori µ è superiore a quella di fentanyl, morfina, meperidina e metadone. Studi in vivo nel cane hanno rilevato che la potenza del sufentanil è 625 volte superiore a quella della morfina e circa 5 volte superiore a quella del fentanyl.

Farmacocinetica e farmacodinamica Questo farmaco è più liposolubile del fentanyl. Viene metabolizzato a livello epatico, soprattutto attraverso reazioni di dealchilazione e di demetilazione. Nel cane la maggior parte dei metaboliti viene eliminata con le urine (60%) Si lega in elevata percentuale alle proteine plasmatiche, e possiede un’emivita di 2-3 ore (Bailey e Stanley, 1994).

Effetti collaterali Gli effetti cardiovascolari e respiratori sono simili a quelli del fentanyl (Abdul-Rasool, 1989). La durata degli effetti respiratori è uguale od inferiore rispetto a quella dell’effetto analgesico. Se comparato al fentanyl, tuttavia, il sufentanil sembra produrre una minore depressione respiratoria nei pazienti umani (Bailey et al., 1986), e dimostra di avere un margine di sicurezza cardiovascolare superiore nel cane sottoposto ad analgesia chirurgica profonda (Monk, 1988). È opportuno, in ogni caso, intubare preventivamente il paziente per poterlo ventilare in caso di necessità. Gli effetti emodinamici del sufentanil nel cane sono minimi, anche con l’impiego di dosi elevate, se si esclude la bradicardia vago mediata. Tuttavia, l’associazione con altri farmaci anestetici ad azione ipotensiva (propofol o isofluorano), potrebbe determinare un significativo calo della pressione ematica. Tra gli effetti collaterali si fa menzione all’affanno, probabilmente causato dall’attivazione del centro termoregolatore ipotalamico, che viene riscontrato con maggior frequenza nei pazienti non affetti da dolore (Lascelles, 2000).

Alfentanil L’alfentanil cloridrato (Fentalim) è un derivato fenilpiperidinico analogo del fentanyl. È un oppioide agonista puro dei recettori µ (Branson, 2001).

Farmacocinetica e farmacodinamica L’alfentanil agisce rapidamente dopo somministrazione in vena (circa 1-2 minuti), e durante l’infusione endovenosa raggiunge concentrazioni plasmatiche stabili in circa 10-15 minuti. La percentuale di legame con le proteine plastiche è superiore a quella del fentanyl; tale legame, inoltre, è meno influenzato dal pH rispetto a quanto avviene per il fentanyl ed il sufentanil. Metabolismo ed eliminazione avvengono in maniera analoga a fentanyl e sufentanil.; tuttavia, il ridotto volume di distribuzione rende l’eliminazione del farmaco rapida e la sua durata d’azione breve. Inoltre, non dà luogo a fenomeni di accumulo rilevanti, neppure in caso di infusioni prolungate.

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Effetti collaterali L’alfentanil ha un maggiore potere vagotonico rispetto al fentanyl e ciò può rendere necessaria la somministrazione di anticolinergici al fine di prevenire bradiaritmie clinicamente significative. Similmente agli altri oppiacei di sintesi, anche l’alfentanil può indurre una depressione respiratoria dose dipendente.

Remifentanil Il remifentanil cloridrato (Ultiva) è un oppioide di sintesi derivato della 4-anilidopiperidina che agisce sui recettori µ. La potenza analgesica del remifentanil è intermedia tra quella del fentanyl e dell’alfentanil.

Farmacocinetica e farmacodinamica Il remifentanil possiede un onset time pari a circa un minuto, si equilibra rapidamente tra il cervello ed il sangue, ed ha un ridotto volume di distribuzione. Nella struttura chimica del remifentanil è presente un estere metilico molto labile che rende il farmaco suscettibile di idrolisi da parte di esterasi eritrocitarie e tissutali aspecifiche; ne consegue che il metabolismo del farmaco avviene in misura rilevante già in tessuti come muscolo, intestino e cervello, mentre il fegato offre un contributo trascurabile (Chism, 1996). Possiede un metabolica attivo, il GR90291, escreto dal rene, e dotato anch’esso di un’azione µ agonista, tuttavia di potenza trascurabile rispetto al remifentanil.

Effetti collaterali Gli effetti collaterali riportati in letteratura per il remifentanil sono sovrapponibili a quelli degli altri oppioidi agonisti (Esca, 2003). Tuttavia, diversamente dagli altri agonisti puri, è di comune riscontro la rapida ripresa della normale funzionalità respiratoria appena l’infusione del farmaco viene interrotta.

CONCLUSIONI Dal confronto tra gli oppiacei agonisti puri di nuova generazione emerge che il sufentanil fornisce una analgesia di qualità superiore rispetto al fentanyl, risultando anche più maneggevole e sicuro riguardo agli effetti sull’apparato cardiovascolare. L’associazione con gli alogenati volatili, in particolare l’isofluorano, può tuttavia esacerbare la depressione respiratoria già provocata dagli oppioidi agonisti; pertanto, in sede intraoperatoria, è preferibile sottoporre il paziente a IPPV al fine di prevenire o trattare eventuali bradipnea e ipercapnia. Confrontando inoltre la qualità del risveglio in pazienti sottoposti ad interventi chirurgici caratterizzati da una significativa stimolazione algica, rispettivamente in pazienti trattati e non con oppioidi di sintesi, si evince come l’utilizzo degli agonisti puri costituisca un aspetto imprescindibile dell’anestesia moderna, combinando una potente azione analgesica alla sicurezza di un protocollo efficace e versatile.


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Indirizzo per la corrispondenza: Antonello Bufalari Sezione di Clinica Chirurgica e Radiodiagnostica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria di Perugia Via S. Costanzo 4, 06126 Tel/fax 075/5857710, abufalar@unipg.it


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Chirurgia dei sarcomi dei tessuti molli Paolo Buracco Med Vet, Dipl ECVS, Torino

SARCOMI DEI TESSUTI MOLLI Tale gruppo comprende: fibroma/fibrosarcoma, schwannoma benigno e maligno, lipoma/liposarcoma, emangioma/emangiosarcoma, leiomioma/leiomiosarcoma, rabdomiosarcoma e istiocitoma fibroso maligno; si segnala inoltre l’emangiopericitoma che si riscontra nel cane tipicamente a livello degli arti, più di rado in altre parti del corpo. Il gatto più frequentemente è colpito da: fibrosarcoma (che nei gatti giovani può essere multiplo e causato da Feline Sarcoma / Feline Leukemia Virus mentre nei soggetti più anziani è in genere solitario e non virus-indotto) e istiocitoma fibroso maligno; si ricorda inoltre il sarcoma post-iniettivo, tipico a livello delle aree utilizzate per le iniezioni sottocutanee 1,2,3. La maggior parte di queste neoplasie è caratterizzata da comportamento clinico-biologico sovrapponibile, con moderato-basso indice mitotico (crescita lenta) e metastatico ma alta capacità infiltrativa locale con “pseudocapsula” periferica (microscopicamente costituita per lo più da cellule tumorali compresse). Per limitare le recidive, è assolutamente necessario operare escissioni en bloc comprendenti un ampio margine di tessuto macroscopicamente sano tutto intorno la neoplasia. Nonostante la chirurgia rappresenti la modalità di trattamento caratterizzata dal maggior tasso di controllo neoplastico, l’approccio multimodale (associazione con chemio- e/o radioterapia preoperatoria – neoadiuvante – e/o postoperatoria - adiuvante) è spesso in grado di ottenere risultati migliori in termini sia di “periodo libero da malattia” sia di “sopravvivenza complessiva”.

PIANIFICAZIONE DELLA CHIRURGIA Nel pianificare l’escissione di una neoplasia è opportuno considerare 1) il suo comportamento biologico-clinico standard, 2) che la prima chirurgia è quella con le maggiori probabilità di risultare efficace, 3) che la sua escissione en bloc può implicare la rimozione dell’osso sottostante, con necessità di pianificare sia la fase demolitiva sia quella ricostruttiva. Per questo è opportuno considerare il deficit funzionale post-chirurgico arrecato all’animale (compatibilità o meno con una qualità di vita normale, indipendentemente dall’età del soggetto che, a priori, non rappresenta un fattore limitante se le condizioni cliniche sono buone), le diverse tecniche di ricostruzione applicabili, l’opportunità o meno di trattamenti neo- e/o adiuvanti e l’esito oncologico più probabile (“tempo libero da malattia”, “sopravvivenza totale” – dati della letteratura e esperienza personale). Il controllo della metastasi si opera mediante chemioterapia, quello della reci-

diva locale con l’irradiazione. Per decidere se un secondo intervento chirurgico (se ancora effettuabile) o l’irradiazione siano o meno opportuni, i margini di escissione devono essere valutati istologicamente. Per questo, al termine della chirurgia, le parti dove possibile è l’infiltrazione neoplastica residua sono identificate con inchiostro di china; alcuni punti di sutura sono utilizzabili per l’orientamento spaziale del campione. L’esito istologico (tumore escisso in toto o incompletamente) rappresenta un importante fattore prognostico post-chirurgico e può indirizzare il clinico sul comportamento più opportuno da assumere. Nel pianificare la chirurgia questi aspetti vanno preventivamente considerati e spiegati chiaramente al proprietario. Ciò implica che, relativamente al tumore primario, 1) la diagnosi sia già stata formulata prima di operare, 2) che esso sia stato clinicamente stadiato e 3) che siano noti al clinico i risultati che statisticamente si possono ottenere dall’applicazione dei diversi protocolli terapeutici. Pertanto, se ad esempio il proprietario non è disponibile sin dall’inizio a intraprendere il trattamento radioterapico qualora l’escissione incompleta rappresenti l’esito più probabile della chirurgia, in taluni casi può risultare preferibile non operare alcuna escissione chirurgica in quanto l’inevitabile recidiva è precoce e più aggressiva rispetto alla neoplasia originale. Il risultato netto è infatti un accorciamento della sopravvivenza complessiva del paziente. Si tenga infine presente che se si opera una chirurgia palliativa, solo di rado applicata in medicina veterinaria, l’esito deve per lo meno essere un miglioramento della qualità di vita del paziente per un tempo accettabile.

Trattamento chirurgico dei sarcomi dei tessuti molli La loro asportazione può essere operata in forma 1) citoriduttiva: alcune neoplasie possono non essere rimosse en bloc a causa della loro localizzazione. Se si opta per l’escissione incompleta o “a pezzi”, il successivo controllo deve essere operato mediante trattamenti adiuvanti (chemio- e/o radio-terapia) di comprovata efficacia. Talvolta si può tentare un trattamento neoadiuvante (irradiazione) al fine di rendere la neoplasia operabile in un secondo momento ma ciò è raramente possibile. L’asportazione “a pezzi” è l’unica forma di escissione possibile in caso di lipoma infiltrante 2) marginale: il tumore residuo è evidente istologicamente (scollamento eseguito lungo la pseudocapsula). Dopo solo escissione chirurgica, la recidiva è praticamente certa (fatta “forse” eccezione per alcuni emangiopericito-


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mi). L’invasione neoplastica vascolare può dare origine a metastasi “satellite” nella zona di reattività peritumorale o, peggio, a lesioni più distanti (cioè nel tessuto sano, c.d. “skip” metastasi). La procedura è idealmente corretta solo per le lesioni benigne; in caso di malignità locale, qualora non sia possibile eseguire la rimozione del tumore in altro modo, è indicata l’irradiazione adiuvante (post-chirurgica) 3) curativa: è quella che prevede l’escissione en bloc del tumore con 2-4 cm di tessuto microscopicamente sano intorno al tumore. Spesso, l’escissione en bloc implica la rimozione dell’osso sottostante (scapulectomia, pelvectomia, rimozione di coste, etc) fino all’amputazione dell’intera parte (arto) o l’asportazione a pieno spessore di parti di parete (toracica o addominale). La procedura rispetta idealmente uno dei principi cardine della chirurgia oncologica ma “skip” metastasi possono ancora svilupparsi ed essere omesse durante la chirurgia. TAC e RMN trovano ampio utilizzo nel pianificare correttamente la procedura. La chemioterapia può essere indicata per il controllo delle metastasi sistemiche. Quando la chirurgia è eseguita con intento curativo, il primo principio da osservare è asportare ogni parte sospetta. Qui di seguito sono elencate le linee guida generali più importanti: - non operare in anestesia locale. Nei pazienti critici può essere opportuno ricorrere ad anestesia loco-regionale - rimuovere sempre la sede di biopsia - utilizzare il più possibile gli strumenti chirurgici piuttosto che le mani; queste ultime possono più facilmente disseminare la neoplasia. - per la rimozione dei tumori superficiali è preferibile il bisturi (taglio netto) piuttosto che le forbici. - usare l’elettrocoagulazione (o il laser) il meno possibile per non complicare l’identificazione dei margini tumorali. - legare tutti i vasi tributari e, se possibile, prima le vene - preferibile l’impiego di materiale da sutura monofilamento piuttosto che intrecciato per non favorire l’adesione di cellule tumorali - al termine dell’escissione valutare se l’asportazione è stata appropriata (in termini di centimetri macroscopici di tessuto sano), identificare i margini di escissione e, in caso di dubbio, ricorrere alla citologia intraoperatoria. - cambiare i guanti tutte le volte che è opportuno - l’impiego dei lavaggi è controverso. Importante è comunque aspirare tutto il liquido utilizzato, insieme ai detriti tissutali e ai coaguli di sangue. Il secondo principio è che è preferibile lasciar guarire per seconda intenzione piuttosto che residuare un’area sospetta per il dubbio di non riuscire poi a eseguire la chiusura della ferita chirurgica. Molte tecniche consentono però di giungere alla copertura primaria della soluzione di continuo creata (incisioni liberatorie per diminuire la tensione, lembi locali casuali, lembi liberi, lembi vascolarizzati - cutanei e miocutanei -, reti di prolene o vycril, etc) 4. Tali procedure, quando opportuno, possono essere associate a “omentalizzazio-

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ne” della parte; il grande omento, se portato in tali sedi, favorisce infatti vascolarizzazione, granulazione e drenaggio, l’immunità locale e, in definitiva, la guarigione. Per la fase ricostruttiva è assolutamente indispensabile cambiare guanti e set chirurgico. Alcune ferite, anche quelle derivate da deiscenza delle suture, devono essere gestite come ferite aperte per un tempo variabile. Se la colonizzazione metastatica a livello del/i linfonodo/i regionali è dimostrata citologicamente, questo/i è/sono rimosso/i contestualmente alla rimozione del tumore primario; in caso di coinvolgimento di stazioni linfatiche successive, il trattamento è deciso su base individuale ma la prognosi è ovviamente meno favorevole. Se il linfonodo è fisso ai tessuti circostanti, è indicato prevedere l’irradiazione adiuvante dell’area dopo la sua rimozione en bloc. Se la metastasi linfatica non è dimostrata ma il linfonodo è ingrandito, quest’ultimo è asportato e poi valutato istologicamente al fine di stadiare correttamente la neoplasia (sistema TNM). L’asportazione delle metastasi polmonari è riservata a quei casi in cui 1 o 2 noduli polmonari, derivati da tumori primari a bassa malignità, sono caratterizzati da un lungo tempo di raddoppiamento tale da prevedere una sopravvivenza protratta. Si può inoltre prevedere l’impiego della chemioterapia al fine di controllare l’ulteriore sviluppo di metastasi. Dal punto di vista prognostico è infine importante considerare 1) le possibili complicanze correlate alle eventuali sindromi paraneoplastiche che possono associarsi, seppur raramente, alle neoplasie di questo gruppo: ipoglicemia (leiomioma intestinale), febbre, anemia, leucocitosi, CID, morbo di Cadiot (per lesioni addominali o toraciche, per lo più metastatiche). In generale le sindromi paraneoplastiche possono determinare una maggior morbilità (ed eventualmente anche mortalità) rispetto al tumore originale; 2) le malattie preesistenti (cardiopatie, insufficienza renale, etc); e 3) i trattamenti protratti con corticosteroidi (o altri farmaci immunosoppressivi). L’uso degli steroidi dovrebbe in generale riservarsi ai pazienti terminali per migliorarne la qualità di vita anche se questa può, in ultimo, risultarne accorciata.

Bibliografia selezionata 1. 2. 3. 4.

Withrow SJ & MacEwen EG. SMALL ANIMAL CLINICAL ONCOLOGY. WB Saunders Co., Third edition, 2001 Marconato L. & Del Piero F. ONCOLOGIA MEDICA DEL CANE e DEL GATTO. Poletto Editore, 2005. Morris J e Dobson Mj. ONCOLOGIA CLINICA DEL CANE E DEL GATTO. Edizione italiana di Buracco P., UTET, 2003. Pavletic MM. ATLAS OF SMALL ANIMAL RECONSTRUCTIVE SURGERY. WB Saunders Co., Second edition, 1999.

Indirizzo per la corrispondenza: Paolo Buracco Clinica Chirurgica Veterinaria Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Torino Via Leonardo da Vinci 44, 10095 Grugliasco (Torino) Tel 011-6709157/8 - E-mail: paolo.buracco@unito.it


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Citologia della cute facciale nel gatto: differenze tra infiammazione e neoplasia Mario Caniatti Med Vet, Dipl ECVP, Milano

La cute facciale del gatto, come del resto la cute del gatto nella sua completa estensione, può essere affetta da condizioni patologiche di natura ed espressione clinica assai diverse fra di loro. In alcuni casi poi, patologie molto distanti fra loro come eziologia e decorso, possono invece avere aspetti clinici simili fra loro1. Da queste considerazioni scaturisce quanto possa essere utile dal punto di vista diagnostico, e in ultima analisi della gestione del paziente, l’utilizzo routinario del campionamento citologico delle lesioni facciali del gatto. Le malattie della cute della faccia del gatto di un certo interesse citologico possono essere distinte in: virali, batteriche, fungine, protozoarie, parassitarie, i tumori e altre forme, flogistiche e non, ad eziologia incerta (es. Calcinosis, complesso granuloma eosinofilico). Tra le forme batteriche, quelle con una specifica eziologia diagnosticabile citologicamente sono: la dermatofilosi (Dermatophilus congolensis), peraltro rara, le forme di micobatteriosi (M. bovis, M. avium, M. lepraemurium e Micobatteri atipici o opportunistici), nonché le flogosi da germi filamentosi dei Generi Actinomyces e Nocardia. È molto importante la diagnosi citologica delle micobatteriosi per poter decidere subito della sorte del paziente che può essere potenzialmente pericoloso per la salute dei proprietari e degli animali conviventi. Nel caso poi delle infezioni da M.lepraemurium (lebbra felina), la citologia ha permesso di fare ipotesi sulla prognosi (fausta) di questa malattia2. La citologia è un mezzo diagnostico assai utile nella diagnosi della maggior parte delle patologie ad eziologia fungina che vengono classicamente distinte in micosi: 1- Superficiali. Si va dalla comunissima dermatofitosi alle rare infezioni da Candida o Malassezia. 2- Sottocutanee. Rare condizioni tra le quali va annoverata la Sporotricosi, causata da Sporothrix schenckii, che può rappresentare una minaccia per la salute dell’uomo che di solito sviluppa una forma cutaneo-linfatica. 3- Sistemiche. Sono costituite da varie malattie fra cui spiccano la Blastomicosi (zoonosi), la Criptococcosi (zoonosi, ma non direttamente trasmissibile dal gatto all’uomo) e l’Istoplasmosi. Numerosi sono i parassiti che possono coinvolgere la cute facciale del gatto. Si tratta fondamentalmente di elminti e artropodi (zecche, acari, pidocchi, pulci…). Tutti questi di solito non sono considerati tipici organismi da “diagnosi citologica”, ma occasionalmente possono trovarsi nei campioni citologici. Tra le forme virali, l’unica di un certo rilievo citologico nella specie felina, è il vaiolo felino. Si tratta di una malattia poco comune, ma descritta in Europa. Dà inclusi intracitoplasmatici eosinofili nei cheratinociti. Tali inclusi in teoria

possono essere messi in luce da un esame citologico. Anche questa è una malattia potenzialmente pericolosa per l’uomo, specie se immunodepresso. Anche la rinotracheite felina (Herpesvirus) può dare lesioni cutanee costituite da ulcere con inclusi intranucleari nei cheratinociti o negli istiociti del derma, ma la possibilità di una diagnosi sul campione citologico è più teorica che pratica. Tra le forme protozoarie, la toxoplasmosi può dare, seppure raramente, lesioni cutanee nel gatto sotto forma di noduli. Un esame citologico di questi noduli può essere diagnostico. Noduli cutanei, ma anche ulcere, possono essere causati nel gatto da protozoi del Gen. Leishmania anch’essi di facile identificazione citologica. Numerose sono le patologie cutanee su base immunologia (es. ipersensibilità su diverse basi, malattie immunomediate ecc.), ma non si tratta quasi mai di buoni candidati per una diagnosi citologica. Lo stesso vale per le malattie su base endocrina e metabolica, i difetti congeniti, le anomalie pigmentarie, i cosiddetti “difetti di cheratinizzazione” e le malattie nutrizionali. Tra le malattie definite come “da cause ambientali” hanno un certo rilievo per la diagnosi citologica le lesioni da corpo estraneo. Il complesso granuloma esoinofilico, classificato dai testi di dermatologia nella categoria “miscellanea”, può essere un buon candidato alla diagnosi citologica purché la diagnosi citologica sia supportata dal dato clinico. In ogni caso la maggiore indicazione per la diagnosi citologica di condizioni che possono colpire la testa dei gatti è quella riguardante la possibilità di diagnosticare lesioni di natura neoplastica o similneoplastica (es. cisti cutanee, Calcinosis circumscripta). Dal punto di vista citologico i tumori vengono di solito distinti in tre categorie: epiteliali, a cellule fusate (per lo più sarcomi) e a cellule rotonde. Inoltre, nel caso non sia possibile indicare una precisa diagnosi citologica, si può considerare una quarta diagnosi molto generica di “tumore indifferenziato”. Fra i tumori epiteliali i papillomi non hanno alcun interesse citologico sia perché hanno un aspetto macroscopico caratteristico, sia perché non cedono campioni adeguatamente cellulari. Il carcinoma squamoso è invece molto interessante per il citologo che deve però fare i conti con una neoplasia che, diversamente dal solito, tende più a crescere in profondità che a svilupparsi come neoformazione vegetante. Di certo, lo sviluppo di questa neoplasia su aree cutanee depigmentate e la sua localizzazione tipica (orecchio, naso) aiuta il citologo per la diagnosi finale, ma spesso si ha a che fare con campioni assai poco cellulari a causa della proliferazione connettivale che accompagna il tumore e che tende perciò a cedere campioni citologici poco cellulari.


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Ancora, bisogna considerare il fatto che molto spesso queste neoplasie sono molto ben differenziate e questa è un’ulteriore difficoltà per il citologo. Di relativamente facile diagnosi citologica, anche su campioni che sono frequentemente poco cellulari, sono i tricoblastomi/epiteliomi. Si tratta di condizioni benigne di natura epiteliale che citologicamente evidenziano la presenza di gruppi di piccole cellule coesive caratterizzate da elevatissimo rapporto nucleo/citoplasmatico e modesti caratteri di atipica citologica. In casi di tumore epiteliale di natura diversa da quelle appena descritte, la diagnosi citologica si limita di solito a definire la benignità o la malignità della condizione a meno che non si tratti di tumori localizzati in sedi specifiche (es. tumori delle ghiandole ceruminose). A proposito dei tumori dell’orecchio, bisogna ricordare che non è raro e descritto in letteratura che tumori citologicamente definiti come maligni, risultino poi istologicamente benigni2. I tumori a cellule fusate non sono sempre facili da diagnosticare citologicamente a causa dei campioni scarsamente cellulari che spesso cedono. Deve quindi essere considerato un buon successo della diagnosi citologica quando questa riesca a giungere ad una generica diagnosi di “tumore a cellule fusate” maligno (i benigni sono rarissimi e praticamente non diagnosticabili su base citologica). Tra questi tumori è comunque spesso agevole fare una diagnosi citologica almeno nel caso dei cosiddetti sarcomi gigantocellulari (nella classificazione internazionale dei tumori animali, edita dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità –WHO- vengono anche definiti come variante gigantocellulare dell’istiocitoma fibroso maligno). Per le neoplasie a cellule rotonde l’esame citologico è un mezzo straordinariamente efficace per definire la diagnosi. Le ragioni sono molteplici: a volte clinicamente queste neoplasie (es. linfomi epidermotropi) mimano forme non-neoplastiche e come tali vengono trattate; i tumori a cellule rotonde cedono solitamente campioni citologici di buona cellularità; l’esame citologico è assai più preciso nel definire l’origine cellulare di questi tumori rispetto all’esame istologico in quanto i più fini particolari delle cellule sono singolarmente molto meglio valutabili su campioni citologici, fissati all’aria e colorati con una colorazione di tipo ematologico, in cui le cellule sono ben distese sul fondo del vetrino. Mastocitomi e linfomi sono di gran lunga i tumori a cellule rotonde più diagnosticati a causa della loro frequenza. Per alcuni va inserito nella categoria dei tumori a cellule rotonde anche il già citato istiocitoma fibroso mali-

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gno. I melanomi sono decisamente poco comuni nel gatto e devono essere differenziati da tumori epiteliali pigmentati che invece sono decisamente più frequenti. Molto semplicemente, la presenza di cellule pigmentate (melanociti), può essere associata a gruppi di epitelio nel caso di tumori epiteliali, generalmente benigni, ma non ci sono melanomi che possano avere una componente epiteliale. Bisogna quindi cercare sempre, in campioni contenenti moltissimi melanociti, la possibile presenza di epitelio che di solito ha aspetto basale. Di interesse citologico, tra le forme considerate similneoplastiche, va considerata la Calcinosis circumscripta. Si tratta infatti di una condizione che, valutata su un campione citologico già colorato, può non essere di facile diagnosi in quanto spesso il campione è decisamente poco cellulare e costituito da cellule infiammatorie prevalentemente costituite da macrofagi, anche multinucleati. Alle poche cellule si associa la presenza di materiale più o meno granulare di fondo con cristalli di calcio poco caratteristici. Invece microscopicamente il vetrino non colorato è di facile diagnosi, anche per assoluti principianti, perché caratterizzato dalla presenza di materiale biancastro di aspetto gessoso. Tale carattere si perde ovviamente con la colorazione. In conclusione si può affermare che l’esame citologico deve oggi essere senz’altro considerato un’utile indagine collaterale da utilizzare di routine in corso di lesioni facciali del gatto.

Bibliografia 1. 2. 3.

Scott DW, Miller WH, Griffin CE (1995), Small animal dermatology, 5th Ed, WB Saunders, Philadelphia, Pennsylvania. Roccabianca P, Caniatti M, Scanziani E, Penati V (1996), Feline leprosy: spontaneous remission in a cat, JAAHA, 32(3): 189-93. De Lorenzi D, Bonfanti U, Masserdotti C, Tranquillo M (2005), Fineneedle biopsy of external ear canal masses in the cat: cytologic results and histologic correlations in 27 cases, Vet Clin Path, 34(2): 100-105.

Indirizzo per la corrispondenza: Caniatti Mario Dipartimento di Patologia Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria Sezione di Anatomia Patologica Veterinaria e Patologia Aviare Università degli Studi di Milano Via Celoria, 10 - 20133 Milano Tel 02-50318114 - Fax 02-50318106 E-mail: mario.caniatti@unimi.it


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L’esame ecocardiografico modifica la terapia del paziente cardiopatico? David Chiavegato Med Vet, Padova

Gino D’Agnolo Med Vet, Triste

L’esame ecocardiografico negli ultimi anni ha assunto sempre più rilevanza nella gestione della patologia cardiovascolare. La valutazione ecocardiografica risulta spesso essenziale per la completa comprensione delle condizioni emodinamiche della patologia cardiaca consentendo monitoraggi talora indispensabili per una corretta gestione terapeutica dei pazienti cardiopatici. I volumi ventricolari, i volumi atriali, la frazione eiettiva e le correlazioni pressorie ricavate dai gradienti Doppler sono fra gli elementi più comuni che consentono un approccio terapeutico ragionato ed ottimizzato sulle condizioni di precario, postcarico e contrattilità. Così come una terapia diuretica non può prescindere dalle condizioni emodinamiche del paziente come espressione di una condizione di precario, così la terapia con inotropi positivi deve conseguire ad un attento studio della funzione contrattile. Le condizioni di portata dovranno essere valutate attraverso un’attenta considerazione della frazione eiettiva come espressione sia della contrattilità propria del cuore sia delle variazioni del postcarico. Una particolare attenzione deve essere prestata alla valutazione della funzione sistolica ventricolare sinistra nelle patologie aritmiche, sia per svelare la presenza di eventuali tachicardiopatie sia per individuare il farmaco antiaritmico più idoneo al caso specifico e monitorarne l’effetto. Una grave ipocinesia ventricolare sinistra è in grado di condizionare in modo determinante l’uso di farmaci con potenzialità inotrope negative. Tutte le informazioni emodinamiche e funzionali che potremo ottenere da un completo esame ecocardiografico dovranno condurre non solo una diagnosi cardiologica completa ma anche ad una corretta, equilibrata e ragionata terapia.

Lo studio della morfologia valvolare permette di descrivere e stadiare la patologia degenerativa mixomatosa acquisendo informazioni preziose anche prima dello sviluppo delle conseguenze emodinamiche e funzionali. La valutazione ed il monitoraggio della patologia degenerativa mitralica, infatti, non può prescindere dall’entità del danno valvolare oltre che ovviamente da tutta quella serie di parametri morfologici (volumi diastolici e sistolici, diametri atriali ecc) ed emodinamici che ne caratterizzano la fisiopatologia (gradiente di rigurgito atriale, pattern mitralico, condizione dell’eiezione cardiaca ecc). Lo studio dei gradienti valvolari di rigurgito mitralico e tricuspidale consente di ottenere informazioni sulle condizioni pressorie sia della circolazione sistemica che della circolazione polmonare svelando condizioni ipertensive sia a carattere sistemico che polmonare. Incrementi pressori ventricolari destri (pressione ventricolare destra) esprimono, in assenza di ostruzioni del tratto di efflusso, aumenti delle resistenze del circolo polmonare e quindi permettono di svelare alterazioni vascolari del letto polmonare (broncopneumopatie croniche, tromboembolismi, patologie polmonari costrittive ecc.) Un esame ecocardiografico ben eseguito può risultare, pertanto, un utile mezzo diagnostico per individuare o meglio sospettare l’esistenza di patologie a carattere sistemico o distrettuale con coinvolgimento dell’apparato cardiovascolare. Le informazioni ottenibili dall’esame ecocardiografico saranno tanto più utili quanto più l’esame verrà eseguito con criteri di rigore metodologico. L’accuratezza e la completezza sono elementi essenziali non solo per la valutazione diagnostica ma e soprattutto per quell’insieme di informazioni funzionali che condizionano l’esito o comunque l’ottimizzazione della terapia.


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Somministrazione di farmaci per via inalatoria nel cane e nel gatto Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

Le terapie inalatorie trovano largo impiego in medicina umana, ma sono utilizzate meno frequentemente in quella veterinaria. È interessante notare che la maggior parte degli studi sulla terapia per inalazione pubblicati in medicina veterinaria è focalizzata sull’ippiatria. I vantaggi della somministrazione dei farmaci per inalazione sono dati dalla riduzione degli effetti collaterali sistemici quando i principi attivi vengono applicati direttamente sui tessuti respiratori bersaglio, dalle più elevate concentrazioni farmacologiche che si riescono a raggiungere a livello dei tessuti bersaglio rispetto a quelle che si possono ottenere attraverso la somministrazione sistemica, dalla rapidità dell’insorgenza dell’azione e dalla possibilità di evitare il metabolismo epatico di primo passaggio. Le terapie inalatorie sono diventate quelle d’elezione per il trattamento dell’asma nell’uomo, in gran parte perché il loro uso, in contrapposizione ai trattamenti sistemici, determina un numero di gran lunga minore di effetti collaterali a carico dell’intero organismo. Naturalmente, la via di somministrazione inalatoria non è perfetta. Una delle principali funzioni dei sistemi di difesa respiratori è quello di impedire l’arrivo di particelle nelle vie aeree più profonde. L’efficienza dell’eliminazione di tali particelle significa che solo una piccola percentuale del farmaco somministrato arriva alle vie aeree profonde, mentre gran parte va perduta nel sistema di erogazione o nell’orofaringe. I mezzi di somministrazione del farmaco sono stati studiati per l’impiego nell’uomo su base volontaria e parecchi richiedono che il paziente respiri deliberatamente e trattenga il fiato. Inoltre, la profondità e la frequenza del respiro, il volume tidalico e la velocità di flusso aereo sono tutti fattori che influiscono sull’apporto del farmaco mediante aerosol e che possono essere ostacolati dalle malattie respiratorie. I farmaci stessi o i conservanti contenuti nelle preparazioni impiegate possono causare un’irritazione delle vie aeree ed un’eventuale broncocostrizione. Esistono due categorie principali di mezzi studiati per apportare farmaci mediante aerosolizzazione e successiva inalazione. Si tratta dei nebulizzatori e degli erogatori predosati (MDI, metered dose inhaler). Sono due metodi molto differenti, con impieghi diversi. In generale, i nebulizzatori apportano particelle molto più piccole consentendo una penetrazione più profonda nelle vie respiratorie ed erogando fluidi insieme al farmaco. L’uso per la terapia inalatoria è previsto in caso di malattia sistemica e di affezione respiratoria. Recentemente, per il trattamento del diabete mellito nell’uomo, è stata approvata un’insulina da inalazione. L’apporto mediante aerosol è stato utilizzato anche per la chemioterapia mirata dei tumori polmonari metastatici e prima-

ri per la somministrazione di vaccini, per la terapia genica e persino per il trattamento dell’ipertensione polmonare.

Nebulizzatori I nebulizzatori impiegano dei compressori per generare delle pressioni aeree e delle velocità di flusso relativamente elevate; si ha una modificazione del sistema di base per migliorare l’apporto o modulare le dimensioni delle particelle. I nebulizzatori standard si trovano come strumenti di dimensioni portatili e di costo moderato, certamente adatto all’impiego negli ospedali veterinari e persino per l’uso a casa da parte dei proprietari (ad es., Nebulair Veterinary Portable Ultrasonic Nebulizer®, DVD Pharmaceuticals, e molti prodotti portatili reperibili sul mercato per uso umano). In medicina veterinaria, l’uso predominante dei nebulizzatori è quello per il trattamento delle infezioni respiratorie. I nebulizzatori sono stati a lungo utilizzati per garantire l’umidificazione delle vie aeree o somministrare agenti antimicrobici direttamente nel tratto respiratorio. Per la terapia di animali con infezioni respiratorie è stata anche utilizzata la nebulizzazione di agenti mucolitici (ad es., N-acetilcisteina). La nebulizzazione di soluzione fisiologica sterile senza farmaci antimicrobici per 15-30 minuti alla volta, effettuata 34 volte al giorno, è priva di rischi e, secondo l’impressione dell’autore, costituisce una terapia utile per la polmonite. Ci sono farmaci antimicrobici che non contengono additivi potenzialmente reattivi o conservanti realizzati specificamente per la nebulizzazione nei pazienti umani con polmonite, ma sono costosi. I veterinari talvolta effettuano la nebulizzazione di antibiotici aminoglicosidici per uso paraenterale. Non esistono linee guida ben stabilite per il dosaggio, ma la posologia da impiegare tipicamente per via sistemica viene diluita in soluzione fisiologica e nebulizzata nell’arco di una singola sessione di 15-30 minuti. Il 5-10% dei pazienti può manifestare una broncocostrizione. Quindi, è possibile somministrare dei broncodilatatori per via paraenterale 15 minuti prima della nebulizzazione, oppure ricorrendo ad un periodo iniziale di nebulizzazione aggiungendo direttamente il broncodilatatore al fluido nebulizzato prima del farmaco antimicrobico. La somministrazione di antimicrobici non sostituisce il loro impiego in forma sistemica negli animali con polmonite. La nebulizzazione si può effettuare mediante maschera facciale, tenda, contenitore chiuso (tipo acquario, nel quale si colloca l’animale) o sonda da tracheotomia. L’apparecchio deve essere tenuto meticolosamente pulito per evitare di cau-


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sare un’infezione respiratoria iatrogena. La nebulizzazione di uno Pseudomonas nosocomiale, ad esempio, potrebbe avere conseguenze devastanti in un animale con funzione respiratoria compromessa.

Erogatori predosati Gli erogatori predosati (MDI, metered dose inhaler) sono studiati per l’impiego a casa e rappresentano la via d’elezione per somministrare glucocorticoidi e broncodilatatori nei pazienti umani con asma. Vengono anche utilizzati per il trattamento di gatti con malattie broncopolmonari (ad es., asma) e cani con bronchite cronica. Le particelle apportate attraverso gli MDI sono più grandi di quelle ottenute per nebulizzazione e quindi non penetrano altrettanto profondamente. Un MDI è formato da un raccordo boccale ed un azionatore (struttura di sostegno) nel quale è inserito un contenitore di farmaco. Premendo manualmente su quest’ultimo si provoca il rilascio di una singola dose di prodotto. I pazienti umani agitano il contenitore, effettuano un’esalazione profonda, inseriscono il raccordo boccale e simultaneamente schiacciano il contenitore ed inalano profondamente. Quindi, trattengono il fiato, esalano, si sciacquano la bocca e sputano per eliminare la maggior parte del farmaco che si è depositato nell’orofaringe (solo il 10% circa di ogni dose raggiunge le vie aeree). L’adattamento degli MDI per l’impiego negli animali è stato consentito dalla messa a punto di dispositivi detti distanziatori. Questi dispositivi non sono stati studiati per l’uso veterinario, ma piuttosto per i bambini molto giovani, gli anziani o gli altri soggetti con un livello di coordinazione inferiore a quello ideale. I distanziatori hanno anche il vantaggio di permettere alle particelle più grandi di cadere fuori e non penetrare nella bocca del paziente. Ne sono disponibili parecchi tipi, da semplici tubi a strutture dotate di camere di tenuta (holding chambers) con valvole ad una via attivate dall’inalazione. Sino a non molto tempo fa, tutti gli MDI utilizzavano clorofluorocarboni come propellenti. Le preoccupazioni relative allo strato di ozono hanno portato allo sviluppo di nuove tecnologie, che comprendono propellenti alternativi e l’impiego di inalatori a polvere secca (DPI, dry powder inhaler). Gli apparecchi DPI non contengono propellenti, ma si basano sull’inalazione del paziente attraverso un serbatoio che contiene la dose sotto forma di polvere secca. Questi strumenti probabilmente risulteranno meno utili in medicina veterinaria, perché non prevedono l’impiego di un distanzia-

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tore e richiedono l’inalazione volontaria ad una certa frequenza per assicurare l’apporto del farmaco. Per i pazienti veterinari, l’impiego più comune degli MDI è l’apporto di corticosteroidi (ad es., fluticasone propionato; Flovent 110 o 220 µg/attivazione) o broncodilatatori come l’albuterolo (ad es., Ventolin o Proventil 90 µg/attivazione). Non tutti gli MDI si adattano a tutti i distanziatori, per cui è importante assicurarsi che lo strumento funzioni con l’MDI prescritto. Ci sono dei distanziatori realizzati specificamente per uso veterinario (Aerokat®; aerokat.com) o altri per uso umano che possono essere adattati alla medicina veterinaria. Per esperienza dell’autore, pochi proprietari trovano difficoltà a somministrare i farmaci da inalazione in questo modo. In realtà, molti proprietari hanno commentato che la terapia con aerosol è di gran lunga più semplice che “dare delle pillole” al loro gatto. Non esistono studi scientifici che descrivano l’efficacia degli steroidi o dell’albuterolo somministrati mediante MDI negli animali. È stato pubblicato soltanto un singolo studio che dimostra la capacità di apportare particelle alle vie aeree profonde nei gatti coscienti e non sedati attraverso aerosol; in questo studio è stato utilizzato un nebulizzatore studiato per ottenere particelle più piccole (e di conseguenza capaci di penetrare più profondamente) rispetto agli MDI. A causa delle molte domande che ancora circondano l’efficacia della somministrazione mediante MDI, questi farmaci devono essere utilizzati come trattamenti collaterali negli animali che presentano segni di malattia molto lievi. L’impiego concomitante di steroidi da inalazione e sistemici può consentire di ridurre al minimo i dosaggi sistemici. Una volta posti sotto controllo i segni clinici, si può tentare di provare a ricorrere all’impiego concomitante di farmaci aerosolizzati e agenti sistemici.

Letture consigliate Schulman RL, et al. Investigation of pulmonary deposition of a nebulized radiopharmaceutical agent in awake cats. Am J Vet Res. 65(6):806809. 2004. Pongracic JA. Asthma medications and how to use them. Curr Opin Pul Med. 6(1):55-8, 2000. Padrid P. Feline asthma: diagnosis and treatment. Vet Clin N Am. 30(6); 1279-1294, 2000.

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Approccio diagnostico alle malattie polmonari (Prima parte) Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

Per la diagnosi delle pneumopatie negli animali sono disponibili molte tecniche. Prima di decidere quali siano quelle più appropriate, la prima domanda da porsi deve essere se la malattia polmonare è presente o meno. Le affezioni respiratorie extrapolmonari, i disordini neurologici, gli squilibri acido-basici, le malattie metaboliche ed endocrine possono simulare una pneumopatia. L’anamnesi e l’esame clinico rappresentano la chiave per la localizzazione della malattia al parenchima dell’organo. Inoltre, i risultati degli esami di laboratorio di routine, come l’emocromocitometrico completo, il profilo biochimico, l’analisi delle urine, gli esami coprologici e persino i test sierologici, contribuiscono ad escludere le cause non polmonari di malattia e, occasionalmente, a identificare una specifica diagnosi polmonare. Esiste una varietà di metodologie analitiche in grado di fornire informazioni direttamente rilevanti per la pneumopatia. Questi test sono rappresentati da studi funzionali, diagnostica per immagini e visualizzazione diretta delle vie aeree, nonché da studi invasivi per prelevare campioni da destinare agli esami citologici e microbiologici.

VALUTAZIONE FUNZIONALE L’ossigenazione viene valutata attraverso l’osservazione del colore delle mucose, la misurazione della tensione arteriosa di ossigeno o quella della saturazione di ossigeno dell’emoglobina. Si ha l’ipossiemia quando la tensione arteriosa di ossigeno cade al di sotto dell’85%. L’osservazione delle mucose per rilevare la presenza di cianosi è un metodo sicuro, non invasivo ed a costo zero, ma è poco sensibile. La cianosi non si manifesta prima che la paO2 sia scesa al 50% o meno. Poiché il colore cianotico delle mucose dipende da una quantità assoluta di emoglobina non saturata, gli animali anemici possono anche non diventare mai cianotici. La misurazione dei gas ematici arteriosi è un modo più sensibile per rilevare l’ipossiemia. La misurazione della paO2 consente di valutare l’ipossiemia e la necessità di un’integrazione di supporto con ossigeno. Può essere utilizzata per monitorare la risposta alla terapia ed è in grado di dimostrare la discrepanza fra ventilazione e perfusione quando il gradiente alveolare-arterioso è aumentato ([(150-PaCo2) – PaO2] > 20). Ulteriori utili informazioni fornite dall’emogasanalisi sono lo status acidobasico e la valutazione della ventilazione. Poiché il sangue arterioso prelevato per la misurazione dei gas ematici deve essere esaminato rapidamente, è necessaria un’apparecchiatura speciale. La presenza di una coagulopatia costituisce una controindicazione relativa.

La pulsossimetria valuta il contenuto di ossiemoglobina dei tessuti perfusi e può venire utilizzata per stabilire la necessità di una ossigenoterapia e la risposta ad essa. È totalmente non invasiva, priva di rischi e dai costi accettabili per tutti. I risultati sono quasi immediati ed è possibile effettuarne il monitoraggio continuo. Si possono avere delle interferenze dovute al movimento, al posizionamento della sonda e ad altri fattori. La SpO2 normale deve essere > 95%. Una SpO2 del 90% è grossolanamente equivalente ad una PaO2 del 60%, ma l’informazione generata dalla pulsossimetria non è identica a quella che si ha con l’emogasanalisi arteriosa. Gli autentici test di funzione polmonare valutano la capacità di muovere aria e scambiare gas. Le tecniche impiegate sono rappresentate da TBFVL (tidal breathing flow-volume loops, anse flusso-volume della respirazione tidalica) pletismografia, spirometria, capnografia ed altre. Questi tipi di test sono ampiamente utilizzati in medicina umana, ma raramente in quella veterinaria. I test di funzione polmonare richiedono apparecchiature specializzate e molte delle misurazioni più importanti non possono essere effettuate negli animali consci. La capnografia gode di un’ampia diffusione in medicina veterinaria per valutare la concentrazione del biossido di carbonio nel fiato come misura dell’ipoventilazione e dello spazio morto fisiologico nei pazienti anestetizzati o ventilati.

DIAGNOSTICA PER IMMAGINI Il metodo più utile per la valutazione degli animali con pneumopatia è la radiografia. Si tratta di una tecnica semplice, sicura ed economicamente conveniente, che offre una quantità enorme di potenziali informazioni e riconosce come unica controindicazione la grave dispnea. Le immagini possono essere conservate a tempo indefinito, permettendo il consulto da parte di esperti. Per poter essere apprezzate, le lesioni devono avere delle dimensioni superiori ad un limite minimo e per poter essere visualizzate le alterazioni devono presentare delle differenze di radiopacità rispetto al tessuto circostante. Uno degli svantaggi è la radioesposizione. La radiografia richiede attenzione per i dettagli e la tecnica. Le metodiche appropriate per l’esame dei polmoni richiedono una scala di grigi più ampia (cioè MAS brevi e KVP elevati). Una ripresa troppo scura o troppo chiara può facilmente occultare le lesioni. Il posizionamento deve consentire di riprendere l’intero torace. Le immagini inspiratorie sono le più adatte alla valutazione del parenchima polmonare, ma per dimostrare un collasso delle vie aeree intra-


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toraciche può essere necessario effettuare delle riprese sia inspiratorie che espiratorie. Quando si cerca di dimostrare la presenza di effetti massa a livello polmonare bisogna ottenere delle immagini sia in posizione laterolaterale destra e sinistra che DV o VD, perché il polmone più declive risulta abbastanza compresso. La radiografia computerizzata o digitale utilizza quantità di radiazioni minori e visualizza i quadri riscontrati sullo schermo di un computer. È possibile regolare il contrasto e la luminosità e le immagini possono essere condivise immediatamente via internet oppure stampate su pellicola radiografica. L’interpretazione delle radiografie del torace inizia con la valutazione del posizionamento e della tecnica di ripresa. Si esaminano le strutture extrapolmonari. Passando poi all’osservazione dei campi polmonari, è necessario rilevare il tipo di trama presente (alveolare, bronchiale, interstiziale, vascolare o loro combinazioni), la localizzazione delle aree caratterizzate da queste trame, la loro distribuzione (asimmetrica o simmetrica) e la loro intensità. Altri riscontri importanti sono rappresentati da bronchiectasie, pneumotorace, versamento pleurico, ernia diaframmatica, masse patologiche, bolle o cisti, megaesofago o corpi estranei toracici. L’assenza di anomalie radiografiche in un animale con segni respiratori non permette di escludere definitivamente una malattia polmonare. I noduli metastatici possono essere troppo piccoli per essere identificati. Le lesioni infiammatorie recenti possono risultare invisibili ed il tromboembolismo (PTE) può non causare alterazioni radiografiche. L’ecografia ha un’utilità limitata in medicina polmonare perché l’aria è un mezzo estremamente sfavorevole per la trasmissione delle onde sonore. Questa tecnica di diagnostica per immagini viene utilizzata per esaminare le masse patologiche polmonari, i lobi epatizzati e la pervietà vascolare e per guidare l’aspirazione di campioni dalle lesioni. Può anche consentire di escludere malattie cardiache, pleuriche e mediastiniche. L’ecografia è ampiamente disponibile e sicura e non determina esposizione a radiazioni. Dipende molto dall’abilità dell’operatore e richiede il contenimento dell’animale. La tomografia computerizzata (TC) è lo standard aureo per l’individuazione delle metastasi polmonari. Può essere utilizzata per rilevare lesioni vascolari o dimostrare la localizzazione e l’estensione di lesioni parenchimatose, interstiziali e bronchiali. La TC fornisce eccellenti dettagli per le relazioni anatomiche e può essere utilizzata per guidare prelievi per aspirazione e biopsie. L’uso di un mezzo di contrasto permette la valutazione delle strutture vascolarizzate. A differenza della radiografia convenzionale, la TC richiede una sedazione profonda o l’anestesia generale e le apparecchiature sono più costose (benché stiano diventando sempre più accessibili). Esistono vari tipi di TC, ognuno con carat-

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teristiche esclusive per quanto riguarda gli impieghi ideali, i vantaggi e gli svantaggi. Le tecniche di diagnostica per immagini specializzate che trovano un certo impiego in medicina polmonare sono la fluoroscopia, l’angiografia, la scintigrafia, la risonanza magnetica e la tomografia ad emissione di positroni. La familiarità con l’utilità di queste tecniche permette di inviare i casi ai centri più appropriati.

VISUALIZZAZIONE Tutte le forme di visualizzazione diretta dei polmoni e delle vie aeree sono in qualche misura invasive. La broncoscopia permette l’introduzione di una sonda nelle vie aeree. In questo modo è possibile valutare le condizioni della mucosa, le quantità di muco, la presenza di emorragia, l’integrità strutturale delle vie aeree stesse, la presenza di masse patologiche o corpi estranei. Inoltre, la broncoscopia può essere utilizzata per guidare il prelievo di campioni da destinare agli esami colturali e citologici e per rimuovere materiali estranei. La broncoscopia permette la valutazione separata dei differenti lobi polmonari. Richiede un’anestesia generale e determina l’occlusione del lume delle vie aeree. La somministrazione di ossigeno supplementare attraverso il condotto da biopsia dell’endoscopio o tramite un catetere fatto passare accanto allo strumento può minimizzare l’ipossiemia. La tecnica richiede un’apparecchiatura speciale ed un certo grado di esperienza. La difficoltà respiratoria costituisce un’indicazione relativa, ma non assoluta, per la broncoscopia. Il parenchima polmonare può venire visualizzato direttamente mediante toracotomia o toracoscopia. Entrambe queste metodiche sono invasive, ma consentono la biopsia tissutale indiretta e l’asportazione del tessuto polmonare anormale. La toracoscopia può permettere tempi di recupero più brevi ma, richiede apparecchiature specializzate ed un certo grado di esperienza. Queste tecniche verranno ulteriormente citate nella parte II.

Letture consigliate Textbook of Veterinary Diagnostic Radiology. Thrall D, editor. 4th ed. Saunders (Elsevier), 2002. Textbook of Respiratory Disease in Dogs and Cats. King LG, editor. 1st edition, Missouri, Saunders (Elsevier), 2004.

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Approccio diagnostico alle malattie polmonari (Seconda parte) Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

Esistono diversi modi per prelevare campioni dalle vie aeree profonde da destinare alla valutazione citologica ed alle colture microbiologiche. Il materiale prelevato deve essere manipolato rapidamente e delicatamente per evitare di danneggiare le cellule. I liquidi di lavaggio devono essere lasciati sedimentare per poi allestire delicatamente uno striscio e lasciar asciugare all’aria il preparato. Le colture devono essere di tipo quantitativo, perché le vie aeree non sono necessariamente sterili. È importante interpretare i risultati degli esami colturali alla luce dei riscontri citologici, perché la crescita batterica in assenza di infiammazione può essere priva di importanza. Quando si richiedono colture anaerobiche o le ricerca di Mycoplasma spp. o miceti, è necessario formulare richieste specifiche e/o manipolare il campione in modo particolare.

TECNICHE DI CAMPIONAMENTO Il lavaggio tracheale è indicato per la diagnosi delle malattie delle vie aeree di grosso calibro e per prelevare campioni microbiologici e citologici negli animali con polmonite produttiva. È raramente utile per la diagnosi della pneumopatia interstiziale. Si tratta di una tecnica relativamente sicura, semplice, economica, che non richiede apparecchiature speciali. Il lavaggio orotracheale è preferibile per i cani ed i gatti di piccola taglia. Richiede una breve anestesia generale ma è di semplice esecuzione e le complicazioni sono rare. Dopo aver intubato l’animale, si fa avanzare un catetere di gomma sterile attraverso il tubo orotracheale fino a spingerne la punta a livello della biforcazione della trachea (circa il quarto spazio intercostale). Si iniettano 5 ml di soluzione fisiologica sterile che vengono poi rapidamente riaspirati. La procedura si ripete due o tre volte. Non appena si riescono ad ottenere campioni diagnostici adeguati (1-2 ml di fluido torbido), si sospende l’anestesia. Si somministra ossigeno attraverso il tubo orotracheale fino alla ricomparsa del riflesso laringeo, dopo di che si tiene sotto osservazione l’animale. Il lavaggio transtracheale viene impiegato al posto di quello orotracheale nei cani di mole maggiore e non richiede l’anestesia. Si pratica un’iniezione sottocutanea di lidocaina e talvolta una lieve sedazione. Le rare complicazioni comprendono lacerazioni tracheali, enfisema sottocutaneo, pneumomediastino, ed eventualmente la formazione di un corpo estraneo tracheale in caso di distacco della punta del catetere. Il cane viene contenuto in posizione seduta e con il naso inclinato verso il soffitto con un’angolazione di 45°. Si tosa e pulisce la parte ventrale del collo e si inietta una piccola quantità di lidocaina, in modo da formare un piccolo pomfo.

Si utilizza un catetere giugulare “ad ago esterno”. L’inserimento dell’ago può venire effettuato fra due anelli tracheali qualsiasi, a seconda della lunghezza del catetere, per consentire di arrivare fino alla biforcazione della trachea. Quest’ultima viene afferrata e stabilizzata, per poi inserire l’ago (con la bietta verso il basso) passando dapprima attraverso il pomfo cutaneo di lidocaina e poi fra gli anelli cartilaginei con un rapido movimento di spinta. L’ago viene tenuto verso il basso nel lume tracheale ed attraverso di esso si fa avanzare il catetere. Il cane deve tossire piuttosto che avere dei conati. Non bisogna MAI ritirare il catetere attraverso l’ago, perché potrebbe venire reciso dalla bietta di quest’ultimo. Una volta che il catetere ha raggiunto il livello della biforcazione della trachea, l’ago viene sfilato, mentre la sonda viene immobilizzata in posizione con una pinza. Si raccorda al catetere una siringa contenente 5-8 ml di soluzione fisiologica sterile che vengono iniettati rapidamente. Se il cane non riesce a tossire, un assistente esegue il coupage del torace. Quindi, si riaspira rapidamente il fluido. Questa operazione viene ripetuta parecchie volte al fine di recuperare solo una piccola frazione del fluido iniettato (1-2 ml). Dopo la rimozione dell’ago e del catetere il collo viene protetto con un bendaggio lento ed il cane viene tenuto sotto osservazione. Il lavaggio broncoalveolare (BAL) è indicato per la valutazione diagnostica delle vie aeree di piccolo calibro e delle alveolopatie e, talvolta, delle pneumopatie interstiziali. I campioni ottenuti mediane BAL derivano dalle aree più profonde del polmone e dai tratti distali delle vie aeree (come è dimostrato dalla presenza di surfactante schiumoso). Si tratta di campioni eccellenti per la valutazione citologica e microbiologica, ma il BAL richiede l’anestesia generale, causa un’ipossiemia transitoria e può indurre broncospasmo. La difficoltà respiratoria costituisce una controindicazione relativa. Il BAL si può effettuare con un metodo alla cieca o sotto guida broncoscopica. Il metodo alla cieca non richiede alcuna apparecchiatura speciale ed è semplice ed economico. Quello sotto guida endoscopica permette di effettuare il lavaggio di aree specifiche del polmone ed anche di eseguire l’osservazione diretta delle vie aeree, ma richiede apparecchiature speciali ed esperienza. Il BAL alla cieca è più utile per le pneumopatie generalizzate (ad es., asma). Come nel lavaggio orotracheale, l’animale viene anestetizzato e preventivamente ossigenato per poi introdurre una sonda sterile nel tubo orotracheale. Invece di un catetere di gomma, si impiega un catetere rigido in polipropilene (7-8 Fr per i gatti) spingendolo oltre la biforcazione della trachea fino a che non incontra resistenza, che indica che si è incuneato in un bronco. Non c’è modo di guidare lo strumento in un bronco


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specifico, e neppure in uno specifico lobo polmonare. Si inietta la soluzione fisiologica sterile e la si recupera nello stesso modo del lavaggio orotracheale. Il recupero del liquido può essere facilitato dall’uso di un aspiratore di muco. Il riscontro di un fluido schiumoso indica la presenza di un surfactante, che denota un lavaggio di buona qualità. Durante il risveglio dall’anestesia bisogna somministrare un’integrazione con ossigeno ed i gatti vanno trattati con un broncodilatatore. Il BAL sotto guida broncoscopica utilizza l’endoscopio per prelevare campioni guidati da specifici lobi polmonari ed è quindi la soluzione d’elezione nelle malattie a carattere regionale. Invece di impiegare un catetere, si introduce l’endoscopio stesso in una via aerea distale e lo si usa sia iniettare che per prelevare il fluido. È possibile tenere separate le aliquote derivanti dai differenti lobi. I campioni ottenuti mediante spazzolatura bronchiale sterile possono venire utilizzati sia per gli esami colturali che per quelli citologici delle vie aeree e si possono prelevare alla cieca o sotto guida broncoscopica. I campioni, che sono molto più piccoli di quelli che si ottengono con il BAL, sono utili soltanto in caso di affezioni delle vie aeree o alveolopatie produttive. La spazzola stessa è costosa, il che rende questa procedura più dispendiosa del BAL. L’unico vantaggio rispetto a quest’ultimo è che la rapidità dell’operazione non determina un’ipossiemia. L’aspirazione transtoracica del polmone mediante ago (sottile) è utile soprattutto per la valutazione citologica di noduli polmonari, epatizzazioni o masse o pneumopatie gravi e diffuse. La citologia può confermare una neoplasia o un’infezione, ma i campioni molto piccoli sono spesso privi di valore diagnostico. Le controindicazioni sono rappresentate da coagulopatia, ascesso, ipertensione polmonare e lesioni cistiche. L’ideale è effettuare l’aspirazione sotto la guida di tecniche di diagnostica per immagini, ma se la malattia è diffusa, ci si dirige ai lobi caudali. L’aspirazione richiede solo il contenimento manuale ed è rapida, semplice ed economica. Attraverso la cute, caudalmente alla sede dove si intende effettuare il prelievo, si inserisce un ago da 22 G raccordato ad una siringa. L’ago viene fatto avanzare nel tessuto sottocutaneo sino alla zona situata davanti alla costola successiva e poi rapidamente inserito attraverso i muscoli intercostali nel parenchima polmonare. Si esercita più volte sulla siringa una pressione negativa in rapida successione, senza muovere l’ago. Questo viene poi sfilato ed il materiale aspirato viene utilizzato per preparare uno striscio da destinare agli esami citologici. I campioni di solito sono inadeguati per allestire delle colture. Le complicazioni sono rare ma possono comprendere pneumotorace, emotorace, emorragia e lacerazioni di organi, vasi o nervi.

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PRELIEVO DI CAMPIONI ISTOLOGICI La biopsia polmonare si utilizza quando i metodi meno invasivi non riescono a portare ad una diagnosi e può essere associata a lobectomia nei casi in cui è colpito un singolo lobo. La biopsia è particolarmente utile nella diagnosi delle pneumopatie interstiziali. Solo questo tipo di esame può fornire informazioni sull’architettura del polmone, compresa la fibrosi. Esistono parecchie tecniche, ma sono tutte invasive e richiedono l’anestesia. Comprendono la toracotomia aperta (ventrale o laterale), la keyhole surgery o la toracoscopia. Le coagulopatie e l’intolleranza agli anestetici costituiscono delle controindicazioni relative a qualsiasi tipo di biopsia polmonare. Le complicazioni sono rappresentate da lacerazioni, emorragie e pneumotorace, nonché dall’infezione del sito operato. La toracotomia consente di sottoporre i tessuti ad una valutazione ottimale mediante ispezione e palpazione, nonché di controllare al meglio l’emorragia o le perdite bronchiali. Rappresenta l’intervento d’elezione se si prevede l’asportazione di un lobo. È la procedura più costosa ed invasiva e comporta la più lunga fase di recupero postoperatorio. La toracotomia laterale mediante keyhole surgery utilizza un’incisione molto più piccola e richiede meno anestesia e un minor tempo di tempo di recupero; tuttavia, non consente la completa esplorazione dei polmoni e la lobectomia è più difficile quando si adotta questo approccio. La toracoscopia è meno invasiva della toracotomia, ma può richiedere un’anestesia più prolungata rispetto al metodo della biopsia con metodo keyhole. Consente la visualizzazione di gran parte della superficie polmonare, ma non è consigliata se si prevede la rimozione di un lobo. Se nel corso della toracoscopia si verifica un’emorragia, può essere necessario ricorrere alla toracotomia.

Letture consigliate Textbook of Respiratory Disease in Dogs and Cats. King LG, editor. 1st edition, Missouri, Saunders (Elsevier), 2004.

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Versamenti pleurici nel cane e nel gatto Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

Il versamento pleurico è una causa relativamente comune di difficoltà respiratoria nel cane e nel gatto. Entrambe le specie animali sono colpite da una gran varietà di tipi di versamento, con numerose cause e prognosi variabili. Il versamento pleurico può venire scoperto incidentalmente oppure causare difficoltà respiratoria. È possibile che versamenti in quantità limitata non determinino modificazioni dell’esame clinico. In effetti, occorrono circa 10 ml di versamento per kg di peso dell’animale per determinare il riconoscimento radiografico della presenza di fluido a livello pleurico e più di 30 ml/kg per provocare un’alterazione dell’esame clinico. La difficoltà respiratoria può non essere grave fino a che non si siano accumulati oltre 50-60 ml/kg di liquido. I segni clinici correlati al versamento pleurico sono rappresentati da tachipnea, difficoltà respiratoria (principalmente all’inspirazione), respirazione superficiale, attenuazione dei suoni polmonari broncovescicolari nelle porzioni declivi del torace e/o aumento degli stessi nel resto del torace ed iporisonanza alla percussione delle porzioni declivi del torace (identificazione di una “linea di livello”). La tosse è associata raramente alle affezioni pleuriche, ma si riscontra nei casi in cui il processo patologico si estende ai polmoni o alle vie aeree, oppure quando si trasmette da queste strutture alle pleure. Poiché il versamento pleurico può essere associato a malattia sistemica, i riscontri clinici possono essere correlati ad apparati diversi da quello respiratorio, oppure fare riferimento ad una patologia respiratoria sottostante (ad es., polmonite infettiva, neoplasia polmonare). La conferma del versamento pleurico si può ottenere radiograficamente o mediante toracentesi. Gli animali che vengono portati alla visita con difficoltà inspiratoria ed attenuazione dei suoni polmonari nelle parti declivi possono essere messi in pericolo dal contenimento necessario per effettua le riprese radiografiche; in questi casi, la toracentesi può risultare una pratica salvavita, oltre a fornire informazioni diagnostiche di importanza cruciale. Anche se le radiografie vengono riprese prima per documentare il fluido pleurico, sarà comunque necessario prelevare un’aliquota del versamento per ulteriori indagini diagnostiche. L’analisi del materiale così raccolto varia con la diagnosi differenziale. In generale, i campioni devono essere destinati ad indagini chimiche e citologiche, risparmiandone delle aliquote per le colture aerobiche ed anaerobiche in caso di necessità. Altri test possono risultare appropriati a seconda dei dati relativi a segnalamento, segni clinici e manifestazioni collaterali di malattia. Il fluido pleurico può essere classificato come emorragico, trasudativo o essudativo. L’emorragia franca nello spazio pleurico nella maggior parte dei casi è associata ad un trauma o a difetti dell’emostasi secondaria (ad es., esposizione a

rodenticidi antagonisti della vitamina K). I trasudati sono fluidi dalla cellularità scarsa (< 500 cellule nucleate totali [TNC]/µl), con un contenuto proteico basso (< 3 g/dl); la modificazione di questi fluidi (spesso con il tempo), può determinare sia un aumento del numero delle cellule (5005000 TNC/µl) che del contenuto proteico (3-5 g/dl). Esiste un’enorme variabilità per quanto riguarda il tipo di essudato (ad es., natura e numero delle cellule, contenuto proteico). Fra le cause importanti dell’essudato rientrano le infezioni, le neoplasie e le distruzioni vascolari/linfatiche.

Chilotorace Il chilotorace nel cane e nel gatto può essere dovuto ad insufficienza cardiaca, trauma, filariosi cardiopolmonare o granuloma toracico, ma nella maggior parte dei casi si tratta di una condizione idiopatica. La caratteristica che la definisce è che il contenuto di trigliceridi dei fluidi è più elevato di quello del siero. Quando è possibile identificare e correggere un processo patologico sottostante la prognosi è buona, mentre per il chilotorace idiopatico è riservata. Né la terapia medica né quella chirurgica hanno sempre successo. Ulteriori benefici si possono ottenere ricorrendo ad un intervento descritto recentemente che prevede la legatura del dotto toracico accompagnato da pericardectomia. Sono state descritte terapie mediche basate su una dieta povera di grassi integrata con olio contenente MCT (trigliceridi a catena media), rutina e persino octreotide, ma non sono state riscontrate percentuali di successo elevate. Il chilo stesso può essere irritante e portare ad una pleurite fibrotica.

Piotorace L’infezione batterica dello spazio pleurico che porta all’accumulo di fluido purulento si riscontra sia nel cane che nel gatto. Nella specie canina, l’infezione è spesso conseguente alla penetrazione nella cavità toracica di materiali estranei, come le ariste di graminacee, mentre nel gatto il piotorace è associato ai combattimenti con i conspecifici. Spesso, non si riesce mai ad identificare alcuna causa né nel gatto (G), né nel cane (C). Gli agenti patogeni più comunemente identificati nel piotorace sono Pasteurella (G), Bacteroides (C & G), Actinomyces (C & G), Clostridium (G) e Nocardia (C); le infezioni sono spesso miste. Il fluido purulento di solito è di colore bianco, beige, rosa o rosso (cosiddetto colore di “minestra di pomodoro”) e maleodorante. In presenza di infezioni da Nocardia o Actinomyces, può contenere del materiale granulare di colore bianco o giallo (gra-


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nuli zolfini). Si deve richiedere l’esame colturale del fluido sia in aerobiosi che in anaerobiosi. Gli animali con piotorace presentano di solito una malattia sistemica e possono essere affetti da complicazioni della sepsi. Nei soggetti con piotorace è indispensabile una terapia aggressiva con antibiotici ad ampio spettro che assicurino la copertura anche nei confronti degli anaerobi, anche se spesso non è adeguata. Il fluido purulento deve essere drenato, tenendo presente che la soluzione ideale è l’aspirazione continua. Nel cane è stato dimostrato che la toracotomia chirurgica determina dei miglioramenti ai fini della sopravvivenza

Peritonite infettiva felina (FIP) La FIP deriva dalla mutazione di un coronavirus enterico in un singolo gatto. La malattia è correlata alla risposta immunitaria all’infezione e si può osservare sia in una forma essudativa che in una secca, granulomatosa. Nella forma essudativa, la flogosi piogranulomatosa incentrata intorno ai vasi porta alla fuoriuscita di un fluido ricco di proteine. Il versamento si può verificare nella cavità peritoneale e/o nello spazio pleurico. I gatti mostrano frequentemente segni di malattia sistemica con febbre, iperglobulinemia e neutrofilia. Il fluido essudativo è spesso di colore paglierino chiaro o giallo e di aspetto viscoso. La reazione a catena della polimerasi eseguita sul fluido di versamento conforta, ma non conferma, la diagnosi di FIP; la PCR non è in grado di differenziare il coronavirus enterico dalla sua forma mutata e virulenta. Gli esami sierologici sono raramente utili perché possono essere negativi in un gatto infetto o positivi in uno che in realtà non è colpito dalla FIP. Lo standard aureo per la diagnosi si basa sulla biopsia tissutale, ma il riscontro delle classiche caratteristiche segnaletiche ed anamnestiche (un gatto giovane proveniente da un gattile o un rifugio), associate a segni clinici ed esiti di laboratorio compatibili con la diagnosi e ad un versamento tipico, fornisce prove convincenti della presenza della malattia. Per il trattamento si utilizzano spesso cure di supporto, immunosoppressione e terapie mediante agenti come la pentossifillina o l’IFN-omega, ma la prognosi rimane molto sfavorevole.

Trasudato/trasudato modificato I trasudati sono tipicamente dovuti all’aumento della pressione idrostatica o, meno comunemente, al calo di quella oncotica. Col tempo, le cellule mesoteliali diventano proliferative e sia il contenuto proteico che quello cellulare del

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trasudato possono aumentare. L’incremento della pressione idrostatica fino a valori che esitano in un trasudato pleurico nella maggior parte dei casi è associato ad insufficienza cardiaca. Nel gatto, sia quella destra che quella sinistra possono causare un versamento pleurico, mentre nel cane questo effetto si ha solo con l’insufficienza cardiaca destra. Anche la diminuzione della pressione oncotica (albumina < 1,5 g/dl) può determinare un trasudato pleurico. Tipicamente, l’ipoalbuminemia esita in un’ascite più intensa del versamento pleurico. La somministrazione endovenosa di fluidi in un animale con ipoalbuminemia o compromissione della funzione cardiaca può scatenare la comparsa di un versamento pleurico che non era assolutamente rilevabile prima della fluidoterapia. L’ideale è trattare i trasudati affrontando la causa sottostante.

Versamento neoplastico Sia il cane che il gatto sono suscettibili alla neoplasia toracica che esita nella formazione di un versamento pleurico, benché la prevalenza di questo tipo tumorale vari con le specie. Nel gatto predominano il linfoma ed il timoma, mentre nel cane si osserva una preponderanza di carcinomi e timomi. Il mesotelioma è raro in entrambe le specie; esiste poi una varietà di altri tipi tumorali capaci di portare occasionalmente al versamento neoplastico. I giovani gatti FeLV-positivi hanno maggiori probabilità di essere colpiti da un linfoma mediastinico, ma la maggior parte degli altri tipi tumorali tende a colpire gli animali più anziani. Il liquido di versamento di per sé può essere chiaro, torbido o emorragico. Il contenuto proteico è spesso moderatamente aumentato, così come il conteggio delle cellule nucleate totali. Il tipo cellulare varia con il processo neoplastico, ma può essere molto difficile differenziare citologicamente il carcinoma, il mesotelioma o l’iperplasia mesoteliale reattiva. La terapia di supporto è associata ad un’appropriata chemio- o radioterapia per trattare la condizione neoplastica. La prognosi per la maggior parte delle cause di versamento pleurico neoplastico è sfavorevole.

Bibliografia disponibile a richiesta

Indirizzo per la corrispondenza: Leah Cohn University of Missouri College of Veterinary Medicine, Columbia, MO, USA, 65211


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Aggiornamento sull’asma felina Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

INTRODUZIONE L’asma felina è una delle più comuni affezioni broncopolmonari del gatto ed è responsabile di una morbilità sostanziale e una mortalità occasionale. Costituisce una risposta di ipersensibilità mediata dalle IgE nei confronti di quelli che altrimenti sarebbero aeroallergeni ambientali non pericolosi. L’esposizione ad un allergene consente la produzione di IgE allergene-specifiche. Questi anticorpi si legano alle mast cell presenti sulle superfici delle mucose respiratorie. In seguito ad una successiva esposizione agli allergeni, le IgE sulla superficie delle mast cell si legano all’allergene ed inviano un segnale intracellulare che scatena la degranulazione delle cellule. I mediatori che vengono immediatamente rilasciati dai granuli o sintetizzati in seguito all’interno delle mast cell sono i principali fattori che contribuiscono a determinare i segni clinici dell’asma. L’infiammazione delle vie aeree porta ad infiltrazione cellulare (principalmente ad opera di eosinofili), aumento della produzione di muco e broncocostrizione e determina alterazioni permanenti dell’architettura nel polmone, indicate col nome di rimodellamento delle vie aeree. Tutto ciò conduce ai segni clinici dell’asma.

ASPETTO CLINICO DEL GATTO ASMATICO Qualsiasi gatto può essere colpito dall’asma, benché la condizione venga più comunemente diagnosticata nei soggetti giovani o di media età e possa essere più comune e/o grave nei soggetti di razza siamese. I segni clinici tipici sono rappresentati da varie combinazioni di tosse, sibili e sforzo o difficoltà respiratoria intermittente. Le manifestazioni hanno spesso un carattere lentamente progressivo, ma possono causare grave broncocostrizione e dispnea improvvisa. La diagnosi differenziale della difficoltà respiratoria deve prendere in considerazione l’insufficienza cardiaca congestizia o il versamento pleurico, mentre quella della tosse deve fare riferimento alle parassitosi ed alle infezioni polmonari o alla bronchite non infettiva. Benché gli esami di routine su campioni di sangue, urina e feci possano contribuire a valutare lo stato di salute complessivo dell’animale ed escludere altre malattie, gli esami più utili sono la radiografia ed il lavaggio delle vie aeree. Il riscontro di un’eosinofilia periferica è comune (circa 20%), ma non specifico. L’asma può venire esclusa sulla base della normalità delle radiografie toraciche, ma molti gatti presentano qualche associazione fra una trama polmonare bronchiale e la presenza di segni di iperinsufflazione (ad es. aumento della radiotrasparenza o appiatti-

mento e dislocazione caudale del diaframma). Il lavaggio delle vie aeree dimostra tipicamente un aumento numerico degli eosinofili e, talvolta, dei neutrofili. I campioni ottenuti mediante lavaggio devono essere destinati alle colture (compreso Mycoplasma).

OPZIONI TERAPEUTICHE PER L’ASMA DEL GATTO Le strategie terapeutiche per il trattamento dell’asma possono essere focalizzate sulla soppressione dell’infiammazione e della broncocostrizione una volta che si siano sviluppate, oppure possono cercare di spegnere la reazione di ipersensibilità aberrante prima che provochi l’infiammazione delle vie aeree e la broncocostrizione.

Terapie tradizionali La terapia tradizionale dei gatti asmatici si è basata sulla modificazione ambientale, nonché sulla somministrazione di corticosteroidi e broncodilatatori per iniezione e per os. Se è possibile identificare l’allergene che provoca l’asma e si riesce ad eliminarlo dall’ambiente, si rimuove anche la forza che induce la comparsa degli eventi asmatici. Di norma però, l’allergene è ubiquitario oppure l’animale è sensibilizzato a più allergeni, il che rende impossibile la loro eliminazione completa. I filtri di tipo Hepa possono essere utili per ridurre il carico degli allergeni in casa. È anche importante diminuire l’esposizione alle sostanze irritanti presenti nell’aria ambientale ed in particolare a fumo, polveri (ad es., lettiera per gatti) e aerosol. Il caposaldo della terapia dei gatti o dei pazienti umani asmatici è la riduzione dell’infiammazione, che si ottiene nella maggior parte dei casi attraverso una terapia con glucocorticosteroidi (GC). La componente infiammatoria dell’asma va trattata in modo da prevenire la progressione della malattia e un danno polmonare irreparabile. I GC vanno utilizzati nel trattamento iniziale di questa malattia e nelle riacutizzazioni, ma la loro azione non è immediata. Poiché questi farmaci possono produrre gravi effetti collaterali, bisogna modularne il dosaggio in modo da utilizzare quello minimo efficace per controllare i segni clinici e può essere necessario sospenderli nel periodo di remissione della malattia. Per la terapia di routine per via orale nel gatto si preferisce il prednisolone al prednisone. Il trattamento con GC da somministrare per via inalatoria consente l’applicazione diretta dei farmaci alle vie aeree con un assorbimento siste-


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mico minimo, il che consente di ottenere un effetto respiratorio massimo con conseguenze sistemiche minime. Gli erogatori predosati contenenti GC (ad es., fluticasone o flunisolide), possono essere adattati all’impiego nei gatti asmatici. La terapia inalatoria va utilizzata nei gatti con segni clinici lievi o come trattamento aggiuntivo ai GC sistemici in quelli colpiti più gravemente. I broncodilatatori accentuano il flusso dell’aria verso i polmoni. Tuttavia, il loro uso come unica terapia non è consigliato. L’asma non è solo una malattia associata ad iperattività delle vie aeree; l’infiammazione svolge un ruolo chiave sia nelle manifestazioni cliniche che nel rimodellamento permanente delle vie aeree. I broncodilatatori, come le metilxantine come l’aminofillina e la teofillina o i beta-2 agonisti come la terbutalina, si possono somministrare ai gatti sia per via orale che paraenterale. La terbutalina per via paraenterale può salvare la vita agli animali durante una crisi asmatica. Più recentemente, è stata suggerita la somministrazione di un beta-2 agonista, l’albuterolo, mediante erogatori predosati. Nei pazienti umani con l’asma, l’eccessivo impiego di broncodilatatori inalatori può aumentare la morbilità e la mortalità. L’albuterolo da inalazione è costituito da due enatimori racemici, uno dei quali causa la broncodilatazione, mentre l’altro può indurre infiammazione paradossa e broncocostrizione. Per ora, sembra bene utilizzare l’albuterolo per via inibitoria soltanto secondo necessità e per focalizzare il trattamento di routine dell’infiammazione.

Terapie alternative Per i pazienti umani con asma sono disponibili terapie alternative, ma il loro studio nel gatto è assente. La serotonina è un mediatore della contrattilità della muscolatura liscia nelle vie aeree del gatto. Antagonizzarne gli effetti utilizzando la ciproeptadina è una soluzione promettente in teoria, ma gli studi in atto presso il mio istituto non sono riusciti a dimostrare una sua utilità. Gli antagonisti dei leucotrieni (LT) come lo zafirlukast e il montelukast sono utili in molti pazienti umani con asma, ma non in tutti. Benché questi farmaci siano stati utilizzati nel gatto, non esiste alcuna loro dimostrata utilità nell’asma felina. A differenza di quanto avviene nell’uomo, il cisteinil-LT non sembra essere mediatore importante dell’asma felina. Inoltre, la somministrazione dello zafirlukast ai gatti con asma sperimentalmente indotta non ha effetti clinici positivi sulla riduzione dell’infiammazione delle vie aeree o dell’iperreattività. Per sopprimere o alterare la risposta immunitaria si possono utilizzare altri metodi. La ciclosporina diminuisce la

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produzione di IL-2, portando all’inibizione della proliferazione delle cellule T. Questo agente è stato utilizzato in pazienti umani gravemente asmatici come un farmaco antinfiammatorio utile per diminuire l’impiego dei GC, ma il suo uso di routine non viene consigliato a causa del potenziale rischio di gravi effetti indesiderati. Inducendo artificiosamente la risposta immunitaria facendo credere all’organismo di dover affrontare un’infezione batterica somministrando CpG motifs è possibile distogliere il sistema immunitario dalla risposta Th2 che promuove l’asma. In futuro, i CpG motifs potranno essere utilizzati come “adiuvanti” per altre forme di immunoterapia. Sino ad oggi, l’immunoterapia allergene-specifica è l’unico trattamento associato ad una guarigione della malattia allergica. L’identificazione degli allergeni verso i quali il paziente è stato sensibilizzato è di importanza critica, ma risulta difficile da attuare in pratica. I farmaci concomitanti (in particolare gli steroidi) possono interferire con i test ematici e cutanei. Inoltre, la presenza di IgE specifiche per un particolare allergene non significa che sia questo il responsabile della malattia.

Letture consigliate 1. 2.

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Padrid P. Feline asthma - Diagnosis and treatment. Vet Clinics North Am - Small Anim Pract. 30:1279, 2000. Costello J, et al. Summary: the pharmacology of leukotrienes in asthma. Adv in Prostaglandin, Thromboxane and Leukotriene Res 1994;22:263-268. Padrid P, et al. Cyproheptadine-induced attenuation of type-I immediate-hypersensitivity reactions of airway smooth muscle from immune-sensitized cats. Am J Vet Res 1995;56:109-115. Mellema M, et al. Urinary leukotriene levels in cats with allergic bronchitis. American College of Veterinary Internal Medicine Forum 1998;724. Norris C, et al. Cysteinyl leukotrienes in urine and bronchoalveolar lavage fluid in an experimental model of feline asthma. Am J Vet Res 2003;64:1449-1453. Broide D, et al. Systemic administration of immunostimulatory sequences mediates reversible inhibition of Th2 responses in a mouse model of asthma. J Clin Immunol 2001;21:175-182. Reinero CR, et al. Effects of drug treatment on inflammation and hyperreactivity of airways and on immune variables in cats with experimentally induced asthma. Am J Vet Res. 66:1121-1127, 2005.

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Aggiornamento sugli esami sierologici per le malattie infettive nel gatto Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

CONCETTI DI SIEROLOGIA La sierologia è la misurazione delle interazioni antigeneanticorpo a fini diagnostici. Queste interazioni possono venire utilizzate in due modi. In primo luogo, l’identificazione di uno specifico anticorpo può fornire la prova che un animale è stato esposto ad un dato antigene. Nella maggior parte dei casi, questo riscontro può venire impiegato come prova circostanziale di malattia infettiva. In secondo luogo, è possibile utilizzare un anticorpo specifico per individuare o identificare un particolare antigene. Questa può essere impiegata come prova diretta di infezione, ma non necessariamente di malattia. Le prove sierologiche possono essere distinte come test di interazione antigene-anticorpo primaria, secondaria o terziaria. Nei test a legame primario, viene permesso all’antigene ed all’anticorpo di interagire e formare dei complessi. Questi vengono quantificati utilizzando reagenti marcati con radioisotopi, coloranti fluorescenti o enzimi. Sono esempi comuni di queste tecniche diagnostiche sensibili l’immunofluorescenza indiretta (IFA) e l’ELISA (enzyme linked immunosorbent assay). I test di legame secondario misurano i risultati dell’interazione antigene-anticorpo (agglutinazione, emoagglutinazione, precipitazione, neutralizzazione o fissazione del complemento) in vitro. Gli esempi sono rappresentati da test di Coombs, immunodiffusione su gel (ad es., test di Coggins) ed immunoelettroforesi. Le metodiche basate sul legame terziario non vengono comunemente utilizzate per la diagnosi clinica di malattia, ma misurano il reale effetto protettivo dell’anticorpo in un animale. I veterinari che si dedicano alla medicina felina utilizzano la sierologia per valutare la probabilità che un dato gatto sia colpito da una particolare malattia infettiva. Benché utili, i test sierologici presentano alcuni limiti. Il primo è relativo al significato della positività di un test anticorpale. La presenza di un anticorpo indica l’esposizione ad un antigene, ma non necessariamente un’infezione o una malattia in atto. In alcuni casi, l’antigene può venire eliminato dall’animale senza causare malattia, e determinare comunque la positività di un titolo anticorpale. Questo è spesso il caso dei titoli anticorpali per la diagnosi di infezioni micotiche come, ad esempio, l’istoplasmosi. In altri casi, può darsi che l’anticorpo rilevato non sia patognomonico per una data infezione. Ad esempio, quelli generati in risposta alla peritonite infettiva felina (FIP) sono indistinguibili da quelli che si sviluppano nei confronti del coronavirus enterico felino. In altri casi ancora, l’anticorpo può essere presente come conseguenza di un trasferimento pas-

sivo piuttosto che del fatto che il gatto è colpito da una data infezione. Questo può essere il caso dei gattini che vengono allattati da una gatta con infezione da virus dell’immunodeficienza felina (FIV). D’altro canto, non sempre si rilevano anticorpi in presenza di un’infezione in atto. La ragione più comune della negatività del test anticorpale in presenza di un’infezione è che non è trascorso abbastanza tempo fra l’infezione stessa e la risposta anticorpale. Ad esempio, i test sierologici per la citauxzoonosi sarebbero relativamente inutili, perché la natura iperacuta della malattia fa sì che questa preceda la produzione anticorpale. In alternativa, può darsi che gli animali immunocompromessi non riescano a produrre anticorpi rilevabili nonostante un’infezione di vecchia data. Questo può essere il caso che si ha negli stadi terminali dell’infezione da FIV o FIP. Anche i test che rivelano la presenza dell’antigene invece dell’anticorpo hanno dei limiti. Ad esempio, benché l’identificazione dell’antigene del virus della leucemia felina (FeLV) denoti l’infezione, è possibile che l’animale sia riuscito ad eliminarla senza sviluppare la malattia. I test immunologici possono essere studiati per riflettere la presenza di uno qualsiasi e di tutti gli anticorpi diretti contro un dato antigene, oppure possono identificare in modo specifico gli anticorpi di un determinato isotipo (IgM, IgG, IgA ed IgE). Poiché quest’ultimo varia in relazione all’insorgenza ed alla durata dell’esposizione all’antigene, è importante sapere quali isotipi dell’anticorpo vengono misurati da un dato test. La risposta anticorpale iniziale agli agenti infettivi viene mediata principalmente dalle IgM, ma quella più tardiva passa alle IgG e/o alle IgA. Nel caso di agenti come Toxoplasma gondii, in grado di causare un’infezione cronica senza determinare una malattia, il riscontro di una risposta delle IgG può indicare una natura cronica. Di conseguenza, la semplice identificazione di un titolo anticorpale positivo, anche elevato, non è una prova di infezione in atto. In questi casi, la dimostrazione dell’infezione in atto richiede la positività di un titolo IgM oppure l’accertamento di un aumento del titolo delle IgG (due raddoppiamenti, cioè un aumento di quattro volte) nell’arco di un periodo di alcune settimane. A causa della variabilità intrinseca nei test immunologici, i titoli devono essere determinati dal medesimo laboratorio e l’ideale è effettuare i prelievi di campioni e conservarli per poi inviarli simultaneamente al laboratorio per l’analisi. Un’altra serie di limitazioni è quella relativa alla probabilità che un dato test rifletta in modo accurato la presenza o l’assenza di una malattia. Qualsiasi test, non importa quanto sia buono, è soggetto ad esiti falsi positivi e falsi negativi.


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Questi si riflettono nella sensibilità e specificità diagnostica del test stesso. Col termine di sensibilità diagnostica si indica la percentuale di test condotti su animali infetti che risultano positivi, mentre la specificità corrisponde alla percentuale di test condotti su animali non infetti che risultano negativi. Appare allora evidente che per “escludere” una diagnosi è auspicabile un test con un’elevata sensibilità, mentre per “confermarla” è preferibile uno con un’elevata specificità. Per il clinico è ancor più importante che la sensibilità e specificità di un dato test siano i valori predittivi positivi e negativi del test stesso. Il valore predittivo positivo è la probabilità che un animale che risulta positivo al test sia effettivamente colpito dalla malattia in questione, mentre il valore predittivo negativo è la probabilità che un animale, che risulta negativo al test, sia libero da malattia. Il valore predittivo positivo è certamente correlato alla sensibilità e specificità del test diagnostico, ma anche alla prevalenza della malattia nella popolazione degli animali testati. Ciò significa che un esito positivo del test in una popolazione con una bassa incidenza di malattia, anche quando il metodo utilizzato è molto sensibile e specifico, ha una probabilità più elevata di essere un falso positivo rispetto ai casi in cui lo stesso test viene eseguito su una popolazione con un’elevata prevalenza della malattia. Occorre ricordare che non esiste alcun test che sia sempre perfettamente accurato. I risultati delle prove sierologiche vanno valutati come uno dei pezzi del puzzle, non l’intero quadro!!

USO SPECIFICO DEI TEST SIEROLOGICI IN MEDICINA FELINA Virus della leucemia felina (FeLV) Il virus della leucemia felina provoca un’infezione retrovirale del gatto che esita, fra le altre sequele, in immunosoppressione, oncogenesi e discrasia ematologica. Clinicamente, la diagnosi di FeLV si basa nella maggior parte dei casi su test sierologici studiati per identificare l’antigene virale (in particolare, quello P27). Le prove diagnostiche più comunemente eseguite sono quelle di legame primario, come il test ELISA immunocromatografico e l’IFA. Nonostante le analogie fra queste prove, esistono importanti differenze. La maggior parte dei kit diagnostici per uso ambulatoriale impiega qualche variante della metodologia ELISA. È importante ricordare che quest’ultima rileva l’antigene virale P27 solubile (libero) mentre l’IFA individua quello incorporato nelle cellule. Per questa ragione, l’ELISA può identificare l’antigene P27 in gatti con viremia transitoria oppure persistente, mentre il riscontro di P27 in un’IFA-test implica una viremia persistente. L’esito positivo di un test ELISA va confermato prima di giungere alla conclusione che il gatto è colpito da un’infezione da FeLV. La conferma può consistere nella ripetizione di un test ELISA dopo 3 mesi oppure nell’immediata esecuzione di un esame mediante IFA. Un gatto ELISA-positivo ed IFAnegativo diventa tipicamente IFA-positivo entro qualche settimana o torna allo status di ELISA-negativo. I gatti che tornano allo status negativo possono mantenere un’infezione latente ed è possibile che FeLV possa causare malattia in qualche momento nel futuro.

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Generalmente, l’IFA-test è considerato più specifico, ma meno sensibile dell’ELISA. L’esame mediante tecnica ELISA deve utilizzare campioni di siero o plasma piuttosto che sangue intero. Sono disponibili test da eseguire su campioni di lacrime o saliva, ma presentano un rischio elevato di esiti falsi positivi o falsi negativi e non vanno impiegati. Nell’IFA si utilizza il sangue intero. Inoltre, può essere sottoposto ad immunofluorescenza il midollo osseo, per contribuire ad escludere un’infezione latente in un gatto sierologicamente negativo con sospetta infezione da FeLV. Né la vaccinazione né gli anticorpi di origine materna interferiscono con i test per la diagnosi dell’infezione da FeLV.

Virus dell’immunodeficienza felina (FIV) Anche il virus dell’immunodeficienza felina è un retrovirus, ma appartiene al sottogruppo lentivirale. Come altre infezioni da virus lenti (ad es., HIV), il carico virale nell’infezione da FIV è tipicamente ridotto. Per questa ragione, l’infezione da FIV non viene documentata mediante test finalizzati ad evidenziare gli antigeni, come si fa per l’infezione retrovirale da FeLV. Piuttosto, si ricerca la risposta anticorpale anti-FIV. I test tipici per l’infezione da FIV sono l’ELISA immunocromatografica, l’IFA ed il Western Blot; i kit ambulatoriali utilizzano la metodologia ELISA. Come nel caso di FeLV, l’esito positivo di queste prove ambulatoriali deve essere confermato. La conferma dell’infezione da FIV si basa tipicamente sull’identificazione degli anticorpi mediante Western Blot. Qualsiasi test sierologico che identifichi gli anticorpi piuttosto che l’antigene è sottoposto a dilemmi interpretativi unici. Ad esempio, la risposta anticorpale può non essere rilevabile all’inizio dell’infezione o alla fine del suo decorso, in particolare in un animale immunodepresso. Benché nella maggior parte dei gatti avvenga entro 60 giorni dall’infezione da FIV, in alcuni casi la sieroconversione può richiedere periodi considerevolmente più prolungati. Utilizzando i test anticorpali si possono anche ottenere esiti falsi positivi. Da questo punto di vista, risultano particolarmente importanti due cause. La prima è la positività del test in un gattino giovane. I felini di questa età possono essere infettati dalla madre, ma questo mezzo di trasmissione è relativamente poco comune. È almeno altrettanto probabile che l’esito positivo di un test anticorpale in un gattino giovane sia la conseguenza di un trasferimento passivo degli anticorpi anti-FIV dalla madre. Poiché gli anticorpi materni possono portare ad esiti falsi positivi dei test, i gattini positivi devono essere riesaminati ogni 60 giorni o fino all’età di 6 mesi per confermare l’infezione. Una seconda ragione della falsa positività dei test anticorpali è una precedente vaccinazione. Nel mese di luglio del 2002 è stato introdotto sul mercato un vaccino anti-FIV che esita nella produzione di anticorpi specifici per questo virus. Ad oggi, non esistono test sierologici capaci di distinguere fra gli anticorpi antiFIV derivanti dall’infezione e quelli di origine vaccinale.

Peritonite infettiva felina (FIP) La peritonite infettiva felina è una malattia infettiva causata dalla mutazione di un coronavirus enterico altrimenti


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relativamente benigno. La mutazione consente la disseminazione del virus e la conseguente risposta immunitaria dell’ospite esita nello sviluppo della malattia. La diagnosi dell’infezione da FIP è stata a lungo problematica e l’unico modo per arrivare ad una risposta definitiva è rappresentato dalla biopsia tissutale o dalla necroscopia. I test sierologici commercializzati per la diagnosi di FIP in realtà rilevano gli anticorpi sviluppati nei confronti dei coronavirus e non sono in grado di distinguere fra quelli mutati, che esitano nella FIP clinicamente manifesta, ed il coronavirus enterico felino. Per questa ragione, non possono distinguere gli anticorpi generati contro FIP da quelli prodotti nei confronti di qualsiasi altro coronavirus, compreso quello del cane. La maggior parte dei test disponibili richiede l’invio dei campioni ad un laboratorio, ma esistono anche delle metodiche ELISA da utilizzare a livello ambulatoriale. In rari casi, la vaccinazione anti-FIP, così come alcuni vaccini vivi modificati non correlati, può esitare in una risposta anticorpale sistemica positiva. Per tutte queste ragioni, la positività di un test anticorpale NON dimostra che un gatto è colpito dalla FIP. Poiché i felini possono essere infettati dal coronavirus e non sviluppare mai la peritonite infettiva, i test anticorpali per l’identificazione dei coronavirus non sono utili per prevedere quali gatti in un nucleo familiare esposto svilupperanno la FIP in futuro. D0altro canto, non tutti i gatti con FIP presentano una risposta anticorpale positiva. Ciò risulta particolarmente problematico negli stadi terminali della malattia, quando la produzione di anticorpi può essere scarsa o gli anticorpi stessi possono aver formato dei complessi con gli antigeni. Ciò significa che la determinazione dei titoli coronavirali non trova alcun impiego in medicina felina? Benché un test positivo non dimostri la FIP ed uno negativo non consenta di escluderla, l’esecuzione di questo esame può avere una limitata utilità. Le metodiche che forniscono come risposta un titolo piuttosto che un semplice “SI” o “NO” offrono dei dati che hanno delle implicazioni relative alla probabilità della diagnosi. La presenza della malattia è da ritenere più probabile in un gatto con segni clinici di FIP associati ad titolo positivo molto elevato piuttosto che in un altro che si trovi nelle stesse condizioni cliniche, ma con titoli negativi o debolmente positivi. La Antech laboratories commercializza un test ELISA definito “FIP-specifico”. La società afferma che una proteina detta 7B viene prodotta solo dal coronavirus patogeno che induce la FIP. Questo test ELISA specializzato identifica gli anticorpi che reagiscono alla proteina 7B. Recenti prove sperimentali suggeriscono che questa proteina 7B non si trova in tutti i coronavirus che causano la FIP, mentre viene prodotta da almeno alcuni coronavirus che non la causano. Quindi, ancora una volta sembra che i test sierologici non siano in grado di dimostrare che un gatto ha o non ha la FIP.

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valore predittivo diagnostico, ma quelli per la criptococcosi presentano delle caratteristiche uniche. Benché siano disponibili delle metodiche per stabilire i titoli anticorpali criptococcici, un test diagnostico più affidabile è quello di agglutinazione al lattice per l’antigene capsulare criptococcico o, in alternativa, quello immunocromatografico per l’antigene capsulare. Benché l’ideale sia l’identificazione citologica dei microrganismi, i test per l’antigene capsulare possono essere un mezzo diagnostico più sensibile. Poiché la metodica utilizzata rileva gli antigeni piuttosto che gli anticorpi, il test può essere impiegato non solo a fini diagnostici, ma anche per monitorare la risposta al trattamento ad un’infezione criptococcica consolidata. Si prevede che il successo della terapia determini una diminuzione del titolo. Il test per l’antigene capsulare viene solitamente eseguito sul siero, ma l’infezione del sistema nervoso centrale può portare a riscontri positivi sul liquor.

Filariosi cardiopolmonare La diagnosi della filariosi cardiopolmonare del gatto è spesso difficile; le microfilarie si osservano raramente, i carichi elmintici sono bassi e i segni radiografici dell’infestazione possono essere assenti. Spesso, per giungere a questa diagnosi si impiegano simultaneamente test sierologici che effettuano la ricerca sia degli anticorpi che degli antigeni. Quando si utilizzano test anticorpali, è essenziale impiegare metodiche specie-specifiche. Benché questi test siano molto sensibili, nelle aree dove l’incidenza della malattia è bassa le positività vanno interpretate con cautela. Anche in questo caso, il riscontro degli anticorpi identifica l’esposizione, ma non fornisce la prova del fatto che l’animale è colpito da un’infestazione da filarie adulte; l’esposizione agli stadi larvali può portare ad un test positivo senza filariosi cardiopolmonari persistenti. Come sempre, i test anticorpali richiedono un certo periodo di tempo (2-3 mesi) perché l’infestazione diventi positiva. Un altro test sierologico comunemente utilizzato per identificare le filarie adulte è quello antigenico. Poiché identifica l’antigene piuttosto che l’anticorpo, questo esame non è specie specifico e nel gatto si può utilizzare lo stesso saggio impiegato nel cane. Benché si tratti di un metodo molto specifico (il che significa che un esito positivo probabilmente indica una reale positività), la sensibilità non è quella ideale. La scarsa sensibilità è spesso correlata ai bassi carichi elmintici o all’infestazione ad opera di parassiti di un solo sesso. I gatti presentano tipicamente carichi parassitari più bassi del cane, il che significa che nei felini la sensibilità è peggiore che nel cane.

Toxoplasmosi Criptococcosi Cryptococcus neoformans è una causa importante di infezione micotica nel gatto, in particolare a livello nasale. I titoli sierologici nei confronti di molte infezioni micotiche si basano sull’identificazione degli anticorpi e sono di scarso

L’infestazione da Toxoplasma gondii è comune nel cane, ma la toxoplasmosi intesa come malattia è di gran lunga meno frequente. Una volta avvenuta l’infestazione, il microrganismo rimane nei tessuti per tutta la vita. Occasionalmente, nel gatto si possono avere casi di malattia grave o anche di morte dovuti a malattia in atto. Poiché i test siero-


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logici per la toxoplasmosi felina generalmente ricercano gli anticorpi e poiché molti gatti (o persino la maggior parte di essi) sono stati esposti al microrganismo, la diagnosi sierologica della malattia in atto è abbastanza complicata. L’identificazione di un singolo titolo IgG elevato, anche se altissimo, indica l’infestazione, ma non la malattia. I gatti sani possono mantenere titoli IgG elevati per anni dopo l’infestazione ed anche per tutta la vita. La dimostrazione di un’infestazione attiva in un gatto malato richiede un aumento di quattro volte del titolo IgG o, più tipicamente, la documentazione di un innalzamento di quello delle IgM. I titoli sierici IgM non restano elevati per tutta la vita ma diminuiscono tipicamente sino a livelli molto bassi entro 16 settimane nei gatti sani o infestati.

Bartonellosi I gatti possono venire infestati da parecchie specie di Bartonella, come B. henselae e B. Clarridgeiae. La bartonellosi nel gatto ha una prevalenza elevata, tanto che in alcuni studi i soggetti sieropositivi arrivano al 50% di quelli esaminati. Sino a non molto tempo fa la bartonellosi era considerata un’infezione asintomatica che costituiva motivo di preoccu-

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pazione soltanto a causa delle sue implicazioni zoonosiche (trasmissione della malattia da graffio di gatto). Più recentemente, la bartonellosi è stata associata ad una varietà di manifestazioni patologiche nel gatto, che la fanno ritenere una possibile causa di stomatite, uveite e linfoadenite. Lo spettro completo della bartonellosi clinica felina e la frequenza della malattia causata dalla bartonellosi resta da definire. I test sierologici per la diagnosi di bartonellosi rilevano gli anticorpi. Poiché questi ultimi danno origine a reazioni crociate, l’antigene impiegato per il test è generalmente B. henselae. Trattandosi di un test anticorpale, è necessario un po’ di tempo dall’infezione perché si sviluppi la sieroconversione. Inoltre, la positività del test in un gattino di meno di sei mesi di vita può indicare un’infezione o semplicemente riflettere la presenza di anticorpi di origine materna. I gattini non vengono infettati in utero attraverso il latte, e l’infezione si ha solo in seguito all’esposizione ai vettori artropodi. L’esecuzione di routine di un test nei gatti sani non viene consigliata.

Indirizzo per la corrispondenza: Leah Cohn - University of Missouri College of Veterinary Medicine, Columbia, MO, USA, 65211


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Aggiornamenti sulle infezioni retrovirali nei gatti Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

Introduzione Le infezioni da retrovirus del gatto sono diffuse a livello mondiale e rappresentano ancora una causa importante di morbilità e mortalità dei felini da compagnia. Queste malattie possono colpire una percentuale qualsiasi fra lo 0 ed il 40% dei gatti di una data popolazione, a seconda della regione geografica e del tipo di vita degli animali. Quelli che vivono soltanto in casa e che provengono da strutture da riproduzione chiuse sono raramente infetti, mentre quelli liberi di vagabondare lo sono più spesso. I gatti randagi non hanno maggiori probabilità di essere infetti rispetto a quelli di proprietà, ma quelli che vivono all’aperto hanno molte più probabilità di contrarre l’infezione rispetto a quelli che vengono tenuti sempre in casa. Queste differenze sono in gran parte dovute alla disponibilità di comodi metodi di esame che hanno consentito di eliminare i gatti infetti dalle popolazioni chiuse. Anche la vaccinazione può avere un certo ruolo nella diminuzione dell’incidenza dell’infezione nei gatti da compagnia ben curati.

Retrovirus felini I retrovirus hanno la capacità esclusiva di utilizzare una “transcriptasi inversa” per trascrivere il loro materiale genetico da RNA a DNA all’interno di una cellula ospite infetta. Questi virus integrano il proprio materiale genetico con quello dell’ospite per il resto della vita di quest’ultimo. Esistono parecchi sottotipi di retrovirus come gli Oncornaviridae (così chiamati per la loro propensione alla trasformazione neoplastica dei tessuti infetti), i Lentiviridae (così chiamati per la lentezza dell’insorgenza delle malattie che inducono) e gli Spumaviridae. Questi tipi virali sono specie-specifici per quanto riguarda l’ospite ed i gatti sono suscettibili a parecchie infezioni retrovirali differenti. Clinicamente, il virus della leucemia felina (FeLV, un oncornaviridae) e quello dell’immunodeficienza felina (FIV, un lentiviridae) sono la causa più importante di malattia nel gatto.

Virus della leucemia felina FeLV è stato scoperto per la prima volta nel 1964. I test diagnostici divennero facilmente disponibili agli inizi degli anni ’70 e i vaccini commerciali anti-FeLV si diffusero a metà degli anni ’80. Nella maggior parte dei casi, la leucemia felina è una malattia dei gattini e dei gatti giovani, benché possano essere colpiti soggetti di qualsiasi età e sesso. Le sindromi cliniche sono rappresentate da una immunodeficienza con infezione secondaria, soppressione midollare e malattia

neoplastica. Si verificano sia la trasmissione orizzontale che quella verticale. Nella trasmissione è tipicamente coinvolto lo stretto contatto che si verifica durante la toelettatura reciproca, mentre il ruolo dei fomiti è solo minimo. Esistono parecchi possibili esiti dell’esposizione: guarigione, infezione latente o viremia persistente. I gattini hanno maggiori probabilità di sviluppare una viremia persistente rispetto ai gatti adulti, ma l’esito dell’esposizione dipende da molti fattori. L’infezione latente implica che le particelle virali sono sequestrate nel midollo senza causare viremia. È possibile che queste infezioni si rendano manifeste a distanza di molti anni, spiegando così i casi di gatti che sono stati tenuti in casa senza contatti con altri animali della stessa specie per anni, ma che sviluppano una malattia FeLV-correlata in una fase più avanzata della vita. Nei gatti con viremia persistente è probabile lo sviluppo di una viremia palese entro un periodo di tempo relativamente breve dopo l’infezione, ed un terzo circa della totalità dei gatti infetti muore entro un anno. La malattia clinica varia notevolmente, in parte a seconda del sottogruppo di FeLV che causa l’infezione. In prossimità del momento dell’infezione si può osservare una malattia lieve, ma i gatti si riprendono e restano sani per un certo periodo di tempo. Quelli con infezione persistente sviluppano infine un’infezione secondaria sostenuta da una varietà di microrganismi, presentano anemia o pancitopenia o vanno incontro ad una malattia neoplastica come il linfoma timico, renale e del SNC. Occasionalmente si osservano altre manifestazioni (ad es., glomerulonefrite, infertilità, aborto). I risultati dell’esame emocromocitometrico completo, del profilo biochimico e dell’analisi dell’urina dipendono dalle manifestazioni della malattia secondaria e non sono specifici di FeLV. L’anemia macrocitica è indicativa di FeLV, ma le anemie possono essere di natura normocitica, rigenerativa e non rigenerativa. Nei gatti con leucemia secondaria palese vengono identificate cellule blastiche circolanti. Il test per la diagnosi dell’infezione da FIV va eseguito in ogni gatto malato e va anche consigliato al momento dell’arrivo di un nuovo gatto in famiglia o come controllo periodico nei gatti che vivono all’aperto. Il test diagnostico più comunemente utilizzato per la diagnosi di FeLV è un’ELISA finalizzato a rilevare l’antigene P27 del core virale. Poiché questo test diventa positivo prima che il materiale genetico del virus venga incorporato nelle cellule staminali midollari, i gatti positivi possono eliminare l’infezione e tornare ad uno status negativo. Quindi, tutti i gatti che risultano positivi al test ELISA devono essere sottoposti ad un nuovo esame dopo 2 o 3 mesi, oppure alla conferma mediante immunofluorescenza (IFA) della presenza di materiale genetico virale incorporato nelle cellule. L’infezione latente non può essere individuata mediante test ELISA o IFA su campioni di sangue. Solo sot-


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toponendo un aspirato midollare ad IFA o coltura cellulare è possibile dimostrare un’infezione latente. In commercio si trovano test PCR attendibili per l’infezione da FeLV. Non esiste alcuna terapia. I gatti sani con infezione da FeLV devono essere tenuti in casa sia per prevenire l’esposizione di altri gatti che per proteggerli dall’infezione secondaria. È essenziale vigilare per garantire il mantenimento di routine dello stato di salute, prestando attenzione anche alla vaccinazione ed alle cure dentali. Le infezioni secondarie vanno identificate risalendo alla loro origine e trattandole aggressivamente con agenti microbicidi appropriati. La neoplasia FeLV-associata può essere trattata mediante chemioterapia o radioterapia secondo le modalità più appropriate per il tipo di tumore in causa. L’anemia associata a FeLV è spesso difficile da trattare. L’infezione secondaria da M. haemofelis va esclusa, e i casi accertati di anemia immunomediata vanno trattati mediante immunosoppressione. Come intervento di sostegno si può utilizzare la trasfusione di sangue. Alcuni gatti rispondono all’eritropoietina umana ricombinante (100 unità/kg SC tre volte alla settimana). Spesso è stata tentata l’immunomodulazione, ma esistono poche prove cliniche controllate che dimostrino l’utilità di queste terapie. La proteina A stafilococcica (10 µg/kg IP due volte alla settimana) ha determinato un miglioramento soggettivo in gatti malati con infezione da FeLV. I soggetti con duplice infezione da FeLV e FIV hanno dimostrato un certo miglioramento con IFN-omega felino ricombinante (1[M]/kg/die SC per 5 giorni in 3 serie ai giorni 0, 14 e 60). L’ideale è tenere in casa gatti non infetti che vivano solo con altri gatti non infetti. Per l’infezione da FeLV è disponibile la vaccinazione, che però va praticata solo ai gatti FeLVnegativi. Come per tutti i vaccini, al suo impiego sono correlati dei potenziali rischi (compreso il sarcoma del punto di vaccinazione) ed è necessario valutare individualmente il rapporto rischio:beneficio; quella contro FeLV non è una delle vaccinazioni di base dei gatti adulti a basso rischio. Sembrano essere ugualmente efficaci sia i vaccini inattivati che quelli a subunità, ma la vaccinazione non è mai completamente efficace e si possono avere degli insuccessi dovuti ad una varietà di ragioni.

Virus dell’immunodeficienza felina FIV è stato scoperto per la prima volta nel 1987 e pochissimo tempo dopo sono stati resi disponibili i test diagnostici di routine. Il primo vaccino anti-FIV è stato rilasciato nel 2002. Il virus determina principalmente una malattia dei gatti adulti, con i maschi infettati più frequentemente delle femmine. Benché possa esistere, la trasmissione verticale non è epidemiologicamente importante. Invece, la malattia si diffonde tipicamente attraverso lo stretto contatto fra gatti, specialmente in associazione con i comportamenti da combattimento dei gatti maschi adulti. Dopo l’infezione iniziale il virus si replica nel tessuto linfoide (compreso il timo) e salivare, con successiva disseminazione ad altre sedi. Man mano che il gatto sviluppa una risposta immunitaria parzialmente efficace, il numero di particelle virali circolanti diminuisce e l’animale sembra sano. Alla fine, spesso dopo molti anni, si ha un graduale deterioramento della funzione immunitaria.

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Infine, si osservano infezioni secondarie e malattie associate, che esitano nella fase terminale della malattia. Come nel caso di FeLV, i segni clinici variano notevolmente. L’infezione acuta di solito è silente, ma può causare febbre autolimitante, neutropenia e linfoadenopatia. I gatti restano tipicamente in buone condizioni per molti anni, prima di sviluppare infine infezioni secondarie o complicazioni di malattie. I quadri più comuni sono rappresentati da febbre ricorrente, anoressia, perdita di peso, malessere, oculopatie infiammatorie, gengiviti e stomatiti, infezioni secondarie del tratto gastroenterico, respiratorio e urinario o persino neoplasie maligne. Occasionalmente, le manifestazioni neurologiche di FIV vengono identificate senza altre affezioni infettive o neoplastiche del sistema nervoso. I test per la diagnosi dell’infezione da FIV vanno effettuati in qualsiasi gatto malato e sono consigliati al momento dell’adozione di un nuovo gatto in famiglia o come controlli periodici nei gatti che vivono all’aperto. Benché negli stadi finali dell’infezione si possano osservare linfopenia e trombocitopenia, certamente si tratta di riscontri aspecifici. Analogamente, le anomalie del profilo biochimico o dell’analisi dell’urina non sono specifiche, e probabilmente riflettono i processi patologici secondari. I test di routine per la diagnosi di FIV ricercano anticorpi sierici piuttosto che l’antigene. I test ELISA sono facilmente disponibili ed hanno buona sensibilità e specificità. Sfortunatamente, l’identificazione degli anticorpi non permette di distinguere fra quelli che si sono formati in seguito ad un’autentica infezione e quelli acquisiti mediante il trasferimento passivo dalla madre oppure attraverso la vaccinazione. I gattini positivi devono essere riesaminati dopo aver raggiunto l’età minima di 6 mesi. Come per qualsiasi altro test, si possono avere risultati falsi positivi e falsi negativi. Per confermare la presenza degli anticorpi anti-FIV si può utilizzare il metodo Western Blot, che però non consente comunque di stabilire se l’origine dell’anticorpo è un’autentica risposta all’infezione. I gatti infettati di recente o gravemente immunodepressi possono rispondere negativamente al test a dispetto dell’infezione. L’identificazione del virus mediante PCR non è disponibile come procedura di routine. Non esiste alcuna cura per l’infezione da FIV. I gatti infetti e sani devono essere tenuti in casa mantenendo costanti le cure sanitarie di routine, comprese le cure dentarie di routine e la vaccinazione. I gatti malati necessitano di una diagnosi pronta e del trattamento delle complicazioni secondarie. È stata tentata l’immunomodulazione, ma mancano prove controllate. Le manifestazioni neurologiche possono rispondere alla terapia antiretrovirale (AZT, 15 mg/kg PO BID), ma sono comuni gli effetti collaterali. Per FIV esiste una vaccinazione, ma è prevedibile che i gatti vaccinati rispondano poi positivamente ai test per la diagnosi dell’infezione, e bisogna quindi identificarli chiaramente (microchip o tatuaggio). La necessità di vaccinare i gatti che hanno scarse probabilità di azzuffarsi con i conspecifici (come quelli che vivono in casa), è discutibile.

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Infezioni respiratorie ad eziologia batterica nel gatto Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

Ai fini della presente discussione, l’apparato respiratorio può essere suddiviso in diverse sezioni: le vie nasali e rinofaringee, le vie aeree di maggior calibro, il parenchima polmonare e lo spazio pleurico. Ognuna di queste sezioni è suscettibile di una gran varietà di malattie, comprese le infezioni batteriche. La relazione sarà focalizzata in modo specifico sulle infezioni batteriche respiratorie del gatto.

Infezioni delle vie nasali e rinofaringee In quasi tutti i casi, le infezioni batteriche delle vie nasali sono secondarie a qualche processo patologico sottostante. La terapia antibiotica può determinare la remissione dei segni clinici, ma una guarigione eziologica è altamente improbabile. L’approccio migliore ai gatti con segni nasali cronici consiste nell’eseguire un’approfondita valutazione diagnostica alla ricerca di una malattia nasale primaria, nella speranza di riuscire ad identificare un problema che possa essere trattato direttamente. Sfortunatamente, nella metà dei gatti con scolo nasale cronico anche le indagini diagnostiche molto estese non riescono ad identificare una specifica malattia sottostante. In questi casi, si formula una diagnosi di “rinosinusite cronica idiopatica”. Questa sindrome è tipicamente caratterizzata, alla biopsia nasale, da un’infiammazione linfoplasmocitaria o suppurativa. La suscettibilità dei gatti all’infezione da calicivirus o herpesvirus può spiegare la frequenza del suo riscontro. È stato ipotizzato che queste infezioni portino a successive manifestazioni di rinosinusite cronica felina per effetto del danneggiamento del tessuto nasale derivante dalla riattivazione e della citolisi virale, oppure da una risposta immunitaria agli agenti patogeni virali. I tessuti nasali danneggiati sarebbero più suscettibili alle infezioni batteriche secondarie o persino all’osteomielite dei turbinati. Dai tamponi nasali prelevati dai gatti sani e da quelli con rinite cronica è possibile isolare una gran varietà di batteri, compreso Pseudomonas aeruginosa. Chiarire il ruolo di questi microrganismi nella rinosinusite cronica è ancor più difficile perché i tamponi nasali ottenuti facilmente non sono ideali per le colture. I batteri prelevati mediante tamponi nasali riflettono la contaminazione superficiale piuttosto che l’infezione dei tessuti. Anche se nella maggior parte dei casi è probabile che la rinite batterica sia un evento secondario, il trattamento con antibiotici talvolta riesce a porre sotto controllo i segni clinici dello scolo nasale nei gatti con rinosinusite cronica. Bisogna evitare brevi cicli di somministrazione di molteplici antibiotici differenti. In assenza della dimostrazione, attraverso le colture tissutali, della necessità di uno specifico tipo di antibiotico, le scelte formulate su base empirica devo-

no avere un ampio indice terapeutico. Da questo punto di vista, è ragionevole optare per l’amossicillina o l’amossicillina/acido clavulanico. L’autore generalmente prescrive un ciclo minimo di 4-6 settimane, presumendo che l’infezione secondaria coinvolga i turbinati e che possa essere presente una fibrosi (cioè che si tratti di un’infezione complicata piuttosto che semplice, come nei casi in cui si tratta un’osteomielite). Tuttavia, se non si riscontra alcun miglioramento entro 5-7 giorni, è improbabile che trattamenti più prolungati possano essere efficaci. Mycoplasma spp. e Bordetella bronchiseptica possono essere agenti patogeni nasali primari o secondari. Per questa ragione, alcuni clinici raccomandano un ciclo di 2-3 settimane con antibiotici dotati di uno spettro di azione più efficace per questi microrganismi. Le scelte possibili sono rappresentate da doxiciclina, azitromicina o fluorochinoloni (nota: nel gatto questi ultimi sono associati a degenerazione retinica). Uno studio condotto per confrontare la risposta clinica all’amossicillina o all’azitromicina nei gatti dei ricoveri che presentavano segni di rinite (tipicamente acuta piuttosto che cronica) non ha riscontrato differenze significative fra questi trattamenti.

Infezione delle vie aeree di maggior calibro La tracheobronchite infettiva è meno comune nel gatto che nel cane e, quando si verifica, è spesso associata ad infezioni virali delle vie aeree superiori. B. bronchiseptica può essere isolata sia dai gatti sani che da quelli con segni di malattia respiratoria. La reale incidenza dell’infezione da B. bronchiseptica dell’apparato respiratorio del gatto è sconosciuta. Negli animali in cui si ritiene che questo potenziale patogeno dia origine ad un’infezione piuttosto che ad una colonizzazione, la tosse viene descritta come il segno clinico predominante. A differenza di quanto avviene nella tracheobronchite infettiva del cane, nel gatto la tosse non è particolarmente forte, né “differisce” in altri modi da quella dovuta ad altre cause. L’infezione nel gatto viene solitamente documentata in soggetti molto giovani o gattini ricoverati in ambienti in cui vivono più animali della stessa specie. Sono disponibili dei vaccini per la prevenzione dell’infezione da B. bronchiseptica nei felini, ma si ritiene che non siano indicati come procedura di routine da attuare nella maggior parte dei gatti. La malattia broncopolmonare felina come l’asma o la bronchite cronica non è infettiva. In rari casi, questi gatti sviluppano infezioni batteriche secondarie. Poiché anche negli animali sani le vie aeree non sono sterili, gli esiti delle colture batteriche del materiale prelevato mediante lavaggio di


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queste strutture vanno interpretati con cautela, alla luce dei riscontri citologici e dei segni clinici. Occasionalmente, si identificano dei gatti con un’imponente crescita di Mycoplasma spp., nei quali può risultare utile una terapia antibiotica appropriata. Mycoplasma richiede condizioni colturali speciali; questi microrganismi possono anche essere isolati mediante reazione a catena della polimerasi. Sono resistenti a molti degli antibiotici comunemente usati, ma risultano generalmente suscettibili a macrolidi, tetracicline, cloramfenicolo o fluorochinoloni.

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guata nutrizione. Anche la fisioterapia può risultare utile. La soppressione della tosse negli animali con polmonite è controindicata, perché il suo scopo dovrebbe essere quello di promuovere l’eliminazione del muco infetto. Nel gatto, la polmonite può talvolta essere causata da agenti patogeni non tradizionali. I micoplasmi, microrganismi particolari privi di parete cellulare, possono svolgere un ruolo primario o secondario nelle infezioni del polmone dei felini. In rari casi, nel gatto vengono diagnosticate delle infezioni da micobatteri acidoresistenti. È stato riferito che i gatti siamesi ed abissini sono colpiti da infezioni da M. avium più spesso di quelli delle altre razze.

Infezioni del parenchima polmonare Rispetto al cane, i gatti sono soggetti a polmonite batterica con una frequenza di gran lunga minore. Si tratta di una malattia potenzialmente letale, che però si riscontra molto raramente in animali altrimenti sani. La maggior parte delle polmoniti batteriche si osserva in soggetti malati, debilitati o immunodeficienti, oppure quando le difese fisiche siano state infrante. In tutti gli animali con polmonite batterica, ci si deve sforzare di identificare una causa predisponente, come il rigurgito o gli stati di immunodeficienza. Esistono profonde differenze nella presentazione degli animali con polmonite, a seconda della gravità della malattia. È interessante notare che molti gatti con polmonite non presentano segni clinici riferibili ad una compromissione respiratoria; la tosse in questi animali sembra essere poco comune. Gli agenti patogeni incriminati sono di solito opportunisti e comprendono sia anaerobi che aerobi. Sono possibili infezioni polimicrobiche, specialmente nei gatti in cui la polmonite è preceduta da fenomeni ab ingestis. Il lavaggio transorale o quello broncoalveolare forniscono materiale da destinare all’esame citologico ed alle colture prima di iniziare una terapia con antibiotici ad ampio spettro. L’identificazione di neutrofili degenerati contenenti detriti batterici è altamente indicativa della diagnosi di polmonite batterica. Gli esami colturali e gli antibiogrammi devono essere allestiti in modo da evidenziare la presenza di microrganismi aerobi ed anaerobi e di Mycoplasma. Il trattamento della polmonite batterica dipende in una certa misura dalla gravità della malattia. L’ideale è basare la terapia antimicrobica sui risultati degli esami colturali e degli antibiogrammi, ma non si può sospenderla in attesa di questi esiti. La terapia iniziale va effettuata con agenti ad ampio spettro. Spesso, come trattamento empirico iniziale si impiega un’associazione di una betalattamina con un fluorochinolone. Nel trattamento della polmonite batterica è essenziale la terapia di supporto, che prevede il mantenimento dell’idratazione (sia a livello sistemico che delle vie aeree, mediante nebulizzazione), l’ossigenazione e l’ade-

Infezioni dello spazio pleurico Il piotorace è un’infezione batterica dello spazio pleurico che porta all’accumulo di un fluido purulento. Nel gatto, è spesso associato all’inoculazione di batteri nel torace attraverso ferite che gli animali si provocano in occasione dei combattimenti con i conspecifici. Nonostante questa associazione, il piotorace si può riscontrare anche in gatti tenuti in casa e senza che vi siano animali della stessa specie in famiglia. I più comuni agenti patogeni identificati nel piotorace felino sono Pasteurella, Bacteroides, Actinomyces e Clostridium. Le infezioni sono spesso di tipo misto e possono contenere parecchie specie batteriche. Il fluido purulento di solito è di colore bianco smorto, beige, rosa o rosso (cosiddetta “zuppa di pomodoro”) e maleodorante. In caso di infezioni da Actinomyces o Nocardia, può contenere del materiale granulare bianco o giallo (granuli zolfini). Il tipo cellulare predominante è rappresentato dai neutrofili degenerati e l’esame citologico evidenzia spesso la presenza di batteri. L’eventuale misurazione del livello di glucosio e del pH di questi fluidi evidenzia valori bassi. Si deve richiedere l’allestimento di colture aerobiche ed anaerobiche di questo materiale. Gli animali con piotorace presentano di solito una malattia sistemica e possono manifestare delle complicazioni della sepsi. Per la terapia del piotorace è indispensabile, ma comunque inadeguata, la somministrazione aggressiva di antibiotici ad ampio spettro attivi anche nei confronti degli anaerobi. Il fluido purulento va drenato, se possibile mediante aspirazione continua. Nei cani con piotorace la toracotomia esplorativa risulta utile per la sopravvivenza; nel gatto, questa relazione non è stata studiata.

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Come comunicare con un cane Sociopatico, con un cane Fobico, con un cane Iperattivo-Ipersensibile Raimondo Colangeli Med Vet, Dipl Comp ENVF, Roma

Franco Fassola Med Vet, Asti

Alessandra Gherardi Med Vet, Ravenna

LA COMUNICAZIONE CON IL CANE AFFETTO DALLA SINDROME IPERSENSIBILITÀ IPERATTIVITÀ La comunicazione con un cane affetto da patologie del comportamento rappresenta sempre una sfida per il medico veterinario. In particolare un cane affetto da sindrome ipersensibilità-iperattività (HsHa) risponde in modo ipertrofico a stimoli di bassa intensità rendendo difficile mantenere l’attenzione del cane. Le caratteristiche distintive di questa patologia sono rappresentate, analogamente a quanto si osserva nel bambino con ADHD, da difficoltà di attenzione, impulsività, iperattività e mancata acquisizione del morso inibito. I proprietari lamentano che il cane è incapace di rimanere tranquillo, distrugge casa è incontenibile ed è aggredito dagli altri cani quando tenta di giocare con loro. Molto spesso hanno provato a portarlo al campo addestramento ma con scarsi risultati. Fino a qualche anno fa la terapia era incentrata sul recupero degli autocontrolli (ad es. terapia del gioco controllato) ed era data scarsa importanza al lato ipersensibilità della patologia. Recenti studi in medicina umana dimostrano che l’ipermotricità è, in realtà, una conseguenza di un alterato filtro sensoriale. Iniziare a pensare all’hsha come un cane ipersensibile a cui “arriva troppo” fa si che la terapia sia basata in primis sul recupero della relazione con il proprietario. È quindi importante far eseguire a cane e proprietario degli esercizi che il cane sia in grado di affrontare per poter aumentare l’accreditamento (autostima). L’agility, che a prima vista sembrerebbe non essere idonea in quanto disciplina che innalza l’arousal, eseguita con particolari accorgimenti si adatta bene a questo scopo.

La comunicazione con il cane affetto dalla sociopatia interspecifica Nella sociopatia la conflittualità gerarchica si manifesta per l’acquisizione delle prerogative del dominante all’inter-

no del gruppo uomo-cane; oltre a questa condizione obbligatoria, devono essere presenti almeno due dei seguenti segni o sintomi: • Triade dell’aggressività (aggressione gerarchica + aggressione da irritazione + aggressione territoriale) • Aumento della frequenza del comportamento di presa alimentare in presenza di uno o più componenti della famiglia • Minzioni gerarchiche • Cavalcamenti gerarchici su una o più persone dello stesso sesso del cane • Nelle femmine: pseudo-gravidanza con poca produzione di latte, ed aggressioni materne in prossimità dell’oggetto di sostituzione quando la proprietaria ci si avvicina (gioco, pantofola ecc.) • Appropriazione dei bambini ed aggressioni materne quando la proprietaria si avvicina • Aggressioni sui figli dei proprietari • Distruzioni dei mobili attorno alle uscite, da dove i proprietari lasciano la casa, ed attorno alle finestre da dove il cane li vede partire. In questa patologia comportamentale il peggioramento della sintomatologia è molto influenzato dalla comunicazione non corretta oltre che ansiogena messa in atto da parte dei componenti della famiglia. I punti cardine della comunicazione da attuare nei confronti di un cane sociopatico sono principalmente il linguaggio non verbale: il tono della voce utilizzato per rinforzare la congruenza del messaggio, che sia di rinforzo oppure di punizione; la postura (ad esempio una postura defilata ed incerta di un proprietario timoroso di essere aggredito accellera la scalata nell’albero gerarchico del suo cane in fase di “challenger”, sfidante) e la prossemica. Queste tecniche sono indispensabili per raggiungere la circolarità della comunicazione, cioè in modo che il proprietario invii richieste ed informazioni al proprio cane rispettando e privilegiando forme di comunicazione adattate alle capacità sensoriali dell’animale.


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La prossemica è un termine creato da E. T. Hall, antropologo americano, che definisce lo studio dell’utilizzazione dello spazio da parte degli esseri animati nelle loro relazioni, e del significato che ne scaturisce. All’interno di questa tecnica si sottolinea l’importanza della posizione delle spalle, la cinetica e la traiettoria che definiscono l’alleanza o l’affrontamento che si vuole effettuare.

La comunicazione con il cane affetto da Sindrome da Privazione Sensoriale La Sindrome da Privazione Sensoriale (S. da P. S.) è una patologia comportamentale che ha le sue radici nei primi mesi di vita del cucciolo. L’elemento caratterizzante la S. da P. S. è l’incapacità del cane ha gestire l’ambiente in cui vive, a causa di uno sviluppo sensoriale insufficiente. Si tratta di soggetti, che nel periodo sensibile (periodo che va sino ai 4 mesi di età circa, in cui gli apprendimenti sono facilitati) hanno vissuto in un ambiente ipostimolante. Il cane non ha potuto crearsi una “banca dati” solida, con tante informazioni raccolte attraverso i canali sensoriali (vista, udito, olfatto, tatto), da usare quando, cambiando ambiente, per esempio passando da una contesto rurale a uno urbano, le sollecitazioni aumentano e devono essere assimilate e non rigettate perché scatenano una reazione di paura. Questa patologia si compone di tre entità cliniche, che hanno sintomi diversi, ma la stessa origine: • stadio 1 o stadio fobico: il comportamento è condizionato dalla paura di oggetti, situazioni o persone; • stadio 2 o stadio ansioso: il cane è inibito, non sopporta la modificazione dell’ambiente e l’esporazione è limitata (esplorazione statica, preceduta da una postura d’attesa) • stasio 3 o stadio depressivo: il cane si ripiega su se stesso, scompare l’esplorazione e l’attività ludica.

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Questa breve introduzione serve a far comprendere quanto la patologia sia grave e come l’intervento debba essere deciso, puntuale e rapido, per recuperare il soggetto colpito, ma nel contempo debba tenere conto della sua fragilità emotiva. L’approccio comunicativo con il cane deprivato deve essere chiaro, volto a supportarlo e a trasmettergli fiducia. La voce è importante, ma anche la postura deve essere curata, sempre posture e toni di voce bassi, ma autorevoli, perché il comando deve comunicare la sicurezza del leader. È importante, che tutti i membri del gruppo mantengano con il cane un legame di attaccamento che lo rassicuri, almeno nella prima parte della terapia, e per questo è utile insegnare a tutte le persone che fanno parte del branco uomo-cane una comunicazione non verbale che sia comune e facilmente comprensibile, fatta di pochi gesti rassicuranti. La comunicazione come terapia nella S. da P. S. viene usata inizialmente in un luogo considerato tranquillo per il cane, la casa, poi si passa all’esterno. Per concludere, se la terapia farmacologica ha un ruolo fondamentale per il trattamento di questa patologia, l’insegnamento al proprietario di un corretto modo di comunicare con questi cani è insostituibile, perché sarà la risorsa indispensabile e duratura che gli consentirà di gestire per il resto della vita un soggetto deprivato. Indirizzo per la corrispondenza: Raimondo Colangeli E-mail: raimondo.colangeli@libero.it Fassola Franco Amb.: C.so Torino 88 ASTI - Abit.: C.so XXV Aprile 90 ASTI Tel.: 0141/212652 - 3482668173 - E-mail: fassola@veterinario.it Alessandra Gherardi Clinica Veterinaria Poggio Piccolo Via San Carlo 8/f - 40023 Castel Guelfo (BO) E-mail: comportamento@mac.com


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Dermatite da Malassezia nel cane Silvia Colombo Med Vet, Dipl ECVD, Legnano (MI)

Eziologia La dermatite da Malassezia è una malattia sostenuta da Malassezia pachydermatis, lievito lipofilico che si riproduce per gemmazione e che appartiene alla normale microflora della cute e delle mucose del cane. Il genere Malassezia raggruppa 7 specie di lieviti: M. pachydermatis, l’unica specie che non richiede lipidi per la crescita su terreno di coltura, e le 6 specie che dipendono dai lipidi, ovvero M. furfur, isolata prevalentemente nell’uomo, M. sympodialis, M. globosa, M. obtusa, M. restricta, e M. slooffiae. Nel cane sono state isolate 4 di queste specie: M. pachydermatis, M. furfur, M. sympodialis e M. obtusa1. In cani sani, M. pachydermatis può essere isolata dai condotti uditivi, dall’ano e dal retto, dalla cavità orale, dal naso e dalla vagina, mentre sulla cute viene isolata più comunemente dagli spazi interdigitali e intorno alla bocca2. Inoltre, è stato dimostrato che il lievito colonizza la cute del cane immediatamente dopo la nascita3. Nonostante si tratti di un microrganismo che appartiene alla microflora normale, in condizioni particolari si comporta da agente patogeno, aggravando e complicando malattie dermatologiche già presenti.

Patogenesi M. pachydermatis è stata riconosciuta come causa di dermatite nel cane da Dufait4 nel 1983, quindi in tempi relativamente recenti. I fattori predisponenti sono legati ad alterazioni nei meccanismi di difesa cutanei dell’ospite e/o a variazioni del microambiente cutaneo. Per esempio, malattie allergiche, in particolare la dermatite atopica, endocrinopatie o disordini della cheratinizzazione che danneggiano la barriera epidermica sono predisponenti, così come la stagione calda, il clima umido e la presenza di abbondanti pieghe cutanee1,5. In soggetti atopici sono stati osservati lieviti in numero molto più elevato che in soggetti normali nei condotti uditivi, negli spazi interdigitali, nella regione inguinale e sotto la coda, sia con l’esame citologico che con l’esame colturale6-7. Uno studio francese su un gruppo di 54 cani affetti da dermatite da Malassezia ha identificato i seguenti fattori predisponenti: dermatite atopica (28%), presenza di pieghe cutanee (28%), dermatite atopica associata a dermatite allergica al morso di pulce (19%), demodicosi (9%) e ipotiroidismo, allergia alimentare e allergia alimentare associata a dermatite atopica (2%)8. La dermatite da Malassezia, inoltre è frequentemente associata alla piodermite, e nonostante le interazioni tra i due microrganismi siano state

poco studiate, si ipotizza che si possa instaurare un rapporto simbiotico con reciproco beneficio5. Il ruolo dei trattamenti con antibiotici è invece controverso5,9. Le razze predisposte sono il Basset Hound, il West Highland White Terrier, il Bassotto, il Cocker Spaniel, lo Shih Tzu ed il Setter inglese5,9-12. Per quanto concerne i fattori di virulenza di M. pachydermatis, il lievito produce numerosi enzimi tra cui proteasi (mediatori di prurito), lipasi, che idrolizzano i lipidi del film che riveste lo strato corneo ad acidi grassi liberi, che a loro volta inibiscono la crescita di altri microrganismi, ed altre sostanze in grado di alterare il pH cutaneo e attivare il complemento con conseguente infiammazione e prurito5,13. La capacità del lievito di aderire ai cheratinociti non sembra invece essere un fattore di virulenza rilevante13, né M. pachydermatis sembra essere direttamente in grado di indurre la proliferazione dei cheratinociti1. La risposta immunitaria dell’ospite nei confronti di M. pachydermatis è stata indagata in numerosi studi nella specie canina. L’ipotesi più accreditata è che M. pachydermatis produca antigeni che penetrano la cute, vengono catturati da cellule in grado di presentare l’antigene (cellule di Langerhans, cellule dendritiche dermiche) che migrano al linfonodo regionale e presentano l’antigene ai linfociti T immaturi. La presentazione dell’antigene in associazione a citochine ambientali induce la trasformazione dei linfociti immaturi in linfociti Th1 e/o linfociti Th2. Le cellule Th2 stimolano i linfociti B a produrre IgE, che si fissano sui mastociti e inducono degranulazione al successivo contatto con l’antigene, causando una reazione di ipersensibilità di primo tipo, mentre le cellule Th1 stimolano i linfociti B a produrre IgG che potrebbero avere un ruolo protettivo, oppure attivare il Complemento provocando infiammazione. Questi due eventi possono avvenire in contemporanea nello stesso soggetto1. Nel cane sono stati osservati livelli sierici di IgE più alti nei soggetti atopici con o senza dermatite/otite da Malassezia, comparati a soggetti sani e non atopici affetti da dermatite/otite da Malassezia14. Gli allergeni maggiori (riconosciuti da più del 50% dei sieri degli atopici con dermatite/otite da Malassezia) sono proteine di peso molecolare pari a 45, 52, 56, e 63 kDa15, anche se gli allergeni espressi da Malassezia sembrano variare con le fasi di crescita del lievito16. In studi che hanno impiegato il test di intradermoreazione, è stato dimostrato che cani atopici hanno reazioni positive indipendentemente dalla presenza o meno di dermatite da Malassezia, anche se in soggetti con la dermatite le reazioni sono più intense17. Le reazioni positive sono invece rare nei Basset Hound18, e la reattività cutanea è stata anche trasmessa a cani sani con il Prausnitz-Kustner test19. La risposta immunitaria cellulo-mediata, importante nelle malattie fungine, nel cane


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sembra essere indotta con più facilità in soggetti atopici con dermatite da Malassezia, confrontati con cani sani e con cani atopici con otite da Malassezia, e si pensa che la presenza di cerume protegga il lievito dall’interazione con il sistema immunitario20.

Aspetti clinici La dermatite da Malassezia nel cane è una malattia comune e si osserva più comunemente in cani giovani5. I segni clinici sono eritema, esfoliazione, seborrea, alopecia, prurito e odore rancido; in casi cronici, a questi vanno aggiunte iperpigmentazione e lichenificazione. La dermatite può presentarsi in forma localizzata (pieghe cutanee, condotto uditivo esterno, piega labiale, muso, regione ventrale del collo, spazi interdigitali, pieghe ungueali, regione perineale) o generalizzata21. In un soggetto sottoposto a ripetuti trattamenti antibiotici è stata inoltre descritta stomatite, faringite e tonsillite da Malassezia22. La malattia cutanea riportata da Scott & Miller23 (1989) come displasia epidermica del West Highland White Terrier, con sospetta base genetica, è stata recentemente riconosciuta come un forma particolarmente grave e cronica di dermatite da Malassezia24. Si ricorda che la dermatite da Malassezia è solitamente secondaria e che è indispensabile mettere in atto le indagini diagnostiche necessarie per individuare la malattia predisponente. Le forme primarie sono rare.

Diagnosi La diagnosi di dermatite da Malassezia è appropriata quando un cane con elevato numero di lieviti sulla cute, che presenta lesioni suggestive della malattia, risponde clinicamente e dal punto di vista micologico ad una terapia antimicotica appropriata1. Nella pratica clinica, il test diagnostico d’elezione è l’esame citologico. Le tecniche maggiormente utilizzate per il prelievo sono lo scotch test, l’impressione diretta sulla cute, il tampone ed il raschiato cutaneo superficiale. Il campione viene colorato con coloranti rapidi con ematologia (Hemacolor®), e secondo alcuni autori prima della colorazione dovrebbe venire fissato con il calore5. Un recente studio eseguito nel nostro paese ha dimostrato che i risultati sono identici sia che il vetrino venga fissato o meno, e che è possibile anche eseguire la colorazione del vetrino utilizzando solo il terzo componente (blu) della colorazione rapida25. L’esame microscopico viene condotto ad ingrandimenti di 400X o 1000X ad immersione, e consente di osservare lieviti liberi o adesi ai cheratinociti. Malassezia pachydermatis può essere osservata all’esame citologico anche in soggetti sani, e numerosi studi hanno proposto criteri per stabilire qual è il numero di lieviti che dovrebbe essere considerato significativo. Probabilmente, identificare 1 lievito per campo a 1000X ad immersione è da considerarsi patologico, in un soggetto con lesioni cliniche compatibili1. L’esame colturale è poco usato nella pratica clinica. I terreni ideali sono il Sabouraud Agar destrosio e l’Agar Dixon modificato, che essendo arricchito con lipidi consente di identificare le specie dipendenti da lipidi. La temperatura ideale è compresa tra 32 e 37°C ed in atmosfera contenente il

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5-10% di CO2 si ottiene la crescita ottimale in 72 ore1. L’esame istologico di rado consente di osservare i lieviti, che si trovano nello strato corneo o talvolta nell’infundibolo follicolare, in quanto parte dello strato corneo viene persa durante la processazione. La dermatite da Malassezia è caratterizzata da iperplasia irregolare e marcata dell’epidermide e dell’infundibolo follicolare, ipercheratosi ortocheratosica con paracheratosi focale, spongiosi e dermatite superficiale perivascolare/interstiziale con esocitosi di linfociti. È inoltre caratteristico l’allineamento di mastociti alla giunzione dermo-epidermica12. Nello stesso studio, il lievito è stato direttamente evidenziato nel 73.3% dei casi con istologia compatibile12.

Terapia Il significato clinico della presenza del lievito è confermato da una risposta positiva alla terapia, che si basa sull’uso di farmaci antimicotici, per via topica o sistemica. I principi attivi efficaci per uso topico sono la clorexidina (2-4%), il clotrimazolo, l’enilconazolo, il ketoconazolo, il miconazolo, la nistatina ed il selenio solfuro. Il trattamento andrebbe effettuato inizialmente 2-3 volte alla settimana, riducendo poi la frequenza secondo necessità1,5,21. Nei casi più gravi o nelle forme generalizzate, il trattamento sistemico si effettua con ketoconazolo o itraconazolo al dosaggio di 5-10 mg/kg al giorno per via orale per 3-4 settimane1,5,21. L’itraconazolo può essere utilizzato con ottimi risultati anche con protocolli di “pulse therapy”, grazie alla sua capacità di persistere a lungo nei tessuti cheratinizzati26. Due studi recenti27,28 hanno inoltre dimostrato l’efficacia della terbinafine al dosaggio di 30 mg/kg al giorno per via orale, per 3-4 settimane. Si ricorda che nei casi ricorrenti è necessario indagare e trattare la malattia predisponente, e spesso instaurare terapie di mantenimento a lungo termine per la dermatite da Malassezia1.

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Indirizzo per la corrispondenza: Silvia Colombo Via Fabio Filzi 19, Legnano (MI) Tel.: 338 9612911 E-mail: colombo_silvia@yahoo.it


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Sovracrescita da malassezia nel gatto Silvia Colombo Med Vet, Dipl ECVD, Legnao (MI)

Eziologia I lieviti del genere Malassezia colonizzano la cute di mammiferi e uccelli, e appartengono alla normale microflora cutanea. Delle 7 specie di Malassezia classificate ufficialmente (M. pachydermatis, M. sympodialis, M. furfur, M. globosa, M. obtusa, M. restricta ed M. slooffiae), sul gatto sono state isolate le seguenti specie: M. pachydermatis, M. sympodialis, M. furfur e M. globosa 1-3. Recentemente, è stato riportato l’isolamento di una nuova specie, denominata M. nana4, anche se potrebbe in realtà trattarsi di un ceppo di M. sympodialis5.

Patogenesi La patogenesi della sovracrescita da Malassezia nel gatto è praticamente sconosciuta, e non esistono articoli pubblicati in merito ai fattori di virulenza o alla capacità del lievito di aderire ai cheratinociti, né alla risposta immunitaria dell’ospite. Gli unici dati in nostro possesso sono ricavati da studi clinici, libri di testo o presentazioni a congressi internazionali. Nel gatto la sovracrescita da Malassezia è un evento raro, così come lo è la piodermite6. Alcune razze di gatti nudi o con alterazioni del mantello, come Sphynx e Devon Rex, presentano spesso cute grassa e sovracrescita da Malassezia, non associata ad alcuna sintomatologia clinica7. In uno studio sulla citologia della piega ungueale nel gatto, è stata osservata clinicamente la presenza di materiale untuoso, di colore brunastro, in gatti Devon Rex asintomatici. All’esame citologico 15/15 gatti di razza Devon Rex avevano lieviti del genere Malassezia nella piega ungueale, contro 18/31 gatti di altre razze (Europei e Persiani)8. Eseguendo un esame colturale dal materiale prelevato dalla piega ungueale di gatti di diverse razze, sono state isolate M. pachydermatis nel 52% dei casi, M. furfur nel 38% dei casi e M. sympodialis nel 9.5% dei casi. In 8/21 gatti sono state isolate più specie di Malassezia, e 6 di questi erano gatti di razza Devon Rex9. La sovracrescita da Malassezia del gatto sembra essere, allo stato attuale delle nostre conoscenze, un indicatore della presenza di una grave malattia sistemica. In particolare, sembra esistere una predisposizione per soggetti con infezioni da Retrovirus, dermatite esfoliativa associata a timoma ed alopecia paraneoplastica pancreatica7. In un recente studio, Malassezia spp. è stata isolata nel 48% dei gatti FIV o FeLV positivi, contro il 19.6% dei gatti sani10. La sovracrescita da Malassezia è stata associata alle sindromi paraneoplastiche da timoma o da carcinoma pancreatico in un recente studio retrospettivo su preparati istologici11. Uno dei casi riportati nello stesso studio descriveva la presenza di lieviti in un gatto con lesioni istologiche compatibili con necrosi epidermica metabolica (sindrome epatocutanea, dermatite necrolitica superficiale), che è estrema-

mente rara nel gatto e, in due dei pochissimi casi descritti, era associata ad un carcinoma pancreatico11,12. Il ruolo di Malassezia in gatti con malattie allergiche non è ben chiaro13, anche se alcuni autori le includono tra i fattori predisponenti (L. Ordeix, comunicazione personale). Nello studio retrospettivo di Mauldin et al. (2002), in nessuno dei casi in cui i lieviti erano visibili all’esame istologico erano presenti le alterazioni a carico di epidermide e derma che sono considerate suggestive di malattie allergiche11. In uno studio precedente, Scott et al. (1992) evidenziarono lieviti del genere Malassezia all’esame istologico in 2 soggetti affetti da granuloma eosinofilico14. Per quanto concerne invece le forme localizzate di sovracrescita da Malassezia, il lievito è spesso implicato in casi di acne del mento e nella dermatite facciale idiopatica del gatto Persiano15,16.

Aspetti clinici I lieviti del genere Malassezia sono causa di lesioni localizzate o generalizzate, clinicamente rappresentate da eritema, esfoliazione, iperpigmentazione, raramente lichenificazione, prurito ed escoriazioni, cute grassa, odore rancido e paronichia7,13. Le lesioni cliniche si sovrappongono a quelle della malattia primaria sottostante. Per esempio, nei casi di sindrome paraneoplastica associata a carcinoma pancreatico o dei dotti biliari si osservano alopecia simmetrica a carico dell’addome e della faccia mediale degli arti, un caratteristico aspetto lucido della cute ed i cuscinetti podali sono spesso secchi, fissurati ed erosi. Sono inoltre presenti sintomi sistemici quali anoressia, letargia, vomito o diarrea7,17. La dermatite esfoliativa associata a timoma si presenta con eritema localizzato o generalizzato, esfoliazione, alopecia e lesioni ulcerative e crostose che interessano inizialmente la testa e poi si estendono al resto del corpo, e materiale brunastro che si accumula nei condotti uditivi, negli spazi interdigitali e nelle pieghe ungueali. Anche in questo caso possono essere presenti sintomi sistemici quali anoressia, tosse e dispnea7,17. Nell’acne del mento, le lesioni osservate a carico del mento, delle labbra e delle commessure labiali sono comedoni, eritema, alopecia, croste, noduli drenanti essudato, ed è di solito presente prurito15. La dermatite facciale idiopatica del gatto Persiano, osservata in soggetti di giovane età, è caratterizzata inizialmente da materiale nerastro adeso alla cute e ai peli ed eritema a distribuzione facciale simmetrica (periorale, perioculare, mento), seguiti, con il progressivo aggravarsi della malattia, da erosioni, escoriazioni e prurito. Nel 50% dei casi è presente anche otite ceruminosa16.

Diagnosi La diagnosi di sovracrescita da Malassezia nel gatto si ottiene con un esame citologico, in cui si osservano lieviti in


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grande numero, liberi o adesi ai cheratinociti e spesso associati a batteri. Per quanto concerne l’esecuzione dell’esame citologico, si rimanda a quanto detto per il cane. L’esame colturale micologico può essere utile per confermare la presenza di lieviti di specie diverse da M. pachydermatis, che richiedono l’aggiunta di lipidi al terreno di coltura (Terreno Agar-Dixon modificato)1. L’esame istologico, analogamente a quanto detto per il cane, non è un’indagine diagnostica particolarmente sensibile in quanto lo strato corneo viene spesso perso durante la processazione dei campioni. Inoltre, nel gatto le lesioni microscopiche tendono a riflettere la malattia sistemica sottostante, e non sappiamo in realtà quale sia l’aspetto istologico della sovracrescita da Malassezia. Nello studio di Mauldin et al. (2002), lieviti del genere Malassezia sono stati osservati in 15 casi su 550 (2.7%), e l’unica alterazione istologica comune a tutti i soggetti era l’ipercheratosi11. I 15 soggetti sono stati suddivisi in 3 gruppi, ad eccezione di un gatto sottoposto ad eutanasia subito dopo la biopsia: 7 gatti avevano lesioni istologiche compatibili con alopecia paraneoplastica pancreatica, 3 gatti con dermatite esfoliativa associata a timoma, eritema multiforme o reazione avversa ad un farmaco, e nei restanti 4 casi i lieviti erano associati a varie malattie (acne del mento, carcinoma squamocelluare in situ, diabete mellito e cistiti ricorrenti e demodicosi)11. Nel primo gruppo, le alterazioni istologiche osservate sono marcata atrofia e miniaturizzazione follicolare, lieve dermatite perivascolare superficiale, assenza focale dello strato corneo, moderata iperplasia e ipercheratosi ortocheratosica con paracheratosi focale. I lieviti erano spesso associati a batteri (cocchi). In uno di questi casi, oltre alle alterazioni descritte erano presenti segni compatibili con una diagnosi di necrosi epidermica metabolica11. Nel secondo gruppo erano presenti una dermatite di interfaccia “cell poor”con linfociti e neutrofili, degenerazione idropica delle cellule dello strato basale, apoptosi a diversi livelli dell’epidermide e dell’epitelio follicolare ed iperplasia con ipercheratosi e paracheratosi focale. I lieviti erano presenti in gran numero, raggruppati tra i cheratinociti dello strato corneo11. In un precedente studio retrospettivo istologico, lieviti del genere Malassezia erano stati osservati in 3/338 preparati: 2 gatti avevano un granuloma eosinofilico ed 1 aveva una dermatite lichenoide14. Nel caso in cui si osservino lieviti del genere Malassezia all’esame citologico o istologico, è di fondamentale importanza indagare la presenza di una malattia sottostante, con esami sierologici per FIV e FeLV, esame emocromocitometrico e profilo biochimico nonché con indagini radiografiche e/o ecografiche, soprattutto se il soggetto in questione è anziano e se non esiste anamnesi di prurito precedente. Qualora ci si trovi di fronte a soggetti di giovane età, FIV/FeLV negativi e con prurito cronico può essere opportuno eseguire le indagini diagnostiche per le malattie allergiche (controllo delle pulci, dieta ad eliminazione, test di intradermoreazione o sierologico per la dermatite atopica).

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quanto il ketoconazolo può provocare effetti collaterali seri (epatotossicità)6. I dosaggi consigliati variano da 5 a 10 mg/kg al giorno per via orale. Sfortunatamente però, dal momento che la sovracrescita da Malassezia si osserva spesso in gatti anziani e/o con gravi malattie sistemiche, la terapia serve più che altro a controllare la sintomatologia clinica ed il prurito. Nel caso dell’alopecia paraneoplastica pancreatica in genere la diagnosi è tardiva, e sono già presenti lesioni metastatiche soprattutto a carico del fegato17. In un caso, l’exeresi chirurgica del tumore ha condotto alla risoluzione temporanea delle lesioni dermatologiche, seguita da recidiva e comparsa di metastasi dopo 18 settimane18. Nei casi di dermatite esfoliativa associata a timoma la prognosi è più favorevole, in quanto si tratta di un tumore benigno che raramente recidiva o dà metastasi19.

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Terapia Anche nel gatto, il trattamento della sovracrescita da Malassezia si basa sull’uso di farmaci antimicotici topici o sistemici, anche se la terapia sistemica è preferibile a causa dell’abitudine del gatto a leccarsi con insistenza in presenza di prurito. Il farmaco d’elezione nel gatto è l’itraconazolo, in

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Indirizzo per la corrispondenza: Silvia Colombo - Via Fabio Filzi 19, Legnano (MI) Tel.: 338 9612911 - E-mail: colombo_silvia@yahoo.it


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FANS: passato e presente COX2 selettivi: un radioso futuro? Federico Corletto Med Vet, CertVA, Dipl ECVA, MRCVS, Cambridge, UK

I farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS) hanno indubbiamente un ruolo fondamentale nel trattamento del dolore in patologie croniche degenerative osteoarticolari, neoplasitche e nel dolore postoperatorio negli animali da compagnia. Il primo utilizzo dei FANS risale al 1829, dopo l’isolamento dell’acido salicilico come principio attivo anti-infiammatorio dalla corteccia del salice. Pochi anni prima, nel 1803, la morfina era stata isolata dal papavero da oppio, ma la sua produzione commerciale comincerà solo nel 1827 (Merck & Company). I FANS, a differenza degli oppioidi, tuttavia, presentarono fin dall’inizio il vantaggio di non indurre immediati e, in alcuni casi, potenzialmente letali effetti collaterali quali sedazione, depressione ventilatoria e bradicardia, nonché dipendenza in caso di somministrazione cronica. È facile comprendere, quindi, le ragioni del successo commerciali dei FANS ed i motivi che hanno spinto l’industria farmaceutica ad investire cospicue risorse nello sviluppo di composti dotati di una migliore tollerabilità, azione selettiva nei confronti di patologie osteoarticolari, piuttosto che dei tessuti molli e possibilmente somministrabili cronicamente qualora fosse necessario. L’uso di oppioidi, invece, è rimasto relegato ad ambiti ospedalieri ed al trattamento del dolore intenso postchirurgico e neoplastico. Il meccanismo d’azione dei FANS, in termini estremamente semplici, consiste nella riduzione della produzione di prostaglandine, mediante l’inibizione dell’attività dell’enzima ciclo-ossigenasi. Le prostaglandine, isolate circa 80 anni dopo il primo utilizzo dei FANS, furono collegate al processo infiammatorio ed al meccanismo d’azioni dei FANS solo recentemente, nel 1971. La loro funzione è la modulazione di alcune risposte locali dell’organismo in seguito a turbamenti dell’omeostasi. Tra questi effetti vanno menzionati l’attività sui mastociti, sulla muscolatura uterina, sul processo infiammatorio e sull’aggregazione piastrinica e, non meno importanti, sulla perfusione di alcuni organi e sulla secrezione gastrica di acido. La sintesi di prostaglandine, tuttavia è un fenomeno complesso, che inizia con la produzione di acido arachidonico a partire dai lipidi contenuti nelle membrane cellulari, per opera dell’enzima fosfolipasi. L’acido arachidonico, quindi, può essere convertito in leucotrieni dalla lipo-ossigenasi, o in prostaglandine, prostacicline e trombossani dalla cicloossigenasi. L’equilibrio tra l’attività degli enzimi fosfolipasi, lipo-ossigenasi e ciclo-ossigenasi garantisce il mantenimento dell’omeostasi locale in risposta a condizioni che possano influenzarla. La ciclo-ossigenasi (COX) converte l’acido arachidonico in prostaglandine H2, che successivamente vie-

ne convertita nei prodotti finali da sintetasi terminali, la cui attività determina il rapporto caratteristico di ogni tessuto tra le diverse prostaglandine prodotte. L’effetto terminale delle prostaglandine a livello cellulare dipende dalle prostaglandine prodotte e dal tipo di recettore presente sulle membrane cellulari ed il suo accoppiamento con differenti proteine G. I recettori per le prostaglandine sono suddivisi in classi e sottoclassi, partecipando alla determinazione della risposta effettrice finale. La brevissima emivita delle prostaglandine fa in modo che la loro attività sia locale e modulabile. Per quanto riguarda il dolore ed il processo infiammatorio, le prostaglandine svolgono un ruolo fondamentale nell’aumentare la sensibilità dei terminali nocicettivi agli stimoli algici ed infiammatori, oltre che favorire l’iperemia e l’edema caratteristici del processo infiammatorio, determinando la comparsa della cosiddetta area di “iperalgesia primaria” a livello periferico. È necessario considerare, tuttavia, che anche protoni, serotonina, bradichinina, ed istamina hanno un ruolo importante nel determinare la risposta infiammatoria locale, che esita, in assenza di un intervento adeguato, nella liberazione di sostanza P e NGF, che amplificano uleriormente la risposta nocicettiva attivando recettori silenti e reclutando nel processo di percezione del dolore recettori normalmente deputati a percepire altri stimoli. L’inibizione della COX induce una significativa diminuzione della risposta infiammatoria periferica, con un notevole effetto analgesico qualora il dolore sia principalmente di origine infiammatoria, come in caso di processi degenerativi osteoarticolari o dolore postoperatorio a partire dalla seconda giornata dopo l’intervento (generalmente, in prima giornata il dolore è meglio controllato dagli oppioidi). Degni di nota sono anche l’effetto antipiretico e la modulazione della risposta all’endotossiemia, che tuttavia, sono variabili secondo il farmaco utilizzato. L’inibizione della COX, tuttavia, può determinare una significativa compromissione dei meccanismi deputati al mantenimento dell’omeostasi. Sono ben noti i possibili effetti gastrolesivi e sull’aggregazione piastrinica dei FANS tradizionali; la somministrazione preoperatoria di FANS od il loro uso in pazienti a rischio di ipovolemia ed ipotensione è ancora oggetto di discussione tra gli anestesisti. Nonostante la commercializzazione di farmaci più o meno selettivi, per alcuni dei quali è anche autorizzata la somministrazione prima dell’anestesia, e la pubblicazione di studi che hanno dimostrato l’assenza di effetti deleteri di alcuni FANS su BUN e creatinina in animali sani, il rischio teorico di compromettere la perfusione renale in caso di ipotensione permane, soprattutto in pazienti in terapia con ACE inibitori. La


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decisione di somministrare un FANS deve essere soppesata con attenzione, considerando la durata degli effetti sulla per fusione renale degli anestetici somministrati, la riserva funzionale del paziente ed i possibili benefici derivanti dalla somministrazione del farmaco prima o immediatamente dopo l’anestesia, piuttosto che alcune ore dopo il risveglio. La riduzione dell’attività di aggregazione piastrinica è transitoria e non clinicamente significativa nel caso dei FANS più moderni, mentre nel caso dell’acido acetilsalicilico è permanente per tutta la durata della vita delle piastrine, quindi fino a 10-14 giorni secondo la specie considerata. In modelli sperimentali e clinici di dolore cronico osteoarticolare i FANS riescono a ridurre l’intensità dei sintomi in modo prevedibile e, nel caso dei farmaci con maggiore tollerabilità gastrica, possono essere somministrati in modo cronico per migliorare la qualità della vita del paziente. In altri modelli clinici di dolore dopo chirurgia minore dei tessuti molli ed ortopedica, la somministrazione di FANS si è dimostrata efficace nel diminuire il dolore. Una notevole quantità di ricerche, effettuate sia in ambito sperimentale che clinico, supportano l’uso dei FANS in medicina veterinaria e, tranne qualche eccezione, dimostrano una sostanziale equivalenza degli effetti collaterali delle molecole investigate. In alcuni casi, inoltre, l’effetto analgesico dei FANS è stato considerato superiore a quello di alcuni oppioidi. È necessario tenere presente, tuttavia, che molto spesso il design stesso degli studi è mirato a comparare l’effetto analgesico di due trattamenti, piuttosto che a stabilire se ciascuno dei trattamenti sia in grado di garantire un livello di analgesia adeguato. La mancanza di un sistema oggettivo universalmente riconosciuto per valutare il dolore negli animali introduce, inoltre, una ulteriore fonte di variabilità in questo tipo di studi, il cui risultato è molto spesso già influenzato dalla difficile scelta di “dosi equipotenti” di FANS ed oppioidi. La commercializzazione di farmaci inibitori sia della COX che della LOX è fondata sul sospetto che parte degli effetti collaterali derivi dallo sbilanciamento del rapporto tra prostacicline, prostaglandine, trombossani e leucotrieni. In realtà, mentre ciò può essere in parte vero, i risultati clinici suggeriscono che la tollerabilità di tali farmaci è simile a quella dei farmaci COX inibitori più recenti. La scoperta, nel 1988, dell’esistenza di due forme distinte dell’enzima ciclo-ossigenasi ha cambiato drasticamente l’approccio allo sviluppo di nuovi FANS. La COX1 è stata identificata quale l’isoforma responsabile del mantenimento dell’omeostasi, mentre la COX2 l’isoforma inducibile principalmente coinvolta nella produzione di grandi quantità di prostaglandine in risposta a stimoli infiammatori e patologici. Danni tissutali, citochine, radicali liberi e danni ossidativi inducono l’attivazione del NFkB, la cui azione determina aumento della sintesi di COX2 e quindi della produzione di alcune prostaglandine, con funzione proinfiammatoria. L’espressione della COX2 è stata legata, in alcuni stati infiammatori cronici (ad esempio dell’intestino, nell’uomo), alla mutazione del fenotipo e del genotipo cellulare, mediante l’attivazione di geni normalmente silenti e

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la repressione di geni normalmente espressi, predisponendo all’insorgenza di neoplasie. L’inibizione della COX2 e di NFkB operata dai FANS ha dimostrato, in alcuni casi, benefici effetti antitumorali; è questo il caso di alcune neoplasie intestinali e della vescica. Il risultato di queste recenti scoperte sulla COX2 è stato la sintesi di composti con azione prevalentemente COX2 inibitrice, teoricamente in grado di eliminare gli effetti negativi delle prostaglandine senza influenzarne la funzione di mantenimento dell’omeostasi. In realtà la COX2 contribuisce in modo significativo al controllo della perfusione renale e anche della secrezione gastrica, oltre che modulare la coagulazione. La COX1, d’altra parte, è coinvolta nella sensibilizzazione periferica e nella percezione del dolore a livello centrale, oltre che nel mantenimento dell’omeostasi. Farmaci COX2 selettivi hanno il vantaggio, almeno dal punto di vista teorico, di non diminuire l’aggregazione piastrinica e di causare minori effetti collaterali gastroenterici in caso di somministrazione cronica. In realtà, i dati disponibili dal loro uso in medicina umana e veterinaria hanno ridimensionato il profilo degli effetti collaterali di questi farmaci, rendendolo sostanzialmente simile a quello di altri FANS disponibili per quanto riguarda la gastrolesività. Mentre gli inibitori della COX1 causano una maggiore incidenza di ulcere, gli inibitori selettivi della COX2 sembrano rallentare il processo di guarigione della mucosa gastrica. Significativamente differente è, invece, il loro effetto sulla coagulazione in corso di terapia cronica, almeno negli esseri umani. È ben noto il significativo aumento di fenomeni ischemici su base tromboembolica in pazienti in terapia cronica con COX2 inibitori che ha portato al ritiro dal commercio di almeno un farmaco registrato per l’uso cronico negli esseri umani. In medicina veterinaria non esistono dati analoghi, che dimostrino la significatività clinica di questo fenomeno, pertanto non è possibile discutere in modo esaustivo questa possibilità, ma sarebbe interessante approfondire con ulteriori studi l’effetto degli inibitori selettivi della COX2 sulla coagulazione in vivo. Gli effetti renali delle due classi di farmaci sono sovrapponibili ed entrambi possono alterare la risposta autoregolatrice renale all’ipotensione. Sulla base della letteratura disponibile in medicina veterinaria è difficile, pertanto, valutare la direzione in cui si muoverà il mercato negli anni futuri. Dal momento che non sempre è possibile traslare gli effetti desiderati ed indesiderati da una specie all’altra, è possibile che gli inibitori selettivi della COX2 possano riscuotere un notevole successo, soprattutto considerando l’ottimo profilo farmacologico e gli effetti analgesici di alcuni FANS già presenti in commercio.

Indirizzo per la corrispondenza: Federico Corletto Research Fellow Division of Anaesthesia, University of Cambridge Box 93 Addenbrooke’s Hospital Hills Road CB2 2QQ Cambridge


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Gli α2 agonisti: chi sono e cosa fanno? Federico Corletto Med Vet, CertVA, Dipl ECVA, MRCVS, Cambridge, UK

I medici veterinari sono senz’ombra di dubbio la figura professionale più informata e con la maggiore esperienza sull’uso di farmaci α-2- agonisti. Originariamente pensati come farmaci anti-ipertensivi (clonidina), un effetto degli α-2 agonisti immediatamente ovvio è stata la sedazione. Tale caratteristica è stata sfruttata per ideare una nuova serie di composti ad uso veterinario, il cui capostipite è la xylazina, con funzione principalmente sedativa ed analgesica. Sebbene l’esistenza di recettori adrenergici fosse nota dal 1948 ed i recettori α-2 a localizzazione presinaptica fossero stati descritti nel 1974, il legame tra il meccanismo d’azione di questi farmaci ed i recettori α-2 agonisti è abbastanza recente e risale al 1981. Gli α-2- agonisti agiscono, come è ovvio dal nome, legandosi ai recettori adrenergici di tipo α-2 e stimolandoli, competendo con l’agonista endogeno. Nel caso di composti meno selettivi, è possibile anche la stimolazione dei recettori α-1. L’effetto del farmaco, in questo ultimo caso diviene dose-dipendente anche per quanto riguarda la selettività della stimolazione, con dosi elevate del farmaco che determinano effetti di stimolazione α-1 più marcati. La selettività dei farmaci attualmente in commercio nei confronti dei recettori α-2 è riassunta nella seguente tabella. Farmaco Xylazina Clonidina Detomidina

Selettività α-2/α-1 160 200 260

Romifidina Medetomidina Dexmedetomidina

340 1600 1620

L’elevata selettività aumenta l’affidabilità del farmaco nell’indurre gli effetti desiderati, tuttavia la notevole potenza così conseguita rende il farmaco poco maneggevole. Caratteristico degli α-2 agonisti è, infatti, il raggiungimento più o meno rapido di un effetto soglia, oltre la quale sia gli effetti desiderati che quelli collaterali non aumentano significativamente. L’aumento della dose somministrata oltre questa soglia determina, invece, un allungamento della durata d’azione del farmaco. Tale Con farmaci molto potenti l’effetto massimo viene conseguito a dosi basse, cosicché può risultare non facile dosare il farmaco in modo fine. All’estremo opposto, nel caso di farmaci poco selettivi, l’effetto può essere più dosabile, ma a basse dosi può essere molto diverso da quello conseguibile somministrando dosi più elevate. La notevole diffusione dei recettori α-2 rende gli effetti di questi farmaci meno selettivi di quanto si pensi, a prescindere dalla molecola impiegata. In generale, l’attivazione dei recettori α-2 presinaptici determina una diminuzione della liberazione di noradrenalina e quindi della trasmissione sinaptica nel sistema simpatica. Ne conseguono alcuni effetti cardiocircolatori quali bradicardia, e

diminuzione dell’inotropismo, derivanti dal relativo aumento del tono vagale. La generale diminuzione del tono simpatico e della liberazione di catecolamine stabilizza il sistema cardiocircolatorio a spese di una modica depressione, dose dipendente. La presenza di recettori α-2 a livello vascolare è responsabile della vasocostrizione cutanea e viscerale e della risposta ipertensiva osservata immediatamente dopo la somministrazione di un bolo endovenoso del farmaco. L’equilibrio tra gli effetti di diminuzione del tono simpatico vascolare e la stimolazione diretta della muscolatura della parete arteriosa spiega come mai la somministrazione di dosi basse per via intramuscolare oppure l’infusione lenta del farmaco per via endovenosa solitamente non determinano un picco ipertensivo. La sedazione è mediata dall’effetto su recettori α-2 adrenergici presenti nel locus coeruleus, responsabile dell’attivazione corticale. Ovviamente, considerato l’effetto agonista competitivo del farmaco, in caso di stimolazione eccessiva (non solo dolorifica!), l’effetto inibitorio sulla funzione del locus coeruleus può essere prevaricato, nel qual caso la sedazione cesserà in modo improvviso ed inaspettato. Negli esseri umani la sedazione indotta dagli α-2 agonisti è qualitativamente simile al sonno, anche in termini fisiologici, caratteristica positiva nel caso si desideri sedare un paziente in terapia intensiva, oppure conseguire una sedazione facilmente reversibile per esaminare il paziente. La stessa caratteristica può essere sfruttata in medicina veterinaria per consentire, per esempio, l’esecuzione di un esame neurologico in un paziente sedato, oppure per consentirgli di alimentarsi, svolgere le proprie funzioni organiche o effettuare fisioterapia. Questa caratteristica degli α-2 agonisti è anche responsabile, tuttavia, delle spiacevoli “rotture di sedazione” tipicamente osservabili in pazienti sedati con questi farmaci. Recettori α -2 adrenergici sono presenti anche nel midollo spinale, ove causano analgesia, nella muscolatura liscia dell’utero, ove possono iniziare la contrazione uterina nell’utero gravido a termine (per lo meno nel bovino) e nelle isole pancreatiche, ove antagonizzano la liberazione di insulina e determinano iperglicemia. Recettori sono presenti anche nella muscolatura piloerettrice e scheletrica, nel tessuto adiposo e nel rene, ove hanno antagonizzano l’azione dell’ormone antidiuretico, promuovendo la diuresi. È interessante notare che, a meno che non siano somministrate dosi particolarmente elevate, gli effetti ventilatori degli α-2 agonisti sono pressoché trascurabili. A livello cellulare, i recettori α-2 adrenergici sono accoppiati a proteine G membranarie, la cui attivazione riduce i livelli di cAMP intracellulare, inibendo l’attività dell’enzima adenilatociclasi. Questo peculiare meccanismo d’azione giustifica, inoltre, il potente sinergismo d’azione con gli oppioidi, il cui recettore è accoppiato a proteine G a condivide, almeno in parte, lo stesso meccanismo effettore. Il sistema α-2 adrenergico è risultato essere più ancora più complesso dopo la scoperta di almeno 3 sottotipi di recettori α-2 (A, B, C), la cui distribuzione e densità è specie e tessuto-specifica. La clonazione dei recettori ha con-


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sentito, inoltre, di produrre animali nei quali una sottoclasse recettoriale è stata eliminata in modo selettivo, sperando così di riuscire a caratterizzare in modo definitivo il ruolo di ciascun recettore, con l’obiettivo di sintetizzare farmaci estremamente selettivi, per esempio, solo sedativi o solo anti-ipertensivi, piuttosto che sedativi ed analgesici, ma non stabilizzanti del sistema simpatico. È stato dimostrato che il sottotipo 2B è responsabile principalmente della vasocostrizione periferica, mentre il sottotipo 2A sembra essere coinvolto nella sedazione, ansiolisi e nella diminuzione del tono simpatico centrale, oltre che in una possibile neuroprotezione, ed il sottotipo 2C nell’analgesia a livello spinale e nel sinergismo con gli oppioidi. Tale approccio, per quanto teoricamente irreprensibile, non considera, tuttavia, il fatto che i sistemi biologici tendono ad essere caratterizzati da una notevole ridondanza, pertanto il comportamento dell’organismo dopo la rimozione di un recettore non consente di stabilire in modo assoluto la funzione del recettore stesso. Per esempio, il recettore 2C è implicato nell’analgesia spinale, ma per conseguire il massimo effetto analgesico è necessaria la presenza di un recettore 2A funzionante. In pratica, dopo aver tentato di sviluppare, senza successo, peraltro, farmaci selettivi nei confronti di esclusivamente un sottotipo recettoriale, ci si è resi conto che il comportamento dell’organismo dopo la rimozione di un sottotipo recettoriale è estremamente simile a quello dell’organismo intatto. Dal punto di vista farmacologico, inoltre, lo sviluppo di farmaci selettivi nei confronti dei sottotipi recettoriali è tecnicamente impegnativo, considerate l’elevata omologia e la condivisione dei medesimi meccanismi effettori dei recettori. Prima di sviluppare farmaci altamente selettivi, inoltre, dovrebbe essere studiata attentamente la distribuzione del sottotipo recettoriale nella specie bersaglio del farmaco, considerate le variabili risposte alla somministrazione di α-2 agonisti in specie diverse. Nella pratica clinica gli α-2 agonisti sono tradizionalmente usati come sedativi/analgesici da soli, o in combinazione con oppioidi, per procedure minori, oppure prima dell’anestesia generale. Le dosi impiegate per conseguire una adeguata sedazione e ridurre il rischio di risvegli improvvisi, determinano significativi effetti collaterali cardiocircolatori, quali bradicardia, anomalie della conduzione, significativa vasocostrizione periferica (talvolta accompagnata da cianosi), drammatica riduzione della portata cardiaca e della perfusione tessutale. Incredibilmente, gli incidenti durante l’anestesia legati all’uso anche di elevatissime dosi di questi farmaci sono molto bassi, con l’unica eccezione della xylazina, anche se, in realtà, lo studio che ha legato un maggior rischio di mortalità perianestetica all’uso della xylazina è datato e le dosi impiegate elevate. Tradizionalmente, pertanto, gli α -2 agonisti sono somministrati solo in pazienti sani (condizione fisica ASA I e II) evitando, se possibile, la somministrazione in pazienti anziani, debilitati o con patologie cardiocircolatorie. Simili precauzioni sono state suggerite in pazienti diabetici, a causa dell’effetto iperglicemizzante, che tuttavia è dose dipendente. Infine, l’enorme successo degli α-2 agonisti, in particolare della medetomidina, è probabilmente in parte dovuto alla disponibilità di un antagonista specifico e con emivita più lunga, l’atipamezolo. Per quanto riguarda il metabolismo degli α-2 agonisti, i composti presenti sul mercato hanno durata d’effetto dose dipendente, che varia da circa 10-20 minuti ad un paio di ore. È fondamentale, tuttavia, notare come gli α-2 agonisti, a causa delle alterazioni emodinamiche che inducono, siano in grado di alterare il loro metabolismo, soprattutto dopo la som-

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ministrazione di dosi elevate che riducono la portata cardiaca ed il volume di distribuzione. La dexmedetomidina, di futura commercializzazione presenta il vantaggio di essere metabolizzata in maniera più prevedibile rispetto all’attuale medetomidina, che è una miscela racemica. Rivedendo la letteratura pubblicata, che riguarda maggiormente la medetomidina, si può costatare come l’uso di α-2 agonisti in premeditazione riduca la MAC degli anestetici inalatori e, rispetto alla somministrazione di acepromazina, diminuisca l’entità dell’ipotermia perioperatoria. La somministrazione di atropina, prima dell’α−2 agonista o per trattare la bradicardia da esso indotta, può causare significative alterazioni emodinamiche, ipertensione, aumento del consumo di ossigeno miocardico, aritmie cardiache e, peraltro, non sembra essere sufficiente ad antagonizzare efficacemente la bradicardia per tutta la durata della sedazione. Tale procedura è, pertanto, controindicata. In alcuni casi dosi elevate di medetomidina hanno determinato, in presenza di patologie cardiovascolari, edema polmonare (in due cani con insufficienza atriventricolare sinistra) e rottura dell’aorta (in un cane con aneurisma aortico). In gatti con miocardiopatia ipertrofica, la somministrazione di medetomidina ha determinato, paradossalmente, l’eliminazione dell’ostruzione del tratto aortico. Tali reports devono essere interpretati in modo attento, prima di giungere a conclusioni affrettate: in tutti i casi le dosi di α-2 agonista somministrate erano particolarmente elevate, pertanto lo stesso meccanismo di azione che ha determinato significativa ipertensione sistemica e riduzione della contrattilità miocardia è responsabile dell’aumento della pressione nel piccolo circolo (a causa dell’incompetenza valvolare), della rottura dell’aorta (a causa dell’ipertensione sistemica) e della “migliore” performance miocardia nei gatti con HCM (a causa della minore contrattilità del setto). È stato, inoltre, dimostrato che gli effetti emodinamici della medetomidina raggiungono un plateau sopra circa 5 µg Kg-1. Simili dati mancano per le altre molecole, ma possono essere estrapolati in base alla dose equipotente, che è nota. Allo stesso modo esistono studi che riportano effetti degli α-2 agonisti sulla MAC degli anestetici alogenati variabili dal 17% al 90%, secondo l’anestetico e la dose considerata. È plausibile sostenere che, somministrando dosi di α-2 agonisti che causano minimi effetti cardiocircolatori, sia prevedibile riscontrare una diminuzione della MAC degli anestetici alogenati di circa il 20%, come dimostrato da un recente studio sull’infusione di dexmedetomidina nel cane. La letteratura disponibile dimostra chiaramente come l’uso di farmaci con un eccezionale indice terapeutico (le dosi somministrate comunemente sono fino a 30-40 volte le dosi minime efficaci!), possa determinare incidenti anestesiologici in alcuni tipi di paziente. Una dettagliata conoscenza del meccanismo d’azione di questi farmaci avrebbe prevenuto la somministrazione di dosi elevate in pazienti con aneurisma aortico od insufficienza valvolare. In medicina veterinaria stanno cominciando a comparire una notevole quantità di studi sull’uso degli α-2 agonisti in infusione continua nella sedazione perioperatoria. La stabilità emodinamica e la sedazione reversibile conseguite sono di ottima qualità, tuttavia rimane un notevole dubbio sul livello di analgesia ottenibile se non vengono utilizzati anche oppioidi.

Indirizzo per la corrispondenza: Federico Corletto, Research Fellow Division of Anaesthesia, University of Cambridge Box 93 Addenbrooke’s Hospital, Hills Road CB2 2QQ Cambridge


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Approccio dermatologico alle dermatiti pruriginose di origine parassitaria Luisa Cornegliani Med Vet, Milano

Antonella Vercelli Med Vet, CES Derm, Torino

Caso clinico n° 1

Diagnosi:................................................................................

Segnalamento: gatto di razza comune europeo, femmina sterilizzata, età 5 anni Motivo della visita: prurito improvviso localizzato ad arti e testa, perdita di pelo nelle medesime aree. Anamnesi: nessuna malattia dermatologica e/o sistemica precedente. Il gatto era regolarmente visitato e vaccinato con frequenza annuale. Il proprietario somministrava una dieta casalinga e preconfezionata a base di pollo, manzo e pesce. L’animale aveva possibilità di accedere al giardino dell’abitazione ed accesso al bosco limitrofo. Nella stessa casa era presente un altro gatto che però non presentava lesioni dermatologiche ed appariva in buone condizioni generali. Esame obiettivo generale e dermatologico: EOG mostra buone condizioni fisiche. L’EOD evidenzia papule e minute croste sul capo; escoriazioni, alopecia ed eritema su tempie ed arti; essudazione negli spazi interdigitali. L’animale al momento della visita mostra prurito. Riassunto dei problemi: dermatite pruriginosa eritematosa a principale localizzazione testa ed arti.

Mimicking dermatosis: ........................................................ ................................................................................................

Diagnosi differenziali: 1.............................................................................................. 2.............................................................................................. 3.............................................................................................. 4.............................................................................................. 5.............................................................................................. 6.............................................................................................. Esami complementari: 1.............................................................................................. 2.............................................................................................. 3.............................................................................................. 4.............................................................................................. 5.............................................................................................. 6.............................................................................................. Esiti esami complementari: 1.............................................................................................. 2.............................................................................................. 3.............................................................................................. 4.............................................................................................. 5..............................................................................................

Iter diagnostico alle dermatiti pruriginose nel gatto: l’approccio al prurito segue un iter diagnostico che si basa su algoritmi diagnostici. È sempre importante raccogliere i dati anamnestici, eseguire l’esame obiettivo generale e particolare in modo completo, stilare la lista delle diagnosi differenziali in base ad i dati ed alla sintomatologia, eseguire gli esami dermatologici. Di seguito è riportato un algoritmo diagnostico utile per il corretto iter diagnostico (Tab. 1).

Caso clinico n° 2 Segnalamento: cane di razza West Highland White Terrier, maschio, età 11 anni e mezzo. Motivo della visita: Prurito cronico con recente aggravamento Anamnesi: Sin dai primi anni di vita il cane aveva avuto problemi dermatologici rappresentati da otite e piodermite ricorrente con pododermatite. Nel corso delle visite precedenti non era stata evidenziata nessuna malattia parassitaria con gli esami di routine. Dopo avere eseguito diete ad eliminazione senza risultati apprezzabili, era stato sottoposto a test allergico in vitro per la titolazione d’IgE nei confronti d’allergeni ambientali (acari, pollini e muffe). L’esame era risultato positivo per gli acari della polvere (D. farinae e D. pteronyssinus) e di stoccaggio/storage mites (Acarus siro, Lepidoglyphus destructor). Era formulata la diagnosi di dermatite atopica ed iniziata un’immunoterapia allergene specifica; i risultati di quest’ultima erano stati mediocri e la terapia era stata poi abbandonata per l’aggravamento del prurito. Le terapie sistemiche iniziali si erano basate sull’uso d’antibiotici (amoxicillina e clavulanico, cefalessina, enrofloxacina) per bocca per periodi di 4-6 settimane, da soli od associati ad antifungini (chetoconazolo ed itraconazolo), su terapie topiche (shampoo terapia con prodotti a base di clorexidina) ogni sette-quindici giorni. Negli ultimi due anni era stato introdotto per controllare e ridurre il pru-


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Tabella 1 Cosa fare? • Corretto iter diagnostico • Visita dermatologica - Segnalamento - Anamnesi - E.O.G. ed E.O.P. - Lista diagnosi differenziali - Esami complementari (algoritmo diagnostico del prurito)

Algoritmo dignostico al prurito • Test iniziali - Esame con lente di ingrandimento - Esame tricoscopico - Esame per spazzolamento

rito prednisone 0,5 mg/kg/os, impiegato inizialmente per brevi periodi per arrivare poi ad una somministrazione costante a giorni alterni. L’otite cronica nell’ultimo anno ara peggiorata e le terapie topiche non apparivano più efficaci. Le condizioni dermatologiche si erano progressivamente ed inesorabilmente aggravate, il proprietario a questo punto interrompeva ogni trattamento richiedendo una visita dermatologica di consulto. Esame obiettivo generale e dermatologico: L’EOG consente di rilevare linfoadenopatia diffusa e modica ipertermia. L’EOD permetteva di osservare sul tronco seborrea, ipotricosi, eritema, collaretti epidermici e papule; in area ascellare ed inguinale eritema, lichenificazione; sulla zona perilabiale eritema e croste giallastre; a livello auricolare otite esterna eritematosa e ceruminosa. Infine i quattro arti mostravano pododermatite eritematosa, nodulare ed ulcerativa, con peli conglutinati, e dolore alla palpazione. Riassunto dei problemi: Dermatite cronica pruriginosa con localizzazione ascellare, inguinale, podale ed auricolare.Otite eritematosa e ceruminosa, grave pododermatite ulcerativa interdigitale, seborrea del tronco con collaretti epidermici; linfoadenopatia generalizzata. Diagnosi differenziali: 1.............................................................................................. 2.............................................................................................. 3.............................................................................................. 4.............................................................................................. 5.............................................................................................. 6..............................................................................................

Test iniziali Negativo Raschiato Negativo Wood e CM Negativo Controllo pulci Negativo Dieta privativa

Positivo Positivo

Ectoparassitosi Ectoparassitosi

Positivo

Dermatofitosi

Positivo

D.A.P.

Positivo

I.A.

segue

Negativo Test allergologico Positivo Negativo Cambio ambiente Positivo Negativo Terapia con Avermectine Positivo Negativo Biopsia e rivalutare Prurito idiopatico o psicogeno!

DA A. da contatto R. notoedrica il caso!

Esami complementari: 1.............................................................................................. 2.............................................................................................. 3.............................................................................................. 4.............................................................................................. 5.............................................................................................. 6.............................................................................................. Esiti esami complementari: 1.............................................................................................. 2.............................................................................................. 3.............................................................................................. 4.............................................................................................. 5.............................................................................................. Diagnosi:................................................................................ Mimicking dermatosis: ........................................................ ................................................................................................ Iter diagnostico alle dermatiti pruriginose nel cane: Le cause di prurito nel cane sono svariate, molte malattie inizialmente non pruriginose possono diventarlo: la distinzione fra malattie pruriginose e non a volte è arbitraria. Va ricordato che si possono sovrapporre più problemi dermatologici nello stesso soggetto e che il percorso diagnostico dovrà essere impostato su un insieme ragionato di diagnosi differenziali e relativi esami complementari. Le manifestazioni cliniche del prurito variano in relazione all’intensità e possono esprimersi con leccamento, mordicchiamento, gratta-


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mento. Le cause più comuni, spesso sottovalutate di prurito, sono rappresentate dalle ectoparassitosi (rogna sarcoptica, pulicosi, cheyletiellosi, trombiculosi, pediculosi, demodicosi, rogna otodettica). La presenza di ectoparassiti va indagata come in tabella. Nel caso sia impossibile evidenziare la parassitosi sospettata (es. rogna otodettica, rogna sarcoptica, pulicosi) è consigliabile effettuare un periodo di trattamento per escludere/ confermare la diagnosi. Escluse le ectoparassitosi, alla presenza d’infezioni secondarie si fa un periodo di “wash out” con associazione di terapia antibiotica ed antimicotici per via sistemica. Se persiste il prurito, con localizzazioni cliniche compatibili, ci si potrà orientare per una o più malattie allergiche (DAP, dermatite atopica, allergia alimentare, dermatite da contatto) e si proseguirà con l’iter diagnostico appropriato. Alla presenza di un prurito ad insorgenza improvvisa in un animale anziano possono essere sospettate malattie neoplastiche. Anche malattie immunomediate come il Pemfigo foliaceo possono essere pruriginose, così come lo possono essere più raramente alcune malattie metaboliche. In tutti questi casi va effettuata un’attenta valuta-

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zione da un punto di vista internistico con esami di laboratorio, ecografie, ecc.

Letture consigliate Noli C., Scarampella F., “Dermatologia del cane e del gatto” Poletto editore, Milano, 2002. Fabbrini F., Vezzoni A., “Atlante di Dermatologia dei Piccoli Animali” UTET editore, Torino, 1997. Scott D.W., Miller R.W, Griffin C.E.: Dermatologic therapy. In Kirk’s and Scott Small Animal Dermatology 6ed. 2001, ed. WB Saunders, Philadelphia, 2001. Carlotti D-N, Pin D, “Diagnostic dermalogique” ed. Masson- AFVAC, Paris, 2002. Bordeau P “Diagnostic expérimental des dermatoses parassitaires- I Les acariens et lei insects” - Les indispensables de l’animal de compagnie- dermatologie- ed PMCAC, Paris, 1991.

Indirizzo per la corrispondenza: Luisa Cornegliani e Antonella Vercelli Amb. Vet. Ass. C.so Traiano 99/d, Torino (I)


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I prelievi non-endoscopici di campioni per citologia e istologia negli uccelli Lorenzo Crosta Med Vet, Desio (MI)

Benché la medicina aviare abbia ormai assunto un’identità ben definita, all’interno della veterinaria, essa soffre tuttora di una certa povertà in termini di supporti diagnostici. Per esempio, se compariamo le possibilità diagnostiche offerte dalla medicina del cane, o del gatto, per quanto concerne kit diagnostici, esami specie-specifici, laboratori dedicati, ci accorgiamo di quanto limitate siano le possibilità che si offrono al veterinario aviare. Se consideriamo le analisi di laboratorio e i kit diagnostici specifici per uccelli non da reddito (test che spesso sono limitati ad una o a poche specie), li possiamo quasi contare sulla punta delle dita: Psittacosi: antigene – anticorpi – PCR; Circovirus psittacidi: PCR; Polyomavirus psittacidi: PCR & sierologia; Herpesvirus psittacidi: PCR & sierologia; Malattia di Newcastle ed altre paramyxovirosi: sierologia; Aspergillosi: sierologia. Questa situazione, che a volte è di per sé frustrante, se da un lato può aiutare a spiegare alcuni dilemmi diagnostici ed insuccessi terapeutici, dall’altro spinge il veterinario aviare ad indagare profondamente altri metodi diagnostici, magari un po’ più invasivi, ma certamente più diretti, come la citologia e l’istologia. Negli uccelli il problema del prelievo di campioni non-endoscopici, per citologia o istopatologia, non è tanto correlato a come effettuare il prelievo, quanto a dove prelevare i campioni. Infatti, la gran parte di coloro che non sono abituati a lavorare con gli uccelli tende a prelevare campioni inutili, tralasciando invece le zone maggiormente interessanti. Gli uccelli sono diversi dai mammiferi, diverse sono l’anatomia, la fisiologia e, di conseguenza, la fisiopatologia. Pertanto, prima di effettuare dei prelievi è necessario conoscere il paziente, avere una diagnosi differenziale già in mente, e sapere ciò che sarà maggiormente utile al patologo per giungere ad un risultato.

Ingluvie. I prelievi dal gozzo sono una routine in medicina aviare. Visto che non è possibile visualizzare l’interno dell’ingluvie ad occhio nudo, i prelievi non-endoscopici si limitano alla raccolta di tamponi “alla cieca” per citologia (citologia classica, colorazioni di Gram, ricerca di miceti e batteri), oppure alla raccolta di liquido di lavaggio. Dal gozzo si possono prelevare anche biopsie a tutto spessore, per la diagnosi di PDD (Proventricular Dilatation Disease). In tal caso, col paziente in anestesia generale, (generalmente incubato), si provvede a preparare il terzo distale del collo. Si esegue un’incisione paramediana destra, a circa 0,5 – 1 cm dall’entrata del torace, e si esteriorizza il gozzo, liberandolo per via smussa dalle su connessioni con la cute del collo. Si identifica un vaso e si provvede ad asportare una biopsia circolare, a tutto spessore, di circa 3 – 5 mm di diametro. Ciò fatto, si sutura il gozzo con monofilamento assorbibile 4-0 o 5-0, con una sutura introflettente, e si conclude suturando la cute con materiale assorbibile, meglio se anch’esso monofilamento, del calibro adeguato. Il paziente riceverà una razione leggera (in volume), il giorno dell’intervento, mentre già in seconda giornata potrà mangiare normalmente. Cloaca. La cloaca è sede di numerose patologie, i prelievi citologici sono spesso effettuati per lo studio della popolazione batterica con colorazione di Gram, come pure per strisci a fresco del materiale urinario e fecale (che negli uccelli, privi di vescica urinaria, sono quasi sempre mischiati). Inoltre si può provvedere al prelievo di materiale per istopatologia da masse di dubbia origine (fra cui i papillomi), sempre che queste siano visibili ad occhio nudo. È sempre importante, nel caso in cui si debbano effettuare delle biopsie evitando il materiale fecale, mantenere un discreto digiuno (2-4 ore), ed essere assistiti da un aiuto in grado di mantenere dilatata la cloaca.

Apparato Digerente

Apparato Respiratorio

Cavità orale. Prelievi dalla cavità orale possono essere effettuati con vari metodi e per diversi scopi. I più comuni prelievi citologici servono per la diagnosi differenziale di placche nel cavo orale, le cui possibili cause possono essere miceti, lieviti, filarie, ipovitaminosi e malattie virali. Inoltre non sono rari prelievi per istologia in caso di masse d’origine sconosciuta, soprattutto sono frequenti le formazioni papillomatose, che, negli psittaciformi, sono probabilmente causate da herpesvirus. La metodica è assai semplice, spesso, ma non necessariamente, il paziente è in anestesia generale, si apre il becco e si procede al prelievo dalla zona interessata con tampone sterile. Nel caso delle biopsie invece, l’anestesia è d’obbligo. La biopsia può essere effettuata con varie metodiche, anche se la tecnica raccomandata è senz’altro il radiobisturi, che controlla meglio l’emorragia e danneggia meno i tessuti circostanti.

Seni nasali. Il prelievo di materiale per citologia dai seni nasali è un’altra pratica piuttosto comune. Qualora un esame microbiologico dell’essudato nasale non dia risultati interessanti, oppure i seni nasali siano dilatati e pieni di materiale sospetto, un prelievo diretto del materiale è sempre una buona opzione diagnostica. Ci sono diverse tecniche per la raccolta di materiale dai seni nasali. Si può infilare l’ago alla commessura del becco e dirigerlo verticalmente, verso un punto posto a metà strada fra il canto mediale dell’occhio e la narice. Altrimenti si può infiggere l’ago appena sotto l’occhio, dietro alla commessura del becco e dirigerlo centralmente verso l’arco zigomatico. Infine, si può entrare perpendicolarmente nel seno nasale, laddove appare gonfio. Coane. Le coane sono la zona di connessione fra la cavità nasale e quella orale. I prelievi microbiologici sono la rou-


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tine, nel caso degli uccelli, ma le coane vanno sempre esaminate con cura, nel caso in cui ci siano sintomi respiratori alti. Il prelievo di materiale per citologia o istologia avviene secondo le normali tecniche. Trachea. Prelievi tracheali per semplice microbiologia e citologia si possono ottenere inserendo un tampone sterile nella trachea di un uccello anestetizzato. La (il) siringe, l’organo della fonazione degli uccelli, si trova nella porzione prossimale della trachea, ed è il sito dove, in termini di frequenza, si localizza la maggior parte delle patologie focali dell’apparato respiratorio prossimale. Per ottenere campioni citologici della trachea distale, del siringe, o dei bronchi, è necessario effettuare un lavaggio tracheale.

Apparato Tegumentario Cute. La cute degli uccelli è molto più sottile di quella dei mammiferi ed è strutturata in maniera differente. Si possono comunque effettuare raschiati cutanei per citologia, come pure biopsie a tutto spessore. Per la biopsia non è indicato l’uso di un “punch”, ma piuttosto si preferisce sollevare un lembo cutaneo e tagliarlo direttamente con una forbice. È sempre consigliabile prelevare una biopsia da una zona affetta dal problema ed una, per comparazione, da una zona apparentemente sana, facendo attenzione ad includere almeno un follicolo nella biopsia. Penne. Anche le penne sono un buon campo, per la diagnosi citologica ed istologica. I preparati più interessanti si ottengono dalle penne in crescita, laddove la polpa della penna è ancora aperta e abbondantemente vascolarizzata. Si può quindi aprire in rachide con una lama sterile e prelevare campioni per citologia, oppure fare solo una piccola incisione ed inviare la base della penna per l’esame istopatologico. Uropigio. La cute aviare è priva di ghiandole, con esclusione di quelle del canale uditivo, di quelle pericloacali e della ghiandola dell’uropigio. Questa è una ghiandola olocrina, bilobata, posta alla base dorsale della coda. Manca nei Columbiformi, negli Amazona ed in altri Psittaciformi. Gli uccelli che la posseggono se ne spalmano il secreto sul piumaggio. Questo secreto assolve azione protettiva ed impermeabilizzante, inoltre si suppone che abbia un’attività inibente sulla crescita dei microorganismi. Infine, il secreto dell’uropigio contiene dei precursori della vitamina D, che vengono convertiti nella forma attiva dall’esposizione ai raggi UV. Dopodiché l’uccello ingerisce la vitamina D con le successive opere di autopulizia. Da questa ghiandola si possono effettuare esami microbiologici e citologici dell’essudato, nonché prelievi bioptici. Apparato Riproduttore: la fecondazione artificiale è ormai routine in varie specie aviari non da reddito (falconiformi, gruiformi, alcuni galliformi e psittaciformi), pertanto esistono metodiche per il prelievo di materiale spermatico e la sua valutazione. A fianco di tecniche volontarie (animali improntati che donano il seme volontariamente), esistono tecniche di massaggio che variano in funzione delle caratteristiche anatomiche e comportamentali del paziente. Midollo Osseo: la raccolta di materiale per citologia dal midollo osseo non è una tecnica difficile negli uccelli. Altra faccenda è la sua interpretazione che deve assolutamente essere fatta da un patologo molto esperto. Il midollo osseo si può prelevare dall’ulna o dal tibiotarso. La tecnica è la

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medesima che s’impiega per mettere un catetere intraosseo per fluidoterapia. Celiocentesi (Addominocentesi): questa procedura si utilizza per prelevare essudato/trasudato da uccelli con dilatazione addominale. La presenza dei sacchi aerei rende difficile l’accesso alla cavità peritoneale in un uccello normale, ma l’accumulo di fluidi, dilatandolo, ne facilita l’aggressione. Il sito d’entrata, posto sulla linea mediana, subito caudalmente all’estremità distale dello sterno, viene preparato chirurgicamente. L’ago, del calibro adeguato (21-25 G), verrà diretto leggermente verso destra, onde evitare il ventriglio, che si pone a sinistra. Si aspira quindi il contenuto e si prepara come di consueto. Artrocentesi: il prelievo di fluido sinoviale, da articolazioni che si presentino gonfie, è un’altra procedura piuttosto comune. La metodica è la medesima impiegata per i mammiferi. Ghiandole ed Organi di Senso: spesso si osservano infiammazioni e dilatazioni di varie parti del corpo, come occhi ed orecchie, in questi casi la scelta del metodo di raccolta dipende molto dalla localizzazione della lesione e dalla sua apparente natura. Le raccolte di fluidi si prestano bene ad un’aspirazione con conseguente esame citologico, mentre le masse solide si prestano anche a biopsia e, a volte, possono anche essere asportate Citologia e Istologia da Necroscopia: un tipo di esame citologico di cui spesso il clinico si dimentica, è la citologia per apposizione dopo necroscopia. Gli uccelli sono relativamente piccoli, pertanto un solo vetrino, o due, possono benissimo contenere apposizioni di tutti gli organi interessanti. La procedura è la stessa di sempre: si effettua un buon taglio netto dell’organo, lo si asciuga, per eliminare il sangue in accesso, toccando con delicatezza della carta bibula e quindi si effettua l’apposizione. È molto importante essere metodici e soprattutto fare le apposizioni sempre nello stesso ordine (per esempio fegato, milza, polmone, midollo osseo e contenuto intestinale), in modo che il patologo abbia il lavoro facilitato.

Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Campbell TW: Cytology. In: Ritchie BW, Harrison GJ and Harrison LR, eds. Avian Medicine and Surgery: Principles and Application. Lake Worth, FL: Wingers Publishing Inc; 1994:199-222. Dahlhausen RD: Implication of Mycoses in Clinical Disorders. In: Harrison GJ & Lightfoot TL (eds) Clinical Avian Medicine. Spix Publishing, Palm Beach, FL; 2006: 691 – 704. Fox N: Obtaining semen: voluntary donors, stripping and electro-ejaculation. In: Understanding the Bird of Prey. Hancock House, Surrey, B.C., 1995: 80-83. Fox N: Handling and assessing the semen quality. In: Understanding the Bird of Prey. Hancock House, Surrey, B.C., 1995: 84-87. Pollock CG: Implication of Mycobacteria in Clinical Disorders. In: Harrison GJ & Lightfoot TL (eds) Clinical Avian Medicine. Spix Publishing, Palm Beach, FL; 2006: 681 – 690. Sandmeier P and Coutteel P: Management of Canaries, Finches and Mynahs. In: Harrison GJ & Lightfoot TL (eds) Clinical Avian Medicine. Spix Publishing, Palm Beach, FL; 2006: 849-860. Stelzer G, Crosta L, Bürkle M, and Krautwald-Junghanns ME: Attempted semen collection using the massage technique and semen analysis in various psittacine species. J. Avian Med. Surg. 19(1), 713, 2005.

Indirizzo per la corrispondenza: Lorenzo Crosta Via Borsieri, 32 – 22100 Como Via Garibaldi, 255 – 20033 Desio (Mi) e-mail: lorenzo_birdvet@yahoo.com


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I prelievi endoscopici di campioni per citologia e istologia negli uccelli Lorenzo Crosta Med Vet, Desio (Mi)

Nel paziente aviare citologia ed istologia, soprattutto se confrontate con metodiche meno invasive, ma anche più complicate, e spesso non disponibili specificamente per gli uccelli, sono spesso così dirette e di relativa facile esecuzione, che il loro impiego dovrebbe essere quasi la routine, per raggiungere una diagnosi. Se a questo si associa la facilità con cui si può eseguire un’endoscopia rigida, in pazienti di questa classe zoologica, si capisce come queste tecniche associate (endoscopia + citologia/biopsiaistologia), siano ormai un cardine della diagnostica in medicina aviare.

STRUMENTARIO E CONSIDERAZIONI TECNICHE Tutti abbiamo sentito parlare di endoscopia e molti fra noi l’hanno anche già impiegata. Però, mentre nella medicina del cane e del gatto si fa un largo uso dell’endoscopio flessibile, l’endoscopia rigida è relativamente meno diffusa. La principale differenza fra endoscopia flessibile ed endoscopia rigida, è che nella prima l’ottica è completamente percorsa da fibre ottiche, mentre in endoscopia rigida queste si limitano al cavo a fibre ottiche, che permette di trasmettere la luce fino all’ottica, senza trasferire il calore generato dalla fonte luminosa. L’ottica rigida sfrutta pertanto un sistema di lenti. Esistono lenti di varia qualità, quindi il prezzo di un’ottica dipende molto dal tipo di lenti che incorpora. Le migliori lenti sono quelle tubolari o cilindriche, che offrono un’immagine di qualità incomparabile. Lo strumentario minimo per effettuare delle biopsie endoscopiche negli uccelli comprende una fonte luminosa, un cavo a fibre ottiche e un’ottica rigida da 2.7 mm, di 18 - 19 cm. di lunghezza e con un angolo di 25-30º. Un’ottica di questo tipo permette di operare su pazienti piccoli, come un pappagallino ondulato, ma anche di lavorare su uccelli di grosse dimensioni, come cicogne o avvoltoi. Inoltre serve un trocar (trequarti), operatorio. Le biopsie endoscopiche avvengono quindi attraverso il canale di servizio di un trocar che, invece d’essere cilindrico, ha una sezione ovale. In tal modo l’ottica, cilindrica in sezione, lascia una canale per il passaggio degli strumenti chirurgici per i piccoli interventi. Tali strumenti, costruiti per l’uso specifico, sono pinze flessibili, da presa e da biopsia, forbici semirigide ed ago flessibile. Eseguendo chirurgia mini-invasiva e biopsie negli uccelli, è importante ricordare sempre che si sta operando su pazienti di dimensioni ridotte, con un peso esiguo, tanto che

spesso il sistema “cavo-endoscopio-trocar-strumentovideocamera” pesa di più dello stesso paziente. Per cui le regole sono: trovare una posizione ergonomicamente corretta, appoggiare gli avambracci al piano operatorio, non fare movimenti bruschi, e non esercitare trazioni esagerate sui delicati tessuti di questi pazienti. Il lavoro viene molto facilitato dall’impiego di una videocamera ed un monitor attraverso cui osservare l’intervento ed eventualmente registrarlo. La qualità della videocamera è importante, ma ancora di più lo sono le sue dimensioni: un modello troppo grosso e pesante sbilancia l’endoscopio e non permette quei movimenti delicati che sono indispensabili lavorando con pazienti molto piccoli. Se non intendiamo usare una videocamera (ma il lavoro può essere molto difficile, senza questo strumento), la fonte luminosa può avere una potenza moderata (150 watt). Diversamente è necessario aumentare la potenza, arrivando almeno a 250 watt, oppure passare a una fonte luminosa allo xeno. Se possibile la fonte dovrebbe essere fornita di una pompa d’aria per i semplici interventi in cui questa è indispensabile, altrimenti si possono acquistare pompe d’aria separate.

APPLICAZIONI PRATICHE 1) Apparato Respiratorio Naso e Coane: l’osservazione endoscopica della parte più prossimale dell’apparato respiratorio permette di raccogliere campioni in maniera mirata. Si utilizzano esclusivamente ottiche rigide. Il paziente è in anestesia generale, ed è incubato, oppure si sta erogando la miscela anestetica nei sacchi aerei. Lo si posiziona in decubito dorsale, gli si apre il becco e si pone l’endoscopio nelle fessura delle coane, che si apre nel palato. Si può così accedere alle cavità nasali e da qui alle conche. Trachea e Siringe: benché la tracheoscopia sia una delle manovre diagnostiche più comuni negli uccelli, la raccolta di materiale bioptico in endoscopia lo è molto meno. Infatti, le ridotte dimensioni della trachea degli uccelli limita molto l’uso dell’endoscopio + trocar con canale di servizio ed inoltre la maggior parte dei campioni tracheali sono per citologia ed ottenuti con metodi non endoscopici. Recentemente sono state messe in commercio ottiche da 1.9 mm, con relativi trocar a strumenti, che permettono anche la raccolta di campioni diagnostici dalla trachea. Per effettuare prelievi bioptici in trachea è normalmente necessario erogare l’anestesia nei sacchi aerei.


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2) Apparato Digerente Esofago ed ingluvie (gozzo): questa è una delle poche manovre che richiedono l’insufflazione di aria attraverso il trocar. Il paziente viene anestetizzato e intubato. L’endoscopio rigido, oppure un fibroscopio flessibile di dimensioni adeguate, viene preparato e collegato ad una pompa d’aria; quindi, col paziente in decubito dorsale, laterale destro, oppure mantenuto in posizione verticale da un aiuto, si introduce l’endoscopio nell’esofago, che negli uccelli è particolarmente dilatabile; a volte è necessario aspirare parte dei liquidi che si trovano nel gozzo (limitatamente alle specie che lo possiedono), ma se l’uccello ha digiunato per due o tre ore, questa evenienza è rara, salvo i casi di occlusione o impaccamento del proventricolo. L’endoscopio viene fatto avanzare regolando la quantità d’aria erogata, che deve essere appena sufficiente a dilatare l’organo, senza limitare la funzione respiratoria con una pressione eccessiva. Compartimento gastrico (Proventricolo e Ventriglio): negli uccelli come nei mammiferi, le indicazioni per una gastroscopia, in senso lato, vanno dalla semplice osservazione, per un sospetto diagnostico, ai prelievi bioptici, al recupero di corpi estranei. È imprescindibile una buona conoscenza delle differenza anatomiche nelle diverse specie aviari, per cui il proventricolo ed il ventriglio possono avere forma, aspetto, struttura e relazioni anatomiche anche molto diverse. La manovra è la naturale conseguenza dell’ingluvioscopia descritta precedentemente: una volta nel gozzo, oppure nella porzione distale dell’esofago cervicale, se si sta operando su pazienti privi di ingluvie, si dilaterà con aria la cavità fino ad identificare l’ostio di comunicazione fra gozzo ed esofago toracico. Una volta impegnato quest’ultimo, si potranno raggiungere il proventricolo ed il ventriglio. Per questa manovra possono essere impiegate sia ottiche rigide, sia flessibili: tutto dipende dal tipo di paziente. In alcuni casi, soprattutto nei grossi Cacatua, che hanno un collo relativamente lungo, è spesso impossibile raggiungere il proventricolo con un’ottica rigida passando dalla cavità orale. In questi casi, se non si dispone di un endoscopio flessibile abbastanza lungo e di calibro sufficientemente piccolo, si può procedere per via esofagotomica: il paziente, normalmente anestetizzato ed intubato, è in decubito dorsale; si consiglia di mantenerne il collo in leggera iper-estensione. Aperta una piccole breccia chirurgica nella faccia ventrale dell’esofago cervicale, a circa 4/5 della lunghezza del collo, si potrà accedere con facilità alle porzioni più distali. Cloaca: la cloaca è lo sbocco comune degli apparati digerente, urinario e genitale ed è sede di numerose patologie focali, che possono essere studiate e campionate ai fini diagnostici con un endoscopio che ingrandisca adeguatamente i dettagli. Anche questa manovra richiede un ausilio per la dilatazione della cavità ed una migliore osservazione delle strutture in essa contenute. La cloaca non viene dilatata con aria, bensì con soluzione fisiologica o di Ringer Lattato, tiepida, erogata attraverso un normale deflussore, collegato al rubinetto del trocar dell’endoscopio rigido. La manovra, piuttosto semplice, richiede una perfetta conoscenza dei rapporti anatomici della cloaca. È molto importante non effettuare movimenti bruschi ed imparare a regolare perfettamente il flusso di soluzione salina durante l’osservazione.

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3) Apparato Riproduttore Ovidotto: l’ovidotto è spesso sede di patologie non diagnosticate. Esiste la possibilità di prelevare biopsie dell’ovidotto anche in soggetti piuttosto piccoli (120 g PV). All’ovidotto si accede dall’urodeo, la porzione centrale della cloaca. Una volta identificatone l’ostio, lo si dilata con l’ottica e l’aiuto del liquido tiepido, per arrivare fino alla camera calcigena.

4) Accessi Celioscopici (Laparoscopici) Gli uccelli non possiedono una cavità toracica ed una addominale separate, ma hanno una sola cavità toraco-addominale o celomatica. Pertanto è corretto definire la laparoscopia aviare “celioscopia”. La normale situazione anatomica degli uccelli: mancanza del diaframma, presenza dei sacchi aerei, facilita enormemente la celioscopia aviare. Benché siano stati descritti vari accessi celioscopici negli uccelli, per la biopsia endoscopica essenzialmente se ne impiegano due: la via d’accesso attraverso il fianco (il sinistro è di gran lunga il più utilizzato) e la via d’accesso mediana ventrale.

4.a) Acceso laterale alla cavità celomatica Il sito di entrata maggiormente utilizzato al giorno d’oggi, è quello che si colloca posteriormente alla zampa sinistra, che viene pertanto estesa cranialmente. Il punto di incisione è facilmente identificabile laddove il muscolo caudale della coscia (m. semimembranoso - M. flexor cruris medialis), incrocia l’ultima costa. Una volta incisa la cute con il bisturi, si apre la breccia operatoria per via smussa, utilizzando una pinza di Adson, oppure una piccola pinza Mosquito curva. Si introduce quindi l’endoscopio per iniziare l’osservazione. L’accesso destro è impiegato meno frequentemente. Spesso de questo lato si preferisce un accesso prefemorale, che permette un migliore movimento verso il celoma distale, dove si trova il pancreas, principale bersaglio delle celioscopia laterali destre.

4.b) Accesso mediano ventrale Il paziente viene posto in decubito dorsale e la parete addominale viene preparata asetticamente. Si pratica una piccola incisione cutanea pochi millimetri caudalmente alla fine dello sterno e si separano i muscoli addominali per via smussa. Si inserisce quindi l’endoscopio nella cavità peritoneale (destra o sinistra), mantenendolo parallelo al piano di lavoro.

5) Organi & Apparati in Celioscopia La mancanza del diaframma permette di visionare molti apparati, una volta che si ha avuto accesso al celoma. Da alcuni di questi si possono anche essere effettuare prelievi bioptici.

5.a) Apparato Respiratorio Poiché generalmente l’entrata al celoma avviene dal sacco aereo toracico caudale, l’accesso ai sacchi aerei e alla base polmonare è una manovra immediata. Una volta aperta


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la breccia attraverso i muscoli addominali, si introduce la sonda e, appena entrati in cavità toraco-addominale, si devia l’ottica cranialmente. In questo modo è possibile osservare la parete del sacco aereo, il sacco aereo in se, la base del polmone e l’ostio di passaggio da quest’ultimo al sacco aereo.

5.b) Fegato Se lo scopo è la biopsia di un frammento qualunque di parenchima epatico, l’approccio più semplice è attraverso l’accesso dal fianco sinistro, precedentemente descritto. Il fegato si incontra all’interno della cavità peritoneale, scivolando con l’endoscopio lateralmente, prima sulla porzione dorsale e poi su quella laterale del proventricolo. Se invece un esame diverso, come una radiografia, oppure un’ecografia ci indicano una lesione focale in punto preciso del fegato, che non può essere raggiunto attraverso l’approccio laterale sinistro, si può tentare l’accesso mediano ventrale.

5.c) Apparato Circolatorio Al momento negli uccelli non si effettuano biopsie del cuore. È però possibile effettuare una pericardiocentesi. Il cuore, come il fegato, può essere approcciato da due diversi punti d’ingresso. Dopo un approccio laterale sinistro, trovandosi nel sacco aereo toracico caudale, si può passare nel sacco toracico craniale, per osservare la faccia latero-dorsale dell’organo. Volendo invece osservare la punta cardiaca, si può operare attraverso l’approccio mediano ventrale. Dopo avere superato la faccia ventrale del fegato, nel canale creato dai due lobi epatici, si incontra facilmente il cuore nel suo aspetto apicale.

5.d) Apparato Urinario Le indicazioni una biopsia del parenchima renale sono legate a un sospetto di nefropatia che non possa venire altrimenti accertata: quindi, in linea generale, la manovra è indicata in caso di poliuria-polidipsia, iperuricemia cronica e nefromegalia. Una volta entrati nel sacco aereo toracico caudale, a circa 1/3 della sua lunghezza, si devia l’endoscopio medialmente, passando attraverso la parete del sacco aereo e si localizza il polo craniale del rene, che fra l’altro è il sito preferito per la biopsia.

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5.f) Milza La milza non è sempre facilmente accessibile e riconoscibile, nel celoma degli uccelli. L’accesso è il medesimo descritto per i reni. Identificato il lobo craniale del rene sinistro, ci si dirige in basso, nella fossa formata dal rene e dal mesentere da un lato e dal proventricolo dall’altro, dove si identificherà la milza.

5.g) Pancreas Il pancreas può essere raggiunto quasi solo attraverso una laparotomia sul fianco destro ed è forse l’organo più difficilmente accessibile nella cavità toraco-addominale degli uccelli. Una volta entrati dal fianco destro, ci si dirige caudo-ventralmente, per identificare l’ansa duodenale, che racchiude il pancreas.

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5.e) Apparato Riproduttore La biopsia delle gonadi si effettua in casi particolari e solamente dopo molti altri accertamenti. Visto che le gonadi si trovano centralmente al polo craniale del rene, l’approccio avviene esattamente come appena descritto per i reni.

Indirizzo per la corrispondenza: Lorenzo Crosta Via Borsieri, 32 - 22100 Como Via Garibaldi, 255 - 20033 Desio (Mi) e-mail: lorenzo_birdvet@yahoo.com


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“Questo l’ho fatto anch’io” Errori comuni nella gestione di una struttura veterinaria Gualtiero Walter Crotti Med Vet, Dipl Master in cardiologia, Civitanova Marche (MC)

Nel compimento del nostro lavoro di medici veterinari è ormai riconosciuta la necessità di apprendere tecniche e metodi che portino il professionista a limitare gli errori e ad agire secondo delle buone pratiche che siano riconosciute come corrette per la salute dell’animale ed utili per meglio gestire la patologia. Anche nell’ambito della gestione della struttura veterinaria le nozioni che ci derivano dal “ Practice Management ” ci forniscono indicazioni per una conduzione più corretta, duratura e soddisfacente, in termini professionali ed economici. Aderire a tali indicazioni non depaupera la nostra professione dell’imprescindibile aspetto medico (anzi!), non mortifica la nostra libertà nel prendere le decisioni secondo scienza e coscienza, come molti colleghi temono. Esalta invece la nostra capacità imprenditoriale, migliora l’immagine della professionalità del medico veterinario agli occhi di una clientela ancora abituata a rivolgersi all’amico cinofilo, al negoziante, all’allevatore al farmacista laddove invece il referente unico nel legame tra il pet ed il proprietario dovrebbe essere il Medico Veterinario. Nella relazione l’autore descrive una serie di errori comunemente commessi durante il lavoro in una struttura veterinaria privata dedicata ai piccoli animali. Gli esempi portati vengono in parte dall’esperienza personale negli anni (come si usa dire: chi non fa non falla...), in parte da situazioni che si vedono tutt’oggi ripetersi, soprattutto laddove la cura della relazione con il cliente, dell’organizzazione della struttura stessa e dei singoli locali, della preparazione e motivazione del personale ed altri importanti aspetti sono lasciati in secondo piano, nella convinzione che siano meno importanti, oppure troppo difficili da seguire per chi esercita una professione medica. L’autore non ha voluto prendere in considerazione l’aspetto strettamente medico, ma solo quello gestionale e vista la vastità dell’argomento per il tempo a disposizione, sono stati trattati “errori” appartenenti a tre categorie: ERRORI DI ORGANIZZAZIONE. ERRORI DI RAPPORTO CON IL PUBBLICO. ERRORI DI GESTIONE ECONOMICA.

Nel primo gruppo, sono stati raggruppati esempi di malgestione o di scarso sfruttamento dei locali della struttura, della gestione del telefono e degli appuntamenti, di cattiva interazione tra il personale,di scarsa organizzazione degli ambienti di lavoro. Nel secondo gruppo sono stati evidenziati errori di comunicazione, legati,ad esempio,ad atteggiamenti irritanti o frettolosi, oppure alla scarsa propensione a verificare quello che il cliente realmente percepisce dal nostro comportamento e dalle nostre parole. Ci preoccupiamo di essere stati realmente compresi, oppure diamo sempre colpa al cliente se non raccogliamo una convinta adesione alle nostre raccomandazioni o proposte? Nella nostra maniera di porci di fronte al cliente, mostriamo di essere realmente pronti ad offrire al cliente la migliore prestazione di cui siamo capaci? Nel terzo gruppo sono stati portati esempi di errori legati alle cattive gestioni di spese, ma anche alle difficoltà che si possono trovare nel chiedere ed ottenere un adeguato compenso per le nostre prestazioni. Assenza di una pianificazione nel valutare l’ammortamento degli acquisti, carenze nella stesura di un bilancio, occasioni perse nell’incrementare il fatturato ella struttura, errori nella formazione del prezzo della nostra prestazione portano il veterinario a mancati guadagni od anche a reali perdite. Errori di valutazione delle potenzialità economiche dei clienti sono un’altra grave fonte di mancato guadagno. Ovviamente ogni libero professionista potrebbe aggiungere in base alla propria esperienza altri esempi a quelli citati, e molti di questi “errori “ non vengono più commessi nelle strutture più organizzate, oppure laddove un collega abbia deciso di sottrarre tempo alla propria attività medica per rivestire anche il ruolo di “manager” della struttura stessa. Anche il semplice utilizzo razionale di fogli di calcolo, prestampati, accurata tenuta della contabilità così come delle schede clienti facilitino in ultima analisi chi deve controllare la redditività di un’impresa veterinaria.


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Vaccinazioni e comportamento nel cucciolo: una relazione pericolosa? Paola Dall’Ara Med Vet, PhD, Milano

Clara Palestrini Med Vet, PhD, Specialista in Etologia applicata e benessere animale, Dipl. ECVBM-CA, Milano

Vaccinazioni: cosa sta cambiando? In campo veterinario, così come in campo umano, la vaccinologia è un settore in continua evoluzione. Il veterinario ha infatti oggi a disposizione una vasta scelta di presidi immunizzanti per tenere sotto controllo diverse malattie infettive del cane. Ma quali vaccini scegliere e perché? E contro cosa vaccinare? E ogni quanto vaccinare? E quando cominciare? Queste sono solo alcune delle domande più ricorrenti che i veterinari si pongono quando devono affrontare il tema “vaccinazioni”. E questa relazione ha lo scopo di fare un po’ di chiarezza in questo campo, facendo il punto su cosa sta cambiando nell’immenso mondo dei vaccini. Alcuni veterinari preferiscono vaccinare contro tutte le malattie per le quali esiste un vaccino, ricorrendo, per comodità, a vaccini polivalenti (in commercio sono disponibili fino a 8 valenze combinate); altri, invece, adottano l’approccio di vaccinare i propri pazienti con le vaccinazioni di base (in genere utilizzando vaccini bivalenti o trivalenti), riservando l’uso di quelle accessorie solo per i soggetti veramente a rischio di infezione. La produzione commerciale di vaccini polivalenti ha comunque reso i protocolli vaccinali meno costosi e più convenienti sia per i veterinari, sia per i proprietari degli animali, aumentando le probabilità che gli animali vengano vaccinati in modo corretto. I test di interferenza, richiesti per l’autorizzazione in commercio, garantiscono che gli antigeni presenti nei vaccini polivalenti stimolino un’immunità identica a quella fornita da ogni singola valenza somministrata separatamente. Alcuni patogeni sono andati incontro a variazioni antigeniche in questi ultimi anni, e questo ha reso più difficile il loro controllo mediante i vaccini classici, che non sono risultati più perfettamente rispondenti alle necessità, garantendo solo una cross-reattività più o meno completa a seconda dei casi. È questo il caso ad esempio del parvovirus (CPV-2, contenuto della stragrande maggioranza dei vaccini del commercio e che da diversi anni non circola più nella popolazione canina), che è andato incontro a una prima mutazione nel 1981 con la comparsa del ceppo CPV-2a e in seguito a un’altra mutazione nel 1985 con la comparsa del ceppo CPV-2b, oggi predominante in Europa. Un altro esempio è rappresentato dal coronavirus (CCoV),

responsabile fino a poco tempo fa solo di lievi enteriti autolimitanti soprattutto concomitanti alle infezioni da parvovirus, e oggi accusato di poter causare una forma ben più grave di malattia in seguito a una mutazione nel suo genoma. Un ultimo esempio è fornito dalle leptospire: i vaccini del commercio contengono tutti le batterine di L. canicola e L. icterohaemorrhagiae, mentre le serovar oggi più diffuse sono altre, con conseguente protezione non ottimale nei confronti di questi batteri. Un altro grande cambiamento che sta caratterizzando il campo della vaccinologia è l’opinione dei molti circa la frequenza dei richiami vaccinali. Per la maggior parte delle malattie più importanti, la comunità scientifica mondiale competente suggerisce di ripetere la stimolazione antigenica con richiami triennali e non più annuali. Tali indicazioni nascono dalla volontà di non eseguire trattamenti immunizzanti non necessari, sulla base sia di studi che, valutando la durata dell’immunità conseguente alla vaccinazione (espressa come DOI, Duration Of Immunity), indicano la persistenza della risposta immunitaria ben oltre un anno dalla precedente vaccinazione, sia di altri che sottolineano la possibilità di conseguenze indesiderabili, quale ad esempio lo sviluppo di sarcomi nel sito di iniezione per i gatti. Ogni medico veterinario è quindi tenuto a seguire gli sviluppi scientifici di questi concetti e gli effetti dell’applicazione dei nuovi protocolli, al fine di offrire sempre un piano vaccinale efficace e associato al minor numero possibile di effetti indesiderati Un’ultima svolta importante è l’età alla quale è possibile eseguire la prima serie vaccinale. Fino a poco tempo fa la scelta più comune era quella di vaccinare un cucciolo al compimento del secondo mese; oggi invece molti anticipano la prima vaccinazione alla 6a settimana (alcuni addirittura alla 5a), spesso con prodotti definiti “ad alto titolo” per aprirsi un varco nell’immunità materna. Altrettanto comune è includere oggi la vaccinazione anti-parvovirus nella prima serie di vaccinazioni del cucciolo, malgrado sia oramai dimostrato che gli anticorpi anti-parvovirus trasferiti dalla madre al cucciolo permangano in circolo più degli anticorpi passivi con altre specificità, per diminuire comunque il rischio di infezione in questa fascia di età che risulta la più suscettibile.


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Bibliografia consultata American Animal Hospital Association Canine Vaccine Task Force (2003): 2003 Report on canine vaccine guidelines, recommendations, and supporting literature. JAAHA, Special Report, 39 (2), 119. AVMA Council (2002): 5th Council on biologic and therapeutic agent’s report on cat and dog vaccines. JAVMA, 221 (10), 1401 Bo S. (2005): Manuale di malattie infettive del cane e del gatto. Ed. Scivac, Cremona Buonavoglia C. (2003): Vaccini e vaccinazioni nel cane. In: “Le vaccinazioni in medicina veterinaria”, Edagricole, Bologna, pag. 159 Greene C.E. (1998): Immunoprofilassi e immunoterapia. In: Greene C.E. (ed.): “Malattie infettive del cane e del gatto”. Ed. italiana sulla II americana, Antonio Delfino Editore, pag. 717 Schultz R.D. (2000): Consideration in designing effective and safe vaccination programs for dogs. International Veterinary Information Service (http://www.ivis.org)

Comportamento: è possibile una prevenzione efficace? Il comportamento di un animale è una determinante estremamente importante del successo del legame uomo-animale e rappresenta il risultato di una complessa combinazione di fattori genetici e ambientali. Ogni animale percepisce, con i propri organi di senso, stimoli particolari che discrimina e privilegia nell’ambiente e ciò determina progressivamente anche la formazione del mondo soggettivo. La sopravvivenza di un individuo dipende non soltanto dalla capacità di adattarsi attraverso la risposta a particolari stimoli o la manifestazione di comportamenti filogeneticamente programmati, ma anche dalla capacità di utilizzare l’esperienza grazie alle varie forme di apprendimento. Sulla base delle predisposizioni innate, ogni soggetto impara quanto l’ambiente gli insegna: in natura tale processo si svolge solitamente in modo graduale, durante l’ontogenesi, attraverso gli insegnamenti dei conspecifici, in particolare della madre e in funzione delle risposte, positive o negative, che l’ambiente fornisce all’emissione di ogni comportamento. Per quanto riguarda i nostri animali domestici, l’ambiente è costituito in ampia misura dall’uomo e dalla sua gestione. Dunque gran parte delle loro possibilità di adattamento dipendono sia dalla capacità di imparare da quest’ultimo sia dalla capacità di quest’ultimo di insegnare agli animali a manifestare i vari comportamenti adeguati all’ambito fisico e sociale in cui gli animali sono inseriti. Il comportamento si sviluppa, durante l’ontogenesi, attraverso una serie di “fasi” che sono strettamente collegate allo sviluppo neuro-sensorio ed alla maturazione individuale, con tempi diversi in relazione alle caratteristiche di ogni specie. Il cane domestico ha, nel proprio repertorio comportamentale, una vasta serie di comportamenti e di segnali tipici e comprensibili dai suoi conspecifici; tali caratteristiche, che si sviluppano secondo tappe ben precise durante le fasi di vita, sono da porre in relazione con la progressione dello sviluppo neuro-sensorio.

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Alcuni Autori distinguono inoltre un periodo “prenatale”, importante per lo scambio di informazioni tra madre e feti e per la ripercussione dello stato di stress che essa può sviluppare. Durante la fase neonatale, che comprende le prime due settimane di vita, il cucciolo è ancora immaturo dal punto di vista neurosensorio. La terza settimana di vita rappresenta il cosiddetto periodo di “transizione”, caratterizzato da uno sviluppo rapido sia fisico che nervoso. L’eruzione dei denti inizia nel periodo di transizione ed i cuccioli si mordicchiano tra di loro ed iniziano a giocare maldestramente ed a ringhiare. All’interno delle varie fasi di sviluppo, il “periodo di socializzazione”, che va dalla terza alla dodicesima settimana di vita, riveste particolare importanza dal punto di vista comportamentale. Durante il periodo di socializzazione, il cucciolo diventa capace di distinguere i diversi stimoli ambientali, di rispondervi e di apprendere dall’esperienza. In particolare, l’esplorazione e il gioco sociale divengono attività importanti, soprattutto per ciò che concerne la socializzazione, sia con le persone, sia con i conspecifici. I cuccioli familiarizzano con l’ambiente circostante, con il resto della cucciolata, con la madre e con gli esseri umani. Si formano le gerarchie, si sviluppa il comportamento di evitamento e dall’ottava settimana si notano le reazioni di paura. La socializzazione può poi essere estesa, tramite un processo di generalizzazione, anche ad eterospecifici, che in genere per il cane domestico sono rappresentati da soggetti umani. Cuccioli di cane svezzati e allontanati dal gruppo prima del periodo di socializzazione possono, da adulti, evitare o aggredire gli altri cani o comunque sviluppare comportamenti sociali inappropriati nei confronti di cospecifici; non saranno neppure in grado di giocare e sarà difficile farli accoppiare. Inoltre, un cane che non abbia avuto la possibilità di interagire con gli altri sarà troppo orientato verso le persone. La socializzazione verso gli uomini è altrettanto importante: un cane che ha avuto pochi contatti fino alla quattordicesima settimana di vita difficilmente diverrà un buon animale domestico. Ciò è tipico dei cani allevati in canile, i quali hanno un buon grado di socializzazione con i cospecifici, ma anno esperienze limitate con gli uomini, risultando spesso soggetti timidi e difficilmente educabili. L’analisi del comportamento può indicare la presenza di elementi ambientali stressogeni durante l’ontogenesi, e quindi le successive difficoltà di adattamento a questi collegate. Un processo di sviluppo comportamentale corretto consente al cane di affrontare le varie situazioni ambientali reagendo adeguatamente agli eventuali stressori. Le esperienze vissute dal cucciolo durante il ‘periodo sensibile’ tendono a determinare il tipo di stimoli cui si adatterà e di persone, animali, luoghi cui risulterà attaccato. Quindi particolare attenzione andrebbe prestata all’osservazione del cucciolo durante le sue fasi di sviluppo, sia per identificarne le caratteristiche individuali che per favorire una corretta socializzazione con i conspecifici e con l’uomo ed indirizzarne adeguatamente l’educazione.


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Bibliografia consultata Askew H.R., 1996. Treatments of Behaviour Problems in Dog and Cat. A Guide for the Small Animal Veterinarian. Blackwell Sci. Ed. Dehasse J., 1994. Sensory, Emotional and Social Development of the Young Dog Bull, Vet. Clin. Ethol., Vol. 12, 6-29. Endenburg N., Hart H. e Bouw J., 1994. Motives for Acquiring Companion Animals. The J. of Economic Psychology, 15: 191-206. Eibl Eibensfeldt I., 1995. I fondamenti dell’Etologia. Adelphi, Milano. Fox M.W., 1971. Integrative development of brain and behaviour in the dog. Chigago: University of Chicago Press. Fraser A.F., 1985. Ethology of Farm Animals, Elselvier, Amsterdam. Houpt K.A., Wolsky T.R., 1982. Domestic animal behaviour for veterinarians and animal scientists. Ames. IA: Iowa State University Press. Houpt K.A., 2000, Il comportamento degli animali domestici. E.M.S.I., Roma. Kilgour R., 1985. Imprinting in Farm Animals, In: Fraser A.F. (Ed), Ethology of Farm Animals, Elsevier, Amsterdam. Lynch G., Baundry M., 1984. The Biochemistry of Memory: a new and Specific Hypothesis, In: Science, n. 224, 1057-1063. Markwell P.J., Thorne C.J., 1987. Early behavioural development of dogs. J. Small Anim. Pract., 58, 984-991. Nott H.M.R., 1992. Behavioural development os the dog. In: Thorne C. (Ed), The Waltam Book of dog and cat behaviour. Oxford: Pergamon Press, 65-78. Pageat P., 1999. Patologia comportamentale del cane. Edizioni Point Vétérinaire Italie, Prima Ed. Italiana. Scott J.P. & Fuller J.L., 1965. Genetics and the Social Behaviour of the Dog. Univ. of Chicago Press, Chicago, U.S.A. Scott J.P., 1992. The Phenomenon of attachment in Human-Nonhuman Relationships. In: The Inevitable bond. Examining scientist-animal interaction. DAVIS H. e BALFORD D. (Ed.). Cambridge University Press.

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Indirizzo per la corrispondenza: Paola Dall’Ara Professore Associato di Immunologia Veterinaria, Dipartimento di Patologia Animale, Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria, Sezione di Microbiologia e Immunologia, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano, Via Celoria 10, 20133, Milano, Italia +39 02 503108084, paola.dallara@unimi.it Clara Palestrini Ricercatrice presso l’Istituto di Zootecnica, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano, Via Celoria 10, 20133, Milano, Italia +39 02 503108026, +39 02 50318030, clara.palestrini@unimi.it


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Micosi nasali nel cane e nel gatto: aspetti clinici, diagnosi e trattamento Davide De Lorenzi Med Vet, SCMPA, Dipl ECVCP, Forlì

Le cavità nasali e sinusali rappresentano un luogo ideale per la crescita è lo sviluppo di colonie micotiche: buio, calore, umidità ed anfrattuosità rappresentano infatti condizioni ottimali per qualsiasi micete. Vi sono numerose segnalazioni bibliografiche riferite a micosi intranasali nel cane e nel gatto; fra gli agenti eziologici riportati ricordiamo Aspergillus sp, Penicillium sp, Cryptococcus neoformans, Rhinosporidium seeberi, Trichosporon sp, Blastomyces dermatitidis, Histoplasma capsulatum, Alternaria sp, Exophialia sp e Scedosporium apiospermum. Fra tutti i funghi sopra ricordati, sicuramente Aspergillus fumigatus nel cane e Cryptococcus neoformans nel gatto assumono maggiore importanza clinica per la relativa frequenza con cui queste infezioni si rilevano nel nostro Paese.

ASPERGILLOSI Aspergillus sp. é un micete saprofita, ubiquitario e presente in grandi quantità nel terreno, sulle piante di casa, in mobili e suppellettili fatti con fibre vegetali, attorno alle gabbie degli uccelli e nella polvere di casa. Tutte gli Aspergillus sono caratterizzati dalla loro particolare modalità di riproduzione conidiale: presenza di un conidioforo (detto anche stipe terminante) con un rigonfiamento denominato vescicola; su quest’ultima si formano le fialidi, o direttamente o attraverso una serie di corte cellule sterili dette metulae (Sterigmates); ogni fialide produce una catena di spore ramificate; l’insieme della vescicola, delle fialidi e delle spore prende il nome di testa aspergillare (Fig. 1).

spore fialidi

testa aspergillare in colonna

vescicola conidioforo

piede vescicola semisferica 1 serie di sterigmati Figura 1 - Struttura microscopica di Aspergillus fumigatus.

Le spore hanno un tallo e una morfologia (tonde, rugose da 2 a 3 mm di diametro) tali da favorire sia la loro disseminazione, poiché minore è l’attrito con i movimenti dell’aria, sia il loro passaggio attraverso il tratto respiratorio fino agli alveoli polmonari, dove possono provocare micosi primarie, particolarmente in individui immunodepressi o compromessi. I ceppi riconosciuti patogeni sono oggi circa una ventina ma la grande maggioranza, sia in medicina umana che veterinaria, appartengono alla specie A. fumigatus, in ragione della sua termotolleranza a 37 °C.

Patogenesi L’Aspergillosi rappresenta senza dubbio la micosi nasale più frequente nel cane ed è stata segnalata sporadicamente anche nel gatto. Generalmente sono colpiti cani maschi di razze meso- o dolicocefale, giovani (uno studio relativo a 60 casi di aspergillosi nasale canina ha evidenziato una età media di 3,3 anni nella popolazione colpita) generalmente in ottime condizioni di salute generale. Questa patologia è stata riportata in associazione a corpi estranei endonasali, traumi e neoplasie nasali ma apparentemente non esistono fattori predisponenti; studi immunologici eseguiti prima e dopo la terapia in cani con aspergillosi nasale hanno tuttavia evidenziato una disfunzione sia degli elementi linfoidi di derivazione B che di derivazione T che permane a lungo anche dopo l’eliminazione dell’agente eziologico. Anche nel cane così come nell’uomo, è segnalata una forma disseminata di questa micosi con coinvolgimento polmonare, osseo, renale e cerebrale ma, generalmente, pazienti con micosi nasale non mostrano altre localizzazioni della patologia e cani con aspergillosi disseminata non presentano coinvolgimento delle cavità nasali o sinusali. Aspergillus entra nelle cavità nasali per inalazione di spore dall’ambiente o veicolato da corpi estranei vegetali; se il numero di spore è molto elevato e se l’inalazione di questi elementi è continuato nel tempo, il fungo riesce a svilupparsi nei seni frontali oppure nelle porzioni più caudali dei turbinati etmoidali. Il fungo non invade la mucosa e resta in superficie producendo sostanze che causano distruzione dei tessuti mucosali ed ossei sottostanti; questo fatto, associato al tipo di risposta cellulo-mediata e ad alla apparente stato di immunocompetenza del soggetto colpito dalla malattia rende questa patologia sovrapponibile alla rinosinusite erosiva cronica non invasiva descritta anche in pazienti umani.


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Quadro clinico Il sintomo più frequentemente evidenziato in corso di rinite aspergillare è lo scolo nasale profuso, monolaterale all’inizio della malattia ma che spesso diviene bilaterale per lisi del setto nasale o delle ossa frontali. Il materiale che fuoriesce spontaneamente o a seguito di starnuti è in genere catarrale-purulento, giallovedastro, denso e maleodorante. Non di rado si evidenziano strature ematiche o rinorragie profuse, in genere autolimitanti. Il cane in genere tenta di sottrarsi alla palpazione della superficie nasale e sinusale e raramente si possono avere lisi ossee e deformazioni evidenziabili dall’esterno. Il respiro è spesso rumoroso, a bocca aperta e l’espirato risulta maleodorante; non di rado si percepisce stertore inspiratorio. Un segno clinico fortemente indicativo anche se non patognomonico di infezione aspergillare è la presenza di ulcere ed erosioni del tartufo come conseguenza dal contatto prolungato con lo scolo nasale contenente una alta concentrazione di tossine micotiche. Nelle fasi più avanzate della malattia si notano anoressia ed abbattimento così come lacrimazione conseguente ad ostruzione del canale nasolacrimale e moderata linfoadenomegalia dei linfonodi zigomatici, sottomandibolari e cervicali.

Diagnosi La diagnosi di Aspergillosi nasale può essere difficile da ottenere con certezza: molti tipi di indagine differenti possono essere utilizzati ma nessun test singolo è abbastanza accurato da risultare, da solo, sufficiente. Esamineremo di seguito i vari test diagnostici esaminando i pro ed i contro di ognuno di essi. Esame colturale: l’esame colturale da scolo nasale o da tampone nasale eseguito “alla cieca” non rappresenta una scelta valida perché sono segnalati falsi positivi, in animali sani o in animali con neoplasia nasale, fino al 40% degli individui testati. Allo stesso modo, animali con aspergillosi nasale possono risultare falsamente negativi all’esame colturale da scolo o tampone sia per la presenza di batteri di irruzione secondaria sia perché la colonia micotica è localizzata in profondità nei turbinati etmoidali o nei seni frontali e gli elementi fungini non raggiungono l‘esterno in numero adeguato per la coltura. L’esame colturale eseguito da biopsie sotto visione endoscopica diretta permette di isolare con certezza il tipo di fungo causa della patologia anche se non si conoscono differenze di terapia o prognosi fra specie diverse di Aspergillus o fra Aspergillus o Penicillium. Esame sierologico: sono state usate numerose metodiche per valutare i titoli anticorpali specifici nei confronti di Aspergillus sp. e fra questi ricordiamo la doppia diffusione in gel di agar (DDGA), l’immuno-elettroforesi (IE) ed il test ELISA; mentre le prime due metodiche risultano sensibili e specifiche, l’ELISA si è dimostrato molto meno affidabile. Un risultato negativo con DDGA deve comunque essere valutato in maniera critica in presenza di un quadro clinico, radiologico e rinoscopico di rinite aspergillare perché sono segnalate con relativa frequenza false negatività nelle fasi iniziali di malattia confermata istologicamente da biopsie nasali. In aggiunta, se l’agente eziologico è Penicil-

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lium sp. il test può risultare negativo nel caso che vengono ricercati anticorpi solo per Aspergillus sp. Altri autori riportano una percentuale di falsi positivi pari al 6% con questo test a pari al 15% con l’IE. In relazione a quanto fino a qui detto, i tests sierologici devono essere usati in associazione ad altre tecniche diagnostiche e valutati in maniera critica, alla luce di diagnostica per immagini, rinoscopia, citologia ed istologia. Diagnostica per immagini: l’esame radiografico rappresenta un utile test di screening se si sospetta una micosi nasale. Devono essere eseguite almeno tre proiezioni: laterolaterale, “a bocca aperta” e “sky line”; in particolare la proiezione a bocca aperta permette di paragonare le due cavità nasali e di evidenziare zone a maggiore radiotrasparenza, determinate dalla lisi dei turbinati endonasali mentre la proiezione “sky line” permette di esaminare i seni frontali ed identificare accumulo di materiale fluido al loro interno. Di sicuro, uno studio radiografico ben eseguito consente spesso di individuare lesioni riferibili (ma non patognomoniche) a micosi nasale ma che difficilmente si potranno evidenziare l’esatta diffusione della malattia e quadri di lisi ossea che possono dare ragione di insuccessi terapeutici o peggio di gravi complicazioni sempre derivanti dalla terapia per allagamento delle cavità nasali. L’esame TC permette di evidenziare l’integrità della lamina cribrosa dell’etmoide e questa valutazione risulta di particolare importanza quando la micosi coinvolge le porzioni più caudali delle cavità nasali per la possibile penetrazione del farmaco utilizzato nella terapia a livello di strutture del SNC. Rinoscopia: l’esame rinoscopico rappresenta una procedura fondamentale per la diagnosi di micosi nasale e deve essere eseguito con strumentazione adeguata, dopo avere eseguito le valutazioni diagnostiche o tomografiche; queste ultime, infatti, aiutano l’endoscopista nell’individuazione delle zone più significative da esaminare ed inoltre il sanguinamento dai siti di biopsia potrebbe alterare il quadro radiografico o TC. Lo strumento ideale per eseguire una rinoscopia anterograda è rappresentato da un’ottica rigida lunga e sottile: la più impiegata, poiché utilizzabile in una vasta gamma di pazienti è l’ottica di diametro 2,7 mm, lunghezza 18 cm ed angolo di visione frontale di 30°. Questo endoscopio permette di eseguire una rinoscopia accurata sia nei gatti adulti che praticamente nei cani di tutte le taglie. L’aspetto endoscopico che viene evidenziato tipicamente nelle aspergillosi nasali è quello di una rarefazione anche notevolissima dei turbinati con presenza di ampi spazi all’interno della cavità nasale, spazi generalmente occupati da abbondante materiale viscoso giallo-verdastro a volte mescolato a sangue coagulato. Il materiale per l’esame citologico può essere raccolto sia tramite spazzolamento che per mezzo di pinza bioptica. In questo ultimo caso la biopsia viene allestita per schiacciamento, ovvero posta su un vetrino portaoggetto e schiacciata con forza da un secondo vetrino che viene direttamente staccato dal campione senza strisciarlo. Un recente studio ha dimostrato l’inefficacia, in presenza di aspergillosi nasale, dei campionamenti citologici eseguiti da striscio diretto dello scolo nasale e da tampone endonasale mentre ha evidenziato la significatività della raccolta tramite spazzolamento e schiacciamento da biopsia sotto visione endoscopica diretta.


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Citologia: i campioni allestiti per schiacciamento o spazzolato vengono colorati con colorazioni rapide del tipo Romanowsky (May-Grunwald-Giemsa, Diff Quik®) ed esaminati al microscopio ottico: il quadro esaminato mostra invariabilmente una flogosi neutrofilica, con presenza di batteri fagocitati in numero variabile, ma generalmente elevato. I miceti si possono presentare come ammassi di materiale nero-verdastro, difficilmente interpretabili, circondati da cellule infiammatorie. In presenza di simili ammassi è necessario cercare con attenzione lungo i bordi per evidenziare magari solo singole ife che sporgono e possono aiutare nella diagnosi. Le ife di Aspergillus sp. e di Penicillium sp. hanno caratteristiche morfologiche comuni: si tratta di ife a pareti parallele, settate, larghe 4-6 micron che presentano ramificazioni a 45° (Fig. 2a). L’affinità al colorante varia e si possono evidenziare ife intensamente basofile di colore blu, oppure di colore verde scuro o ancora si possono presentare come sagome non colorate circondate da detriti e neutrofili. A volte è possibile evidenziare anche spore che hanno l’aspetto di piccole sfere verdastre dal diametro di 1,5-2 micron mentre solo occasionalmente si repertano teste aspergillari che hanno caratteristiche morfologiche tipiche per ogni specie di Aspergillus e ne permettono l’identificazione precisa (Fig. 2b). L’enorme vantaggio dell’esame citologico risiede nella possibilità di potere formulare una diagnosi di micosi nasale mentre il paziente è ancora in anestesia e di permettere l’esecuzione della terapia nella medesima seduta anestesiologica. CONCLUSIONI: una diagnosi affidabile di micosi nasale deriva dall’associazione di almeno tre delle possibili procedure sopra descritte. Personalmente attribuisco molta importanza ad una diagnostica per immagine compatibile (preferibilmente TC) associata ad un quadro rinoscopico caratteristico e alla fondamentale evidenziazione del micete nell’esame citologico. Il tutto ovviamente supportato da un quadro clinico di scolo nasale cronico.

Terapia Nel tempo, si sono elaborate numerose terapie per la micosi nasale nel cane; vedremo di seguito le varie possibilità terapeutiche descritte in letteratura sottolineando per ognuna di esse vantaggi e svantaggi. Terapia sistemica: in passato sono stati impiegati numerosi principi attivi per la terapia delle aspergillosi nasali ma i farmaci ritenuti più efficaci sono rappresentati da due derivati imidazolici di sintesi il fluconazolo e l’itraconazolo. Il Fluconazolo viene impiegato nel cane alla dose di 2.5-5 mg/kg per bocca ogni 12 ore per almeno 10 settimane mentre l’Itraconazolo può essere utilizzato anche nel gatto (gatto: 10 mg/kg per bocca ogni 24 ore per 10 settimane almeno e cane: 5 mg/kg per bocca ogni 12 ore per 10 settimane per 10 settimane). Questi farmaci hanno effetti collaterali che devono essere conosciuti; in particolare l’itraconazolo può causare lesioni epatiche (in alcuni lavori è riportata la sospensione della terapia in numero variabile dal 5 al 10% dei pazienti a causa di sintomi riferibili ad insufficienza epatica grave) per cui un frequente monitoraggio della funzionalità epatica risulta indispensabile durante la terapia con questo farmaco. Ancora, il costo di questi farmaci è considerevole e la terapia per un cane di trenta chili da prolungarsi per 3 mesi costa quasi 2000 euro.

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FIGURA 2a

FIGURA 2b Figura 2 - a) ife settate di Aspergillus sp. b) teste aspergillari di Aspergillus fumigatus.

Per l’itraconazolo è riportata una percentuale di guarigione del 60-70% nel cane e per il fluconazolo è riportata una guarigione nel 60% sempre nel cane. Terapia topica: è opinione universalmente accettata che le terapie topiche (cioè portando il farmaco direttamente a contatto con la mucosa nasale ed i miceti) siano più efficaci di quelle sistemiche. I farmaci che vengono impiegati nella terapia topica sono essenzialmente due, il Clotrimazolo e l’Enilconazolo. Enilconazolo: questo farmaco è stato il primo impiegato nella terapia topica del cane. Il farmaco viene introdotto attraverso cateteri inseriti chirurgicamente (trapanazione) nelle cavità nasali e/o nelle cavità sinusali, a seconda della diffusione della patologia alla dose di 10 mg/kg (il prodotto contiene 50mg/ml e viene diluito in soluzione fisiologica per renderlo più fluido in ragione di 1 parte di farmaco in 10 di NaCl) due volte al giorno per 10-15 giorni. Anche se l’efficacia della terapia è considerata buona (80%-90% dei casi trattati sono guariti con una somministrazione) si possono frequentemente verificare delle complicazioni la più frequente delle quali consiste nella rimozione prematura dei


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cateteri, cosa questa che richiede una ulteriore anestesia per il loro riposizionamento. Clotrimazolo: questo principio attivo rappresenta, attualmente, la terapia di scelta per l’aspergillosi nasale del cane. Il clotrimazolo è applicabile sia con cateteri inseriti chirurgicamente (analogamente a quanto gia descritto per l’enilconazolo) che attraverso allagamento atraumatico delle cavità rinosinusali con una tecnica recentemente descritta ed attualmente maggiormente impiegata della precedente. Il farmaco viene utilizzato in soluzione liquida all’1% (1 grammo di clotrimazolo in 10 ml di glicole polietilenico) ed impiegato in quantità variabile da circa 30 a circa 60 ml a seconda della taglia del cane. Questa terapia ha efficacia in circa l’80% dei casi dopo una singola somministrazione e di circa 90% dopo una seconda applicazione di farmaco ed in genere la sintomatologia (scolo, epistassi e starnuti) si risolvono entro 2 settimane dalla somministrazione. Un controllo endoscopico a distanza di 3-4 settimane dalla terapia è fortemente consigliabile per evidenziare una eventuale ricrescita micotica ed eseguire una ulteriore applicazione di farmaco prima della ricomparsa dei sintomi. Alla terapia antimicotica è opportuno associare una terapia antibiotica ad ampio spettro, per 2 settimane, a causa della concomitante infezione batterica che costantemente si associa alla micosi nasale.

La patogenicità di C. neoformans è causata, come in A. fumigatus, dalla sua termoresistenza a 37° che ne permette la replicazione all’interno dell’organismo, specialmente in quelle zone dove la temperatura corporea è generalmente più bassa (cavità nasali) e dalle caratteristiche della sua capsula.

CRIPTOCOCCOSI

Patogenesi

Agente eziologico

Questa micosi rappresenta la patologia fungina nasale più frequente nel gatto mentre è segnalata solo sporadicamente in questa sede nel cane. Il fungo entra nell’organismo generalmente per via inalatoria grazie alle dimensioni estremamente ridotte che assume quando si trova nell’ambiente esterno a causa della disidratazione della capsula. Dalle cavità nasali il micete si diffonde sia per contiguità (SNC dal naso) che con l’aria inspirata (polmoni) che, ancora, per via ematica (reni, cute, etc). Questa patologia rappresenta, in medicina umana, una frequente e spesso mortale complicazione nei pazienti malati di AIDS ed una immunodeficienza sottostante è stata ipotizzata come fattore predisponente nel gatto. Tuttavia la prevalenza di individui FIV+ e FeLV+ nella popolazione di animali affetti da Criptococcosi non è superiore a quella di una popolazione di gatti non colpiti dalla patologia fungina anche se lo stato di sieropositività per FIV e FeLV si è visto influenzare in maniera negativa l’esito della terapia con itraconazolo. Questi funghi producono proteasi e lipasi di vari tipi che sono ritenute responsabili delle lisi ossee e tissutali che spesso si evidenziano nelle cavità nasali dei gatti con questa patologia. L’età sembra ininfluente nell’evoluzione della patologia mentre in uno studio risultano più colpiti gatti maschi e di razza siamese; nel cane, al contrario, sembrano maggiormente predisposti animali giovani adulti di razza alano e pinscher.

Cryptococcus è un micete lievitiforme capsulato particolarmente diffuso nei terreni contaminati da feci di piccione (var. neoformans) o da foglie di eucalipto marcescenti (var. gattii). Il genere Cryptococcus include 37 specie ma di queste solamente una C. neoformans è patogena per gli animali e per l’uomo. Come gia accennato esistono due varietà (var. neoformans e var. gattii) anche se recentemente è stata proposta la creazione di una terza varietà (var. grubii) sulla base di studi molecolari relativi alle caratteristiche di membrana del fungo. Questi miceti si riproducono generalmente asessualmente tramite blastoconidi ovvero gemmazioni che nel Cryptococcus hanno classicamente forma a goccia poiché a base stretta (Fig. 3). A volte, specialmente in terreni colturali, le gemmazioni si possono ritrovare in serie e formare strutture pseudo-ifali. Un’altra caratteristica tipica di questo agente eziologico è la capsula mucopolisaccaridica che tipicamente non si colora con i coloranti di Romanowsky e che si presenta come un aloe chiaro attorno al corpo del fungo (Fig. 4).

Figura 4 - Morfologia di Cryptococcus sp.

Quadro clinico

Figura 3 - Gemmazione a goccia.

I sintomi dell’infezione nasale (segnalata in oltre 80% dei gatti con criptococcosi) non sono differenti da quelli gia descritti per Aspergillus sp.: starnuti ad accessi e scolo


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Figura 5 - Macrofago con Cryptococcus intracitoplasmatico.

nasale uni- o bilaterale di tipo mucoso e muco-purulento che non risponde alle terapie antibiotiche empiriche; a questo può seguire anoressia, disidratazione e dimagrimento. Se è presente anche una lesione a livello rinofaringeo assieme ai sintomi sopra descritti si può avere respiro stertoroso e deglutizioni a vuoto. Nel cane la localizzazione nasale è occasionale mentre più frequenti risultano le localizzazioni a occhi e SNC.

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variabile da un sottile alone fino ad uno spessore maggiore del diametro della cellula stessa. Come gia ricordato la gemmazione è generalmente singola ed a base stretta e questi miceti inducono una flogosi prevalentemente granulomatosa, con presenza di macrofagi che spesso mostrano miceti intracitoplasmatici (Fig. 5). L’esame colturale può essere eseguito su comuni terreni come Agar-Sabouraud a 37° e mostra la crescita di colonie dall’aspetto liscio, mucoide, lucido e brillante di colore bianco sporco; l’esame colturale da solo non è sufficiente a confermare l’infezione perché questo micete è stato isolato anche da lavaggi nasali di animali sani. I quadri radiografici del cranio mostrano in genere aumento di radiodensità nelle cavità nasali riferibili ad accumulo di fluido o presenza di neoformazione ma sono descritti quadri con lisi di turbinati ed erosione delle ossa nasali che possono simulare una neoplasia maligna. Particolare importanza assume il test di agglutinazione su lattice per l’antigene capsulare (Serum Latex Cryptococcal Antigen Agglutination Test – LCAT) che può essere eseguito su siero, urine o LCR. Si tratta di un test molto sensibile e specifico e, ad alti titoli anticorpali corrispondono quadri più gravi di malattia anche se titoli anticorpali alti non indicano scarsa risposta alla terapia. Un titolo uguale o maggiore di 1:1 deve essere considerato positivo.

Diagnosi Terapia L’esame citologico dello scolo nasale, da aspirato di lesioni cutanee, umor acqueo e liquido cefalorachidiano rappresenta un metodo rapido ed efficace per individuare il Cryptococcus. Nonostante numerose colorazioni (Inchiostro di China, Nuovo blu di Metilene) siano state impiegate per evidenziare questo agente eziologico, le comuni colorazioni di Romanowsky (Wright, Diff Quik®, etc,) risultano tutte adeguate. Al microscopio ottico il Cryptococcus appare come struttura rotonda dal diametro variabile da 3 a 8 µ con presenza di una capsula che non si colora e che ha diametro

Fra i vari antimicotici impiegati nella terapia della criptoccosi il fluconazolo e l’itraconazolo sono stati impiegati con successo nel gatto. Il fluconazolo è attualmente considerato come farmaco di scelta e viene impiegato alla dose di 50 mg/kg po bid per un periodo variabile da 3 a 6 mesi. Indirizzo per la corrispondenza: Davide De Lorenzi E-mail: davide.delorenzi@fastwebnet.it


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Metodologia clinica in omeopatia veterinaria Omeopatia ed immunologia Franco Del Francia Med Vet, Cortona (AR)

SOMMARIO Sono evidenziati gli effetti generali di una corretta metodologia omeopatica veterinaria: effetto placebo zero-effetto residuo od accumulo zero-effetto impatto ambientale zero. Sono inoltre evidenziate le corrette caratteristiche per l’insegnamento e la formazione del Veterinario omeopata. In riferimento all’applicazione clinico-terapeutica le specie animali interessate sono considerate in due gruppi: specie animali più vicine all’uomo e specie animali che producono derrate alimentari. Infine è affrontato il problema dell’immunologia sotto il punto di vista omeopatico e delle recenti ricerche fisiologiche.

Parole chiave Omeopatia veterinaria effetto placebo zero effetto residuo zero effetto impatto ambientale zero didattica omeopatica immunologia omeopatica. Per percepire l’omeopatia riteniamo che sia necessario acquisire una “forma mentale” che vada aldilà delle consuete nozioni di medicina e farmacologia, considerando queste come punto di partenza e non di arrivo. È fuori dubbio che qualsiasi “conoscenza” debba passare attraverso metodologie che constano di due momenti: prima il momento analitico e poi quello analogico o sintetico in una fase successiva. Questo è un metodo valido sia per lo studio dell’uomo che per quello degli animali. La Medicina ufficiale si ferma però al primo momento, con metodi analitici estremamente sofisticati e con tecniche avanzatissime. Ma in tal maniera si trova di fronte a “fenomeni acausali” (probabilistici) che la disorientano, in quanto viene perso di vista il punto di partenza-arrivo, cioè l’individuo di qualsiasi specie e l’ambiente che lo circonda. Siamo convinti, attraverso i due canali dell’esperienza clinico-terapeutica omeopatica e l’insegnamento ai Veterinari, che il settore dalla Patologia animale richieda delle differenziazioni soprattutto a livello della “tecnica omeopatica”. Esistono infatti delle esigenze applicative “in Campo” che sono molto differenziate a seconda delle specie animali in osservazione, spesso anche a seconda delle distinte popolazioni o razze nella stessa specie, a seconda quindi delle caratteristiche specifiche a livello anatomo-fisiologico, patologico e così via. Dobbiamo inoltre considerare con particolare attenzione le diversità di “condizioni ambientali” (micro e macro ambiente, alimentazione, prestazioni di lavoro richieste, etc. etc.). Molte altre “variabili” dovrebbero essere elencate, superando però i limiti della presente relazione, ma

nel loro complesso queste obbligano il Veterinario omeopata ad applicare tecniche differenti caso per caso. Ci riteniamo obbligati a sottolineare alcuni preconcetti fissi che si riferiscono agli “ effetti generali” che ci dobbiamo attendere con la corretta applicazione della metodologia omeopatica in Patologia animale: effetti che sono stati ripetutamente sottoposti “a verifica”, con test universalmente riconosciuti, quindi da considerarsi obbiettivi in linea assoluta: 1) effetto placebo zero, del tutto in stretta analogia con quello ottenutodalla Pediatria umana e spesso con tecniche simili. Riteniamo del tutto poco probabile e non verificabile, ovviamente, un tale effetto di auto suggestione terapeutica in patologia animale, in specie a livello di allevamenti intensivi. 2) effetto residuale e d’accumulo zero, nei prodotti di origine animale (carne, latte, uova, miele, etc etec) che derivano da soggetti trattati omeopaticamente e destinati all’alimentazione umana, Occorre fermamente segnalare che a tutt’oggi questo risultato rappresenta un traguardo “ideale”, ancora irragiungibile e potremmo affermare addirittura “impossibile” per la metodologia ufficiale, a causa dei fenomeni di residuo e d’accumulo delle attuali molecole o principi attivi, tutti di sintesi chimica, applicati in patologia animale. Sono state segnalate e comprovate indiscutibilmente, problematiche patologiche “striscianti” (subcliniche) a livello dello stato di salute dei consumatori sia umani che animali. 3) effetto impatto ambientale zero, che deriva dall’accumulo nell’ambiente di “residui non metabolizzati o parzialmente metabolizzati di molecole farmacologiche o principi attivi con cui sono trattati gli animali per lunghi periodi del loro ciclo biologico e spesso per l’intero ciclo. Queste molecole pervengono a livello ambientale attraverso i secreti e gli escreti degli animali, entrano nel ciclo naturale (suolo-acqua-piante) e provocano alla lunga effetti documentati, diretti ed indiretti, del tipo: alterazione o selezione della flora microbica ed animale del terreno, alterazione o selezione dei cicli biologici delle piante, possibilità di effetto rebaund; cioè di ritorno agli animali attraverso i foraggi inquinati. Pertanto, una volta stabilito che l’Omeopatia rappresenta l’unica metodologia medica dell’Occidente che è possibile applicare anche su grandi gruppi di popolazioni animali, con risultati alla pari e spesso superiori alle metodiche ufficiali, resta assolutamente dimostrato, con presupposti sueposti, che essa è anche l’unica metodologia ecologica e non inquinante in patologia animale. Seguendo quella che è la regola in campo scientifico, riteniamo che si debba focalizzare correttamente il problema e ricercare dei “presupposti fissi” per la discussione e/o criti-


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ca. Pensiamo quindi che siano due i fattori o presupposti primari ed essenziali: a) il fattore umano, cioè il terapeuta omeopata veterinario, in una parola colui che dovrà applicare il metodo: evidentemente dovremo esaminare la sua corretta preparazione, esperienza e cultura. b) il fattore animale, quello pertanto che dovrà ricevere i benefici di una corretta applicazione della metodologia omeopatica e che fa parte integrante del circolo della natura: ambiente-animale-uomo. Riferendosi al Fattore umano del metodo Omeopatico, secondo il nostro punto di vista l’insegnamento formativo dev’essere “differenziato” per i veterinari a causa delle ragioni prima indicate, anche perché le documentazioni iconografiche e gli esempi clinici debbono fare riferimento a casi di patologia individuale o di gruppo, ma sempre di Patologia animale. Inoltre perché i docenti, essendo essi stessi Veterinari e con la medesima formazione culturale, debbono promuovere una “crescita intellettuale” degli Allievi con discussioni, precisazioni e/o e critiche, ma sempre nel settore specifico. La scuola Superiore di Omeopatia Veterinaria di Cortona, applica da tempo questo metodo, con risultati stimolanti e soddisfacenti. Pertanto siamo assolutamente contrari alle così dette Scuole omeopatiche “miste” (medici-veterinari-farmacisti), ma soprattutto deprechiamo fermamente quelle scuole ove non s’insegnano correttamente le basi teoriche dell’Omeopatia e ad acquisire quellla particolare forma mentale medica; oppure s’insegnano principi omeopatici considerati superficialmente, oppure “manipolati” ad arte “pro domo sua”! Dobbiamo dire che purtroppo di queste scuole o scuolette ve ne sono alcune anche per Veterinari, programmate da “illustri ed improvvisati sconosciuti”, sorte per chissà quali reconditi scopi evidentemente personali, con presupposti solo “consumistici” e con un’ibrida formazione allopato-omeopatica. Questi fatti incresciosi recano solo danno all’Omeopatia; però nel contempo e non a caso, quando si è trattato di avere maggiori informazioni per problematiche CEE, il Ministero della Sanità si è rivolto soltanto all’AIVO e Scuola di Cortona, per avere profili di correttezza e sicurezza. In sintesi quindi noi stimoliamo una formazione corretta, un’informazione corretta ed un’aggiornamento permanente attraverso i gruppi di studio sparsi dal Nord al Sud Italia; organizziamo incontri, dibattiti e pubblicazioni; e tutto questo compito quanto mai gravoso è stato assunto dall’AIVO e dal suo “braccio secolare”, la Scuola Superiore di Cortona. Riferendosi invece al fattore animale del problema, nella prospettiva clinico-pratica dobbiamo considerare le specie animali, sotto la nostra osservazione, divise in due grandi gruppi, ognuno dei quali con caratteristiche differenti e particolari: 1) Specie animali molto vicine al ciclo biologico umano, e ci riferiamo evidentemente agli animali da compagnia (i così detti “pets” anglosassoni, cioè cani, gatti, animali d’appartamento, etc etc), ai quali vorremmo aggiungere gli equini da competizione o sportivi in generale, in quanto si pos-

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sono evidenziare marcati legami emotivo-affettivi fra l’uomo e quest’ultimi oltreché grossi interessi economici. D’altra parte è a conoscenza generale che queste specie animali si sono rivelate importanti per la specie umana anche per i noti “effetti di stimolo o di recupero psichico” in particolari individui con problematiche psicopatologiche o cerebrolesi. Queste specie vivono vicino all’uomo, in stretto contatto con esso e, spesso in intima convivenza, dividono con lui il “bello ed il cattivo tempo”. In una parola presentano patologie, anche solo a livello psicologico, analoghe a quelle della specie umana. In conformità ai concetti classici omeopatici, secondo cui la malattia è un’alterazioni dinamica dell’energia vitale individuale, l’atteggiamento del veterinario omeopata dev’essere diretto alla diagnosi e prescrizione per gli individui ammalati ed alla diagnosi e prescrizione per gli individui in stato di salute, quindi agli effetti della prevenzione o profilassi omeopatica. In queste specie animali, quindi, la metodologia è analoga a quella medica umana, con la differenza che le notizie anamnestiche sono raccolte da persone più vicino all’animale (analogicamente alla pediatria umana) ed attraverso la visita clinica. Per quanto riguarda i vari “livelli” di omeopatia applicati, unicismo-pluralismo-complessismo, nella Scuola di Cortona ci riferiamo soparttutto alla metodologia classica hahnemanniana in terapia, prevenzione, eugenetica, etc etc;Però, nell’insegnamento, facciamo riferimento altresì alle altre tendenze omeoterapeutiche, sottoponendole a revisione e critica e lasciando completamente liberi gli allievi di scegliere le metodologie che maggiormente li convincono a livello personale. 2) Specie animali destinate a scopi zooeconomici, alla produzione cioè di proteine d’origine animale per l’alimentazione umana. In questo gruppo facciamo riferimento ai bovini da carne e da latte, ai suini, agli ovicaprini, alle specie avicunicole, etc. etc. Queste specie animali, abbandonato o quasi l’allevamento familiare in piccoli gruppi per esigenze zooeconomiche, sono allevate prevalentemente in grandi gruppi, con particolari caratteristiche d’organizzazione, programmazione e gestione. Le patologie infettivo-contagiose (di solito a carattere “ciclico” o periodico nella situazione precedente), sono quasi del tutto scomparse o molto contenute, mediante interventi immunizzanti “a ripetizione” e trattamenti biochimico farmacologici costanti. Questa situazione sanitaria ha dato luogo, secondo noi per logica conseguenza nel tempo, a nuove e particolari “patologie emergenti” denominate “tecnopatie di allevamento”, con termine estremamente eufemistico. Esse presentano in generale un “substrato dismetabolico e di immunodepressione” ed interessano apparati ed organi importanti per l’economia organica. In una parola e per esperienza diretta, siamo convinti che gli interventi immunologici ed i trattamenti farmacologici di sintesi, abbiano “creato” nel tempo una “soppressione in stato di salute” e che il sistema ha reagito in ulteriore “disritmia” più profonda, venendo meno le resistenze a livello più periferico. Durante esperienze dirette su allevamenti suini, abbiamo eliminato le metodi che ufficiali di cui sopra, sostituendole con metodologie omeopatiche e con risultati soddisfacenti. La metodica omeopatica clinica in queste situazioni particolari verte sui seguenti punti:


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a) risoluzione in tempi brevi delle fasi acute, quelle che determinano perdite rilevanti (morbilità e mortalità) negli allevamenti di massa. Questo tipo d’intervento può essere applicato con le seguenti tecniche: - individualizzazione di un”rimedio simillimum” quando siano presenti sufficienti sintomi in valore e numero, come abbiamo già ottenuto in grandi allevamenti industriali di suini-conigli-polli; considerando “per convenzione mentale”, il gruppo come “un unico individuo” (medesima specie, razza, sesso, specializzazione, etc. etc.). - utilizzazione di complessi omeopatici, con prevalenza di organotropismo tissulare, quando i sintomi siano insufficienti in valore e numero e l’urgenza degli interventi è assolutamente inderogabile come per es. nel caso di patologie di massa negli allevamenti di polli(perdite dal 30% al 40% nelle prime 24 ore). Tutte e due le tecniche si sono rivelate ottimali, non inquinanti e prive d’effetti residuali o d’impatto ambientale. La via di somministrazione più pratica è quella attraverso il circolo idrico (acqua di bevanda) con i rimedi omeopatici in soluzione idroalcoolica; oppure anche la via respiratoria con nebulizzazione nell’ambiente mediante apparecchiature aeresol. b) individualizzazione di un rimedio “simillimum di specie”, quando avremo maggior tempo e minore urgenza, con sintomatologia di “gerarchia superiore”, come nel caso di patologie subacute o croniche, anche in questi casi di patologie tecnologiche di massa. Questa tecnica è stata da noi applicata in patologie della specie avicunicola, della specie suina, bovina (latte, carne), ovicaprina. Questo tipo di “tecnica omeopatica” è realmente possibile ed è basato sul seguente principio generale: l’individuo non rappresenta “nulla” nell’universo, ma anche cento, mille o centomila individui non sono ancora “nulla” (Jacob “la logica del vivente”). Le specie animali sono esseri perenni, antichi e permanenti quanto la natura stessa; una specie animale può essere considerata come “un tutto indipendente”, un “tutto” che nel grande lavoro della creazione rappresenta un “unico individuo”, replicato per così dire all’infinito, e che di conseguenza costituisce “una unica e sola unità naturale” (cit. Lombardozzi “Il farmaco dell’inconscio”). È evidente però che ogni specie animale è caratterizzata dalla sua specificità morfologica, di funzione e di significato. Applicando un “simillimum di specie” ed una “rosa” molto ristretta (quattro – cinque rimedi al massimo) di “similari” molto vicini, abbiamo ottenuto successi significativi e ripetitivi sia agli effetti della terapia che della prevenzione in qualsiasi problema patologico delle specie animali che per ora abbiamo sotto osservazione. A nostro avviso, niente vieta di pensare che la stessa tecnica sia applicabile anche in tutte le specie animali allevate con le stesse caratteristiche e nei più differenti ecosistemi. Da sottolineare inoltre che secondo noi questa metodologia risulta una “conferma” in linea assoluta e relativa della Dottrina e Teoria di Hahnemann, se mai ve ne fosse stata necessità. c) Per quanto riguarda uno degli “scopi precipui della metodologia omeopatica veterinaria, quello cioè di ottenere alimenti d’origine animale indenni in linea assoluta da

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problemi residuali o d’accumulo ed evitare effetti d’impatto sull’ambiente attraverso i secreti e gli escreti degli animali trattati, abbiamo la certezza obbiettiva del raggiungimento di tali traguardi attraverso due osservazioni; l’uso di dosi infinitesimali, ben lontane da quelle ponderali dei principi attivi ufficiali ed i test di laboratorio, sempre e comunque negativi, usati per evidenziare detti effetti. d) In proposito a queste osservazioni, sentiamo la necessità di segnalare e sottolineare l’alto valore a livello preventivo e la notevole importanza socio-sanitario-economica per l’uomo che deriva da un’applicazione corretta e guidata della metodologia omeopatica veterinaria. Vorremmo completare questa nostra esposizione su un aspetto importantissimo della Patologia animale e su cui “insiste” parecchio la Medicina ufficiale, l’aspetto dell’immunità o prevenzione. La medicina ufficiale usa moltissimo gli interventi immunologici anche in veterinaria, con vaccinazioni ripetute e multiformi, spesso rese obbligatorie da leggi sanitarie. Essa riconosce distinti “effetti secondari” delle immunizzazioni (passive ed attive), ma li definisce “irrisori in percentuale” rispetto ai vantaggi. Si riferisce evidentemente alle “sindromi post-immunizzanti clinicamente manifeste”ma non tiene conto affatto delle problematiche” a lungo termine” perché non si considera la stretta relazione causa-effetto e le probabilità patologiche, “acausali” o probabilistiche, da queste derivanti. L’Omeopatia invece non è favorevole agli interventi immunizzanti in Patologia animale, perché si ritiene in grado di offrire valide alternative senza creare problemi secondari (per es. proteine eterologhe introdotte per via parenterale). Prima di affrontare il problema immunologico dal punto di vista “tecnica omeopatica”, riteniamo necessarie alcune puntualizzazioni derivate dai recenti studi immunologici. Recentemente si è evidenziato che i linfociti ed i macrofagi scambiano “informazioni” fra loro, il sistema nervoso locale, il sistema nervoso centrale ed il sistema limbico (del conscio e dell’inconscio). La comunicazione e/o informazione avviene attraverso i neurotrasmettitori già conosciuti (acetilcolina, amine, biogene, ecc.) ed anche attraverso sostanze peptidiche di recente scoperta denominate “neuropeptidi” (per es. la sostanza P ed un’altra sessantina); questi sono correlati ai fenomeni emozionali e sono in grado contemporaneamente di agire su aspetti fisici ed emozionali dell’individuo. Torniamo in poche parole ad un concetto “vitalistico ed olistico” dell’individuo, un ritorno progressivo e graduale che sempre più si rivela una “conferma” delle geniali intuizioni di Hahnemann. I neuropeptidi esercitano la loro attività mediante recettori cellulari; tali recettori si possono ritrovare nel SNC, nel sistema immunitario ed in molti organi. Essi sono identici per lo stesso neuropeptide indipendentemente dall’organo che lo contiene. Agiscono “frenando od accelerando” una determinata attività e ciò è legato alla “quantità” liberata, quindi uno stesso neuropeptide funge da acceleratore od inibitore. L’informazione non segue sempre e comunque il decorso dei nervi; la velocità di trasmissione supera di molto quella di conduzione nervosa. La loro secrezione è direttamente influenzata dallo stato emozionale dell’individuo. La concentrazione massima di


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recettori neuropeptidici si può osservare a livello delle strutture del sistema limbico. La risposta della cellula in seguito al ricevimento dell’informazione dipende dalla quantità di neuropeptide secreto, cioè dalla dose: questa si situa fra 106 e 10-12 M, quindi siamo a livello delle potenze omeopatiche classiche. In conclusione i neuropeptidi sembrano aprire una strada molto promettente alla ricerca; la loro azione “ovunque presente” ci riporta alla “concezione totale” dell’individuo, olistica e vitalistica sostenuta dall’Omeopatia. Con queste premesse riferiamo delle “valide alternative” che offre l’Omeopatia anche in tema di prevenzione in Patologia animale. a) immunizzazione omeopatica col “rimedio simillimum”individuale (nelle specie animali della I° sezione più vicine all’uomo). Dobbiamo precisare che questa tecnica non immunizzerà nel senso letterale e tecnico della parola. Il rimedio solleciterà piuttosto l’organismo ad esteriorizzare determinate “componenti tossiche” derivanti dalla disritmia energetica. Si comporterà quindi come una “valvola di sicurezza” con una corretta direzione centrifuga, allo scopo di preservare organi e funzioni indispensabili al sistema. Quindi nei soggetti così trattati, noteremo fugaci e benigni episodi morbosi, sempre nella periferia dell’organismo (pelle-mucose-emuntori, etc etc). Queste sindromi in fase acuta sono egregiamente controllabili con sostanze omeopatiche, che serviranno ad accelerare e pilotare le suddette “crisi esonerative”. b) Immunizzazione omeopatica col “rimedio simillimum di specie (nelle specie animali della II° sezione che producono alimenti per l’uomo). Riteniamo validi i “dati obbiettivi” riscontrati ripetutamente dalla casistica clinica personale e di altri Colleghi. Abbiamo “esperienze dirette” soprattutto sulla specie cunicola, suina, equina, bovina ed ovicaprina di alcuni anni. I soggetti trattati col simillimum di specie si sono trovati spesso “a contatto” con individui della stessa specie in cui erano “in atto” (clinicamente manifeste) sindromi riferibili ad eziologia virale estremamente contagiose secondo la Medicina ufficiale. La maggior parte dei soggetti “omeopatizzati” non ha presentato sindromi simili e solo una piccola parte una forma benigna e rapida, senza complicazioni. Riteniamo che questo settore così importante della Patologia, meriti una serie di “osservazioni” su larga scala, con riflessi non solo per gli animali ma anche in Palogia comparata per l’uomo. c) Immunizzazione omeopatica con Nosodi ed Isoterapici, come è a conoscenza comune in Omeopatia i Nosodi (Hering) sono bioterapici con “analogia eziologica” e provengono da culture, substrati o soggetti ammalati di una data sindrome e non trattati con presidi farmacologici. Gli Isoterapici (Lux-Collet) corrispondono a bioterapici con “analogia d’identità” (Aequalia aequalibus curentur) e provengono da “prodotti morbosi”, come feci-urine-sangue-essudati, etc etc) di un soggetto ammalato. Tutti e due i bioterapici derivano quindi da materiale con elementi tossinici, virali o microbici; vengono pertanto presi in considerazione gli “effetti primitivi” organico-tissulari provocati dagli agenti morbosi. Sono anche stati definiti come: “farmaci bioterapici che compren-

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dono allo stesso tempo il germe, la tipologia e l’intera immagine della malattia di un individuo; di conseguenza quindi contengono tutti gli elementi che costituiscono tutte le idiosincrasie ed i vizi umorali “dell’individuo stesso” (Max Tetau). In sintesi questi bioterapici hanno dato ripetutamente prova di agire a livello del reticolo-endotelio mettendo in moto i meccanismi dell’immunità (Chavanon-Nebel-Vannier-Lamassone-Bordet), senza gli effetti secondari dei presidi immunologici ufficiali. Anche in Patologia animale questi bioterapici sono serviti egregiamente in situazioni gravi con successo (Mac Leod – Del Francia – Brizioli). Per concludere ed allo stato attuale delle conoscenze ed esperienze omeopatiche nel settore della Patologia animale, possiamo segnalare quanto segue: 1) la metodologia omeopatica veterinaria è l’unica che può ottenere “effetti generali” in positivo in Patologia animali (effetto placebo zero-effetto residuale o d’accumulo zero-effetto impatto ambientale zero), con evidenti e rimarchevoli ripercussioni sulla salute dei consumatori dei prodotti d’origine animale e del sistema ecologico. 2) La metodologia omeopatica veterinaria, per raggiungere questi obbiettivi e risultati clinico-terapeutici positivi, ha necessità di tecnici correttamente e culturalmente preparati. È auspicabile quindi una maggiore omogeneità nell’insegnamento omeopatico, con programmi approfonditi ed esercitazioni cliniche in campo. 3) La metodologia omeopatica veterinaria può affrontare correttamente il problema della prevenzione o profilassi delle malattie, concentrando gli sforzi della ricerca nei riguardi di “simillimum” di specie,con evidenti ed obbiettivi vantaggi, in generale, ed in particolare, per le specie animali sulle quali è applicata questa tecnica e per l’uomo che si nutre dei prodotti d’origine animale. 4) La metodologia omeopatica veterinaria non respinge gli obbiettivi della Medicina ufficiale, ma li ridimensiona e fornisce spiegazioni più razionali, in linea ed a conferma delle moderne ricerche fisiologiche. L’omeopatia moderna deve riconoscere i propri errori ed i propri limiti, dovuti in maggioranza a non corrette conoscenze ed interpretazioni della Dottrina, della Teoria e della Tecnica omeopatica. Nel contempo essa deve valorizzare tutto quanto di corretto e comprovato le due discipline mediche riassumono. Per entrambe questa ci sembra un’opera preziosa, di umiltà, di buona volontà ed in sintesi di mentalità più aperta e “priva di pregiudizi”. Il Veterinario omeopatico ha la medesima formazione culturale dei Colleghi della Medicina ufficiale, ma in più si è sobbarcato il gravoso onere di un’opera di studio continuo, d’esperienze clinico-terapeutiche e di aggiornamento che in pratica dura tutta la vita. Il suo lavoro, olttre che apportare evidenti ed obbiettivi benefici alle specie animali con problemi patologici, rende possibile e concreta un’alimentazione umana con derrate indenni da residui o prodotti chimici non metabolizzati e pertanto egli svolge un’opera altamente importante a livello sociale, sanitario ed ecologico.


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Utilizzo dei feromoni di appagamento del cane in spray (D.A.P.): applicazioni pratiche Franco Fassola Med Vet, Asti

ATTI NON PERVENUTI

Indirizzo per la corrispondenza: Fassola Franco Amb.: C.so Torino 88 ASTI Abit.: C.so XXV Aprile 90 ASTI Tel.: 0141/212652 - 3482668173 E-mail: fassola@veterinario.it


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Approccio alle deviazioni degli arti nei cani in accrescimento Antonio Ferretti Med Vet, Dipl ECVS, Legnano (MI)

Le cause di deformità nel cane in crescita possono dipendere da disordini metabolici o da traumi che interessino le cartilagini di accrescimento.2,4,5 Il segmento più frequentemente interessato è il radio-ulna. Nel caso del radio curvo, l’arresto della crescita dell’ulna, per trauma o per ritenzione cartilaginea produce una trazione sul radio distale determinandone l’incurvamento. Tale deformità, nel cane a fine sviluppo, deve essere trattata con

Figura 1 - Posizionamento della cambra.

A

osteotomia e correzione chirurgica.1,2 Nel cane in crescita, invece, se la deformità non ha raggiunto un grado eccessivo, può essere trattata mediante epifisiodesi temporanea, sfruttando la spinta di crescita della cartilagine di accrescimento.4 In generale l’epifisiodesi è attuabile entro la fine del 5° mese, inizio del 6°. Già a metà del sesto mese la crescita del radio distale è talmente rallentata o terminata da non consentire la correzione. Nel caso del radio curvo in fase iniziale, la deformità è rappresentata da un lieve valgismo e procurvato. Si applica una cambra metallica (può essere realizzata piegando a U un kirschner di dimensione e calibro adeguati) a cavallo della cartilagine di accrescimento che viene individuata con l’inserimento di un ago da siringa 21g ed un controllo radiografico: questo permette di inserire correttamente la cambra avendo l’ago come repere (Fig. 1). La cambra è applicata in posizione mediale o anteFigura 2 - Chow chow 3 mesi, varismo dis- romediale a seconda che debba correggere solo un valgismo oppure anche un procurvato. tale del radio.

B

C

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Figura 3 - Meticcio pastore del Caucaso, 4 mesi: A- preoperatoria B- epifisiodesi temporanea con vite C- controllo a 30 gg (rimozione) D- controllo a 90 gg.


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Applicata la cambra si procede alla ostectomia di almeno due cm. di ulna, curando di rimuovere l’osso insieme al periostio per evitare una troppo rapida consolidazione dell’ulna, soprattutto se il paziente è lontano dalla fine crescita. In questo caso potrebbe ripresentarsi la deformità. Nel focolaio di ostectomia ulnare è possibile inserire un innesto adiposo per ostacolare la consolidazione precoce. La correzione, che può avvenire in 10-25 giorni a seconda della gravità, deve essere monitorata radiograficamente con cadenza settimanale ed a fine correzione anche più ravvicinata, per poter stabilire quale sia il momento della rimozione della cambra e per evitare una ipercorrezione. Quanto esposto si riferisce al radio curvo, essendo la patologia più frequente, ma vengono trattate altre deformità, come il varismo del radio distale (Fig. 2) ed altri segmenti, quali la tibia distale, la tibia prossimale per la correzione di deformità sul piano frontale (valgismo, varismo) o sul piano laterale (inclinazione plateau tibiale Fig. 3) e più raramente il femore distale.

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Indirizzo per la corrispondenza: Antonio Ferretti Clinica Ortopedica Veterinaria Via Maestri del Lavoro 29 - 20025 Legnano (Mi) Tel. 0331 466842 - Fax 0331 464442 - antonio.ferretti@fastwebnet.it


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L’alimentazione nel post-operatorio: il digiuno è necessario? Luca Formaggini Med Vet, Dormelletto (NO)

Nonostante sia acquisizione comune che una adeguata alimentazione sia necessaria per il mantenimento dello stato di salute, per decenni la medicina ha accettato il digiuno in pazienti traumatizzati, settici o reduci da interventi chirurgici. Questa pratica (cattiva pratica) non solo non trova nessun fondamento nella moderna scienza medica, ma è stata dimostrata essere una delle cause di malnutrizione proteico-calorica presente ancora oggi nei pazienti ospedalizzati sia in medicina umana che in medicina veterinaria. A questo proposito è necessario prevedere l’instaurarsi di stati di malnutrizione prendendo in considerazione: - la malnutrizione si instaura nel paziente malato dopo 3-5 giorni di digiuno - danni subiti (traumi facciali, incapacità di prensione, masticazione, deglutizione); - dolore; - eccessiva perdita proteica (drenaggi peritoneali, ferite aperte o essudanti); - stati di anoressia da meno di 3 giorni (animali piccoli hanno un metabolismo accelerato); - esami di laboratorio (indicazione relative date da diminuzione di albumine, linfociti, capacità totale di legame del Fe, aumento dell’attività della CK). - METABOLISMO DEL PAZIENTE IN STATO DI STRESS (trauma/chirugia/sepsi) Il concetto di stress (= sforzo, tensione) è stato introdotto in Medicina dal canadese Hans Selye al fine di esprimere il conflitto tra uno stimolo aggressivo (es. trauma, chirurgia, sepsi, dolore) e la risposta dell’organismo. Nella risposta allo stress, il metabolismo del paziente si modifica in modo radicale, rispetto a quanto si verifica in caso di digiuno semplice. Al contrario di quanto succede in quest’ultimo caso, la risposta allo stress NON è finalizzata al risparmio energetico e alla conservazione delle scorte, bensì ha come necessità prioritaria quella di compensare l’aumento delle richieste metaboliche derivanti dal trauma/chirurgia. La risposta dell’organismo ad uno stimolo stressante viene tipicamente suddivisa in 3 fasi o periodi: 1. Fase di riflusso o di declino (in inglese ebb): immediatamente successiva al trauma, caratterizzata da una depressione di tutte le attività vitali (metabolismo, temperatura, portata cardiaca). Viene associata allo stato di shock. 2. Fase di flusso (in inglese flow): è caratterizzata da una esaltazione di tutte le attività vitali, dall’aumento delle richieste energetiche basali e da uno spiccato catabolismo proteico (fase catabolica). In questa fase si rende necessario a volte l’intervento nutrizionale.

3. Infine, nella fase di guarigione si assiste ad un adattamento dell’organismo che riprende un corretto utilizzo dei substrati energetici (come nel digiuno semplice) e ripristina le riserve organiche (fase anabolica). La reazione al trauma innesca diverse situazioni riconducibili schematicamente a due alterazioni: a. Alterazioni endocrine (Tab. 1) b. Alterazioni metaboliche (Tab. 2) L’adattamento allo stress è mediato fondamentalmente da ipofisi e surrene e si manifesta con aumentata liberazione di ormoni ad azione catabolica (es catecolamine). Adrenalina e noradrenalina stimolano a loro volta il rilascio di corticosteroidi e di glucagone al fine di mobilizzare substrati ossidabili (zuccheri) in risposta alle aumentate richieste energetiche. A questa situazione di aumentata richiesta energetica si accompagna però ad uno stato simil-diabetico con iperglicemia. Questa è determinata da un aumento del rilascio di glucosio da parte del fegato (catecolamine) e da una insulino-resistenza che provoca una ridotta utilizzazione del glucosio a livello muscolare (intolleranza al glucosio nello stato di stresss). La glicemia elevata induce una ulteriore secrezione di insulina da parte del pancreas. L’iper-insulinemia da un lato non

Tabella 1 ALTERAZIONI ENDOCRINE NEL PAZIENTE IN STATO DI STRESS Aumentata screzione di ormoni catabolici - Catecolamine (adrenalina e noradrenalina) - Ormone adrenocorticotropo (ACTH) e crticosteroidi (cortisolo e aldosterone) - GH - Glucagone - TSH - ADH

Tabella 2 ALTERAZIONI METABOLICHE NEL PAZIENTE IN STATO DI STRESS - Aumentate richieste energetiche - Insulino-resistenza e intolleranza muscolare al glucosio - Proteolisi e neoglucogenesi da aminoacidi e altri substrati


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riesce a superare la resistenza del tessuto muscolare, dall’altro agisce normalmente sul tessuto adiposo riducendo la lipolisi e di conseguenza la disponibilità di acidi grassi e corpi chetonici come fonti di energia alternativa. Questo si riflette sul bisogno di energia del tessuto muscolare, che, venendo a mancare l’utilizzo del glucosio (insulino resistenza) e venedo a mancare la fonte lipidica (mancata lipogenesi per iperinsulinemia) si trova costretto a mobilizzare l’unica fonte di energia utilizzabile: le proteine e cioè se stesso. Il catabolismo proteico risulta peraltro indispensabile nella fase di risposta allo stress in quanto la miscela di aminoacidi liberata in seguito alla proteolisi muscolare viene trasportata al fegato e utilizzata per la sintesi delle proteine della fase acuta (immunoglobuline, ormoni, fibrinogeno etc etc) e per la neoglucogenesi. In questo modo si viene a creare un circolo vizioso nel quale la demolizione proteica supera la capacità di sintesi dell’organismo. Il risultato netto di tutta questa situazione è un aumento del fabbisogno energetico basale ed un aumento dell’escrezione di urea urinaria (bilancio azotato negativo). La durata e la gravità della fase acuta catabolica è in funzione di una serie di variabili: - Tipo di trauma - Gravità del trauma - Associazione a dolore e shock - Complicanze settiche - Condizioni precedenti del paziente (stato nutrizionale e malattie metaboliche) - Tipo di intervento terapeutico e nutrizionale sul paziente

Se l’intestino funziona, usalo!! L’intervento nutrizionale si propone di: Ridurre il deficit energetico muscolare Diminuire le perdite azotate Sostenere la sintesi proteica Reintegrare (nella fase di guarigione) la massa corporea magra - Controllare l’equilibrio idro-elettrolitico Riassumendo, nell’ipermetabolismo le richieste metaboliche a riposo sono aumentate, il Quoziente Respiratorio è elevato (0,8-0,9 contro lo 0,6-0,7 nel digiuno semplice) a dimostrazione che i substrati utilizzati dall’organismo sono misti e non solo rappresentati dai grassi; i corpi chetonici sono assenti mentre sono particolarmente attivi tutti i processi catabolici e di sintesi; sono presenti elevate perdite azotate; elevato è anche il consumo di ossigeno. Dal punto di vista clinico, il paziente ipermetabolico si presenta con febbre, tachipnoico (per eliminare l’anidride carbonica prodotta in gran quantità), tachicardico, inotropismo elevato, basse resistenze vascolari periferiche (esaltazione del trasporto dell’ossigeno). Sono presenti anche leucocitosi, iperlattacidemia, iperazotemia e elevata escrezione urinaria dell’azoto. Caratterizzati da questa descrizione possono essere, tra gli altri, tutti i pazienti sottoposti ad interventi chirurgici di una certa entità, i pazienti traumatizzati, quelli affetti da Sindrome da Risposta Infiammatoria Sistemica (SIRS) e quelli colpiti da Disfunzione Organica Multipla (MOD). La malnutrizione è importante perché può essere una causa indiretta di morte. Casi di malnutrizione estrema vengono rilevati di solito in pazienti oncologici, ma esiste -

anche una malnutrizione sub-clinica, quella che ad esempio è in grado di complicare un’altra malattia, o quella che può instaurarsi repentinamente in un paziente traumatizzato o settico o chirurgico grave, cioè quella presente in tutti quei soggetti ipermetabolici.

“È importante nutrire sia il piccolo intestino che il paziente” Le sequele della malnutrizione sono rappresentate da: - Ipoproteinemia ed edemi tissutali - Ipovolemia e diminuzione della perfusione tissutale - Ritardo di cicatrizzazine di ferite e ritardo nella formazione del callo osseo - Aumento del rischio di infezioni sistemiche - Insufficienza respiratoria ed edema polmonare Tutto questo determina come conseguenze una ospedalizzazione più lunga (aumento dei costi), un aumento della morbilità e della mortalità e una convalescenza più lunga. L’intervento nutrizionale si propone primariamente di nutrire il catabolismo limitando così i danni provocati dalla risposta neuroendocrina e catabolica allo stress e solo in un secondo tempo (fase di guarigione) di reintegrare le riserve energetiche e proteiche consumate a seguito di un digiuno protratto e spesse volte ingiustificato. Numerosi studi condotti in medicina umana hanno dimostrato che l’alimentazione precoce (entro 24-48 ore dall’accettazione) riduce il rischio di sepsi; peraltro, è indispensabile correggere le alterazioni emodinamiche e idroelettrolitiche prima di iniziare l’intervento nutrizionale. È fuori dubbio l’importanza che riveste l’integrità del tratto gastroenterico in pazienti traumatizzati, non solo per l’assorbimento dei nutrienti ma anche come barriera nei confronti dei batteri intestinali e dalle loro tossine. Batteri e tossine a seguito del mancato trofismo della mucosa intestinale possono traslocare innescando così una SIRS. La nutrizione enterale (NE) promuove la crescita degli enterociti, migliora la produzione enzimatica e la funzione immunitaria intestinale e mantiene la barriera mucosale. Di conseguenza la NE è sempre da preferire alla nutrizione parenterale (NP). In alcuni rari casi, tuttavia, viene raccomandata la NP: pazienti che vomitano oppure pazienti con stato del sensorio depresso (trauma cranico) per cui incapaci di proteggere le proprie vie aeree. In questi pazienti, peraltro, esiste la possibilità di intraprendere una nutrizione di tipo enterale utilizzando sonde naso-digiunali o digiunostomiche, riducendo in questo modo il rischio legato al vomito. In conclusione, il paziente colpito da trauma/chirurgia/ sepsi, non solo non beneficia in alcun modo dal digiuno, ma oltretutto necessita di un adeguato apporto sia qualitativo che quantitativo in nutrienti semplici o complessi. Ogniqualvolta sia possibile la nutrizione enterale è da preferire a quella parenterale. Ciò non toglie che possano essere utilizzate entrambe contemporaneamente. Bibliografia disponibile presso l’Autore Indirizzo per la corrispondenza: Luca Formaggini - Clinica Veterinaria “Lago Maggiore” C.so Cavour, 3 - 28040 Dormelletto (NO) Italia Tel. +39 0322243716, Fax +39 0322232756 - E-mail info@cvlm.it


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L’ictus nei piccoli animali: mito o realtà? Laurent S. Garosi Med Vet, Dipl ECVN, MRCVS, Higham Gobion, UK

ICTUS (O ACCIDENTE CEREBROVASCOLARE) Si definisce col termine di malattia cerebrovascolare qualsiasi anomalia dell’encefalo che derivi da un processo patologico capace di comprometterne l’apporto ematico. I processi patologici che possono esitare in un’affezione cerebrovascolare sono rappresentati da (1) occlusione del lume ad opera di trombi o emboli, (2) rottura della parete di vasi sanguigni, (3) lesioni o alterazioni della permeabilità della parete dei vasi e (4) aumento della viscosità o altre modificazioni della qualità del sangue. L’ictus o accidente cerebrovascolare (CVA) costituisce la presentazione clinica più comune della malattia cerebrovascolare e si definisce come l’insorgenza improvvisa di segni encefalici focali e non progressivi secondari a malattia cerebrovascolare. Per convenzione, questi segni devono continuare per più di 24 ore per confermare la diagnosi di ictus, che di solito è associata ad un danno permanente dell’encefalo. Se i segni clinici si risolvono entro le 24 ore, l’episodio viene detto attacco ischemico transitorio. Da un punto di vista patologico, le lesioni che colpiscono i vasi sanguigni cerebrali vengono distinte in due ampie categorie: (1) ischemia con o senza infarto secondario a ostruzione dei vasi sanguigni e (2) emorragia causata dalla rottura della parete dei vasi stessi.

Ictus ischemico Disponendo di limitate riserve, l’encefalo si basa sull’apporto permanente di glucosio ed ossigeno per mantenere la funzione di pompa ionica. Quando la pressione di perfusione cade a livelli critici, si sviluppa un’ischemia che, se persiste abbastanza a lungo, progredisce fino all’infarto. Un infarto è un’area di compromissione del parenchima cerebrale dovuta ad un’occlusione focale di uno o più vasi sanguigni. Può essere dovuta ad un’ostruzione vascolare che si sviluppa all’interno di vasi occlusi (trombosi), oppure ad un materiale ostruttivo che origina da un altro letto vascolare e procede sino all’encefalo (tromboembolismo). A seconda delle dimensioni del vaso colpito, gli infarti si possono osservare come conseguenza di malattie di vasi piccoli (infarto lacunare) o grandi (infarto territoriale). A differenza di quanto avviene nel nucleo centrale, il cosiddetto core, dove l’ischemia è grave e l’infarto si sviluppa rapidamente, le aree circostanti (dette penombra) mostrano una riduzione più moderata della perfusione ematica cerebrale e possono tollerare stress ischemici di maggiore durata. Nella penombra, i neuroni sono ancora vitali, ma esposti al rischio di venire danneggiati irreversibilmente. La penombra si modifica man mano che l’infarto evolve. Il tessuto della penombra è poten-

zialmente in grado di recuperare e, quindi, rappresenta il bersaglio degli interventi terapeutici nell’ictus ischemico acuto. I fattori che causano l’evoluzione della penombra verso il danno irreversibile sono molteplici e complessi. La finestra temporale durante la quale la penombra non è più vitale dipende dal grado di riduzione del flusso ematico e dalla regione di encefalo colpita. Gli ictus ischemici sono stati descritti con scarsa frequenza nella letteratura medica veterinaria rispetto a quanto avviene in medicina umana. Fatta eccezione per le recenti segnalazioni di Garosi et al. (2005), la maggior parte è stata basata sui risultati post-mortem in cani venuti a morte o soppressi eutanasicamente a causa della gravità dell’ictus ischemico e/o della sua sospetta causa sottostante. È possibile che ciò abbia influito sulla prevalenza e sul tipo delle eziologie primarie ed è probabile che solo i cani colpiti più gravemente e quelli in cui l’infarto si è verificato secondariamente a una malattia dalla prognosi sfavorevole siano venuti a morte o siano stati soppressi. Le sospette cause sottostanti identificate nei casi confermati istopatologicamente sono: tromboemboli settici, aterosclerosi associata ad ipotiroidismo primario, parassiti migranti o emboli parassitari (Dirofilaria immitis), emboli di cellule tumorali metastatiche, linfoma intravascolare ed embolo fibrocartilagineo. In una recente indagine multicentrica su vasta scala basata sul sospetto clinico e fondata sulla risonanza magnetica dell’ictus ischemico, l’esistenza di una concomitante condizione medica è stata identificata in poco più del 50% dei cani con infarti cerebrali e nella maggior parte dei casi sono stati riscontrati nefropatia cronica ed iperadrenocorticismo. L’ipertensione è stata documentata nel 30% dei cani. La nefropatia cronica e l’iperadrenocorticismo erano la causa sottostante più comunemente sospettata per questa ipertensione.

Ictus emorragico Nell’ictus emorragico, il sangue passa dai vasi direttamente nell’encefalo, formando un ematoma nel parenchima cerebrale o nello spazio subaracnoideo. La massa di sangue coagulato provoca la distruzione fisica del tessuto e la compressione dell’encefalo circostante. Ciò altera le relazioni volumetriche/pressorie del SNC, con un possibile aumento della pressione intracranica ed una diminuzione della perfusione cerebrale. In contrasto con l’elevata incidenza riscontrata nell’uomo, le emorragie intracerebrali derivanti da rottura spontanea di vasi nel cane sono considerate rare. In questa specie animale è stata descritta un’emorragia secondaria associata a varie cause, come la rottura di anomalie vascolari congenite, le emorragie nei tumori encefalici primitivi e secondari, le malattie infiammatorie delle arterie o delle vene


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o il linfoma intravascolare, l’infarto cerebrale (infarto emorragico) o la compromissione della coagulazione. Nel cane è stata segnalata un’emorragia subaracnoidea non traumatica, che però rimane molto rara in confronto all’occorrenza che ha nell’uomo, dove la causa sottostante più comune è la rottura di un aneurisma.

DIAGNOSI DI ICTUS In tutte le forme di ictus la caratteristica dominante è il profilo temporale degli eventi neurologici. Il disordine viene caratterizzato come vascolare in base alla subitaneità con cui si sviluppano i deficit neurologici. L’altro aspetto importante del profilo temporale è l’arresto e poi la regressione del deficit neurologico in tutti gli ictus, fatta eccezione per quelli fatali. L’aggravamento dell’edema (associato a fenomeni di danno secondario) può esitare nella progressione dei deficit neurologici per un breve periodo di 24-48 ore. L’emorragia può fare eccezione a questa descrizione e presentare un’insorgenza più progressiva nell’arco di un brevissimo periodo di tempo. I segni clinici di solito regrediscono dopo 24-48 ore; questo fenomeno può venire attribuito alla diminuzione dell’effetto massa secondario all’emorragia e alla riorganizzazione o al riassorbimento dell’edema. I deficit neurologici dipendono dalla neurolocalizzazione dell’insulto vascolare (proencefalo o tronco encefalico). L’infarto di una singola regione cerebrale è associato a specifici segni clinici che riflettono la perdita di funzionalità di quella specifica regione. Nell’ictus emorragico, il quadro clinico totale è differente, dato che l’emorragia di solito coinvolge il territorio di più di un’arteria e gli effetti pressori di solito causano manifestazioni secondarie. I segni neurologici sono in larga misura correlati all’aumento della pressione intracranica, che dà origine a manifestazioni aspecifiche di interessamento del proencefalo o del tronco encefalico. Per confermare il sospetto di ictus, definire il territorio vascolare coinvolto e l’estensione della lesione e distinguere fra ictus ischemico ed emorragico è necessario ricorrere all’esame dell’encefalo mediante tecniche di diagnostica per immagini (tomografia computerizzata o risonanza magnetica). Bisogna anche escludere altre cause di deficit neurologici come i tumori e l’encefalite. I test diagnostici collaterali nell’ictus ischemico devono essere focalizzati sulla valutazione dell’animale per rilevare ipertensione (e la sua potenziale causa sottostante), malattie endocrine (iperadrenocorticismo, ipotiroidismo, ipertiroidismo, diabete mellito), nefropatia, cardiopatia e malattie metastatiche. In caso di ictus emorragico, i test diagnostici devono essere volti ad esaminare gli animali per evidenziare disordini della coagulazione (e potenziali cause sottostanti), ipertensione (e potenziale causa sottostanti) e malattie metastatiche.

TRATTAMENTO E PROGNOSI DELL’ICTUS Una volta formulata la diagnosi di ictus, è necessario studiarne le cause sottostanti ed attuarne il trattamento di conseguenza. La maggior parte dei casi di ictus ischemico si riprende nell’arco di parecchie settimane semplicemente

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con la terapia di sostegno. In termini di neuroprotezione nella terapia dell’ictus, non ci sono prove che indichino che il trattamento con glucocorticoidi abbia un qualsiasi effetto benefico. La strategia terapeutica dell’ictus ischemico presa in considerazione nei pazienti umani con altri agenti neuroprotettori (antagonisti del recettore NMDA [N-metil-Daspartato], calcio-antagonisti, modulatori dei canali del sodio) o la terapia trombolitica resta da valutare nella clinica del cane. La gestione medica dei cani con emorragia intracerebrale prevede comunemente la stabilizzazione del paziente (protezione delle vie aeree e controllo dei segni vitali), la determinazione dello status neurologico, l’identificazione delle potenziali cause sottostanti dell’emorragia e la valutazione della necessità di misure terapeutiche specifiche come la gestione dell’aumento della pressione intracranica ed il trattamento dell’eventuale causa sottostante. L’evacuazione chirurgica dell’ematoma viene attuata principalmente nei cani con ematomi di volume elevato o in quelli in cui lo status neurologico si aggrava. La prognosi dell’ictus dipende principalmente dalla sua localizzazione neuroanatomica, dalla presenza di effetti patologici secondari (edema, emorragia, aumento della pressione intracranica ed ernia cerebrale) e specialmente dalla causa sottostante, se se ne identifica una. La maggior parte dei cani con ictus ischemico tende a riprendersi entro parecchie settimane semplicemente con la terapia di sostegno. Nelle casistiche segnalate da Garosi et al. (2005), la presenza di una condizione medica era un fattore significativo per l’occorrenza di un successivo infarto.

Bibliografia Adams RD, Victor M (1997) Cerebrovascular diseases. In: Adams RD & Victor M eds. Principles of neurology. 6th ed. New York: McGrawHill Inc. pp 777-873. Graves MJ (1997). Magnetic resonance angiography. British Journal of Radiology 70, 6-28. Garosi LS, McConnell JF (2005) Brain infarct in dog and human: a comparative review. Journal of Small Animal Practice 46:521-529. Garosi LS, McConnell JF, Platt SR, Baronne G, Baron JC, de Lahunta A, Schatzberg SJ (2005) Results of diagnostic investigations and longterm outcome of 33 dogs with brain infarction (2000-2004). Journal of Veterinary Internal Medicine19:729-731. Garosi LS, JF McConnell, SR Platt, G Baronne, JC Baron, A de Lahunta, SJ Schatzberg (2006) Clinical and topographical magnetic resonance characteristics of suspected brain infarctions in 40 dogs. Journal of Veterinary Internal Medicine (in press). Hakim AM (1998) Ischaemic penumbra: the therapeutic window. Neurology 51, S44-46. Heiland S (2003) Diffusion- and perfusion-weighted MR imaging in acute stroke: principles, methods, and applications. Imaging Decisions in MRI 4, 13-25. Kalimo H, Kaste M, Haltia M (2002) Vascular diseases. In: Graham DI & Lantos PL eds. Greenfield’s neuropathology. 7th ed. London: Arnold. pp 233-280. McConnell JF, Garosi LS, Platt SR, Dennis R (2005) MRI findings of presumed cerebellar cerebrovascular accident in twelve dogs. Veterinary Radiology and Ultrasound 46, 1-10. Platt SR, Garosi L (2003) Canine cerebrovascular disease: do dogs have strokes? Journal of the American Animal Hospital Association 39, 337-342.

Indirizzo per la corrispondenza: Laurent S. Garosi E-mail-Isg@vetspecialists.co.uk


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Diagnostica per immagini avanzata nei problemi vascolari intracranici Laurent S. Garosi Med Vet, Dipl ECVN, MRCVS, Higham Gobion, UK

Si definisce col termine di malattia cerebrovascolare qualsiasi anomalia dell’encefalo che derivi da un processo patologico capace di comprometterne l’apporto ematico. Da un punto di vista patologico, le lesioni che colpiscono i vasi sanguigni cerebrali vengono distinte in due ampie categorie: (1) ischemia con o senza infarto secondario a ostruzione dei vasi sanguigni e (2) emorragia causata dalla rottura della parete dei vasi stessi. Disponendo di limitate riserve, l’encefalo si basa sull’apporto permanente di glucosio ed ossigeno per mantenere la funzione di pompa ionica. Quando la pressione di perfusione cade a livelli critici, si sviluppa un’ischemia che, se persiste abbastanza a lungo, progredisce fino all’infarto. Un infarto è un’area di compromissione del parenchima cerebrale dovuta ad un’occlusione focale di uno o più vasi sanguigni. Può essere dovuta ad un’ostruzione vascolare che si sviluppa all’interno di vasi occlusi (trombosi), oppure ad un materiale ostruttivo che origina da un altro letto vascolare e procede sino all’encefalo (tromboembolismo). A seconda delle dimensioni del vaso colpito, gli infarti si possono osservare come conseguenza di malattie di vasi piccoli (infarto lacunare) o grandi (infarto territoriale). Nell’ictus emorragico, il sangue passa dai vasi direttamente nell’encefalo, formando un ematoma nel parenchima cerebrale o nello spazio subaracnoideo. La massa di sangue coagulato provoca la distruzione fisica del tessuto e la compressione dell’encefalo circostante. Per escludere le altre cause di insorgenza acuta di segni neurologici e per confermare il sospetto di ictus è necessario ricorrere all’esame dell’encefalo mediante tecniche di diagnostica per immagini. Queste metodiche vanno impiegate anche per definire il territorio vascolare coinvolto e l’estensione della lesione e per distinguere fra ictus ischemico ed emorragico. La risonanza magnetica è la tecnica di diagnostica per immagini più sensibile per diagnosticare l’ictus ischemico, con alterazioni che si osservano entro un’ora dall’insorgenza.

DIAGNOSTICA PER IMMAGINI DELL’ICTUS ISCHEMICO Tomografia computerizzata La tomografia computerizzata (TC) risulta spesso normale nella fase acuta dell’ischemia; di conseguenza, la diagnosi di ictus ischemico con questo mezzo si basa sull’esclusione di altre condizioni che simulano l’ictus stesso. I primi segni tomografici dell’ischemia possono essere sottili e dif-

ficili da identificare anche da parte di esaminatori molto esperti e sono rappresentati da ipodensità del parenchima, perdita di differenziazione fra sostanza grigia e bianca, lieve cancellazione dei solchi corticali ed effetto massa locale. Sino a non molto tempo fa, la tomografia computerizzata è stata la tecnica di diagnostica per immagini d’elezione nell’uomo per determinare la presenza di un’emorragia nelle fasi iniziali dell’ictus, dato che questa lesione si presenta iperdensa negli stadi di esordio. I recenti sviluppi della risonanza magnetica hanno determinato un cambiamento della situazione, per cui e la tomografia computerizzata oggi non presenta più alcuni vantaggio rispetto alla risonanza magnetica per la diagnosi dell’ictus ischemico.

Risonanza magnetica convenzionale La risonanza magnetica convenzionale può venire utilizzata per illustrare l’ictus ischemico entro 12-24 ore dall’insorgenza e per distinguere le lesioni emorragiche dall’infarto. Benché possano essere talvolta difficili da differenziare da altri processi patologici come le malattie infiammatorie, gli infarti tendono a presentare certe caratteristiche distintive nelle immagini ottenute con questa metodica. 1 – Un aspetto diagnostico distintivo dell’ictus ischemico è la sua localizzazione e distribuzione, che dipende dal territorio vascolare coinvolto. La conformità di un’area ischemica/infartuata rispetto ad un territorio vascolare è un elemento importante per la diagnosi che contribuisce a distinguere queste lesioni da tumori encefalici, infiammazioni e traumi. Le ischemie/infarti sono causate da occlusione di un vaso sanguigno cerebrale. Di conseguenza, si verificano nella regione dell’encefalo vascolarizzata dal vaso colpito e sono limitate ad essa e spesso si riscontra una netta demarcazione rispetto al tessuto cerebrale normale circostante, con un effetto massa minimo o assente. 2 – Le ischemie/infarti sono causate da un’insufficienza della perfusione ematica e, quindi, da una deplezione energetica. La conseguenza per la cellula è l’insufficienza della pompa Na+/K+ e l’accumulo di Na+ ed acqua all’interno della cellula, cioè un edema citotossico. Le alterazioni della risonanza magnetica osservate nel parenchima ischemico si basano su un aumento del contenuto tissutale di acqua. Gradualmente, le immagini T2 pesate o FLAIR (fluid-attenuated inversion recovery) mostrano una maggiore iperintensità (prolungamento di T2 che produce segnali più elevati in aree con un maggior contenuto idrico tissutale) nella regione ischemica, in particolare nell’arco delle prime 24 ore.


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3 – Le alterazioni della risonanza magnetica si apprezzano meglio nella sostanza grigia e sono ben visualizzate nelle strutture profonde formate da quest’ultima, come il talamo ed i gangli basali, a causa della vulnerabilità selettiva all’ischemia. 4 – L’accentuazione del contrasto (associata a riperfusione) di solito non si osserva prima che siano trascorsi almeno 7-10 giorni. Le immagini T2 pesate e FLAIR (fluid-attenuated inversion recovery) sono particolarmente utili per visualizzare l’ictus ischemico ed ottenere una rappresentazione più anatomica dell’encefalo ed evidenziare l’edema, gli infarti vecchi, le alterazioni microangiopatiche, i tumori ed altre patologie. Con queste sequenze, l’infarto ischemico si presenta come una lesione iperintensa. La differenziazione del core ischemico dal tessuto in penombra, tuttavia, non è possibile. Le immagini T2*-pesate (gradient echo) vengono utilizzate per dimostrare la presenza di un’emorragia intracranica o per escluderla.

li iperintensi T2-pesati noti come “T2 shine through”. Per differenziare fra l’autentica restrizione della diffusione e la T2 shine through, le lesioni brillanti alla DWI devono essere sempre confermate con mappe di coefficiente di diffusione apparente, che misurano in modo esclusivo la diffusione. La mappa ADC contribuisce a rimuovere l’effetto dell’iperintensità T2-pesata (associata all’edema citotossico) che può contribuire all’iperintensità diffusione-pesata. Le immagini diffusion weighted possono essere utilizzate per migliorare la sensibilità e la specificità della diagnosi dell’ictus acuto. Questo tipo di studio consente anche di distinguere le lesioni acute da quelle croniche. L’aspetto classico dell’infarto acuto è dato da iperintensità nella DWI e riduzione dell’ADC. I valori di quest’ultimo restano al di sotto della norma (riflettendo il rigonfiamento cellulare) per i primi 8-10 giorni e procedono verso valori pseudonormali e supernormali ai punti temporali cronici oltre i 10 giorni (a causa della necrosi o lisi cellulare).

Risonanza magnetica funzionale

• Valutazione della perfusione – Perfusion images (PWI) Oltre alla tecnica diffusion weighted, per illustrare le regioni encefaliche con ipoperfusione e dedurne il tessuto a rischio confrontando i risultati con i riscontri della DWI si utilizza la tecnica della risonanza magnetica perfusion weighted. Quest’ultima prevede la ripetuta e rapida acquisizione di immagini prima e dopo l’iniezione di un mezzo di contrasto utilizzando una sequenza Epi bidimensionale gradient echo o spin echo. L’accorciamento della velocità di rilassamento T1 nel tempo è proporzionale alla concentrazione del mezzo di contrasto e, quindi, fornisce informazioni sulla perfusione tissutale. Le tecniche di risonanza magnetica mediante diffusione e perfusione (diffusion e perfusion imaging) hanno reso possibile distinguere fra due comparti (core centrale e penombra periferica) del tessuto ischemico. Nelle immagini perfusion weighted è possibile monitorare l’apporto ematico del tessuto e l’area di ipoperfusione, mentre quelle diffusion weighted (DWI) riflettono approssimativamente il core infartuato irreversibilmente danneggiato. La differenza di volume fra le due, anche detta PWI/DWI-mismatch, presenta una certa correlazione con la penombra ischemica.

Per la diagnosi precoce dell’ictus ed il trattamento di follow-up nell’uomo sono state sviluppate parecchie tecniche di risonanza magnetica funzionale (fMRI). Queste comprendono la visualizzazione per diffusione e perfusione e l’angiografia mediante risonanza magnetica (MRA). La risonanza magnetica per diffusione e perfusione sono nuove tecniche che consentono il monitoraggio del trasporto dell’acqua nel microambiente a livello cellulare o capillare. Forniscono informazioni complementari circa i processi fisiopatologici che seguono all’ischemia cerebrale. • Immagini diffusion weighted (DWI) La DWI viene utilizzata comunemente nell’uomo per migliorare la sensibilità e la specificità della diagnosi dell’ictus acuto facendone una sequenza ideale per l’identificazione positiva dell’ictus iperacuto, escludendo le condizioni che lo simulano. L’evoluzione temporale del segnale DWI consente anche di discriminare le lesioni acute da quelle croniche. Inoltre, la sequenza è sensibile, dato che rileva lesioni di appena 4 mm di diametro. La risonanza magnetica DWI rileva il movimento molecolare casuale dell’acqua in vivo. Il grado di questa mobilità può essere quantificato attraverso un parametro fisico noto come coefficiente di diffusione apparente (ADC). Nei sistemi biologici, la libera diffusione è limitata da barriere fisiche (ad es., membrane cellulari) ed interazioni chimiche (ad es., legame con macromolecole). L’infarto acuto porta all’intrappolamento dell’acqua all’interno delle cellule e determina una riduzione della diffusione. Questo fenomeno di minore diffusione ed edema citotossico provoca un’iperintensità regionale alla DWI. L’intensità dell’immagine della DWI dipende dall’ADC nonché dal tempo di rilassamento trasversale (T2). Poiché le DWI sono influenzate dal contrasto T1-T2, le lesioni dell’ictus diventano anche progressivamente più luminose a causa del concomitante incremento del contenuto idrico dell’encefalo, che porta ad un apporto aggiuntivo di segna-

• Angiografia mediante risonanza magnetica (MRA) Oltre al suo impiego per la valutazione tissutale, la MRA può consentire di giudicare in modo non invasivo lo status vascolare intracranico dei pazienti colpiti da ictus. Si possono utilizzare due tecniche: la MRA TOF (time of flight) e la MRA ad accentuazione di contrasto. Uno dei principali limiti della MRA è la sua minore risoluzione in confronto all’angiografia convenzionale. Questo problema si aggrava progressivamente man mano che le dimensioni del lume diminuiscono. Nell’uomo, le tecniche angiografiche sono particolarmente utili per lo screening della stenosi dell’arteria carotide, della malformazione vascolare (come la malformazione arterovenosa o l’angioma venoso) e dell’aneurisma. L’uso della MRA nel cane è stato descritto e può consentire l’identificazione di lesioni vascolari sottostanti in casi di ictus canino.


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DIAGNOSTICA PER IMMAGINI DELL’ICTUS EMORRAGICO Tomografia computerizzata (TC) La TC è particolarmente sensibile per l’identificazione dell’emorragia acuta. Questa risulta evidente sotto forma dell’iperdensità nelle immagini topografiche a causa dell’iperattenuazione dei raggi X da parte della porzione globinica del sangue. L’attenuazione diminuisce finché l’ematoma non diviene isodenso, a distanza di circa un mese dall’insorgenza. La periferia dell’ematoma accentua il contrasto per un periodo compreso fra 6 giorni e 6 settimane dopo l’insorgenza, a causa della rivascolarizzazione.

Risonanza magnetica convenzionale Le due proprietà biosifiche più importanti nella generazione dei quadri di intensità del segnale della risonanza magnetica osservati negli ematomi intracranici in via di evoluzione sono gli effetti paramagnetici del ferro associati alla modificazione degli stati di ossigenazione dell’emoglobina e l’integrità delle membrane eritrocitarie che, quando non sono danneggiate, determinano la compartimentalizzazione del ferro paramagnetico. Tuttavia, l’intensità del segnale della risonanza magnetica dell’emorragia intracranica è anche influenzata da parecchi fattori intrinseci (tempo trascorso dall’ictus, origine, localizzazione e dimensione dell’emorragia) ed estrinseci (sequenza del polso e field strength). Le cause di queste variazioni intrinseche ed estrinseche dell’intensità dell’ematoma sono difficili da valutare con gli studi clinici, dal momento che spesso è impossibile accertare con precisione l’intervallo fra l’emorragia e la risonanza magnetica. È stato dimostrato che le sequenze gradient echo sono le più accurate fra tutte quelle degli impulsi della MRI e sono più accurate della tomografia computerizzata per prevedere l’estensione dell’emorragia nell’esame patologico in un modello canino. In confronto ad altre sequenze, quelle gradient echo dimostrano facilmente l’i-

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pointensità rilevabile, indipendentemente dal tempo trascorso dall’ictus, dall’origine e dalla localizzazione dell’emorragia o dal field strenght. Le ipointensità nelle immagini gradient echo, tuttavia, non sono specifiche per l’emorragia e si possono anche osservare in caso di calcificazione, aria, ferro, corpi estranei e melanina. Aria, calcificazione ed altri corpi estranei, sono normalmente anche ipointensi anche in tutte le sequenze di impulsi.

Bibliografia Adams RD, Victor M (1997) Cerebrovascular diseases. In: Adams RD & Victor M eds. Principles of neurology. 6th ed. New York: McGrawHill Inc. pp 777-873. Graves MJ (1997). Magnetic resonance angiography. British Journal of Radiology 70, 6-28. Garosi LS, McConnell JF (2005) Brain infarct in dog and human: a comparative review. Journal of Small Animal Practice 46:521-529. Garosi LS, McConnell JF, Platt SR, Baronne G, Baron JC, de Lahunta A, Schatzberg SJ (2005) Results of diagnostic investigations and longterm outcome of 33 dogs with brain infarction (2000-2004). Journal of Veterinary Internal Medicine19:729-731. Garosi LS, JF McConnell, SR Platt, G Baronne, JC Baron, A de Lahunta, SJ Schatzberg (2006) Clinical and topographical magnetic resonance characteristics of suspected brain infarctions in 40 dogs. Journal of Veterinary Internal Medicine (in press). Hakim AM (1998) Ischaemic penumbra: the therapeutic window. Neurology 51, S44-46. Heiland S (2003) Diffusion- and perfusion-weighted MR imaging in acute stroke: principles, methods, and applications. Imaging Decisions in MRI 4, 13-25. Kalimo H, Kaste M, Haltia M (2002) Vascular diseases. In: Graham DI & Lantos PL eds. Greenfield’s neuropathology. 7th ed. London: Arnold. pp 233-280. McConnell JF, Garosi LS, Platt SR, Dennis R (2005) MRI findings of presumed cerebellar cerebrovascular accident in twelve dogs. Veterinary Radiology and Ultrasound 46, 1-10. Platt SR, Garosi L (2003) Canine cerebrovascular disease: do dogs have strokes? Journal of the American Animal Hospital Association 39, 337-342.

Indirizzo per la corrispondenza: Laurent S. Garosi E-mail-Isg@vetspecialists.co.uk


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Patologie infiammatorie del sistema nervoso centrale: il punto di vista del neurologo, approccio clinico e terapeutico Laurent S. Garosi Med Vet, Dipl ECVN, MRCVS, Higham Gobion, UK

INFETTIVA O NON INFETTIVA? QUESTO È IL PROBLEMA… Le malattie infiammatorie del SNC sono un gruppo estremamente eterogeneo di affezioni che differiscono per quanto riguarda le cause, i processi patologici coinvolti e la distribuzione delle lesioni. È possibile riconoscere due distinti gruppi: la meningoencefalomielite ad eziologia sconosciuta e quella infettiva. La meningoencefalomielite ad eziologia sconosciuta nel cane viene comunemente attribuita alla meningoencefalomielite granulomatosa (GME) ed alle meningoencefaliti razza-specifiche. La GME è un processo infiltrante angiocentrico di tipo linfoide misto che colpisce principalmente la sostanza bianca del SNC e le leptomeningi. I segni clinici sono variabili e riflettono il tipo morfologico della malattia nonché la sede della lesione. Sulla base delle anomalie neurologiche, morfologiche e cliniche sono state descritte tre forme di GME: disseminata, focale ed oculare. La forma disseminata si manifesta tipicamente con l’insorgenza acuta di segni clinici rapidamente progressivi indicativi di un disordine multifocale del SNC, mentre la GME focale è associata a segni clinici indicativi di una singola massa occupante spazio, con un’insorgenza insidiosa ed un andamento lentamente progressivo. La forma oculare della GME si manifesta con l’insorgenza acuta di una compromissione della visione e dilatazione pupillare con mancata risposta alla luce a causa di una neurite ottica. I cani colpiti da una forma oculare possono successivamente sviluppare lesioni a carico del SNC. La causa della GME non è nota e sono state ipotizzate come possibili le eziologie immunomediate, infettive e neoplastiche. Le attuali ipotesi prevedono una risposta neurologica aspecifica del sistema immunitario del cane e possono essere coinvolte molteplici eziologie. Le lesioni associate alle meningoencefaliti razza-specifica differiscono da quelle della GME per quanto riguarda distribuzione e gravità. L’encefalite del Carlino e del maltese è caratterizzata da estesa necrosi ed infiammazione non suppurativa della sostanza grigia centrale e di quella bianca subcorticale (meningoencefalite necrotizzante o NME). I segni neurologici sono acuti e progressivi e riflettono principalmente dei disordini del proencefalo e, nella maggior parte dei casi, si osservano crisi convulsive. Un’encefalite necrotizzante viene anche descritta in chihuahua, Shi tzu e Yorkshire terrier ed è caratterizzata istologicamente da aree multifocali di infiammazione mononucleare estremamente grave che circonda un grande centro gliotico malacico che colpisce principalmente il tronco encefalico e la sostanza bianca cerebrale periventricolare (leucoencefalite necrotizzante o NLE). Frequentemente predominano i segni del tronco encefalico, con una disfunzione vestibolare centrale. È probabile una base gene-

tica. Senza ricorrere all’istopatologia, la diagnosi ante-mortem della GME o delle meningoencefaliti razza-specifiche può solo essere sospetta. Per i casi in cui i tessuti cerebrali sono stati sottoposti ad una valutazione istopatologica si deve quindi utilizzare il termine di meningoencefalite ad eziologia sconosciuta. Nei cani e nei gatti con infezione del sistema nervoso centrale si ha spesso la coesistenza di encefalite e meningite. Sono stati ritenuti responsabili numerosi agenti infettivi che comprendono virus (cimurro, rabbia, parvovirus, parainfluenza, herpes, leucemia felina, immunodeficienza felina), batteri (da inoculazione diretta, da embolizzazione o da altre fonti per estensione di processi microbici), rickettsie (Ehrlichia, febbre maculosa delle Montagne Rocciose), protozoi (Toxoplasma, Neospora), miceti (blastomicosi, istoplasmosi, criptococcosi, aspergillosi, coccidiomicosi) e spirochete (malattia di Lyme, leptospirosi). In aggiunta a questa lista, sono stati segnalati numerosi parassiti capaci di colpire l’encefalo nel corso di migrazioni aberranti (Toxocara, filarie, larve di Cuterebra). La loro incidenza dipende principalmente dalla localizzazione geografica. La malattia tende ad avere un’insorgenza acuta e ad essere progressiva, spesso con una distribuzione multifocale o diffusa delle lesioni all’interno del SNC.

DIAGNOSI È stata segnalata una predisposizione delle femmine alla GME e la malattia è più comune nei cani giovani o di media età. La maggior parte dei casi di meningoencefaliti razza-specifiche descritti finora si è verificata in soggetti giovani ed adulti (da 6 mesi a 7 anni), senza alcuna predisposizione legata al sesso. La diagnosi ante-mortem della GME o delle meningoencefaliti razza-specifiche (NME, NLE) spesso è priva della conferma istopatologica. I segni al di fuori del sistema nervoso, come l’ipertermia, sono rari. Gli esami ematochimici possono essere normali o rivelare un leucogramma da stress. L’analisi del liquido cefalorachidiano (liquor) mostra una pleocitosi mononucleare pura o una popolazione cellulare mista (in particolare nei casi acuti). Benché sia un indicatore sensibile dell’infiammazione del SNC, la pleocitosi mononucleare del liquor non consente di distinguere fra le possibile diagnosi differenziali di origine immunomediata infettiva e neoplastica della meningoencefalite del cane. L’assenza di anomalie del liquor non permette di escludere la possibilità di una GME, in particolare nei cani che sono stati preventivamente trattati con corticosteroidi o quando le lesioni non sono molto vicine al sistema ventricolare ed allo spazio subaracnoideo. Anche nei cani con NME o LNE i riscontri dell’analisi del liquor rivelano una moderata pleocitosi con elementi mononucleari o di


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tipo misto ed un aumento lieve o marcato della concentrazione di proteine. L’impiego delle tecniche di diagnostica per immagini nella meningoencefalite ad eziologia sconosciuta fornisce risultati aspecifici, ma può essere utile per sostenere il sospetto formulato su base clinica. La tomografia computerizzata (TC) può rivelare lesioni iperdense dopo iniezione endovenosa di mezzo di contrasto. Il riscontro più costantemente rilevato alla risonanza magnetica nella forma multifocale di GME è la presenza di molteplici lesioni iperintense T2-pesate o FLAIR (fluid-attenuated inversion recovery) diffuse in tutta la sostanza bianca cerebrale. Può essere presente o meno un’accentuazione del contrasto. Il linfosarcoma del sistema nervoso centrale e, meno comunemente, le neoplasie gliali e quelle metastatiche possono presentare segni clinici e di diagnostica per immagini simili e devono quindi essere prese in considerazione come possibili diagnosi differenziali di questa forma di GME. La forma focale della GME si presenta alla tomografia computerizzata o alla risonanza magnetica come una singola massa occupante spazio non specifica. La distribuzione più caratteristica delle lesioni osservata nella meningoencefalite razza-specifica (NLE o NME) può risultare utile nella diagnosi di queste condizioni. Per questi motivi, le diagnosi di “GME” o “meningoencefalite razza-specifica” formulate sulla base di segni clinici, analisi del liquor, diagnostica per immagini ed esito negativo dei titoli per la diagnosi delle malattie infettive sono sospetti diagnostici e per una diagnosi definitiva è necessario l’esame istologico del tessuto nervoso (biopsia encefalica o post-mortem). Anche il riscontro della presenza combinata di elevati livelli di IgA intratecali e sistemici è molto utile per la diagnosi di meningoarterite suppurativa asettica. I riscontri degli esami ematochimici in presenza di malattie infettive possono variare ed evidenziare leucocitosi con neutrofilia e spostamento a sinistra nelle infezioni batteriche, eosinofilia con aumento dei livelli degli enzimi muscolari nelle malattie protozoarie, linfopenia con eventualmente leucopenia o leucocitosi nel cimurro, o iperglobulinemia nella peritonite infettiva felina. L’analisi del liquor e le titolazioni degli agenti infettivi (sierologia e/o PCR) eseguite su campioni di siero e/o liquor rappresentano i test diagnostici ante-mortem più affidabili per l’identificazione delle malattie infettive del SNC. I riscontri a livello di liquor nel cimurro vanno da lievi alterazioni nella fase acuta a pleocitosi mononucleare ed aumento del contenuto proteico nella forma infiammatoria cronica. Una marcata pleocitosi neutrofila è solitamente presente in casi di infezione batterica, peritonite infettiva felina (associata a marcato incremento del contenuto di proteine) o meningoarterite suppurativa asettica. Nelle malattie protozoarie si osservano spesso una lieve pleocitosi mista ed un aumento dei livelli di proteine. Le colture batteriche del liquor e del sangue sono indicate quando si sospetta una meningoencefalite batterica, ma spesso risultano infruttuose.

TRATTAMENTO La somministrazione di corticosteroidi a dosaggi immunosoppressori ha costituito il caposaldo del trattamento dei casi sospetti di GME, meningoarterite suppurativa asettica e meningoencefaliti razza-specifiche. La risposta ai corticosteroidi è stata frequentemente descritta come variabile e temporanea,

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con animali che spesso manifestano una reazione iniziale imponente, e le recidive sono comuni. Il trattamento a lungo termine con alte dosi di corticosteroidi provoca frequentemente degli effetti indesiderati come ulcera gastroenterica, pancreatite ed iperadrenocorticismo iatrogeno. In alcuni cani con GME è stata segnalata l’efficacia di radiazioni, azatioprina, procarbazina, citosina arabinoside e ciclosporina come unico agente o come trattamento aggiuntivo con prednisone. Nelle malattie protozoarie sono indicate le associazioni trimethoprim-sulfamidici, la pirimetamina e/o la clindamicina. Il trattamento delle infezioni batteriche consiste in alte dosi di antibiotici ad ampio spettro per i quali sia stata accertata la capacità di attraversare la barriera ematoencefalica. Durante le prime 48 ore di trattamento, possono essere indicati i glucocorticoidi. La terapia delle malattie virali come il cimurro del cane o la peritonite infettiva felina è essenzialmente palliativa.

PROGNOSI Secondo quanto viene segnalato in letteratura, la prognosi per la remissione a lungo termine nei casi accertati di GME e meningoencefaliti razza-specifiche è sfavorevole. Tuttavia, queste segnalazioni sono state limitate ai casi di GME confermata istopatologicamente che sono venuti a morte o sono stati soppressi eutanasicamente a causa della gravità della malattia, per cui il significato prognostico di questi studi può essere viziato. Altri hanno descritto una sopravvivenza superiore all’anno in cani con sospetta GME trattati con un’aggressiva immunosoppressione mediante prednisone e azatioprina. La prognosi della meningoarterite suppurativa asettica è buona, con una terapia precoce, aggressiva e prolungata.

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Indirizzo per la corrispondenza: Laurent S. Garosi E-mail-Isg@vetspecialists.co.uk


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Il trattamento delle fratture e lussazioni della colonna vertebrale del cane e del gatto. La nostra esperienza su 25 casi Raffaele Gilardini Med Vet, Voghera (PV)

INTRODUZIONE Le fratture e le lussazioni della colonna vertebrale derivano dalla rottura traumatica delle vertebre e/o dei tessuti molli di supporto che stabilizzano la colonna stessa e possono provocare lesioni al tessuto nervoso di vario grado. Nella nostra esperienza i traumi più frequenti sono rappresentati da investimenti, cadute dall’alto, attacchi di altri animali o dell’uomo e quelli provocati da oggetti in movimento (cancelli automatici, oggetti che cadono). Nel cane e nel gatto le lesioni della colonna vertebrale possono interessare il comparto vertebrale dorsale (arco vertebrale, faccette articolari, capsula articolare, processi spinosi, legamenti interspinosi, legamento sopraspinoso e legamento flavo), quello ventrale (corpo vertebrale, disco intervertebrale, legamento longitudinale dorsale e ventrale) o ambedue; quelle che coinvolgono il comparto dorsale o ambedue i comparti provocano instabilità nel punto di lesione. Le lesioni combinate dei due comparti sono più gravi ed anche più frequenti di quelle che colpiscono un solo comparto. Le fratture/lussazioni spinali possono essere patologiche o traumatiche. Tra le prime vanno annoverate le instabilità congenite (ex.:instabilità atlanto-assiale) e le condizioni patologiche che indeboliscono l’osso vertebrale (neoplasie primarie o metastatiche, malattie metaboliche). Le condizioni traumatiche possono essere rappresentate da forze che provocano gravi iperestensioni, iperflessioni, compressioni e/o rotazioni della colonna vertebrale. Oltre alle fratture e lussazioni le suddette forze possono causare estrusioni e protrusioni traumatiche del disco intervertebrale. Il tessuto nervoso in seguito al trauma spinale può subire dalla semplice concussione a compressioni durature, stiramenti o lacerazioni. La perdita funzionale può essere totale e permanente perché causata da soluzione di continuo del tessuto nervoso, o solo temporanea perché il danno primario (legato al trauma) è stato lieve ed il trattamento tempestivo ha ridotto il danno secondario (edema, cascata di eventi biochimici dell’infiammazione, produzione di radicali liberi, ecc.). Nei traumi spinali la condizione di emergenza impone al medico veterinario di saper attuare dei trattamenti tempestivi sia in caso di gestione diretta del paziente sia nel caso in cui il paziente venga riferito presso altra struttura. Il paziente spinale è un paziente traumatizzato per cui altre lesioni possono metter in pericolo la sua vita e quindi vanno trattate prioritariamente. Le situazioni di shock, emor-

ragia, pneumotorace, ernia diaframmatica, ad esempio, vanno affrontate prioritariamente al fine di stabilizzare il paziente e sottrarlo al pericolo immediato di morte. L’animale sospetto di lesione spinale, già nella prima fase di stabilizzazione, dovrebbe essere adagiato in decubito laterale su supporti rigidi e radiotrasparenti (legno, plexiglass) e fissato con fasce o cerotti fino alla fine degli accertamenti diagnostici e delle procedure terapeutiche. Il gatto tollera poco la costrizione per cui a volte è necessario lasciarlo solo a riposo in gabbia fino al momento della sedazione. L’esame neurologico accurato, deve essere effettuato ai fini di valutare la localizzazione della lesione e la percezione algica profonda, ma è limitato alle prove che non sono pericolose per l’instabilità della lesione. Dopo aver localizzato la lesione ed espresso un giudizio sulla gravità, viene effettuato l’esame radiografico che, ad animale sveglio, se non si è dotati di apparecchio radiografico con fascio orientabile, si può effettuare in proiezione latero-laterale senza togliere il supporto rigido. L’animale anestetizzato può essere sottoposto a radiogrammi anche in proiezione sagittale e a mielografia, ma occorre fare molta attenzione a non peggiorare la lesione vista la mancanza del tono della muscolatura circostante la lesione. In un caso su tre esistono più lesioni della colonna che vanno escluse radiograficamente. La mielografia va effettuata ogni qualvolta non c’è congruenza tra l’esame neurologico ed il reperto radiografico. Alla fine dell’esame radiografico si deve essere in grado di distinguere una lesione stabile da una instabile e quindi potenzialmente più pericolosa. Il trattamento delle lesioni spinali dipende da diversi fattori: la condizione neurologica del paziente e la sua evoluzione, la causa della lesione, la stabilità del sito di lesione, l’esperienza del medico veterinario, la volontà del proprietario. Il trattamento medico prevede diversi farmaci in letteratura molti dei quali di dubbia efficacia. Il metilprednisolone sodio-succinato è il farmaco più utilizzato ed il trattamento, viene effettuato entro le 8 ore dal trauma al dosaggio di 30 mg/kg endovena in bolo e poi 5,4 mg/kg/ora per 12 ore se entro le 3 ore dal trauma e per 24 ore se tra la 3a e la 8a ora. Il trattamento conservativo rappresentato da riposo in gabbia per 4-6 settimane e/o stabilizzazione esterna mediante splint rigidi, può essere utilizzato con successo nei casi di lesioni stabili senza compressione midollare importante, in animali con pochi deficit neurologici o comunque movimenti volontari conservati oppure nei pazienti con sensibilità algica assente o dubbia come alter-


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nativa all’eutanasia. Nei pazienti con sensibilità algica profonda conservata, il trattamento chirurgico può consistere in una emilaminectomia, nei casi in cui la mielografia indica una compressione extradurale, oppure nel riallineamento e stabilizzazione per le dislocazioni vertebrali e le lesioni instabili o considerate tali. Nei soggetti con sensibilità algica profonda dubbia o assente, senza evidente interruzione del midollo spinale, il trattamento chirurgico va effettuato nei casi in cui il proprietario accetta e possiede le condizioni idonee per gestire un recupero molto lento o un non recupero. Le tecniche chirurgiche di stabilizzazione che si possono applicare sono diverse e la scelta dipende da molti fattori tra cui il segmento spinale interessato, la compressione sul tessuto nervoso, la taglia e l’età dell’animale, l’attrezzatura e l’esperienza del chirurgo ed infine la possibilità del proprietario di seguire il decorso postoperatorio. I mezzi di stabilizzazione a disposizione sono placche dorsali di plastica o placche metalliche sui corpi vertebrali, chiodi e viti applicati da soli o associati a polimetilmetacrilato o cerchiaggi e vari tipi di fissatori esterni. Gli scopi comuni delle tecniche chirurgiche sono la decompressione del tessuto nervoso e la stabilizzazione della colonna vertebrale nel punto di lesione. La fissazione transarticolare già descritta dall’Autore (X Congresso annuale Società Italiana di Neurologia Veterinaria – Cremona 1998) si applica, quando possibile, come tecnica ausiliaria della tecnica adottata per la stabilizzazione definitiva. La sensibilità algica profonda è un importante dato prognostico anche nelle lesioni traumatiche spinali ed in generale quando assente subito dopo il trauma è improbabile il recupero neurologico. Lo scopo della relazione è di presentare le varie tecniche applicate, le relative difficoltà e complicazioni e i risultati ottenuti in 25 casi di fratture e lussazioni spinali trattati presso la nostra struttura.

MATERIALI E METODI Gli animali oggetto del nostro studio sono stati sottoposti a visita clinica ed accertamenti finalizzati ad escludere lesioni associate, quindi sono stati effettuati visita neurologica ed esame radiografico al fine di classificare i pazienti in 5 gradi di gravità in accordo con la classificazione di Griffiths del 1982. Sulla base dell’esame neurologico e della stabilità della lesione quindi sono stati trattati conservativamente o chirurgicamente. Sono stati esclusi gli animali sottoposti a eutanasia o quelli con fratture sacrococcigee o coccigee. Gli interventi chirurgici adottati sono descritti nei risultati. La valutazione finale è stata eseguita sulle complicanze, sui tempi di recupero e sul grado di recupero. Riguardo a questa ultima voce si sono descritti quattro gradi: pessimo (nessun recupero e/o dolore e/o deficit funzionali gravi), discreto (senza dolore e/o con paresi lieve e/o atassia e deficit propriocettivi), buono (solo leggeri deficit propriocettivi), ottimo (nessun segno neurologico).

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RISULTATI I 19 cani avevano età compresa tra i 4 mesi ed i 7 anni e peso tra 1,5 e 24 kg, i 6 gatti avevano età tra i 5 mesi e i 4 anni e peso tra 1,4 e 4,5 kg. In base allo stato neurologico gli animali erano così ripartiti: 1 di 1° grado, 4 di 2° grado, 15 di 3° grado e 4 di 4° grado. Il 50% dei pazienti presentava lesioni associate. In 10 soggetti la lesione spinale era rappresentata da una lussazione/sublussazione di cui 3 erano atlanto-assiali, 2 nel tratto toracico, 1 tra T13 e L1, 3 nel tratto lombare, 1 tra L7 e S1. I rimanenti 15 soggetti presentavano fratture vertebrali di cui 1 cervicale, 3 toraciche e 11 lombari (9 casi di fratture a carico della L7). Il trattamento conservativo con riposo in gabbia è stato adottato in 1 gatto con sublussazione C7-T1; mediante splint esterno in 2 cani, di cui 1 con frattura stabile della T13 ed 1 con sublussazione vertebrale, ed 1 gatto con sublussazione tra T13 e L1. 1 gatto con frattura consolidata trattata conservativamente e callo compressivo è stato sottoposto a emilaminectomia decompressiva. In 13 soggetti sono stati applicati viti e/o chiodi nei corpi vertebrali e polimetilmetacrilato, 2 gatti sono stati trattati con chiodo di Kirschner sagomato attorno ai processi spinosi e cerchiaggi, 2 cani con fissatore esterno. I tre cani con lussazione atlanto-assiale sono stati trattati uno con cerchiaggio dorsale tra arco vertebrale di C1 e processo dorsale di C2, 1 con viti ventrali tra C1 e C2 e 1 con viti e cemento ventrali. Il cane con cerchiaggio dorsale per la lussazione atlanto assiale è deceduto durante la chirurgia, un soggetto di grado quattro trattato chirurgicamente con emilaminectomia e stabilizzazione con viti e cemento ha ripreso a deambulare dopo due mesi dalla chirurgia con recupero discreto, un soggetto ha manifestato dolore per un mese e ha avuto un recupero discreto dopo la cessazione del dolore, tutti gli altri soggetti hanno avuto un recupero neurologico da discreto (1 soggetto) a buono (3 soggetti) e ottimo (18 soggetti) nel tempo di 1 mese dalla chirurgia. La complicazione più importante è stata nel soggetto che ha avuto dolore con la perdita di tenuta di parte dei chiodi nei corpi vertebrali trattato solo con il riposo.

Bibliografia 1.

2.

3.

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Indirizzo per la corrispondenza: Raffaele Giardini - Clinica Veterinaria”Città di Voghera” Via Cappelletta 2, 27058 Voghera (PV) - Tel/fax: 0383367226 clinicav3@CLINICAVETERINARIADIVOGHERA.191.it


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La comunicazione del gatto Sabrina Giussani Med Vet, Dipl Comportamentalista ENVF, Busto Arsizio (MI)

Il territorio La nozione di territorio è stata inizialmente utilizzata a proposito del comportamento degli uccelli: Altum nel 1898 verificò che il canto di questi animali permetteva l’organizzazione e la difesa dello spazio occupato. Successivamente il concetto di territorio è stato sempre più equiparato a quello di proprietà privata tanto che Heymer nel 1977 definì “il territorio come una superficie posta all’interno del dominio vitale di un animale delimitata da marcature e difesa dai conspecifici”. Nel 1979 Waser e Wiley proposero per un gran numero di specie animali la definizione di campi territoriali, un concetto dinamico che si opponeva a quello piuttosto statico di territorio. Secondo P. Pageat, per quanto riguarda il gatto domestico, è possibile distinguere tre tipologie di campi territoriali: i campi di attività, i campi di isolamento e il campo di aggressione. I campi di attività sono le zone in cui il gatto svolge una attività precisa come la caccia (comportamento di alimentazione), il gioco, l’eliminazione. Nei campi di isolamento l’animale si apparta ed evita il contatto. Di solito ci sono al massimo due o tre campi di isolamento, dislocati preferibilmente in alto: il più classico è il luogo di riposo che serve anche da rifugio in caso di necessità. Il luogo di eliminazione, soprattutto in soggetti poco socievoli, può essere considerato un campo di isolamento. Per quanto riguarda il campo di aggressione, non si tratta di una vera e propria zona ma di uno spazio di dimensione variabile, incentrato sull’individuo. Qualsiasi intrusione provoca quasi istantaneamente un comportamento di aggressione. Le dimensioni di questa area variano in funzione dello stato emozionale e fisiologico dell’animale: quando un gatto è ferito o “impaurito” è notevolmente ampia, mentre quando è “tranquillo” assume dimensioni molto ridotte. I campi territoriali sono collegati fra loro per mezzo di “invisibili” sentieri che il gatto organizza nel corso delle differenti attività di esplorazione e che si consolidano a partire dalla pubertà. Il comportamento dei gatti che vivono in condizioni di semilibertà o in appartamento è stato oggetto di un ridotto numero di osservazioni. Secondo alcune osservazioni effettuate da J. W. S. Bradshaw utilizzando radio–collari in alcuni gatti domestici sterilizzati di sesso maschile e femminile, la dimensione del territorio si aggira intorno a 0,27 - 0,45 ettari per ciascun soggetto.

La comunicazione territoriale L’organizzazione e la funzionalità dell’insieme del territorio sono assicurate da precise segnalazioni che costituiscono la comunicazione territoriale: i vocalizzi, i segnali visivi (le

posture, le graffiature, le marcature urinarie) e olfattivi (i segnali di identificazione e di allarme - feromoni percepiti dalla mucosa olfattiva che tappezza l’organo vomeronasale di Jacobson -) permettono al gatto di “orientarsi” nell’ambiente e allo stesso tempo costituiscono il mezzo di comunicazione con i conspecifici e, secondo alcuni Autori, anche con gli esseri umani. Affinché un gattino sia correttamente socializzato ai conspecifici è necessario che venga a contatto con gatti almeno fino alla quinta – settima settimana di vita e questo processo sottintende una corretta gestione della comunicazione. Secondo Turner la socializzazione intraspecifica è raggiunta con maggior facilità quando il gattino proviene da una cucciolata di almeno quattro piccoli, rimane con i fratelli fino all’età di dodici settimane e se, in questo lasso di tempo, viene frequentemente in contatto con gatti adulti. Il gatto domestico utilizza un’ampia gamma di suoni rispetto agli altri Carnivori: secondo J. W. Bradshaw questo animale è in grado di emettere ben undici tipi di messaggi vocali differenti che accompagnano soprattutto il comportamento di aggressione territoriale e il comportamento sessuale. Fino a qualche anno fa si pensava che questi segnali fossero frutto della domesticazione e, quindi, rivolti essenzialmente verso l’uomo. In seguito numerosi Autori hanno riscontrato che i vocalizzi possiedono una grande importanza anche all’interno dei gruppi sociali costituiti dai soli conspecifici. Fino ad oggi però non è stato realizzato alcuno studio scientifico dei segnali acustici prodotti dal gatto. Per quanto riguarda i segnali visivi è possibile evidenziare le posture e i segnali territoriali (le marcature urinarie e le graffiature). Secondo P. Pageat è possibile suddividere le posture in “posture significative di per sé” e in “posture di sottolineatura”. Le prime portano direttamente l’informazione principale, come la sequenza del comportamento di aggressione per irritazione e territoriale. P. Leyhausen ha analizzato soprattutto i comportamenti di aggressione offensivi e difensivi e la maggior parte delle attuali conoscenze nascono da queste osservazioni. Il comportamento di aggressione difensiva (o per irritazione) è caratterizzato dalla flessione degli arti, le orecchie sono appiattite sul capo e portate lateralmente e il corpo bascula progressivamente fino a porsi su di un fianco o in posizione supina. La coda scompare tra gli arti posteriori. L’Autore ha inoltre evidenziato un grande numero di posizioni intermedie: il gatto può variare molto rapidamente la propria postura in relazione alle modificazioni dello stato emozionale. Quando il gatto effettua un comportamento di aggressione offensiva (o territoriale) il tronco si solleva sempre più grazie all’estensione degli arti anteriori e posteriori, il dorso assume lentamente la forma ad u rovesciata, le orecchie sono appiattite sulla testa e portate all’indietro. La coda è inizialmente abbassata mentre in seguito si solleva sempre più fino


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ad assumere la posizione concava. Se l’intruso non si allontana il gatto può avvicinarsi rapidamente “di traverso”. Non sono stati effettuati studi scientifici in relazione al messaggio portato dal movimento della sola punta della coda e dallo “scodinzolio” mentre la maggior parte degli Autori è concorde nel ritenere che la coda tenuta in posizione verticale costituisca un segnale di “saluto” diretto ai conspecifici o agli esseri umani che fanno parte del gruppo sociale. I segnali territoriali sono costituiti dalle graffiature e dalle marcature urinarie. Le graffiature svolgono prevalentemente una funzione di comunicazione attraverso la combinazione di segnali visivi (le tracce lasciate dai graffi) e olfattivi (i feromoni escreti dalle ghiandole interdigitali). Le graffiature sono realizzate dall’alto verso il basso con le mani e la particolare postura dell’animale (arti estesi, dorso eretto) viene chiamata “postura di sottolineatura” poiché evidenzia la presenza di un messaggio feromonale. Indicano la presenza di un occupante abituale di quel territorio e vengono effettuate, indipendentemente dalla presenza di conspecifici, in luoghi strategici come ad esempio supporti verticali bene in vista in vicinanza dei campi di isolamento, di caccia (o di alimentazione), di eliminazione e nei luoghi di passaggio tra l’interno e l’esterno dell’abitazione. Le marcature urinarie sono realizzate emettendo uno spot di urina del diametro di 10-20 centimetri (che costituisce un segnale visivo) circa ad un’altezza di 30-50 centimetri da terra su di un supporto verticale. Sono caratterizzate da una specifica sequenza comportamentale che le differenzia dagli altri tipi di minzione: il gatto ricerca olfattivamente il luogo in cui effettuerà lo spot, rimane poi in stazione quadrupedale (non si accuccia), muove alternativamente i piedi e, mentre la coda tenuta in posizione verticale vibra, effettua la marcatura urinaria. In seguito esplora olfattivamente i feromoni emessi grazie al comportamento del Flehmen. Le marcature urinarie di tipo reattivo indicano la presenza di un occupante abituale del territorio e sono deposte nei pressi dell’intersezione tra una via di passaggio (sentiero) ed un campo di attività mentre quelle di tipo sessuale sono effettuate in prossimità delle uscite verso l’esterno (porte e finestre), spesso accompagnate da vocalizzi. Le marcature urinarie vengono effettuate sia dai maschi sia dalle femmine anche se la frequenza di questo comportamento è maggiore negli individui di sesso maschile. L’orchiectomia e l’ovariectomia sono in grado di inibirne la comparsa solo se effettuate prima del periodo pubertario. Quando l’intervento chirurgico di sterilizzazione non è realizzato entro 8 - 15 giorni dall’esecuzione delle prime marcature da “adulto”, il comportamento permane anche in seguito. La sterilizzazione “tardiva” può provocare la diminuzione della frequenza delle marcature e l’attenuazione dell’odore quando emesse da un individuo di sesso maschile, poiché legato al deterioramento di alcuni componenti aromatici presenti nello sperma. I segnali di identificazione o di familiarità sono costituiti dai “feromoni facciali” deposti mediante lo sfregamento della parte laterale del viso (dalla commessura labiale fino alla zona di cute glabra posta a livello delle tempie), sugli oggetti e sugli esseri viventi esplorati che in questo modo divengono conosciuti e non rappresentano più un pericolo. La maggior parte di questi messaggi non solo agisce sui conspecifici ai quali sono diretti ma anche sullo stesso individuo che li ha emessi. Gli studi sinora effettuati hanno permesso

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di determinare l’esistenza di almeno tre secrezioni che possono essere messe in relazione con una situazione funzionale precisa: F2 è la secrezione deposta durante l’eccitazione sessuale soprattutto dal gatto maschio in presenza di una femmina in proestro o in estro, F3 è la secrezione deposta sugli oggetti che fanno parte dell’ambiente in cui il gatto vive (soprattutto su quelli che si trovano lungo i sentieri), F4 è la secrezione deposta sui conspecifici appartenenti alla stessa colonia, sugli animali e sugli esseri umani che fanno parte “del gruppo famigliare” (allomarcatura). La deposizione e la successiva percezione della frazione F3 produce nell’individuo un effetto “rassicurante” e diminuisce la probabilità di apparizione di risposte comportamentali legate alla paura. Inoltre rilancia il comportamento alimentare ed esploratorio mentre inibisce il comportamento di marcatura urinaria di tipo reattivo e in minor misura sessuale. I segnali di allarme sono rappresentati da feromoni secreti dai sacchi anali e dalle ghiandole poste nei cuscinetti plantari. La percezione di queste molecole provoca reazioni di evitamento e di fuga. Agiscono sia sull’individuo che li ha emessi, sia sui conspecifici e possono anche costituire una comunicazione interspecifica.

Il comportamento sociale Fino ad alcuni anni fa la maggior parte dei ricercatori considerava il gatto come un animale solitario, in grado di creare relazioni con i conspecifici solo in occasione dell’accoppiamento e della cura della prole. Recenti studi hanno evidenziato che il sistema sociale del gatto può variare in funzione della situazione ambientale: individui solitari, piccoli gruppi, colonie, matriarcati. Kerby e Macdonald hanno evidenziato la presenza di gruppi di gatti, definiti colonie, che si costituiscono soprattutto nelle città in relazione alle risorse alimentari distribuite dagli esseri umani. I gatti che compongono le colonie sono soprattutto femmine imparentate tra loro, i piccoli e alcuni maschi non ancora maturi sessualmente mentre i maschi puberi vivono ai confini del gruppo. All’interno della colonia le femmine, soprattutto le coppie madre – figlia, collaborano tra loro per quanto riguarda la cura dei piccoli mentre nei gruppi composti da un ridotto numero di individui tutte gli individui di sesso femminile partecipano alle cure parentali. La madre punisce i morsi “non controllati”, le corse sfrenate e i vocalizzi eccessivi infliggendo piccoli colpetti sul naso del gattino o graffiandogli l’addome con gli arti posteriori P. Leyhausen ha dimostrato l’esistenza anche di gruppi costituiti da soli maschi adulti. Anche se il comportamento dei gatti che vivono nelle nostre case è stato oggetto di un ridotto numero osservazioni, alcuni Autori hanno evidenziato relazioni stabili e strutturate tra i componenti del gruppo che fanno supporre l’esistenza di una società non ancora completamente conosciuta. All’interno dei gruppi di gatti, sia in condizione di libertà sia di vita domestica, non sembra presente un’organizzazione sociale di tipo gerarchico così come invece appare nel cane. Lehyausen e Dehasse parlano di gerarchia sociale relativa o statistica: “Primo arrivato, meglio servito”. In funzione del luogo (campo di attività o di isolamento) e del momento della giornata il gatto che ha accesso ad una risorsa ne mantie-


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ne il possesso fino a quando ha terminato di utilizzarla. In alcuni gruppi, soprattutto costituiti da più individui, può instaurasi una relazione di tipo “dispotico”: uno tra i gatti spesso rivendica l’accesso al cibo e l’occupazione di alcuni luoghi di riposo allontanandone i “contendenti”. Alcuni Autori hanno evidenziato la presenza di un individuo definito omega che svolge il ruolo di “valvola di sfogo” del gruppo poiché nei suoi confronti vengono effettuati comportamenti di aggressione che hanno lo scopo di “scaricare la tensione”. Allo stesso tempo due o più gatti possono creare una relazione preferenziale: in questo caso condividono il luogo di riposo ed è presente il comportamento di leccamento reciproco (allogrooming). Il comportamento di “sfregare a vicenda” le guance, i fianchi e la coda contribuisce alla diffusione di un odore caratteristico del gruppo sociale che inibisce il comportamento di aggressione territoriale. Crowell-Davis SL. osservando le interazioni esistenti in una popolazione composta da 28 gatti ha evidenziato che, considerando la relazione tra due gatti (diade), quello più pesante aveva più frequentemente un grado più elevato in ogni gerarchia. Sulla base di informazioni diadiche, il gatto più anziano era più spesso vincente nelle interazioni agonistiche. I maschi avevano una media sul livello di dominanza più elevata rispetto alle femmine; tuttavia il sesso non aveva effetto sulla gerarchia determinata attraverso le interazioni sulla ciotola del cibo. Invece, secondo P. Pageat, la dominanza non sembra essere un concetto rilevante nella descrizione e nella comprensione delle relazioni sociali feline. Cercare di identificare un dominante o un sottomesso non ha senso e questa confusione potrebbe essere responsabile degli scarsi risultati che spesso vengono ottenuti nel trattamento di alcuni di questi casi.

La comunicazione con l’uomo Per molto tempo la prova indiscutibile e più antica della convivenza gatto - uomo risiedeva in Egitto. Soprattutto la sottospecie africana, Felis sylvestris libyca, è stata l’oggetto del processo di domesticazione e tale processo sembra essere avvenuto grazie al lavoro svolto dai gatti come cacciatori di topi nei granai. Recentemente sull’isola di Cipro è stata rinvenuta una sepoltura datata 9000 a.c. dove un essere umano si trova in compagnia di un gatto di taglia abbastanza importante. Il gatto, così come l’uomo, appare ricoperto da conchiglie, piante, pietre preziose e questo particolare potrebbe testimoniare il carattere intimo della relazione. L’origine della convivenza, quindi, potrebbe non essere di tipo utilitaristico ma affettivo. Numerosi Autori definiscono il gatto un animale sociale facoltativo, in grado di creare relazioni con ciascun componente del gruppo formato da conspecifici, esseri umani o altri animali. La socializzazione nei confronti degli esseri umani è fondamentale al fine di creare una corretta relazione tra il gattino e il proprietario. Questo processo avviene grazie alla interazione tattile e vocale con il gattino in un contesto positivo: somministrare semplicemente il cibo non è sufficiente. Il gattino dovrà essere ripetutamente manipolato da uomini, donne e bambini in presenza della madre solamente se quest’ultima è correttamente socializzata alla specie umana, altrimenti i piccoli assoceranno le reazioni di evitamento e di fuga alla

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presenza dell’uomo. Il processo di apprendimento nel periodo sensibile raggiunge l’apice dalla seconda alla settima settimana di vita dei gattini e decresce rapidamente fino alla decima – undicesima settimana. Al di là della dodicesima – quattordicesima settimana di vita la socializzazione interspecifica appare pressoché irrealizzabile. Inoltre, per migliorare la tolleranza al contatto dei gattini, è consigliabile accarezzare e massaggiare ripetutamente il ventre della partoriente, soprattutto nell’ultimo terzo della gravidanza poiché la sensibilità tattile è già presente al 21° giorno di gravidanza. I gatti utilizzano un grande numero di vocalizzi anche nella relazione con il proprietario. Moelk nel 1944 ha cercato di mettere in relazione i messaggi emessi con il significato attribuito dagli esseri umani ma fino ad oggi non è stato creato alcun codice che permetta l’identificazione di questi segnali. Per lungo tempo le fusa sono state considerate la manifestazione più evidente della relazione con l’essere umano; ancora oggi il significato di questo suono è conosciuto solo in parte. Kiley – Worthington ha evidenziato che possono essere emesse in occasione di un contatto con il proprietario o con un conspecifico, durante il comportamento di caccia, di aggressione o sessuale ma anche in occasione della percezione di un dolore molto intenso. Turner nel 1991 ha osservato che, in generale, le interazioni tattili inziate dall’animale durano più a lungo rispetto a quelle iniziate dal proprietario mentre Mertens evidenzia che il comportamento di “strusciarsi” sui proprietari è più frequente nei gatti che vivono in condizioni di libertà rispetto a quelli che vivono in appartamento. La stessa cosa accade per quanto riguarda i gatti che vivono soli rispetto a quelli che convivono con i propri simili. Frequentemente il gatto crea con un essere umano appartenente al gruppo famigliare una relazione definita “preferenziale”, caratterizzata dalla ricerca di prossimità, dalla condivisione del luogo di riposo, dall’aumento della frequenza di esecuzione del comportamento di sfregamento delle guance e dei fianchi. Ritengo che il gatto consideri il proprietario non come una parte del territorio ma come un componente (appartenente ad una specie differente) del gruppo. La comunicazione realizzata nei confronti degli esseri umani appare simile a quella messa in atto nei confronti dei conspecifici anche se al momento attuale non ci sono studi scientifici a questo proposito.

Bibliografia J. W. S. Bradshaw, “Il comportamento del gatto”, Edagricole, 1996; P. M. Waser, R. H. Wiley, “Mechanisms and evolution of spacing in animals”, 1990; P. Pageat, “Is the concept of dominance relevant in cat? Preliminary results of food competition test” (pg.19-23) Atti del “second annual meeting of the European College of Veterinary Behavioural Medicine-Companion Animals Marsiglia, ottobre 2005; R. Colangeli, S. Giussani, “Medicina comportamentale del cane e del gatto”, Poletto Editore, Gaggiano 2004; RJ Knowles, Curtis TM, Crowell-Davis SL, “Correlation of dominance as determined by agonistic interactions with feeding order in cats”, 2004.

Indirizzo per la corrispondenza: Sabrina Giussani E-mail: sgiuss@mac.com


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Medicina parodontale: perché la malattia parodontale è così comune e perché è importante negli animali da compagnia (ripercussioni sistemiche della malattia parodontale) Colin Harvey DVM, BVSc, MRCVS, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Philadelphia, USA

La “malattia parodontale” o “periodontopatia” indotta dalla placca viene spesso distinta in gengivite (infiammazione della gengiva) e periodontite (infiammazione del legamento periodontale e dell’osso alveolare). La periodontite è un’osteomielite dell’osso alveolare e viene riconosciuta come “recessione gengivale” o formazione di tasche profonde. Sino ad oggi, nelle tasche periodontali del cane e del gatto sono state identificate circa 500 specie batteriche. Quando la pulizia per sfregamento determinata dall’occlusione è insufficiente, il biofilm della placca dentale sullo smalto si ispessisce e va incontro a maturazione. Nella sua parte più profonda, l’ossigeno viene soffocato dalla crescita attiva dei microrganismi aerobi e si instaura un ambiente anaerobio. I “periodontopatogeni” sono i batteri anaerobi specifici ritenuti la causa della gengivite e della periodontite. Un microrganismo bastoncellare anaerobio negativo, Porphyromonas gingivalis, è considerato il periodontopatogeno chiave nell’uomo; il suo equivalente nei mammiferi viene indicato con il nome di Porphyromonas gulae. Nelle tasche periodontali sono molto comuni le spirochete. L’effetto patologico iniziale a livello locale è l’infiammazione dei tessuti gengivali. Nella zona vengono attratti i neutrofili, che si muovono sulla superficie epiteliale attraverso i grandi spazi intercellulari dell’epitelio del solco e fagocitano e digeriscono la placca batterica. Molti di questi neutrofili vanno incontro ad un’eccessiva replezione e “scoppiano”, rilasciando tossine batteriche ed enzimi distruttivi e citochine. Quando l’igiene orale è scarsa, la carica batterica è in costante aumento. Ciò incrementa la risposta infiammatoria e la miscela di batteri e prodotti di degradazione cellulare diventa distruttiva, esercitando il suo effetto sui tessuti periodontali. Lo strato epiteliale del solco si ulcera, esponendo maggiormente all’invasione batterica il tessuto connettivo, più vulnerabile,. Man mano che la miscela distruttiva flogistico-infettiva scende sempre più in profondità nei tessuti, il riassorbimento indotto dall’infiammazione erode l’osso alveolare in modo da determinare una periodontite (osteomielite dell’osso alveolare). Il perdurare della perdita ossea provoca l’instabilità dell’attacco del dente. Il risultato è la mobilizzazione del dente, che durante la masticazione viene quindi spinto contro l’osso rimasto, e poi la sua caduta; quest’ultima avviene solo quando vicino alle radici del primo dente mandibolare di alcuni cani di razza toy è rimasta solo una striscia lunga e sottile di osso mandibolare. È possibile la frattura patologica della mandibola. Nell’arco di tempo tipicamente lungo che va dall’inizio della gengivite e l’eliminazione finale del dente, i batteri che si trovano adiacenti ai capillari possono finire per causare una batteriemia. Quest’ultima è frequente nei pazienti con gengivite e periodontite attiva e negli animali altrimenti sani viene rapidamente eliminata dal sistema reticoloendoteliale. Tuttavia, sia nell’uomo che nel cane esiste un’associazione fra la gravità della periodontopatia e le anomalie a carico degli organi distanti e una

recente indagine condotta nella specie canina ha dimostrato che gli effetti sistemici possono essere fatti regredire dal trattamento periodontale. Anche nel caso di un cane che collabora non possiamo effettuare un sondaggio affidabile delle tasche periodontali in un paziente sveglio. La semplice “profondità della tasca” è una misura inaffidabile; può sotto- o sovrastimare l’estensione della periodontite per effetto, rispettivamente, di una recessione o di un’iperplasia della gengiva. Possiamo riconoscere la gengivite e la recessione gengivale; tuttavia, nel cane si ha spesso una scarsa correlazione fra la gravità della gengivite visibile e l’estensione della periodontite attiva o pregressa. La prevenzione è volta a ritardare l’accumulo di placca e tartaro o a sopprimere gli effetti istodistruttivi della risposta infiammatoria. Che cosa è disposto a fare il proprietario e sino a che punto è in grado di farlo e che cosa è disposto ad accettare il paziente? Lo standard aureo resta la spazzolatura giornaliera. La soluzione migliore è una combinazione di approcci. Le possibili opzioni sono rappresentate da: 1. Stimolazione dell’attività di masticazione naturale, ad es. mediante l’uso costante di prodotti e diete da masticare che siano efficaci per ritardare l’accumulo di placca e tartaro. Si veda il VOHC Accepted Seal® (www.VOHC.org) 2. Effetto antiplacca di tipo chimico. L’efficacia a lungo termine della clorexidina nel cane è ben documentata. In commercio si trovano anche molti altri prodotti antiplacca, benché la documentazione sulla loro efficacia sia scarsa o assente. 3. I trattamenti superficiali prolungano il vantaggio dell’ablazione professionale. La lucidatura della superficie dentale dopo l’ablazione del tartaro rappresenta lo standard. Trattamenti più recenti sono l’applicazione di un materiale al silicone o simil-ceroso sulla superficie del dente. 4. Prevenzione dell’accumulo di tartaro per via meccanica (mediante ablazione professionale) o tramite un effetto chimico (i polifosfati sono dotati di un effetto di chelazione del Ca++ che ritarda la deposizione dei sali di calcio della saliva o della dieta sotto forma di tartaro) 5. Correggere i “fattori dell’ospite” che possono esacerbare la periodontite (ad es., malattia sistemica) 6. Prevenire l’accumulo o ridurre gli effetti dei batteri patogeni. La terapia antibatterica sistemica non è consigliata per il trattamento a lungo termine. L’uso di un antibiotico posto in un carrier in una tasca periodontale ha un’efficacia moderata. Un recente lavoro su P. gulae nel cane dimostra che l’approccio mediante un vaccino può essere efficace.

Bibliografia Harvey CE: Periodontal Disease: Understanding the options. Veterinary Clinics of North America – Small Animal Practice. 35; 819-836, July 2005.


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Prevenzione e trattamento della malattia parodontale nel cane e nel gatto Colin Harvey DVM, BVSc, MRCVS, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Philadelphia, USA

Il trattamento della malattia parodontale o periodontopatia consiste nella prevenzione e, quando è presente un’estesa periodontite (perdita di osso alveolare), nella terapia chirurgica o di altro tipo per eliminare le tasche o ristabilire un manicotto gengivale funzionale. Nelle sedi gravemente colpite, l’unico trattamento praticabile è l’estrazione. Eseguire un intervento di terapia periodontale non è come castrare un animale giovane e sano: tutti i pazienti presentano caratteristiche esclusive per quanto riguarda l’estensione della deposizione di placca/tartaro, la risposta tissutale e gli effetti locali e la maggior parte degli animali con periodontopatia è di media età o anziana. Il trattamento periodontale sotto anestesia, effettuato senza discutere preventivamente con il proprietario le potenziali procedure necessarie, è una causa comune di lamentele e insoddisfazione da parte della clientela ed in molti casi esita probabilmente in un risultato macroscopicamente insufficiente perché il tempo dedicato ad ogni dato soggetto non è abbastanza lungo per attuare le procedure indicate. Benché alcuni tecnici veterinari possano effettuare in modo efficace l’ablazione del tartaro dai denti, occorre tenere presente che la gengivite e la periodontite sono “malattie” e che la diagnosi e la determinazione del trattamento più indicato sono funzioni esclusive della professione veterinaria, che devono essere svolte da un veterinario abilitato. Prima dell’anestesia occorre determinare due fattori: 1. Il paziente è abbastanza sano da tollerare la durata dell’anestesia che potrebbe essere necessaria per l’ablazione/ lucidatura dei denti e per il trattamento specifico di ogni singolo dente gravemente colpito? 2. Se può essere necessario un trattamento periodontale, il proprietario è disposto ad attuare costantemente e per un periodo prolungato le cure a casa ed è in grado di farlo? Una volta che il paziente è sotto anestesia, risulta di importanza critica l’esame della parte. In alcuni casi, prima di poter esaminare un dente può essere necessario l’ablazione. In una bocca con una dentizione completa bisogna prendere 42 decisioni separate – una per ciascun dente –, basate sulla peggiore fra le radici colpite di quel dente. Ogni dente deve essere sottoposto ad un triage che permetta di classificarlo in una delle seguenti categorie: • Il dente non presenta periodontite moderata o grave: l’unico intervento professionale richiesto è l’ablazione/lucidatura. • Il dente può essere conservato, ma necessita di un trattamento periodontale specifico, oltre all’ablazione/lucidatura • Il dente è troppo alterato per essere mantenuto: l’unica opzione è l’estrazione. È utile distinguere fra le procedure “preventive” e quelle “terapeutiche”, che rientrano entrambe sotto la voce di “trattamento” periodontale. L’ablazione/lucidatura dentale è una procedura preventiva: rimuove la causa dell’infezione e consente ai tessuti

di ripristinarsi per guarire. I moderni apparecchi ad ultrasuoni, impiegati con punte studiate per l’ablazione sottogengivale, hanno reso più facile e più piacevole da eseguire questa operazione. Questi apparecchi non hanno eliminato la necessità di essere accurati, e l’ablazione dentale in un paziente che presenti anche solo degli accumuli moderati di tartaro richiede tempo. Una procedura completa di ablazione/lucidatura prevede l’esame periodontale (compreso il charting dentale e le radiografie dei denti, se indicati), l’ablazione sopra- e sottogengivale, l’esame del dente (corona e radice), la lucidatura di tutte le superfici dentali non adese ad altri tessuti, l’irrigazione sottogengivale e la prescrizione delle cure da effettuare a casa. In un paziente umano con grave periodontite, l’ablazione/ lucidatura è una procedura di pretrattamento – la decisione relativa all’effettivo trattamento della periodontite o della perdita di tessuti molli viene spesso rinviata di un paio di settimane fino a che non sia chiaro l’effetto della procedura di ablazione/lucidatura. L’esame postablazione indica se e quale sia lo specifico trattamento chirurgico necessario. La necessità di ricorrere all’anestesia per poter effettuare un esame orale/dentale completo negli animali limita ciò che possiamo sapere dei nostri pazienti prima di indurre l’anestesia. In molti casi, le procedure da effettuare su più stadi sono poco pratiche o inaccettabili per il proprietario. Quindi, anche in alcuni pazienti che collaborano, ai dentisti veterinari viene richiesto di effettuare la diagnosi e un trattamento completo in un’unica sessione e l’esame per determinare la necessità di un trattamento chirurgico viene effettuato su tessuti che non sono sani. I pazienti con periodontite estesa possono venire trattati con un antibiotico per 7-10 giorni prima dell’anestesia, in modo che al momento della valutazione i tessuti siano meno infiammati. Quando è presente un’estesa periodontite o una perdita di tessuti molli, il “trattamento” è rappresentato dalla correzione della perdita esistente dell’attacco, in modo da stabilizzare quello che resta e prevenire le ulteriori perdite tissutali, oppure dall’estrazione del dente. Esistono molte opzioni terapeutiche che consentono di preservare i denti che hanno subito gravi perdite dell’attacco. La scelta della specifica procedura da utilizzare dipende da parecchi fattori, che comprendono l’estensione e le condizioni di salute della gengiva che circonda il dente, l’entità della perdita dell’attacco, la mobilità del dente e l’esposizione della biforcazione (perdita di osso alveolare fra le radici dei denti che ne hanno più d’una). Il trattamento chirurgico (diverso dall’estrazione) è sempre accompagnato da approfonditi interventi di ablazione e lucidatura.

Bibliografia Harvey CE: Periodontal Disease: Understanding the options. Veterinary Clinics of North America – Small Animal Practice. 35; 819-836, July 2005.

Indirizzo per la corrispondenza: Colin Harvey - VHUP 3113 3900 Delancey Street - Philadelphia, PA 19104, USA


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Chirurgia del cavo orale: le piccole cose che fanno una grande differenza Colin Harvey DVM, BVSc, MRCVS, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Philadelphia, USA

I tessuti orali sono ben vascolarizzati, guariscono più rapidamente della cute e prosperano in un ambiente contaminato. La chirurgia orale dovrebbe essere facile in confronto a quella che si esegue su altre strutture corporee. Ed è così, se si superano i problemi derivanti dall’interfaccia fra l’osso ed i tessuti molli e dagli effetti complicanti dei denti nel campo operatorio. La maggior parte degli interventi di chirurgia orale riguarda la gengiva, sia quando si opera nell’ambito di un trattamento periodontale, sia quando si eseguono riparazioni di un trauma, estrazioni o rimozioni di tumori. La gengiva è spessa, non elastica e saldamente adesa all’osso sottostante. A livello della giunzione mucogengivale, però, si modifica bruscamente trasformandosi in un epitelio elastico più sottile e lassamente unito all’osso sottostante; nel tessuto connettivo sono presenti grandi fasci neurovascolari.

Principi di chirurgia orale Incisione: pianificate la linea di incisione che intendete effettuare ed attenetevi a quanto avete pianificato al momento di tagliare davvero. Quando lavorate intorno ai denti, comprendete le papille interdentali ed evitate di realizzare lunghi lembi stretti. Utilizzate una lama da bisturi nuova con un controllo a due mani – è molto facile che il bisturi venga deviato e cambi direzione quando viene premuto contro l’osso. Praticate una sola incisione piuttosto che una serie di tagli frastagliati. Non usate un elettrobisturi per praticare incisioni destinate ad essere suturate. Tenete al sicuro le principali strutture neurovascolari (infraorbitali, mentali) mentre praticate l’incisione. Dissezione: Servitevi di uno scollaperiostio per separare la gengiva incisa dall’osso. Ciò richiede una mano ferma unita ad un controllo eccellente. Mantenete un’angolazione di circa 30° fra lo strumento e la superficie dell’osso, stirando e separando la gengiva dai tessuti sottostanti senza lacerarla. Tenete a mente la localizzazione della giunzione mucogengivale – la mucosa alveolare è molto più cedevole e lo scollaperiostio può scivolare e lacerare il tessuto se non viene controllato. Durante l’intervento che seguirà la realizzazione del lembo, tenete sollevata la gengiva e mantenete umido l’osso sottostante. Controllo dell’emorragia: può darsi che non sia possibile effettuare la legatura locale perché il vaso si trova in un canale osseo o si è ritirato in un tessuto adiacente che contiene strutture nervose di importanza critica. Per le arterie mandibolari e palatine che non sono accessibili per la legatura utilizzare la compressione. Se il sanguinamento orale è fuori controllo, si deve ricorrere alla legatura della o delle arterie carotidi. Limitate l’uso dell’elettrochirurgia alle sedi di tessuto connettivo che non siano molto vicine a strutture nervose imponenti.

Chiusura: verificate la superficie dell’osso – levigare le prominenze scabre con una grossa fresa rotonda in modo che non lacerino i tessuti molli, dal momento che questi si muovono dopo l’intervento. Pianificare le suture in modo che si riformino i margini gengivali dei denti superstiti. Se esiste la possibilità di applicare i punti in modo che l’incisione non si venga a trovare sopra uno spazio vuoto, utilizzatela, anche se ciò significa allargare la linea di incisione in modo tale che il tessuto possa venire ruotato in modo da allontanarlo dalla cavità. Coprite i difetti ossei suturando i tessuti apponendoli senza tensione. Se necessario, scollare ulteriormente la mucosa alveolare per ottenere una quantità di tessuto sufficiente per eseguire la sutura senza esercitare tensioni. La scelta del materiale o del tipo di ago è meno importante della cura con cui viene applicato. Generalmente si utilizza una sutura semplice a punti staccati in materiale assorbibile 4-0 o 5-0 con un ago triangolare con tagliente esterno. La gengiva tende a lacerarsi quando viene manipolata grossolanamente. Far passare un ago attraverso la gengiva adesa, premere la punta dell’ago stesso sulla superficie ossea, tirarlo leggermente indietro e poi girarlo in modo che la punta sia parallela alla superficie dell’osso mentre lo fate scivolare attraverso il tessuto. Proteggere i tessuti in apposizione – non legarli strettamente. Rinforzare il nodo con un passaggio di filo in più e lasciare i capi recisi più lunghi di quanto non fareste normalmente per una sutura assorbibile, perché la lingua lavora sui punti e slega quelli con i capi corti. Procedure radicali: quando si esegue un intervento chirurgico radicale, non bisogna essere timorosi o lenti. Quando sarà necessaria la ricostruzione (di solito per separare le cavità nasali ed orali) pianificare le incisioni in modo da evitare la tensione sulle linee di sutura. È disponibile del tessuto, ma può darsi che dobbiate dimostrare una certa creatività per trovarlo. Rimuovere più osso per lisciare il perimetro di un difetto. Praticare delle grandi incisioni liberatorie ed utilizzare, se necessario, l’altro labbro. Trattamento della deiscenza: ripulire i margini dell’incisione; se necessario, allargare i lembi esistenti per ottenere una sutura senza tensione. Spesso non è necessario un trattamento antibiotico; per un rapido recupero della funzionalità è indicata l’analgesia postoperatoria. Impedire l’accesso a materiali che si possano masticare per 2-3 settimane.

Bibliografia Harvey CE, Emily PP: Small Animal Dentistry. CV Mosby Co, St. Loius, 1993.

Indirizzo per la corrispondenza: Colin Harvey - VHUP 3113 3900 Delancey Street - Philadelphia, PA 19104, USA


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Medicina felina cosa c’è di nuovo Colin Harvey DVM, BVSc, MRCVS, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Philadelphia, USA

L’accumulo di placca e tartaro a livello dentale è causa di gengivite, che comunemente porta a periodontite (osteomielite alveolare). Le affezioni periodontali nel gatto possono essere controllate, benché in genere questi animali non collaborino alle operazioni di cure a casa. Due malattie orali frustranti, la stomatite e le lesioni da riassorbimento dentale, sono molto più comuni nel gatto che nel cane.

Stomatite La stomatite è un’infiammazione localizzata in un punto qualsiasi della bocca. La dolorosa “stomatite cronica” (infiammazione o ulcerazione orale non gengivale) è un’entità clinicamente riconosciuta nel gatto. Si osservano lesioni bilaterali infiammate o ulcerate adiacenti alla gengiva infiammata o nelle pliche boccali caudali: lingua e palato duro sono colpiti solo raramente. Diagnosi: lo scopo dei test diagnostici in questi pazienti è quello di confermare o escludere la possibile esistenza di cause sottostanti. Nei gatti con infiammazione orale cronica si raccomanda caldamente l’esecuzione dei test per la diagnosi dell’infezione da FeLV e FIV, dal momento che questi agenti virali provocano immunosoppressione. I test di isolamento virale spesso permettono di identificare la presenza dei calicivirus nei fluidi orali, benché questi virus si riscontrino spesso anche in gatti clinicamente normali. È comune l’ipergammaglobulinemia, conseguente alla produzione di anticorpi dovuta all’invasione batterica dei tessuti orali. Le biopsie spesso evidenziano un numero elevato di linfociti e plasmacellule; tuttavia, questa è una risposta prevista all’invasione batterica cronica. Sino ad oggi, benché ormai siano state acquisite molte conoscenze sulla fisiologia della stomatite infettiva felina, non ne è ancora stata identificata una causa specifica. Attualmente vengono utilizzati molti trattamenti, con successo variabile. Il trattamento periodontale (ablazione, cure a casa) fa parte della terapia medica; di raro è sufficiente di per sé. Nei gatti con dolore orale, la collaborazione del proprietario è spesso scarsa. La terapia antibiotica determina spesso un beneficio di breve durata. La soppressione dell’attività batterica orale riduce l’infiammazione locale, ripristina l’appetito e diminuisce il disagio; tuttavia, di solito si osservano rapide recidive. Esami colturali ed antibiogrammi sono uno spreco di tempo e denaro a causa della ricchezza della flora orale. I farmaci d’elezione sono l’amossicillina-acido clavulanico, la clindamicina, il metronidazolo o il pradofloxacin. I farmaci antinfiammatori spesso determinano un miglioramento che dura più a lungo di quello ottenuto con un ciclo di antibiotici a breve termine e possono essere titolati riducendone la posologia sino ad ottenere un dosaggio minimo; in alcuni pazienti è necessario un trattamento a lungo termine. Sono stati impiegati sia farmaci immunosoppressori che molti altri trattamenti. Non esistono risultati di prove cliniche controllate casuali e condotte alla cieca che possano aiutare il clinico. Il trattamento più sicuro è l’estrazione di tutti i premolari ed i molari: nel 70-80% dei gatti colpiti è stato descritto un significativo miglioramento a lungo termine. È essenziale rimuovere tutti i frammenti delle radici.

Lesioni da riassorbimento dentale In questa condizione, si verificano delle cavitazioni in qualsiasi punto della superficie cementale delle radici dei denti. Le lesioni localizzate a livello del margine gengivale sono spesso coperte da tessuto gengivale granulomatoso e possono scalzare la corona causandone la frattura. Una conseguenza comune è la ritenzione delle radici. Spesso, effettuando il sondaggio del dente e della gengiva colpiti si suscita un movimento della mandibola per cui l’animale “batte i denti”. Poiché questa condizione è accompagnata da dolore, i gatti possono sviluppare disfagia, anoressia e disidratazione, benché le lesioni da riassorbimento (in particolar modo dei canini) si osservino talvolta con scarse o nulle manifestazioni di flogosi gengivale o evidente dolore. Nella maggior parte dei casi il riassorbimento dentale coinvolge i premolari ed i molari. Nel 50% dei gatti domestici di età pari o superiore ai 4 anni sono colpiti uno o più denti. La condizione non è una demineralizzazione da carie della sostanza del dente. La patogenesi è nota (cellule staminali attratte ed attivate come cellule clastiche). Microscopicamente, si osservano molte lesioni iniziali senza focolai infiammatori. Recentemente è stata ipotizzata come possibile eziologia l’ipervitaminosi D, dal momento che i gatti colpiti presentano livelli sierici più elevati di quelli dei gatti che non mostrano lesioni clinicamente evidenti. L’applicazione di un materiale di ricostruzione dentale dopo riparazione della cavità porta a scarsi risultati a lungo termine perché spesso la lesione continua a svilupparsi. Attualmente, l’unico trattamento pratico è l’estrazione dei denti con lesioni da riassorbimento; non previene lo sviluppo delle alterazioni nei denti superstiti e spesso risulta difficile perché quelli colpiti si fratturano facilmente e le radici anchilosate non vengono separate agevolmente. Un esame radiografico conferma che l’estrazione è stata completa. La ritenzione pianificata di segmenti radicolari vitali è accettabile se: il frammento ritenuto si trova al di sotto del livello dell’osso, non è presente alcuna gengivite-stomatite in quella parte della bocca, non ci sono segni radiografici di malattia periapicale e la gengiva viene suturata. Nel gatto, il 70% della totalità delle neoplasie orali (benigne o maligne) è rappresentato dal carcinoma squamocellulare, che si osserva tipicamente come una lesione protuberante sulla gengiva o sulla radice della lingua. Le masse orali asimmetriche del gatto devono sempre essere sottoposte a biopsia. Recentemente, prove condotte mediante chemioterapia e/o radioterapia non hanno portato ad identificare un trattamento di successo.

Bibliografia Harvey CE: Oral and Dental Diseases. In Feline Medicine and Therapeutics. E Chandler and CJ Gaskell. 2004. Reiter AM, Lewis JR, Okuda A: Update on the etiology of tooth resorption in domestic cats. Vet. Clin Nor Am Sm Anim Pract, 913-942, July 2005.

Indirizzo per la corrispondenza: Colin Harvey - VHUP 3113 3900 Delancey Street - Philadelphia, PA 19104, USA


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Meccanismo d’azione degli anestetici locali e loro razionale utilizzo Adriano Lachin Med Vet, Venezia

ATTI NON PERVENUTI

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Quando un caso medico diventa un caso chirurgico? Utilizzo degli antibiotici in chirurgia: si, no, quando, quanti, quali, per quanto Monitoraggio del paziente post chirurgia: valutazione del dolore, gestione di drenaggi, sonde, cateteri Il trattamento del dolore nel post operatorio: quali farmaci prima della dimissione Il trattamento del dolore nel post operatorio: quali farmaci dopo la dimissione La fisioterapia: un capitolo ancora sottovalutato Duncan Lascelles BSc, BVSc, PhD, MRCVS, Cert VA DSAS(ST), Dipl ECVS, Dipl ACVS, Raleigh, USA

Gli atti non sono pervenuti in tempo utile per la stampa ma saranno disponibili dal 12 giugno 2006 sul sito www.scivac.it/53/atti/


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Determinazione della proteinuria: quali tests effettuare nel cane e nel gatto e come interpretarli George E. Lees Med Vet, MS, Dipl ACVIM, Collage Station, Texas, USA

L’identificazione della proteinuria è importante per almeno due ragioni. In primo luogo, recenti dati hanno dimostrato che sia nel cane che nel gatto è associata ad un esito clinico sfavorevole. In altre parole, il riscontro della proteinuria identifica gli animali maggiormente esposti al rischio di malattie potenzialmente letali. In secondo luogo, si vanno raccogliendo sempre più dati che indicano che il trattamento dei cani e dei gatti con proteinuria con terapie mediche che riducono l’entità della proteinuria stessa migliora l’esito clinico di questi pazienti. Quindi, il trattamento corretto degli animali con proteinuria è clinicamente importante ed inizia con l’accurata identificazione della proteinuria mediante i test di screening, che devono essere eseguiti ed interpretati correttamente.

ESEGUIRE UN’ANALISI COMPLETA DELL’URINA

ze in cui si ritiene necessario eseguire degli esami di laboratorio completi (ad es., esame emocromocitometrico completo e/o profilo biochimico) per un cane o un gatto. Ciò di solito avviene in uno dei seguenti due casi: (a) quando si studia la causa di una malattia in un animale malato e (b) quando si effettua una valutazione di routine delle condizioni di un soggetto apparentemente sano. Inoltre, gli animali (in particolare i cani) con malattie croniche note per essere spesso complicate da nefropatie proteinuriche devono essere sottoposti alla ricerca della proteinuria ad intervalli di ≤ 6 mesi. Analogamente, lo screening periodico per la proteinuria contribuisce ad identificare precocemente le nefropatie in animali apparentemente sani, ma noti per essere “a rischio” di sviluppo di disordini glomerulari (ad es., cani che possono essere colpiti da una glomerulopatia ereditaria).

TEST PER LA PROTEINURIA Il primo punto importante è che i test per lo screening della proteinuria devono sempre essere effettuati in associazione con l’esame completo delle urine (cioè la determinazione delle proprietà fisico-chimiche come il peso specifico mediante rifrattometria e i test colorimetrici tramite strisce reattive, nonché l’esame microscopico del sedimento urinario). Ci sono numerose ragioni che spiegano l’importanza di questa associazione. Prima di tutto, un’analisi completa dell’urina consente di effettuare lo screening anche per alcune importanti malattie non urinarie (ad es., diabete mellito), nonché di evidenziare parecchi tipi di affezioni delle basse vie urinarie (ad es., infezione batterica del tratto urinario, urolitiasi, neoplasia) che si riscontrano comunemente nel cane e nel gatto. Queste ultime condizioni sono importanti quanto la proteinuria per la salute del tratto urinario di questi animali e spesso sono clinicamente occulte (cioè non si manifestano tramite segni clinici), mentre sono rilevabili sulla base di anomalie dei riscontri dell’esame delle urine (ad es., ematuria, piuria e/o batteriuria microscopica). Infine, anche quando si considerano solo gli argomenti correlati ai test per la proteinuria, i risultati derivanti da altre parti dell’esame delle urine (in particolare il peso specifico e i riscontri nel sedimento) forniscono degli importanti contributi all’iniziale interpretazione ed alla valutazione di tutti i test di screening per la proteinuria.

Quando effettuare lo screening per la proteinuria La raccomandazione generale è quella di eseguire un’analisi completa dell’urina, prestando attenzione all’identificazione dell’eventuale proteinuria, in tutte le stesse circostan-

Test colorimetrico mediante strisce reattive Questo test ha il grande vantaggio di essere relativamente semplice, economico e già di uso comune come componente dell’esame convenzionale delle urine. Queste prove effettuate mediante cuscinetti reattivi sono basati su un fenomeno detto “errore proteico di coloranti indicatori di pH”. Fondamentalmente, il test è basato sulla capacità dei gruppi aminici delle proteine di legarsi ad alcuni indicatori acido-basici e modificarne il colore anche se il pH del campione viene mantenuto costante da un tampone contenuto all’interno dello stesso cuscinetto reattivo. Poiché rispetto alle altre proteine l’albumina ha un maggior numero di gruppi aminici liberi disponibili per reagire con il colorante indicatore, il test mediante strisce reattive evidenzia principalmente l’albumina urinaria piuttosto che altre proteine (ad es., globuline, proteine di Bence Jones, mucoproteine). Il limite inferiore della sensibilità per l’esame delle urine mediante strisce reattive per la proteinuria è di circa 30 mg/dl. Il principale difetto di questo test è la sua scarsa specificità sia nel cane che nel gatto. In altre parole, il test spesso fornisce risultati falsi positivi. In una recente indagine Grauer et al. hanno riferito, ad esempio, che la specificità ottenuta mediante strisce reattive in confronto ai metodi immunometrici quantitativi specie-specifici per l’albumina era del 69% (31% di falsi positivi) nel cane e solo del 31% (69% di falsi positivi) nel gatto. Quando dall’analisi sono stati esclusi i campioni di urina con pH alcalino (≥ 7,5) e/o ematuria (≥ 10 eritrociti/campo microscopico ad elevato ingrandimento), piuria (≥ 5 leucociti/campo microscopico ad elevato ingran-


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dimento) o batteriuria, la specificità è migliorata passando all’84% nel cane ed al 55% nel gatto. Quindi, anche nelle migliori circostanze, una risposta positiva alla ricerca delle proteine con il metodo delle strisce reattive nell’urina del gatto corrisponde in realtà ad un autentico esito positivo solo in poco più della metà delle volte (e, in tutte le circostanze, in meno di un terzo dei casi). La ragione di una percentuale così elevata di reazioni false positive all’esame mediante strisce reattive dell’urina del cane e del gatto è che l’elevata concentrazione e/o il pH alcalino dell’urina prodotta da queste specie animali spesso supera la capacità tampone dei cuscinetti di reagente (che sono stati formulati per l’urina dell’uomo). Il test colorimetrico mediante strisce reattive per l’analisi dell’urina presenta un paio di altri aspetti negativi di cui bisogna tenere conto. In primo luogo, la “lettura” effettiva dipende in qualche misura dall’operatore. Vale a dire che quando il test viene eseguito manualmente, persone differenti possono giudicare in modo diverso le variazioni di colore. Inoltre, l’alterazione cromatica dell’urina può modificare il cambiamento di colore nel cuscinetto reattivo. Una delle potenziali soluzioni a questi problemi è l’impiego di un apparecchio automatizzato per la “lettura” della striscia. Questi apparecchi standardizzano la valutazione colorimetrica e le strisce per l’esame dell’urina che sono state studiate per l’impiego con questi strumenti di lettura sono dotate di un “cuscinetto di riferimento” che viene utilizzato per regolare la valutazione di qualsiasi alterazione cromatica “di fondo” del campione. Anche se un altro potenziale difetto dell’uso delle strisce è il fatto che non rilevano la presenza nell’urina di quantità di albumina basse, ma comunque anormali, che determinano una condizione detta “microalbuminuria” (concentrazione di albumina compresa fra 1 e 30 mg/dl). Questo argomento verrà trattato successivamente a proposito dei test immunologici specie-specifici per l’albuminuria.

Test turbidimetrico con acido solfosalicilico Il test turbidimetrico con acido solfosalicilico (SSA) è un altro metodo relativamente semplice e poco costoso. Come la determinazione mediante strisce reattive, l’SSA-test è semiquantitativo (i risultati vengono riferiti come negativo, tracce, 1+, 2+, 3+ o 4+), ma è sia più sensibile che più specifico di quello con le strisce reattive. In effetti, a causa della sua maggiore specificità, i laboratori di analisi cliniche veterinarie di maggiori dimensioni (ad es., laboratori commerciali, laboratori di ospedali veterinari didattici) impiegano di routine l’SSA come test “di riserva” per la proteinuria. Ogni volta che la striscia è positiva, si effettua sul campione un SSA-test, per stabilire se si tratta davvero di un’autentica positività (positivo anche il SSA) o di un falso positivo (SSA negativo). Il test turbidimetrico con SSA si effettua mescolando pari volumi di surnatante urinario e una soluzione al 5% di acido solfosalicilico in una provetta di vetro pulita. Il test si basa sul fatto che il pH acido della soluzione di SSA determina la precipitazione delle proteine, causando un intorbidamento che è approssimativamente pari alla quantità di proteine presenti nell’urina. L’entità dell’intorbidamento viene graduata (da negativo fino a 4+, come sopra) da un operatore, facendo riferimento a standard descrittivi (scritti) o visivi. Quindi, benché sia meno comodo di quello delle strisce reattive e sia ancora in qualche misura “dipendente dall’operatore” (per cui osservatori differenti

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potrebbero non assegnare lo stesso grado all’intorbidamento), il test con SSA ha il vantaggio di essere molto più specifico per la proteinuria. Inoltre, è più sensibile di quello delle strisce reattive; il limite inferiore di rilevamento dell’SSA-test è di circa 5 mg/dl e rileva anche le proteine di Bence Jones nelle urine.

Test immunometrico specie-specifico per l’albumina urinaria I più recenti metodi di screening per l’esame delle urine nel cane e nel gatto alla ricerca di proteine anomale utilizzano anticorpi anti-albumina specie-specifici nell’ambito di prove immunometriche semiquantitative o quantitative. Questi test sono molto sensibili e molto specifici; rilevano solo l’albumina. Tuttavia, quest’ultima di solito è la più abbondante e la più significativa dal punto di vista diagnostico fra le proteine anormali dell’urina. I test semiquantitativi (ad es., E.R.D – Screen Urine Tests, Heska, Ft. Collins, CO, USA) sono destinati all’impiego diretto accanto al paziente (Point-of-care test) e sono calibrati principalmente per l’identificazione della microalbuminuria (concentrazione di albumina nell’urina entro il range di 1-30 mg/dl dopo diluizione dell’urina ad un peso specifico standard di 1.010). Tuttavia, il risultato “altamente positivo” del test semiquantitativo di solito corrisponde ad un’albuminuria palese (cioè una concentrazione di albumina > 30 mg/dl) e non fornisce ulteriori informazioni su differenti entità di albuminuria, molto superiori a questa concentrazione. I reagenti contenenti anticorpi anti-albumina specie-specifici sono stati adattati anche alla realizzazione di test immunometrici quantitativi (ad es., ELISA) disponibili presso alcuni laboratori privati. Questi test (da eseguire effettuando una diluizione secondo necessità, per mantenere entro la gamma dinamica del test stesso la concentrazione di albumina nel campione che viene esaminato) possono fornire una ragionevole stima della effettiva concentrazione di albumina nell’urina attraverso l’intera gamma dei possibili risultati (cioè sia per i valori microalbuminurici che per quelli chiaramente albuminurici). Quando si effettua lo screening per la proteinuria, i test semiquantitativi (cioè Point-of-care) per la microalbuminuria trovano principalmente due applicazioni potenzialmente importanti. Una di queste è l’esame dei campioni di urina risultati negativi all’analisi mediante strisce reattive, per rilevare la microalbuminuria nei campioni in cui una proteinuria di questa entità, bassa ma comunque anormale, sfuggirebbe altrimenti all’identificazione. Le implicazioni della microalbuminuria isolata (microalbuminuria senza alcun altro riscontro anormale) verranno illustrate in una successiva relazione. Una seconda applicazione del test è il follow-up dei campioni che hanno fornito risultati debolmente positivi (equivoci) all’esame con le strisce reattive. In altre parole, poiché i test immunometrici per la ricerca dell’albumina nell’urina sono altamente specifici, possono venire utilizzati (come il SSA-test precedentemente descritto) per distinguere fra le reazioni autenticamente positive e quelle false positive all’esame con le strisce reattive.

Letture consigliate 1. 2.

Osborne CA, Stevens JB. Urinalysis: A Clinical Guide to Compassionate Patient Care. Bayer Animal Health, Shwanee Mission, Kansas, USA, 1999, pp 111-116. Lees GE, Brown SA, Elliott J, Grauer GF, Vaden SL. Assessment and management of proteinuria in dogs and cats: 2004 ACVIM Forum Consensus Statement (Small Animal) J Vet Intern Med 2005;19:377-385.


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Valutazione della proteinuria: come determinarne l’origine e valutarne la persistenza e l’importanza George E. Lees Med Vet, MS, Dipl ACVIM, Collage Station, Texas, USA

La proteinuria non deve solo essere individuata, ma anche valutata in modo appropriato per determinare le sue implicazioni per il paziente. La valutazione della proteinuria comporta lo studio di tre elementi chiave: • Localizzazione – il processo di determinazione della probabile sede o del probabile meccanismo che provoca la proteinuria. • Persistenza – determinare se la proteinuria è persistente o meno nel tempo richiede l’esecuzione di ripetuti test. • Entità – l’uso di appropriati metodi quantitativi per ottenere degli indici affidabili dell’entità della perdita di proteine con l’urina è di importanza cruciale per prendere le opportune decisioni cliniche e monitorare la tendenza della condizione, compresa la risposta al trattamento se è indicata una terapia.

Localizzazione della proteinuria La proteinuria riconosce numerose cause possibili. Nella Tabella 1 è riportato lo schema consigliato per la classificazione delle cause di questa condizione. Una delle caratteristiche di tale schema è che fornisce una specifica correlazione per ciascuno dei passi indicati nel processo diagnostico raccomandato per la localizzazione della proteinuria nel cane e nel gatto. Quando attraverso l’analisi dell’urina si rileva la presenza di una quantità eccessiva di proteine, la localizzazione della probabile fonte della proteinuria richiede che vengano compiuti i seguenti passi, in sequenza: Passo 1. Per escludere la proteinuria “extraurinaria postrenale”, valutare l’urina prelevata mediante cistocentesi. Passo 2. Per escludere la proteinuria “prerenale”, valutare la concentrazione plasmatica di proteine (alla ricerca di segni di disproteinemia che possano spiegare la proteinuria). Se la proteinuria non è prerenale, né extraurinaria, è “urinaria” ed il passo successivo consiste nel valutare il sedimento urinario per rilevare la presenza di segni di infiammazione o emorragia. Passo 3. Per escludere la proteinuria “urinaria postrenale”, rilevare i segni di infiammazione o emorragia, con o senza segni clinici di affezioni delle vie escretorie (ad es., pollachiuria), ma senza apparenti segni clinici di nefrite. Passo 4. Per escludere la proteinuria “patologica interstiziale renale”, rilevare i segni dell’infiammazione associati a

Tabella 1 - Categorie delle cause di proteinuria Prerenali – da anormale contenuto plasmatico di proteine liberamente filtrate dai glomeruli normali. - Proteine normali (solitamente non libere nel plasma) - Proteine anormali (ad es., proteine di Bence Jones) Renali – da anormale elaborazione renale di proteine plasmatiche normali. Funzionale: proteinuria lieve e transitoria, che non è causata da lesioni del parenchima renale Patologica: proteinuria dovuta a lesioni strutturali o funzionali all’interno dei reni Glomerulare: alterazione della permeabilità selettiva del glomerulo. Tubulare: riduzione del riassorbimento tubulare delle proteine filtrate. Interstiziale: essudazione di proteine dai capillari peritubulari nell’urina. Postrenali – da penetrazione di proteine nell’urina dopo che questa è giunta nel bacinetto renale - Urinaria: da emorragia o essudazione dalle pareti delle vie escretorie urinarie - Extraurinaria: da secrezioni, emorragie o essudati provenienti dal tratto genitale o dai genitali esterni

manifestazioni cliniche di nefrite attiva (ad es., reni sensibili, febbre, insufficienza renale). Se la proteinuria è “urinaria” e non è associata a segni di infiammazione o emorragia nel sedimento urinario, le possibilità che rimangono sono quelle di una proteinuria: • “funzionale renale”, che è di basso grado (cioè di entità limitata, lieve o “leggera”) e transitoria; • “patologica, tubulare renale”, anch’essa di basso grado, ma tipicamente persistente. In alcuni casi questa proteinuria è accompagnata da glicosuria normoglicemica e/o anormale escrezione di elettroliti, che indicano la presenza di molteplici anomalie del riassorbimento tubulare e contribuiscono ad identificare l’origine tubulare dell’anomalia. Tuttavia la proteinuria tubulare spesso è presente in assenza di questi riscontri; • “patologica glomerulare renale”, che può essere di qualsiasi entità, da molto bassa (ad es., sola microalbuminuria) a molto imponente (cioè nel range nefritico), ma anche in questo caso è tipicamente persistente.


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Di conseguenza, gli ultimi passi nel processo di localizzazione sono: Passo 5. Confermare la proteinuria “patologica glomerulare renale”, se la sua entità è sufficientemente elevata da giustificare questa conclusione (ad es., con un rapporto proteine:creatinina nell’urina [UPC] ≥ 2,0 nel cane e nel gatto). Passo 6. Confermare la proteinuria “funzionale renale” se la condizione è lieve e, attraverso il follow-up, si dimostra transitoria. Passo 7. Confermare la proteinuria “patologica glomerulare renale” (benché di basso grado) o “patologica, tubulare renale”, se la proteinuria è lieve, ma, attraverso il follow-up, si dimostra persistente. Questi due tipi di proteinuria non possono essere differenziati in modo affidabile l’uno dall’altro attraverso i test convenzionali attualmente disponibili, a meno che o fino a che gli animali con proteinuria “patologica, glomerulare renale” non mostrino un aumento dei livelli di proteinuria di entità sufficiente ad escludere quella “patologica, tubulare, renale” (UPC ≥ 2,0, come indicato al passo 5).

Proteinuria persistente renale Si può presumere che la proteinuria che è stata localizzata come di origine “renale” ed inoltre è di entità sufficiente ad essere palesemente dovuta all’alterata selettività della permeabilità glomerulare (UPC ≥ 2,0, ma la prova è tanto più inoppugnabile quanto più è elevata l’entità della proteinuria) sia persistente. Invece, quando l’entità della proteinuria è lieve (UPC < 2,0), è necessario dimostrare che l’anomalia è persistente per evitare inutili preoccupazioni circa una proteinuria che in realtà è funzionale e quindi poco importante, anche se di origine renale. La persistenza della proteinuria viene dimostrata in modo appropriato dal riscontro dell’anomalia in tre o più occasioni, a distanza di due o più settimane. Inoltre, il confronto fra il valore delle misurazioni in serie richiede che si tenga conto della gamma delle variazioni che si verificano da un giorno all’altro e che si possono osservare negli animali con proteinuria generalmente stabile. Negli pazienti (in particolare nei cani) con proteinuria imponente, non è necessario aspettare settimane prima di ripetere il test, ma è ancora consigliabile effettuare la valutazione di parecchi campioni indipendenti (cioè prelevati in giorni diversi) per stabilire in modo più accurato l’entità prevalente della proteinuria.

Valutare l’entità della proteinuria persistente renale Le implicazioni cliniche della proteinuria persistente renale dipendono totalmente dall’entità della proteinuria e dal fatto che tale entità sia o meno mutevole. Quindi, per la valutazione della proteinuria risulta di importanza cruciale l’impiego appropriato di indici quantitativi affidabili che consentano di misurare la quantità di proteine persa quotidianamente attraverso l’urina.

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La determinazione della quantità totale di proteine in tutta l’urina prodotta dal paziente durante un intervallo di 24 ore è lo “standard aureo” per la valutazione dell’entità della proteinuria. Tuttavia, questo metodo ha molte controindicazioni che ne precludono l’impiego di routine nella pratica clinica veterinaria. L’approccio alternativo, il cui uso negli animali oggi è ben affermato, è quello di misurare la concentrazione urinaria delle proteine (tutte o solo l’albumina) e poi correggere tale concentrazione in modo da compensare le differenze del volume urinario giornaliero, così da ottenere un indice che sia proporzionale alla perdita giornaliera totale di proteine nell’urina dell’animale (cioè all’entità della proteinuria). Esistono due modi per effettuare questa correzione. Uno è quello di dividere la concentrazione delle proteine per quella della creatinina nello stesso campione di urina. Quando si effettua questa operazione utilizzando i livelli urinari delle proteine totali (misurati in mg/dl) e della creatinina (anch’essi misurati in mg/dl), il risultato è un valore privo di unità di misura che viene detto rapporto proteine:creatinina nell’urina (UPC). Quando si divide l’albumina (in mg/dl) per la creatinina (in mg/dl) il risultato normalmente è una frazione così piccola che nella pratica convenzionale viene moltiplicato per 1000, riportando l’indice come xx mg/g (mg di albumina per g di creatinina). Il secondo modo di correggere la concentrazione di proteine nell’urina per le variazioni nel volume urinario giornaliero è quello di esprimere la concentrazione delle proteine soltanto con il valore che si avrebbe ad un peso specifico urinario standardizzato di 1.010. Ciò si può ottenere sia diluendo il campione fino ad un peso specifico di 1.010 prima di effettuare la valutazione, sia misurando la concentrazione di proteine (albumina) e il peso specifico del campione originale per poi “correggere” matematicamente la concentrazione sino al peso specifico standard (100 mg/dl in un’urina con un peso specifico di 1.020 corrispondono ad un valore di 50 mg/dl in un campione diluito a 1.010 e 90 mg/dl in un’urina con un peso specifico di 1.030 corrispondono ad un valore di 30 mg/dl quando la diluizione è a 1.010, e così via). Attualmente, in medicina veterinaria la pratica convenzionale più attuata è quella di servirsi dell’indice totale del rapporto fra proteine e creatinina nell’urina (rapporto UPC) e indicizzare l’albumina urinaria al peso specifico dell’urina stessa, ottenendo la concentrazione “normalizzata” di albumina nell’urina (nUAlb) espressa in mg/dl per un peso specifico urinario di 1.010. Le concentrazioni di albumina nell’urina nei campioni con peso specifico ≤ 1.010 vengono riportate così come sono state misurate nel campione originale (cioè senza alcuna correzione). L’UPC è l’indice più approfonditamente studiato e più ampiamente utilizzato di entità della proteinuria nel cane e nel gatto; la maggior parte delle raccomandazioni cliniche sono abbinate alla valutazione dell’entità della proteinuria mediante UPC. Un approccio alternativo può essere quello di utilizzare indici basati sulla valutazione immunologica quantitativa dell’albumina urinaria, ma questa opzione non è ancora stata ampiamente studiata.

Letture consigliate 1.

Lees GE, Brown SA, Elliott J, Grauer GF, Vaden SL. Assessment and management of proteinuria in dogs and cats: 2004 ACVIM Forum Consensus Statement (Small Animal) J Vet Intern Med 2005;19:377-385.


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Studio della proteinuria persistente: valutazione clinica dei pazienti finalizzata all’identificazione delle patologie trattabili e causa di proteinuria ed alla gestione dei fattori di rischio che possono determinare progressione della malattia renale George E. Lees

Le risposte appropriate alla proteinuria renale persistente sono una serie di passi progressivi che costituiscono un’escalation e dipendono dall’entità della proteinuria e dallo status dei pazienti (Fig. 1). • Monitorare – significa ripetere uno o più test che sono stati effettuati in precedenza per rilevare le modificazioni che avvengono con il passare del tempo. • Esaminare – significa effettuare nuovi o ulteriori test per scoprire una malattia sistemica sottostante o per definire più esattamente la nefropatia dell’animale. • Intervenire – significa prescrivere modificazioni della dieta e/o agenti farmacologici nel tentativo di determinare una variazione favorevole del decorso della malattia o migliorare la salute dell’animale. L’attuazione di questo approccio basato su un’escalation di risposte deve essere sequenziale e completo. In altre parole, nelle circostanze meno impellenti bisogna soltanto monitorare (cioè non esaminare né intervenire). Invece, in altre situazioni più gravi, si deve esaminare e monitorare (ma non intervenire). Questa escalation (progressiva) può essere immediata o sequenziale a seconda della situazione. Infine, nelle situazioni più pressanti si deve intervenire, oltre che esaminare e monitorare; anche in questo caso, il compimento di un successivo passo nell’escalation può essere immediato o sequenziale, a seconda delle circostanze. È importante notare che l’uso corretto di questo approccio preclude l’intervento (trattamento) senza un’appropriata fase di esame e di monitoraggio, nonché l’esame (specialmente con test invasivi) in assenza di prove sufficienti, eventualmente derivate dal monitoraggio, che giustifichino i rischi per l’animale ed i costi per il proprietario. La proteinuria renale persistente deve sempre spingere il clinico ad intervenire, ma la scelta delle azioni più appropriate dipende dall’entità prevalente della proteinuria e dallo status clinico del paziente. Per un cane o un gatto apparentemente sano e non iperazotemico con una lieve proteinuria renale (ad es. microalbuminuria persistente o valori di UPC persistentemente ≥ 0,5, ma < 1,0), ad esempio, la risposta appropriata consiste puramente nel continuare a monitorare le condizioni dell’animale. Lo scopo del monitoraggio in prospettiva di questi animali è quello di rilevare le tendenze preoccupanti (se ci sono) al momento opportuno, in modo da poter avviare gli ulteriori studi (e, nei casi indicati, il trattamento). Il punto chiave in questo caso è che non tutti i pazienti di questa categoria sono colpiti da una nefropatia cronica progressiva (anzi, è probabile che la maggior parte non lo sia)

Livello di risposta

Med Vet, MS, Dipl ACVIM, Collage Station, Texas, USA

Intervenire

Esaminare

Monitorare

Entità della proteinuria

Figura 1 - Escalation delle risposte alla proteinuria. e gli animali che non sono affetti da una malattia progressiva non hanno bisogno di ulteriori indagini e non traggono alcun beneficio dai trattamenti. Invece, se la proteinuria progredisce fino a raggiungere un’entità superiore (o se non viene scoperta sino a che non è quasi progredita fino a tale livello) è necessario compiere ulteriori studi ed eventualmente intervenire con un trattamento. Il punto chiave in questo caso è che l’entità elevata o l’aumento della proteinuria è un marcatore di malattia progressiva, che deve essere identificata a trattata il più presto possibile. Tuttavia, un’altra indicazione del fatto che la nefropatia dell’animale è progressiva è che ha già determinato un’iperazotemia renale. Di conseguenza, le entità della proteinuria che devono spingere ad intraprendere ulteriori azioni sono più basse negli animali iperazotemici rispetto a quelle degli animali non iperazotemici.

Cosa e come monitorare Gli animali con proteinuria renale persistente devono essere esaminati ad intervalli regolari, ma la durata appropriata del periodo di tempo che intercorre fra questi controlli dipende dalle circostanze. Quando le variabili importanti non sono ancora state ben caratterizzate o si stanno modificando, può essere necessario programmare degli esami con una frequenza di una volta ogni 1-2 settimane. All’altro estremo, quando le condizioni dell’animale sono stabili o sotto un buon controllo, può darsi che non sia necessario ripetere i controlli con una frequenza superiore a una volta ogni 4-6 mesi.


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Ciascun esame deve prevedere una rivalutazione dell’anamnesi recente dell’animale (condizioni generali, trattamenti farmacologici, dieta, ecc…) ed un approfondito esame clinico, che comprenda un’accurata valutazione del peso e del punteggio di condizione corporea. Per quanto riguarda i test, le variabili più importanti da tenere sotto controllo sono la pressione sanguigna sistemica, l’UPC e la concentrazione sierica di creatinina (SCr). La valutazione in serie di quest’ultimo parametro in un singolo animale è un modo ragionevolmente buono per monitorare le modificazioni della velocità di filtrazione glomerulare (GFR), a condizione che i valori di SCr che vengono confrontati siano ottenuti quando l’animale è euvolemico (cioè normalmente idratato) ed utilizzando lo stesso metodo di laboratorio. I progressivi aumenti della SCr sono considerati degni di nota, anche se gli incrementi delle singole variazioni possono essere piccoli (“deriva della creatinina”) e i valori possono inizialmente aumentare restando però entro i limiti normali. È anche importante la valutazione seriale dell’UPC, ma il riscontro di piccole differenze fra i valori sequenziali può non indicare una reale modificazione del valore prevalente dell’entità della proteinuria dell’animale. Gli studi condotti sulla variabilità da un giorno all’altro dei valori di UPC nei cani e nei gatti con proteinuria di entità stabile hanno suggerito che probabilmente è necessario che i valori seriali presentino una differenza almeno pari al 35-50% nel cane ed al 90% nel gatto prima di poter essere interpretati come segno di un’effettiva modificazione dell’entità della proteinuria. Infine, risulta di importanza cruciale la valutazione ripetuta della pressione sanguigna, per due ragioni. In primo luogo, ancor più che per SCr ed UPC, è necessario stabilire il valore prevalente della pressione sanguigna sistemica dell’animale effettuando misurazioni in parecchie occasioni, in parte per consentire al soggetto di abituarsi alla procedura. In secondo luogo, ed ancor più importante, tuttavia, l’ipertensione sistemica di per sé è un fattore di rischio indipendente e trattabile della progressione della nefropatia, specialmente negli animali altamente proteinurici. Di conseguenza, l’ipertensione sistemica è una complicazione comune, ma spesso clinicamente “silente” delle nefropatie proteinuriche che, quando si verificano, devono essere accuratamente monitorate e trattate in modo appropriato al fine di ottenere i migliori esiti clinici possibili.

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plasie. Di conseguenza, una delle cose più importanti da fare quando si scopre una proteinuria renale è quella di ricercare accuratamente queste malattie, specialmente quelle che potrebbero essere trattabili. La ricerca di una malattia sottostante generalmente viene effettuata attraverso un’associazione di esami di screening di ogni singolo apparato per rilevare la comparsa di qualsiasi segno di anormalità utilizzando tecniche specifiche di valutazione clinica (ad es., esame del fondo dell’occhio), diagnostica per immagini (ad es., radiografia toracica ed ecografia addominale) ed esami di laboratorio (ad es. esame emocromocitometrico completo e profilo biochimico) unitamente a test sierologici per l’identificazione delle infezioni/infestazioni parassitarie, virali, batteriche, da Rickettsia, protozoarie o micotiche rilevanti nelle diverse aree geografiche. È anche importante stabilire se comprendere o meno la valutazione di una biopsia renale nello studio diagnostico dell’animale. L’osservazione convenzionale al microscopio ottico delle biopsie renali spesso ha consentito di effettuare poco più che una distinzione fra amiloidosi e “glomerulonefrite”, che viene tipicamente definita “immunomediata” senza alcuna prova diretta (ad es., sulla base della valutazione ultrastrutturale o l’immunocolorazione dei campioni bioptici) per confermare il sospetto. Storicamente, queste informazioni si sono dimostrate di scarsa utilità per definire la prognosi o guidare la terapia nei cani o nei gatti con nefropatie proteinuriche. Tuttavia, si ha ragione di aspettarsi che la valutazione delle biopsie renali con metodi diagnostici più discriminanti permetterà sempre più ai veterinari di differenziare i vari tipi di glomerulopatia con particolari implicazioni prognostiche e/o terapeutiche. Ciò è particolarmente necessario al fine di formulare razionalmente dei protocolli terapeutici che siano adeguatamente mirati verso specifiche entità patologiche piuttosto che limitarsi a trattare tutti gli animali con glomerulopatia con un protocollo terapeutico singolo ed aspecifico, basato su una “cura standard” (ad es., modificazioni della dieta, ACE-inibitore ed acido acetilsalicilico a basse dosi).

Letture consigliate 1.

Cosa e come esaminare Le nefropatie proteinuriche nel cane e nel gatto spesso insorgono secondariamente ad alcune malattie sistemiche infiammatorie di origine infettiva o non infettiva o alle neo-

2.

Lees GE, Brown SA, Elliott J, Grauer GF, Vaden SL. Assessment and management of proteinuria in dogs and cats: 2004 ACVIM Forum Consensus Statement (Small Animal) J Vet Intern Med 2005;19:377385. Vaden SL. Glomerular diseases. In Ettinger SJ, Feldman EC, Textbook of Veterinary Internal Medicine, ed 6, Elsevier Saunders, St. Louis, MO, 2005, pp 1786-1800.


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Terapia: come trattare i pazienti affetti da nefropatia proteinurica George E. Lees Med Vet, MS, Dipl ACVIM, Collage Station, Texas, USA

IL TRATTAMENTO DELLA PROTEINURIA RENALE IN GENERALE Le basi teoriche per il trattamento della proteinuria renale possono essere considerate a due livelli. In primo luogo, nella misura in cui la proteinuria ha effetti diretti tossici proinfiammatori e profibrotici sui reni, i trattamenti che la riducono devono alleviare questi processi dannosi e quindi rallentare la progressione della nefropatia e migliorare l’esito clinico. Tuttavia, poiché il ruolo della proteinuria come causa diretta di danno renale è ancora da chiarire, questo presupposto per il trattamento della condizione rimane indimostrato a livello meccanicistico. Al secondo livello, maggiormente orientato all’esito della terapia (cioè focalizzato su ciò che accade, anche se perché accade rimane poco chiaro) tutti i dati disponibili e raccolti attraverso gli studi condotti nell’uomo e negli animali suggeriscono la veridicità delle seguenti affermazioni: • Nei soggetti con nefropatia cronica, una proteinuria più elevata è associata ad esiti clinici peggiori. • Nei soggetti con nefropatia cronica, certi trattamenti rallentano la progressione della malattia e migliorano l’esito clinico (cioè sono “nefroprotettori”). • Quando i trattamenti nefroprotettori sono efficaci, sono associati ad una riduzione dell’entità della proteinuria come risposta alla terapia, in particolare in quei soggetti che inizialmente presentano proteinuria di entità più elevata. Ciò significa che dovremmo trattare gli animali con forme progressive di nefropatia cronica, specialmente quelli che presentano proteinurie di grado più elevato, con interventi finalizzati ad essere nefroprotettori e che la riduzione della proteinuria dovrebbe essere uno degli scopi di tali interventi. L’uso della riduzione della proteinuria come bersaglio terapeutico è appropriato da questo punto di vista indipendentemente dal fatto che tale riduzione sia direttamente utile (perché diminuisce un danno diretto mediato dalle proteine) oppure sia puramente associato a altri meccanismi, attraverso i quali gli interventi stanno agendo in modo positivo, e talvolta costituisca un marcatore degli stessi. Gli interventi potenzialmente nefroprotettori che modulano la proteinuria comprendono la somministrazione di agenti farmacologici, ed in particolare di farmaci che bloccano il sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS), nonché certe modificazioni della dieta. Benché la riduzione della proteinuria sia un effetto di ognuno di questi interventi, nessuno di essi svolge solo questa attività, ed anche i meccanismi con cui viene determinata tale riduzione sono molteplici ed interagenti. Inoltre, ognuno degli interventi esercita degli effetti benefici mediati da meccanismi che sono completamente indipendenti da quelli sulla proteinuria. Ad esempio, gli inibitori dell’enzima angiotensina convertente (ACE) diminuiscono la produ-

zione di angiotensina II (ang-II), ma quest’ultima ha molteplici attività. Fra queste rientrano le azioni emodinamiche che determinano un aumento della pressione capillare glomerulare ed un calo della perfusione dei capillari peritubulari. Inoltre, l’ang-II svolge un ruolo diretto nell’alterazione della permeabilità del glomerulo alle proteine ed ha numerosi effetti non emodinamici (ad es., induzione del rilascio di citochine, attivazione di macrofagi, stimolazione della proliferazione delle cellule mesangiali e della formazione della matrice mesangiale, ecc..) che promuovono l’infiammazione e la fibrosi. Gli effetti dell’ang-II sulla pressione capillare intraglomerulare e sulla selettività della permeabilità della parete capillare aumentano la proteinuria e gli ACE-inibitori la riducono, contrastando questi effetti. Tuttavia, gli effetti nefroprotettori della somministrazione degli ACE-inibitori possono essere mediati in modo importante dalla limitazione degli effetti dell’ang-II, che non ha nulla a che fare con la diminuzione della proteinuria di per sé (ad es., riducendo l’ipossia peritubulare o limitando la stimolazione diretta dell’ang-II delle vie che portano all’infiammazione ed alla fibrosi). Inoltre, alcune modificazioni della dieta (ad es., restrizione dell’assunzione di sodio, restrizione dell’assunzione di proteine) hanno effetti che sono mediati in parte dall’alterazione dell’attività del RAAS. I molteplici ed interagenti meccanismi attraverso i quali gli interventi nefroprotettori funzionano in vivo rendono più difficile definire in modo preciso il ruolo della proteinuria come mediatore della progressione della nefropatia; tuttavia, ciò non preclude l’impiego efficace della concentrazione delle proteine nell’urina come marcatore della risposta terapeutica. L’individuazione del target terapeutico della proteinuria richiede una valutazione seriale dell’entità della stessa prima e durante il trattamento e la specificazione di appropriati valori di riduzione della proteinuria che ci si prefigge di raggiungere. Per valutare l’entità della proteinuria viene raccomandato l’impiego del rapporto proteine:creatinina nell’urina (UPC), ma, a causa della variabilità di questo parametro da un giorno all’altro, si deve prendere in considerazione il ricorso al valore medio di 2-4 determinazioni dell’UPC (in giorni diversi) come misura più attendibile dell’entità della proteinuria di un animale nelle condizioni prevalenti (ad es., valori basali, durante il trattamento, ecc…). Non sono ancora state pubblicate le linee guida specifiche e basate sull’evidenza per stabilire quanto tempo si debba aspettare nei cani e nei gatti prima di valutare la risposta della proteinuria al trattamento e quale sia la riduzione della proteinuria che si intende raggiungere. In uno studio, sono state necessarie fino a 4 settimane per ottenere pienamente gli effetti delle modificazioni della dieta sull’UPC nel cane. In un’altra indagine, la rivalutazione dell’UPC dopo 30 giorni di trattamento con enalapril è stata utilizzata per determinare se la


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dose iniziale del farmaco fosse sufficiente o dovesse essere aumentata. Quindi, è ragionevole suggerire che la valutazione della risposta dell’UPC ad un intervento antiproteinurico dovrebbe iniziare circa un mese dopo l’avvio del trattamento; tuttavia, esistono alcuni dati che indicano che nei pazienti umani il massimo effetto antiproteinurico di una terapia con un ACE-inibitore può richiedere fino a 3 mesi. Si ignora se la riduzione della proteinuria debba essere mirata ad ottenere un valore specificato di UPC (ad es., UPC < 2,0) oppure una specifica riduzione proporzionale del valore pretrattamento (ad es., UPC < 50% del valore iniziale). Una riduzione del 50% dell’UPC è stata utilizzata come target terapeutico nella prova clinica sul trattamento con enalapril di cani proteinurici che ha dimostrato benefici effetti, per cui è ragionevole impiegare una riduzione di questa entità come traguardo minimo, almeno fino a che non saranno disponibili maggiori dati. Tuttavia, può anche darsi che l’effetto sul risultato clinico sia tanto migliore quanto più è elevata la riduzione della proteinuria (cioè quanto più questo valore di UPC si avvicini ai limiti dell’intervallo di riferimento normale), ma non sono disponibili dati derivanti da studi clinici condotti nel cane e nel gatto su questo argomento.

TRATTAMENTI SPECIFICI DELLA PROTEINURIA RENALE NEL CANE E NEL GATTO Inibitori dell’enzima angiotensina c onvertente Nell’uomo, diverse grandi indagini cliniche controllate condotte utilizzando differenti ACE-inibitori e coinvolgendo pazienti colpiti da varie nefropatie hanno dimostrato l’esistenza di effetti nefroprotettori e di un miglioramento degli esiti clinici attribuibili a questo intervento. Anche se gli ACE-inibitori hanno molti effetti, le analisi multivarianti dei risultati di questi studi hanno dimostrato che questi agenti possiedono degli effetti benefici che sono associati alla loro attività antiproteinurica e sono indipendenti dalla loro azione antipertensiva. Gli effetti degli ACE-inibitori sono stati studiati nel cane e nel gatto con nefropatie ad insorgenza spontanea a sperimentalmente indotte. È stata segnalata una prova randomizzata e controllata con placebo sul trattamento con enalapril in cani con glomerulonefrite idiopatica (UPC > 3,0, livelli sierici di creatinina < 3,0 mg/dl). I cani trattati con enalapril hanno ricevuto il farmaco (0,5 mg/kg ogni 12-24 ore) per 6 mesi e tutti i soggetti dello studio sono stati anche trattati con una modificazione della dieta e la somministrazione di acido acetilsalicilico a basse dosi. In questo studio, la terapia con enalapril ha abbassato la pressione sistolica, ridotto la proteinuria e migliorato l’esito (cioè ha ridotto la frequenza degli aumenti della concentrazione sierica di creatinina ≥ 0,2 mg/dl dopo 6 mesi di trattamento). In un’altra indagine, l’enalapril (2 mg/kg ogni 12 ore) ha ridotto la proteinuria e rallentato la progressione della malattia nei cani con nefropatia ereditaria legata al cromosoma X (XLHN, X-linked hereditary nephropathy). In un differente studio su cani con XLHN, tuttavia, una dose più bassa di enalapril [5 mg per os ogni 12 ore (fino ad una dose massima di 2 mg/kg), che ha portato ad una dose media di partenza di 1,85 mg/kg in cuccioli di un mese che è

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diminuita sino ad una dose media di 0,2 mg/kg ogni 12 ore man mano che i cani crescevano durante lo studio] non ha avuto effetto sulla proteinuria o sulla progressione della malattia. Presi insieme, questi due studi nei cani con XLHN dimostrano che la dose dell’ACE-inibitore che viene somministrato può avere importanti effetti sui risultati ottenuti; tuttavia, il dosaggio che era efficace in uno studio era più elevato di quello che spesso viene raccomandato per l’impiego clinico nel cane. È stato anche dimostrato che l’enalapril (0,5 mg/kg ogni 12 ore) riduce la proteinuria e rallenta la progressione delle lesioni istologiche nei cani con un modello di rene residuo di insufficienza renale. Al contrario, la somministrazione di benazepril (a parecchie dosi, fino a 1-2 mg/kg ogni 24 ore) non ha avuto alcun effetto sulla proteinuria nei gatti con modello di rene residuo di insufficienza renale, ma il trattamento con benazepril ha ridotto la pressione sistolica ed ha modificato favorevolmente le emodinamiche intrarenali. Tuttavia, i risultati iniziali di una prova clinica in gatti con nefropatie spontanee hanno indicato che il trattamento con benazepril (0,5-1,0 mg/kg ogni 24 ore) ha manifestato effetti antiproteinurici, ma prolungava significativamente la sopravvivenza solo in un piccolo sottogruppo di gatti che inizialmente presentavano livelli di proteinuria più elevati (UPC > 1).

Modificazioni della dieta L’assunzione di proteine è uno dei fattori dietetici che influiscono sull’entità della concentrazione urinaria di proteine osservata negli animali con proteinuria glomerulare. In generale, il consumo di una maggior quantità di proteine aumenta la perdita delle stesse con l’urina, mentre una riduzione del consumo la diminuisce, ma bisogna evitare la malnutrizione proteico-calorica. L’assunzione ottimale di proteine con la dieta nei cani e nei gatti con nefropatie proteinuriche non è stata ben definita, specialmente nel contesto della concomitante terapia farmacologica (ad es., somministrazione di un ACE-inibitore). Inoltre, ammesso che esistano, non sono stati studiati gli effetti sulla progressione della nefropatia derivanti dalle correzioni della dieta volte a limitare la perdita di proteine con le urine nei cani o nei gatti con un’imponente proteinuria. Al contrario, è stato dimostrato che l’assunzione con la dieta di lipidi (ed in particolare le quantità relative ed assolute di acidi grassi n-3 ed n-6 assunti con la dieta) influisce sulla proteinuria e sulla progressione della nefropatia nel cane.

Letture consigliate 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Lees GE, Brown SA, Elliott J, Grauer GF, Vaden SL. Assessment and management of proteinuria in dogs and cats: 2004 ACVIM Forum Consensus Statement (Small Animal) J Vet Intern Med 2005;19:377-385. Lefebvre HP, Toutain PL. Angiotensin-converting enzyme inhibitors in the therapy of renal diseases. J Vet Pharmacol Therap 2004;27:265-281. Grauer GF, Greco DS, Getzy DM, et al. Effects of enalapril versus placebo as a treatment for canine idiopathic glomerulonephritis. J Vet Intern Med 2000;14:526-533. Brown SA, Finco DR, Brown CA, et al. Evaluation of the effects of inhibition of angiotensin converting enzyme with enalapril in dogs with induced chronic renal insufficiency. Am J Vet Res 2003;64:321-327. Burkholder WJ, Lees GE, LeBlanc, et al. Diet modulates proteinuria in heterozygous female dogs with X-linked hereditary nephropathy. J Vet Intern Med 2004;18:165-175. Brown SA, Brown CA, Crowell WA, et al. Effects of dietary polyunsaturated fatty acid supplementation in early renal insufficiency in dogs. J Lab Clin Med 2000;135:275-286.


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Radiologia del rachide: la mielografia è ancora l’indagine di elezione? Francisco J. Llabrés-Diaz DVM, DVR, Dipl ECVDI, MRCVS, Higham Gobion, Herts, UK

La risposta diretta a questa domanda è no. La mielografia non è più la migliore tecnica di diagnostica per immagini disponibile per la valutazione dei pazienti con segni clinici indicativi di una condizione spinale. Tuttavia ciò non significa automaticamente che non abbia un ruolo da svolgere in neurologia veterinaria. Tuttavia, è necessario conoscere e capire a) le indicazioni ed i limiti della radiografia/mielografia, b) gli artefatti e i riscontri non significativi che si possono incontrare e c) quando questa tecnica è rilevante nell’ambito del quadro clinico. Nel corso della relazione verranno illustrati questi punti importantissimi. Allo stesso modo, non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza di un corretto esame clinico e neurologico completo, nonché l’uso di altri test diagnostici collaterali che, benché non vengano trattati in questa sede, devono sempre essere tenuti presenti. Fra le indicazioni per la mielografia possiamo comprendere: 1. Confermare una lesione sospettata nelle radiografie senza mezzo di contrasto 2. Confermare che una lesione, vista nelle radiografie senza mezzo di contrasto ma non correlata ai risultati dell’esame neurologico, è davvero probabilmente insignificante dal punto di vista clinico 3. Decidere quale delle molteplici lesioni individuate nelle radiografie senza mezzo di contrasto e che potrebbero spiegare i segni clinici è/sono più significative. 4. Identificare una lesione che non era visibile nelle radiografie senza mezzo di contrasto, ma era sospettata sulla base dei risultati dell’indagine anamnestica, dei segni clinici e della visita neurologica. 5. Una volta identificata una lesione, determinarne l’esatta localizzazione e, una volta stabilito che sarebbe appropriato un trattamento chirurgico, decidere l’approccio migliore. 6. In casi particolari, ad esempio in presenza di una spondilomielopatia cervicale caudale (sindrome di Wobbler), determinare se una lesione è statica o dinamica, il che condiziona il tipo di chirurgia con le maggiori probabilità di giovare al paziente, se la soluzione operatoria viene infine considerata necessaria 7. Confermare una diagnosi per esclusione (ad es., mielopatia ischemica o degenerativa). Per quanto riguarda la tecnica mielografica, verranno fornite solo poche indicazioni: 1. Scelta del mezzo di contrasto: nella nostra struttura si utilizza routinariamente un mezzo di contrasto idrosolubile iodato non ionico a bassa osmolarità con 300 mg I/ml (Iohexol, Omnipaque, Amersham Health). Sono disponibili preparazioni meno concentrate, ma quelle con concen-

trazione più elevata forniscono una migliore opacizzazione dello spazio subaracnoideo e sono maggiormente sensibili all’utile effetto della gravità (Kirberger, R.M., 1994). 2. Dose: 0,3-0,45 ml/kg, con una dose più elevata se la lesione è probabilmente situata più avanti rispetto al punto di iniezione e nei gatti e nei cani delle razze di piccola taglia; si impiega una dose minore nella situazione opposta, con lesioni più vicine o pazienti più grandi. In letteratura sono state citate una dose massima di 9 ml (Kirberger, R.M., 1994) e una dose minima di 1 ml. Se si desidera valutare l’intera colonna vertebrale di un cane gigante è probabilmente necessaria una dose totale leggermente superiore a 9 ml, tuttavia è vero che 10-11 ml possono essere sorprendentemente sufficienti nei cani di grossa taglia. Il paziente deve essere mantenuto adeguatamente idratato durante l’esame, dato che ciò contribuisce ad eliminare il mezzo di contrasto dall’organismo. La testa va tenuta sollevata per evitare l’accumulo del mezzo di contrasto stesso nello spazio subaracnoideo intracranico. 3. Punto di iniezione: a. Cisterna cerebellomidollare: tecnicamente più facile; rischio di gravi complicazioni se si perfora il midollo spinale; può darsi che la porzione caudale della lesione non venga visualizzata perché il contrasto segue l’area di minore resistenza (spazio subaracnoideo encefalico); l’analisi di un campione di liquor può teoricamente essere meno utile, dato che si presume che questo liquido fluisca craniocaudalmente; sono più probabili gli artefatti associati ad iniezione subdurale del mezzo di contrasto. Apparentemente, si ha un maggior rischio di crisi convulsive postmielografia (Barone, G. et al., 2002). b. Cisterna lombare: tecnicamente più difficile; effetti relativamente meno gravi se viene perforato il midollo spinale, ma non bisogna dimenticarsi di questo rischio; la pressione può consentire il flusso del mezzo di contrasto intorno alla lesione e, quindi, delinearne meglio i margini; l’analisi di un campione di liquor è teoricamente più utile; gli artefatti associati allo spandimento epidurale del mezzo di contrasto sono più probabili. La sede di iniezione raccomandata è a livello di L6-7 per i cani di piccola taglia ed i gatti, ma di L5-6 nei cani più grandi. 4. Uso della gravità: (l’impiego di un tavolo inclinabile può essere molto utile) a. Per accelerare il flusso caudale del mezzo di contrasto dopo puntura della cisterna cerebellomidollare. b. Per superare la resistenza del mezzo di contrasto a circondare una lesione dopo puntura della cisterna cerebellomidollare


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c. Per ottenere un buon riempimento delle colonne di contrasto intorno alle porzioni cervicotoraciche e toracolombari della colonna vertebrale, che sono aree dove di routine si osserva uno scarso riempimento del mezzo di contrasto o in qualsiasi altra area che in un particolare paziente mostri uno scarso riempimento dello spazio subaracnoideo

Artefatti nella mielografia Principalmente, iniezioni subdurali di mezzo di contrasto nelle mielografie cervicali (Scrivani, P.V. 2000, Penderis J. et al., 1999) e fuoriuscita epidurale del mezzo di contrasto nelle mielografie lombari, benché entrambi i tipi di artefatti si possano avere nei due tipi di iniezione. Mezzo di contrasto nei tessuti molli al di fuori del canale vertebrale o nel parenchima/canale centrale del midollo spinale. Iniezione iatrogena di bolle di gas nello spazio subaracnoideo, visibile sotto forma di difetti di riempimento radiotrasparenti molto ben definiti. Quando si verifica un’iniezione subdurale/fuoriuscita epidurale, lo spazio subaracnoideo non riceve la dose completa di mezzo di contrasto e, inoltre, il contrasto epidurale o subdurale può essere sovrapposto alla mielografia, rendendone ancor più difficile la valutazione. Questo è il motivo per cui può essere molto importante effettuare un’iniezione di prova, dato che il fatto di riuscire ad aspirare del liquor non permette di escludere l’eventualità di iniezioni di mezzo di contrasto a livello subdurale, epidurale o persino parenchimale, perché per consentire il flusso del liquor è sufficiente che solo una parte della bietta dell’ago si trovi nello spazio subaracnoideo. Se parte del mezzo di contrasto ha raggiunto lo spazio epidurale, la visualizzazione delle colonne di contrasto subaracnoidee migliora man mano che la parte restante del mezzo di contrasto viene eliminata dal normale ritorno venoso. Ripetere la radiografia dell’area dopo 10 minuti per valutare questo processo di eliminazione. Se il contrasto scompare anche dallo spazio subaracnoideo, può essere utile eseguire una seconda iniezione lombare con una dose leggermente più bassa, sperando di evitare una nuova fuoriuscita di liquido, o ricorrere all’iniezione nella cisterna cerebellomidollare. Nel peggiore dei casi, può essere necessario svegliare il paziente e ripetere l’esame in un giorno differente. Il mezzo di contrasto nel canale centrale è un riscontro poco comune che può essere privo di significato se il canale misura meno di 1 mm di diametro (Kirberger, R. M., et al., 1993), dato che talvolta il canale centrale comunica con lo spazio subaracnoideo o, occasionalmente, il mezzo di contrasto riesce ad accedere al canale stesso attraverso il tragitto dell’ago. Tuttavia, è molto probabile che il canale centrale sia abnormemente ampliato se esistono comunicazioni anomale fra esso e lo spazio subaracnoideo (trauma, neoplasia o in seguito ad iniezione diretta nel canale). Quest’ultima evenienza ha maggiori probabilità di verificarsi se l’iniezione viene eseguita più cranialmente nella colonna lombare, specialmente a livello dell’intumescenza lombare. La prognosi per l’iniezione nel canale centrale è riservata, ancor più se il volume del mezzo di contrasto che giunge nel canale è elevato.

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Approccio sistematico all’interpretazione di una mielografia 1. Valutazione critica della qualità della mielografia (adeguato riempimento dello spazio subaracnoideo da parte del mezzo di contrasto, assenza di artefatti, ecc..) 2. Posizione e larghezza delle colonne di mezzo di contrasto in tutte le proiezioni radiografiche 3. Posizione, diametro e radiopacità del midollo spinale in tutte le proiezioni radiografiche. Se si riscontra una lesione, questa deve essere ulteriormente distinta in a) extradurale, b) intradurale ma extramidollare o c) intramidollare.

Diagnosi differenziali a) Extradurali: principalmente protrusioni/estrusioni discali, ematomi e neoplasie (ossa o tessuti molli, primitive o secondarie). Considerare anche l’ipertrofia del ligamentum flavum, le cisti sinoviali, le fratture/lussazioni, le anomalie di sviluppo delle vertebre (sindrome di Wobbler, casi gravi di emivertebre, ecc..), empiema, granuloma. b) Intradurali-extramidollari: principalmente cisti aracnoidi e neoplasie (meningiomi, tumori delle guaine dei nervi), ma si devono considerare anche ematomi aracnoidi o granulomi (rari). c) Intramidollari: principalmente edema/contusione e neoplasia. Altre possibilità sarebbero la siringoidromielia o la mielomalacia

Limiti della mielografia 1. Mielografie normali (mielografia ischemica, mielopatia degenerativa, meningoencefalomielite granulomatosa, meningite). 2. Aree dove la mielografia può non essere utile (affezioni lombosacrali, empiema, estensione retroperitoneale di una discospondilite, fra le altre). 3. Casi difficili con assenza di una buona delineazione dello spazio subaracnoideo da parte del mezzo di contrasto 4. Edema/contusione/emorragia midollare 5. Grandi lesioni extradurali (materiale discale ed emorragie, principalmente)

Bibliografia Barone, G., Ziemer, L.S., Shofer, F. S. & Steinberg, S. A. (2002) Risk factors associated with development of seizures after use of iohexol for myelography in dogs: 182 cases (1998). J Am Vet Med Assoc, 220, 1499-1502. Kirberger, R.M. (1994) Recent developments in canine lumbar myelography. Compendium on Continuing Education for the Practicing Veterinarian, 16. Kirberger, R. M. and Wrigley, R. H. (1993) Myelography in the dog: review of patients with contrast medium in the central canal. Veterinary Radiology and Ultrasound, 34, 253 - 258. Penderis, J., Sullivan, M., Schwarz, T. & Griffiths, I. R. (1999) Subdural injection of contrast medium as a complication of myelography. J Small Anim Pract, 40, 173-176. Scrivani, P. V. (2000) Myelographic artifacts. Vet Clin North Am Small Anim Pract, 30, 303 - 14, vi.

Indirizzo per la corrispondenza: Llabrés-Diaz, Francisco J. Davies Veterinary Specialists, Manor Farm Business Park, Higham Gobion, Herts, UK


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Diagnostica per immagini avanzata del rachide Francisco J. Llabrés-Diaz DVM, DVR, Dipl ECVDI, MRCVS, Higham Gobion, Herts, UK

Come ricordato nella relazione sulla radiologia del rachide, la mielografia non è più la migliore tecnica di diagnostica per immagini per la valutazione dei pazienti veterinari colpiti da patologie spinali o paraspinali. Sia la tomografia computerizzata (TC) che la risonanza magnetica (MRI) si vanno diffondendo sempre di più e, specialmente la MRI, hanno iniziato a sostituire l’uso della radiografia/mielografia in alcuni centri di riferimento. Lo scopo di questa relazione è quello di illustrare l’uso della MRI per la diagnosi delle condizioni spinali in medicina veterinaria, dato che l’autore ha una maggiore esperienza clinica con l’uso di questa tecnica piuttosto che con la TC. Tuttavia, bisogna comprendere che entrambe queste metodiche non sono esenti da alcuni limiti e, analogamente a quanto è stato ricordato per l’impiego della mielografia, è molto importante capire che una MRI, anche se tecnicamente perfetta, non può e non deve sostituire un corretto esame clinico neurologico ed è solo un altro passo verso la diagnosi esatta.

particolare servendosi di un mezzo di contrasto paramagnetico iniettato per via endovenosa durante l’esame (la discospondilite e la neoplasia sarebbero ottimi esempi di casi in cui l’uso del mezzo di contrasto è ritenuto utile). 8. Una delle aree in cui la MRI si va diffondendo è lo studio dei casi di sindrome della cauda equina, particolarmente associati alla discopatia lombosacrale. Il sacco durale può terminare cranialmente al disco lombosacrale e, nei casi in cui raggiunge questo livello, per il suo minor diametro e per la sua posizione più dorsale all’interno della porzione distale del canale vertebrale ostacola una valutazione mielografica accurata. La MRI può consentire di escludere oppure di caratterizzare in modo accurato una discopatia, nonché determinare la presenza e la gravità di altri fattori complicanti come, ad esempio, la spondilosi deformante laterale o la stenosi dei fori intervertebrali.

Vantaggi della MRI rispetto alle altre tecniche radiografiche tradizionali

1. Per i clinici che vogliono iniziare ad utilizzarla a. Il costo di acquisto e manutenzione dell’apparecchiatura, specialmente se si opta per un magnete a superconduzione a campo elevato. Inoltre, le apparecchiature di monitoraggio dell’anestesia devono essere del tutto o in parte compatibili con la MRI. Presso il nostro centro, l’impiego di tubi più lunghi consente di effettuare il monitoraggio dell’anestesia dalla sala di controllo, per cui è necessaria solo la spesa per l’acquisto di una sonda pulsossimetrica compatibile con la MRI. b. Il tempo e l’impegno necessari per acquisire familiarità con la tecnica e, cosa ancor più importante, con l’interpretazione delle immagini così generate. c. La durata dell’esame in confronto ad una TC o ad una mielografia “rapida” (alcune delle soddisfacenti 4 mielografie radiografiche < due indagini senza mezzo di contrasto e due radiografie dopo iniezione dello stesso > quello che riusciamo a vedere ogni tanto!). Quindi, è possibile che la MRI non sia la tecnica d’elezione nei pazienti in condizioni critiche, specialmente se si utilizza un sistema chiuso, dove il magnete circonda completamente il corpo dell’animale, per la difficoltà di accesso che questo comporta. d. Può essere difficile ottenere immagini di alta qualità della colonna vertebrale dei cani di piccola taglia e dei gatti, a causa delle ridotte dimensioni del loro midollo spinale. e. La qualità delle immagini delle porzioni toracica o toracolombare della colonna vertebrale può essere influenzata negativamente dai movimenti cardiaci e/o respiratori. 2. Per il proprietario del cane/gatto colpito a. Il costo dell’esame 3. Per tutti (veterinario/proprietario/animale)

1. Si possono ottenere immagini di qualsiasi piano (benché abitualmente si impieghino i tre ortogonali: dorsale, sagittale e trasversale). 2. La MRI offre informazioni dettagliate sul parenchima midollare, sullo spazio subaracnoideo pieno di liquor, sullo spazio epidurale e su tessuti molli perivertebrali (riassumendo, si ha un ottimo contrasto dei tessuti molli in confronto alle tecniche di diagnostica per immagini basate sui raggi X). 3. La formazione delle immagini non è ottenuta con l’uso di radiazioni ionizzanti. 4. Quindi, è molto adatta per lo studio delle condizioni neurologiche (Dennis, R. 2003). 5. Non c’è bisogno di iniettare un mezzo di contrasto nello spazio subaracnoideo, il che riduce il rischio di lesioni iatrogene e crisi convulsive secondarie (Pooya, H. A., et al. 2004). 6. Benché si sia storicamente ritenuto che la TC offra immagini di qualità superiore delle strutture ossee (le vertebre nel caso specifico della colonna vertebrale), l’uso di particolari sequenze di risonanza magnetica, e principalmente di quelle gradient echo permette lo studio dettagliato, fra l’altro, delle vertebre (questa metodica è anche utilizzata, ad esempio, per la conferma della presenza di ematomi o emorragie) (Dennis, R. 2005). 7. Sono disponibili molte altre sequenze MRI, la cui descrizione dettagliata esula dai limiti di questo lavoro. Il punto fondamentale è che il radiologo può acquisire ulteriori informazioni sulle caratteristiche di alcune lesioni utilizzando una combinazione delle differenti sequenze ed in

Limiti della MRI


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a. Eseguire una MRI, come qualsiasi altra tecnica di diagnostica per immagini, non equivale ad effettuare una diagnosi istopatologica della lesione e per confermare il sospetto diagnostico saranno necessari ulteriori test che comporteranno altri costi per il proprietario. I quadri MRI delle patologie spinali più comunemente diagnosticate nei piccoli animali: 1. Discopatia a. Acuta b. Cronica c. Emorragica d. Estrusione intramidollare e. Alta velocità basso volume f. Extracanale Questo è un riassunto di alcune delle lesioni discali più comunemente osservate. La MRI risulta utile per localizzare accuratamente i dischi colpiti (bisogna fare attenzione a non presumere immediatamente che un disco degenerato e non idratato sia responsabile dei segni clinici) e determinare la presenza e la gravità della compressione midollare quando si valuta la quantità di liquor e di grasso epidurale che rimane intorno al midollo spinale. È anche possibile diagnosticare facilmente altre modificazioni associate, che non si osservano in tutti i casi, come le emorragie (di solito epidurali) ed il danno midollare secondario (talvolta definito come disco da alta velocità e basso volume). Si deve prendere in considerazione l’ipotesi di un’emorragia se si osserva una lesione iperintensa nelle sequenze T1- e T2-pesate e non corrisponde chiaramente alla presenza di grasso. Tuttavia, per mostrare questo particolare quadro di intensità nelle sequenze in base T1 e T2, la lesione deve essere vecchia di 1-7 giorni (Tidwell, A. S. et al., 2002). Invece, le tecniche gradient echo possono confermare che una lesione è emorragica poche ore dopo che si è formata, rivelando un’alterazione ipointensa (Tidwell, A. S. et al., 2002), (Platt, S.R. et al., 2003). In caso di disco ad alta velocità e basso volume, l’effetto traumatico causato dal materiale discale e dall’edema focale secondario si presenta come un’area iperintensa nelle sequenze in base T2. In questa sequenza, si può osservare un’ipointensità all’interno del midollo se una parte di materiale discale mineralizzato attraversa le meningi per penetrare nel midollo spinale, ma le estrusioni intramidollari, pur essendo state descritte (McConnell, F. J, et al., 2004) sono meno comuni. 2. Mielopatia ischemica: in gran parte indistinguibile da una lesione midollare intraparenchimale associata ad un disco ad alta velocità e basso volume basandosi unicamente sulle immagini MRI, dato che può anche comparire come un’area iperintensa focale nelle sequenze T2-pesate. Tuttavia, è necessario studiare la presenza di una discopatia nei dischi adiacenti, per cercare di giungere alla diagnosi corretta, benché non si tratti di una soluzione del tutto affidabile. Il tipo esatto di patologia coinvolta è in una certa misura un po’ meno importante, dato che clinicamente entrambi i tipi di lesioni sono probabilmente associati ad un’insorgenza iperacuta di segni clinici e, quindi, dal punto di vista pratico, in questo scenario clinico è necessario solo confermare la presenza di una patologia midollare non compressiva. 3. Neoplasia

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a. Colonna vertebrale b. Nervi e meningi c. Affezioni vertebrali e paravertebrali La MRI, soprattutto se integrata dall’impiego di un mezzo di contrasto paramagnetico, consente di ottenere immagini estremamente buone di tutti i tipi di neoplasia, permettendo anche una buona valutazione dell’estensione del processo patologico. Talvolta, tuttavia, può essere difficile differenziare le lesioni intramidollari da quelle intradurali ma extramidollari se non si riesce ad identificare un chiaro ampliamento dello spazio subaracnoideo che porta alla lesione. 4. Sindrome di malformazione occipitale caudale e siringoidromielia associata Si tratta di una patologia comunemente osservata nel cavalier king Charles spaniel. L’anormale configurazione della fossa caudale del cranio porta a compressione cerebellare, sovraffollamento di strutture nel foramen magnum, compressione del tronco encefalico ed anomalie del flusso del liquor con siringoidromielia spinale associata (Lu, D. et al., 2003; Rusbridge, C. et al. 2003). È interessante notare che esiste una correlazione relativamente scarsa fra la gravità delle alterazioni della fossa caudale ed i segni clinici. Si devono prendere in considerazione anche altre cause di siringoidromielia, specialmente in altre razze. 5. Discospondilite ed empiema Le sequenze gradient echo sono molto indicate per stabilire la presenza o meno di irregolarità della placca terminale. Allo stesso modo, l’uso di un mezzo di contrasto paramagnetico si rivela utilissimo per valutare il grado di infiammazione dei tessuti molli. L’autore ha osservato casi impressionanti di estensione della patologia all’interno del canale (empiema) oppure in sede retroperitoneale e la MRI è risultata molto adatta a rivelare queste alterazioni in confronto alle immagini radiografiche degli stessi casi.

Bibliografia Dennis, R. (2005). Use of gradient echo pulse sequences in MRI of the spine in small animals. EAVDI Annual Congress, Naples, Italy. Abstract proceedings page 25. Dennis, R. (2003) Advanced imaging: indications for CT and MRI in veterinary patients. In Practice, 25, 243-254 Lu, D., Lamb, C. R., Pfeiffer, D. U. & Targett, M. P. (2003) Neurological signs and results of magnetic resonance imaging in 40 cavalier King Charles spaniels with Chiari type 1-like malformations. Vet Rec, 153, 260-263. McConnell, F. J. and Garosi, L. S. (2004) Intramedullary Intervertebral Disk Extrusion in a Cat. Veterinary Radiology & Ultrasound, 45, 327-330 Platt, S. R. and Garosi, L. S. (2003) Canine cerebrovascular disease: do dogs have strokes? J Am Anim Hosp Assoc, 39, 337-342. Pooya, H. A., Seguin, B., Tucker, R., Gavin, P. & Tobias, K. M. (2004) Magnetic Resonance Imaging in Small Animal Medicine: Clinical Applications. Compendium on Continuing Education for the Practicing Veterinarian, 26, 292-302. Rusbridge, C. and Knowler, S. P. (2003) Hereditary aspects of occipital bone hypoplasia and syringomyelia (Chiari type I malformation) in cavalier King Charles spaniels. Vet Rec, 153, 107-112. Tidwell, A. S., Specht, A., Blaeser, L. & Kent, M. (2002) Magnetic resonance imaging features of extradural hematomas associated with intervertebral disc herniation in a dog. Vet Radiol Ultrasound, 43, 319-324.

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Patologie infiammatorie del sistema nervoso centrale: il punto di vista del radiologo Francisco J. Llabrés-Diaz DVM, DVR, Dipl ECVDI, MRCVS, Higham Gobion, Herts, UK

La diagnosi dei processi infiammatori o infettivi che colpiscono il sistema nervoso centrale può essere facile e agevole oppure molto frustrante per il radiologo. È questo il caso tipico, ad esempio, a) di un cane afflitto da dolore dove è presente un sospetto clinico molto forte di discospondilite e b) di un cane con manifestazioni algiche dove è presente un sospetto clinico molto forte di meningoencefalite o meningomielite. I casi di discospondilite possono essere frustranti, perché non è raro che i segni radiografici compaiano con un certo ritardo rispetto alla progressione di quelli clinici, per cui quando il cane è peggiorato clinicamente le radiografie possono mostrare scarse o nulle alterazioni, mentre quando il cane sta migliorando o è persino tornato clinicamente normale, i segni radiografici possono essere più evidenti (un quadro radiografico di lisi ossea/irregolarità delle placche terminali delle vertebre vicine sarebbe tipico di una fase radiografica cronica della malattia). Il ruolo della MRI in questo particolare scenario verrà illustrato più oltre. Le radiografie riprese nei casi di meningoencefalite o meningomielite molto probabilmente sono normali. L’iniezione di un mezzo di contrasto radiografico nello spazio subaracnoideo per eseguire una mielografia influisce sui risultati dell’analisi del liquor e quindi, la MRI, se disponibile, rappresenta un mezzo di diagnostica per immagini molto migliore in questo scenario clinico, dato che è possibile effettuare un esame MRI completo prima di prelevare ed analizzare un campione di liquor, sperando di riuscire a giungere ad una diagnosi o, almeno, di ridurre l’elenco delle possibili diagnosi differenziali del caso in esame senza bisogno di affrontare i rischi connessi all’esecuzione di una mielografia. La MRI è probabilmente normale se sono colpite soltanto le meningi e non l’encefalo o il parenchima midollare, benché in alcuni casi in quelle T1pesate, dopo la somministrazione di un mezzo di contrasto paramagnetico, si identifichi una drastica accentuazione delle meningi in caso di un loro marcato interessamento. (Mellema, L. M. et al., 2002). Per dimostrare tutto questo nei casi meno evidenti possono essere utili le tecniche di sottrazione, che consentono alla MRI computerizzata di ottenere un’altra serie di immagini delle aree di postaccentuazione del contrasto attraverso una postelaborazione delle immagini T1-pesate riprese prima e dopo la somministrazione del contrasto. Quindi, un approccio più drastico e critico a questi casi consiste nell’utilizzare la MRI come primo mezzo di diagnostica per immagini ricercando la conferma del sospetto clinico o, in mancanza di questo, cercando di escludere altre possibili diagnosi differenziali del dolore e di assicurarsi che non vi siano evidenti ragioni che sconsiglino il prelievo di un campione di liquor (ad es. nei casi di instabilità atlantoassiale, piccole fratture delle vertebre cervicali craniali, ecc..).

Anche se questi due esempi corrispondono a scenari clinici reali e relativamente comuni, è estremamente importante capire che esistono molte altre condizioni infiammatorie/infettive che colpiscono il sistema nervoso centrale e possono venire diagnosticate più facilmente con le radiografie ed in particolare con la MRI. Tuttavia, nella maggior parte dei casi ed in particolar modo quando si cerca di diagnosticare una patologia intracranica, la risonanza magnetica è superiore alle riprese radiografiche. Come già ricordato, l’autore non ha esperienza clinica dell’attività con la neuroTC e, quindi, dirà ben poco in questa sede circa l’uso di questa tecnica. Tuttavia, anche altre fonti bibliografiche confermano il fatto che la MRI è superiore alla TC per la valutazione del parenchima del SNC (Dennis, R, 2003). La radiografia/mielografia può essere utile per diagnosticare casi di discospondilite, spondilite ed alcuni casi di empiema del canale vertebrale. - Discospondilite: il quadro radiografico tipico di questa patologia è già stato illustrato. La MRI può rilevare aree di anormale intensità del segnale discale e/o aree di accentuazione postcontrasto nella regione del disco intervertebrale, nelle placche terminali vertebrali, nel canale vertebrale e nei tessuti molli perivertebrali, prima che vengono identificate modificazioni più evidenti delle placche terminali. Per cercare di identificare gli agenti infettivi sottostanti e decidere quale sia la migliore linea d’azione da seguire, tuttavia, saranno necessari ulteriori test. - Spondilite: solitamente associata a neoformazione ossea che colpisce la faccia ventrale di una o più vertebre. Una possibile diagnosi differenziale radiografica sarebbe la diffusione metastatica di un tumore della parte caudale dell’addome (prostata, uretra, ghiandole dei sacchi anali, ecc..) alle vertebre lombari caudali. In altre aree della colonna vertebrale, si devono ricercare le cause infettive (più probabilmente batteriche). Sono eziologie tipiche le infezioni associate ad un corpo estraneo migrante, le ferite da morso o quelle iatrogene. Può darsi che la MRI non sia necessaria per identificare la reazione periostale, ma può essere molto utile per valutare il grado di coinvolgimento dei tessuti molli che la accompagna e può essere particolarmente indicata nei casi in cui si sia sviluppato un tragitto fistoloso. - L’empiema (in questo caso, processo settico che colpisce lo spazio epidurale) si può osservare (anche se non viene automaticamente diagnosticato) nella mielografia, specialmente se la discospondilite è associata a lesioni extradurali, multifocali o diffuse (Lavely, J. A. et al. 2006). Tuttavia, talvolta nelle mielografie si possono identificare anche casi senza discospondilite concomitante e con lesioni compressive focali e, quindi, nei casi di marcato dolore spinale e


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febbre che presentano questo riscontro mielografico si deve prendere in considerazione anche questa diagnosi differenziale poco comune, ma importante. Nell’uomo, la MRI è considerata superiore per la diagnosi di questa malattia;, inoltre, è stato affermato che la mielografia sarebbe potenzialmente in grado di consentire la diffusione del processo patologico nello spazio subaracnoideo e pertanto andrebbe evitata in questo quadro clinico tutte le volte che si può ricorrere alla MRI. Oltre alle patologie già menzionate, la MRI risulta utile anche per diagnosticare: - Malattie dell’orecchio interno: di solito dovute ad un’estensione delle affezioni dell’orecchio medio, che vengono raramente diagnosticate con la MRI sulla base della perdita del normale segnale iperintenso delle strutture dell’orecchio interno nelle immagini T2-pesate (Allgoewer, I. et al. 2000; Benigni, L. et al. 2006; Dvir, E. et al. 2000; Garosi, L. S. et al. 2000; Garosi, L. S. et al. 2003; Lamb, C.R. et al. 2000). - Estensione intracranica di una malattia dell’orecchio interno (che in certi casi può essere drammatica). - Alcuni casi di meningoencefalomielite granulomatosa, encefalite necrotizzante e alcuni casi di encefalite infettiva, specialmente se associata ad una massa patologica localizzata (ascesso o granuloma micotico). Applicando i concetti equivalenti ai segni radiografici (numero, dimensioni, forma, posizione, margine, radiopacità, aumento o diminuzione della funzione e progressione dei segni clinici nel tempo, ma sostituendo alla radiopacità il tipo di intensità) si potrebbe riassumere a grandi linee il quadro generale delle patologie infiammatorie/infettive (tranne che nei casi di discospondilite, meningite, infezioni drammatiche dell’orecchio interno, ascessi e granulomi) definendole come lesioni intraparenchimali multifocali con margini di gran lunga meno definiti di quelli che si osservano nella maggior parte dei tumori e con un quadro di intensità generale che potrebbe essere riassunto come segue: le lesioni tendono ad essere iperintense a livello dell’encefalo circostante e del parenchima midollare nelle sequenze in base T2 (T2pesate e T2-FLAIR) ma iso- e leggermente ipointense in quelle gradient echo e T1-pesate, dimostrando un quadro variabile di accentuazione dopo la somministrazione di un mezzo di contrasto paramagnetico. La diagnosi finale di solito richiede quindi l’esame istopatologico, benché possano risultare utili anche i dati ottenuti attraverso l’analisi completa del liquor, che deve comprendere anche altre indagini collaterali come i test sierologici o la PCR per la ricerca di cimurro, Toxoplasma e Neospora nel cane e FeLV, FIV, Toxoplasma e Coronavirus nel gatto per cercare di identificare la presenza di condizioni infettive. Bisogna stare attenti a non saltare alla conclusione che un quadro multifocale sia sempre di origine infiammatoria o infettiva, dal momento che si possono osservare masse multiple e ben definite in caso di metastasi, mentre nel linfoma del SNC si possono osservare lesioni multiple e mal definite con il quadro generale sopradescritto. Quadri leggermente più tipici si possono osservare nei casi di encefalite necrotizzante (carlino, Yorkshire terrier, Maltese, potenzialmente pechinese) (Ducote, J. M. et al. 1999; Kuwabara, M. et al. 1998; Lotti, D. et al 1999), meningoencefalo-

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mielite granulomatosa (questa diagnosi differenziale va presa in considerazione nelle cagne di media età di una razza terrier) (Ryan, K. et al. 2001) e FIP nel gatto. Meno frequentemente, talvolta si può osservar encefalite eosinofilica. Nell’encefalite necrotizzante, si rilevano aree diffuse di segnali anormali (solitamente iperintense nelle T2-pesate ed ipointense in quelle T1-pesate, con accentuazione scarsa o assente) che interessano la sostanza bianca del proencefalo dovute alla presenza di sottostanti necrosi ed infiammazione che possono anche coinvolgere le meningi vicine. Nel maltese e nel Carlino sono colpite sia la sostanza grigia che quella bianca. Altri riferimenti bibliografici indicano che l’interessamento della sostanza grigia e bianca è comune a tutte e tre le razze. Nello Yorkshire terrier può essere interessato anche il tronco encefalico (Ducote, M. J. et al., 1999). Si possono osservare tre forme di meningoencefalomielite granulomatosa: diffusa, focale o oculare. Il quadro di intensità è simile a quello precedentemente descritto, benché alcuni lavori riferiscano che l’accentuazione del contrasto possa essere una caratteristica più costante a causa della localizzazione perivascolare dell’anomalia ad un preciso livello istopatologico e del fatto che le lesioni tendono a colpire la sostanza bianca (Ryan, K. et al., 2001). Si osservano frequentemente lesioni focali che colpiscono il tronco encefalico e sono impossibili da differenziare dalle neoplasie basandosi unicamente sulla diagnostica per immagini. In alcuni casi colpiti da FIP si può riscontrare un quadro di marcata accentuazione periventricolare dopo somministrazione del contrasto.

Bibliografia Allgoewer, I., Lucas, S. & Schmitz, S. A. (2000) Magnetic resonance imaging of the normal and diseased feline middle ear. Vet Radiol Ultrasound, 41, 413-418. Benigni, L. and Lamb, C. R. (2006) Diagnostic imaging of ear disease in the dog and cat. In Practice, 28, 122-130. Dennis, R. (2003) Advanced imaging: indications for CT and MRI in veterinary patients. In Practice, 25, 243-254. Ducote, J. M., Johnson, K. E., Dewey, C. W., Walker, M. A., Coates, J. R. & Berridge, B. R. (1999) Computed tomography of necrotizing meningoencephalitis in 3 Yorkshire Terriers. Vet Radiol Ultrasound, 40, 617 - 621. Dvir, E., Kirberger, R. M. & Terblanche, A. G. (2000) Magnetic resonance imaging of otitis media in a dog. Vet Radiol Ultrasound, 41, 46 - 49. Garosi, L. S., Dennis, R. & Schwarz, T. (2003) Review of diagnostic imaging of ear diseases in the dog and cat. Vet Radiol Ultrasound, 44, 137-146. Garosi, L. S., Lamb, C. R. & Targett, M. P. (2000) MRI findings in a dog with otitis media and suspected otitis interna. Vet Rec, 146, 501-502. Kuwabara, M., Tanaka, S. & Fujiwara, K. (1998) Magnetic resonance imaging and histopathology of encephalitis in a Pug. J Vet Med Sci., 60, 1353-1355. Lamb, C. R. and Garosi, L. S. (2000) Two little ducks went swimming one day. Vet Radiol Ultrasound, 41, 292. Lavely, J. A., Vernau, K. M., Vernau, W., Herrgesell, E. J. & LeCouteur, R. A. (2006) Spinal Epidural Empyema in Seven Dogs. Veterinary Surgery, 35, 176-185. Lotti, D., Capucchio, M. T., Gaidolfi, E. & Merlo, M. (1999) Necrotizing encephalitis in a Yorkshire Terrier: clinical, imaging, and pathologic findings. Vet Radiol Ultrasound, 40, 622-626. Mellema, L. M., Samii, V. F., Vernau, K. M. & LeCouteur, R. A. (2002) Meningeal enhancement on magnetic resonance imaging in 15 dogs and 3 cats. Vet Radiol Ultrasound, 43, 10-15. Ryan, K., Marks, S. L. & Kerwin, S. C. (2001) Granulomatous meningoencephalomyelitis in dogs. Compendium on Continuing Education for the Practicing Veterinarian, 23, 644 - 651.

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Quando lo Staphylococcus si comporta da patogeno David H. Lloyd Professor B, Med Vet, PhD, FRCVS, Dipl ECVD, Herts, UK

INTRODUZIONE Gli stafilococchi sono batteri coccoidi Gram-positivi e catalasi-positivi che nei terreni di coltura si trovano tipicamente a grappoli, benché si possano anche presentare sotto forma di singole cellule, coppie o corte catene.1,2 Sono capaci di colonizzare la cute e le mucose di una gran varietà di animali. Si riconoscono più di 30 specie di stafilococchi. Vengono distinti fra stafilococchi patogeni, che sono coagulasi-positivi, e stafilococchi coagulasi-negativi, ma alcune specie sono coagulasi-variabili. Nel cane e nel gatto, la più comune specie patogena è Staphylococcus intermedius, benché talvolta sia coinvolto Staphylococcus aureus e siano in aumento i riscontri della forma meticillina-resistente di quest’ultimo (MRSA, methicillin-resistant S. aureus).3,4,5 Staphylococcus hyicus, riconosciuto nella maggior parte dei casi come agente patogeno del suino, si riscontra occasionalmente nei piccoli animali.3 Le specie normalmente non considerate patogene ma che possono svolgere un ruolo in questo senso comprendono S. lugdunensis, S. schleiferi ed S. felis. È possibile che il ruolo di questi microrganismi sia stato sottostimato nel passato.6,7,8 Su agar sangue, gli stafilococchi sono generalmente di colore bianco grigiastro e formano colonie circolari, lisce e lucenti. S. aureus produce un pigmento giallo e le colonie possono apparire dorate, ma la produzione può iniziare tardivamente ed il riconoscimento di una debole pigmentazione sui terreni colorati può essere difficile. La differenziazione biochimica e morfologica di S. intermedius ed S. aureus può essere difficoltosa e talvolta si verificano errori di identificazione.9,10 Nel presente lavoro verranno esaminati i meccanismi coinvolti nella patogenicità degli stafilococchi, focalizzando l’attenzione su S. aureus ed S. intermedius e trattando le recenti scoperte relative all’interazione di queste due specie ed alle modalità di controllo della produzione del fattore di virulenza.

COMPONENTI MORFOLOGICHE Le componenti della superficie degli stafilococchi possono essere coinvolte nella promozione della virulenza e nell’induzione della malattia. La maggior parte degli stafilococchi è in grado di produrre capsule, che possono proteggerli inibendo la chemiotassi e la fagocitosi da parte degli elementi polimorfi e possono anche facilitare l’adesione; questo sembra essere particolarmente importante nella promozione dell’adesione alle materie plastiche da parte degli stafilococchi coagulasi-negativi. La parete cellulare stessa, che è in gran parte costituita da peptoglicani, può anche essere portatrice del cosiddetto clumping factor (coagulasi legata) e della proteina A negli stafilococchi patogeni.2

FATTORI CHE DETERMINANO LA VIRULENZA I determinanti che permettono la virulenza11,12 consentono al microrganismo di colonizzare, accumularsi in numero sufficiente e provocare un danno a carico dei tessuti dell’ospite evitando al tempo stesso le sue difese immunitarie ed aspecifiche.13 Fondamentalmente, si tratta di meccanismi di sopravvivenza, che però non sono essenziali per la crescita e la sopravvivenza. Quando questi determinanti causano un danno sufficiente ed i meccanismi di difesa dell’ospite vengono travolti si ha la malattia. Si sa relativamente poco della patogenesi dell’infezione da S. intermedius nel cane e nel gatto. Tuttavia, sono state dimostrate alcune differenze fra le caratteristiche degli stafilococchi isolati da casi di infezione cutanea del cane e quelle dei microrganismi provenienti da portatori sani.14,15,16 Ciò nonostante, S. intermedius produce un ampio arsenale di fattori di virulenza che probabilmente sono fattori eziologici dell’infezione stafilococcica nei piccoli animali. Si ritiene che le varie componenti della virulenza condividano ruoli sovrapposti, agendo sia di concerto che da soli. Sulla base degli studi condotti su S. aureus, si dispone di una notevole conoscenza del loro contributo allo sviluppo dell’infezione nell’uomo.

FATTORI DI VIRULENZA DI S. AUREUS ED S. INTERMEDIUS • La stafilocoagulasi promuove la coagulazione del siero. La coagulasi purificata ottenuta da S. intermedius coagula il fibrinogeno dell’uomo, del cane e del coniglio, ma non quello del ratto o della cavia.17 • I peptidoglicani provenienti dalle pareti cellulari possono stimolare la produzione di pirogeni endogeni, promuovere il rilascio di IL-1, attrarre i polimorfonucleati ed inattivare il complemento. I peptidoglicani e l’acido lipoteicoico possono agire insieme per indurre lo shock.2 • La proteina A legata alla parete cellulare è capace di legare i recettori Fc e prevenire la clearance immunitaria anticorpo-mediata, mentre la proteina A extracellulare può formare immunocomplessi e determinare la deplezione dei livelli di complemento. La frequenza della proteina A legata alla parete cellulare e di quella secreta fra i vari isolati di S. intermedius è un argomento controverso.18,19 • La leucotossina appartiene alla famiglia delle tossine sinergoimenotropiche stafilococciche ed è prodotta sia da S. intermedius che da S. aureus. Agisce formando pori transmembranari letali nelle cellule bersaglio dei mammiferi.20


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• Le enterotossine degli stafilococchi (SE) sono tossine pirogene termostabili che condividono la capacità di agire da superantigeni, ma differiscono per altre caratteristiche. Si riconoscono i tipi A, B, C, D, E, G, H, I e J. I dati relativi alla produzione di queste tossine da parte di S. intermedius sono limitati.21,22 • Le emolisine sono agenti citotossici che possono recare danno alle pareti cellulari degli eritrociti. La maggior parte degli isolati di S. intermedius produce emolisine beta e delta, ma non sono state dimostrate emolisine alfa.18 Tuttavia, il loro esatto ruolo è scarsamente compreso.23 • La tossina esfoliativa è una causa della sindrome di ustione cutanea stafilococcica nell’uomo. La sua presenza è stata identificata in un S. intermedius di origine canina derivato da una piodermite e sperimentalmente si è dimostrata in grado di causare esfoliazione nel cane.24,25

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le generato durante la crescita batterica. Al contrario, S. intermedius era insensibile alle sostanze prodotte da S. aureus.26 Ciò suggerisce che S. intermedius utilizzi il quorum sensing per monitorare la prossimità di altre cellule produttrici di segnali e quindi regoli la propria espressione dei geni della virulenza per facilitare la comunicazione fra cellula e cellula, sia specie-specifica che intraspecifica.26 È probabile che questo meccanismo sia coinvolto nella determinazione del momento in cui S. intermedius diventa patogeno.

Bibliografia 1. 2.

3. 4.

CHE COSA INDUCE LA MALATTIA? Benché gli animali siano comunemente portatori di stafilococchi patogeni, l’infezione cutanea è poco frequente perché la cute è molto resistente. L’applicazione di colture alla cute è raramente causa di malattia, a meno che la cute stessa non sia danneggiata. La resistenza cutanea è assicurata da una combinazione di funzione di barriera di superficie, condizioni ambientali di superficie e comunicazioni da cellula a cellula che permettono precoci risposte antimicrobiche da parte della cute. Questi fattori limitano la colonizzazione e la proliferazione microbica a livello della superficie cutanea. Quando questi meccanismi di difesa sono compromessi, la cute può diventare suscettibile alla colonizzazione da parte degli agenti patogeni che, se sono in grado di moltiplicarsi, possono iniziare a produrre fattori di virulenza che causano un ulteriore danno ed il rilascio di principi nutritivi da parte del tessuto danneggiato. Si instaura così un circolo vizioso che può promuovere ulteriormente la moltiplicazione e l’invasione. Nell’infezione stafilococcica superficiale si ha comunemente l’induzione del prurito, che porta ad autotraumatismo e ad un’ulteriore invasione microbica.

5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.

13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21.

QUORUM SENSING

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Il cosiddetto quorum sensing (rilevamento del quorum) è un fenomeno in cui le cellule esprimono particolari caratteristiche solo quando le densità di popolazione superano certi livelli. In S. aureus, la produzione di tossine viene iniziata dal quorum sensing attraverso il sistema agr tramite molecole di segnalazione generate all’aumentare della densità cellulare. I nostri studi hanno confermato la presenza in S. intermedius di sequenze correlate all’agr di S. aureus ed hanno dimostrato che l’espressione di RNAIII (effettore del sistema agr) e di due delle esotossine di S. intermedius, la leucotossina e l’enterotossina C, viene iniziata da un segnale ambienta-

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La piodermite nel cane David H. Lloyd Professor B, Med Vet, PhD, FRCVS, Dipl ECVD, Herts, UK

INTRODUZIONE I cani sono suscettibili alle infezioni cutanee di origine batterica. Queste malattie possono essere classificate in modo molto soddisfacente in base alla profondità dell’infezione. Quelle cosiddette “di superficie” colpiscono solo la parte superficiale dell’epidermide, di norma sono limitate alle regioni interfollicolari o agli sbocchi dei follicoli piliferi e normalmente non causano formazione di pustole. Sono esempi di questo tipo la dermatite umida acuta, la “piodermite delle pieghe cutanee” e la proliferazione batterica (Tabella 1). Le infezioni “superficiali” riguardano l’epidermide e sono caratterizzate dalla formazione di pustole. L’impetigine provoca la comparsa di pustole interfollicolari, mentre la piodermite superficiale determina l’infezione sia dei follicoli piliferi che delle regioni interfollicolari. La piodermite profonda si ha quando l’infezione raggiunge il derma portando foruncolosi, cellulite, malattie granulomatose e pannicolite. Il termine di “piodermite” viene utilizzato molto genericamente e non implica l’esistenza di pus visibile in tutti questi casi. In effetti, le condizioni come la proliferazione batterica tendono ad essere caratterizzate da infiltrati che sono principalmente mononucleari.

MICRORGANISMI INFETTANTI

abbinata a ferite cutanee o malattie intercorrenti, che aprono la strada all’invasione attraverso la cute o per via sistemica. La profondità dell’infezione è probabilmente determinata dalla gravità della depressione dell’immunità indotta dalle cause sottostanti. Questi fattori probabilmente consento la proliferazione degli stafilococchi a livello di superficie cutanea, promuovendo dapprima la colonizzazione e poi l’infezione.

PIODERMITE DI SUPERFICIE Si tratta di malattie in cui il mutamento delle condizioni presenti a livello della superficie cutanea determina un degrado della funzione di barriera superficiale e promuove la proliferazione batterica. Un effetto importante è il prurito. Nella dermatite umida acuta (dermatite piotraumatica) il fattore scatenante è il danno autoinflitto; si tratta di una conseguenza comune dell’allergia da pulci o di altre cause di prurito. Il danno viene inflitto dalla morsicatura e dal leccamento e quindi determina il trasferimento della flora orale sulla cute degradata. Il perdurare del danno garantisce la progressione della malattia. I microrganismi coinvolti sono tipicamente rappresentati dalla flora orale, ma gli isolati predominanti sono ancora gli stafilococchi patogeni, specialmente S. intermedius. La diagnosi si basa sui tipici segni clinici ed anamnesi. Un accurato esame delle lesioni, dopo pulizia, è essenziale nei casi in cui è presente una piodermite sottostante superficiale o profonda, come

Gli stafilococchi patogeni sono coinvolti nella maggioranza dei casi di infezione cutanea del cane. In più del 90% di questi si può isolare Staphylococcus intermedius. OccaPiodermite di superficie sionalmente sono presenti altri sta• Dermatite umida acuta filococchi patogeni, quali S. aureus Tabella 1- Classificazione • Piodermite delle pieghe cutanee ed S. hyicus. della piodermite nel cane • Proliferazione microbica1 Sono sempre più in aumento le 1. Comunemente sostenuta sia da Piodermite superficiale segnalazioni di isolamenti di S. stafilococchi patogeni che da • Impetigine (“piodermite del cucciolo”) schleiferi, sia coagulasi-positivo Malassezia. Non è una pioder• Piodermite mucocutanea che coagulasi-negativo, nelle infemite in senso stretto, perché l’in• Piodermite diffusiva superficiale zioni cutanee del cane. Nelle infefiltrato è principalmente mono• Follicolite superficiale zioni della piodermite canina è 2 nucleare • Dermatofilosi anche possibile trovare una varietà 2. Molto rara Piodermite profonda di altri batteri. Gli agenti Gram-negativi come • Foruncolosi e follicolite del muso Proteus spp. ed E. coli sono proba• Piodermite profonda localizzata (piodermiti nasali, bilmente degli invasori secondari. podali e dei punti di pressione, foruncolosi e piodermiL’infezione cutanea dovuta ad te traumatica) altri microrganismi, come gli attino• Piodermite profonda generalizzata miceti ed i micobatteri, è associata • Granulomi batterici all’esposizione a fonti di infezione


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la foruncolosi e follicolite piotraumatica. In questi soggetti, il trattamento deve essere volto a risolvere l’infezione più profonda. La piodermite delle pieghe cutanee deriva dal danneggiamento causato dallo sfregamento abbinato ad un ambiente umido. Si tratta di un effetto cronico e la riduzione della funzione di barriera causata dallo sfregamento abbinato ad alterazioni della secrezione delle ghiandole cutanee ed alla contaminazione da parte di altre secrezioni (ad es., saliva, lacrime) determina la formazione di un ambiente caldo ed umido che favorisce la proliferazione microbica. Gli stafilococchi patogeni tendono a predominare, ma possono essere coinvolti anche agenti Gram-negativi e, comunemente, Malassezia pachydermatis. I microrganismi promuovono l’irritazione della cute e lo sfregamento o il leccamento da parte dell’ospite; anche in questo caso, si determina un circolo vizioso. La diagnosi si basa sui segni clinici. Bisogna far attenzione ad escludere le infezioni più profonde ed anche la demodicosi, che talvolta è presente. La proliferazione microbica si può avere quando esiste un disturbo della funzione di barriera superficiale o un’untuosità in qualsiasi sede. La condizione comprende la dermatite da Malassezia, ma talvolta è di origine batterica pura. Questa malattia verrà trattata a parte.

PIODERMITE SUPERFICIALE Queste malattie richiedono che la funzione di barriera cutanea e l’immunità siano compromesse in maniera tale non solo da consentire la proliferazione microbica di superficie, ma anche da permettere l’invasione dell’epidermide. L’impetigine si riscontra tipicamente nei cani adolescenti ed è probabilmente causata dallo squilibrio delle alterazioni fisiologiche della cute legate alla maturità del cane. La condizione nei cani giovani coinvolge gli stafilococchi patogeni. Generalmente si risolve da sola man mano che l’animale matura, ma può richiedere una terapia minima. Nei cani anziani con endocrinopatia o altre malattie debilitanti si osserva una sindrome più grave che può coinvolgere anche batteri Gram-negativi (Pseudomonas, E. coli). La diagnosi si fonda sull’anamnesi e sulla presenza di pustole non follicolari contenenti batteri. La follicolite si ha quando la proliferazione batterica nei follicoli piliferi porta alla formazione di pustole all’interno dei follicoli stessi e dell’epidermide follicolare. Può essere limitata allo sbocco ed alla parte superiore del follicolo, ma si può anche estendere più profondamente. Le lesioni papulose e pustolose che ne derivano sono tipicamente caratterizzate da un marcato prurito ed il danno autoinflitto può estendere l’infezione e portare a foruncolosi. Nei casi tipici, sono coinvolti S. intermedius o altri stafilococchi patogeni. Quando esiste un marcato autotraumatismo e nei casi gravi si possono avere infezioni secondarie da microrganismi Gramnegativi. Le lesioni associate alla follicolite mostrano tipicamente il cosiddetto aspetto “a bersaglio” circondato da collaretti epidermici. La formazione di queste alterazioni può essere associata alla secrezione di una tossina esfoliativa da parte di S.

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intermedius. L’attività secretoria per questa tossina differisce fra vari cloni di questo microrganismo ed è possibile che le lesioni che si estendono della “piodermite diffusiva superficiale” siano associate a cloni dall’elevata capacità secernente. La diagnosi si fonda sulla presenza di papule e pustole e sulla dimostrazione di un’infezione batterica nelle lesioni. La piodermite mucocutanea si osserva tipicamente a livello delle labbra, in particolare delle commessure, dove l’iniziale rigonfiamento è seguito dalla formazione di croste ed erosioni. Si può osservare la comparsa di papule e pustole e in alcuni casi può anche essere presente una piodermite profonda, talvolta associata ad emorragia. La risposta al trattamento con antibiotici topici o sistemici conforta l’ipotesi dell’eziologia batterica di questa malattia e contribuisce a confermare la diagnosi. Se non si ha risposta ad una terapia antibiotica appropriata, è indicato il ricorso all’istopatologia.

PIODERMITE PROFONDA Queste malattie possono essere localizzate (foruncolosi e follicolite del muso, piodermiti nasali, podali e dei punti di pressione, foruncolosi e follicolite piotraumatica) nei casi in cui è presente una distruzione cutanea locale o generalizzata. Si manifestano quando esiste una marcata riduzione di immunità e di funzione di barriera cutanea. Quando questo processo interessa l’immunità generale dell’organismo, le lesioni possono essere estese o generalizzate. Nella piodermite profonda, i microrganismi infettanti sono in grado non solo di invadere l’epidermide, ma anche il derma e, in alcuni casi, il sottocute. In genere queste malattie sono una conseguenza dell’estensione della piodermite superficiale, ma possono anche essere associate ad altre affezioni che causano un danno cutaneo o deprimono l’immunità. Il trauma delle lesioni superficiali può portare a frattura dei follicoli piliferi con fuoriuscita dei microrganismi infettanti nel derma. L’inoculazione di stafilococchi patogeni nel derma di cani sani esita soltanto nella formazione di lesioni transitorie e quindi, per promuovere la piodermite profonda, sono necessari altri fattori. Nella maggior parte dei casi sono coinvolti frammenti di peli o cheratina follicolare che agiscono da corpi estranei, promuovendo l’infezione ed inibendo l’attività antimicrobica da parte delle cellule ospiti. Anche altri agenti possono determinare questo effetto. La conseguenza è la formazione di un granuloma. La diagnosi si basa sulla presenza di grandi lesioni papulose o nodulari infette, spesso associate ad emorragia o presenza di tragitti fistolosi. Nelle infezioni granulomatose profonde può essere coinvolta una gran varietà di microrganismi ed è sempre di estrema importanza identificare la natura degli agenti responsabili. Nelle malattie gravi, sono comunemente presenti molteplici microrganismi infettanti. È consigliabile ricorrere all’istopatologia ed alla batteriologia e micologia profonde, che comprendano il prelievo di campioni di tessuto mediante biopsia. Nei casi di piodermite profonda ricorrente associati


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a ferite non tendenti alla guarigione, si deve sospettare una micobatteriosi. Dal momento che per diagnosticare queste infezioni sono necessari metodi speciali, è importante informare il laboratorio di questa possibilità quando si inviano campioni. La terapia deve essere prolungata per trattare queste lesioni e, come sempre, occorre identificare ed eliminare le cause sottostanti. Queste possono essere rappresentate da demodicosi, malattie pruriginose che portano ad autotraumatismo, endocrinopatia, infezioni sostenute da altri microrganismi (ad es., dermatofitosi, leishmaniosi) ed immunosoppressione. Per alcune di queste condizioni, come ad esempio la foruncolosi e follicolite del muso del Dobermann e del bulldog inglese, esistono delle predisposizioni di razza.

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Novità nella gestione terapeutica della piodermite David H. Lloyd Professor B, Med Vet, PhD, FRCVS, Dipl ECVD, Herts, UK

INTRODUZIONE La piodermite del cane non è una malattia primaria. Quindi, è sempre importante identificare i fattori sottostanti. Di solito si tratta di allergie, ma possono anche intervenire endocrinopatie, immunodeficienze, infestazioni ectoparassitarie, displasia follicolare e predisposizione di razza. La diagnosi delle condizioni sottostanti può non essere facile. Il trattamento durante la fase diagnostica deve essere finalizzato a far progredire la diagnosi ed evitare di camuffare i segni clinici di valore diagnostico. La terapia con antibiotici è una buona strategia diagnostica perché elimina la piodermite e contribuisce ad esporre le condizioni sottostanti. Nella presente relazione si partirà dal presupposto che sia stata formulata una diagnosi e non verrà trattata la terapia delle cause sottostanti. La proliferazione microbica cutanea verrà trattata separatamente.

PIODERMITE DELLE SUPERFICI Dermatite umida acuta. È essenziale la prevenzione di ulteriori traumi, che talvolta consente di ottenere la guarigione senza ulteriore terapia. Bisogna assicurarsi che non siano presenti follicoliti o foruncolosi sottostanti. Poiché il danno dell’epidermide è una conseguenza del trauma, la guarigione è rapida. Tuttavia, le lesioni sono spesso dolorose e la terapia topica, che richiede il contatto diretto con la cute, può essere pericolosa. I prodotti topici a base di antibiotici o steroidi in gel o creme sono efficaci, ma è stato dimostrato che il trattamento spray con preparati astringenti, antimicrobici ed emollienti (Ascher et al., 1995) è altrettanto efficace e probabilmente meno pericoloso. Le lesioni devono essere sostanzialmente guarite entro 7-10 giorni. Nei casi in cui è presente un prurito marcato possono essere necessari i glucocorticoidi sistemici. Piodermite delle pieghe cutanee. L’ideale è rimuovere chirurgicamente le pieghe. Se l’intervento non è attuabile, è necessario ricorrere a misure che rendano inospitale per batteri e lieviti il microambiente all’interno delle pliche. Risulta efficace la pulizia ogni due o tre giorni con uno shampoo antimicrobico. Sono adatti il benzoilperossido e la clorexidina, da sola e associata al miconazolo. La clorexidina è molto instabile e, quindi, è consigliabile scegliere preparazioni ben formulate con un’efficacia nei confronti di batteri e Malassezia. Il benzoilperossido va utilizzato con cautela perché gli animali possono sviluppare una sensibilità e può causare irritazione. Nei casi più lievi può essere efficace l’etil-lattato, che ha una bassa azione irritante. Gli intervalli fra gli sham-

poo possono essere prolungati ricorrendo a gel e creme antimicrobici. Può anche essere efficace il trattamento spray con una preparazione calmante, antimicrobica ed astringente.

PIODERMITE SUPERFICIALE L’impetigine di norma risponde agli shampoo antimicrobici. L’impiego in due o tre occasioni nell’arco di un periodo di 7-10 giorni dovrebbe essere efficace nei casi non complicati. Si hanno comunemente delle risoluzioni spontanee. La piodermite mucocutanea può rispondere al trattamento con shampoo antibatterici, effettuato nel modo precedentemente descritto, seguito dall’uso di pomate antibatteriche come la mupirocina. Può avere effetto un trattamento giornaliero per due settimane e poi una o due volte alla settimana. Dopo la risoluzione, la malattia può rimanere in sospeso, ma in genere sono necessari ripetuti trattamenti. In caso di infezione più profonda o più estesa, o se la terapia topica è difficile, bisogna ricorrere agli antibiotici sistemici. Può essere necessario un trattamento per 4 settimane o più. Se non si ottiene il successo desiderato, sono indicate ulteriori procedure diagnostiche, compresa la biopsia. Follicolite superficiale. Si utilizza normalmente una terapia mediante antibiotici sistemici. Sono efficaci gli agenti batteriostatici, ma i battericidi possono essere molto più utili. È consigliabile protrarre il trattamento per almeno una settimana dopo la guarigione clinica. Quest’ultima può essere favorita dall’impiego di shampoo antibatterici contenenti clorexidina o benzoilperossido, che contribuiscono a rimuovere le croste e ridurre le popolazioni batteriche superficiali. La piodermite superficiale lieve può venire trattata con questi shampoo senza antibiotici sistemici, ma è necessario un notevole lavoro; gli shampoo vanno effettuati ogni 2-3 giorni. Una volta che si sia ottenuta la risoluzione delle lesioni, i trattamenti con gli shampoo devono essere ridotti a 1-2 volte alla settimana; in inverno, può essere sufficiente un trattamento alla settimana o al mese per mantenere la remissione. In presenza di un’infezione ricorrente e di cause sottostanti che non possono essere identificate o controllate, bisogna prendere in considerazione delle opzioni terapeutiche a lungo termine. Shampoo regolari con prodotti antibatterici possono consentire di ottenere il controllo. Altrimenti, le opzioni principali sono la terapia pulsante con antibiotici e la vaccinazione antistafilococcica. Quest’ultima è una scelta migliore. I vaccini autogeni ben preparati (batterine) sono efficaci nel 50% circa dei casi; i cani che rispondono non necessitano di altre terapie. È stato anche dimostrato che un


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lisato batterico americano, preparato a partire da S. aureus, è in grado di ridurre la frequenza della follicolite e la necessità di ripetuti trattamenti antibiotici. La terapia con un dosaggio pulsante oppure continuo a basse dosi deve costituire l’ultima risorsa, perché può promuovere lo sviluppo di un’antibioticoresistenza, benché recenti dati (Carlotti et al. 2004) indichino che questo rischio possa essere basso. Alla luce del fatto che l’agente patogeno responsabile può essere ospitato sulle mucose, in particolare delle vie aeree superiori e dell’ano, alcuni clinici hanno utilizzato antibiotici topici per il trattamento delle mucose nasali e/o anali. Studi sperimentali hanno dimostrato che le popolazioni di S. intermedius possono venire eliminate con questo metodo utilizzando acido fusidico (Saijonmaa-Koulumies et al.). Esistono segnalazioni aneddotiche che riferiscono che questo trattamento è risultato utile in casi di piodermite ricorrente.

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dius; potrebbe rivelarsi un S. aureus meticillina-resistente. Ricordatevi che su un singolo animale possono essere presenti parecchi ceppi differenti. Un singolo antibiogramma può non dare un quadro completo. Il fallimento di un particolare antibiotico può significare che avete eliminato solo una parte della popolazione batterica responsabile. Ripetete sempre il test. Assicuratevi che il vostro campione contenga il materiale proveniente dagli strati profondi delle lesioni; allo scopo può essere necessaria la biopsia. Generalmente, risultano efficaci i dosaggi raccomandati dai produttori. Occasionalmente sarà necessario impiegare posologie più elevate per ottenere livelli efficaci di antibiotico all’interno delle lesioni o per superare resistenze di basso livello.

Bibliografia 1.

PIODERMITE PROFONDA Quando è presente un’infezione profonda vi sono fattori locali che causano il danno cutaneo e carenze più gravi nel sistema immunitario dell’animale colpito. Se queste possono essere risolte, la guarigione dovrebbe essere completa. È necessario sforzarsi di identificare i fattori sottostanti. Una causa comune è la demodicosi. Nelle lesioni essudative, i lavaggi e le spugnature con agenti antimicrobici sono utili per rimuovere pus e detriti e possono accelerare la guarigione. Tosare il pelo è utile, permette di dimostrare l’estensione della lesione e può servire a persuadere il cliente a collaborare al trattamento. È necessaria una terapia prolungata con antibiotici sistemici battericidi, che deve continuare per almeno due settimane dopo la guarigione clinica. Nei casi in cui le lesioni sono localizzate in aree con un cattivo apporto ematico o in presenza di grandi lesioni granulomatose risultano particolarmente utili i fluorochinoloni, che hanno una buona penetrazione. In rari casi può essere necessario servirsi di antibiotici inusuali per ottenere la penetrazione, come la rifampicina. Talvolta sono coinvolti microrganismi insoliti, come gli attinomiceti o i micobatteri, e può essere presente una concomitante infezione micotica. Può darsi che sia necessario ricorrere a procedure diagnostiche accurate, che comprendano un colloquio con il laboratorio interessato, perché è possibile che i metodi di routine non siano efficaci.

SCELTA DEGLI ANTIBIOTICI E LORO DOSAGGIO Benché gli antibiotici possano essere scelti su base empirica, in presenza di infezioni ricorrenti o in mancanza di risposta è necessario effettuare gli esami colturali e gli antibiogrammi. Assicuratevi di servirvi di un laboratorio affidabile e chiedete esiti inusuali, ad esempio una resistenza molto ampia in un microrganismo identificato come S. interme-

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Sovracrescita batterica cutanea nel cane David H. Lloyd Professor B, Med Vet, PhD, FRCVS, Dipl ECVD, Herts, UK

INTRODUZIONE La proliferazione microbica è una condizione cutanea recentemente descritta nel cane e caratterizzata dalla presenza di sostanziali aumenti delle popolazioni dei batteri, in particolare Staphylococcus intermedius, e del lievito Malassezia pachydermatis. Batteri e lieviti si possono riscontrare simultaneamente. Quando è presente solo M. pachydermatis la condizione è equivalente alla dermatite da Malassezia. Tuttavia, la proliferazione microbica si verifica molto più comunemente ed in una gamma più ampia di situazioni cliniche rispetto a quella che è stata descritta per la dermatite da Malassezia. Spesso, costituisce una causa non riconosciuta del prurito, in particolare nelle zone più nascoste del corpo dell’animale, come nelle aree interdigitali. Si riscontra comunemente nell’atopia o in altre allergie e il successo del suo trattamento determina spesso una notevole riduzione delle misure che in questi casi è necessario adottare per porre sotto controllo il prurito.

EZIOLOGIA E PATOGENESI Batteri. I batteri sono ospiti della superficie della cute e delle mucose, ma generalmente le loro popolazioni nella cute sana si mantengono basse. A livello dermatologico, questa situazione è una conseguenza del microambiente superficiale sfavorevole e delle misure difensive mantenute dalla cute.1 Quando quest’ultima è danneggiata o le sue difese sono compromesse da malattie dermatologiche o difetti di immunità, viene promossa l’adesione ai cheratinociti dei batteri, che sono quindi in grado di proliferare. Gli stafilococchi patogeni e, nel cane, in particolare S. intermedius sembrano particolarmente capaci di trarre vantaggio da queste modificazioni. Quando si instaurano elevate densità cellulari locali (formazione di biofilm) di stafilococchi, si può avere il cosiddetto quorum sensing (rilevamento del quorum).2 Si tratta di un meccanismo in cui si ha uno scambio di segnali di densità cellulare fra gli stafilococchi, che permette loro di produrre tossine che possono irritare e danneggiare la cute quando le dimensioni della popolazione raggiungono una certa soglia. Molti fattori possono portare ad irritazione cutanea favorendo l’adesione batterica, la proliferazione e la formazione del biofilm, come ad esempio l’atopia, l’aumento dell’umidità, la compromissione delle barriere di superficie, i fattori che degradano la superficie cutanea (sfregamento, autotraumatismo, macerazione), le alterazioni seborroiche, l’essudazione, la depressione della funzione immunitaria della cute. Una volta che sia iniziata la produzione di tossine viene indotto un maggiore danno cutaneo e

l’immunità può essere ulteriormente compromessa portando ad un circolo vizioso di danno e proliferazione batterica. Malassezia. M. pachydermatis è presente come commensale della cute e delle mucose della maggior parte dei cani. Negli animali sani viene isolato più comunemente a livello delle labbra e della cute interdigitale (dove presenta anche una densità di popolazione più elevata) piuttosto che delle orecchie. L’ano sembra essere la sede più frequentemente colonizzata fra le mucose.3 M. pachydermatis agisce da patogeno opportunista ed i fattori che ne promuovono la patogenicità possono comprendere l’aumento della temperatura e dell’umidità, l’eccessiva secrezione di lipidi, le malattie intercorrenti e la terapia con antibiotici e glucocorticoidi; tuttavia, questo rimane controverso.4 L’applicazione di M. pachydermatis alla cute di beagle può evocare reazioni infiammatorie che sono più gravi in condizioni di aumento di umidità e portano ad un ritardo delle risposte di ipersensibilità;5 inoltre, questo lievito può produrre una varietà di enzimi come le lipasi e le esterasi che possono riuscire a danneggiare direttamente o indirettamente la cute.6 Nella dermatite da Malassezia sono importanti i fattori correlati alla razza; risultano particolarmente predisposti i basset hound ed i west higland white terrier. Le popolazioni di M. pachydermatis a livello di cute e mucose sono elevate nei basset sani e l’adesione del lievito ai corneociti derivati dai basset sani è superiore a quella che si riscontra nel caso di microrganismi provenienti dal setter irlandese. Tuttavia, l’adesione nei basset hound colpiti è inferiore a quella dei cani normali.7 È possibile che sia la speciale composizione lipidica della cute del cane ad esercitare un effetto permissivo sulla colonizzazione e l’infezione da parte di questo microrganismo che, pur non essendo lipidi-dipendente, cresce molto più rapidamente in vitro in terreni arricchiti con lipidi. I basset hound, che tendono ad avere una cute untuosa, possono offrire un ambiente più favorevole rispetto ad altre razze meno suscettibili. S. intermedius ed M. pachydermatis sono ospiti delle mucose, comprese quelle della cavità orale, e di conseguenza vengono trasferiti alla cute continuamente, in particolare nelle aree che richiedono pulizia e toelettatura e in quelle dove è presente prurito. Quindi, ogni volta che la cute è danneggiata o è presente una malattia sottostante che ne compromette la funzione, esiste il potenziale per l’instaurarsi di una proliferazione microbica.

CARATTERISTICHE CLINICHE La proliferazione microbica è caratterizzata tipicamente dalla presenza di eritema, untuosità o essudazione, prurito e


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colorazione da saliva in assenza di papule e pustole. I proprietari possono non essere consapevoli delle lesioni ed è necessario un accurato esame clinico con una buona illuminazione. Nelle lesioni croniche o gravi possono essere presenti escoriazioni e lichenificazione. È comune il riscontro di cattivo odore, specialmente quando è coinvolto Malassezia. La proliferazione si osserva normalmente nelle aree di cute umida o coperta come le labbra e le zone fra i cuscinetti plantari e le dita, l’inguine, le aree perivulvari e perianali, la parte ventrale dell’addome, le ascelle, i padiglioni auricolari e le pliche cutanee. È frequentemente presente nei cani con dermatopatia allergica. Può essere molto localizzata o colpire parecchie sedi differenti in un cane.

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è anche attivo nei confronti dei batteri riscontrati nella proliferazione microbica e viene utilizzato per il trattamento e la gestione di questa condizione da parte dell’autore, in particolare quando le lesioni sono localizzate. Nei casi gravi o estesi di proliferazione microbica o quando non è attuabile il lavaggio delle aree colpite, può essere molto utile la terapia sistemica con cefalexina alla dose di 15 mg/kg due volte al giorno8 e/o imidazoli, a seconda della natura dei microrganismi coinvolti. Il ketoconazolo (5-10 mg/kg due volte al giorno con il cibo) o l’itraconazolo (5 mg/kg due volte al giorno o 10 mg/kg una volta al giorno) sono efficaci quando vengono impiegati per 2-4 settimane. La valutazione della risposta al trattamento si può ottenere rapidamente e facilmente mediante campioni prelevati con nastro adesivo e colorati con Diff-Quick

DIAGNOSI La proliferazione microbica va sospettata ogni volta che siano presenti lesioni compatibili, anche se lievi. La diagnosi viene confermata citologicamente mediante campioni prelevati con nastro adesivo, preparati per impronta su vetrino o strisci di tamponi colorati con Diff-Quick, che evidenziano un aumento delle popolazioni di batteri o Malassezia. Il metodo del nastro adesivo è quello d’elezione perché talvolta i microrganismi non sono localizzati sulla superficie delle lesioni e la ripetuta applicazione del nastro sullo stesso punto rivela le popolazioni più profonde. La presenza di un numero di batteri8 superiore a 5 o di Malassezia superiore a 2 per campo microscopico ad immersione ad olio a 1000 ingrandimenti è indicativa di proliferazione microbica. Il genere le popolazioni sono molto più elevate, ma i microrganismi si possono riscontrare a grappoli, per cui è necessario esaminare almeno 20 campi. Il successo del trattamento della proliferazione microbica consente spesso l’identificazione della malattia sottostante. Se questi problemi di base non vengono identificati e controllati, è probabile che la proliferazione recidivi.

Bibliografia 1.

2.

3.

4.

5.

6.

7.

TRATTAMENTO E CONTROLLO 8.

La condizione normalmente risponde alla terapia topica con shampoo antimicrobici, contenenti clorexidina da sola o associata a miconazolo, due agenti attivi nei confronti di stafilococchi e Malassezia. L’applicazione di shampoo ogni 23 giorni per due settimane di norma è in grado di portare la condizione sotto controllo. In seguito, di solito è sufficiente un trattamento una o due volte alla settimana. Per le lesioni podaliche localizzate può anche essere utile la clorexidina in polvere. Recenti studi hanno dimostrato che contro la proliferazione da Malassezia risulta comodo ed efficace uno spray astringente, calmante ed antimicrobico.9 Questo spray

9.

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Resistenza antimicrobica degli stafilococchi David H. Lloyd Professor B, Med Vet, PhD, FRCVS, Dipl ECVD, Herts, UK

INTRODUZIONE L’uso degli agenti antimicrobici promuove lo sviluppo di resistenza fra i microrganismi che vengono esposti a questi farmaci, sia che si tratti di patogeni infettanti che di componenti della flora normale.1 La velocità con cui tale resistenza si sviluppa dipende dalla densità di selezione (la quantità di antimicrobico utilizzata per individuo in una definita area geografica).2 In confronto all’impiego degli antimicrobici in agricoltura ed in medicina umana, l’uso negli animali da compagnia (cani, gatti, cavalli) è limitato. Nel Regno Unito, nel 2001, l’impiego totale degli antimicrobici a scopo terapeutico in agricoltura è stato di 420 tonnellate. Nel cavallo, nel cane e nel gatto si sono totalizzate 39 tonnellate (circa il 9%); questo dato è rimasto intorno a 30-40 tonnellate dal 1995.3,4 La stretta prossimità degli animali da compagnia con i loro proprietari offre le opportunità per uno scambio di microrganismi di fattori che determinano la resistenza fra queste popolazioni e si è stabilito che l’uso veterinario degli antimicrobici nei piccoli animali comporti un rischio per la popolazione umana.5

L’INFEZIONE STAFILOCOCCICA NEL CANE L’infezione stafilococcica nel cane coinvolge di norma Staphylococcus intermedius (SI; circa il 90% dei casi). Occasionalmente viene isolato S. aureus ed occasionalmente S. hyicus.6 Il coinvolgimento di S. schleiferi viene riconosciuto sia nelle malattie cutanee che nelle otiti7,8, ma il suo ruolo come agente patogeno è ancora indefinito. SI è un commensale del cane9 ed un residente delle mucose e quindi viene influenzato dagli antibiotici somministrati per il trattamento di infezioni di ogni genere. Nel Regno Unito, Lloyd et al.6 hanno esaminato la sensibilità in 2.296 isolati canini (costituiti principalmente da SI) ottenuti da cute, orecchie e mucose, presso strutture veterinarie specialistiche, durante il periodo 1980-1996. La resistenza alla penicillina è aumentata dal 69,0% all’89,3%. La resistenza all’ossitetraciclina è rimasta intorno al 40%; quella all’eritromicina ed alla lincomicina ed al cotrimossazolo ha raggiunto un picco prossimo al 20% e 15%, rispettivamente, nel 1987-89, ma in seguito ha mostrato una caduta. Fra il 1986 ed 1996 è stato riscontrato un solo isolato resistente alla cefalessina. Non è stata dimostrata alcuna resistenza ad amossicillina/clavulanato, oxacillina, meticillina ed enrofloxacin. Da allora, nel Regno Unito sono stati identificati iso-

lati più resistenti. In Francia, uno studio di Nantes10 ha dimostrato un aumento della percentuale di SI multiresistenti (≥ 3 antimicrobici) dall’11% nel 1986-7 al 28% nel 1995-6. Una tendenza all’aumento della resistenza antimicrobica è stata dimostrata anche in Svizzera.11 I fluorochinoloni sono stati registrati per l’impiego in Europa nella metà degli anni ’90 del secolo scorso e ci sono dati che indicano un aumento della resistenza fra SI di origine canina. È stata segnalata una resistenza dello 0,9% in 858 isolati esaminati fra il 1996 ed il 1998 da Lloyd et al. nel Regno Unito,12 ma in cani svedesi nel 1992 e nel 2000 sono stati osservati livelli più elevati (8-12%).5 È stato riferito che l’acquisizione della resistenza antimicrobica da parte di SI è associata a ripetuti trattamenti13 e può essere acquisita mediante trasferimento di plasmidi da altri stafilococchi presenti sulla cute del cane.14 Tuttavia, in SI si ha un basso trasporto di plasmidi e la resistenza tende ad essere cromosomica.15,16 È possibile che ciò abbia protetto SI dall’acquisizione di una multiresistenza, come è avvenuto per S. aureus, S. hyicus ed S. schleiferi.7,17 In ambito clinico, la scelta degli antibiotici efficaci per l’infezione da SI nel cane, anche presso le strutture specialistiche, non è quasi mai un argomento affrontato nel Regno Unito. Tuttavia, in altri Paesi viene riferita una maggiore resistenza10 e l’aumento della mobilità degli animali e dei proprietari comporta dei rischi per tutti i Paesi. L’errata identificazione di S. aureus, compresi i ceppi meticillina-resistenti (MRSA, methicillin-resistant S. aureus), che viene confuso con SI, è talvolta responsabile di segnalazioni di resistenza alla meticillina in quest’ultimo. A differenza di quanto avviene per le infezioni da SI, i problemi si verificano quando altri stafilococchi patogeni provocano un’infezione nel cane. Ciò risulta generalmente associato a ripetuti trattamenti ed infezioni croniche, circostanze in cui i ceppi multiresistenti, ed in particolare MRSA, vengono sempre più isolati.7,18 La resistenza alla meticillina negli stafilococchi coagulasi-negativi e coagulasi-variabili è relativamente comune, ad es., S. schleiferi.19 Tuttavia, la resistenza multifarmacologica in S. schleiferi non sembra essere un problema.

L’INFEZIONE STAFILOCOCCICA NEL GATTO Nel gatto, SI sembra essere lo stafilococco patogeno predominante, sia negli USA che in Gran Bretagna, ma è coinvolto anche S. aureus.20,21 È anche comunemente presente S. felis, che potrebbe svolgere un ruolo patogeno.22 I gatti vengono trattati con minore frequenza per le infezioni cutanee e tendono a manifestare problemi intermit-


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tenti che rispondono a brevi cicli di antibiotici. Medleau e Blue23 hanno esaminato isolati di stafilococchi ottenuti da lesioni cutanee di 45 gatti negli Stati Uniti meridionali ed hanno riscontrato che su 32 isolati ottenuti da 30 di questi gatti, 23 erano coagulasi-positivi (16 S. aureus, 5 S. intermedius, 2 S. hyicus). Gli isolati erano suscettibili ad amossicillina/clavulanato, cloxacillina, cefalotina, cloramfenicolo, gentamicina, eritromicina e trimethoprim-sulfametossazolo; era frequente la resistenza a penicillina G, ampicillina e tetraciclina. Al contrario, Patel et al.21 hanno esaminato 187 isolati da 11 gatti domestici sani, 9 gatti con lesioni cutanee e 10 gatti randagi di South London. I 40 isolati patogeni erano costituiti da SI e da S. aureus, tutti tranne 7 ottenuti da lesioni. Di tutti gli isolati solo 22 (11,75%) mostravano una resistenza al cotrimossazolo (3,8%), lincomicina (6,4%), enrofloxacin (0,05%) o ossitetraciclina (1,6%). È interessante notare che la resistenza era superiore fra i gatti randagi (p < 0,01), il che suggerisce che l’esposizione ambientale agli antibiotici fosse più significativa per determinare la resistenza agli antibiotici stessi di quanto non fosse il contatto diretto con le persone o i trattamenti veterinari.24

TRASFERIMENTO DI STAFILOCOCCHI RESISTENTI FRA ANIMALI DA COMPAGNIA E PROPRIETARI

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nosocomiali come possibile fonte. Tuttavia, le segnalazioni di casi di infezione umana e successivo isolamento di MRSA dalle mucose di cani familiari sani29,20,31 indicano che il ruolo del cane nel trasferimento di MRSA ai proprietari deve essere valutato, così come il ruolo dei veterinari nell’infezione dei cani che trattano.

Bibliografia 1. 2.

3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

SI è un residente delle mucose della maggior parte dei cani ed è probabile che venga trasferito alla cute del proprietario e di altre persone che hanno occasione di toccare questi animali durante la toelettatura, il gioco ed altre attività. Quando è presente un’infezione stafilococcica, si può avere il trasferimento di un numero elevato di batteri multiresistenti.25 Tuttavia, si hanno scarse prove della persistenza a lungo termine di questi microrganismi negli ospiti umani e sembra probabile che SI sia scarsamente adattato alla sopravvivenza nell’uomo sano. Le segnalazioni di infezioni nell’uomo sostenute da SI sono rare. Tuttavia, nel 2000, SI è stato identificato nel fluido auricolare ottenuto da un paziente con otite esterna.26 SI è stato anche isolato dal cane da compagnia del paziente, benché non sia stato dimostrato che i due isolati fossero lo stesso microrganismo. In uno studio di 3397 isolati di stafilococchi coagulasi positivi ottenuti da pazienti ospedalizzati a Strasbourg, Francia, solo due sono stati identificati come SI.27 Tuttavia, gli SI che infettano i pazienti umani possono essere erroneamente identificati come S. aureus.28 Sembra che il rischio di infezione umana da SI sia molto basso, tranne che nei soggetti immunocompromessi. È anche probabile che sia basso il rischio di trasferimento della resistenza. Al contrario, il trasferimento di stafilococchi patogeni umani resistenti, come MRSA, fra cani e persone che vengono in contatto con loro sembra più comune ed è probabile che si verifichi quando gli animali vengono trattati con antibiotici efficaci nei confronti degli stafilococchi residenti, determinando un ambiente adatto all’instaurarsi di patogeni resistenti. Talvolta, nell’infezione da MRSA, è possibile stabilire un legame con la medicina umana e gli isolati ottenuti da animali da compagnia possono essere indistinguibili dai ceppi ospedalieri umani epidemici, indicando le infezioni

12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31.

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La malattia cronica in medicina tradizionale cinese Francesco Longo Med Vet, Firenze

Secondo l’interpretazione medica dello I CHING, la vita di ogni essere senziente è esplicata dall’Esagramma 11 – T’AI (Pace), costituito dai due Trigrammi Ch’ien – Cielo (Trigramma inferiore) e K’un – Terra (Trigramma superiore); la chiosa del re Wên afferma: “Il Cielo e la Terra si congiungono: l’immagine della Pace; così il Sovrano divide e porta a termine il corso del Cielo e della Terra, amministra e ordina i doni del Cielo e della Terra e così assiste il Popolo”. L’Esagramma 11 – T’AI corrisponde agli agopunti HT 4 (Ling Dao), HT 5 (Tong Li), HT 6 (Yin Xi) del canale del Cuore che intervengono nell’equilibrio che si instaura proprio tra Cuore e Sangue (agiscono sulle perturbazioni ematiche di testa, addome, estremità podali).1 Ch’ien rappresenta il massimo dello Yang, la Yuan Qi, il Ming Men; K’un rappresenta il massimo dello Yin, il Jing, il Rene. In effetti tutta la vita degli esseri si svolge tra Cielo e Terra, grazie a quello spazio virtuale tra i due che gli antichi medici taoisti chiamavano ‘Vuoto Mediano’. Il Triplice Riscaldatore svolge un ruolo importante nel mantenimento dell’equilibrio di queste diverse componenti energetiche, così come è descritto nel Nan Jing: “I tre Riscaldatori sono i passaggi dell’acqua e dell’alimento, la fine e l’inizio della circolazione del Qi. Il Riscaldatore Superiore si estende dal Cuore e dal Diaframma sino al Cardias, governa le entrate; esso è regolato da Shan Zhong (CV17). Il Riscaldatore medio si localizza tra Stomaco e porzione media dell’Addome, governa le fermentazioni e le elaborazioni degli alimenti e dei liquidi; esso è regolato da Tian Shu (ST 25) ai lati dell’ombelico. Il Riscaldatore Inferiore inizia esattamente all’estremità craniale della vescica, governa le divisioni e le separazioni del puro dall’impuro, governa le uscite; esso è regolato da Yin Jiao (CV 7) un dito posteriormente all’ombelico. I tre Riscaldatori svolgono le mansioni dei passaggi del Qi”.2 La condizione di salute è perciò considerata uno stato di armonioso equilibrio tra lo Shen (il complesso psico - comportamentale) ed il soma del soggetto con le forze naturali ed ambientali, cioè la salute non è solo l’assenza di malattia ma lo stato che permette all’animale l’espressione delle potenzialità che sono intrinseche alla sua natura. Così facendo, qualsiasi essere riesce a realizzare la vera longevità, che non è solo il riuscire a vivere il maggior numero di anni possibili, pure auspicabile, ma significa vivere pienamente e realizzare totalmente se stessi.3 La condizione di salute risulta solo quando la Yuan Zhen dei cinque organi circola normalmente.4 Al contrario la condizione di patologia è una disarmonia generale che altera i delicati rapporti tra Yin e Yang, tra Qi (energia), Xue (sangue), e Jin Ye (liquidi corporei). Tutto questo si ripercuote sul sistema Zang (organi pieni) / Fu (visceri cavi), determinando uno squilibrio generale di tutto l’organismo.

Tradizionalmente, come riportato nel Jing Gui Yao Lue, le cause delle malattie vengono classificate in tre raggruppamenti: - Cause Endogene (Nei): fattori patogeni che invadono i canali ed i collaterali e si trasmettono ai Zang ed ai Fu; - Cause Esogene (Wai): fattori patogeni che invadono le quattro estremità o i nove orifizi del corpo e circolano attraverso i vasi ematici ostruendo il normale fluire dell’energia vitale; - Cause Varie (Bu Nei Wai): surmenage, traumi di diversa eziologia, morsi di insetti o di animali.5 Le patologie croniche rappresentano un esempio evidente di squilibrio energetico che, prolungandosi nel tempo, determinano una disarmonia tra le varie componenti organiche ed incidono sulla vitalità globale del soggetto: il segno tipico di tale squilibrio è la ‘debolezza’, l’incapacità del soggetto di vivere pienamente. Peraltro l’aumento dell’incidenza delle patologie croniche negli animali, osteoartrosi, artriti, dermatopatie, allergie, patologie respiratorie, patologie dismetaboliche, problemi cardiaci, spesso non trova soddisfacente risposta negli interventi della medicina allopatica la cui interpretazione biochimica ne ha limitato il campo d’azione ad uno studio analitico – meccanicistico: i farmaci somministrati, a causa degli effetti indesiderati, determinano un ulteriore indebolimento della vitalità dei soggetti. L’approccio diagnostico – terapeutico della MTC rappresenta, invece, un modello di medicina olistica, quella medicina che guarda al soggetto in tutta la sua interezza e complessità, lo considera un tutto, un unico insieme, un unico complesso ‘mente–corpo’ e ciò permette una procedura diagnostica dettagliata ed una terapia consequenziale. Primo momento importante della diagnostica della MTC è quindi studiare il soggetto in tutta la sua complessità, partendo dalla sua ‘suscettibilità congenita’ (Tai Du, letteralmente: ‘la forza morbifera latente nella vita embrionaria’) per poi considerarne, attraverso la Si Zhen – Diagnosi attraverso le Quattro Fasi, lo stato in cui versa. Il principio su cui poggia la Diagnosi attraverso le Quattro Fasi è esaminare l’Esterno per rilevare le condizioni dell’Interno: i segni esteriori riflettono la condizione degli organi interni. Essa comprende: - Wang Zhen – Ispezione; - Wén Zhen – Ascultazione ed Olfattazione, - Wèn Zhen – Interrogatorio Anamnestico - Chu Zhen – Palpazione. Di queste quattro fasi, l’esame della Palpazione assume grande importanza in quanto le osservazioni energetiche che ne derivano sono essenziali nel definire il tipo e l’andamento della patologia.


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Il medico veterinario agopuntore proprio attraverso questa fase può ottenere conferma o smentita da quanto rilevato nelle fasi precedenti, è l’unica modalità di “dialogo diretto” con l’animale. L’esame della Palpazione comprende una prima fase di indagine generale attraverso la quale si valutano diversi distretti: cute, torace, addome, arti; di tutte le regioni corporee si cerca di valutare la condizione dei fluidi corporei (Yin), la temperatura (Yang), la sensibilità (Qi). Gli squilibri energetici possono essere identificati anche attraverso il sondaggio di agopunti specifici e del percorso dei meridiani che rappresentano delle vere e proprie aree di energia riflessa: tutte le funzioni degli organismi operano attraverso uno scambio di informazioni tra energia e materia.6 Infine la fase della Palpazione è completata dall’esame pulsologico: “La pulsologia è molto sottile; i caratteri e gli aspetti del polso sono difficili da valutare. Gli aspetti ondulatori del polso sono mentalmente accessibili, ma delicati da definire quando sono sotto le dita” avverte Wang Shu He. 7 L’esame del polso va considerato un prezioso dato da valutare sia a scopo diagnostico che prognostico, nonché come controllo dell’evoluzione della patologia e della risposta dell’organismo alla terapia agopunturale, secondo quanto affermato nel capitolo 17 del Nei Jing So Wen: “Il polso è la dimora del sangue. La palpazione dei polsi informa sugli eccessi e le carenze degli Zang, sul vigore e la debolezza dei Fu, sull’energia e la debolezza del corpo”.8 Una modalità sintetica di studiare la tipologia del soggetto è quella prevista dall’Agopuntura Coreana che nell’individuare quattro categorie principali, ne suggerisce anche gli agopunti di armonizzazione tipologica: • Tai Yang In – Diametro toracico maggiore di quello addominale (Polmone grande / Fegato piccolo) – Sedazione: LU 9 (Tai Yuan) – Tonificazione: LR 3 (Tai Chong) • Tai Eum In – Diametro addominale maggiore di quello toracico (Fegato grande / Polmone piccolo) – Sedazione: LR 3 (Tai Chong) - Tonificazione: LU 9 (Tai Yuan) • So Yang In – Diametro toracico maggiore di quello pelvico (Milza grande / Rene piccolo) – Sedazione: SP 3 (Tai Bai) – Tonificazione: KI 3 (Tai Xi) • So Eum In – Diametro pelvico maggiore di quello toracico (Rene grande / Milza piccola) – Sedazione: LI 4 (He Gu) – Tonificazione: SP 3 (Tai Bai).9 Seconda momento diagnostico è studiare la malattia attraverso i Ba Gang – Le Otto Regole Diagnostiche – che forniscono tutte le indicazioni relative alle modalità di estrinsecazione della patologia; ciò si attua attraverso una classificazione basata su quattro coppie complementari: - Li / Biao – Interno / Esterno (indica la localizzazione della patologia ed ha valore prognostico) - Han / Re – Freddo / Calore (esprime la natura della patologia ed ha valore nell’impostare la terapia) - Xu / Shi – Vuoto / Pieno (è una valutazione dei rapporti reciproci tra Zhen Qi e Xie Qi) - Yin / Yang – sintesi (permette di raccordare la patologia entro la legge Wu Xing, e riguarda sia il soggetto che la malattia). Di solito le malattie croniche sono inquadrate come patologie dell’Interno, da Freddo, da Vuoto, di polarità Yin. Nell’affrontare una patologia cronica è perciò molto

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importante stabilire una corretta ‘diagnosi energetica’ che stabilisca i criteri di stato, cioè la situazione generale in cui versa l’organismo animale, quadri relativi di eccesso o di deficit che si esprimono con segni fisici e funzionali. I principali quadri riferiti a patologie croniche che possono essere diagnosticati sono: • Vuoto di Yin: (dovuta Xie Yang aggressiva; condizione di esaurimento; problemi psico - comportamentali; stati di esaurimento) genera un conseguente deficit di Jing, Xue e Jin Ye, che induce sintomi di eccesso relativo di Calore; il soggetto presenta agitazione, dimagrimento, oliguria, stipsi, secchezza delle fauci, febbre ciclica, agitazione; la lingua è rossa, poco umida e con scarso induito, il polso è fine e rapido. • Vuoto di Yang: (dovuto a malnutrizione; stress) genera un conseguente prevalere dello Yin che induce sintomi di eccesso relativo di Freddo; il soggetto presenta astenia, respirazione superficiale, arti freddi, mucose pallide, poliuria; la lingua è pallida ed umida, il polso è tenue e sottile. • Vuoto di Qi: (dovuto a squilibri alimentari, senilità) genera un conseguente indebolimento di tutte le funzioni dei sistemi Zang / Fu; il soggetto presenta astenia, respiro corto, mucose pallide, tutti sintomi che si aggravano con il movimento; la lingua è pallida e molle, il polso è vuoto e debole. • Vuoto di Xue: (dovuto a deficit di Milza e Stomaco; problemi psico - comportamentali; emorragie) in caso di mancata produzione o di esaurimento dello Xue, il soggetto presenta mantello opaco, movimenti barcollanti ed insicuri; la lingua è pallida, il polso è fine e debole. • Vuoto di Jin Ye: (dovuto ad attacco di Calore; insufficiente apporto idrico; emorragie; eccessiva sudorazione; vomito, diarrea) il soggetto presenta cute secca, secchezza delle fauci, oliguria, stipsi; la lingua è rossa e secca, il polso è fine e rapido. Nelle patologie croniche non sono infrequenti anche quadri di stasi: • Stasi di Qi: (dovuta a Xie esterna; contusioni e traumi; squilibri alimentari; problemi psico – comportamentali) si verifica un’ostacolata circolazione dell’energia ed un suo blocco che genera gonfiore e dolore localizzato; la lingua è pallida con induito sottile, il polso è teso. • Stasi di Xue: (dovuta a deficit di Qi; mancata produzione di Xue; Freddo, Calore che annoda) si verifica un blocco della circolazione del sangue che genera astenia, andatura barcollante, gonfiore dell’addome, corpo freddo; la lingua è rosso scura, il polso è profondo e ritardato. • Stasi di Jin Ye: (dovuta ad invasione di una delle energie patogene: Umidità, Acqua, Calore) si verifica ristagno e accumulo di liquidi corporei in forma di Shui Yin (edemi), Yin (mucosità fluide), Tan (mucosità dense) che generano un coinvolgimento energetico degli organi Milza e Polmone. 10 Nel valutare le malattie croniche e la loro evoluzione, grande importanza ha il livello energetico coinvolto. Secondo lo Shang Han Lun, è possibile distinguere sei diversi quadri clinici in relazione ai sei livelli energetici: - Tai Yang: la sindrome di questo livello è caratterizzata da rigidità del collo, timore del Freddo, polso superficiale; - Shao Yang: la sindrome di questo livello è caratterizzata da secchezza delle fauci, andatura barcollante, polso a corda o fine;


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- Yang Ming: la sindrome di questo livello è caratterizzata da distensione addominale, lieve dispnea, febbre, polso superficiale o teso; - Tai Yin: la sindrome di questo livello è caratterizzata da distensione e dolore addominale, vomito, anoressia, diarrea; - Jue Yin: la sindrome di questo livello è caratterizzata da grande sete, minzione frequente, sintomi gastrici, polso filiforme e superficiale; - Shao Yin: la sindrome di questo livello è caratterizzata da astenia, nausea, agitazione, sete, poliuria, polso filiforme e debole.11 Questo approccio diagnostico così specifico e capillare permette di intervenire direttamente sulla causa che ha generato la patologia cronica, ma anche di affrontare le eventuali complicazioni e sovrapposizioni di altri quadri clinici. Afferma Zhang Zhong Jing: “Quando un paziente con patologia cronica è colpito da una nuova malattia, la nuova malattia deve avere priorità nel trattamento, solo dopo si tratterà la patologia cronica. Le patologie croniche non possono essere curate in breve tempo, mentre una nuova patologia non deve penetrare profondamente all’interno. Generalmente parlando, un soggetto affetto da patologia cronica è carente nelle sue resistenze corporee, questo permette ai fattori patogeni di invadere l’Interno in breve tempo. Se il trattamento non è immediatamente diretto alla nuova patologia, il quadro si aggraverà e complicherà la malattia cronica”.12 La terapia è specifica e per ogni differente quadro clinico è possibile individuare quegli agopunti principali che risultano essere particolarmente efficaci nel trattare specifiche condizioni cliniche anche sulla base di ‘formule magistrali’ presenti in testi antichi.13 “In tutte le patologie l’idea principale non è combattere, ma armonizzare”.14 Seguendo le indicazioni di Nguyen Van Nghi, il quale sostiene che “sul vuoto energetico dell’organismo si instaura una condizione di pienezza patologica”15, e di George Soulié de Morant, il quale afferma che: “In tutte le malattie si raccomanda di tonificare, ed anche quando si disperde la pienezza, è bene tonificare il vuoto sottostante che sovente si produce”16, la terapia è mirata a tonificare l’energia del soggetto mediante aghi e moxa, ed alla risoluzione delle stasi mediante massaggio e digitopressione. La regolarizzazione delle funzioni del Triplice Riscaldatore si attua mediante l’impiego degli agopunti: GV 4 (Ming Men) – CV 4 (Guan Yuan) – TH 4 (Yang Chi). La tonificazione generale dell’organismo si attua mediante gli agopunti: LI 4 (He Gu) - ST 36 (Zu San Li).17 Per indurre un cambiamento significativo nel decorso delle forme croniche si impiega l’agopunto PC 6 (Nei Guan). Considerando che alla base di ogni patologia vi è un profondo coinvolgimento dello Shen dell’animale, la sua assuefazione a quella determinata patologia, l’attitudine a convivere con quel problema, la ‘stasi energetica’ che ne deriva, l’oligofrenia che accompagna questi stati, sono efficacemente trattati dall’agopunto SI 3 (Hou Xi), stimolato a volte anche solo con il fior di pruno (‘tapping’). Poiché la vera cura è la prevenzione, questa si realizza fondamentalmente attraverso la ginnastica funzionale e l’alimentazione: la prima assicura all’animale, a qualsiasi specie appar-

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tenga e con qualunque attitudine, quel giusto grado di movimento necessario a mantenerlo attivo e vitale ed a favorire lo scorrimento del Qi; l’alimentazione mantiene costante l’apporto di sostanze necessarie alle funzioni vitali dell’animale. 18 “Molte malattie possono venir curate solo da una dieta”, consiglia Hu Sihui, e questa deve essere impostata in maniera accurata per supportare l’atto medico e promuovere il benessere degli animali.19 Secondo i medici taoisti lo ‘stile di vita’ corretto (Sheng Dao) favorisce il nutrimento della vita ed il suo rafforzamento contro le malattie (Yang Sheng), ed attua armoniosamente quel vivere tra Cielo e Terra auspicato dall’Esagramma 11 – T’AI: “Il piccolo se ne va, il grande viene; Salute! Riuscita!”.

RIASSUNTO DEGLI OBIETTIVI DIDATTICI DELLA RELAZIONE. Gestione clinica delle patologie croniche secondo la Medicina Tradizionale Cinese (MTC) specificando il particolare approccio diagnostico e terapeutico olistico.

Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18.

19.

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Indirizzo per la corrispondenza: Francesco Longo - Tel.: 347/1861679 E- mail: longo.agovet@katamail.com


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Diagnostica cito- istopatologica nei pesci ornamentali Maurizio Manera Med Vet, Teramo

Premesse La diagnostica cito- istopatologica rappresenta un prezioso complemento diagnostico nei pesci ornamentali in virtù del fatto che, differentemente da altri animali da compagnia, minori sono le possibilità diagnostiche collaterali disponibili. Questo è dovuto in parte, e con le debite eccezioni, all’esiguo valore commerciale e, probabilmente affettivo, dei pesci ornamentali, alla propensione al “fai da te” di proprietari ed operatori del settore, all’assenza di una capillare rete di medici veterinari con specifiche competenze tecnicoscientifiche, alle ridotte dimensioni degli esemplari ed al persistere di un certo “empirismo” nel settore per ritardo nel trasferimento delle acquisizioni scientifiche nella pratica professionale. Tuttavia tali tecniche diagnostiche, in parte per le stesse motivazioni precedentemente ricordate, sono prevalentemente utilizzate a corollario della pratica necroscopica, quindi su esemplari deceduti, piuttosto che su esemplari vivi. Ciò non toglie che la diagnostica cito- istopatologica possa essere applicata, con le accortezze dovute alle peculiarità delle specie ittiche, anche sugli esemplari in vita, a completamento della visita clinica. Di seguito saranno illustrate alcune tecniche di prelievo per l’allestimento di preparati cito-istopatologici applicabili sugli animali in vita, nonché alcune nozioni di diagnostica differenziale comparativa volte ad evitare errori diagnostici per grossolane e maldestre trasposizioni di nozioni cito- istopatologiche proprie delle tradizionali specie da compagnia. Resta inteso che ciò che è eseguibile in vita è ancor più facilmente eseguibile dopo il decesso, col vantaggio, negli esemplari morti, di poter accedere ad organi non accessibili in vita e, soprattutto, ottenere campioni di dimensioni maggiori quindi più facilmente processabili ed interpretabili.

Tipologie di preparati microscopici di più frequente utilizzo in diagnostica ittiopatologica Il preparato microscopico di più frequente impiego nella pratica diagnostica cito- istopatologica ittica è quello “a fresco”, ottenuto per raschiamento (perlopiù cutaneo), schiacciamento (organi parenchimatosi, cavi, ecc.) o per biopsia escissionale, perlopiù a carico degli apici lamellari branchiali o delle estremità delle pinne natatorie. Ciò è legato alla facilità dell’allestimento di tali preparati, ed al fatto che, viste le dimensioni medie dei pesci ornamentali, si possono utilizzare campioni di dimensioni significative ottenendo preparati con la sufficiente diafanità necessaria alla lettura microscopica. Inoltre solo utilizzando preparati a fresco è

possibile individuare alcuni patogeni (microparassiti) mobili di piccole dimensioni, causa comune di patologia nei pesci ornamentali. A taluni preparati a fresco possono essere successivamente ed estemporaneamente aggiunte gocce di sostanze coloranti per aumentare il contrasto di particolari strutture o parassiti (es: soluzione di Lugol per evidenziare i granuli d’amido all’interno di Amyloodinium spp.) o possono essere successivamente processati come un tradizionale preparato citologico. Il classico preparato istologico, ottenuto da frammenti di tessuto od organo fissato in formalina od altro fissativo, disidratato nella serie crescente degli alcoli, chiarificato ed incluso in paraffina, è particolarmente usato su biopsie escissionali di grandi dimensioni, nei pesci in vita o su campioni di tessuto ed organo, in pesci deceduti. I pesci di piccole dimensioni, possono essere processati ed esaminati in toto. Per quanto attiene ai vantaggi/svantaggi della diagnostica citologica, rispetto alla diagnostica istologica, non c’è nulla da dire in più rispetto quanto noto per gli altri animali da compagnia. Ad ogni modo, dopo il preparato microscopico a fresco, il preparato istologico è più comunemente impiegato nella diagnostica ittiopatologica, anche per una maggiore disponibilità bibliografica sull’argomento che, purtroppo e ad oggi, non trova analogo riscontro nella diagnostica citologica.

Preparazione e manipolazione degli esemplari Le comuni procedure eseguibili in vivo sui pesci ornamentali sono relativamente poco invasive e traumatizzanti, ciononostante, in considerazione della natura particolare del paziente ittico, in soggetti particolarmente indocili, di notevoli dimensioni o veleniferi, potrebbe essere necessario ricorrere alla sedazione/anestesia degli esemplari, secondo i protocolli comunemente utilizzati nelle specie ittiche. Al fine di preservare l’integrità delle mucose esterne non si deterge/disinfetta normalmente la parte prima e dopo l’operazione di raschiamento, biopsia od agoaspirazione. Comunque sia, l’immersione per un tempo indefinito in una soluzione di sale marino al 1-5‰ (in specie prive di scaglie, particolarmente sensibili come, ad esempio, alcune specie di “pesce gatto”, è bene impiegare i dosaggi più bassi) può risultare particolarmente efficace ad impedire la sovrainfezione batterica o fungina della parte trattata ed a mitigare eventuali traumi occorsi alla barriera osmotica cutanea e branchiale nei pesci d’acqua dolce (stress osmotico) senza effetto collaterale alcuno. I pesci devono essere manipolati con guanti di lattice bagnati limitando allo stretto necessario la permanenza fuori dall’acqua ed i movimenti bruschi.


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Principali tecniche di prelievo Le più comuni tecniche di prelievo, in ordine di frequenza di esecuzione, sono il raschiamento, la biopsia escissionale e l’agoaspirazione. La metodica del raschiamento è praticata a livello cutaneo, in prossimità di lesioni o, di routine, alla base delle pinne. Il raschiamento può essere eseguito con un vetrino coprioggetto o con una lama da bisturi (con la parte opposta al tagliente), assicurandosi che nel raschiato siano comprese alcune squame (raschiare con movimento cranio-caudale). Il materiale così ottenuto è deposto su di un vetrino portaoggetto, sul quale è aggiunta una goccia d’acqua ed adagiato un vetrino coprioggetto per l’osservazione. La biopsia escissionale è comunemente impiegata per allestire preparati microscopici di tessuto branchiale o della membrana delle pinne. Per le branchie si opera con una forbice a branche smusse inserendola delicatamente in camera branchiale. Si prelevano gli apici di alcune lamelle primarie, deposte, quindi, su di un vetrino portaoggetto. Per le pinne si asportano esili frammenti all’apice delle stesse, possibilmente in prossimità di lesioni. I frammenti vengono stesi su vetrini portaoggetto. Per il resto ci si comporta come per i raschiati (goccia d’acqua e vetrino coprioggetto). L’agoaspirazione propriamente detta è eseguibile sul fegato, il pronefro (rene anteriore) e su neoformazioni. L’esecuzione di tale procedura è normalmente ben tollerata anche se fortemente limitata dalle dimensioni del pesce e dalla perfetta conoscenza della topografia addominale della specie in esame. Per quanto riguarda l’agoaspirazione del pronefro, l’approccio avviene cranio-ventralmente accedendo dalla camera branchiale ed infiggendo l’ago in direzione caudo-dorso-spinale. Si opera, quindi, l’aspirazione fino ad individuare il sangue penetrare nel cono dell’ago. Il sangue così ottenuto è assimilabile, in tutto e per tutto, al sangue midollare dei mammiferi e come tale può essere processato.

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Uno degli aspetti microscopici che sicuramente può destare maggior sconcerto ed essere causa di errori interpretativi è connessa con le tipologie di cellule pigmentate dei pesci. Nei pesci i melanociti si rinvengono anche negli organi interni, perlopiù associati ai vasi. Inoltre, possono essere reclutati in focolai flogistici cronici, in particolar modo parassitari. In tali focolai possono comparire anche macrofagi contenenti pigmenti (melanina, cromolipoidi, emosiderina) solitari o formanti aggregati1. Tali aggregati si rinvengono fisiologicamente nel rene, nella milza, nel fegato e parafisiologicamente nelle gonadi. Il loro numero, le loro dimensioni ed il contenuto in pigmenti varia con la stagione, lo stato di nutrizione e di salute. Inoltre sono stati proposti come promettenti biomarcatori di esposizione a xenobiotici1. Ulteriore sconcerto possono destare i leucociti dei pesci e questo perché, purtroppo, la classificazione a suo tempo fatta nei mammiferi, basata sull’affinità tintoriale piuttosto che sulla funzione, non può essere trasposta tal quale in ambito ittico. Infatti, in alcune specie ittiche i granulociti acidofili (eosinofili, per intenderci) rappresentano la tipologia leucocitaria dominante pur non rappresentando l’equivalente funzionale dei granulociti eosinofili dei mammiferi. Di frequente riscontro, in presenza di parassiti, sono le così dette cellule granulari eosinofiliche, che a dispetto del nome, non hanno nulla a che vedere con gli eosinofili che qualsiasi veterinario si aspetterebbe di ritrovare in presenza di parassiti. In realtà rappresenterebbero l’equivalente ittico dei mastociti (di tutt’altra affinità tintoriale nei mammiferi!). Altre cellule esclusivamente rinvenibili nei pesci ossei sono le rodlet cell, cellule enigmatiche e dall’aspetto intrigante (inizialmente furono descritte come parassiti!). Probabilmente costituiscono una prima linea difensiva epitelio-associata nei confronti di patogeni e sono stati anche proposte come validi e sensibili biomarcatori di stress nei pesci2.

Bibliografia 1.

Note di diagnostica cito- istopatologica comparativa nei pesci ornamentali I pesci rappresentano il “prototipo” di vertebrato. Ciononostante le conoscenze del veterinario medio, circa la biologia di tali organismi, sono pressoché nulle. Di seguito si riportano alcune note di diagnostica comparativa cito-istopatologica con il solo scopo di focalizzare l’attenzione su talune particolarità ittiche.

2.

Manera M, (1997), Gli aggregati dei macrofagi dei pesci. Supplemento “Organismi acquatici e ambiente” a Laguna, 6: 24-33. Manera M, Dezfuli BS, (2004), Rodlet cells in teleosts: new insight into their nature and functions, J Fish Biol, 65: 597-619.

Indirizzo per la corrispondenza: Maurizio Manera Ricercatore Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Facoltà di Medicina Veterinaria - Università degli Studi di Teramo Viale Crispi, 212. I-64100 Teramo Tel: +39 0861 266964 - Fax: +39 0861 266987 E-mail: mmanera@unite.it


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Il carcinoma squamoso del muso del gatto: quale trattamento? Marina Martano Med Vet, PhD, Torino

Il carcinoma squamoso del gatto (CS) è la neoplasia cutanea maligna più frequente in questa specie animale, rappresentando circa il 15% dei tumori cutanei.15 Poiché la radiazione solare è coinvolta nella sua patogenesi, l’incidenza ha una distribuzione geografica variabile, tanto da costituire circa il 50% dei tumori cutanei del gatto in Australia e Nuova Zelanda9, percentuale decisamente più elevata rispetto a quanto riscontrato in nord Europa e in gran parte degli Stati Uniti. Anche per quanto riguarda l’Italia, sebbene dati epidemiologici non siano riportati in letteratura, le segnalazioni sono molto più frequenti al Sud e nelle regioni costiere.7 Il rischio di sviluppare la neoplasia per soggetti a mantello bianco o con aree bianche soprattutto sul muso e sulla testa è 5-13 volte superiore rispetto a soggetti a mantello scuro9; per lo stesso motivo il siamese è poco rappresentato. L’età media di insorgenza è 12 anni e probabilmente anche in questo caso l’esposizione cronica ai raggi solari può rappresentare una spiegazione. Non esiste una predisposizione di sesso, mentre è stato osservato che in circa il 7-20% dei casi vi è positività per il virus dell’immunodeficienza felina (FIV), anche questo più facilmente associato a gatti che conducono vita all’aperto, poiché più soggetti all’esposizione al contagio. Si tratta di una neoplasia localmente aggressiva, caratterizzata dall’insorgenza lenta e subdola, ma dalla progressiva erosione della cute e dei tessuti sottostanti, fino alla formazione di ampie e profonde erosioni che deformano il muso del gatto e ne determinano la morte. La forma erosiva, infatti, è quella prevalente nel gatto. La localizzazione più frequente è a carico di padiglioni auricolari, palpebre, piano nasale e labbro, ma qualsiasi area cutanea può esserne colpita. In circa il 30% dei casi si osserva la presenza di lesioni multiple già alla prima presentazione. La lesione preneoplastica, sotto forma di aree eritematose o crostose15, può essere presente per mesi o anni prima della sua trasformazione maligna, che si manifesta dapprima come erosioni superficiali, poi come vere e proprie ulcere. La diffusione metastatica a linfonodi regionali e polmone è poco frequente e si riscontra generalmente nelle fasi avanzate della malattia. Se la chirurgia radicale può essere curativa per lesioni localizzate ai padiglioni auricolari, più difficile è intervenire quando viene colpito il piano nasale, o quando sono presenti lesioni multiple. In questi casi le alternative possibili sono rappresentate dalla criochirurgia6, dalla terapia fotodinamica11, o dal trattamento con retinoidi9 (isotretinoina e derivati). Tutte queste modalità hanno fornito buoni risultati su lesioni di piccole dimensioni (inferiori al cm) e mol-

to superficiali, corrispondenti agli stadi Tis e T1 della classificazione WHO. Su stadi più avanzati o forme più estese migliori risultati si ottengono solo con la chirurgia o la radioterapia, sia con apparecchi a ortovoltaggio, sia con quelli a megavoltaggio.4,6,12 Gli effetti collaterali di questa terapia a breve e lungo termine non sono generalmente gravi e di solito autolimitanti. In generale, quando fattibile, la chirurgia rimane la terapia di scelta. A questo proposito va detto che interventi quali la nosectomia offrono generalmente risultati cosmetici migliori nel gatto rispetto al cane. Si tratta di una chirurgia semplice e poco onerosa che, sebbene possa apparire mal tollerata nei primi giorni post-chirurgia a causa della crosta che si forma attorno alle narici, porta a buoni risultati anche funzionali a lungo termine. Si tratta però di un intervento chirurgico da riservarsi alle lesioni limitate al piano nasale in cui si ritiene possibile eseguire delle escissioni “a margini puliti”. Anche lesioni a carico delle palpebre possono essere trattate mediante una chirurgia aggressiva, ricorrendo all’esecuzione di plastiche per la ricostruzione di ampie soluzioni di continuo risultanti dall’asportazione completa della palpebra superiore o inferiore. Il limite, in questi casi, è il coinvolgimento tumorale di una sola delle due, in quanto l’asportazione completa delle palpebre implica necessariamente l’enucleazione del bulbo oculare. Un altro limite della chirurgia è rappresentato dalle lesioni multiple, come spesso accade in alcuni gatti che vivono all’aperto e presentano coinvolgimento di palpebra e regione temporale. Una chirurgia aggressiva in questi casi non è proponibile per l’impossibilità di una adeguata ricostruzione, pertanto vanno prese in considerazione altre opzioni terapeutiche. La chemioterapia sistemica da sola non ha invece fornito risultati significativi con nessuno dei farmaci utilizzati (bleomicina, carboplatino, mitoxantrone). Sebbene la bleomicina sia un farmaco piuttosto maneggevole e possa fornire effetti incoraggianti a breve termine, l’efficacia è generalmente limitata nel tempo e la recidiva locale si ripresenta in fase molto precoce. 1 Il trattamento intralesionale con cisplatino o carboplatino13 sembra, per contro, fornire migliori possibilità di controllo a lungo termine o di cura, soprattutto se associato a radioterapia. In questo caso il farmaco, somministrato poco prima del trattamento radiante, ne potenzia l’efficacia.2 L’inoculazione intralesionale, inoltre, consente l’impiego del cisplatino, farmaco non utilizzabile nel gatto per via sistemica a causa dell’estrema tossicità. Per diminuire la dispersione nel torrente circolatorio e prolungare la permanenza del farmaco a livello locale, i composti del platino


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sono somministrati in associazione a olio di sesamo sterile, siero autologo dell’animale o gel proteici a base di collagene bovino5,7, e vasocostrittori (epinefrina) ai quali queste sostanze (il cisplatino in particolare) si legano. Studi clinici e di farmacocinetica condotti a tal fine su questo e altri tipi di neoplasia hanno effettivamente dimostrato la validità di tale metodo di somministrazione.3,8,10,12,14 Sebbene anche per questo trattamento occorra l’anestesia generale del gatto a causa della stimolazione algica indotta dalla manualità, il numero complessivo di cicli (4-8, una volta alla settimana) è inferiore a quello necessario per la radioterapia e più dilazionato nel tempo, cosa che permette al soggetto una migliore ripresa ed è generalmente meglio accettato dal proprietario. Gli effetti collaterali sono solitamente limitati all’eritema locale e all’edema, che può rendere necessaria l’applicazione di un collare Elisabetta per evitare autotraumatismi. Nei casi più gravi si può arrivare alla comparsa di aree necrotiche nel punto di inoculazione. Come per la radioterapia, l’effetto è autolimitante e si risolve con la fine del trattamento. Anche in questo caso i risultati migliori sono stati ottenuti per le forme più lievi (stadi T1-T2 del WHO). La positività per il FIV non rappresenta un fattore prognostico negativo, ma aumenta l’incidenza e la gravità degli effetti collaterali. Gli studi condotti su tale metodica riportano la risposta completa nel 73,3% dei soggetti, con un tempo libero da malattia mediano di 16 mesi13, mentre l’associazione con l’ortovoltaggio ha portato alla remissione della lesione nel 100% dei 6 soggetti trattati; lo studio in questione era comunque basato su un follow-up non a lungo termine.2 In conclusione, il CS del muso del gatto rappresenta un’entità complessa, per la quale la terapia va scelta in base al singolo soggetto, alle sue condizioni generali e all’estensione e alla localizzazione della/e lesione/i. Come spesso accade in oncologia, il trattamento multimodale fornisce i risultati migliori, così come lesioni in fase precoce hanno una prognosi decisamente migliore, anche con trattamenti poco invasivi. La comparsa di nuove lesioni in punti diversi del muso non è da interpretare come disseminazione metastatica del tumore (peraltro poco frequente) quanto piuttosto come nuove masse primarie, per le quali il trattamento può essere ripetuto. Trattandosi di una forma per la quale le radiazioni solari giocano un ruolo importante, inoltre, la prevenzione della patologia è possibile (almeno entro certi limiti), sebbene non semplice in alcuni casi; sarebbe infatti sufficiente evitare l’esposizione diretta ai raggi solari dei gatti a mantello chiaro.

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Bibliografia consultata 1.

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Indirizzo per la corrispondenza: Marina Martano - Dipartimento di Patologia Animale via Leonardo da Vinci 44, Grugliasco (TO) Tel. 011 6709058 - E-mail: marina.martano@unito.it


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I sarcomi felini iniettivi: un problema sempre attuale Marina Martano Med Vet, PhD, Torino

I sarcomi iniezione-indotti (SII), seppur considerati una neoplasia rara nel gatto (incidenza 1-3/10.000 o 1/1.000) rappresentano uno spinoso problema per il veterinario a causa della loro origine “iatrogena”. Questo delicato argomento è ormai da anni oggetto di discussione in tutto il mondo, sebbene ad oggi la soluzione al problema non sia stata trovata. Trattandosi di una forma “indotta”, non si riscontra alcuna predisposizione di razza e di sesso; alcuni Autori descrivono un andamento bimodale nella distribuzione dell’età di insorgenza, con un picco intorno ai 6-7 anni e uno intorno ai 10-11, quindi in soggetti più giovani rispetto alla media riportata per i sarcomi non correlati a iniezioni. Non è riportata alcuna correlazione con infezioni causate da FeLV, FeSV o FIV. Il tempo medio che intercorre tra inoculazione sottocutanea o intramuscolare e comparsa del tumore è variabile entro un range piuttosto ampio, compreso tra 3 mesi e 3-3,5 anni secondo la maggior parte degli Autori, fino a 6-7 anni secondo qualcuno. I SII insorgono in sedi tipicamente utilizzate per l’inoculazione di medicamenti, quali regione interscapolare, porzione laterale del torace, collo, regione para-lombare, femorale e glutea; tendono a raggiungere dimensioni notevoli (>4 cm) in poco tempo, talvolta sono poco delimitati, cistici, localizzati più profondamente, fino a interessare, oltre al sottocute, la fascia e i piani muscolari. Possono presentarsi in forma di unico nodulo più o meno adeso ai piani sottostanti oppure come nodulini multipli, di piccole dimensioni ma disseminati su un’ampia superficie. Sono dotati di una notevole aggressività locale; il tasso di recidiva può infatti arrivare al 70% entro 6 mesi dall’escissione chirurgica, mentre altri Autori riportano tassi più bassi, variabili tra il 30 e il 70%. Il tasso metastatico, invece, si aggira attorno al 10-25%, prevalentemente a carico del polmone, ma anche a livello addominale, linfonodale, cutaneo e oculare. L’istotipo più frequente è il fibrosarcoma, ma sono descritti anche altre forme mesenchimali (istiocitoma fibroso maligno, condrosarcoma, osteosarcoma, ecc.). Il quadro istologico è caratteristico e può permettere la differenziazione con sarcomi non iniezione-indotti, per la presenza di un infiltrato linfocitario perilesionale, dell’abbondante necrosi e cellule multinucleate. L’eziologia dei SII non è ancora del tutto chiarita, pur rimanendo l’ipotesi di un’anomala risposta a un processo infiammatorio cronico la più accreditata. Inizialmente l’associazione tra interventi vaccinali e comparsa di sarcomi nel gatto è stata molto semplice, soprattutto negli USA, dove l’aumento dell’incidenza di questo tumore è corrisposto all’introduzione dell’obbligo di vaccinazione contro la rabbia e alla commercializzazione di vaccini con adiuvante per la FeLV. L’imputato principale è stato quindi l’alluminio utilizzato come adiuvante in molti preparati immunizzanti e

ritrovato sotto forma di particelle grigio-bluastre nei macrofagi presenti nelle masse neoplastiche. In realtà attualmente si ritiene che l’alluminio potrebbe rappresentare solamente l’indicatore dell’avvenuta vaccinazione. Il quadro si è ulteriormente complicato con le segnalazioni di casi di SII provocati dall’inoculazione di medicamenti diversi dai vaccini, quali antibiotici e corticosteroidi a lento rilascio, e successivamente anche di sarcomi insorti nella sede di corpi estranei, quali materiale da sutura non riassorbibile. Manualità di esecuzione dell’iniezione, dimensione dell’ago, massaggio dopo la somministrazione si sono invece rivelate ininfluenti sullo sviluppo del tumore; solo la temperatura del farmaco potrebbe forse avere un ruolo. Nemmeno la somministrazione sottocutanea di soluzioni reidratanti isotoniche è in grado di attivare il processo neoplastico. Ad oggi nessuna marca specifica di vaccini ha dimostrato una maggior potenzialità tumorigenica rispetto ad altre. Alla base della trasformazione neoplastica vi è comunque la risposta alterata ad uno stimolo infiammatorio cronico, associata alla predisposizione individuale di alcuni gatti, all’attivazione o alla soppressione di geni e alla partecipazione di fattori di crescita. Questo fatto spiegherebbe la bassa incidenza dei SII rispetto al grande numero di inoculazioni, soprattutto sottocutanee, praticate nei gatti in tutto il mondo. Diagnosi: la regola generale da seguire è di trattare ogni massa che si sviluppi nella sede di precedenti iniezioni come se fosse maligna fino a prova contraria. Una lesione deve pertanto essere esaminata a fondo e trattata in modo aggressivo se soddisfa almeno uno dei seguenti criteri: − persiste per più di 3 mesi post-iniezione − ha un diametro superiore ai 2 cm − aumenta di volume dopo 1 mese dall’iniezione Se la massa soddisfa uno o più dei suddetti punti, si raccomanda di eseguire una biopsia prima dell’escissione chirurgica, sebbene un solo prelievo potrebbe non essere sufficiente al raggiungimento di una diagnosi certa. L’esame citologico mediante biopsia ad ago sottile non è considerato affidabile per la diagnosi di SII e non è consigliato dalla task force americana1 costituitasi appositamente per far fronte a tale patologia, sebbene la facilità di esecuzione possa renderlo comunque di valido aiuto, almeno nei casi (50%) di risposta positiva. Un esito dubbio o negativo può invece essere dovuto alla colliquazione della porzione centrale del tumore a causa della rapidità di crescita, ma non per questo deve tranquillizzare il veterinario. Il rinvenimento di liquido cistico, infatti, deve sempre indurre a sospettare l’origine tumorale della lesione. Gli esami necessari per completare l’iter diagnostico sono l’esame radiografico del torace in proiezione latero-laterale


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destra e sinistra e dorso-ventrale e, possibilmente, la TAC con mezzo di contrasto della massa. Terapia: la chirurgia ad ampia base (3-5 cm di margine sano su tutti i piani o almeno 2 piani muscolari sottostanti la lesione) resta la terapia di scelta. Spesso ciò comporta l’escissione anche di segmenti ossei sottostanti, o l’amputazione di un arto e l’esecuzione di plastiche per la ricostruzione. In ogni caso è consigliabile eseguire incisioni di forma geometrica, più semplici da riparare. Al fine di ottenere le maggiori garanzie di successo, è utile associare la radioterapia con apparecchi a megavoltaggio e/o la chemioterapia. La prima rientra ormai nella maggior parte dei protocolli per questo tipo di tumore e può essere effettuata sia come neoadiuvante sia come adiuvante, a seconda delle preferenze delle diverse scuole. In generale, la radioterapia neoadiuvante può servire a “delimitare” il successivo campo chirurgico, permettendo inoltre di irradiare un’area più ristretta, ma aumenta i problemi di guarigione della ferita chirurgica, talvolta già condizionata dalla notevole tensione che si crea. L’irradiazione adiuvante elimina tale inconveniente, ma aumenta gli effetti collaterali legati alla presenza del tessuto irradiato. Tali effetti sono però minimi e generalmente autolimitanti. Il limite, in Italia, è dato dalla mancanza di strutture veterinarie in grado di fornire un tale servizio. L’impiego della radioterapia palliativa non è solitamente considerato per i SII. La chemioterapia da sola o associata a chirurgia non sembra offrire grandi vantaggi in termini di tasso di cura, ma potrebbe aumentare il tempo libero da malattia e/o la sopravvivenza dell’animale. I farmaci più comunemente utilizzati sono doxorubicina, carboplatino (utilizzato anche come radiosensibilizzante), ciclofosfamide, mitoxantrone, da soli o in diversa associazione tra loro. Si tratta di farmaci (soprattutto i primi due) di solito abbastanza ben tollerati nel gatto e possono essere somministrati sia prima sia dopo l’asportazione chirurgica del tumore. Indipendentemente dalla terapia adottata, il tasso di recidiva locale rimane attorno al 40-45%, mentre la disseminazione metastatica si verifica in circa il 15-20% dei casi. La recidiva è invece quasi certa e a rapida insorgenza se la chirurgia è incompleta o marginale. Importante è quindi richiedere sempre la valutazione dei margini di escissione e associare preferibilmente la radioterapia nel caso questi risultassero non indenni.

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Altre modalità terapeutiche, quali l’uso di immunomodulatori o brachiterapia sono stati testati su pochi soggetti e non se conosce la reale efficacia. Prognosi: tra tutti i fattori considerati, quelli che sembrano realmente influenzare la prognosi sono la completezza della prima escissione chirurgica, l’esecuzione dell’intervento da parte di chirurghi esperti, la localizzazione del tumore (l’amputazione di un arto offre maggiori garanzie di successo), le sue dimensioni e la possibilità di associare radio- e/o chemioterapia alla chirurgia aggressiva. La prognosi può invece essere influenzata negativamente da una prima escissione incompleta o marginale. Il reintervento sulle recidive locali può ancora essere attuato se la lesione è di dimensioni contenute e situata in un’area aggredibile chirurgicamente. In questi casi, comunque, è sempre consigliabile associare anche la radio- o la chemioterapia. Per questo tipo particolare di tumore, inoltre, molto importante diventa la prevenzione. Indipendentemente dalla patogenesi, sappiamo che l’evento scatenante è rappresentato quasi sempre dall’inoculazione di farmaci, pertanto spetta al veterinario valutare secondo coscienza la reale necessità di eseguire determinati trattamenti, soprattutto vaccinali, e scegliere la sede di iniezione più facilmente aggredibile con la chirurgia nel caso si sviluppi il tumore. Andrebbe pertanto abbandonata la comoda area interscapolare, a favore della porzione più distale possibile degli arti o delle parti laterali del tronco, lontano dalla colonna vertebrale e dal cavo ascellare.

Bibliografia consigliata 1. 2.

Vaccine-Associated Feline Sarcoma Task Force: roundtable discussion. (2005) J Am Vet Med Assoc, 226: 1821-1842. McEntee MC, Page RL. Feline vaccine-associated sarcomas.(2001) J Vet Intern Med, 15: 176-182.

Indirizzo per la corrispondenza: Marina Martano Dipartimento di Patologia Animale via Leonardo da Vinci 44, Grugliasco (TO) Tel. 011 6709058 - E-mail: marina.martano@unito.it


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Gli Alfa Agonisti: Romifidina, Medetomidina e Dexmedetomidina Veronique Martin-Bouyer Med Vet, Lyon, Francia

Gli atti non sono pervenuti in tempo utile per la stampa ma saranno disponibili dal 12 giugno 2006 sul sito www.scivac.it/53/atti/

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Prelievi bioptici nei piccoli mammiferi da compagnia Alessandro Melillo Med Vet, Roma

Nonostante i continui progressi nella diagnostica di laboratorio e per immagini, in molti casi l’esame istopatologico di un campione di tessuto prelevato direttamente dall’organo sospetto ammalato resta l’unica via per raggiungere una diagnosi precisa e poter così impostare una terapia mirata e formulare una prognosi. Lo standard di cure richieste dai proprietari di piccoli mammiferi da compagnia per i propri animali è in costante aumento, per cui questa manualità diagnostica è sempre più comune anche per Furetti, Conigli, Cavie, Cincillà ed altri Roditori comunemente tenuti in casa. Il prelievo di campioni bioptici può avvenire in sede chirurgica durante una chirurgia esplorativa eseguita appositamente oppure in corso di altri interventi qualora si notino alterazioni macroscopicamente evidenti di uno o più organi. Meno invasivi sono il ricorso al prelievo ecoguidato, che consente anche di visualizzare i vasi all’interno dell’organo e quindi di evitarli e quello eseguito con l’ausilio di un endoscopio che permette di visualizzare bene l’organo e scegliere accuratamente la zona da campionare ma consente il prelievo solo di piccole quantità di tessuto. Il tessuto da analizzare può essere prelevato tramite ago sottile, ago da biopsia Tru-cut oppure diverse metodiche chirurgiche oltre naturalmente che attraverso la pinza da biopsia dell’endoscopio. La via di accesso e la metodica di prelievo devono essere scelte accuratamente per ogni caso, valutandola specie e le condizioni del paziente, le caratteristiche dell’organo da campionare nonché le capacità dell’operatore e la strumentazione disponibile. Nei piccoli Roditori la cute è uno degli organi più frequentemente oggetto di biopsia anche perché in caso di problemi dermatologici in queste specie eseguire direttamente una biopsia cutanea fornisce una diagnosi in tempi più brevi e a costi più contenuti che iniziare il consueto protocollo diagnostico. Per eseguire correttamente una biopsia cutanea la parte interessata va tricotomizzata accuratamente ma è controindicato ogni tipo di scrub che pregiudicherebbe una corretta valutazione del campione. La biopsia dei linfonodi risulta semplice, informativa e priva di controindicazioni. Frequentissima l’esecuzione di ago aspirato linfonodale ma in molti casi è più indicata una linfoadenectomia totale, o parziale a cuneo se l’asportazione completa del linfonodo è controindicata. Le biopsie degli organi addominali (fegato, milza, reni, vescica, tratto digerente) si eseguono frequentemente soprattutto nel furetto ad esempio per definire le cause di un’organomegalia o per raggiungere una diagnosi definitiva in caso di patologie intestinali croniche con malassorbimento (wasting diseases). Quando possibile è preferibile prelevare le biopsie tramite laparotomia che consente una visione

complessiva degli organi e il prelievo di campioni a tutto spessore con il miglior controllo di eventuali emorragie; in casi particolari però può essere indicato effettuare delle biopsie ecoguidate, soprattutto se si ha già un sospetto diagnostico preciso o eventualmente se si evidenzia una lesione durante un’ecografia eseguita per altri motivi. I prelievi bioptici tramite accesso laparoscopico hanno il vantaggio della minima invasività, ma richiedono una preparazione e un’attrezzatura specialistiche; con un’attrezzatura endoscopica di base e una più modesta esperienza è possibile eseguire endoscopie tramite accessi naturali e prelevare biopsie di organi cavi: quella più comunemente praticata è la biopsia gastrica tramite gastroscopia ma quando la taglia dell’animale lo consente è possibile prelevare campioni bioptici tramite broncoscopia, coloscopia e cistoscopia. Sempre ecoguidata è la biopsia necessaria per una diagnosi definitiva delle masse mediastiniche che possono presentarsi in furetti conigli e roditori. Infine, soprattutto nel furetto è frequente la necessità di ottenere biopsie del midollo osseo per indagare la capacità rigenerativa in caso di anemia o per confermare e valutare una neoplasia del sistema ematopoietico. Anche in questo caso possiamo prelevare il campione per aspirazione tramite ago sottile per un esame citologico oppure per mezzo di un ago di calibro maggiore se ci serve una valutazione istopatologica. Fondamentalmente però le manualità di prelievo dei campioni bioptici nei Piccoli Mammiferi da compagnia sono simili a quelle in uso per le specie più convenzionali quali il cane o il gatto: molto più importante è scegliere bene cosa fare del campione raccolto e interpretare correttamente il referto dell’istopatologo. La scelta del professionista con cui collaborare è fondamentale: la maggior parte dei laboratori lavora principalmente con tessuti di cani e gatti oppure animali da reddito, mentre un’esperienza specifica con i tessuti e le patologie degli animali non convenzionali è necessaria per fornire un responso appropriato. Il lavoro del patologo necessita di aiuto da parte del clinico, cui spetta la responsabilità di fornire campioni significativi e prelevati correttamente. Quando si preleva un campione da una lesione visivamente delimitata, è molto utile prelevare tessuto dalla linea di confine fra il tessuto normale e quello patologico: questo consente al patologo di confrontare le alterazioni patologiche con la normalità dello stesso animale; inoltre il processo patologico ai margini di una lesione è più probabilmente in fase attiva e non contaminato da necrosi o infezioni secondarie come frequentemente è il caso delle zone centrali presenti da più tempo. I campioni bioptici vanno fissati quanto prima, meglio se immediatamente: soprattutto alcuni tessuti, come il tessuto


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nervoso, il pancreas e l’intestino, si decompongono molto rapidamente e bastano poche ore perché perdano di definizione al microscopio. La fissazione deve essere eseguita correttamente. La “regola aurea” impone 10 parti di formalina per 1 parte di campione, il che significa che un campione di 1 cm cubo ha bisogno di 10 ml di formalina per essere fissato correttamente. Un cm cubo è anche la massima dimensione che consente la penetrazione corretta della formalina all’interno del tessuto e quindi la fissazione ottimale del campione: campioni troppo grandi saranno soggetti ad autolisi all’interno e così anche campioni inseriti in contenitori troppo piccoli per cui vengono compressi contro le pareti impedendo la circolazione della formalina. D’altro canto, frammenti molto piccoli (ad es: insulinomi di furetto) devono essere messi in contenitori piccoli e separati da eventuali altri tessuti perché facilmente vengono persi in contenitori troppo grandi. Ogni qualvolta è possibile, eseguiamo dei vetrini da ago aspirato o per apposizione dal nostro campione: un esame citologico “in casa” ci può dare velocemente un’idea della

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natura del problema mentre attendiamo i più lunghi tempi tecnici dell’istopatologia e può essere utile anche al patologo se gli spediamo i vetrini insieme al campione. Fondamentale è inserire nel pacco quante più informazioni possibili sul paziente, sulla sua storia clinica e sintomatologia nonché sulla sede e modalità di prelievo del campione: questo per massimizzare le probabilità del patologo di interpretare correttamente le alterazioni dei tessuti. Al clinico resta però poi da interpretare correttamente il referto dell’istopatologo e trasformarlo in informazioni utili per il suo paziente e ciò non è sempre semplice: un buon rapporto con l’istopatologo e la disponibilità al confronto sono i punti chiave per ottenere il massimo risultato dal non indifferente sforzo di convincere i clienti a sottoporre il loro animale al prelievo bioptico. Indirizzo per la corrispondenza: Alessandro Melillo Clinica veterinaria OMNIAVET Piazza Giovanni Omiccioli 5, 00125 Roma


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Diagnostica per immagini comparata della tiroide Federica Morandi Dr Med Vet, MS, Dipl ACVR, Dipl ECVDI, Knoxville, USA

Richiami Anatomici e Patofisiologici - La ghiandola tiroide del cane e nel gatto è formata da due lobi distinti, fusiformi, che si trovano ventralmente e lateralmente ai primi 5-8 anelli tracheali. Due ghiadole paratiroidee sono associate con ciascun lobo tiroideo, una cranialmente e all’esterno, e una all’interno della tiroide. La ghiandola tiroide è abbondantemente vascolarizzata da vasi derivanti dall’arteria tiroidea craniale, che con il nervo laringeo riccorrente corre lungo il margine dorsale di ciascun lobo e penetra nella ghiandola a livello dell’estremità craniale. Sia nel cane che nel gatto, è possibile riscontrare tessuto tiroideo ectopico lungo una linea mediana dalla base della lingua fino al mediastino craniale. Neoplasie tiroidee possono originare sia dalla ghiandola tiroide che da tessuto ectopico, sia nel cane che nel gatto. La più comune patologia endocrina riscontrata nel gatto è l’ipertiroidismo, che risulta in produzione eccessiva di tiroxina (T4) e triiodotironina (T3). La causa più comune di ipertiroidismo nel gatto è l’iperplasia adenomatosa della tiroide, o la presenza di adenomi iperfunzionali. Solo il 3% dei gatti ipertiroidei sono affetti da carcinomi. L’incidenza di carcinomi tiroidei è più elevata nel cane, tuttavia la maggior parte dei cani affetti da questa patologia presentano una normale o diminuita produzione di ormoni tiroidei; la presenza di ipertiroidismo è rara.

de è leggermente superiore a quella dei circostanti corpi muscolari. Localizzare tessuto ectopico è spesso difficile. L’uso di Color o Power Doppler è di aiuto per differenziare le strutture vascolari, e per valutare la vascolarizzazione di noduli o masse di origine tiroidea. È bene ricordare che i reperti ecografici possono talora essere normali o equivoci, anche in presenza di alterata funzionalità della ghiandola. La diagnosi di ipotiroidismo è particolarmente difficile, sulle basi della sola ecografia. La differenziazione fra adenomi e carcinomi tiroidei può essere difficile sulle basi della sola immagine ecografica. Gli adenomi hanno in genere margini regolari, possono essere uni- o multi-focali, e spesso sono ipoecogeni in confronto al tessuto tiroideo normale. Talvolta lesioni adenomatose presentano una componente cistica. Le cisti tiroidee si presentano come strutture anecogene con rinforzo posteriore, talvolta multiloculari. I carcinomi tiroidei tendono a essere masse unilaterali, di grandi dimensioni, e a carattere invasivo. Una massa a margini irregolari, inomogenea, con mineralizzazioni e/componenti cistiche o lacune vascolari, e con invasione delle strutture vascolari circostanti e/o dell’esofago è consistente con una diagnosi di carcinoma. La diagnosi di certezza si ottiene comunque con un ago aspirato o biopsia. L’ecografia permette anche la valutazione delle dimensioni e struttura dei linfonodi regionali.

Radiografia - La radiografia tradizionale è in genere di scarsa utilità nella valutazione della tiroide. La ghiandola tiroide di dimensioni normali o leggermente ingrandita non è visibile radiograficamente, a causa dell’effetto ‘silhouette’ con le circostanti strutture cervicali, che hanno la stessa opacità dei tessuti molli. In presenza di una massa tiroidea di grandi dimensioni, la radiografia può rivelare la compressione o dislocazione di strutture circostanti, quali la trachea, il laringe o l’apparato ioideo. Nel caso di neoplasie maligne, è possibile riscontrare la presenza di mineralizzazioni. La somministrazione di un bolo radiopaco per os (solfato di bario) può essere di aiuto nell’escusione di una massa di origine esofagea.

Tomografia Computerizzata (CT) - La ghiandola tiroide del gatto mostra normalmente elevata densità (Hounsfiled Units -HU- valori medi: 123.2 HU pre-contrasto; 168.5 HU immediatamente post-contrasto; 132.1 HU 4-13 minuti postcontrasto). La CT è utile soprattutto nella definizione delle dimensioni ed estensione di un processo neoplastico di origine tiroidea, in preparazione per un intevento chirurgico. La CT con mezzo di contrasto permette di differenziare tessuto vascolarizzato da aree necrotiche o cistiche, e consente di valutare l’invasione o dislocazione delle strutture circostanti. La valutazione dei linfonodi regionali è possibile sulle basi delle dimensioni (normali o aumentate). È bene ricordare che il mezzo di contrasto utilizzato è a base di iodio; una CT con contrasto, perciò risulta in una saturazione dei recettori per lo iodio e uno studio scintigrafico effettuato subito dopo la CT apparirà negativo. Questa considerazione è importante soprattutto nei casi in cui si valuti una massa cervicale o mediastinica e si voglia determinare con la scintigrafia se questa massa sia di origine tiroidea. Il tempo necessario per la risoluzione di questo effetto non è stato determinato con esattezza nel cane e nel gatto. Dopo un CT con contrasto, tuttavia, pressi la nostra Università si raccomanda un intevallo di 3-4 settimane prima di effettuare un eventuale studio scintigrafico.

Ecografia - Ideale per la valutazione della tiroide è una sonda ad alta frequenza, da 7.5 a 10 o 13 MHz. I lobi tiroidei si localizzano nel piano longitudinale ventralmente e medialmente all’arteria carotide comune. Ruotando la sonda di 90º per ottenere una scansione trasversale, è possibile visualizzare la trachea, tiroide, arteria carotide, e la vena giugulare nella stessa immagine. I lobi tiroidei sono fusiformi, omogenei e a margini regolari. Nel piano trasversale, i lobi tiroidei hanno forma ovale o triangolare e si localizzano lateralmente alla trachea. L’ecogenicità della tiroi-


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Scintigrafia - La scintigrafia tiroidea si effettua utilizzando il 99mTc04-, o tecnezio pertecnetato, o, più raramente, lo 123I, o iodio-123. Il tecnezio pertecnetato ha il vantaggio di emettere raggi gamma con energia di 140 KeV, favorevole dal punto di vista di formazione dell’immagine, ed ha emivita di circa 6 ore. Lo iodio-123 emette raggi gamma con energia leggermente più elevata (159 KeV), e ha emivita più lunga, pari a 13 ore. Lo iodio-123 si comporta come iodio non radioattivo, e viene intrappolato nelle cellule follicolari della tiroide mediante meccanismo di trasporto attivo regolato dal TSH (thyroid stimulating hormon). Lo iodio viene quindi ossidato e legato all’aminoacido tirosina per la formazione di mono-iodotirosina e di-iodotirosina, le quali si combinano a formare T3 e T4. Questi ormoni vengono poi organificati nella formazione di tiroglobulina, una proteina che viene secreta nella colloide. Il tecnezio è un metallo di transizione (gruppo VIIB della tavola periodica) che imita l’azione degli alogeni (‘pseudo-alogeno’). Nella forma di pertecnetato, il tecnezio viene intrappolato e concentrato dalle cellule follicolari della tiroide. Il pertecnetato, tuttavia, non è soggetto a organificazione, né viene legato al gruppo tirosilico per la formazione di tiroglobulina. Il pertecnetato viene perciò concentrato nella tiroide, ma non partecipa alla formazione di ormoni tiroidei, né viene trattenuto all’interno della colloide. Lesioni di piccoli dimensioni (specie di tipo ectopico o metastatico) sono più facilmente visibili utilizzando iodio-123, rispetto al pertecnetato, a causa del più elevato rapporto fra intensità della lesione e background (in altre parole, il background viene marcatamente soppresso utilizzando iodio-123 rispetto al pertecnetato). Scintigrafia Tiroidea nel Gatto - Circa 20 minuti dopo la somministrazione endovenosa di tecnezio pertecnetato, si ottengono immagini laterali e ventrali dell’area cervicale e del torace con collimatore LEAP (‘low-energy, al-purpose’). Una veduta ventrale della tiroide ottenuta con collimatore ‘pinhole’ fornisce un’immagine ingrandita della ghiandola con maggiore risoluzione. In un animale normale, l’intensità dei due lobi tiroidei è simmetrica e leggermente inferiore all’intensità delle ghiadole salivari. È possibile calcolare il rapporto ghiandola tiroide:ghiandole salivari che, dopo 20 minuti dall’iniezione, è pari a circa 0,87:1 (variabile da 0,6:1 a 1,03:1). Il rapporto tiroide:salivari non cambia significativamente fra 20 minuti e un’ora dopo l’iniezione; tuttavia, l’intensità dalla tiroide continua ad aumentare fino a 4 ore dopo l’iniezione. In caso di acquisizione dell’immagine tre o quattro ore dopo l’iniezione di pertecnetato, perciò, è possibile diagnosticare erroneamente un gatto normale come ipertiroideo. - Quadri Patologici nel Gatto - In caso di iperplasia nodulare multifocale (o iperplasia adenomatosa), uno od entrambi i lobi della tiroide possono esibire aumentata intensità a causa dell’aumentato ‘uptake’ di pertecnetato. I lobi tiroidei affetti hanno in genere margini regolari e un pattern di uptake omogeneo, che può essere simmetrico o asimmetrico. In caso di patologia unilaterale (circa il 30% dei casi), il lobo controlaterale viene completamente soppresso dal meccanismo di

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feedback negativo attraverso la ghiandola pituitaria. Nel caso in cui un lobo tiroideo mostri uptake aumentato, e l’altro intensità normale o diminuita, entrambi i lobi vanno considerati anormali. L’ipertiroidismo può anche essere il risultato di adenomi tiroidei iperfunzionanti. Gli adenomi possono essere singoli o multipli, uni- o bi-laterali, o originare da tessuto ectopico. In presenza di un adenoma, il tessuto normale circostante viene soppresso dal meccanismo a feedback negativo. Gli adenomi vengono visualizzati al meglio tramite l’uso di un collimatore ‘pinhole’. I carcinomi tiroidei sono rari nel gatto. La distinzione definitiva fra un processo benigno adenomatoso, e un carcinoma, non è possibile solo sulle basi dell’immagine scintigrafica. In altre parole, i carcinomi tiroidei possono mostrare un pattern simile ai processi iperplastici nodulari e adenomatosi. I carcinomi, tuttavia, tendono ad avere un pattern di uptake eterogeneo, con margini irregolari e spiculati. Nel caso in cui l’immagine scintigrafica riveli un pattern di uptake irregolare, con aree di intensità localizzate al di fuori dei margini della tiroide, il sospetto di un processo maligno è elevato. Aree di uptake localizzate alla base della lingua, lungo i piani cervicali e a livello del mediastino possono rappresentare metastasi, ma anche foci ectopici in caso di un processo benigno. L’accumulo di pertecnetato a livello di noduli o masse polmonari è indicativo di un processo neoplastico maligno, tuttavia non solo carcinoma tiroidei, ma anche tumori primari polmonari e altre metastasi possono accumulare pertecnetato.

Immagini ottenute circa 20 minuti dopo la somministrazione di 3 mCi (111 MBq) di 99mTc04- in un gatto domestico a pelo corto, femmina sterilizzata di 12 anni: immagine laterale destra (in alto a sinistra), laterale sinistra (in alto a destra), ventrale con collimatore LEAP (in basso a sinistra), e ventrale con collimatore ‘pinhole’ (in basso a destra). Notare che nelle tre immagini ottenute con collimatore LEAP, entrambi i lobi della ghiandola tiroide sono più intensi delle ghiandole salivari, reperto diagnostico di ipertiroidismo bilaterale. Nell’immagine ventrale con collimatore ‘pinhole’, notare la preseza di noduli moltifocali a livello di entrambi i lobi tiroidei, quadro suggestivo di iperplasia multinodulare o di adenomi multifocali.


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Scintigrafia Tiroidea nel Cane - I parametri di acquisizione di immagine sono simili a quelli descritti per il gatto. La tiroide normale nel cane è più intensa della tiroide normale nel gatto: il rapporto ghiandola tiroide:ghiandole salivari, dopo 20 minuti dall’iniezione, è pari a circa 1,12:1. La presenza di tessuto ectopico sublinguale è più comune nel cane che non nel gatto, specie a seguito di una precedente tiroidectomia. - Quadri Patologici nel Cane - La maggior parte delle neoplasie tiroidee nel cane è rappresentata da carcinomi che non sono metabolicamente attivi (gli animali non sono ipertiroidei). La scintigrafia permette l’identificazione di una massa cervicale come originante o meno dalla tiroide. I tre pattern più comuni in caso di carcinoma tiroideo nel cane includono: 1) uptake aumentato, diffuso a livello dell’intero lobo tiroideo (tumore follicolare); 2) massa a chaiara origine tiroidea, con diminuito uptake del radionuclide, e con perdita del tessuto tiroideo normale (tumore a origine stromale); 3) aree irregolari e multifocali di uptake sia aumentato che diminuito (tumore a popolazione cellulare mista). La scintigrafia è utile nello staging tumorale, soprattutto per la valutazione dei linfonodi retrofaringei, che drenano la ghiandola tiroide, e per la valutazione dei piani cervicali, del mediastino e di possibili noduli polmonari. In questi casi, lo studio viene idealmente effettuato dopo la rimozione del tumore primario. In genere, lo studio con iodio-123 è superiore a

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quello con pertecnetato a causa della capacità di organificazione dello iodio-123.

Bibliografia Feldman E, Nelson R. Hyperthyroidism and Thyroid Tumors. In: Feldman E, ed. Handbook of Canine and Feline Endocrinology and Reproduction. Philadelphia, Pa: WB Saunders Co; 1987:91-123. Wisner ER, Mattoon JS, Nyland TG. Neck. In Small Animal Diagnostic Ultrasound, 2nd ed. Philadelphia, Pa: WB Saunders Co; 2002:285-304. Wisner ER, Nyland TG. Ultrasonography of the Thyroid and Parathyroid Glands. Vet Clin North Am Small Anim Pract. 1998;28:973-991. Drost Wt, Mattoon JS, Samii VF, et al. Computed Tomography Densitometry of Normal Feline Thyroid Glands. Vet Radiol Ultrasound. 2004;45:112-116. Daniel GB, Brawner WR. Thyroid Scintigraphy. In: Daniel GB, Berry CR editors. Textbook of Veterinary Nuclear Medicine, 2nd ed. ACVR, 2006:181-198. Beck KA, Hornof WJ, Feldman EC. The Normal feline Thyroid: Technetium Pertechnetate Imaging and Determination of Thyroid to Salivary Gland radioactivity Ratios in 10 Normal Cats. Vet Radiol. 1985;26:35-38. Mooney C, Thoday K, Nicoll J, Doxey D. Qualitative and Quantitative Thyroid Imaging in Feline Hyperthyroidism Using Technetium-99m as Pertechnetate. Vet Radiol Ultrasound. 2000;33:313-320. Adams WH, Daniel GB, Petersen MG, Young K. Quantitative 99m-Tc-pertechnetate Thyroid Scintigraphy in Normal Beagles. Vet Radiol Ultrasound. 1997;38:323-328. Marks SL, Koblik PD, Hornof WJ, et al. 99mTc-Pertechnetate Imaging of Thyroid Tumors in Dogs: 29 Cases (1980-1992). J Am Vet Med Assoc. 1994;204;756-760.


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Diagnostica per immagini comparata delle neoplasie del torace Federica Morandi Dr Med Vet, MS, Dipl ACVR, Dipl ECVDI, Knoxville, USA

Introduzione e Richiami Anatomici - Il torace è composto da una base scheletrica, formata dalle 13 vertebre toraciche e rispettive costole, cartilagini costali, sternebre e cartilagini intersternebrali, nonché dal cingolo scapolare. I tessuti molli a copertura del torace includono la cute, i piani fasciali, i piani muscolari superficiali e profondi, nonché la muscolatura intercostale, e la pleura parietale. Il confine caudale del torace è formato dal diaframma, quello craniale dal connettivo lasso che sigilla il mediastino craniale. All’interno del torace, il mediastino rappresenta uno spazio creato dai due strati della pleura mediastinica (parietale e viscerale), ed è diviso in mediastino craniale, medio e caudale. Il mediastino contiene l’esofago, la trachea, il cuore, i grossi vasi (aorta e principali biforcazioni, vena cava craniale e caudale, vena azygos), linfonodi (mediastinici craniali, tracheobronchiali e sternali), il dotto toracico, trnochi nervosi, nonché il timo. Il mediastino accoglie anche una quantità variabile di grasso. I polmoni e vasi polmonari rappresentano l’ultima struttura contenuta nel torace. Considerano il numero e la complessità delle strutture facenti parte del torace, non sorprende che la valutazione di tali strutture sia spesso difficile, e che diverse modalità diagnostiche per immagini possano svolgere una funzione complementare. Questo è vero soprattutto nella valutazione di processi neoplastici, che possono originare virtualmente da ciascuna delle strutture menzionate in precedenza. Anche se le neoplasie polmonari, primarie o metastatiche, rappresentano una parte significativa della casistica, non si dimentichino tumori associati con la parete toracica, originanti da tessuti molli (ad esempio fibrosarcomi vaccinali, o altri sarcomi dei tessuti molli), o dalla base scheletrica (osteosarcomi, condrosarcomi, fibrosarcomi), nonché neoplasie di origine tracheale (tumori osteocartilaginei o carcinomi) o esofagea (quali carcinomi a cellule squamose). Infine, non si dimentichino linfoma, timoma, altre neoplasie assiciate con la base del cuore (quali tumori tiroidei ectopici, emagiosarcoma o chemodectoma) e il mesotelioma. Bisogna ricordare che, mentre per una diagnosi di certezza è necessario il ricorso all’ago aspirato o alla biopsia, le varie metodiche diagnostiche per immagini sono essenziali per raggiungere una diagnosi differenziale, e per lo staging tumorale, soprattutto in vista di una possibile terapia chirurgica. Radiografia - La radiografia tradizionale rappresenta tuttora la metodica diagnostica per immagini di prima scelta nella la valutazione delle patologie toraciche, inclusi i processi neoplastici. Uno degli studi più comunemente eseguiti presso la nostra Università è la radiografia toracica nelle tre proiezioni laterali destra, sinistra e ventrodorsale (cossiddetto ’met check’) -, che è parte integrale dello screening diagnostico per cani e gatti presentati per la valutazione di un processo neo-

plastico. L’identificazione di noduli polmonari viene tipicamente letta come presenza di metastasi; la principale diagnosi differenziale è quella di granulomi, micotici e non. Un nodulo solitario può anche rappresentare un tumore polmonare primario. I limiti della radiologia nelle indentificazione di noduli polmonari sono ben noti: in generale, una lesione nodulare a opacità dei tessuti molli deve raggiungere dimensioni di circa 5 mm per essere chiaramente identificata radiograficamente. Noduli di dimensioni anche maggiori possono essere difficili da identificare se localizzati nei recessi paravertebrali, nel lobo accessorio, nella porzione apicale dei polmoni in prossimità del mediastino. Un altro uso importante della radiografia tradizionale è quello della identificazione dell’origine di una massa toracica di più grandi dimensioni. A seconda delle dimensioni e della posizione a livello del torace, può essere difficile determinare se una lesione sia di origine polmonare, extrapleurica (ad esempio una massa a origine costale), o mediastinica (ad esempio linfonodale o esofagea). In casi equivoci, è necessario ricorrere a proiezioni addizionali, comprese proiezioni tangenziali che possano rivelare il cosiddetto ‘segno extrapleurico’ (‘extrapleural sign’), alla fluoroscopia (che consente di valutare se la lesione si muove in sincrono con il polmone), o alla somministrazione di bario solfato per os (per escludere che una massa sia di origine esofagea). Proiezioni addizionali (‘horizontal beam’) con il paziente in posizione quadrupedale o bipedale sono utili anche nei casi in cui sia presente versamento pleurico e si sospetti la comcomitante presenza di una massa; in questi casi, di grande utilità e il ripetere l’esame radiografico dopo la toracocentesi. Ecografia - L’uso dell’ecografia per la caratterizzazione di patologie toraciche è divenuto sempre più comune e diffuso negli ultimi anni. L’utilità dell’ecografia toracica è massima quando questa viene utilizzata in congiunzione con la radiografia: le due metodiche sono quindi non esclusive, ma complementari. La principale limitazione dell’ecografia nella valutazione delle strutture toraciche è data dalla incapacità delle onde acustiche di penetrare il polmone normale: l’interfaccia fra tessuti molli e aria, infatti, riflette virtualmente il 100% delle onde acustiche. Per questo motivo, la presenza di versamento pleurico rappresenta una aiuto nell’esame ecografico del torace e fornisce una ‘finestra acustica’ per la valutazione di lesioni medistiniche, pleuriche, polmonari e diaframmatiche. Se non è vi è versamento pleurico, la valutazione di un massa polmonare è possibile quando questa sia in contatto con la parete toracica. La valutazione di masse associate con il lobo polmonare accessorio è talvolta possibile utilizzando un approccio trans-addominale, attraverso il feagto e il diaframma. Una volta identificata una lesione, l’ecografia rappresenta


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Due esempi di CT polmonare spirale; le immagini sono in una finestra polmonare (Window Width: 1300, Window Level: -700) e ottenute senza l’uso di contrasto. A sinistra, notare il nodulo metastatico di piccole dimensioni a livello del lobo polmonare accessorio, indicato dalla freccia (notare anche il processo neoplastico primario a carico del lobo polmonare caudale sinistro). Altre 3 noduli furono identificati tramite lo studio CT, nessuno dei quali era visibile nello studio radiografico a tre proiezioni ottenuto il giorno precedente la CT. A destra, mmagine di un CT toracica in un Basset hound, maschio castrato, di 11 anni, presentato per lo staging e rimozione di un fibrosarcoma della parete toracica. Il fibrosarcoma è visibile come una massa di grandi dimensioni a livello dell’aspetto dorsale sinistro del torace. Notare anche la massa cavitaria polmonare, a livello del lobo caudale destro. Questa massa non era visibile nelle radiografie toraciche ottenute un mese prima, e si rivelò essere un adenocarcinoma polmonare primario.

uno strumento utilissimo per l’ottenimento di aghi aspirati e biopsie, riducendo il rischio di danneggiamento di strutture normali circostanti e permettendo di guidare l’ago con precisione a livello della lesione da caratterizzare. Tomografia Computerizzata (CT) - Rispetto alla radiografia tradizionale, la CT ha il vantaggio di produrre immagini tomografiche (a ‘fette’), eliminando la sovrapposizione delle diverse strutture toraciche che è inevitabile in radiografia. Il secondo grande vantaggio della CT è la sua superiore capacità di discriminazione fra tessuti aventi densità solo leggermente diverse. Queste caratteristiche hanno fatto delle CT la metodica più accurata, in medicina umana, per la caratterizzazione di alcune patologie polmonari, quali lesioni nodulari metastatiche. In medicina veterinaria, la CT è in genere uno studio di seconda scelta, che si effettua dopo la radiografia tradizionale. Limitazioni della CT includono la scarsa diffusione e accessibilità degli scanner in medicina veterinaria, il costo elevato e la necessità di anestesia generale. La CT è tuttavia insostituibile qualora sia necessario determinare con la massima precisione possibile l’origine e l’estensione di un processo neoplastico di origine polmonare, mediastinica o a carico della parte toracica, la possibile invasione di strutture circostanti, o la presenza/ assenza di noduli polmonari metastatici. Considerazioni tecniche - Pur essendo possibile effettuare una CT polmonare con metodica convenzionale (assiale), l’utilizzo di uno scanner spirale è ideale. La metodica spirale (o elicoidale) abbrevia notevolmente i tempi di scansione (30-60 secondi in un cane di taglia media), elimina o riduce significativamente gli artefatti dovuti al movimento respiratorio e consente una migliore ricostruzione multiplanare e tridimensionale (3D). È bene ricordare che, in un animale in anestesia generale che venga manetnuto in decubito laterale, si instaura assai rapidamente l’etelettasia del polmone del lato di decubito (ipostasi), per cui è vitale mantenere l’animale in decubito sternale dal momento della induzione di anestesia in poi. Al fine di ottenere un breve periodo di apnea, è bene iperventilare l’animale per circa un minuto prima dell’inizio dell’acquisizione. Alternativamente, si può mantenere il polmone insufflato a circa 15 cm

H20 tramite l’uso di un respiratore o manualmente (il personale che rimanga nelle stanza durante l’acquisizione dello studio deve ovviamente indossare indumenti protettivi piomabati e dosimetri). Presso la nostra Università, si utlizza una collimazione di 4 mm per animali di peso < 15 kg, e collimazione di 8 mm per animali di peso > 15 kg, con un pitch pari a 1 (equivalente all’acquisizione di immagini contigue in uno scanner assiale). Lo studio del polmone necessita l’acquisizione di immagini con un algoritmo ad alta risoluzione (‘edge-enhancing’, o ‘sharp’), mentre la valutazione dei tessuti molli del mediastino e della parete toracica necessita l’acquisizione di immagini con un algoritmo a basso contrasto (‘standard’). A seconda del tipo di scanner utilizzato, può essere possibile riformattare i dati grezzi (‘raw data’) con un algoritmo diverso, senza dovere ripetere l’acquisizione. In presenza di lesioni equivoche e/o di piccole dimensioni, è possibile seguire allo studio spirale uno studio ad alta risoluzione (cosiddetta ‘HRCT’, o ‘high-resolution computed tomography’). In questo caso, si ottengono immagini assiali con collimazione e incrementi di 1 (massimo 2) mm, minimizzando l’effetto di partial volume averaging e massimizzando la visualizzazione di una lesione si piccole dimensioni. Ovviamente lo studio HRCT è limitato a una piccola porzione del polmone, a causa dell’impossibilità di ottenere una scansione dell’intero torace a 1 mm di collimazione. L’uso del mezzo di contrasto iodato a somministrazione endovenosa non è necessario per lo studi di noduli metastatici; è tuttavia indispensabile per la caratterizzazione dell’origine e estensione di processi neoplastici polmonari, mediastinici e della parete toracica, in preparazione per un intervento chirurgico.

Bibliografia Mattoon JS, Nyland TG. Thorax. In: In Small Animal Diagnostic Ultrasound, 2nd ed. Philadelphia, Pa: WB Saunders Co; 2002:325-353. Schwarz LA, Tidwell AS. Alternative Imaging of the Lung. Clin Tech Small Anim Pract. 1999;14:187-206. Reichle JK, Wisner ER. Non-cardiac Thoracic Ultrasound in 75 Feline and Canine Patients. Vet Radiol Ultrasound. 2000;41:154-162. Prather AB, Berry CR, Thrall DE. Use of Radiography in Combination with Computed Tomography for the Assessment of Non-Cardiac Thoracic Disease in the Dog and Cat. Vet Radiol Ultrasound. 2005;46:114-121.


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State-of-the-art nella diagnostica per immagini dei tumori: la tomografia a emissione di positroni (Positron Emission Tomography, PET) e il suo impiego in medicina veterinaria Federica Morandi Dr Med Vet, MS, Dipl ACVR, Dipl ECVDI, Knoxville, USA

La Tomografia a Emissione di Positroni (Positron Emission Tomography, PET) è una metodica diagnostica per immagini che utilizza un tracciante che emette positroni (il più comunemente usato è il 2-[18F]-fluoro-2-deossiglucosio, o [18F]-FDG), e misura la sua distribuzione nel corpo del paziente. Dal momento che la distribuzione del tracciante è funzione del metabolismo cellulare, la PET fornisce informazioni riguardo i processi metabolici e fisiologici dell’organismo. La tecnologia PET è stata sviluppata all’inizio degli anni ’70, grazie alle ricerche di Phelps and Hoffman; il primo PET scanner fu introdotto in commercio nel 1976. La diffusione di questo tipo di scanners fu all’inizio limitata a cause della necessità di avere un ciclotrone in situ, per la produzione dei costosi radioisotopi a breve emivita. Recentemente, tuttavia, la costruzione di ciclotroni compatti e schermati (‘self shielding’) e lo sviluppo di una rete regionale di distribuzione di radioisotopi ha contribuito all’enorme diffusione di questa metodica diagnostica. Al momento la PET viene considerata come il più importante e innovativo strumento per lo staging dei tumori in medicina umana. L’accuratezza diagnostica e prognostica della PET utilizzando [18F]-FDG è del 80-90% in numerosi tipi di tumore, ed è superiore alle metodiche diagnostiche per immagini tradizionali. La principale limitazione della metodica PET convenzionale è la sua scarsa risoluzione spaziale. Il recente (2001) sviluppo da parte di Townsend e la sua equipe del primo scanner ‘ibrido’, che fonde la PET con la Tomografia Assiale Computerizzata (Computed Tomography, CT) ha eliminato questa limitazione. In medicina umana, nel 2004, le vendite di scanner ibridi PET-CT hanno superato quelle di scanner PET ‘stand alone’ e nel prossimo futuro si prevede che il 90% della produzione sarà di sistemi ibridi. Decadimento Radioattivo: Decadimento β+, o ad Emissione di Positroni - Un positrone è fondamentalmente un elettrone con carica positive (β+) emesso da un atomo in possesso di un numero troppo elevato di protoni rispetto al numero di neutroni, e perciò instabile. Per raggiungere uno stato più stabile, l’atomo in questione trasforma un protone all’interno del nucleo in un neutrone, eliminando l’eccesso di energia sotto forma di una coppia di particelle, un positrone (β+) e un neutrino (ν). Mentre il neutrino è privo di massa e carica elettrica, il positrone ha la stessa massa di un elettrone e interagisce con la material in modo simile a un elettrone. Dopo avere viaggiato nei tessuti per breve distanza (mean positron range - 1.4 mm per [18F]-FDG in acqua), il positrone si scintra con un elettrone orbitale di un atomo circostante, e si annienta quasi istantaneamente (entro 10-12 s), con la trasformazione di massa in energia.

L’energia è prodotta sotto forma di due raggi γ, ciascuno pari a 0.511 MeV, che sono emessi a 180° l’uno dall’altro. L’identificazione di questi due raggi γ (non del positrone in sé) da parte dello scanner è alla base della formazione dell’immagine PET. [18F]-FDG - Il 2-[18F]-fluoro-2-deossiglucosio o FDG è il tracciante più comunemente utilzzato per gli studi PET. Questo tracciante quantifica l’attività dall’enzima esochinasi nella prima reazione della glicolisi. Il primo passo della glicolisi, è il trasporto del glucosio all’interno della cellula, dove viene fosforilato a glucosio-6-fosfato (G-6-P). Questa reazione, catalizzata dall’enzima esochinasi, è irrversibile e di fatto intrappola il glucosio nello spazio intracellulare. Il 2-deossiglucosio (2-DG) è un analogo del glucosio, substrato dell’enzina esochinasi che all’interno della cellula viene fosforilato a 2-deossiglucosio-6-fosfato (2-DG-6-P). A questo punto, però, mentre il G-6-P procede nella glicolisi, il 2-DG-6-P non è soggetto ad alcuna ulteriore trasformazione e rimane intrappolato nella cellula. Un composto radioattivo legato al 2-DG, perciò, fornisce un modo di misurare l’accumulazione di 2-DG nei tessuti. L’FDG è semplicemente 2-DG in cui a una molecola di idrogeno è sostituita da una molecola di fluoro-18. Una volta fosforilato, l’FDG rimane intrappolato nella cellula e non è soggetto ad alcuna trasformazione metabolica, di fatto misurando il tasso di glicolisi del tessuto in cui è intrappolato. L’FDG, come tutti gli altri traccianti utilizzati per la PET, viene prodotto in ciclotroni, tramite il bombardamenti di acqua arricchita con 18 O da parte di protoni ad alta energia. Ciò risulta nella produzione di 18F, un isotopo instabile con emivita di 109 minuti. A questo punto, tramite un processo automatizzato e regolato da computers, FDG viene prodotto utilizzato il 18F appena sintetizzato. L’intero porcesso dura meno di 90 minuti. Scanners PET - Gli scanners PET sono disegnati per localizzare i raggi γ prodotti nel corpo del paziente durante la reazione di annichilimento del positrone. La configurazione di uno scanner PET è simile a quella di uno scanner per CT, con un anello di detettori entro cui il paziente viene fatto avanzare su un tavolo. I detettori sono costituiti da cristalli a scintillazione di grandi dimensioni, che emettono luce dopo esser stati raggiunti dal raggio γ; il flash luminoso viene poi trasformato in un segnale elettrico dal fotocatodo che è accoppiato al cristallo. I raggi γ vengono identificati in concidenza, cioè i due raggi γ prodotti a 180° dalla stessa reazione di annichilazione devono raggiungere i detettori entro un intervallo predeterminato (1215 nsec) per essere accettati e contribuire all’immagine finale (cosiddetta ‘collimazione elettronica’). È bene ricordare che


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ogni positrone viaggia per breve distanza dal punto di origine a quello di annichilazione, ma lo scanner posiziona la fonte dei raggi γ nel punto di annichilazione: ciò risulta in una perdita di risoluzione (positron range blurring) che limita la risoluzione spaziale di uno scanner PET a un massimo circa 5 mm. Tecnica - La preparazione di routine include l’astensione dal cibo per 6 ore prima dello studio, per minimizzare la concentrazione del tracciante nel muscolo cardiaco e massimizzare l’uptake da parte del tessuto tumorale. I pazienti devono evitare bevande alcoliche, tè e caffè, zuccheri, tabacco, nonché esercizio fisico nelle 24 ore precedenti lo studio. La glicemia viene misurata immediatamente prima dello studio (ideale è <150 mg/dL, o <200 mg/dL nel paziente diabetico). È vitale che ci sia un buon controllo della glicemia, in quanto l’uptake di FDG compete con quello del glucosio. La dose di FDG è circa 10 mCi (370 MBq) per un uomo adulto, e dopo l’iniezione endovenosa al paziente viene chiesto di restare immobile, senza parlare per 60 minuti, dopodiché si procede all’acquisizione delle immagini. Utilizzando uno scanner ibrido, il tempo necessario per ottenere immagini ‘whole body’ (dal collo alla pelvi) è di circa 20-45 min, a cui segue una CT spirale con contrasto (40-70 s). Interpretazione dell’immagine PET - In generale, ogni tessuto che abbia un elevato metabolismo del glucosio mostrerà un elevato uptake di FDG. Una elevata concentrazione di FDG si riscontra nella corteccia cerebrale, nei gangli basali, nel talamo e nel cervelletto. Altri organi che mostrano tipicamente elevate accumulazione di FDG includono il miocardio, il tessuto muscolare dopo esercizio fisico o in caso di tensione muscolare (inclusi i muscoli della laringe se il paziente parla dopo l’iniezione); il sistema collettore renale (pelvi e ureteri notare che l’FDG è escreto nelle urine). Organi con uptake variabile include il tratto gastointestinale, linfonodi e tessuto linfatico in genere (tonsille), il timo, tessuto adiposo bruno, ghiadole salivari, osteofiti. Le immagini vengono in genere interpretate soggettivamente, tramite ispezione visiva; e utilizzando un metodo semi-quantitativo mediante il calcolo di un valore di uptake standardizzato (Standardized Uptake Value, SUV) tramite la seguente formula: SUV = attività del tracciante nel tessuto in mCi per g / (dose somministrata in mCi/ peso del paziente in kg) Le cellule neoplastiche hanno un elevato metabolismo del glucosio a causa di un meccanismo di upregulation dell’enzima esochinasi, e a causa del maggior numero di trasportatori di membrana. In genere, tumori maligni hanno SUV >2.5-3.0, mentre i tessuti normali (fegato, polmone, midollo osseo) hanno SUV variabili fra 0.5 e 2.5. In genere, la caratterizzazione di una lesione si effettua utilizzando una combinazione di ispezione visiva e valutazione semiquantitativa. È necessario sottolineare che l’accumazione di FDG in un determinato tessuto non è sempre specifica di un un processo neoplastico. Qualsiasi tessuto che abbia un aumentato metabolismo del glucosio mostrerà un aumento di uptake del tracciante. In particolare, i processi infiammatori hanno valori SUV più elevati dei tessuti normali, ma, nella maggior parte dei casi, comunque inferiori ai processsi neoplastici. Un’eccezione sono i processi granulomatosi micotici. In uno studio condotto presso l’Università del Tennes-

‘Whole-body’ FDG-PET scan di un cane affetto da Blastomicosi (veduta planare), al momento della diagnosi (a sinistra) e al termine di un primo ciclo di terapia (a destra). Si notino i molteplici siti di aumentato uptake del tracciante, inclusi i linfonodi cervicali, i linfonodi tracheobronchiali e un granuloma polmonare di grandi dimensioni, nonché varie lesioni cutanee. Dopo il primo ciclo di trattamento, notare la risoluzione di alcune lesione e le ridotte dimensioni del granuloma polmonare. Si noti anche la nuova lesione a livello del linfonodo sternale.

see in animali affetti da linfoma o Blastomicosi, il valore medio SUV delle lesioni micotiche era significativamente più elevato (7.7±2.0) di quello riscontrato nelle lesioni neoplastiche linfomatose (4.8±1.8). Altre lesioni che mostrano elevato uptake di FDG includono granulomi tubercolari, sarcioidosi, displasia fibrosa e neoplasie benigne ad alto contenuto di fibroblasti. Applicazioni cliniche in medicina veterinaria - A causa del costo elevato e dalla limitata disponibilità, l’utilizzo della PET in medicina veterinaria rimane al momento limitato all’ambito della ricerca. La letteratura fornisce alcuni esempi dell’impiego della PET, spesso concernenti l’uso di animali quali modelli per la medicina umana.

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Principi di trattamento multimodale dei sarcomi dei tessuti molli Emanuela Morello Med Vet, PhD, Grugliasco (To)

Il ricorso alla terapia multimodale sta diventando sempre più frequente anche in medicina veterinaria. Sebbene la chirurgia rimanga il trattamento elettivo per la maggior parte dei tumori, molto spesso nasce la necessità, vuoi per le dimensioni del tumore, per la sua localizzazione o per il suo grado istologico, di combinarla ad altre forme terapeutiche, quali chemioterapia, immunoterapia, ipertermia e radioterapia. I sarcomi dei tessuti molli (STM) sono un esempio di tipologia tumorale per la quale si ottengono buoni risultati ricorrendo all’uso combinato di più presidi terapeutici. Rappresentano il 14-17% di tutti i tumori del cane e il 7-9% di quelli del gatto7. Hanno origine diversa tra loro, ma vengono inclusi in un unico grande gruppo a causa delle similitudini esistenti per comportamento biologico e caratteristiche istologiche. Li accomuna il fatto che sono avvolti da una pseudocapsula, hanno margini istologici poco definiti e le cellule neoplastiche spesso infiltrano i piani fasciali sottostanti. Il grado istologico del tumore è predittivo del potenziale metastatico della neoplasia. Sebbene ancora controverso, il potenziale metastatico delle forme di Grado I, II e III sembra essere, rispettivamente, del 10%, 20% e 50%. Questi tumori sono anche accomunati da una scarsa risposta alla radioterapia e alla chemioterapia, quando utilizzati su una lesione misurabile (diametro > 5cm). Esistono, però, delle forme di sarcoma che si differenziano per comportamento biologico. Tra queste vi sono le localizzazioni spleniche (emangiosarcoma, fibrosarcoma) e l’osteosarcoma extrasceletrico, caratterizzati da un alto potenziale metastatico e, di conseguenza, da peggior prognosi; il condrosarcoma, per il quale la prognosi sembra dipendere più dalla localizzazione che dal grado istologico; il sinoviosarcoma caratterizzato da disseminazione metastatica a carico dei linfonodi; l’emangiopericitoma dotato di minor potere invasivo. I STM sono localmente invasivi, e questa caratteristica conferisce loro la possibilità di recidivare localmente, se non asportati in modo completo. Non sono caratterizzati da alto potenziale metastatico (20% circa). Tendono a disseminare per via ematica, localizzandosi primariamente a carico del parenchima polmonare e raramente diffondono a livello linfonodale. L’escissione chirurgica rappresenta l’opzione terapeutica di scelta e deve prevedere l’asportazione del tumore con margini di tessuto microscopicamente sano tutto attorno al tumore. Spesso, questo implica la rimozione dell’osso sottostante o l’asportazione a pieno spessore di parti di parete (toracica e/o addominale). Le tecniche più avanzate di diagnostica per immagini (TAC, RM) hanno assunto un ruolo importante nella pianificazione del trattamento delle forme più estese di sarcoma dei tessuti; consentono, infatti, di

determinare, in modo più attendibile rispetto alla sola palpazione o alla radiologia classica, l’estensione del tumore, di meglio pianificare l’intervento chirurgico e possono fare la differenza tra un’escissione chirurgica completa e incompleta3. La chirurgia per i sarcomi di grado I e II può avere intento curativo; spesso, però, a causa delle estese dimensioni tumorali o della localizzazione anatomica non è possibile eseguire un’escissione ad ampio margine o questa potrebbe comportare una chirurgia troppo demolitiva, non compatibile con una buona qualità di vita dell’animale. Nasce pertanto la necessità di combinare alla chirurgia altre modalità terapeutiche che permettano di ridurre le dimensioni tumorali, onde consentire una chirurgia meno aggressiva (modalità neoadiuvante), o di sterilizzare il letto chirurgico dopo un’asportazione incompleta (modalità adiuvante). Buoni risultati sono stati ottenuti con la radioterapia, irradiando gli animali dopo escissione a margini “sporchi”; gli studi eseguiti dimostrano che, nonostante l’incompleta asportazione della neoplasia, gli animali trattati con chirurgia e radioterapia possono comunque sopravvivere a lungo (sopravvivenza mediana 1082-1851 giorni), con percentuali di recidiva locale contenute (17%). Il controllo locale della malattia è del 95% ad 1 anno, del 92% a 2 anni. I dosaggi totali utilizzati variano da 42 a 57 Gy, e possono essere erogati in singole frazioni di 3-4 Gy ognuna, giornaliere o a giorni alterni 4,5,9. La combinazione chirurgia/ radioterapia adiuvante può consentire di controllare bene il tumore, ottimizzando, nel contempo, i risultati estetici e funzionali rispetto alla sola chirurgia. Alcuni studi riportano un miglioramento dell’efficacia della radioterapia adiuvante associando anche la somministrazione di chemioterapici (doxorubicina), per rendere più sensibile il tumore agli effetti della terapia radiante. L’utilizzo della radioterapia a scopo neoadiuvante trova scarso impiego in veterinaria, contrariamente a quanto accade in medicina umana. Sono riportate applicazione nel sarcoma vaccino indotto del gatto. La radioterapia ha, come già ricordato, azione piuttosto limitata se utilizzata da sola, su lesioni macroscopiche, in quanto i STM rientrano nel gruppo della neoplasie radioresistenti; l’irradiazione del tumore primario con dosi variabili da 47 a 57 Gy è associata a percentuali di controllo della malattia ad 1 anno del 50-65% e a due anni del 33%. I tumori non regrediscono rapidamente dopo trattamento; l’irradiazione solitamente riesce a tenere sotto controllo la malattia, mantenendo costanti nel tempo le dimensioni del tumore; talvolta si assiste ad una lenta, ma modica, diminuzione del volume della massa. I risultati migliori si ottengono con alte dosi di radiazione, ma gli effetti collaterali possono essere devastanti. Si è cercato di


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potenziare l’efficacia delle radiazioni combinando la radioterapia ad altre modalità terapeutiche, quali l’ipertermia e la chemioterapia. L’associazione calore/radiazioni ha delle basi razionali. Il primo agisce sulle cellule in fase S e su quelle ipossiche, cioè su quelle frazioni di tumore più resistenti all’azione letale delle radiazioni10. L’uso combinato di questi due presidi terapeutici si è dimostrato più efficace, in termini di controllo del tumore, rispetto all’impiego della sola radioterapia. La malattia è stata tenuta sotto controllo (valore mediano) 350 giorni con la sola radioterapia e 750 giorni combinando i due presidi terapeutici. Le difficoltà incontrate nel riscaldare in modo omogeneo il tumore ne rappresenta il fattore limitante 8,10. Come visto la radioterapia è stata associata a molti presidi nel tentativo di potenziarne l’efficacia; tra tutte le associazioni quella con la chirurgia si è dimostrata essere la migliore. Anche la chemioterapia è stata utilizzata a scopo adiuvante, dopo asportazione incompleta del tumore, applicata direttamente nella breccia chirurgica. I risultati ottenuti non sono così incoraggianti e comunque non migliori rispetto a quelli ottenuti combinando radioterapia e chirurgia. L’applicazione locale di chemioterapici è spesso esitata in complicanze, quali ad esempio l’infezione della ferita 2. La chemioterapia può trovare applicazione nei sarcomi di grado III, a più alto rischio di disseminazione metastatica, con l’intento di prevenire o di ritardare la comparsa di metastasi. Se somministrata nelle forme già metastatiche alla presentazione, l’efficacia è limitata o di breve durata. Tra i farmaci più utilizzati vi sono la doxorubicina da sola o combinata con ciclofosfamide e vincristina (VAC), con l’isofosfamide ed il mitoxantrone somministrato da solo. Viene, inoltre, usata a scopo palliativo, per i tumori non asportabili chirurgicamente, nel caso i proprietari rifiutino l’uso combinato di chirurgia e radioterapia7. La prognosi dei sarcomi dei tessuti molli varia molto a seconda del grado istologico, calcolato in base all’indice mitotico e alla percentuale di necrosi tumorale, entrambi correlati in modo significativo al potenziale metastatico del tumore e alla sopravvivenza dell’animale 6. Altro importante fattore prognostico è rappresentato dallo stato dei margini di escissione chirurgica. I cani con margini chirurgici incompleti sono 10,5 volte più a rischio di recidiva locale rispetto ai soggetti nei quali la neoplasia è stata asportata in modo completo. Sono necessari almeno 2-4 cm di margine attorno al tumore, anche in profondità. Di recente è stato pubblicato

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uno studio su dei sarcomi dei tessuti molli a localizzazione sottocutanea per definire l’estensione dei margini ai fini di ottenere un’escissione completa del tumore. È stato visto che nel 100% dei casi esaminati la neoplasia era stata asportata in toto rispettando dei margini laterali > a 10 mm e profondi almeno un piano fasciale. La fascia sembra infatti agire da barriera biologica nei confronti dell’infiltrazione tumorale; questo effetto protettivo potrebbe dipendere comunque dal grado istologico della neoplasia 1.

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Indirizzo per la corrispondenza: Emanuela Morello Ricercatrice presso il Dipartimento di Patologia Animale Università di Torino Via Leonardo da Vinci 44, Grugliasco (To) Tel 011/6709062 E-mail: emanuela.morello@unito.it


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Approccio alla scarsa compliance dei clienti alla salute dentale: cosa possiamo fare? David Morgan BSc, MA, VetMB, CertVR, MRCVS, UK

Introduzione Cosa fareste se il 70% dei vostri clienti lamenta che il loro cane o gatto presenta gravi forme di dermatopatie, accompagnate da intenso prurito ed alopecia? Immagino che l’evento verrebbe da voi considerato con qualche preoccupazione e che sareste persino portati a prendere in considerazione l’insorgenza di qualche forma epidemica nelle vicinanze della vostra struttura. Tuttavia, una simile alta percentuale corrisponde esattamente alla situazione rilevabile nei cani e nei gatti affetti da malattie odontoiatriche. Infatti, più del 70% dei cani e dei gatti sono interessati in genere dall’età di 2 anni1 dal più comune disturbo che affligge gli animali da compagnia. Ma perché emergono percentuali così alte e come mai il controllo dei problemi odontostomatologici è tenuto in così bassa considerazione? Inoltre, aspetto molto importante, cosa possiamo fare, in qualità di medici veterinari, per indirizzare i nostri clienti verso una sensibilizzazione in merito al benessere dei denti e, pertanto, allo stato di salute complessiva dei loro beniamini?

Propensione dei clienti in merito al benessere dei propri animali Come medici veterinari, possiamo constatare che i nostri clienti sono ligi e seguono correttamente le norme che devono essere rispettate in almeno una o due aree di gestione del benessere animale. Per esempio, il rispetto dei protocolli vaccinali per i cuccioli ed i gattini è di norma molto alto tra i nostri clienti. Possiamo anche constatare come sterilizzazioni e castrazioni siano sempre più richiete, la dove spiegazioni circa le conseguenze positive per la salute dei nostri pazienti e l’evidenziazione dei benefici dell’intervento, possono aiutarci a sensibilizzare i clienti. Inoltre, in genere i clienti sono correttamente informati in merito alle vaccinazioni ed alla loro importanza, come pure ai rischi associati al complesso degli aspetti della vita sessuale dei loro animali (vagabondaggio, gravidanze indesiderate, comportamento anti-sociale). Risulta estremamente importante il forte impegno del medico veterinario nell’informare i clienti circa i vantaggi della procedura seguita, evidenziando che molti interventi medici (vaccinazioni o ovarioisterectomie) siano determinanti nella prevenzione di malattie, quali, ad esempio, le parvovirosi, il cimurro, la rabbia o nella riduzione del rischio dei carcinomi mammari e piometre.

Circa le malattie parodontali, in che modo i medici veterinari possono affrontare lo specifico problema e come eventuali cambiamenti nel loro atteggiamento possono migliorare la collaborazione dei nostri clienti? A tal fine, abbiamo adesso bisogno di riferirci alla 1a ed alla 2a fase della malattia. In una prima fase, si ha un interessamento gengivale; mediante la pulizia e la levigatura delle superfici dentali, ricorrendo anche al complesso delle misure di corretta gestione presso il proprio domicilio (si rimanda in proposito alle “Cure da attuare in ambito domestico” di seguito riportate), i denti e le gengive possono essere aiutati a mantenersi in buone condizioni. In una seconda fase, vi è un coinvolgimento paradontale con la perdita di più del 25% delle radici dentali (denti con radici singole o multiple). In questa fase si manifestano danni gengivali, ossei, a carico dei legamenti e del tessuto paradontale. Tuttavia, il principale problema è rappresentato dal fatto che la 1a fase è reversibile, mentre la 2a non lo è. Pertanto, se il nostro intervento si manifesta nel corso della 2a fase, occorre considerare che lo stato di salute a lungo termine dei denti è già compromesso e che, di conseguenza, non resta che estrarre i denti danneggiati o procedere ad interventi chirurgici di tipo odontoiatrico. C’è quindi da chiedersi: perché non interveniamo in tempo, nel corso della 1a fase? Un motivo risiede nel fatto che, poiché i denti e le gengive non evidenziano un cattivo aspetto, può sembrare improbabile proporre al cliente un intervento ai denti, con ricorso all’anestesia, comportante il costo di circa 120-180 Euro, quando la “semplice” ablazia di placca e tartaro può soddisfare il cliente e contribuire alla sua fidelizzazione. Sembra talvolta che soltanto in presenza di problemi più evidenti, quali gravi forme di gengivite (arretramento gengivale, sanguinamento), di tartaro e di alitosi, sia conveniente procedere all’intervento. Qualora, dopo la detartrasi e la lucidatura, il dente risultasse molto diverso all’occhio del cliente, quest’ultimo troverà conveniente affrontare la relativa spesa. Tuttavia, alcuni dei denti potrebbero trovarsi alla 2a fase. Ed, allora, il messaggio che ne scaturisce è che è bene intervenire prima che sia troppo tardi.

Che cosa possono fare i medici veterinari? Attualmente esistono opportunità di accrescere ancor di più le nostre conoscenze e le competenze in materia odontostomatologica. Le associazioni veterinarie, nazionali ed internazionali, sono in grado di fornire informazioni


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appropriate (si vedano gli atti del 53° Congresso Nazionale SCIVAC 2006 ed i testi del dr. Colin Harvey). In Italia opera ad esempio una società specialistica SCIVAC (la Società Italiana di Odontostomatologia Veterinaria - SIODOV, Email: socspec@scivac.it) che organizza corsi pratici nel corso dell’anno. Alcune Aziende (quelle ad esempio che producono prodotti specifici per prevenire o curare affezioni orali) mettono a disposizione dei clienti utili materiali illustrativi. Inoltre, organizzazioni quali la Società Veterinaria Odontoiatrica Europea (European Veterinary Dental Society) tengono incontri con cadenza annuale e, nel contempo, offrono la possibilità di prepararsi all’esame di Diploma. Il suo sito Internet (www.evds.org) dispone anche di un link per informare in merito alla programmazione di corsi odontostomatologici. Infine, pubblicazioni, quali il Giornale di Odontoiatria Veterinaria (Journal of Veterinary Dentistry -www.jvdonline.org), mettono a disposizione materiali informativi aggiornati e studi su singoli casi. Se adesso ripensiamo ai motivi per cui i clienti sono molto propensi alla pratica delle vaccinazioni e delle sterilizzazioni, possiamo constatare che il nostro impegno a favore di queste procedure gioca un ruolo importantissimo nell’aiutare ad educare ed a convincere i clienti circa i benefici effetti che si ottengono nel lungo periodo. Pertanto, attraverso una maggiore conoscenza dei problemi relativi alla salute dentale e ad una crescente condivisione della necessità di intervenire quanto prima possibile, possiamo aiutare in maniera efficace i nostri clienti ad accrescere la loro disponibilità a collaborare ed a maturare le decisioni necessarie per il benessere dei loro cani e gatti (si rimanda in proposito al seguente capitolo “Avvertenze per il cliente. Come possiamo aiutarlo?”).

Avvertenze per il cliente. Come possiamo aiutarlo? Un recente studio condotto nel Regno Unito (People’s Dispensary for Sick Animals; PDSA) ha evi-denziato che il 60% dei clienti dei medici veterinari ritiene naturale per i propri animali da compagnia la perdita dei denti, in ragione dell’età avanzata, e che il 71% dello stesso campione valuta che le malattie paradontali riguardano solo il 2% degli animali. Tali dati indicano che c’è un bel po’ di lavoro da fare per aiutare i nostri clienti a convincersi di quanto sia necessario e importante un (1) intervento precoce (nel corso della 1a fase), anche in relazione all’inevitabilità del passaggio della malattia alla 2a fase, (2) come contribuire ad educare i clienti sulle loro esigenze e sulle (3) cure da attuare in ambito domestico. Emergono alcuni interessanti parallelismi tra questi due aspetti e quello che rileviamo in noi stessi. I produttori di dentifrici ad uso umano sanno che, in relazione alla percezione di limitati immediati vantaggi per le persone come conseguenza di una quotidiana pulizia dei denti con lo spazzolino, in genere la gente dubita dell’opportunità di provvedere a detta pratica in maniera costante. In pratica, se non si è convinti della necessità del ricorso al dentifricio, ne deriva un debole convincimento in merito alla regolare e costante

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pulizia dei denti con lo spazzolino. Per superare il problema, sono state attivate efficaci misure per educare la gente a tenere sotto controllo forme di gengivite (1a fase), suscettibili di progredire in maniera tale da provocare problemi più seri (2a fase), eventualmente a carattere sistematico. Quindi, per contribuire all’ulteriore corretta informazione, le Società interessate puntano sugli igienisti odontoiatrici (in sostegno ai dentisti) per diffondere il messaggio e per intervenire efficacemente sul piano preventivo (ricorso al filo interdentale, istruzioni su come usare lo spazzolino in maniera corretta, quale dentifricio usare). In tal modo, si può constatare che gli stessi problemi che emergono per gli esseri umani possono ripresentarsi ai nostri clienti per quanto si riferisce ai loro animali da compagnia. Ma come possiamo trasformare tutto ciò in qualcosa di più tangibile per i medici veterinari? (1) Intervento precoce Esame della bocca dei cuccioli e dei gattini per individuare eventuali problemi “giovanili”2, in coincidenza con le prime vaccinazioni e successivamente ad intervalli regolari. Ciò aiuterà ad evidenziare indizi di malattia precoci. Informare i clienti sul rischio e delle conseguenze di un passaggio dalla 1a fase alla 2a fase3. Un articolato studio condotto negli Stati Uniti ha evidenziato che soltanto il 15% dei clienti si adegua alle raccomandazioni del medico veterinario riferiti a malattie rilevate nella 1a fase e che tale percentuale si eleva al 35% nella 2a fase. Questo suggerisce che, allorché i denti si trovano in uno stato decisamente precario, siamo più disponibili a seguire le indicazioni del medico veterinario rispetto a quando la situazione si presenta come migliore. Tuttavia, la buona notizia è che la stessa ricerca statunitense ha riportato che soltanto il 7% dei clienti ha rifiutato il trattamento di tipo odontoiatrico proposta in relazione al suo costo, così che, se informiamo in merito ai rischi connessi con le affezioni dentali ed evidenziamo i vantaggi di un intervento precoce, potremo così sollecitare un più concreto adeguamento alla pratica corretta. (2) Come contribuire ad ”educare” i clienti Contribuire ad “educare” i clienti circa la necessità di prevedere un intervento precoce, evidenziando che, lasciando passare troppo tempo, il dente sarà inevitabilmente perso: 1. mostrare ai clienti l’aspetto normale e quello anormale di una gengiva; 2. concordare regolari controlli periodici, ricorrendo a “promemoria” inviati via e-mail, tenendo in considerazione che ai clienti piace ricevere segnalazioni delle scadenze delle visite; 3. spiegare cosa occorre fare 4 ed illustrare gli aspetti di sicurezza della anestesia, specialmente per gli animali anziani; 4. affiggere nella sala d’aspetto poster e fotografie con l’evidenziazione del materiale e della zona dedicata agli interventi odontostomatologici possibili; 5. mostrare radiografie dentali, utilizzando raggi X che consentano di mostrare lesioni evidenti (per esempio, assorbimenti da lesioni odontoclastiche); 6. mostrare fotografie del “prima” (denti ricoperti dal tartaro) e del “dopo” (denti puliti);


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7. mettere a disposizione della clientela testimonianze scritte di clienti in merito all’opportunità di provvedere a regolari detartrasi nei cani e nei gatti (molti clienti si dichiarano entusiasti dei benefici acquisiti dopo l’effettuazione della procedura); 8. utili opuscoli e materiale promozionale da distribuire. (3) Cure da attuare in ambito domestico5 In effetti, i clienti possono attuare molte utili procedure in ambito domestico per favorire l’igiene orale dei loro animali da compagnia: 1. la pulizia giornaliera con spazzolino è d’obbligo per il controllo della placca batterica. Molti animali hanno bisogno di 3-4 settimane per abituarsi con continuità a detta operazione. Se necessario, si rivelerà opportuno designare un membro della struttura veterinaria quale punto di contatto (specie se facilmente raggiungibile per telefono) in grado di fornire informazioni aggiuntive ai clienti in fase di apprendimento dell’uso dello spazzolino. Meglio fissare una serie di semplici traguardi nel corso di un mese, per aiutare l’acquisizione della procedura; 2. alimentazione: il grande vantaggio degli alimenti o diete che pongono attenzione all’aspetto dentale è costituito dal fatto che esse devono essere somministrate su base giornaliera, al fine di garantire l’apporto di calorie, la qualcosa costituisce un bel passo avanti sulla strada dell’aumentata accondiscendenza dei clienti nello specifico settore. Alcune di queste diete sono studiate per ridurre sia la placca batterica che il tartaro; altre puntano solo a ridurre il tartaro; 3. Ausili masticatori: la loro efficacia nel migliorare la salute della bocca è stata accertata. Per una spiegazione più dettagliata di questi ed altri protocolli di cure da attuare in ambito domestico, si rimanda al testo Roudebush 20055.

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Sintesi Le potenzialità di aumentare la collaborazione e la disponibilità dei nostri clienti sono molto elevate. Il ruolo dei medici veterinari nella vicenda è essenziale: anche facendo pochi semplici passi in avanti, miglioreremmo la disponibilità dei clienti ed avremmo la soddisfazione di contribuire a migliorare ulteriormente il benessere degli animali affidati alle nostre cure.

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Indirizzi Internet utili: SCIVAC (Società Italiana di Odontostomatologia Veterinaria): www.scivac.it European Veterinary Dental Society: www.evds.org Journal of Veterinary Dentistry: www.jvdonline.org

Testo da consultare: Holmstrom SE (2005), Dentistry. Vet Clin N Am. July 2005, Vol 35 (4), 763-1072. Indirizzo per la corrispondenza: David Morgan - E-mail: morgan.d@pg.com


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Gestione nutrizionale del paziente nefropatico proteinurico Pier Paolo Mussa Med Vet, Dipl ECVCN, Grugliasco (TO)

Liviana Prola, Med Vet, PhD, Grugliasco (TO) Da dati statunitensi, la prevalenza della patologia renale negli animali d’affezione è risultata essere tra 0,5 e il 2% nella specie felina e di circa l’1% nel cane. Questa stima potrebbe non essere utile in una situazione quale quella italiana o degli altri paesi del bacino del Mediterraneo vista la più alta incidenza di nefropatie coinvolgenti il reparto glomerulare come conseguenza della deposizione di immunocomplessi circolanti che originano da infezioni ed infestazioni (Leishmaniosi, Ehrlichiosi, Rickettsiosi, Piroplasmosi, ecc.) ben rappresentate nella nostra area geografica. I pazienti nefropatici proteinurici possono essere suddivisi in: • Nefropatici proteinurici non azotemici - Affetti da sindrome nefrosica - Non affetti da sindrome nefrosica • Nefropatici proteinurici azotemici La sintomatologia dominante, e pertanto gli elementi da considerare nella gestione dei pazienti nefropatici proteinurici, è rappresentata da ipertensione, iperfosfatemia, ipoalbuminemia, ipercolesterolemia, proteinuria di grado variabile, ipercoagulabilità, anemia e cachessia. Iperfosfatemia: la ritenzione del fosfato e l’iperfosfatemia compaiono precocemente in caso di nefropatia e hanno un ruolo primario nella genesi e nella progressione di condizioni come iperparatiroidismo secondario renale, osteodistrofia renale, carenza relativa o assoluta di 1,25- diidrossivitamina D e calcificazione dei tessuti molli. Nel controllo dell’iperfosfatemia si può intervenire, dal punto di vista nutrizionale, utilizzando diete a basso tenore in fosforo e, nel caso in cui la sola restrizione dietetica non fosse sufficiente, aggiungendo alla razione dei chelanti del fosforo (es. idrossido di alluminio alla dose di 30-90 mg/kg/die). È importante ricordare che l’utilizzo dei chelanti è inefficace se non sono abbinati a diete a ridotto tenore di fosforo. La restrizione del fosforo è stata descritta come uno degli interventi nutrizionali in grado di aumentare l’aspettativa di vita dei pazienti nefropatici (Finco, 1992; Eliott, 2000). Proteinuria ed ipoalbuminemia: sono, probabilmente, gli aspetti che richiedono una più attenta gestione nutrizionale. Da un lato il paziente neuropatico proteinurico va incontro ad un’ipoalbuminemia per perdita delle proteine attraverso il filtro renale, dall’altro le proteine perse devono essere cautamente integrate per non andare a dare un sovraccarico renale. In pratica, questo aspetto può essere affrontato somministrando delle razioni con un tenore proteico controllato ma con proteine di elevato valore biologico in modo da fornire gli ami-

noacidi essenziali con il minor sovraccarico renale possibile. Sotto questo aspetto potrebbe anche essere utile somministrare una dieta caratterizzata da un basso tenore proteico (che consentirà di evitare l’iperfiltrazione proteica) integrata con aminoacidi essenziali. L’integrazione con aminoacidi deve essere direttamente proporzionale alle proteine perse attraverso le urine che possono essere calcolate con la formula: mg di proteine persi nelle 24 h con le urine = 20 x PU/CU x Kg peso vivo dove PU/CU è il rapporto proteinuria/creatininuria Altro elemento di azione per la riduzione della proteinuria è costituito dal controllo delle condizioni ipertensive sistemiche e locali. Questo aspetto può essere affrontato da un punto di vista farmacologico ma un ausilio importante nel trattamento dell’ipertensione locale ci viene anche fornito dall’integrazione della razione con acidi grassi della serie omega-3 (soprattutto ac. eicosapentenoico). Uno dei meccanismi di induzione dell’ipertensione glomerulare è dato dall’aumento di produzione di prostaglandina E2 e trombossano A2. L’EPA, interferendo con la produzione dei suddetti eicosanoidi, determina una diminuzione della pressione glomerulare. In particolare si è notato che una dieta con rapporto omega-6:omega-3 pari a 5:1 diminuisce la produzione di eicosanoidi e permette di tenere sotto controllo l’ipertensione glomerulare. La limitazione dell’apporto di sodio per il controllo dell’ipertensione sistemica negli animali da compagnia nefropatici è tuttora una questione aperta poiché al riguardo esistono dati contrastanti. Diversi Autori suggeriscono di limitare l’apporto di sodio per ridurre l’ipertensione associata all’incapacità dei reni di eliminare questo elemento. Altri Autori affermano che ridurre l’apporto di sodio determina una diminuzione del volume ematico diretto al rene e, pertanto, potrebbe addirittura risultare controindicato. Recentemente è stato suggerito che somministrare più di 1,5 g di Na/1000 kcal possa promuovere la progressione della nefropatia felina negli stati iniziali (Kirk, 2002). Tuttavia, variare l’apporto di Na da 0,5 a 3,25 g di Na/1000 kcal non ha influenzato lo sviluppo dell’ipertensione, né influito sulla velocità di filtrazione glomerulare nel cane con nefropatia indotta per via chirurgica (Greco et al., 1994). Inoltre, uno studio recente condotto su gatti con patologia renale moderata indotta per via chirurgica, non ha mostrato alcun effetto avverso dopo la somministrazione di 2 g di Na/1000 kcal (Burankarl, 2004). Burankarl e coll. hanno anche suggerito che la restrizione di Na (0,5 g di Na/1000 kcal) possa attivare le vie neuroumorali che contribuiscono alla progressione


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della patologia renale ed aggravano la deplezione renale del potassio. Riassumendo, gli apporti alimentari ideali di Na per il cane e il gatto in condizioni di nefropatia non sono ancora state chiaramente definiti. Le attuali raccomandazioni sono di somministrare diete con contenuto normale di sodio. La capacità di regolare l’escrezione di Na in risposta alle variazioni dell’apporto alimentare, diminuisce seriamente con il progredire della patologia. Se l’apporto di sodio scende rapidamente, si possono avere disidratazione e contrazione del volume di fluidi con conseguente aggravamento della situazione renale. Ipercolesterolemia: nel paziente nefropatico proteinurico possiamo rilevare alterazioni del metabolismo lipidico caratterizzate da alti livelli plasmatici di colesterolo. Alti livelli di lipidi nel sangue stimolano, a livello renale, la proliferazione delle cellule mesangiali all’interno dei glomeruli, da ciò consegue un’eccedente produzione di matrice mesangiale che porta ad una glomerulosclerosi. Attraverso un’integrazione con acidi grassi polinsaturi si può diminuire la colesterolemia e l’effetto patologico del suo eccesso. Ipercoagulabilità: nella malattia renale interviene, in alcuni casi, una situazione di coagulabilità piastrino-indotta favorita dall’azione del trombossano A2. Lo stato di ipercoagulabilità aumenta il rischio di trombosi soprattutto nei pazienti con bassi livelli di Antitrombina III (dovuti ad una perdita di questa proteina attraverso le urine). Per diminuire la situazione di ipercoagulabilità, oltre all’approccio farmacologico, è di notevole ausilio l’inibizione della produzione di questa molecola attraverso la competizione con il trombossano prodotto dall’EPA, dotato di minor capacità aggregante piastrinica. Cachessia: la cachessia nel paziente nefropatico proteinurico ha una duplice origine. Da un lato può derivare da un non corretto apporto energetico dovuto alla sottostima dei fabbisogni energetici in una condizione ipermetabolica o alla non sufficiente assunzione dell’alimento dovuta all’inappetenza; dall’altro può essere dovuta ad una perdita della massa magra causata dalla proteinuria. Per quanto riguarda il primo aspetto ricordiamo che l’apporto energetico deve essere personalizzato secondo i fabbisogni del paziente e sulla base delle determinazioni seriali di peso corporeo e BCS (body condition score) ma una buona base di partenza è costituita dal calcolo del fabbisogno energetico con le formule: 132 x PV0,75= fabbisogno energetico giornaliero cane 60 kcal x PV= fabbisogno energetico giornaliero gatto

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Una fonte di energia molto importante da considerare è rappresentata dai grassi che, fornendo più del doppio delle kcal/g rispetto a carboidrati e proteine, possono aumentare la densità energetica della dieta (kcal/100 g SS) e ciò consente di soddisfare i fabbisogni energetici con una quantità di cibo inferiore. Fattore importante in pazienti inappetenti poiché la minore distensione gastrica diminuisce l’incidenza di nausea e vomito. In alcuni casi, però, nonostante l’apporto energetico sia corretto si può avere una perdita della massa magra attraverso il filtro renale. Questo aspetto può essere contrastato attraverso la somministrazione di EPA che è risultato in grado di ridurre la degradazione proteica a livello dei muscoli scheletrici, grazie all’inibizione della PGE2. CARATTERISTICHE DI UNA DIETA PER SOGGETTI NEFROPATICI PROTEINURICI (valori sulla sostanza secca) Proteine

15-17% per il cane e 28% per il gatto.

Fosforo

0,15-0,30% per il cane e 0,40-0,60% per il gatto.

Densità energetica

400-450 kcal/100 g

Vitamine idrosolubili

due-tre volte il fabbisogno minimo

Acidi grassi polinsaturi

rapporto (omega 6/omega 3) 5:1

Alcalinità dieta

eventuale aggiunta di sostanze alcalinizzanti

Nella pratica la gestione nutrizionale del paziente nefropatico proteinurico è un problema di elevata complessità che richiede un “equilibrismo” non indifferente tra i vari elementi da considerare. In prima istanza, l’adozione di una buona dieta commerciale, specifica per questo stato patologico, può essere la soluzione più semplice ed affidabile. Il controllo delle condizioni cliniche del paziente e gli esami di laboratorio permetteranno di stabilire se il trattamento dietetico è risultato efficace. In caso di necessità si potrà intervenire, a seconda dei casi, con l’aggiunta di chelanti del fosforo, alcalinizzanti, aminoacidi, acidi grassi e vitamine. La bibliografia è a disposizione presso l’autore.

Indirizzo per la corrispondenza: Dipartimento di Produzioni Animali, Epidemiologia ed Ecologia Via L. da Vinci, 44 - 10095 Grugliasco (TO) E-mail: pierpaolo.mussa@unito.it E-mail: liviana.prola@unito.it <mailto:pierpaolo.mussa@unito.it>


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La visione nel regno animale (Prima e seconda parte) Ron Ofri Med Vet, PhD, Dipl ECVO, Rehovot, Israel

Ai veterinari vengono spesso poste domande come “perché i gatti ci vedono meglio di notte?” “è vero che i cani non vedono i colori?” o “quanto è acuta la vista del mio cane?”. La visione è un senso molto complesso, che viene influenzato da numerosi fattori, varia notevolmente fra le diverse specie animali e può essere valutata in numerosi modi diversi, per cui non è semplice rispondere a queste domande. Questa relazione non fornirà una trattazione completa e dettagliata dell’argomento, ma sarà piuttosto messa a fuoco (gioco di parole voluto) su alcune delle significative differenze della visione fra uomo, cane e gatto.

PERCHÉ IL MIO ANIMALE SEMBRA NON AVERE INTERESSE A GUARDARE LA TV? Le risposte alle luci caratterizzate da un rapido sfarfallio (flickering) sono generate dai coni. Fra questi sfarfallii, i coni vanno incontro ad un breve processo di recupero che consente loro di generare la risposta al lampeggiamento successivo. Quando lo sfarfallio diventa troppo rapido, i coni non sono in grado di recuperare in modo sufficiente fra un lampo e quello successivo. A questo punto, le risposte dei coni “si fondono”, per cui questi fotorecettori generano solo una risposta ad una serie di rapidi lampi. Nell’uomo, le risposte dei coni si fondono a 45 Hz. Di conseguenza, le immagini generate dagli schermi dei computer o della TV, che hanno uno sfarfallio di 50 o 60 Hz, vengono percepite come continue. Invece, nel cane e nel gatto le risposte dei coni si fondono a 70-80 Hz. Pertanto, quando guardano la televisione, gli animali da compagnia sono in grado di percepire lo sfarfallio delle singole immagini, il che probabilmente influisce in modo considerevole sul loro interesse per il programma! Analogamente, gli animali da compagnia sono in grado di rilevare lo sfarfallio delle luci fluorescenti, un fatto di cui può essere necessario tenere conto al momento di studiare l’illuminazione della vostra clinica.

popolazione di coni hanno una percezione limitata delle differenti sfumature di quel dato colore (ad es., i ratti hanno una sensibilità dei coni alla luce gialla). Nelle specie animali con più di una popolazione, è possibile una visione a colori “più ricca” grazie all’attivazione di differenti percentuali delle varie popolazioni. Contrariamente all’opinione pubblica prevalente i cani ed i gatti non “vedono in bianco e nero”. I cani presentano due popolazioni di coni. Una assorbe la luce nello spettro bluvioletto (picco di assorbimento– 423 nm), mentre la seconda assorbe la luce dello spettro giallo (555 nm). Questa situazione differisce da quella dell’uomo, che presenta una terza popolazione di coni che assorbe la luce nello spettro verde. Quindi, i cani possono essere paragonati alle persone “cieche a un colore” (dicromatiche), che mancano della popolazione dei coni sensibili al verde, una condizione nota come deuteranopia. Possono vedere i colori, ma non sono in grado di distinguere fra le sfumature rosse e quelle verdi. Ciò significa che i cani guida non distinguono il rosso ed il verde dei semafori e si basano sulle modificazioni dell’illuminazione per attraversare la strada! Analogamente, i bovini presentano coni che assorbono le lunghezze d’onda del blu e del giallo, il che significa che i tori non percepiscono il colore della muleta rossa utilizzata dai toreri. I gatti, d’altra parte, presentano tre popolazioni di coni, con picchi di assorbimento a 450, 500 e 550 nm. Tuttavia, numerosi studi comportamentali non sono riusciti a rivelare una ricca visione di colori nei felini. In questo contesto bisogna ricordare che i cani ed i gatti possiedono molto meno coni degli esseri umani, per cui si può presumere che la visione dei colori in questa specie animale non sia “ricca” come nell’uomo. È stato ipotizzato che durante l’evoluzione il numero dei coni nelle retine delle specie notturne sia andata incontro ad una riduzione per consentire un aumento numerico dei bastoncelli, permettendo così una visione notturna più sensibile.

VISIONE NOTTURNA IL MIO ANIMALE VEDE I COLORI? La visione a colori è il dominio dei coni. Sulla base della sensibilità alla lunghezza d’onda del fotopigmento contenuto nei loro segmenti più esterni, sono stati identificati 4 tipi di coni e nelle diverse specie animali possono essere presenti tutte le possibili combinazioni, da una sola popolazione a tutte e quattro. Le specie che presentano solo una

Sia i cani che i gatti hanno una visione notturna (scotopica) molto sensibile. Gli studi condotti hanno dimostrato che la soglia di intensità luminosa necessaria per suscitare la visione nell’uomo è 6 volte quella che occorre nel gatto. Questo miglioramento del rendimento visivo nell’oscurità è giustificato da diversi meccanismi fisiologici ed anatomici. Il primo è la quantità di luce che penetra nell’occhio. Il dia-


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metro della cornea nel gatto è di 16,3 mm e quello della sua pupilla dilatata è di 10,1 mm. Nell’uomo, i rispettivi valori sono di 11,1 e 6,0 mm. Di conseguenza, attraverso la cornea e la pupilla del gatto può passare più luce per arrivare alla retina. Ovviamente, queste differenze non hanno alcuna conseguenza di giorno, quando è presente un’illuminazione sufficiente per la visione. Invece, di notte, quando “ogni fotone conta” la capacità dell’occhio del gatto di accogliere una maggior quantità di luce è molto importante. È stato stimato che il maggiore diametro della cornea e della pupilla del gatto determini un aumento di 5,2 volte dell’entità dell’illuminazione retinica rispetto all’uomo. Inoltre, il gatto è maggiormente in grado di sfruttare questa luce, grazie al tappeto lucido. Questa struttura, localizzata nella coroide, conferisce al fondo dell’occhio della maggior parte dei mammiferi (con l’importante eccezione dei primati) la sua ricca varietà cromatica. Inoltre, svolge un importante ruolo funzionale agendo come uno specchio che riflette indietro la luce verso la retina. I fotoni che non vengono assorbiti dai fotorecettori vanno “sprecati” nell’occhio perché non contribuiscono alla visione. Il tappeto li riflette nuovamente verso i fotorecettori, raddoppiando le loro probabilità di venire assorbiti. Anche in questo caso, questa capacità di riflessione ha scarsa importanza di giorno (anzi, determina persino un certo offuscamento della visione), ma è estremamente importante di notte. Tuttavia, il fattore più significativo per determinare la sensibilità ai bassi livelli di luce è la percentuale di bastoncelli e coni. I primi sono molto sensibili ai bassi livelli luminosi e possono funzionare con delle intensità pari a 10-5 volte quelle richieste dai coni. Inoltre, questa sensibilità può venire aumentata attraverso meccanismi neuronali e biochimici in un processo detto adattamento all’oscurità. Come dimostra la tabella1, i gatti presentano una concentrazione di bastoncelli molto più elevata di quella dell’uomo in tutta la retina, il che contribuisce in modo significativo alla loro visione notturna, mentre sminuisce la loro acutezza visiva.

cesso di focalizzazione viene detto accomodazione. Nei mammiferi, questa avviene a livello della lente. Nell’uomo, si ottiene mediante modificazioni della sua curvatura. Per vedere gli oggetti distanti, la stimolazione simpatica provoca il rilascio del nostro muscolo ciliare, che rende più appiattita (discoide) la lente. Un processo opposto, che porta ad una lente sferoidale, si ha durante la visione degli oggetti vicini. Date le differenze anatomiche e fisiologiche della lente, i gatti ed i cani non sono in grado di modificarne la forma. Piuttosto, ne spostano la posizione nell’occhio. Quando guardano oggetti distanti, la lente viene retratta (verso la retina), mentre viene spostata in avanti per visualizzare gli oggetti vicini. Ciò determina la diminuzione della capacità di accomodazione. Il potere di accomodazione dell’occhio umano di un teenager è di circa 15 diottrie (D), mentre nel cane e nel gatto è di 3-4 D.

QUANTO È ACUTA LA VISTA DEL MIO ANIMALE?

Come già ricordato e dimostrato nella Tabella 1, il “costo evolutivo” del miglioramento della visione notturna è una riduzione del numero dei coni e, di conseguenza, dell’acutezza visiva. Inoltre, l’acutezza delle risposte dei coni dei felini è pari solo al 25% dei coni dell’uomo. Ancora, il tappeto lucido, che risulta così utile per la visione notturna, provoca la diffusione della luce e l’offuscamento della visione durante il giorno.

Ciò significa che il mio animale ha bisogno degli occhiali? No. L’accomodazione è un processo attivo che modifica la potenza di rifrazione dell’occhio, ma altri meccanismi anatomici e fisiologici garantiscono che la luce verrà messa a fuoco sulla retina (emmetropia). Ampie indagini dimostrano che la maggior parte dei cani e dei gatti rientra entro 0,5 D di emmetropia; anche nell’uomo, è raro che si usino gli occhiali per correggere un errore di rifrazione così piccolo. È interessante notare che questo errore nei nostri animali da compagnia è influenzato da habitat, razza ed altri fattori. Ad esempio, i gatti che vivono all’aperto tendono a vedere meglio da vicino (miopia), mentre quelli che vivono in casa tendono a vedere meglio da lontano (iperopia). Analogamente, i cani delle razze di piccola taglia tendono ad essere miopi, mentre quelli delle razze di grossa taglia tendono ad essere iperopi.

Effetto dell’anatomia della retina sull’acutezza visiva

L’acutezza visiva viene determinata da numerosi fattori.

In che modo mette a fuoco il mio animale? La luce che entra nell’occhio deve essere messa a fuoco sulla retina per generare un’immagine ben definita. L’attivo pro-

Tabella 1 - Concentrazione di bastoncelli e coni 2

Massima concentrazione dei coni (per mm ) 2

Massima concentrazione dei bastoncelli (per mm ) 2

Concentrazione dei coni alla periferia della retina (per mm ) 2

Concentrazione dei bastoncelli alla periferia della retina (per mm )

UOMO

GATTO

199.000

27.000

160.000

460.000

5.000

< 3.000

40.000

250.000


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Allora il mio animale ci vede molto male?

CONCLUSIONI

In termini di acutezza visiva, la risposta è “si”. L’acutezza visiva viene tipicamente espressa dalla frazione di Snellen. L’acutezza nell’uomo normale è di 20/20 (o 6/6 secondo il sistema metrico). I valori riportati negli animali variano notevolmente, dal momento che esistono numerosi metodi per determinare l’acutezza visiva (fra i quali i principali sono comportamentali, elettrofisiologici ed optocinetici). Tuttavia, in media si stima che l’acutezza visiva del cane sia di 20/75, il che significa che un cane ha bisogno di trovarsi a 20 piedi (30,48cm=1 piede ndt) da un oggetto per vederlo bene come una persona in piedi a 75 piedi di distanza (o 6 e 22 metri, rispettivamente). L’acutezza stimata nel gatto è peggiore e viene riferita come pari a 20/150 (o 6/45), il che significa che un gatto deve essere 7 volte più vicino ad un oggetto per vederlo bene come noi.

Rispetto all’uomo, la visione cromatica, quella binoculare (non trattata in questo lavoro), le capacità di accomodazione e l’acutezza visiva sono inferiori. Nel gatto, la visione binoculare e quella cromatica possono essere più simili a quelle dell’uomo che a quelle del cane. Tuttavia, gli animali di entrambe le specie presentano una visione notturna superiore ed una migliore identificazione dello sfarfallio. È probabile che siano anche meglio capaci di individuare il movimento ed abbiano una migliore visione a basso contrasto (non trattata). Queste proprietà consentono ai cani ed ai gatti di vederci bene di notte, mentre noi restiamo a brancolare nel buio.

Indirizzo per la corrispondenza: Ron Ofri - Koret School of Veterinary Medicine Hebrew University of Jerusalem PO Box 12, Rehovot 76100, (ofri@agri.huji.ac.il)


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La cecità in oftalmologia veterinaria: esame, cause e trattamenti (Prima e seconda parte) Ron Ofri Med Vet, PhD, Dipl ECVO, Rehovot, Israel

1. Anamnesi a) La cecità ha un’insorgenza improvvisa o graduale? ο Spesso, i proprietari riferiscono una cecità ad insorgenza improvvisa anche se i risultati della visita oculistica evidenziano alterazioni associate ad una malattia cronica e di vecchia data. Un’accurata indagine anamnestica rivela che la cecità è stata notata in seguito ad un a modificazione dell’ambiente dell’animale (visita agli amici, trasferimento in una nuova casa). Possiamo presumere che, anche se l’animale era cieco già da lungo tempo, l’insorgenza graduale della malattia gli avesse permesso di imparare a muoversi in un ambiente familiare. Il mutamento di ambiente ha fatto sì che urtasse contro degli oggetti portando erroneamente i proprietari a credere che la cecità fosse acuta. b) Il deterioramento della visione era associato ad una perdita preferenziale della visione notturna oppure di quella diurna? ο Uno dei primi segni comportamentali delle malattie degenerative ereditarie della retina esterna (comunemente nota come Atrofia Progressiva della Retina) è la perdita della visione notturna (nyctalopia) perché i bastoncelli vengono colpiti prima dei coni. ➟ State attenti a come formulate la domanda!! Non “guidate” i proprietari. ➟ Anche altre funzioni dei bastoncelli (come l’identificazione degli oggetti in movimento o di quelli nel campo visivo periferico) vengono colpite prima di quelle dei coni (la visione del colore, l’identificazione degli oggetti nel campo visivo centrale). Tuttavia, di solito queste modificazioni sono troppo sottili per essere rilevate dai proprietari. ο La perdita della visione notturna è progressiva? Una malattia nota come “Cecità notturna stazionaria congenita”, descritta nel cane e nel cavallo, è causa di nictalopia, ma non influisce sulla visione diurna. ο Parecchie malattie retiniche (poco frequenti) si possono presentare con una cecità diurna (hemeralopia). Rientrano fra queste la degenerazione dei coni (ad es., nell’Alaskan malamute) e la distrofia dell’epitelio pigmentato della retina (già nota come CPRA). Queste malattie possono essere progressive, ma non necessariamente. c) L’animale è sano? Ci sono altri segni di malattia, oltre alla perdita della visione?

ο Come si vedrà in seguito, la cecità può essere causata da numerose malattie sistemiche o neurologiche. Queste sono frequentemente accompagnate da altri segni di malattia clinicamente manifesta. ο Di conseguenza, il clinico deve effettuare una raccolta anamnestica completa (non solo oculistica) dei dati del paziente. Inoltre, fanno parte dell’indagine su qualunque caso di cecità l’esame clinico completo e la valutazione neurologica. Tuttavia, questi non verranno trattati nella presente relazione.

2. Valutazione della visione e della funzione nell’animale cieco a) Risposta alla minaccia La risposta alla minaccia consiste nell’effettuare un improvviso gesto di minaccia che si presume in grado di suscitare una risposta di ammiccamento. Il ramo afferente della risposta è costituito da retina, assoni del nervo ottico, tratto ottico (che va dal chiasma ottico al nucleo genicolato laterale nel diencefalo) e radiazione ottica (dal diencefalo alla corteccia visiva). La componente efferente della risposta comprende la corteccia motoria primaria, il cervelletto ed il nucleo del settimo paio di nervi cranici (nervo facciale). È importante notare che la risposta alla minaccia riguarda l’integrazione e l’interpretazione a livello cerebrocorticale e, quindi, non è un riflesso. Piuttosto, si tratta di una risposta corticale che, per manifestarsi, richiede l’integrità delle vie visive periferiche e centrali nonché della corteccia visiva e del nucleo facciale del VII paio di nervi cranici. ο La risposta alla minaccia va valutata in un occhio, mentre l’altro viene coperto. Bisogna fare attenzione a non toccare le ciglia/peli del paziente, perché ciò potrebbe determinare una risposta “falsa positiva”. ο Anche il movimento dell’aria può causare una risposta “falsa positiva”. ο Prendere in considerazione la possibilità di effettuare il gesto di minaccia dietro una parete di vetro ο Analogamente, sono anche possibili risultati “falsi negativi” (mancanza di risposta di minaccia in un animale che ci vede): ➟ La paralisi del nervo facciale provoca un esito falso negativo. Di conseguenza, in assenza di una risposta alla minaccia bisogna sempre esaminare: • Il riflesso di ammiccamento (toccando il canto)


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• La protrusione della terza palpebra, causata dalla retrazione dell’occhio (dovuta alla contrazione del muscolo retrattore del bulbo, mediata dal nervo abducente) in risposta al gesto di minaccia. ➟ La risposta alla minaccia è assente negli animali giovanissimi (< 10-12 settimane) e può essere anche influenzata dallo stato del sensorio del paziente. ο È importante ricordare che la risposta alla minaccia è un metodo molto grezzo di valutare la visione e in effetti richiede solo un’acutezza visiva di 6/600! b) Ulteriori test visivi • Percorso ad ostacoli ο Il percorso ad ostacoli che realizzate deve essere costante ➟ Assicuratevi che gli animali normali siano in grado di portarlo a termine! ο Esaminare il paziente in condizioni fotopiche e scotopiche ο Considerare la possibilità di coprire un occhio • Risposta del piazzamento visivo ο Utile quando i risultati del percorso ad ostacoli e della risposta alla minaccia sono equivoci ο Sollevare l’animale verso il tavolo, lasciandogli vedere la superficie che si avvicina. Un soggetto normale estende gli arti verso la superficie prima che le sue zampe tocchino il tavolo c) Il riflesso pupillare A differenza della risposta alla minaccia, il riflesso pupillare è un riflesso subcorticale. Di conseguenza, NON valuta la visione e può risultare normale anche in animali con cecità corticale. Inoltre, di solito è presente (benché possa essere diminuito o rallentato) in animali colpiti da degenerazione retinica esterna (PRA), cataratte ed altre cause di cecità subcorticale. Ciò nonostante, il riflesso pupillare è un test molto importante che aiuta a localizzare la lesione responsabile della perdita della visione. La via afferente del riflesso pupillare inizia dalla retina, attraversa il nervo ottico, giunge al chiasma ottico, dove la maggior parte degli assoni si incrocia verso il lato controlaterale, attraversa entrambi i tratti ottici ed ascende ai nuclei genicolati laterali, per prendere sinapsi ventralmente a livello dei nuclei pretettali (PTN). Gli assoni provenienti da ciascun PTN si trasmettono ai nuclei parasimpatici di destra e di sinistra del nucleo oculomotore (CN III); tuttavia, la maggior parte degli assoni si incrocia e prende sinapsi nel nucleo parasimpatico controlaterale, localizzato nel tegmento del mesencefalo. Poiché ciascun PTN si mette in connessione con entrambi i nuclei parasimpatici, in risposta alla stimolazione luminosa dell’uno o dell’altro occhio si ha la costrizione luminosa della pupilla sia di destra che di sinistra. La costrizione che si ha in corrispondenza dell’occhio stimolato è nota come riflesso pupillare diretto, mentre quella dell’occhio controlaterale, non stimolato, è detta riflesso pupillare consensuale (o indiretto). Poiché le vie del riflesso pupillare afferente contengono due livelli di incro-

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cio delle fibre, il primo in corrispondenza del chiasma ottico ed il secondo dopo l’uscita dai PTN, nella maggior parte delle specie animali il riflesso pupillare diretto è più forte di quello indiretto. Più precisamente, il riflesso pupillare diretto è più forte in quelle specie che hanno più del 50% di decussazione a livello del chiasma ottico. Al contrario, nell’uomo, dove la percentuale di decussazione è del 50%, i riflessi pupillari diretto e consensuale hanno un’uguale ampiezza. • Di nuovo, sono possibili risultati falsi negativi, in caso di: o precedente trattamento con atropina, o altri farmaci parasimpaticolitici; o malattia dell’iride, come l’atrofia, le sinechie posteriori e l’uveite grave. o Queste condizioni possono essere bilaterali o monolaterali. In quest’ultimo caso, interessano soltanto il riflesso pupillare diretto, ma non quello consensuale dell’occhio non stimolato. • Il riflesso dell’abbagliamento è un altro riflesso subcorticale. Si manifesta sotto forma di un ammiccamento parziale bilaterale in risposta ad una luce intensa. La via anatomica responsabile di questo riflesso è scarsamente compresa. Tuttavia, si tratta di un test molto utile come sostituto per la valutazione del riflesso pupillare nei casi in cui non è possibile vedere le pupille, come avviene in presenza di grave edema corneale o ifema o quando si sospetta un riflesso pupillare “falso negativo”.

3. Ulteriori test del sistema visivo a) Come già ricordato, si deve condurre l’esame neurologico nei casi di cecità. Bisogna prestare attenzione a: • Deficit dei nervi cranici • Modificazione dello stato del sensorio: stupore, delirio, depressione • Anomalie dell’andatura: atassia, maneggio, paresi • Anomalie della postura: testa piegata, testa ruotata… b) Elettrofisiologia: questi test richiedono l’invio ad uno specialista • L’elettroretinogramma (ERG) viene utilizzato per registrare le risposte elettrofisiologiche della retina alla stimolazione visiva o È molto utile nella diagnosi dei primi stadi di degenerazione retinica interna (PRA) ed anche per differenziare fra neurite ottica ed improvvisa degenerazione retinica acquisita (SARD, sudden acquired retinal degeneration) (vedi oltre) o Poiché misura l’attività retinica, l’ERG sarà normale nei casi di cecità postretinica (neurite ottica o cecità corticale). Questi casi vengono valutati meglio attraverso i potenziali visivi evocati (VEP), che prevedono la registrazione delle risposte elettrofisiologiche corticali alla stimolazione visiva. c) Tecniche di diagnostica per immagini: radiografia, tomografia computerizzata e risonanza magnetica possono venire utilizzate nell’ambito delle indagini sui sospetti casi di cecità centrale.


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4. Localizzazione delle lesioni nel paziente cieco Sulla base dei risultati della visita oculistica, il paziente può essere classificato in una delle seguenti quattro categorie generali: a) Riscontri oftalmici anormali associati a riflesso pupillare normale/diminuito • Opacità dei mezzi oculari: grave blefarospasmo, edema corneale, ifema/ipopion, cataratta, emorragia del vitreo.. • Retinopatia: degenerazione retinica esterna (PRA), corioretinite b) Esame oftalmico anormale ed assenza di riflesso pupillare: • Glaucoma • Distacco retinico • Neurite ottica che coinvolge la porzione prossimale del nervo ottico e causa edema della papilla o Cause infettive e non infettive di neurite ottica o Ascesso/cellulite retrobulbare • Ipoplasia/atrofia del nervo ottico: • glaucoma congenito, post-traumatico, cronico c) Esame oftalmico normale e assenza di riflesso pupillare: • Improvvisa degenerazione retinica acquisita (SARD) • Neurite ottica che coinvolge la porzione distale del nervo ottico, nel qual caso la parte craniale di quest’ultimo avrà un aspetto normale o Cause infettive e non infettive di neurite ottica • Neoplasia del nervo ottico o neoplasia che comprime il nervo ottico o il chiasma • Lesioni a carico del nervo ottico controlaterale fino a livello del nucleo genicolato laterale: o Neoplasia ipotalamica e talamica o Accidente cerebrovascolare (Ictus) d) Esame oftalmico normale e assenza di riflesso pupillare: si tratta di solito di casi neurologici, causati da lesioni centrali che colpiscono le vie della visione dal nucleo genicolato laterale alla corticale visiva controlaterale. Le cause sono rappresentate da: • Lesioni congenite: specialmente idrocefalia • Cause metaboliche: encefalopatia epatica, ipoglicemia • Malattie infiammatorie del SNC: meningoencefalite granulomatosa • Malattie infettive del SNC: Neospora, Toxoplasma, cimurro, Streptococcus… • Sostanze tossiche: avvelenamento da piombo.. • Malattie del proencefalo: trauma, neoplasia, emorragia, affezione cerebrovascolare..

DISCUSSIONE DI PARTICOLARI CAUSE DI CECITÀ I. CAUSE RETINICHE DI CECITÀ 1. Atrofia progressiva della retina/ degenerazione di coni e bastoncelli A. Patogenesi Si tratta della più comune retinopatia acquisita del cane, nonché della principale causa di cecità in questa specie ani-

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male. Nella maggior parte dei casi (vedi oltre, “particolarità di razza”) viene trasmessa attraverso un gene autosomico recessivo. La condizione è caratterizzata da un difetto ereditario di uno degli enzimi della fototrasduzione dei fotorecettori retinici. Le differenti razze canine sono colpite da diverse forme della malattia, a seconda della localizzazione della mutazione e dell’enzima difettoso. Tuttavia, indipendentemente dalla mutazione/enzima specifico, la via finale di tutte le forme della malattia è l’atrofia progressiva dei coni e dei bastoncelli. B. Particolarità di razza ➟ Esperimenti condotti sull’incrocio delle razze, utilizzando American ed English cocker spaniel, barboni nani e toy, Labrador retriever e cani da acqua portoghesi colpiti dalla malattia hanno dimostrato un’omogeneità genetica della degenerazione progressiva dei coni e dei bastoncelli (PRCD) in queste razze. In altre parole, la mutazione genica che le colpisce è situata nello stesso locus. ➟ È stata anche accertata una modalità di trasmissione ereditaria autosomica recessiva nell’akita, nel bassotto nano a pelo lungo, nel papillon, nel tibetan terrier e nel tibetan spaniel. ➟ Siberian husky: Degenerazione retinica legata al cromosoma X (comune nei maschi). Il rapporto con il sesso è stato segnalato anche nei samoiedo. ➟ Lo schnauzer nano può essere colpito da una forma a dominanza incompleta di PRA. Alcuni cani portatori (che presentano un gene mutante su un solo cromosoma) mostrano segni clinici ed elettroretinografici di PRA. ➟ La PRA è stata descritta anche in setter irlandese, Gordon e inglese, Norwegian elkhound, mastiff tibetano ed inglese, Afghan hound, collie, greyhound, pinscher nano, pointer, saluki, Swiss hound, pastore delle Shetland, border collie, Cardigan Welsh corgi, beagle, borzoi, e cairn terrier. C. Diagnosi Manifestazioni comportamentali di PRA/PRCD ➟ Malattia bilaterale, benché il cane possa presentare vari gradi di malattia, nei due occhi. ➟ L’età di insorgenza varia a seconda della razza. Nel bassotto a pelo lungo, I primi segni si possono osservare a 6 mesi di vita, mentre nel barbone nano la malattia si può sviluppare anche a 12 anni (età media 3-5 anni). Nell’English cocker spaniel è insolito vedere i segni clinici prima dell’età di 8 anni. ➟ Il primo segno comportamentale di solito è la perdita delle visione notturna o nictalopia, che riflette il danneggiamento dei bastoncelli. Di conseguenza, la valutazione comportamentale del cane (risposta alla minaccia, test del labirinto) va effettuata in varie condizioni di illuminazione. ➟ La malattia è progressiva e porta invariabilmente alla cecità Segni oftalmoscopici di PRA/PRCD ➟ Le prime alterazioni si osservano di solito nella parte periferica del tappeto, vicino alla giunzione


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non tappetale. Si tratta di attenuazione vascolare (specialmente delle arteriole) ed assunzione di una colorazione anomala grigia (lieve iporeflettività). ➟ I casi moderati ed avanzati sono caratterizzati da: ➟ Iperreflettività progressiva del tappeto, dovuta ad assottigliamento della retina nervosa ➟ Attenuazione dei vasi sanguigni: “vasi fantasma” ➟ Aspetto screziato delle aree non tappetali: pigmento che si ammassa in posizione adiacente alle aree di depigmentazione. Questo aspetto è causato dalla migrazione degli RPE fagocitari. ➟ Atrofia del nervo ottico: pallore che deriva da demielinizzazione e perdita di circolazione Riscontri oftalmici aggiuntivi ➟ Di solito il riflesso pupillare è presente, benché possa essere rallentato ed incompleto ➟ Cataratte: sono davvero una complicazione secondaria? Elettroretinografia L’elettroretinogramma (ERG) viene utilizzato per registrare le risposte elettrofisiologiche dei fotorecettori allo stimolo luminoso. La sua importanza in oftalmologia veterinaria deriva da parecchi fattori: ➟ Il lampo ERG fornisce una valutazione obiettiva ed accurata della funzione della retina esterna, più affidabile dei segni oftalmoscopici e comportamentali, soggettivi. ➟ Diagnosi precoce: in molte razze, le anomalie elettrofisiologiche associate a PRA/PRCD si possono rilevare molto prima della comparsa delle manifestazioni comportamentali o delle alterazioni del fondo dell’occhio. Nel barbone, ad esempio, le anomalie dell’ERG sono presenti all’età di 8-10 mesi, benché i segni clinici possano non comparire fino ad 1-2 anni dopo. ➟ Nei pazienti con cataratta, dove le opacità della lente impediscono un accurato esame del fondo dell’occhio, l’ERG trova impiego per determinare la presenza della funzionalità retinica e la prognosi chirurgica. Test del DNA ➟ In commercio si trovano dei DNA test per la diagnosi di PRA/PRCD in circa 15 razze, presso www.optigen.com; ➟ I vantaggi dei test sul DNA sono che possono essere condotti a qualsiasi età e consentono anche di identificare i portatori eterozigoti; ➟ Tuttavia, la maggior parte dei test attuali identifica i marcatori genetici piuttosto che il gene mutato, di per sé, per cui la loro accuratezza è stata messa in discussione.

2. Distacco retinico A. Introduzione ➟ Il distacco retinico è una separazione fra retina e coroide. Una conseguenza di questa separazione è

l’ischemia dei fotorecettori. Se non viene risolta rapidamente e l’apporto ematico non viene ripristinato, i fotorecettori iniziano a morire, portando ad una cecità irreversibile. ➟ I distacchi focali, che coinvolgono una piccola parte della retina, causano un difetto del campo visivo (scotoma). Tuttavia, ciò ha scarso impatto sul comportamento dell’animale e di conseguenza può darsi che questo tipo di distacco non venga presentato al clinico. B. Patogenesi Esistono tre tipi di distacchi, a seconda del meccanismo della loro formazione: ➟ Il distacco sieroso è causato dall’accumulo di fluidi nello spazio sottoretinico, fra retina e coroide. Questo fluido, che origina dalla coroide, può essere rappresentato da sangue o essudati. ➟ il distacco da trazione è causato da una forza che tira la retina lontano dalla coroide. Questa forza può essere generata da: o Movimento anterogrado del corpo vitreo (ad esempio, in seguito a lussazione anteriore della lente) o Fibrina. La formazione di filamenti e coaguli di fibrina è una complicazione frequente dell’infiammazione oculare. Questi filamenti si possono anche formare fra la retina e la lente. La loro riorganizzazione e contrazione può tirare la retina lontano dalla coroide. ➟ Regmatogeno: Formazione di fori nella retina (come conseguenza di traumi, interventi chirurgici o alterazioni senili), associata a liquefazione del corpo vitreo (conseguente ad infiammazione o alterazioni senili). L’acqueo liquefatto penetra nello spazio sottoretinico attraverso i fori della retina e causa il distacco. C. Cause di distacco retinico L’elenco delle possibili cause di distacco retinico dipende dal tipo di distacco. ➟ Il distacco regmatogeno può essere causato da alterazioni senili, trauma o infiammazione (vedi oltre) ➟ Il distacco da trazione può essere causato da lussazione della lente o infiammazione (vedi oltre) ➟ I distacchi sierosi possono essere causati da sanguinamenti o infiammazione. Cause di distacco essudativo Un’infiammazione che porta ad un distacco retinico di solito coinvolge la coroide e la retina (corioretinite o retinocoroidite). Come nel caso dell’uveite anteriore, si può immaginare che qualsiasi infiammazione sistemica o oculare porti a corioretinite. Tuttavia, quest’ultima di solito è un’infiammazione causata da un agente infettivo. Nella regione del Mediterraneo, i più comuni sono: ➟ Cause virali – cimurro del cane, FIP, FeLV and FIV nel gatto


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➟ Rickettsia – Ehrlichia canis ➟ Protozoi – Leishmania, Toxoplasma ➟ Infezioni micotiche, molto comuni nel Nord America Cause di distacco emorragico Qualsiasi causa di sanguinamento sistemico può esitare in distacco retinico emorragico. Le eziologie più comuni comprendono: ➟ Ipertensione sistemica ➟ Trombocitopenia (Ehrlichia canis) ➟ Coagulopatie ➟ Iperviscosità ➟ Anemia ➟ Trauma D. Segni clinici di distacco retinico ➟ Occhio cieco (assenza di risposta alla minaccia). ➟ Pupilla fissa e dilatata. La stimolazione dell’occhio controlaterale evidenzia la presenza di un riflesso pupillare consensuale. ➟ Quando si effettua un esame oftalmoscopico, il clinico trova difficile mettere a fuoco la retina (perché si è spostata dalla sua sede naturale). È possibile vedere un “foglietto” che fluttua nella parte posteriore dell’occhio. Questo foglietto, che è la retina, può essere trasparente, bianco (cioè edematoso) o emorragico, a seconda della causa del distacco. Su di esso si possono osservare i vasi sanguigni retinici; spesso risulta visibile nel segmento posteriore anche senza l’impiego di un oftalmoscopio. ➟ Ecografia. Una sonda da 10 MHz consente di visualizzare la retina distaccata. Questa immagine viene detta “il segno del gabbiano” perché la retina distaccata di solito rimane ancorata all’occhio a livello del disco ottico e dell’ora serrata. L’esame ecografico è particolarmente utile quando non è possibile effettuare quello oftalmoscopico per la presenza di grave edema corneale, ifema, cataratta… E. Trattamento del distacco retinico ➟ È fondamentale diagnosticare la causa primaria del distacco e trattarla. Quindi, bisogna condurre un’indagine sistemica. A seconda del tipo di distacco, questa potrebbe comprendere: o Valutazione cardiovascolare, compresa la misurazione della pressione sanguigna, l’ecocardiogramma, la valutazione della funzione renale… o L’esclusione delle malattie infettive mediante esame emocromocitometrico completo, test sierologici… ➟ Nei casi in cui il distacco è secondario a lussazione anteriore della lente è indicata l’estrazione chirurgica di quest’ultima ➟ Coaguli e filamenti di fibrina possono venire disciolti con l’iniezione intraoculare di attivatore del plasminogeno tissutale (TPA), evitando così i distacchi da trazione

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➟ Il trattamento dei distacchi sierosi essudativi prevede il drenaggio del fluido sottoretinico. Allo scopo è possibile ricorrere ad agenti iperosmotici (mannitolo, glicerina per os). Si deve prendere in considerazione anche l’impiego degli inibitori dell’anidrasi carbonica a livello sistemico. Se la causa dell’essudato è infiammatoria, si devono somministrare steroidi per via sistemica. ➟ I centri di riferimento specialistici possono eseguire il riattacco chirurgico della retina. ➟ Se il distacco è parziale, è possibile prevenirne la progressione mediante fotocoagulazione laser, che “salda” la retina in sede e sigilla i fori adiacenti.

3. Improvvisa degenerazione retinica acquisita (SARD) A. Patogenesi ➟ Si tratta di una malattia acquisita dall’eziologia sconosciuta, che si manifesta tipicamente nei cani (femmine) di media età ➟ L’anamnesi evidenzia una cecità ad insorgenza improvvisa ➟ Il paziente tipico è “cushingoide” o In molti cani, i proprietari riferiscono un’anamnesi di letargia, aumento di peso e/o PU/PD durante gli ultimi mesi. o Anche gli esami ematochimici sono indicativi di morbo di Cushing. B. Diagnosi ➟ Occhio cieco con pupilla fissa e dilatata ➟ Il fondo si presenta normale durante i primissimi mesi. In uno stadio più avanzato (pochi mesi) possono comparire alterazioni degenerative. ➟ L’ERG è piatto, indicando la mancanza di attività retinica. Attualmente, non esiste alcun trattamento per la SARD. Ci si augura che una volta identificata la causa, sia possibile offrire una terapia.

4. Glaucoma Si tratta di un’altra importante diagnosi differenziale nei casi di perdita della visione, solitamente caratterizzata da presentazione acuta e pupille fisse e dilatate. La discussione del glaucoma esula dagli scopi di questa relazione.

II. CECITÀ POST-RETINICA La cecità post-retinica può essere causata da un processo patologico in un punto qualsiasi della via visiva. Come già ricordato, i risultati della valutazione del riflesso pupillare sono molto utili per la localizzazione preliminare della lesione. L’assenza del riflesso implica che il danno si trova


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nel nervo ottico, nel chiasma o nel tratto. Il riflesso pupillare è presente nelle lesioni più distali, comprese quelle del nucleo genicolato laterale, della radiazione ottica e della corteccia visiva. Ognuna di queste sedi può essere colpita da differenti segni patologici e deve essere trattata di conseguenza.

1. Malattie del nervo ottico che causano cecità La neuropatia ottica comprende condizioni a carattere degenerativo, ischemico, infiammatorio o compressivo. L’esame oftalmico del fondo dell’occhio o del disco ottico colpito da ERG può contribuire a differenziare le affezioni retiniche primarie da quelle del nervo ottico, dal momento che il segnale è, rispettivamente, estinto o normale.

Neurite ottica Si tratta probabilmente della più comune malattia del nervo ottico capace di causare cecità A. Causa

D. Prognosi Molte delle cause sistemiche (ad es., cimurro) comportano una prognosi grave e possono essere letali. Anche la neurite ottica idiopatica spesso porta ad una cecità irreversibile. In uno studio condotto su 12 cani con neurite ottica, solo 7 sono sopravvissuti e 5 di essi rimasero ciechi. Ulteriori malattie del nervo ottico che causano cecità • Il tumore, come il linfosarcoma, può infiltrare qualsiasi parte della via della visione e si può presentare come un deficit visivo mono- o bilaterale (a seconda della sede esatta dell’infiltrazione). La compressione del nervo ottico da parte di un tumore è causa di edema della papilla, seguito da atrofia del disco ottico. • La meningoencefalite granulomatosa (GME), un sospetto processo infiammatorio immunomediato, si può presentare con segni clinici simili a quelli della malattia neoplastica. Le lesioni granulomatose possono infiltrare o comprimere il nervo ottico ed anche essere causa di atrofia o rigonfiamento del disco ottico. • L’ipovitaminosi A causa un’abnorme crescita ossea ed un restringimento del forame ottico, con conseguente compressione secondaria del nervo ottico. Ciò determina un iniziale edema della papilla, con successiva degenerazione retinica. La malattia è più comune nel bovino che in altre specie animali.

Un’infiammazione del nervo ottico che può essere dovuta a: ➟ Qualsiasi causa di meningite ➟ Eziologie infettive: cimurro, micosi (ad es. Criptococcus, Toxoplasma, batteriemie… In molte malattie sistemiche, il motivo della visita può essere rappresentato dalle manifestazioni oculari. ➟ Neoplasia, trauma o ascesso nelle regioni del SNC dove decorre il nervo ottico (in particolare a livello del chiasma ottico!) ➟ Malattie del SNC: GME, reticolosi… ➟ Forme idiopatiche: probabilmente la causa più comune

2. Malattie del chiasma ottico che causano cecità I tumori dell’ipofisi possono comprimere il chiasma ottico e causare deficit del campo visivo. La compromissione della visione di solito viene notata solo molto tardi nello sviluppo della massa. Tuttavia, la maggior parte dei tumori ipofisari si accresce dorsalmente nell’ipotalamo piuttosto che diffondersi rostralmente o caudalmente. L’encefalopatia ischemica felina è un’altra malattia che si può riscontrare a livello del chiasma ottico e causa una cecità bilaterale con pupille dilatate e non reattive.

B. Diagnosi ➟ Occhio cieco con pupilla fissa e dilatata. ➟ L’ERG è normale, perché la retina non è colpita (differenziando così la neurite ottica dalla SARD). ➟ Il disco ottico può apparire normale o infiammato (edematoso, emorragico) a seconda della parte di nervo coinvolta. Se è interessata quella prossimale, all’esame del fondo dell’occhio si osservano edema della papilla e congestione vascolare del disco ottico. Man mano che la malattia si risolve si rileva un’atrofia del disco ottico. L’infiammazione delle parti più distali del nervo si può presentare con un disco di aspetto normale. C. Trattamento Il trattamento si basa sull’identificazione ed il trattamento della causa primaria. Se non si riscontra alcuna eziologia sistemica, bisogna somministrare steroidi per via generale.

3. Malattie dei tratti ottici che causano cecità La più comune malattia bilaterale dei tratti ottici è la demielinizzazione, che esita nella perdita della trasmissione neuronale. La demielinizzazione può essere completa o incompleta, benché quest’ultima non causi cecità e quindi venga diagnosticata raramente (a meno che non sia accompagnata da altri segni clinici). La demielinizzazione del tratto ottico di solito è causata da malattie degenerative o infiammatorie (infettive). Una causa comune è il virus del cimurro del cane, per il quale è stata riscontrata una predilezione per indurre malattie in entrambi i tratti ottici simultaneamente. La malattia non è caratterizzata da ulteriori lesioni localizzanti: le pupille possono presentare una dilatazione più ampia ed una risposta lenta ed incompleta alla stimolazione luminosa e si può rilevare o meno la perdita della visione.


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La demielinizzazione si può osservare anche nella leucodistrofia a cellule globoidi che (analogamente alle malattie da accumulo neuronali) è causata da un’anomalia enzimatica. Le lesioni si trovano principalmente nel cervelletto e nel midollo spinale, ma sono state anche descritte la demielinizzazione delle differenti parti della via della visione, come il nervo ottico, il tratto ottico e la radiazione ottica. La demielinizzazione colpisce la trasmissione neuronale attraverso il tratto ottico e può esitare in cecità completa. La neoplasia monolaterale dell’ipotalamo o del talamo causa una emianopia omonima controlaterale. Il riflesso pupillare diretto sarà lento o assente. Le lesioni in questa sede influiscono anche sulla capsula interna e sulla parte rostrale del peduncolo cerebrale, causando alcuni deficit di reazione posturale. Manifestazioni analoghe si osservano anche con qualsiasi evento vascolare, traumatico o ischemico monolaterale, benché la presentazione di solito sia acuta.

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4. Deficit visivi con riflesso pupillare Le lesioni o le malattie situate oltre il tratto ottico (cioè nel nucleo genicolato laterale, nella radiazione ottica o nella corteccia visiva) si presentano con cecità (nelle forme bilaterali) o emianopia omonima controlaterale (nei casi monolaterali) con riflesso pupillare normale. Le cause possibili sono rappresentate da neoplasia, GME, malattia da accumulo, malattie metaboliche (ipoglicemia, encefalopatia epatica o uremica), encefalite (ad es., encefalite necrotizzante nel cane di razze toy), cimurro, idrocefalo, malattie demielinizzanti, eventi vascolari (traumi, emorragie o infarti), encefalite equina. Questi casi devono essere esaminati insieme ad un neurologo.

Indirizzo per la corrispondenza: Ron Ofri Koret School of Veterinary Medicine, Hebrew University of Jerusalem PO Box 12, Rehovot 76100, (ofri@agri.huji.ac.il)


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Progressi nel trattamento di particolari malattie in oftalmologia veterinaria: il presente ed il futuro Ron Ofri Med Vet, PhD, Dipl ECVO, Rehovot, Israel

IL TRATTAMENTO DELLA CHERATOCONGIUNTIVITE SECCA NEL CANE La cheratocongiuntivite secca (KCS) è un’infiammazione progressiva della cornea e della congiuntiva causata da una carenza della componente acquosa del film lacrimale. Storicamente, il trattamento di questa malattia si è basato sull’impiego di lacrime artificiali, agenti mucolitici, antibiotici (nei casi di infezione/ulcerazione) e pilocarpina, un farmaco parasimpatico mimetico che stimolerebbe l’innervazione colinergica della ghiandola lacrimale. Nel 1989, il trattamento della KCS nel cane è stato rivoluzionato quando Kaswan et al. riferirono che l’applicazione topica di ciclosporina (CsA) rappresentava un metodo efficace per la terapia della malattia. La maggior parte dei casi di KCS nel cane è probabilmente causata da un’infiammazione autoimmune della ghiandola lacrimale e si ritiene che la CsA eserciti un effetto terapeutico inibendo la proliferazione dei linfociti T-helper e l’infiltrazione degli acini della ghiandola lacrimale, consentendo la rigenerazione della ghiandola stessa e il ritorno della funzione secernente. Anche se è diventata il trattamento d’elezione della KCS nel cane, la CsA non è efficace al 100%. È stato riferito che il farmaco, somministrato topicamente sotto forma di pomata allo 0,2% e come soluzione a base oleosa all’1% o 2% migliora la produzione di lacrime nel 71-86% dei cani con KCS. Di conseguenza, c’è bisogno di trovare nuovi farmaci, che possono essere utilizzati per il trattamento dei cani che non rispondono alla CsA o che sono colpiti da effetti collaterali indesiderati (irritazione topica, ecc…). Due farmaci fra loro correlati che possono rappresentare delle promettenti alternative alla CsA sono il pimecrolimus ed il tacrolimus. A differenza della CsA, che è un farmaco immunosoppressore, questi vengono considerati immunomodulatori. Si tratta di macrolidi derivati dalla ascomicina che si legano specificamente al recettore del citosol, l’immunofilina, macrofilina-12. Il complesso farmaco-recettore che ne deriva inibisce la defosforilazione/attivazione calcineurina-dipendente degli specifici fattori nucleari delle cellule T attivate, impedendo così la trascrizione delle citochine pro-infiammatorie. Ciò determina una mancata attivazione delle cellule T-helper di tipo 1 e 2. Viene anche inibita la proliferazione delle cellule T e l’attivazione delle mast cell. Si ipotizza quindi che questi farmaci possano ridurre l’infiammazione cellulo-mediata della ghiandola lacrimale. Verranno presentati due studi. Il primo dimostra che il

pimecrolimus è efficace quanto la ciclosporina per migliorare la produzione di lacrime e più efficace per ridurre i segni clinici della KCS. Il secondo studio dimostra che il tacrolimus migliora la produzione di lacrime nei cani resistenti alla terapia con ciclosporina. Di conseguenza, questi farmaci rappresentano delle promettenti alternative alla CsA topica per il trattamento della KCS e possono essere utili nei pazienti in cui questa terapia risulta inferiore a quella ottimale.

TRATTAMENTO DELLE ULCERE CORNEALI DA FUSIONE: INIBIZIONE DELLE METALLOPROTEINASI DELLA MATRICE Le abrasioni corneali non complicate (danno superficiale dell’epitelio) o le ulcere (danno più profondo, che coinvolge lo stroma corneale) guariscono senza complicazioni, anche se di solito si effettua un trattamento antibiotico topico per evitare l’infezione. Tuttavia, a causa dell’infezione microbica o dell’esteso coinvolgimento dello stroma, alcune ulcere corneali vanno incontro a “fusione”. Questo processo, anche noto come cheratomalacia, è caratterizzato dalla rapida e progressiva degenerazione dello stroma corneale, che può esitare nella perforazione della cornea stessa entro 24 ore. Questa rapida degradazione dello stroma corneale è la conseguenza dell’attività proteinasica. Questi enzimi, anche noti come metalloproteinasi della matrice (MMP) vengono secreti da microrganismi infettivi (ad es., Pseudomonas), ma si trovano anche nel film lacrimale, nei leucociti e nelle cellule corneali. Le MMP dell’organismo svolgono un ruolo importante nei normali processi di riparazione della cornea, ma un aumento dei loro livelli e della loro attività determina la degradazione del collagene corneale, dell’elastina ecc… Recentemente, è stato dimostrato che parecchi farmaci e sostanze esercitano un effetto inibitorio sull’attività delle MMP. L’effetto di solito è mediato da cofattori chelanti, come lo zinco o il calcio, necessari per l’attività della MMP. La percentuale di inibizione dell’attività delle MMP che ne deriva è di solito > 90%. Quindi, questi farmaci potrebbero diventare importanti agenti terapeutici per il trattamento della cheratite ulcerativa e della cheratomalacia. I farmaci comprendono: 1. N - acetilcisteina – applicata come soluzione topica al 1020% ogni 1-4 ore 2. Tetraciclina – può venire somministrata per via topica (0,025-0,1%) o sistemica. All’effetto antimicrobico di questo farmaco si aggiunge l’attività anti-MMP.


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3. EDTA – terapia topica con soluzione allo 0,05-0,2% 4. Siero autogeno – il 10% circa delle proteine del siero è rappresentato da alfa-2 macroglobuline, che sono potenti inibitori delle MMP. Il siero si ottiene dal sangue, dopo coagulazione e centrifugazione, e può venire applicato ogni 1-2 ore. Va rinnovato ogni 8 giorni (per evitare la contaminazione). Inoltre, i fattori di crescita del siero possono promuovere la guarigione della cornea.

TRATTAMENTO DELLA CHERATOCONGIUNTIVITE ERPETICA DEL GATTO Il trattamento dell’infezione da herpesvirus nei felini è molto frustrante, data la limitata disponibilità di farmaci efficaci. Una delle principali ragioni di ciò è il fatto che molti dei farmaci efficaci nei confronti degli herpesvirus umani non lo sono verso quelli felini. Il costo dei farmaci e la necessità di frequenti somministrazioni sono ulteriori fattori che impediscono ai proprietari di sottoporre i loro gatti ad un trattamento ottimale.

Farmaci clinicamente dimostrati 1. Trifluridina – Molto efficace nei confronti dell’herpesvirus felino e disponibile in commercio in molti Paesi. Tuttavia, determina un’irritazione topica e il dosaggio raccomandato prevede una somministrazione ogni due ore, il che rende molto difficile ottenere la collaborazione del proprietario. 2. Idossiuridina – Leggermente meno efficace nei confronti dell’herpesvirus felino rispetto alla trifluridina. Inoltre, non è disponibile in commercio e deve essere preparato da farmacie specifiche. Tuttavia, è meno irritante e richiede “solo” quattro somministrazioni/giorno. 3. Vidarabina – meno efficace dell’idossiuridina ed anche più difficile da ottenere (può essere preparata sotto forma di pomata al 3%), ma ben tollerata nel gatto.

Farmaci inefficaci o controindicati 1. L’aciclovir è un farmaco comunemente utilizzato per il trattamento delle infezioni erpetiche dell’uomo. Tuttavia, la dose efficace nei confronti dell’herpesvirus felino è 80 volte quella impiegata nell’uomo, il che rende questo farmaco inefficace nel gatto. 2. Bromovinildeossiuridina – non efficace nei confronti dell’herpesvirus felino. 3. Valaciclovir – controindicato nei gatti a causa di soppressione midollare, nonché tossicità epatica e renale. 4. Gli steroidi non vanno utilizzati nel trattamento della congiuntivite da herpesvirus felino perché possono aumentare l’attività dei virus latenti ed esacerbare l’infezione.

E il futuro? 1. Numerosi farmaci si sono dimostrati efficaci nei confronti dell’herpesvirus felino in vitro, ma non sono ancora sta-

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ti testati in vivo, né mediante prove cliniche. Rientrano fra questi agenti: • Ganciclovir • Cidofovir • Pencicolvir 2. L-lisina. Studi preliminari dimostrano che la L-lisina somministrata per os (500 mg, due volte al giorno) può essere efficace per il trattamento dell’herpesvirus felino. Il farmaco inibisce la replicazione virale mediane la competizione con l’arginina. 3. Interferon - esistono segnalazioni secondo le quali il farmaco (somministrato per via orale o topica) può costituire un trattamento efficace.

IL TRATTAMENTO NEUROPROTETTIVO NEL GLAUCOMA Oggi si riconosce sempre più che nella perdita progressiva della visione che caratterizza il glaucoma intervengono anche dei fattori aggiuntivi, oltre all’aumento della IOP. Tali fattori possono essere la ragione per cui in molti pazienti normotesi si sviluppa una neuropatia glaucomatosa e possono spiegare perché in altri pazienti la perdita della visione progredisca anche dopo che la IOP è stata abbassata con successo. In molti disordini neurologici come l’ictus, l’ipoglicemia, il trauma e l’epilessia è stata osservata una patogenesi simile del danno assonale, che progredisce anche dopo che l’insulto è stato alleviato. Si vanno raccogliendo sempre più prove del fatto che in queste ed altre malattie il danno assonale progressivo sia la conseguenza di una degenerazione secondaria. È stato ipotizzato che gli assoni danneggiati dall’insulto iniziale rilascino varie sostanze nelle loro immediate circostanze. La presenza localizzata di elevate concentrazioni di queste sostanze determina un microambiente ostile. Gli assoni adiacenti, che non erano stati danneggiati dall’evento patologico iniziale, vanno incontro ad una degenerazione secondaria conseguente al fatto di essere immersi in questo ambiente tossico. Ciò determina un “effetto domino” per cui, nel caso del glaucoma, gli assoni del nervo ottico continuano a degenerare anche dopo la IOP è stata abbassata con successo, determinando un’ulteriore perdita della visione. Nella ricerca dei mediatori della degenerazione secondaria, gran parte dell’attenzione è stata focalizzata sul ruolo del glutammato, un aminoacido che normalmente funziona da neurotrasmettitore eccitatorio nel sistema nervoso centrale. Tuttavia, in seguito ad un danno neuronale, si ha un rilascio di glutammato intracellulare da parte degli assoni danneggiati nelle zone immediatamente circostanti. L’aumento locale della concentrazione di glutammato che ne deriva provoca un’iperstimolazione dei recettori NMDA-glutammato nei neuroni vicini (non danneggiati). Questa stimolazione (excitotossicità) a sua volta porta ad un aumento dell’afflusso di calcio, dando così il via ad una cascata enzimatica intracellulare che progredisce verso l’apoptosi e la morte della cellula stessa. Pertanto, ne deriva che i composti che inibiscono il glutammato possono rallentare o arrestare la cascata della degenerazione secondaria e proteggere gli assoni vicini, non danneggiati. Questo approccio terapeutico, noto come neuroprotezione, viene attualmente studiato


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in numerosi disordini neurologici acuti e cronici. Alcuni composti neuroprotettori si trovano in stadi avanzati di valutazione nell’uomo. Vi sono sempre più prove che indicano che il glutammato svolge anche un ruolo importante nella progressione della neuropatia ottica e nella perdita della visione nei pazienti glaucomatosi e che questo danno può venire attenuato dagli antagonisti dei recettori del glutammato. Livelli elevati di quest’ultimo sono stati dimostrati nei ratti con lesione parziale del nervo ottico. L’inibizione dei recettori NMDA-glutammato, mediante memantina, è esitata nella diminuzione della degenerazione secondaria e nella protezione del nervo ottico. Un’ulteriore prova del ruolo tossico del glutammato nella neuropatia ottica è stata data dall’iniezione intravitreale di glutammato in topi e ratti. Queste iniezioni hanno determinato un danno similglaucomatoso a carico della retina e del nervo ottico, che anche in questo caso era possibile prevenire mediante memantina. Il ruolo del glutammato nella neuropatia ottica non è limitato al danno nervoso indotto. Elevati livelli di glutammato sono stati dimostrati nel corpo vitreo di conigli, cani e pazienti umani con glaucoma. Quindi, è necessario sottoporre a verifica l’impiego dei farmaci neuroprotettori nei pazienti glaucomatosi. Ovviamente, non ci si deve aspettare che questi agenti siano in grado di ripristinare la visione che era andata perduta prima dell’inizio del trattamento. Tuttavia, ci si augura che la terapia con neuroprotettori impedisca (o diminuisca) il danno a carico di ulteriori fibre del nervo ottico e quindi arresti (o rallenti) la progressiva perdita della visione che costituisce il vero flagello del glaucoma.

FANTASCIENZA? RESTITUIRE LA VISTA AL PAZIENTE CIECO Sono in via di sviluppo parecchi approcci per restituire la visione ai pazienti ciechi. Tali approcci hanno portato a risultati promettenti nei soggetti colpiti da malattie (eredita-

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rie) della retina esterna. Di conseguenza, potrebbero potenzialmente venire utilizzati per restituire la vista ai soggetti colpiti da PRA (PRCD), cecità notturna stazionaria congenita, ecc… Sono in corso di valutazione due approcci terapeutici. Il primo è basato sul ripristino della funzione dei fotorecettori rimpiazzando il gene difettivo. Ciò si può effettuare mediante metodi di ingegneria genetica che coinvolgono l’inserzione del gene perduto in un virus modificato e la sua inoculazione a livello sottoretinico. Questi studi sono stati condotti in cani con varie forme di malattie ereditarie dei fotorecettori da parte del Dr. G. Aguirre (Cornell/Pennsylvania) e del Dr. K. Narstrom (Missouri). Gli interventi hanno restituito la vista (dimostrata sia a livello comportamentale che mediante ERG) in un gran numero di cani, con alcuni pazienti già monitorati dopo 3-4 anni dopo l’intervento. La funzione dei fotorecettori può anche venire ripristinata in seguito a iniezioni sottoretiniche di cellule staminali o membrana basale RPE. Un secondo approccio terapeutico prevede l’impiego di impianti retinici. Si tratta di elettrodi miniaturizzati che vengono impiantati sulla superficie della retina. L’elettrodo riceve gli impulsi visivi sia dai diodi sensibili alla luce che da una videocamera miniaturizzata (montata su occhiali). L’impulso visivo viene trasformato in correnti elettriche che stimolano le cellule gangliari e generano un segnale neuronale. La tecnologia si trova nei suoi stadi preliminari ed è gravemente limitata dal numero di elettrodi che è possibile impiantare (influendo così sulla risoluzione della visione), ma è già stata utilizzata nell’uomo (e nel cane!). Per maggiori dettagli si veda www.2.sight.com.

Indirizzo per la corrispondenza: Ron Ofri Koret School of Veterinary Medicine, Hebrew University of Jerusalem PO Box 12, Rehovot 76100, (ofri@agri.huji.ac.il)


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Un nuovo strumento terapeutico per le principali malattie da ectoparassiti nel cane e nel gatto Joy D. Olsen Med Vet, Leverkusen, Germania

È stata sviluppata una nuova formulazione endectocida topica, contenente il 10% di imidacloprid e il 2,5% di moxidectina per i cani o l’1% di moxidectina per i gatti, che è stata approvata per l’impiego in molti paesi europei. La combinazione di questi principi attivi fornisce non solo la prevenzione della dirofilariosi cardiopolmonare ed il trattamento dei comuni vermi intestinali, ma anche il trattamento di malattie ectoparassitarie quali l’infestazione da pulci, l’acariasi dell’orecchio, la rogna sarcoptica e la demodicosi. L’imidacloprid appartiene ad una delle recenti classi di insetticidi, le cosiddette cloronicotinilnitroguanidine o neonicotinoidi, ed è stato il primo di questa classe ad essere stato sviluppato per l’impiego nella sanità animale. L’attività dell’imidacloprid nei confronti delle pulci è estremamente rapida e potente e gli effetti letali sono mediati dal contatto e dalla penetrazione del composto attraverso le membrane intersegmentali delle pulci. La rapida eliminazione delle pulci mediante contatto è di particolare beneficio negli animali da compagnia che soffrono di dermatite allergica da pulci (DAP) e l’imidacloprid è stato registrato come parte della strategia di trattamento della DAP. Oltre alla rapida e potente attività adulticida nei confronti delle pulci presenti su cani e gatti, l’imidacloprid ha dimostrato di possedere anche una significativa attività larvicida, sia in studi in laboratorio che in studi in ambienti domestici simulati. Le larve di pulce nell’ambiente circostante gli animali vengono uccise dopo il contatto con un animale trattato con imidacloprid; ciò è importante, poiché gli stadi immaturi presenti nell’ambiente costituiscono un serbatoio per la reinfestazione. L’esposizione delle larve a minime quantità di imidacloprid si traduce in una marcata riduzione delle popolazioni di pulci in via di sviluppo, rispetto ad ambienti in cui vivono animali non trattati, coadiuvando pertanto l’ulteriore interruzione del ciclo di vita delle pulci e riducendo rapidamente il livello d’infestazione delle pulci. È inoltre stato dimostrato che l’imidacloprid possiede un’attività nei confronti dei pidocchi pungitori (Trichodectes canis) e dei pidocchi succhiatori (Linognathus setosus) sui cani. Dopo applicazione cutanea della formulazione spot-on imidacloprid/moxidectina, il principio attivo imidacloprid si distribuisce sulla superficie corporea e su tutto il mantello di cani e gatti. La posologia e la concentrazione di imidacloprid sono state adottate in funzione delle formulazioni topiche di imidacloprid precedentemente registrate. Per dimostrare che l’associazione dei due principi attivi non producesse alcuna interazione e che, al contrario, ciascun componente agisse come se fosse solo, sono state condotte valutazioni controllate di laboratorio e sul campo. Gli studi, che hanno utiliz-

zato infestazioni settimanali da pulci in cani e gatti in confronto ad una soluzione topica contenente solo imidacloprid, hanno dimostrato livelli molto elevati di controllo delle pulci e che la presenza della moxidectina non interferisce con l’efficacia dell’imidacloprid. La soluzione imidacloprid/moxidectina è il primo prodotto per cani e gatti che contenga moxidectina in una formulazione topica. La moxidectina è un potente endectocida ad ampio spettro della classe dei lattoni macrociclici. I lattoni macrociclici sono costituiti da due gruppi strettamente imparentati: le avermectine e le milbemicine. La moxidectina è un lattone pentaciclico a 16 atomi della classe delle milbemicine ed un derivato semisintetico della nemadectina, un prodotto di fermentazione del microrganismo Streptomyces cyanogriseus noncyanogenus. Finora la moxidectina era disponibile in tutto il mondo in differenti formulazioni: orale, iniettabile e topica, per l’impiego in cani, cavalli e bestiame. Come gli altri lattoni macrociclici, la moxidectina possiede un’elevata affinità e si lega ai canali ionici glutamato-dipendenti specifici dei parassiti. Il legame con i recettori presenti sulle membrane neuronali dei nematodi e sulle membrane muscolari degli artropodi causa l’ingresso di ioni cloro nella cellula, seguito da iperpolarizzazione, paralisi e morte del parassita. Si ritiene inoltre che le milbemicine e le avermectine abbiano un’attività agonista sui complessi recettoriali dell’acido γ-aminobutirrico (GABA) del sistema nervoso periferico degli invertebrati. Poiché nei mammiferi i recettori del GABA sono limitati a sedi all’interno del sistema nervoso centrale e la barriera ematoencefalica impedisce l’ingresso di questi farmaci, i mammiferi sono solitamente protetti da qualsiasi effetto neurologico. L’ampio spettro d’attività della moxidectina include una gamma biologicamente eterogenea di parassiti di gatti e cani, compresi nematodi del tratto gastrointestinale, stadi di sviluppo di nematodi filaridi (ad es. Dirofilaria immitis) ed anche, di particolare interesse, aracnidi come gli acari. Dopo l’applicazione topica della soluzione precostituita imidacloprid/moxidectina, quest’ultima viene ampiamente assorbita attraverso il derma. La moxidectina è un composto altamente lipofilo, con un ampio volume di distribuzione e un’emivita di eliminazione più prolungata rispetto a molti altri lattoni macrociclici. Gli studi di farmacocinetica indicano che dopo applicazione topica, le concentrazioni seriche di picco della moxidectina vengono raggiunte entro 1 giorno nei gatti ed entro 4-9 giorni nei cani, con emivite rispettivamente di 15 e 35 giorni circa. Questi studi hanno inoltre confermato un volume di distribuzione molto ampio, pari a 80 l/kg nei gatti e a 70 l/kg nei cani, sugge-


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rendo un’ampia distribuzione della moxidectina nei tessuti. L’estesa distribuzione tissutale e la prolungata emivita di eliminazione, osservate con l’applicazione della formulazione topica, forniscono una prolungata attività nei confronti dei parassiti bersaglio. Le dosi di moxidectina, nelle formulazioni per cani (2,5%) e per gatti (1%), sono state determinate mediante numerosi studi di dose-risposta condotti con differenti concentrazioni di moxidectina aggiunte alla formulazione al 10% di imidacloprid e in funzione delle differenti caratteristiche delle specie. Oltre al trattamento ed alla prevenzione delle infestazioni da pulci, la soluzione spot-on imidacloprid/moxidectina è registrata per il trattamento di varie infestazioni da acari, comprese le acariasi dell’orecchio (Otodectes cynotis) in cani e gatti, nonché la rogna sarcoptica (Sarcoptes scabiei var. canis) e la demodicosi (Demodex canis) nei cani. Per valutare l’efficacia nelle infestazioni da acari dell’orecchio nei gatti, sono stati condotti tre studi indipendenti di laboratorio ed uno sul campo, in 30 ambulatori tra Francia e Germania secondo le linee guida VICH. In tutti gli studi, due trattamenti mensili consecutivi sono risultati efficaci nel guarire tutti i gatti colpiti da infestazioni da Otodectes cynotis, come valutato 22 giorni dopo il secondo trattamento (Giorno di studio +50). Mentre per un’elevata percentuale di gatti (≥ 80%) è stata osservata una risoluzione delle infestazioni da acari dell’orecchio dopo un trattamento mensile, alcuni gatti possono richiedere un’ulteriore applicazione. In uno studio di laboratorio simile, condotto nei cani, l’efficacia dopo un unico trattamento è risultata pari al 98,3%, mentre dopo due trattamenti a distanza di quattro settimane è risultata del 98%. In uno studio multicentrico sul campo condotto in Europa, un solo trattamento o due trattamenti mensili hanno prodotto nei cani trattati una percentuale di guarigione parassitologica pari all’86,7%. Uno studio di laboratorio controllato, effettuato per valutare l’efficacia della soluzione topica imidacloprid/moxidectina nel trattamento della rogna sarcoptica in cani infestati naturalmente, ha dimostrato una percentuale di guarigione parassitologica del 100% nei cani trattati con due trattamenti a distanza di 28 giorni, con una tendenza verso una più rapida e migliorata risposta nella risoluzione dei segni clinici, rispetto al gruppo di controllo trattato con selamectina. I risultati dello studio di laboratorio sono stati confermati da una sperimentazione multicentrica randomizzata controllata, condotta in Francia, Germania, Gran Bretagna e Albania, in cui la soluzione imidacloprid/moxidectina, applicata due volte (a distanza di quattro settimane), è risultata altamente efficace nella risoluzione delle infestazioni da Sarcoptes scabiei var. canis nei cani trattati ed ha prodotto una risoluzione pressoché completa dei sintomi clinici entro 50-64 giorni dopo l’inizio del trattamento. Il 100% dei cani non ha presentato alcuna evidenza di acari Sarcoptes il Giorno 56 (±2 giorni) dopo l’inizio del trattamento.

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Il trattamento della demodicosi canina è stato valutato per la prima volta in uno studio di laboratorio condotto in sud Africa in cani affetti da grave demodicosi generalizzata. In seguito ai risultati incoraggianti della riduzione del numero di acari grazie all’impiego di un numero di applicazioni mensili fino a quattro, è stato condotto uno studio multicentrico randomizzato in cieco, in condizioni di campo europee. I cani arruolati nello studio erano affetti da demodicosi generalizzata e sono stati trattati con la soluzione topica imidacloprid/ moxidectina o con la milbemicina ossima orale, alla posologia di 0,5–2,0 mg/kg di peso corporeo al giorno. Sono stati monitorati la presenza di acari nei raschiati cutanei ed i miglioramenti clinici ad intervalli di 4 settimane, fino a sei volte. Nel gruppo trattato con moxidectina topica, ciascun cane ha ricevuto da due a quattro trattamenti mensili, mentre nel gruppo di controllo, i cani hanno ricevuto da due a quattro periodi di 28 giorni di trattamenti giornalieri con milbemicina. Il trattamento è stato interrotto in tutti i cani dopo il conseguimento di due raschiati cutanei negativi consecutivi oppure dopo il Giorno 84. Al termine dello studio, non è stato possibile rilevare alcun acaro in 26 su 30 cani trattati con imidacloprid/moxidectina spot-on e in 29 su 33 cani trattati con milbemicina ossima orale. Globalmente, il trattamento con la formulazione imidacloprid/moxidectina è risultato altamente comodo ed efficace in termini di costo per la demodicosi generalizzata, rispetto alla terapia orale.

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La valutazione della funzione cardiaca attraverso i test neurormonali: uso corrente e future applicazioni Mark A. Oyama DVM, Dipl ACVIM-Cardiology, Philadelphia, USA

La valutazione della funzione cardiaca nel cane si effettua tipicamente mediante elettrocardiografia, radiografia ed ecocardiografia. Questi test sono relativamente costosi, richiedono tempo e, nel caso dell’ecocardiografia, necessitano di apparecchiature ed esperienza che spesso non sono facilmente disponibili. Per gli organi di altri apparati, come il fegato o i reni, si utilizzano dei marcatori biochimici che contribuiscono a determinarne la funzionalità (ad es., ALT ed azotemia) e forniscono un mezzo rapido, relativamente non invasivo ed economico, per diagnosticare e monitorare le malattie nel cane e nel gatto. Sino a non molto tempo fa, per il cuore mancavano analoghi test ematochimici. Nell’uomo, per contribuire alla diagnosi dell’infarto miocardico acuto sono stati impiegati parecchi enzimi cardiaci, ed in particolare la creatina chinasi, la mioglobina e la latticodeidrogenasi. Sfortunatamente, queste sostanze sono prive di sensibilità e specificità sufficienti a consentirne con successo l’applicazione clinica nel cane. Nell’ultimo decennio, è stata sviluppata una nuova generazione di marcatori cardiaci e neurormonali. Tali marcatori hanno trovato impiego in medicina umana, non solo per l’infarto miocardico, ma anche nell’ambito dell’insufficienza cardiaca cronica. I dati emergenti indicano che è possibile utilizzare per la valutazione clinica dei cani con cardiopatia fino a tre differenti marcatori cardiaci biochimici. Tali marcatori, il peptide natriuretico atriale (ANP), il peptide natriuretico di tipo B (BNP) e la troponina-I (TnI) possono offrire ai clinici utili informazioni circa la probabilità dell’insufficienza cardiaca congestizia, l’identificazione di malattie asintomatiche (occulte) e la gravità del danno sottostante subito dal tessuto miocardico. L’autore ed altri cardiologi sono ottimisti nel ritenere che questi test finiranno per diventare disponibili su vasta scala, essere utilizzati di routine e risultare dei mezzi clinicamente utili per la valutazione della cardiopatia nel cane.

Peptide natriuretico atriale L’attività biologica dell’ANP serve a controbilanciare quella del sistema renina-angiotensina-aldosterone, nella misura in cui promuove la vasodilatazione e la natriuresi. L’ANP viene prodotto dalle cellule del miocardio atriale in risposta ad un aumento della pressione atriale e del conseguente stiramento, che si verificano frequentemente durante l’insufficienza cardiaca congestizia. Quindi, l’applicazione clinica dell’ANP fa riferimento soprattutto al suo ruolo come marcatore dell’insufficienza cardiaca congestizia provocato dagli innalzamenti della pressione atriale. In uno studio nel corso del quale sono stati presi in esame cani che era-

no stati portati alla visita presso l’ospedale perché presentavano delle difficoltà respiratorie, l’ANP ha mostrato una buona sensibilità e specificità per prevedere l’insufficienza cardiaca come causa primaria della dispnea (differenziandola da altre cause non cardiache come la polmonite, la neoplasia e la bronchite cronica).1 È stato sviluppato un kit ANP ELISA commerciale destinato specificamente all’impiego nel cane (VetsignTM, Guildhay Ltd, Surrey, UK). L’autore considera l’ANP un mezzo utile per contribuire a diagnosticare l’insufficienza cardiaca congestizia e, forse, monitorare l’efficacia del trattamento. Dal momento che non si ha un rilascio sostanziale di ANP fino ad una fase relativamente tardiva del decorso della malattia,2 l’ANP non sembra utile per rilevare la cardiopatia occulta nei pazienti asintomatici. Impieghi correnti della determinazione dell’ANP • Contribuire a diagnosticare l’insufficienza cardiaca congestizia nel cane Impieghi potenziali della determinazione dell’ANP • Contribuire a diagnosticare l’insufficienza cardiaca congestizia nel gatto • Monitorare la risposta al trattamento • Formulare la prognosi Circostanze in cui è improbabile che il test ANP risulti utile • Identificazione degli stadi iniziali della cardiopatia

Peptide natriuretico di tipo B Il BNP è simile al ANP, in quanto promuove la vasodilatazione e la natriuresi. Il BNP viene prodotto sia dal tessuto muscolare atriale che da quello ventricolare in risposta allo stiramento o all’aumento dello stress della parete. La sua misurazione (BNP test) è diventata un mezzo utile ed ampiamente utilizzato nei pazienti umani con cardiopatia. Due test di misurazione del BNP per uso umano sono approvati per l’identificazione dell’insufficienza cardiaca congestizia. Inoltre, questi test vengono utilizzati come strumento prognostico e come guida per ottimizzare la terapia nei singoli pazienti. L’autore ritiene che il BNP-test troverà un’applicazione analoga nei cani e nei gatti con cardiopatia. Gli studi condotti nel cane rivelano che il BNP è elevato in proporzione alla gravità della malattia e viene anche identificato in una fase relativamente precoce del suo decorso.3,4 L’autore ha portato a termine uno studio che ha indicato che in una popolazione di 118 cani il BNP-test è stato in grado di iden-


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tificare la malattia occulta con una sensibilità del 95% e una specificità del 62% e che, da questo punto di vista, il BNP era superiore sia all’ANP che al TnI.5 Questo riscontro suggerisce che il BNP possa essere utile come test di screening nei cani con malattia occulta. Inoltre, nell’uomo il BNP è un valido indicatore dell’esito clinico, dal momento che livelli più elevati consentono di prevedere una prognosi più sfavorevole, e gli autori stanno attualmente valutando il BNP come indicatore prognostico nei cani con stenosi subaortica o con miocardiopatia. I test immunometrici per la determinazione del BNP nell’uomo, disponibili in commercio, non danno origine a reazione crociata con il BNP del cane e il BNP-test in questa specie animale è stato tipicamente condotto utilizzando una procedura radioimmunometrica relativamente grezza e che richiede un notevole carico di lavoro. I nuovi BNP-test specifici per il cane e basati sul metodo ELISA potranno essere in grado di ridurre le difficoltà tecniche e migliorare la precisione e l’accuratezza del saggio. L’autore collabora allo sforzo per sviluppare dei BNP-test basati sul metodo ELISA e destinati all’impiego commerciale nel cane e nel gatto. Impieghi attuali del BNP-test • Uomo: diagnosi, prognosi, risposta al trattamento • Medicina veterinaria: non esistono test approvati Impieghi potenziali del BNP-test sulla base degli studi condotti in medicina veterinaria • Differenziazione della dispnea cardiaca da quella non cardiaca nel cane • Identificazione della miocardiopatia occulta nel cane

Troponina-I cardiaca La TnI cardiaca contribuisce a regolare le interazioni fra actina e miosina insieme alla troponina C ed alla troponinaT. La TnI inibisce l’interazione fra i filamenti fino a che il complesso troponinico è legato agli ioni calcio, al che ha inizio la contrazione. Il danneggiamento della cellula miocardica provoca la distruzione dell’unità funzionale actina-miosina-troponina e la TnI viene rilasciata nel citoplasma e passa nella circolazione generale attraverso il sarcolemma danneggiato delle cellule. La maggior parte della TnI che viene rilasciata nei pazienti umani è complessata con la troponina C o la troponina C e T. Nell’uomo, la TnI è un indicatore altamente sensibile e specifico del danno subito dal muscolo cardiaco e costituisce attualmente lo standard aureo fra i test di laboratorio per l’infarto miocardico. Un danno miocardico di basso livello dovuto ad altre cause, come un’affezione miocardica o valvolare, provoca il rilascio di TnI rilevabile quando si utilizzano TnI-test altamente sensibili. Fortunatamente, esiste una sufficiente omologia fra la TnI dell’uomo e quella del cane, per cui i saggi automatizzati per uso umano funzionano bene anche con il plasma canino.6 L’autore e altri hanno descritto l’incremento delle concentrazioni di TnI nei cani colpiti da una varietà di malattie quali miocardiopatia dilatativa (DCM), rigurgito della valvola mitrale, trauma, torsione/dilatazione dello stomaco, miocardite e stenosi subaortica.7,8 La TnI non è uniformemente elevata nei cani con cardiopatia, il che ne impedisce l’uso come test di screening nei soggetti asintomatici o come metodo

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diagnostico per l’insufficienza cardiaca congestizia. Come marcatore del danno e della necrosi del miocardio, la TnI può essere più adatta come indicatore prognostico nei cani che hanno subito un grave danno o come guida per la terapia ottimale. Nei cani con DCM clinicamente evidente, la concentrazione di TnI è correlata alla sopravvivenza. Rispetto a quelli con concentrazioni più basse, i soggetti con TnI elevata avevano una probabilità tre volte superiore di essere soppressi eutanasicamente o di venire a morte.7 Impieghi attuali del TnI-test • Uomo: diagnosi dell’infarto miocardico acuto • Medicina veterinaria: nessun impiego approvato Impieghi potenziali del TnI-test sulla base degli studi condotti in medicina veterinaria • Valutazione della gravità della malattia nei cani con stenosi subaortica, miocardiopatia e valvulopatia mitralica • Valutazione della gravità della malattia nei gatti con miocardiopatia • Indicatore prognostico nei cani con miocardiopatia • Monitoraggio della risposta al trattamento • Valutazione del danno cardiaco dovuto a malattia extracardiaca (ad es., dilatazione/torsione dello stomaco) Circostanze nelle quali è improbabile che il TnI-test risulti utile • Identificazione degli stadi precoci della cardiopatia • Differenziazione delle cause cardiache di dispnea da quelle non cardiache

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Dichiarazione circa il conflitto di interessi Il Dr. Oyama presta consulti a pagamento per la IDEXX Inc., Portland, ME, USA

Author’s Address for correspondence: Mark A. Oyama - University of Pennsylvania 3850 Spruce St. Philadelphia, PA 19104 maoyama@vet.upenn.edu


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Insufficienza mitralica cronica: come, quando e perché trattarla Mark A. Oyama DVM, Dipl ACVIM-Cardiology, Philadelphia, USA

La valvulopatia mitralica degenerativa (DMVD, degenerative mitral valve disease) è la più comune malattia del cane adulto. Un problema clinico frequente è decidere come, quando e perché trattare i soggetti colpiti. In questa presentazione basata su casi clinici, verranno illustrati i dilemmi che si riscontrano più comunemente e i partecipanti interverranno nell’analisi dei problemi, apprendendo quale sia il modo migliore per applicare le loro capacità cliniche e come utilizzare le nuove informazioni fornite circa questa malattia.

Problema clinico n°1: il vecchio cane di piccola taglia con la tosse. Caratteristiche cliniche tipiche: un cane di piccola taglia con anamnesi di tosse ed occasionali segni respiratori, soffio mitralico moderato o forte all’esame clinico, suoni polmonari aspri, tosse facilmente suscitabile alla palpazione tracheale. Dilemma clinico: insufficienza cardiaca o malattia respiratoria primaria? Domande cliniche alle quali rispondere: • Cosa ci dice l’intensità del soffio circa la probabilità di un’insufficienza cardiaca? • Come possiamo determinare se un quadro polmonare interstiziale sia rappresentativo di insufficienza cardiaca o di pneumopatia primaria? • Per formulare la diagnosi corretta è necessario un ECG o un’ecografia cardiaca? • Se si sospetta un’insufficienza cardiaca, che trattamento bisogna somministrare? • Esistono dei test da eseguire su campioni di sangue che possano contribuire a differenziare un’insufficienza cardiaca dalla malattia respiratoria? • Cosa dobbiamo fare se non è possibile differenziare le due condizioni?

Problema clinico n°2: Trattare o non trattare? Caratteristiche cliniche tipiche: cane con un forte soffio mitralico che risulta asintomatico Dilemma clinico: devo trattare questo cane? E se sì, con quali farmaci? Domande cliniche alle quali rispondere: • Quanti cani con un soffio finiranno per manifestare un’insufficienza cardiaca? • Come posso stabilire il grado e la gravità della malattia? • Esistono farmaci che rallentano la progressione della degenerazione mitralica? • Esistono farmaci che ritardano l’insorgenza dell’insufficienza cardiaca? • Se scelgo di non trattare a questo punto, quando dovrò rivalutare questo paziente? • Se scelgo di non trattare a questo punto, quali riscontri

futuri mi spingeranno a riprendere in considerazione questa decisione?

Problema clinico n°3: Fibrillazione atriale Caratteristiche cliniche tipiche: cane con grave valvulopatia mitralica, anamnesi di insufficienza cardiaca congestizia e fibrillazione atriale Dilemma clinico: Come devo trattare questo cane? Domande cliniche alle quali rispondere: • Qual è l’impatto della fibrillazione atriale sulla funzione cardiaca e sull’insufficienza cardiaca? • Possono ripristinare il ritmo sinusale in questo paziente? • Quali farmaci devo utilizzare per trattare la fibrillazione atriale? • Come posso monitorare la risposta alla terapia? • L’esecuzione di un monitoraggio di 24 ore (Holter) ha qualche valore?

Problema clinico n°4: malattia grave che non risponde più al trattamento Caratteristiche cliniche tipiche: cane con grave valvulopatia mitralica, frequenti episodi di insufficienza cardiaca congestizia che non rispondono più al trattamento convenzionale. Dilemma clinico: Come devo trattare questo cane? Domande cliniche alle quali rispondere: • Perché i cani diventano refrattari al trattamento? • Ho davvero sfruttato al massimo la terapia convenzionale? • Se sì, ci sono altri farmaci che possono contribuire a risolvere l’insufficienza cardiaca? • Come devo utilizzare questi nuovi agenti? • Come devo monitorare la risposta alla terapia? • Quali sono i potenziali effetti indesiderati legati all’impiego di questi farmaci? • Ci sono farmaci extracardiaci che si possano utilizzare per trattare la perdita di peso cronica e lo scarso appetito?

Letture consigliate e bibliografia Gry Moesgaard S et al. Neurohormonal and circulatory effects of short-term treatment with enalapril and quinapril in dogs with asymptomatic mitral regurgitation. J Vet Int Med 2005:19:712-719. Haggstrom J et al. New insights into degenerative valve disease in dogs. Vet Clin North Amer Sm Ani Pract 2004:34:1209-1226. Smith PJ et al. Efficacy and safet of pimobendan in canine heart failure caused by myxomatous mitral valve disease. J Small Anim Pract. 2005;46(3):121-30. Olsen LH et al. Early echocardiographic predictors of myxomatous mitral valve disease in dachshunds. Vet Rec. 2003;152(10):293-7.

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Utilità dell’impiego della metodica Doppler tissutale Mark A. Oyama DVM, Dipl ACVIM-Cardiology, Philadelphia, USA

Esame Doppler tissutale La metodica Doppler tissutale (TDI, tissue Doppler imaging) esamina il movimento del tessuto cardiaco. Il movimento miocardico, in confronto a quello del flusso ematico, rimanda segnali di ampiezza elevata e bassa velocità. Attraverso l’impiego di filtri selettivi, le regolazioni disponibili sulle moderne unità ecografiche consentono di ottimizzare gli studi TDI. La struttura più comunemente presa in esame con questa metodica è l’anello della valvola mitrale. La velocità dell’anello rappresenta la frequenza dei cambiamenti della lunghezza ventricolare durante lo riempimento diastolico. La TDI misura la velocità anulare diastolica sia iniziale che finale (EDTI ed ADTI, rispettivamente). L’interpretazione degli studi TDI è simile a quella della velocità dell’afflusso mitralico, in quanto una scadente funzione diastolica viene rivelata da diminuzione di EDTI, aumento di ADTI e EDTI/ADTI < 1. Il movimento anulare mitrale, a differenza della velocità di afflusso mitrale, è relativamente insensibile alle variazioni del precarico. Quindi, nei casi di disfunzione diastolica moderata o avanzata, l’aumento della pressione atriale sinistra non influisce sull’equilibrio fra il movimento anulare iniziale e finale ed il valore di EDTI/ADTI rimane tipicamente < 1. Indicizzando la velocità di afflusso mitralico a quella anulare mitrale TDI-derivata, è possibile rimuovere l’effetto della funzione diastolica ventricolare dall’informazione sull’afflusso mitralico, lasciando un indice di precarico che può venire utilizzato per stimare la pressione atriale sinistra. In questo modo, la TDI offre un indice non invasivo delle pressioni di riempimento che può venire utilizzato per prendere delle decisioni cliniche relative alla presenza o assenza di insufficienza cardiaca congestizia. Recentemente, la TDI è stata usata per valutare il movimento sistolico del ventricolo sinistro e può essere più sensibile alle variazioni iniziali della funzione contrattile rispetto ai tradizionali indici di eiezione bidimensionali o in M-mode. La completa applicazione clinica della TDI è ancora da realizzare. La principale promessa di questa metodica è quella di riuscire a portare allo sviluppo di una misura rapida, facilmente ottenibile, accurata e quantitativa della funzione cardiaca diastolica, che in precedenza è mancata in ecocardiografia clinica. Oltre ad ampliare la nostra conoscenza delle anomalie diastoliche e della loro progressione durante il decorso della malattia, si può prevedere che la TDI possa contribuire a misurare l’efficacia di nuove strategie terapeutiche.

Diagnostica per immagini Doppler in M-mode a codice di colore La diagnostica per immagini in M-mode a codice di colore sovrappone uno studio Doppler a codice di colore ad un

esame convenzionale in M-mode, permettendo la valutazione del flusso ematico in relazione alle strutture anatomiche. La valutazione in M-mode a codice di colore dell’afflusso iniziale del sangue dall’atrio sinistro al ventricolo sinistro (afflusso mitrale iniziale), rappresenta la velocità del flusso ematico (cm/sec) lungo il tratto del ventricolo sinistro durante l’intera porzione iniziale della diastole. Questa misura della velocità di propagazione dell’afflusso mitrale, Vp, è relativamente indipendente dalle pressioni di riempimento capillare e possiede una forte correlazione con il rilasciamento del ventricolo sinistro. La Vp diminuisce nei pazienti con rilasciamento ventricolare scadente e si riconosce come una diminuzione del segnale in M-mode a codice di colore. Nella pratica clinica, la misurazione della Vp è ostacolata da un elevato grado di variazione dell’acquisizione, della qualità e della misurazione del segnale. In uno studio, la Vp non è risultata utile nei cani con rigurgito mitrale sperimentalmente indotto. In altri indagini condotte impiegando dei gatti, il rapporto fra l’afflusso mitrale iniziale e Vp presentava una moderata correlazione con le pressioni telediastoliche del ventricolo sinistro. In questa relazione verranno illustrate le tecniche e le misurazioni della TDI e degli esami in M-mode a codice di colore. Verrà brevemente passato in rassegna l’impiego in queste metodiche in medicina umana. Poi se ne illustrerà l’impiego attuale in medicina veterinaria. Infine, saranno presentate le future direzioni della TDI e della metodica Mmode a codice di colore.

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L’utilizzo dei Beta-bloccanti per la terapia della cardiomiopatia dilatativa e dell’insufficienza mitralica nel cane Mark A. Oyama DVM, Dipl ACVIM-Cardiology, Philadelphia, USA

La miocardiopatia dilatativa (DCM) è la più comune affezione miocardica che colpisce il cane. Nelle razze come il dobermann, l’alano, il boxer e l’Irish wolfhound, l’impatto della malattia è notevole. La sopravvivenza prevista dopo l’insorgenza dei segni clinici è estremamente breve, in media di soli 5 mesi, nonostante la terapia con digitale, diuretici ed inibitori dell’enzima angiotensina convertente (ACE). I betabloccanti offrono un modo nuovo per potenziare il trattamento di questa malattia. Nell’uomo, questi farmaci migliorano la frazione di eiezione più di qualsiasi altro tipo di terapia medica dell’insufficienza cardiaca. Il trattamento cronico con beta-bloccanti migliora la funzione sistolica, la tolleranza all’esercizio (in misura variabile) e la qualità della vita (in misura variabile) ed aumenta la sopravvivenza. Non è ancora stata pubblicata una valutazione mediante studi controllati con placebo dell’impiego di questi farmaci in cani con DCM ad insorgenza spontanea. Il presente lavoro illustrerà i presupposti teorici dell’impiego dei beta-bloccanti nella DCM e nella valvulopatia mitralica, i vari tipi di betabloccanti disponibili ed i risultati di una prova clinica recentemente condotta dall’autore per studiare l’uso del carvedilolo nei cani con DCM. La caratteristica principale della DCM è la progressiva perdita della funzione sistolica miocardica, per cui si potrebbe dedurre che gli agenti inotropi negativi come i beta-bloccanti possano essere utili. In realtà, per il trattamento dell’insufficienza cardiaca congestizia causata da una grave DCM si utilizzano comunemente i beta-agonisti come la dopamina e la dobutamina. Inoltre, man mano che la funzione cardiaca si deteriora, l’accentuazione dell’attività dei due sistemi neurormonali, quello renina-angiotensina-aldosterone e quello nervoso simpatico, determina una forma di compensazione aumentando la contrattilità, espandendo il volume plasmatico e mantenendo la pressione sanguigna. Quindi, l’aumentata attività del sistema nervoso simpatico fornisce un supporto al cuore insufficiente e i trattamenti che interferiscono in questa risposta sono una controindicazione. Tuttavia, oggi è chiaro che quando viene attivato cronicamente, il sistema nervoso simpatico inizia ad indurre un danno cardiaco ed accelera la progressione della malattia. La presenza cronica di elevati livelli di catecolamine circolanti è causa di necrosi e apoptosi diretta dei gliociti, rende inefficiente l’utilizzazione del substrato metabolico e determina anomalie dell’impiego del Ca2+ intracellulare da parte del reticolo sarcoplasmatico. Per contribuire a proteggere da questi effetti, il miocita si desensibilizza, riducendo la densità dei beta-recettori sulla sua superficie, nonché disaccop-

piando il complesso proteina G ed AMPc dal meccanismo recettoriale. Come conseguenza, il cuore perde la propria capacità di rispondere al supporto simpatico innato durante i momenti di aumentata necessità (esercizio). Il presupposto teorico che sta alla base dell’impiego dei beta-bloccanti è quello di interrompere questo sistema, molto simile all’effetto degli ACE inibitori sul sistema renina-angiotensinaaldosterone. Come già ricordato, l’effetto del beta-bloccaggio dei pazienti umani con DCM comporta un miglioramento della funzione sistolica, della capacità di esercizio, della qualità della vita e, più recentemente, della sopravvivenza. Inoltre, è stato dimostrato che il beta-bloccaggio diminuisce direttamente i livelli circolanti di noradrenalina, adrenalina e renina. Gli obiettivi dello studio proposto coinvolgono la tollerabilità, la funzione sistolica, i livelli neurormonali e la qualità della vita. Verrà brevemente discussa la letteratura pertinente associata a questi 4 effetti. La somministrazione di beta-bloccanti ai pazienti con funzione miocardica compromessa non è priva di rischi. L’inizio della terapia può determinare una riduzione acuta del supporto adrenergico inotropo e cronotropo, peggiorando così la funzione miocardica. La somministrazione dei beta-bloccanti di solito richiede un periodo di messa a punto di 4-8 settimane durante le quali le dosi vengono gradualmente aumentate sino a livello terapeutico. Il dosaggo di partenza del carvedilolo corrisponde tipicamente al 12% di quello che si vuole ottenere. Durante questo periodo iniziale, il 7% dei pazienti umani dimostra di non tollerare il trattamento con questo agente. In questi casi, di solito non è necessaria la sospensione completa del farmaco e il trattamento può continuare alla massima dose tollerata. Un miglioramento della tolleranza si può ottenere scegliendo un agente di terza generazione piuttosto che uno di prima o di seconda. Gli agenti di terza generazione possiedono proprietà vasoattive collaterali ed il carvedilolo mostra un lieve alfa-1 antagonismo, che esita in vasodilatazione periferica. Questa attività contribuisce a compensare il declino iniziale della funzione miocardica e può essere la ragione della sua migliorata tollerabilità. Nonostante ciò, nei pazienti umani la fase di messa a punto del dosaggio viene condotta con particolare attenzione a pressione sanguigna, sintomatologia e funzione renale. Si effettua tipicamente un aumento della posologia alla settimana, raddoppiando progressivamente il dosaggio del farmaco. I pazienti che mostrano effetti indesiderati di solito lo fanno entro le prime due o tre correzioni della dose. È stato dimostrato che la terapia con beta-bloccanti migliora costantemente o previene il deterioramento della funzione sistolica e


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delle dimensioni ventricolari. Una recente metanalisi su 18 prove cliniche condotte in doppio cieco e controllate con placebo relative all’uso dei beta-bloccanti nella popolazione umana ha preso in considerazione più di 55.000 pazienti con DCM ed ha rivelato un incremento medio della frazione di eiezione dal 23% al 31% (p < 10-9).1 I risultati della prova CIBIS hanno rivelato che l’accorciamento frazionale aumentava in seguito al trattamento con un beta-bloccante, il bisoprololo.1 La frazione di eiezione e l’accorciamento frazionale sono le misure più comunemente utilizzate della funzione sistolica, ma anche gli intervalli temporali della sistole migliorano dopo il trattamento con beta-bloccanti. In associazione con il miglioramento funzionale, il trattamento esita nella regressione del rimodellamento cardiaco patologico. I risultati di pool da quattro prove differenti dimostrano che le dimensioni telediastoliche e telesistoliche del ventricolo sinistro erano ridotte, rispettivamente, di un valore medio di 4,6 mm e 2,9 mm.2 Questi risultati dimostrano che l’impiego di beta-bloccanti ha la capacità di far regredire il rimodellamento instaurato, un vantaggio non ottenuto con i farmaci standard utilizzati per l’insufficienza come i diuretici e la digitale. In parecchi studi i beta-bloccanti non sono riusciti a migliorare la frazione di eiezione o le dimensioni ventricolari rispetto alle misurazioni basali, ma, in confronto ai controlli, ne hanno prevenuto il deterioramento. Questo effetto può essere utile quanto un aumento assoluto dei valori. Studi precedenti hanno rivelato risultati misti circa il livello di catecolamine circolanti dopo il trattamento con betabloccanti. Alcuni studi dimostrano che i livelli plasmatici della noradrenalina diminuiscono ed altri non mostrano alcuna variazione.3,4 Uno studio ha evidenziato la capacità di prevenire l’aumento della noradrenalina che si è invece verificato nei controlli. La variabilità dei risultati può essere correlata al processo patologico sottostante. Woodley ha riscontrato che i livelli di noradrenalina diminuivano nei pazienti con DCM idiopatica (simile alla malattia riscontrata nel cane), ma non in quelli con DCM da arteropatia coronarica ischemica. È anche interessante notare che persino negli studi in cui il livello di noradrenalina non si è modificato, la frequenza cardiaca era significativamente più bassa dopo il trattamento e costituiva un indicatore di efficace blocco recettoriale ed antagonismo adrenergico. L’attività della renina plasmatica viene diminuita in seguito a somministrazione di beta-bloccante.5 Questo effetto viene attribuito all’inibizione dei beta1-recettori che influiscono sul rilascio di renina dall’apparato iuxtaglomerulare del rene o al miglioramento della perfusione renale. Gli effetti dan-

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nosi del sistema renina-angiotensina-aldosterone sono ben noti e comprendono la ritenzione idrica, la vasocostrizione ed il rimodellamento ventricolare patologico. Tipicamente, per prevenire l’ulteriore formazione di angiotensina II lungo l’asse renina-angiotensina-aldosterone si utilizzano gli ACE inibitori ed il valore della riduzione dell’attività plasmatica della renina è stato messo in discussione; tuttavia, esistono delle vie alternative per la conversione dell’angiotensina I in angiotensina II e la riduzione dell’attività plasmatica può contribuire a determinare una inibizione più completa di questo sistema. Durante il trattamento con beta-bloccanti il peptide natruiretico atriale (ANP) è elevato. Questi aumenti possono essere dovuti ad un calo della sua escrezione o ad una riduzione degli effetti inibitori della stimolazione adrenergica sul suo rilascio. Gli effetti fisiologici dell’ANP contrastano quelli del sistema renina-angiotensina-aldosterone e del sistema nervoso simpatico, e possono servire a spiegare alcuni degli effetti salutari dei beta-bloccanti.

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Strategie e complicazioni nel trattamento delle fratture negli animali in accrescimento Ross H. Palmer DVM, MS, Dipl ACVS, Fort Collins, Colorado USA

L’osso negli animali immaturi è biomeccanicamente, anatomicamente e fisiologicamente diverso da quello dei soggetti maturi. Il mancato riconoscimento delle caratteristiche esclusive dell’osso immaturo nel trattamento delle fratture aumenta il rischio di complicazioni che possono causare anni di morbilità. Il contenuto in materiale inorganico dell’osso maturo arriva al 65-70% del suo peso secco e fornisce all’osso stesso la sua solida consistenza e rigidità. La matrice extracellulare organica, costituita principalmente da collagene, conferisce invece all’osso la flessibilità e la capacità di recupero. Il contenuto minerale dell’osso aumenta rapidamente durante la crescita scheletrica, per cui la sua rigidità cresce fino a 20 volte nei primi 6 mesi. In confronto all’osso maturo, quello immaturo è più duttile, assorbe più energia e tollera maggiormente la tensione e la deformazione elastica prima di fratturarsi. Di conseguenza, le fratture incomplete, “a legno verde”, e la curvatura (deformazione plastica) delle ossa si osservano quasi esclusivamente nei cani in accrescimento. La natura fragile dell’osso adulto fa sì che si fratturi con una scarsa deformazione plastica, per cui nei casi indicati è fattibile la ricostruzione anatomica dei segmenti ossei. La natura più duttile dell’osso immaturo, invece, consente all’osso stesso di subire una deformazione plastica molto significativa prima di fratturarsi. Inoltre, la natura morbida dell’osso immaturo rende gli impianti maggiormente predisposti all’allentamento prematuro. Le fratture nel cane in accrescimento spesso si localizzano nella regione della fisi. Sfortunatamente, piuttosto che verificarsi nella zona ipertrofica, come è tipico dell’uomo, le fratture fisarie ad insorgenza spontanea nel cane spesso interessano la zona proliferativa.1 Ciò può spiegare il rischio relativamente elevato di disfunzione fisaria dopo un trauma in questa specie animale. Si deve anche tenere in considerazione l’effetto determinato sulla funzione della fisi dalla gonadectomia. Questa ritarda la normale chiusura della fisi ed il ritardo è tanto più prolungato quanto più precoce è la sterilizzazione.2 Il periostio dei cani e dei gatti in crescita è relativamente spesso e vascolarizzato e contribuisce enormemente alla crescita dell’osso da apposizione ed al rapido sviluppo della guarigione della frattura per callo. Tuttavia, l’eccessiva enfasi posta sul potenziale di guarigione della frattura nei cani in accrescimento spesso distrae l’attenzione del veterinario dal cercare di ottenere il rapido ripristino della normale funzione dell’arto. Ai cani ed ai gatti in accrescimento si possono applicare diverse strategie generali di trattamento: • Focalizzare l’attenzione sul rapido e completo ripristino della funzione dell’arto, nella scelta del trattamento piuttosto che sulla guarigione della frattura

• Frequenti esami di controllo durante la convalescenza, osservando attentamente l’uso dell’arto e la mobilità e la funzione dell’articolazione • Non applicare attraverso la fisi degli impianti che impediscano la crescita longitudinale dell’osso • Inserire nella fisi dei chiodi endomidollari dal diametro più piccolo possibile per ottenere un’adeguata stabilità e posizionarli in modo tale che possano essere rimossi una volta ottenuta l’unione della frattura. Le fratture pelviche nei cuccioli comportano una prognosi eccellente per la guarigione con qualsiasi trattamento. Tuttavia, se una mal unione provoca un eccessivo restringimento del canale pelvico si può avere la comparsa di una grave costipazione meccanica e di una disfunzione colorettale secondaria. La fissazione mediante placca interna delle fratture dell’ileo si effettua quando esiste il rischio di collasso del bacino e la placca viene sagomata in modo tale da tenere il canale pelvico aperto nelle sue normali dimensioni. Quando è fattibile la ricostruzione anatomica delle fratture longitudinali dell’ileo, l’applicazione di viti a compressione (inserite soltanto dalla faccia ventrale a quella dorsale oppure attraverso una seconda placca da osteosintesi) riduce il rischio di allentamento delle viti stesse aumentando l’interfaccia fra impianto ed osso e realizzando un effetto di cerchiaggio di tensione sulla superficie ventrolaterale dell’impianto.3-5 Le fratture femorali nei cani e nei gatti in accrescimento spesso si verificano a livello delle fisi, ma interessano anche la diafisi. Lo scivolamento dell’epifisi della testa del femore (SCFE, slipped capital femoral epiphysis) si verifica sia nel cane che nel gatto. In quest’ultimo, la condizione spesso si sviluppa nei maschi castrati e sovrappeso di età compresa fra 1,5 e 2,5 anni, anche in assenza di un evento traumatico, ed è stato ipotizzato che sia la conseguenza del sovraccarico meccanico cronico della fisi che subisce un ritardo della chiusura a causa della gonadectomia precoce.6 Questa condizione può interessare una o entrambe le anche. Se è colpita una sola articolazione coxofemorale, quella controlaterale deve essere accuratamente valutata radiograficamente ed il proprietario va informato che non è raro lo sviluppo tardivo della condizione a carico dell’anca controlaterale. Nel gatto, l’SCFE può venire efficacemente trattato mediante fissazione interna o escissione della testa/collo del femore. Nel cane, nella maggior parte dei casi la condizione è la conseguenza di un trauma, ma sono stati identificati casi non traumatici.7 Il rischio di osteoartrite coxofemorale è aumentato quando l’SCFE si sviluppa nei cani di età inferiore a 4 mesi, perché la chiusura della fisi esita in un accorciamento del collo femorale. La


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lunghezza normale del collo del femore e l’uso dell’arto sono importanti per il normale sviluppo dell’articolazione coxofemorale. La fissazione dell’SCFE con molteplici fili di Kirschner è più stabile di quella attuata con un singolo filo.8 La fissazione con una vite compressiva è ancora più stabile, ma va evitata se si desidera preservare la crescita della fisi.9 Le fratture del tratto distale della fisi del femore sono comuni nel cane e nel gatto. I felini sviluppano spesso fratture di Salter-Harris di tipo I, mentre nel cane sono più comuni quelle di tipo II. La fissazione interna di queste fratture si esegue facilmente mediante inserimento di chiodi endomidollari incrociati o tecniche di applicazione di chiodi dinamici. L’impiego dei chiodi incrociati assicura una superiore resistenza alle forze di rotazione, ma entrambi i metodi garantiscono un’adeguata stabilità.10 Se le tipiche quattro interdigitazioni del profilo della fisi distale del femore assicurano un’adeguata stabilità rotazionale, si può utilizzare un singolo chiodo endomidollare. Le fratture della diafisi femorale coinvolgono spesso la metà distale dell’osso. La prognosi per l’unione delle fratture è eccellente nei casi trattati in modo appropriato, ma si deve valutare il rischio di contrattura del quadricipite. I fattori che determinano il rischio di insorgenza di questa condizione sono la frattura femorale distale, la diffusa comminuzione o il danneggiamento dei tessuti molli, l’instabilità della fissazione della frattura, la riduzione della flessione del ginocchio in seguito alla riduzione/allineamento della frattura e la stabilizzazione chirurgica associata alla coaptazione esterna. Quando esiste un aumento del rischio di contrattura del quadricipite, si deve utilizzare un bendaggio in flessione 90°/90° nelle prime 4872 ore successive all’intervento chirurgico, per poi passare alla fisioterapia passiva/attiva ogni giorno per le prime 3-4 settimane postoperatorie. L’attenta cura degli animali convalescenti deve comprendere delle visite di controllo ogni 2-3 giorni nelle prime due settimane dopo l’intervento. Le fratture tibiali sono relativamente comuni nei cani in accrescimento e si possono avere a livello delle fisi o nella diafisi. Il tubercolo tibiale si sviluppa a partire da un centro di ossificazione separato dall’epifisi tibiale prossimale. La frattura con avulsione del tubercolo tibiale si può verificare come danno isolato oppure in associazione con fratture di Salter Harris di tipo I o II della fisi tibiale prossimale. Le fratture del tubercolo tibiale possono essere trattate con fili di Kirschner o fissaggio mediante cerchiaggio di tensione, anche se quest’ultimo ha maggiori probabilità di determinare la chiusura

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permanente della fisi. Le fratture di Salter-Harris della fisi tibiale prossimale vengono spesso trattate con molteplici fili di Kirschner. Spesso si riprendono delle radiografie ad intervalli di due settimane e gli impianti vengono rimossi, se possibile, ai primi segni di unione della frattura. Le fratture della diafisi tibiale, a legno verde (incomplete) e con dislocazione minima sono relativamente comuni nei cani in accrescimento. Anche se per ottenere l’unione ossea di queste fratture risulta spesso efficace la coaptazione, mantenere il ginocchio in una certa flessione, incoraggiare l’uso lento e controllato dell’arto e ridurre al minimo la coaptazione contribuisce a preservare la pressione retrorotulea ed evitare la complicazione rappresentata dalla lussazione della rotula.

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Indirizzo per la corrispondenza: Ross H. Palmer Colorado State University Veterinary Medical Center Fort Collins, Colorado USA


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Accorgimenti pratici per la diagnosi precoce della displasia del gomito nei cani in accrescimento Ross H. Palmer DVM, MS, Dipl ACVS, Fort Collins, Colorado USA

L’identificazione precoce della displasia del gomito è molto importante per consentire ai proprietari di animali da compagnia di avvalersi di tutte le opzioni terapeutiche e trattare i problemi sottostanti prima dello sviluppo di un’osteoartrite secondaria. Il riconoscimento precoce della displasia del gomito richiede che il veterinario sviluppi un “indice di sospetto” sulla base del segnalamento e dell’anamnesi del paziente e che poi effettui un accurato esame clinico per passare infine all’accurata valutazione delle radiografie alla ricerca di sottili alterazioni a conferma della diagnosi.

Segnalamento ed anamnesi La displasia del gomito è più comune in golden retriever, Labrador retriever, rottweiler e bovaro bernese, ma può colpire la maggior parte dei cani di qualsiasi razza di grossa taglia, compresi i meticci. La non unione del processo anconeo (UAP, un-united anconeal process), in particolare, ha una prevalenza maggiore nel pastore tedesco. I cuccioli possono essere portati alla visita perché presentano zoppia dell’arto toracico, rigidità, intolleranza all’esercizio o problemi di mobilità aspecifici già a partire dall’età di 4 mesi.

Andatura Molti cuccioli con displasia del gomito restano in stazione con le zampe ruotate verso l’esterno (supinazione). Possono manifestare una zoppia evidente, caratterizzata da movimenti “su e giù” della testa, oppure poco appariscente. Far scendere le scale al paziente può servire ad accentuare una zoppia non molto visibile. Quando è presente un problema del gomito, è comune un’andatura “a salti da coniglio” a livello degli arti toracici mentre il cucciolo scende le scale. Quando questo problema è monolaterale, i cuccioli spesso scendono ogni gradino con l’arto sano.

Esame clinico Il versamento articolare si individua più facilmente nel paziente in stazione sotto forma di una tasca gonfia e piena di liquido fra l’epicondilo laterale e l’olecrano. La palpazione per valutare la presenza di dolore e l’escursione articolare (normale = angolo di flessione di 36-166°) si può eseguire sia nel soggetto in stazione che in decubito. In condizioni

normali, durante la flessione del gomito i cuccioli riescono ad appoggiare la parte distale dell’avambraccio contro la punta della spalla senza alcun disagio. Quando la flessione del gomito è dolorosa, il cane vi si oppone oppure tira dorsalmente la spalla per alleviare le sollecitazioni algiche. Man mano che la displasia progredisce, la flessione del gomito viene fisicamente impedita dall’osteofitosi e/o dalla fibrosi periarticolare. I cuccioli normali possono estendere il gomito senza alcun disagio e mostrano solo un lieve fastidio alla completa e forzata estensione dell’articolazione. I gomiti devono essere esaminati specificamente in pronazione e supinazione, che nella maggior parte dei cuccioli normali non risultano dolorose. La maggior parte dei cuccioli con displasia del gomito mostra invece un certo disagio durante la pronazione e/o supinazione del gomito.

Esame radiografico La concomitante diagnosi di malattie ortopediche giovanili come la panosteite è spesso molto semplice, ma non deve impedire al veterinario di effettuare un’indagine più approfondita per giungere ad identificare la presenza condizioni più difficili da riconoscere, come la FMCP (frammentazione del processo coronoideo mediale). Il riscontro di una FMCP ha valore diagnostico per la displasia del gomito, ma è l’eccezione piuttosto che la regola. È difficile che questa alterazione risulti chiaramente delineata nelle immagini radiografiche, a causa della sovrapposizione del processo coronoideo mediale (MCP) sulla testa del radio. Oltre alle proiezioni standard mediolaterale, mediolaterale in flessione e craniocaudale ne sono state descritte parecchie speciali (Cd75M-CrLO, Cr15-CdMO, MEDLAP) per aumentare la sensibilità diagnostica radiografica per la FMCP. Anche con le proiezioni speciali, tuttavia, la radiografia manca di sensibilità. La scintigrafia e la tomografia computerizzata (TC) hanno un valore diagnostico aggiuntivo, ma l’economicità e la disponibilità dell’indagine radiografica ne fanno il principale metodo di screening per la displasia del gomito. L’accurato posizionamento radiografico e l’attenta valutazione delle aree specifiche consentono di sfruttare al massimo il valore diagnostico di questa tecnica: • Profilo anormale o mancanza di dettaglio del profilo normale del MCP (proiezione mediolaterale) • Lieve sclerosi sotto l’incisura trocleare dell’ulna nella regione dell’MCP (proiezione mediolaterale) • Osteofiti periarticolari (formazione di “labbra” o “speroni”) associati all’MCP (proiezione craniocaudale)


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• Osteofiti periarticolari lungo il margine dorsale del processo anconeo (proiezione mediolaterale in flessione) • Osteocondrite dissecante (OCD) della faccia mediale del condilo omerale (proiezione cr-cd) • Incongruenza delle articolazioni omeroulnari e radioulnari (proiezione mediolaterale) • Non unione del processo anconeo (proiezione mediolaterale in flessione) Nella proiezione mediolaterale standard, l’MCP deve essere identificato nei cani di età superiore a 6 mesi come una struttura a becco, appuntita e completamente ossificata che corrisponde alla superficie articolare del condilo omerale. Distalmente, dalla punta dell’MCP, la superficie craniale del processo e del tratto prossimale dell’ulna deve avere un profilo concavo e poco profondo. La mancanza della punta a becco o la presenza di una forma convessa o appiattita a livello del margine craniale del MCP è fortemente indicativa di FMCP. La sclerosi subtrocleare radiografica nelle proiezioni mediolaterali è una combinazione di sclerosi subcondrale e formazione di osteofiti periarticolari lungo la base dell’incisura trocleare dell’ulna. Si tratta di una valutazione soggettiva e fortemente condizionata da variazioni di minore entità della tecnica radiografica. Nei pazienti colpiti da una malattia monolaterale può essere utile l’esame radiografico di entrambi i gomiti, ma spesso la condizione è bilaterale. L’area migliore da prendere in considerazione per la ricerca della sclerosi in un’immagine ripresa in proiezione mediolaterale e posizionata correttamente si trova sulla parte distale dell’incisura trocleare, dove non c’è sovrapposizione del radio. Lievi variazioni del posizionamento radiografico possono determinare un’obliquità dove la sovrapposizione della testa del radio o della faccia mediale dell’epicondilo/condilo omerale può simulare una sclerosi della parte prossimale dell’ulna. L’osteofitosi è progressiva e segue tipicamente le alterazioni radiografiche precedentemente descritte. All’inizio del decorso della malattia, questi osteofiti si rilevano più facilmente sul margine dorsale del processo anconeo, specialmente nelle proiezioni mediolaterali in flessione. In queste immagini, si può talvolta vedere il margine dell’epicondilo laterale. La cartilagine articolare della troclea dell’omero si articola con l’epicondilo laterale formando un sottile margine a filo di coltello, il che fa sì che la sua visualizzazione radiografica dipenda in larga misura dal posizionamento e dalla tecnica di ripresa. Nelle radiografie dove è visibile, si presenta come una linea appena visibile, con un profilo curvo e liscio. L’osteofitosi lungo questo margine sembra una protuberanza su questo profilo liscio. La proiezione craniocaudale è la più utile per rilevare l’osteocondrite dissecante della faccia mediale del condilo omerale (troclea). La lesione si osserva come un’area radiotrasparente sul margine articolare mediale della troclea omerale. In una proiezione laterale si può visualizzare come un appiattimento del margine caudoventrale mediale della troclea omerale. Nelle proiezioni mediolaterali (standard e in

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flessione) bisogna fare attenzione a dirigere il fascio radiografico lungo l’asse maggiore del “troclea condilare” dell’omero, determinando la formazione di una serie di anelli concentrici centrati sul condilo omerale. La valutazione del modo in cui l’omero, il radio e l’ulna si adattano reciprocamente è molto soggettiva e molto sensibile a sottili errori di posizionamento. La proiezione mediolaterale in flessione forza l’uno contro l’altro i capi dell’articolazione e può mascherarne l’incongruenza o la sublussazione. La proiezione mediolaterale in flessione è anche maggiormente predisposta a sottili spostamenti da obliquità del condilo omerale. La proiezione mediolaterale standard è la più facile per posizionare correttamente e valutare accuratamente l’incongruenza articolare. In questa proiezione, il cerchio più piccolo del condilo omerale è la porzione ristretta e scanalata del condilo stesso che si articola con la “nervatura” centrale dell’incisura trocleare dell’ulna. Queste due superfici devono essere separate soltanto da due zone cartilaginee radiotrasparenti e devono risultare uniformemente parallele per tutta la loro circonferenza. L’incongruenza omeroulnare si può presentare come un cattivo adattamento reciproco dell’arco della troclea omerale e della nervatura dell’incisura trocleare dell’ulna. La mappatura della superficie di contatto articolare suggerisce la possibilità che esista una qualche incongruenza omeroulnare normale o fisiologica nel cane, ma, se è abbastanza grave da venire rilevata radiograficamente, l’incongruenza può essere patologica. Il riscontro radiografico di un’incongruenza “a scalino”, in cui l’MCP sembra sollevato sopra la testa del radio, è stato associato a FMCP. Questo scalino può essere mascherato nelle proiezioni mediolaterali in flessione. La non unione del processo anconeo (UAP) viene diagnosticata meglio nelle proiezioni mediolaterali in flessione. Il processo anconeo origina da un centro di ossificazione secondario del gomito all’età di 11-12 settimane nei cuccioli delle razze di grossa taglia. Tradizionalmente, è stato affermato che tale processo non si fonde con l’ulna fino all’età di 4-5 mesi, per cui non è possibile formulare la diagnosi di UAP prima di questo periodo, ma recenti dati suggeriscono che nel pastore tedesco sia possibile una diagnosi più precoce (A. Vezzoni, comunicazioni personali). È necessario effettuare la ripresa di immagini radiografiche bilaterali perché la malattia spesso interessa entrambi gli arti (2035% dei casi). La UAP si osserva come una linea radiotrasparente, di ampiezza e chiarezza variabili, che separa il processo anconeo dall’ulna. Alcuni pazienti con forti riscontri anamnestici e clinici di displasia dell’anca presentano alterazioni radiografiche minime o non rilevabili. Occasionalmente, per localizzare le patologie del gomito può essere utile la scintigrafia, che rende più facile suggerire al proprietario una valutazione TC ed artroscopica. Indirizzo per la corrispondenza: Ross H. Palmer Colorado State University Veterinary Medical Center Fort Collins, Colorado USA


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Come diagnosticare la displasia dell’anca nei cani in accrescimento Ross H. Palmer DVM, MS, Dipl ACVS, Fort Collins, Colorado USA

La displasia dell’anca del cane (CHD, Canine Hip Dysplasia) è una malattia complessa, multifattoriale e progressiva che si sviluppa durante la crescita scheletrica postnatale. La CHD nel cane in crescita è clinicamente caratterizzata dall’aumento dell’inclinazione della rima acetabolare dorsale (DAR) e dalla iperlassità funzionale dell’articolazione dell’anca, che permette la sublussazione coxofemorale patologica e lo sviluppo di fenomeni secondari di rimodellamento e degenerazione articolari. I veterinari trovano spesso difficoltà a diagnosticare la CHD nei cani in crescita prima dell’insorgenza di queste modificazioni secondarie irreversibili. La diagnosi precoce ed il trattamento appropriato possono arrestare la progressione della malattia ed alterarne la patogenesi. Col termine di lassità passiva dell’anca si indica una lassità che può essere dimostrata nei cuccioli mediante manipolazioni veterinarie esterne (test di Ortolani, test di Barden, PennHIP distraction index). Un certo grado di lassità passiva dell’anca è rilevabile attraverso il PennHIP in tutti i cani. È stato dimostrato che l’iperlassità passiva dell’anca è un fenotipo ereditario della CHD nonché un fattore di rischio razza-specifico per lo sviluppo dell’osteoartrite (OA). La lassità passiva dell’anca che si può rilevare non è sempre correlata direttamente allo sviluppo dei segni clinici della CHD o dell’OA. Da un punto di vista terapeutico, la difficoltà incontrata dai veterinari è quella di individuare l’iperlassità funzionale dell’anca, in cui si ha una sublussazione dinamica che avviene spontaneamente durante le attività giornaliere del paziente.

Come diagnosticare la displasia dell’anca giovanile nel cane Anamnesi – vaga, aspecifica Esame clinico – Sublussazione dinamica (vs. sublussazione indotta – test di Ortolani), test in stazione di Slocum, “screeening” di Ortolani – decubito laterale Valutazione completa dell’anca Ortolani o Riduzione dell’angolo o Sublussazione dell’angolo o Goniometro di Slocum o Carattere della sublussazione/riduzione o Grafico di Slocum in funzione del tempo che evidenzia la natura dinamica - Radiografie o Anche in estensione (strette artificialmente) – valutazione della simmetria o Anche abdotte o Proiezione DAR o Distrazione (PennHIP) ■ Certificazione ■ Ereditabilità (i cani con anche strette generano cani con anche strette) ■ La “lassità” è un fattore di rischio per l’OA • razza specifico • “fattore di rischio non significa rapporto di causa-effetto - TC?

Segnalamento Praticamente tutti i cani delle razze di grossa taglia possono sviluppare la displasia dell’anca, ma quelli che vengono più comunemente portati alla visita per questo problema sono golden retriever, pastore tedesco, rottweiler, Labrador retriever, chesapeake bay retriever, samoiedo e mastiff inglese. È raro che vengano presentati dei cuccioli perché mostrano delle alterazioni sintomatiche prima dell’età di 4-5 mesi.

Opzioni terapeutiche: - JPS - TPO - Denervazione - plastica DAR - Sostituzione totale dell’anca mediante protesi non cementata (Cementless THR) - Ostectomia della testa del femore (FHO, Femoral Head Ostectomy)

Anamnesi Nella maggior parte dei casi, i cuccioli vengono presentati al veterinario da un proprietario che esprime vaghe preoccupazioni per problemi come la debolezza degli arti pelvici, la riluttanza ad alzarsi su quelli posteriori ed a salire le scale e l’intolleranza a periodi prolungati di esercizio. È raro

che i cuccioli vengano portati alla visita per un’evidente zoppia dell’arto posteriore. È in progressivo aumento il numero dei cuccioli asintomatici che vengono presentati per un esame di screening finalizzato alla valutazione dell’opportunità della profilassi mediante sinfisiodesi pubica giovanile (JPS, Juvenile Pubic Symphysiodesis).


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Valutazione dell’andatura Molti cani in crescita con iperlassità funzionale dell’anca e sublussazione dinamica mostrano un’andatura caratteristica “da gonna stretta” al passo o al trotto, per cui non sono in grado di estendere completamente le anche. Alcuni cuccioli presentano un’andatura “a salti da coniglio” al passo o al trotto oppure quando salgono le scale. In alcuni cuccioli, mentre camminano è possibile visualizzare o udire la sublussazione dinamica dell’anca.

Palpazione dell’anca Mentre un assistente conduce il cucciolo al passo, l’esaminatore deve camminare dietro di lui appoggiandogli le mani sulle anche. In alcuni soggetti si rileva una forma palpabile di sublussazione e riduzione dinamica dell’anca che costituisca un indicatore definitivo di iperlassità funzionale patologica dell’articolazione coxofemorale. È anche utile per l’esaminatore appoggiare le mani sulle anche del cucciolo e far oscillare delicatamente il treno posteriore da un lato all’altro, per rilevare la sublussazione e la riduzione apprezzabile con la palpazione. L’estensione e l’abduzione dell’anca sono spesso dolorose nei cuccioli con CHD in fase iniziale. Se collaborano, nei cuccioli in stazione o in decubito laterale non sedati è possibile inizialmente effettuare il test di Ortolani. La negatività di questa prova non è un riscontro definitivo nell’animale non sedato. Successivamente, il cucciolo viene sottoposto a sedazione profonda o anestesia per effettuare la palpazione definitiva dell’anca e gli esami radiografici. Il test di Ortolani si può eseguire in decubito laterale e/o dorsale. Si tratta di una prova di palpazione della lassità passiva dell’anca e richiede una certa capacità deduttiva per concludere che è presente un’iperlassità funzionale di questa articolazione. Quando si esegue il test di Ortolani, l’anca va tenuta secondo un’inclinazione corrispondente a quella naturale del soggetto in stazione, in modo che la capsula articolare ed i tessuti periarticolari si trovino nel loro stato di rilassamento passivo. Tenere inavvertitamente l’anca in estensione, flessione, abduzione, adduzione, rotazione interna o esterna può far stringere la capsula articolare ed i tessuti periarticolari e far si che una lassità anomala dell’anca passi inosservata. Il riscontro di una riduzione palpabile della testa del femore nell’acetabolo durante l’abduzione del femore viene indicato come “segno di Ortolani positivo”. In sé e per sé, tale segno non costituisce un’indicazione per la tripla osteotomia pelvica (TPO). Quando si identifica un segno di Ortolani positivo, l’esaminatore deve misurare e registrare gli angoli di riduzione e sublussazione. La misurazione di questi angoli con un goniometro elettronico (Slocum Enterprises, Eugene, Oregon, USA) è quella che ha fornito i risultati maggiormente ripetibili nella nostra esperienza. L’angolo di riduzione è un indicatore della lassità dell’anca. L’angolo di sublussazione è un indicatore dell’inclinazione della rima acetabolare dorsale. È anche importante la palpazione sensibile della riduzione e della sublussazione. Una riduzione indistinta è indicativa di riempimento o rimodellamento dell’a-

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cetabolo. Una sublussazione indistinta oppure bifasica è indicativa di un’erosione della rima acetabolare dorsale. I riscontri alla palpazione sono integrati dall’esame radiografico completo dell’anca.

Esame radiografico Si riprende una radiografia ventrodorsale delle anche estese (“OFA-simile”) per valutare le alterazioni degenerative come l’osteofitosi, la scarsa profondità dell’acetabolo, l’appiattimento della testa del femore e l’ispessimento del collo femorale. Con questa proiezione si può anche individuare la sublussazione coxofemorale, ma è importante ricordare che la marcata estensione dell’anca tende a “stringere” artificialmente le articolazioni. Di conseguenza, la sublussazione presente nelle proiezioni ventrodorsali ad anche estese è reale, ma l’assenza di sublussazione in questa proiezione non permette di escludere un’iperlassità dell’anca. La proiezione radiografica laterale standard è utile per valutare la patologia spinale lombosacrale, l’anteroversione del collo femorale, la sublussazione ed il rimodellamento coxofemorali e le relazioni anatomiche regionali. La radiografia dei femori in abduzione (“a zampe di rana”) è utile per valutare la profondità dell’acetabolo. Lo riempimento o il rimodellamento acetabolare è più facile da rilevare quando le teste dei femori sono compresse negli acetaboli da questa proiezione. Una radiografia della rima acetabolare dorsale (DAR) è essenzialmente una proiezione tangenziale attraverso la rima acetabolare dorsale. In condizioni normali, quest’ultima ha un profilo “a becco” e un’inclinazione minima. Nel cucciolo displasico con degenerazione dell’anca in aumento si ha uno smorzamento del profilo normale del margine laterale della rima acetabolare dorsale e un aumento della sua inclinazione. La radiografia PennHip comprende parecchie delle proiezioni sopracitate e un’immagine ottenuta per distrazione passiva. Sono state descritte anche altre proiezioni radiografiche mediante distrazione, ognuna delle quali ha i propri vantaggi e svantaggi. Per la proiezione mediante distrazione PennHip, si applica fra le cosce del cane in decubito dorsale un apparato regolabile, imbottito e radiotrasparente. Le anche vengono poste in modo da assumere un angolo approssimativamente simile a quello in stazione e poi delicatamente addotte fino a che le superfici mediali delle cosce non sono saldamente a contatto dell’apparato, per cui si verifica una distrazione passiva dell’anca. Le radiografie vengono inviate al PennHIP per la misurazione dell’indice di distrazione (DI) e per l’inserimento nel loro database.

Altri metodi di esame La tomografia computerizzata (TC) può venire utilizzata per valutare in modo accuratamente dettagliato l’integrità della rima acetabolare dorsale e la profondità dell’acetabolo. Gli studi condotti hanno dimostrato che per ottenere una precisione costante sono di importanza critica la regolarità


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del posizionamento del paziente ed i punti di repere. Recentemente, è stata descritta la valutazione artroscopica dell’articolazione coxofemorale, che sembra essere l’indicatore più sensibile di sinovite, lacerazione del legamento rotondo e condromalacia.

Scelta dei casi Per ottenere i massimi risultati, la sinfisiodesi pubica giovanile (JPS) va effettuata nei cani delle razze di grossa taglia prima delle 20 settimane di vita. A questa età molti cuccioli non presentano alcun segno clinico riferibile alla displasia dell’anca, il che rende difficile valutare l’efficacia della procedura. Tuttavia, la sua relativa semplicità, il basso costo e la bassa morbilità hanno fatto sì che molti proprietari richiedessero la valutazione dei loro animali ai fini di questo intervento. La JPS viene presa in considerazione quando i riscontri combinati hanno un valore predittivo per

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il futuro sviluppo della CHD: un segno di Ortolani positivo con angolo di riduzione di 20-40°, un angolo di sublussazione di 0-15°, ed nessuna alterazione degenerativa palpabile o radiografica. La tripla osteotomia pelvica (TPO) è indicata nei cani giovani (di solito di 4,5-10 mesi di età) che presentano segni clinici di displasia dell’anca, ma nei quali i riscontri palpabili o radiografici indicano degenerazioni di minima entità. I cuccioli presentano un segno di Ortolani positivo, con un angolo di riduzione di 20-40°, un angolo di sublussazione di 5-20° e nette transizioni fra la sublussazione e la riduzione. La proiezione DAR non evidenzia uno smorzamento significativo.

Indirizzo per la corrispondenza: Ross H. Palmer Colorado State University Veterinary Medical Center Fort Collins, Colorado USA


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Cosa c’è di nuovo nelle osteosintesi con placca Placche a compressione bloccante (LCP) Ross H. Palmer DVM, MS, Dipl ACVS, Fort Collins, Colorado USA

L’impiego delle placche da osteosintesi convenzionali La guarigione delle fratture richiede che la zona danneggiata si trovi in condizioni di adeguata stabilità meccanica ed adeguata vitalità biologica. Soddisfare una condizione ma non l’altra è causa di morbilità del paziente e mancata unione della lesione. Per molti anni, la principale difficoltà è stata quella di ottenere un’adeguata stabilizzazione della frattura. Un progresso enorme in questa direzione è stato compiuto nel 1965, quando sono state introdotte in chirurgia ortopedica veterinaria le tecniche di osteosintesi mediante placca AO ASIF. La placca a compressione dinamica (Dynamic Compression Plate, DCP®, Synthes) è stata sviluppata in modo tale che l’inserimento delle viti nei capi eccentrici dei fori ovali ed inclinati appositamente progettati determinasse la compressione delle fratture trasversali. Questa “era” dell’osteosintesi mediante placca era focalizzata sul raggiungimento di una rigida stabilità. Naturalmente, non tutte le fratture hanno una configurazione trasversale. Di conseguenza, non è sempre possibile o auspicabile ottenere la ricostruzione anatomica della colonna ossea. In realtà, nel tentativo di ottenere questa ricostruzione in una frattura altamente comminuta spesso si determina un’enorme distruzione della vitalità della zona fratturata, che contribuisce alla non unione. Si è evoluto quindi il concetto di osteosintesi biologica, secondo il quale le fratture altamente comminute dovevano essere allineate nello spazio piuttosto che ridotte anatomicamente, al fine di preservare la vitalità della zona fratturata. In questi casi, si determina un’enorme concentrazione delle sollecitazioni a livello dei fori per le viti che non vengono occupati nella DCP. Inoltre, l’impronta della placca contro la superficie dell’osso distruggeva la perfusione corticale sotto la placca. I chirurghi spesso desideravano utilizzare le placche in associazione con i chiodi endomidollari, al fine di prolungare la vita delle placche stesse prima che insorgesse il loro affaticamento, ma la configurazione delle viti di questi impianti vincolava l’angolazione delle viti stesse entro limiti relativamente ristretti. È stata quindi studiata la placca a compressione dinamica a contatto limitato (Limited-Contact Dynamic Compression Plate, LC-DCP®, Synthes), che presenta un profilo dentellato sulla sua superficie inferiore in modo tale che la sua impronta sulla superficie ossea consentisse una maggiore perfusione corticale (benché questa sia anche influenzata dal profilo e dalla topografia della superficie ossea sulla quale la placca stessa viene applicata). Il profilo dentellato della placca riduce anche l’effetto di concentrazione delle sollecitazioni nei fori delle viti non occu-

pati. Inoltre, i fori per le viti della LC-DCP sono studiati in modo tale che sia possibile inserire le viti secondo un numero di angolazioni molto più elevato di quello concesso dalla DCP. Questa caratteristica permette alle viti di essere inserite più facilmente secondo le inclinazioni necessarie per evitare i mezzi di stabilizzazione intramidollari. Ognuna di queste evoluzioni delle placche da osteosintesi utilizza il serraggio delle viti convenzionali all’interno dell’osso per comprimere saldamente la placca sulla superficie dell’osso stesso. Non esiste un legame rigido fra la placca e la vite, per cui se la placca non è saldamente compressa contro l’osso non si ottiene la rigidità del costrutto. L’entità della compressione fra la placca e la superficie ossea è influenzata dal numero di viti inserite, dal diametro del loro filetto e dalla qualità dell’osso. Se il carico dell’arto da parte del paziente induce forze superiori alla resistenza alla frizione a livello dell’interfaccia fra placca e osso si ha una perdita di stabilità della fissazione della frattura. Come conseguenza, si pone particolare attenzione al serraggio delle viti, e si cerca di aumentare al massimo il numero di quelle utilizzate per comprimere la placca contro l’osso. Il serraggio delle viti tira i segmenti ossei sottostanti verso il lato situato sotto la placca, per cui è necessario che quest’ultima sia sagomata secondo un profilo preciso corrispondente a quello dell’osso di forma normale. Quando viti convenzionali vengono serrate attraverso placche convenzionali sagomate in modo improprio, si induce una perdita primaria di riduzione della frattura. In alternativa, l’allentamento prematuro delle viti prima dell’unione della frattura determina una perdita della stabilità e una perdita secondaria di riduzione della frattura (Fig. 1).

Figura 1 - Allentamento “a ginocchiera” delle viti convenzionali dall’osso e dalla DCP → perdita secondaria della riduzione della frattura.


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Placca a compressione bloccante (LCP®, Synthes) La placca a compressione bloccante (Locking Compression Plate, LCP) rappresenta una drastica differenziazione rispetto alle placche convenzionali. Infatti, utilizza una vite bloccante specificamente studiata, che possiede una testa filettata che si unisce rigidamente alla placca da osteosintesi attraverso un foro appositamente studiato e realizzato in modo da adattarsi alla forma della filettatura. Il solido legame fra le viti e la placca determina la realizzazione di un costrutto ad angolo fisso che si comporta, dal punto di vista meccanico, in un modo drasticamente diverso dalle placche convenzionali. L’interfaccia fra vite bloccante rigida ed LCP non comprime quest’ultima contro l’osso e mantiene la riduzione della frattura che era presente al momento dell’applicazione della placca. Questa sottile evoluzione nella progettazione delle placche modifica anche il metodo con cui queste e le viti vengono applicate. La LCP è studiata con fori per le viti di tipo ad uso combinato (combi-holeTM), che accettano sia le viti tradizionali che quelle bloccanti. Per applicare i costrutti con LCP e viti bloccanti si utilizzano tecniche diverse da quelle che si impiegano per i costrutti con LCP ed associazioni di viti bloccanti e viti convenzionali. I costrutti realizzati con LCP e viti bloccanti utilizzano esclusivamente queste ultime e, quindi, non richiedono che la placca sia sagomata in modo preciso. In determinati casi il chirurgo può decidere di non sagomarla affatto. Questo costrutto funziona meccanicamente e biologicamente più come un fissatore interno che come una placca convenzionale. La rigida interfaccia fra LCP e vite bloccante assicura una stabilità angolare delle viti e previene l’allentamento “a ginocchiera” delle stesse nell’osso. La frattura deve essere ridotta prima di applicare la placca perché, a differenza delle placche convenzionali, questo costrutto non determina alcuna riduzione della lesione. Poiché la LCP non viene compressa contro la superficie ossea, la distruzione della perfusione ematica corticale è minima. Questa modalità di applicazione può essere particolarmente vantaggiosa nell’applicazione di placche percutanee, dove è indicata l’osteosintesi biologica. Le viti bloccanti devono essere inserire secondo un’angolazione fissa che viene determinata dal foro praticato con il trapano attraverso un’apposita guida che viene avvitata nel foro predisposto per la vite bloccante. Bisogna stare attenti ad orientare in modo corretto la placca, perché non è poi possibile alcuna deviazione, neppure di minore entità, delle viti bloccanti per centrarle nell’area in sezione trasversale dell’osso. I costrutti formati da LCP e viti bloccanti non possono venire utilizzati per ottenere una compressione dinamica perché le teste delle viti di questo tipo non scivolano all’interno dei profili dei fori. Nell’uomo, l’inserimento monocorticale delle viti bloccanti viene utilizzato più comunemente di quanto non avvenga per quelle convenzionali. L’applicazione bicorticale contribuisce ad eliminare l’allentamento a ginocchiera delle viti convenzionali, ma quelle bloccanti non sono esposte a questo problema perché sono stabilizzate dall’osso da una parte e dalla rigida unione con la placca dall’altra. Se non si ha il consolidamento della frattura per proteggere

Figura 2 - Il Combi-holeTM può accettare viti convenzionali (lato destro del foro) o bloccanti (lato sinistro del foro).

Figura 3 - Le viti bloccanti (a sinistra) consentono di ottenere una stabilità angolare nel morbido osso metafisario. Quelle convenzionali (a destra) vengono utilizzate per comprimere la linea di frattura.

l’impianto, tutti i costrutti ortopedici cedono a livello del loro “anello debole”. Se questo è la placca (come può avvenire quando un foro per una vite viene lasciato vuoto su una frattura senza distribuzione dei carichi), i costrutti formati da LCP e viti bloccanti cedono analogamente a quelli realizzati con placche convenzionali e viti. Quando la placca da osteosintesi non rappresenta l’anello debole, i costrutti LCPviti bloccanti cedono in modo differente da quelli convenzionali. Questi ultimi spesso vengono meno per un allentamento della vite che consente alla stessa di effettuare liberamente il movimento a ginocchiera dall’osso e dalla placca. Questa modalità di cedimento è particolarmente comune nell’osso morbido (cani in accrescimento, ossa piatte, aree metafisarie). Al contrario, i costrutti formati da LCP e viti bloccanti non sono propensi al cedimento per allentamento della vite neppure nell’osso morbido. Invece, possono venire meno in seguito al cedimento catastrofico del segmento osseo in cui le viti sono inserite o a causa di un cedimento da affaticamento di tutte le viti all’interno di un dato gruppo (improbabile). Il cedimento catastrofico di un segmento osseo può essere più probabile quando si utilizzano viti bloccanti monocorticali nei piccoli animali perché questi hanno corticali relativamente sottili rispetto a quelle dell’uomo e dei grandi animali.


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I costrutti realizzati mediante LCP ed associazioni di viti bloccanti e viti convenzionali vengono spesso utilizzati per ridurre il costo degli impianti o ottenere una compressione dinamica della linea di frattura, oppure perché il chirurgo si trova maggiormente a suo agio con le tecniche più tradizionali di osteosintesi mediante placca. Tuttavia, il chirurgo deve fare attenzione, perché le tecniche operatorie per l’applicazione dei costrutti combinati sono differenti sia da quelle che si impiegano per le placche convenzionali che da quelle utilizzate per realizzare costrutti bloccanti. La LCP applicata come costrutto combinato deve essere sagomata in modo da adattarsi con precisione all’osso. La distorsione di un foro da vite impedisce l’applicazione di una vite bloccante in quel dato foro. È importante applicare viti convenzionali in ciascun segmento osseo prima dell’inserimento di quelle bloccanti – “Le viti a compressione prima di quelle bloccanti” è un utile promemoria. Se si applicano prima le

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viti bloccanti, il successivo inserimento di quelle convenzionali cercherà di comprimere la placca contro l’osso, mentre le viti bloccanti la mantengono in una posizione fissa rispetto alla superficie ossea. Le viti convenzionali possono venire utilizzate per ottenere una compressione dinamica seguita dall’inserimento di viti bloccanti per realizzare un costrutto ad angolo fisso. In determinati casi, si può impiegare un gruppo di LCP-viti bloccanti in uno dei segmenti ossei (per avere la stabilità angolare delle viti nell’osso morbido) ed un gruppo di LCP-viti convenzionali nell’altro (per ottenere una compressione dinamica) (Fig. 3).

Indirizzo dell’autore per la corrispondenza: Ross H. Palmer Colorado State University Veterinary Medical Center Fort Collins, Colorado USA


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Conduzione di studi clinici in ortopedia: evidenza orientata alla malattia verso l’evidenza orientata al paziente Ross H. Palmer DVM, MS, Dipl ACVS, Fort Collins, Colorado USA

Noi siamo uomini di scienza e, in quanto tali, ricerchiamo dei dati accurati su cui sia possibile formulare solide raccomandazioni terapeutiche per la salute, il comfort, il tipo di vita ed il benessere dei nostri pazienti. Questo è l’intento della medicina basata sull’evidenza (EBM), che è stata definita come “impiego coscienzioso, esplicito ed oculato delle migliori evidenze disponibili per prendere delle decisioni relative alla cura di singoli pazienti.” Al fine di preparare i clinici ad analizzare in modo critico le informazioni disponibili, le progettazioni degli studi sono state distinte in classi che vanno da un valore massimo di evidenza (classe I) ad uno minimo (classe IV):1 Classe

Descrizione dell’origine dell’evidenza

I

Molteplici prove cliniche randomizzate, alla cieca, controllate con placebo

II

Prove cliniche di elevata qualità condotte utilizzando controlli storici

III

Casistiche non controllate

IV

Opinioni di esperti, estrapolazione acritica dalla letteratura (bench research o ricerca non clinica) o studi fisiologici

Oltre a ricercare forti evidenze (di classe I e II) attraverso le prove cliniche, i veterinari devono sforzarsi di trovare rilevanti evidenze significative che gli aiutino a rispondere alle domande che pongono loro i clienti che possiedono animali da compagnia. In effetti, uno dei passi essenziali dell’efficace utilizzazione dell’EBM è quello di preparare i clinici ed i ricercatori clinici a porsi le domande giuste. Per raggiungere questo scopo e per valutare la rilevanza, l’utilità e la significatività dei risultati delle prove cliniche per i pazienti è utile servirsi dell’acronimo “PICO”.2 • P Paziente/problema – i risultati dello studio riguardano il mio paziente? • I Intervento – gli interventi valutati nello studio possono essere presi in considerazione per il mio paziente? • C Confronto – con che cosa sono confrontati i risultati dell’intervento? Un gruppo di controllo? • O – esito Ottenuto – quale esito è importante per il paziente (o, in medicina veterinaria, per proprietario dell’animale)? Sfortunatamente, spesso ci sono delle incomprensioni fra noi ed i nostri clienti per quanto riguarda l’importanza dei risultati ottenuti dalla chirurgia ortopedica.3 Noi possiamo

spesso farci un’idea di quale esito sia importante per i nostri singoli clienti ascoltando le loro domande. Perché il proprietario chiede i nostri servizi per questa condizione? Qual è l’esito che desidera ottenere? Cosa definirà un “successo” o un “fallimento” del trattamento? La nostra relazione con i nostri pazienti e le loro famiglie non è diversa da quella di un pediatra. Insieme prendiamo decisioni per i nostri pazienti sul loro benessere, “per procura” se volete. L’ortopedia presenta caratteristiche esclusive, in quanto è raro che i nostri trattamenti influiscano sulla mortalità. Piuttosto, i nostri clienti spesso ci presentano i loro animali nella speranza che possiamo migliorare la loro qualità della vita riferita alla salute (HRQL, health related quality of life) contrastando la naturale progressione della malattia/trauma. Di conseguenza, uno studio ben progettato e capace di raccogliere dati obiettivi, ma con uno scarso riferimento diretto ai problemi dei nostri clienti, potrebbe non avere una grande utilità reale per consentirci di rispondere alle loro domande. “Riuscirà a salire le scale?” “Sarà ancora in grado di fare una camminata di 10 miglia?” “Potrò portarlo alle gare?”; queste sono le domande che ci pongono i nostri clienti. Per quanto riguarda la displasia dell’anca del cane in stadio giovanile (jCHD), i nostri studi clinici spesso misurano parametri come l’inclinazione della DAR, l’angolo acetabolare, i punteggi OA radiografici ed i dati rilevati mediante piastre di forza come misurazioni surrogate di ciò che vogliamo sapere. Ci vuole uno sforzo di immaginazione relativamente ampio per passare da una qualsiasi di queste misure a delle risposte accurate alle domande dei nostri clienti. Questo è spesso il caso degli studi medici dove prendiamo in considerazione quella che è stata definita l’evidenza orientata alla malattia (DOE, disease-oriented evidence). Al contrario, le prove scientifiche d’interesse per il paziente (POEM, patient-oriented evidence that matters) misurano la morbilità o mortalità del paziente, la sua capacità di effettuare alcune attività significative e misurabili secondo il tipo di vita che conduce o il suo stato di salute in funzione della qualità della vita. Poiché eseguire prove cliniche su vasta scala in cieco randomizzate con placebo (classe I) richiede tempo e denaro, noi cerchiamo idealmente di mettere a punto degli studi che forniscano delle risposte significative a domande rilevanti circa gli interventi applicabili che interessino un grande gruppo di pazienti. I questionari relativi alla salute in funzione della qualità della vita vengono usati con frequenza sempre maggiore negli studi di ortopedia umana per questo scopo. Essenzialmente, prima di sforzarsi a cercare delle risposte obiettive attraverso prove cliniche randomizzate,


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dobbiamo valutare le nostre domande per essere sicuri che le risposte fornite dallo studio abbiano buone probabilità di risultare significative e rilevanti anche per i nostri clienti. Cosa vogliamo davvero sapere? Cosa vogliono davvero sapere i nostri clienti, proprietari di animali da compagnia? I questionari relativi alla qualità della vita in funzione della salute sono uno strumento che viene utilizzato nelle prove cliniche randomizzate per arrivare alle prove scientifiche d’interesse per il paziente. Lo sviluppo di un simile strumento è un processo rigoroso. Il questionario deve quindi essere validato per essere certi che misuri ciò che si intende misurare attraverso uno spettro demografico di proprietari di animali e nell’arco di un dato periodo di tempo. Il processo di sviluppo del questionario HRQL richiede che i ricercatori identifichino i comportamenti del paziente che un dato spettro demografico di proprietari di animali definisce come misurabili, descrivibili e significativi riguardo alla qualità della vita dei loro compagni dal punto di vista della condizione sanitaria presa in esame. In questa sede viene descritto uno di questi metodi attualmente utilizzato presso la Colorado State University. Il processo inizia con una serie di colloqui con i clienti al fine di identificare questi comportamenti significativi e misurabili dei pazienti. Si sviluppa un elenco di termini positivi e negativi frequentemente utilizzati dai proprietari per descrivere ognuno di questi comportamenti, al fine di facilitare la loro misurazione nel questionario HRQL definitivo. Questi elementi descrittivi vengono ottenuti dai proprietari di animali ponendo loro dapprima parecchie domande generiche “di tipo aperto”, incoraggiandoli a descrivere lo stato di salute attuale del loro animale e quello normale che aveva prima dell’insorgenza della condizione medica che lo ha colpito. Successivamente, si conduce con ciascun proprietario un’intervista semistrutturata. Questa contiene una serie di domande relative a comportamenti osservabili degli animali presi in considerazione. Per ogni domanda si ha una serie di “suggerimenti fluttuanti” che facilitano la capacità dei proprietari di fornire in caso di necessità elementi descrittivi positivi e negativi. Lo scopo di questo processo è quello di sviluppare un elenco di termini che sia costantemente utilizzato in un dato spettro demografico di proprietari da compagnia per descrivere i risultati positivi e negativi riguardo ad ogni comportamento osservabile da loro ritenuto significativo nelle condizioni di salute del loro animale con riferimento alla qualità della vita. Una volta che il questionario HLQR sia stato sviluppato, ci sono parecchi modi per esaminare la validità dello strumento, uno dei quali è la validazione “test-ritest”. È importante rendersi

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conto che alcuni questionari HLQR possono essere validi per un gruppo demografico di proprietari ma non per un altro, a causa delle variazioni nel lessico regionale e/o di quello che essi considerano significativo e importante per il tipo di vita che i loro animali conducono. Secondo la nostra esperienza, nel corso del processo di sviluppo di questi questionari HLQR diventa rapidamente evidente se le prove cliniche pubblicate in precedenza e relative agli interventi terapeutici per una data condizione medica abbiano risposto o meno alle domande che ogni cliente/proprietario riteneva significative. Ad esempio, in uno degli studi HRQL attualmente in corso, si è andato rapidamente evidenziando che il risultato terapeutico desiderato era la capacità del cane di tornare ad un livello di attività che non comportasse delle limitazioni (assenza di dipendenza fisica dai proprietari per il confinamento del paziente) senza che ciò determinasse l’insorgenza della zoppia. Gli studi pubblicati in precedenza sui punteggi radiografici dell’osteoartrite, sui punteggi di valutazione della zoppia misurati dai veterinari od anche sui dati ottenuti mediante piastra di forza al passo non forniscono parametri di misurazione ideali per questa condizione, perché per presumere che un dato animale tragga vantaggio in modo significativo da uno qualsiasi degli interventi valutati è necessario effettuare delle deduzioni relativamente grandi. I nostri clienti hanno affermato che il ritorno di ognuno di questi parametri ai livelli normali “pre-lesione” sarebbe privo di significato a fronte del riscontro da parte loro del fatto che, in assenza di un confinamento del paziente, la zoppia ricompare.

Bibliografia 1.

2.

3.

Berg AO. Dimensions of evidence, in Geyman JP, Deyo RA, Ramsay SD (eds): Evidence-based clinical practice, Boston: Butterworth-Heinemann, 2000, pp 21-27. Turning information needs into questions, Handbook of EvidenceBased Veterinary Medicine, Cockcroft P, Holmes M (eds), Blackwell Publishing, 2003 Rosenberger PH, et al. Shared decision-making, preoperative expectations, and postoperative reality: differences in physician and patient predictions and ratings of knee surgery outcomes. J Arthro Rel Surg 21:562-569, 2005.

Indirizzo per la corrispondenza: Ross H. Palmer Colorado State University Veterinary Medical Center Fort Collins, Colorado USA


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Le più comuni alterazioni ematologiche del gatto: le anemie Saverio Paltrinieri Med Vet, PhD, Dipl ECVCP, Milano

Introduzione

Anemie non rigenerative

Da un punto di vista pratico risulta speso difficile identificare la causa delle anemie nel gatto. In linea generale, infatti, l’inquadramento fisiopatologico delle anemie, indispensabile per risalire alla causa ed impostare una corretta terapia, prevede una prima classificazione in forme rigenerative e non rigenerative: tale classificazione, nel gatto, è complicata dal fatto che parametri classificativi importanti, come anisocitosi, sferocitosi ed indice di produzione reticolocitaria, non sono facilmente valutabili. I più recenti contaglobuli laser possono permettere di risolvere parzialmente tali problemi, ma la completezza delle informazioni rilevabili ematologicamente rimane sicuramente inferiore a quella rilevabile nel cane o in altre specie animali. A ciò si aggiunge il fatto che sono frequenti le infezioni da virus quali i virus dell’immunedeficienza felina (FIV) e della leucemia felina (FeLV), in grado di influenzare l’eritropoiesi sia a livello midollare che periferico. La distinzione tra forme rigenerative e non, può essere basata, su dati clinico-anamnestici e su test quali l’esame del midollo osseo, il profilo sideremico e biochimico, in corso di sospette forme non rigenerative, ed il test di Coombs in caso di sospette forme rigenerative. A livello ematologico le forme non rigenerative sono caratterizzate da anemia normocitica normocromica in assenza di reticolociti e di alterazioni morfologiche eritrocitarie evidenti, eccezion fatta, in alcuni casi, per un aumento dei rouleaux eritrocitari. Nelle forme rigenerative l’anemia tende ad essere macrocitica ipocromica, con presenza di anisocitosi e policromasia (che a loro volta riflettono la presenza di reticolociti), e possono essere rilevabili eritrocitari morfologicamente anomali quali sferociti (eritrociti di piccole dimensioni e particolarmente colorabili in quanto ricchi di emoglobina), eccentrociti, corpi di Heinz (segni di ossidazione dell’emoglobina), corpi di Howell-Jolly (residui di materiale nucleare), nonché eritrociti nucleati. La corretta valutazione della reticolocitosi che, come detto, è indispensabile per classificare come rigenerativa un’anemia, è complicata dal fatto che già in condizioni fisiologiche il gatto presenta reticolociti circolanti, caratterizzati, nelle colorazioni con nuovo blu di metilene o blu brillante di cresile, dalla presenza di piccole strutture puntiformi e vengono pertanto definiti “puntati” e vanno differenziati da quelli “aggregati” o “reticolati”, caratterizzati da grossi reticoli intracitoplasmatici. I due tipi di reticolociti andrebbero quindi valutati separatamente, e solo gli aggregati sono indicativi di rigenerazione.

Le forme non rigenerative sono spesso caratterizzate da anemia da lieve a marcata, a comparsa lenta e progressiva, tanto che l’organismo ha il tempo di adattarsi a tale situazione, e la sintomatologia è frequentemente lieve, se paragonata alla gravità dell’anemia. Le anemie non rigenerative più frequenti nel gatto sono quelle da infiammazione cronica, seguite dalla depressione midollare associata a patologie sistemiche e dalle forme tossiche. Queste ultime sono spesso diagnosticabili solo per esclusione, e spesso risulta impossibile giungere alla sostanza chimica responsabile della patologia. Sono invece rare le forme carenziali, in particolar modo quelle da carenza di ferro, che possono essere presenti solo in seguito ad emorragie croniche “a stillicidio” conseguenti, ad esempio, alla presenza di tumori ulcerati. In questi casi l’anemia tende ad assumere un aspetto microcitico ipocromico, e può essere presente trombocitosi, fenomeno peraltro difficilmente apprezzabile nel gatto, nel quale la conta automatizzata delle piastrine risulta spesso problematica. Le forme da infiammazione cronica sono invece particolarmente frequenti, sia in conseguenza di processi infiammatori aspecifici sia in corso di patologie specifiche quali la peritonite infettiva felina (FIP) e le già citate FIV e FeLV. In tali situazioni si osserva anemia normocitica normocromica non rigenerativa, associata a leucocitosi neutrofila e linfopenia (solo in corso di FIV e/o FeLV può contemporaneamente essere presente leucopenia). Tra le patologie sistemiche in grado di indurre anemia rientra soprattutto l’insufficienza renale cronica, caratterizzata da anemia normocitica normocromica di particolare gravità imputabile alla mancata o ridotta produzione di eritropoietina da parte del rene, ed i rari casi di ipotiroidismo ed ipocrticosurrenalismo. Infine, può essere rilevata anemia non rigenerativa da depressione midollare in associazione a tumori, soprattutto se di origine mieloide o eritroide, o in corso di mielodisplasie: anche tumori non ematologici però possono indurre anemia, nel quadro della depressione metabolica sistemica che caratterizza le forme di cachessia neoplastica. Da quanto sopra esposto si evince che in tutte le forme di anemia non rigenerativa del gatto è importante eseguire esami sierologici per FIV e FeLV, e valutare con attenzione non solo i dati relativi all’eritrogramma ma anche tutte le altre alterazioni eventualmente presenti nell’esame emocromocitometrico. L’elettroforesi delle sieroproteine può essere utile per confermare la presenza di processi infiammatori nonché per rilevare quadri elettroforetici specifici delle patologie sopra accennate (es: gammopatia policlonale in corso di


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FIP). Nel caso l’anamnesi o gli aspetti clinici non consentano di formulare ipotesi concrete circa la patogenesi dell’anemia, è di fondamentale importanza il ricorso all’esame citologico del midollo, che può permettere quantomeno di valutare il rapporto mieloide/eritroide (M:E) e rilevare così “all’origine” il potenziale rigenerativo midollare, la possibile presenza di depressioni midollari poli- o pancitopeniche, o un’eventuale sostituzione dei precursori eritroidi da parte di elementi mieloidi proliferanti. In presenza di un’aumento del rapporto M:E è importante poi valutare eventuali segni di displasia sia a carico della linea eritroide, che della linea mieloide, in modo da poter classificare l’eventuale alterazione midollare come reattiva (es. infiammatoria) o displastica/neoplastica (mielodisplasie o leucemie)

Anemie rigenerative Tra le forme rigenerative, oltre a quelle conseguenti ad emorragie acute, rientrano quelle emolitiche, la cui diagnosi eziologica può risultare particolarmente difficile, proprio per i problemi metodologici riportati in introduzione. Sono spesso caratterizzate da sintomatologia particolarmente grave, nonché da ittero e/o splenomegalia, anche se quest’ultimo riscontro è sicuramente meno comune nel gatto che nel cane per la diversa struttura anatomo-funzionale della milza felina, che la rende meno efficiente nei processi di emocateresi. Tra le possibili cause di anemia emolitica nel gatto rientrano quelle chimiche, soprattutto di tipo ossidativo, particolarmente frequenti nel gatto a causa della particolare struttura chimico-fisica dell’emoglobina, che, essendo ricca di ponti disolfuro risulta particolarmente sensibile alle ossidazioni. Tra le sostanze in grado di ossidare l’emoglobina rientrano il glicole fino a poco tempo fa contenuto in molti alimenti umidi, cipolle, farmaci come il propofol o il paracetamolo, per il quale non è presente, nel gatto, un sistema di detossificazione epatico simile a quello presente in altre specie animali, per cui anche dosi non particolarmente elevate possono risultare tossiche. Oltre ai tipici segni di anemia rigenerativa (anemia macrocitica ipocromica, con reticolocitosi evidente), in tali forme si possono rilevare anche segni di ossidazione dell’emoglobina, rappresentati da metemoglobinemia (che conferisce una colorazione brunastra al sangue) e presenza di eccentrociti o, più frequentemente, corpi di Heinz, rilevabili, questi ultimi, già in sede di colorazione routinaria con May Grünwald Giemsa, ma meglio apprezzabili dopo colorazione con nuovo blu di metilene o blu bril-

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lante di cresile. Un’elevata concentrazione di corpi di Heinz è rilevabile anche in corso di linfoma e diabete. L’altro grosso gruppo di anemie rigenerative nel gatto è rappresentato dalle forme immunomediate, dovute a produzione di anticorpi contro farmaci presenti sulla membrana eritrocitaria o antigenicamente simili ad antigeni eritrocitari, o ad agenti viventi quali gli emoplasmi felini (Mycoplasma felis e, in minor misura, M. haemominutum, entrambi precedentemente classificati come Haemobartonella felis) o, ancora una volta, il virus FeLV. Esistono poi forme immunomediate di natura autoimmune, nonché la cosiddetta isoeritrolisi neonatale, che colpisce gattini con gruppo sanguigno A o AB che ricevano colostro da madri B. In tutte queste forme, oltre a rilevare i classici segni di anemia rigenerativa, può essere importante rilevare sferociti circolanti (peraltro difficilmente apprezzabili in strisci di sangue felino) o schistociti (frammenti eritrocitari residuo della lisi extravascolare). Gli eventuali emoplasmi possono essere rilevati in strisci colorati con May Grünwald Giemsa come strutture puntiformi, singole o aggregate a formare “catenelle” sul bordo esterno dell’eritrocita: il legame degli emoplasmi con l’eritrocita è però particolarmente labile e dipendente dalla presenza di ioni calcio, e può venire meno dopo miscelazione del sangue con EDTA, che chela il calcio: per tale motivo, in caso di forme rigenerative, può essere opportuno effettuare uno striscio con sangue fresco (prima di porlo in provette con EDTA). Nelle forme a sospetta origine immunomediata, poi, può essere utile ricorrere al test di Coombs, che rileva la presenza di anticorpi anti-eritrociti sulla membrana dei globuli rossi circolanti, o alla versione più “moderna” di tale test, rappresentata dalla ricerca degli anticorpi anti-eritrocitia mediante citofluorimetria. Va poi tenuto presente che esistono forme immuno-mediate nelle quali vengono prodotti anticorpi non tanto contro gli eritrociti circolanti, quanto contro i loro precursori midollari. In tali situazioni, frequenti in corso di FeLV, si possono osservare anemie apparentemente non rigenerative nelle quali, però il test di Coombs risulta positivo, ed il midollo osseo evidenzia una notevole iperplasia eritroide, associata ad un blocco maturativo a livello dello stadio di maturazione contro il quale si sono generati anticorpi.

Indirizzo per la corrispondenza: Dipartimento di Patologia animale, Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria, Via Celoria 10, Milano Tel. 02 50318103 - saverio.paltrinieri@unimi.it


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Le più comuni alterazioni ematologiche del gatto: i disordini linfomieloproliferativi Saverio Paltrinieri DVM, PhD, Dipl ECVCP, Milano

Introduzione Come in tutte le specie animali, anche nel gatto sono rilevabili sia linfomi che leucemie, le quali possono riguardare sia la linea linfoide che quella mieloide. Tali forme sono spesso associate ad infezioni da virus della leucemia felina (FeLV), e sono caratterizzate da anemia normocitica normocromica non rigenerativa e, frequentemente, da notevole aumento del numero di una delle classi leucocitarie circolanti. Sia le leucemie mieloidi che quelle linfoidi, vengono definite acute quando le cellule circolanti presentano spiccate caratteristiche di atipia, e croniche quando le cellule neoplastiche riescono a completare il loro processo maturativo, per cui in circolo si rinvengono numeri molto elevati di cellule morfologicamente normali. Le forme croniche hanno un decorso più lento, anche se poi tendono a sfociare in “crisi blastiche” indistinguibili dalle forme acute sia dal punto di vista cito-morfologico che clinico. I linfomi sono invece associati solo raramente a linfocitosi periferica o alla presenza di cellule linfoidi atipiche in circolo. Ciò avviene solo quando il tumore è particolarmente esteso, e viene ad interessare, oltre agli organi linfoidi secondari, anche il midollo (linfoma stadio V). Un’altra alterazione linfomieloproliferativa frequente è rappresentata dalle mielodisplasie o dismielopoiesi, che possono essere secondarie a processi periferici (infiammazione, fenomeni immuno-mediati, ecc..) oppure essere primarie (MyeloDysplastic Syndrome o MDS). Quest’ultimo fenomeno è particolarmente frequente nel gatto, ed è spesso associato a positività a FeLV. La morfologia delle cellule circolanti è quindi uno degli elementi chiave per classificare le neoplasie come linfoidi o mieloidi e come acute o croniche. Nelle forme acute, però, le atipie morfologiche sono spesso tali per cui la semplice morfologia non permette di risalire al tipo cellulare coinvolto, per cui è necessario a ricorrere ad ulteriori approfondimenti diagnostici quali le colorazioni citochimiche, immunocitochimiche o la citofluorimetria. Le colorazioni citochimiche, particolarmente utili nelle forme mieloidi, evidenziano la presenza nelle cellule di particolari enzimi: le diverse linee cellulari vengono quindi identificate in base al tipo di enzima presente. Un potenziale limite all’applicazione delle tecniche citochimiche deriva dal fatto che le informazioni circa le caratteristiche citochimiche delle cellule feline sono scarse, soprattutto in corso di neoplasia, situazione nella quale, anche in altre specie animali, il pattern citochimico può risultare differente da quello rilevabile nelle corrispondenti linee cellulari non neoplastiche. L’immunocitochimica su vetrino o la citofluorimetria su sangue intero sono invece

particolarmente utili in corso di neoplasie linfoidi, nelle quali le cellule vengono identificate come appartenenti ad uno specifico sottotipo linfoide sulla base degli antigeni che esprimono sulla loro membrana (es: CD5 o CD3 per i linfociti T, CD21 o CD79a per i linfociti B, CD4 o CD8 per le diverse sottopopolazioni dei linfociti T, ecc…). Tali antigeni vengono riconosciuti grazie ad anticorpi specifici e grazie un sistema di rilevazione colorimetrico o basato sulla fluorescenza. Nel gatto, però, l’applicazione di tali tecniche è fortemente limitata dalla scarsa disponibilità di anticorpi specifici per gli antigeni felini, per cui è spesso difficile andare al di là di una classificazione in forme B, T e T4 o T8. Nel caso i rilievi periferici ottenuti con un esame emocromocitometrico non permettano di classificare la patologia in atto, è importante ricorrere all’esame citologico del midollo osseo ed eventualmente degli organi linfoidi secondari, soprattutto nel caso questi appaiano interessati dal processo patologico (es: linfoadenomegalia, splenomegalia). In linea generale, l’esame del midollo osseo in corso di neoplasie ematopoietiche permette di rilevare una popolazione relativamente monomorfa di elementi neoplastici che tendono a sostituire le altre linee maturative midollari. La diagnosi di leucemia, nelle forme acuta, viene emessa quando il numero di blasti a livello midollare supera il 30% e spesso anche a livello midollare si rilevano atipie morfologiche come asincronie di maturazione nucleo-citoplasmatiche ed evidenti caratteri citologici di malignità. Le MDS, invece, presentano una percentuale di blasti midollare inferiore a quella delle leucemie (tra il 5 ed il 30%) e possono essere caratterizzate anche dalla presenza di blasti circolanti (anche in questo caso in percentuale inferiore al 5%). Anche sul midollo osseo o sul sangue midollare è poi possibile applicare le colorazioni citochimiche/immunocitochimiche o la citofluorimetria per perfezionare la diagnosi e la classificazione delle forme leucemiche o mielodisplastiche.

Classificazione dei linfomi e delle leucemie linfoidi Le forme leucemiche, come in altre specie animali, vengono classificate modulando il sistema di classificazione French-American-British (FAB) messo a punto nella specie umana. Tale classificazione suddivide ulteriormente le forme linfoidi acute in tre sottoclassi in base alle caratteristiche morfologiche, mentre le forme linfoidi croniche formano un unico gruppo omogeneo, caratterizzato dalla presenza di linfocitosi estrema (fino a 100,000/µl) in assenza di alterazioni


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morfologiche nelle cellule circolanti. Gli esami citofluorimetrici solitamente evidenziano un immunofenotipo T, soprattutto nelle forme croniche, ed in particolare T8, mentre nel caso di linfomi si riscontrano sia immunofenotipi T, soprattutto nelle forme FeLV correlate, sia immunofenotipi B, soprattutto nelle forme a partenza dall’apparato digerente. Per quanto riguarda i sistemi di classificazione dei linfomi, sono state nel tempo proposti diversi sistemi classificativi, anche in questo caso derivati dai sistemi di classificazione dei linfomi non Hodgkin dell’uomo. I sistemi più usati in questo senso sono quelli basati sulle caratteristiche morfologiche delle cellule e sul tipo di criteri di malignità presenti negli aspirati di organi linfoidi o neoformazioni interessate dalla patologia. A questo sistema di classificazione se ne affianca un altro, più decisamente clinico, che suddivide i linfomi in cinque stadi in funzione dell’estensione della patologia nell’organismo, dallo stadio I, in cui la patologia è confinata ad un unico linfonodo, allo stadio V, che interessa più organi linfoidi ed il midollo, con conseguente invasione ematica da parte delle cellule neoplastiche. Quest’ultimo stadio è clinicamente ed ematologicamente indistinguibile dalle leucemie linfoidi acute e in particolare dalla loro variante linfoblastica, nella quale i linfociti atipici si rilevano in sangue ed organi linfoidi ma la localizzazione primaria della neoplasia è a livello midollare. Un’ultima forma di linfoma e/o leucemia rilevabile con una certa frequenza nel gatto è la Large Granular Leukemia (LGL), nella quale si possono rilevare in circolo o in aspirati di neoformazioni intestinali o spleniche, linfociti che appaiono, per l’appunto, caratterizzati da grossi granuli basofili citoplasmatici. Tali cellule sono spesso linfociti nonT non-B normalmente coinvolte in meccanismi di difesa cellulo-mediata e possono aumentare in circolo anche in presenza di stimoli antigenici cronici di diversa natura, per cui il loro riscontro non è sempre indicativo di leucemia, anche se, nel gatto, le vere e proprie leucemie LGL presentano di solito alterazioni morfologiche tali da non lasciare dubbi circa l’origine neoplastica.

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le sottoclassificare le forme mieloidi acute in leucemie indifferenziate, granulocitiche (mielocitiche), monocitiche, mielomonocitiche, megacariocitiche ed eritroleucemie. Tra le forme croniche vengono invece riconosciute le leucemie granulocitiche neutrofiliche, eosinofiliche, basofiliche (particolarmente rare), le leucemie monocitiche, la policitemia vera e la trombocitemia essenziale (le ultime due a carico di eritrociti e piastrine, rispettivamente). Come accennato in precedenza, mentre può non essere difficile classificare le leucemie mieloidi come acute o croniche, la semplice valutazione morfologica può non essere sufficiente a differenziare tra loro le diverse leucemie mieloidi acute e dev’essere accompagnata da analisi citochimiche. Allo stesso modo, non è sempre facile differenziare le forme mieloidi croniche da forme reattive (es: leucemia granulocitica cronica e leucocitosi neutrofiliche estreme; leucemia eosinofilica cronica e sindromi ipereosinofiliche). In questo caso sia la forma leucemica che quella reattiva sono spesso caratterizzate dalla presenza in circolo di un elevato numero di cellule morfologicamente normali ed anche a livello midollare si riscontrerà un iperplasia dei precursori della linea celullare interessata. La diagnosi differenziale in questo caso deve essere basata più sull’evidenziazione (o sull’esclusione) di un eventuale fenomeno primario che può giustificare la presenza di una forma reattiva.

Classificazione delle sindromi mielodisplastiche

Classificazione dei linfomi e delle leucemie mieloidi

Le sindromi mielodisplastiche vengono considerate forme preleucemiche che interessano solitamente una o più linee cellulari, per cui il sangue periferico presenta di solito una bi- o tricitopenia con presenza di elementi atipici (fino al 5% di blasti), mentre il midollo appare ipercellulare. Sulla base sia dei riscontri ematologici che dell’andamento clinico, si riconoscono quattro forme di MDS: la forma “con eccesso di blasti” (MDS-EB), la forma “con citopenia refrattaria” (MDS-RC), la forma “con predominanza di cellule eritroidi (MDS-Er) e la leucemia mielomonocitica cronica (CMMol), un tempo classificata come leucemia, oggi più propriamente ritenuta una forma mielodisplastica.

Anche le leucemie mieloidi vengono classificate secondo la classificazione FAB: sia le forme acute che quelle croniche vengono sottoclassificate in base alla linea cellulare di appartenenza: dato che alla linea “mieloide” vengono ascritti tutti gli elementi cellulari tranne quelli linfoidi, è possibi-

Indirizzo per la corrispondenza: Dipartimento di Patologia animale, Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria, Via Celoria 10, Milano Tel. 02 50318103 - saverio.paltrinieri@unimi.it


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La cardiomiopatia ipertensiva nel cane Marco Poggi Med Vet, Imperia

Michele Borgarelli, Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Card) Grugliasco TO

INTRODUZIONE L’ipertensione sistemica è stata da anni descritta in medicina veterinaria, ma solo recentemente, grazie al diffondersi di metodiche diagnostiche di facile applicabilità clinica e alla presenza di una popolazione animale geriatrica in costante crescita, il suo contributo alla patologia animale inizia ad essere pienamente compreso. Le più comuni cause di ipertensione nel cane e nel gatto sono rappresentate dalle patologie renali e dalle endocrinopatie, mentre la forma primaria o essenziale rappresenta un evento raro. Le manifestazioni cliniche possono essere riferibili sia alla patologia sottostante, sia ai danni dei cosiddetti “organi- bersaglio” occhio, rene, sistema nervoso e cardiovascolare. Le alterazioni cardiache in corso di ipertensione sono state ampiamente studiate e documentate in medicina umana, dove è riconosciuta una vera e propria patologia denominata “Miocardiopatia ipertensiva” (McIp)1. In medicina veterinaria esistono lavori che documentano le modificazioni cardiache in corso di ipertensione nei gatti. Nel cane, se si escludono gli studi su modelli sperimentali, non ci sono al momento attuale studi sulla cardiomiopatia ipertensiva, inoltre nella pratica clinica queste alterazioni possono essere concomitanti con altre frequenti patologie cardiache (es. endocardiosi mitralica).

FISIOPATOLOGIA La patogenesi della McIp è influenzata da diversi fattori: Fattori emodinamici: tra i principali vi è l’incremento del carico di pressione, prodotto essenzialmente dalla pressione sistolica, che determina un aumento dello stress parietale (legge di Laplace). Vari studi hanno evidenziato che la componente sistolica della pressione arteriosa è la principale responsabile dell’ipertrofia ventricolare sinistra (IVS), mentre la pressione differenziale sisto-diastolica è il maggior determinante dell’ipertrofia vascolare (ispessimento medio-intimale). La rigidità dell’albero arterioso può contribuire a promuovere il rimodellamento concentrico con meccanismi però non ancora del tutto noti2, la rigidità arteriosa accresce, infatti, la velocità dell’onda sfigmica e induce un ritorno più precoce delle onde riflesse causando un aumento del picco di pressione in telesistole. Carico di volume e stato contrattile devono inoltre essere considerati in quanto è dimostrato3 come le modificazioni morfologiche evidenziate dal cuore in caso di ipertensione, riflettono l’interazione fra pressione arteriosa, carico volu-

metrico e stato isotropo del miocardio. Lo stimolo all’IVS è proporzionale all’elevazione dei valori pressori se la gittata sistolica e la contrattilità si mantengono costanti, lo stimolo è invece amplificato se il volume di eiezione aumenta e lo stato isotropo depresso o al contrario attenuato se il volume di riempimento si riduce e/o la contrattilità aumenta. Fattori non emodinamici: nell’uomo numerosi studi hanno evidenziato l’influenza del sesso, età, obesità, assunzione di sodio, genotipo ecc. nella patologia cardiovascolare in corso di ipertensione. Non esistono studi clinici nel cane per confermare o smentire l’influenza di tali fattori in questa specie. Il discorso diventa più complesso quando vengono presi in considerazione i fattori neuro-ormonali. Per meglio comprendere l’importanza di questi fattori è utile ricordare che: il miocardio normale è composto da diversi tipi cellulari: i miociti rappresentano un terzo della popolazione cellulare, mentre i restanti due terzi sono i non cardiomiociti (cellule endoteliali, cellule muscolari lisce dei vasi e fibroblasti localizzati sia a livello interstiziale che negli spazi perivascolari). L’ipertrofia ventricolare (aumento della massa miocardia) è determinata dalla crescita dei miociti cardiaci, che può essere accompagnata o meno dalla crescita dei non cardiomiociti. L’omogeneità strutturale nel cuore normale adulto è governata dall’equilibrio di sostanze stimolatrici (AngII, aldosterone, desossicorticosterone, endoteline e catecolamine) o inibitrici la crescita cellulare (NO, bradichinine, prostaglandine, peptidi natriuretici e glucocorticoidi) queste sostanze regolano la crescita cellulare, l’apoptosi, il fenotipo e il comportamento metabolico (es. il turnover di collagene). Le sostanze stimolanti sono attivate in fase di riparazione dei tessuti e includono infiammazione e fibrogenesi. La capacità di un organo di determinare la sua composizione cellulare e strutturale è denominata omeostasi tissutale ed è basata da un equilibrio dinamico di crescita e morte4. Negli atleti la crescita dei compartimenti muscolari e non muscolari sono tra loro proporzionati e l’omogenicità tissutale è preservata. In questo caso l’ipertrofia è adattativa e non è associata al rischio di insufficienza cardiaca e morte improvvisa. La massa ventricolare sinistra (MVS) negli atleti è comparabile all’ipertrofia vista nelle forme di ipertensione lieve o moderata, dove però l’omogenicità tissutale non è mantenuta e riscontriamo fibrosi perivascolare che circonda le coronarie e si estende ai contigui spazi interstiziali. Questo rimodellamento in corso di ipertensione sistemica è stato riscontrato anche nel ventricolo destro. Il rimodellamento strutturale della matrice compromette la reattività delle coronarie, aumenta la rigidità tissutale (stiffness) e aumenta i rischi di ischemia e infarto, disfunzione sisto-diastolica insufficienza cardiaca e aritmie che


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possono portare alla morte improvvisa.Non è la quantità, ma la qualità del miocardio che differenzia l’ipertrofia dell’atleta dalla cardiomiopatia ipertensiva4. La fibrosi del miocardio in corso di ipertensione è stata evidenziata nel cane in condizioni sperimentali5.

ECOCARDIOGRAFIA Diagnosi di ipertrofia ventricolare sinistra Si definisce IVS l’aumento della MVS, sia che essa si sviluppi intorno ad una cavità ventricolare normale, ridotta o ingrandita. Gli spessori parietali del ventricolo saranno aumentati, o potranno essere anche normali ma distribuiti su una superficie più ampia del normale. Il termine ipertrofia ventricolare sinistra non è sinonimo di ispessimento parietale, ma è indicativo di una accresciuta massa miocardia distribuita intorno alla cavità ventricolare. Il metodo più utilizzato nella pratica clinica per la valutazione della MVS è quello ecocardiografico perché consente una stima attendibile degli spessori parietali e dei diametri ventricolari durante tutte le fasi del ciclo cardiaco, soprattutto grazie all’impiego della tecnica M-mode. Migliori risultati sono ottenuti quando le misurazioni sono fatte con il metodo della convenzione A.S.E. e il calcolo utilizzando la formula di Devereux 6. Il limite di questo metodo è l’assunto geometrico iniziale che attribuisce al ventricolo una forma geometrica regolare ellissoide, limite che aumenta ulteriormente nelle condizioni cliniche in cui i ventricolo sinistro ha perso la forma regolare (IVS asimmetrica, rimodellamento).

Valutazione della funzione sistolica del ventricolo sinistro I metodi ecocardiografici più comunemente usati per la valutazione della funzione sistolica ventricolare sinistra sono la determinazione della frazione di accorciamento (FA) e della frazione di eiezione (FE), metodi efficacemente usati in clinica solo in assenza di anomalie della cinetica segmentaria. Negli studi clinici, la frazione di accorciamento e la frazione di eiezione sono abitualmente misurate a livello dell’endocardio, il che riflette una dinamica di camera ma non necessariamente una stima diretta dell’accorciamento delle fibre miocardiche. Le fibre circonferenziali responsabili dell’accorciamento asse corto del ventricolo sono centroparietali tra due strati di fibre longitudinali, responsabile dell’accorciamento in asse lungo, il caso quindi di ipertrofia concentrica le fibre centroparietali possono mostrare una capacità contrattile ridotta mentre quelle endocardiche sono ancora integre nella loro funzione e quindi la FA può sovrastimare la reale funzione miocardica. La frazione di accorciamento centro parietale (mFA) può essere misurata con il metodo ecocardiografico utilizzando la formula descritta da De Simone7. L’utilizzo di questo parametro ha permesso di spiegare la differenza evidenziata tra gli studi sperimentali che evidenziavano una funzione ventricolare depressa in corso di IVS secondaria a sovraccarichi pressori, e gli studi clinici dove questa non veniva rilevata mediante l’utilizzo di altri indici ecocardiografici (FA e FE).

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Valutazione della funzione diastolica del ventricolo sinistro L’introduzione dello studio Doppler dei flussi transmitralici ha consentito di stimare in modo non invasivo la funzione diastolica ventricolare sinistra, valutazione di particolare importanza nell’esame di un soggetto iperteso. Nel soggetto iperteso non complicato, il pattern diastolico tipico si identifica con l’alterato rilasciamento del ventricolo sinistro, grado I di disfunzione diastolica (rapporto tra la velocità massima delle onde E/A < 1 e tempo di decelerazione dell’onda E e tempo di rilasciamento isovolumetrico aumentati). Questo stadio si manifesta tipicamente nella McIp anche prima dello sviluppo di IVS. Sfortunatamente i flussi transmitralici sono influenzati non solo dalle proprietà diastoliche del ventricolo sinistro ma da numerosi altri fattori come la frequenza cardiaca, il precarico, il ritardo atrio ventricolare, l’interazione ventricolare, le proprietà viscoelastiche e l’effetto pericardio quindi la corretta interpretazione dei flussi transmitralici prevede l’analisi di questi fattori8.

CONTRIBUTO PERSONALE Per questo studio sono state presi in considerazione retrospettivamente tre gruppi di cani, visitati presso il Dipartimento di Patologia Animale della Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino e una Clinica Veterinaria Privata da giugno 2004 e settembre 2005. Tutti i soggetti inclusi nello studio sono stati sottoposti a visita clinica completa, misurazione della pressione e ad esame ecocardiografico completo. Il primo gruppo comprende n°53 soggetti con pressione sistemica < 180 mmHg e senza segni di patologia cardiaca sia all’esame fisico, sia all’esame ecocardiografico. Il secondo gruppo n°15 soggetti con pressione sistolica ≥ 180 mmHg senza evidenze di malattie cardio-vascolari. Il terzo 44 soggetti con pressione sistolica ≥ 180 mmHg e con patologie cardiache concomitanti. Il segnalamento è riassunto in tabella 1. La popolazione è risultata distribuita normalmente (Shapiro Wilk Normality Test).

Tabella 1 - Segnalamento 1 Normotesi

2 > 180mmHg

N° soggetti

53

15

3 > 180mmHg con patol cardiaca 44

Maschi

25

9

28

Femmine

28

6

16

Anni range(mediana) Kg range (media)

1-13 (5)

2-16 (12)

3-17 (11)

1 – 70 (27,7)

3-49 (16)

3-45 (13,9)

22,6

60

70,4

77,4

40

29,6

100-170

180-280

180-260

131 ± 17

208,3 ± 24,6

204,7 ± 21,4

Taglie piccole < 15Kg (%) Taglie medio grandi > 15kg (%) Pressione sistemica Range mmHg Pressione sistemica Media DS mmHg


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Tabella 2 - Risultati 1 Normotesi

2 > 180mmHg

3 > 180mmHg e patol cardiaca

1 Vs 2

1 Vs 3

2 Vs 3

131 ± 17

208,3 ± 24,6

204,7 ± 21,4

p < 0,001

p < 0,001

NS

IVSd/BSA

1,36 ± 0,59

1,63 ± 0,79

1,56 ± 0,57

NS

NS

NS

IVSs/BSA

1,81± 0,78

2,30 ± 1,24

2,39 ± 1,19

NS

p < 0,05

NS

LVd/BSA

5,09 ± 2,21

5,6 ± 1,9

7,3 ± 2,88

NS

p < 0,001

p < 0,05

LVs/BSA

3,26 ± 1,15

3,47 ± 1,17

4,29 ± 1,71

NS

p < 0,001

p < 0,05

LVPWd/BSA

1,43 ± 0,91

1,91 ± 1,23

1,67 ± 0,60

NS

NS

NS

LVPWs/BSA

1,93 ± 1,02

2,34 ± 1,40

2,44 ± 0,88

NS

p < 0,05

NS

Stress diastol rel

3,77 ± 0,82

3,59 ± 1,53

4,51 ± 1,36

NS

p <0,05

p < 0,05

Stress sistol rel

1,86 ± 0,57

1,79 ± 0,71

1,92 ± 0,87

NS

NS

NS

Pressione Sistemica

h/r

0,54 ± 0,09

0,62 ± 0,21

0,47 ± 0,17

NS

NS

NS

FA

33,89 ± 8,65

35,27 ± 7,83

40 ± 10,71

NS

p < 0,05

NS

mFA

12,99 ± 2,86

12,97 ± 3,56

16,55 ± 4,70

NS

NS

NS

FE

62,94 ± 12,63

65,67 ± 10,55

70,16 ± 13,03

NS

p < 0,05

NS

EDV-i

74,79 ± 19,17

62,11 ± 22,42

112,26 ± 65,10

NS

p < 0,001

p < 0,001

ESV-i

28,09 ± 14,15

20,8 ± 11,12

33,44 ± 26,93

p < 0,05

NS

p < 0,05

LVM/BSA

146,39± 41,34

127,08 ± 74,27

150,10 ± 79,57

NS

NS

NS

0,72 ± 0,26

0,68 ± 0,16

1 ± 0,36

NS

p < 0,001

p < 0,001

Vel A

0,61± 0,18

0,74 ± 0,19

0,82 ±0,25

p < 0,05

p < 0,001

NS

E/A

1,21 ± 0,36

0,96 ± 0,29

1,27 ± 0,49

p < 0,05

NS

p < 0,05

DT

105,7± 28,7

111,5 ± 31,22

100,3 ± 26,1

NS

NS

NS

Vel E

I risultati sono schematizzati in tabella 2, tutti i parametri riferibili agli spessori parietali, alle dimensioni interne e alla massa ventricolare sono stati indicizzati alla superficie corporea (BSA) e su questi è stata poi successivamente eseguita l’analisi statistica. Per ogni variabile considerata è stata calcolata la statistica descrittiva e i valori sono stati espressi come media ± deviazione standard. I valori medi relativi alle variabili i gruppi di animali oggetto di studio sono stati testati con il Test t di Student per dati indipendenti con un livello di significatività α = 0,05. In accordo con quanto evidenziato in umana e in veterinaria i soggetti ipertesi hanno evidenziato un’età avanzata sottolineando come l’ipertensione sia essenzialmente una patologia tipica di una popolazione geriatrica inoltre nei soggetti ipertesi sono particolarmente rappresentati i soggetti di piccola taglia. L’analisi dei risultati tra il gruppo dei normotesi e degli ipertesi senza patologie cardiache non ha evidenziato segni di ipertrofia concentrica in quanto tutti gli spessori parietali e le dimensioni ventricolari in sistole e diastole non hanno evidenziato differenze statisticamente significative tra i due gruppi, mentre tra i parametri di funzionalità diastolica i soggetti ipertesi hanno evidenziato aumenti di velocità dell’onda A e diminuzione del rapporto E/A con differenze significative rispetto i soggetti normotesi, in base a questi dati possiamo dire che sebbene non fosse possibile stabilire da quanto tempo fosse presente lo stato ipertensivo la disfunzione diastolica appare precedere anche nel cane l’ipertrofia cardiaca in accordo a quanto già osservato nell’uomo. Per quanto riguarda il confronto tra il gruppo dei normotesi e quello degli ipertesi con patologia cardiaca, differenze significative riguardano i volumi e le pressioni di riempimento in quanto l’86,2% dei soggetti presentava endocardiosi e prolasso mitralico.

Limiti di questo lavoro sono l’impossibilità di stabilire da quanto tempo fosse presente lo stato ipertensivo e il cut off utilizzato in quanto non esistono studi nel cane che evidenzino a quali livelli pressori ci sia l’aumento dei rischi si sviluppare danni d’organo per l’apparato cardiovascolare.

Bibliografia 1.

2.

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Indirizzo per la corrispondenza: Marco Poggi - Centro Veterinario Imperiese Via Armelio, 10 18100 - Imperia - Tel 0183-272833 - E-mail: marco.poggicvi@tin.it


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La comunicazione nel coniglio Marzia Possenti Med Vet, Cassano d’Adda (MI)

Il coniglio è una specie sociale fortemente territoriale, e dunque la comunicazione è molto importante per mantenere i rapporti con i membri del proprio gruppo familiare e per far comprendere agli estranei qual è il proprio territorio. I conigli selvatici vivono in gruppi di 4-10 soggetti con una struttura fortemente gerarchizzata: il gruppo è controllato da una coppia dominante e le altre coppie o singoli si trovano tutti in una posizione gerarchica ben precisa. All’interno del gruppo i maschi hanno il compito di perlustrare il territorio per individuare la presenza di estranei. Sarà poi compito del maschio dominante scacciare gli intrusi. La difesa del territorio è molto meno decisa al di fuori della stagione riproduttiva e può capitare che altri conigli, sia maschi che femmine, entrino a far parte del gruppo, ma in casa le ore luce sono sempre molte, la disponibilità di cibo è elevata tutto l’anno e d’inverno il riscaldamento permette di ottenere una temperatura mite, quindi per molti conigli domestici la stagione riproduttiva non si arresta con l’autunno, ma prosegue per tutto l’anno, e così l’esigenza di difendere il territorio. Molto spesso i primi contatti di un nuovo membro con il gruppo avvengono durante il pascolo: il momento del pasto ha una forte accezione “conviviale” per questa specie, i gruppi familiari si ritrovano nello stesso pascolo e lo condividono pacificamente. In questo momento è anche possibile la formazione di nuovi gruppi familiari, se i giovani maschi puberi, allontanati dal proprio gruppo di appartenenza, scelgono di corteggiare una giovane femmina di un altro gruppo. Il pasto rappresenta dunque un buon momento per facilitare l’ingresso di un nuovo coniglio in un ambiente domestico che ne ospita già uno o più. Il comportamento di difesa del territorio è strettamente legato alla presenza degli ormoni sessuali: sia maschi che femmine presentano questo comportamento più marcatamente prima della sterilizzazione. La maggior parte dei conigli maschi ed anche molte femmine alla pubertà iniziano a marcare con le urine oggetti e persone. La sterilizzazione determina l’estinzione di questo comportamento nella maggior parte dei casi: il comportamento di marcatura può persistere nel caso in cui si sia instaurata un’abitudine, ovvero sia trascorso molto tempo tra l’inizio del comportamento e la sterilizzazione. L marcatura con spruzzi di urina emessi mentre il coniglio gira attorno ad una persona o ad un altro coniglio fa parte del rituale del corteggiamento e scompare dopo la sterilizzazione, a meno che non vi sia stato un rinforzo su questo comportamento, come permettere al coniglio di effettuare monte sessuali sul soggetto che viene marcato. Il coniglio marca con le urine sia oggetti che luoghi che individui, con le feci, spesso depositate in piccoli mucchietti in luoghi ben visibili ai limiti del territorio nel coniglio selvatico, distribuite in giro per la gabbia e nei luoghi che percepi-

sce minacciati nel domestico, ed in particolare con la secrezione delle ghiandole inguinali che avvolge le feci durante l’emissione, con la ghiandola del mento più spesso oggetti o punti strategici del territorio, ma anche i conigli sottomessi ed i membri del proprio gruppo. In particolare la ghiandola del mento sembra presentare una composizione particolare nel coniglio dominante, ovvero una maggior quantità di 2fenossietanolo. Si tratta di una sostanza comunemente utilizzata dalle aziende produttrici di profumi per rendere più persistente l’aroma, in effetti è un fissativo degli odori: il maschio dominante può marcare con il mento lasciando una traccia odorosa più persistente degli altri conigli. Il comportamento di marcatura è più evidente nel maschio ma anche le femmine lo presentano, soprattutto in relazione con la stagione riproduttiva e nel caso di soggetti con posizione gerarchica elevata.. Ogni cambiamento, anche minimo, nel territorio del coniglio può stimolare la comparsa del comportamento di marcatura anche in conigli sterilizzati. Poiché i conigli sono animali fortemente territoriali è importante comprendere che non è facile far convivere pacificamente due conigli nella stessa casa se non si attua un corretto inserimento del nuovo arrivato ed una buona gestione del territorio. La maggior parte dei conigli “da compagnia” vive solo con i proprietari, ma spesso viene lasciato solo in casa per molte ore al giorno e la possibilità di avere un compagno o una compagna rende più sopportabile questo quotidiano “abbandono”. Le coppie più facilmente gestibili sono maschio e femmina, avendo cura di sterilizzare entrambi non appena raggiungono la pubertà, ma è possibile avere anche coppie di femmine, soprattutto se sono cresciute assieme. Le coppie di maschi sono pressoché impossibili da formare se non sono sterilizzati, ed in ogni caso si consiglia sempre la sterilizzazione perché rende più semplice l’inserimento di nuovi membri del gruppo e da stabilità al legame evitando l’aumento di competitività legato al periodo riproduttivo. Per inserire un nuovo arrivato è bene: • non utilizzare un ambiente famigliare al “padrone di casa”, bensì un territorio neutrale, precedentemente ripulito dalle tracce odorose. • attirare entrambi i conigli con dei bocconcini appetitosi (uno per ciascuno) ed avvicinarli mentre mangiano dalle mani del proprietario. • mai mettere le gabbie a contatto se due conigli non hanno già instaurato un legame affettivo: la gabbia è sempre troppo piccola perché uno dei due conigli possa allontanarsi abbastanza da non essere considerato una minaccia per il proprio territorio dal vicino. Inoltre i conigli, soprattutto i maschi interi e le femmine in corso di pseudogravidanza, spesso non tollerano intrusioni nella gabbia e possono aggredire provocando lesioni anche gravi. Que-


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sto comportamento può essere esacerbato dalla presenza del cibo nella gabbia ed in alcuni casi può comparire anche soltanto in questo caso. I conigli sono animali crepuscolari: in natura passano la maggior parte del giorno nei loro cunicoli ed escono nel tardo pomeriggio, poco prima del tramonto. Poiché si tratta di animali fortemente sociali i conigli domestici si adattano facilmente ai ritmi circadiani dei proprietari, arrivando ad essere attivi soprattutto durante il giorno ed a dormire di notte. In ogni caso i picchi di massima attività si verificano la sera e molti proprietari descrivono corse e salti proprio in questo momento della giornata. Proprio per questo motivo il coniglio è un animale che si può adattare alla vita famigliare laddove i proprietari lavorino durante il giorno e siano presenti in casa dal tardo pomeriggio. Poiché un coniglio correttamente socializzato considera membri del proprio gruppo tutti coloro che convivono con lui in casa è importante saper leggere i segnali comunicativi di questa specie per non incorrere in errori ed incomprensioni che porterebbero a patologie della relazione, che rappresentano la maggior parte dei problemi comportamentali dei conigli. Quando due conigli sconosciuti s’incontrano possono presentarsi tre situazioni: • nel primo caso uno dei due conigli, di solito colui che si trova al di fuori del proprio territorio, si allontana • nel secondo caso uno dei due conigli può presentare un comportamento di sottomissione, l’altro allora si avvicinerà con postura alta, arti rigidi ed andatura molto lenta, sfregando il mento contro gli oggetti che trova sul percorso e raspando il terreno con gli arti anteriori, potrebbe arrivare a poggiare il mento sulla nuca del sottomesso • nel terzo caso entrambi i conigli si fronteggeranno con numerose dimostrazioni di “forza”, ovvero sfregamenti del mento, raspare il terreno e avanzando con postura alta e rigidità degli arti, con le orecchie in avanti e lo sguardo fisso sull’avversario. A volte lo scontro si limita a questa fase ed uno dei due contendenti fugge o assume la posizione di sottomissione, ma se entrambi insistono si arriva allo scontro, con attacchi portati con gli incisivi e gli arti anteriori. Questo tipo di scontri può essere molto pericoloso per la salute di un coniglio, poiché sia gli artigli che i denti sono molto affilati ed i colpi sono portati senza risparmiare energie. Purtroppo in casa molto spesso non c’è spazio sufficiente per un coniglio per fuggire dal proprio avversario e si arriva facilmente e direi costantemente allo scontro fisico, peraltro molto rapido e pressoché impossibile da interrompere per il proprietario se non con un forte spruzzo di acqua sul muso dei contendenti o con un intenso rumore che spaventi entrambi (si preferisce l’acqua per evitare lo sviluppo di fobie). I conigli possiedono una comunicazione verbale piuttosto scarna, fatta di brevi grugniti, borbottii e, raramente, grida acute. La loro comunicazione è prevalentemente legata alla prossemica ed all’atteggiamento posturale. Molto forte è

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anche la componente olfattiva ma delle marcature si è già parlato precedentemente. Brevi grugniti possono accompagnare le aggressioni territoriali o materne, o precederle di poche frazioni di secondo. I borbottii vengono emessi quando il coniglio si trova in una situazione emotivamente rilassante e piacevole, una specie di “fusa” del coniglio, e a volte sono accompagnati da un leggerissimo digrignamento dei denti. Un digrignamento forte ed aspro accompagna invece le forti algie. Spesso i maschi emettono un suono simile al “gugugu” durante il comportamento di corteggiamento e mantengono entrambi anche dopo la sterilizzazione, probabilmente con un diverso significato: viene emesso ogni volta che il coniglio si trova in una situazione di eccitazione: durante un gioco molto intenso o quando un membro del gruppo torna a casa dopo un’assenza oppure quando sta per ricevere del cibo particolarmente appetito. Le grida sono estremamente rare e vengono emesse in situazioni di stress estremo, di forte paura o dolore. Spesso sono seguite da uno stato stuporoso, quasi un collasso, che indica l’estrema fragilità dell’apparato cardio-circolatorio di questa specie e la forte sensibilità che presenta alla liberazione delle catecolamine: molti conigli gridano prima di morire. Anche per questo motivo è importante comprendere i segnali di stress di questa specie: un coniglio può scuotere la testa o battere il piede in terra con forza quando si sente infastidito o irritato da qualcosa o qualcuno ed assumerà la posizione di allerta (orecchie alte girate in avanti, midriasi, palpebre molto aperte, rigidità dei muscoli e tronco alto) ogni volta che penserà di percepire un potenziale pericolo. Il leccamento delle labbra è un segnale di stress anche in questa specie, spesso seguito dal grooming appena la situazione di “pericolo” cessa. Nei coniglietti prepuberi la paura determina il freezing, ovvero l’assunzione di una posizione “a chioccia” con le orecchie schiacciate indietro, le palpebre molto dilatate (si rende visibile la sclera dell’occhio), una forte midriasi e un irrigidimento di tutti i muscoli. Alla pubertà il freezing viene sostituito dal comportamento di fuga, che i coniglietti presentano molto di rado. In conclusione si può affermare che la comunicazione nel coniglio è piuttosto complessa, fatta di segnali sottili e difficilmente percepibili dall’uomo senza un corretto allenamento, ma è di fondamentale importanza per la formazione di un buon rapporto uomo-coniglio e per evitare lo sviluppo di patologie della comunicazione o della relazione, purtroppo così frequenti in questa specie.

Indirizzo per la corrispondenza: Marzia Possenti L’Arca ambulatorio veterinario associato, Cassano d’Adda (MI) E-mail: grayne@tiscali.it


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Citologia epatica: analisi dei concetti di base Rose E. Raskin DVM, PhD, Dipl ACVP, West Lafayette, Indiana, USA

Indicazioni per la biopsia epatica • L’epatomegalia può essere identificata mediante palpazione o ricorrendo a radiografia ed ecografia • Le anomalie della diagnostica per immagini possono essere presenti sotto forma di ingrossamenti generalizzati o lesioni focali • L’aumento dei livelli degli enzimi epatici o degli acidi biliari indica un danno epatocellulare diretto o indiretto nonché una disfunzione biliare o circolatoria del fegato. Queste alterazioni devono essere persistenti, non transitorie • La stadiazione delle malattie neoplastiche sistemiche, in particolare del linfoma e del mastocitoma, risulta utile per un trattamento appropriato.

Controindicazioni per la biopsia epatica • Le anomalie dell’emostasi possono venire escluse mediante PT, APTT o ACT, conteggio piastrinico e determinazione del tempo di emorragia prima di effettuare la biopsia • L’ipoproteinemia può essere verificata attraverso esame emocromocitometrico completo e profilo biochimico. È importante perché la presenza di bassi livelli proteici può inibire la guarigione delle ferite, il che rappresenta un aspetto significativo per le biopsie prelevate chirurgicamente • I rischi anestetici in un paziente vanno tenuti in considerazione, a seconda della tecnica bioptica utilizzata Le considerazioni relative alla tecnica bioptica dipendono dalla necessità di visualizzare il fegato, dall’entità del rischio anestetico e dalla presentazione della malattia (focale o diffusa). • La laparotomia richiede l’anestesia generale e consente una completa visualizzazione del fegato. Questa procedura permette anche la correzione chirurgica, se indicata. Le ferite determinate dalla biopsia possono essere facilmente controllate in caso di sanguinamento eccessivo. Il campione ottenuto ha valore diagnostico. • Le incisioni di accesso (Keyhole incisions) vengono utilizzate per isolare il fegato o con la laparoscopia. Questa tecnica richiede una sedazione profonda con anestesia locale. Per praticare una biopsia per incisione si utilizza un ago tagliente e una volta ottenuto il campione si devono allestire dei preparati citologici per impronta prima di collocarlo in formalina. • Il campionamento sotto guida ecografica richiede sedazione ed anestesia locale. I campioni hanno spesso valore diagnostico grazie all’assistenza ecografica. Si utilizzano un ago tagliente e dei metodi di aspirazione come nel modo precedentemente descritto per le Keyhole incisions. (SCELTA D’ELEZIONE)

• Le tecniche di campionamento alla cieca possono venire utilizzate per le lesioni epatiche diffuse, come quelle associate a lipidosi, epatopatia da steroidi o neoplasia a cellule rotonde. Questo tipo di campionamento richiede una sedazione di minima entità per consentire l’aspirazione. Si impiegano sia aghi taglienti che tecniche per aspirazione I gruppi citodiagnostici per la citologia epatica comprendono 8 categorie frequentemente utilizzate per classificare il materiale citologico ottenuto dal fegato. Nota: in un dato campione può essere presente più di una categoria 1. Cellule epiteliali normali 2. Danno o degenerazione cellulare 3. Iperplasia o adenoma 4. Anomalie della pigmentazione 5. Infiammazione 6. Neoplasia maligna 7. Tessuto emopoietico 8. Campione non diagnostico

Tessuto epatico normale • Gli epatociti si presentano sotto forma di ammassi o foglietti di grandi cellule uniformi. Questi elementi sono caratterizzati da rapporto nucleocitoplasmatico basso, citoplasma leggermente basofilo e granulare, nucleo rotondo in posizione centrale con cromatina puntinata e nucleolo prominente. Occasionalmente, le cellule sono binucleate ed i nucleoli sono multipli. • L’epitelio biliare è formato da foglietti di piccole cellule uniformi, con rapporto nucleocitoplasmatico elevato. I dotti biliari di grandi dimensioni sono rivestiti da un epitelio colonnare semplice. I nucleoli sono spesso indistinti. • Mast cell e macrofagi possono occasionalmente essere presenti in numero limitato.

Danno o degenerazione epatocellulare • L’alterazione idropica (degenerazione vacuolare) determina la comparsa di un aspetto schiumoso all’interno del citoplasma degli epatociti, che rappresenta la conseguenza del rigonfiamento del reticolo endoplasmatico imputabile ad un aumento dell’acqua intracellulare. Questo quadro si può osservare nell’anossia tissutale e nelle epatopatie tossiche. • L’alterazione adiposa si presenta sotto forma di vacuoli chiari isolati all’interno del citoplasma dei epatociti ed è conseguente all’accumulo di lipidi che possono confluire liberamente. Questo aspetto ha spesso valore diagnostico per la lipidosi.


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• L’accumulo di glicogeno si osserva in caso di alterazione del metabolismo del glucosio come quello che si ha nell’epatopatia da steroidi. Il citoplasma si presenta schiumoso, simile a quello dell’alterazione idropica. Le modificazioni indotte dagli steroidi si notano principalmente nel cane, ma sono state osservate occasionalmente anche nel gatto. • La necrosi si può avere come conseguenza di tossicosi, malattie infettive o neoplasie. Le cellule si presentano indistinte, con perdita del dettaglio cellulare. • La fibrosi è correlata ad un aumento della reazione del tessuto connettivo ad un danno, come quello che si osserva in caso di cirrosi, epatopatia post-necrosi o infiammazione cronica. • La deposizione amiloide è una condizione poco comune spesso correlata ad una malattia infiammatoria cronica. La presenza intorno agli epatociti di materiale amorfo eosinofilo positivo al rosso Congo ha valore diagnostico. L’iperplasia (rigenerazione) epatica e l’adenoma vengono riuniti dal momento che hanno un aspetto citologico simile. • Negli epatociti si nota una frequente binucleazione • L’aumento del rapporto nucleocitoplasmatico indica una crescita rapida • Sono presenti anisocitosi ed anisocariosi di grado lieve o moderato • A causa del rapido accrescimento si può notare un veloce incremento della basofilia del citoplasma • Si ha un aumento della frequenza delle inclusioni cristalline intranucleari • Le condizioni da prendere in considerazione sono l’iperplasia nodulare, l’epatopatia tossica, l’adenoma epatocellulare, l’adenoma dei dotti biliari e la cirrosi Le anomalie del pigmento epatico si osservano all’interno degli epatociti e si presentano sotto forma di ombre di colore blu e verde con le colorazioni di routine. L’eziologia di questi pigmenti può venire differenziata attraverso reazioni citochimiche. • La stasi biliare all’interno dei canalicoli si presenta sotto forma di cilindri verdi o materiale granulare fra gli epatociti. Le condizioni associate alle alterazioni dei pigmenti biliari sono rappresentate da colangite, distomatosi epatica, lipidosi, epatopatia da steroidi, epatopatia tossica, iperplasia nodulare e cirrosi • L’emosiderosi è una condizione da sovraccarico in cui il ferro si presenta sotto forma di materiale addensato di colore blu o blu-verde che si colora positivamente con il blu di Prussia. L’emosiderosi è associata ad emolisi cronica ed eccessiva integrazione con ferro • La lipofuscina si presenta nei preparati colorati con Wright-Giemsa sotto forma di granuli blu-verdi, che corrispondono a lipidi degenerati derivanti dall’invecchiamento cellulare • L’accumulo di rame si presenta come materiale blu-verde che si colora positivamente con acido rubeanico. Questo può essere un accumulo primario o secondario riferito ad epatopatia

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felina. I neutrofili degenerati o non degenerati sono aumentati rispetto a quelli riscontrati nel sangue periferico • L’infiammazione linfocitaria o plasmocitaria (non suppurativa) è comune nella colangioepatite linfocitaria felina. Le cellule linfoidi sono elementi piccoli e ben differenziati che risultano associati ad una malattia cronica e possono essere difficili da distinguere citologicamente da un linfoma a cellule piccole. • L’infiammazione eosinofilica può essere associata a distomatosi epatica o mastocitoma localizzato all’interno del fegato • L’infiammazione piogranulomatosa è formata da una popolazione mista di neutrofili e macrofagi. Questo quadro è associato a micobatteriosi, istoplasmosi e toxoplasmosi. Le neoplasie maligne del fegato possono essere primarie e secondarie o metastatiche. • I tumori primari comprendono: carcinoma epatocellulare, carcinoma dei dotti biliari ed emangiosarcoma • I tumori secondari comprendono: leucemie mieloidi (non linfoidi), carcinomi intestinali e tumori delle cellule degli isolotti pancreatici • Il linfoma ed il mastocitoma possono essere primari o secondari

Tessuto emopoietico • L’emopoiesi extramidollare somiglia ad una popolazione cellulare midollare di tipo misto e comprende precursori eritroidi, granulocitari e megacariocitari. Spesso è correlata ad un’esigenza fisiologica, come avviene nelle malattie del midollo osseo o in condizioni di ipossia • Il mielolipoma è un tumore poco comune simile all’emopoiesi extramidollare, che però contiene anche una quota considerevole di materiale lipidico. È di natura benigna e spesso localizzato

Riassunto delle caratteristiche citologiche delle epatopatie specifiche • Epatopatia tossica: le caratteristiche osservate comprendono alterazione idropica, colestasi, necrosi e rigenerazione con fibrosi (se cronica) • Lipidosi o epatopatia da steroidi: le caratteristiche comprendono alterazioni adipose (lipidosi) ed idropiche (epatopatia da steroidi) nonché colestasi • Iperplasia nodulare o cirrosi: le caratteristiche comprendono iperplasia degli epatociti e dell’epitelio biliare, colestasi e fibrosi.

Bibliografia e letture consigliate Baker R, Lumsden JH. Colour Atlas of Cytology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH. Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2nd Ed. 1999. Radin MJ, Wellman ML. Interpretation of Canine and Feline Cytology: Ralston Purina Company Clinical Handbook Series. The Gloyd Group, Inc, Wilmington, DE; 2001. Raskin RE, Meyer DJ (eds). Atlas of Canine and Feline Cytology: WB Saunders Co, Philadelphia; 2001.

Epatite/colangite • L’infiammazione neutrofila (suppurativa) è associata a necrosi, infezione batterica e colangioepatite suppurativa

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Citologia epatica: casi esemplificativi complessi Rose E. Raskin DVM, PhD, Dipl ACVP, West Lafayette, Indiana, USA

In questo lavoro, verranno trattati gli aspetti citologici di specifici esempi di casi che colpiscono il fegato. Saranno presi in considerazione i gruppi citodiagnostici o di classificazione generale corrispondenti a iperplasia, infiammazione, degenerazione epatica, risposta a danno tissutale e neoplasia.

IPERPLASIA Iperplasia nodulare Questa condizione è comune nei cani anziani e spesso si presenta sotto forma di molteplici noduli ben definiti, distribuiti casualmente. Istologicamente, questi mantengono una struttura lobulare in contrasto con le condizioni neoplastiche. Le caratteristiche citologiche di questi epatociti ingrossati comprendono la vacuolizzazione diffusa o focale. Si osservano vacuoli isolati contenenti lipidi o schiumosità citoplasmatiche spesso associate a deposizione di glicogeno.

INFIAMMAZIONE Colangite/epatite suppurativa Questa infiammazione è associata a necrosi, infezione batterica e colangioepatite suppurativa felina. Neutrofili degenerati e non degenerati sono aumentati fino a valori superiori a quelli che si trovano nel sangue periferico. Occasionalmente si possono riscontrare dei batteri sia all’interno dei neutrofili che in sede extracellulare.

Colangioepatite linfocitaria In questa sindrome nel gatto si rileva la presenza di linfociti piccoli o intermedi o di plasmacellule, spesso in associazione con una lieve pancreatite. Si può anche notare la formazione di tappi nei canalicoli biliari. In rari casi, una popolazione uniforme di piccoli linfociti può somigliare ad un linfoma ben differenziato, ma il riscontro di una popolazione cellulare mista suggerisce un processo infiammatorio.

Iperplasia rigenerativa

Reazioni parassitarie

Il fegato danneggiato risponde frequentemente con un’iperplasia all’esposizione a sostanze tossiche come farmaci, aflatossine o piante. Si osserva una significativa fibrosi che non si riscontra nell’iperplasia nodulare del cane anziano e l’architettura normale va perduta. Queste anomalie possono essere istologicamente simili, ma non identiche, a quelle degli adenomi epatocellulari. Le alterazioni citologiche nell’epatopatia tossica sono rappresentate da un aumento del rapporto nucleocitoplasmatico che indica una rapida crescita. Si nota una frequente binucleazione, unitamente ad un’anisocitosi degli epatociti lieve o moderata. Inoltre, il citoplasma contiene più proteine per la proliferazione e, di conseguenza, si ha un aumento della basofilia citoplasmatica. Gli epatociti possono mostrare un’alterazione idropica con una riduzione della colorazione del citoplasma alla periferia della cellula riferibile al rigonfiamento degli organuli. Sembra esistere un’associazione fra le inclusioni intranucleari cristalline e le affezioni iperplastiche del fegato, benché queste inclusioni siano state notate anche in alcuni pazienti clinicamente normali. In caso di danno cronico e conseguente cirrosi, si possono trovare fibrociti e fibroblasti associati a ciuffi di filamenti eosinofilici di collagene che si possono presentare sotto forma di aggregati densi. Questo quadro può essere accompagnato dal riscontro di cilindri biliari.

La reazione alla presenza di distomi o delle loro uova è stata notata in rari casi all’esame citologico, sulla base del riscontro di una risposta infiammatoria eosinofilica e neutrofila unita a segni di stasi biliare. Le uova dei distomi sono state identificate all’esame citologico ed appaiono di colore verde, presumibilmente dovuto alla bile. Platynosomum concinnum è un parassita dei gatti del Nord America con un ciclo vitale che coinvolge lucertole e chiocciole. Amphimerus pseudofelineus è un altro distoma riscontrato nel gatto.

Citauxzoonosis Si tratta di una malattia trasmessa da zecche che colpisce il gatto e si riscontra nella parte meridionale degli Stati Uniti. Il microrganismo infesta organi come il fegato e si può osservare negli strisci per impronta sotto forma di strutture intracitoplasmatiche basofile (merozoiti) disposti come schizonti all’interno dei macrofagi rigonfi.

DEGENERAZIONE EPATICA Epatopatia da glucocorticoidi La somministrazione per via esogena di corticosteroidi o il loro aumento a causa di un incremento della produzione endo-


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gena determinano un’alterazione vacuolare indicata col nome di epatopatia da steroidi. La condizione si può osservare sia nel cane che nel gatto, con effetti morfologici simili. L’incremento del glicogeno all’interno degli epatociti sembra simile all’alterazione idropica con vacuolizzazione indistinta del citoplasma. L’alterazione può essere diffusa o localizzata alla periferia cellulare. In questa condizione si possono osservare inclusioni intranucleari aspecifiche, insieme alla stasi biliare.

Lipidosi epatica del gatto Si tratta di una condizione comune che si riscontra come conseguenza dell’accumulo di trigliceridi all’interno degli epatociti, spesso in seguito ad episodi di anoressia. Dal momento che la malattia è diffusa in tutto il parenchima, la biopsia mediante aspirazione con ago sottile ha spesso valore diagnostico. Gli epatociti possono presentare vacuoli puntati chiari, singoli o multipli, all’interno del citoplasma. A volte, i vacuoli possono diventare così numerosi da affollarsi fino a spingere il nucleo verso uno dei lati della cellula. L’aspetto di questi epatociti altamente vacuolizzati può essere difficile da distinguere da quello dei macrofagi schiumosi. Alla citologia si riscontra anche una stasi biliare, con formazione di tappi nei canalicoli biliari e aumento di granuli verdi all’interno degli epatociti. Per confermare la presenza di lipidi nei vacuoli, è possibile utilizzare pari quantità di oilred-O e nuovo blu di metilene su strisci non fissati e non colorati. Dal momento che i lipidi sono incorporati nella cellula, si osserva una colorazione arancio smorto, mentre a livello extracellulare sono presenti gocce di arancio brillante.

Epatopatia da rame Certe razze di cani come il Bedlington ed il west Highland white terrier, nonché i pazienti che presentano accumuli di quantità tossiche di rame, sviluppano insufficienza epatica dovuta alla reazione infiammatoria. Il riscontro di pallidi granuli rifrangenti verdi che risultano positivi all’acido rubeanico ha valore diagnostico per l’intossicazione da rame. Questa può essere dovuta ad un accumulo primario che porta ad epatopatia o rappresentare la conseguenza di una malattia epatica. La colorazione di Romanowsky può conferire un aspetto cromatico simile ai granuli epatocitari positivi alla colorazione per la bilirubina, che quindi rappresentano la bile. Tuttavia, è stato notato che in assenza di cilindri di bile i granuli verdi all’interno degli epatociti sono molto probabilmente dovuti alla presenza di lipofuscina. Questo pigmento si riscontra nel normale invecchiamento delle cellule e nella conseguente degenerazione dei lipidi cellulari, il cosiddetto “pigmento da logoramento”.

Emosiderosi Gli animali che vanno incontro alla degradazione cronica degli eritrociti o che ricevono un’integrazione con ferro sviluppano una condizione da sovraccarico caratterizzata dall’accumulo di questo elemento negli epatociti. Questo materiale si presenta con un aspetto granulare e addensato e con una tonalità blu o blu-verde che si colora positivamente con il blu di Prussia.

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RISPOSTA AL DANNO TISSUTALE Amiloidosi Si tratta di una condizione poco comune, spesso correlata ad una malattia infiammatoria cronica. L’amiloide viene identificata attraverso la presenza intorno agli epatociti di materiale amorfo eosinofilico, positivo al rosso Congo. In questa situazione sono spesso presenti elementi infiammatori come i neutrofili ed i linfociti.

NEOPLASIA Adenoma epatocellulare Si tratta di una condizione neoplastica poco comune che si presenta sotto forma di una lesione isolata nel cane e nel gatto. I segni clinici sono generalmente minimi, per cui questi tumori costituiscono di norma un riscontro incidentale alla necroscopia. Istologicamente, queste lesioni compressive contengono una fibrosi minima. Gli epatociti hanno un aspetto uniforme, ma sono più grandi della norma e contengono una maggior quantità di lipidi, glicogeno o granuli di lipofuscina nel citoplasma. È presente una lieve anisocitosi ed anisocariosi nonché un aumento della basofilia del citoplasma. I nucleoli sono leggermente più prominenti del normale. Non sono comuni le figure mitotiche.

Carcinoma epatocellulare È stato detto che il carcinoma epatocellulare è più comune nel cane rispetto al colangiocarcinoma. Nel gatto quest’ultimo è considerato più frequente del carcinoma epatocellulare. I segni clinici riflettono un’epatopatia con un aumento dell’attività di parecchi enzimi epatici. Istologicamente, le trabecole epatiche si presentano spesse o di dimensioni variabili in confronto a quelle più uniformi e più sottili delle lesioni da adenoma. Citologicamente, le cellule del fegato possono somigliare ad elementi normali, ma nelle forme scarsamente differenziate gli epatociti si presentano scarsamente pleomorfici, il che rende più facile la diagnosi di malignità. In questi casi, sono presenti caratteristiche maligne di anisocariosi, multinuclearità, rapporto nucleocitoplasmatico elevato e variabile e molteplici nucleoli. Il riscontro di figure mitotiche è più frequente nel carcinoma che nell’adenoma.

Colangiocarcinoma Si tratta di un tumore relativamente poco comune che però, nel gatto, può essere la neoplasia maligna epatica primaria più frequente secondo alcuni studi. Istologicamente sono presenti formazioni acinose, specialmente nei tumori meglio differenziati, e la quantità di tessuto connettivo fibroso può essere sostanziale. Spesso il lume è riempito da un fluido cistico mucillaginoso. Le figure mitotiche sono spesso molto più abbondanti in confronto al carcinoma epatocellulare. Citologicamente, le cellule tendono a esfoliare in densi grappoli. I tumori ben differenziati hanno cellule di dimensioni relativamente uniformi e di forma cuboidale, con scarso citoplasma. Alterazioni più anaplastiche come l’anisocariosi, i nucleoli prominenti ed il rapporto nucleocitoplasmatico elevato si osservano nel colangiocarcinoma scarsamente differenziato.


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Citologia dei liquidi cavitari: analisi dei concetti di base Rose E. Raskin DVM, PhD, Dipl ACVP, West Lafayette, Indiana, USA

Cos’é un versamento? Un versamento rappresenta un aumento dell’accumulo di fluidi all’interno di una cavità corporea rivestita da cellule mesoteliali. Le cavità corporee sono quella addominale o peritoneale, quella toracica o pleurica e quella pericardica. La presenza di un versamento viene riconosciuta quando gli animali mostrano segni clinici di malattia, attenuazione dei toni cardiaci, ascite o dolore addominale. Questi fluidi relativamente limpidi si formano attraverso tre meccanismi: • Elevata pressione idrostatica dall’interno dei vasi o dei canali linfatici, riferibile ad un’ostruzione del flusso • Bassa pressione oncotica all’interno dei vasi, dovuta ad ipoalbuminemia che non trattiene i fluidi • Aumento della permeabilità di membrana, derivante da un’infiammazione

Come si raccolgono i versamenti e come vengono elaborati i fluidi? Il fluido peritoneale si preleva dall’animale in decubito laterale sinistro o in stazione. Dopo aver preparato chirurgicamente la sede tra l’ombelico e la vescica, si utilizza un ago da 2022 G per penetrare in addome in un punto situato un po’ lateralmente alla linea mediana. Il fluido può essere lasciato gocciolare in una provetta oppure venire aspirato utilizzando siringhe da 6 o 12 ml. Il liquido pleurico si preleva con il paziente in stazione o seduto. Si inserisce un catetere flessibile (endovenoso) nel 7°-8° spazio intercostale dopo aver preparato chirurgicamente la parte ed aver eseguito un’infiltrazione con un anestetico locale. Per rimuovere elevati volumi di fluidi e prevenire la fuoriuscita di aria, è possibile utilizzare una valvola a tre vie. Il fluido contenuto nel sacco pericardico si preleva con il paziente in sedazione ed in decubito laterale. Nella porzione inferiore del 4° spazio intercostale si inserisce un catetere venoso, procedendo verso il cuore fino a che non si penetra nel pericardio. Per ognuna di queste sedi, si deve prelevare 1 ml di fluido da porre in una provetta a tappo rosso da destinare agli esami colturali e servirsi del resto per realizzare degli strisci diretti su vetrini porta- o coprioggetto e poi porre la quota restante in provette con il tappo porpora, contenenti EDTA, per il conteggio cellulare e l’analisi proteica. Se gli strisci diretti non possono venire allestiti immediatamente, il fluido può essere posto in una provetta con EDTA ed esaminato più tardi.

Come vengono valutati i versamenti? • Si rilevano il colore ed il grado di trasparenza, nonché ogni eventuale odore apprezzabile

• Si misurano i solidi totali o le proteine mediante rifrattometria, specialmente dopo centrifugazione in una provetta da microematocrito se il fluido non è chiaro • Il conteggio cellulare può venire effettuato con un contatore automatico, se il materiale è limpido. Altrimenti, la maggior parte dei fluidi può venire sottoposta a conteggio mediante emocitometro. • Si prepara uno striscio (col metodo per schiacciamento) fra due vetrini coprioggetto o portaoggetto per identificare i tipi cellulari, la presenza di agenti infettivi o le neoplasie. • I tipi cellulari che vengono riconosciuti nei versamenti sono rappresentati da: 1. Grandi cellule mononucleati, che possono essere elementi mesoteliali o macrofagi. Dato che sono difficili da distinguere, vengono raggruppati in una sola categoria. Devono essere le cellule predominanti nei versamenti. 2. I neutrofili sono spesso presenti come tipo cellulare predominante negli equini, ma non nel cane e nel gatto. L’eventuale riscontro di degenerazione va registrato. Gli incrementi numerici indicano l’esistenza di un’infiammazione. 3. Le piccole cellule mononucleate sono linfociti, che in condizioni normali sono presenti in numero limitato. 4. Gli eosinofili sono raramente presenti nei versamenti, ma, quando ci sono, devono essere registrati separatamente.

Come vengono classificati i versamenti? La maggior parte dei fluidi delle cavità corporee viene distinta in trasudati, trasudati modificati o essudati sulla base del contenuto proteico e del conteggio cellulare. • Il trasudato ha una bassa cellularità (< 1000/µl per la maggior parte degli animali) e un basso contenuto di proteine (< 2,5 g/dl). Generalmente si forma come conseguenza di una bassa pressione oncotica correlata ad una grave ipoalbuminemia (< 1,0 g/dl) che si può sviluppare ad esempio da una sindrome nefrosica. Il fluido povero di proteine può anche derivare da ipertensione portale correlata alla filtrazione di linfa a basso contenuto proteico dai vasi portali intestinali come conseguenza di un aumento della pressione idrostatica. • Il trasudato modificato indica un versamento con cellularità e contenuto proteico variabili. Spesso si forma come conseguenza di un aumento della pressione idrostatica. Le cause comuni sono le affezioni intestinali non settiche degli equini, come il volvolo e l’insufficienza cardiaca destra. • L’essudato è un versamento con infiammazione. I conteggi cellulari sono aumentati (> 5000/µl per la maggior parte degli animali). Spesso si ha un incremento dei livelli proteici (> 3,0 g/dl). Dato l’incremento del numero di cellule presenti, il fluido è spesso torbido.


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Classificazione dei versamenti delle cavità corporee dei piccoli animali Colore /torbidità

Proteine totali (g/dl)

Peso specifico

Leucociti (n°/µl)

Tipo cellulare predominante

Trasudato

Incolore/limpido

< 2,5

1.017

< 1000

Mesoteliale

Trasudato modificato

Giallo chiaro o albicocca /limpido o torbido

2,5 - 5,0

1.017- 1.025

500-10.000

Popolazione mista

Essudato

Albicocca o marrone rossiccio/torbido

> 3,0

> 1.025

> 5.000

Neutrofili non settico: non degenerati settico: degenerati

Emorragico

Rosa o rosso/torbido

> 3,0

> 1.025

> 1.000

Eritrociti Leucociti simili al sangue Macrofagi che mostrano eritrofagocitosi

Chiloso

Bianco/opaco

> 3,0

> 1.018

Variabile

Acuto: piccoli linfociti Cronico: popolazione mista

Biliare

Giallo scuro o bruno o verde/opaco

> 3,0

> 1.025

> 5.000

Popolazione mista con materiale verde-nero o giallo fagocitato dai macrofagi

Giallo chiaro o albicocca/ limpido o torbido

2,5 – 5,0

> 1.018

500 – 10.000

Mesotelio reattivo Cellule neoplastiche

Neoplastico

La definizione di essudato settico indica la presenza di microrganismi visibili, solitamente batterici o micotici, nelle cellule dello striscio. Le cause comprendono ferite penetranti, rotture intestinali o enteriti micotiche. La definizione di essudato non settico indica la mancanza di microrganismi visibili all’interno dei neutrofili o macrofagi. Le cause possono comprendere la peritonite infettiva felina (FIP), la fuoriuscita della bile, la peritonite da tuorlo d’uovo e l’uroperitoneo. Quando è possibile formulare una diagnosi specifica, per descrivere i versamenti si utilizzano altri termini come emorragico, chiloso, biliare o neoplastico. • Il versamento emorragico appare di colore rosso, rosa o occasionalmente giallo. Questa categoria viene utilizzata quando il versamento presenta tracce di sangue dovute ad un’emorragia acuta o cronica senza che vi siano altre anomalie. Non si usa questo termine per implicare una contaminazione ematica. È comunemente associato a versamento pericardico. L’emorragia acuta è caratterizzata da eritrociti intatti ingolfati da macrofagi o neutrofili. In caso di sanguinamento iperacuto e contaminazione ematica si osserva la presenza di piastrine che possono rimanere intatte per circa mezz’ora dopo il prelievo. L’emorragia cronica è caratterizzata da macrofagi ricchi di emosiderina, cellule contenenti granuli addensati di colore blu-nero che risultano positivi alla colorazione del ferro con blu di Prussia. • Il versamento chiloso ha un colore bianco o bianco rosato senza alcuna trasparenza; di conseguenza viene detto opaco. Nella maggior parte dei casi è correlato alla presenza di chilo dovuta alla rottura dei vasi linfatici del dotto toracico che può essere causata da trauma, neoplasia, infezione o reazioni idiopatiche. Il chilo è formato da chilomicroni composti da trigliceridi. La condizione può venire diagnosticata sulla base della presenza di elevate concen-

trazioni di trigliceridi, spesso > 100 mg/dl nel liquido di versamento. Il conteggio dei leucociti è aumentato rispetto ai trasudati, ma < 10.000/µl e le cellule predominanti sono piccoli o medi linfociti. • Il versamento neoplastico indica la presenza di una popolazione cellulare anormale, che mostra caratteristiche di malignità. Le comuni neoplasie da prendere in considerazione sono: linfoma, carcinoma o mesotelioma. I conteggi cellulari e proteici possono essere simili a quelli di un trasudato modificato o di un essudato. Per i versamenti pericardici è stata descritta la possibilità di effettuare una distinzione sulla base del pH. I versamenti alcalini (pH ≥ 7,0 effettuando la misurazione mediante strisce reattive per l’esame delle urine) sono associati a neoplasie, mentre quelli con pH < 7,0 si accompagnano a lesioni benigne. • Il versamento biliare si forma per la rottura del dotto biliare comune o la fuoriuscita del fluido dai dotti biliari intraepatici. Il colore è giallo scuro o verde e generalmente opaco. Talvolta la bile viene detta “bianca” perché è presente solo un materiale proteico amorfo non colorato. È comune il riscontro di un’infiammazione con una popolazione cellulare mista.

Letture consigliate Baker R, Lumsden JH. Colour Atlas of Cytology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2000 Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH. Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2nd Ed. 1999 Radin MJ, Wellman ML. Interpretation of Canine and Feline Cytology: Ralston Purina Company Clinical Handbook Series. The Gloyd Group, Inc, Wilmington, DE; 2001 Raskin RE, Meyer DJ (eds). Atlas of Canine and Feline Cytology: WB Saunders Co, Philadelphia; 2001

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In questa discussione, verranno trattati gli aspetti citologici di specifici casi relativi al coinvolgimento delle cavità corporee rivestite da mesotelio. Verranno presi in considerazione agenti infettivi, parassiti, materiali estranei e neoplasie.

Actinomicosi I batteri anaerobi della famiglia Actinomycetaceae si trovano normalmente nella cavità orale, ma quando vengono inalati o inoculati in altri tessuti producono una considerevole emorragia ed una risposta di tipo misto neutrofila e macrofagica. I neutrofili sono frequentemente degenerati, con marcata cariolisi. I versamenti si presentano sieroematici o purulenti e sono spesso accompagnati da granuli macroscopici di colore giallo-marrone rossiccio (granuli zolfini) che contengono colonie di microrganismi. Questo aspetto è stato spesso indicato come “zuppa di pomodoro”. Schiacciando i frammenti gialli, si ha una migliore opportunità di vedere i batteri filamentosi pleomorfi che possono essere sia intra- che extracellulari. Si tratta di batteri sottili, simili a punti e linee, che assumono l’aspetto di formazioni eosinofiliche a corona di rosario.

Peritonite infettiva felina I gatti giovani sono più predisposti all’infezione da parte di questo coronavirus che può causare due forme della malattia, essudativa e non essudativa. I gatti colpiti dalla forma essudativa di FIP vengono portati alla visita con ascite o versamento toracico. Il fluido in questi casi è limpido, di colore paglierino o dorato e viscoso. Si tratta di un essudato con un’elevata cellularità, con conteggi cellulari variabili da 1000 a 10.000/µl ed occasionalmente fino a 30.000/µl. Anche il contenuto proteico è molto elevato, spesso superiore a 4,5 g/dl, il che fa si che il fluido formi una schiuma quando viene agitato. La maggior parte delle proteine è rappresentata da globuline, beta o gamma. È stato riferito che il riscontro nel fluido di un rapporto albumina : globulina inferiore a 0,8 o di un contenuto di gammaglobuline superiore al 32% sia indicativo di FIP. Citologicamente, l’elevato contenuto proteico determina uno sfondo molto granulare e basofilo. Le cellule presenti in questo fluido sono principalmente rappresentate da neutrofili non degenerati associati ad un numero minore di grandi elementi mononucleati costituiti da mesotelio o macrofagi. Si possono anche osservare occasionali cellule linfoidi, in particolare piccoli linfociti e plasmacellule. Non vi è alcun segno di infezione batterica.

Istoplasmosi Si tratta di una malattia micotica del cane e del gatto riscontrata in varie parti del mondo, compresi gli Stati Uniti, l’Italia, la Croazia, l’Austria, il Giappone e l’Australia. È presente nel terreno in associazione con escrementi di uccelli e pipistrelli. La malattia determina la formazione di noduli polmonari da inalazione dei microconidi della fase miceliale. All’interno del corpo, la temperatura più elevata fa sì che il microrganismo si converta nella fase di lievito, che può andare incontro ad un’ampia disseminazione in tutto l’organismo interessando il sangue, il midollo osseo, i linfonodi, la milza, il fegato ed il tratto gastroenterico, oltre all’apparato respiratorio, specialmente se l’animale è immunocompromesso. Tipicamente, si osserva un numero variabile di microrganismi intracellulari nei macrofagi e nei neutrofili e, raramente, negli eosinofili. La forma di lievito si riconosce per la sua conformazione ovale uniforme che misura 2 x 4 µ. Il centro basofilo ha un alone chiaro causato dal raggrinzimento durante la colorazione. La tecnica dell’acido periodico di Schiff può accentuare il suo aspetto, specialmente nelle sezioni istologiche.

Cestodiasi Gli animali che vivono nella parte occidentale del Nord America possono essere infestati dalla migrazione aberrante di cestodi intestinali. La maggior parte dei soggetti colpiti è rappresentata da cani che vengono portati alla visita con distensione addominale, letargia ed anoressia. Macroscopicamente, il fluido ha l’aspetto di un budino di tapioca dovuto alla presenza di grandi pezzi di detriti tissutali sospesi nel liquido torbido e di colore marrone rossiccio. L’analisi citologica del fluido addominale rivela un essudato infiammatorio di tipo misto con numerosi corpuscoli calcarei (strutture tondeggianti o ovali di colore giallo chiaro o ovali) tipici dell’infestazione da Mesocestoides spp. Meno frequentemente sono visibili i tetratiridia, che costituiscono la forma larvale del parassita. Queste larve presentano ad una estremità delle strutture ovali che corrispondono alle ventose. Si può effettuare l’amplificazione mediante reazione a catena della polimerasi per identificare il DNA dei cestodi.


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Uroperitoneo

Linfoma

Questa condizione è dovuta alla rottura di alcune parti del tratto urinario. L’urina presente nella cavità peritoneale agisce da irritante chimico determinando una risposta infiammatoria o un essudato. A causa della diluizione operata dal fluido, il contenuto proteico è spesso basso. All’inizio dell’evoluzione della condizione è presente un predominio mononucleare, ma man mano che l’irritazione perdura, insorge un’infiammazione. I neutrofili presenti in questo ambiente tossico mostrano una cariolisi che conferisce al bordo nucleare un aspetto raggiato. In alcuni casi è possibile identificare cristalli urinari. Gli indicatori della presenza di urina sono rappresentati dall’aumento quantitativo dei livelli di potassio o creatinina nel fluido, generalmente in rapporto di 2 : 1 rispetto al siero.

I segni clinici di una massa associata ad un versamento suggeriscono una neoplasia o una rottura del dotto toracico con conseguente comparsa di fluido chiloso. L’esfoliazione di una neoplasia linfoide nella cavità corporea può essere difficile da riconoscere se predominano i piccoli o medi linfociti. Gli elementi linfoidi che raggiungono dimensioni pari o superiori a tre volte quelle di un eritrocita sono da ritenere anormali per la loro grandezza. Possono inoltre essere presenti uno o più nucleoli prominenti. Anche il monomorfismo della popolazione cellulare e l’aumento numerico degli elementi conteggiati depone a favore della diagnosi di linfoma. Alcuni linfomi a cellule T possono essere accompagnati da una popolazione paraneoplastica di eosinofili. Questi aumenti possono far sì che il fluido di versamento assuma un aspetto macroscopicamente verde. Per caratterizzare meglio la neoplasia dal punto di vista del comportamento biologico e quindi del trattamento si raccomanda l’immunofenotipizzazione.

Versamento biliare Il danneggiamento della cistifellea o del dotto biliare può esitare nel rilascio di bile nel peritoneo. Il colore del fluido è solitamente bruno, verde o giallo scuro. Il conteggio cellulare spesso riflette il carattere essudativo del fluido. Le cellule sono rappresentate principalmente da neutrofili non degenerati o lievemente cariolitici, nonché da macrofagi schiumosi o altamente vacuolizzati. Si rileva che questi macrofagi contengono un materiale amorfo di colore giallo dorato o blu-verde, simile a quello che si osserva sullo sfondo. Sempre sullo sfondo può anche essere presente un materiale amorfo leggermente basofilo che deriva dal muco prodotto, la cosiddetta “bile bianca”. La fuoriuscita di bile è ulteriormente confermata dal riscontro di un aumento della concentrazione di bilirubina fino a livelli superiori a quelli sierici.

Versamento chiloso Nella maggior parte dei casi, questo versamento si riscontra nel torace, ma in rare occasioni può determinare un’ascite. È caratterizzato da un colore bianco o bianco rosato e di aspetto opaco, dovuto alla presenza del chilo. Quest’ultimo è formato dai chilomicroni, composti dai trigliceridi. La condizione insorge in seguito alla rottura del dotto linfatico toracico che può essere causata da trauma, neoplasia, infezione o cause idiopatiche. Dal punto di vista biochimico, la condizione può essere diagnosticata in base alla presenza di elevate concentrazioni di trigliceridi, spesso > 100 mg/dl nel fluido di versamento. I leucociti sono elevati, generalmente < 10000/µl e gli elementi predominanti sono i piccoli e medi linfociti. Il versamento chiloso di vecchia data può esitare in una risposta infiammatoria mista con neutrofili e macrofagi.

Mesotelioma Il mesotelio è un epitelio specializzato derivato embriologicamente dal mesoderma. I casi di mesotelioma riscontrati sono rari. Il sospetto della neoplasia insorge in presenza di versamenti con grandi cellule mononucleate anormali disposte in grandi grappoli. Più frequentemente, i versamenti infiammatori contengono piccoli grappoli cellulari di mesotelio compatibili con una risposta reattiva. Le cellule del mesotelioma sono simili a quelle dei carcinomi perché presentano parecchi criteri nucleari di malignità. Fra questi possono rientrare l’anisocariosi, il rapporto nucleo/citoplasmatico variabile ed elevato, la cromatina addensata, la presenza dinucleoli prominenti e multipli e la multinuclearità. Il riscontro di grandi “zattere” di cellule di aspetto maligno senza segni di infiammazione depone notevolmente a favore di una popolazione neoplastica. È stato riferito che i versamenti pericardici nei quali utilizzando le strisce reattive per esame dell’urina si rileva un pH superiore o pari a 7,0 hanno maggiori probabilità di essere neoplastici, mentre un pH più acido è associato a forme benigne o a cause infiammatorie. La migliore determinazione della malignità si basa sull’anamnesi clinica e sui riscontri istopatologici.

Bibliografia Baker R, Lumsden JH. Colour Atlas of Cytology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2000, pp 159-176. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH. Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2nd Ed. 1999, pp 142-158. Greene CE. Infectious Diseases of the Dog and Cat: WB Saunders Co, Philadelphia; 1998, pp 58-69, 378-383. Raskin RE, Meyer DJ (eds). Atlas of Canine and Feline Cytology: WB Saunders Co, Philadelphia; 2001, pp.187-205.


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Citologia degli esotici: un nuovo campo di interesse non ancora ben conosciuto Rose E. Raskin DVM, PhD, Dipl ACVP, West Lafayette, Indiana, USA

Agli animali di compagnia esotici si applicano gli stessi principi citologici e le medesime categorie generali di citodiagnosi del cane e del gatto. Le principali differenze sono il riconoscimento dei tipi cellulari infiammatori e degli agenti infettivi inusuali che possono colpire queste specie animali. Le categorie citodiagnostiche generali della citologia sono rappresentate da infiammazione, risposta al danno tissutale e neoplasia. Gli esempi dei casi presentati saranno focalizzati sui rettili e sui piccoli mammiferi domestici.

Corpi di Kurloff nella cavia Si tratta di strutture uniche che si trovano in una percentuale di leucociti circolanti che può arrivare fino al 4%. Queste inclusioni citoplasmatiche mucopolisaccaridiche di dimensioni variabili si riscontrano in alcuni linfociti delle cavie o di specie correlate come il capibara. Si presentano sotto forma di strutture eosinofiliche granulari rotonde, che si ritiene svolgano la funzione delle cellule natural killer e siano associate ad alcuni enzimi lisosomiali.

Cellule infiammatorie dei rettili Eterofili nei conigli L’infiammazione può essere classificata in base al tipo di cellule che predominano nella lesione, dove si possono trovare elementi eterofili, macrofagici, eosinofilici o misti. La risposta eterofila è quella più acuta e comune nelle infezioni batteriche. Gli eterofili sono grandi (10-23 µ) e contengono numerosi granuli fusiformi di colore arancio-rosa brillante. A differenza di quanto avviene negli uccelli, che hanno nuclei lobati, la maggior parte dei rettili presenta un nucleo rotondo o ovale, ma alcune lucertole mostrano nuclei con molteplici lobi. Gli eterofili sono simili ai neutrofili dei mammiferi per quanto riguarda le loro funzioni di fagocitosi e di attività microbicida. Durante l’infiammazione acuta si hanno la degranulazione e la degenerazione cellulare che provocano la formazione di un centro di tessuto necrotico che stimola la penetrazione dei macrofagi portando ad una reazione cellulare mista. In confronto ai mammiferi, l’infiammazione nei rettili non determina la produzione di un pus liquido e cremoso, ma piuttosto di un materiale caseoso di colore bianco giallo. I macrofagi si presentano simili a quelli dei mammiferi e sono derivati dai monociti. Negli uccelli, entro poche ore, si può avere la comparsa di cellule giganti derivate da un raggruppamento di macrofagi ed è possibile che lo stesso avvenga nei rettili. Quindi, è possibile che la presenza di cellule giganti non indichi la cronicità come invece avviene nei mammiferi. Alcuni rettili come l’iguana, e certe lucertole tegu e dragon, nonché i serpenti, presentano un sottogruppo di monociti detti azzurrofili. Questi elementi hanno numerosi fini grunuli eosinofilici dispersi in tutto il citoplasma. Gli eosinofili si riscontrano con scarsa frequenza nelle risposte infiammatorie. Possono contenere granuli tondeggianti di colore verde blu o grigio come nell’iguana, oppure i più tipici granuli rotondi eosinofilici. Non è insolito trovare nelle lesioni infiammatorie segni di trombociti presenti sotto forma di grappoli (cluster) strettamente raggruppati che indicano un recente sanguinamento.

I neutrofili del coniglio e, in minor misura, della cavia si presentano più eosinofilici del citoplasma tipicamente chiaro o leggermente granulare delle altre specie di mammiferi. Ciò ha dato origine al termine di “pseudoeosinofili”. L’aumento della colorazione è correlato alla fusione di molti piccoli granuli acidofili o granuli primari. Il citoplasma colorato in contrapposizione all’aspetto neutro o non colorato consente di indicare più correttamente questi leucociti con il termine di eterofili. La loro funzione è identica a quella che svolgono negli mammiferi, ma a differenza di quanto avviene nella maggior parte di questi ultimi non si colorano citochimicamente per la mieloperossidasi.

Peritonite da tuorlo d’uovo In un uccello o un rettile, il riscontro di un versamento celomatico torbido che al microscopio si presenta con l’aspetto di un materiale basofilo amorfo sullo sfondo suggerisce la presenza di tuorlo d’uovo dovuta ad una rottura nella cavità corporea. Il contenuto proteico è elevato sino a valori superiori a 3 µg/dl. La risposta infiammatoria è di tipo misto, con eterofili e macrofagi, alcuni dei quali sembrano contenere detriti cellulari. Non ci sono segni di infezioni.

Citologia respiratoria I lavaggi delle vie nasali, della trachea e dei bronchi sono un metodo frequente di valutazione del tratto respiratorio nei rettili. L’epitelio è simile a quello dei mammiferi, in quanto predomina la forma cuboidale nella regione nasale, mentre lungo la trachea ed i grossi bronchi si trova un epitelio ciliato colonnare. All’interno dei lavaggi broncoalveolari del pol-


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mone sono presenti macrofagi alveolari. Nella maggior parte dei casi, si riscontrano infezioni batteriche, tra le quali risultano più frequenti quelle sostenute da forme bastoncellari. La presenza di batteri intracellulari all’interno degli eterofili o dei macrofagi suggerisce un’autentica sepsi e non una contaminazione. Occasionalmente, è stato possibile individuare dei parassiti polmonari sulla base della presenza di uova o larve all’interno dei materiali di lavaggio.

Citologia gastroenterica I lavaggi gastrici sono un metodo comune di valutazione delle anomalie del tratto digerente nei serpenti. È possibile riconoscere la presenza di infezioni sostenute da una proliferazione di batteri o da agenti protozoari. Nei serpenti con segni clinici di rigurgito e perdita di peso sono state identificate piccole strutture basofile leggermente rotonde che misurano 4-6 µ e presentano una struttura interna granulare color porpora. Questi microrganismi protozoari sono accompagnati da una risposta infiammatoria principalmente di tipo macrofagico. I microrganismi si colorano positivamente con le tecniche acidoresistenti e vengono diagnosticati come Cryptosporidium spp. all’immunofluorescenza.

Gotta Si tratta di una condizione infiammatoria derivata dall’accumulo di cristalli di acido urico negli organi interni e nelle articolazioni, spesso secondaria a fattori dietetici come un aumento dell’assunzione di proteine ed un calo del consumo di acqua. La diagnosi può venire confortata dall’esame di materiale cristallino aspirato che microscopicamente appare sotto forma di caratteristici cristalli aghiformi incolori che dimostrano una birifrangenza sotto le lenti polarizzate. Spesso i livelli sierici di acido urico risultano marcatamente elevati. La possibile diagnosi differenziale per i depositi cristallini nei tessuti sottocutanei o negli organi è la pseudogotta, derivante dalla calcificazione metastatica o distrofica con depositi di fosfato di calcio (idrossiapatite) nelle tartarughe e nelle lucertole.

Tumori della ghiandola mammaria nel ratto Il fibroadenoma è una condizione benigna molto comune nel ratto. Macroscopicamente, le masse possono essere molto grandi e pesare tanto quanto l’animale, ma non danno origine a metastasi. Si tratta di lesioni benigne sottoposte ad un influsso ormonale. Queste tumefazioni sottocutanee spesso compaiono lungo la parte ventrale dell’addome dalla regione ascellare a quella inguinale. Un’altra lesione comune è l’iperplasia fibroadenomatosa che può apparire simile con cellule epiteliali reattive dotate di un rapporto nucleo/citoplasmatico più elevato, attività secretoria e poche o nulle caratteristiche di malignità. Spesso è presente una proliferazione di tessuto connettivo che esita in una cellularità minima o nella presenza di fibroblasti reattivi. A differenza di

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questo tumore, le cisti mammarie possono essere identificate citologicamente sulla base dell’aspirazione di un fluido sieroso proteinaceo a bassa cellularità che presenta principalmente poche cellule mononucleate come i macrofagi.

Linfoma nei furetti Il linfoma è una condizione neoplastica comune nei furetti, dove costituisce il 12% circa della totalità dei tipi tumorali. La forma più comune negli adulti è caratterizzata da una presentazione linfonodale multicentrica composta principalmente da piccoli linfociti. Ciò porta spesso ad una diagnosi equivoca di linfoma all’esame citologico. In questi casi, si raccomanda caldamente l’istopatologia. I linfonodi colpiti si possono trovare nelle regioni cervicali, periferiche o addominali. Al secondo posto in ordine di frequenza si trova la forma giovanile, nei furetti con meno di 10 anni di età Questi spesso vengono portati alla visita perché colpiti da una malattia acuta caratterizzata da difficoltà respiratoria dovuta al fatto che la proliferazione mediastinica presente coinvolge frequentemente il timo. Nella forma giovanile possono essere colpiti la milza ed il fegato, insieme alla linfocitosi periferica. Le cellule sono più immature, coinvolgono medi e grandi linfociti e, nella maggior parte dei casi, appartengono al fenotipo delle cellule T. Un’altra forma di linfoma che esiste nel furetto adulto è costituita da cellule linfoidi immature e si riscontra in una varietà di sedi. Gli aspirati splenici ottenuti da furetti con splenomegalia possono essere frustranti, perché, tipicamente sono più abbondanti i piccoli linfociti. Inoltre, nella maggior parte dei casi risulta evidente un’emopoiesi extramidollare per la frequenza dei precursori eritroidi. Nel linfoma della milza si dovrebbe trovare una popolazione monomorfica di cellule con nuclei grandi, nucleoli prominenti e assenza di precursori emopoietici.

Bibliografia Benirschke K et al (eds). Pathology of Laboratory Animals: Springer-Verlag, New York. 1978, pp 1194-1213 Campbell TW. Clinical pathology. In: Mader D (ed): Reptile Medicine and Surgery. WB Saunders Co, Philadelphia. 1996, pp 248-251. Erdman SE et al. Clinical and pathologic findings in ferrets with lymphoma: 60 cases (1982-1994). J Am Vet Med Assoc. 1996, 1285-1289. Harr KE et al. Gastric lavage from a Madagascar tree boa (Sanzinia madagascarensis). Vet Clin Pathol. 2000, 93-96. Montali RJ. Comparative pathology of inflammation in the higher vertebrates (reptiles, birds, and mammals). J Comp Path. 1988; 99:1-26. Raskin RE. Reptilian complete blood count, In: Fudge AM (ed): Laboratory Medicine: Avian and Exotic Pets. Philadelphia, WB Saunders Co, 2000, pp. 193-197. Thrall MA et al (eds). Veterinary Hematology and Clinical Chemistry: Lippincott Williams & Wilkins, Philadelphia. 2004, pp 211-224, 259-276.

Author’s Address for correspondence: Rose E. Raskin Professor of Veterinary Clinical Pathology Purdue University, West Lafayette, Indiana, USA


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Citologia avanzata delle masse cutanee Rose E. Raskin DVM, PhD, Dipl ACVP, West Lafayette, Indiana, USA

Cisti follicolari Questa lesione non neoplastica può anche essere indicata come cisti da inclusione epidermica o cisti epidermoide. Queste formazioni si trovano in un terzo o metà delle lesioni similtumorali non infiammatorie non neoplastiche asportate, rispettivamente, nel cane e nel gatto. Le cisti si osservano con maggiore frequenza nei cani di media età o anziani. Possono essere singole o multiple, solide o fluttuanti, con un aspetto liscio, tondeggiante e ben circoscritto. Spesso sono localizzate sul dorso ed a livello delle estremità. Citologicamente predominano barre di cheratina, squame o altri cheratinociti. La degradazione delle cellule all’interno delle cisti può portare alla formazione di cristalli di colesterolo che si presentano come placche rettangolari con incisure irregolari e colorate negativamente, che si osservano meglio contro lo sfondo formato da detriti cellulari basofili amorfi.

tia si presenta nel gatto e nel cane sotto forma di lesioni isolate o multiple, dure o fluttuanti, rilevate e ben demarcate. Possono lasciar fuoriuscire un fluido oleoso di colore giallo bruno. Le sedi maggiormente interessate sono la parte dorsale del collo, il tronco ed il tratto prossimale degli arti. Citologicamente, predominano i neutrofili non degenerati ed i macrofagi su uno sfondo vacuolizzato costituito da tessuto adiposo. I piccoli linfociti e le plasmacellule possono essere numerosi, specialmente nelle lesioni indotte dalle reazioni vaccinali. Spesso, i macrofagi si presentano con un abbondante citoplasma schiumoso o sotto forma di elementi giganti multinucleati. Quando è cronica, la fibrosi è indicata dalla presenza di cellule fusiformi rigonfie, con immaturità nucleare. La fibrosi può essere così estesa da suggerire una neoplasia mesenchimale.

Neoplasia Mucocele o sialocele La rottura del dotto correlata a trauma o infezione porta ad un accumulo di saliva nei tessuti sottocutanei. La presenza di una massa fluttuante contenente un fluido limpido o emorragico con caratteristiche di filamentosità suggerisce una rottura del dotto della ghiandola salivare. Il campione istologico spesso si colora uniformemente di porpora a causa dell’elevato contenuto proteico. Lo sfondo può contenere pallidi basofili sparsi e materiale amorfo, compatibile con la saliva. Il fluido è spesso emorragico, con segni di sanguinamento acuto e cronico. È comune l’eritrofagocitosi ed occasionalmente si possono osservare dei cristalli romboidali di colore giallo. Questi vengono detti cristalli di ematoidina e sono associati ad emorragia cronica. La popolazione cellulare nucleata è costituita principalmente da macrofagi altamente vacuolizzati che mostrano un’attiva fagocitosi. La distinzione fra questi elementi ed il tessuto ghiandolare secernente può essere difficile, specialmente quando le cellule presentano caratteristiche individuali e non sono fagocitarie. Sono comuni i neutrofili non degenerati, che vanno incontro a degenerazione quando insorge un’infezione batterica.

La neoplasia viene inizialmente diagnosticata quando è presente una popolazione cellulare monomorfica e manca una significativa infiammazione. L’ulteriore distinzione fra tipi benigni e maligni si basa sulle caratteristiche citomorfologiche. Le cellule benigne mostrano un’uniformità di dimensioni, rapporto nucleocitoplasmatico ed altre caratteristiche nucleari. Quelle maligne spesso presentano tre o più caratteristiche cellulari anaplastiche. Le caratteristiche maligne sono rappresentate da variabilità delle dimensioni e della forma delle cellule o dello stato di maturazione fra elementi di origine simile (pleomorfismo). La variazione delle dimensioni del nucleo viene detta

Pleomorfismo Anisocariosi Rapporto N : C elevato o variabile Cromatina addensata e ammassata

Pannicolite nodulare/steatite

Nucleoli grandi o variabili Attività mitotica anormale

Questa condizione può avere un’eziologia infettiva o non infettiva. Le cause della pannicolite non infettiva sono rappresentate da traumi, corpi estranei, reazioni vaccinali, condizioni immunomediate, reazioni da farmaci, malattie pancreatiche, carenze nutrizionali e forme idiopatiche. La malat-

Multinuclearità Fusione nucleare


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Categorie citomorfologiche di neoplasia Categoria

Caratteristiche generali

Esempi

Epiteliale

Grappoli di cellule strettamente addossate

Carcinoma delle cellule di transizione, tumori polmonari

Mesenchimale

Cellule fusiformi o ovali, singole

Emangiosarcoma, osteosarcoma

Cellule rotonde/isolate

Singole cellule isolate, tondeggianti

Linfoma, tumore venereo trasmissibile

A nucleo nudo

Cellule lassamente adese con nuclei tondi liberi

Tumori tiroidei, paragangliomi

anisocariosi. Il rapporto nucleocitoplasmatico (N : C) è elevato o variabile. La cromatina può presentare degli ammassi grossolani. I nucleoli sono ingrossati, multipli e di forma variabile. Le figure mitotiche anomale mostrano una suddivisione non uniforme o cromatina isolata. In caso di rapida crescita delle cellule si ha la fusione nucleare. Le neoplasie possono essere suddivise in quattro categorie generali sulla base del loro aspetto morfologico. Tali categorie sono epiteliale, mesenchimale, a cellule rotonde o isolate e a nucleo nudo.

Carcinoma squamocellulare Si tratta di un tumore comune che si presenta sotto forma di masse proliferative o ulcerative, isolate o multiple. È più frequente a livello degli arti del cane e nelle aree con mantello sottile dei padiglioni auricolari o del muso del gatto. Citologicamente, spesso si osserva un’infiammazione purulenta che accompagna un epitelio squamoso immaturo o displasico. Se la superficie è stata erosa, si può avere una sepsi batterica. La caratteristica forma a girino ed il citoplasma cheratinizzato di colore blu-verde possono rappresentare utili criteri per determinare l’origine cellulare. Nei tumori ben differenziati è frequente il riscontro di squame ed epitelio squamoso nucleato altamente cheratinizzato, che corrispondono alle perle di cheratina visibili istologicamente. Il pleomorfismo cellulare nucleare è marcato. Può essere presente una vacuolizzazione perinucleare. L’epitelio neoplastico si può presentare sotto forma di cellule singole o come foglietti cellulari adesi.

Tumori basocellulari Si riscontrano comunemente nel cane e nel gatto sotto forma di singole masse intradermiche dure, elevate e ben demarcate, tondeggianti, che possono essere ulcerate o cistiche. Molti tumori appaiono pigmentati per l’abbondante melanina. Le neoplasie del gatto possono essere cistiche. Sono localizzate principalmente in prossimità della testa, con un frequente riscontro a livello del collo e degli arti. Citologicamente, le cellule basali sono piccole e contraddistinte da rapporto nucleocitoplasmatico elevato, nuclei monomorfici e citoplasma intensamente basofilo. Possono essere disposte a grappoli o in file.

Adenoma delle ghiandole perianali Il tumore può essere singolo o multiplo e si localizza generalmente in prossimità dell’ano, ma si può trovare anche a livello di coda, perineo, prepuzio, coscia e lungo la linea mediana dorsale o ventrale. Inizialmente, queste neoplasie si presentano macroscopicamente come lesioni tondeggianti lisce e rilevate che diventano lobulate ed ulcerate man mano che si accrescono. Il tumore origina dall’epitelio modificato delle ghiandole sebacee. Citologicamente, predominano foglietti di cellule epatoidi mature rotonde caratterizzate da un abbondante citoplasma finemente granulare e di colore blu rosato. I nuclei sono simili a quelli degli epatociti normali e si presentano tondeggianti e accompagnati spesso da un nucleolo prominente singolo o multiplo. Può anche essere presente un numero limitato di cellule di riserva basofile più piccole con un rapporto nucleocitoplasmatico elevato, ma questi elementi sono privi delle caratteristiche del pleomorfismo cellulare.

Fibrosarcoma Nei gatti giovani questo tumore può essere causato dal virus del sarcoma felino e può essere multiplo. Nei cani e nei gatti anziani, i tumori sono isolati con una predilezione per arti, tronco e testa. Sono scarsamente circoscritti e talvolta ulcerati. Citologicamente, il fibrosarcoma è costituito da un abbondante numero di grandi cellule rigonfie che si presentano singolarmente o come aggregati. Occaq1sionalmente si possono osservare elementi giganti multinucleati. Il pleomorfismo nucleare può essere marcato in confronto alla controparte benigna. Le cellule sono meno uniformi e generalmente mostrano un rapporto nucleocitoplasmatico più elevato.

Emangiopericitoma canino Si tratta di un tumore comune generalmente ritenuto in grado di colpire soltanto il cane. Spesso si tratta di neoplasie isolate con una predilezione per le articolazioni degli arti, ma di comune riscontro nel torace e nell’addome. Si riscontrano formazioni dure o molli, multilobulate e spesso ben circoscritte. Citologicamente, i preparati sono moderatamente cellulari. Le cellule sono fusiformi e rigonfie e si possono presentare singolarmente o disposte sotto forma di


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fascetti, che talvolta si trovano adesi alla superficie dei capillari. I nuclei sono ovoidali, con uno o più nucleoli centrali prominenti. Occasionalmente si osservano cellule multinucleate. Si può osservare uno stroma collageno amorfo di colore rosa associato alle cellule. Il citoplasma è basofilo e può contenere numerosi piccoli vacuoli isolati. Cellule linfoidi sono state riscontrate nel 10% circa dei casi.

Lipoma Si tratta del più comune tumore del tessuto connettivo del cane. La neoplasia può essere singola o multipla, localizzata per la maggior parte a livello del tronco e nel tratto prossimale degli arti. Si tratta di masse cupoliformi, ben circoscritte, molli, spesso liberamente mobili, all’interno del sottocute, che possono crescere lentamente fino a diventare molto grandi. Citologicamente, i vetrini non colorati appaiono umidi, con gocce scintillanti che non si asciugano completamente. Il miglior modo per dimostrare la presenza dei lipidi è quello di utilizzare una colorazione idrosolubile (nuovo blu di metilene) associata ad una specifica per i grassi (oil-red-O). Quando si utilizza una tecnica a base alcolica di tipo Romanowsky, i lipidi vengono disciolti lasciando spesso i vetrini privi di cellule. Quando sono presenti, gli adipociti intatti mostrano un abbondante citoplasma chiaro con un piccolo nucleo compresso verso uno dei lati della cellula.

Emangiosarcoma Si tratta di una massa infiltrante maligna del derma o del sottocute. Le lesioni sono rilevate, scarsamente circoscritte, ulcerate ed emorragiche. Citologicamente, i preparati su vetrini hanno una bassa cellularità con numerose cellule ematiche sullo sfondo. Possono essere presenti segni di emorragia con macrofagi carichi di emosiderina. Gli elementi neoplastici sono pleomorfi e vanno da grandi cellule fusate a cellule stellate. Il citoplasma è basofilo, con margini indistinti ed occasionali vacuoli puntati. Le cellule presentano un rapporto nucleocitoplasmatico elevato, nuclei ovali con cromatina addensata e molteplici nucleoli prominenti.

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sono piccoli ed uniformi in confronto alle caratteristiche di anisocitosi, anisocariosi, cromatina addensata e nucleoli prominenti che si osservano nei melanomi maligni.

Istiocitoma del cane Si tratta di un tumore benigno molto comune a rapida crescita della maggior parte dei cani giovani. La neoplasia si presenta come una piccola massa isolata, ben circoscritta, cupoliforme, rossa, ulcerata e priva di peli. Si osserva comunemente a livello della testa, in particolare del padiglione auricolare, nonché degli arti posteriori, delle zampe e del tronco. Citologicamente, le cellule presentano nuclei dentellati e rotondi con cromatina fine e nucleoli indistinti. Le cellule mostrano anisocariosi ed anisocitosi di grado minimo. Il citoplasma è abbondante e chiaro o leggermente basofilo con margini cellulari indistinti. Nelle lesioni in regressione è comune il riscontro di un numero variabile di piccoli linfociti ben differenziati.

Mastocitoma I tumori nel cane sono generalmente isolati, non incapsulati ed altamente infiltranti nel derma e nel sottocute. Nel gatto di solito sono rappresentati da masse dermiche isolate e ben circoscritte che si riscontrano a livello di testa, collo ed arti. Nei giovani gatti siamesi sono comuni le masse multiple. I mastocitomi del gatto sono frequenti anche negli organi viscerali, nella milza e nel fegato. Dal punto di vista citologico, le cellule tumorali possono presentare un grado variabile di granularità con alcuni elementi caratterizzati da numerosi granuli metacromatici distinti ed altri in cui il numero di queste formazioni citoplasmatiche è moderato, scarso o del tutto assente. Nelle forme meno differenziate, possono essere presenti anisocariosi, cromatina addensata e nucleoli prominenti, unitamente ad un citoplasma scarsamente granulato. Nelle forme poco differenziate è più comune il riscontro di cellule giganti binucleate. Gli eosinofili sono più numerosi nei tumori del cane che in quelli del gatto.

Bibliografia e letture consigliate Melanoma I tumori benigni sono per la maggior parte rappresentati da masse di colore bruno scuro o nero, circoscritte, rilevate, cupoliformi e ricoperte da cute liscia priva di peli. Le neoplasie maligne sono caratterizzate da una pigmentazione variabile, infiltranti, spesso ulcerate ed infiammate. Dal punto di vista citologico si tratta di cellule pleomorfiche che vanno da epitelioidi a fusiformi o, occasionalmente, si presentano come cellule rotonde isolate. Nei tumori ben differenziati, i nuclei possono essere mascherati da numerosi granuli citoplasmatici fini di colore nero-verde. I tumori scarsamente differenziati possono contenere pochi granuli citoplasmatici o esserne privi. I nuclei nelle forme benigne

Baker R, Lumsden JH. Colour Atlas of Cytology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH. Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2nd Ed. 1999. Radin MJ, Wellman ML. Interpretation of Canine and Feline Cytology: Ralston Purina Company Clinical Handbook Series. The Gloyd Group, Inc, Wilmington, DE; 2001. Raskin RE, Meyer DJ (eds). Atlas of Canine and Feline Cytology: WB Saunders Co, Philadelphia; 2001.

Author’s Address for correspondence: Rose E. Raskin Professor of Veterinary Clinical Pathology Purdue University, West Lafayette, Indiana, USA


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Trattamento omeopatico di casi cronici a lungo termine: alcune considerazioni ed esempi clinici Barbara Rigamonti Med Vet, Genova

1. Il paziente non è una fotografia ma un film: monitorizzare l’evoluzione dinamica dei parametri dal punto di vista tradizionale ed omeopatico. Non sarà mai sufficientemente sottolineata la necessità di regolari follow up per la corretta gestione omeopatica del caso cronico con gestione a lungo termine. Qualunque fenomeno che si presenti in un paziente che abbia intrapreso una terapia omeopatica, fa pienamente parte del film che noi dobbiamo osservare e comprendere nel suo senso generale. Non vi è fatto nella vita del paziente che non ci riguardi. Inoltre interventi terapeutici intercorrenti, sia gestiti autonomamente dal proprietario che da colleghi, sia con medicamenti omeopatici che allopatici, possono avere effetto soppressivo e modificare in modo significativo il corretto andamento della cura. Va effettuato un follow up diretto al massimo 30 giorni dopo la prima prescrizione, e quindi ogni 3-4 mesi finché non si sia raggiunta una soddisfacente verifica della corretta azione del medicamento; inoltre occorrono frequenti follow up telefonici: la comparsa di nuovi sintomi può suggerire controlli più ravvicinati del previsto. Caso 1: enterite linfoplasmacellulare Cane meticcio femmina 1 anno Al momento della visita omeopatica presenta enterite linfoplasmacellulare sotto trattamento cortisonico; la diagnosi è stata posta con gatro/colonscopia; il paziente riceve regolarmente la terapia prevista dal protocollo, ma presenta periodicamente importanti sintomi ge. Osservazione dei fenomeni dal punto di vista omeopatico: tutti i sintomi fisici sono patognomonici Fenomeni ricavati dall’anamnesi: carattere diffidente, molte paure; pregresso episodio di colpo di sole. Repertorizzazione n 1: comprende sintomi fisici ed alcuni sintomi mentali; Prescrizione: Natrum muriaticum Repertorizzazione n 2: escludendo tutti i sintomi patognomonici porta a modificare la prescrizione da Nat m a Nat c Prescrizione: Natrum carbonicum Considerazioni dopo 2 anni: la terapia omeopatica ha fatto osservare una diminuzione di efficacia dopo il primo anno di trattamento; un successivo follow up ha evidenziato come questo abbia fatto seguito ad una anestesia generale e somministrazione di terapia antibiotica per il trattamento di un ascesso dentale; si sono quindi rese necessarie diverse considerazioni posologiche per ristabilire il corretto funzionamento della terapia.

Occorre sottolineare al proprietario dell’animale e/o ai colleghi che inviano il paziente il fatto che ogni trattamento intercorrente, anche se apparentemente non collegato al decorso della patologia, ci deve essere segnalato. Attenzione: molto spesso i proprietari hanno una consolidata abitudine a somministrare farmaci di ogni genere per propria iniziativa; le persone che hanno familiarità con le terapie omeopatiche, spesso somministrano rimedi sintomatici che possono altrettanto modificare l’andamento; con l’unica eccezione di Arnica in caso di trauma, l’omeopata deve raccomandare di non somministrare nulla, e di mettersi sempre in contatto telefonico in presenza di sintomi acuti o di variazione nella sintomatologia della patologia cronica. Questo da un lato permette di gestire l’efficacia della terapia in corso, e d’altro canto contribuisce alla monitorizzazione dei fenomeni che dal nostro punto di vista fanno sempre parte dell’evoluzione globale del paziente, ovvero sono momenti del film che ci proponiamo di osservare. 2. Il medicamento ideale può accompagnare il paziente per tutta la vita: verificare sempre l’effetto del rimedio abituale prima di variare la prescrizione. Il veterinario ha la fortuna di poter osservare un lungo tratto di vita del suo paziente, e talvolta la vita intera dalla nascita alla morte. Questo permette di verificare su una più estesa base statistica la teoria omeopatica del simillimum: il medicamento più simile ovvero più adatto alle caratteristiche dell’individuo, che lo può accompagnare ed aiutare in ogni fase della vita, anche in presenza di sintomi diversi. Come evidenziato dal caso esposto nel filmato n. 2, anche il rimedio che si sia dimostrato efficace per un lungo periodo di vita ed in circostanze molto critiche, non ha potere ove esista una causa meccanica di patologia, che andrà comunque rimossa chirurgicamente. Caso n. 2: encefalomielite asettica nel gatto; Gatto persiano di 6 anni, al momento della visita omeopatica presenta atassia totale, incontinenza, anoressia; la diagnosi di encefalomielite asettica è stata posta nel contesto di accertamenti specialistici approfonditi; da 6 mesi viene effettuato il previsto protocollo con terapia cortisonica; il quadro è ingravescente e non più compatibile con una qualità di vita accettabile, considerata anche la giovane età del gatto. Osservazione dei fenomeni dal punto di vista omeopatico: fascicolazione degli arti; insofferenza allo sfioramento; emaciazione


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Fenomeni pregressi ricavati dall’anamnesi: ittero; atassia Repertorizzazione: considera tutti i sintomi attuali e pregressi, e la sola modalità mentale presente nel contesto della malattia Prescrizione: Phosphorus 5 CH 1X Considerazioni dopo 7 anni: il paziente non ha mai assunto un medicamento diverso da Phos, tranne nel caso di una occlusione intestinale dovuta a pilobezoari che si è verificata durante l’estate del 2004 ed è stata risolta chirurgicamente. Le indicazioni prognostiche di partenza erano sfavorevoli in questo caso: - alto livello gerarchico del tessuto interessato; - grado lesionale grave/incurabile; - stato generale gravemente compromesso; - pregresso importante scompenso metabolico. Conseguentemente i follow up a lungo termine ci permettono di dire che il medicamento ha agito in modo profondamente curativo, dal momento che i fenomeni patologici, oltre a presentare una remissione sintomatologia prossima al 100%, non hanno dato luogo a patologie vicarianti; l’alterazione quindi non è stata trasferita ad altro sottosistema, e ha sempre risposto favorevolmente al medicamento nel corso di lievi recrudescenze, che si sono verificate nei primi anni di trattamento per poi stabilizzarsi definitivamente; la qualità del risultato clinico dal punto di vista neurologico è dimostrata anche dall’ottima risposta osservata in occasione dell’anestesia generale. 3. I protocolli posologici non sono prevedibili a priori: stabilire un programma di follow up telefonici per adeguarli opportunamente e mantenere anche la similitudine di potenza. Le scelte posologiche richiedono costante attenzione da parte nostra. Vi sono regole generali cui spesso ci possiamo attenere: - potenze ascendenti; - incremento minimo di potenza (metodo delle “plus”); - ripetizione al bisogno o in base alla sensibilità dimostrata dal paziente. In particolari situazioni possiamo valutare l’opportunità di applicare criteri diversi da quelli appena esposti. Per esempio: il paziente non reagisce ad un determinato range di potenza; il paziente è ipersensibile ad un determinato range di potenza; il paziente attraversa una fase di intenso aggravamento; il paziente corre pericolo di vita. Caso 4: rickettsiosi nel cane. Cane pastore scozzese maschio 8 anni Al momento della visita omeopatica presenta: forte rigidità degli arti posteriori, atassia, importante astenia e depressione del sensorio, polifagia; Alt 111 Alp 451 colesterolo 407; è stata posta diagnosi di Erlichia granulocitica e Richettzia richettzii nel contesto di accertamenti effettuati in clinica medica universitaria; il paziente ha ricevuto regolarmente la terapia prevista nel protocollo prescritto, ma presenta gravi fenomeni di intolleranza che obbligano all’interruzione della terapia. Osservazione dei fenomeni dal punto di vista omeopatico: stato lesionale grave multiorgano; importante compromissione energetica;

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Fenomeni ricavati dall’anamnesi: carattere timido e pauroso; atassia e vertigini dal momento di inizio della terapia antibiotica; desiderio di pesce; intolleranza a molti alimenti; sintomi emorragici Repertorizzazione: escludo tutti i sintomi patognomonici di malattia. Considero le principali caratteristiche mentali ed i sintomi generali e locali intensi e persistenti nel tempo, più il sintomo delle vertigini, reazione individuale al trattamento farmacologico. Prescrizione: China regia 30 CH 1X. Considerazioni dopo 4 anni di terapia: il paziente ha reagito bene alla metodica delle somministrazioni in potenza ascendente effettuate con il sistema delle “plus”, arrivando molto gradualmente alla XMCH. Nel mese di febbraio u.s. ha attraversato una grave crisi, con recidiva dei sintomi patognomonici, che non ha reagito favorevolmente né al trattamento omeopatico, né ad un ciclo dell’antibiotico indicato (che è stato somministrato in questi quattro anni solo due volte e solo per pochi giorni). Le mie considerazioni in questo frangente sono state: il cane ha un livello minimo di energia; lo stato lesionale è grave; le condizioni generali sono molto compromesse; non vi è risposta adeguata ai dosaggi assunti con buoni risultati in precedenza. Quindi ho deciso di somministrare il medicamento a bassa diluizione, dopo una pausa di alcuni giorni dall’ultima dose in potenza elevata; quindi ho prescritto China regia 5 CH, una sola somministrazione di tre granuli e follow up telefonico dopo 12 ore. Questa somministrazione ha migliorato le condizioni del paziente in modo evidente, quindi è stata ripetuta nei giorni successivi riportando un equilibrio che sembrava ormai compromesso; la 5 CH in quel particolare momento è risultata essere la potenza in grado di interagire correttamente con la scarsa energia del paziente. 4. Il proprietario del paziente cronico fa parte del percorso da governare: comprendere gli scenari e gestire la comunicazione. La comunicazione con il proprietario dell’animale fa parte del metodo omeopatico soprattutto nella gestione del caso cronico. Aspetti fondamentali per una comunicazione efficace sono: - Comprendere lo scenario da cui provengono l’animale e la famiglia che lo ospita - Comprendere la danza o interazione relazionale, sviluppare una autocoscienza emozionale ed un ascolto attivo - Rendere possibile una chiara comprensione da parte del proprietario dei parametri di riferimento necessari per la valutazione dell’evoluzione del caso clinico - Educare il cliente ad esercitare un ruolo attivo nel governare il benessere dell’animale, e, possibilmente, renderlo autonomo al massimo grado in questo ruolo.

Indirizzo per la corrispondenza: Barbara Rigamonti, Via Oreste De Gaspari 26 r. 16146 Genova Tel: 010 364178 Fax: 010 8631113 E-mail: omeovet@bonfi.it


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Anestetici locali e tecniche locoregionali Attilio Rocchi Med Vet, Firenze

Le tecniche loco-regionali sono un valido supporto per generare un’elevata analgesia nel paziente chirurgico, in genere con minima invasività, e con un impatto sistemico notevolmente ridoto. Per poterne correttamente interpretare l’uso è necessario procedere ad una breve ma essenziale premessa. A differenza del paziente umano adulto, il nostro non è assolutamente in grado di darsi o di ricevere spiegazioni per quanto concerne qualsivoglia procedura gli venga applicata. Ancora, il nostro paziente non ha capacità di distinguere fra un dolore ed un fastidio, e di conseguenza interpreterà come aggressioni anche pratiche non propriamente dolorose, ma pur sempre fastidiose. Ne consegue che, mentre in medicina umana alcuni distinguono fra anestesia locale, quando la procedura sia eseguita con anestetici locali, e analgesia locale, quando essa preveda uso di farmaci diversi. In medicina veterinaria è sicuramente meglio approcciare le tecniche loco-regionali con il solo termine di analgesia locale, indipendentemente dalla categoria farmacologia impiegata, intendendo con ciò che l’uso delle procedure più invasive, che richiedamo immobilità, o elevate manipolazioni, vada interpretato come un mezzo per raggiungere analgesia in un paziente possibilmente già in anestesia generale. Questo concetto, peraltro, non è estraneo ed anzi sempre più diffuso anche in medicina umana, soprattutto pediatrica, facendo parte di quella procedura che prende il nome di blended anesthesia, che prevede appunto di produrre ipnosi con tecniche classiche prima di guadagnare analgesia con tecniche locali. Altra distinzione importante è che se in umana certe tecniche sono apprezzate dagli amministratori ancor prima che dagli anestesisti, in quanto riducendo l’ospedalizzazione riducono sensibilmente i costi, in veterinario questo principio non è applicabile in molte occasioni. Sarà infatti spesso necessario seguire e proteggere il paziente al risveglio per il rischio di autotraumatismi alle zona desensibilizzata, e di profondo disagio o stress per l’alterata percezione. Vale la pena di ribadire ancora una volta che il vecchio pregiudizio per il quale l’anestesia locale ritarderebbe la guarigione delle lesioni è stato da lungo tempo completamente sfatato. L’unico inconveniente che gli anestetici locali oggi in uso, con eccezione della Ropivacaina, possono produrre durante la chirurgia è l’aumento del sanguinamento per vasodilatazione. Non va invece dimenticato che l’inoculazione di anestetici locali procura notevole bruciore. Questo inconveniente può essere aggirato nel caso della Lidocaina miscelando una parte di Sodio Bicarbonato 1 mEq/ml con 9 parti di Lidocaina 2%. Più in venerale può essere di aiuto riscaldare il farmaco a temperatura corporea prima di iniettarlo.

Infiltrazione Il più comune uso degli anestetici locali è l’infiltrazione. Oltre all’applicazione in singolo bottone per la desensibilizzazione di piccoli punti di incisione, è possibile isolare piccole aree attraverso una palizzata di inoculazioni. Basterà far penetrare l’ago in profondità, controllare per aspirazione di non aver raggiunto un vaso, quindi iniettare mentre si retrae l’ago; l’operazione viene ripetuta con distanze di circa 1 cm. Se l’area è sufficientemente ristretta si può tentare di descrivere con la palizzata un cono rovesciato in modo da isolare completamente la porzione su cui operare. La scelta di un ago sottile aumenta il comfort del paziente, qualora sia vigile, e minimizza i rischi di penetrazione vasale. Prima di eseguire l’inoculazione bisogna aver cura di assicurarsi che la dose di anestetico sia inferiore alla dose tossica per la specie (lidocaina: 10 mg/Kg nel cane, 4 mg/Kg nel gatto; bupivacaina 2 mg/Kg). Va ricordato che tessuti necrotici o purulenti presentano un pH alterato che limita la possibilità di liberare la base attiva a partire dal sale presente nella formulazione; di conseguenza l’applicazione su tali lesione è infruttuosa.

Ring Block Variante applicabile nelle zone distali quali arti e coda è il cosidetto Ring Block o blocco ad anello. La palizzata in tal caso viene eseguita in profondità e seguendo la circonferenza della parte in questo modo si assume di poter coinvolgere tutti i nervi passanti in quel distretto, pur senza possedere elevate conoscenze anatomiche del sito o doversi impegnare nell’individuazione delle singole branche per ottenere un blocco più selettivo. In tale maniera si può ottenere la desensibilizzazione di tutta la parte a valle dell’anello. Cercando, però, di bagnare tutti i tessuti ed i nervi passanti, si ottiene anche di bagnare anche tutto il letto vascolare, e di conseguenza è assolutamente proscritto l’uso di lidocaina addizionata con adrenalina in tale pratica, pena il rischio di determinare una così imponente e diffusa vasocostrizione arteriosa della zona, tale da determinare necrosi della stessa.

Blocco intercostale Il blocco intercostale permette la desensibilizzazione di uno spazio intercostale per l’esecuzione di pratiche invasive quali l’inserimento di un drenaggio toracico su un paziente anche solamente sedato, o un valido supporto per contrastare il dolore nel punto di accesso di una chirurgia toracica, o nel trattamento di fratture costali.


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Ciascun nervo intercostale si sfrangia lungo il suo percorso mandando terminazioni ai due spazi intercostali ad esso craniali e ai due caudali. Ne consegue che per sviluppare completa insensibilità di un singolo spazio intercosatale è necessario bloccare la conduzione anche sui nervi degli spazi adiacenti. Si procede penetrando con l’ago lungo il bordo caudale della costa in modo da portarsi più vicino possibile al fascio pascolo nervoso; superata la costa e verificata l’assenza di sangue nel punto di inoculo, si deposita il farmaco. Il punto di inoculo deve essere nel terzo più dorsale dell’arco costale, in modo da cercare di isolare il nervo prima che si divida. Sarà necessario trattare 5 spazi per ottenere il risultato ottimale in quello centrale. Nel cane, quando lo stato di ingrassamento renda difficile il rilevamento degli spazi, si può inserire l’ago fino alla costa, quindi ridirigerlo caudalmente fino a superarne il bordo ed iniettare.

Splash Il semplice contatto dell’anestetico locale con le mucose produce insensibilità. Questa caratteristica è sfruttata non solo per facilitare l’intubazione o per l’inserimento di sondini nasali, ma può essere vantaggiosamente usata per produrre analgesia locale prima della chiusura di una ferita chirurgica, aspergendo fascia e sottocute, evitando così di dovere eseguire un’infiltrazione ad intervento finito, come è abitudine di alcuni anestesisti. È necessario usare un anestetico ad azione rapida, come la Lidocaina, e lasciarla a contatto con la superficie il tempo necessario perché eserciti la sua azione prima di tamponare o rimuovere i liquidi.

Anestesia di superficie cutanea Le normali pomate a base di lidocaina risultano efficaci sulla mucosa, ma non sono in grado di penetrare attraverso la cute integra. Fa eccezione la pomata EMLA® (AstraZeneca); il suo nome altro non è che l’acronimo per Eutectic Misture of Local Anestetics: essa è infatti costituita da lidocaina e prilocaina, entrambe al 2,5%, molecole che se prese singolarmente non sono in grado di penetrare la cute, proprietà che acquistano una volta combinate. L’effetto è tuttavia piuttosto lento; per ottenere il miglio risultato la pomata va applicata su cute tosata e sgrassata, e quindi bendata. L’azione si completa in 60 minuti, ma è già apprezzabile in tempi più ridotti, permettendo manovre non molto dolorose, che possono andare dall’incannulamento venoso di animali molto agitati e sensibili, all’applicazione del microchip nel cucciolo, fino ad altre e più cruente operazioni cutanee.

Puntura epidurale La puntura epidurale mira a distribuire il farmaco nel tessuto grasso altamente vascolarizzato che si trova esternamente alle meningi, in modo che esso determini analgesia per attività soprattutto sulla base delle emergenze nervose.

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Per l’iniezione si usano in genere aghi spinali di Quinke con calibro 20-22 gouge e lunghezza fra i 30 ed i 75 mm. La bietta viene diretta cranialmente durante la penetrazione. Alcuni anestesisti preferiscono adoperare aghi di Tuohy, non acuminati, incidendo lievemente la cute per l’introduzione; l’uso di tali aghi rende meno probabile un’accidentale perforazione delle meningi, tendendo comunque a sospingerle. La puntura si esegue normalmente fra L7 e S1, posizione in cui è più facile individuare reperi anatomici, la penetrazione è più facile, e minori sono i rischi di inoculazione spinale accidentale. A questo livello l’epidurale produce effetto su tutto il distretto pelvico, arti, cosa, perineo e in misura variabile sui distretti più caudali dell’addome. Il paziente viene posto in decubito laterale o sternale, a seconda delle preferenze. L’estensione craniale degli arti posteriori permette di allargare lo spazio intervertebrale facilitando il passaggio dell’ago. Dopo tosatura e preparazione chirurgica della zona si procede all’individuazione dei punti di repere, creste iliache e processi spino di L7 e S1. Nel cane il punto in cui introdurre l’ago si trova al centro della linea immaginaria che unisce i due punti più sporgenti della ali iliache, e a metà fra i due processi spinosi. A questo livello, con eccezione del soggetto giovane, non è più presente midollo spinale, e quindi è improbabile un non desiderato approfondimento dell’ago fino allo spazio spinale. Nel gatto è sempre valido il riferimento ai punti più sporgenti delle ali iliache, mentre l’ago si troverà spostato nel terzo più caudale dello spazio fra i processi spinosi. In questa specie è a questa altezza è ancora presente il midollo e pertanto maggior attenzione andrà posta nell’individuare un’accidentale localizzazione spinale. Una volta posizionato l’ago ed estratto il mandrino è bene aspettare 30-40 secondi per valutare la fuoriscita di liquor, soprattutto in pazienti piccoli che potrebbero avere una bassa pressione. Nel caso di accidentale puntura spinale si può a scelta tentare un nuovo posizionamento oppure iniettare in questa sede, possibilmente dopo aver lasciato fuoriuscire un volume di liquor prossimo a quello del farmaco e avendo cura di iniettare con estrema lentezza. La presenza di sangue depone per la perforazione di un plesso; in questo caso è bene estrarre l’ago e, se si è confidenti con la tecnica tentare la puntura in altro spazio, altrimenti rinunciare. È sempre consigliabile fare anche una verifica per aspirazione. Molte tecniche sono state descritte per verificare il corretto posizionamento nello spazio epidurale. La più nota, il pop effect, ovvero la distinta sensazione di rottura che si avverte nel passaggio dal ligamentum flavum allo spazio perdurale, per quanto affidabile, non è sempre percepibile. La perdita di resistenza con siringa, iniettando della fisiologica, risulta piuttosto sensibilee permette peraltro di dilatare lo spazio epidurale; in assenza di siringhe bicomponenti a bassa resistenza appositamente concepite, si può ricorrere ad una siringa normale, riempita di fisiologica ma con la presenza di una bolla di aria ben visibile; alla pressione dello stantuffo le deformazioni della bolla indicheranno presenza di resistenze eccessive, per quanto ancora non percepibili dalla mano dell’operatore.


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Anestesia epidurale continua

rita secondo l’asse rachidiano, in modo da rendere ancora meno probabili danni al midollo, se si dovesse accidentalmente penetrarlo. Gli aghi a matita non lasciano quasi nessun segno sulle meningi dopo retrazione; questo ha comportato nel paziente umano una riduzione pari al 25% dell’incidenza di vertigini e gravi emicranie a seguito di fuoriscita di liquor dopo puntura spinale. Per quanto la pratica di perferore il midollo e retrarre poi l’ago non abbia mai prodotto segnalazioni di effetti collaterali clinicamente apprezzabili, la procedura è sconsigliabile. L’introduzione dell’ago deve essere eseguita con tecnica sterile. La fuoriuscita del liquor permette l’individuazione del corretto posizionamento. L’iniezione del farmaco deve essere eseguita con estrema lentezza per ridurre il rischio di indesiderate migrazioni. Rispetto alla puntura epidurale infatti, sono con maggior frequenza riportati incidenti quali arresto respiratorio, sindrome di Horner, riflesso di ShifSherrington, ipoglicemia per blocco del Simpatico, ipotensioni, tremori, convulsioni e coma.

È possibile posizionare in sede epidurale un catetere per protrarre nel tempo l’analgesia epidurale. Per l’inserimento viene posizionate un ago di Tuohy on un ago a matita come lo Sprotte®; questo secondo tipo, a punta acuminata, permette di usare diametri di ago minori, a parità di catetere da inserire. Si consiglia di testare le resistenze che il catetere incontra nell’ago prima dell’inserimento, in modo da poter meglio apprezzare eventuali mal posizionamenti durante la procedura. Per facilitare lo scorrimento del catetere, l’inserimento dell’ago viene fatto con un angolo incidente più basso. Una volta posizionato l’ago il catetere viene fatto scorrere fino all’altezza desiderata e precedentemente misurata. Avanzare il catetere per percorsi superiori ai 4 spazi vertebrali comporta un forte aumento dei rischi di malposizionamenti. Se durante l’avanzamento del catetere si incontrassero inaspettate resistenze e dovesse essere necessario ritirarlo, ciò va sempre fatto dopo rimozione dell’ago: per quanto esso abbia superfici smusse, è già accaduto che il catetere ne sia risultato tranciato e perso nello spazio epidurale. Una volta posizionato il catetere l’ago viene sfilato ed il catetere fissato in posizione, eventualmente con una breve tunnellizzazione sottocutanea per ridurre i rischi di contaminazione profonda. Ad inserimento avvenuto è necessario visualizzare la posizione del catetere almeno con esame radiografico. Eventuali mal posizionamenti possono avvenire per fuoriscita attraverso un foro intervertebrale, con perdita di effetto analgesico e talvolta dolore; per penetrazione in un vaso, il che può produrre effetti sistemici indesiderati e inefficacia dell’analgesia; infine si può penetrare lo spazio sottodurale, con effetti analgesici variabili a seconda del farmaco e della localizzazione. Il malposizionamento può avvenire anche nei giorni successivi all’inserimento avvenuto correttamente. Al momento della rimozione del catetere, se si dovessero riscontrare resistenze, esso non va tirato: potrebbe aver formato anse intorno ad un’emergenza nervosa durante l’inserimento, che potrebbero ora venir strozzate. Si rende in tal caso necessaria una visualizzazione con TAC e la scelta fra la rimozione chirurgica o abbandonare in sede il catetere. Prima di valutare l’inserimento di un catetere epidurale bisogna valutare la possibilità di assicurarne la gestione in un ambiente perfettamente pulito; disporre di personale per controllare che l’animale non causi trazioni del catetere o riesca a raggiungerlo e lesionarlo o strapparlo; che il catetere non possa restare impigliato in alcun modo.

Puntura spinale È possibile inoculare il farmaco direttamente nello spazio sottodurale; questa metodica permette di produrre ottima analgesia con una precisa localizzazione al metamero di interesse, ed eventualmente marcata lateralizzazione se desiderata. È possibile sfruttare sia aghi di Quicke che aghi a matita. Con il primo è preferibile entrare con la bietta inse-

Intra-articolare L’introduzione di anestetici locali nello spazio intra-articolare al momento della capsulorafia o direttamente per puntura può produrre ottima analgesia di lunga durata. In particolare l’uso di Bupivacaina ad una dose di 0,5 mg7Kg è in grado di produrre analgesia per la durata di 24 ore. Vista l’esiguità dello spazio disponibile si rendono necessarie formulazioni ad alta concentrazione.

Splash pleurico È possibile ottenere analgesia di tutta la parete toracica applicando l’anestetico locale lungo la superficie pleurica. Ciò può essere archiviato si a mediante l’inserimento con ago di Tuohy di un catetere di piccolo calibro per via transparietale, o più comunemente sfruttando il drenaggio inserito al termine di una procedura chirurgica toracica. La metodica si presta non solo al contenimento del dolore chirurgico postoperatorio, ma anche a limitare il fastidio che a volte consegue alla sola presenza di un drenaggio. Una volta inserito il farmaco nel catetere ed eseguito un piccolo flush perché esso raggiunga in toto la pleura, il paziente deve essere disposto sul fianco della lesione al fine di ottenere una buon contatto dell’anestetico locale su tutta la pleura. Se ciò è agevole prima di risvegliare il paziente al termine dell’intervento, potrebbe successivamente richiedere il ricorso a lieve sedazione e ad altre forme di analgesia anche se di breve durata. Si ricorre in genere all’uso di Bupivacaina con una dose di 2 mg/Kg ogni 4-6 ore e senza superare gli 8 mg7Kg al giorno. In seconda giornata poi, la dose massima giornaliera deve essere dimezzata per il rischio di accumulo. La tecnica è assolutamente controindicata in caso di pericardiectomia per il rischio di arresto cardiaco che l’anestetico può produrre per contatto diretto sul cuore.


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Blocco del plesso brachiale

Anestesia regionale intravenosa

L’anatomia del paziente veterinario rende l’utilizzo del blocco del plesso brachiale meno pratico ed accessibile che in medicina umana. Nel nostro paziente infatti, il plesso brachiale è costituito da un amaglia diradata ed estesa di rami nervosi protetti dalla scapola. L’accesso al plesso può essere eseguito col paziente in decubito laterale, mantenendo l’arto sollevato e parallelo al piano mediale, im modo da cercare un di scostamento della scapola. Prendendo come riferimento l’articolazione scapolo omerale, l’ago viene introdotto parallelamente al piano mediale e al rachide, profondamente fino a raggiungere il margine caudale della scapola, e ritraendo si inietta il farmaco. Una miglior probabilità di riuscita risiede nella possibilità di inoculare il farmaco quanto più possibile in prossimità dei rami nervosi. Per fare ciò, la vecchia tecnica della parestesia ha progressivamente lascito posto all’impiego di neuroelettrostimolatori che sfruttano un elettrodo posizionato sulla prte distale dell’arto ed un secondo elettrodo sonda costituito dall punta stessa di appositi aghi a parete isolata. Lavorando sulle regolazioni dello strumento è possibile ottenere un maggior avvicinamento. È da sottolineare come l’impiego stesso dell’elettrostimolatore risulti estremamente fastidioso e causa di dolore su un paziente sveglio e pertatnto richieda anestesia e una modica analgesia generale. Nelle razza brachimorfe e con torace a botte è stata segnalata la possibilità di accidentale perforazione pleurica e pneumotorace. Per la stessa conformazione del plesso è discusso quale volume di farmaco sia meglio impiegare. L’uso di lidocaina produce effetto con un on-set di circa 15 minuti e durata di circa 2 ore. La ripresa della completa funzionalità dell’arto può però richiedere anche 6 ore.

L’anestesia regionale intravenosa è anche nota come Bier’s Block, dal nome del medico che la propose nel 1911, ed ha avuto il suo banco di prova nelle amputazioni sul campo durante la prima guerra mondiale. Dopo aver preparato l’arto, viene predisposta una cannula venosa in posizione distale e possibilmente in direzione prossimo-distale. Si procede quindi ad esmarchizzazione dell’arto e a bloccarne il circolo arterioso con un turniquette. Il preventivo posizionamento di un doppler sotto la fasciatura o l’uso di un afascia con manometro può aiutare nel verificare l’avvenuto blocco del circolo arterioso. Rimosso il bendaggio si inietta lidocaina 4-5 mg/Kg per via endovenosa. La diffusione dal letto vasale ai tessuti circostanti produce analgesia in 5-10 minuti, con comparsa disto-prossimale. Nel caso di uso di un laccio emostatico per causare ischemia, poiché la pressione da esso esercitata causa notevole fastidio fino a dolore, esso può essere sostituito alla comparsa dell’analgesia con un secondo laccio posizionato appena più distalmente, e pertanto in area già desensibilizzata. Il blocco della circolazione va lasciato in sede per tutta la durata dell’intervento. Al ripristino della circolazione l’anestetico locale passa lentamente dai tessuti al sangue, senza pertanto causare impatto sistemico; l’analgesia si riduce e scompare rapidamente. L’uso della tecnica va programmato con attenzione alla durata della chirurgia, essendo necessario ripristinare il circolo entro i 90 minuti. L’aggiunta di medetomidina per aumentare l’analgesia o di bloccati neuromuscolari è stata descritta.

Indirizzo per la corrispondenza: Attilio Rocchi Clinica Veterinaria 24 Ore - Via Senese 259/B, 50124, Firenze Tel.: (+39)0552322025 - Fax: (+39)0552323885


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Sarcomi dei tessuti molli: presentazione clinica, diagnosi e stadiazione Giorgio Romanelli Med Vet, Dipl ECVS, Cusano Milanino (MI)

Introduzione

Segnalamento

I sarcomi dei tessuti molli sono un gruppo di tumori cutanei e viscerali con caratteristiche istologiche diverse accomunati da un comportamento biologico simile e comprendono circa il 15% di tutti i tumori cutanei e sottocutanei del cane ed il 7% nel gatto, se si escludono i sarcomi indotti da iniezione. I sarcomi dei tessuti molli comprendono fibrosarcoma, emangiopericitoma, liposarcoma, rabdomiosarcoma, leiomiosarcoma, tumori delle guaine nervose periferiche, mixosarcoma e mesenchimoma. Non sono compresi nel gruppo osteosarcoma extrascheletrico, emangiosarcoma, condrosarcoma, sinoviosarcoma e linfangiosarcoma visto il loro alto tasso metastatico anche se in alcuni casi il sinoviosarcoma è incluso (Tab. 1).

Non si conosce nessuna predisposizione razziale o sessuale anche se la maggior parte dei tumori insorge in cani di grossa taglia.

Tabella 1 Nomenclatura dei tumori mesenchimali dei tessuti molli Sarcomi dei tessuti molli Percentuale metastatica bassa • Fibrosarcoma • Tumori delle guaine nervose periferiche • Emangiopericitoma • Leiomiosarcoma • Mesenchimoma Percentuale metastatica da bassa a media • Fibrosarcoma high grade • Mixosarcoma • Rabdomiosarcoma • Liposarcoma Altri tumori mesenchimali (alta percentuale metastatica) • Emangiosarcoma • Osteosarcoma • Condrosarcoma • Sinoviosarcoma* • Linfangiosarcoma * da alcuni incluso nei sarcomi dei tessuti molli

Eziologia e comportamento biologico Anche se istologicamente differenti, i sarcomi dei tessuti molli hanno alcune caratteristiche in comune che includono: 1. Possibilità di crescere in ogni punto dell’organismo 2. Aspetto pseudoincapsulato con margini istologici scarsamente definiti 3. Tendenza all’infiltrazione fasciale 4. Recidiva molto comune dopo exeresi troppo conservativa 5. Metastasi ematogena in circa il 10-15% dei casi, ma estremamente variabile in relazione al grado istologico 6. Metastasi linfonodale rarissima 7. Gradi istopatologico predittivo di metastasi 8. Scarsa risposta a chemioterapia e radioterapia in caso di tumore misurabile Generalmente i sarcomi dei tessuti molli dimostrano un basso potenziale metastatico ma sono molto invasivi localmente.

Presentazione e segni clinici I sarcomi dei tessuti molli si presentano come neoformazioni di diverso diametro, da pochi millimetri a molti centimetri, solitamente a lento accrescimento ma alcune volte a crescita molto rapida, in parte dovuta alla formazione di cavità cistiche all’interno o ad improvvisa emorragia intratumorale. Il più delle volte i segni clinici sono nulli o scarsi, maggiormente comuni in caso di crescita nel cavo orale od in organi cavi. I tumori che originano dal plesso sono accompagnati da dolore, a volte estremo, zoppia e sintomi neurologici ed il rabdomiosarcoma vescicale può essere accompagnato da stranguria, pollachiuria ed osteopatia ipertrofica. Alla palpazione, i sarcomi cutanei sono duri o duro-elastici, non dolenti se non ulcerati e fissati agli strati più profondi ma ad una indagine superficiale, possono apparire ben capsulati. In realtà tali neoplasie non possiedono una capsula vera e propria ma una pseudocapsula composta di cellule tumorali compresse, miste a tessuto fibrovascolare. Questa caratteristica può ingannare e guidare verso una chirurgia conservativa che non solo lascerà un residuo microscopico ma complicherà inevitabilmente una terapia definitiva.


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Tabella 2 Sistema di gradazione istologica dei sarcomi dei tessuti molli Punteggio

Grado di differenziazione (n° di mitosi/10 HPF)

Numero mitotico

% di necrosi

1 2 3

Sembra normale tessuto mesenchimale Tipo istologico preciso Indifferenziato

0-9 10-19 > 20

Nessuna < 50% del tessuto esaminato è necrotico > 50% del tessuto esaminato è necrotico

Grado 1 = punteggio cumulativo ≤ 4 per le tre categorie Grado 2 = punteggio cumulativo 5 o 6 Grado 3 = punteggio cumulativo ≥ 7

Tabella 3 Stadiazione TNM modificata dei sarcomi dei tessuti molli T N M

Tumore primario T1 < 5 cm di diametro T2 > 5 cm di diametro Linfonodi regionali N0 nessuna metastasi linfonodale accertata N1 presenza di metastasi linfonodale Metastasi a distanza M0 nessuna metastasi a distanza M1 presenza di metastasi a distanza

Stadio 1 1a T1 N0 M0 (grado 1 o 2 < 5 cm di diametro) 1b T2 N0 M0 (grado 1 o 2 > 5 cm di diametro) Stadio 2 2a T1 N0 M0 (grado 3 < 5 cm di diametro) 1b T2 N0 M0 (grado 3 > 5 cm di diametro) Stadio 3 3a Tutti i T N1 M0 (tumori di ogni grado, stato linfonodale verificato) 3b Tutti i T tutti gli N M1

Approccio e stadiazione L’esame citopatologico è molto importante nella diagnostica, soprattutto per escludere la possibilità di un’altra neoplasia ma nella diagnosi dei sarcomi dei tessuti molli ha delle limitazioni che bisogna conoscere, soprattutto nei tumori meglio differenziati. Molto spesso i sarcomi hanno una componente cistica o necrotica che possono rendere difficile o fuorviante l’interpretazione del campione. Oltretutto una parte dei sarcomi tende a cedere poche cellule all’aspirazione. Poiché la conoscenza dell’istotipo è basilare nel planning terapeutico, si consiglia quindi di procedere sempre ad un esame bioptico sia strumentale, mediante ago di Tru-Cut o incisionale con bisturi. È bene ricordare ancora una volta che quando si esegue una biopsia bisogna essere sicuri di poter poi includere il tratto bioptico nell’escissione definitiva.

Le radiografie dirette danno solitamente poche indicazioni se non d’ingrandimento d’organo ma sono poco specifiche e anche in caso d’aderenza alla parte ossea sottostante non consentono una valutazione corretta dell’estensione della malattia. L’esame ecografico è d’aiuto in pazienti con neoplasia viscerale ma non da risultati apprezzabili in pazienti con neoplasia cutanea/sottocutanea od orale. Le indagini TC e RM sono invece sempre più indispensabile nella diagnosi e nella stadiazione e possiedono l’indubbio vantaggio di una risoluzione spaziale superiore sia alla radiologia diretta che all’ecografia, particolarmente importante nei sarcomi della testa e del collo, della parete toracica, della pelvi e degli arti, soprattutto nelle estremità distali. In casi selezionati anche gli esami endoscopici (rinoscopia, esofagogastroscopia) possono essere utili per evidenziare particolari alterazioni d’organo. La maggior parte dei pazienti con sarcoma dei tessuti molli non dimostrano alcuna anomalia agli esami ematochimici e all’emogramma, tranne una piccola parte di pazienti con leiomioma e leiomiosarcoma intestinale che possono dimostrare ipoglicemia, dovuta alla produzione da parte del tumore, di una molecola insulinosimile. Tutti i pazienti con sarcoma devono poi essere sottoposti ad esami radiografici del torace in almeno 2 proiezioni laterali e, se possibile, anche ad una proiezione ventrodorsale, per escludere la possibilità di metastasi polmonari. Anche se la metastatizzazione linfonodale è rara, è bene controllare accuratamente i linfonodi drenanti e sottoporre ad ago aspirazione quelli aumentati di volume, duri o fissi. Di particolare importanza clinica sono la stadiazione ed il grading istologico (Tabb. 2 e 3). In uno studio, il 13% dei tumori di primo grado ed il 7% di quelli di secondo grado hanno sviluppato metastasi a distanza ma la percentuale sale al 43% per tumori di terzo grado. Il solo numero mitotico si è dimostrato importante con una sopravvivenza media di 236 giorni per tumori con più di 19 figura mitotiche x 10 HPF contro i 532 giorni quando le mitosi erano fra 10 e 19 e 1444 giorni se le figure mitotiche erano meno di 10.

Indirizzo per la corrispondenza: Giorgio Romanelli E-mail: romanelli@clinicavetnerviano.191.it


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Nuovi approcci terapeutici nel dolore acuto e cronico del cane: Altadol (Tramadolo cloridrato) Nicola Ronchetti Med Vet, Castelnuovo Rangone (MO)

Il dolore, come sensazione, deve essere considerato e trattato dal clinico al fine di migliorare la qualità di vita dei pazienti e delle persone che stanno loro accanto. Focalizzando l’attenzione sull’evento chirurgico e sulle fasi immediatamente successive, si evidenzia che tutte le tecniche chirurgiche, seppur in misura diversa, provocano un danno tissutale rendendo il dolore parte inscindibile del momento operatorio. L’anestesia è nata proprio dalla necessità di evitare sofferenze ai pazienti e, nel corso degli anni, ha evidenziato che, per ottenere i migliori risultati in questo senso, è necessario associare ai farmaci anestetici anche sostanze analgesiche. Queste associazioni farmacologiche assicurano un’analgesia ottimale per tutta la durata dell’intervento consentendo, altresì, l’uso di un dosaggio inferiore d’anestetici a parità di piano anestesiologico. La terapia antidolorifica nel periodo post-chirurgico è altrettanto importante in quanto consente di diminuire i tempi di recupero. Questa terapia, peraltro non necessariamente farmacologica, inizia già dalla fase del risveglio; infatti, recentemente, è stato introdotto il concetto di Tender Loving Care (T.L.C.) che consiste nel seguire il paziente in questa fase con contatto fisico e vocale. Tale procedura sembra essere responsabile della liberazione d’endorfine che aiutano a superare lo stress del risveglio e la sensazione dolorifica che lo accompagna. Studi clinici in campo umano mostrano che questo farmaco si differenzia dagli altri analgesici centrali in quanto associa ad una buona efficacia analgesica la rapidità d’azione e, a dosi terapeutiche, la mancanza di depressione respiratoria, l’assenza d’induzione d’assuefazione ed un buon profilo di tollerabilità globale; è inoltre indicato nelle situazioni di dolore d’intensità medio-forte. La rapidità d’azione (7-15 min.), l’assenza di depressione respiratoria unita all’assenza d’effetti ipnotici, che permette al paziente d’essere partecipe fin dai primi momenti p.o., condizione ottimale per garantire un rapido recupero fisioterapico, rende il Tramadolo un farmaco di grande importanza. In Italia non è da sottovalutare anche la possibilità di utilizzare questo farmaco senza i rigidi controlli che si hanno per le sostanze stupefacenti; infatti la ricettazione si effettua su ricetta semplice non ripetibile, la registrazione del farmaco sul normale registro di carico e scarico farmaci dell’ambulatorio.

FARMACOLOGIA Il Tramadolo è un analgesico ad azione centrale, frutto di un ampio screening su strutture molecolari, ottenuto da derivati amino-metil-cicloesanolici per sostituzione con gruppi fenilici. Questi composti presentano una struttura di base caratterizzata da un cicloesanolo con un gruppo fenilico ed un residuo dimetilamino-metilico in posizione orto, e sono caratterizzati da un favorevole rapporto tra tossicità acuta e potenza

analgesica; quest’ultima risulta aumentata se l’anello aromatico è sostituito con un gruppo contenente ossigeno in posizione meta. La struttura spaziale del Tramadolo presenta affinità con i recettori per gli oppioidi, dove esercita un puro effetto agonista. Caratteristiche chimico fisiche: è una polvere bianca, cristallina, inodore, con gusto amaro, prontamente solubile in acqua e metanolo. Il Tramadolo è un racemo: due enantioneri, ovvero due molecole con la stessa formula di struttura ma speculari. L’enantiomero positivo presenta una maggiore affinità per i recettori oppioidi µ ed inoltre inibisce la ricaptazione della serotonina; l’enantiomero negativo è meno efficace sui recettori oppioidi e sul sistema serotoninergico, ma agisce inibendo la ricaptazione della noradrenalina. È una base debole e viene assorbita nel primo tratto intestinale. Per la buona solubilità acquosa, la sua percentuale d’assorbimento è elevata, limitata solo dal tempo di transito nello stomaco (tempo che dipende dalla formulazione). La formulazione iniettabile, contiene Tramadolo cloridrato nella concentrazione di 50 mg/ml in una soluzione acquosa tamponata con sodio acetato, senza conservanti di pH 6.0 – 6.8. Tossicologia: studi effettuati su il cane mostrano che la tossicità acuta in DL50 mg/kg è: per os 450, ev > 50, im 50-100. La tossicità subacuta nel cane è (espressa in mg/kg/die): per os 60, im 10, ev 10, rettale 20.

FARMACODINAMICA L’attività analgesica del Tramadolo si articola su due livelli: 1. Azione diretta sui recettori per gli oppioidi: esplica la sua azione come agonista selettivo sui recettori µ, specifici del sistema di percezione del dolore; possiede inoltre affinità debole e priva di significato verso gli altri recettori per gli oppioidi. L’affinità verso i recettori µ è inferiore a quella della morfina. Il principale metabolita: l’O-demetil Tramadolo (M1) ha mostrato affinità e selettività ancora maggiore per i recettori µ ed una più potente azione farmacologica rispetto al composto d’origine, non sono a tuttoggi disponibili studi sulla reale efficacia di questo metabilita nel cane. Il Tramadolo si è dimostrato privo d’effetti antagonisti sui recettori oppioidi. Il suo effetto analgesico è antagonizzato dal pretrattamento con Nalorfina o Naloxone. 2. Attività mediata dalla modulazione del sistema monoaminergico. Infatti, inibisce la ricaptazione di noradrenalina ed aumenta la concentrazione intrasinaptica di serotonina. Queste amine riducono l’eccitabilità nocicettiva dei recettori spinali. L’affinità di legame del Tramadolo ai recettori oppiodi è molto debole così come la capacità di inibire il re-uptake di noradrenalina e serotonina quando queste vengono confrontate alle molecole di riferimento; nessuno dei meccanismi è determi-


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nante per la potenza del Tramadolo nel trattamento del dolore, ma in questa molecola sviluppano un’azione sinergica. Effetti sull’attività respiratoria: l’evento più frequente, in corso di terapia con farmaci agonisti dei recettori oppioidi, è la depressione respiratoria; questo è il limite dei farmaci stupefacenti nell’anestesia degli animali anziani, giovanissimi e della chirurgia toracica in genere. Il Tramadolo in medicina umana, sia nei soggetti sani sia anestetizzati per interventi chirurgici, ha mostrato di non influenzare in maniera significativa l’attività dei centri respiratori. La dose di 0.5 – 2 mg/kg ha determinato un incremento non significativo dell’end-tidal CO2, comparabile a quello del placebo, a differenza della morfina, che provoca una significativa variazione di questo parametro. Effetti sui parametri cardiovascolari: in campo umano si osserva un lieve aumento della frequenza cardiaca (circa sette battiti/minuto) pochi minuti dopo la somministrazione del bolo endovenoso, ed un moderato effetto inotropo positivo, dose dipendente, sul miocardio. Negli studi effettuati da noi, nei nostri pazienti la frequenza cardiaca e la ETCO2 non hanno subito variazioni significative durante tutto il decorso dell’anestesia. Effetti sulla muscolatura intestinale e biliari: il Tramadolo mostra scarsi effetti sulla motilità intestinale, evitando gli sgradevoli effetti dei farmaci che agiscono sui recettori oppioidi, che causano stipsi. Negli studi in oggetto, tutti gli animali ripristinavano una normale attività intestinale entro 24 ore dall’intervento. L’appetito ritornava quasi sempre normale, entro le 12 ore post intervento e solo in pochi casi è stato necessario sospendere il farmaco per la comparsa di vomito. Altri effetti: in medicina umana non si sono osservate reazioni anafilattiche al farmaco e/o aumento dei livelli plasmatici d’istamina. Non viene consigliato l’uso del tramadolo in pazienti epilettici, recenti studi hanno però dimostrato che il tramadolo non influisce sulla soglia epilettogena. Effetti sul risveglio: tutti gli animali trattati con il Tramadolo hanno mostrato un ottimo risveglio e la totale assenza di dolore. Anche toccando il sito della chirurgia non si sono osservate reazioni da parte dell’animale.

FARMACOCINETICA Negli studi effettuati in medicina umana il Tramadolo ha mostrato un rapido assorbimento: 1.9 h per le compresse, 1.1 h per le gocce, ed una biodisponibilità del 68 – 72%. In seguito a somministrazioni ripetute la biodisponibilità aumenta al 98 – 100%. Probabilmente ciò e dovuto alla saturazione delle vie metaboliche enzimatiche che determinano l’effetto del primo passaggio epatico. Nel caso della somministrazione intramuscolare, il raggiungimento del picco plasmatico, avviene dopo 45 minuti ed è assorbito quasi completamente con una biodisponibilità del 99.8%. Questo farmaco ha una notevole rapidità di effetto: per via endovenosa circa 5-10’, per via intramuscolare 10-20’, per le formulazioni orali 20-30’. L’emivita nell’uomo è di 5.1 – 5.9 ore, nel cane sembra sia più lunga. L’assunzione contemporanea di cibo non influisce sull’assorbimento del Tramadolo.

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METABOLISMO Il metabolismo del Tramadolo avviene nel fegato. Il farmaco viene N- ed O- demetilato e successivamente coniugato con l’acido glucuronico. Si conoscono 11 metaboliti del Tramadolo, ma un particolare rilievo viene dato al metabolita chiamato M1 (è quello ottenuto attraverso l’O-demetilazione), il quale possiede un’attività farmacologica maggiore allo stesso Tramadolo di 2-4 volte. Anche l’emivita dei metaboliti è simile a quella del composto d’origine. A tutt’oggi non è ancora chiarito se nel cane la formazione dei metaboliti sia simile a quanto avviene nell’uomo

ELIMINAZIONE Il Tramadolo viene eliminato tramite il rene per il 90%; il restante 10% viene escreto con le feci. In campo umano è stato osservato un aumento dell’emivita del Tramadolo in pazienti con l’insufficienza renale e cirrosi epatica.

INTERAZIONI CON FARMACI La Carbamazepina e gli inibitori della MAO causano un sensibile decremento dei livelli plasmatici del Tramadolo. Nel caso degli inibitori della MAO, studi effettuati su animali da laboratorio hanno mostrato che un uso simultaneo dei due farmaci può essere letale. La Cimetidina rallenta il metabolismo del Tramadolo; pertanto è consigliabile aumentare i dosaggi del Tramadolo quando si usa associato a questi farmaci. La Chinidina può aumentare i livelli plasmatici di Tramadolo. Per quanto riguarda Digossina e Cumadina, il Tramadolo ne aumenta l’efficacia, pertanto è necessario correggere il dosaggio. Sono state segnalate crisi epilettiformi soprattutto in pazienti che assumevano Inibitori del reuptake della serotonina, Antidepressivi Triciclici, Oppioidi, Inibitori della MAO e altri farmaci antiepilettici. È pertanto consigliato il non utilizzo del Tramadolo in pazienti epilettici o a rischio.

EFFETTI COLLATERALI Vertigine, male di testa, sonnolenza, stimolazione del CNS, astenia, nausea, vomito, costipazione (in casi rari), rush cutanei, prurito, crisi epilettoidi. Non si sono osservate reazioni anafilattiche al Tramadolo, ma in caso di precedenti reazioni analoghe a codeina od oppioidi in generale, conviene usare molta cautela.

ANTAGONISTI Il Naloxone, antagonizza parzialmente l’analgesia da Tramadolo. È necessario usare questo farmaco con cautela in quanto può causare crisi epilettiche, comunque facilmente eliminabili con barbiturici o benzodiazepine. Anche la yohimbina è in grado d’antagonizzare l’analgesia da Tramadolo. Lo studio è stato effettuato su ratti, utilizzando la somministrazione intratecale. Il Ritanserin antagonizza l’effetto del Tramadolo sulla serotonina.

DISTRIBUZIONE Il Tramadolo presenta un’elevata affinità per i tessuti, ed un modesto legame con le proteine plasmatiche (circa del 20%). Questo farmaco può oltrepassare la barriera placentare, e le concentrazioni nella vena ombelicale raggiungono quasi l’80% di quelle sistemiche. Nel latte materno si sono osservate quantità trascurabili del farmaco e del suo metabolita.

Bibliografia Reperibile presso l’autore Indirizzo per la corrispondenza:Nicola Ronchetti Clinica Veterinaria San Francesco, Castelnuovo Rangone (MO) Tel. 059536753 - E-mail: ronchettin@iol.it


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Diagnosi elettrocardiografica delle tachicardie sopraventricolari nel cane Roberto A. Santilli Med Vet, Dipl ECVIM -C.A. (Cardiology), Samarate, Varese

Introduzione Le tachicardie sopraventricolari (TSV) includono un gruppo di aritmie ipercinetiche che nascono negli atri e/o richiedono l’atrio come parte del circuito di mantenimento. Nell’uomo sono stati proposti diversi modi per classificarle in base al meccanismo aritmogenetico, la sede del focolaio o del circuito responsabile. La classificazione più accredita è quella descritta nelle linee guida dell’ACC/AHA/ESC che prevede: 1) Tachicardie senoatriali; 2) Tachicardie reciprocanti nodali; 3) Tachicardie giunzionali focale e non parossistica; 4) Tachicardie atrioventricolari reciprocanti; 5) Tachicardie atriali focali; 6) Tachicardie da macrorientro atriale.1 Questo tipo di classificazione è stato ottenuto attraverso l’utilizzo dello studio elettrofisiologico, analisi da considerare il “gold standard” nella diagnosi delle TSV. Con questa metodica nel cane sono state descritte soltanto tachicardie atriali focali e tachicardie atrioventricolari ortodromiche reciprocanti 2-7 che saranno quindi le uniche ad essere valutate in questa trattazione. La tachicardia atriale focale (TA) è caratterizzata da un’attivazione atriale regolare da aree atriali con diffusione centrifuga. Può essere sostenuta e non, nel primo caso può indurre tachicardiopatia. La tachicardia atrioventricolare ortodromica reciprocante (TAVR) è una tachicardia da macrorientro atrioventricolare che usa in senso anterogrado il normale sistema nodo atrioventricolare-His-Purkinje ed in senso retrogrado una via accessoria atrioventricolare. Questa tachicardia può essere accompagnata da conduzione anterograda durante il ritmo sinusale e segni elettrocardiografici di pre-eccitazione ventricolare, in altri casi la via accessoria conduce solo in senso retrogrado e quindi è detta occulta. La TAVR è causa spesso di tachicardiopatia, debolezza periodica o fenomeni sincopali2-7. In accordo con il meccanismo aritmogenico che la caratterizza, la TA ha solitamente alternanza della lunghezza di ciclo per la presenza di una dissociazione ventricolo-atriale, il rapporto RP/PR variabile in base alla conduzione atrioventricolare sebbene l’intervallo RP sia solitamente lungo, l’asse dell’onda P che cambia a seconda della sede del focolaio ectopico atriale. La TAVR presenta un circuito di rientro ben stabilito perciò possiede una netta regolarità di scarica facente fede ai tempi di refrattarietà anterogradi del nodo atrioventricolare e retrogradi della via anomala, tempi necessari per il suo mantenimento. L’onda P, quando visibile, essendo retrocondotta in modo eccentrico, presenta sempre, sul piano frontale, asse infero-superiore, con associazione

atrioventricolare, requisito indispensabile per il suo mantenimento, l’intervallo RP è solitamente breve per la conduzione rapida retrograda lungo la via accessoria. Ultimo dato che spesso nell’uomo è associato alla TAVR è l’alternanza del QRS, dato che in alcuni lavori è invece relazionato più che al tipo di tachicardia alla sua frequenza di scarica. Una possibile spiegazione dell’alternanza del QRS è un minor grado di ritardo funzionale correlato alla frequenza di scarica a livello del sistema di conduzione o del ventricolo. È stato inoltre dimostrato che il periodo di refrattarietà relativo del sistema His- Purkinje oscilla battito-battito quando c’è un’improvvisa accelerazione della frequenza, probabilmente per un’alternanza della durata del potenziale d’azione causata da oscillazioni dell’intervallo diastolico. Infine altre cause di alterazioni d’ampiezza dell’onda R possono essere causate da cambi nel volume cardiaco, ischemia, cambi di contrattilità e dell’asse elettrico.8-9

Elettrocardiogramma di superficie È la metodica di primo impiego per lo studio delle aritmie sopraventricolari nel cane. Durante tachicardia, in assenza di aberranza sostenuta di conduzione, l’apparizione dei complessi QRS nelle 12 derivazioni9 è del tutto sovrapponibile a quella dei normali battiti sinusali. Una caratteristica peculiare delle TSV è la presenza, all’elettrocardiogramma di superficie, di intervalli QRS stretti: nell’uomo < 120 ms. Da un nostro studio dove sono stati confrontati 17 tracciati elettrocardiografici di superficie di TSV con successiva conferma endocavitaria del tipo di tachicardia (7 TA o 10 TAVR), è risultato che la durata dell’intervallo QRS è sempre inferiore a 72 ms (62,94 + 8,44 ms); limite che può essere usato per definire un complesso a QRS stretto nel cane. Una volta stabilito che si tratti di una tachicardia a QRS stretti dal nostro studio è emerso che nel cane per differenziare una TA da una TAVR si possono usare diversi parametri: 1) la frequenza di scarica atriale e ventricolare; 2) l’alternanza della lunghezza di ciclo battito-battito > 20 ms; 3) l’alternanza dell’ampiezza del complesso QRS battito-battino > 1 mm; 4) la presenza di pre-eccitazione ventricolare manifesta; 5) l’evidenza dell’onda P; con relazione atrioventricolare, l’intervallo RP e PR e l’asse sul piano frontale ed orizzontale dell’onda P; 6) depressione tratto ST o inversione dell’onda T durante tachicardia in confronto al ritmo sinusale. 1) Sebbene la frequenza ventricolare a differenza di quanto succede nell’uomo è solitamente più alta nelle TA 278.57+


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73.80 contro 258.08 + 44,86 nelle TAVR, il dato non risulta significativo (p 0,19) e questo parametro da solo non è risultato discriminante tra i due tipi di tachicardia. La frequenza atriale è identica nelle TAVR, requisito indispensabile per il mantenimento di un rientro atrioventricolare, mentre può essere diversa nelle TA vista la possibilità di blocchi atrioventricolari concomitanti o fenomeni di raffraddemanto e riscaldamento dell’automatismo del focolaio ectopico. Il 71,42% delle TA ha presentato un’alternanza della lunghezza di ciclo, mentre le TAVR solo nel 20% dei casi. Tale ritrovamento è risultato di notevole interesse nella differenziazione dei due tipi di tachicardia visto che molto spesso le TA essendo automatiche presentano delle variazioni intrinseche della frequenza di scarica e la conduzione atrioventricolare può variare da 1:1 per l’insorgenza di blocchi atrioventricolari di II°. L’alternanza della lunghezza di ciclo nelle TAVR, sebbene più rara, può essere causata da variazioni repentine della velocità di conduzione e dei periodi refrattari delle normali vie di conduzione e delle vie accessorie, l’insorgenza di blocchi di branca o dalla presenza di vie accessorie multiple con diversi circuiti atrioventricolari. L’alternanza battito-battito dell’ampiezza del complesso QRS in almeno una delle 12 derivate è risultata presente nell’80% delle TAVR e nel 28,57% delle TA. La presenza di questo parametro elettrocardiografico può essere utilizzata quindi nel diagnostico differenziale tra i due tipi di tachicardia. Dal nostro lavoro è emerso che solo 1/3 dei pazienti con TAVR presenta pre-eccitazione ventricolare durante ritmo sinusale. La conduzione anterograda lungo la via accessoria è spesso assente per un “mismatch” d’impedenza. Secondo questa teoria la via accessoria rappresenta uno stretto istmo muscolare che unisce una piccola massa atriale con una più grossa massa muscolare ventricolare. Il voltaggio presente in atrio non è quindi sufficiente a depolarizzare il ventricolo.11 Il ritrovamento di pre-eccitazione ventricolare non depone comunque in assoluto per una TAVR visto che in corso di sindrome di Wolff-ParkinsonWhite diverse altre tachicardie possono essere implicate nella genesi dei parossismi (fibrillazione atriale, flutter, tachicardia nodale reciprocante, tachicardia atriale). Nel nostro campione il 14,28% dei casi di TA presentava durante ritmo sinusale pre-eccitazione ventricolare. L’evidenza dell’onda P durante tachicardie a QRS stretti risulta essere il punto cruciale nella diagnosi differenziale dei diversi tipi. L’onda P deve essere ricercata sia sul piano frontale che sul piano orizzontale ed in particolar modo da V4 a V6. L’assenza di onde P visibili in quest’ultime derivate depone a favore della tachicardia nodale reciprocante tipo slow-fast. In questo caso, infatti, la retroconduzione attraverso la via rapida intranodale è talmente veloce da essere concomitante al complesso QRS. Il ritrovamento dell’onda P nel tratto ST o sulle branche dell’onda T è facilitato dal confronto tra complesso QRS-T in ritmo sinusale ed in tachicardia. Dal nostro lavoro è emerso che nel 100% delle TAVR e nel 90% delle TA da questo confronto è possibile riconoscere l’onda P. Il passaggio successivo è la valutazione dell’asse sul piano frontale: supero-inferiore

nel 71,42% delle TA e infero-superiore nel 90% delle TAVR. In caso di asse infero-superiore occorre valutare se l’attivazione atriale è concentrica o eccentrica. La prima è caratterizzata da onda P positiva in aVl e aVr con derivata I isodifasica; la seconda può essere eccentrica destra con DI positiva o eccentrica sinistra con DI negativa. Tutte le vie accessorie, ad eccezione delle vie anterosettali, sono disposte in modo eccentrico rispetto al nodo atrioventricolare. In tutte le TA, l’atrio è attivato in modo eccentrico, mentre nelle tachicardie nodali reciprocanti tipo slow-fast in modo concentrico. Nelle TAVR esistendo una normale associazione ventricolo atriale l’intervallo R-P’ è costante e solitamente breve (91,10 + 10,5 ms), mentre nelle TA è più lungo (157 + 34,6 ms) ed incostante (p 0,0010). Il rapporto RP/PR è generalmente più lungo nelle TAVR (0,6 + 0,10) rispetto alle TA (1,25 + 0,56) (p 0,0016). 6) La depressione del tratto ST durante le TSV sembra causato da un vero movimento di correnti durante la sistole per la presenza di differenze nel potenziale d’azione nelle differenti regioni del cuore. Altra causa di alterazione del tratto ST durante tachicardia può essere la deformazioni dello stesso da parte delle onde P retrocondotte. Il 60% dei soggetti con TAVR hanno presentato questa alterazione. Nel cane le alterazioni di polarità dell’onda T non hanno presentato importanza clinica.

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Indirizzo per la corrispondenza: Roberto A. Santilli - Clinica Veterinaria Malpensa Via Marconi, 27 - 21017 Samarate, Varese - Italy Tel 0331 228155 - Fax 0331 220255 E-mail: rasantil@tin.it


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La citologia come ausilio diagnostico nelle specie non convenzionali Cristina Schiano Med Vet, Roma

INTRODUZIONE La valutazione citologica di un campione, proveniente sia dalle specie domestiche che dalle specie non convenzionali, si basa sullo studio morfologico delle cellule ed è sempre da considerare come un aiuto diagnostico ad altre procedure. La diagnosi definitiva si basa sull’interpretazione combinata della storia clinica, dell’esame fisico e sul risultato di altre indagini, quali la diagnostica per immagini (radiografia, ecografia, TC e RMN), l’endoscopia, la chirurgia, e l’istopatologia. I vantaggi della citologia risiedono nel fatto che è di facile applicazione nella pratica ambulatoriale, può fornire numerose informazioni e spesso anche la diagnosi; è una pratica semplice, sicura, rapida ed economica. Affinché la diagnosi sia attendibile sono necessarie una buona conoscenza della citologia e delle principali patologie dei mammiferi esotici (furetto, coniglio, piccoli roditori), degli uccelli e dei rettili. Ogni campione, per una corretta interpretazione, deve essere: - rappresentativo - di buona qualità - colorato in maniera idonea Le colorazioni utilizzate nella routine ambulatoriale sono le colorazioni di tipo Romanowsky (Giemsa, Wright..) che permettono una buona visualizzazione dei dettagli cellulari e delle cellule ematiche. Le tecniche di prelievo variano a seconda del tessuto: - agoinfissione o agoaspirazione (FNA fine needle aspiration) da tumefazioni solide, cistiche, organi interni, raccolte cavitarie - impronta da lesioni ulcerate, da biopsie di organi o di masse - raschiato da lesioni cutanee, da biopsie di masse o di organi cavi - squash technique da biopsie endoscopiche La citologia ci fornisce tre principali categorie interpretative: 1) infiammazione 2) neoplasia 3) non diagnostico Infiammazione: è caratterizzata da un aumento delle cellule infiammatorie, quali i granulociti neutrofili od eterofili (uccelli e conigli), granulociti eosinofili, linfociti, plasmacellule e macrofagi. La flogosi acuta è caratterizzata dalla prevalenza dei neutrofili od eterofili, la forma subacuta (o attiva cronica) da una popolazione cellulare mista ed infine nella forma cronica predominano i macrofagi. Le caratteristiche della flogosi sono diretta conseguenza del-

l’agente eziologico; i possibili segni di degenerazione (cariolisi, carioressi, picnosi nucleare, vacuolizzazione del citoplasma nei neutrofili o perdita dei granuli citoplasmatici negli eterofili) e di attivazione delle cellule infiammatorie (cellule giganti multinucleate) possono fornire ulteriori informazioni dirette od indirette. Neoplasia: forme benigne, caratterizzate dalla presenza di cellule simili al tessuto di origine, spesso risultato di una risposta proliferativa in seguito ad insulto cronico della cellula oppure in seguito a stimoli ormonali. Le forme maligne derivano da una proliferazione di cellule che esprimono numerosi caratteri di atipia (aumentato rapporto nucleo/citoplasma, aniso-macrocitosi, anisomacrocariosi, pleomorfismo nucleare, cromatina irregolare, nucleoli multipli, dismetrici ed angolari) oppure cellule differenti rispetto al tessuto di origine (metastasi). In base alla morfologia delle cellule possiamo distinguere neoplasie di origine: - epiteliale: campione ad elevata cellularità, cellule da tonde a poligonali, presenza di aggregati o clusters di aspetto papillare, ghiandolare… - mesenchimale: campione a cellularità moderata o scarsa, cellule fusate, stellate o tondeggianti, spesso presente matrice extracellulare - a cellule rotonde: campione a buona-elevata cellularità, cellule tondeggianti con margini citoplasmatici ben definiti (linfoma, plasmocitoma, mastocitoma). Non diagnostico: alcune neoplasie mesenchimali tendono a non cedere cellule, alcuni campioni sono diluiti con sangue periferico, necrosi..

UCCELLI I volatili sono pazienti più difficili dei mammiferi, spesso per le dimensioni ridotte e per le difficoltà di contenzione. La citologia viene utilizzata per valutare tumefazioni della cute, del sottocute, lesioni cistiche, materiale contenuto nel gozzo e nella cloaca, scoli nasali, congiuntivali e versamenti cavitari. Inoltre, durante la necroscopia si possono raccogliere campioni per impronta da polmoni, milza e fegato e raschiati di stomaco, intestino e cloaca per evidenziare batteri, spore, protozoi, ife fungine, lieviti, cellule infiammatorie, ecc. Se si sospettano particolari organismi patogeni è necessario l’utilizzo di colorazioni specifiche (Gram per i batteri, Ziehl-Nielsen per Mycobacterium spp., ecc.).


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Congiuntiva e cornea Per ottenere raschiati dalla cornea o dalla congiuntiva i campioni sono prelevati con tamponi sterili, con cytobrush oppure con il dorso di una lama da bisturi. Normalmente sono presenti poche cellule epiteliali squamose non cheratinizzate, contenenti spesso granuli di pigmento bruno-nerastro e scarsi batteri extracellulari. Nelle forme infiammatorie si riscontrano eterofili, linfociti, plasmacellule, macrofagi e detrito amorfo; talvolta sono presenti batteri fagocitati, ife fungine o corpi inclusi da Chlamydia o Mycoplasma nelle cellule epiteliali o nei macrofagi.

Cute e sottocute La cute è costituita da epitelio squamoso cheratinizzato stratificato, come nei mammiferi; la sola differenza è data dalla presenza delle piume. Le cisti delle piume sono simili alle cisti cheratiniche dei mammiferi con detrito amorfo, squame cornee e cristalli di colesterolo. Le cisti acute, invece, sono estremamente vascolarizzate e si possono ritrovare esclusivamente globuli rossi. Queste lesioni sono spesso accompagnate da flogosi eterofilica. La xantomatosi cutanea è caratterizzata da macrofagi di aspetto schiumoso, cellule giganti multinucleate e cristalli di colesterolo, spesso associata ad emorragia cutanea e necrosi dell’epitelio. I lipomi sono frequenti sulle ali dei parrocchetti ondulati e caratterizzati dalla presenza di adipociti. Negli ematomi si riscontrano numerosi globuli rossi nucleati; i sieromi sono raccolte liquide scarsamente cellulari. Riportati anche neoplasie, quali linfoma, adenoma ed adenocarcinoma.

Versamenti L’accumulo di liquido si può verificare in addome (ascite, peritonite, emoperitoneo), isolatamente nei sacchi aerei o nelle cavità articolari. Sono riportate peritoniti settiche, peritoniti da rottura dell’uovo in cui si evidenzia un elevato contenuto in proteine, fondo basofilo, presenza di gocce di diverse dimensioni omogeneamente basofile. Se la causa del versamento è di natura tumorale è possibile ritrovare cellule neoplastiche soprattutto se di origine epiteliale. La tumefazione delle articolazioni può dipendere da artriti settiche in cui si repertano numerosi eterofili e batteri; nelle forme traumatiche e croniche prevalgono macrofagi ed eritrofagocitosi; nella gotta sono presenti cellule infiammatorie e cristalli birifrangenti di urati.

Tratto respiratorio Il prelievo dai seni è indicato ogni volta che un paziente manifesta sinusite. Negli psittacidi le due cavità sono comunicanti, mentre non lo sono nelle altre specie, per cui è consigliabile un doppio prelievo. La sinusite si caratterizza per un numero variabile di cellule infiammatorie, talvolta si evidenzia l’agente eziologico.

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Con l’anestesia è possibile prelevare campioni dalla trachea, in cui il riscontro di eterofili e macrofagi sono sufficienti per fare diagnosi di tracheobronchite, anche negli animali asintomatici. I prelievi dai sacchi aerei si ottengono con tecniche di endoscopia laparoscopica. I campioni sono analizzati per evidenziare batteri, funghi, parassiti..

Organi interni POLMONE: alla necroscopia i campioni sono preparati per impronta e si riscontrano emazie, cellule epiteliali colonnari, cellule cigliate, fibre muscolari striate, occasionali macrofagi e linfociti. La diagnosi di polmonite si basa sulla presenza di cellule infiammatorie ed agenti eziologici; di frequente riscontro parassiti ematici extra- od intracellulari. MILZA: è un organo emopoietico e contiene tessuto linfoide; si valuta per infezioni batteriche, parassiti ematici e inclusi da Chlamydia. FEGATO: i campioni si ottengono per FNA o per impronta; è contenuto anche tessuto linfoide. Si valuta infiammazione, degenerazione, infezione o neoplasia.

MAMMIFERI ESOTICI Vengono riportate solo alcune delle principali differenze rispetto ai mammiferi domestici.

Tumori del sistema endocrino Le neoplasie del pancreas endocrino (insulinoma o tumore delle cellule beta del pancreas) ed i tumori della ghiandola surrenale (adenoma, adenocarcinoma) sono estremamente frequenti nei furetti di media età e molto spesso si possono riscontrare insieme nel medesimo soggetto, esitando in una serie di segni clinici evidenti ed indipendenti l’uno dall’altro; spesso è associata anche splenomegalia secondaria ad ematopoiesi extramidollare. I feocromocitomi sono raramente riportati.

Sistema linfatico Oltre alle forme di iperplasia reattiva e di linfadenite, del tutto simili a cane e gatto, sono riportate forme di linfoma in tutte le specie. Nel furetto si riconoscono: - L. linfocitico: tipico dell’adulto - L. linfoblastico: tipico del giovane - L. immunoblastico polimorfo: tutte le età - L. cutaneo epiteliotropo o micosi fungoide Splenomegalia: è una condizione di frequente riscontro nel furetto e le causa più comune è l’ematopoiesi extramidollare, forse secondaria a stimoli immunitari cronici o rappresenta un sistema di compensazione ad una insufficiente produzione di precursori eritroidi da parte del midollo osseo. Si consiglia di eseguire sempre una biopsia FNA per differenziare il linfoma od altre neoplasie.


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Nel coniglio si riconoscono: L. multicentrico L. cutaneo epiteliotropo e non epiteliotropo L. timico/timoma Leucemia Durante la relazione verranno esposti dei casi clinici in cui saranno affrontati alcuni degli aspetti più rappresentativi della citologia in queste specie. -

CONCLUSIONI Tutte le conoscenze di citologia nelle specie domestiche possono essere applicate ai “pets” non convenzionali; esistono alcune differenze morfologiche delle cellule. Il crescente interesse e il miglioramento delle conoscenze clinico-patologiche di questi animali ci permette l’applicazione di tutti i mezzi diagnostici che si utilizzano già da tempo nei cani e nei gatti, ed in particolare della citologia in quanto è rapida, sicura e può fornire la diagnosi.

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Indirizzo per la corrispondenza: Cristina Schiano Veterinaria Caffarella Via A. Crivellucci 36, 00179 Roma Tel. 06/789732-06/7840355 E-mail: cristinaschiano@tiscali.it


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Tecniche endoscopiche e non endoscopiche di raccolta dei campioni nella citologia ed istologia dei rettili Paolo Selleri Med Vet, PhD, Roma

In fondo è solo da soli tre decenni che i rettili ricevono dal mondo veterinario l’attenzione scientifica che meritano. È forse per questo motivo che ad oggi sono molti gli aspetti della medicina dei rettili che continuano a risultare di difficile interpretazione. In questi ultimi anni abbiamo potuto apprezzare con quanta velocità siano migliorate le tecniche diagnostiche e terapeutiche applicate alla medicina di questi animali. Spesso i risultati delle analisi del sangue non offrono risultati tali da rasserenare il medico nella completa comprensione del processo patologico. L’aumento dell’impiego di strumenti diagnostici non invasivi o minimamente invasivi che consentono di visualizzare o avvicinarsi a punti specifici di organi per poter raccogliere cellule o campioni di tessuto sufficientemente grandi da poter essere sottoposti ad esame istologico ha profondamente migliorato la qualità del servizio offerto al paziente rettile. Attraverso gli esami citologici e istologici e l’aiuto di patologi preparati riusciamo a dare un nome a condizioni morbose che altrimenti fino a poco tempo fa risultavano incomprensibili. La diagnostica per immagini è nella medicina dei rettili la svolta per la vecchia (obsoleta) e la nuova medicina. Per completare il quadro diagnostico il medico deve sempre cercare di affiancare a questi esami anche un esame batteriologico e micologico ed eventuali antibiogramma e micogramma. Tutte le tecniche che vengono descritte che possono potenzialmente provocare dolore all’animale devono essere applicate sotto anestesia e dopo somministrazione di analgesici ai dosaggi indicati. Attraverso l’impiego di fotografie e video questa presentazione vuole offrire al pubblico un’idea molto pratica di come deve essere eseguita la raccolta dei campioni da sottoporre ad esame citologico o istologico. Le dimensioni dei rettili che possiamo incontrare sono molto variabili, per questo motivo non ci sono indicazioni rigide per le dimensioni di un endoscopio flessible. Un diametro ridotto ci permette di raggiungere tratti profondi dell’apparato respiratorio mentre una lunghezza notevole anche se a discapito di un diametro sottile ci permette di raggiungere lo stomaco di un grosso boide. Riguardo l’endoscopia rigida lo strumento consigliato per la sua applicazione a così tante situazioni deve essere lungo 18 cm, avere un angolo di visione di 30° e un diametro di 2.7 mm senza la camicia operatoria.

esaminare lesioni da funghi o nelle acariasi. La lama di un bisturi di misura più o meno grande a seconda delle dimensioni dell’animale viene posta a contatto con la pelle e spostata in senso trasversale alla sua lunghezza cercando di grattare materiale cellulare da sottoporre ad esame citologico. Lo scotch-test si utilizza per identificare parassiti della cute come Ophionissus natricis, Hirstiella trombidiformis. Alcuni stadi larvali di Cestodi (Spirometra, Diphillobotriidae, ecc) possono determinare in serpenti e sauri la comparsa di tumefazioni che richiedono un’incisione della cute con un bisturi per fare la diagnosi. Questi parassiti non sono quasi mai pericolosi per il rettile che solitamente non è ospite definitivo ma solo ospite intermedio. È comunque consigliato evitare di lasciare che il parassita rimanga nel sottocute del rettile, morendo può comunque determinare forme infiammatorie che possono generare ascessi.

Cute

La milza è coinvolta nei processi emopoietici e linfopoietici, la sua valutazione istologica può essere indicata nell’interpretazione del suo ruolo nell’emopoiesi e nella linfopoiesi. Agoaspirati e biopsie della milza possono essere eseguiti attraverso la celiotomia o per via endoscopica. Nei sauri l’endoscopia si esegue accedendo al celoma ponendo l’animale in decubito laterale sinistro ed inserendo l’endoscopio dal lato destro.

La cute e annessi cutanei dei rettili sono spesso affetti da processi patologici. Esami microscopici della cute o della muta possono essere un utile strumento diagnostico nella corretta interpretazione della malattia. A seconda del tipo di lesione possiamo usare differenti tecniche di raccolta. Il raschiato cutaneo non è molto usato nei rettili ma può essere impiegato per

Midollo osseo Affiancare all’esame ematologico un esame del midollo può essere di notevole utilità. I siti per il prelievo del midollo cambiano in base alla specie e alle dimensioni del soggetto in esame. Nei serpenti il midollo osseo si ottiene asportando una costa. Per l’esame citologico la costa viene tagliata a metà in senso longitudinale e il midollo viene raccolto senza traumatizzare le cellule. Volendo richiedere un esame istologico la costa tagliata a metà può venir immersa in formalina. Nelle tartarughe, il midollo può essere prelevato con il metodo presentato dal collega Dr Leonardo Brunetti di Pistoia. Dopo aver praticato un foro con un trapano chirurgico sullo strato corneo degli scuti più craniali del piastrone, un ago da biopsia con mandrino viene inserito attraverso l’osso compatto. Superati i pochi millimetri di strato compatto si toglie il mandrino ed è possibile aspirare il midollo osseo. La cavità midollare della tibia può essere impiegata in sauri, coccodrilli e cheloni. Un ago spinale viene inserito in direzione prossimodistale dalla cresta tibiale.

Milza


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Respiratorio Una gestione incorretta del terrario rende i rettili particolarmente esposti alle malattie respiratorie. Temperature troppo lontane da quelle ideali per la specie, una ventilazione insufficiente e un’alimentazione inappropriata favoriscono la comparsa di sindromi respiratorie gravi. I rettili non possedendo un diaframma non sono in grado di tossire e quindi non possono espellere meccanicamente il muco che si forma in corso di processi flogistici. Il lavaggio bronchiale, tracheale o polmonare è una procedura fondamentale in corso di malattia respiratoria sia a fini diagnostici che terapeutici. L’instillazione di soluzione salina sterile riscaldata favorisce la rimozione del muco aiutando l’animale a respirare meglio. Per eseguire un lavaggio delle vie aeree superiori una quantità di liquido pari al 1% del peso dell’animale viene instillata attraverso un catetere sterile nella trachea degli ofidi oppure nei bronchi del lato interessato in cheloni o sauri. Negli ofidi non pericolosi questa procedura può essere eseguita senza anestesia, in sauri e cheloni è consigliata una leggera sedazione. Il liquido viene subito recuperato e sottoposto ad esame citologico e batteriologico. Oltre alle cause infettive quali batteri e funghi, l’esame del liquido può aiutarci a diagnosticare cellule neoplastiche o parassitarie che troppo spesso non vengono prese in considerazione nella diagnostica differenziale. Mentre negli ofidi sarà sufficiente inserire un catetere in trachea in tartarughe e lucertole dovremo indirizzare il catetere verso il polmone interessato. Per raggiungere l’organo possiamo inserire uno stiletto metallico all’interno del catetere e controllare radiograficamente di aver raggiunto il polmone che ci interessa. Anche in corso di problemi respiratori l’endoscopia si rivela un ausilio diagnostico fondamentale. Il tratto più craniale dell’apparato respiratorio può essere esaminato con un endoscopio flessibile dal diametro ridotto. Oltre all’esame endoscopico del tratto craniale dell’apparato respiratorio può essere particolarmente utile esaminare la porzione più caudale del polmone. Nei serpenti la cute viene incisa al 50% della lunghezza dell’animale per circa 2 cm e viene eseguita una celiotomia per visualizzare la fine della porzione vascolarizzata del polmone. La parete polmonare viene incisa per 2 mm e l’endoscopio rigido viene inserito in cavità polmonare. I vantaggi di questa procedura sono quelli di poter raccogliere con una pinza da biopsia dei campioni da sottoporre ad esame citologico, istologico e colturale. Con l’endoscopia la diagnosi finale sarà molto più accurata. Anche la diagnostica differenziale dell’apparato gastroenterico viene aiutata da esami citologici o istologici.

Gastroenterico Il lavaggio della cloaca e del tratto terminale del colon è una procedura piuttosto semplice che si esegue comunemente per diagnosticare infestioni parassitarie. Un catetere con punta smussa viene inserito in cloaca in direzione craniale e una piccola quantità di soluzione salina riscaldata viene instillata ed immediatamente raccolta ed esaminata al microscopio. Nei serpenti è molto importante eseguire l’esame a fresco del liquido di lavaggio cloacale perché spessissimo protozoi flagellati possono causare forme gastroenteriche gravi. I flagellati vengono spesso non identificati all’esame delle feci per

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flottazione. Una volta raccolto il materiale per le finalità diagnostiche è buona abitudine lavare abbondantemente la cloaca al fine di favorire la rimozione di eventuali fecalomi e migliorare l’idratazione dell’animale. L’esame endoscopico della cloaca viene eseguito con un endoscopio rigido che viene inserito attraverso l’apertura cloacale in direzione cranio caudale. Per migliorare la visione una soluzione salina riscaldata viene instillata attraverso il canale di lavoro dell’endoscopio. I vantaggi dell’endoscopia sono evidenti in quanto ci consentono di valutare lo stato di salute della mucosa di intestino e cloaca che in specie arboricole quali Morelia può frequentemente andare incontro a necrosi, ci consente inoltre di raccogliere campioni di tessuto da eventuali neoformazioni. Anche lo stomaco può essere esaminato attraverso un lavaggio della sua parete interna. Frequentemente in questo modo riusciamo a diagnosticare parassitosi, infezioni batteriche gravi o infezioni micotiche. La criptosporidiosi è spesso responsabile di gravi forme di vomito negli ofidi. Oltre all’esame del liquido di lavaggio della parete dello stomaco la diagnosi si raggiunge con maggiori probabilità attraverso l’esame istologico del tessuto raccolto per via endoscopica.

Fegato Valutare la funzionalità epatica dei rettili solamente attraverso le analisi del sangue è spesso frustrante perché non sempre i risultati degli esami biochimici sono esplicativi anche quando la patologia è già in uno stato avanzato. L’esame istologico del fegato ci offre invece notevoli chiarimenti. La biopsia epatica può essere eseguita in celiotomia, per via ecografica o per via endoscopica. Per l’ecografia di rettili piccoli sono necessari strumenti di buona qualità. Per l’esame ecografico delle tartarughe invece sono necessarie sonde sufficientemente piccole da poter inserire nella cavità prefemorale. L’esame ecografico a differenza dell’endoscopia consente di esaminare l’organo nel suo spessore e consente di visualizzare anche lesioni intraparenchimatose. Attraverso la via endoscopica si riesce a valutare un tratto maggiore dell’organo praticando un’incisione molto piccola.

Biopsia renale Come già detto trattando il fegato gli esami del sangue non sempre riescono a farci capire completamente cosa stia accadendo. La biopsia renale è spesso l’unico strumento per completare la diagnosi di malattia renale. Inserendo l’endoscopio nell’ultimo quarto della cavità celomatica di un serpente possiamo facilmente raggiungere il rene. In cheloni si inserisce l’endoscopio in cavità celomatica incidendo la cute della fossa prefemorale. Nei sauri la cute è incisa cranialmente alle ossa iliache del bacino al di sotto dei processi traversi delle vertebre lombari.

Tonsille esofagee In medicina dei serpenti è molto utile è l’endoscopia dell’esofago per la raccolta delle tonsille esofagee. L’esame istologico delle tonsille esofagee può rivelare la presenza di cellule con corpi inclusi. La diagnosi può ottenersi anche con la biopsia di altri organi ma quella delle tonsille esofagee è sicuramente meno invasiva. Indirizzo per la corrispondenza: Paolo Selleri - E-mail: pseller@tin.it


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La comunicazione con il proprietario ovvero la gestione del colloquio nella medicina comportamentale Corrado Sgarbi Med Vet, Torino

Normalmente quando si pensa alle difficoltà che si incontreranno nella visita, viene in mente di tutto salvo le complicazioni che potremmo incontrare durante il colloquio che avremo con il proprietario dell’animale. Probabilmente questo è dovuto al fatto che, mentre tutte le fasi della visita, della diagnosi, terapia e prognosi sono state studiate nei molteplici esami dei trascorsi universitari, il come gestire la comunicazione e il come rendere fruttuoso un colloquio clinico sono argomenti non trattati e dati troppo spesso per scontati. Credo che in ogni attività medica, invece, la comunicazione con i proprietari rivesta un ruolo considerevole e, nello specifico della medicina comportamentale, l’importanza è prioritaria: senza un buon dialogo non si affronta nessun problema. Il colloquio clinico non è il mero rendersi conto della situazione o il racconto di quello che è successo ma è un vero e proprio atto medico dato che racchiude in se almeno due passaggi fondamentali di ogni visita; la raccolta della semiologia e l’esame obiettivo sistemico. Una parte di notevole importanza è la ‘cornice’ in cui si svolge il colloquio e a questa dobbiamo riservare una particolare attenzione. Nessuno parla di cose importanti (e il comportamento del proprio pet lo è sicuramente) in luoghi caotici o disturbanti. La stanza deve avere una porta che si chiude e che lasci il resto del mondo fuori dai discorsi che verranno fatti e tutto l’ambiente deve infondere un senso di rassicurazione e di incoraggiamento. L’arredamento è per noi quello che la sala operatoria è per il chirurgo. Il colloquio può svilupparsi seguendo diverse possibilità. Può essere caotico, disordinato, improvvisato e libero da ogni struttura o può essere gestito in modo rigido seguendo una traccia fissa come una sorta di interrogatorio per ritrovare poi tutte le parti utili. Chiaramente tutte e due queste modalità presentano innegabili punti critici e quindi la cosa più utile è quella di svolgere un colloquio condotto e strutturato seguendo alcune linee guida senza essere eccessivamente intransigenti nelle varianti minori.. Il colloquio guidato deve sviluppare nell’ordine tutti i seguenti punti 1) capire cioè concentrarsi sui bisogni dell’interlocutore e non sulle prorpie idee 2) pianificare insieme al padrone gli obiettivi che ci si prefigge ed il tempo da impiegare

3) ascoltare scacciando i preconcetti che ci vengono sulla persona che parla e gestire le domande 4) chiudere perché ogni cosa deve finire e si deve raggiungere un accordo 5) analisi dopo l’incontro per preparare il sucessivo Una tecnica particolare da utilizzare nei colloqui clinici è l’uso del nostro silenzio. Troppo spesso siamo portati a riempire il vuoto sonoro che si crea dopo l’iniziale risposta del padrone ad una nostra domanda con delle nostre dissertazioni sull’argomento ma dobbiamo ricordarci che se non diamo il tempo all’interlocutore di cercare le risposte nel suo profondo ci darà sempre le risposte ovvie e preconfezionate che non ci aiuteranno a capire i reali bisogni. Le domande che svolgiamo saranno, a seconda del momento e dello scopo, domande aperte, cioè cercare informazioni, o domande chiuse, quelle che cercano conferme. Le domande aperte sono quelle che cominciano con come – dove – cosa – quando ecc mentre quelle chiuse, che servono anche ad indirizzare una conversazione, sono necessariamente risolvibili solo con un si o un no. I traguardi da raggiungere che dobbiamo concordare con il cliente devono avere delle particolarità specifiche per poter essere usati appieno.Un obiettivo deve necessariamente essere: specifico, misurabile, realistico, realmente condiviso e con un tempo stabilito come durata dell’azione. Durante il dialogo dovremo anche tenere in considerazione gli aspetti posturali nostri e dell’interlocutore e quelli inerenti alla prossemica in generale. In sintesi il nostro colloquio servirà a delimitare le mappe delle nostre conoscenze, avere tutte le informazioni necessarie, formulare le ipotesi diagnostiche, proporre una strategia, svolgere una parte di terapia e, cosa di non minore importanza, costruire una alleanza terapeutica con il cliente che duri nel tempo.

Letture consigliate Lai. G: Le parole del primo colloquio. Boringhieri Torino 1980. Watzlawick, P: Il linguaggio del cambiamento. Feltrinelli Milano 1980. Semi, A: Tecnica del colloquio. Cortina Milano 1985. Molcho, S: I linguaggi del corpo. Lyra Como 1997. Majello, C: L’arte di comunicare. Franco Angeli Milano 1993.


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I diversi tipi di shock Deborah Silverstein DVM, Dipl ACVECC, Philadelphia, USA

Lo “shock” è uno stato di grave alterazione emodinamica e metabolica caratterizzato da diminuzione della perfusione tissutale, compromissione dell’apporto di ossigeno ed inadeguata produzione cellulare di energia. Quando la cellula non è in grado di generare adeguati apporti energetici, le cellule stesse, gli organi ed il paziente non svolgono correttamente le proprie funzioni e infine diventano insufficienti. Ciò si manifesta clinicamente sotto forma di insufficienza organica multipla, che costituisce il punto terminale dello shock non trattato e, talvolta, anche di quello trattato. La presentazione clinica classica di un animale in stato di shock è caratterizzata da pallore delle mucose, rallentamento del tempo di riempimento capillare, tachicardia o bradicardia (felini), scadente qualità del polso ed ottundimento del sensorio. Tuttavia, esistono forme vasodilatatorie e cellulari dello shock che possono non mostrare questi segni classici. Indipendentemente dalla causa della condizione, le cellule sono costrette ad andare incontro alla glicolisi anaerobia quando l’apporto di ossigeno o la funzione mitocondriale sono alterati, con conseguente produzione di acido lattico. Verranno illustrate quattro categorie dello shock: cardiogeno, distributivo, ipossico e metabolico. Lo shock cardiogeno esita tipicamente in stati caratterizzati da basso flusso anterogrado a causa di problemi riferibili al cuore. La cattiva gittata cardiaca deriva dalla scarsa contrattilità del miocardio o dal basso precarico. Le cause potenziali di shock cardiogeno comprendono la miocardiopatia dilatativa che porta a scarsa contrattilità, le tossine o i farmaci che causano il danno muscolare o la depressione, la miocardiopatia ipertrofica che esita in un cattivo precarico, le malattie ostruttive come la stenosi, il rigurgito del postcarico come si osserva nelle valvulopatie, il tamponamento pericardico o la fibrosi pericardica che esitano in un basso precarico o le gravi aritmie che causano un precarico scadente ed una contrattilità inefficiente. Il trattamento dello shock cardiogeno spesso dipende dal processo patologico sottostante. Se la causa dello shock è la scarsa contrattilità miocardica, è indicato il trattamento con un beta-agonista. La dobutamina è l’agente più comunemente utilizzato per la terapia d’emergenza per aumentare la funzionalità cardiaca. Se l’animale sta ricevendo farmaci che causano una depressione miocardica, questi vanno sospesi (anestetici). Alcuni animali con valvulopatia traggono vantaggio dai farmaci che riducono il postcarico, come il nitroprussiato o l’idralazina, ± un agente inotropo positivo, a seconda del grado di contrattilità. Se l’entità del versamento pericardico è sufficientemente elevata da causare un tamponamento, bisogna eseguire una pericardiocentesi ed attuare la fluidoterapia. Le aritmie gravi e persistenti vanno trattate in modo appropriato con antiaritmici o cardioconversione.

Col termine di shock distributivo si indica una varietà di anomalie generalmente associata ad una distribuzione inappropriata della gittata cardiaca ai tessuti. Rientrano in questo gruppo il calo del volume ematico intravascolare come si osserva nello shock ipovolemico derivante da un’emorragia, l’ipoproteinemia, l’aumento della permeabilità vascolare o le malattie che portano a grave disidratazione. L’ipovolemia è inclusa nello shock distributivo ed è normalmente associata ad una vasocostrizione periferica compensatrice che interferisce con la perfusione periferica (organi viscerali). Se non è associata a vasocostrizione periferica (come si osserva comunemente nella sepsi), l’ipovolemia causa ipotensione che provoca anche una riduzione della perfusione coronarica e cerebrale e conduce allo shock distributivo. Molti animali vengono presentati alle strutture di emergenza dopo un trauma e sembrano essere colpiti da uno shock ipovolemico, anche se non c’è alcuna perdita di sangue. Ciò è dovuto alla risposta neurormonale al trauma, che porta a grave vasocostrizione e maldistribuzione del volume ematico intravascolare disponibile. Gli shunt arterovenosi provocano una riduzione della gittata cardiaca netta e della perfusione ai tessuti. L’occlusione dei vasi da cause esterne, come si osserva in caso di torsione intestinale, masse o corpi estranei, interferisce con il flusso sanguigno diretto agli organi coinvolti. Analogamente, le affezioni tromboemboliche impediscono la normale perfusione degli organi a valle e i tromboemboli polmonari gravi possono portare a cor pulmonale e insufficienza cardiaca destra. Il trattamento dello shock distributivo prevede tipicamente la fluidoterapia. Può essere necessario ricorrere ad associazioni di cristalloidi isotonici, colloidi di sintesi, soluzioni ipertoniche ed emoderivati, a seconda del processo patologico sottostante. Gli stati di shock ipossico sono caratterizzati da perfusione tissutale normale (a differenza dello shock distributivo), ma anomalie del contenuto di ossigeno o della cessione dell’ossigeno ai tessuti ed alle cellule. L’ipossiemia (una bassa pressione parziale di ossigeno o una bassa saturazione emoglobinica dovuta ad una patologia polmonare) e l’anemia (basso contenuto di ossigeno) sono le cause più comuni dello shock ipossico. Altri processi patologici che possono portare alla medesima condizione sono la metemoglobinemia (emoglobina ferrica ossidata) e la carbossiemoglobinemia (avvelenamento da monossido di carbonio), poiché queste anomalie riducono le capacità di trasporto dell’ossigeno dell’emoglobina. Il trattamento dello shock ipossico è volto ad incrementare il contenuto di ossigeno. L’ossigenoterapia va attuata in tutti i pazienti. Negli animali con grave malattia polmonare può risultare utile la ventilazione a pressione positiva. Ai cani o gatti con anemia potenzialmente letale vanno


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somministrati appropriati prodotti eritrocitari o soluzioni contenenti emoglobina. Gli avvelenamenti come la metemoglobinemia vanno trattati in modo appropriato (vitamina C ed N-acetilcisteina). Ci sono casi in cui i tessuti sono adeguatamente perfusi ed ossigenati, ma le cellule sono comunque incapaci di produrre livelli energetici adeguati al mantenimento della vitalità. Si tratta dello shock metabolico, che è comunemente dovuto ad un problema intracellulare che interferisce con la produzione di energia. La sepsi, in aggiunta a tutti i suoi intermedi vasoattivi ed al danno cellulomediato, interferisce con la normale funzione cellulare e spesso causa “ipossia citopatica”. L’intossicazione da cianuro distrugge la normale fosforilazione ossidativa dei citocromi mitocondriali e porta allo shock metabolico. Gli animali con colpo di calore hanno un metabolismo cellulare che supera la capacità dell’animale di apportare substrati energetici e spesso esita nello shock metabolico. L’ipoglicemia porta a un inadeguato substrato energetico per il normale metabolismo cerebrale e può anche causare uno shock metabolico. La diagnosi ed il trattamento dello shock metabolico possono essere difficili. L’ipoglicemia viene facilmente scoperta e trattata con un’integrazione con glucosio. La disfunzione cellulare viene diagnosticata per esclusione delle altre cause dello shock. Il trattamento in genere è di sostegno, nel tentativo di ottimizzare l’apporto di ossigeno ai tessuti e trattare la malattia sottostante. Lo shock settico è uno stato dello shock circolatorio che viene causato da un agente infettivo sottostante. La conseguente risposta infiammatoria all’insulto comprende il rilascio/attivazione di citochine, proteasi, catalasi ed eicosanoidi e l’attivazione del complemento e delle reazioni a cascata della coagulazione e della fibrinolisi. Questi processi interferiscono con la funzione ed il metabolismo intracellulare. Successivamente insorgono delle diminuzioni della contrat-

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tilità miocardica, della gittata cardiaca e dell’apporto di ossigeno. Spesso si hanno delle modificazioni inappropriate del tono vasomotorio che esitano in ipotensione (vasodilatazione) o compromissione della perfusione tissutale (vasocostrizione). Si possono sviluppare ulcera o emorragia gastroenterica ed insufficienza renale oligurica o anurica. L’aumento della permeabilità endoteliale può esitare in ipoproteinemia ed ipovolemia. Si hanno anche comunemente coagulopatie, acidosi lattica ed ipoglicemia. È quindi evidente che la sepsi può portare a vari tipi di shock: cardiogeno, distributivo, ipossico e metabolico. Il trattamento delle varie cause dello shock nei pazienti con sepsi esula dagli scopi di questa discussione. Sono di capitale importanza l’identificazione dell’origine della sepsi e la sua appropriata terapia. Il monitoraggio regolare della funzione cardiaca, dei parametri cardiovascolari e polmonari e dei risultati degli esami di laboratorio consente di riconoscere e trattare precocemente i problemi secondari. Indipendentemente dalla causa dello shock, la rapida valutazione di questi pazienti in condizioni critiche, l’identificazione precoce della malattia sottostante ed il ripristino della stabilità cardiopolmonare e cellulare sono di importanza vitale. Conoscendo le varie categorie dello shock e le loro eziologie comuni, il veterinario sarà in grado di trattare con più successo questi pazienti in condizioni di emergenza.

Bibliografia disponibile a richiesta Indirizzo per la corrispondenza: Deborah Silverstein Matthew J Ryan Veterinary Hospital University of Pennsylvania 3900 Delancey Street Philadelphia, PA 19104-6010 E-mail: dcsilver@vet.upenn.edu


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SIRS, MODS e sepsi nei piccoli animali Deborah Silverstein DVM, Dipl ACVECC, Philadelphia, USA

La sindrome di risposta infiammatoria sistemica (SIRS) è la manifestazione clinica della risposta dell’organismo a gravi danni, invasioni microbiche, gravi infiammazioni o neoplasie. La terminologia utilizzata per trattare della sepsi o dell’infiammazione è spesso motivo di confusione. Col termine di batteriemia, si indica la presenza di batteri vitali nel torrente circolatorio. La sindrome di risposta infiammatoria sistemica (SIRS) è la manifestazione clinica della reazione infiammatoria che si ha in risposta ad un insulto infettivo o non infettivo subito dall’animale (sepsi, ustioni, traumi, colpo di calore, pancreatite, malattia immunomediata). Non esiste alcuno standard aureo per la diagnosi di SIRS, ma dalla letteratura umana sono stati tratti dei parametri per il cane ed il gatto. La presenza di tre o più dei seguenti segni clinici è altamente indicativa di SIRS nel cane: tachipnea (frequenza respiratoria > 40 atti/minuto o PaCO2 < 30 mm Hg), tachicardia (frequenza cardiaca > 120 battiti/minuto), leucocitosi o leucopenia (leucociti > 18000/µl o frazione dei neutrofili non segmentati > 5-10%), e febbre o ipotermia (temperatura > 40°C o < 38°C). La presenza di 3 o più dei seguenti segni clinici è altamente indicativa di SIRS nei felini: tachipnea (frequenza respiratoria > 30 atti al minuto o PaCO2 < 32 mm Hg), bradicardia o tachicardia (frequenza cardiaca < 140 battiti/minuto o > 225 battiti al minuto), leucocitosi o leucopenia (leucociti > 19500/µl o <5000/µl o frazione dei neutrofili non segmentati > 5-10%) e febbre o ipotermia (temperatura > 40°C o < 38°C). Un’infezione è una risposta infiammatoria secondaria alla presenza di microrganismi o l’invasione di un tessuto normalmente sterile ad opera dei microrganismi stessi. La sepsi è la SIRS secondaria ad un microrganismo patogeno (nella maggior parte dei casi di origine batterica, ma può anche essere dovuta a virus, protozoi e miceti). Col termine di sepsi grave si indica la sepsi accompagnata da una combinazione di disfunzioni organiche, ipoperfusione o ipotensione (pressione sistolica < 90 mm Hg o riduzione > 40 mm Hg rispetto al valore basale). Lo shock settico si definisce come la sepsi grave con ipotensione che risulta refrattaria alla rianimazione mediante infusione intravascolare di fluidi. La sindrome di disfunzione di più organi (MODS, multiple organ dysfunction syndrome) fa riferimento all’alterazione delle funzioni cardiovascolari, polmonari, gastroenteriche e/o epatiche che si verifica secondariamente alla SIRS. Cane, cavallo e uomo manifestano una fase iniziale, iperdinamica della sepsi, caratterizzata da elevata gittata cardiaca, bassa resistenza vascolare sistemica e pressione sanguigna normale o aumentata. Queste modificazioni si riconoscono clinicamente sotto forma di febbre, tachicardia, tachipnea, mucose di colore rosso mattone o smorto, polso saltellante, depressione ed inappetenza. Tuttavia, questo stato “iperdina-

mico” è raramente evidente nei felini. Piuttosto, nel gatto i comuni segni clinici della sepsi comprendono letargia, pallore delle mucose, dolore addominale diffuso, tachipnea, bradicardia, cattiva qualità del polso, anemia, ipoalbuminemia, ipotermia ed ittero. La diagnosi di sepsi si basa sui riscontri clinici e di laboratorio e sull’identificazione di un focolaio settico. Se esiste un elevato sospetto di sepsi, i pazienti ad alto rischio devono essere trattati empiricamente. La diagnosi definitiva di sepsi nel cane e nel gatto è spesso difficoltosa. La positività delle emocolture conferma la batteriemia e la misurazione delle concentrazioni sieriche di endotossine consente di verificare l’endotossiemia. Questi test non consentono tipicamente una diagnosi rapida, il che rende il sospetto clinico particolarmente apprezzabile in attesa dei risultati degli esami di laboratorio e necrobiologici. I comuni focolai di sepsi sono rappresentati da peritonite, polmonite, piotorace e pielonefrite. È quindi importante che gli animali con segni clinici di sepsi siano sottoposti ad una valutazione diagnostica completa, che comprenda esame emocromocitometrico completo, profilo biochimico, profilo della coagulazione, analisi delle urine con urocoltura ed antibiogramma, radiografie del torace e/o ecografie addominali, radiografie addominali ed ecocardiografia. La fonte dell’infezione va identificata il più rapidamente possibile e in caso di necessità bisogna intervenire chirurgicamente per effettuare il drenaggio, la revisione o l’asportazione del focolaio settico. Se indicati, si devono effettuare gli esami colturali e gli antibiogrammi del liquido di lavaggio endotracheale, del liquido pleurico, del fluido addominale, del liquor e/o del fluido articolare. Nel 20-30% circa dei pazienti non si riesce a trovare un’origine dell’infezione. Lo scopo della terapia nei cani e nei gatti con sepsi è quello di trattare l’infezione in modo appropriato e mantenere un adeguato apporto di ossigeno ai tessuti. La prevenzione della MODS è di capitale importanza, perché il tasso di mortalità è tipicamente superiore al 50%. Nei pazienti settici riveste un ruolo altamente significativo la terapia antibiotica, in aggiunta ad un aggressivo trattamento di sostegno. La somministrazione di antibiotici ad ampio spettro va iniziata in attesa dei risultati degli esami colturali e degli antibiogrammi. Gli antibiotici scelti empiricamente dovranno essere efficaci nei confronti dei microrganismi Gram-positivi e Gram-negativi, nonché degli anaerobi. Le combinazioni iniziali possono essere rappresentate da ampicillina ed enrofloxacin, ampicillina ed amikacina, cefazolina e amikacina, ampicillina e ceftazidime o clindamicina ed enrofloxacin. Inizialmente si possono anche utilizzare singoli agenti come la ticarcillina/acido clavulanico, la cefoxitina o l’imipenem (se si sospetta una resistenza batterica). I batteri rilasciano endotossina dalle loro pareti cellulari quando vengono uccisi ed il paziente


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deve quindi essere sottoposto anche ad un’adeguata terapia di sostegno per mantenere l’apporto di ossigeno. Il sostegno emodinamico è costituito primariamente dalla somministrazione di fluidi endovenosi ± una terapia vasopressoria. Se l’animale si trova in stato di shock, si deve somministrare un bolo di cristalloidi isotonici ± colloidi di sintesi. Bisogna impiegare gli emoderivati (emazie concentrate, plasma fresco congelato o sangue fresco intero) nella misura necessaria per mantenere l’ematocrito > 24% ed i tempi di coagulazione entro i limiti normali. Negli animali con grave ipoalbuminemia (< 1,5 g/dl), può essere utile la terapia con plasma o con albumina umana al 25% per contribuire al trasporto di farmaci, ormoni, sostanze chimiche, tossine ed enzimi. Il monitoraggio della pressione venosa centrale (normale = 0-10 cm H2O) può essere utile per la valutazione dello status idrico. La fluidoterapia di mantenimento va determinata in base ai fabbisogni di mantenimento dell’animale, alla disidratazione ed alle perdite in atto. Se un’adeguata fluidoterapia non è in grado di ristabilire la corretta pressione sanguigna, è indicato un trattamento con vasopressori. Si utilizzano spesso dopamina, noradrenalina, dobutamina, adrenalina ± vasopressina (per ulteriori informazioni si veda la relazione “Utilizzo della vasopressina per controllare la vasodilatazione durante lo shock”). Gli animali che non rispondono ad un trattamento aggressivo possono essere colpiti da un’insufficienza surrenalica transitoria. Può essere necessario effettuare i test appropriati e gli interventi terapeutici opportuni. L’ossigenoterapia è indicata se l’animale presenta una riduzione del contenuto di ossigeno (SpO2 <93%, PaO2 < 80 mm Hg o ematocrito < 24% in attesa della trasfusione) che sta portando ad una riduzione dell’apporto di ossigeno ai tessuti. Per prevenire la tossicità dell’ossigeno, bisogna utilizzare concentrazioni di ossigeno inspirato < 60%, se adeguate. La corretta nutrizione è di importanza critica per i pazienti settici con stati ipermetabolici secondari. Se l’animale è normoteso, non vomita ed è vigile, è preferibile la via enterale.

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La nutrizione paraenterale va somministrata se la via enterale non è affidabile o è controindicata. Se la glicemia cade al di sotto di 60 g/dl, bisogna diluire e somministrare per via endovenosa 0,5 ml/kg di destrosio al 50% nell’arco di 1-2 minuti e integrare i fluidi del paziente con destrosio (2,57,5%). Nei cani e nei gatti settici è necessario utilizzare, secondo necessità, dei protettori gastroenterici (antiacidi e/o sucralfato) e/o antiemetici. I pazienti settici vanno monitorati direttamente perché le modificazioni delle loro condizioni, che avvengono di minuto in minuto, possono richiedere continue correzioni o interventi. È necessario seguire accuratamente e valutare ripetutamente le condizioni cliniche, il peso corporeo ed i valori di ematocrito/solidi totali, glicemia, elettroliti, gas ematici, profilo della coagulazione, produzione di urina, pressione sanguigna, ECG, pulsossimetria e pressione venosa centrale. Benché le attuali indicazioni terapeutiche per la sepsi restino principalmente di supporto, vengono continuamente studiate nuove terapie. Le prove cliniche finalizzate a valutare i vari stadi della cascata dell’infiammazione, l’immunocompetenza del paziente e gli specifici agenti patogeni non hanno portato a risultati costanti. Benché la prevenzione resti la strategia di maggiore successo, l’uso degli inibitori dell’ossido nitrico, degli antagonisti degli oppiacei, degli anticorpi monoclonali, degli inibitori della ciclossigenasi, dei PAF-antagonisti e della terapia genica possono risultare promettenti per il futuro.

Bibliografia disponibile a richiesta Indirizzo per la corrispondenza: Deborah Silverstein Matthew J Ryan Veterinary Hospital University of Pennsylvania 3900 Delancey Street Philadelphia, PA 19104-6010 E-mail: dcsilver@vet.upenn.edu


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La fluidoterapia durante lo shock: come ripristinare un circolo efficace Deborah Silverstein DVM, Dipl ACVECC, Philadelphia, USA

Lo “shock” è uno stato di grave alterazione emodinamica e metabolica caratterizzato da diminuzione della perfusione tissutale, compromissione dell’apporto di ossigeno ed inadeguata produzione di energia a livello cellulare. I suoi segni clinici possono variare, in gran parte a causa della condizione sottostante. Un elevato livello del tono simpatico è comunemente caratterizzato da pallore delle mucose, prolungamento del tempo di riempimento capillare, ottundimento del sensorio, polso di qualità scadente, estremità fredde e tachicardia (bradicardia nel gatto). Al contrario, lo shock settico è spesso causa di disfunzione vasomotoria e vasodilatazione periferica indotta da citochine, elevata gittata cardiaca ed iperemia delle mucose con riempimento capillare rapido. La normalizzazione del volume intravascolare, del precarico, della pressione arteriosa, della gittata cardiaca e del contenuto di ossigeno è di importanza cruciale per sostenere la perfusione tissutale, oltre che per porre sotto controllo o far regredire la causa scatenante dello shock. Un ritardo nel trattamento di un animale sotto shock può portare ad un danno organico irreversibile e potenzialmente alla morte. Il caposaldo della terapia dello shock non cardiogeno prevede un’aggressiva rianimazione volumetrica. Un aumento del volume intravascolare determina un incremento del volume telediastolico del ventricolo sinistro (precarico), della gittata sistolica e di quella cardiaca al fine di aumentare l’apporto di ossigeno a livello sistemico. La somministrazione endovenosa di fluidi attraverso un catetere corto e di grosso calibro costituisce il metodo più auspicabile per il trattamento dello shock. Se non è possibile ottenere un rapido accesso intravascolare, bisogna ricorrere ad una procedura di cutdown venoso o all’inserimento di un ago intraosseo. I cristalloidi isotonici, anche detti fluidi di ripristino, sono i liquidi più comunemente utilizzati per il trattamento dello shock. Si tratta di soluzioni che contengono elettroliti ed hanno una composizione simile a quella del fluido extracellulare (cloruro di sodio allo 0,9%, soluzione di Ringer lattato, Normosol-R e Plasmalyte-148). Esistono dati che depongono a favore dell’impiego del cloruro di sodio allo 0,9% negli animali con trauma cranico per evitare rapide variazioni dell’osmolalità, poiché questo è il cristalloide isotonico con il contenuto di sodio più elevato. Una dose di soluzione di cristalloidi isotonici per il trattamento dello shock corrisponde approssimativamente ad una volta il volume ematico: 90 ml/kg nel cane e 50 ml/kg nel gatto. Il fluido somministrato rapidamente si distribuisce nel comparto extracellulare in modo che solo il 25% circa del volume apportato rimane nello spazio intravascolare a distanza di 30 minuti dall’infusione. È importante non somministrare volumi

eccessivi di liquidi per evitare un sovraccarico volumetrico. Generalmente si raccomanda di somministrare il più rapidamente possibile 1/3 – 1/2 della dose anti-shock, seguito da ulteriori boli secondo quanto indicato dai parametri clinici e da ripetuti esami clinici. Nei pazienti che sanguinano può anche essere vantaggioso eseguire una “rianimazione ipotensiva” (fino ad una pressione arteriosa media di circa 60 mm Hg) fino ad ottenere il controllo dell’emorragia, poiché una fluidoterapia aggressiva in questi casi può aggravare il sanguinamento e peggiorare l’esito del trattamento. Le soluzioni di colloidi sintetici facilmente reperibili sono il destrano 70 (D70) e l’amido eterificato (HES). I colloidi sono grandi molecole (peso molecolare > 20000 D) che non passano facilmente attraverso la membrana vascolare. Le particelle colloidali di queste soluzioni di sintesi sono sospese in cloruro di sodio allo 0,9%. Sono iperoncotiche rispetto all’animale normale e di conseguenza attirano il fluido nello spazio vascolare. Determinano quindi un aumento del volume ematico che è superiore a quello del volume infuso e concorre alla ritenzione di questo fluido nello spazio intravascolare negli animali con permeabilità capillare normale. La dose raccomandata dei colloidi di sintesi per il trattamento dello shock arriva fino a 20 ml/kg nel cane e fino a 10 ml/kg nel gatto (Nota: è stato segnalato che la somministrazione rapida di HES nel gatto è causa di vomito).Volumi eccessivi possono portare a sovraccarico volumetrico, coagulopatie ed emodiluizione. Questi fluidi vengono correttamente utilizzati per la terapia dello shock negli animali con ipoproteinemia acuta (proteine totali < 3,5 g/dl) con una diminuita pressione colloidosmotica. Possono anche essere impiegati con i cristalloidi isotonici per mantenere un’adeguata espansione volumetrica del plasma con una minore espansione del volume del fluido interstiziale e per espandere lo spazio intravascolare con minori volumi in un arco di tempo più breve. Nonostante molteplici studi clinici condotti nell’uomo, non esiste alcuna documentazione definitiva del fatto che l’impiego dei colloidi sia superiore a quello dei cristalloidi per la rianimazione e il prezzo dei primi è significativamente superiore a quello dei secondi. La somministrazione di soluzione salina ipertonica (7,07,5%, HS) provoca uno spostamento osmotico transitorio dell’acqua dal comparto extravasale a quello intravasale. Si somministra in piccoli volumi, 5 ml/kg, nell’arco di 5-10 minuti. Oltre allo spostamento del comparto fluido causato dall’HS, vi sono dati che indicano che può anche essere utile per ridurre il rigonfiamento endoteliale, aumentare la contrattilità cardiaca, causare una lieve vasodilatazione periferica e ridurre la pressione intracranica. A causa della


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diuresi osmotica e della rapida ridistribuzione dei cationi sodici che si verifica dopo la somministrazione dell’HS, l’espansione del volume intravascolare è transitoria (< 30 minuti); di conseguenza, all’HS va abbinata una fluidoterapia aggiuntiva. Al fine di attrarre fluidi nello spazio vascolare e prolungare l’effetto dell’espansione volumetrica intravascolare, per la rianimazione in caso di shock si somministra comunemente una miscela di HS/colloide di sintesi. Un rapporto 1:2,5 di HS al 23,4% con destrano 70 (HSD) o amido eterificato consente di ottenere una miscela salina al 7,5% (cioè 17 ml di soluzione salina al 23,4% aggiunti a 43 ml di destrano 70). In medicina veterinaria sono stati condotti e pubblicati numerosi studi che depongono a favore dell’utilità dell’impiego del HSD per la rianimazione nei cani con shock traumatico, piometra con shock settico, ustioni, shock emorragico, endotossiemia e dilatazione/torsione dello stomaco. La necessità di ricorrere agli emoderivati durante la rianimazione dipende dal processo patologico del paziente. La maggior parte dei soggetti con shock che risponde all’infusione di fluidi tollera un’emodiluizione acuta fino ad un ematocrito < 20%. Negli animali che non rispondono alla sola fluidoterapia, l’ematocrito va mantenuto > 30% per massimizzare la capacità di trasporto di ossigeno. Eccessivi incrementi dell’ematocrito sono da evitare perché ciò determina un aumento della viscosità ematica. La maggior parte degli animali può tollerare una perdita acuta del 10-15% del volume ematico senza aver bisogno di una trasfusione di sangue. Un’emorragia acuta superiore al 20% del volume ematico richiede spesso una terapia trasfusionale, oltre alla rianimazione iniziale mediante fluidi discussa più sopra. Negli animali con perdita ematica acuta che necessitano di una terapia trasfusionale bisogna utilizzare sangue fresco intero o emazie concentrate e plasma fresco congelato, nel tentativo di stabilizzare i segni clinici dello shock e mantenere l’ematocrito al di sopra del 25% e i tempi di coagulazione entro i limiti normali. Le emazie concentrate ed il plasma fresco congelato si somministrano alla dose di 10-15 ml/kg ed il sangue fresco intero alla dose di 20-25 ml/kg. Il plasma conservato in frigorifero o quello

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congelato da più di un anno non contengono più piastrine né fattori labili della coagulazione (V, VIII e di von Willebrand). Le piastrine sono presenti solo nel sangue fresco entro 6 ore dal prelievo e il loro uso è indicato negli animali con disordini emorragici indotti da trombocitopenia o emorragie imponenti. I prodotti plasmatici si utilizzano più comunemente negli animali con profonde perdite ematiche, coagulopatie o grave ipoalbuminemia. In confronto a quella dei colloidi di sintesi iperoncotici, la loro capacità di aumentare la pressione colloidosmotica è limitata, ma apportano albumina, un importante carrier di certi farmaci, ormoni, metalli, composti chimici, tossine ed enzimi. Se non è possibile effettuare l’emotipizzazione ± le prove di compatibilità crociata, i cani devono essere sottoposti all’infusione di sangue DEA 1.1 negativo. I gatti non sottoposti a tipizzazione non devono ricevere emoderivati perché si possono verificare reazioni potenzialmente letali. Negli animali con emorragia eccessiva nella cavità pleurica o peritoneale, si deve prendere in considerazione il ricorso alle autotrasfusioni di sangue intero. Questo viene aspirato delicatamente, trattato con anticoagulanti e filtrato prima della somministrazione. Le emorragie dovute a processi neoplastici o settici non devono essere trattate mediante autotrasfusione. I fluidi vanno somministrati il più rapidamente possibile, effettuando una continua rivalutazione e monitoraggio. La rianimazione iniziale mediante fluidi va completata entro 15 minuti dalla prima visita. Se necessario, si possono impiegare ripetuti boli, ma bisogna evitare la iperidratazione.

Bibliografia disponibile su richiesta Indirizzo per la corrispondenza: Deborah Silverstein Matthew J Ryan Veterinary Hospital University of Pennsylvania 3900 Delancey Street Philadelphia, PA 19104-6010 E-mail: dcsilver@vet.upenn.edu


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Utilizzo della vasopressina per controllare la vasodilatazione durante lo shock: studio pilota” Deborah Silverstein DVM, Dipl ACVECC, Philadelphia, USA

Quando un calo della pressione arteriosa porta ad un’inadeguata perfusione tissutale, si ha una profonda vasocostrizione. Tuttavia, gli animali con shock settico presentano spesso un’insufficienza di questa risposta vasocostrittiva e si ha un’inappropriata vasodilatazione o vasoplegia, che si manifesta clinicamente con l’arrossamento delle mucose ed il riscontro di estremità calde. Lo shock vasodilatatorio che ne deriva è caratterizzato non solo dall’ipotensione dovuta alla vasodilatazione periferica (nonostante la rianimazione mediante l’infusione intravascolare di fluidi), ma anche da una cattiva risposta alla terapia mediante somministrazione di farmaci vasopressori, anche detto “shock vasodilatatorio catecolamino-resistente”. Lo shock vasodilatatorio catecolamino-resistente è una complicazione potenzialmente fatale nei pazienti con shock settico o sindrome da disfunzione di più organi (MODS, multiple organ dysfunction syndrome). Sembra essere una via comune finale nei pazienti che riportano gravi stati prolungati di shock da qualsiasi origine. Di conseguenza, i pazienti colpiti da ipotensione e diminuzione dell’apporto di ossigeno ai tessuti secondariamente a shock ipovolemico o cardiogeno non possono essere “curati” attraverso la correzione del problema iniziale. Le alterazioni dei normali meccanismi vasodilatatori e vasocostrittori portano a questa apparente vasoplegia, nonostante la presenza di elevati livelli di noradrenalina, endotelina ed angiotensina II. La muscolatura liscia vascolare tipicamente non risponde alla somministrazione di catecolamine esogene. La presenza di livelli elevati di ossido nitrico e l’attivazione dei canali potassici ATP-sensibili (KATP) della muscolatura liscia sembrano essere due delle cause primarie della vasodilatazione inappropriata, ma la mancanza di una vasocostrizione riflessa non è chiaramente compresa. Altri potenziali fattori che contribuiscono alla vasoplegia sono le lesioni fatali delle cellule vascolari dovute all’ipotensione prolungata, all’inadeguata estrazione di ossigeno dai tessuti (che induce una continua vasodilatazione) ed all’incremento dell’attività delle prostaglandine vasodilatatrici. Tuttavia, studi clinici e sperimentali finalizzati a valutare l’effetto dell’aumento dell’apporto di ossigeno o dell’inibizione della sintesi delle prostaglandine non sono riusciti a dimostrare alcun vantaggio per il trattamento dello shock vasodilatatorio catecolamino-resistente. Un ulteriore meccanismo che, sia negli animali che nell’uomo, sembra svolgere un ruolo significativo nella patogenesi dello shock vasodilatatorio refrattario è la carenza di vasopressina, anche nota come ormone antidiuretico. La vasopressina svolge molti ruoli nell’organismo, ma la sua

capacità di stimolare la costrizione della muscolatura liscia vascolare e contribuire a mantenere la pressione arteriosa risulta particolarmente importante negli stati di ipotensione. La vasopressina, o ormone antidiuretico, è un peptide sintetizzato ed immagazzinato, rispettivamente, nell’ipotalamo e nella parte posteriore dell’ipofisi. È un ormone importante nella regolazione dell’equilibrio idrico dell’organismo negli animali sani, nel ripristino del tono vascolare negli stati ipotensivi e nella stimolazione del rilascio dei fattori VIII e di von Willebrand e dell’ACTH. Viene comunemente rilasciata in risposta ad un incremento dell’osmolalità (percepita nell’encefalo) o dell’ipotensione (percepita dai barocettori nell’atrio sinistro, nell’arco aortico e nel seno carotideo), benché siano stati identificati stimoli aggiuntivi. Gli effetti cellulari della vasopressina sono mediati dall’interazioni dell’ormone con due tipi principali di recettori: V1 e V2. I recettori V1 sono localizzati principalmente nel tratto gastroenterico e nella muscolatura liscia vascolare, ma anche in vescica, miometrio, reni e sistema nervoso centrale. I recettori V2 si trovano primariamente nelle cellule principali dei dotti collettori renali. È interessante notare che è stato dimostrato che la vasopressina determina una vasocostrizione in alcuni letti vascolari ed una vasodilatazione in altri (renale, polmonare, mesenterico e cerebrale). Gli effetti pressori (vasocostrittivi) della vasopressina sono non adrenergici e si ritiene che siano mediati dalle sue azioni dirette ed indirette sulla muscolatura liscia arteriosa. Negli animali sani la vasopressina non svolge un ruolo significativo nel controllo della muscolatura liscia vascolare, ma risulta di importanza critica quando si sviluppa un’ipotensione. Ciò è dovuto alla sua capacità di reimpostare il baroriflesso cardiaco regolandolo ad una pressione più bassa. In vitro, la vasopressina è un vasocostrittore più potente dell’angiotensina II, della noradrenalina o della fenilefrina su base molare. Livelli di vasopressina superiori a 100 pg/ml sono necessari per stimolare un incremento significativo della pressione arteriosa media. Gli stati caratterizzati da bassi livelli di flusso secondari ad ipovolemia o shock settico sono associati ad una risposta bifasica nei livelli sierici di vasopressina. Si ha un iniziale incremento del rilascio della vasopressina dalla neuroipofisi in risposta a ipossia, ipotensione e/o acidosi, che porta ad elevati livelli sierici di vasopressina. Ciò svolge un ruolo nella stabilizzazione della pressione arteriosa e nella perfusione organica negli stadi iniziali dello shock. È stato dimostrato che gli agenti che bloccano i recettori V1 abbassano la pressione arteriosa sia nello shock emorragico acuto che in quello settico.


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I livelli di vasopressina in un cane normale ed idratato sono intorno a 4 pg/ml. L’osmoregolazione raggiunge la massima efficacia a 20 pg/ml. Studi condotti nel cane hanno riscontrato concentrazioni di vasopressina nella gamma di 300-1000 pg/ml durante la fase iniziale dello shock emorragico e di 500-1200 pg/ml in seguito ad endotossiemia sperimentalmente indotta. Nell’ultima fase dello shock, tuttavia, i livelli di vasopressina sono diminuiti, presumibilmente a causa della degradazione della vasopressina rilasciata e della deplezione delle riserve neuroipofisarie che richiedono tempo per essere sintetizzate nuovamente. La concentrazione di vasopressina nei cani utilizzati nello studio sperimentale è scesa a 29 pg/ml nell’ultima fase dello shock emorragico. Nei pazienti umani con shock vasodilatatorio avanzato è stata riscontrata sia una carenza di secrezione di vasopressina che un aumento della sensibilità alle variazioni di pressione sanguigna indotte dalla vasopressina stessa. Inoltre, i livelli di quest’ultima sono marcatamente aumentati nei modelli animali di sepsi acuta, ma questo incremento è seguito da un rapido declino nell’arco delle poche ore successive. Ulteriori ipotesi per spiegare i bassi livelli di vasopressina fanno riferimento ad una diminuzione della stimolazione dei barocettori o il rilascio di vasopressina secondario a compromissione dei riflessi autonomi, come si osserva nella sepsi, o inibizione tonica da parte dei recettori atriali sensibili allo stiramento secondario al carico volumetrico o alla ventilazione meccanica. Inoltre, il rilascio di vasopressina può essere inibito dall’ossido nitrico o dalla presenza di elevati livelli circolanti di noradrenalina. Studi preliminari nell’uomo e negli animali hanno dimostrato risultati promettenti per il trattamento dei pazienti umani con ipotensione refrattaria utilizzando l’infusione endovenosa di vasopressina (in aggiunta al suo impiego per la rianimazione cardiopolmonare e il diabete insipido centrale). Molti pazienti con ipotensione refrattaria sono stati successivamente liberati dal supporto catecolaminico con l’aggiunta di terapia con vasopressina. Le prove sinora condotte negli animali sostengono i potenziali vantaggi della vasopressina in soggetti colpiti da stati ipotensivi. Tuttavia, la terapia con dosi elevate è associata ad eccessiva vasoco-

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strizione coronarica e splancnica, nonché ad uno stato di ipercoagulabilità. La vasocostrizione eccessiva può portare ad una riduzione della gittata cardiaca o perfino ad eventi cardiaci fatali, specialmente nei pazienti con ridotta funzione miocardica. Un recente studio di Guzman et al. ha confrontato gli effetti della somministrazione endovenosa di noradrenalina e di vasopressina sulla circolazione sistemica splancnica e renale in cani con shock endotossico sperimentalmente indotto. Le alterazioni del flusso ematico sistemico e splancnico erano comparabili, tuttavia l’infusione di vasopressina ha ripristinato la perfusione renale e l’apporto di ossigeno, mentre la noradrenalina no. Un altro studio condotto nel cane da Morales et al. ha preso in esame gli effetti della somministrazione della vasopressina in animali con shock emorragico sperimentalmente indotto e la successiva necessità dell’infusione di noradrenalina (3 µg/kg/min) per mantenere una pressione arteriosa media di 40 mm Hg. La somministrazione di un’infusione di vasopressina è esitata in un incremento delle pressioni medie da 39 ± 6 mm Hg a 128 ± 9 mm Hg. I livelli sierici di vasopressina erano marcatamente elevati durante l’emorragia acuta, ma diminuivano da 319 ± 66 a 29 ± 9 pg/ml prima della somministrazione della vasopressina. Recentemente, è stato portato a termine uno studio pilota condotto su cani in condizioni cliniche che ha riscontrato che la vasopressina aumentava la pressione sanguigna negli animali refrattari alla terapia con dopamina a 10 µg/kg/min. I dettagli di questo studio verranno ulteriormente illustrati nella relazione.

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Utilizzo di sostanze vasoattive nei pazienti in stato di shock Deborah Silverstein DVM, Dipl ACVECC, Philadelphia, USA

I pazienti in condizioni critiche che rimangono ipotesi nonostante un adeguato volume intravascolare richiedono l’uso di una terapia con agenti vasopressori. Dal momento che sia la gittata cardiaca che la resistenza vascolare sistemica influiscono sulla cessione dell’ossigeno ai tessuti, la terapia nei pazienti ipotesi prevede di esaltare al massimo la funzione cardiaca attraverso la fluidoterapia e gli agenti inotropi e/o di modificare il tono vascolare con quelli vasopressori. Fra questi ultimi, quelli comunemente utilizzati sono rappresentati dalle catecolamine (adrenalina, noradrenalina, dopamina) e da un farmaco simpaticomimetico, la fenilefrina. Inoltre, come agenti pressori aggiuntivi sono stati utilizzati vasopressina, corticosteroidi e glucagone. I differenti farmaci simpaticomimetici causano modificazioni del sistema cardiovascolare, in funzione della specifica stimolazione recettoriale che inducono. Convenzionalmente, la localizzazione e la funzione dei recettori adrenergici riguardano quelli alfa-1 e beta-2 situati sulle cellule muscolari lisce vascolari che conducono, rispettivamente, a vasocostrizione e vasodilatazione, mentre i recettori beta-1 del miocardio modulano primariamente l’attività inotropa e cronotropa. Inoltre, a livello renale, coronarico e della microvascolarizzazione mesenterica esistono recettori dopaminergici 1 che mediano la vasodilatazione, mentre nelle terminazioni nervose sinaptiche si trovano recettori dopaminergici 2 che inibiscono il rilascio di noradrenalina. La dopamina è dotata di molteplici potenziali azioni sui recettori adrenergici e dopaminergici. A basse dosi (1 µg/kg/minuto) si osservano effetti primariamente dopaminergici, a dosaggi moderati (5-10 µg/kg/minuto) si riscontrano effetti principalmente beta-adrenergici, a dosi elevate (10-15 µg/kg/minuto) sono presenti effetti adrenergici misti alfa e beta e a dosi molto elevate (15- 20 µg/kg/minuto) compaiono effetti primariamente alfa-adrenergici. L’effettiva relazione fra dose e risposta è imprevedibile in un dato paziente, perché dipende dalla variabilità individuale nella desensibilizzazione dei recettori dell’inattivazione enzimatica della dopamina, e il grado di alterazione del sistema autonomo. Per determinare una risposta pressoria sono quindi necessari dosaggi della dopamina superiori a 10 µg/kg/minuto. La dopamina può venire utilizzata come singolo agente terapeutico per garantire un supporto sia inotropo che pressorio negli animali con vasodilatazione e riduzione della contrattilità cardiaca. In confronto ad altri farmaci pressori, la dopamina è un agente inotropo meno potente dell’adrenalina (o della dobutamina) ed esercita una vasocostrizione minore

della noradrenalina. Gli effetti cardiovascolari della dopamina possono scomparire dopo parecchi giorni di terapia, forse a causa della desensibilizzazione dei recettori e/o dell’induzione di un aumento del rilascio di noradrenalina a livello postsinaptico. Nonostante i suoi benefici effetti sulla gittata cardiaca e sulla pressione sanguigna, la dopamina può avere conseguenze deleterie sulla perfusione gastroenterica. Quando viene utilizzata come agente vasopressore in cani da esperimento, si ha una diminuzione del pH della mucosa gastrica, molto probabilmente secondaria ad una ridistribuzione del flusso ematico mesenterico perché gli effetti alfamediati del farmaco ai dosaggi pressori obliterano quelli vasodilatatori attraverso i recettori splancnici dopaminergici-1. Per questa ragione, l’impiego prolungato di alte dosi di dopamina va effettuato con cautela. La noradrenalina (NE) è dotata di un’azione agonista mista alfa e beta adrenergica, con una preferenziale attività sugli alfa-recettori. Di conseguenza, gli effetti sulla frequenza cardiaca e sulla contrattilità sono lievi e la NE viene comunemente utilizzata come agente pressorio negli animali con stati caratterizzati da gittata cardiaca normale o aumentata. I modelli di shock settico nel cane hanno dimostrato che gli effetti della NE sulla funzione cardiaca sono diminuiti in confronto a quanto si riscontra nei controlli, non settici. Nei pazienti settici con insufficienza cardiaca e vasodilatazione, può essere auspicabile utilizzare la NE in associazione con la dobutamina (un potente beta-agonista) per prevenire gli effetti deleteri dell’aumento del postcarico su un cuore malato. Negli animali settici che mostrano una normalizzazione della pressione arteriosa, con l’impiego della NE si possono avere benefici effetti sulla perfusione renale. Tuttavia, la somministrazione della NE nei cani con shock ipovolemico induce una deleteria vasocostrizione renale. È stato anche dimostrato che la noradrenalina migliora la produzione di urina e la clearance della creatinina quando viene aggiunta alla dopamina o alla dobutamina nei pazienti con shock settico. L’apporto di ossigeno a livello splancnico e gli aumenti del pH della mucosa gastrica sono evidenti nei pazienti umani sottoposti ad una terapia con NE per il trattamento dello shock settico ipotensivo. Il dosaggio vasopressorio della NE nei pazienti umani (e quello estrapolato al cane) è di 0,2-3,3 µg/kg/minuto. L’adrenalina (ADR) è un potente agente pressorio con un’azione agonista mista alfa e beta. Benché sia ritenuta dotata di un effetto beta-agonista più potente della NE, l’adrenalina suscita una risposta individuale molto variabile nei pazienti con malattie infiammatorie sistemiche ed ipotensione. Di conseguenza, bisogna agire con cautela anche nei


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soggetti con cardiopatia. L’adrenalina può compromettere significativamente la perfusione splancnica in confronto alla noradrenalina ed alla dobutamina in associazione. Ciò è molto probabilmente dovuto all’intensa attività alfa-adrenergica dell’adrenalina, con conseguente vasocostrizione dei letti vascolari regionali, benché l’adrenalina attivi anche i recettori vasodilatatori beta. L’adrenalina viene raramente utilizzata come agente vasopressorio di prima linea per i suoi potenziali effetti collaterali, ma può essere necessaria negli animali in condizioni critiche. Inoltre, questo agente inibisce la degranulazione delle mast cell e dei basofili ed è quindi il farmaco d’elezione nei pazienti colpiti da shock anafilattico. Viene anche comunemente utilizzata per il trattamento dell’arresto cardiaco. La fenilefrina è un alfa-agonista puro che causa una intensa vasocostrizione. È stato dimostrato che provoca un incremento della gittata cardiaca e della pressione sanguigna, presumibilmente dovuto all’aumento del ritorno venoso al cuore ed all’attivazione degli alfa-1 recettori nel miocardio. La fenilefrina viene tipicamente utilizzata nei pazienti che non rispondono ad altri simpaticomimetici, benché possa essere impiegata come unico agente di prima linea negli animali vasodilatati ed ipotesi. Poiché non possiede alcuna attività beta, la fenilefrina è il meno aritmogeno fra i farmaci pressori simpaticomimetici ed è quindi desiderabile negli animali che sviluppano tachiaritmia in risposta ad altri agenti pressori. La dobutamina è un beta-agonista senza effetti alfa. Aumenta la gittata cardiaca, l’apporto di ossigeno e il consumo di ossigeno senza causare vasocostrizione. È quindi utile negli animali con insufficienza cardiaca. Può aggravare o scatenare le tachiaritmie. La vasopressina è un agente vasopressorio non adrenergico che verrà trattato a fondo in un’altra relazione. Esercita sia effetti diretti che indiretti sulla muscolatura liscia vascolare attraverso i recettori V1 per indurre vasocostrizione nella maggior parte dei letti vascolari. In vitro, la vasopressina è più potente della fenilefrina o della noradrenalina. Questo farmaco provoca vasodilatazione a livello della vascolarizzazione renale, polmonare, mesenterica e cerebrale per mantenere la perfusione di questi organi vitali. La

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somministrazione di vasopressina è risultata utile negli animali con shock vasodilatatorio catecolamino-resistenti. I cani con iperadrenocorticismo e quelli sottoposti a terapie croniche con corticosteroidi esogeni spesso mostrano un aumento della pressione sanguigna. Questa risposta è molto probabilmente dovuta alla soppressione dei vasodilatatori endogeni come il sistema callicreina-chinina, la prostaciclina e l’ossido nitrico. Inoltre, i glucocorticoidi modificano il sistema renina-angiotensina e determinano un aumento della sensibilità dei recettori dell’angiotensina 2 nella vascolarizzazione. Un aumento della pressione sanguigna e della resistenza vascolare sistemica si osservano tipicamente entro 24 ore nei cani sottoposti a terapia con corticosteroidi. Negli animali ipotesi in condizioni critiche può risultare utile la somministrazione di dosi fisiologiche di corticosteroidi, ma per confermare questo dato saranno necessarie ulteriori ricerche. Il glucagone viene secreto dal pancreas ed è classificato come un ormone di “controregolazione”. Il glucagone somministrato per via esogena provoca inoltre un effetto inotropo positivo che conduce ad un incremento della gittata cardiaca e della pressione sanguigna. Il glucagone attiva l’adenilatociclasi indipendente dalla stimolazione dei beta-recettori adrenergici ed è stato dimostrato che aumenta la frequenza cardiaca e la gittata sistolica nei modelli di shock emorragico nel cane. Questo farmaco può essere utile nei pazienti in condizioni critiche che non rispondono ai farmaci beta-agonisti o in quelli trattati con una terapia sintomatica complicata da agenti beta-bloccanti. Saranno necessarie ulteriori ricerche.

Bibliografia disponibile a richiesta Indirizzo per la corrispondenza: Deborah Silverstein Matthew J Ryan Veterinary Hospital University of Pennsylvania 3900 Delancey Street Philadelphia, PA 19104-6010 E-mail: dcsilver@vet.upenn.edu


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Aggiornamento sul trattamento delle malattie delle vie urinarie distali nel gatto Andrew H. Sparkes BvetMed, PhD, Dipl ECVIM, MRCVS, Newmarket, UK

I gatti colpiti da affezioni delle basse vie urinarie (FLUTD, feline urinary tract disease) tendono a presentare tutti la stessa gamma di segni clinici, quali disuria, ematuria, pollachiuria e minzione inappropriata, indipendentemente dalla causa sottostante. I maschi talvolta sviluppano stranguria ed un gatto con uropatia ostruttiva è ad alto rischio di morte entro 3-4 giorni per insufficienza renale acuta. Le possibili eziologie alla base della FLUTD sono numerose e, in generale, la cistite idiopatica è responsabile del 6070% dei casi, l’urolitiasi ed i tappi uretrali del 20-40% e l’infezione batterica di meno del 10%. Altre cause sono le stenosi uretrali e la neoplasia. A differenza di quanto avviene nel cane, le infezioni batteriche del tratto urinario (cistite, uretrite) nel gatto sono molto poco comuni e, secondo quanto suggerito da numerosi studi, risultano responsabili solo dell’1-3% dei casi di FLUTD. L’urolitiasi è una causa importante della comparsa dei segni clinici. Quella da ossalati e quella di struvite si riscontrano con frequenza approssimativamente uguale. Mentre però i calcoli da struvite possono venire disciolti con un appropriato trattamento dietetico (ad es., Hill’s s/d), quelli da ossalati non possono essere sciolti e richiedono la rimozione chirurgica. La prevenzione a lungo termine dell’urolitiasi ricorrente dipende dalla modificazione della composizione dell’urina per ridurre il rischio di un’ulteriore cristalluria e formazione di calcoli. Alcuni fattori di rischio per l’urolitiasi da ossalati e da struvite possono essere contrastati efficacemente (pH urinario, concentrazione di magnesio) e, quindi, le diete studiate per soddisfare le specifiche esigenze di questi due tipi di calcoli sono ideali per il mantenimento (ad es., Hill’s c/d ed Hill’s x/d). Nella maggior parte dei casi, i tappi uretrali sono probabilmente una manifestazione della cistite idiopatica. I tappi presentano una matrice proteica (probabilmente costituita in larga misura da proteine infiammatorie) all’interno della quale sono intrappolati vari altri elementi (ad es., cellule, detriti cellulari e cristalli) che contribuiscono a determinare l’ostruzione. Nella grande maggioranza dei casi, quest’ultima è associata a cristalli di struvite che, pur non essendo la causa del problema (verrebbero eliminati normalmente se non fosse per la matrice proteica), contribuiscono a determinare il blocco. Il trattamento a lungo termine di questi casi deve prevedere l’impiego di diete studiate per ridurre al minimo la formazione di cristalli di struvite (ad es., Hill’s c/d). La cistite idiopatica determina la maggior parte dei casi di affezioni delle basse vie urinarie del gatto. Di norma, la FLUTD idiopatica (iFLUTD) si risolve spontaneamente entro pochi giorni indipendentemente dal trattamento, ren-

dendo molto difficile valutare la risposta alla terapia. Spesso, quello che viene considerato un miglioramento dovuto ad un intervento terapeutico è in realtà semplicemente una guarigione spontanea. Nei pochi studi ben controllati pubblicati in letteratura, nessuna terapia medica si è dimostrata utile nella iFLUTD. Sono stati utilizzati molti farmaci, che non sono stati oggetto di prove cliniche di qualsiasi tipo. Sfortunatamente, in molti casi la valutazione dei farmaci impiegati per il trattamento della cistite idiopatica del gatto è stata effettuata soltanto mediante studi a breve termine (della durata di 1-2 settimane). Questi studi non hanno dimostrato alcun vantaggio dell’impiego di farmaci come il prednisolone e l’amitriptilina rispetto alla terapia con placebo, ma, data la natura rapidamente autorisolvente della malattia, può darsi che non fosse possibile né ragionevole aspettarsi di riuscire ad accertare un beneficio a breve termine. Riveste un valore clinico maggiore l’impiego di studi controllati con placebo a lungo termine, volti a prendere in considerazione la frequenza e la gravità degli episodi ricorrenti. Tuttavia, questi studi sono più difficili e più costosi da condurre, per cui ne sono stati effettuati relativamente pochi. Recenti dati ottenuti attraverso lo studio dei casi di iFLUTD hanno rivelato numerose analogie con una forma di cistite sterile (non infettiva) dell’uomo detta “cistite interstiziale”. Benché esistano delle differenze fra le due malattie (ad es, la cistite interstiziale tende ad avere un decorso clinico prolungato ed intrattabile), ci sono anche molte analogie impressionanti, come il riscontro di emorragie della sottomucosa alla cistoscopia (“glomerulazioni”), l’aumento della permeabilità della parete vescicale, la riduzione dell’escrezione dei glicosaminoglicani e l’edema e l’infiammazione della sottomucosa caratterizzati da un aumento numerico delle mast cell visibili nelle biopsie della parete vescicale. Sulla base di questi riscontri, nei gatti con iFLUTD sono stati sperimentati alcuni dei trattamenti che si sono dimostrati utili per la terapia della cistite interstiziale dell’uomo. L’amitriptilina rientra in questa categoria ed appartiene ad un gruppo di farmaci noto come “antidepressivi triciclici”. Certamente, determina alcuni effetti sul sistema nervoso centrale che possono risultare utili per il controllo della iFLUTD, dal momento che si ritiene che nello sviluppo della malattia almeno in alcuni gatti intervengano fattori stressanti. Tuttavia, il farmaco è dotato di numerosi altri potenziali effetti benefici in termini di riduzione dell’infiammazione neurogena nella vescica e di controllo del disagio associato alla malattia. Generalmente, l’amitriptilina è stata utilizzata alla dose di 2,5-10 mg per gatto, somministrati una volta al giorno alla sera (dal momento che l’assunzione può causare una


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sedazione temporanea). Benché studi a breve termine non siano stati in grado di dimostrare un beneficio, uno studio aperto non controllato a lungo termine ha suggerito una vera utilità in alcuni gatti con cistite intrattabile di vecchia data. Per il trattamento della iFLUTD, vengono anche diffusamente raccomandati gli integratori con glicosaminoglicani (GAG) (ad es., pentosanpolisolfato, glucosamina). Anche in questo caso, il loro impiego è abbastanza controverso, benché il riscontro di una significativa riduzione delle concentrazioni di GAG nell’urina dei gatti colpiti dalla cistite idiopatica rappresenti un valido presupposto teorico al loro impiego. L’esperienza clinica con questi farmaci è stata variabile, ma in due studi controllati a lungo termine, l’uso dei GAG-replacer non è parso determinare una differenza significativa circa la ricomparsa della iFLUTD nei gatti colpiti. Ciononostante, benché in entrambi i casi la ricerca non sia riuscita a dimostrare un significativo effetto utile dei farmaci impiegati, in ciascuno dei due studi è stato anche identificato un ridotto numero di singoli gatti che sembravano rispondere costantemente al loro impiego, mentre i segni clinici recidivavano quando la terapia veniva cessata. Benché il quadro complessivo sia ancora incerto, sembrerebbe quindi che alcuni dei gatti colpiti (anche se forse non la maggior parte) possano trarre beneficio da questa terapia. Anche se l’impiego di diete finalizzate specificamente a ridurre al minimo la produzione di cristalli urinari ha scarso o nullo valore scientifico per il trattamento della iFLUTD, la singola componente più importante nel trattamento a lungo termine di questa malattia è probabilmente la modificazione della dieta. Questa è l’unica forma di terapia che si sia costantemente dimostrata realmente utile nei casi di iFLUTD e ciò costituisce la parte più importante del trattamento a lungo termine. In uno dei pochi studi controllati volti a dimostrare un’utilità a lungo termine nei gatti con cistite idiopatica, quelli alimentati con una dieta umida presentavano una significativa riduzione del tasso di recidiva della malattia in confronto a quelli che consumavano una

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dieta secca (senza che venisse effettuato alcun altro intervento) e la concentrazione di urina prodotta nei due gruppi era significativamente differente. Questo studio ed alcune osservazioni successive spingono a concentrare l’attenzione della ricerca sulla dieta come forma più utile di terapia per l’iFLUTD. Il consumo di una dieta umida (in lattina/in sacchetto) piuttosto che secca è sempre consigliato e l’uso di un prodotto “a pH neutro” come la Hill’s c/d in lattina rappresenta una scelta appropriata perché esita nella produzione di un pH urinario intorno a 6,3 – corrispondente a quello che si riscontra tipicamente nei gatti che consumano una dieta “naturale” a base di roditori. Inoltre, l’uso di una dieta con un carico di soluti relativamente basso come questa dovrebbe favorire la produzione di una bassa concentrazione urinaria, che probabilmente è uno dei principali meccanismi che determinano i benefici effetti osservati nella terapia dietetica. Anche l’aggiunta di sale alla dieta in quantità sufficienti può determinare la produzione di un’urina con un peso specifico relativamente basso, ma ci possono essere numerosi potenziali effetti indesiderati associati all’aumento del contenuto di sale nella dieta (potenziale contributo all’espansione volumetrica ed all’ipertensione ed esacerbazione di ogni eventuale compromissione reale presente), per cui l’uso di integratori salini e diete con livelli di sale più elevato viene scoraggiato. L’uso di “pet fountains”, acque aromatizzate ed altri metodi per accentuare il consumo di acqua (oltre l’uso delle diete umide) è altamente raccomandato. Nei casi di FLUTD ricorrente, uno degli scopi primari dovrebbe essere quello di ridurre il peso specifico dell’urina a 1.035 o meno ed evitare acidificazioni o alcalinizzazioni anormali.

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Diagnosi e trattamento dell’insufficienza renale cronica nel gatto Andrew H. Sparkes BvetMed, PhD, Dipl ECVIM, MRCVS, Newmarket, UK L’eziologia che sta alla base dell’insufficienza renale cronica del gatto è spesso oscura, benché sia stata documentata una gran varietà di cause. La valutazione istologica dei reni dei gatti colpiti di solito rivela una nefrite interstiziale cronica (CIN) come riscontro più comune, ma la causa di questa alterazione è incerta. È stato ipotizzato che la pielonefrite cronica o la glomerulonefrite possa spiegare almeno in parte questi casi di “stadio terminale” della condizione. Le manifestazioni cliniche dell’insufficienza renale cronica del gatto sono spesso aspecifiche, ed i segni più comuni sono rappresentati da disidratazione, anoressia, letargia e perdita di peso. Polidipsia e poliuria (PU/PD), che sarebbero considerate le principali manifestazioni dell’insufficienza renale cronica del cane, vengono segnalate molto meno frequentemente nel gatto, in parte, forse, a causa dello stile di vita di questi animali (minore riconoscimento della PU/PD), ma probabilmente anche perché molti di essi mantengono una capacità di concentrazione dell’urina in presenza di insufficienza renale cronica molto superiore a quella del cane. Inoltre, benché la malattia sia tipicamente associata al riscontro alla palpazione di reni piccoli ed irregolari, molti gatti con insufficienza renale cronica presentano un ingrossamento renale che riflette la presenza di condizioni sottostanti quali nefropatia policistica e linfoma renale che conducono alla nefromegalia. Altre manifestazioni comuni della sindrome uremica nel gatto sono rappresentate da vomito (dovuto agli effetti centrali delle tossine uremiche, all’ipergastrinemia ed all’ulcera gastrica uremica), pallore delle mucose (da anemia) e retinopatia da ipertensione (compresi distacchi retinici). Il riscontro dell’ipertensione sistemica è stato segnalato in una percentuale di gatti con insufficienza renale cronica che può arrivare al 60-70%. La diagnosi dell’insufficienza renale cronica si basa solitamente sui segni clinici associati alla dimostrazione della presenza di iperazotemia e di una non appropriata concentrazione dell’urina. Poiché i gatti mantengono spesso in parte la capacità di concentrazione durante l’insufficienza renale cronica, non si osserva necessariamente un’isostenuria. In uno studio, quest’ultima è stata riscontrata nel 57% dei gatti con insufficienza renale cronica, ma nel 42% era presente un’iperstenuria di grado variabile (peso specifico > 1.015). In un’altra indagine, il 60% dei gatti con insufficienza renale cronica mostrava un peso specifico > 1.012. Tuttavia, pochi gatti con insufficienza renale cronica avanzata sono in grado di concentrare l’urina a valori superiori a 1.035 e il riscontro di iperazotemia con un’urina di peso specifico < 1.035-1.040 è solitamente considerato una prova di insufficienza renale primaria. Oltre all’iperazotemia, nell’insufficienza renale cronica del gatto si osservano comunemente altre anomalie degli esami di laboratorio. Fra questi risulta-

no importanti l’iperfosfatemia (da diminuzione della velocità di filtrazione glomerulare), l’acidosi (incapacità dei reni insufficienti di effettuare l’escrezione del normale carico acido), l’anemia ipoproliferativa (da riduzione della vita media degli eritrociti, soppressione uremica dell’eritropoiesi e carenza relativa o assoluta di eritropoietina). La misurazione della velocità di filtrazione glomerulare (GFR) è possibile e costituisce il test standard della funzione renale, ma le attuali metodologie per questo tipo di determinazione sono difficoltose e/o costose e quindi non vengono impiegate di routine nella pratica clinica. Invece, come indicatore della funzione renale si usa solitamente la valutazione dei livelli sierici di urea e creatinina. Se vengono eliminati i fattori non renali, l’iperazotemia implica una perdita funzionale del 75% o più dei nefroni. Tuttavia, bisogna fare attenzione a interpretare i livelli di urea e creatinina, in particolare quando si tratta di valori ai limiti superiori della norma o leggermente elevati, dal momento che un deterioramento anche molto elevato della funzione renale a questo punto determinerà soltanto degli incrementi relativamente piccoli dei valori di urea/creatinina. Al contrario, alla fine della nefropatia, un deterioramento relativamente piccolo della funzione renale può causare un marcato incremento delle concentrazioni di urea/creatinina. In generale, la creatininemia riflette la funzione renale in modo più accurato dell’azotemia. L’inadeguata assunzione di acqua nell’insufficienza renale cronica è associata a disidratazione, riduzione della perfusione renale ed ulteriore compromissione della funzione dell’organo. Alcuni gatti vengono portati alla visita in stato di scompenso acuto dell’insufficienza renale cronica dovuto ad improvvisa deplezione volumetrica, mentre altri, soprattutto durante il progredire dell’insufficienza, possono andare incontro a disidratazione cronica o ricorrente ed ipoperfusione renale. I gatti con scompenso acuto richiedono una fluidoterapia endovenosa e la rivalutazione dell’iperazotemia dopo correzione della disidratazione, per consentire una valutazione accurata della funzione renale. Mantenere adeguata l’assunzione di fluidi è di primaria importanza nell’insufficienza renale cronica, ed i proprietari devono essere informati della poliuria obbligatoria che spesso accompagna la malattia e, quindi, della conseguente necessità per l’animale di avere libero accesso all’acqua. L’assunzione di acqua può venire incrementata in una varietà di modi (ad es., ricorrendo agli alimenti umidi piuttosto che secchi, oppure integrando la dieta con acqua o brodi), ma quando i gatti non riescono a mantenere un’adeguata ingestione volontaria molti proprietari possono essere disposti a ricorrere alla somministrazione a casa per via sottocutanea (ad es., utilizzando fluidi composti da due parti di destrosio 5% ed una parte di soluzione di Ringer lattato).


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I vantaggi clinici della restrizione proteica nell’insufficienza renale cronica sono stati sostenuti da studi condotti sia nel gatto che in altre specie animali. Si ritiene che i prodotti del catabolismo proteico contribuiscano in modo significativo a determinare i segni clinici associati alla sindrome uremica, per cui la restrizione delle proteine non essenziali nella dieta dovrebbe ridurre i cataboliti azotati e concorrere ad alleviare i segni clinici come il vomito, l’anoressia, l’inappetenza, la perdita di peso, l’anemia e la letargia. Una moderata restrizione proteica in presenza di iperazotemia è quindi una raccomandazione standard nei gatti con insufficienza renale cronica; di solito, questo risultato si ottiene preferibilmente ricorrendo a diete ipoproteiche del commercio. Se la restrizione delle proteine nella dieta abbia di per sé un impatto di qualsiasi tipo sulla progressione dell’insufficienza renale nel gatto è ancora un argomento controverso. Come nei cani con riduzione del numero dei nefroni, la risposta dei nefroni superstiti nel gatto è rappresentata da un incremento della velocità di filtrazione glomerulare del singolo nefrone (SNGFR, single nephron GFR) ottenuta mediante iperfiltrazione glomerulare, ipertrofia glomerulare ed ipertensione glomerulare, ed è associata ad un incremento della proteinuria. La restrizione delle proteine della dieta può contribuire a minimizzare queste modificazioni ed una recente metanalisi di parecchi studi condotti nell’uomo ha suggerito che la restrizione proteica può rallentare la progressione dell’insufficienza renale cronica. Tuttavia, anche ammesso che ciò si applichi al gatto, l’effetto della restrizione proteica sulla progressione dell’insufficienza renale è probabilmente piccolo (benché possa influire notevolmente sulla qualità della vita). Ciò nonostante, esistono oggi validissime prove del fatto che il vantaggio clinico dell’impiego di diete a ridotto tenore di proteine e di fosfati come la Hill’s k/d non determina solo un miglioramento della qualità della vita, ma anche un significativo ritardo della progressione dell’insufficienza renale. Tuttavia, qesto effetto probabilmente è in larga misura mediato dalla restrizione dei fosfati. La ritenzione di fosforo nell’insufficienza renale cronica è un fattore importante nello sviluppo dell’iperparatiroidismo secondario rena-

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le ed anche nella mineralizzazione dei tessuti molli. La restrizione del fosforo nella dieta può quindi attenuare l’iperparatiroidismo secondario renale e può contribuire a prevenire le alterazioni istologiche del rene (mineralizzazione, fibrosi ed infiammazione) riscontrate nei gatti alimentati con diete non sottoposte a restrizione. Esiste una chiara evidenza quindi che porta a raccomandare caldamente l’impiego di una dieta come la Hill’s k/d in lattina nel trattamento di routine dei felini con insufficienza renale cronica. Se l’iperfosfatemia persiste (fosforemia a digiuno > 2 mmol/l) nonostante la restrizione dietetica, si possono somministrare con i pasti dei leganti del fosforo per uso orale – a questo scopo è stato raccomandato l’impiego del sevelamer (Renagel®) alla dose di 200 mg/gatto bid/tid PO. Anche l’ipokalemia, probabilmente dovuta soprattutto ad una kaliuresi inappropriata, costituisce un riscontro comune nell’insufficienza renale cronica del gatto. La manifestazione cardine della grave ipokalemia è la polimiopatia, con debolezza muscolare generalizzata e ventroflessione del collo, ma anche una lieve ipokalemia (senza polimiopatia associata) può influire negativamente sulla funzione renale e contribuire all’insufficienza cronica. Le diete per soggetti nefropatici devono essere ricche di potassio e nei casi in cui è presente un’ipokalemia si raccomanda caldamente un’integrazione con questo elemento. L’ipertensione sistemica è un riscontro molto comune nell’insufficienza renale cronica del gatto, con una prevalenza del 20% circa. È molto probabile che l’ipertensione non controllata porti ad un’insufficienza renale progressiva ed abbia anche altri effetti (cardiaci, oftalmici, neurologici). Il controllo adeguato della pressione sanguigna (valore sistolico < 160-170 mm Hg) è importante nell’insufficienza renale e, probabilmente, il modo migliore per ottenerlo è la somministrazione di amlodipina (0,625-1,25 mg/gatto/die PO).

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Supporto nutrizionale nel gatto malato/anoressico Andrew H. Sparkes BvetMed, PhD, Dipl ECVIM, MRCVS, Newmarket, UK

L’anoressia è una complicazione significativa dei gatti ospedalizzati, che non va sottovalutata o ignorata. Il paziente va valutato accuratamente e bisogna prendere in considerazione sia le strategie non farmacologiche che quelle farmacologiche per superare il problema. Non tutti i soggetti inappetenti necessitano di un supporto nutrizionale, ma, se è necessario effettuare un sostegno appropriato, bisogna identificare quelli già colpiti o a rischio di sviluppo di malnutrizione proteico-energetica (PEM) e trattarli precocemente durante il decorso della malattia per ridurre al minimo gli effetti indesiderati potenzialmente gravi. L’identificazione di questi pazienti non è facile, dal momento che la PEM può avere un’insorgenza insidiosa e non è caratterizzata da alcun segno clinico specifico. L’ideale sarebbe utilizzare uno o più test di laboratorio come marcatori sensibili e specifici di PEM e quindi servirsene per valutare obiettivamente lo status nutrizionale, ma, al momento attuale, né in medicina umana né in medicina veterinaria sono disponibili marcatori semplici ed affidabili. Nella PEM si riscontrino spesso anomalie dei risultati degli esami di laboratorio (ad es., linfopenia, riduzione delle proteine plasmatiche [albumina, transferrina, prealbumina, ecc…] e anemia) che dovrebbero far sospettare al clinico la presenza della condizione, ma non si tratta di marcatori né sensibili né specifici. È necessario prestare maggior attenzione a vari criteri soggettivi per la valutazione dei nostri pazienti; quelle che seguono sono linee guida suggerite per individuare il tipo di paziente che può aver bisogno di un supporto: • Perdita di ≥ 10% del peso corporeo nei precedenti 7-14 giorni. • Anoressia o marcata inappetenza di durata ≥ 3 giorni nel gatto. Nel cane questo periodo di tempo può essere più prolungato (≥ 5-6 giorni), ma l’incapacità dei felini di desensibilizzare le transaminasi epatiche per ridurre i fabbisogni proteici impone un’identificazione precoce della PEM in questa specie animale • Presenza di cachessia • Presenza di grasso corporeo o massa muscolare inadeguati • Pazienti colpiti da condizioni che esitano in una perdita diretta di proteine/energia (ad es., peritonite/pleurite essudativa, specialmente nei casi in cui vengono drenate). I gatti che vengono portati alla visita con uno qualsiasi di questi segni clinici devono essere sottoposti ad un monitoraggio molto stretto dell’assunzione di cibo e, se i fabbisogni calorici non vengono soddisfatti, è necessario promuovere immediatamente il supporto nutrizionale. Oltre a stimolare l’appetito bisogna anche valutare quali siano i modi per ridurre al minimo lo stress. Ciò può risultare particolarmente importante nei gatti ospedalizzati e bisogna tenere

conto dei vari aspetti dell’ambiente come il rumore, la temperatura, la possibilità di nascondersi (ad es., in una scatola di cartone nella gabbia), l’attenuazione del dolore, l’uso di spray ai feromoni come il “Felifriend” e l’abitudine di accarezzare il gatto per incoraggiarlo a mangiare. In caso di inappetenza moderata o persistente, se non esiste alcun impedimento fisico alla prensione ed all’ingestione del cibo e se le circostanze lo consentono, può essere appropriato tentare di ricorrere alla stimolazione dell’appetito. Numerosi fattori possono aumentare l’appetibilità del cibo o il desiderio di mangiare; rientrano fra questi: • offrire la dieta utilizzata normalmente a casa – i gatti spesso sviluppano forti preferenze legate alla familiarità • lasciare a disposizione ciotole per il cibo larghe e profonde (che non interferiscano con le vibrisse) • offrire spesso piccole quantità di alimenti freschi • impiegare gli alimenti umidi piuttosto che quelli semiumidi o secchi • offrire cibo riscaldato (26,6-37,8 °C) • utilizzare una dieta ricca di grassi e proteine (ad es., Hill’s a/d, Hill’s c/d, Hill’s m/d, Hill’s p/d) • impiegare alimenti con odori intensi (specialmente carne, pesce o formaggio) • offrire un ambiente confortevole e tranquillo • assicurare un incoraggiamento fisico (carezze e coccole) • ripulire le incrostazioni nasali eventualmente presenti • assicurare un’adeguata analgesia in presenza di dolore In aggiunta alla manipolazione della dieta, in caso di anoressia persistente si può ricorrere alla stimolazione farmacologica dell’appetito prima di prendere in considerazione l’alimentazione mediante sonda. Più sotto vengono indicati alcuni degli agenti disponibili e comunemente utilizzati. Gli effetti collaterali associati a glucocorticoidi ed ai progestinici generalmente ne precludono l’uso come specifici stimolatori dell’appetito, mentre gli steroidi anabolizzanti non sono agenti potenti e risultano di scarso o nessun valore nel trattamento a breve termine dell’anoressia. • diazepam (0,05- 0,2 mg/kg BID/TID; 1-2 mg/gatto PO, BIS/TID) • oxazepam (0,25- 0,5 mg/kg PO SID/BID • prednisolone (0,25- 0,5 mg/kg PO/IM SID) • megestrolo acetato (1 mg/kg PO BID) • ciproeptadina (2 mg per gatto PO BID) Le benzodiazepine sono efficaci stimolatori dell’appetito nella maggior parte dei gatti, ma può darsi che non funzionino così bene in quelli gravemente ammalati. Probabilmente agiscono determinando una stimolazione diretta dell’appetito all’interno del SNC, ma i singoli farmaci non sono equipotenti, dal momento che la loro attività relativa risulta struttura-dipendente. Il diazepam è quello più ampiamente


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utilizzato in questa classe; è di gran lunga più efficace se viene impiegato per via endovenosa piuttosto che intramuscolare o per os e può venire somministrato fino a due o tre volte al giorno. Come con tutte le benzodiazepine, la dose necessaria per indurre l’assunzione del cibo spesso esita in sedazione ed atassia e la posologia va mantenuta al minimo necessario. Inoltre, in alcuni gatti la risposta alle benzodiazepine è scadente (soprattutto nei soggetti malati, come già ricordato) e le proprietà di stimolazione dell’appetito spesso vanno incontro ad un declino con l’uso prolungato. Generalmente si raccomanda di non utilizzare le benzodiazepine per la stimolazione dell’appetito per più di due o tre giorni. L’oxazepam può essere un farmaco più efficace per il trattamento per via orale per periodi più prolungati, ma presso la nostra clinica noi utilizziamo normalmente la ciproeptadina come stimolatore dell’appetito per os. La ciproeptadina è un efficace stimolatore dell’appetito in molti gatti ed è ampiamente disponibile. Si somministra per via orale e può essere utilizzata sia in ambito clinico che a casa. Pur essendo molto efficace come stimolatore dell’appetito, può tipicamente richiedere 2-3 giorni per ottenere un effetto completo e, come nel caso del diazepam, probabilmente è molto meno efficace nei gatti gravemente ammalati. Nel gatto, i fabbisogni delle vitamine del gruppo B (niacina e piridossina) sono circa 4 volte più elevati che nel cane e la deplezione sperimentale delle vitamine B conduce ad anoressia. È quindi importante assicurare un’adeguata assunzione di queste vitamine (sia per os che per via paraenterale), ma vi sono scarse prove che indicano che la loro somministrazione, da sola, sia adeguata per superare l’anoressia clinicamente manifesta. L’aggiunta di vitamine del gruppo B ai fluidi endovenosi è un modo facile per garantire un’assunzione adeguata. Indipendentemente dallo stimolatore dell’appetito impiegato, è essenziale valutare criticamente il successo della terapia. Come nel caso di monitoraggio di qualsiasi paziente a rischio di PEM, bisogna calcolare i fabbisogni calorici; una volta che sia nota la densità calorica dell’alimento impiegato, può venire determinata la quantità di cibo da consumare nell’arco di 24 ore. Se l’assunzione calorica è inadeguata, bisogna ricorrere ad altri mezzi per garantire la nutrizione, come l’alimentazione mediante sonda enterale.

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Nel gatto, una causa significativa di anoressia può anche essere l’avversione al cibo. Questa si manifesta nei casi in cui ai gatti viene offerto il cibo nello stesso momento in cui stanno vomitando o hanno la nausea, sia a causa di una malattia sottostante che per effetto di trattamenti farmacologici. I gatti che iniziano a rifiutare un alimento offerto quando avevano la nausea possono continuare a rifiutarsi di mangiare anche quando la sensazione di nausea è regredita, perché continuano ad associare i due eventi. Questa è un’altra ragione per cui può essere importante garantire il supporto nutrizionale mediante sonda nei casi dubbi, in modo da evitare lo sviluppo dell’avversione al cibo ed assicurando al tempo stesso il supporto nutrizionale. Per l’alimentazione mediante sonda nel gatto si ricorre comunemente all’intubazione mediante esofagostomia – che può venire impiegata in modo intercambiabile con quella rinoesofagea, oppure in via esclusiva nei casi in cui questa non è tollerata o non può venire utilizzata. Questa forma di alimentazione è anche adatta al supporto nutrizionale per periodi più prolungati (ad es., parecchie settimane o persino mesi). Le sonde da esofagostomia vengono facilmente inserite e si sono dimostrate notevolmente utili per il supporto nutrizionale, con pochissime complicazioni. L’inserimento della sonda richiede una lieve anestesia generale di breve durata, ma, una volta in sede, questi tubi sono facili da mantenere. Le sonde da esofagostomia di diametro maggiore consentono l’impiego di alimenti standard semiliquidi (ad es., la Hill’s a/d è ideale per questo scopo) e quindi i disturbi gastroenterici sono meno comuni di quelli che si hanno quando si utilizzano le sonde rinoesofagee, attraverso le quali si devono somministrare alimenti liquidi, che sono inevitabilmente relativamente ricchi di carboidrati. Quando il tubo viene rimosso, la sede della stomia guarisce entro due settimane e non sembrano verificarsi problemi come la formazione di stenosi esofagee. Le sonde da esofagostomia non vanno utilizzate nei casi di disfunzione esofagea o vomito ripetuto e incontrollato.

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Le più comuni dermatosi e il ruolo della nutrizione Andrew H. Sparkes BvetMed, PhD, Dipl ECVIM, MRCVS, Newmarket, UK

Gli acidi grassi essenziali sono un gruppo di acidi grassi polinsaturi (PUFA, polyunsatured fatty acids) necessari per mantenere la salute normale ed il metabolismo, dal momento che rivestono un’ampia gamma di ruoli sia in salute che in malattia. Gli EFA sono parte della componente di tutte le membrane cellulari dell’organismo e contribuiscono sia alla struttura che alla funzione delle cellule stesse; inoltre, sono i substrati della famiglia enzimatica della ciclossigenasi (COX) e della lipossigenasi (LOX) e, pertanto, rappresentano i precursori degli eicosanoidi che svolgono un ruolo in numerosi processi come l’infiammazione, la coagulazione del sangue, il mantenimento della pressione sanguigna, la funzione immunitaria e persino la regolazione dei geni. Le prime ricerche degli anni ’20 del secolo scorso hanno identificato che la carenza di EFA esitava in numerose manifestazioni patologiche quali: • ritardo della crescita • ispessimento della cute • desquamazione, formazione di croste ed infiammazione • infertilità • insufficienza organica • morte Da allora, sono stati condotti molti studi per identificare ulteriormente il ruolo degli EFA nella malattia ed il loro potenziale impiego terapeutico, prestando particolare attenzione alle affezioni dermatologiche, dal momento che questa è una delle più precoci, più evidenti e potenzialmente più gravi manifestazioni della carenza di EFA. Gli acidi grassi polinsaturi (PUFA) sono acidi grassi con due o più doppi legami nella loro catena di atomi di carbonio. Ne esistono due gruppi principali, noti come famiglia omega-3 ed omega-6. Numerosi PUFA a catena più lunga possano essere sintetizzati (principalmente nel fegato) attraverso l’attività degli enzimi desaturasi ed elongasi, ma perché ciò avvenga i mammiferi hanno una necessità assoluta di apporto con la dieta di acido linoleico (LA – un PUFA omega-6) ed alfa-linolenico (ALA – un PUFA omega-3), che non sono in grado di sintetizzare da soli. L’LA e l’ALA sono abbondanti in vari materiali di origine vegetale e possono formare la base per la sintesi di altri PUFA nella maggior parte dei mammiferi, ma ciò non è necessariamente vero per i carnivori obbligati come il gatto. I felini possiedono un livello bassissimo di attività enzimatica della delta-6 desaturasi (ed eventualmente anche di altri enzimi desaturasici), il che significa che sono in realtà incapaci di sintetizzare molti dei PUFA necessari a partire dall’LA e dall’ALA. I gatti necessitano quindi di un apporto con la dieta di acido arachidonico (AA, considerato un altro acido grasso essenziale in questa specie animale) e, probabilmente, anche di acido eicosapentenoico (EPA) oltre che di

LA e ALA, benché i fabbisogni assoluti di omega-3 siano stati poco studiati nel gatto ed in altre specie animali. È stato ben chiarito che la carenza dietetica di EFA omega-6 (acido linoleico) esita in marcate anomalie cutanee. Gli EFA sono parte integrante delle membrane cellulari, contribuiscono in modo significativo alla loro fluidità e, quindi, concorrono a mantenerne normali struttura e funzioni. L’acido linoleico è anche incorporato nei ceramidi (una famiglia di sfingolipidi) che formano la principale componente lipidica dello strato corneo e agiscono sia da adesivi intercellulari che per il mantenimento delle normali proprietà di barriera cutanea, prevenendo la perdita di acqua e principi nutritivi attraverso la cute. Negli stati carenziali, cani e gatti possono quindi sviluppare varie anomalie dermatologiche come la seborrea secca, il mantello secco ed opaco, la diminuzione dell’elasticità cutanea, l’ipertrofia delle ghiandole sebacee, l’aumento della viscosità del sebo, l’incremento della perdita idrica transepidermica e l’incremento della proliferazione delle cellule dell’epidermide (che porta ad ipercheratosi). L’integrazione con LA fa rapidamente regredire questi segni clinici ed esistono ulteriori prove del fatto che tale integrazione può essere utile in altre forme di seborrea. Oltre al loro ruolo nel mantenere normali l’integrità, la struttura e la funzione della cute, gli EFA svolgono una funzione cardine nell’infiammazione, sia a livello cutaneo che in altre sedi dell’organismo. Il legame fondamentale fra EFA e processo flogistico è dato dagli eicosanoidi, una famiglia di derivati ossigenati di tre specifici EFA a 20 atomi di carbonio – in particolare DGLA ed AA (entrambi EFA omega6) ed EPA (un EFA omega-3). Questi EFA vengono liberati dalle membrane cellulari sotto l’azione della fosfolipasi (aumento delle quantità che vengono liberate in caso di danno tissutale). Sugli EFA agiscono quindi sia la ciclossigenasi (COX-1 e COX-2) che la lipossigenasi (LOX), con la conseguente formazione di prostanoidi (prostaglandine e trombossani) e leucotrieni – questi composti formano collettivamente gli eicosanoidi. Benché l’acido arachidonico sia il principale EFA liberato dall’attività della fosfolipasi, ed anche se gli enzimi COX e LOX hanno una selettività preferenziale nei confronti dell’AA come substrato, sia il DGLA che l’EPA competono con l’AA come substrati per questi enzimi ed il loro metabolismo esita nella produzione di una serie differente di eicosanoidi. Gli eicosanoidi della serie 2 (derivati dall’AA attraverso l’attività della COX) e della serie 4 (derivati dall’AA per l’attività della LOX) sono considerati fortemente proinfiammatori. Benché siano importanti nelle normali funzioni tissutali e svolgano una funzione significativa nei normali processi di guarigione e nella funzione immunitaria, se vengono prodotti in quantità eccessive questi eicosanoidi possono


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contribuire agli stati infiammatori patologici. In contrasto a ciò, quelli delle serie 1, 3 e 5 (prodotti dall’attività di COX e LOX a partire da DGLA ed EPA) sono generalmente considerati come prodotti di natura non infiammatoria o lievemente infiammatoria. Inoltre, si ritiene che gli EFA omega3 contribuiscano a proprietà antinfiammatorie dirette, in parte attraverso prodotti del loro metabolismo (ad es., la produzione delle cosiddette “risolvine della serie E” attraverso l’attività COX) ed in parte attraverso la modificazione dell’espressione dei geni coinvolti nel processo infiammatorio. Questo concetto è particolarmente importante dal momento che il DGLA e l’EPA competono con l’AA come substrati per l’attività di COX e LOX e ciò significa che se il contenuto di EFA delle membrane cellulari può venire alterato per aumentare il rapporto di EFA omega-3:omega-6 ed incrementare la percentuale di DGLA in confronto a quella di AA, la proporzione che ne deriva dei differenti eicosanoidi verrà modificata a favore della riduzione delle risposte infiammatorie. D’altro canto, un contenuto omega-6 più elevato nella dieta tenderà a promuovere una risposta infiammatoria più energica. In definitiva, ciò significa che è possibile utilizzare un’accurata e controllata modificazione della dieta come mezzo per manipolare le concentrazioni tissutali di differenti EFA in modo da determinare un ambiente dove vi sia un minore equilibrio infiammatorio degli eicosanoidi. Ciò sta alla base dell’alterazione delle concentrazioni di GLA ed omega-3 della dieta nelle condizioni patologiche associate a stati infiammatori. Oggi, l’importanza degli EFA della dieta è chiaramente andata oltre i concetti iniziali della loro rilevanza nel mantenimento dell’integrità e della struttura normali della cute. Un esame dei dati pubblicati in letteratura suggerisce che nella grande maggioranza delle prove cliniche delle malattie cutanee allergiche di vario tipo, come l’atopia e l’ipersensibilità da pulci (sia mediante prove aperte che in cieco) nei cani e nei gatti ai quali è stata assicurata un’integrazione con EFA

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(ed in particolare una percentuale più elevata di EFA omega3), si è avuto un miglioramento dei segni clinici, con riduzione dei livelli di prurito e/o altre manifestazioni come il calo dell’eritrodermia e dell’edema cutaneo, confermando l’efficacia di questa forma di terapia come importante intervento collaterale nelle dermatosi infiammatorie. In un recente studio multicentrico di grandi dimensioni, condotto su 89 cani adulti con prurito non stagionale attribuito ad atopia e/o allergia alimentare (attraverso l’esclusione di altre cause riconosciute del prurito), è stata valutata l’efficacia della Hill’s d/d® (salmone e riso o selvaggina e riso). L’efficacia della dieta nel controllo dei segni della malattia è stata stabilita valutando i punteggi assegnati dai proprietari e dai veterinari a distanza di 4 e 8 settimane dal passaggio alla dieta d/d. Qualsiasi cane che avesse ricevuto integrazioni omega-3 o fosse stato alimentato con diete con un elevato contenuto di omega-3 nei tre mesi precedenti è stato escluso dall’indagine. Altri trattamenti che potessero influire sulla condizione patologica sono stati concessi soltanto se i cani erano stati in precedenza sotto terapia e se i protocolli di somministrazione non erano stati modificati per tutto il periodo di prova. I risultati di questo studio evidenziano miglioramenti sostanziali e prolungati sia nelle valutazioni dei veterinari che in quelle dei proprietari, che dimostrano l’efficacia clinica di una dieta per uso veterinario formulata in modo accurato. La manipolazione degli EFA della dieta non costituisce solo una selezione di una fonte proteica importante per gli animali con sospetta ipersensibilità alimentare, ma può svolgere un ruolo significativo nei soggetti colpiti da qualsiasi forma di malattia cutanea allergica.

Indirizzo per la corrispondenza: Andrew H. Sparkes The Feline Unit Center for Small Animal Studies Animal Health Trust, New Market, UK


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Moderni approcci alla prevenzione delle malattie trasmesse da vettori nel cane Dorothee Stanneck Med Vet, Dipl ECVP, Leverkusen, Germania

In medicina veterinaria si è solidamente affermato il principio della prevenzione. La regola di base che la profilassi sia preferibile alla terapia, che si applica nel caso degli animali da allevamento, deve essere attuata anche nella pratica dei piccoli animali, ogniqualvolta siano disponibili prodotti idonei. Negli ultimi anni, sta divenendo sempre più evidente l’importanza di proteggere i nostri amici cani dalle malattie trasmesse dagli artropodi (CVBD, Canine Vector Borne Disease), invece di cercare semplicemente di curare le malattie dopo la loro insorgenza. Il controllo e la prevenzione delle malattie invece del loro trattamento è una strategia tradizionalmente ben consolidata negli animali da allevamento, impiegando strumenti igienici e immunologici. Negli animali da compagnia, vengono comunemente impiegate le vaccinazioni preventive nei confronti delle infezioni virali. Ma la specifica categoria delle malattie infettive trasmesse da vettori nei cani, che spesso hanno la caratteristica di essere potenzialmente fatali e difficili da prevenire, trattare o curare, accresce la necessità, e l’opportunità, di un differente approccio per la protezione dell’animale ospite nei confronti dei patogeni. Le principali CVBD vengono trasmesse da zecche (Borrelia burgdorferi, Ehrlichia canis, Babesia canis, Hepatozoon), zanzare (Dirofilaria immitis) e flebotomi (Leishmania infantum). Le più importanti malattie infettive trasmesse dalle zecche, che causano gravi malattie cliniche nei cani, sono la babesiosi e l’ehrlichiosi, e in grado minore, le infezioni da Borrelia burgdorferi e Rickettsia conorii. Comunemente le infezioni causate da questi due agenti producono infezioni subcliniche, diagnosticate mediante sieroconversione, e la loro associazione alla malattia clinica è difficile da dimostrare nei cani. Inoltre i cani sembrano essere sensibili all’infezione da Coxiella burnetii (febbre Q) e alle encefaliti virali trasmesse dalle zecche, ma le segnalazioni di malattia clinica non sono frequenti. Altre infezioni canine trasmesse dalle zecche sono causate da Haemobartonella spp., Bartonella spp., Francisella tularensis e agenti virali che provocano ad esempio l’encefalite. I ditteri che trasmettono la dirofilariosi e la leishmaniosi sono ben noti nell’Europa mediterranea e causano gravi malattie; la leishmaniosi è inoltre importante come serbatoio di infestazioni umane. Dal punto di vista del metodo di prevenzione, le CVBD possono essere suddivise in due gruppi: 1) la prevenzione nei confronti del patogeno è possibile e consolidata o 2) la prevenzione nei confronti del patogeno è impossibile per diverse ragioni.

Il primo gruppo è costituito per lo più da una CVBD, la dirofilariosi. La prevenzione di questo parassita cosmopolita è ben consolidata mediante il regolare trattamento dei cani a rischio, con lattoni macrociclici almeno durante la stagione delle zanzare. Non è disponibile alcun vaccino per i cani come importante strumento di controllo delle altre malattie trasmesse dagli artropodi, ad eccezione di un vaccino contro Babesia canis e, in alcuni paesi del mondo, contro Borrelia burgdorferi. È da molto tempo che si attende un vaccino contro Leishmania per il controllo di questa grave malattia nell’uomo, ma attualmente non è ancora disponibile. Conformemente, il secondo gruppo è costituito dalla grande maggioranza delle CVBD. La sola possibilità di proteggere l’animale da queste malattie è interrompere il processo di trasmissione dal vettore all’ospite. I cicli dei patogeni e le specifiche relazioni vettore-patogeno-ospite non sono in tutti i casi compresi al 100%, ma tutti hanno una caratteristica in comune: la protezione dai vettori si traduce in una prevenzione della trasmissione dello stadio infestante da parte del vettore. Poiché solitamente la trasmissione si verifica durante l’assunzione di un pasto di sangue da parte del vettore, un farmaco protettivo nei confronti di una CVBD deve avere un’efficacia abbastanza rapida da prevenire il morso o la puntura, e l’assunzione di un pasto di sangue, da parte di una zecca o un flebotomo infestati. La velocità di trasmissione è differente per i diversi patogeni nei diversi ospiti. Per esempio, un flebotomo avrà un contatto con l’ospite di soli pochi secondi, durante i quali deve avvenire una trasmissione di successo, contrariamente alle zecche che in certe fasi mostrano una suddivisione dei pasti e quindi la trasmissione può verificarsi dopo numerose ore o anche più tardi. Inoltre, il tempo impiegato affinché avvenga la trasmissione del patogeno differisce tra i differenti generi di zecca e da patogeno a patogeno: per esempio la rapida trasmissione di Babesia ed Ehrlichia, che inizia dopo 2 ore, si contrappone alla lenta trasmissione di Borrelia, che richiede circa 18 ore per essere trasmessa. Poiché in molti casi la cinetica della singola trasmissione non è sufficientemente nota e una singola zecca può veicolare diversi patogeni, il trattamento preventivo deve essere abbastanza efficace da tenere sotto controllo persino lo scenario peggiore. Esiste un ampio spettro di insetticidi e acaricidi disponibile negli ambulatori dei piccoli animali, nei negozi di animali o nei supermercati che afferma di essere efficace nei confronti di numerosi artropodi. Sebbene sia fuor di dubbio la loro efficacia parassiticida verso i loro target, è importante indagare se questi prodotti siano idonei nella prevenzione delle CVBD nei cani. Un insetticida o un aca-


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ricida ad azione lenta può influenzare la quantità di sangue che viene prelevata da un cane infestato oppure può ridurre la dimensione di una popolazione parassitaria su un cane trattato o nell’ambiente in cui questo vive, ma non sarà efficace nel difendere l’animale dalla trasmissione delle CVBD. Per quanto riguarda questo aspetto, i repellenti o i farmaci con un’azione estremamente rapida devono rappresentare la prima scelta. Le nozioni apprese ad esempio durante il trattamento della malaria nell’uomo devono essere applicate anche per casi simili in medicina veterinaria, tenendo presente i requisiti specifici degli animali rispetto ai pazienti umani. Non sarà possibile né tenere un cane costantemente sotto una zanzariera né trattarlo ogni 8 ore con uno spray repellente o costringerlo a stare in casa dopo il sorgere del sole. Pertanto il cane deve essere protetto per un periodo prolungato ed essere al sicuro dagli attacchi degli artropodi. Ciò può essere fornito solo attraverso principi attivi con spiccate proprietà antifeeding, specialmente certi piretroidi. Nell’ambito di questo gruppo, il piretroide sintetico permetrina è ben conosciuto nell’impiego umano per impregnare tende, abiti o altri fibre tessili utilizzate nell’ambiente domestico. Da un lato la permetrina agisce da potente repellente grazie al suo cosiddetto effetto “hot foot” e d’altro canto possiede un’efficacia abbattente molto rapida. L’associazione di questi due effetti previene con successo la puntura e/o il morso di importanti artropodi vettori. Negli ultimi anni ciò è stato dimostrato in numerosi parassiti per una soluzione spot-on contenente permetrina/imidacloprid: la repellenza, misurata come efficacia antifeeding, è stata dimostrata in numerosi flebotomi (Phlebotomus papatasi, P. perniciosus, Lutzomyia longipalpis), mosche (Stomoxys calcitrans) e zanzare (Aëdes spp. e Culex spp.), per un periodo di numerose settimane dopo un singolo trattamento spot-on con permetrina. Per numerose zecche (Ixodes ricinus, Rhipicephalus sanguineus, Dermacentor spp.) è stata dimostrata una repellenza, determinata come rapida rimozione dei parassiti dall’ospite (2 ore dopo la reinfestazione) per un periodo di 3-4 settimane dopo il trattamento. Inoltre, sono stati effettuati numerosi studi sulla trasmissione vettore-ospite che hanno dimostrato con successo l’efficacia protettiva del trattamento spot-on: in questi studi i

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cani sono risultati completamente protetti dalla trasmissione di Borrelia burgdorferi e Anaplasma phagocytophilum da parte di Ixodes scapularis. Riassumendo, è necessario tenere qualsiasi cane, che viva in aree endemiche per le zecche e/o per i flebotomi o che viaggia con il proprio padrone in quelle aree, sotto la costante protezione di tali potenti agenti antifeeding durante l’intera stagione in cui gli artropodi sono attivi. Pertanto è necessario avere tali prodotti in un formato comodo da applicare, come una soluzione spot-on applicata mensilmente, cosicché il proprietario sia sempre disposto a trattare l’animale ogniqualvolta sia necessario. Un cane protetto da questo scudo repellente avrà migliori probabilità di vivere indisturbato dalla minaccia prodotta dalle CVBD.

Bibliografia Blagburn B.L., Spencer J.A., Billeter S.A., Drazenovich N.L., Butler J.M., Land T.M., Dykstra C.C., Stafford K.C., Pough M.B., Levy S.A., Bledsoe D.L., (2004), Use of imidacloprid-permethrin to prevent transmission of Anaplasma phagocytophilum from naturally infected Ixodes scapularis ticks to dogs, Vet. Therapeutics, 5 (3): 212-217. Breitschwerdt E.B., (2003), Canine and feline Ehrlichiosis: new developments. In: Proceed. 19th Annual Congress of ESVD – ECVD Tenerife, Spain, 66-74. Breitschwerdt E.B., (2003), Transmission times and prevention of tick-borne diseases in dogs, Comp of Cont. Educ., 25 (10): 742-751. Mencke N., Volf P., Volfova V., Stanneck D., (2003), Repellent efficacy of a combination containing imidacloprid and permethrin against sand fly (Phlebotomus papatasi) on dogs, Parasitol. Res., 90: S107-110. Mencke N., Volf P., Volfova V., Stanneck D., Miró G., Gálvez R., Mateo M., Montoya A. & Molina R., (2005), Repellent Efficacy of a Imidacloprid/ Permethrin spot-on against sand flies (Phlebotomus papatasi, P. perniciosus and Lutzomyia longipalpis. In: Proceed. 8th. Internat Symp Ectoparasit Pets, Hannover, Germany, May 2005, p. Shaw S.E., Day M.J., Birtles R.J. & Breitschwerdt E.B., (2001), Tick-borne infectious diseases of dogs, Trends in Parasitol., 17 (2): 74-80. Spencer J.A., Butler J.M., Stafford K.C., Pough M.B., Levy S.A., Bledsoe D.L. & Blagburn B.L., (2003), Evaluation of permethrin and imidacloprid for prevention of Borrelia burgdorferi transmission from blacklegged ticks (Ixodes scapularis) to Borrelia burgdorferi-free dogs, Parasitol. Res., 90: S106-107 Stanneck D., Fourie L.J., Emslie R., Krieger K., (2005), Repellent efficacy of imidacloprid 10%/ Permethrin 50% spot-on (Advantix) against stable flies (Stomoxys calcitrans) on dogs, In: Proceed. 8th. Internat Symp Ectoparasit Pets, Hannover, Germany, May 2005, p.


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Lavoro o vita privata La tua clinica assorbe tutte le tue energie? Anne-Marie Svendsen DVM, MRCVS, Copenhagen, Denmark

Per quanto amiamo il nostro lavoro e la nostra professione, può arrivare un momento in cui la vita non sembra più scorrere liscia come al solito. Vi sentite più stanchi, è un sollievo quando un appuntamento viene cancellato e vi sembra di non trovare più entusiasmo nella vita quotidiana come facevate prima. Ciò può significare che siete a rischio di elevati livelli di stress (o esaurimento), qualcosa che la professione veterinaria ha in comune con altre attività caratterizzate da “aiutare e curare” come quelle dei medici, delle infermiere, degli insegnanti, ecc…

Tre livelli di stress Livello 1 - nessun effetto negativo evidente. La persona può persino apprezzare la scarica di adrenalina che gli deriva dal fatto di essere molto occupata. Livello 2 - irritabilità, affaticamento ed ansia Livello 3 - tendenza tirarsi indietro, malattia, cattiva capacità di giudizio, depressione e senso di colpa1

Quanto siete stressati? Lo stress e lo stress estremo (esaurimento) si possono manifestare con una varietà di sintomi, sia fisici che mentali. Alcuni dei più comuni sono: - Insoddisfazione cronica del proprio lavoro - Costante o frequente senso di urgenza - Tendenza a disumanizzare i clienti o a perdere facilmente la paziente con gli animali o con il resto del team - Pessimismo e scarsa fiducia in sé - Sintomi clinici fastidiosi come: difficoltà di dormire, stanchezza costante, mal di testa e disinteresse sessuale - Problemi di relazione, in particolare con il coniuge o i figli - Scatti emotivi o tendenza ad isolarsi dagli altri - Malattie ripetute - Mancanza di interesse per attività sociali o di altro genere

Gli stadi dello sviluppo della professione Il modo in cui vedete la vostra professione e quello con cui la svolgete può influire significativamente sulla quantità di stress che subite. Steven D. Garner, veterinario ed autentico guru del management, descrive lo sviluppo di un’attività professionale con tre livelli: 1. Infanzia

2. Adolescenza 3. Maturità Nello stadio dell’infanzia, la vita è bella. La professione non è terribilmente impegnativa, state facendo quello che vi piace e che vi siete preparati a fare. Le persone vi ascoltano ed avete il tempo di instaurare dei legami con loro. Siete il punto di contatto personale con i clienti. Questi vi identificano con la clinica ed avete la sensazione che se volete che qualcosa sia fatto bene, dovete farlo personalmente. Man mano che il successo professionale cresce, diventate sempre più occupati. Questo vi porta allo stadio dell’adolescenza. Nello stadio adolescenziale, non riuscite mai a trovare abbastanza gente. Assumete persone per svolgere i compiti che a voi non piacciono, ma vi sembra di avere dei problemi a trovare le persone giuste. Vi identificate ancora con la clinica, ma dato che siete così impegnati le cose vi possono sfuggire ed il servizio fornito ai clienti non è buono come era di solito. Potete guardarvi intorno e pensare: Chi sta curando la formazione dello staff? Chi sta ordinando i rifornimenti? Chi si occupa degli aspetti tecnologici? Chi sta pianificando il futuro? Potete cercare di affrontare questi problemi lavorando sempre di più e finendo per sovraffaticarvi (esaurimento) oppure potete iniziare ad assumere nuove persone. Ma in qualche modo non sono mai abbastanza valide. A questo stadio, la clinica si identifica ancora con voi, e dal momento che è cresciuta fino al punto in cui voi, come veterinario non siete in grado di controllarla, svolgere ogni compito, ispezionare ogni attività ed eseguire ogni funzione, la clinica non va più bene. Nello stadio della maturità vi rendete conto che la vostra professione è un’attività imprenditoriale e che la vostra impresa è di tipo commerciale ed ha lo scopo di venire venduta un giorno e garantirvi una buona pensione. Questa impresa riguarda i clienti – che non vogliono necessariamente voi, vogliono un animale sano. Vi rendete anche conto che in voi ci sono tre persone: - L’imprenditore – l’inventore fantasioso che ha una visione ed un sogno con un fine. Il denaro è partecipazione. - Il manager - la persona che inventa sistemi per gestire le persone e che passa attraverso un apprendimento costante. Ogni attività imprenditoriale è una scuola. Il denaro è profitto. - Il veterinario – colui che produce la ricchezza e determina chi siamo e come facciamo le cose e che rappresenta il marchio dell’impresa. Il denaro è salario. Portare la vostra attività allo stadio di maturità è un modo che può aiutarvi ad evitare lo stress e l’esaurimento, dal momento che vi permette di distinguere chiaramente fra la vostra professione e voi – e vi insegna a fare un passo indietro e delegare. Tuttavia, lo stress fa parte della vita di ogni giorno ed anche in una clinica matura può essere utile prestare attenzione ai modi per affrontarlo.


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Affrontare lo stress Per determinare quale sia il modo migliore per affrontare lo stress è necessario capire cosa della vostra vita quotidiana vi stressa. Ci sono tre esercizi che vi aiuteranno a stabilirlo2. 1. Classificare i vostri fattori di stress Dedicate 5 minuti a scrivere tutto ciò che vi provoca stress – dalle preoccupazioni di salute ed economiche a quelle relative all’ambiente ed alla porta sporca dei vostri vicini. Poi, collocate ognuno di questi fattori stressanti in una delle seguenti categorie: - Categoria 1: posso controllarlo, e per me è importante - Categoria 2: non posso controllarlo, e per me è importante - Categoria 3: posso controllarlo e non è molto importante per me - Categoria 4: non posso controllarlo e non è molto importante per me Guardate di nuovo la vostra lista. I fattori elencati nella categoria 1 vanno trattati preferibilmente con tecniche che modifichino la situazione. Per quelli della categoria 2 è meglio ricorrere a tecniche che modifichino la vostra percezione o la vostra risposta corporea allo stress. Chiedetevi seriamente se avete bisogno oppure no di occuparvi di quelli della categoria 3 e smettete di occuparvi di quelli della categoria 4!2 2. I ruoli che svolgete Elencate tutti i differenti ruoli che svolgete nelle diverse situazioni, ad es., veterinario, amministratore della clinica, genitore, ciclista, ecc… Poi, ordinate questi ruoli secondo l’importanza che hanno per voi e pensate a quanto tempo destinate loro durante un mese tipo. State dedicando la maggior parte del tempo ai ruoli che sono più importanti per voi? Lo stress sarà tanto maggiore quanto più elevato sarà il divario fra l’importanza di un’attività ed il tempo che le dedicate. 3. Equilibrate le vostre attività Elencate tre cose che vi piacciono e che fate raramente e tre cose che odiate, ma fate troppo spesso. Pianificate un momento specifico per svolgere ognuna delle attività che amate e sforzatevi di trovare un modo per ridurre al minimo quelle che odiate. Il passo successivo è quello di cercare di trovare dei modi per affrontare i vostri fattori stressanti. Da questo punto di vista ci sono tre cose da considerare: 1. Cambiare la situazione 2. Cambiare la vostra percezione/atteggiamento 3. Aumentare la vostra resistenza ai fattori stressanti

Cambiare la situazione Nei casi in cui è possibile modificare la situazione, è altamente consigliabile farlo. In questa sede vengono fornite alcune idee utili come punti di partenza: - prendete delle responsabilità – ciò vi consente di cambiare davvero le cose. - Chiarite i vostri valori – pensate a quello che volete davvero ottenere dalla vita. Le vostre attività sono bilanciate e state svolgendo davvero il ruolo che volete? - Delegate ogni volta che sia possibile. Molti compiti che vengono svolti dai veterinari possono essere espletati altrettanto bene (o meglio) da altri membri del vostro team.

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- Siate realistici – distinguete fra la perfezione e l’eccellenza. La perfezione si ottiene solo raramente ed è frustrante orientare le vostre aspettative su livelli così alti. L’eccellenza permette di apprendere dagli errori e dai giorni sbagliati – significa semplicemente che voi state semplicemente facendo del vostro meglio in ogni momento. Tutti sono umani. Accettatelo. - Pensate in modo creativo. Esiste un approccio alla situazione differente, che non vi si è mai presentato prima? - Stabilite dei limiti e spiegateli. Ogni volta che decidete quali sono i vostri limiti, rendeteli molto chiari e rispettateli. Se decidete di fare un’eccezione, assicuratevi che l’altra persona capisca cos’è il limite e perché state piegando le vostre regole personali.

Cambiate la vostra percezione/ atteggiamento Una buona regola per gestire il tempo è: “non gestite il tempo. Gestite VOI STESSI”. Certamente, questo atteggiamento vi aiuterà ad avere l’impressione di esercitare un controllo migliore. Qui vengono elencati alcuni suggerimenti che potrebbero essere utili: - Siate ben consapevoli di cosa potete controllare e cosa no. - Non fatene un fatto personale. La situazione al lavoro ha a che fare con quello che FATE, non con quello che SIETE. - Pensate positivo!! E parlatevi in modo positivo. - Stabilite dei compartimenti separati - non lasciate che il lavoro interferisca con la vita privata. Una volta usciti dalla porta, la vostra attenzione deve essere diretta alla vostra casa. - Accettate l’aiuto degli altri. Parlate dei vostri stress da lavoro con la famiglia e con gli amici e cercate di costruire un sistema di supporto al lavoro dove possiate ridere della situazione insieme ad altri. - Evitate le cose che non potete cambiare.

Aumentate la vostra resistenza ai fattori stressanti Lo stress è una reazione dell’organismo, di conseguenza, ci sono cose che possiamo fare per aiutare l’organismo stesso ad affrontarlo meglio: - Effettuate delle respirazioni lente e profonde come metodo per rilassarvi - Fate regolarmente esercizio – come minimo, dieci minuti ogni giorno. La parola chiave è OGNI GIORNO - Mangiate secondo le corrette indicazioni nutrizionali - Giocate! Con i figli, con il coniuge e con gli amici. Questo vi aiuta a rilassarvi ed a pensare in modo più creativo.

Bibliografia 1. 2.

McMahon, G. Point of view. Counselling (1999) 1, 5. Soares, C.J. Give yourself a breather. Veterinary Economics, Oct 2005, 55-63.

Indirizzo per la corrispondenza: Anne Marie Svendsen, Hill’s Pet Nutrition Ltd.Europe Sherbourne House, Hatters Lane, Croxley Business Park Watford, Herts WD 18 8WX


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Aspetti finanziari e clinica Produrre reddito e ridurre i costi Anne-Marie Svendsen DVM, MRCVS, Copenhagen, Denmark

Per definizione, “profitto = (ricavo - costi)”. Di conseguenza, una modificazione del profitto si può ottenere soltanto da una variazione dei ricavi oppure dei costi. Tuttavia, al fine di analizzare quali servizi vi diano il massimo profitto, dovete considerare il fatto che esistono due tipi differenti di costi: fissi e variabili. I costi fissi sono quelli che restano costanti in un dato periodo di attività della struttura come i salari, gli affitti, le assicurazioni, le attrezzature, i telefoni, le autorizzazioni ecc… I costi variabili fluttuano direttamente in proporzione con il livello di attività della struttura e comprendono pellicole radiografiche, attrezzature mediche e chirurgiche, materiali per ufficio, alimenti per animali, strumenti di laboratorio, ecc… Tutto ciò evidenzia anche il fatto che nella maggior parte delle strutture veterinarie non è realistico aspettarsi di riuscire ad aumentare significativamente il profitto diminuendo i costi, dal momento che gran parte di essi è direttamente collegata ai ricavi. D’altra parte, avete un potenziale illimitato di aumentare le entrate. La chiave per aumentare i vostri profitti è quella di far crescere la vostra topline (ricavi)

Diminuire i costi Facendo riferimento al benchmark fissato dal US study of Well-Managed Practices, possiamo indicare i target approssimativi della percentuale di ricavi che i singoli costi potrebbero dare.

Ricavo totale Costi variabili Costi fissi Costi non veterinari Costi di struttura Totale costi di esercizio Quota disponibile per compensazione veterinaria e reinvestimento Compensazione veterinaria Compensazione per l’owner management Totale compensazione veterinaria e di management Quantità disponibile per il reinvestimento Quantità reinvestita nella struttura Quantità che rimane disponibile per i proprietari

100% 21% 8% 23% 8% 60% 40% 19% 3% 22% 18% 3% 15%

Ci sono quattro aree chiave che vi possono essere utili per diminuire i costi: • Ridurre i vostri conti esigibili (denaro che i clienti vi devono) • Gestire l’inventario • Gestire il tempo vostro e del vostro team • Massimizzare l’uso dello spazio della vostra struttura Dovete riuscire a capire chi vi deve del denaro e quanto. Poi stabilite con quali clienti potete lavorare per ottenere un pagamento. Inviate quelli che non sembrano promettenti al recupero crediti. Fate del vostro meglio per incoraggiare il pagamento in contanti al momento dell’appuntamento. Gestire bene il vostro inventario è uno dei fattori chiave per liberare cassa da destinare all’attività. Cercate di ridurre l’inventario a scorte per 2-4 settimane. Considerate il valore autentico dei singoli prodotti (= profitto del prodotto x numero di volte in cui viene venduto all’anno) e considerate se ve ne siano o meno alcuni che potrebbero essere eliminati. Certi prodotti con margine più basso possono in realtà portarvi più denaro, perché vengono venduti più spesso. Evitate la duplicazione dei prodotti, ad esempio stabilite quali trattamenti antipulci raccomandate e vendete solo quella marca o, al massimo, una in più. Delegate per quanto possibile al vostro team – lasciare che uno di loro gestisca l’inventario è un buon modo per cominciare. Identificate quali momenti della giornata sono particolarmente impegnati e quelli in cui si dispone di tempo che potrebbe essere utilizzato in modo costruttivo. Considerate l’impiego di questo tempo per migliorare direttamente l’aspetto o le capacità della vostra struttura oppure per generare maggiori entrate focalizzandovi sul modo migliore per seguire i clienti dopo la visita (follow through) e migliorando la loro collaborazione. Stilate una lista di priorità che vi garantisca di utilizzare saggiamente ogni momento risparmiato per far crescere la struttura. Considerate lo spazio che avete. Le sale da visita sono fattori chiave per le entrate e averne abbastanza vi dà l’opportunità di sfruttare meglio il vostro team. Valutate se sia possibile destinare le differenti sale a più usi – una stanza da visita può fungere anche da area odontoiatrica, mentre uno sgabuzzino per le scope può funzionare anche da stazione di lavoro extra nel retro. Utilizzate lo spazio verticale: cercate di stoccare tutto in ordine sulle pareti. Vedete anche l’articolo “Migliorare la clinica – suggerimenti pratici di ristrutturazione”.


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Generare delle entrate Quando si parla di generare delle entrate, le possibilità sono infinite. La cosa principale da ricordare è quella di focalizzare l’attenzione sulla soluzione più a portata di mano, più facilmente attuabile e capace di dare il massimo ritorno dell’investimento. Alcune delle aree che potete prendere in considerazione sono: 1. Onorari 2. Servizi attualmente prestati gratis 3. Collaborazione della clientela 4. Entrate passive 5. Servizi offerti Nessuna altra decisione di marketing impatta sul valore dei profitti o delle perdite (bottom line) in modo altrettanto diretto e potente come i prezzi: un aumento dei prezzi del 5% è un aumento del 5% della vostra bottom line. Aggiornate frequentemente i vostri onorari, almeno due volte all’anno. Devono essere aumentati ALMENO del tasso di inflazione. Tenete i prezzi nella fascia alta: la maggior parte dei veterinari tende a farsi pagare meno del dovuto e non più del dovuto. L’AAHA compliance study ha riscontrato che i clienti passano ad un altro veterinario perché “quello di prima era troppo costoso” solo nel 4% dei casi.1 Inoltre, considerate il fatto che potete aumentare i vostri onorari del 20%, perdere il 17% dei clienti ed avere ancora le stesse entrate di prima. La chiave è quella di utilizzare un sistema di prezzi basato sui valori e stabilire i vostri onorari facendo riferimento alla percezione che i clienti hanno del servizio offerto. Può essere necessario stabilire delle tariffe competitive per i servizi chiave, come le vaccinazioni e le castrazioni, mentre quelli come le indagini di laboratorio, le procedure odontoiatriche non di routine e la dermatologia possono essere prezzate in modo differente, perché avete l’opportunità di spiegare al cliente il valore del servizio. Inoltre, considerate il valore totale della visita del cliente: se il vostro team conosce la storia di ogni singolo animale di ogni cliente, si dimostra affezionato e dedito a loro e rende piacevole ogni visita, sarete in grado di chiedere un onorario più elevato per i vostri servizi. Stabilite gli onorari sulla base del 90% dei clienti che sono felici di pagare. Se non ricevete alcuna lamentela circa i vostri onorari, non state chiedendo abbastanza. Chiedete un compenso per quello che fate. Nella sola attività di visita, i veterinari regalano di routine esami medici (effettuati sia nel corso della visita stessa che subito dopo) e valutazioni postoperatorie. Tutto ciò sottrae denaro alla bottom line e svaluta i vostri servizi agli occhi della clientela. Se prendete consapevolmente la decisione di gettare via qualcosa, create un fondo all’inizio dell’anno, con una quota fissa di denaro specificamente destinato a sconti e servizi gratuiti. Ogni volta che prestate un servizio senza un compenso, deducetelo dal fondo, e quando questo sarà terminato, non effettuate più prestazioni gratuite. Ciò vi aiuterà a rendervi conto di quanto gettate via.

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Aumentare la collaborazione da parte della clientela è un’opportunità enorme di incrementare le entrate. Il maggiore ostacolo a questa collaborazione è la mancanza di indicazioni efficaci.1 Semplicemente fornendo al cliente raccomandazioni chiare ed energiche in occasione di ogni visita, è possibile fare molto per aumentare la collaborazione. Tuttavia, per ottenere ulteriori incrementi, ci sono alcune cose che potete fare: • Educare i membri del vostro team, in modo che ognuno fornisca le stesse raccomandazioni • Offrire del materiale illustrativo ai clienti nella sala d’attesa, nella stanza da visita e da portare a casa. Ricordatevi che se date un pieghevole ad un cliente, dovete sottolinearne i messaggi chiave mentre lo stanno guardando. Ciò aumenta le probabilità che si ricordino delle vostre raccomandazioni e lo leggano. • Attivare un sistema di programmazione attivo. Chiedete al team di fissare, alla fine della visita in atto, un nuovo appuntamento per verificare la corretta attuazione delle cure raccomandate all’animale. Se il cliente non può accettare l’appuntamento per quel giorno, chiamatelo due o tre giorni dopo e poi seguite il caso con un promemoria scritto. • Effettuare il follow-up mediante il promemoria. Chiamate le persone dopo che hanno ricevuto il promemoria scritto per un servizio per aiutarli a fissare un appuntamento. Il tempo del veterinario è spesso il fattore limitante nei redditi creativi. Un modo importante per lavorare su questo problema è quello di generare delle entrate passive (cioè generate dal team piuttosto che dal veterinario) nella struttura. Sono fonti importanti di entrate passive cose come la vendita di alimenti per animali da compagnia, il taglio delle unghie, la pulizia delle orecchie, la rimozione dei punti di sutura, i nuovi programmi per cuccioli e gattini, i programmi di mantenimento del peso e quelli geriatrici. Considerate quali servizi volete offrire tenendo presente che gli animali in età geriatrica contribuiscono per il 50% in più della loro controparte più giovane, il che suggerisce che un valido programma geriatrico sia un’opportunità alla quale prestare attenzione. Un’altra opportunità chiave è il trattamento profilattico dei denti. Molti dentisti specializzati raccomandano un trattamento profilattico per le patologie dentali di grado 1 o più, ma solo il 35% dei cani e dei gatti con affezioni odontoiatriche di grado 2, 3 o 4 è stato visto nel corso dell’ultimo anno e ha ricevuto cure dentali.1

Bibliografia 1.

The Path to High-Quality Care. American Animal Hospital Association, 2003.

Indirizzo per la corrispondenza: Anne Marie Svendsen, Hill’s Pet Nutrition Ltd.Europe Sherbourne House, Hatters Lane, Croxley Business Park Watford, Herts WD 18 8WX


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Migliorare la clinica Suggerimenti pratici di ristrutturazione Anne-Marie Svendsen DVM, MRCVS, Copenhagen, Denmark

Fate un passo indietro e guardate la vostra clinica con occhi critici. Soddisfa le vostre esigenze? Soddisfa quelle dei vostri clienti? E lo fa in modo piacevole ed altamente commercializzabile? Un’indagine condotta dalla Hill’s Pet Nutrition nel 1998 presso i proprietari di animali da compagnia ha stabilito che i clienti vogliono una clinica che: • Sia pulita • Abbia un buon odore • Sia luminosa • Sia ordinata, curata e spaziosa • Sembri nuova e moderna (ispiri fiducia) • Garantisca il comfort e la comodità, ad esempio con aree di attesa separate per cani e gatti, caffè, riviste, zone di ristoro per cani e parcheggio disponibile • Allo stesso tempo, voi avete bisogno di una struttura che sia studiata per offrirvi la migliore pianta possibile e favorire il flusso del traffico.

Pianta Cercate di considerare la vostra clinica in termini di “zone di lavoro”, individuando ad esempio quella dedicata ai clienti, quella per il trattamento, quella di abitazione, ecc… Pensate al modo in cui il traffico fluisce da una zona all’altra. Disegnate una pianta d’insieme della vostra clinica e servitevi di penne di colore differente per tracciare il modo in cui si muovono all’interno di essa il team ed i clienti – ciò evidenzia rapidamente ogni potenziale area di ingorgo del traffico e può darvi delle idee sul modo per riorganizzare l’uso degli spazi. Poiché la prima impressione della clinica si ha attraverso l’area della reception, questa è una zona chiave sulla quale focalizzare l’attenzione. Assicuratevi di disporre di un adeguato spazio di stoccaggio, in modo che la vostra area di reception non sia in disordine e piena di molte cose differenti e tinteggiatela con un colore chiaro e caldo. Lasciando che l’arredamento sia mobile, potrete adattare la stanza a molti usi differenti senza averla sempre ingombra. Un altro suggerimento è quello di utilizzare un’illuminazione di buona qualità che riduca il bagliore dando alla struttura un aspetto moderno. La vostra area della reception dice chiaramente ai vostri clienti chi siete e, quindi, dovete davvero pensare al livello di qualità che volete trasmettere. Considerate la possibilità di investire in un banco da reception davvero bello da utilizzare come punto focale per l’intera area. La sala da visita è lo spazio successivo che il cliente vede. Anche in questo caso, assicuratevi che sia tinteggiata con un

colore chiaro e caldo. L’uso di armadietti con gli sportelli di vetro vi permette di vedere rapidamente dove si trova qualsiasi cosa ed al tempo stesso di mantenere tutto al riparo dalla polvere ed assicurare all’ambiente un’atmosfera ordinata. Tutto ciò che trova posto in un armadietto o in un cassetto vi deve essere collocato. Valutate l’ipotesi di realizzare un espositore da parete che evidenzi un servizio ed un prodotto chiave per incoraggiare il cliente a discuterne con voi. Potete anche utilizzare dei tavoli da visita pieghevoli, in modo che la prima impressione data al cliente sia quella di una stanza spaziosa. In tutta la struttura è importante prestare attenzione al controllo degli odori e dei rumori. La pulizia frequente, la progettazione di pareti e pavimenti in modo da consentire una sanificazione facile ed efficace ed i tentativi di attutire i rumori sono tutti interventi utili. L’odore ed il rumore possono rappresentare una parte importante della decisione di un cliente di continuare o meno a servirsi della struttura. Ogni volta che sia possibile, realizzate dei locali multiuso (ufficio e sala da visita, procedure speciali e sala da visita, ufficio e stanza per i colloqui telefonici, sala comfort per lo staff ed area di attesa per l’eutanasia, più area di visita per i pazienti ospedalizzati, ecc…) e installate delle apparecchiature su tavolini dotati di ruote, in modo da poterli trasportare facilmente.

Design I clienti sono alla ricerca di ambienti moderni e spaziosi – che si possono ottenere più facilmente di quanto pensiate. Ci sono un paio di elementi chiave che potete voler ricercare per quanto riguarda: • Colori • Luci • Vetri • Zone di stoccaggio • Piante/decorazione • Arte/personalità I colori scuri fanno sembrare le stanze più piccole e soffocanti. L’impiego di un colore chiaro con una tonalità calda può dare alle stanze della vostra clinica una marcia in più. Per ottenere un maggiore effetto, ricorrete a piccoli tocchi di un colore complementare nelle zone circostanti – stipiti delle porte, riquadri ecc… Valutate ciò che è di moda ed impiegatene una versione attenuata – dovete comunque ritinteggiare le pareti ogni 5 anni, quindi il fatto che il colore passi di moda non è un grosso problema.


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È indispensabile l’impiego appropriato di luci moderne per garantire condizioni di lavoro confortevoli, servendosi di sistemi di illuminazione che proiettino cerchi o scie di luce per evidenziare quadri, espositori, il banco della reception o altre zone chiave, realizzando un effetto utile per attirare l’attenzione del cliente. La migliore fonte di luce possibile è quella naturale. Lucernari, finestre senza imposte o pareti vetrate sono soluzioni da prendere in considerazione. Potete usare pareti, finestre o porte interne di vetro per dare l’impressione di più spazio e per servirvene come strumento di marketing – ad esempio, disponendo di una finestra di vetro che si apre sull’area chirurgica, in modo che i clienti possano vedere le procedure che vi vengono effettuate. Un’area di stoccaggio adeguata è una caratteristica importante, che vi aiuta a mantenere uno spazio aperto ed areato. Cercate una sede di stoccaggio fuori sede per le vecchie registrazioni in archivio. Cercate ed utilizzate tutti gli spazi fino al soffitto. Trovate opportunità di stoccaggio sopra le gabbie, nei vestiboli e sotto le panche. Non esitate ad investire in nuovi armadietti o soluzioni di stoccaggio – è denaro ben speso e potrete molto spesso trovare delle opzioni a buon mercato presso grandi magazzini come l’Ikea. Anche ricorrere alle porte scorrevoli ogni volta che sia possibile vi lascerà maggiore spazio utile. Gli armadietti per le scope possono essere trasformati nelle cose più stupefacenti, mentre le scope e gli stracci spesso possono essere conservati efficacemente appendendoli dietro una porta. Anche l’uso appropriato di piante (collocate dove i cani non possano urinarci sopra) e di una o due decorazioni può dare l’impressione di una clinica di gran lunga più moderna. Chiedete consiglio a qualcuno che sia abituato ad occuparsi di design interno e siate pronti a dirgli di no se non vi piacciono i suoi suggerimenti.

Rimodellamento Il modo più facile per rinfrescare rapidamente l’aspetto della vostra clinica è quello di eliminare il disordine!! Guardate quello che avete accumulato. Se non l’avete utilizzato negli ultimi quattro anni, è probabile che non vi servirà mai. Se non volete buttarlo via, trasferitelo in un’area di stoccaggio fuori sede, in modo che non sia d’ingombro. Tutto quello che potrebbe stare dietro gli sportelli chiusi di un armadietto deve essere lì. Gli armadietti con gli sportelli di vetro vi permettono di vedere quello che c’è dentro, ma dovete assicurarvi che tutto sia ben disposto ed in ordine. Cercate di tenere il pavimento il più sgombro possibile. Guardate la vostra area di reception ed assicuratevi di avere un espositore appropriato per gli alimenti per animali da compagnia. Se vale la pena di vendere, vale la pena di sollevarlo dal pavimento e farne un espositore grazioso. Ciò rende più facile la pulizia e dà alla clinica un aspetto più spazioso.

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Potreste decidere di fotografare le differenti aree della clinica. Spesso noterete in queste immagini qualcosa che avevate sottovalutato nel momento in cui eravate fisicamente presenti. Stilate una chiara lista di priorità: quali aspetti della clinica bisogna rimodellare di più? Cosa si può fare facilmente e con il massimo risultato? Cosa può essere fatto con un budget limitato ed una mente creativa? Fate del vostro meglio per lavorare intorno ai clienti? o, in alternativa, radunate abbastanza persone da fare il lavoro che si può portare a termine nell’arco di un week-end o di un breve periodo di vacanza. Assicuratevi di scattare molte fotografie di come era la struttura prima della ristrutturazione. Sia voi che i vostri clienti apprezzerete la presenza di un album “prima e dopo” in sala d’attesa, che servirà anche a dimostrare ai clienti che vi occupate della clinica e cercate di fare in modo che tutto sia sempre in ordine. Le cose più facili da cambiare (in quest’ordine) sono i colori, i pavimenti, i soffitti e l’illuminazione. Il modo più rapido ed economico per migliorare la vostra clinica è quello di ritinteggiare la sala da visita e l’area della reception con un colore invitante ed appendere una piccola quantità di quadri di buon gusto. Ricordatevi che una tonalità di colore divertente e rilassante per il retro costa esattamente come il bianco, ma può migliorare il morale. Poiché gli animali da compagnia trascorrono gran parte del tempo sul pavimento della sala d’attesa, i clienti notano immediatamente un cambiamento di questa superficie. Assicuratevi di avere dei pavimenti facili da pulire, di colore caldo e di struttura piacevole. Cercate soluzioni economiche – questa è un’area dove è una buona idea investire in buoni materiali. Date un’occhiata in alto e considerate i soffitti: hanno bisogno di riparazioni e tinteggiatura/tegole nuove? Mentre fissate i soffitti, considerate la possibilità di aggiungere dei pannelli acustici nell’area della reception ed in quella del canile, per attenuare i rumori. I soffitti piacevoli aggiungono un importante tocco finale e rappresentano lo sfondo perfetto per la vostra illuminazione. Utilizzando differenti livelli di luci e vari tipi di impianti nella vostra area da reception si può ottenere un effetto teatrale. Nell’area dove sono collocate le sedie impiegare delle lampade ad incandescenza per ottenere un’atmosfera più simile a quella di casa. Poi associate differenti tipi di impianti per creare interesse. Considerate la possibilità di cambiare il colore delle luci che utilizzate. Le lampadine vengono commercializzate con temperature di colori che variano da un blu freddo, al bianco ad un giallo più caldo.

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Come promuovere la vostra struttura - Cosa funziona? Anne-Marie Svendsen DVM, MRCVS, Copenhagen, Denmark

La prima cosa di cui bisogna rendersi conto nel momento in cui decidete di promuovere efficacemente la vostra struttura è che per avere successo dovete focalizzare l’attenzione sul cliente e su ciò che desidera. Una cosa che tendiamo a dimenticare nella medicina veterinaria è che i clienti sono anche consumatori e che il comportamento che apprendono nel resto del mondo, influisce inevitabilmente sul modo in cui si comportano, comunicano e “comprano” nelle strutture veterinarie. Quindi - prima di dare un’occhiata al marketing – ponetevi queste domande: I miei orari di apertura sono quelli che i clienti vogliono? Io offro i servizi che i clienti cercano? Tratto i miei clienti nel modo che desiderano? Le attrezzature fisiche della mia struttura sono quelle che i clienti cercano? Essere in grado di rispondere sì a queste domande vi dà qualcosa su cui costruire la promozione, e una ragionevole probabilità di successo.

Attirare i vostri clienti I nuovi clienti vengono da numerose direzioni differenti. Possono aver visto la vostra clinica passando, avervi trovato sulla guida del telefono o su internet, avervi trovato nella comunità o basarsi sul fatto che qualcuno vi ha raccomandato a loro. Un modo chiaro, per ottenere l’attenzione dei potenziali clienti di passaggio è quello di colorare il rivestimento esterno dell’edificio o le porte frontali con un colore differente ogni volta che ritinteggiate. Ciò spinge le persone a fermarsi e prestare attenzione e, si spera, anche a notare l’aspetto invitante della struttura ed il chiaro messaggio. Poi, quando vorranno fissare un appuntamento, potranno facilmente trovarvi sulla guida del telefono e su internet. Un’altra area dove probabilmente troverete nuovi clienti è attraverso i contatti che potete tenere con la comunità. Questo può avvenire attraverso la vostra chiesa, il vicinato o altri settori, ma considerate anche qualche intervento un po’ più risoluto. Potete offrirvi alle aziende che operano intorno a voi per tenere una breve relazione sulla cura degli animali durante la loro pausa pranzo e rispondere a tutte le eventuali domande che potranno sorgere. Potete proporre degli articoli sulla cura degli animali al giornale locale ed anche offrirgli di tenere una rubrica dove risponderete alle domande. Se avete una voce piacevole, un altro elemento da prendere in considerazione è la radio locale. Anche in questo caso, non dovete necessariamente spendere il vostro denaro per far pubblicare degli annunci pubblicitari – cercate di lavorare con loro per offrirgli qualcosa di valore

molto più elevato: il vostro tempo e la vostra competenza. Chiedete a tutti i nuovi clienti come hanno sentito parlare di voi. Se vi dicono che siete stati raccomandati loro da qualcun altro inviate a quella persona una cartolina di ringraziamento e un piccolo dono! Se la stessa persona vi raccomanda a più persone, inviategli un dono più grande o l’offerta di un controllo sanitario gratuito come ringraziamento! Fino all’80% dei vostri nuovi clienti può derivare dalle raccomandazioni di quelli che già avete: sostenete questa tendenza!

Il contatto iniziale e le prime impressioni Un primo punto chiave di contatto è il telefono. E se questo primo contatto non è positivo potrebbe essere anche l’ultimo. Ci sono due aspetti da considerare per valutare l’efficacia del vostro sistema promozionale al telefono: 1. Il modo con cui si risponde al telefono 2. Quello che viene comunicato attraverso il telefono Prendetevi il tempo di valutare le conversazioni telefoniche: si risponde entro i primi tre squilli? La persona che risponde al telefono lo fa in modo positivo, allegro e piacevole? Il nome della clinica e quello della persona che risponde al telefono vengono indicati chiaramente? Una recente indagine condotta nel Regno Unito ha utilizzato la tecnica del “cliente sconosciuto” per esaminare in dettaglio alcune cliniche.1,2 I clienti che telefonavano dovevano aspettare 7 squilli o più quasi nel 75% dei casi, più del 73% non conosceva il nome della persona con cui stava parlando, l’88,9% non ne conosceva il ruolo ed al 75% non veniva offerto un appuntamento. Inoltre, il 51% pensava che il livello di informazioni fornite circa la struttura, le sue attrezzature ed i servizi offerti fosse al di sotto della media. Anche quando i clienti entravano dalla porta della clinica i risultati non erano molto migliori. È quindi importante preparare i membri del vostro team (e voi stessi) a rispondere correttamente al telefono, fornire informazioni adeguate sulla vostra struttura o su ciò che può offrire e proporre sempre, sempre un appuntamento. Alcune strutture hanno realizzato dei pieghevoli che possono essere consegnati o spediti a chiunque chiami con delle domande: in questo modo la struttura ha una seconda opportunità di evidenziare i propri punti di forza e le proprie capacità. Registrate alcune delle conversazioni telefoniche in modo da poterle utilizzare a scopi didattici e ricordatevi di garantire un notevole riscontro positivo quando il team si comporta correttamente.


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La promozione con i clienti già esistenti Uno studio condotto negli Stati Uniti su 924 clienti ideali provenienti da 54 strutture ha stabilito che i clienti fedeli che spendono volentieri il loro denaro per i loro animali erano orientati ai servizi piuttosto che ai prezzi, avevano aspettative elevate ed avevano la sensazione che la struttura veterinaria che avevano scelto offrisse loro un livello di medicina e chirurgia di qualità elevata.3 Ciò sottolinea la necessità per la clinica di mostrare chiaramente quali servizi ha da offrire e farlo in modo professionale. Una buona idea è quella di chiedere ad un fotografo professionista di scattare alcune immagini del team nel corso di interventi chirurgici, pulizia dei denti o prelievi di sangue, oppure mentre tengono in braccio alcuni animali ecc… ed esporle nell’area della reception. Fate in modo che siano personali e consentano di identificare CHI sta eseguendo la procedura, QUALE è, SU CHI viene eseguita e CHI è il proprietario dell’animale. Il fatto che i clienti siano stati con voi per anni non significa necessariamente che sappiano quali servizi offrite, e se non lo sanno non possono chiederli. Potete stilare una lista di tutte le vostre prestazioni con una breve spiegazione dei vantaggi che ne derivano; ad es. “check up e pulizia dei denti; aiuta a tenere sana la dentatura e dà al vostro animale un alito più fresco”. Assicuratevi che il servizio venga indicato col suo nome e spiegato con un linguaggio di uso quotidiano, al quale il cliente possa fare riferimento. Se è possibile stabilire un legame con quanto si effettua nell’uomo, ciò può anche aumentare l’interesse del cliente. Sia i prodotti che i servizi possono essere illustrati attraverso un espositore in sala d’attesa. L’ideale è uno tridimensionale, che consenta ai clienti di prendere i prodotti, specialmente se offre anche delle spiegazioni sulla loro utilità. Siate creativi con gli espositori. Ad esempio, per tornare al caso dei denti e nell’ipotesi che il vostro prodotto sia una dieta per i problemi odontoiatrici, potreste trovare utile un enorme spazzolino da denti facilmente realizzabile con del cartone ed un po’ di fantasia. Incoraggiate il vostro team a prendere parte attiva nella realizzazione e nel mantenimento degli espositori ed a utilizzarli come un modo per iniziare a illustrare ai clienti il prodotto e/o il servizio. Se avete preso la decisione di rinnovare l’aspetto della vostra struttura (vedi anche l’articolo “Migliorare la clinica – Suggerimenti pratici di ristrutturazione”) invitate tutti ad una “giornata a porte aperte” (Open Day) e utilizzate la vostra immaginazione per fare in modo che il maggior numero di persone possibili ne venga a conoscenza. Dimostrate come si tagliano le unghie ad un cane, spiegate l’a-

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natomia dell’orecchio – siate inventivi e fate in modo che la giornata risulti ricca di informazioni e divertente. Spesso i clienti non si rendono conto di quanto accade nel retro della struttura e terminano questa giornata speciale impressionati e con un nuovo apprezzamento di tutto ciò che avete da offrire. Un approccio più diretto è quello di orientarsi verso specifici gruppi di clienti ed offrire loro un servizio su misura. Ciò è facilmente attuabile nel caso dei proprietari con animali anziani. Si può fare sotto forma di una rivista o un altro tipo di informazione che descriva come mantenere sano e felice il proprio animale anche in età avanzata. L’attenzione va focalizzata su come i check up regolari e le analisi di laboratorio possano evidenziare precocemente le malattie, permettendo di trattarle in modo efficace con la dieta giusta e le cure più appropriate. Proponete ai proprietari delle offerte speciali, in modo che siano incentivati a prendere un nuovo appuntamento. Si può decidere ad esempio di effettuare un check up gratuito, facendo pagare al cliente ogni altra prestazione effettuata nel corso della stessa visita. La chiave è far sì che i proprietari attraversino la porta, in modo da garantirvi una possibilità di parlare con loro e spiegargli come potete aiutare il loro animale. Un’altra cosa da fare è utilizzare una macchina fotografica digitale e scattare delle immagini “prima e dopo” delle procedure dentarie, del taglio delle unghie, della toelettatura, dei trattamenti chirurgici antineoplastici ecc… Se contrassegnate le immagini con il vostro logo ed il vostro numero di telefono prima di stamparle, avrete realizzato un biglietto da visita esclusivo, che probabilmente il proprietario conserverà molto più di qualsiasi altro. Avete anche dimostrato loro quanta differenza ha fatto il vostro intervento, spingendoli ad apprezzare il valore del servizio che fornite.

Bibliografia 1. 2. 3.

Onswitch Insight survey, 2004. Mystery shopping: a unique look through your clients’ eyes. Vet Business J, August/September 2005, 4-8. ‘Ideal’ Clients Have Their Say; What’s Important to Them? J Vet Econ. Jan 1995.

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Il mio cane soffre? Osservazioni e riflessioni sul dolore nascosto e sottovalutato nel cane Aldo Vezzoni Med Vet, SCMPA, Dipl ECVS, Cremona

Introduzione

Segnali di un dolore cronico

Nella pratica clinica quotidiana degli animali da compagnia è molto frequente il riscontro di situazioni cliniche croniche di cui non riusciamo a valutare l’impatto che hanno sul benessere dell’animale. Mentre risulta evidente la risposta del cane ad un dolore acuto ed improvviso, manifestato da lamenti, guaiti, reazioni aggressive o di fuga, la risposta al dolore cronico è molto più subdola e difficile da rilevare. Sembra che l’animale affetto da una condizione patologica che provoca dolore cronico sia come rassegnato a percepire la sensazione dolorosa, come se si fosse abituato a convivere con un problema di cui conosce già l’esistenza. Una sorta di rassegnazione incosciente che gli comporta certamente una perdita del suo benessere, un malessere di fondo che abbassa la qualità della vita, ma che non mostra apertamente all’esterno. Spesso anche l’occhio attento del suo proprietario con cui vive, magari in simbiosi, può non avvertire questa situazione di continuo disagio. Quando formuliamo diagnosi di malattie osteoartrosiche o di infezioni croniche o di neoplasie o di altre condizioni che nell’uomo sono notoriamente associate a dolore cronico, spesso il proprietario ci domanda se il suo cane soffre, preoccupato del fatto di non accorgersene e di non fare nulla per alleviare il suo dolore.

Se il cane potesse parlare, certamente il problema del riconoscimento del dolore cronico sarebbe già risolto. Il dolore è una sensazione soggettiva e solo chi lo sente è in grado di quantificarlo. Nessuno può “sentire” il dolore di un altro essere. Nell’uomo il dolore è quello che il paziente dice di sentire e nell’animale è quello che noi pensiamo lui senta; ma ignorare il dolore animale solo perché non sappiamo misurarlo con certezza condannerebbe i nostri pazienti ad una sofferenza non dovuta ed evitabile. È tipico per la stragrande maggioranza dei proprietari di cani accorgersi di quanto dolore e fastidio cronico avesse il loro animale solo dopo aver visto il miglioramento evidente delle sue condizioni generali e del suo comportamento una volta eliminato il dolore o la causa del dolore con un trattamento efficace. Tuttavia, il cane, pur non essendo dotato della parola, ha la possibilità di mostrarci dei segni indiretti, con il suo comportamento, che noi dobbiamo imparare a riconoscere affinando la nostra sensibilità, oltre ad applicare il criterio della similitudine con l’uomo per l’impatto doloroso delle patologie riscontrate. Non potendoci basare su quei segni comportamentali così evidenti che accompagnano il dolore acuto e improvviso, dobbiamo affinare la nostra osservazione su altri segni indiretti. Il cane che soffre di un dolore cronico, oltre ad una rassegnazione incosciente, assume anche degli atteggiamenti di protezione che nella sua esperienza gli possono servire per non esacerbare il suo dolore o per sentirlo meno pressante. Può ad esempio limitare l’attività fisica in caso di dolori articolari, cercando di sedersi spesso fino ad apparire pigro, timido od invecchiato agli occhi del proprietario. Così, un cane affetto da artrosi coxofemorale bilaterale per displasia, prima di manifestare apertamente delle gravi difficoltà di deambulazione e ad alzarsi da seduto, può nascondere per anni la sua condizione cercando di spostare il suo baricentro in avanti, sfruttando maggiormente le zampe anteriori ed i muscoli della schiena. Il cane è paragonabile ad un’auto a quattro ruote motrici e può modulare la trazione od il carico ponderale spostandoli laddove non ha dolore, agendo quindi sul suo portamento e sul suo equilibrio muscolare. Nelle forme di dolore articolare più intenso, come ad esempio in caso di schiacciamento del menisco in seguito a rottura cronica del legamento crociato, il cane, a fronte talvolta di una zoppia non particolarmente intensa, presenta dei tremori muscolari della coscia che testimoniano il dolore articolare cronico. In altre forme di dolore cronico, il cane può diventare apatico, svogliato, reattivo alle manipolazioni e insofferente verso altri cani o verso i bambini che potrebbero disturbarlo ed esacerbargli il dolore.

Il criterio della similitudine con l’uomo Sappiamo che il sistema nervoso del cane è molto simile a quello dell’uomo e le vie del dolore, i nocirecettori e la risposta agli analgesici sono in gran parte sovrapponibili a quelli dell’uomo. Sappiamo anche che quando lo stimolo algico è improvviso ed acuto, il cane mostra apertamente di sentire dolore, dimostrando che le sue vie del dolore conducono, come nell’uomo, alla sensazione cosciente, cerebrale e spiacevole del dolore. Possiamo quindi ritenere, per il criterio dell’analogia o della similitudine, che condizioni patologiche che nell’uomo provocano dolore cronico, lo provocano anche nel cane. Dolore cronico e continuo, con momenti di maggior intensità e momenti di relativa remissione, ma che accompagna ogni giorno la vita del cane. Chiunque di noi abbia sperimentato dolori cronici, per condizioni di artrosi, problemi dentali, dolori addominali od altro, è consapevole del dolore e del malessere sentito, pur riuscendo a svolgere le proprie attività quotidiane.


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Condizioni frequenti di dolore cronico Sono molteplici le condizioni nel cane che si accompagnano ad un dolore cronico, latente e persistente, con periodi di maggior o minor intensità. L’osteoartrosi è la condizione più frequente, che riguarda oltre il 20% dei cani adulti, e può interessare in vario grado tutte le articolazioni. In funzione della razza canina, dell’età e della destinazione funzionale, sono colpite le articolazioni delle spalle, dei gomiti, del carpo, delle anche, delle ginocchia e dei garretti. Molti cani poi soffrono di malattie discali della colonna vertebrale che oltre a condizioni acute, possono determinare anche situazioni sub-acute e croniche di dolore neurogenico. I cani poi possono soffrire di patologie croniche del cavo orale, per paradontopatie, o per infezioni alveolari. Un tipico esempio di dolore cronico nascosto è quando il cane sviluppa un’infezione ossea alveolare a livello del dente lacerante; questa provoca un’erosione dell’osso mascellare con formazione poi di una fistola odontopatica che finalmente permette al proprietario ed al veterinario di rendersi conto del problema e immaginare quindi il dolore patito dal cane nelle precedenti settimane per la stimolazione continua del trigemino. Ci sono infine molteplici situazioni patologiche croniche che possono essere associate a dolore cronico, come le cistiti, i calcoli urinari, le enterocoliti, le otiti, le dermatiti croniche, i corpi estranei da forasacco, e altre condizioni che sappiamo quale impatto abbiano sugli esseri umani per condizioni simili. I tumori infine, specialmente nelle fasi avanzate, per gli effetti invasivi, compressivi ed istolesivi sulle strutture vascolo-nervose, determinano un dolore cronico che nell’uomo necessita di una continua ed efficiente terapia del dolore.

Prove oggettive dell’esistenza di un dolore cronico e nascosto Per quanto riguarda l’osteoartosi, la dimostrazione oggettiva del dolore cronico che essa provoca è la riduzione della massa muscolare dell’arto interessato, facilmente rilevabile nelle condizioni monolaterali, per il paragone con l’arto sano, mentre in quelle bilaterali, come la displasia invalidante dell’anca, si osserva una diminuzione generale del tono muscolare di tutto il treno posteriore. Radiologicamente è possibile valutare la gravità dell’osteoartrosi dal grado di sclerosi subcondrale, proporzionale ai carichi ponderali concentrati su aree articolari ridotte, dall’entità delle proliferazioni ossee periarticolari e dall’assottigliamento della rima articolare, indicativo della perdita dello strato cartilagineo. Con il perdurare di una condizione artrosica grave e con il conseguente risparmio dell’arto o degli arti interessati, si determina un’osteoporosi da disuso dei segmenti ossei coinvolti, con grave anchilosi delle articolazioni artrosiche. In altre condizioni che provocano dolore cronico è più difficile ottenere delle loro valutazioni oggettive, anche se le modificazioni comportamentali sono già particolarmente indicative, come una facile affaticabilità, un’apparente pigrizia e svogliatezza, un invecchiamento precoce, fino a presentare, nei casi più gravi, un’espressione del volto tesa che ricorda l’espressione umana di un volto sofferente.

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La prova del nove: eliminare o alleviare il dolore cronico La miglior dimostrazione che un cane soffre di un dolore cronico è quella di osservare il suo comportamento dopo essere riusciti ad eliminare il dolore o la sua causa con un trattamento efficace. Dopo intervento di protesi d’anca, ad esempio, il cambiamento eclatante ed inequivocabile del comportamento del cane, che passa da apatia e pigrizia a iperattività ed euforia, in un clima di ritrovata giovinezza, fa chiaramente capire in tutta la sua entità il dolore cronico che prima lo affliggeva per le sue anche artrosiche. Dimostrazioni simili si osservano, oltre che con trattamenti chirurgici efficaci, anche in seguito a terapie farmacolgiche in grado di togliere o alleviare grandemente il dolore; il cane mostra immediatamente il sollievo avuto con una maggior disponibilità al gioco e ad uscire per le passeggiate, con una maggior resistenza fisica. Da triste il cane ritorna allegro e vivace, più disponibile ad interagire con l’ambiente circostante. Tipicamente poi, sospendendo la terapia e terminato l’effetto terapeutico, il cane ritorna alla condizione preesistente.

Un impegno per il benessere del cane Il medico veterinario, nell’immaginario collettivo, deve essere un esperto in grado di farsi interprete dei bisogni dell’animale, per evitarne la sofferenza e per migliorarne la qualità di vita. Affinché quest’aspettativa, che deve essere anche la “mission” stessa del medico veterinario, non venga delusa, è necessario che il sanitario sappia cogliere le situazioni patologiche che provocano dolore cronico, sappia inquadrarne la gravità e l’impatto sulla qualità della vita del cane, sappia prevenirle quando possibile e sia in grado di suggerire i trattamenti più indicati quando sono ormai presenti. Trattamenti che saranno tesi ad eliminare la causa del dolore con un trattamento eziologico, quando fattibile, o instaurando una terapia in grado di alleviare al massimo il dolore. Le conoscenze sulla generazione e la trasmissione del dolore ha permesso di individuare più punti in cui intervenire con un trattamento multimodale del dolore, per ridurre le dosi dei singoli farmaci e quindi anche dei loro effetti collaterali, come pure per agire a diversi livelli.

E il gatto? Tutto quanto si è detto per il cane vale anche per il gatto, con anzi una maggior enfasi, in quanto si tratta di un animale che, per la sua naturale riservatezza, rende ancor più difficile il riconoscimento del suo stato di sofferenza cronica. Le condizioni che più frequentemente provocano dolore cronico nel gatto sono le patologie orali, le otiti e le riniti croniche, le artropatie e le cistiti, oltre alle neoplasie nei soggetti più anziani. Il gatto sofferente mostra una riduzione della sua attività fisica, fino ad evitare la sua pulizia quotidiana e a sporcare fuori dalla cassetta per non spostarsi fino a raggiungerla. Il trattamento del dolore nel gatto deve rispettare le sue peculiarità fisiologiche tenendo conto della diversa farmacodinamica nel gatto dei comuni farmaci utilizzati per la terapia del dolore nel cane. Indirizzo per la corrispondenza: Aldo Vezzoni, Clinica Vterinaria Via Massarotti 60/A, 26100 Cremona


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Shunt polmonare ed alterazioni dell’emogasnalisi nel paziente critico Fabio Viganò Med Vet, SCMPA, San Giorgio su Legnano (MI)

Una delle cause più spesso sottovalutate di ipossiemia nei pazienti critici è lo shunt. Lo shunt polmonare (Qs/Qt) consiste in un passaggio di sangue dal distretto venoso a quello arterioso in assenza di una adeguata ossigenazione. La conseguenza è la presenza di sangue venoso misto a quello arterioso con un deficit del contenuto totale di ossigeno (CaO2) responsabile di una diminuzione della disponibilità di ossigeno (DO2). Lo studio della funzionalità respiratoria in pazienti critici umani affetti da ARDS (sindrome da distress respiratorio acuto) utilizzando gas inerti, ha messo in evidenza la possibilità di avere zone di shunt pari al 20% del parenchima ed alterazioni della ventilazione perfusione (V/Q) pari al 50%. In questi pazienti i polmoni vengono ventilati per circa la metà, mentre il rimanente parenchima è solo perfuso. Le cause più comuni di shunt polmonare (presenza di aree polmonari non ventilate ma perfuse) nei nostri pazienti sono: la presenza di liquido a livello alveolare, l’atelectasia, l’insufficiente diffusione e gli shunt destro sinistri. Alcuni esempi tipici di shunt sono: l’edema polmonare (la presenza di zone polmonari ripiene di liquido è causa di shunt polmonare in quanto impediscono la normale ventilazione, causando uno shunt destro-sinistro) la polmonite, la polmonite ab ingestis, l’atelectasia polmonare, i tumori, le patologie cardiache caratterizzate da shunt destro sinistro come il dotto arterioso pervio, la tetralogia di Fallot, la stenosi tricuspidale, le fistole atrioventricolari, la trasposizione di grandi vasi e gli shunt vascolari intrapolomonari (es. anastomosi bronchiali). Questi ultimi sono più rari, gravi e conseguenti ad un’anomalia vascolare responsabile di aree dove il rapporto V/Q è gravemente compromesso. Questi pazienti manifestano un’ipossiemia generalmente refrattaria alla ossigenoterapia e manifestano ipossiemia anche in assenza di malattie dell’apparato respiratorio od interessanti gli altri apparati. La conseguenza di uno shunt polmonare, indipendentemente dalla causa che lo ha prodotto, è identificabile, specificabile e quantificabile attraverso l’emogasanalisi arteriosa. L’emogasanalisi infatti identifica il problema (ad es. ipossiemia od ipercapnia), lo specifica (ad es. insufficienza ventilatoria o di ossigenazione) e ne quantifica la gravità. L’emogasanalisi misura: il pH, la pressione parziale dell’ossigeno disciolto nel sangue (paO2), la pressione parziale dell’anidride carbonica disciolta nel sangue (paCO2), calcola invece lo ione bicarbonato (H2CO3) e l’eccesso di basi (BE). L’emogasanalisi può essere effettuata su campioni di sangue venoso od arterioso. Al fine di valutare gli shunt polmonari è necessario effettuare campioni arteriosi. Le arterie più comunemente utilizzate sono la femorale, la metatarsale dorsale, la brachiale e l’auricolare. La puntura dell’arteria

può risultare dolorosa in quanto la parete arteriosa, a differenza di quella venosa ha un’innervazione maggiore, specialmente nei grossi vasi. Per tale motivo molti operatori preferiscono utilizzare arterie di piccolo e calibro ed aghi sottili. Quando sono necessari campionamenti ripetuti è consigliabile posizionare un catetere arterioso per effettuare campioni seriali. Il prelievo può essere effettuato con siringhe realizzate all’uopo oppure eparinizzando delle comuni siringhe da insulina. Per eparinnzare le siringhe può essere utilizzata dell’eparina sodica aspirandone una piccola quantità e rimuovendone l’eccesso espellendo il contenuto con lo svuotamento ottenuto premendo fino in fondo lo stantuffo della siringa. In questo caso la misurazione della concentrazione di sodio ematico risulterà non attendibile. Alcuni strumenti emogasanalitici permettono di utilizzare il sangue intero non eparinizzato e campionato con siringhe comuni. Il campione deve essere analizzato il più precocemente possibile o conservato a temperatura controllata (zero gradi centigradi), quando il campione deve essere inviato ad un laboratorio esterno è bene consultarlo circa la modalità di campionamento e conservazione. Per riconoscere la presenza di uno shunt polmonare è necessario conoscere la pressione parziale dell’ossigeno a livello alveolare ed a livello ematico, quindi calcolando gli indici dell’ossigeno si identifica la presenza-assenza del deficit.

Indici basati sulla pressione dell’ossigeno La pressione parziale dell’ossigeno si riferisce alla quantità di ossigeno misurata in mmHg o in kilopascal (mmHg x 0,133 = kPa) disciolta nel plasma, non è perciò dipendente dalla quantità di emoglobina e dalla sua affinità per l’ossigeno, ma è influenzata dalla percentuale di ossigeno inspirata (frazione di ossigeno inspirata = FiO2), dalla pressione barometrica (mmHg) e dalla umidità relativa dell’aria (%). I valori normali di paO2 sono compresi tra 80 e 110 mmHg. Quando la pressione barometrica diminuisce, come ad esempio in alta montagna, la quantità di ossigeno disciolta nel sangue si riduce, tale riduzione è proporzionale alla riduzione della pressione atmosferica. L’ipossiemia può essere perciò aggravata o causata da una riduzione della FiO2. La pressione barometrica (Pb) dipende dal peso dell’atmosfera a livello del punto di misurazione. A livello del mare è di circa 760 mmHg, ciò significa che la pressione presente a tale livello sorregge una colonna di mercurio alta 760 mm. Ad un’altezza sulla terra di circa 8.000 metri di altitudine è di circa 253 mmHg. Quando si vuole calcolare


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la pressione parziale di un gas (Pgas) nell’atmosfera è necessario moltiplicare la sua percentuale (0,21 nel caso dell’ossigeno) per la pressione atmosferica. Per misurare la Pgas dell’ossigeno nell’aria ambiente deve essere sottratta l’umidità presente nell’aria (normalmente 27 mmHg). Quindi per conoscere la pressione parziale dell’ossigeno nell’atmosfera è necessario calcolarla nel modo seguente: Pgas = 0,21 x (Pb-27 mmHg). La Pgas dell’ossigeno a livello del mare è di circa 153 mmHg, mentre ad 3.900 metri di altitudine è di circa 85 mmHg, nelle camere iperbariche dove la pressione è di circa 2 atmosfere si otterrà una Pgas dell’ossigeno di circa 1520 mmHg (760 x 2 = 1520 mmHg). Per calcolare pressione parziale dell’ossigeno a livello alveolare è necessario sottrarre alla quantità di ossigeno inspirata e presente nell’aria ambiente (vedi formula del Pgas) la quantità di anidride carbonica alveolare veicolata con il pre-carico e rilasciata dal sangue venoso. La formula per calcolare la pressione parziale dell’ossigeno alveolare a livello del mare è la seguente: PAO2 = 150 – PaCO2. Dei gas inalati solo l’ossigeno e l’anidride carbonica diffondono passivamente attraverso la membrana alveolare e capillare, perciò la pressione parziale dell’ossigeno nel sangue arterioso non potrà mai essere superiore a quella inalata (PAO2) ed in condizioni normali corrisponde a circa 5 volte la FiO2. Perciò se un paziente respira ossigeno puro (FiO2 = 1), ad. esempio durante l’anestesia generale in pazienti intubati) dovrebbe avere una paO2 di circa 500 mmHg, se invece sta ricevendo ossigeno attraverso una sonda nasale (FiO2 = 0,3 – 0,4) dovrebbe avere una paO2 di circa 150 - 200 mmHg. Conoscendo la PAO2 e la paO2 è possibile calcolare il gradiente alveolo-arterioso (A-a) con la seguente formula: A-a = PAO2 - paO2. Il A-a è indice della capacità dei polmoni di trasportare l’ossigeno dagli alveoli al sangue. I valori normali di A-a dovrebbe essere inferiore a 15 mmHg (K188) se la FiO2 è di 0,21 ed è maggiore di 100 mmHg se la FiO2 è pari ad 1. Maggiore è il valore di gradiente e maggiore sarà la difficoltà del paziente ad ossigenarsi e più grave l’ipossiemia. Dato che l’ossigeno diffonde liberamente attraverso gli

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alveoli, in condizioni ideali il gradiente dovrebbe essere uguale a zero, ma la presenza di shunt presenti in condizioni normali tale valore si attesta attorno a 10. Valori compresi tra 10-20 sono considerati come lieve deficit di diffusione, da a 30 sono considerati di grado medio, mentre valori superiori a 30 gravi. Il A-a deve essere tenuto sotto stretto controllo, attraverso prelievi seriali, in quanto il suo monitoraggio è di notevole ausilio per comprendere la gravità della patologia e la sua evoluzione nel tempo. Gli shunt polmonari sono causa di alterato rapporto tra FiO2 e PaO2, mentre, mentre alterazioni del rapporto ventilazione perfusione (V/Q) non modificano sostanzialmente la concentrazione dell’ossigeno nel sangue. Il problema si complica quando vogliamo calcolare il A-a durante l’ossigenoterapia. In queste condizioni la misurazione del gradiente può non risultare accurata, si preferisce perciò calcolare il rapporto paO2/ FiO2. In condizioni normali tale rapporto deve essere maggiore di 200-250, in condizioni ideali, se un paziente respirando aria ambiente ha una paO2 pari a 100, il rapporto paO2/ FiO2 sarà. 100/0,21 = 476. Valori di paO2/ FiO2 inferiori a 200 sono considerate ipossiemia gravi, valori compresi tra 200 e 300 sono considerate come ipossiemia di grado medio, mentre valori maggiori di 450 sono considerati normali. Quando si vuole valutare la capacità del paziente di ossigenare il sangue e di conseguenza alcune patologie polmonari (ad es. ARDS) oltre all’efficacia della terapia adottata e la relativa prognosi, risulta di fondamentale importanza misurare gli indici di tensione dell’ossigeno ed in particolare il gradiente A-a oppure durante l’ossigenoterapia il rapporto paO2/ FiO2.

Indirizzo per la corrispondenza: Fabio Viganò Clinica Veterinaria San Giorgio Via Roma, 54 20010 San Giorgio su Legnano (MI) Tel 0331-411555 Fax 0331-418525 E mail: fabio.vigano@evet.191.it


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Valutazione della lattatemia nel paziente in stato di shock Fabio Viganò Med Vet, SCMPA, San Giorgio su Legnano (MI)

Lo shock è una insufficienza circolatoria e della perfusione tali da non soddisfare i fabbisogni circolatori, di ossigenazione ed energetici del paziente. Indipendentemente dal tipo di shock (ad. es. ipovolemico, cardiogeno, distributivo) ai fini terapeutici e prognostici, è fondamentale identificare il più precocemente possibile, la tendenza del processo morboso e la sua gravità. Riconoscerne la gravità con dati oggettivi ed adottare la strategia terapeutica più adatta costituisce la chiave del successo terapeutico. La valutazione del paziente attraverso il solo esame clinico è soggettiva e perciò più sensibile ad errori, soprattutto per quanto concerne la perfusione periferica ed il metabolismo cellulare. Per questi motivi si è cercato di identificare dei metodi di indagine che fossero particolarmente sensibili alle alterazioni indotte dallo shock e poco influenzabili dall’operatore. Un indice molto sensibile in tale senso è rappresentato dal calcolo della DO2 (disponibilità di ossigeno) e della VO2 (estrazione dell’ossigeno). Per calcolare la DO2 è necessario misurare la gittata cardiaca ed il contenuto totale di ossigeno, per la VO2 è necessario misurare la gittata cardiaca e la differenza tra la saturazione dell’ossigeno arterioso e venoso. La raccolta di questi dati può essere effettuata grazie all’ausilio di un catetere a termodiluizione o di un catetere Schwan-Ganz posizionato in un’arteria polmonare. Purtroppo entrambe prevedono una metodica invasiva ed in particolare il posizionamento del secondo tipo di catetere prevede il passaggio dello stesso attraverso la vena giugulare, due camere cardiache (atrio e ventricolo destro) e l’arteria polmonare fino ad una sua diramazione, oltre all’utilizzo di una tecnologia di non semplice utilizzo. Tali monitoraggi invasivi e non privi di rischi, non possono essere applicati a tutti i pazienti; generalmente sono utilizzati a scopo di ricerca per valutare le capacità del paziente di ossigenarsi e per monitorare alcuni parametri emodinamici, pressori dell’ossigeno e della anidride carbonica. Per i motivi sopra citati la misurazione della lattatemia ha riscontrato l’interesse di molti reparti di pronto soccorso e terapia intensiva veterinari ed umani. Lo ione lattato prodotto in notevoli quantità durante l’acidosi lattica può derivare da una glicolisi anaerobica (acidosi lattica tipo A) o da una alterazione biochimica della glicolisi (acidosi lattica tipo B). L’acidosi di tipo A e B sono causate da una fisiopatologia paragonabile, infatti in entrambe i casi l’incremento del lattato ematico deriva da una riduzione del potenziale red/ox (causato da un deficit del metabolismo aerobico). Le cause di un’acidosi lattica di tipo A sono: - shock, necrosi parete gastrica, ischemia di altri visceri, tromboembolismo aortico, grave ipossiemia, grave anemia (Hct < 15), attività muscolare eccessiva, epilessia, tremori.

Le cause di un’acidosi lattica di tipo B sono: B1- sindromi - diabete mellito, grave malattia epatica, tumori maligni (es. linfoma), sepsi, feocromocitoma, deficit di tiamina B2- intossicazioni - da paracetamolo, cianuri, adrenalina, etanolo, glicole etilenico, insulina, metanolo, morfina, nitroprussiato, glicole propilenico, salicilati, terbutalina B3- miopatia mitocondriale (congenita), alcalosi/iperventilazione ed ipocalcemia. In entrambe i tipi di acidosi lattica, la capacità mitocondriale di produrre energia è notevolmente ridotta con conseguente riduzione nella produzione di ATP e di NADH (nicotinamide adenosina dinucleotide in forma ridotta) a favore dell’NAD (NADH in forma ossidata). Quantità sufficienti di NADH sono prodotte solo in condizioni di aerobiosi. L’NADH è necessario per convertire il piruvato in lattato secondo la seguente formula: Piruvato + NADH ⇔ lattato + NAD + H+ La direzione della formula dipende dalla quantità di NADH disponibile, maggiore è la quantità di NADH disponibile maggiore sarà la produzione di piruvato che entra nel ciclo di Krebs producendo energia. Il lattato prodotto dal metabolismo anaerobico non può essere riossidato a piruvato, di conseguenza si ha un incremento della concentrazione di lattato rispetto al piruvato. Maggiore è la quantità di lattato prodotto, maggiore sarà la quantità di idrogenioni (H+) presenti, che causano un’acidosi lattica. Le capacità dell’organismo di tamponare l’acidosi lattica dipendono dalla quantità di basi disponibili. In condizioni normali (aerobiosi), il lattato prodotto è convertito in piruvato, ossidato ed utilizzato nella gluconeogenesi nel fegato e nei reni consumando (diminuendo) gli H+ e producendo anidride carbonica tamponata od eliminata con la ventilazione. Durante la glicolisi aerobica da una mole di glucosio vengono prodotte 36 moli di ATP, viceversa la glicolisi anaerobica produce soltanto 2 moli di ATP. In condizioni di anaerobiosi, si ha perciò una riduzione della produzione di ATP, la quale stimola a sua volta la glicolisi anaerobica incrementando la produzione di lattato. I tessuti che producono e rilasciano lattato sono: i muscoli, l’intestino, la midollare renale, il cervello, la cute ed i globuli rossi (in questo ultimo caso per l’assenza dei mitocondri). Mentre i tessuti in grado di metabolizzare il lattato sono: il fegato (in grado di consumare lattato formando piruvato e sfruttandolo per la gluconeogenesi), la corticale renale (in grado di consumare quantità significative di lattato) ed il tessuto muscolare (converte il lattato in glicogeno solo in alcune particolari condizioni, vedi muscoli allenati).


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Valori di lattatemia compresi tra 0,5-2,5 mmol/L sono considerati normali, valori compresi tra 3-5 mmol/L sono considerati lievemente aumentati, valori compresi tra 5-7 mmol/L indicano una ipoperfusione moderata, mentre valori superiori a 8 mmol/L sono considerati indice di grave ipoperfusione. La difficoltà o l’impossibilità di correggere valori elevati nel corso della terapia (almeno fluidoterapia ed ossigenoterapia) sono indice di gravità del processo morboso e di una prognosi sfavorevole. Il lattato prodotto da visceri come lo stomaco e l’intestino è riversato nel torrente circolatorio. Per questo motivo si sono correlati gli incrementi della lattatemia con la gravità delle lesioni a carico di tali organi. Un caratteristico esempio del suo impiego è fornito dalla valutazione del lattato in corso di dilatazione torsione dello stomaco (GDV). Durante la GDV, si è visto che valori inferiori a 6 mmol/L avevano una prognosi migliore se confrontati con pazienti che avevano valori maggiori di 6 mmol/L. Il 75% dei pazienti che aveva valori elevati di lattatemia erano affetti da necrosi della parete gastrica. La lattatemia, in medicina veterinaria, è stata utilizzata come fattore prognostico e per stimare il grado di alterazione del metabolismo anche in altre situazioni come ad esempio: il tromboembolismo aortico felino, nei pazienti ricoverati in terapia intensiva e nei cavalli con sindromi gastrointestinali acute. I campionamenti per la determinazione della lattatemia possono essere sia arteriosi che venosi. Nei campionamenti venosi periferici (cefalica dell’avambraccio) i valori della lattatemia possono essere maggiori rispetto a quelli ottenuti prelevando il sangue dall’arteria femorale o dalla vena giugulare. Da quanto sopra evidenziato si desume che nello shock scompensato e terminale spesso si assiste ad una acidosi lattica causata da una insufficiente perfusione ed ossigenazio-

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ne e che la sua gravità (quantificata come incrementi della lattatemia) è indice di prognosi sfavorevole. La causa è da ascriversi ad una insufficiente ossigenazione che inibisce il metabolismo ossidativo mitocondriale con riduzione del potenziale red/ox (conseguente diminuzione dell’NADH) ed una minor quantità di energia disponibile sotto forma di ATP. La compromissione della funzionalità epatica e renale, che possono essere presente in questi stadi dello shock, riduce la capacità di tali organi di convertire il lattato in piruvato aggravandone la già aumentata produzione. La somministrazione di adrenalina e noradrenalina possono incrementare l’acidosi lattica a causa di una stimolazione della glicolisi ed alla eccessiva vasocostrizione che può aggravare la già compromessa perfusione. In corso di sepsi e shock settico oltre ad una insufficiente perfusione da eccessiva vasodilatazione (ipovolemia) si verifica anche un aumento di richiesta energetica da parte dell’organismo che può aggravare l’acidosi lattica per incremento della glicolisi anaerobica. Nel cane e nel gatto, quando la terapia (almeno fluidoterapia ed ossigenoterapia) è efficace nel correggere lo shock si assiste ad una riduzione della lattatemia osservabile già dopo un’ora ma meglio riscontrabile entro le quattro ore. La determinazione della lattatemia in pazienti in stato shock è quindi utile nell’identificare tale sindrome, ma soprattutto nel quantificare il deficit di perfusione e di ossigenazione, inoltre può costituire un parametro guida per quantificare l’efficacia della terapia adottata. Indirizzo per la corrispondenza: Fabio Viganò Clinica Veterinaria San Giorgio Via Roma, 54 20010 San Giorgio su Legnano (MI) Tel 0331-411555 Fax 0331-418525 E mail: fabio.vigano@evet.191.it


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Diagnostica per immagini comparata nelle neoplasie dello scheletro Massimo Vignoli Med Vet, SRV, Sasso Marconi (BO)

La radiologia tradizionale ha un ruolo di primo piano nello studio delle neoplasie ossee. Tuttavia negli ultimi anni si fa sempre più uso di altre tecnologie come l’ecografia, la tomografia computerizzata (TC), la risonanza magnetica (RM) e la scintigrafia che consentono una migliore valutazione della lesione primaria, il coinvolgimento di strutture adiacenti e la ricerca di metastasi. Per l’interpretazione delle radiografie delle ossa, è necessario seguire diverse fasi. Innanzitutto se un particolare rilievo radiografico sia normale o anormale o dovuto allo scorretto posizionamento. Se si decide che è anormale, bisogna valutare l’aggressività della lesione. Questo perché una lesione più osteoaggressiva tende ad essere più probabilmente maligna rispetto ad una lesione non osteoaggressiva. Vi sono alcuni parametri per differenziare lesioni benigne da maligne: a) presenza di distruzione ossea, in particolare coinvolgente la corticale ossea b) quadro radiografico della lisi ossea c) tipo di reazione periostale d) caratteristica della zona di transizione. a) Va valutato se la demineralizzazione è localizzata o generalizzata, la presenza ed il grado di distruzione della corticale ossea e la presenza di lisi intramidollare. Inoltre è importante caratterizzare la sede di lesione, come epifisaria, metafisaria o diafisaria. I tumori ossei primari sono solitamente localizzati nelle metafisi, e le metastasi ossee si rilevano più frequentemente nelle diafisi ossee. b) Sono stati descritti tre quadri radiografici. Il quadro di “lisi focale geografica”, dove la lesione litica ha margini ben distinti, la corticale può essere espansa ma non litica. È la lisi meno aggressiva ed è tipica delle cisti e degli ascessi ossei. La “lisi a morso di tarma” presenta numerose aree litiche di diverse dimensioni. La corticale ossea può o no essere litica. Questa forma di lisi ossea si rileva sia in caso di tumore che di infezione ossea. Il tipo più aggressivo di lisi ossea è la “lisi permeativa” dove si rilevano piccole e numerose aree di osteolisi, poco distinte tra loro. Va comunque tenuto in considerazione che vi possono essere eccezioni per cui la biopsia ossea dovrebbe essere comunque effettuata. c) In base all’aggressività della lesione si riconoscono diversi tipi di reazione periostale. In ordine di crescente aggressività il periostio si può presentare: liscio, multistratificato o lamellare, a spicole, a scoppio di granata, nuovo osso amorfo. Un altro termine utilizzato per la reazione periostale è il triangolo di Codman. In questo caso

il periostio è sollevato dalla corticale ed un piccolo triangolo di osso liscio è presente. Benché un tempo si ritenesse che questa reazione periostale fosse segno di neoplasia ossea, oggi si sa che è un segno aspecifico e si può avere sia con lesioni benigne che maligne. d) Nelle lesioni benigne la zona di transizione si presenta netta, distinta e breve. Nelle lesioni più osteoaggressive la zona di transizione si presenta più lunga, permeativa e meno distinta. Una volta di fronte ad una lesione osteoaggressiva è necessario formulare una diagnosi differenziale tra neoplasia ossea e osteomielite. Benché difficile differenziare le due diverse condizioni, una buona conoscenza sul comportamento delle neoplasie e sulla fisiopatologia delle infezioni associate ad un corretto segnalamento, anamnesi, visita clinica ed esami di laboratorio spesso ci consentono di escludere una condizione a favore dell’altra. Le lesioni ossee possono presentarsi solitarie oppure multiple. Nello scheletro appendicolare, la principale sede di lesione per quanto riguarda le neoplasie osse primarie è la metafisi delle ossa lunghe. Nel cane e nel gatto il tumore osseo più frequente è l’osteosarcoma che rappresenta l’85-90% dei tumori ossei, seguito dal condrosarcoma. Le sedi più comuni sono la metafisi prossimale dell’omero, distale del radio e del femore e prossimale della tibia. I cani più colpiti sono in genere quelli di grossa taglia e di età avanzata, oltre i sette anni. Alla presentazione sono presenti metastasi circa nel 90% di questi soggetti anche se solamente nel 5% dei casi sono visibili radiologicamente. In questi casi l’utilizzo di tecniche d’immagine più sensibili come la TC consentono di evidenziare le metastasi in fase molto precoce. Questi tumori possono apparire litici o produttivi o spesso sono misti litici e produttivi, ma questo è un dato che non dà indicazioni sull’aggressività della lesione. Nel cane la reazione periostale associata alle lesioni osteoaggressive può variare, tuttavia una reazione periostale molto aggressiva ed amorfa fa propendere per un tumore. Nel gatto le sedi di lesione più frequente sono gli arti posteriori. Le lesioni sono prevalentemente osteolitiche in confronto al cane. Inoltre nel gatto sono meno frequenti le metastasi polmonari da osteosarcoma. Pur cominciando nelle metafisi, le lesioni tumorali possono raggiungere le epifisi ed in caso di patologia avanzata, raramente possono invadere ossa adiacenti. Talvolta a causa della lisi delle corticali si riscontrano delle fratture patologiche. Sebbene raro, un previo traumatismo o l’utilizzo di mezzi di sintesi per una frattura possono portare ad osteosarcoma. Altre neoplasie


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primarie dell’osso con quadro simile agli osteosarcomi sono i condrosarcomi, molto meno frequenti dei precedenti. Lesioni simili a quelle descritte per i tumori ossei si possono riscontrare in caso di infezione micotica, peraltro molto rara in Italia. Le infezioni batteriche possono talvolta presentarsi in maniera singola ed in un solo osso, ma sono legate o a ferite penetranti o a previa chirurgia. Le osteomieliti ematogene presentano una maggiore diffusione. Anche nelle lesioni osteoaggressive multiple, le due diagnosi differenziali più importanti sono le neoplasie e le infezioni micotiche. Come detto in precedenza le infezioni micotiche sono molto frequenti in alcune regioni degli Stati Uniti d’America, mentre piuttosto infrequenti o rare in Europa ed Italia. Quindi una lesione osteoaggressiva poliostotica fa porre come prima diagnosi differenziale una neoplasia maligna. Tra queste abbiamo dei tumori primitivi quali il mieloma multiplo ed il linfoma ed i tumori secondari, metastatici. Le metastasi nello scheletro arrivano per via ematogena e quindi è possibile raggiungere contemporaneamente più distretti del corpo. Con le terapie aggressive che vengono attuate oggigiorno, gli animali hanno un tempo di sopravvivenza maggiore e non è infrequente trovare delle metastasi ossee, che un tempo si pensava fosse un evento raro. Benché qualsiasi tumore possa metastatizzare nelle ossa, più frequentemente si rilevano metastasi di tumori epiteliali, come carcinomi tiroidei, prostatici, mammari, epatici e polmonari. Come per quanto riguarda i tumori primitivi, anche le metastasi ossee possono presentarsi osteolitiche od osteoproduttive o miste. Le osteomieliti batteriche possono anch’esse causare lesioni osteoaggressive poliostotiche, tuttavia le osteomieliti batteriche ematogene sono rare nel cane e nel gatto. In genere sono causate da traumi od interventi chirurgici ed anche se interessano più ossa, solitamente lo fanno nello stesso arto. Come detto in precedenza per le lesioni monostotiche, il segnalamento, l’anamnesi, la clinica e gli esami di laboratorio permettono agevolmente di differenziare le osteomieliti dalle neoplasie. Agenti eziologici di osteomielite poliostotica possono sono la leishmania e l’hepatozoon canis. Nel cane va poi considerata una sede particolare, dove la diagnosi differenziale tra neoplasia ed osteomielite diviene complessa sulla base della radiografia; si tratta della sede subungueale, dove sono frequenti tumori quali il carcinoma squamoso che interessa prevalentemente cani di razza grande ed a pelo nero ed il melanoma. In questa sede può essere presente tuttavia anche una pododermatite. Radiograficamente si può rilevare osteolisi più o meno marcata con presenza o meno di reazione periostale. È stato riportato che una marcata osteolisi è più probabilmente causata da neoplasia ed in particolare carcinoma squamocellulare. Nello scheletro assiale possiamo trovare numeri processi neoplastici a carico delle diverse strutture di cranio, colonna vertebrale e pelvi. I principali sono i tumori nasali. Le neoplasie delle cavità nasali rappresentano circa l’1% di tutte le neoplasie del cane e del gatto. Sono più frequenti in animali dolicocefali, di età solitamente superiore agli otto anni. Si localizzano nei settori caudali delle cavità nasali, conche etmoidali e lamina cribrosa dell’etmoide. Prevalgono le forme maligne, 80% nel cane e 91%

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nel gatto. Il tumore nasale più frequente nel cane è l’adenocarcinoma, seguito da carcinoma squamocellulare e fibrosarcoma. Più rari sono l’osteosarcoma ed il condrosarcoma. Nel gatto l’adenocarcinoma è seguito dal linfosarcoma. Radiologicamente si rilevano aree di osteolisi e neoproduzione ossea, aumento di radiopacità delle porzioni caudali delle cavità nasali, spesso con perdita di visualizzazione degli etmoturbinati; aumento di radiopacità dei seni frontali dovuto solitamente all’accumulo di essudato e più raramente ad invasione neoplastica. In fase avanzata si rileva erosione del setto, invasione delle ossa frontali, reazione periostale, tumefazione dei tessuti molli. In tutti i casi di neoplasia cranica l’utilizzo di TC o RM possono dare informazioni aggiuntive. I tumori della cavità orale, rappresentano circa il 6% dei tumori nel cane ed il 3% nel gatto. Le più frequenti condizioni neoplastiche che si riscontrano sono il carcinoma squamocellulare, il fibrosarcoma ed il melanoma. I tumori che originano dal periodonzio sono classificati come: epulide fibromatosa, epulide ossificante ed epulide acantomatosa. Mentre i primi due tipi non determinano modificazioni nell’osso e si può eventualmente notare un aumento dell’opacità dei tessuti molli, l’epulide acantomatosa si manifesta con lisi dell’ osso interessato. Questa neoplasia si manifesta prevalentemente a carico della porzione più rostrale della mandibola. Raramente si possono incontrare cisti benigne o tumori che originano dall’ epitelio della lamina dentaria, quali: ameloblastoma, odontoma e fibroameloblastoma. In genere si evidenziano come masse di radiopacità mista, eterogenee. Nel calvarium è noto l’osteocondrosarcoma multilobulare, che in genere origina dall’area temporo-occipitale, ma coinvolge anche altri segmenti ossei. Ha crescita lenta. Radiologicamente si nota una massa di opacità ossea, eterogenea, a margini regolari. Queste neoplasie possono crescere anche all’interno della volta cranica, per cui la TC è ritenuta una tecnica più adatta rispetto alla radiologia convenzionale per una valutazione più accurata. Altre neoplasie sono l’osteosarcoma, l’osteoma che si presenta come ben delimitato, a margini regolari, radiopaco e le neoplasie cerebrali che solitamente non determinano modificazioni radiografiche e si vedono solo con TC e RM. Tuttavia il meningioma può determinare nel gatto l’ iperostosi del calvarium visibile radiograficamente. Le neoplasie vertebrali possono essere benigne o maligne. Tra le forme benigne si riscontra l’esostosi cartilaginea multipla, che interessa cani di età inferiore ad un anno. Le esostosi si formano durante l’ossificazione endocondrale. Radiologicamente appaiono come masse rotondeggianti, a margini regolari, di radiopacità eterogenea, che spesso coinvolgono il processo spinoso o la lamina vertebrale, ma possono interessare anche il corpo della vertebra. Nei gatti è associata al virus della leucemia felina e colpisce animali adulti. Talvolta può esserci trasformazione maligna. Altre neoplasie vertebrali primarie sono l’osteosarcoma, il condrosarcoma, il fibrosarcoma, il mieloma multiplo e l’emangiosarcoma. Il mieloma multiplo e l’emangiosarcoma danno un quadro osteolitico particolare, con piccole e numerose aree rotondeggianti radiotrasparenti.


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Inoltre le vertebre possono essere sede di metastasi, solitamente carcinomi, ma anche sarcomi. In tre cani è stato descritto un cordoma. Quest’ultimo pare essere frequente nel furetto. Le neoplasie maligne, primarie o secondare, si manifestano in genere con lisi e/o produzione ossea. Spesso si rileva il collasso della vertebra. Le neoplasie più frequenti nelle ossa pelviche sono l’osteosarcoma ed il condrosarcoma. Se la massa neoplastica raggiunge dimensioni considerevoli si possono avere compressioni a carico delle strutture del canale pelvico. L’aspetto radiografico è misto osteolitico osteoproduttivo. L’esame ecografico dello scheletro richiede la possibilità di utilizzare una sonda lineare di almeno 7.5-10 MHz. Ecograficamente è possibile notare sia le lesioni ossee, lisi o osso di nuova formazione, che la possibile invasione dei tessuti molli attorno al segmento osseo. L’utilizzo del color/power doppler consente anche di valutare se la struttura oggetto di studio sia vascolarizzata o meno. Questa indicazione ci consente di effettuare prelievi bioptici su tessuto vitale ed aumentare quindi la possibilità di ottenere una diagnosi accurata. Tecnologie diverse come RM o TC consentono allo stesso modo di valutare bene sia i tessuti molli che le ossa contemporaneamente. La TC inoltre consente la ricerca delle metastasi a distanza e di effettuare biopsie per la diagnosi istopatologica o trattamento terapeutico con tecniche diverse. La scintigrafia è una tecnica molto sensibile, utilizzata sostanzialmente per localizzare le lesioni. L’esecuzione del-

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l’esame scintigrafico prevede l’iniezione endovenosa di un radiofarmaco (99mTc polifosfonato) che viene incorporato dall’osso e rapidamente eliminato dai tessuti molli, così da dare immagini dell’osso di buona qualità. Se si volessero studiare i tessuti molli correlati all’apparato scheletrico, il 99Tc pertecnetato è più adatto in quanto non si lega con aree di rapido rimodellamento osseo, e quindi non sorge un problema interpretativo con l’assunzione precoce di radiofarmaco da parte dell’osso che si può avere nei primi minuti dopo l’iniezione. La scintigrafia si utilizza anche in pazienti con neoplasie per la ricerca di metastasi.

Bibliografia 1. 2. 3.

Radiologia del cane e del gatto. D.Boscia; L.Baracchini; F.Rossi; M.Vignoli. Poletto Editore, Milano 2005. Textbook of Veterinary Diagnostic Radiology. DE Thrall. Fourth Edition. WB Saunders, Philadelphia 2002. Equine scintigraphy. S.J. Dyson; R.C. Pilsworth; A.R. Twardock and M.J. Martinelli. Equine Veterinary Journal LTD, 2003.

Indirizzo per la corrispondenza: Massimo Vignoli Clinica Veterinaria dell’Orologio - Sasso Marconi (BO) Via Gramsci - Tel e fax: 051-6751232 E-mail: maxvignoli@alice.it


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Una volta all’anno, propongo ai miei clienti abituali (indipendentemente dal fatto che abbiano risolto del tutto o in parte i loro problemi o che si trovino ancora di fronte a difficoltà pratiche) ed ai proprietari di cani che desiderano saperne di più sul comportamento dei loro animali di seguire un corso dal il tema:

La comunicazione intraspecifica del cane Anne-Marie Villars Med Vet, Dipl ENVF, Lausanne, Svizzera

Io desidero presentare questo corso per spiegare al grande pubblico come rendere accessibili le nozioni di base sul comportamento e sulla comunicazione con il cane e, perché no, incoraggiare dei colleghi ad organizzare lo stesso tipo di attività con la loro clientela. Desidero inoltre presentare gli strumenti necessari ad ogni veterinario che voglia organizzare un corso di questo tipo (luogo, sala, video, traccia scritta teorica) e rendere tutti partecipi della mia soddisfazione e del mio entusiasmo, lo stesso di coloro che prendono parte a questi insegnamenti. Si tratta di strumenti semplici: 1. Una sala per l’insegnamento teorico che consenta di accogliere una cinquantina di persone e il mio computer, uno schermo ed un proiettore. Eventualmente, una macchina per il caffè, un frigorifero per avere a disposizione delle bibite fresche, delle ciotole per l’acqua ed acqua per abbeverare i cani. 2. Persone competenti nell’insegnamento pratico sul campo, (siamo un gruppo di 5 persone, fra cui un cameraman) e uno o due collaboratori per preparare le sedi di incontro, servire i caffè, assicurare il comfort dei partecipanti. È auspicabile la presenza di un cane “modello” per dimostrare gli esercizi e guidare i cani coinvolti. 3. Un terreno attiguo, chiuso, munito di una porta e di pattumiere con un sistema di raccolta delle feci. Può andare bene un parcheggio ben ombreggiato o un prefabbricato con tettoia in legno, sempre all’ombra; in alternativa, i cani possono essere fatti entrare nella sala di insegnamento teorico… se sono in grado di restare calmi e silenziosi, generalmente nella seconda parte del corso. 4. Una traccia teorica scritta, una scheda di valutazione, un diploma da consegnare alla fine del corso, ad ogni partecipante (molto gradito), dei badge in cartone con il nome ed il sesso del cane e quello del proprietario che consentano di collocare i partecipanti in sala secondo una strategia che permetta a ciascuno di ritrovarsi alternativamente davanti o dietro. 5. Eventualmente, delle museruole, degli oggetti semplici da utilizzare per delimitare i percorsi (bottiglie di plastica piene, ad esempio, di ghiaia), qualche semplice ostacolo, delle plance, delle borse di plastica, degli ombrelli, dei palloni, uno skate, una bicicletta ecc…, secondo la nostra fantasia. 6. Un bosco vicino che consenta una camminata con tutto il gruppo, una città nei dintorni per la passeggiata in un ambiente urbano, che abbia possibilità di parcheggio garantite e un tragitto ben studiato. Lo stesso tipo di corso si può anche organizzare in una sola giornata nell’ambito dei club di cinofili e consente di facilitare enormemente le relazioni fra i veterinari e gli addestra-

tori, nella direzione di una buona collaborazione reciproca. Questo tipo di corso può essere organizzato o supervisionato da parecchi di noi. Richiede una disponibilità di 5 giornate intere o mezze giornate, ognuna distanziata dall’altra di 510 giorni, per lasciare tempo al tempo: ai partecipanti vengono assegnati dei compiti quotidiani da svolgere con il loro cane, a casa o in passeggiata, per migliorare la qualità delle comunicazioni con il proprio animale durante gli esercizi e situazioni della vita comune di ogni giorno, come 1) situazioni educative semplici: il richiamo, la camminata al guinzaglio, il comando di seduto o coricato 2) situazioni gerarchiche: mandare a cuccia, accarezzare come ricompensa, restare sul posto assegnato, ecc… 3) situazioni di incontro, di passeggiate (in città, nel bosco, in campagna, ecc…) 4) cosa fare negli incontri con i bambini, coloro che praticano jogging, i ciclisti, altri cani, persone a cavallo, selvaggina, ecc… e 5) dei compiti teorici, come la lettura di un fascicolo di circa 50 pagine, pari a circa 10 pagine da leggere ogni settimana… cosa fattibile per qualsiasi persona. Questo corso si sviluppa nel tempo… è pianificato su 5 domeniche; è concepito per una cinquantina di famiglie con i loro cani, sotto forma di insegnamento pratico e teorico. Il video è utilizzato ampiamente per spiegare le interazioni sul campo tra i cani ed i partecipanti. L’alternanza di momenti teorici e pratici consente loro di apprendere meglio, utilizzando ed integrando le informazioni teoriche nelle situazioni pratiche. La condivisione e lo scambio di difficoltà ed esperienze tra i proprietari arricchiscono ognuno di loro e consentono a ciascuno di superarle. L’atmosfera, che si distende rapidamente, consente anche ai proprietari di imparare piacevolmente. Le famiglie sono accompagnate nelle loro difficoltà di ogni giorno, durante il corso, le situazioni non vengono soltanto ricordate in teoria, ma rivissute praticamente con un’uscita in città, nel bosco o un mezzo pubblico; inoltre, fanno parte del proseguimento del corso anche degli esercizi sul campo. Mi accingo ad esporre la mia presentazione essenzialmente con video che mostrino “momenti forti” dell’incontro fra una cinquantina di cani sul terreno, illustrando i primi istanti del loro incontro nel corso di quest’anno o degli anni precedenti, spiegando quale deve essere l’atteggiamento dei proprietari nel caso di cani liberi per strada ed indicando anche che cosa accade in incontri di questo tipo sia ai partecipanti (proprietari, veterinari accompagnati da un’équipe di collaboratori non professionisti) che ai cani; io cerco di illustrare i momenti forti per le persone, i cani e gli organizzatori.


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Il momento forte principale per i proprietari è rappresentato dalle prime fasi del corso… fino al termine della seconda uscita dei cani sul campo; una volta che questa prova sia stata superata, le persone possono apprezzare il corso e distendersi. I momenti forti per i cani sono la prima uscita sul terreno di ogni giornata di corso e la camminata nel bosco. I momenti forti per gli organizzatori sono quelli compresi fra i primi istanti di ogni giornata fino alla prima uscita e … gli ultimi minuti del corso. Nelle due pagine che seguono vi propongo i documenti illustrativi e l’iscrizione che i clienti possono trovare nel mio ambulatorio veterinario, durante i tre mesi prima del corso. Questo documento è stato anche pubblicato, gentilmente, sul giornale della SPA locale. D’altro canto, io ho effettuato questo corso nell’ambito della struttura e in collaborazione con la SPA, che mi ha prestato i locali e preparato il campo. Se uno di voi desidera buttarsi, gli fornirò volentieri un modello scritto della mia traccia teorica; allego qui il modello di iscrizione e l’invito al corso.

Modello di invito al corso:

Modello di iscrizione:

Obiettivi: 1. Scoprire il piacere di comunicare armoniosamente con il proprio cane, senza dover ricorrere alla brutalità!! 2. Consentire una migliore integrazione del cane con la propria famiglia e nella vita di tutti i giorni 3. Conoscere i modi di funzionamento sociale del cane e saperli utilizzare nella sua educazione, nella sua vita quotidiana 4. Imparare le parole chiave del linguaggio dei cani: posture o mimiche ed intonazioni ed utilizzarle negli esercizi educativi pratici 5. Demistificare certe “credenze” popolari”

Iscrizione al corso di comportamento nelle domeniche di 22 e 29 maggio, 5, 12 e 19 giugno 2005 Questo corso è organizzato come un pacchetto completo. Deve essere seguito nella sua globalità. Non è possibile iscriversi per una sola domenica! È destinato a qualsiasi persona o famiglia che possiedano un cane da più di due mesi, vaccinato da meno di un anno. È indicato tanto per i proprietari di cani che desiderano semplicemente migliorare la loro relazione quotidiana con il loro amico animale e comprendere meglio o avviare una relazione ideale con lui quanto per i proprietari in difficoltà con il loro cane e desiderosi di risolvere la situazione. Io mi iscrivo a seguire il corso “Comunicare meglio con il mio cane”. Sarò presente nelle 5 domeniche sopracitate con il mio cane. Ho saldato la quota di iscrizione oggi (una quota/cane) e mi impegno a rispettare le istruzioni impartite. Resto responsabile del mio cane in ogni momento ed in ogni luogo per tutta la durata del corso Cognome . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nome . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Indirizzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Città e codice postale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Telefono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cellulare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Parteciperò (cerchiare quello che interessa): ❐ Da solo ❐ In due ❐ Con i nostri figli Nome del coniuge/compagno: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nome di ogni figlio: 1: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nome del cane: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sesso: ❐ Maschio ❐ Femmina Castrato: ❐ si ❐ no Età: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Razza: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Peso: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Problemi riscontrati: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .............................................

Se desiderate sviluppare il vostro rapporto o risolvere le vostre difficoltà nei confronti del vostro cane, questo corso fa per voi:

Corso di comportamento “Comunicare meglio con il proprio cane” DATE: 5 domeniche, il 22 ed il 29 maggio, il 5, il 12 ed il 19 giugno 2005, fra le ore 10 e le ore 16. Il primo giorno l’incontro è alle ore 9. LUOGO: Santa Caterina, forum della SVPA, chalet di Gobet. È rivolto a tutti i proprietari di cani, accompagnati dal proprio animale da compagnia e dalla sua famiglia. Costo del corso, con un testo del corso completo: 300 franchi, da saldare prima del 30 aprile 2005.

Mezzi: 1. Tempi di formazione teorica interattivi, con supporti video 2. Alternare delle sedute di educazione pratica sul campo, in città e nel bosco 3. Momenti di osservazione delle interazioni tra i cani, filmate e analizzate 4. Il lavoro di richiamo e degli ordini di base, indispensabili ad una vita senza preoccupazioni con il proprio cane Condizioni di partecipazione: Saldo: in caso di annullamento un mese prima dell’inizio del corso, rimborso del 50%; al di là di questa data la spesa non verrà più rimborsata. 1. Venire – preferibilmente con la propria famiglia – con il proprio cane, un collare, un guinzaglio, - il pic nic!-, la volontà di ascoltare, di partecipare, di imparare e di rispettare le istruzioni impartite. 2. Dedicare ogni giorno, a casa propria, 20 minuti a ripassare e ripetere seriamente gli insegnamenti appresi ogni domenica 3. Venire con una museruola se il vostro cane è stato morsicato o pizzicato 4. Reinviare al più presto (numero di iscrizioni limitato, accettazione in ordine di arrivo) il tagliando di iscrizione qui allegato e saldare la somma di iscrizione (300 franchi) prima del 30 aprile Indirizzo per la corrispondenza: Dr Anne-Marie Villars - Rue du Simplon 3 D Mail: anne-marie@citycable.ch - CH- Lausanne


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Particolarità della comunicazione del cane Anne-Marie Villars Med Vet, Dipl ENVF, Lausanne, Svizzera

Ogni comunicazione richiede la partecipazione di un soggetto trasmittente, che emetta dei segnali, e di uno ricevente. “Non si può non comunicare” ha detto Bateson. La prima funzione della comunicazione è il riconoscimento della propria specie. Il messaggio inviato è sempre eterogeneo, ovvero non utilizza mai un solo canale di comunicazione, ma sempre molteplici. Tutto il corpo del cane è coinvolto nell’emissione di segnali che servono alla comunicazione intraspecifica. Distingueremo tra l’emissione di segnali involontari e volontari. Le basi della comunicazione canina si apprendono nel corso del periodo sensibile, mediante un fenomeno d’imprinting che corrisponde ad un’ipercomunicazione parentale primaria. Questa condiziona in modo durevole il comportamento del soggetto ricevente, rappresentato dal cucciolo, e gli consente di riconoscere i suoi partner privilegiati (madre, genitori) di attaccamento, di giochi (fratelli) e di attrazione sessuale, mentre apprende di appartenere alla specie canina. L’approccio e poi il contatto all’interno della specie diventano possibili mediante l’apprendimento delle posture, delle mimiche e dei rituali durante il primo periodo di vita. Tutto ciò consentirà l’ulteriore sviluppo dei comportamenti di corteggiamento specie-specifici. L’apprendimento dei

segnali di sottomissione, d’accoglienza e di pace, che servono a mantenere un rapporto durevole, inizia ad apparire all’incirca nelle prime settimane di vita. Le emissioni olfattive e feromonali vengono prodotte dalle ghiandole facciali, podali e perianali. Sono percepite a livello della cavità nasale, dell’organo vomero-nasale per i feromoni ed i recettori gustativi. Si trovano anche nell’urina, il sebo e le secrezioni vaginali. L’animale non ha alcun controllo su queste emissioni che possono tradire il suo stato emozionale di fronte ad un altro soggetto appartenente allo stesso genere (ad es., in caso di emozione da paura). Le emissioni sonore involontarie, non vocali, sono costituite da ansimi, sbadigli e schiocchi di denti, sempre emessi in una condizione di emozione, senza il controllo volontario dell’animale. Le emissioni olfattive involontarie possono essere di origine ghiandolare (che esprimono paura) oppure dipendere da emissioni di feromoni attraverso l’urina, il sebo o le secrezioni vaginali.

Indirizzo per la corrispondenza: Dr Anne-Marie Villars - Rue du Simplon 3 D Mail: anne-marie@citycable.ch - CH- Lausanne


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La scuola dei cuccioli Anne-Marie Villars Med Vet, Dipl ENVF, Lausanne, Svizzera

Ovvero dal mito del cucciolo perfetto alla realizzazione pratica di una scuola per cuccioli.

Cos’è una scuola per cuccioli? È un luogo di raccolta in cui si pratica un insegnamento, con spirito, intelligenza e molta comprensione. Questo comporta un bagaglio di conoscenze e, forse, anche delle attitudini naturali nel condividere il proprio sapere ed provare piacere a trasmetterlo. La scuola per cuccioli è destinata a proprietari di cuccioli con la loro famiglia, o ad allevatori con i loro cuccioli, ma, soprattutto, ai cuccioli con i loro insegnanti, anche esperti, che siano al loro primo o decimo cucciolo! L’insegnamento è duplice. In primo luogo, imparano qualcosa gli insegnanti: regole etologiche e principi educativi. Bisogna garantire uno sviluppo armonioso al proprio cucciolo, imparare ed insegnare la “posizione di sottomissione”. Poi, imparano i cuccioli, i quali arrivano per divertirsi fra di loro ed, anche, per diventare socievoli con l’uomo e le altre specie amiche; per potersi integrare in una gerarchia (né in posizione troppo dominante, né troppo sottomessa), adattarsi alla vita di città, essere capaci di autocontrollarsi, non essere né troppo attivi, né troppo aggressivi, non abbaiare troppo e non essere eccessivamente paurosi, diventare puliti, obbedienti e capaci di rimanere da soli qualche ora al giorno. Gli obiettivi di una scuola per cuccioli sono quelli di rispettare il profilo comportamentale del cucciolo ed insegnare a sviluppare al massimo la socializzazione, con una base di educazione. Così, il richiamo verrà imparato utilizzando il riflesso naturale del cucciolo a seguire sua madre, con un rafforzamento positivo, ed insegnando agli istruttori a saper essere capaci di attirare a sé gli animali! Per favorire la socializzazione dei cuccioli, noi dobbiamo moltiplicare i loro contatti con persone di varia natura, durante la fase di socializzazione, per mezzo di uscite con la scuola! È importante moltiplicare e mantenere questi contatti per ottenere una socializzazione duratura. E per favorire la familiarizzazione con l’ambiente, bisogna esporre i cuccioli a stimoli (uditivi, visivi, olfattivi, tattili) di vario tipo, sia in casa che fuori. È anche necessario arricchire il contesto in cui vive il cucciolo nelle prime 14 settimane di vita. Inoltre, la scuola è un meraviglioso luogo di incontri, in cui si possono svolgere dei giochi fra cuccioli dello stesso genere, un’esperienza istruttiva per gli insegnanti del cucciolo, per la sua famiglia e per i bambini che ne fanno parte. Questo incontro consente un interscambio tra esseri umani e cuccioli. Il ruolo degli animatori di una scuola per cuccioli non è solo quello di inquadrare il gruppo, ma anche quello di prevenire e diagnosticare delle patologie comportamentali della giovane

età (come la HSHA, syndrome hypersensibilité-hyperactivité, sindrome dell’ipersensibilità-iperattività, la sindrome da privazione) ed attuare la profilassi delle affezioni più tardive (per esempio, le sociopatie e gli iperattaccamenti secondari). Noi abbiamo anche un ruolo educativo, un dovere di socializzazione intra- ed interspecifico e con l’ambiente. La presenza di cani adulti che fungano da moderatori equilibrati è necessaria e deve essere controllata dagli animatori della scuola. L’importanza dei giochi tra cuccioli consente una continuità di contatti e di interazioni. Insegna anche ai cuccioli a scoprire i riti ed agli uomini di individuarli, farseli spiegare e acquisirne la conoscenza. Lo stesso dicasi per l’importanza del mantenimento dell’acquisizione dell’inibizione del morso attraverso un insegnamento adeguato nell’ambito della scuola. Perché, spesso, il cucciolo lo ha acquisito più o meno a 8 settimane! E lo disimpara poi … nella sua nuova famiglia (dove si pensa che si faccia i denti). Insegnare agli istruttori ad intervenire immediatamente da quando i cuccioli iniziano a mordere è di capitale importanza! Noi mostriamo loro anche come dosare la punizione ed il rafforzamento positivo, per saper consolidare l’acquisizione degli autocontrolli e l’apprendimento del segnale d’arresto. Talvolta, i giochi degenerano a causa di comportamenti troppo impulsivi o delle morsicature, che occorre saper bloccare, generalmente in posizioni di sottomissione e restando molto calmi. Bisogna saper dar prova di dolcezza, fermezza e pazienza. Non ci si deve innervosire, occorre fornire delle indicazioni tranquille. Saper ricompensare un comportamento positivo piuttosto che punire quello negativo. Dar prova di fermezza significa semplicemente esigere che l’ordine sia eseguito sino in fondo. Il nostro compito è anche quello di prevenire le aggressioni; così, per impedire l’insorgenza di aggressioni competitive bisogna: - evitare di accordare le prerogative dei dominanti! La prevenzione delle aggressioni di autodifesa avviene: - attraverso un processo di socializzazione intensivo, di adattamento e con il contatto Mentre per la prevenzione dell’aggressione da predazione è necessario: - insegnare quali sono le specie amiche, come i gatti e le galline Si conoscono tre classi d’aggressione: ❐ 1. Aggressione da competizione (o gerarchica) ❐ 2. Aggressione da autodifesa: - Per irritazione - Per paura - Territoriale - Materna


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❐ 3. Aggressione da predazione: - su piccole prede - su grandi prede Lo svolgimento pratico: A livello sanitario: è necessaria una preventiva vaccinazione. Gruppo: - da 4 a 10 cuccioli (differenti per età, razza, ecc..) - da 4 a 25 persone: dal nonno a tutta la famiglia. Si deve tenere obbligatoriamente una prima lezione informativa. Il ritmo della mia scuola: una lezione settimanale da 90 minuti/classe. I cuccioli vengono accettati dall’età di 6 settimane sino a 6 mesi per l’ultima lezione. Gli animatori della scuola dei cuccioli devono possedere buone capacità carismatiche, perché si tratta di animare un gruppo molto disparato, e questo comporta calma e capacità pedagogiche, il saper comunicare con semplicità con parole adatte alla clientela presente. Il mio gruppo è composto da 5 animatrici e ne sono presenti al minimo due per una classe, spesso tre! Alla scuola dei cuccioli è indispensabile la presenza di cani adulti equilibrati, calmi e competenti: questo è necessario per monitorare? i cuccioli isterici o mal controllati. Un maschio adulto regolerà ed identificherà l’inizio puberale ? dei maschi giovani e insegnerà loro a rispettare la gerarchia. Se ha dimensioni rispettabili, consentirà ai proprietari di cani di piccola taglia di accettare in ogni caso le interazioni iniziali con questi stessi cuccioli. La versione attuale: due corsi: 1,5 ore Una lezione informativa: 30 minuti Un ciclo successivo di nove lezioni con quattro argomenti sul comportamento e quattro sulla comunicazione La nona lezione: un video Il programma: J 1. Comportamento 1: Alimentazione, luogo di riposo e di carezze; che senso ha questo per il cane? J 2. Comunicazione 1: La pulizia ed i primi insegnamenti J 3. Comportamento 2: Posture e rituali gerarchici: passeggiare con il proprio cane e processi di interazione di un gruppo di cani J 4. Comunicazione 2: Punire, ricompensare, educare J 5. Comportamento 3: Socializzazione J 6. Comunicazione 3: Le basi del richiamo e la passeggiata al guinzaglio J 7. Comportamento 4: Giochi ed autocontrollo J 8. Comunicazione 4: insegnare al cucciolo a restare solo, sedersi e coricarsi J 9. Teoria: video per tutti alle h 18 Le precauzioni da prendere: Un contratto L’assenza di oggetti pericolosi Eliminare tutti i rischi nelle zone dove il cucciolo verrà lasciato libero Usare il guinzaglio in occasione delle uscite nel traffico

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Terreno, locali e materiale: Dove ha sede una scuola per cuccioli? 1. In ambienti chiusi: nei locali del mio ambulatorio 2. All’esterno: - Un giardino recintato: con degli ostacoli, privo di pericoli - Delle uscite attraverso la città - Un terreno della città Materiale: Videocamera, TV o proiettore per la lezione video Dei giochi di vario tipo, qualche accessorio (asciugacapelli, aspirapolvere, palloni, petardi, ecc..) Sede di allestimento: Perché non presso un allevatore? O in club di cinofili? Oppure, come nel mio caso, in uno spazio ottenuto dalle autorità della mia città: un terreno per l’educazione adattato e recintato. Le uscite indispensabili: La prima uscita: Con degli stimoli limitati Insegnare un passo al guinzaglio morbido Con l’aiuto di un rinforzo positivo Pensare alla pulizia della propria città: i sacchetti per le feci Insegnare dei rudimenti di educazione E dei riflessi condizionati semplici: sedersi prima di attraversare una strada La seconda e terza uscita: Prendere un autobus in gruppo, invitare le persone ad accarezzare i cuccioli Passeggiata ed esercitare il richiamo Incitare ad incontri diversi con degli stimoli più importanti: recandosi in luoghi sempre più rumorosi L’effetto gruppo: L’effetto stimolante del gruppo consente ai cuccioli più timidi di lasciarsi trascinare per imitazione a seguire rapidamente i più audaci Le conclusioni Dal mito alla realtà

Le sbandate ed i rischi d’eccesso di una scuola di cuccioli L’assenza: - Di familiarizzazione con l’ambiente di città e di contatti con l’incontro di una moltitudine di persone, luoghi rumorosi, di uscite in città ecc…: Attenzione ai pericoli di un unico ambiente! Rischio di non individuare, o addirittura di alimentare una sindrome da privazione. - Di cani adulti: Alcune scuole si limitano a semplici giochi tra cuccioli! …o addirittura talvolta separano per classe di età o per razza! E senza cani adulti coeducatori! La competenza del cane adulto rappresenta un contributo immenso. Consente spesso di individuare e regolare i cuccioli


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iperattivi. Permette inoltre di abituare gli insegnanti e eviterà loro di essere elitari o iperprotettivi! - Di educazione di base: È importante insegnare, come minimo, il richiamo, a sedersi, coricarsi e la posizione di sottomissione e l’inibizione del morso! - Di conoscenza del linguaggio e del funzionamento gerarchico: assenza di un’organizzazione gerarchica, l’apprendimento del concetto di quelle che sono le prerogative di un dominante: Alimentari Di spazio Sessuali Sociali “Nella vita non c’è niente gratis” Conclusioni: Esperienza arricchente e positiva Consigli di gruppo Migliorare il contatto Fidelizzare la propria clientela senza fare concorrenza Strumento profilattico

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Prevenire i problemi della comunicazione e gerarchici Aspettative dei vari insegnanti Profilassi delle malattie comportamentali Dialoghi e contatti simpatici Serve all’inserimento dell’animale nella società Farsi conoscere/supervisionare Fare in modo che i cuccioli siano felici di ritornare!

Indirizzo per la corrispondenza: Dalla Docteur Anne-Marie VILLARS Médecin Vétérinaire Comportementaliste diplômé D.E.N.F. Cabinet Vétérinaire Rue du Simplon 3 D CH 1006 LAUSANNE Tél: +4121/616.10.66 Fax: +4121/ 616.68.65 Mail: anne-marie.villars@citycable.ch Potete consultare le mie indicazioni dettagliate sulla scuola dei cuccioli sul sito www.zoopsy.com


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La gestione economica della struttura veterinaria (Prima e seconda parte) Marco Viotti Med Vet, Torino

ATTI NON PERVENUTI


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Diagnosi delle patologie prostatiche Daniele Zambelli Med Vet, Dipl ECAR, Bologna

Le patologie prostatiche sono sempre più frequentemente riscontrate nella pratica quotidiana probabilmente per una maggiore attenzione da parte dei proprietari più attenti alla salute del proprio animale, per una durata relativamente maggiore della vita dei soggetti, e il possibile mancato guadagno in caso di ridotta fertilità in riproduttori di pregio. Le patologie prostatiche riscontrate più di frequente sono acquisite, di tipo proliferativo o infiammatorio, ed in particolare sono l’iperplasia prostatica benigna (IPB) e le prostatiti (acute,croniche, ascessi). Altre patologie, meno frequenti, sono la metaplasia squamosa, i traumi e le neoplasie. A tutte queste patologie possono inoltre essere associate cisti prostatiche. Solo una diagnosi rapida e precisa, effettuata sulla base di una accurata visita clinica e di esami collaterali come l’ecografia, la radiografia e la citologia, permette spesso di acquisire importanti dati consentendo così al clinico di intervenire in maniera mirata. Nei casi di iperplasia prostatica benigna (IPB) non complicata, gli animali si presentano, di solito, in buone condizioni generali di salute, anche se, a volte, si osserva un graduale dimagramento. Manifestazioni più gravi quali, letargia e anoressia, si riscontrano invece nei casi in cui l’iperplasia sia associata a cisti prostatiche infette. La mancanza di una reazione febbrile o di dolore alla palpazione ci permettono di differenziare le cisti dagli ascessi prostatici. La sintomatologia clinica completa, comunque, si manifesta solo nelle fasi avanzate della patologia, quando la ghiandola raggiunge un volume tale da comprimere la vescica ed occludere parzialmente il lume rettale, determinando disuria, costipazione e tenesmo. La compressione sul retto, a volte, può comportare la ritenzione della sola porzione solida delle feci, determinando una sintomatologia simile a quella osservata in caso di diarrea del grosso intestino. In altri casi, la parziale occlusione del lume rettale, indotta dalla prostata iperplastica, provoca una deformazione delle feci che possono apparire di diametro ridotto o assumere il caratteristico aspetto nastriforme. I disordini osservati a carico dell’apparato urinario, comprendono invece stranguria, disuria, incontinenza oppure ostruzione delle vie urinarie. Frequentemente si riscontra uno scolo uretrale emorragico intermittente associato o meno ad ematuria, ma è opportuno porre in diagnosi differenziale problemi di altra natura, quali lesioni uretrali o prepuziali. Ematuria, stranguria e piuria si osservano in caso di prostatite o di cisti infette. L’incontinenza urinaria, descritta in soggetti affetti da IPB, è probabilmente causata da una compressione cronica, sui nervi o sui vasi del collo della vescica o dell’uretra prostatica, esercitata dalle cisti prostatiche. Molto spesso la diagnosi di iperplasia prostatica è

casuale o comunque tardiva e viene emessa soltanto quando si manifestano i sintomi causati dalla compressione esercitata, sulle strutture circostanti, dalla ghiandola aumentata di volume. Per emettere diagnosi di IPB, è necessario, ricorrendo all’esame di palpazione digito-rettale, valutare il volume, la forma, la simmetria, la consistenza e la mobilità dell’organo oltre alla presenza o all’assenza di disagio da parte dell’animale. In caso di presenza di cisti di grosse dimensioni, alla palpazione per via rettale si riscontrerà la presenza di una massa compatta situata nell’addome posteriore, o di un aumento asimmetrico della ghiandola associato ad aree molli e fluttuanti nel caso in cui si tratti di cisti di piccole dimensioni. Tra gli esami collaterali, l’esame ecografico, non invasivo e di facile esecuzione si presenta assolutamente indicativo in caso di patologie prostatiche. Ecograficamente l’IPB mostra oltre ad un aumento di volume dell’organo anche una lieve disorganizzazione parenchimale associata spesso a formazioni microcistiche diffuse. Le cisti prostatiche di piccole dimensioni appaiono come aree ipoecogene o anecogene in sede parenchimale. Generalmente le cisti hanno un contenuto liquido nettamente anecogeno e appaiono spesso come strutture rotondeggianti, a contenuto omogeneo. Le cisti devono essere distinte dagli ascessi prostatici, il cui contenuto normalmente presenta echi mobili per la presenza di materiale corpuscolato, con una superficie interna della cavità molto più irregolare. Altro mezzo d’indagine è rappresentato dalla radiografia che può essere eseguita in bianco, oppure con mezzo di contrasto negativo o positivo. All’esame radiografico la prostata normale appare di forma ovoidale con un contorno liscio e struttura omogenea. L’aumento di volume della ghiandola può determinare lo spostamento della vescica in senso craniale o ventrale e la dislocazione dorsale del colon. Per l’evidenziazione delle cisti prostatiche la proiezione latero-laterale permette di distinguerle come masse sferiche a superficie regolare con la stessa opacità dei tessuti molli. In caso di IPB gli esami di laboratorio sul sangue e sulle urine sono, di solito, nella norma. Ai fini diagnostici riveste grande importanza, oltre all’esame batteriologico, l’esame citologico che può essere eseguito sulla liquido prostatico, ottenibile con l’aspirazione ecoguidata, il massaggio prostatico e l’impronta ottenuta da un campione bioptico. Il quadro citologico riscontrabile in caso di IPB è simile a quello di un cane sano anche se le cellule possono risultare più numerose ed aggregate in ammassi più grandi. Nei cani affetti da IPB, l’esame dell’eiaculato evidenzia una riduzione del volume ed una frequente presenza di sangue specie nella terza frazione.


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Anche le patologie infiammatorie, rappresentate da prostatiti acute, croniche o ascesso prostatico, sono di frequente rilievo. L’ascesso prostatico si sviluppa in seguito ad una prostatite acuta o secondariamente ad una infezione ascendente, solitamente sostenute da Escherichia coli, associata ad IPB. I soggetti manifestano anoressia, disuria, dischezia, ipertermia ed tenesmo vescicale e rettale associato a deambulazione incerta. La palpazione rettale, alle volte dolorosa, evidenzia una certa asimmetria ghiandolare per la presenza di aree nodulari. Tali aree appaiono ecograficamente come aree ipoecogene o anecogene. Nelle immagini radiografiche in bianco si evidenzia l’aumento di volume della prostata e occasionalmente aree di mineralizzazione. Dal punto di vista diagnostico riveste una notevole importanza anche l’esame citologico e batteriologico del liquido prostatico che spesso contiene numerosi batteri, leucociti e talvolta eritrociti. I soggetti affetti da forme acute di prostatite possono presentare anoressia, febbre, disuria, dischezia, perdite ematiche ed tenesmo rettale e vescicale. Possono inoltre manifestare una certa difficoltà deambulatoria associata a dolorabilità alla palpazione dell’addome. La diagnosi di prostatite si basa principalmente sulla sintomatologia, su test ematologici e sull’analisi delle urine e del liquido prostatico. Le prostatiti croniche possono, a differenza delle precedenti, risultare asintomatiche se non per lievi perdite ematiche associate a disuria e dischezia. Dal punto di vista diagnostico risultano utili l’esame ecografico della ghiandola che può mettere in risalto un aumento dell’ecogenicità (prostatiti croniche) o un calo (prostatiti acute) dell’organo e l’analisi batteriologica del liquido prostatico. L’esame citologico dei campioni ottenuti tramite ago-aspirazione o lavaggi prostatico, presenterà elevata cellularità ed una notevole numero di neutrofili e batteri. Il tumore prostatico descritto con maggior frequenza è l’adenocarcinoma. Tale neoplasia colpisce in genere soggetti anziani e metastatizza con maggiore frequenza a carico dei linfonodi iliaci, polmoni, vescica urinaria, mesentere, retto e ossa. Nonostante la sintomatologia manifestata sia simile a quella di altre patologie prostatiche, i soggetti colpiti possono presentare una progressiva perdita di peso e una notevole difficoltà di deambulazione. All’esame rettale

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è generalmente presente un aumento di volume dell’organo associato ad un certo grado di asimmetria per la presenza di formazioni nodulari ed aree cistiche. L’esame radiografico evidenzierà la presenza di una massa nella porzione caudale dell’addome, reperto che potrà essere confermato dall’esecuzione di un esame ecografico che insieme all’esame citologico risulterà fondamentale per una corretta diagnosi. All’esame citologico si evidenzieranno la presenza di numerose cellule epiteliali. In seguito ad un trauma, le lesioni che si possono riscontrare a carico della prostata possono essere: ematomi, lacerazioni e contusioni della capsula. I traumi che richiedono una maggiore attenzione sono emorragie quelli che determinano la lacerazione uretrale con perdita di urina. Si possono avere anche con conseguente emoperitoneo. La presenza inoltre di i di fratture delle ossa del bacino possono causare fenomeni compressivi di ostruzione urinaria che con il tempo favoriscono l’insorgenza di stati di iperazotemia ed uremia gravi ed una possibile rottura della vescica sovradistesa. In seguito alla somministrazione esogena di estrogeni o in seguito alla presenza di Sertoliomi, la ghiandola prostatica può andare incontro a fenomeni di metaplasma squamosa. La sintomatologia riscontrata in questi casi è limitata ad una lieve ematuria, ad alterazioni cutanee riferibili ad un quadro di iperestrogenismo e a possibili cambiamenti di carattere del soggetto. La palpazione rettale rivela anche in questi casi, l’aumento di volume ghiandolare e l’esame citologico eseguito sul liquido prostatico evidenzia la presenza di voluminose cellule epiteliali squamose singole o a gruppi. Anche l’esecuzione di un tampone prepuziale può essere utile al fine di evidenziare l’esistenza di neoplasie testicolari estrogenosecernenti che possono provocare metaplasma prostatica. Indirizzo per la corrispondenza: Prof. Daniele Zambelli Dipartimento Clinico Veterinario Sez. Ostetrico-Ginecologica Facoltà di Medicina Veterinaria Alma Mater Studiorum - Università di Bologna via Tolara di Sopra, 50, 40064 Ozzano Emilia (Bo) Italia Tel. -39-51-2097572/989 - Fax. -39-51-2097568 E-Mail: zambelli@vet.unibo.it


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Chirurgia prostatica nel cane e nel gatto Daniele Zambelli Med Vet, Dipl ECAR, Bologna

Le terapie oggi a disposizione per la risoluzione delle patologie prostatiche sono sicuramente più efficaci rispetto al passato, permettendo non solo di ottenere un elevato numero di guarigioni riducendo il numero delle recidive, ma anche di salvaguardare l’attività riproduttiva dell’animale. Sia le terapie di tipo medico, con l’utilizzo del finasteride, che quelle di tipo chirurgico, come l’omentalizzazione prostatica, consentono di evitare la classica terapia consigliata in passato per tutte le patologie prostatiche: l’orchiectomia. Tale procedura, sicuramente molto utile in alcuni casi come ad esempio forme di iperplasia benigna particolarmente gravi, può essere a volte evitata al fine di non perdere, dal punto di vista riproduttivo, soggetti di elevato valore. Vengono di seguito trattate le varie tecniche chirurgiche per il trattamento delle principali patologie prostatiche. In caso di iperplasia prostatica benigna clinicamente manifesta la terapia chirurgica consigliata è l’orchiectomia. Mancando infatti lo stimolo ormonale viene favorita con il tempo la riduzione del volume della prostata evitando così l’insorgenza di eventuali recidive. Tale terapia viene comunque consigliata in tutti i casi di patologia prostatica associata ad eventuali altre terapie di tipo medico-chirurgiche. Nella pratica è stato dimostrato che l’utilizzo del finasteridein alternativa all’orchictomia, soprattutto nei casi meno gravi permette di ottenere ottimi risultati clinici, salvaguardando nel contempo il valore riproduttivo di questi soggetti. Le tecniche chirurgiche utilizzate per la risoluzione di cisti e ascessi prostatici prevedono il drenaggio e la loro resezione accompagnata se necessario da prostatectomia parziale o totale associata ad intervento di orchiectomia. La tecnica del drenaggio di Penrose, ormai superata, prevedeva dopo l’incisione della cavità asessuale, l’inserimento di uno o più drenaggi attraverso le facce ventrolaterali dei lobi prostatici al di sopra dell’uretra. Il drenaggio terminava attraverso l’incisione della parete addominale a livello della regione inguinale e veniva lasciato in situ generalmente per 2-3 settimane. La marsupializzazione in genere veniva utilizzata per il trattamento delle cisti prostatiche ricorrenti solitamente abbinata ad interveto di orchiectomia al fine di evitare possibili recidive. Una volta eseguita una incisione addominale parapeniena dall’ombelico fino all’ingresso del bacino veniva isolata la ghiandola prostatica ed individuate le lesioni. Sulla parete addominale, lateralmente al prepuzio ed in corrispondenza della lesione, veniva quindi praticata una seconda incisione. La parete della cisti veniva poi suturata alla fascia esterna del muscolo retto quindi incisa e tramite una siringa sterile il suo contenuto veniva aspirato. Una seconda sutura era infine applicata tra il margine della cute ed il mar-

gine della cisti. Il drenaggio poteva quindi chiudersi in modo permanente o persistere per diverse settimane con il rischio di infezioni secondarie. Per tale motivo questa tecnica è stata ormai abbandonata e sostituita dalla più sicura omentalizzazione. Questa metodica chirurgica di recente impiego è stata inizialmente proposta nell’uomo e successivamente impiegata anche nei carnivori domestici per il trattamento di cisti e ascessi prostatici. Tale procedura, permette di ottenere buoni risultati anche a lungo termine fornendo inoltre al paziente un periodo postoperatorio migliore ed al proprietario una migliore gestione dell’animale. Tale metodica offre inoltre il vantaggio di essere di semplice esecuzione e di presentare un’incidenza molto bassa di complicanze post-operatorie. L’omento grazie alle sue caratteristiche angiogeniche ed immunogene fornisce un supporto ideale nei processi riparativi. Esso fornisce infatti un incremento nell’apporto vascolare e linfatico ai tessuti danneggiati, favorendone così la ricostruzione. Per queste proprietà l’omento viene utilizzato nella risoluzione chirurgica di diverse patologie. Dopo inserimento di un catetere urinario viene eseguita una incisione addominale parapeniena dall’ombelico fino all’ingresso del bacino. Una volta completato l’isolamento della ghiandola ed individuate le lesioni si procede tramite una siringa sterile a rimuovere il materiale contenuto nalla/e cavità al fine di ridurre la pressione interna. Viene quindi praticato tramite una o più incisioni il drenaggio completo del materiale purulento ed una volta terminato il “curettage” dei margini delle lesioni si provvede al lavaggio della stesse con tintura di iodio e soluzione fisiologica. A questo punto un lembo di omento viene introdotto all’interno della lesione ed infine fissato alla capsula prostatica con punti di ancoraggio non stretti in materiale riassorbibile. L’alcolizzazione ecoguidata, tecnica per-cutanea utilizzata per il trattamento di cisti ed ascessi prostatici permette il drenaggio ed il successivo trattamento della cavità; è stata proposta come tecnica non invasiva e relativamente indolore e come tale può essere eseguita anche in assenza di anestesia. L’alcolizzazione consente di evitare interventi chirurgici diretti sulla prostata e/o di orchiectomia in soggetti anziani o di posticipare, se necessario, tali trattamenti in soggetti riproduttori. L’alcol, come agente terapeutico è già stato utilizzato in passato in medicina umana per il trattamento delle lesioni neoplastiche del fegato. L’effetto tossico dell’alcol sarebbe legato ad un danno diretto sulla cellula per un meccanismo di disidratazione ed un danno indiretto per l’ischemia da arresto o riduzione del flusso ematico in seguito alla formazione di trombi endovasali. Il tessuto danneggiato andrebbe quindi incontro ad una immediata necrosi coagulativa seguita dalla formazione di tessuto fibrotico.


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Dopo depilazione e disinfezione cutanea, si procede all’aspirazione ecoguidata del liquido contenuto all’interno delle lesioni prostatiche mediante l’utilizzo di aghi spinali. Nella cavità residua viene successivamente introdotta una quantità di alcol assoluto pari ad 1/3 circa del contenuto precedentemente aspirato. Alla fine delle iniezioni, l’ago viene lasciato in sede per circa 30 secondi e poi estratto lentamente al fine di evitare il reflusso dell’alcol nella cavità peritonale. Quest tipo di trattamento permette di ottenere ottimi risultati in caso di ascessi prostatici soprattutto se di piccole dimensioni e mono cavitari. Risultati inferiori si ottengono nel trattamento delle formazioni cistiche che più di frequente recidivano. La prostatectomia totale può essere utilizzata nei casi di neoplasia prostatica, traumi o ascessi ricorrenti anche se per questi ultimi tale procedura risulta meno consigliabile a causa dell’elevato tasso di incontinenza che ne consegue. La prostatectomia totale richiede l’asportazione anche del tratto di uretra prostatica. Dopo aver inserito un catetere urinario si procede con una accurata dissezione dell’organo. In particolare è necessario evidenziare, allacciare e poi tagliare tutti i

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vasi che arrivano alla prostata e che sono situati dorso lateralmente all’organo. Particolare attenzione deve essere fatta nel non ledere le arterie prostatiche uretrali e vescicali e le terminazioni nervose che servono la vescica urinaria e l’uretra membranosa. L’intervento procede con l’asportazione dell’organo incidendo a tutto spessore cranialmente e caudalomente all’organodopo aver retratto momentaneamente il catetere. L’applicazione di punti di sutura in filo riassorbibile, tra uretra e collo della vescica, permette di eseguire l’anastomosi tra queste due strutture.

Indirizzo per la corrispondenza: Daniele Zambelli Dipartimento Clinico Veterinario Sez. Ostetrico-Ginecologica Facoltà di Medicina Veterinaria Alma Mater Studiorum - Università di Bologna via Tolara di Sopra, 50, 40064 Ozzano Emilia (Bo) Italia Tel. -39-51-2097572/989 - Fax. -39-51-2097568 E-Mail: zambelli@vet.unibo.it


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La biopsia renale: quando e come effettuare una biopsia renale che possa avere massima utilità nella gestione del paziente affetto da nefropatia proteinurica Andrea Zatelli Med Vet, Reggio Emilia

Paola D’Ippolito, Med Vet, Reggio Emilia

Con il termine nefropatia si identifica ogni malattia renale; per insufficienza renale (IR) si intende la riduzione di funzionalità che viene determinata tramite il Tasso di Filtrazione Glomerulare (TFG). La quantificazione del TFG richiede iter diagnostici non sempre attuabili a livello ambulatoriale e spesso di difficile fruibilità sul territorio. Fortunatamente,la creatinina sierica si correla molto bene al TFG ed è diventata nel tempo un importante marker di insufficienza renale. La nefropatia può coincidere o meno con una condizione di IR. L’individuazione di una nefropatia richiede quindi l’utilizzo di markers diversi dalla creatinina sierica; i markers maggiormente utilizzati in medicina veterinaria sono quelli urinari e tra questi un ruolo di primaria importanza è svolto dalle proteine. Le proteine presenti nelle urine possono essere di origine glomerulare (proteine di PM ≥ 69000 Dalton) e/o di origine tubulare (proteine di PM < 69000 Dalton) e la loro determinazione può essere quantitativa o qualitativa. Con la determinazione quantitativa viene calcolato quante proteine sono presenti nelle urine del paziente e con la determinazione qualitativa si risale al tipo di proteine presenti nel campione e conseguentemente alla loro origine. Nel caso di un paziente nefropatico proteinurico si ha evidenza, in medicina veterinaria, della difficile individuazione del tipo di nefropatia solo sulla scorta dei parametri clinici e laboratoristici senza l’ausilio della biopsia renale. Se l’importanza della biopsia renale è oggi unanimente riconosciuta, devono essere tenuti ben presenti gli obiettivi da raggiungere per l’esecuzione di tale indagine in termini di: • adeguatezza del campione • accuratezza diagnostica • rischio Numerosi Autori hanno tentato di definire l’adeguatezza del campione in termini di numero minimo di glomeruli nel campione da sottoporre ad indagine istologica in ottica convenzionale. In medicina veterinaria, il numero minimo di glomeruli per considerare adeguato un campione bioptico è di 5 per sezione istologica. Sono stati eseguiti studi relativi all’utilizzo dello strumentario e correlazione con il numero di glomeruli campionati che hanno permesso di evidenziare una sostanziale sovrapposizione nel numero di glomeruli ottenuto con strumenti automatici e semiautomatici. L’adeguatezza del campione e l’indice di rischio durante l’esecu-

zione di un intervento bioptico per via transcutanea sono direttamente correlati alla corretta identificazione del rene. La tecnica di identificazione del rene durante il campionamento è oggi ottenuta per via ecografica nella quasi totalità delle biopsie effettuate in sede non chirurgica anche se è possibile ricorrere a varie modalità di localizzazione dell’organo (Tab. 1). La biopsia eco-assistita od eco-guidata offre il vantaggio della facile reperibilità dello strumentario sul territorio, della velocità di esecuzione e riduzione del rischio anestesiologico, non necessita della somministrazione di mezzi di contrasto, permette il controllo del paziente dopo l’intervento bioptico. Possiamo quindi affermare che la tecnica eco-assistita od eco-guidata riduce complessivamente il costo e l’indice di rischio dell’intervento bioptico renale. È inolte opportuno che ogni paziente che viene sottoposto a biopsia renale venga preliminarmente valutato clinicamente ed ecograficamente per escludere altre cause di proteinuria non renale o condizioni patologiche che non lo rendano idoneo all’intervento o limitino le possibilità di applicazione dello stesso (Tab. 2). Il paziente candidato all’esecuzione della biopsia renale deve essere sottoposto a preliminare valutazione del profilo emocoagulativo (aPTT, PT, Fibrinogeno), esame emocromocitometrico o determi-

Tabella 1 Vie di accesso e tecniche di localizzazione del rene durante intervento bioptico renale Vie di accesso

Percutanea Chirurgica a cielo aperto Laparoscopica

Tecniche di localizzazione

Addome a vuoto Ecografia intermittente Ecografia continua TAC/TAC intermittente Fluoroscopia durante urografia Urografia


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Tabella 2 Controindicazioni all’intervento bioptico renale Paziente monorene Sospetta pielonefrite Rene policistico Idronefrosi/Pionefrosi Neoplasia a rischio di metastatizzazione per intervento bioptico

mg/kg IM 30 minuti prima della induzione tramite Propofolo (6,5 mg/kg EV). Dopo l’esecuzione dell’intervento bioptico il paziente viene monitorato per un periodo di 90-180 minuti. Durante il periodo di monitoraggio viene effettuata fluidoterapia con somministrazione endovenosa di cristalloidi (solitamente soluzione fisiologica) a dosaggio di mantenimento (60 ml/kg/24 ore nel cane e 40 ml/kg/24 ore nel gatto) e vengono rivalutati a 30 e 90 (180) minuti l’ematocrito e la stima piastrinica.

Bibliografia

Alterazioni gravi, non correggibili della coagulazione Rene terminale (End stage kidney)

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nazione dell’ematocrito, stima piastrinica. Le trombocitopatie che possono essere presenti in corso di malattie infettive o condizioni patologiche di altre origini (es. malattia di V. Willebrand) possono essere valutate associando agli esami precedentemente elencati il tempo di sanguinamento buccale (MBT). Il paziente ideale da sottoporre ad intervento bioptico renale sarà quello proteinurico, con parametri di funzionalità renale nei limiti di normalità, con esame ecotomografico renale normale, profilo emocoagulativo normale, non anemico, con stima piastrinica adeguata e senza segni di trombocitopatia. Il paziente da biopsare viene sottoposto ad anestesia di breve durata dopo premedicazione con farmaci ad azione analgesica; un protocollo utilizzabile nel cane è quello che prevede la somministrazione di Tramadolo al dosaggio di 2

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5.

6.

Rawlings CA, Howerth EW. Obtaining quality biopsies of the liver and kidney, JAAHA 2004 Sep-Oct; 40: 352-358. Vaden SL. Renal biopsy of dogs and cats. Clin Tech Small Anim Pract. 2005 Feb;20(1):11-22. Vaden SL, Levine JF, Lees GE, Groman RP, Grauer GF, Forrester SD. Renal biopsy: a retrospective study of methods and complications in 283 dogs and 65 cats. J Vet Intern Med. 2005 Nov-Dec;19(6):794-801. Zatelli A, Borgarelli M, Santilli R, Bonfanti U, Nigrisoli E, Zanatta R, Tarducci A, Guarraci A. Glomerular lesions in dogs infected with Leishmania organisms. Am J Vet Res. 2003 May;64(5):558-61. Zatelli A, Bonfanti U, Santilli R, Borgarelli M, Bussadori C. Echoassisted percutaneous renal biopsy in dogs. A retrospective study of 229 cases. Vet J. 2003 Nov;166(3):257-64. Zatelli A, D’Ippolito P, Zini E. Comparison of glomerular number and specimen length obtained from 100 dogs via percutaneous echoassisted renal biopsy using two different needles. Vet Radiol Ultrasound. 2005 Sep-Oct;46(5):434-6.

Indirizzo per la corrispondenza: Andrea Zatelli Clinica Veterinaria Pirani - Reggio Emilia E-mail: clinvet-pirani@libero.it


COMUNICAZIONI LIBERE

Le comunicazioni sono elencate in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore presentatore.



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UTILIZZO DELL’ECOGRAFIA E DELLA TC NELLA DIAGNOSI E TRATTAMENTO DEI CORPI ESTRANEI VEGETALI Gabriela Attanasi Dr Med Vet*, Massimo Vignoli Dr Med Vet, SRV*, Giorgia Vizzardelli Dr Med Vet°, Paola Laganga Dr Med Vet*, Paolo Cortelli Panini Dr Med Vet#, Federica Rossi Dr Med Vet, SRV, Dipl. ECVDI*, Rossella Terragni Dr Med Vet, SPCAA-Gastroenterologia* *Libero Professionista – Sasso Marconi (BO) ° Libero Professionista - Perugia # Libero Professionista - Terni Introduzione. La patologia da corpo estraneo migrante è una condizione frequente e spesso risulta essere frustrante sia per le difficoltà diagnostiche, a causa della sua difficile localizzazione, sia per quanto riguarda la rimozione chirurgica. Al momento l’ecografia e la TC come ausilio per lo studio dei corpi estranei migranti sono stati citati in alcuni lavori, dei quali uno solamente descrive in maniera consistente l’utilizzo dell’ecografia come apporto diagnostico e come guida durante la terapia chirurgica. Materiali e metodi. Nel presente studio sono stati considerati 41 cani di diversa razza, età ed attitudine, presentati presso le nostre strutture da settembre 2004 a ottobre 2005 per sospetto di corpo estraneo vegetale. 35 cani sono stati ecografati con sonda lineare 7.5-10 MHz (Esaote Megas GPX) e 4 di questi sottoposti a TC spirale del torace (GE Pro-Speed Power). Altri 6 soggetti sono stati sottoposti solo a TC del torace o addome. Tutti i soggetti sono stati trattati chirurgicamente. Durante la chirurgia la guida ecografica è stata utilizzata in 28 casi. Risultati. Uno o più corpi estranei vegetali sono stati individuati ecograficamente in 32 casi su 35. L’ombra acustica distale non è stata un reperto costante. I corpi estranei sono stati localizzati: 6 nella parete toracica, 5 perineali/perivaginali, 4 inguinali, 15 spazio retroperitoneale/fianco, 1 retrobulbare, 1 mediastinico. In 10 casi, la TC spirale di torace ed addome ha messo in evidenza 1 mediastinite localizzata, 1 ispessimento pericardico, 1 broncopatia (dei bronchi lobari caudali dx e sx e del lobo accessorio), 1 bolla polmonare, 1 pneumatocele, 2 casi di atelettasia polmonare, 1 versamento pleurico, 2 casi di pneumotorace, 5 lesioni polmonari circoscritte, 1 aumento di volume dei linfonodi sternali, lesioni ascessuali nella regione lombare con tragitti fistolosi multipli ed 1 periostite del corpo vertebrale di L4. Nei 4 soggetti studiati con entrambe le tecniche il corpo estraneo è stato visualizzato in 2 casi solo per mezzo dell’ecografia. Chirurgicamente sono stati asportati tutti i corpi estranei visualizzati ecograficamente. La guida ecografia durante la chirurgia è stata un utile ausilio o addirittura fondamentale nella visualizzazione del corpo estraneo in 28 casi. Discussione. Dal seguente studio, risulta che l’ecografia è uno strumento estremamente utile nell’identificazione dei corpi estranei vegetali. Inoltre, grazie alla guida ecografica si è riusciti ad asportare chirurgicamente corpi estranei altrimenti difficilmente visibili. L’esame TC spirale del torace e dell’addome ha consentito nei casi in cui è stata eseguita di evidenziare patologie concomitanti e meglio definire il tragitto che il corpo estraneo ha seguito. In 1 caso ha permesso di visualizzare il corpo estraneo stesso. In conclusione, uno studio associato con ecografia e TC aumenta la sensibilità nel rilevamento dei corpi estranei vegetali e dà indicazioni migliori sull’approccio chirurgico. La chirurgia eco-guidata consente di risparmiare tempo e di aumentare la percentuale di successo, quindi dovrebbe essere considerata come tecnica elettiva di fronte a questa patologia.

Indirizzo per la corrispondenza: Clinica Veterinaria dell’Orologio Via Gramsci 1/4 40037 Sasso Marconi g.attanasi_27@virgilio.it


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TRATTAMENTO CON PROTESI TOTALE D’ANCA NON CEMENTATA DI UNA FRATTURA INVETERATA S.H. TIPO 1, MALCONSOLIDATA DELLA FISI DELLA TESTA DEL FEMORE E PSEUDOARTROSI DEL COLLO FEMORALE IN UN CANE Ermenegildo Baroni Med Vet°*, Giuliana Bonetti Med Vet°, Matteo Gobbo Med Vet°, Maurizio Isola Med Vet* *Istituto di Scienze Veterinarie, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Padova °Clinica Veterinaria Baroni, Rovigo Introduzione. Le fratture articolari non prontamente trattate creano sempre un quadro degenerativo a carico dell’articolazione interessata spesso invalidante per la vita del soggetto. L’avvento delle protesi articolari in medicina veterinaria permette il trattamento di alcuni tipi di fratture che fino ad oggi avrebbero avuto esito poco soddisfacente dal punto di vista funzionale, permettendo un recupero ottimale dell’attività del soggetto. Materiali e metodi. Un cane di razza Labrador, di sesso maschile, dell’età di 14 mesi e del peso di 40 kg, con Body Contro Score (BCS) 4, veniva sottoposto a visita clinica a causa di una zoppia cronica a carico dell’arto posteriore sinistro. La zoppia era persistente da diversi mesi e le terapie antinfiammatorie eseguite precedentemente avevano sortito un effetto negativo. Alla visita clinica si evidenziava una zoppia di 2° all’arto posteriore sinistro. I movimenti passivi dell’articolazione coxo femorale evidenziavano una dolorabilità con esacerbazione dell’algia alla iperestensione e compressione trocanterica. L’indagine radiografica eseguita nella proiezione standard metteva in evidenza una frattura inveterata di S.H. tipo 1 a carico della fisi della testa articolare del femore, consolidata in varo, e pseudoartrosi del collo femorale. L’eziopatogenesi della frattura suggeriva che il distacco fiseale era avvenuto attorno al 6° mese d’età, quando le fisi erano ancora aperte. La frattura del collo del femore che ha poi portato alla formazione della pseudoartosi potrebbe essere avvenuta nello stesso momento della frattura fiseale o anche in un secondo tempo, ma dal punto di vista prognostico la cosa risulta ininfluente. In presenza di tale lesioni si prendono in considerazione principalmente tre opzioni terapeutiche: 1) terapia conservativa; 2) Escissione artroplastica di testa e collo femorale (FHNO); 3) Protesi totale d’anca (THR). In un soggetto giovane pesante ed esuberante come il soggetto in questione, la terapia conservativa risulta essere controindicata, in quanto bisognerebbe tenere il soggetto in terapia con FANS per tutta la vita, non arrestando minimamente l’alterazione degenerativa già presente. L’ostectomia della tesa e del collo femorale in un soggetto pesante (BCS 4) e molto esuberante può portare a benefici limitati, se non nulli, ed è quindi poco è indicata. In questo caso, quindi, la protesi totale d’anca rappresenta, a nostro avviso, la scelta terapeutica ottimale. Si è quindi deciso per un intervento di protesi totale d’anca. In particolare il modello protesico utilizzato e di tipo non cementato commercializzato dalla Biomedtrix, modello BFX. Il planning radiografico preoperatorio ha permesso di valutare le misure proteiche femorali e acetabolari utilizzate: stelo dell’8, testa 17+3 e coppa acetabolare del 28. Durante l’alesatura del canale midollare femorale per il posizionamento dello stelo si è evidenziata la necessità di posizionare uno stelo di dimensioni minori. In particolare è stato inserito uno stelo del 6. Risultati. 24 ore dopo l’intervento il cane appoggiava l’arto in punta e dopo due giorni cominciava già ad appoggiare con più sicurezza e riusciva ad espletare normalmente le sue funzioni organiche. Dimesso in settima giornata il soggetto veniva sottoposto a restrizione del movimento per 25 giorni. Al controllo dopo 30 giorni la deambulazione appariva quasi normale e il soggetto appoggiava sugli arti posteriori senza esitazione. Al controllo radiografico non si notavano ne mobilizzazione delle componenti protesiche ne aree di lisi. Il quadro supportava la sintomatologia clinica del soggetto. Il quadro radiografico eseguito nei successivi controlli a 3 e 6 mesi restava inalterato mentre si aveva una risoluzione della sintomatologia clinica. Conclusione. Lo stelo del 6 è senza dubbio, considerate le misurazioni pre operatorie, sottodimensionato per un femore di tali dimensioni, ma la fibrosi creatasi nella zona sottotrocanterica in seguito alla pseudoartrosi del collo ha impedito di poter inserire uno stelo più adatto alla dimensione reale del canale midollare del femore (prob.num.8). La lesione specifica non comportava particolari complicazioni applicative rispetto al protocollo chirurgico per un’anca artrosica. L’unica differenza riscontrata è stata nel variare l’inclinazione della linea di ostectomia del collo del femore. In questo caso la linea ostectomica è stata fatta eseguita al di sotto della pseudoartrosi, per eliminare più tessuto fibroso possibile. Le lesioni articolari non trattate prontamente e con la maggior precisione possibile portano sempre ad un esito degenerativo con conseguente invalidità della funzione articolare e peggioramento della qualità di vita dell’animale. La chirurgia protesica è sicuramente in grado di ovviare a tutto questo. Resta punto fermo che l’approccio a questo tipo di interventistica comporta una curva di apprendimento lunga nell’ambito della chirurgia ortopedico traumatologica per poter ovviare a eventuali difficoltà che possono insorgere durante l’intervento considerato che si interviene su strutture morfologicamente alterate.

Indirizzo per la corrispondenza: Ermenegildo Baroni Clinica Veterinaria Baroni Via Martiri di Belfiore 69/d 45100 Rovigo E-mail: gildo_baroni@libero.it


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IPOPLASIA DEL PALATO MOLLE IN UN GIOVANE GATTO Massimo Beccati, Laura Barachetti Liberi professionisti, Capriate SG (BG) Introduzione. Le malformazioni congenite del palato secondario possono interessare sia il palato duro che il palato molle, non raramente entrambi. I difetti del palato duro sono relativamente frequenti per contro le anomalie congenite del palato molle sono state segnalate molto sporadicamente. Va tuttavia sottolineato che i difetti del palato molle sono più comuni di quanto si creda, poiché i meccanismi compensatori come l'ipertrofia o/e iperplasia dei muscoli dorsali della faringe e le successive modificazioni dei movimenti della lingua e della faringe durante la deglutizione minimizzano il possibile quadro sintomatologico a questi conseguente. Nel presente lavoro viene descritto un caso di ipoplasia del solo palato molle in un gatto di 6 mesi, affetto da rinite purulenta cronica. A seguito di tale diagnosi si è adottato un approccio terapeutico chirurgico. Caso clinico. Una gatta di sei mesi circa veniva posta alla nostra attenzione per una sintomatologia rinoraggica presente oramai da 4 mesi circa. Pregresse terapie antibiotiche avevano sortito solamente un transitorio miglioramento sintomatologico ma mai una guarigione definitiva. All’esame obbiettivo generale la gatta si presentava in buone condizioni; l’esame obbiettivo particolare metteva in evidenza uno scolo nasale emo-muco-purulento bilaterale, difficoltà respiratorie delle alte vie, starnuti e rumori nasali respiratori. La visita clinica con animale vigile consentiva di evidenziare una ostruzione delle vie respiratorie nasali da parte del materiale purulento; la visualizzazione rapida (paziente non accondiscendente) della cavità buccale non metteva in luce alterazioni macroscopiche. Non riuscendo ad ottenere una effettiva visualizzazione sia delle cavità nasali che di tutta la cavità buccale si provvedeva ad una indagine endoscopica delle suddette aree anatomiche. La sola visualizzazione diretta con animale sedato della cavità buccale con estroflessione della lingua metteva in evidenza l’alterazione anatomica del solo palato molle, il quale si presentava cribrato bilateralmente. Tale anomalia seppur macroscopicamente “bizzarra” può essere classificata come ipoplasia bilaterale del palato molle. La successiva endoscopia delle cavità nasali evidenziava una rinite cronica iperplastica/ipertrofica. L’ispezione dell’area rinofaringea non evidenziava lesioni o masse occupanti spazio riferibili a polipi infiammatori. Vista la giovane età del soggetto si optava per una approccio terapeutico chirurgico del palato molle adottando la tecnica dei lembi mucosali sovrapposti. Il follow up a distanza di 10 giorni evidenziava un netto miglioramento della sintomatologia respiratoria e nessuna atteggiamento disfagica. L’aspetto macroscopico del palato risultava nella sua totalità di aspetto normale ma di dimensioni ridotte in lunghezza. A 60 giorni il paziente manteneva una situazione respiratoria ottimale (senza scolo, assenza di starnuti, assenza di suoni respiratori). Successivamente il paziente è stato perso per il follow up. Discussione. Le malformazioni congenite del palato secondario costituiscono un entità clinica rilevante, benché poco diffusa e di conseguenza poco conosciuta dal punto di vista eziopatogenetico e terapeutico. Molto spesso, tuttavia soprattutto nel gatto la presenza di rinorree croniche sono motivo di “pigrizia” diagnostica e spesso questi pazienti vengono dimessi come affetti da rino-tracheite infettiva cronica. Lo stesso approccio terapeutico permane controverso quando si tratta di anomalie congenite. Nelle ipoplasie del palato molle la terapia può essere conservativa/farmacologia oppure chirurgica a seconda del grado del difetto stesso. Nel nostro caso la terapia chirurgica ha dato risultati soddisfacenti, tuttavia le diverse tecniche descritte in letteratura denotano come l’approccio chirurgico debba essere adattato alla tipologia di malformazione presente.


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SOMMINISTRAZIONE DI ESTRATTO SECCO DI TRIGONELLA FOENUM-GRECUM NEL CANE SPORTIVO AI FINI DEL MANTENIMENTO E DEL MIGLIORAMENTO DELLA PERFORMANCE Andrea Beni1 Med Vet, specialista in “Farmacologia Applicata” (Università di Firenze), perfezionato in “Fitoterapia” (Università di Siena) Con la collaborazione di Claudio Nencini allevatore di Setter Inglesi (Firenze) 1 Libero professionista, Firenze Riassunto. Questo studio si è proposto di indagare gli effetti della somministrazione di estratto secco di Fieno greco sulla capacità prestativa e sullo stato di forma di un gruppo di cani sportivi ad alto livello. Hanno partecipato allo studio 12 cani di razza setter inglese impegnati in competizioni di grande cerca di alto livello. I soggetti sono stati divisi in due gruppi randomizzati. A sei di essi (gruppo FG) veniva somministrato per una durata di 120 giorni dall’inizio della preparazione agonistica 330 mg di ex di Fieno greco. Ai controlli (gruppo PLA) venivano somministrati opercoli vuoti. Descrizione della pianta. Il Fieno greco (Trigonella foenum-graecum), è una pianta erbacea annuale, alta dai 30 ai 60 cm. La droga utilizzata è rappresentata dall’estratto secco dei semi. Il fitocomplesso dotato di attività considerata in Trigonella foenumgraecum è rappresentato da un gruppo di saponine furostanoliche (5-6%). Nei semi di Fieno greco sono state identificate almeno una dozzina di saponine differenti3, la principale di queste è la Diosgenina, insieme ai suoi isomeri. Le proprietà biologiche delle saponine contenute nei semi del Fieno greco ne fanno un ottimo anabolizzante naturale. I suoi componenti possono essere particolarmente utili nei momenti in cui l’organismo va incontro a cambiamenti anche profondi, come ad esempio la vecchiaia, la convalescenza, l’impegno sportivo. Materiali e metodi. Hanno partecipato allo studio 12 cani di razza SETTER INGLESE impegnati in competizioni di “grande cerca” di alto livello agonistico. Tutti i soggetti appartenevano allo stesso allenatore\allevatore ed erano allenati insieme al fine di ottenere una maggiore uniformità della prestazione. Nel periodo dello studio tutti i soggetti hanno ricevuto lo stesso tipo di mangime completo in quantità proporzionali al peso. Venivano allenati in gruppi mescolati con gli stessi tempi e modi. I soggetti sono stati divisi in due gruppi randomizzati. A sei di essi (gruppo FG) veniva somministrato per una durata di 120 giorni dall’inizio della preparazione agonistica 330 mg di ex di Fieno greco con le seguenti modalità: una volta al giorno in opercoli aromatizzati con miele. Ai controlli (gruppo PLA) venivano somministrati opercoli vuoti aromatizzati con miele a scopo placebo. Il proprietario era al corrente del contenuto degli opercoli. All’inizio (T0) ed alla fine (T120) del periodo di supplementazione è stata effettuata una serie di test e di esami per la valutazione della capacità prestativa dei cani atleti. Valutazione della prestazione. Per confrontare i due gruppi ci siamo serviti di alcuni parametri che potessero individuare lo stato di forma di un cane atleta. PESO (vedi tabelle pag. seguente) VALORI EMATICI ED EMATOCHIMICI (vedi tabelle pag. seguente) VALUTAZIONE DELLA FREQUENZA CARDIACA (vedi tabelle pag. seguente) Test della performance. Eseguito su treadmill computerizzato con cardiofrequenzimetro a telemetria breve. Analisi statistica. Le variazioni all’interno di ogni gruppo sono state analizzate con un test “t di Student” per dati appaiati. Il confronto tra i due gruppi è stato effettuato mediante il test “t di Student” per dati non appaiati, applicato alle variazioni percentuali rilevate in ogni soggetto nel test T0 rispetto a T120. Si è considerata significativa una p<0,05. Risultati. La compliance della supplementazione è stata soddisfacente e non sono stati segnalati effetti collaterali. Nella prima serie di test (T0) non si sono mai riscontrate differenze significative tra i due gruppi. Al termine del periodo di supplementazione il gruppo PLA registra un calo significativo di peso mentre il gruppo FG non subisce variazioni. Gli altri parametri metabolici non hanno dimostrato modificazioni significative (Ht aumentato in tutti i soggetti) con l’unica eccezione della HR che mostra una significativa diminuzione (p<0,05) nei tempi di recupero nel gruppo FG mentre resta invariata nel gruppo PLA nello svolgimento del test sul treadmill. Conclusione. Il calo di area muscolare non si verifica nel gruppo FG. È ben noto inoltre che il margine di miglioramento delle qualità aerobiche in cani allenati è piuttosto ridotto, peraltro la significativa riduzione della HR nel gruppo FG è un indice di buona integrazione tra funzionalità cardiaca e muscolare durante l’esercizio. Risulta pertanto da escludere un effetto diretto dell’estratto secco di Fieno Greco sulla capacità di prestazione, viceversa si verifica una azione in sinergia con l’esercizio fisico ripetuto nel perfezionare gli adattamenti funzionali e strutturali. In pratica questa integrazione produce in parallelo con l’allenamento sostanziali modificazioni a livello di efficienza muscolare. Il trattamento induce una risposta adattativa di maggiore intensità allo stimolo allenante. Tale risposta si attua attraverso una più efficace fase di “neo-sintesi-proteica” post esercizio che rappresenta il momento più specifico del fenomeno adattativo. Indirizzo per la corrispondenza: Andrea Beni, Via San Francesco di Paola 10, 50124 Firenze Tel.\fax: 055223315 - Tel. cell.: 3349727360 E-mail: benivet@iol.it


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TABELLE TEST DELLA FREQUENZA CARDIACA (SU TREADMILL CON CARDIOFREQUENZIMETRO A TELEMETRIA BREVE)

GRUPPO FG

GRUPPO PLA

HR A RIPOSO

HR PROVA

HR REC(POST 10’)

T0

89+/- 4,5

193+/-5,8

118+/-2,7

T 120

91+/-3

184+/-4

97+/-3,3

T0

88+/-3,9

191+/-4,2

106+/-5

T 120

83+/-4,2

186+/-6

111+/-9

Sono riportati i valori medi dei due gruppi e la variazione standard. Analisi con test del “t di Student” per dati appaiati: T0 vsT120 con p<0,05 Differenza significativa tra HR RECUPERO T0 T120 post 10’ TEST DELLA PERFORMANCE Eseguito su treadmill computerizzato con cardiofrequenzimetro a telemetria breve. 5’ di riscaldamento corsi alla velocità costante di -5 KM\H di seguito, senza fermare il cane: 5’ alla velocità di -10KM\H 5’ alla velocità di -12KM\H 5’ alla velocità di -12KM\H (con registrazione della HR) ARRESTO DELLA CORSA 10’-di registrazione con il cane in sosta con valutazione della frequenza dopo 10 ‘ ANALISI STATISTICA I dati sono riportati come media +/- deviazione standard dei due gruppi. Le variazioni all’interno di ogni gruppo sono state analizzate con un test “t di Student” per dati appaiati. Il confronto tra i due gruppi è stato effettuato mediante il test “t di Student” per dati non appaiati, applicato alle variazioni percentuali rilevate in ogni soggetto nel test T0 rispetto a T120. Si è considerata significativa una p<0,05. PARAMETRI METRICI E SPORTIVI

GRUPPO FG

N

ETÀ media

KCAL/DIE

PROT. %

PESO KG

6

3.3

2270

25

T0 23.3 T120 24

GRUPPO PLA

6

3.0

2120

25

T0 22.8 T120 20.6

Sono riportati i valori medi dei due gruppi. Analisi con test del “t di Student” per dati appaiati: T0 vsT120 con p<0,05 Differenza significativa tra PESO TO E T120 dei due gruppi. EMATOLOGIA GR (mil/mic litro)

HB (gr/l)

Ht (%)

GRUPPO FG T0

6.4

15.4

43.2

T120

7.32

17.3

47.9

GRUPPO PLA T0

6.8

15.8

44.6

T120

7.0

16.9

47.0

Sono riportati i valori medi dei due gruppi. Analisi con test del “t di Student” per dati appaiati: T0 vsT120 con p<0,05 Nessuna differenza significativa.


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ASPETTI DI PRONTO SOCCORSO E GESTIONE DI UN CUCCIOLO DI GRAMPUS GRISEUS (RISSO’S DOLPHIN) Alessandro Benvenuti1 DVM, Manuel Garcia Hartmann2 DVM, Federica Rossi3 DVM SVIDI, Julia Scharpegge2 DVM 1 Libero Professionista, Roma; 2Zoo di Duisburg; 3 Libero Professionista, Bologna Introduzione. Il Grampo (Risso’s Dolphin o Grampus Griseus) è un mammifero marino che appartiene all’ordine dei Cetacei, sottordine Odontoceti, famiglia Delfinidi. Questo delfino può superare i quattro metri di lunghezza, pesare più di quattrocento chili e presenta una livrea caratteristica della specie; infatti il colore grigio uniforme dei soggetti giovani tende gradualmente a schiarirsi con il tempo, fornendo anche un’indicazione per determinare l’età, per la presenza sempre maggiore di cicatrici bianche ed irregolari, dovute alla depigmentazione di zone colpite da ferite accidentali e da morsi di altri individui dello stesso gruppo durante le interazioni sociali. Morfologicamente è tipica la mancanza di un rostro evidente, capo rotondeggiante, con una corporatura più tozza che non limita comunque le sue notevolissime capacità natatorie. La pinna dorsale si presenta alta e falcata situata sulla metà del corpo. Si nutre prevalentemente di calamari (teutofaga); la gestazione dura dai tredici ai quattordici mesi con il raggiungimento della maturità sessuale intorno ai due metri e mezzo di lunghezza (circa sette anni nella femmina, nel maschio è sconosciuta). Il piccolo quando nasce può misurare circa un metro e mezzo. Si presume che i cuccioli vivono con la madre per circa quattro anni ed il loro rapporto è molto forte. Come habitat predilige acque profonde fino a mille metri. Come distribuzione è diffuso nelle acque profonde tropicali e caldo-temperate oceaniche; nel Mediterraneo è presente in prevalenza nella parte occidentale. I Grampi vivono normalmente in gruppi di una o due dozzine di soggetti di tutte le età e sesso. Si possono riscontrare in natura gruppi di Grampi che si sono aggregati ad altri di Globicefali o Tursiops truncatus. Il caso clinico. Il 19 Giugno 2005 venivo contattato dai responsabili della Fondazione Cetacea e dalle Autorità militari locali preposte, per l’avvistamento di due Grampi all’interno del porto di Ancona. I due soggetti, un adulto di oltre tre metri di lunghezza e un piccolo di meno di due metri, erano presenti nelle acque del porto dal giorno prima ed erano stati vani i tentativi delle Autorità e dei biologi di riportarli al largo. Dopo aver osservato gli animali (era chiaro che si trattasse di una femmina adulta perché il cucciolo si allattava ancora dalla madre) per circa due ore ed aver preso tutte le informazioni necessarie dalle persone preposte per la loro osservazione, esprimevo il mio parere in qualità di esperto veterinario per l’intervento e per la loro ospedalizzazione, in accordo con gli organi ministeriali e della pubblica sanità presenti: gli elementi di osservazione in mio possesso, la profondità e le pessime condizioni dell’acqua del porto rendevano improponibile il ricovero in un’area portuale stessa. Infatti le gravi condizioni cliniche della madre ma anche del cucciolo erano evidenziate dalla frequenza dei loro atti respiratori, dalla tipologia e dalla frequenza delle apnee, dai problemi di bilanciamento (del soggetto adulto) e dal comportamento del cucciolo nei confronti della madre e viceversa. Ci siamo attivati per la cattura decidendo di ricoverarli in una piscina dove avremmo potuto effettuare tutti gli accertamenti del caso. Metodi impiegati. Gli animali venivano sottoposti ad una prima visita clinica completa all’atto del trasporto per poi provvedere ai primi prelievi che prevedevano gli esami del sangue (emato-biochimico completo, elettroliti, elettroforesi, ormoni), ricerche dallo sfiatatoio (colture per batteri e miceti con antibiogramma), esame delle feci ed anche ricerche strumentali come un ecografia completa e l’auscultazione digitale computerizzata. Risultati ottenuti. Anche se purtroppo non ci fu niente da fare per la madre, la cucciola di Grampo nonostante le sue gravi condizioni cliniche (polmonite, gravi lesioni della cute con ferite profonde ed infette e gravi sofferenze gastroenterica ed epatica) ed il passaggio ad una alimentazione forzata artificiale (formula speciale a base di latte composto, calamari, aringhe, ed integratori), è stata portata al completo svezzamento e si è riusciti a supplire all’improvvisa mancanza della madre. Conclusioni. Mary G, così è stata chiamata la cucciola, dopo più di due mesi di terapie intensive è stata trasportata in una nuova piscina più tecnologica dove ha potuto, oltre a continuare le terapie, anche avere un’interazione intraspecifica con dei tursiopi che vivono in ambiente controllato. Non essendoci pressoché nulla in letteratura veterinaria sul trattamento, sullo svezzamento, sul comportamento e sulla gestione di un cucciolo di Grampo spiaggiato ospedalizzato e mantenuto in vita, questo caso ha avuto una risonanza mondiale nella comunità scientifica mondiale che opera nel campo dei mammiferi marini per la quantità di dati e di osservazioni che si sono potute raccogliere in questo anno di cure.

Indirizzo per la corrispondenza: Alessandro Benvenuti Tel. 06-86205454 E-mail: benvet@tiscali.it


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RADICOLOPATIA ASSOCIATA A PRESENZA DI GAS NEL CANALE SPINALE: VALUTAZIONE MEDIANTE TC MULTISTRATO Giovanna Bertolini1 Med Vet, Nicola Ottolini1 Med Vet, Gianluca Ledda1 Med Vet 1 Libero Professionista, Padova Obiettivo. La presenza di gas all’interno di articolazioni periferiche o negli spazi articolari vertebrali è un segno radiografico documentato nell’uomo e negli animali sia in radiologia convenzionale che in tomografia computerizzata (TC) ed è conosciuto con il termine “vacuum” fenomeno. La presenza di gas, prevalentemente nitrati, negli spazi intersomatici della colonna avviene in diverse circostanze fisiologiche e patologiche, ad esempio nella degenerazione discale, frattura vertebrale, in corso di metastasi o infezioni. Il gas può interessare anche le faccette articolari, i corpi vertebrali e lo spazio epidurale. In quest’ultimo caso è descritto associato al “vacuum” fenomeno discale oppure a seguito di interventi chirurgici e procedure diagnostiche (es. mielografia). Nell’uomo esistono pochi casi descritti di gas nello spazio peridurale, non associata ad altri segni radiografici, in pazienti con sintomatologia riferibile a compressione midollare e radicolare. Non esistono pari segnalazioni nel cane. Nel presente lavoro vengono descritti 3 casi di accumulo di gas epidurale, non accompagnato da altre alterazioni, in cani sottoposti ad indagine tomografica per dolore toraco-lombare. Materiali e metodi. Sono state valutate le immagini TC di 250 cani sottoposti ad esame della colonna cervicale e/o toraco-lombare e/o lombo-sacrale presso la nostra struttura tra ottobre 2003 ed ottobre 2005, con la finalità di individuare la presenza di gas spinale, in assenza di altre lesioni. I cani con patologie infiammatorie o neoplastiche note sono stati esclusi dal lavoro, così come i pazienti traumatizzati. Sono stati esclusi i cani con presenza di gas associata a degenerazione discale. Infine, non sono stati considerati i soggetti precedentemente sottoposti ad interventi chirurgici o analgesici spinali. Gli esami sono stati eseguiti con TC multistrato 16 (GE Medical Systems, Milwaukee, WI, USA) con il paziente in anestesia generale, in decubito dorsale per le scansioni toraco-lombari e lombo-sacrali e decubito sternale per l’esame della colonna cervicale. Il protocollo utilizzato è il seguente: 120 kVp, 180-200 mA (a seconda della taglia del cane), 0,625-1,2 mm spessore di strato, pitch of 0.562:1, con 0.7-1.0 sec di rotazione. È stata effettuata la valutazione quantitativa densitometrica (Housfiled Units -HU) mediante apposizione di una regione di interesse (ROI) sull’area gassosa evidenziata. Risultati. Tre cani maschi interi sono stati inclusi nel presente studio. L’età media (±SD) è 6,3 ± 4,04 anni ed il peso medio (±SD) è di 21 ± 19,15 kg. Le razze interessate: Rottweiler (n=1), Beagle (n=1) e meticcio (n=1). I valori di attenuazione delle lesioni gassose variano da -478 HU a -970 HU. Il gas è stato rilevato a livello toracico in tutti e tre i casi con interessamento dei segmenti toracici da T8 a T11, sia destro che sinistro, con interessamento foraminale e non sono stati evidenziati altre anomalie all’esame tomografico. Conclusioni. È stata documentata con TC multistrato la presenza di gas epidurale nella colonna toracica di cani con dolore toraco-lombare, in assenza di alterazioni associate. La compressione causata dal gas localizzato in prossimità del forame può causare sintomi clinici riferibili a radicolopatia compressiva, come documentato nell’uomo. Bibliografia Weber W.J, Berry C.R, Kramer R.W. Vacuum phenomenon in twelve dogs. Vet. Radiol. Ultrasound 1995;36(6):493-498. Hathcock J.T.Vacuum phenomenon of the canine spine: CT findings in 3 patients. Vet. Radiol. Ultrasound 1994;35(4):285-289. Bree H van.Vacuum phenomenon associated with osteochondrosis of the scapulohumeral joint in dogs:100 cases (1985-1991) JAVMA 1992; 201(12):1916-1917. Schwarz T, Owen M.R, Sullivan M. Vacuum disk and facet phenomenon in a dog with cauda equina syndrome JAVMA 2000;217(6):862-864. Larde D, Mathieu D, Frija J, Gaston A, Vasile N. Spinal vacuum phenomenon: CT diagnosis and significance. J Comput Assist Tomogr 1982 Aug; 6(4):671-6. Stallenberg B, Madani A, Burny F, Genevois PA. The vacuum phenomenon: CT sign of a nonunited fracture AJR. 2001 May;176(5):1161-4. Gulati A.N, Weinstein Z.R. Gas in the spinal canal in association with the lumbosacral vacuum phenomenon: CT findings. Neuroradiology1980 Dec; 20(4):191-2. Nay PG, Milaszkiewicz R, Jothilinham S. Extradural air as cause of paraplegia following lumbar analgesia. Anaesthesia1993 May;48(5):402-4. Kaymaz M, Oztanir N, Emmez H, Ozkose Z, Pasaoglu A.Epidural air entrapment after spinal surgery. Clin Neurol Neurosurg. 2005Aug;107(5):421-4. Giraud F, Fontana A, Mallet J, Fisher LP, Meunier PJ. Sciatica caused by epidural gas. Four cases reports. Joint Bone Spine 2001 Oct; 68(5):437-7. Tsitouridis I, Sayeg FE, Papapostolou P et al. Disc-like herniation in association with gas collection in the spinal canal: CT evaluation.

Indirizzo per la corrispondenza: Giovanna Bertolini Clinica Veterinaria Privata San Marco Via Sorio 114/c - 35141 PADOVA Tel. +390498561098 Fax +3902700518888 E-mail: bertolini@sanmarcovet.it


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ELETTROMIOGRAFIA IN UN CONIGLIO CON LESIONE DEL NERVO SCIATICO Pierfrancesco Bo Med Vet Libero professionista, Bologna Scopo del lavoro. Dimostrare la validità dell’esame elettromiografico nel coniglio. Per far ciò consideriamo il caso clinico di una coniglietta nana di quattro mesi, portata alla visita in quanto schiacciata accidentalmente dal proprietario. Alla visita il soggetto, pur avendo un buono stato generale, presentava lieve difficoltà alla deambulazione, con una tendenza alla deviazione laterale dell’arto posteriore sinistro; alla palpazione di tutte le estremità ossee e della colonna vertebrale non si evidenziavano né dolore né parvenza di fratture o lussazioni. Le articolazioni, compresa quella del ginocchio, erano stabili ed anche i riflessi dolorifici erano presenti. Veniva in ogni modo effettuato uno studio radiografico, con soggetto non sedato, consistente in due lastre eseguite in proiezione ventro-dorsale e latero-laterale, che non evidenziavano nulla di rilevante. Eseguita una prima somministrazione di antidolorifico, antibiotico, cortisone con dosaggio a scalare e gastroprotettore, si rimandava il caso ad una più approfondita valutazione dopo diciotto ore di riposo essendovi anche la possibilità che la sintomatologia derivasse da un trauma moderato del midollo spinale con edema localizzato. Al successivo controllo non si evidenziavano ulteriori miglioramenti, ma il proprietario optava per tenere il soggetto a riposo senza effettuare nuovi accertamenti. Dopo quindici giorni il coniglio però, oltre a peggiorare la deambulazione (accentuando la deviazione laterale del posteriore), incominciava a presentare un’abrasione da leccamento a livello del tarso sinistro. L’arto presentava in ogni caso sensibilità profonda e superficiale e la manipolazione dello stesso non evocava dolore. Metodo impiegato. A settembre il soggetto veniva sottoposto ad una visita neurologica visto anche il perdurare della zoppia. Il controllo evidenziava assenza di dolore profondo e ipotrofia di tutti i gruppi muscolari dell’arto interessato con facile lussazione della rotula. L’articolazione del ginocchio appariva però funzionante. Nella stessa seduta veniva quindi compiuta un’elettromiografia (EMG). Per l’esecuzione della stessa, il coniglio è stato dapprima premedicato usando ketamina, medetomidina e butorfanolo, inoculati sottocute in cocktail nella medesima siringa, proseguendo, in seguito, impiegando isofluorano in maschera. Non si è ritenuto opportuno, poiché sconsigliato in questo tipo d’animale, far precedere l’anestesia ad un periodo di digiuno. L’esame è stato effettuato con animale in decubito laterale con pulizia ed antisepsi della parte da esaminare eseguita con clorexidina. Risultati ottenuti. La procedura diagnostica evidenziava attività spontanea in tutti i muscoli dell’arto posteriore sinistro innervati dal nervo sciatico. Tali potenziali risultavano molto più evidenti distalmente al ginocchio che a livello di muscolatura posteriore della coscia come a testimoniare una lesione medio-distale del nervo, anche se non si poteva escludere che si trattasse di un primo segno di reinnervazione. Il medesimo esame, effettuato sull’arto controlaterale, non mostrava invece alterazione alcuna. Per favorire il risveglio del soggetto e ridurre l’insorgenza di effetti collaterali, è stato quindi somministrato atipamezolo, enrofloxacin e metoclopramide. Alla visita successiva, effettuata dopo quarantacinque giorni, l’arto appariva però stabilmente deviato lateralmente a causa di un’anchilosi dell’articolazione femoro-tibio-rotulea. Al peggioramento dell’ipotrofia dei gruppi muscolari dell’arto e all’assenza di dolore sia superficiale sia profondo, si aggiungevano alle preesistenti escoriazioni sul tarso nuove lesioni presenti in alcune falangi. Pur prendendo in considerazione l’esecuzione di una successiva elettromiografia per meglio valutare la possibilità di una reinnervazione, veniva prospettata anche la possibilità di amputazione dell’arto ma, visto anche la discutibilità sull’etica di questo intervento in un coniglio, il proprietario preferiva aspettare successivi sviluppi. All’ultimo controllo, eseguito in dicembre, le lesioni da leccamento sull’arto sono in parte regredite, l’arto posteriore sinistro rimane stabilmente deviato verso l’esterno, e la coniglietta si è adattata a questa sua nuova condizione tanto da rimanere gravida e partorire, senza necessità d’intervento chirurgico, un coniglietto sano. Conclusioni. L’elettromiografia può essere considerata come una valida estensione dell’esame neurologico anche negli animali non convenzionali.

Indirizzo per la corrispondenza: Pierfrancesco Bo Via Marino Dalmonte 7 40135 Bologna Tel. 051 6153393 - Cell. 333 6505381 E-mail: fraecol@libero.it


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UN CASO INSOLITO DI OSTEOPATIA CRANICA IN UN LABRADOR RETRIEVER S. Boiocchi1 Med Vet, A. Jacchetti1 Med Vet, C.M. Mortellaro1 Med Vet Prof, M. Di Giancamillo2 Med Vet Prof, M. Silkstone3 BVSc, MRCVS Dipl ACVP, D. Olivero4 Med Vet 1 Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Chirurgica Veterinaria, Università degli Studi di Milano. 2 Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Seazione di Radiologia Clinica e Sperimentale Veterinaria, Università degli Studi di Milano. 3Abbey Veterinary Services, Devon, UK. 4Medico Veterinario libero professionista, BiEsseA, Milano Introduzione. Fibroma aponeurotico calcificante, displasia fibrosa monostotica, fibroma ossificante, osteoma, osteopatia craniomandibolare (OCM) e iperostosi idiopatica del calvario (IIC) costituiscono un gruppo di affezioni ossee benigne, di raro riscontro, spesso non diagnosticate sia a causa delle similitudini di presentazione clinica che della caratterizzazione istopatologica. Lo scopo del presente lavoro è di segnalare un caso di lesione ossea proliferativa del neurocranio di difficile inquadramento. Caso clinico. Un cucciolo di Labrador retriever dell’età di 8 mesi è stato riferito presso la nostra struttura per la comparsa di 2 tumefazioni a carico delle regioni frontale destra ed occipitale sinistra. All’età di 6 mesi il soggetto aveva presentato un episodio di zoppia anteriore sinistra di IV grado per il quale era stata emessa la diagnosi presuntiva di osteomielite ematogena a carico della metafisi omerale. A distanza di 2 settimane era stata rilevata la presenza di una tumefazione a carico della regione frontale destra, saltuariamente dolente ed accompagnata da episodi di depressione del sensorio e disoressia, seguita dopo 15 giorni da un episodio di zoppia anteriore destra. Pochi giorni prima della nostra visita era comparsa una seconda tumefazione a carico della regione occipitale sinistra. All’esame obiettivo generale il soggetto non presentava alterazioni di rilievo, all’esame obiettivo particolare si riscontrava la presenza di 2 tumefazioni ovoidali delle dimensioni di 4 cm x 3 cm, a carico delle regioni frontale destra ed occipitale sinistra, a cute integra, di consistenza dura, non mobili rispetto ai piani sottostanti, non calde e non dolenti; inoltre, si evocava algia alla palpazione profonda delle metafisi omerali prossimali. L’esame emocromocitometrico metteva in evidenza una marcata leucocitosi. Il soggetto veniva sottoposto ad esame radiografico e tomografico del cranio dai quali si evidenziava un uniforme ed omogeneo aumento della radiopacità/densità della corticale dai seni frontali alla protuberanza occipitale esterna e un lieve ed omogeneo aumento della densità dei tessuti molli della regione occipitale. Nella stessa sede si eseguiva biopsia incisionale dalla tumefazione occipitale, l’esito della quale ci ha consentito di formulare la seguente diagnosi: displasia osteofibrosa, diagnosi differenziale con fibroma ossificante e osteoma. Circa 10 giorni dopo la dimissione, la tumefazione frontale subiva un notevole aumento di volume ed il paziente manifestava algia e depressione del sensorio. Nel mese successivo i segni e i sintomi sopradescritti si presentavano e regredivano più volte al giorno nell’arco di un’ora. Ciò ci ha condotto alla decisione di eseguire una seconda biopsia, 2 distinti prelievi, a carico della tumefazione frontale. I 2 referti mostravano una discordanza diagnostica, il primo suggeriva la diagnosi di fibroma ossificante evoluto in osteoma, mentre il secondo proponeva l’ipotesi che si trattasse di un raro caso di OCM coinvolgente il solo neurocranio. Sulla scorta dei dati in nostro possesso, di un’approfondita analisi della letteratura ed a seguito di un confronto con i patologi si emettevano le seguenti diagnosi: IIC, in ciò confortati dalle analogie della nostra lesione con questa condizione patologica recentemente segnalata in 5 Bullmastiff e OCM atipica. Dall’epoca della seconda biopsia ad oggi il soggetto non ha più manifestato sintomi sistemici; al momento dello scritto le tumefazioni appaiono di minor volume pur permanendo una lieve asimmetria del cranio. Discussione/Conclusioni. Il fibroma aponeurotico calcificante, la displasia fibrosa monostotica, il fibroma ossificante e l’osteoma differiscono dal caso segnalato sia per la presentazione clinica che per le caratteristiche istopatologiche. Le manifestazioni cliniche, l’aspetto radiografico, tomografico e istopatologico del nostro caso presentano più spiccate analogie con quanto descritto in letteratura in riferimento all’OCM e l’IIC. Tuttavia l’OCM pur mostrando le medesime caratteristiche istologiche e la stessa evoluzione clinica, difficilmente interessa le sole ossa del neurocranio senza concomitante coinvolgimento della mandibola e le lesioni caratteristicamente risultano essere pari e simmetriche. Per contro l’IIC, pur essendo segnalata in letteratura solo nel Bullmastiff, per la presentazione clinica, l’evoluzione, l’aspetto radiografico/tomografico e istopatologico risulta essere l’ipotesi diagnostica più accreditata. Inoltre è riportato come entrambe le patologie possano interessare lo scheletro appendicolare ed indurre una sintomatologia sistemica, avvalorando l’ipotesi di un’eziopatogenesi multifattoriale che include disordini di tipo infettivo, nutrizionale, genetico e metabolico. Infine sino a che non saranno disponibili ulteriori informazioni sull’esatta eziologia delle malattie in parola, visto il carattere autolimitante delle stesse, non si propone nessuna terapia specifica.

Indirizzo per la corrispondenza: Silvia Boiocchi, Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Chirurgica, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano, Via Celoria 10, 20100 Milano Fax 02-89404987 - E-mail: silvia.boiocchi@fastwebnet.it


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EFFETTI DELL’ASSOCIAZIONE DI UN GEL MUCOADESIVO A BASE DI ADELMIDROL ALLA PROCEDURA DI DETARTRASI NEL CANE: STUDIO CLINICO CONTROLLATO 1

Dea Bonello1 MedVet, SRV, PhD, Dipl EVDC; Paolo Squarzoni2 MedVet Libero professionista, Torino (Italy); 2 Libero professionista, Molinella (Ferrara) (Italy)

Introduzione. La gengivite è un’infiammazione acuta reversibile indotta dalla placca che rappresenta una delle più frequenti diagnosi di malattia del cavo orale nel cane. Il trattamento di elezione consiste nella detartrasi sopra e sottogengivale e nella lucidatura dei denti. Se non opportunamente controllata, la gengivite evolve in una flogosi cronica irreversibile sito-specifica: la parodontite1. Attualmente, le recenti acquisizioni sul ruolo svolto dai mastociti nell’innesco e nella progressione della flogosi della mucosa orale2 hanno aperto la strada ad un nuovo approccio “disease-oriented”, basato sull’utilizzo di una classe di molecole – le aliamidi – dimostratesi capaci di ripristinare l’omeostasi tissutale tramite la down-modulazione dell’eccessiva degranulazione mastocitaria3, 4. Scopo. Valutare gli effetti dell’uso combinato di un gel topico mucoadesivo contenente l’aliamide Adelmidrol (Restomyl®, Innovet Italia S.r.l.) e della detartrasi sopra e sottogengivale e lucidatura dei denti in cani affetti da gengivite di vario grado. Materiali e metodi. In uno studio clinico controllato in aperto, 20 cani con diagnosi di gengivite, di età compresa tra 3 e 13 anni, sono stati sottoposti in anestesia generale a disinfezione ed ispezione completa del cavo orale. La valutazione del grado di gengivite è stata formulata utilizzando due indici specifici di infiammazione gengivale, rispettivamente di natura invasiva (GI, Gingival Index) e puramente ispettiva (PMGI, Papillary-Marginal-Gingival Index). In seguito, i cani sono stati sottoposti a detartrasi sopra e sottogengivale e lucidatura dei denti. Gli animali sono stati, poi, suddivisi in due gruppi: quello di controllo (n=10) che non ha ricevuto trattamenti aggiuntivi; e quello trattato (n = 10) sottoposto, subito dopo la detartrasi, ad applicazione del gel odontostomatologico sulle gengive. Il gel è stato successivamente applicato dal proprietario 3 volte al giorno per l’intero periodo dello studio (45 gg.). Per tutta la durata dello studio, i cani di entrambi i gruppi sono stati alimentati con una dieta secca (Hill’s Maintenance) e non sono sono stati sottoposti a manovre atte a mantenere l’igiene orale. Gli animali sono stati rivisitati dopo 15, 30 e 45 gg. Il PMGI è stato rilevato ad ogni controllo; il GI solo ad inizio e fine studio. L’analisi statistica dei risultati si è avvalsa del test T di Student. Risultati. A differenza del gruppo di controllo, nei trattati il valore medio di GI a T45 era significativamente diminuito (P<0,005) rispetto a T0. Inoltre, la differenza tra i valori medi di GI rilevati ad inizio e fine studio (grado di efficacia del trattamento) era significativamente diversa (P<0,02) e maggiore nel gruppo dei trattati rispetto ai controlli (Fig. 1). Relativamente al PMGI, in entrambi i gruppi si verificava una riduzione significativa (P<0,002) del valore medio di tale indice tra T0 e T15 (Fig. 2). A T30 e T45, tale riduzione rimaneva significativa (P<0,005) solo nei trattati (Fig. 2). Inoltre, la differenza tra i valori medi di PMGI rilevati ad inizio e fine studio (grado di efficacia del trattamento) era significativamente diversa (P<0,02) e maggiore nel gruppo dei trattati rispetto ai controlli. Conclusioni. I risultati ottenuti depongono a favore di un effetto additivo dell’applicazione del gel a base di Adelmidrol rispetto alla sola detartrasi nella risoluzione della gengivite del cane. Infatti, l’utilizzo combinato del gel aliamidico e dell’intervento ablativo si è dimostrato in grado di: a) migliorare la risoluzione della flogosi gengivale, come evidenziato dalla maggior diminuzione del valore medio di GI nel gruppo dei trattati rispetto ai controlli; b) protrarre nel tempo i benefici della profilassi parodontale, come evidenziato dalla prolungata riduzione del valore medio di PMGI per tutta la durata dello studio nel gruppo dei trattati. La spiegazione più plausibile di tali effetti è che l’Adelmidrol – down-modulando l’iper-degranulazione mastocitaria5 sottostante all’iper-reattività della mucosa orale – sia in grado di potenziare gli effetti della detartrasi e di prolungarne i benefici. In conclusione, sebbene ulteriori studi siano necessari per confermare l’efficacia del gel odontostomatologico in studio, i risultati ottenuti suggeriscono la validità di associare, ai classici interventi ablativi, un trattamento topico adiuvante a base di aliamidi, al fine di ottenere una più rapida e prolungata risoluzione della gengivite.

FIGURA 1 - GI (Gingival Index). Grado di efficacia del trattamento: confronto tra gruppi.

FIGURA 2 - PMGI (Papillary-Marginal-Gingival Index). Efficacia nel tempo (andamento dei valori medi).


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Bibliografia 1. Harvey CE, 2005, Management of periodontal disease: understanding the options, Vet Clin North Am Small Anim Pract. 35(4):819-36. 2. Walsh LJ, 2003, Mast cells and oral inflammation, Crit Rev Oral Biol Med 14(3): 188-198. 3. Re G, Barbero R, Miolo A, Di Marzo V, 2006, Palmitoylethanolamide, endocannabinoids and related cannabimimetic compounds in protection against tissue inflammation and pain: potential use in companion animals, Vet J, in press. 4. Bonello D, Squarzoni P, Miolo A, 2004, Aliamides: rationale for use in inflammatory diseases of the oral cavity of dogs and cats, Proceedings 13th European Congress of Veterinary Dentistry, Krakow, pp. 52-53. 5. Abramo F, Salluzzi D, Leotta R, Noli C, Auxilia S, Mantis P, Lloyd D, 2004, Mast cell morphometry of cutaneous wounds treated with an autacoid gel: a placebo-controlled study, Vet Derm 15(Suppl.1): FC-59.

Indirizzo per la corrispondenza: Dea Bonello Strada Ponte Isabella a San Vito 116/12 10133 Torino Tel. 011 660 11 21 E-mail: dea.bonello@alice.it


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FREE PAD PUNCH GRAFTING COME TECNICA DI SALVATAGGIO DELL’ARTO IN LESIONI PODALI: VALUTAZIONE PRELIMINARE IN TRE GATTI Giuliana Bonetti Med Vet, Luca Lideo Med Vet, Matteo Gobbo Med Vet, Roberto Milan Med Vet, Ermenegildo Baroni Med Vet Liberi professionisti, Rovigo Introduzione. Le lesioni delle estremità degli arti causano a volte la perdita completa delle falangi; qualora non sia possibile praticare l’avanzamento del cuscinetto carpale/metacarpale/metatarsale viene spesso proposta l’amputazione dell’arto in quanto il tessuto cicatriziale non è adatto a sopportare i carichi; la tecnica microvascolare risulta poi, a nostro avviso, poco proponibile nella pratica clinica. Scopo. questo lavoro propone l’applicazione nel gatto di una tecnica di salvataggio dell’arto descritta nel cane; tale tecnica, pur avendo ottenuto un buon risultato funzionale, è stata tuttavia poco usata. Materiali e metodi. Sono stati portati a visita tre gatti con traumatismo all’estremità distale degli arti. Caso 1: gatto europeo maschio castrato di 2 anni con trauma alla zampa posteriore destra; permanenza del solo secondo dito. Caso 2: gatto europeo femmina sterilizzata di 3 anni con trauma alla zampa anteriore sinistra; rimaneva in sede mediale una parcella di cuscinetto metacarpale che veniva suturato, in occasione del primo curettage, al tessuto sano rimasto. Caso 3: gatto europeo maschio di 2 anni con trauma all’arto posteriore destro; perdita di falangi e cuscinetti in toto. Come alternativa all’amputazione dell’arto è stata proposta una tecnica di free grafting usando come siti donatori i cuscinetti metacarpali/metatarsali sani. Dopo aver ottenuto un tessuto di granulazione sano a carico dell’arto colpito, la tecnica chirurgica ha previsto l’innesto, in sede di presunto futuro appoggio dell’arto, di free grafts (2 nei casi 1 e 2 e 3 nel caso 3) prelevati dai cuscinetti metacarpali/metatarsali sani; il prelievo avveniva mediante biopsy punch di 4 millimetri di diametro e la lesione risultante veniva suturata con un punto incrociato di polidiossanone 4 – 0. Il letto ricevente veniva preparato asportando il tessuto di granulazione con biopsy punch di 6 mm e tamponando con bastoncini cotonati sterili fino a cessazione dell’emorragia; dopo asportazione del tessuto sottocutaneo i free grafts venivano alloggiati in sede. Nei casi 1 e 2 nella stessa seduta chirurgica sono stati impiantati anche dei free grafts cutanei mentre nel terzo caso è stato eseguito, in un secondo momento, un innesto cutaneo a lembo libero a rete. Agli arti oggetto di trapianto veniva applicato un bendaggio semiocclusivo, sostituito inizialmente in quarta, e poi in settima ed undicesima giornata. I gatti 1 e 2 sono stati dimessi tra la quindicesima e ventesima giornata, a seconda dell’aspetto dei trapianti; al terzo animale in ventesima giornata veniva applicato il lembo libero. I bendaggi venivano sostituiti bisettimanalmente fino al raggiungimento della completa epitelizzazione; i soggetti mantenevano un collare elisabettiano fino a 3-4 giorni dopo la “liberazione” dell’arto. Risultati. Caso 1: ripresa funzionale dell’arto; il proprietario riferisce che a tre mesi di distanza dal trapianto il gatto zoppica sul terreno accidentato. Caso 2: completa ripresa funzionale dell’arto. Caso 3: buona ripresa funzionale iniziale; in seguito ad un ulteriore traumatismo si è assistito alla perdita quasi completa dei pad grafts per cui si è reso necessario un altro intervento. Al momento il gatto è in fase di guarigione. Discussioni e conclusioni: la tecnica di trapianto cutaneo mediante punch grafts è stata ampiamente studiata e documentata; l’esigua dimensione dei frammenti da trapiantare ne rende poco utile l’impiego in difetti cutanei di grande entità. La tecnica di trapianto di frammenti liberi di cuscinetto per ricostruire una superficie supportante il peso è già stata applicata nel cane con buoni risultati. Con questa comunicazione si è valutato l’uso di tale tecnica chirurgica anche nel gatto. Si sono riscontrate tre tipi di difficoltà: l’immobilizzazione degli arti oggetto di trapianto, soprattutto nel caso 2 dove il gatto era obeso e poco collaborativo, la necessità di sedare l’animale almeno per le prime due medicazioni e la scelta del sito di innesto dei cuscinetti, che devono essere impiantati nelle zone di massimo carico. Dal nostro punto di vista, tenendo comunque in considerazione l’esiguo numero di casi, questa tecnica si è dimostrata una valida alternativa all’amputazione degli arti; è sicuramente un intervento da programmare con cura, soprattutto per la scelta del sito di innesto dei grafts. Bibliografia Slatter: Textbook of small animal surgery, 3th ed 2003, Saunders, pp 321-39. Fossum TW: Chirurgia dei piccoli animali, 1997 Masson, pp 150-52. Pavletic m M.: Atlas of small animal reconstructive surgery, 2nd ed, Saunders, pp275-95 365-79. Bojrab MJ, Ellison GW, Slocum B: Tecnica chirurgica vol 1, 2001 UTET, pp 558-61. Shahar R et al: free skin grafting for treatment of distal limb skin defects in cats, J Small Anim Pract, 1999 Aug; 40 (8): 378-82. Swaim SF et al: Free segmental paw pad grafts in dogs, Am J Vet Res 1993 Dec;54(12):2161-70. Bradley DM et al: Contruction of a weight bearing surface on a dog’s distal pelvic limb, J Am Anim Hosp Assoc 1998 Sep-Oct;34(5):378-94. Swaim SF et al: healing of segmental grafts of digital pad skin in dogs, Am J Vet Res 1992 Mar;53(3):406-10. Olsen D et al: Digital pad transposition for replacement of the metacarpal or metatarsal pad in dogs J Am Anin Hosp Assoc 1997 Jul-Ago; 33(4):337-41. Barclay CG et al: Use of the carpal pad to salvage the forelimb in a dog and cat: an alternative to total limb amputation, J Am Anin Assoc 1987; 23:527-32. Basher AW et al: Microneurovascular freee digitasl pad transfer in the dog Vet Surg 1990;19:226-31.

Indirizzo per la corrispondenza: Giuliana Bonetti, Clinica Veterinaria Baroni E. Via Martiri di Belfiore 69/D - 45100 Rovigo Tel. 0425/471076 - Fax 0425/404918 E-mail: aratinga@virgilio.it


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LESIONI CUTANEE PAPULARI CON RISCONTRO CITOLOGICO DI ORGANISMI LEISHMANIA SPP. IN 10 SOGGETTI GIOVANI Enrico Bottero1 Med Vet, Marco Poggi2 Med Vet, Monica Viglione3 Med Vet, Manuela Mangiola2 Med Vet 1 Libero professionista, Cuneo; 2Libero professionista, Imperia; 3Libero professionista, Arma di Taggia Scopo del lavoro. Descrivere un riscontro clinico dermatologico indotto da Leishmania spp. in 10 cani di età inferiore ad un anno. Tutti i soggetti presentano lesioni papulari per lo più sulle zone glabre della testa. L’esame citologico a carico di tali lesioni evidenzia la presenza di forme amastigoti di Leishmania spp. Vengono descritti i dati epidemiologici, clinici, le indagini diagnostiche e l’evoluzione clinica. Materiali e metodi. Tutti i soggetti sono sottoposti a visita clinica, esame citologico delle papule eseguito per agoinfissione con ago da 22 G° e colorato con colorazione rapida Diff Quick, esame sierologico tramite metodica di immunofluorescenza indiretta ed elettroforesi sierica. In due soggetti è stata eseguita l’intradermoreazione con leishmanina. Descrizione del caso e risultati ottenuti. I dieci soggetti sono tutti di età compresa tra 4 e 10 mesi; tutti sono nati in zona endemica per leishmaniosi. L’esame obiettivo generale evidenzia una lieve linfoadenomegalia sottomandibolare in uno dei quattro soggetti condotti alla visita per le lesioni cutanee papulari; per gli altri 6 cani il riscontro delle papule è occasionale durante visite routinarie. In tutti i soggetti le lesioni sono presenti da almeno tre settimane e sono comparse nel periodo autunnale, mentre in tre soggetti erano già presenti nel periodo estivo. Le papule sono localizzate per lo più sulle zone glabre della testa (superficie dorsale del naso e superficie interna del padiglione auricolare), tranne che in due soggetti in cui sono rispettivamente a livello carpale e penieno. L’esame fisico dermatologico rileva papule del diametro variabile da 0,5 ad 1 cm, alopeciche ed ombelicate alla loro sommità, la cute in corrispondenza di questa infossatura varia da eritematosa con lieve esfoliazione a quadri erosivi più o meno accentuati ed ulcerati. Il quadro citologico evidenzia flogosi piogranulomatosa con presenza di neutrofili plurisegmentati, alcuni in attiva fagocitosi batterica, macrofagi e numerose plasmacellule. Durante la visione ad immersione vengono evidenziate, sempre in numero esiguo, forme amastigoti di Leishmania, queste sono per lo più extracellulari, ma in due casi si evidenziano anche fagocitate all’interno dei macrofagi. Tutti i cani sono sottoposti ad indagine IFAT ed elettroforesi, in due soggetti si evidenzia un titolo debolmente positivo ed in uno di questi soggetti anche l’elettroforesi evidenzia un aumento delle gamma globuline; tutti gli altri risultano Ifat negativi e con elettroforesi normale. Dei dieci soggetti, cinque sono sottoposti a terapia con antimoniato di metilglucamina ed allopurinolo per un mese, alla fine del quale viene ripetuto un esame Ifat che risulta negativo e una l’elettroforesi che risulta normale. Gli altri soggetti non vengono sottoposti ad alcuna terapia medica per indisponibilità dei proprietari. Complessivamente dopo un periodo variabile da 3 a 5 mesi in tutti i soggetti non trattati le lesioni sono scomparse, in due soggetti permane un exitus cicatriziale sul sito della lesione. Conclusioni. ll quadro clinico, il basso o nullo titolo anticorpale, la risposta alla terapia e la remissione spontanea delle lesioni ci fanno supporre che i soggetti portatori siano probabilmente dotati di immunità cellulare protettiva (Th1). L’esame citologico ha dimostrato buona sensibilità diagnostica, ma è molto importante eseguire test diagnostici specifici (es. istologico con immunoperossidasi / PCR) in caso di riscontro citologico di flogosi piogranulomatosa, in quanto spesso le forme amastigoti di Leishmania sono in numero esiguo. Infine, essendo la leishmaniosi una zoonosi ed essendo difficoltoso valutare e prevedere la condizione immunitaria dei cani, riteniamo opportuno eseguire la terapia leishmanicida nei soggetti portatori di lesioni papulari secondarie a Leishmania. Bibliografia essenziale 1. 2.

Blavier A., Keroack S., Denerolle P., et al: Atypical forms of canine Leishmaniosis. The Veterinary Journal 162: 108-120, 2001. Ordeix L., Solano-Gallego L., Fondevilla D., et al: Papular dermatitis due to Leishmania spp infection in dogs with parasite-specific cellular immune responses. Veterinary Dermatology 16: 187-191, 2005.

FIGURA 1 - Lesione papulare, crateriforme sulla superficie interna del padiglione auricolare.

FIGURA 2 - Esame citologico allestito con colorazione rapida (diff-quick); 100 x: neutrofili plurisegmentati, materiale cromatinico e presenza di una forma amastigote di Leishmania libera nell’angolo inferiore destro dell’immagine.

Indirizzo per la corrispondenza: Enrico Bottero - Via Sale San Giovanni n. 1 - 12073 Ceva (CN) - Tel. 0173 35122 - E-mail: botvet@libero.it


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APPLICAZIONE DELLA MEDICINA TRADIZIONALE CINESE NEL NON CONVENZIONALE SETTORE DEI RETTILI Nadia Cappai, Med Vet Libero professionista, Macomer (Nuoro) Scopo del lavoro. Negli ultimi anni si è verificata in Medicina Veterinaria una rapida espansione della clinica e delle pratiche mediche nel settore degli animali esotici. Sono infatti sempre più diffusi come pets animali di varie specie e, in modo particolare, Rettili. Serpenti, Iguane, Tartarughe e altri sono aumentati a dismisura nei Paesi occidentali e se la tendenza di crescita continuerà ad essere questa fra pochi anni il loro numero avrà superato quello di cani e gatti. D’altro canto nell’ultimo decennio anche le medicine non convenzionali si sono affiancate all’allopatia integrandola e potenziandola anche nell’ambito medico veterinario. Il presente lavoro cerca perciò di indagare il range d’azione dell’Agopuntura nel non convenzionale settore dei Rettili. Metodi impiegati. Data la totale assenza di bibliografia riguardo l’Agopuntura nei Rettili nella prima fase del lavoro è stata fatta una raccolta di Case Reports. Alcuni colleghi esperti di esotici e agopuntori al tempo stesso (Dr. Oh Soon Hock – Singapore Zoo; Dr. Sagiv Ben Yakir – Israele; Dr. Andreas Röesti – Health Balance, Svizzera; Dr.ssa Cristina Stocchino - Sassari) hanno riferito alcuni casi clinici in cui è stata applicata con successo l’agopuntura nei Rettili semplicemente riportando la propria esperienza dall’ambito dei carnivori domestici all’ambito degli animali esotici. Nella seconda fase del lavoro è stata fatta la mappatura degli agopunti nei Rettili con particolare riferimento all’ordine dei Cheloni, e ai sottordini dei Sauri e degli Ofidi (ordine Squamati). La mappatura è stata fatta in base a un approfondito studio delle caratteristiche anatomiche e fisiologiche di ciascuna specie impiegando una metodologia transposizionale dei principali agopunti, selezionati sulla base della loro localizzazione e della loro funzione energetica. Sono stati infine selezionati gli agopunti base per le principali patologie delle specie oggetto di studio. Risultati. Lo studio sulla topografia e sul reale utilizzo degli agopunti nei Rettili è stato poi applicato a vari casi clinici seguendo una metodologia clinica specifica per ciascuna specie, di cui ne sono stati selezionati due. Il primo caso riguarda l’uso della Medicina Tradizionale Cinese in una Iguana affetta da MOM. È stata selezionata una sequenza di punti ed applicata per tre sedute con completa remissione dei sintomi. Il secondo caso riguarda un Biacco con frattura e lussazione di una vertebra e conseguente paresi a valle della lesione. Entrambi i casi presentati rappresentano un modello clinico di medicina integrata. Conclusioni. Nonostante le varie difficoltà che si possono riscontrare, sia per quanto riguarda la gestione del paziente che la localizzazione di alcuni punti, l’agopuntura nei Rettili presenta numerosi vantaggi. Infatti la medicina allopatica ha spesso dei limiti in questo settore. Talvolta le dimensioni estremamente piccole dei soggetti determinano restrizioni nel dosaggio di alcuni farmaci, o, a volte, alcuni farmaci non possono essere utilizzati poiché estremamente tossici. Da questo punto di vista la Medicina Tradizionale Cinese può senz’altro costituire un valido contributo per la medicina occidentale. Dai casi clinici trattati si è potuto inoltre constatare come il trattamento agopunturale determinasse nei pazienti una rapida ripresa delle principali funzioni vitali e, soprattutto, una ripresa dello Shen. Questo è molto importante in quanto i decessi degli esotici sono molto spesso dovuti a depressione del ‘mentale’, determinato da vari fattori stressanti, primo fra tutti la patologia in atto. La perdita di appetito, la mancanza di stimoli ad interagire con l’ambiente esterno, portano ad un rallentamento delle funzioni vitali fino al grave depauperamento di Energia e Sangue. Il movimento dell’energia che si manifesta in seguito alla seduta agopunturale porta sicuramente al superamento della fase di atassia ed al recupero delle principali funzioni vitali. È questo il punto cardine del successo dell’Agopuntura in queste specie.

Indirizzo per la corrispondenza: Nadia Cappai, Via B.Salaris, 11 08015 Macomer (NU) Tel. 0785 20268 - Cell. 329 9732444 E-mail: veterinadia@libero.it


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ANEMIA EMOLITICA IMMUNOMEDIATA NEL CANE: UN’ESPERIENZA ITALIANA Erika Carli Med Vet, Silvia Tasca Med Vet, Tommaso Furlanello Med Vet, Carlo Patron Med Vet, Marco Caldin Med Vet Laboratorio d’Analisi Veterinarie “San Marco”, Padova L’anemia emolitica immunomediata (IMHA) è un’anemia che si realizza in seguito alla produzione di anticorpi contro i globuli rossi che, legandosi a questi, ne determinano la rimozione da parte degli organi emocateretici (emolisi). Tale anemia è, in genere, fortemente rigenerativa e può essere primaria o secondaria in funzione della possibilità di individuarne una causa scatenante. Scopo. L’obiettivo di questo studio retrospettivo è quello di valutare gli aspetti clinico-patologici di casi di anemia emolitica immunomediata (Immune-Mediated Hemolytic Anemia, IMHA) nel cane raccolti in Italia. Materiali e metodi. Sono stati analizzati 51 casi di IMHA osservati nel periodo compreso tra il 17/10/2004 e il 30/11/2005. Per ciascun paziente erano disponibili segnalamento, anamnesi, esame fisico, esami di base (esame emocromocitometrico compresa la valutazione citomorfologica di uno striscio di sangue eseguito a fresco, profilo biochimico, profilo coagulativo, elettroforesi ed esame delle urine) e, dove possibile, ulteriori accertamenti allo scopo di individuare la patologia che potenzialmente si associava all’IMHA. La gravità dell’anemia è stata determinata sulla base del numero totale dei globuli rossi e non del valore dell’Hct che, in corso di IMHA, potrebbe subire dei falsi incrementi a causa della rigenerazione e della macrocitosi. La diagnosi di IMHA si è basata sulla determinazione degli anticorpi anti-eritrociti mediante citometria a flusso. I soggetti con percentuale di anticorpi antiIgG >0,7% e di anticorpi anti-IgM >1,5% sono stati considerati affetti da IMHA e sono stati inclusi nel presente studio. Risultati. I 51 casi di IMHA sono stati osservati in cani appartenenti a razze diverse, 20 maschi (39%) e 31 femmine (61%) con un valore della mediana per l’età pari a 8 anni e 4 mesi (10 mesi-16 anni). Tutti i soggetti presentavano anemia: in nessun caso si manifestava anemia lieve (RBC>5x106/µl), in 26 cani (51%) l’anemia era moderata (RBC 3-5x106/µl), in 13 (25%) era grave (RBC 2-3x106/µl) e in 12 (24%) era gravissima (RBC <2x106/µl). L’anemia era non rigenerativa (ret <60x103/µl) in 12 (23%) soggetti; l’entità della rigenerazione era debole (ret 60-150x103/µl) in 14 (28%), moderata (ret 150-300x103/µl) in 10 (20%) e forte (ret >300x103/µl) in 12 (24%). In 3 cani (6%) i reticolociti non sono stati determinati perché l’Hct era superiore al 30%. La sferocitosi era presente fin dalla prima valutazione in 19 soggetti (37%) ed era comparsa nei giorni successivi in altri 8 (16%). In 15 cani (29%) l’IMHA era associata ad importanti e gravi processi infiammatori quali piometra, enterite linfoplasmocitaria, versamenti purulenti, processi infiammatori e settici coinvolgenti più organi e traumi gravi. In 12 soggetti (23%) l’IMHA è stata associata a neoplasie rappresentate da 5 casi di emangiosarcoma, 2 casi di istiocitosi maligna e casi singoli di linfoma, leiomioma, leucemia monocitica acuta (AML-M5b), tumore ovarico ed adenocarcinoma del colon. Tre soggetti (6%) erano sierologicamente positivi ad Ehrlichia canis, 2 soggetti (4%) presentavano torsione di milza e in un caso (2%) era stata eseguita circa un mese prima la vaccinazione. Infine, 3 cani (6%) presentavano aplasia midollare, 2 (4%) una massa addominale in sede epatica, uno una massa alla base del cuore (2%), un soggetto (2%) era stato trattato una settimana prima per babesiosi e uno (2%) era stato morso da una vipera. In 10 cani (20%) non era individuabile una causa predisponente; tuttavia, dato che in 3 casi non è stato possibile eseguire un iter diagnostico completo le presunte forme primarie di IMHA si sono ridotte a 7 (14%). Conclusioni. Nella casistica considerata, l’IMHA colpisce cani adulti, non presenta una particolare predisposizione di razza, né di età, anche se le femmine sembrano essere più suscettibili. L’anemia è da moderata a gravissima con grado di rigenerazione variabile a seconda del momento della diagnosi. La sferocitosi può essere presente all’insorgenza dell’IMHA, può comparire durante il decorso, ma può anche non essere osservata. L’IMHA nella pratica clinica è spesso un’importante complicazione di vari quadri patologici. Tra le patologie che più frequentemente possono associarsi ad essa ci sono i processi infiammatori gravi e le neoplasie (in particolare emagiosarcoma ed istiocitosi maligna). Le patologie suddette sono tra le cause riportate in letteratura mentre non sono riportate segnalazioni riguardo all’associazione con la torsione splenica che, pur essendo un’evenienza rara, nella nostra esperienza, si è sempre associata ad IMHA. Escludendo i casi in cui non è stato eseguito un work up adeguato, i soggetti con IMHA primaria sono in numero ridotto rispetto a quelli con IMHA secondaria. In conclusione, l’IMHA va vista più spesso come un evento in grado di associarsi, complicare ed aggravare altri quadri patologici. Il rilevamento di questa sindrome impone un’accurata ricerca della causa sottostante allo scopo di realizzare una terapia efficace volta, non solo a risolvere l’evento immunomediato, ma anche a curarne, se possibile, la causa scatenante.

Indirizzo per la corrispondenza: Laboratorio San Marco, Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova Tel. 0498561039 - Fax: 02-700518888 E-mail: ec@sanmarcovet.it - st@sanmarcovet.it


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IMPIEGO DI POLIMETILMETACRILATO E FILI DI KIRSCHNER NEL TRATTAMENTO DELLE FRATTURE/LUSSAZIONI VERTEBRALI TORACICHE, LOMBARI E LOMBO-SACRALI: PROPOSTA TERAPEUTICA (8 CANI E 3 GATTI) Liliana Carnevale Med Vet, PhD Libero professionista, Milano Scopo del lavoro. Descrizione di una tecnica di fissazione interna di fratture/lussazioni vertebrali del segmento toracico, lombare e lombo-sacrale mediante l’impiego di cemento da ossa e chiodi di acciaio posizionati nel comparto dorsale del rachide senza coinvolgimento dei corpi vertebrali. Materiali e metodi. Durante il periodo 1999-2005 sono stati portati alla visita clinica 26 soggetti (18 cani e 8 gatti) affetti da frattura/lussazione vertebrale a carico del tratto toracico, lombare o lombo-sacrale del rachide. 8 cani sono stati trattati chirurgicamente, 1 per via conservativa e 9 venivano sottoposti a eutanasia, mentre per quanto concerne i gatti, 4 venivano gestiti con l’intervento chirurgico (1 soggetto perso al follow up), e 4 con l’eutanasia. Tra i soggetti operati, 5 (4 cani e 1 gatto) presentavano la lesione a carico del tratto toraco-lombare della colonna vertebrale, e 6 (4 cani e 2 gatti) a livello lombo-sacrale. Il peso corporeo dei cani era compreso tra 4 kg e 40 kg, mentre nei gatti variava tra 3 kg e 7 kg. In 2 cani prima della chirurgia veniva condotta una mielografia lombare. La tecnica chirurgica consisteva nella riduzione anatomica della frattura/lussazione vertebrale a cui faceva seguito la stabilizzazione mediante due fili di Kirschner inseriti attraverso i processi articolari delle vertebre sede di lussazione. Di seguito si inserivano 1 o 2 fili di kirschner alla base dei processi spinosi di 1 o 2 vertebre craniali e caudali alla sede di lesione, inclinando i chiodi verso la sede di frattura. La fissazione era completata dall’applicazione del cemento da ossa che includeva i chiodi applicati e i rispettivi processi spinosi. Risultati. Non si osservava nessuna complicanza durante l’intervento chirurgico in tutti i pazienti. 1 cane veniva sottoposto a eutanasia 1 mese dopo l’intervento chirurgico in quanto persisteva la paraplegia con assenza di percezione del dolore profondo a carico degli arti posteriori. 1 gatto decedeva 4 giorni dopo l’intervento chirurgico a causa di complicazioni cardiopolmonari. Il follow up dei rimanenti 9 casi variava da un periodo di 6 mesi a 72 mesi post-intervento avvalendosi di controlli clinici, radiografici e riprese videoassistite. In ciascun caso, all’esame radiografico condotto durante il follow p, si osservava il mantenimento dell’allineamento vertebrale a livello della sede di frattura/lussazione vertebrale. In 3 cani e 1 gatto si verificava la migrazione di 1 filo di Kirschner a livello sottocutaneo che veniva poi rimosso. 2 cani con lesione rispettivamente a livello T12-T13 e L1L2 manifestavano un recupero neurologico completo. 1 soggetto con lussazione vertebrale T11-T12, paraplegico senza percezione del dolore profondo precedente all’intervento, si avvaleva dell’uso del carrello. 3 cani con lussazione vertebrale lombosacrale riprendevano la loro normale attività deambulatoria a carico del treno posteriore, in 1 soggetto si verificava il ripristino della normale funzionalità della vescica, in un altro il proprietario doveva provvedere all’espressione manuale bigiornaliera della stessa e in un altro paziente persisteva solo un parziale controllo della funzione urinaria. Il quarto cane con lussazione lombo-sacrale manteneva una lieve atassia a carico dell’arto posteriore sinistro. In 1 gatto con lussazione lombo-sacrale si osservava il recupero neurologico completo dell’attività deambulatoria e della minzione mentre in un secondo soggetto con la stessa lesione si aveva il ripristino della deambulazione con atteggiamento plantigrado bilaterale degli arti posteriori e necessità da parte del proprietario di provvedere all’espressione manuale della vescica. Conclusioni. La tecnica chirurgica proposta si è rivelata efficace nel mantenere l’allineamento vertebrale nel sito di lesione nell’immediato periodo postoperatorio e a distanza di tempo, sia a livello del segmento toraco-lombare che lombo-sacrale, nonostante siano distretti che richiedono generalmente tecniche di stabilizzazione differenti. La migrazione dei chiodi è dovuta in parte all’assenza di filettatura e in parte alla mancanza di copertura della estremità prossimale da parte del cemento. Il coinvolgimento del solo comparto dorsale della colonna vertebrale nella fissazione, rende la tecnica abbastanza semplice e sicura nell’esecuzione e consente presumibilmente di mantenere una parziale mobilità funzionale delle vertebre adiacenti il sito di lesione.

Indirizzo per la corrispondenza: Liliana Carnevale Corso S. Gottardo n. 18, 20136 Milano Tel. 3357031520 - Fax 0248202742 E-mail: lilianacarnevale@tiscali.it


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PENILE HAEMANGIOSARCOMA IN A LABRADOR RETRIEVER EMANGIOSARCOMA DEL PENE IN UN LABRADOR RETRIEVER Barbara Carobbi1 Med Vet, MRCVS; Samantha S. Taylor2 BVetMed (hons), MRCVS; Avi Avner3 BSc, BVSc, CertVR, MRCVS; Richard A.S. White4 PhD, Dipl ACVS, DSAS (soft tissue), MRCVS 1,2,3,4 “Dick White Referrals”, Six Mile Bottom, Suffolk (United Kingdom) Introduction. Penile neoplasms in dogs are uncommon. Reported canine penile tumors include: fibrosarcoma, histiocytic reticulocytoma, papilloma, squamous cell carcinoma, and transmissible venereal tumor. Other reported genital neoplasms include squamous cell carcinoma of penile, preputial, and urethral mucosa, hemangiosarcoma of the prepuce, and lymphosarcoma of the penis. Osteosarcoma, ossifying fibroma, and mesenchymal chondrosarcoma involving the os penis have also been reported in dogs. The case reported here is a primary haemangiosarcoma involving the corpus cavernosum, and to our knowledge it has never been reported before. Case report. A 7 years old, neutered male Labrador Retriever was referred for investigation of dysuria, characterised by unproductive urinary straining and passing either dribbles or spurts of urine. The dysuria had been gradually worsening in the past 5 months. The dog was quiet, but alert and responsive. Temperature, pulse and respiration were all within normal range. Physical examination revealed a large swelling in the region of the bulbourethral gland which was painful on palpation. Abdominal palpation revealed a distended, hard, and painful bladder. Compression of the bladder produced an intermittent stream of urine. Complete blood count, biochemistry, electrolytes and urinalysis were unremarkable, and thoracic radiographs were within normal limits. Abdominal ultrasound revealed no significant abnormalities other than a distended urinary bladder and a mass close to the bulbourethral glands. Ultrasonography of the mass revealed multiple, interrupted, hyperechoic boney remants of the os penis casting acoustic shadows. The corpus cavernosum penis had a heterogenous hypoechoic to isoechoic texture with irregular borders, surrounded by pockets of fluid with hyperechoic specks. The abnormal tissue extended into the corpus spongiosum. The penile urethra appeared structurally unaffected but subjectively narrowed. Enlargement of lumbar lymph nodes was not observed. On abdominal radiographs the os penis was barely visible due to extensive ‘moth eaten’ lysis while the adjacent penile soft tissue was prominent. Retrograde urethrography did not demonstrate any disruption of the pelvic urethra, and a smooth column of contrast, with no filling defects, highlighted the penile urethra. The dog was scheduled for penile amputation. The penis was surgically removed, and scrotal urethrostomy was performed according to standard technique. Recovery from the anaesthesia was uneventful, and the dog urinated spontaneously through the stoma 9 hours after surgery. When the dog was discharged 4 days later urination was normal. Histopathology on the submitted specimens was consistent with a diagnosis of haemangiosarcoma involving the corpus cavernosum. The prognosis is unknow, but it seems reasonable it would behave in a similar way to cutaneous rather than visceral haemangiosarcoma. Nevertheless chemotherapy treatment was suggested, but the owner declined this option. One month after surgery there was no recurrence at the surgical site, and no abnormalities on urination could be detected. At that time no clinical signs of metastasis were apparent. Survey radiographs are due in one month time. Conclusion. To our knowledge an haemangiosarcoma involving the corpus cavernosum has never previously been reported in dogs, although it can occur as a primary tumor of the penis. Our findings suggest that haemangiosarcoma should be considered a differential diagnosis for dysuria in dogs.

Address for correspondence: Barbara Carobbi “Dick White referrals” London Road Six Mile Bottom Suffolk CB8 0UH United Kingdom E-mail: barbaracarobbi@msn.com


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COMPLICANZE LOCALI DI MALATTIA ENDODONTICA: REVISIONE DELLA LETTERATURA ED ESPERIENZE PERSONALI Katty Casazza, Med Vet1; Margherita Gracis, Med Vet, Dipl AVDC, Dipl EVDC2 1 Libero professionista, Vercelli 2 Libero professionista, Milano La polpa dentale ha funzione nutritiva, sensoriale, e difensiva. Inoltre è deputata, attraverso l’attività di cellule specifiche, gli odontoblasti, a produrre dentina durante la vita del soggetto. La polpa è contenuta nel sistema pulpare, costituito dal canale pulpare nella radice e dalla camera pulpare a livello coronale, e comunica con i tessuti periapicali attraverso il delta apicale. La malattia endodontica è definita come l’infiammazione (pulpite reversibile o irreversibile) o la necrosi (parziale o completa) del tessuto pulpare. L’endodontopatia può instaurarsi: - senza esposizione della polpa, in seguito a traumi ottusi, eventi ischemici, e eventi iatrogeni (uso improprio degli strumenti odontoiatrici meccanici quali l’ablatore a ultrasuoni, le turbine, ecc.) - in seguito ad esposizione della polpa, come in caso di fratture coronali e coronoradicolari complicate, attrito, carie, riassorbimento esterno - come estensione di malattia parodontale Traumi dentali senza esposizione pulpare, se di entità sufficiente, possono causare edema ed emorragia pulpare. Spesso in questi casi si sviluppa una discromia (variazione di colore) coronale dovuta all’invasione dei tubuli dentinali da parte del sangue e alla degradazione dei pigmenti ematici. L’intensità del colore dipende dall’entità del trauma e dallo spessore delle pareti dentinali. L’aumento della pressione intracanalare può portare a necrosi ischemica dei tessuti, a cui può seguire una contaminazione batterica per anacoresi. In seguito ad esposizione pulpare, invece, si sviluppano processi infiammatori che sono inevitabilmente accompagnati da contaminazione da parte della flora batterica orale. Il mancato trattamento tempestivo di questi casi porta invariabilmente a morte pulpare. Il sistema endodontico può essere invaso dai batteri anche per via retrograda, attraverso il delta apicale, in seguito a dislocazione dentale (lussazione laterale, avulsione) o a lesioni parodontali gravi (lesioni perio-endo di classe II). Il processo infiammatorio ed infettivo pulpare non rimane limitato al sistema endodontico, ma attraverso il delta apicale invade i tessuti periradicolari causando parodontite periapicale acuta o cronica, ascesualizzazione, o osteite periapicale. L’infiammazione cronica esita frequentemente nella formazione di granulomi o di cisti periapicali. Radiograficamente si possono evidenziare discontinuità della lamina dura, aumento di dimensioni dello spazio parodontale e radiotrasparenza periapicale. In caso di necrosi pulpare il normale processo di dentinogenesi e ispessimento delle pareti dentinali si interrompe, cosicché con il tempo il canale pulpare del dente endodonticamente compromesso risulterà di dimensioni maggiori rispetto al dente controlaterale o ai denti viciniori. Clinicamente si possono osservare mancata integrità dentale, discromia coronale, e tumefazione dei tessuti molli in prossimità del dente interessato. I segni e i sintomi clinici sono però spesso minimi o assenti. Tuttavia, l’assenza di sintomatologia non giustifica un approccio di tipo conservativo. I denti interessati vanno trattati endodonticamente o estratti. Infatti, se non trattati, possono causare complicanze locali e possibilmente anche sistemiche. Tra le più comuni complicanze locali si annoverano cellulite, osteomielite e fistolizzazione esterna. A seconda del dente interessato e dei suoi rapporti anatomici, si possono sviluppare fistole nasali, antrali, orbitali, gengivali, vestibolari, o cutanee. La localizzazione delle fistole è legata anche a caratteristiche di specie e di razza. Si presenteranno gli aspetti salienti delle complicanze locali di malattia endodontica in 20 casi. In particolare verranno descritte: fistole oronasali sviluppatesi attraverso la mucosa vestibolare a partenza dal canino e dagli incisivi mascellari (2 cani); fistole oro-orbitali a partenza dal quarto premolare e dal secondo molare mascellare (2 cani); fistole cutanee a partenza dal canino (1 gatto e 1 cane) e dal quarto premolare mascellare (1 gatto e 2 cani, di cui una di probabile origine iatrogena, senza frattura dentale); fistole mucogengivali a partenza dal canino mascellare, dal canino mandibolare, e dal quarto premolare mascellare (4 cani); cellulite a partenza dai canini mandibolari (1 cane); cisti radicolari a carico degli incisivi mascellari (3 cani); osteomielite a partenza dai canini mandibolari (2 gatti) e dal primo molare mandibolare (1 cane). In tutti i casi il trattamento chirurgico o endodontico ha determinato la risoluzione dei segni clinici.

Indirizzo per la corrispondenza: Margherita Gracis Clinica Veterinaria Gran Sasso Via Donatello 26 - 20131 Milano Tel. 338 1874498 email: margherita.gracis@fastwebnet.it


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IL PATTO COMUNICATIVO TRA UOMO E ANIMALI: CONDIVISIONE SEMIOTICA, SEMANTICA E PRAGMATICA Maria Chiara Catalani1, Roberto Marchesini2 1 Med Vet comportamentalista,Senigallia (AN) 2 Med Vet, Professore Universitario a contratto, Bologna Introduzione. Molto spesso la relazione con gli animali poggia su tentativi di comunicazione destinati a fallire in quanto antropocentrati, ovvero fondati sul pattern comunicativo umano ed ignoranti i pattern di comunicazione dell’individuo animale. Nell’ambito della medicina comportamentale questo aspetto non è secondario essendo notevole la frustrazione reciproca che provano uomo e animale quando convivono senza riuscire a comprendersi. Una situazione di incapacità comunicativa non può essere di aiuto per affrontare la terapia comportamentale o per strutturare un protocollo per il miglioramento della relazione uomo-animale. Pertanto, al momento della valutazione di una coppia uomo-animale, è necessario prendere in considerazione la modalità comunicativa, il livello di intesa e conoscenza reciproca e i piani su cui potrebbe essere necessario intervenire per migliorare la qualità della relazione ed eventuali problemi riscontrati. Comunicazione e informazione. La comunicazione rappresenta una delle più importanti caratteristiche del mondo animale, essendo indispensabile in diverse attività biologiche come il corteggiamento, la distribuzione della popolazione sul territorio, il comportamento parentale, il comportamento sociale. Gli animali inevitabilmente per il fatto stesso di vivere lasciano indizi della loro presenza ossia sono informativi per il mondo esterno. Essere informativi ossia lasciare indizi a disposizione dei possibili riceventi non è quasi mai vantaggioso in natura cosicché il processo selettivo ha premiato quei soggetti che erano meno informativi: una preda non deve farsi scorgere dal predatore e viceversa. Al contrario, la comunicazione rappresenta un grande vantaggio e spesso un’esigenza imprescindibile: in questo caso la selezione ha premiato quei soggetti che erano più comunicativi. Da un punto di vista biologico la struttura evoluzionistica della comunicazione è profondamente diversa da quella dell’informazione: nel primo caso, infatti, il processo è coevolutivo, vale a dire che la selezione lavora con lo stesso segno sulla coppia emittente-destinatario, nel secondo caso il processo è una sorta di corsa agli armamenti tra emittente e ricevente. Gli animali hanno pertanto dovuto affrontare il problema di essere quanto più comunicativi e contemporaneamente quanto meno indiziari. Per fare questo hanno dovuto trasformare il segnale in un’entità fortemente correlata al target (il destinatario) in grado cioè di segregare la comunità dei comunicanti dalla comunità dei possibili riceventi. Si è evoluto così il “segno”, una struttura arbitraria o, meglio, con differenti livelli di arbitrarietà nel rapporto designante-designato. Lo studio dei segni e più in generale della comunicazione animale prende il nome di zoosemiotica, termine coniato da Thomas Sebeok. Nella comunicazione possiamo distinguere tre differenti livelli di analisi: a) la semiotica ossia lo studio dei segni utilizzati da una particolare specie; b) la semantica ossia lo studio dei significati; c) la pragmatica ossia lo studio degli obiettivi di comunicazione. Nella comunicazione con l’animale l’uomo spesso commette errori di zoosemiosi passando da uno stato comunicativo a uno informativo, vale a dire che mentre ritiene di stare comunicando col proprio cane si pone semplicemente in maniera indiziaria nei suoi confronti. Gli errori di zoosemiosi possono investire: 1) la semiotica quando utilizza segni che per l’animale sono solo segnali e parimenti quando non fa attenzione a segnali che per l’animale sono segni; 2) la semantica quando utilizza un segno che ha un diverso significato nell’uomo e nell’animale; 3) la pragmatica quando utilizza finalità comunicative e modalità di rapporto emittente-destinatario non in linea con le caratteristiche di specie. Perché vi sia comunicazione è necessario che vi sia un patto comunicativo tra i due interlocutori ovvero condivisione di semiotica, semantica e pragmatica. Conclusioni. Comprendere e verificare l’esistenza del “patto comunicativo” in una coppia uomo-animale significa acquisire uno strumento di lavoro in più per intervenire sul benessere dei componenti della coppia. Istruire il proprietario di un animale su semiotica, semantica e pragmatica significa, di fatto, fornirgli degli strumenti concreti di comprensione dell’animale con cui si rapporta e dargli modo di impostare con questo una comunicazione efficace ed una relazione migliore. Bibliografia Sebeok T.A. (a cura di), Zoosemiotica, Bompiani, Milano, 1973. Tabossi P., Il linguaggio, il Mulino, 1999. Pinker S., L’istinto del linguaggio, Mondadori, 1997.

Indirizzo per la corrispondenza: Maria Chiara Catalani Str.da del Giardino - S. Angelo, 164 60019 Senigallia (An) mchiaracatalani@libero.it


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SINDROME DA INAPPROPRIATA SECREZIONE DI ADH Sara Coan Med Vet, Tommaso Furlanello Med Vet Dip ECVCP, Gianluca Ledda Med Vet, Francesca Fiorio Med Vet, Michela De Lucia Med Vet, Marco Caldin Med Vet Dip ECVCP Liberi professionisti, Padova Obiettivo. La SIADH (Syndrome of Inappropriate Antidiuretic Hormone Secretion) è una sindrome ben nota in medicina umana, raramente descritta in ambito veterinario. Consiste in una sindrome da inappropriata (eccessiva) secrezione di ADH in assenza di stimoli appropriati che ne giustifichino la liberazione (ad es. riduzione del volume circolante effettivo e/o ipernatriemia). In medicina umana l’ADH ipofisario (o una molecola ADH-simile) viene inappropriatamente liberato in pazienti portatori di neoplasie, in corso di patologie polmonari o neurologiche, in presenza di stati dolorifici e successivamente all’uso di numerosi farmaci, quali ad es. ciclofosfamide, vincristina e FANS. L’eccessiva secrezione di ADH porta ad un aumento del riassorbimento di acqua a livello renale, causando diluizione plasmatica e conseguente iponatriemia. Se i meccanismi fisiologici sono integri, la risposta alla diminuzione del sodio plasmatico (Na S) dovrebbe essere la produzione di urine massimamente diluite, con osmolalità urinaria (Osm U) <100 mOsm/kg, grazie alla soppressione della secrezione di ADH. In corso di SIADH ciò non si verifica e l’espansione del volume circolante si associa ad una diminuzione della frazione del riassorbimento tubulare del sodio con conseguente natriuresi. La diagnosi di SIADH si raggiunge non valutando la concentrazione plasmatica di ADH (non misurabile in una buona percentuale di pazienti), bensì registrando in un paziente euvolemico la contemporanea presenza di: iponatriemia sierica, ipo-osmolalità sierica, relativa iperosmolalità urinaria (Osm U >100 mOsm/kg) e natriuria [concentrazione sodio urinario (Na U) >30 mEq/L]. La condizione di natriuria si viene dunque ad instaurare nonostante l’iponatriemia sierica. È nostra opinione che la SIADH sia un fenomeno clinico presente anche nei nostri animali e per tale motivo abbiamo eseguito uno studio retrospettivo su cani e gatti affetti da iponatriemia. Materiali e metodi. Nel periodo compreso tra il 5 Marzo e il 5 Dicembre 2005 sono stati eseguiti 2820 profili biochimici in cani e 559 biochimici in gatti portati a visita nella nostra struttura. Tra questi sono stati individuati 410 cani e 52 gatti iponatriemici. Per selezionare i pazienti affetti da SIADH abbiamo escluso la presenza di fattori concomitanti che possono provocare un abbassamento del sodio sierico. In altri termini abbiamo considerato esclusivamente pazienti iponatriemici e con osmolalità sierica bassa (Osm S) dotati di valori di glicemia, BUN, creatinina nella norma e non colpiti da squilibri elettrolitici imputabili all’uso di farmaci o a patologie particolari (ad es. morbo di Addison). Tramite il profilo urinario abbiamo poi selezionato i soggetti iponatriemici che presentavano contemporanea natriuria (Na U>30 mEq/L) e inappropriata osmolalità urinaria (osm U>100 mOsm/kg). Sono state poi prese in esame le schede cliniche dei pazienti scelti, valutando il motivo della visita, le condizioni cliniche e le diagnosi raggiunte. Dei pazienti portati a visita due sono stati riferiti per vomito saltuario e dolore addominale (uno affetto da grave IBD, uno presentava un corpo estraneo in sede digiunale); in due pazienti è stata diagnosticata polmonite; due erano affetti da piometra; uno da avvelenamento da metaldeide. Un paziente presentava febbre d’origine sconosciuta e dolore articolare generalizzato, uno anemia emolitica immuno mediata e uno linfoma di fenotipo B in chemioterapia. Di tutti questi pazienti era stato valutato lo stato di idratazione e pressorio. Risultati. Con i criteri sopra descritti sono stati raccolti 10 casi di SIADH. Si tratta di 2 gatti (1 maschio e 1 femmina) e 8 cani (4 maschi e 4 femmine) di età compresa tra gli 11 mesi e i 10 anni. Si riportano i dati raccolti indicando il valore minimo e massimo rilevati, il valore medio (VM), gli intervalli di riferimento (IR) per i parametri ematici. Gatti: Na S: 138, 139 (IR: 141-155mmol/L). Osm S: 286, 290 (IR: 301-314mOsm/kg). Na U: 65, 97 mEq/L. Osm U: 810, 509 mOsm/kg. Cani: Na S:131-138 (VM 136; IR: 140-150mmol/L). Osm S: 261-287 (VM 281, IR: 288-298mOsm/kg). Na U: 35.1-201 (VM 101.1 mEq/L). Osm U: 202-1179 (VM 577 mOsm/kg). Conclusioni. Con questo studio abbiamo stimato che l’iponatriemia è uno squilibrio elettrolitico piuttosto frequente, rilevato nel 13.6% dei nostri pazienti. Nell’ambito dei pazienti iponatriemici il 2% è risultato affetto da SIADH. Le cause determinanti sono sovrapponibili a quelle ben note in medicina umana. Il riconoscimento di questa sindrome, seppur rara, è di grande importanza clinica, perché questi pazienti presentano un volume circolante espanso ed ogni fluidoterapia (o anche la semplice disponibilità ad libitum dell’acqua da bere) può essere molto pericolosa. Bibliografia Feldman E, Nelson R. Canine and Feline Endocrinology and Reproduction, 3ed edition, Saunders, 2004: 41-42. Freda B et al: Evaluation of hyponatriemia. Cleve Clin Journal Med 71, 8: 639-650, 2004.

Indirizzo per la corrispondenza: Sara Coan, Clinica veterinaria San Marco Via Sorio 114/c, Padova Tel. 0498561098 - Fax 02 700 518888 E-mail: clinica@sanmarcovet.it


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NEOPLASIA CUTANEA AD INSOLITA PRESENTAZIONE: QUANDO SOLO L’IMMUNOISTOCHIMICA PERMETTE DI FORMULARE UNA DIAGNOSI DEFINITIVA Barbara Dedola1 DMV, Silvio Soliani1 DMV, Monica Gandini1 DMV, Stefano Negri2 DM Libero professionista, Mantova; 2Istituto di Anatomia Patologica, Azienda Ospedaliera Carlo Poma, Mantova

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Scopo del lavoro. Valutare l’utilità della citologia, dell’istologia e soprattutto dell’imunoistochimica nella diagnosi di una neoplasia cutanea ad insolita presentazione. Materiali e metodi. Orazio, un cane Bassotto maschio di circa 10 anni; fu condotto alla visita in quanto, i proprietari avevano notato, da alcune settimane, la comparsa, in rapida successione, di due piccole neoformazioni cutanee e la presenza di una massa posta sulla spalla. Alla visita clinica Orazio si presentava in buone condizioni di salute e pure l’esame obiettivo generale risultava nella norma. L’esame obiettivo particolare dell’apparato tegumentario evidenziava la presenza di una massa sottocutanea, di circa 2 X 3 cm di diametro, posta sulla punta della spalla sx e adesa elle fasce muscolari. Erano, inoltre, visibili due piccole neoformazini cutanee nodulari di diametro inferiore ad 1 centimetro poste rispettivamente su collo e dorso. Vennero eseguiti esami di laboratorio, radiografie toraciche, ecografia addominale ed agoaspirati alle tre neoformazioni. Emocromo e profilo biochimico risultavano sostanzialmente nella norma. Le radiografie LL dx e sx del torace come pure l’ecogafia addomminale non evidenziavano la presenza di ulteriori masse interne. Citologicamente, mentre nella massa della spalla erano visibili poche cellule di forma variabile da tondeggiante a fusata, dotate di citoplasma basofilo, nuclei ovalari e nucleoli a volte prominenti, dalle due neoformazioni cutanee si ottenevano numerose cellule di aspetto tondeggiante-ovalare disposte sia singolarmente che in aggregato.A maggiore ingrandimento, le cellule presentavano variabile rapporto N:C, nuclei ovali o tondeggianti, nucleoli di dimensioni variabili, modesta anisocariosi, citoplasma moderatamente basofilo; mitosi praticamente assenti. Non potendo, visto le caratteristiche poco peculiari di questa neoplasia, emettere una diagnosi citologica definitiva, vennero prese in esame una serie di diagnosi differenziali che comprendevano, in ordine di probabilità, le neoplasie istiocitarie, le neoplasie mesenchimali scarsamente differenziate, il melanoma amelanotico e i carcinomi anaplastici. Poiché, nelle due settimane che seguirono l’esame citologico, si ebbe la comparsa di altre piccole masse cutanee, i proprietari rifiutarono ogni forma di terapia. Nonostante la continua e costante comparsa di nuove neoformazioni cutanee le condizioni dell’animale si conservarono buone per circa quattro mesi, dopodiché, a causa di un progressivo decadimento dello stato generale di salute, Orazio fu sottoposto ad eutanasia. L’esame autoptico permise di constatare la presnza di centinaia di masse, per lo più inferiori al centimetro, disseminate su tutta la superficie corporea, cavità orale e nasale comprese, oltreché in polmoni, intestino, peritoneo, pancreas e ghiandole surrenali. Istologicamente, in tutte le sedi esaminate, era evidenziabile la proliferazione di elementi cellulari di medie-grosse dimensioni, di forma tondeggiante o fusata, con alto rapporto N/C e nucleo atipico con prominente nucleolo; il citoplasma, discretamente rappresentato, era debolmente eosinofilo e contenente all’interno raro pigmento brunastro negativo alla colorazione istochimica per il ferro di Pearls. Numerose figure mitotiche. Le cellule non presentavano secrezione di muco, né di glicogeno (alla colorazione istochimica Alcian PAS). Con le indagini immunoistochimiche si riscontrava positività per vimentina ed S100; le cellule risultavano negative per fattore XIII, actina, desmina, cheratine (pool), antigene leucocitario comune. La diagnosi fu:localizzazioni multiple di melanoma. Discussione e conclusioni. Nel cane i melanomi si dividono in benigni e maligni e rappresentano rispettivamente il 4% e l 1,6% dei tumori cutanei. In questa specie la localizzazione della neoplasia è generalmente correlata al grado di malignità, infatti, contrariamente a questo caso, i melanomi cutanei hanno di solito un comportamento benigno ed un discreto grado di pigmentazione, al contrario quelli del cavo orale, delle giunzioni mucocutanee e delle dita, oltre ad essere meno pigmentati, hanno tendenza a metastatizzare e comportano una prognosi infausta. Citologicamente, le cellule possono presentare forma da rotonda a fusata, anche all’interno dello stesso aspirato; la presenza di pigmento malanico, in varia quantità, permette comunque una facile diagnosi di neoplasia melanocitaria. Per contro, i melanomi maligni amelanotici procurano al citologo seri dubbi diagnostici in quanto difficilmente distinguibili da neoplasie istiocitarie, mesenchimali ed epiteliali scarsamente differenziate; in questi casi l’immunocitochimica e l’immunoistochimica rappresentano un importante ausilio diagnostico. Il caso da noi presentato ci è apparso interessante sia per l’insolita presentazione sia per l’evoluzione; in oltre, testimonia che sebbene la citologia rivesta un ruolo fondamentale nella valutazione delle neoplasie cutanee, in alcuni casi necessita il supporto di ulteriori tecniche diagnostiche. Bibliografia Baker R., Lumsden J.H.: Citologia del cane e del gatto atlante a colori. Masson SpA, Milano, Edizioni Veterinarie, Cremona, 2001. Cowell R. L., Tyler R.D.: Diagnostic cytology of the dog and cat. American Veterinary Publications, Inc., California, 1989. Bibbo M.: Comprehensive citopatohology. W.B. Saunders company, Philadelphia,1997. Enzinger and Weiss’s: Soft tissue tumors. The C.V. Mosby Company, St. Louis, Toronto, Washington, fourth edition. Marcato P.S.: Anatomia e istologia patologica speciale dei mammiferi domestici. Ed. agricole, Bologna, 1981.

Indirizzo per la corrispondenza: Barbara Dedola Via Levatella 14, 46031 Bagnolo S. Vito (MN) Tel. 0376.415640 - 348.3651922 E-mail: detagu@tin.it


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GRANULOMA CEREBRALE DA TOXOPLASMA GONDII IN UN GATTO: ASPETTI DIAGNOSTICI E TERAPEUTICI Cristian Falzone, Med Vet, Foligno (PG) Massimo Baroni, Med Vet, Dipl. ECVN, Monsummano terme (PT), Davide De Lorenzi, Med Vet, Dipl. ECVCP, Forlì, Maria Teresa Mandara, Med Vet, Perugia Toxoplasma Gondii, parassita protozoario intracellulare, è ben riconosciuto agente di malattia multisistemica negli animali domestici. L’infezione rimane, nella maggioranza dei casi, del tutto asintomatica e solo in caso di non efficace risposta immunitaria, è causa di malattia clinicamente manifesta. Seppur non frequentemente, la toxoplasmosi nel gatto può causare segni clinici di tipo neurologico, riferibili ad una meningoencefalomielite non suppurativa. Lo scopo della presente comunicazione è quello di illustrare gli aspetti clinici, diagnostici e terapeutici di un caso di toxoplasmosi cerebrale in un gatto, ritenuto degno di nota per i suoi aspetti di atipicità. Un gatto maschio Europeo a pelo raso, di 12 anni di età, fu riferito per valutazione neurologica con anamnesi di depressione del sensorio, debolezza generalizzata, tendenza ai movimenti in circolo e un episodio riferibile a crisi convulsiva parziale. 4 mesi prima della presentazione il gatto aveva presentato anoressia, vomito e diarrea con risoluzione spontanea nel giro di alcuni giorni. All’esame fisico venivano segnalate cattive condizioni generali, lieve disidratazione, lieve ipotermia. L’esame neurologico confermava il sensorio depresso e evidenziava circling verso sinistra, deficit propriocettivo all’anteriore destro, minaccia depressa bilateralmente. In base a tali segni clinici veniva sospettata una localizzazione neuroanatomica focale al cervello anteriore sinistro. Gli esami ematologici successivamente eseguiti evidenziavano ipoalbuminemia, iperglobulinemia e iposideremia. Test sierologici per FIV e FeLV davano esito negativo. L’esecuzione di uno studio RM al cranio, condotto con sequenze SE T1 e T2 pesate, sui tre piani dello spazio, prima e dopo somministrazione di mezzo di contrasto paramagnetico, consentiva l’evidenziazione di una massa occupante spazio, a margini netti, (dimensioni 8x12mm) in regione temporale sinistra. Nell’emisfero di destra era inoltre presente notevole edema perilesionale. La lesione assumeva contrasto in maniera decisa ed omogenea, prendeva contatto con la dura madre delineando anche “meningeal tail” ed era ben evidente un anello perilesionale ipointenso in sequenza T1 pesata, a delimitazione della patologia dal parenchima sano. Veniva emesso sospetto diagnostico di neoplasia cerebrale e tra gli istotipi più probabili veniva considerato il meningioma ed il linfoma. La patologia è stata quindi affrontata chirurgicamente con approccio rostrotentoriale craniale sinistro. Intraoperatoriamente è stata accertata la natura intrassiale della lesione ed è stato proceduto alla sua asportazione contestualmente a parte del lobo temporale sinistro. Il decorso postoperatorio non ha mostrato complicanze. L’esame citologico del tessuto asportato, effettuato su vetrini allestiti per schiacciamento e colorati con May-Grunwald Giemsa, ha consentito di effettuare diagnosi di granuloma infiammatorio da Toxoplasma. La diagnosi è stata confermata istologicamente e immunoistochimicamente. È stata quindi instaurata una terapia farmacologica a base di clindamicina (20 mg/kg bid x 7 settimane). I segni clinici neurologici sono gradualmente scomparsi, persistendo solamente un deficit propriocettivo destro e una depressione della reazione di minaccia. Un esame RM effettuato a distanza di 8 mesi non ha evidenziato segni di patologia in atto.. Ad un controllo clinico eseguito a distanza di un anno, il gatto è stato trovato in buone condizioni generali e non sono stati evidenziati segni di recidiva. Il caso clinico descritto offre diversi spunti di discussione. Una localizzazione neuroanatomica focale, sebbene più tipica per altre etiologie, non esclude una lesione infiammatoria. Tuttavia l’evidenziazione in sede di esame RM di una lesione occupante spazio fa propendere nel gatto la diagnosi differenziale verso cause neoplastiche. La conferma diagnostica di granuloma da toxoplasma avuta nel presente caso, suffragata da una recente segnalazione bibliografica, consente di inserire tale patologia nel quadro diagnostico differenziale. È inoltre da sottolineare la diagnosi citologica ottenuta da prelievo chirurgico, a nostra conoscenza mai segnalata in letteratura veterinaria. La combinazione tra diagnostica per immagini e citologia/istologia su prelievo chirurgico/bioptico è sicuramente tecnica da tenere in considerazione per una diagnosi etiologica. Infine si segnala il follow-up favorevole dopo associazione di terapia chirurgica e farmacologica. Sebbene ulteriori dati in merito siano necessari, l’approccio chirurgico-farmacologico potrebbe essere indicato in caso di lesioni focali di tipo granulomatoso.

Indirizzo per la corrispondenza: Cristian Falzone Clinica Veterinaria Valdinievole, Via Nigra 123 51015 Monsummano Terme, Pistoia E-mail: CRISFALZ@LIBERO.IT


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AVVELENAMENTO DA RODENTICIDI: SOLO EMORRAGIA? Francesca Fiorio1 Med Vet, Marco Caldin1 Med Vet, Dipl ECVP, Tommaso Furlanello1 Med Vet, Dipl ECVP 1 Libero professionista, Padova Obiettivo. Vogliamo descrivere alcune alterazioni emato-biochimiche in corso di avvelenamento da rodenticidi (vitamin K antagonist poisoning, VKAP) che permettono di ipotizzare che all’azione anticoagulante del tossico si affianchi la presenza di emolisi intravascolare. Materiali e metodi. Tra il mese di gennaio 2004 e il mese di novembre 2005 sono stati diagnosticati presso il nostro centro 31 casi di VKAP. Tale reperto diagnostico è stato fondato su opportune considerazioni anamnestiche, fisiche e idonei test di laboratorio (PT e aPTT). Tra i casi diagnosticati ne sono stati presi in considerazione 20, poiché presentavano i criteri di inclusione richiesti, rappresentati da esame emocromocitometrico, profilo biochimico, elettroforesi sierica e profilo emostatico. In alcuni casi sono state eseguite indagini radiografiche, ecografiche e tomografiche, qualora indispensabili ai fini diagnostici. L’esame delle urine e del relativo sedimento è stato spesso reso impossibile dal rischio di emorragie nel sito di prelievo. Tra tutti i dati raccolti il presente studio fa riferimento in particolare ad alcuni marker di emolisi (rilievi visibili diretti di emolisi sierica, presenza di eccentrocitosi e dosaggio dell’aptoglobina) ed alcuni analiti infiammatori. Tra questi sono stati presi in considerazione la neutrofilia, la proteina C reattiva (PCR), l’aptoglobina (HP), il fibrinogeno (FI) e alcuni marcatori negativi dell’infiammazione come albumina e transferrina. Tali marker infiammatori sono stati utilizzati al fine di una migliore comprensione della dinamica aptoglobinica. Risultati e discussione. In base all’emogramma 13 soggetti (65%) erano anemici. In funzione dell’ematrocrito l’anemia veniva classificata come lieve in 4 casi (Hct 30-37%), moderata in 6 casi (Hct 20-30%), grave in 2 casi (Hct 15-20%) e gravissima in 1 caso (Hct < 15%). L’esame morfologico dello striscio di sangue individuava eccentrocitosi in 8/20 soggetti (40%), indicativa di un danno ossidativo pre-emolitico alla membrana eritrocitaria1. Le alterazioni riscontrate nei restanti accertamenti erano soprattutto di carattere infiammatorio, probabilmente legate alla presenza di emorragie multiple. In quattordici soggetti (70%) il leucogramma rivelava neutrofilia, con valore medio (VM) di 12152 cellule/µl e intervallo di riferimento (IR) 3900-8800 cellule/µl. L’albumina era diminuita nel 40% dei casi, con VM 2,7 g/dl e IR 2.6-3.8 g/dl; la transferrina era diminuita nel 25% dei casi, con VM 307 µg/dl e IR 270-460 µg/dl. La PCR era aumentata in 16/20 soggetti (80%), con VM 2.27 mg/dl e IR 0.0-0.15 mg/dl. Il FI era aumentato in 18/20 soggetti (90%), con VM 431 mg/dl e IR 130-242 mg/dl, mentre l’HP era aumentata in 10/20 soggetti (50%), con VM 130 mg/dl e IR 20-120 mg/dl. Il valore di HP si presentava normale in 7 casi e sotto l’IR in 3 animali. In medicina umana la diminuzione dell’aptoglobina identifica la presenza di emolisi, anche se in corso di flogosi concomitante il valore di HP può risultare normale2. Nei nostri soggetti le variazioni dell’HP dimostravano una scarsa adesione al comportamento delle altre proteine della fase acuta dell’infiammazione. In particolar modo è stata osservata una scarsa correlazione tra HP e FI, che normalmente hanno la medesima tendenza all’aumento in corso di flogosi (proteine moderate della fase acuta)3. Infine in 5 cani il siero aveva aspetto emolitico e in 6/20 casi vi era aumento dell’MCHC (VM 35,1 g/dl e IR 32-37 g/dl), sovente presente in corso di emolisi, mentre solo un caso presentava lieve iperbilirubinemia (VM 0.20 mg/dl e IR 0.15-0.26 mg/dl). In tutti i casi in cui si ritrovava l’aumento di MCHC vi era la presenza di eccentrocitosi. Conclusioni. L’evidenza nel siero di colorazione rosata nel 25% dei casi, l’eccentrocitosi nel 40% dei casi e la diminuzione dell’aptoglobina nel 15% dei soggetti rendono plausibile l’ipotesi che in corso di avvelenamento da rodenticidi l’evento emolitico si associ a quello emorragico. Il marcatore emolitico per eccellenza è rappresentato dall’aptoglobina, che è altresì una proteina della fase acuta dell’infiammazione. La discrepanza con altri marker flogistici sembra aprire la strada all’ipotesi che la diminuzione di tale analita in corso di VKAP rappresenti una manifestazione concomitante di emolisi. In un solo caso è stata riscontrata iperbilirubinemia; tale rilievo è potenzialmente spiegabile nel ritardo tra emolisi e formazione della bilirubina. La conferma di un evento emolitico in questi casi va ricercata dosando alcuni parametri che non aumentano in corso di infiammazione, come ad esempio l’emopessina. Bibliografia 1. 2. 3.

Caldin et al., 2005. A retrospective study of 60 cases of eccentrocytosis in the dog. Vet. Clin. Path. 34(3), pp. 224-231. Thomas. Haptoglobin(Hp)/Hemopexin(Hx). In Thomas (ed): Clinical Laboratory Diagnostics. TH-Books, 1998, pp. 663-667. Ceròn et al., 2005. Acute phase proteins in dogs and cats: current knowledge and future perspectives. Vet. Clin. Path. 34(2), pp. 85-98.

Indirizzo per la corrispondenza: Francesca Fiorio, Clinica Veterinaria Privata San Marco Via Sorio 114/C 35141 Padova Tel. 049 8561098 - Fax 02 700 518888 E-mail: francesca@sanmarcovet.it


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COMPORTAMENTO E METODO DI EDUCAZIONE DI UN CALOPSITTE 1, 2

Federica Furlani1, Giuseppe Pallante2 Med Vet Centro Studi Interdisciplinari di Zooantropologia

Scopo del lavoro. Lo studio comportamentale e l’educazione del calopsitte rappresentano gli obiettivi primari di questo lavoro, sviluppato dalla sezione di Ricerca ed Attività Didattica del Centro Studi Interdisciplinare di Zooantropologia. Il primo obiettivo funge da premessa per il secondo ed è necessario affinché si possano creare le condizioni ottimali per l’instaurasi di una relazione basata sulla fiducia tra educatore ed animale. L’educazione del pappagallo, che coinvolge ogni comportamento e aspetto di questi (dall’educazione alimentare alla socializzazione con le persone estranee) e che ha come punto di partenza e di ritorno l’educatore (inizia e si conclude per ricominciare passando attraverso la riflessione), si rende interessante a molteplici fini: favorisce una corretta relazione tra l’animale e il suo proprietario, previene determinate forme di aggressività (appresa, sociale, da eccitamento, da frustrazione), previene gli incidenti sia domestici sia igienici, rende l’animale prevedibile e più facile da gestire. Educare significa dare una guida e delle regole sociali all’animale, sviluppare le sue capacità e stimolare le sue intelligenze, promuovere la sua crescita e la sua piena evoluzione. In futuro l’animale coinvolto nel progetto assieme all’educatore potrà essere portato in contesti di attività e terapia assistita con gli animali. Metodi impiegati. I presupposti di cui ci si è serviti per l’educazione del calopsitte sono stati la conoscenza della specie in questione (comportamento in natura e linguaggio del corpo), l’osservazione dell’animale (motivazioni e cause del comportamento) e l’osservazione di sé (riflessione sui propri pensieri/comportamenti/metodologie), l’analisi di queste osservazioni nel loro relazionarsi. Sono state rispettate le condizioni favorevoli per l’educazione: giovane età dell’animale ed esperienze pregresse positive, allevamento e svezzamento non traumatici, alimentazione corretta, buono stato di salute e benessere psico-fisico dell’animale, rispetto dei tempi e creazione di ambienti stabili e adatti, disponibilità cognitiva/emozionale sia della calopsitta sia dell’educatore; si sono utilizzate tecniche didattiche competenti. Si è educato l’animale attraverso il metodo gentile, fornendo ad ogni occasione il rinforzo positivo qualora l’animale si comportava nel modo desiderato. Si sono predisposte delle situazioni ad hoc affinché il calopsitte potesse agire nella maniera prevista. Ogni azione degna di interesse è stata associata ad una determinata parola o suono per facilitare la comunicazione interspecifica e l’apprendimento. Nei casi in cui l’animale arrecava danno a sé o agli altri andava incontro alla perdita di attenzione da parte del suo referente. L’attenzione verso l’animale e verso i suoi comportamenti si componeva del contatto vocale, visivo ed affettivo. Sono stati fornite diverse tipologie di situazione-stimolo in modo da far emergere diverse abilità/predisposizioni e intelligenze e si è tenuta alta la motivazione del calopsitte ricorrendo a compiti creativi. Risultati. Il calopsitte, che attualmente ha otto mesi d’età, è fiducioso e ricerca il contatto e la comunicazione verso persone di qualsiasi sesso ed età, anche in ambienti differenti dalla sua abitazione, sempre alla presenza del suo educatore. Si dimostra socievole e non aggressivo nei confronti delle persone elicitando disposizioni positive. La calopsitta è in grado di rispondere adeguatamente a determinate richieste verbali comportandosi nella maniera corretta. Inoltre ha imparato a portare piccoli oggetti nel palmo della mano e riporli in determinati contenitori. L’animale si comporta come richiesto perché è motivato a restare in relazione con la persona e ottenere l’apprezzamento e il contatto affettivo di questa. Il pappagallo desidera imitare i suoni e le parole pronunciate dalle persone con le quali instaura una relazione in quanto è desideroso di comunicare con loro. Affinché l’animale sia più facilmente accettabile all’interno delle istituzioni in cui viene portato è stato educato a fare le proprie deiezioni solo in determinati spazi. Conclusioni. Le capacità comunicative, relazionali ed affettive del calopsitte sono di grande interesse a patto che si tengano presenti la grande sensibilità, intelligenza e capacità di creare forti legami sociali propri della specie. Bibliografia Gismondi E., Il grande libro dei pappagalli e dei pappagallini, De Vecchi Editore, Milano 1992. Heidenreich B., The parrot problem solver: finding solution to aggressive behavior, T.F.H.Publications, Neptune City, 2005. Low R., Why does my bird do that?, 2000, trad.it Perché il mio pappagallo fa così?, Alberto Perdisa Editore, Bologna 2005. Low R., Parrots. A complete guide, 1988, trad.it I pappagalli. Guida completa, Gruppo Ugo Mursia Editore, Milano 1991. Menassè V., Come allevare, ammaestrare ed educare alla parola pappagalli e pappagallini, De Vecchi Editore, Milano 1985. Ravazzi G., Il grande libro degli inseparabili. La classificazione, le specie, l’allevamento, la riproduzione, l’alimentazione e le cure, De Vecchi Editore, Milano, 2004.

Indirizzo per la corrispondenza: Giuseppe Pallante Centro Studi Interdisciplinari di Zooantropologia secondo vicolo Bristol n. 7, 38015 Lavis, Trento Tel. 3403784689 - E-mail: kkokp@tin.it


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UTILIZZO DELLA PORTOGRAFIA RETROGRADA TRANSCUTANEA NELLA DIAGNOSI DELLE COMUNICAZIONI PORTOSISTEMICHE CONGENITE DEL CANE E DEL GATTO Roberto A. Santilli Dr Med Vet D.E.C.V.I.M.-C.A. (Cardiology), Massimo Olivieri Dr Med Vet, GianMarco Gerboni Dr Med Vet, Perego Manuela Dr Med Vet, Simona Voghera Dr Med Vet Clinica Veterinaria Malpensa, Samarate, Varese, Italy La portografia retrograda transcutanea (PRT) è stata descritta come metodo alternativo per diagnosticare la sede delle comunicazioni portosistemiche (CPS) e per valutarne la modalità di chiusura. Lo scopo del lavoro è stato quello di dimostrare l’utilità della PRT nella localizzazione anatomica delle CPS del cane e del gatto. Sono state analizzate in modo retrospettivo le cartelle cliniche di 9 cani ed 1 gatto con CPS congenita diagnosticata attraverso rilievi clinici, esami ematologici ed esame ecotomografico. Ogni soggetto è stato poi successivamente sottoposto a PRT. Descrizione della tecnica. Previa anestesia generale con paziente in decubito laterale viene inserito un catetere a doppio lume dotato di pallone terminale nel sistema venoso centrale attraverso un introduttore giugulare da 7 Fr. Dalla vena giugulare esterna il catetere viene prima indirizzato nella vena cava craniale e poi spinto e posizionato dorsalmente nel lume della vena azygos. Dopo aver insufflato il palloncino e aver determinato l’occlusione del lume vascolare è possibile, sotto visione fluoroscopica, iniettare il contrasto iodato in modo retrogrado evidenziando le vene intercostali e intervertebrali. Questa prima iniezione di contrasto è utile ad evidenziare le comunicazioni porta-azygos. Successivamente per studiare eventuali comunicazioni portacava si procede posizionando il catetere in vena cava caudale attraverso l’atrio destro. Dopo aver dilatato il palloncino in posizione craniale alla linea diaframmatica si esegue la contrastografia retrograda. Questa seconda iniezione permette di studiare la porzione addominale della vena cava caudale e le eventuali comunicazioni anomale con la vena porta. Con il pallone posizionato nel lume della vena cava caudale o della vena azygos a seconda del tipo di anomalia vascolare è possibile effettuare le rilevazioni della pressione pre- e post-occlusione e visto il diretto collegamento esistente tra sistema portale e circolazione venosa sistemica stabilire la pressione di chiusura in acuto della CPS. Sono stati sottoposti a PRT 9 cani di differenti razze ed 1 gatto di razza persiana. Tutti presentavano segni clinici ed esami di laboratorio compatibili con CPS. L’ecotomografia ha consentito di definire la sede anatomica del vaso anomalo in 9/10 casi. Nei cani 7 sono risultati compatibili con comunicazione extraepatica porto cavale gastrica sinistra, 1 con comunicazione extraepatica porta-azygos ed 1 di origine dubbia. Nel gatto la comunicazione è risultata extraepatica gastrica sinistra. L’esame angiografico ha permesso di identificare l’anatomia del vaso anomalo in tutti i pazienti. Nei 9 cani ha evidenziato la presenza di 8 comunicazioni extraepatiche porto-cavali gastriche sinistre ed 1 comunicazione porta-azigos. Il gatto ha evidenziato una comunicazione extraepatica gastrica sinistra. In uno dei cani affetti da comunicazione porta-cava si è evidenziata la contemporanea presenza di una comunicazione cava-azygos. La pressione media pre occlusione è risultata di 9 mm Hg e post di 20 mm Hg. Il tempo medio di scopia è stato di 10,4 minuti. Il tempo medio di anestesia di 51 minuti. Un solo soggetto ha riportato ipertermia e lieve leucocitosi nella 24 ore successive. Nessun soggetto ha avuto complicanze anestesiologiche. Tutti i pazienti sono stati monitorati e ospedalizzati nelle 24 ore successive. Il vantaggio maggiore della tecnica trans-giugulare è stato quello di non richiedere celiotomia e di conseguenza ridurre i tempi di anestesia ed i rischi ad essa connessi, quali dolore, ipotermia, ipoglicemia e coagulopatie. È stato possibile identificare e visualizzare l’anatomia del vaso anomalo nel 100% dei soggetti indagati. La possibilità di eseguire misura diretta della pressione pre- occlusione e post- occlusione ha permesso di meglio discriminare la scelta del trattamento chirurgico terapeutico. In caso di possibile chiusura in acuto della CPS è stato possibile posizionare nella stessa seduta strumenti per l’attenuazione intravascolare progressiva e l’occlusione del vaso anomalo.

Indirizzo per la corrispondenza: Clinica Veterinaria Malpensa viale Marconi 27, 21017 Samarate - Varese Italia Tel. (39)0331-228155 Fax (39) 0331-220255 E-mail: r.santilli@edbusiness.it E-mail: gerbonig@tin.it


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UN CASO DI PALATOSCHISI CONGENITA DEL PALATO SECONDARIO IN UN CANE BOXER TRATTATA MEDIANTE ESTRAZIONE DENTALE E LEMBO MUCOGENGIVALE DI AVANZAMENTO Margherita Gracis, Med Vet, Dipl AVDC, Dipl EVDC Libero professionista, Milano Introduzione. I difetti palatali congeniti possono interessare le strutture del palato primario (il labbro superiore e l’osso incisivo), o del palato secondario (palato duro e molle). I difetti del palato secondario si sviluppano per lo più lungo la linea mediana e possono avere estensione variabile. Si annoverano cause genetiche e cause ambientali, che possono influire negativamente sullo sviluppo embrionale e fetale del soggetto. Poiché è spesso impossibile determinare se la causa sia ereditaria o meno, va sempre raccomandata l’esclusione del soggetto dalla riproduzione. Caso clinico. Veniva portato alla visita clinica un cane di razza Boxer, femmina, di 7 mesi di età, e kg 18,750 di peso. Il soggetto era nato con un difetto completo del palato secondario. Era stato allattato con latte artificiale per i primi due mesi di età, e quindi svezzato con l’uso di diete commerciali inizialmente morbide e poi secche. Veniva riportato un lieve scolo nasale bilaterale cronico e sternuti occasionali. Alla visita il cane si presentava sottopeso, ma vigile ed attivo. All’esame obiettivo particolare si evidenziava lieve linfoadenopatia mandibolare bilaterale simmetrica, morso inverso anteriore causato da un brachignatismo mascellare spinto (30 mm), atrofia bilaterale dei muscoli della masticazione, e una ridotta estensione mandibolare (60 mm). Il difetto del palato secondario si estendeva lungo la linea mediana dalla papilla incisiva al margine caudale del palato molle, con massima ampiezza nella zona tra i canini mascellari (17 mm). L’esame emocromocitometrico, il profilo biochimico completo e lo studio radiografico del torace risultavano nella norma. Lo studio radiografico del cranio evidenziava un ispessimento della parete delle bolle timpaniche indicativo di malattia dell’orecchio medio. A causa delle dimensioni del difetto e scarsità dei tessuti viciniori utilizzabili per la riduzione chirurgica, si optava per l’uso di un lembo mucogengivale di avanzamento a base labiale. Si eseguiva a questo scopo un primo intervento chirurgico di estrazione semplice, non chirurgica di tutti i denti mascellari di destra e del primo e secondo incisivo mascellare di sinistra. Il soggetto veniva concomitantemente sottoposto ad intervento di ovarioisterectomia. Dopo un periodo di 4 settimane, necessario per la guarigione dei tessuti gengivali, il soggetto veniva nuovamente posto sotto anestesia generale per l’esecuzione dell’intervento di palatoraffia. La mucosa palatale veniva incisa a circa 5 mm dal margine del difetto palatale lungo tutta la sua estensione. Un’incisione verticale veniva eseguita al margine rostrale del difetto del palato duro. Veniva quindi sollevato un ampio lembo mucogengivale sul lato di destra scollando dal piano osseo la mucosa palatale, i tessuti gengivali, e la mucosa vestibolare per un estensione di circa 3 cm dorsalmente al margine alveolare. Il lembo veniva poi scollato per via smussa dai tessuti profondi del labbro. Si otteneva così un lembo tissutale a spessore misto, la cui vascolarizzazione veniva assicurata dalle arterie palatina maggiore, palatina minore e nasale laterale. Una membrana biologica veniva posta a ponte tra i margini del difetto osseo, tra il piano osseo e la mucosa palatale, e suturata in sede come supporto per il lembo. Il lembo mucogengivale veniva poi avanzato a raggiungere senza tensione il margine opposto del difetto, a cui veniva suturato mediante punti di sutura staccati. La palatoraffia del palato molle veniva completata mediante sutura a due strati. A tre settimane di distanza si evidenziava deiscenza completa del lembo mucogengivale lungo il difetto del palato duro (55 mm), e al margine caudale del palato molle (10 mm). Tre mesi dopo si ripeteva lo stesso intervento chirurgico di palatoraffia mediante lembo mucogengivale di avanzamento a base labiale, senza però l’interposizione della membrana biologica. Veniva inoltre inserita una sonda esofagostomica per alimentare il soggetto per circa 10 giorni by-passando il cavo orale. A 6 settimane di distanza, dopo la dissoluzione completa del materiale di sutura, il lembo appariva intatto, eccetto un piccolo difetto residuo all’altezza del secondo premolare. La riduzione chirurgica di questo e del difetto residuo del palato molle veniva consigliata ma non eseguita. Conclusioni. L’estrazione dei denti posti in vicinanza di difetti palatali permette l’estensione dei lembi tissutali alla mucosa vestibolare, ampliando in maniera significativa la superficie dei tessuti utilizzabili per la palatoraffia. L’estrazione dentale deve essere eseguita con estrema cautela per minimizzare i danni ai tessuti gengivali. È bene attendere almeno 4 settimane dall’estrazione dentale prima di procedere alla preparazione del lembo e all’intervento di riduzione del difetto palatale.

Indirizzo per la corrispondenza: Clinica Veterinaria Gran Sasso Via Donatello 26 - 20131 Milano Tel. 338 1874498 E-mail: margherita.gracis@fastwebnet.it


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AURAL CHOLESTEATOMA IN THE DOG: 7 CASES (2001-2005) COLESTEATOMA AURICOLARE NEL CANE: 7 CASI CLINICI (2001-2005) C.M. Mortellaro*, V. Greci*, C. Giudice**, M. Di Giancamillo***, O. Travetti*** * Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Chirurgica, ** Sezione di Anatomia Patologica Veterinaria e Patologia Aviarie, *** Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Radiologia Veterinaria Clinica e Sperimentale; Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano, Italia Introduction. Cholesteatoma is an important and potentially serious complication of otitis media occurring in human beings and animals. In dog it is sporadically reported and, however, no large case series have been published so far. Aim of the work. Review of six records where final diagnosis was cholesteatoma. Material and methods. In all cases history, clinical signs, CT features, histological findings, therapy and outcome were evaluated. Six dogs were presented with history of recurrent external/middle otitis, lasting from 30 days up to 1 year, unresponsive to topical and systemic therapy. Physical examination, computed tomography (CT) and video-otoscopy were performed on all dogs. Seven ears were treated with Total Ear Canal Ablation and Lateral Bulla Osteotomy (T.E.C.A.L.B.O.) and the material found into the tympanic cavity was sampled for the histological exam. Results. Seven cases of cholesteatoma in 6 dogs (4 left ears and 3 right ears), 5 male and 1 spayed female. No breed predisposition was observed, mean age was 8 years. Physical examination revealed the presence of: otodinia (5 dogs), dysphagia (3 dogs), pain opening the mouth (2 dogs), otorrhea (2 dogs). Few neurological abnormalities were detected: head tilt (3 dogs), facial palsy (2 dogs). In all cases, CT and histological findings were consistent with cholesteatoma, while video-otoscopy was highly suspicious of it. CT revealed the presence of an expansive and invasive unvascularised lesion involving the tympanic cavity and the bulla. Histological exam was characterised by a cyst lined by a pluristratified keratinized epithelium (up to 25) and filled by keratin debris. Outcome. Few post-operative complications were detected: two dog showed facial palsy, one spontaneously solved. Two recurrences occurred: one dog was treated surgically with V.B.O. (Ventral Bulla Osteotomy) while the other one was euthanized and necropsy was not allowed. Discussion and conclusion. Cholesteatoma is a rare condition but should be suspected when a dog is presented with history of recurrent otitis unresponsive to conservative therapy and CT reveals the presence of an expansive and invasive unvascularised lesion involving the tympanic cavity and the bulla. Neurological signs can be present as well. CT is the most sensitive tool for diagnosis of cholesteatoma because of its distinctive features, and histology works as a supportive complementary exam. Surgery is the only therapy and T.E.C.A.L.B.O. proved to be effective.

Indirizzo per la corrispondenza: Carlo Maria Mortellaro Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Sezione di Clinica Chirurgica Via Ponzio 7, 20131 Milano


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CASE REPORT: LEFT AURAL INFLAMMATORY POLYP CONCOMITANT TO AURAL RIGHT LYMPHOMA IN A YOUNG DSH CAT POLIPO AURICOLARE SINISTRO CONCOMITANTE A LINFOMA AURICOLARE DESTRO IN UN GATTO V. Greci *, C.M. Mortellaro *, A. Jacchetti *, M. Di Giancamillo **, O. Travetti ** * Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Chirurgica, ** Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Radiologia Veterinaria Clinica e Sperimentale; Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano, Italia History. A 2.5 years old neutered male DSH cat was referred because of a problem of recurrent otitis unresponsive to topical therapy. Physical examination. Physical examination revealed presence of left head tilt, left Horner’s syndrome (enophthalmos), shacking head, aural itchiness and scratching. Collateral exams. X-rays of the bulla showed loss of air contrast into the left tympanic cavity while the right one appeared normal. Video-otoscopy revealed the presence of new greyish tissue in the horizontal tract of both ear canals. Left lesion was managed conservatively by traction alone and biopsies sampled for histological exam. No biopsy were performed on the right aural lesion. Diagnosis. Due to the young age, first diagnosis was of bilateral aural inflammatory polyp. The histological exam confirmed the suspicious on left ear. Therapy. A therapy with Prednisone 1 mg/kg BID for 7 days, then 1 mg/kg SID for 7 days, then 1 mg/kg SID every other day for 7 days and Enrofloxacyn 7.5 mg/kg SID for 21 days was started. Follow-up. The owner referred an improvement of the general condition of the cat. A month later the cat was brought for right aural lesion traction. Physical examination revealed Horner’s syndrome on the right eye (third eyelid protrusion and miosis) and right head tilt, but the owner did not allow to perform computed tomography (CT) of the bulla. During traction, an accidental fracture of the right bulla occurred, confirmed by X-rays shots. Traction was interrupted. The fragment previously collected were processed for histological exam. Five days later, due to a worsening general condition of the animal, the owner agreed to perform CT of the bulla. The CT findings were consistent of a mass lesion into the tympanic cavity involving the neighbour tissues with positive enhancement after iv injection of contrast solution. Histological diagnosis was Lymphoma. The cat was euthanized. Conclusion. Though inflammatory polyp is the main cause of recurrent otitis in cats and only few cases of aural Lymphoma are described in cats, aural Lymphoma should be suspected as cause of external/media/internal otitis even in young cats.

Indirizzo per la corrispondenza: Carlo Maria Mortellaro Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Sezione di Clinica Chirurgica Via Ponzio 7, 20131 Milano


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CUSTOMER RELATIONSHIP MANAGEMENT (CRM) IN MEDICINA VETERINARIA, ESPERIENZA DI UNA CLINICA VETERINARIA Luca Lideo, Med Vet; Roberto Milan, Med Vet; Matteo Gobbo, Med Vet; Giuliana Bonetti, Med Vet; Ermenegildo Baroni, Med Vet Clinica Veterinaria Baroni, Rovigo Introduzione e scopo del lavoro. In medicina veterinaria molta attenzione viene posta nella definizione diagnostica delle patologie affrontate nella pratica clinica, tuttavia sono ancora molto scarsi gli elementi che ci permettono di definire il nostro operato di qualità, intesa come il grado in cui un insieme di caratteristiche del servizio offerto soddisfano i requisiti del cliente. Scopo di questo lavoro è quello di analizzare i risultati di un questionario di valutazione proposto ai nostri clienti. Metodi impiegati. Questionario, composto da 26 domande suddiviso in: 18 domande a risposta multipla (5 possibilità di risposta); 6 domande conoscitive e 2 a risposta aperta. Non avendo a disposizione modelli specifici per servizi veterinari privati, è stato seguito il percorso proposto da Clerfeuille in cui, partendo dall’insegna, venivano richieste informazioni riguardo alla possibilità di parcheggio, la sala d’attesa, la reception, l’accoglienza telefonica, la sala visite e la degenza. Tale modello è stato integrato chiedendo informazioni riguardo: le prestazioni sanitarie (diagnostica di laboratorio, diagnostica per immagini, chirurgia); l’impatto emotivo in momenti come l’eutanasia del proprio animale; il rapporto qualità/prezzo delle prestazioni offerte; e chiedendo suggerimenti sulla possibilità di eseguire controlli più frequenti ed approfonditi in animali considerati anziani. Al termine è stata posta una domanda aperta per avere proposte da parte dei clienti. Il questionario è stato somministrato a clienti abituali nel periodo autunnale. Risultati. 47 clienti hanno risposto al nostro questionario. La presenza di un’insegna evidente, la possibilità di parcheggio, la sala d’attesa, la reception, l’accoglienza telefonica, la sala visite e le prestazioni sanitarie (diagnostica di laboratorio, diagnostica per immagini, chirurgia) hanno avuto una valutazione molto buona/buona superiore al 50%. Le domande in cui si trovano una maggior variabilità di risposta sono la valutazione sul locale degenza che ha avuto un giudizio buono/molto buono complessivamente inferiore agli altri locali della struttura; il rapporto qualità/prezzo ritenuto buono nel 59% dei casi e sufficiente nel 30% dei casi; e la frequenza dei controlli da eseguire in un cane anziano che, secondo in nostri clienti, dovrebbe avvenire annualmente nel 47% dei casi e semestralmente nel 35% dei casi. Conclusioni. Le informazioni raccolte ci offrono delle conferme sulla linea seguita nei miglioramenti professionali e ci permettono di porre dei correttivi laddove si è vista una variabilità di risposta. Dal punto di vista strutturale bisognerà implementare il servizio degenza, mentre dal punto di vista manageriale si nota una congruità tra le prestazioni offerte ed il prezzo richiesto per esse. Va posta molta attenzione riguardo i controlli da eseguire nel cane anziano, che vengono richiesti annualmente/semestralmente dall’82% dei clienti: questo dato ci indica che dobbiamo insistere molto di più nel proporre tali controlli come una pratica sanitaria routinaria, come le vaccinazioni e le profilassi. Per il futuro ci si propone di apportare delle correzioni ai punti indicati dai clienti e di ripresentare loro il questionario per valutare l’indice di gradimento di tali miglioramenti. In conclusione riteniamo il questionario di valutazione uno strumento utile nella pratica lavorativa; auspichiamo una maggior diffusione tra i colleghi veterinari allo scopo di confrontare le esperienze e di far crescere il marketing sanitario veterinario sull’onda di quanto già avviene per la medicina umana. Bibliografia consultata 1. 2. 3. 4.

F. Clerfeuille. Fare la diagnosi del marketing di una clinca. Atti del 48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC. 2004. pp 101-102. A. Miolo. Risultati di un’indagine conoscitiva sulla geriatria in Italia. Atti del 50° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC. 2005. pp 359. M. Viotti, G. W. Crotti, R. Tovini. La sala visite: usi e abusi. Atti del 50° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC. 2005. pp 319. G. W. Crotti, R. Tovini, M. Viotti. La sala d’aspetto: usi e abusi. Atti del 50° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC. 2005. pp 65.

Indirizzo per la corrispondenza: Lideo Luca Clinica Veterinaria Baroni Via Martiri di Belfiore, 69/D, 45100 Rovigo Tel. 0425/471076-0425/404918 E-mail: lucalideo@libero.it


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DISTURBO NEUROLOGICO IN UN GATTO CON DEMINERALIZZAZIONE OSEEA Andrea Malgeri Med Vet Libero Professionista, Salerno Italia Lo scopo del presente lavoro è quello di illustrare l’efficacia della terapia omeopatica classica in corso di una sindrome neurologica correlata ad un dismetabolismo del calcio. Segnalamento: gatto maschio europeo castrato di 4 anni circa. Il gatto in questione sottoposto a visita clinica in data 11 marzo 2004, evidenzia difficoltà di deambulazione, debolezza ed incoordinazione motoria degli arti posteriori. Dalla visita neurologica non si evidenzia perdita della sensibilità superficiale e profonda, ma si evidenzia debolezza muscolare specialmente agli arti posteriori. Effettuata una radiografia della colonna in toto si evidenzia una marcata demineralizzazione del tratto cervicale e dell’omero (vedi Fig. 1). Al termine della visita preliminare ho effettuato un breve filmato che mette in evidenza lo stato paraplegico. Dopo aver supposto che la demineralizzazione fosse la causa scatenante della sindrome in atto, ho ritenuto opportuno fare un approccio terapeutico con l’omeopatia classica. In seguito al colloquio omeopatico ho raccolto i seguenti sintomi repertoriali: • estremità - incoordinazione • estremità - debolezza • estremità - paralisi - inferiori: arti • sintomi generali - osteomalacia, rammollimento osseo • sintomi generali - freddo - aggr. • stomaco - appetito - aumentato FIGURA 1 • sintomi generali - cibi e bevande - carne - desiderio - deve mangiare che hanno portato alla diagnosi del rimedio Calcarea Carbonica 30 CH, da somministrare in ragione di 5 granuli 2 volte al giorno per 21 giorni. I sintomi repertoriali altro non sono che la raccolta dei sintomi derivanti dalla sperimentazione pura sull’uomo sano, eseguita secondo le regole stabilite da Samuel Hahnemann. Mentre il repertorio è il testo di consultazione con cui l’omeopata fa diagnosi. Cioè mediante la visita omeopatica, composta da visita semeiotica clinica e colloquio omeopatico. Tutto questo per mettere in evidenza i sintomi del paziente nella sua totalità, in quanto ogni paziente è uguale solo a se stesso, e quindi oltre ai sintomi di malattia dobbiamo mettere in evidenza le modalità soggettive. Tra i vari sintomi scelti per questo paziente possiamo vedere che il freddo aggrava (sintomi generali), e questa è la traduzione da repertorio che il gatto è freddoloso. Se fosse stato invece caloroso, tradotto in il caldo FIGURA 2 aggrava (sintomi generali), non avremmo potuto scegliere la Calcarea Carbonica in quanto dalla sperimentazione sappiamo che è freddoloso. Queste semplici affermazioni possono far intuire che l’omeopatia classica non può essere applicata secondo protocolli terapeutici basati sui sintomi soli della malattia, perché soltanto questi non rispecchiano l’individualità del malato. Come ulteriore esempio voglio riportare la differenza che ci può essere tra un artrite che migliora con il movimento ed una che aggrava con il movimento: nella medicina convenzionale questo dato può essere osservato ma comunque la scelta terapeutica sarà sempre basata su molecole antinfiammatorie della stessa categoria con le stesse indicazioni per tutti, mentre in omeopatia classica nel primo caso daremo Rhus Toxicodendron e nel secondo daremo Bryonia Alba, i quali se invertiti non daranno nessun effetto terapeutico perché mancanti della modalità soggettiva dell’individuo malato. Il 27 marzo 2004 la proprietaria mi ha comunicato telefonicamente che il gatto dal punto di vista motorio stava migliorando ma che adesso sulla guancia sinistra era comparso una gonfiore caldo a contenuto molle. Il 29 marzo alla visita di controllo il gonfiore si era rivelato un ascesso maturato e scoppiato (vedi Fig. 2). Questo, tecnicamente, in omeopatia viene definito processo di esonerazione che prelude alla guarigione. Infatti la paraplegia stava nettamente migliorando, mettendo in evidenza una maggior forza nella levata degli arti posteriori e una miglior coordinazione motoria. Il secondo follow up a un mese dalla prima visita ha messo in evidenza un ritorno alla quasi normalità della deambulazione (miglioramento valutabile intorno al 70 – 80%) e un miglioramento nella reattività e umore del gatto. La proprietaria riferisce che il gatto ha ripreso a giocare come non faceva da circa 2 anni. A distanza di oltre un anno il gatto gode di ottima salute, conduce una vita felina normale compreso fare salti sul lavello di cucina per rubare il cibo. In conclusione posso affermare che l’omeopatia classica in questo caso neurologico felino è stata efficace ed ha guarito il paziente. Bibliografia Schroyens Fredric -Syntesis 8.0. George Vitholkas -La scienza dell’omeopatia. George Vitholkas –Materia Medica Viva.

Indirizzo per la corrispondenza: Andrea Malgeri - Via F. Sorrentino 19 - 84013 Cava de’Tirreni (SA) - E-mail: maland@alice.it


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IMPIEGO DELLA MUCOSA LABIALE NELLA REALIZZAZIONE DI UNA CISTOSTOMIA CONTINENTE E CATETERIZZABILE Maria Lucia Manunta Med Vet, Giovanni Mario Careddu Med Vet, Gerolamo Masala Med Vet, Nicola Columbano Med Vet 1, Paolo Cossu Rocca Med Chir2, Antonio Dessanti Med Chir 3, Eraldo Sanna Passino Med Vet Istituto di Patologia Generale, Anatomia Patologica e Clinica Ostetrico - Chirurgica Veterinaria, Settore di Clinica Chirurgica - Università degli Studi - Sassari 1 Dottorando in Anestesiologia Veterinaria - Sassari 2 Istituto di Anatomia Patologica - Facoltà di Medicina e Chirurgia - Università degli Studi di Sassari 3 Cattedra di Chirurgia Pediatrica - Facoltà di Medicina e Chirurgia - Università degli Studi - Sassari La diversione urinaria permanente è una procedura impiegata per consentire l’eliminazione delle urine quando non sia possibile utilizzare il cateterismo intermittente. Le principali indicazioni sono rappresentate da neoplasie delle basse vie urinarie, ostruzioni intra o extra luminali, gravi traumatismi, il cui trattamento impedisce il normale deflusso di urine. Numerose sono le tecniche impiegate e, tra queste, la più usata è la cistostomia antepubica il cui principale limite è rappresentato da infezioni ascendenti delle vie urinarie e dalla gestione del catetere. Anche l’impiego di un tratto di apparato digerente (stomaco, digiuno, ileo) per la deviazione urinaria non è consigliato nella pratica clinica veterinaria a causa di complicanze di natura metabolica ed infettiva. Un’interessante alternativa è rappresentata dalla realizzazione di una cistostomia continente e cateterizzabile che elimina la necessità di un sistema di raccolta delle urine. In medicina umana, a tale scopo, viene realizzato un condotto costruito con l’appendice vermiforme le cui estremità, impiantate rispettivamente sulla cupola e sulla parete addominale, assicurano il contenimento delle urine e garantiscono un condotto facilmente cateterizzabile. Tale procedura è utilizzata soprattutto per il trattamento di patologie congenite delle basse vie urinarie ma non è scevra da rischi e complicazioni. La nostra ipotesi è che l’impiego di un lembo libero di mucosa buccale, ampiamente usato in medicina umana per la ricostruzione dell’uretra, possa essere adatto per costruire un condotto nella realizzazione di una cistostomia continente. Materiali e metodi. La ricerca ha previsto l’utilizzo di 6 maialini di 30 giorni d’età e del peso medio di 10 kg che, in regime di anestesia generale, sono stati sottoposti al prelievo della mucosa del labbro superiore per il confezionamento di un tubo di circa 6 cm di lunghezza e 2 cm di diametro: le due estremità del tubulo sono state anastomizzate rispettivamente sulla cupola vescicale e, tramite un tunnel intramuscolare e sottocutaneo costruito nello spessore della parete addominale, sulla cute della fossa iliaca destra. Gli animali hanno mantenuto all’interno del condotto un catetere di Foley per 2 settimane successive all’intervento. Nel periodo postoperatorio i soggetti sono stati valutati clinicamente per evidenziare segni riferibili a difficoltà sia nella prensione degli alimenti e nell’assunzione dei liquidi che, soprattutto, nella minzione e nella fuoriuscita di urine in corrispondenza della stomia. Risultati. In tutti gli animali, che non hanno manifestato alterazioni della prensione degli alimenti, la mucosa buccale si è riepitelizzata in 2-3 settimane. Cinque settimane dopo l’intervento, ad un esame in anestesia generale, la cistostomia è risultata continente e cateterizzabile in 5 maialini. In un solo animale un’infezione del tunnel ha impedito l’impianto della mucosa sulla cupola vescicale. Nella stessa seduta di controllo i condotti sono stati asportati per le valutazioni istopatologiche che hanno consentito di apprezzare l’integrità della mucosa e la buona vascolarizzazione dell’impianto. Conclusioni. Nonostante la cistostomia continente sia stato applicata con risultati abbastanza soddisfacenti utilizzando oltre l’appendice anche le tube e l’uretere, non mancano i riferimenti a complicazioni quali stenosi o perforazioni del condotto durante il cateterismo. La mucosa buccale offre molteplici vantaggi rappresentati dallo spessore dell’epitelio che la protegge da traumi iatrogeni, una lamina propria sottile che facilita la vascolarizzazione e l’innesto del lembo. Inoltre, la mucosa buccale è facilmente prelevabile, presenta un ridotto tasso di contrazione cicatriziale, è adatta al continuo contatto con i liquidi, è priva di peli e presenta una buona resistenza alle infezioni. Nella nostra esperienza sperimentale questa tecnica è apparsa rapida e di semplice esecuzione. La stomia è risultata continente e facilmente cateterizzabile. Nonostante siano da valutare le applicazioni cliniche nei nostri animali, la ricerca sembra validare questa tecnica come alternativa alle metodiche attualmente in uso in medicina umana anche perché in grado di evitare procedure chirurgiche più complesse. Bibliografia consultata 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Mollard P: Rèsultats de la cystostomie ètanche pour vessie neurologique de l’enfant et de l’adolescent (56 observations entre 1978 en 1993). Rass. It. Chir. Ped. 37: 84-87, 1995. Zommick JN, Simoneau AR, Skinner DG, Ginsberg DA: Continent lower urinary tract reconstruction in the cervical spinal cord injured population. J. Urol. 169: 2184-7, 2003. Kochakarn W, Muangman V: Mitrofanoff procedure in combination with enterocystoplasty for detrusor hyperreflexia with external sphincter dyssynergia: one-year experience of 12 cases. J. Med. Assoc. Thai. 84: 1046-50, 2001. Hakenberg OW, Ebermayer J, Manseck A, Wirth MP: Application of the Mitrofanoff principle for intermittent self-catheterization in quadriplegic patients. Urology 58: 38-42, 2001. Shimada K, Matsumoto F, Tohda A, Harada Y, Naitoh Y: Surgical management of urinary incontinence in children with anatomical bladder-outlet anomalies. Int. J. Urol. 9: 561- 6, 2002. Frimberger D, Lakshmanan Y, Gearhart JP: Continent urinary diversions in the extrophy complex: why do they fail?. J. Urol.170: 1338-42, 2003. Mitrofanoff P: Cystostomie continente trans appendiculaire dans le traitment des vessies neurologiques. Chir. Pediatr. 21: 297-305, 1980. Liard A, Seguier-Lipszyc E, Mathiot A, Mitrofanoff P: The Mitrofanoff procedure: 20 years later. J. Urol. 165: 2394- 8, 2001. Da Silva EA: Appendicovesicostomy: the Mitrofanoff procedure -a 15-year perspective. J. Urol. 164: 2029, 2000.

Indirizzo per la corrispondenza: Maria Lucia Manunta - via Vienna, 2 07100 Sassari - Tel. 079/229422 - E-mail: lmanu@uniss.it


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SCAPULECTOMIA TOTALE NEL GATTO CON SALVATAGGIO DELL’ARTO: 6 CASI Salvatore Maugeri Med Vet Libero professionista, Pisa Introduzione. Nel caso di tumori a carico della scapola o di grave artrite degenerativa dell’articolazione scapolo-omerale, la scapulectomia totale con salvataggio dell’arto rappresenta un’alternativa all’amputazione o all’artrodesi. Lo scopo di questo lavoro è quello di riportare l’esperienza di sei casi clinici e di valutare la ripresa funzionale dell’arto e la qualità di vita dei soggetti trattati. Metodi impiegati. Nell’arco di 7 anni (1998-2005) sono stati trattati 6 gatti (5 di razza europea e 1 persiano), 4 maschi e 2 femmine, sterilizzati, di età compresa tra 2 e 10 anni (media: 6 anni), di peso variabile tra 4 e 6 kg (media: 5 kg) con un follow-up da 1 a 13 mesi. La scapulectomia totale è stata eseguita per l’asportazione di due neoplasie ossee (una primaria e una di origine metastatica), in tre casi di fibrosarcoma interscapolare (strettamente connesso alla base ossea) e un caso di grave artrosi a carico dell’articolazione scapolo-omerale conseguente ad artrite settica di vecchia data. La tecnica chirurgica verrà illustrata durante la presentazione ma il punto fondamentale per non avere deficit funzionali dell’arto è avere durante l’intervento il massimo rispetto di: muscoli, vena cefalica, plesso brachiale, nervi sopra e sottoscapolare e vasi ascellari. I muscoli della cuffia rotatoria (muscoli sottoscapolare, infraspinato, sopraspinato e teres minor) vengono interamente scollati dalla base ossea e suturati tra loro ed alla muscolatura adiacente; in particolare il muscolo deltoide deve essere suturato ai muscoli RAZZA ETÀ SESSO PESO MOTIVO DELLA scapolare e trapezio e l’origine del tendine del muscolo bicipi4kg) SCAPULECTOMIA TOTALE te brachiale alla capsula articolare. Se vengono rispettate e Europeo 8 Maschio 4 Colangiocarcinoma ricostruite in questo modo tutte le strutture anatomiche non metastatico comparirà alcun deficit funzionale nel postoperatorio. Europeo 2 Maschio 5 Osteosarcoma Risultati. I risultati ottenuti con questa procedura sono stati decisamente incoraggianti. Per ogni singolo paziente sono stati Europeo 6 Femmina 4 Fibrosarcoma valutati vari parametri a tempi determinati. Tutti i pazienti tratinterscapolare tati hanno ripreso le normali funzioni quotidiane dal primo Europeo 7 Maschio 6 Fibrosarcoma giorno post-intervento. Nell’arco di un mese circa i pazienti interscapolare hanno riacquistato il 100% dell’ampiezza di movimenti (r.o.m.) Europeo 10 Femmina 6 Fibrosarcoma originale e l’utilizzo dell’arto con appoggio e carico sia in stainterscapolare zione che nelle varie andature. Nessun paziente ha riportato neuropatie riferibili a danneggiamento del plesso brachiale. Persiano 3 Maschio 5 Artrosi deformante Cinque proprietari su sei si sono dichiarati soddisfatti del risul-

CASO 1

1° giorno

7° giorno

15° giorno

3° mese

Dolore postoperatorio (sì-no)

No

No

No

R.O.M. (da 0 a 3)

0

2

3

Grado di zoppia (0 a 4)

4

2

1

Deficienza neurologica sensoriale (no - parziale - totale)

no

no

no

Deficienza neurologica motoria

parziale

parziale

parziale

Atrofia muscolare

no

no

Soddisfazione del proprietario

Si espande la superficie mediale della scapola scontinuando il muscolo romboide e scontinuando il muscolo serrato della scapola

Media 6 casi (%)

1° giorno

7° giorno

15° giorno

3° mese

Dolore postoperatorio

16,7

0

0

0

Recupero del R.O.M.

0

83,3

100

100

Zoppia grave

16,7

0

0

Deficienza neurologica sensoriale

0

0

0

0

Deficienza neurologica motoria

33,3

16,7

0

no

Atrofia muscolare

0

0

33,3

Soddisfazione del proprietario

83,3

83,3

83,3

83,3

Scontinuare il muscolo coracobrachiale e i muscoli piccolo rotondo, infraspinato, sopraspinato e sottoscapolare vicino alla loro origine omerale.


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tato ottenuto, il sesto ha mostrato qualche riserva nel primo periodo per un fattore estetico e manca una valutazione obiettiva a causa del rapido decesso del gatto. Uno dei pazienti è attualmente in vita, i restanti cinque sono deceduti, di questi: tre per l’evoluzione della neoplasia e due per cause diverse dalla patologia primaria. Conclusioni. La scapulectomia totale nel gatto e nel cane (razze toy), anche se poco descritta in letteratura, può essere considerata una valida alternativa chirurgica all’amputazione dell’arto anteriore o all’artrodesi scapolo-omerale nelle diverse patologie in quanto permette il salvataggio dell’arto, una minore deturpazione estetica e può garantire una ottima qualità di vita con una ripresa funzionale dell’arto trattato da buona a eccellente. Rispetto allo stesso tipo di intervento eseguito nell’uomo il gatto sembra mantenere di più la gamma di movimenti della spalla mentre sembra avere un uso più limitato della mano. Bibliografia Trout N.J., Pavletic M.M., Kraus K.H., Partial scapulectomy for management of sarcomas in three dogs and two cats. J. Am. Vet. Med. Assoc. 1995 Sep. 1;207(5):585-7. Fossum T.W., Caroll G.L., Hedlund C.S., Hulse D.A., Johnson A.L., Seim H.B., Willard M.D., Capitolo 37. In Fossum T.W.: Chirurgia dei Piccoli Animali. Masson, Milano, seconda edizione, 2004, p 1168-1169.

Indirizzo per la corrispondenza: Salvatore Maugeri, Via I Gioielli n° 33 Località I Gioielli - 56042 Crespina Pisa Tel. 050/634091 - Cell. 335/6303749 E-mail: maugeri@clinicaveterinaria.net


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TIBIAL WEDGE OSTEOTOMY (TWO) NELLA ROTTURA DEL LEGAMENTO CROCIATO ANTERIORE DEL CANE - ESPERIENZA PERSONALE IN 35 CASI Marco Melosi 1, Med Vet; Stefano Giannini2, Med Vet 1-2 Libero Professionista, Cecina (LI) Introduzione. La rottura del Legamento Crociato Anteriore (LCA) del ginocchio rappresenta la lesione di più frequente riscontro nella zoppia posteriore del cane. Risultano maggiormente colpiti da questa patologia i soggetti di taglia grande, i soggetti particolarmente attivi, quelli in sovrappeso e quelli appartenenti a razze con un appiombo del ginocchio particolarmente diritto. La patogenesi della rottura del LCA è di tipo traumatico e di tipo non traumatico. Nel primo caso è generalmente causata da una iperestensione forzata del ginocchio, con torsione interna della tibia, mentre nel secondo caso intervengono diversi fattori che portano ad una progressiva lacerazione del legamento, sottoposto ad un carico eccessivo e continuo, come l’inclinazione eccessiva del plateau tibiale, l’appiombo eccessivamente diritto del ginocchio, il peso corporeo e la torsione interna del piede nei cani con le zampe posteriori arcuate. Nel ginocchio in cui il legamento crociato ha perso la sua funzione di stabilizzazione articolare, le forze di carico che agiscono sul plateau tibiale provocano la sublussazione craniale della tibia e lo schiacciamento del menisco mediale da parte del condilo femorale. Tra le molte tecniche proposte per il trattamento chirurgico di questa lesione, le tecniche finalizzate a modificare la biomeccanica articolare e quindi a neutralizzare la sublussazione craniale della tibia, sembrano quelle che garantiscono i migliori risultati sia nell’immediato post-operatorio (rapido recupero funzionale dell’articolazione) che in tempi più lunghi (limitazione dell’evoluzione artrosica). Le tecniche che modificano la biomeccanica del ginocchio sono la TWO (tibial wedge osteotomy, osteotomia a cuneo della tibia), la TPLO (tibial plateau levelling osteotomy, osteotomia livellante del plateau tibiale) e la TTA (tibial tuberosity advancement, avanzamento della tuberosità tibiale). Il presente lavoro espone l’esperienza personale utilizzando una propria modifica della TWO. Materiali e metodi. Sono stati trattati con TWO modificata 35 cani appartenenti a razze diverse, del peso compreso tra 15 e 45 kg e che alla diagnosi clinica presentavano la rottura del LCA, con test del cassetto e test di compressione tibiale positivi. L’esame radiografico è stato utilizzato, oltre che per valutare le condizioni articolari, per misurare l’inclinazione del plateau tibiale e per effettuare la scelta per la misura della placca da utilizzare per fissare l’osteotomia. La tecnica chirurgica è consistita in una esplorazione articolare mediante miniartrotomia mediale per il trattamento di eventuali lesioni meniscali, seguita da una osteotomia a cuneo chiuso cranialmente della tibia, eseguita a livello della parte distale della tuberosità tibiale. Per poter ottenere due superfici osteotomiche combacianti, l’osteotomia veniva eseguita in modo che il triangolo del cuneo fosse un triangolo isoscele, con la base rivolta cranialmente, utilizzando un’apposita maschera-guida. La maschera-guida serviva anche per effettuare le osteotomie perpendicolarmente alla tibia, in modo da evitare il rischio di possibili deviazioni in varo o in valgo una volta ridotti i capi ossei. L’angolo del cuneo doveva corrispondere alla misurazione dell’inclinazione del plateau tibiale cui venivano sottratti 5 o 7 gradi per ottenere un’inclinazione finale di tale valore. L’angolo calcolato veniva riportato nel campo chirurgico utilizzando apposite mascherine presagomate. La riduzione dell’osteotomia veniva mantenuta provvisoriamente con una pinza da riduzione appuntita finché veniva fissata stabilmente con una placca a T di misura adeguata alla taglia del cane. Nella parte craniale della tibia veniva talvolta aggiunto un cerchiaggio di tensione per contrastare le forze in direzione craniale esercitate dal quadricipite nei cani pesanti o molto attivi. La chiusura dei piani scontinuati e l’applicazione di un bendaggio imbottito leggero concludevano l’intervento. Nel periodo post-operatorio veniva raccomandato il riposo per almeno un mese, permettendo unicamente brevi passeggiate al guinzaglio. I controlli ortopedici e radiografici sono stati effettuati a 30, 60 e 180 giorni. Risultati. Nei controlli post-operatori, l’inclinazione ottenuta del plateau tibiale è risultata variabile da 3 a 12 gradi, con negativizzazione del test di compressione tibiale. Nei controlli a 60 giorni, 27 cani su 35 (77,2%) presentavano un appoggio deciso, con solo un lieve scarico del peso in stazione quadrupedale, mentre 8 cani (22,8%) presentavano una zoppia da 1° a 2° grado. Di questi, 2 presentavano un’infezione profonda risoltasi con la rimozione degli impianti e con trattamento antibiotico, 3 presentavano l’allentamento di una o più viti della placca, 1 presentava la frattura della cresta tibiale e 2 mostravano una progressione dell’artrosi, già grave al momento dell’intervento a causa della cronicità della lesione. Nel controllo a 6 mesi, effettuato su 22 soggetti (63% dei cani trattati) solo 3 continuavano a mostrare una zoppia saltuaria, mentre gli altri cani avevano ripreso una piena funzionalità dell’arto. Discussione. Nella nostra esperienza, questa tecnica si è dimostrata relativamente semplice e la sua esecuzione non ha richiesto il possesso di una strumentazione complessa e costosa come quella necessaria per eseguire la TPLO; a differenza della TPLO, però, questa tecnica è risultata meno versatile, specie per la difficoltà di ottenere la correzione di condizioni di malallineamento dell’arto pelvico, frequenti in certe razze, come la torsione interna del piede. Il livellamento del plateau tibiale ottenuto con la TWO si è dimostrato in grado di neutralizzare la spinta craniale della tibia nelle ginocchia con rottura del legamento crociato anteriore, permettendo un recupero funzionale costante e soddisfacente. La modifica personale della tecnica, con un’osteotomia a cuneo formante un triangolo isoscele ha permesso un miglior accostamento dei capi ossei e favorito una guarigione ossea più pronta. L’abbassamento relativo della rotula che si verifica con la TWO non è sembrato influire sulla ripresa funzionale e sulla progressione dell’artrosi. Il grado di artrosi ai controlli eseguiti a distanza è parso limitato e comunque in funzione del grado di artrosi già presente al momento dell’intervento. La precocità dell’intervento per ristabilire la stabilità articolare appare quindi, come per tante altre patologie articolari, una condizione indispensabile per limitare lo sviluppo dell’artrosi. Indirizzo per la corrispondenza: Marco Melosi, Via Circonvallazione,25 -57023- Cecina (LI) Fax e Tel. 0586-683649 - E-mail: marco.melosi@tiscali.it


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UN CASO DI PERITENITE CRONICA ADESIVA DEL TENDINE DEL MUSCOLO ESTENSORE RADIALE DEL CARPO IN UN CANE E RELATIVO TRATTAMENTO FISIOTERAPICO Carlo Miola1, Med Vet, Pier Mario Piga2, Med Vet, Emanuela Revel Nutini3 1,2 Libero professionista, Torino 3 Titolare del Centro Villa Beria, Mathi, Torino Introduzione. La guarigione delle lacerazioni tendinee può risultare difficile se si sottovaluta l’importanza di un corretto svolgimento del processo riparativo. Durante la maturazione del tessuto cicatriziale, che avviene da 3 a 6 settimane dopo il trauma, i sistemi fibrillari si dispongono in modo da fornire alla cicatrice la resistenza sufficiente a sopportare le sollecitazioni funzionali. In 3 mesi la perdita di sostanza è completamente rimpiazzata dal collagene. La maturazione definitiva della cicatrice necessita di almeno un anno; al termine di questa fase la resistenza del tendine alla trazione corrisponde comunque solo al 50-70% di quella del tessuto originale. Sollecitazioni in fase precoce possono determinare un’essudazione fibrinosa che può tramutarsi in aderenza fibrosa con i tessuti contigui. In particolare ciò può avvenire se l’arto non viene immobilizzato per almeno 2-3 settimane dopo il trauma e se successivamente non si provvede ad una graduale ripresa dell’attività fisica. L’aderenza formatasi può diventare responsabile del perpetuarsi del processo flogistico: se sollecitata, essa può produrre una peritenite cronica, una paratenite iperplastica o andare incontro ad ossificazione metaplastica. Materiali e metodi. Un Golden Retriever femmina di 2 anni è stato portato a visita perché dopo esercizio di minima intensità manifestava una zoppia di 2°-3° all’arto anteriore sinistro. L’anamnesi rivelava un trauma avvenuto 35 giorni prima: una profonda ferita da taglio alla faccia dorsale del carpo sinistro. La ricostruzione dei tessuti lacerati è stata eseguita da un collega che non ci è stato possibile contattare per ottenere informazioni più dettagliate sull’estensione della lesione e sulla tecnica chirurgica utilizzata. Nel post-operatorio l’arto non è stato immobilizzato e non è stato prescritto il riposo. Alla visita clinica, accanto alla cicatrice, si evidenziava una tumefazione di 4 cm di diametro, di consistenza fibrosa, calda e dolente alla palpazione, a livello della quale la cute era adesa ai piani sottostanti. Il paziente manifestava algia alla flessione del carpo e dita e l’escursione articolare del carpo era notevolmente ridotta in flessione, raggiungendo un angolo di soli 90°, e lievemente diminuita in estensione, raggiungendo i 190° (valori del controlaterale: 32°-196°). L’esame radiografico in proiezione medio-laterale evidenziava la presenza di una piccola area radiodensa 0,5 cm cranialmente all’articolazione mediocarpica, interpretabile come un principio di ossificazione metaplastica del tendine nell’area lesionata. La diagnosi formulata sulla base dei reperti clinici era di peritenite cronica e pseudoanchilosi del carpo in seguito alla formazione di un’aderenza tra il tendine del muscolo estensore radiale del carpo ed i tessuti contigui. Il trattamento medico ha previsto il riposo assoluto del paziente con confinamento in spazio ristretto e attività al guinzaglio solo per brevi passeggiate. È stato somministrato prednisone 0,75 mg/kg s.i.d. per 1 settimana, poi con dosi scalari per i successivi 9 giorni, allo scopo di arrestare il processo flogistico e rallentare la maturazione delle aderenze, inibendo la proliferazione dei fibroblasti. La settimana successiva, la tumefazione non aveva più i caratteri della flogosi acuta: non era calda né dolente. La flessione del carpo, anche se provocava una manifestazione algica, era aumentata di 15°. È stato instaurato un protocollo fisioterapico volto a sbrigliare le aderenze e a favorire la corretta maturazione del tessuto. Per 12 giorni è sta-

FOTO 1 - Lesione come evidenziata alla prima visita.

FOTO 2 - Lesione al termine dei trattamenti.


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Tabella 1 Valori relativi alle misurazioni goniometriche effettuate VALORI RELATIVI ALL’ARTO PATOLOGICO (CARPO SINISTRO) Arto sano Valori di controllo

Giorni trascorsi dopo la lesione

35

43

55

85

97

240

Evento

Prima visita

Inizio 1° ciclo di terapie

Fine 1° ciclo di terapie

Inizio 2° ciclo di terapie

Fine 2° ciclo di terapie

Controllo follow-up

32

Flessione

90

75

60

60

40

60

196

Estensione

190

190

190

185

195

195

164

ROM

100

115

130

125

160

135

ta applicata quotidianamente l’ultrasuonoterapia per 7 minuti con onda a 3 Mhz, ciclo di funzionamento al 20% e intensità di 1,2 Watt/cm2.. Le sedute erano seguite da una sessione di chinesioterapia passiva, stretching e massaggi di frizione con direzione ortogonale all’orientamento della cicatrice cutanea. Veniva inoltre applicata a scopo preminentemente antalgico e antinfiammatorio la magnetoterapia a radiofrequenza multipla con sedute quotidiane della durata di 30 minuti, onda smorzata 900 MHz18 MHz, impulsi di ampiezza picco/picco di 70 volt emessi a 2500 pps. Risultati. Al termine di questo ciclo di terapia la flessione del carpo era pari a 60°, il paziente non manifestava più algia alla flessione del carpo e la cute appariva meno adesa alla fascia sottostante.Le stesse terapie sono state ripetute dopo 1 mese e anche questo secondo ciclo ha dato ottimi risultati: al termine la flessione del carpo era di 40° e l’estensione di 195°, valori pressoché sovrapponibili a quelli del controlaterale. Passati 3 mesi dal trauma, è stato consentito un graduale ritorno ad un normale regime di esercizio, concordando un programma di attività con il proprietario. Al controllo clinico 8 mesi dopo il trauma la cagna non mostrava zoppia a caldo né a freddo, non aveva algia alla flesso-estensione del carpo e l’escursione articolare raggiunta mesi prima era parzialmente conservata (flessione 60°, estensione: 195°). Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.

Brinker WO, Piermattei DL, Flo GL: Traumi dei muscoli, tendini e legamenti. In Brinker WO, Piermattei DL, Flo GL: Manuale di ortopedia e trattamento delle fratture nei picoli animali. Torino, UTET, 1989, pp 501-510. A. Autefage: “La cicatrizzazione dei tendini e dei legamenti”. Summa, 1: 29-34, 1999. I. Valin: “Studio delle lesioni tendinee nel cane”. Summa, 1: 7-18; 1999. D. Levine, R.A. Taylor, D.L. Millis: Common orthopedic conditions and their physical rehabilitation. In D. Levine, R.A. Taylor, D.L. Millis: Canine rehabilitation and physical therapy. Philadelphia, WB Saunders Co, 2004, pp 335-387. B. Micheletto: Patologia dei tendini e delle guaine sinoviali. In B. Micheletto: Patologia chirurgica veterinaria e podologia. UTET, Torino, 1980, pp 326-342. G. Jaegger, D.J. Marcellin Little, D. Levine: “Reliability of goniometry in Labrador Retrievers”. Am. J. Vet. Res. 63; 7: 979-986, 2002. D. Levine, R.A. Taylor, D.L. Millis: Therapeutic modalities. In D. Levine, R.A. Taylor, D.L. Millis: Canine rehabilitation and physical therapy. Philadelphia, WB Saunders Co, 2004, pp 228-354. E. Sanna Passino, G.M. Careddu, M.L. Manunta, P. Muzzetto: Le onde elettromagnetiche a radiofrequenza multipla nella terapia del mal di stinchi nel cavallo da corsa. Atti XI Congresso Nazionale SICV, 2004, pp. 251-253. D.E. Hudson, D.O. Hudson: Magnetic field therapy. In M.A. Schoen, S.G. Wynn: Complementary and alternative veterinary medicine, principles and pratice. St. Louis, Mosby, 1998, pp 275-298. J. E. Steiss: Canine rehabilitation. Publisher International Veterinary Information Service (www.ivis.org), Ithaca, New York, 2003. M. Porter, M. Bromiley: Massage therapy. In M.A. Schoen, S.G. Wynn: Complementary and alternative veterinary medicine, principles and pratice. St. Louis, Mosby, 1998, pp 213-216. D. Grandejean: “Patologia del cane sportivo II: Le affezioni della locomozione”. Summa, 3: 9-20; 1996. B. Micheletto: Patologia delle articolazioni. In B. Micheletto: Patologia chirurgica veterinaria e podologia. UTET, Torino, 1980, pp 263-319.

Indirizzo per la corrispondenza: Carlo Miola Via Lanzo 4/A fr. Monasterolo Torinese 10070 Cafasse (TO) Tel. 3384696670 E-mail: miolacarlo@tiscali.it


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EFFETTI DI UN NUTRACEUTICO NEUROPROTETTIVO A BASE DI FOSFATIDILSERINA (SENILIFE®) SULLA MEMORIA A BREVE TERMINE DI CANI ANZIANI: STUDIO SPERIMENTALE CONTROLLATO Joseph Araujo*° BSc, Gary Landsberg§ DMV Dipl. ACVB, Alda Miolo# *Dipartimento di Farmacologia, Università di Toronto, Toronto, Ontario, Canada °CanCog Technologies, Toronto, Ontario, Canada § Libero professionista, Thornhill, Ontario, Canada # CeDIS Innovet Italia, Rubano, Italia Introduzione. La neurodegenerazione dei neuroni corticali ed ippocampali rappresenta un naturale processo dell’invecchiamento, tanto nell’uomo, quanto nel cane. Ne consegue un fisiologico rallentamento di tutte quelle funzioni presiedute dal cervello, apprendimento e memoria in particolare. Tali processi neurodegenerativi possono rimanere nella soglia della normalità, ovvero portarsi a livelli patofisiologici o francamente patologici. Nell’uomo, si parla allora di demenza senile, la cui forma più frequente è il morbo di Alzheimer. Anche il cane anziano può andare incontro ad invecchiamento cerebrale patologico, con caratteristiche istologiche, neurofisiologiche e cliniche sovrapponibili all’Alzheimer umano. L’individuazione dei segni clinici di demenza senile del cane è assai complessa e transita in maniera obbligata attraverso il proprietario, con tutta la soggettività che ciò comporta. L’unica opzione farmacologica ad oggi disponibile è la selegilina, attiva su molti, ma non tutti, i pazienti trattati. Al fine di bypassare tali problematiche, sono stati messi a punto alcuni test cognitivi di laboratorio, recentemente validati nel cane anziano, e capaci sia di definire la gravità del deficit cognitivo, sia di valutare l’efficacia di trattamenti per la neurodegenerazione senile. Scopo. Scopo del presente studio è valutare l’effetto di un nutraceutico neuroprotettivo a base di fosfatidilserina1 (Senilife®, Innovet Italia) sulla memoria visuospaziale a breve termine di cani anziani. Materiali e metodi. In base a specifici criteri di inclusione, sono stati selezionati 10 cani Beagle di età superiore ai 7 anni e peso compreso tra 8 e 17 kg. Prima di iniziare lo studio, i soggetti sono stati suddivisi in due gruppi equivalenti, sulla base delle capacità dimostrate durante 5 sessioni preliminari del test di memoria varDNMP (variable delayed-non-matching-to-position). Il test consiste nel presentare al soggetto un vassoio con tre alloggiamenti, uno dei quali è inizialmente occupato da un cubo, che nasconde una ricompensa in cibo. Dopo che il soggetto ha spostato il cubo ed ha trovato la ricompensa, il vassoio viene allontanato e quindi ripresentato al cane, dopo 20 o 90 sec, con due cubetti identici, uno nella medesima posizione iniziale, l’altro in uno degli altri due alloggiamenti possibili. L’animale deve imparare che la ricompensa è situata sotto il cubo collocato nella nuova posizione. Uno dei due gruppi riceveva il nutraceutico nascosto in una polpetta di carne, l’altro solo la polpetta (controllo). Dopo 60 giorni di trattamento, i soggetti venivano ritestati per 10 sessioni di varDNMP. Quindi i gruppi venivano invertiti (studio cross-over): i soggetti che avevano assunto il nutraceutico nella prima parte dello studio fungevano da controllo e viceversa. Per la valutazione statistica è stata utilizzata l’analisi della varianza a misure ripetute, dove la variabile dipendente era l’accuratezza della performance. Risultati. Rispetto al valore basale, il trattamento migliora la performance cognitiva in modo statisticamente significativo. Inoltre, i soggetti trattati migliorano la propria performance nel corso delle 10 sessioni del test in maniera maggiore rispetto ai soggetti di controllo, a suggerire che il trattamento interviene anche sulle capacità di apprendimento. I risultati ottenuti indicano che i soggetti raggiungevano il picco di performance durante il trattamento e che il nutraceutico in studio migliorava sia i comportamenti legati all’apprendimento che quelli legati alla memoria. Conclusioni. I risultati ottenuti nel presente studio suggeriscono che il nutraceutico testato potrebbe promuovere la funzionalità cognitiva del cane anziano, migliorando, in particolare, l’apprendimento e la memoria dei comportamenti appresi. Ciò è in accordo con la nota capacità della fosfatidilserina di mantenere e/o ripristinare la plasticità della membrana neuronale e di ottimizzare i principali sistemi neurotrasmettitoriali, variamente compromessi nell’invecchiamento cerebrale fisiopatologico e francamente patologico. I risultati ottenuti avvalorano, infine, recenti studi clinici sull’efficacia del Senilife® nel trattamento dei segni comportamentali età-correlati nel cane. Riferimenti bibliografici Chan ADF, Nippak P, Murphey H, et al: Visuospatial Impairments in Aged Canines: The Role of Cognitive-Behavioral Flexibility. Behavioral Neuroscience 116: 443-54, 2002. Landsberg G, Araujo JA: Behavior problems in geriatric pets. Vet Clin North Am Small Anim Pract 35(3):675-98, 2005. Landsberg G: Therapeutic agents for the treatment of cognitive dysfunction syndrome in senior dogs. Prog Neuropsychopharmacol Biol Psychiatry 29(3):471479, 2005. Colangeli R, Antoni A, Cena F et al: Valutazione dell’effetto e della tollerabilità di un nutraceutico neuroprotettivo contenente fosfatidilserina e Ginkgo biloba sui segni clinici di invecchiamento cerebrale nel cane: studio pilota multicentrico. Veterinaria (in press).

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EFFICACIA DEL PALMIDROL (INN) SUI SEGNI CLINICI DI DERMATITE ATOPICA DEL CANE Alda Miolo CeDIS Innovet Italia, Rubano, Italia Introduzione. Nel cane la dermatite atopica rappresenta la manifestazione più comune di atopia. Nell’ambito di questa patologia cutanea a primaria sintomatologia pruriginosa il mastocita dermico sembra giocare un ruolo patogenetico di primo piano. Palmidrol (INN) è la denominazione internazionale della palmitoiletanolamide, una aliamide ad effetto cannabimimetico, prodotta in vari tessuti dell’organismo, fra cui la cute, in risposta a pericoli attuali o potenziali. Recentemente viene considerata parte integrante dei sistemi difensivi dell’organismo, entrando a pieno titolo nella schiera dei mediatori endogeni direttamente coinvolti nel controllo del dolore, dell’infiammazione e del prurito. Il suo principale meccanismo d’azione risiede nella modulazione dell’eccessiva degranulazione mastocitaria, anche noto con l’acronimo ALIA (Autacoid Local Injury Antagonism). Il suo uso nelle dermatopatie da ipersensibilità gode di una forte copertura brevettuale nazionale ed internazionale. Scopo. Valutare gli effetti della somministrazione orale di Palmidrol (INN) sullo sviluppo di segni clinici in un modello di dermatite atopica canina. Materiali e metodi. Venivano selezionati sei cani Beagle ipersensibilizzati all’acaro della polvere (house dust mites, HDM). Una volta entrati in contatto epicutaneo con l’HDM (3 ore/die per 3 gg consecutivi), i soggetti sviluppavano lesioni cutanee analoghe - per profilo clinico, istologico ed immunologico - a quelle della malattia naturale, anche se di gravità superiore. I cani venivano quindi suddivisi a random in due gruppi, di cui uno (n = 3) trattato con Palmidrol per os al dosaggio di 15 mg/kg/die/7gg (4 gg di pre-trattamento + i 3 gg seguenti, corrispondenti alle tre esposizioni ambientali all’acaro) e l’altro (n = 3) con placebo (gruppo di controllo). Dopo un mese di wash-out, i due gruppi venivano invertiti: i cani che avevano ricevuto Palmidrol assumevano il placebo e viceversa (studio cross-over). I segni clinici di dermatite atopica venivano valutati tramite un indice CADESI (Canine Atopic Dermatitis Extent and Severity Index) modificato e rilevato prima e dopo (6, 24, 48, 72 e 96 ore) l’esposizione all’acaro. Tutti gli esperimenti ivi descritti sono stati condotti presso il Department of Small Animal Clinical Sciences della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università della Florida. Risultati. Se pure nell’arco delle 96 ore di osservazione i punteggi CADESI dei due gruppi non risultavano statisticamente differenti, nel gruppo trattato le lesioni cutanee si sviluppavano solo dopo la terza esposizione ambientale all’acaro (48 ore), vale a dire con un ritardo di 24 ore rispetto al gruppo di controllo (placebo) (vedi Fig.). Conclusioni. Questo è il primo studio che utilizza la colonia di Beagle ipersensibilizzati all’HDM per valutare gli effetti di una molecola potenzialmente attiva sulla dermatite atopica. I risultati suggeriscono che Palmidrol (INN) - nonostante la breve durata del trattamento e l’intensità della risposta dermatologica tipica del modello adottato – sia utilmente impiegabile nella dermatite atopica del cane. È probabile che il ritardo osservato nello sviluppo delle lesioni cutanee nel gruppo trattato sia riconducibile alla modulazione esercitata dal Palmidrol sull’iper-degranulazione dei mastociti cutanei, già ampiamente dimostrata in precedenti studi. Ringraziamenti. Si desidera ringraziare la prof. Rosanna Marsella ed il suo staff per aver condotto gli esperimenti sui Beagle. Riferimenti bibliografici De Mora F, Torres R. Mast cells in the immunopathogenesis of canine atopic dermatitis. Proceedings 19th Annual Congress ESVD-ECVD, Tenerife, 2003, pp. 92-95. Re G, Barbero R, Miolo A, Di Marzo V: Palmitoylethanolamide, endocannabinoids and related cannabimimetic compounds in protection against tissue inflammation and pain: Potential use in companion animals. Vet J [Epub - doi:10.1016/j.tvjl.2005.10.003], 2005. Scarampella F, Abramo F, Noli C: Clinical and histological evaluation of an analogue of palmitoylethanolamide, PLR 120 (comicronized Palmidrol INN) in cats with eosinophilic granuloma and eosinophilic plaque: a pilot study. Vet Dermatol 12(1):29-39, 2001.

Nel gruppo trattato con Palmidrol (INN) le lesioni cominciano a comparire dopo 48 ore dalla prima esposizione all’acaro, mentre nel gruppo di controllo si manifestano già a partire dalla ventiquattresima.

Indirizzo per la corrispondenza: Alda Miolo CeDIS Innovet - Innovet Italia srl Viale Industria 8 - 35030 Rubano Tel. 049.898.73.19 - Fax. 049.898.73.21 E-mail: cedis@innovet.it


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ESPERIENZA CLINICA NELLA STABILIZZAZIONE DEL GINOCCHIO AFFETTO DA ROTTURA DEL LEGAMENTO CROCIATO ANTERIORE NEL CANE MEDIANTE TRASPOSIZIONE DELLA TUBEROSITÀ TIBIALE Mario Modenato1 Med Vet, PhD, SMPA, Luciano Borghetti2 Med Vet, Consuelo Ballatori1 Med Vet 1 Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa 2 Libero Professionista, Marina di Carrara (MS) Introduzione. Negli ultimi 15 anni è aumentata l’attenzione alla biomeccanica del ginocchio, per identificare nuove soluzioni al problema dell’incompetenza del Legamento Crociato Anteriore (LCA). Sono nate quindi l’Osteotomia a cuneo chiuso anteriore (CCWO), l’Osteotomia di Livellamento del Piatto Tibiale (TPLO) e, più recentemente ad opera della Scuola Veterinaria di Zurigo, l’Avanzamento della Tuberosità Tibiale (TTA). Entrambe hanno come fine ultimo la neutralizzazione della funzione del legamento stesso, annullando attraverso meccanismi diversi l’effetto traslante anteriore sulla tibia esercitato dalle diverse forze agenti sul ginocchio, e trasferendo al legamento crociato posteriore l’azione di stabilizzazione durante la fase propulsiva. Il lavoro presenta la tecnica ed i risultati clinici ottenuti in 33 pazienti nel periodo ottobre 2004 – ottobre 2005. Materiali e metodi. Nel periodo indicato, fra i soggetti presentati alla visita clinica con rottura totale o parziale del legamento anteriore, i cui proprietari optassero consapevolmente per un intervento di stabilizzazione mediante osteotomia (TPLO o TTA), ne sono stati selezionati casualmente 33 che sono stati sottoposti TTA. Di questi 3 sono stati operati bilateralmente, per un totale di 36 ginocchia operate (12 dx, 24 sx). I soggetti appartenevano a razze diverse, con età compresa fra 1 e 13 anni, suddivisi in 20 maschi e 13 femmine. Esame clinico ed analisi di laboratorio hanno escluso la presenza di patologie concomitanti. In anestesia generale è stato eseguito un esame radiografico dell’arto posteriore in proiezione posteroanteriore e mediolaterale estesa a 135°, che comprendesse il ginocchio e l’intera gamba per studiare l’allineamento dell’arto e consentire le misurazioni per la scelta degli impianti da utilizzare. Dopo artrotomia mediale, il ginocchio è stato esplorato per confermare la rottura totale (28 casi, 80%) o parziale (8 casi, 20%), verificare la presenza di una lesione meniscale (8 casi, 22%) o altre lesioni associate (OCD condilo mediale 1 caso). In 12 casi è stato eseguito un meniscal release secondo la tecnica descritta da Slocum. Dopo scheletrizzazione della metà prossimale mediale della tibia si procede all’osteotomia ed alla trasposizione della tuberosità tibiale, mantenuta in sito da una placca idonea a cui viene solidarizzata una forchetta con un numero variabile di rebbi (da 3 a 8). Questi trovano alloggio in un analogo numero di fori praticati con un apposita maschera nella tuberosità prima dell’osteotomia. La dislocazione è ottenuta con l’aiuto di un cestello in titanio, di larghezza pari all’entità della trasposizione che si vuole ottenere. Il cestello e lo spazio residuo sono poi riempiti con un innesto spongioso. Cestello e placca sono fissati con viti corticali di idonee dimensioni. Nel postoperatorio non viene applicato nessun contenimento. Al paziente viene imposto un regime di attività limitato a passeggiate al guinzaglio per le prime 6 settimane, al termine delle quali si esegue un controllo radiografico per verificare lo stato di cicatrizzazione del sito osteotomico. Al paziente è quindi concessa una graduale ripresa dell’attività fisica. Risultati. Tutti i soggetti hanno ripreso l’appoggio dell’arto in 2a-4a giornata. Si è osservato un modesto edema locale che si è sempre risolto spontaneamente in 4a giornata. In generale, dopo una fase iniziale di rapido miglioramento clinico, si è assistito ad una progressione più lenta ma sempre positiva, A distanza di 6 settimane comunque 27 soggetti (85%) presentavano una deambulazione pressoché regolare, con pieno carico sull’arto operato, ROM conservato e sit test negativo. I test del cassetto e della compressione tibiale si mantenevano positivi. A 10 settimane tutti i soggetti hanno riacquisito una buona funzione deambulatoria. È stata registrata una complicanza intraoperatoria, dovuta ad un errore di valutazione dell’allineamento dei fori per la forchetta. Questo ha comportato l’impossibilità di mantenere il contatto della tuberosità osteotomizzata con la diafisi nella porzione distale. Non si sono comunque registrate complicanze nel periodo postoperatorio ed al controllo a 6 settimane la cicatrizzazione del sito di osteotomia si presentava leggermente ritardata rispetto alla norma. È stata registrata una complicanza postoperatoria nel cane affetto contemporaneamente da OCD del condilo mediale, che ha comportato una deviazione in varo del ginocchio, non compensata adeguatamente durante la chirurgia, che ha indotto una lussazione rotulea mediale. Conclusioni – La TTA si presenta come una tecnica interessante per la stabilizzazione del ginocchio con rottura del LCA. Restano da valutare gli esiti sul lungo periodo (2-4 anni) ed i limiti di applicazione, ove ve ne fossero, per poterla considerare una eventuale alternativa od un possibile complemento alla TPLO.

Indirizzo per la corrispondenza: Mario Modenato, Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa, Via Livornese lato monte, 56010 S. Piero a Grado - Pisa Tel. 050.3135145 - Fax 050.3135182 Cell. 335.8302197 E-mail: modenato@vet.unipi.it


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UNA “STRANA” LESIONE CUTANEA Maria Luce Molinari Med Vet, Monica Serenari* Med Vet Libero professionista Salerno * Libero professionista Ravenna Anamnesi. Wiston è un cane meticcio, di circa 12 anni. Il motivo della visita è una lesione che il cane presenta da circa 1 anno alla palpebra inferire sinistra. Si tratta di una neoformazione nodulare ulcerata, dura, alopecica, da cui fuoriesce un secreto sanguinolento. Il cane è stato trattato sia per via generale che localmente con antibiotici e antinfiammatori, senza alcun risultato per molti mesi. All’esame clinico si riscontra una linfoadenomegalia regionale sottomandibolare. L’esame oculistico è nella norma, così come l’emogramma, il profilo biochimico e l’ecografia addominale. Diagnosi. Tra le possibili diagnosi differenziali vanno considerati: carcinoma, adenocarcinoma, basalioma, mastocitoma, melanoma, linfoma, piogranuloma….. Si decide di effettuare un ago aspirato ed una biopsia. Il referto dell’ago aspirato è il seguente: vetrino infiammatorio con popolazione prevalente costituita da neutrofili e macrofagi. Non si evidenziano cellule neoplastiche. La biopsia dà il seguente risultato: Flogosi cronica attiva piogranulomatosa. Non sono presenti cellule neoplastiche. Colloquio omeopatico. Si decide quindi d’accordo col proprietario di effettuare una terapia omeopatica. Il colloquio omeopatico fornisce i seguenti elementi: Il cane è molto aggressivo con gli altri maschi, e per questo è stato sottoposto ad orchiectomia. È affettuoso, ma pone precisi limiti alle coccole. Ha paura dei tuoni e dei rumori forti. È molto geloso, in particolare detesta i bambini, perché gli tolgono l’attenzione generale, cosa per lui estremamente importante. Si isola quando è malato, ma assiste i proprietari quando sono malati loro. Desidera dolci, soprattutto gelato, e anche prosciutto. È molto caloroso e d’estate diventa apatico. Beve molto. Non ama essere lavato, e desidera l’aria aperta. Metodo di presa del caso. Il caso è stato preso per Essenza. Repertorizzazione. Scegliamo per la repertorizzazione questi sintomi: Mente: gelosia Mente: dittatoriale Occhi: infiammazione palpebre Sintomi generali: caldo < Sintomi generali: aria aperta > Sintomi generali: Cibi e bevande: desiderio di dolci Sintomi generali: Ascessi Stomaco: sete Livello di salute. Il cane appartiene ad un primo gruppo di salute strati bassi, e quindi ci aspettiamo da lui un preciso aggravamento sintomatologico prima della guarigione, cosa della quale è stato avvertito il proprietario. Terapia. Sulla base dei sintomi e del livello di salute è stato scelto per Wiston il rimedio Calcarea Sulphurica, ed è stata somministrata una dose alla 200 k. Dopo 20 giorni dall’assunzione del rimedio, la lesione è peggiorata, ed il cane ha presentato uno scolo giallastro purulento dall’occhio sinistro. Dopo 40 giorni la lesione si presenta molto ridotta e lo scolo è scomparso. A 60 giorni Wiston è perfettamente guarito, ne ha più, fino ad oggi a distanza di un anno, manifestato alcun problema. Discussione. Il caso di Wiston, di per sé molto semplice, ci permette di fare alcune interessanti riflessioni di natura omeopatica. Infatti in questo caso il valore della diagnosi clinica è di importanza rilevante per arrivare ad una terapia omeopatica valida. Il rimedio somministrato è un rimedio che suppura in modo notevole, ma la semplice visita clinica non ci permette di rilevare nessun segno di suppurazione, anzi poiché la lesione si presenta ad occhio come un’ulcera, fa pensare ad un rimedio con tendenza distruttiva, cioè ad un rimedio sifilitico, non ad un rimedio sicotico come è appunto Calcarea Sulphurica, di cui invece il cane ha bisogno. È quindi sempre necessario prima di somministrare un rimedio procedere a tutti gli accertamenti diagnostici utili per la diagnosi, in modo da non farsi depistare dalle semplici apparenze, cosa che a volte viene trascurata, privilegiando l’aspetto puramente omeopatico e affidandosi semplicemente ai sintomi espressi dal proprietario del paziente. Inoltre ci sembra interessante notare che, tentata inutilmente la terapia allopatica, al cane non restava altro che la strada chirurgica per risolvere la lesione; strada difficile da percorrere, data la sede della lesione stessa, senza procurare danni all’apertura e chiusura dell’occhio, o sofferenze prolungate in seguito a chirurgia plastica all’animale. Conclusioni. In conclusione, la strada omeopatica, dopo la scelta oculata del rimedio adatto al caso, si è rivelata essere la via di minor danno e sofferenza per Wiston, procurando una guarigione dolce e duratura. Bibliografia G. Vithoulkas: la scienza dell’omeopatia; materia medica viva. F. Schroyens Syntesis 8.0.

Indirizzo per la corrispondenza: Maria Luce Molinari Via F. Sorrentino n° 19, 84013 Cava de’Tirreni (SA) E-mail: ml.molinari@aimov.it


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RADIOLOGIA DIGITALE NELLE PATOLOGIE ODONTOIATRICHE DEL CONIGLIO Mirko Radice Med Vet Libero professionista, Milano Le alterazioni degli elementi dentali nel coniglio sono ormai da anni considerate una causa scatenante di malattie sistemiche; la componente genetica nell’insorgenza di tali patologie è universalmente accettata, anche se è ormai evidente, la compartecipazione di differenti fattori. Indipendentemente da quale sia l’origine della patologia si giunge al risultato costante di una alterazione occlusiva; questa può coinvolgere uno o più elementi dentali, che non essendo più soggetti al consumo masticatorio, andranno incontro ad una crescita anomala. La possibilità di valutare queste alterazioni è sovente affidata alla visita clinica, che nella maggior parte dei casi, non è però in grado di darci informazioni soddisfacenti sia dal punto di vista diagnostico che prognostico. Per tale motivo una visita clinica generale ed una obiettiva particolare del cavo orale non possono essere considerate esaustive, se non associate ad una adeguata indagine radiografica. Scopo del lavoro. L’utilizzo della radiologia convenzionale ci fornisce sicuramente molte indicazioni sulle patologie dentali del coniglio, ma nello stesso tempo presenta diverse problematiche; prima fra tutte la sovrapposizione di più strutture all’interno della proiezione radiografica. In secondo luogo la difficoltà di visualizzazione del legamento parodontale e della zona apicale le cui valutazioni ci forniscono indicazioni utili sull’insorgere di una patologia frequente ed estremamente grave in questi animali: l’ascesso dentale. Lo scopo di questo lavoro è la valutazione radiografica delle patologie odontoiatriche del coniglio, con l’ausilio della radiologia digitale odontoiatrica, usufruendo dei molteplici vantaggi che essa offre e mettendone in luce eventuali limiti. Metodi impiegati. Raccolta anamnestica, visita clinica, anestesia, indagine radiografica. Sono stati indagati soggetti con patologie d’entità variabile, correlando le informazioni ottenute dalla visita clinica a quelle dall’indagine radiografica, per arrivare a formulare una prognosi che fosse la più attendibile possibile. Le proiezioni standard effettuate sono: - latero-laterale obliqua destra e sinistra per le emiarcate mandibolari. - latero-laterale destra e sinistra per le emiarcate mascellari. - latero-laterale destra e sinistra per incisivi mascellari e mandibolari. - dorso ventrale per gli incisivi mascellari - ventro-dorsale per gli incisivi mandibolari Per effettuare lo studio radiografico è stato utilizzato un sistema di radiologia digitale endorale ad alta definizione (Sensori CCD VisualiX HDI). Un apparecchio radiografico odontoiatrico 15 mA-70 kv. Risultati ottenuti. La tecnica utilizzata ha permesso di rivelare con precisione: - la presenza di patologie periapicali localizzate sui premolari e molari mandibolari e mascellari. - la presenza di lesioni periapicali su incisivi mascellari e mandibolari. - la presenza di alterazioni dello spazio parodontale sugli incisivi mascellari e Figura 1 - Proiezione lat-lat incisivi superiori. mandibolari. - la valutazione di eventuali anomalie di forma o dimensione di uno o più elementi dentali. - la valutazione della dacriocistografia. È risultata invece piuttosto difficoltosa la valutazione degli spazi parodontali di premolari e molari sia mascellari che mandibolari. Conclusioni. L’utilizzo di questa tecnica radiografica presenta sicuramente dei vantaggi evidenti, dovuti alla sua alta definizione e alla rapidità di esecuzione. L’alta definizione di tale sistema ci permette infatti una valutazione accurata di tutte le strutture anatomiche: corticale mandibolare, apice radicolare, spazio parodontale. Una buona valutazione delle simmetrie tra i vari elementi dentali e una loro eventuale alterazione di forma o dimensione. Una cosiddetta “panoramica”, intendendo per tale la radiografia di tutti gli elementi dentali presenti, richiede infatti circa 5 minuti, permettendo con tale tempistiche la raccolta di una quantità di informazioni estremamente rilevante e non ottenibile con altre tecniche. Per contro si ha invece un costo rilevante delle attrezzature. Il sensore utilizzato per cani e gatti ha infatti una dimensione non ottimale in soggetti al disotto del kg di peso, si dovrebbe quindi procedere all’acquisto di un secondo sensore di dimensioni inferiori, facendo ulteriormente aumentare i costi. Sicuramente i vantaggi ottenuti fanno del sistema digitale un efficace e preciso mezzo di indagine radiografica, la cui attendibilità e precisione può essere sorpassata solamente dall’utilizzo della tomografia assiale computerizzata, che come però dimostrato (F.J.M. Verstraete: Diagnsotic Imagining of dental Disease in Rabbits) ha anch’essa dei limiti diagnostici precisi. Bibliografia Crossley, DA: Clinical aspects of rodent dental anatomy. J Vet Dent, 12(4):131-135, 1995. Crossley, DA: Clinical aspects of lagomorph dental anatomy: the rabbit. J Vet Dent, 12(4):137-140, 1995. F.J.M. Verstraete: Diagnsotic Imagining of dental Disease in Rabbits, 14 th European Congress of Veterinary Dentistry Ljubljana 2005. Heidi L. Hoefer, Atlantic Coast Veterinary Conference 2001 Small Mammal Dentistry. Donald H Deforge An Atlas of Veterinary Dental Radiology. Sam Silverman, Lisa Tell Radiology Of Rodents, Rabbits, And Ferrets: An Atlas Of Normal Anatomy And Positioning.

Indirizzo per la corrispondenza: Mirko Radice - Via A. Volta n° 7 - 20030 Palazzolo Milanese (MI) - Tel. 338/3074414 - E-mail: mirko.radice@tiscalinet.it


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I CHERATINOCITI CUTANEI E MUCOSALI DEL CANE ESPRIMONO IL RECETTORE PER I VANILLOIDI TRPV-1 Raffaella Barbero1 Med Vet, PhDs; Alda Miolo2; Giovanni Re3 Med Vet, PhD, Dipl ECVPT Med Vet, Dottorando di Ricerca in Farmacologia e Tossicologia, Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino 2 Centro di Documentazione e Informazione Scientifica (CeDIS), Innovet Italia srl, Rubano (Padova) 3 Professore Ordinario di Farmacologia e Tossicologia Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino 1

Introduzione. Negli ultimi anni il sistema endocannabinoide è stato particolarmente studiato in funzione dei suoi potenziali effetti antinfiammatori ed antidolorifici. Esso comprende ligandi endogeni, loro specifici recettori (recettori per i cannabinoidi, CB) e sostanze ad effetto cannabimimetico, appartenenti alla classe delle aliamidi, cioè N-acil-lipidi ad effetto ALIA (Autacoid Local Injury Antagonism), tra cui la palmitoiletanolamide (PEA). Di recente, è stato ipotizzato che gli endocannabinoidi siano intimamente legati ad un altro importante sistema di regolazione endogena, quello degli endovanilloidi, e che entrambi tali sistemi siano direttamente implicati nel controllo dell’infiammazione e del dolore. In Medicina Veterinaria, le aliamidi hanno ricevuto importanti conferme sperimentali e cliniche, a differenza del sistema degli endovanilloidi che non è stato finora indagato. Scopo. Studio sperimentale volto ad individuare su colture di cheratinociti di cane il recettore per i vanilloidi TRPV-1, già precedentemente identificato in colture di cellule epiteliali (MCF-7), dotate anche di recettori per i cannabinoidi CB1 e CB2. Materiali e metodi. La metodica di binding per la caratterizzazione del recettore TRPV-1 è stata messa a punto su colture espanse di cellule epiteliali MCF-7. Per tale caratterizzazione, sono state utilizzate concentrazioni scalari di resiniferatossina ([3H]RTX) marcata, agonista specifico ad alta affinità per il TRPV-1, mentre per il legame aspecifico è stata utilizzata la resiniferatossina non marcata. I valori delle concentrazioni dei recettori TRPV-1 e delle relative costanti di dissociazione (Kd) sono stati determinati mediante analisi di Scatchard utilizzando un programma computerizzato (Graph Pad Prism). Inoltre, sono state effettuate prove di competizione utilizzando 3 agonisti (capsaicina, resiniferatossina, anandamide) e 3 antagonisti (capsazepina, 5’iodo-resiniferatossina, SB-366791) del recettore. I cheratinociti di cane sono state ottenuti da espianti bioptici primari di cute del padiglione auricolare, della parte ventrale dell’addome e delle mammelle, nonché di mucosa della bocca e del velo palatino. Sulle colonie di cheratinociti sono state eseguite le determinazioni in precedenza effettuate sulle cellule MCF-7. Il substrato di partenza era composto da 4 pool di circa 180 x 106 cellule sulle cui membrane sono stati approntate 8 serie di Scatchard (n=8). Risultati. Sulle cellule MCF-7 si sono evidenziati recettori TRPV-1 in concentrazioni pari a 1419 ± 192 fmol/mg di proteina (media ± SEM), con valori di Kd pari a 0,03 ± 0,004 nM (media ± SEM) e coefficiente di correlazione lineare (r) compreso tra 0,9 e 1. Le prove di competizione hanno consentito l’individuazione di una scala di affinità del recettore per le diverse sostanze utilizzate, sia agoniste (anandamide>capsaicina>resiniferatossina) che antagoniste (iodo-resiniferatossina≥capsazepina>SB-366791). Sui cheratinociti di cane si sono evidenziati recettori TRPV-1 in concentrazioni pari a 1240 ± 120 fmol/mg di proteina (media ± SEM), con valori di Kd pari a 0,01 ± 0,004 nM (media ± SEM) e coefficiente di correlazione lineare (r) compreso tra 0,9 e 1. Conclusioni. La metodica di binding specifico descritta nel presente lavoro ha consentito di identificare, per la prima volta in assoluto, il recettore TRPV-1 non solo sulle membrane di cellule epiteliali MCF-7, ma anche su quelle dei cheratinociti di cane. La presenza di questi recettori a livello di cute e mucose si rivela un dato scientifico molto importante che non solo contribuisce a caratterizzare il sistema endovanilloide nel comparto muco-cutaneo del cane, ma, più in generale, aggiunge un nuovo tassello alla comprensione di quei meccanismi che, attraverso le complesse interazioni molecolari tra sistema endovanilloide ed endocannabinoide, controllano infiammazione e dolore. Inoltre, le evidenze sperimentali ottenute aprono interessanti prospettive terapeutiche basate sull’utilizzo di molecole che, come le aliamidi, siano in grado di interagire con entrambi questi sistemi protettivi e, così facendo, di controllare la flogosi, il prurito ed il dolore che caratterizza numerose dermatopatie degli animali da compagnia. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.

Walker JM et al. (2002) Chem Phys Lipids, 121, 159-172. Levi-Montalcini R et al. (1996) Trends Neurosci, 9, 514-520. Di Marzo V et al. (2002) Prostagland Leuk Essent Fatty Acids, 66, 377-391. Di Marzo V et al. (2002) Curr Opin Neurobiol, 12, 372-379. Stander S et al. (2004) Exp Dermatol, 13, 129-139. Scarampella F et al. (2001) Vet Dermatol, 12, 29-39. Abramo F et al. (2004) Vet Dermatol, 15,(suppl.1), 13. Melck D et al. (2000) Endocrinology, 141, 118-126. De Petrocellis L et al. (2002) Fundam Clin Pharmacol, 16, 297-302. Scarampella F et al. (2001) Vet Dermatol, 12, 29-39. Abramo F et al. (2004) Vet Dermatol, 15, (suppl.1), 13. Banvolgyi A et al. (2005) J Neuroimmunol, 169 (1,2): 86-96. Re G et al. (2006) Vet J, in press.

Ringraziamenti. Il presente lavoro è stato finanziato con fondi erogati da INNOVET Italia s.r.l. e dall’Università di Torino (ex 60%).

Indirizzo per la corrispondenza: Giovanni Re - Dipartimento di Patologia Animale, Sezione Farmacologia & Tossicologia - Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino Via Leonardo da Vinci 44 - 10095 - Grugliasco, TO - Tel. 011 - 6709014 - Fax: 011- 6709017 - E-mail: giovanni.re@unito.it


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CARATTERIZZAZIONE DI LESIONI FOCALI DELLA MILZA MEDIANTE L’UTILIZZO DI UN MEZZO DI CONTRASTO ECOGRAFICO: 21 CASI Federica Rossi Med Vet, Dipl ECVDI Massimo Vignoli*, Med Vet, SRV, Leone VF*, Med Vet, Terragni R*, Med Vet Sasso Marconi (BO) Spec. Pat. e Clin. degli animali d’affezione Scopo del lavoro. Lo scopo di questo lavoro era di valutare la possibile applicazione di un mezzo di contrasto di seconda generazione nello studio della perfusione di lesioni focali della milza. L’obiettivo era di verificare se questa metodica potesse aumentare la caratterizzazione delle lesioni spleniche differenziando lesioni benigne e maligne e identificando specifici pattern di perfusione per i diversi istotipi studiati. Materiali e metodi. sono stati studiati 19 cani e 2 gatti con lesioni focali della milza che all’esame ecografico in B-mode avevano aspetto diverso, variando da lesioni ipo- a iperecogene a lesioni di tipo complex. Attraverso un catetere endovenoso posizionato nella vena cefalica dell’avambraccio è stata iniettata una quantità variabile tra 0,3 e 1 ml di un mezzo di contrasto ecografico di seconda generazione (Sonovue, Bracco). Per l’esame ecografico è stato utilizzato un sistema armonico dedicato (CnTI, Megas Esatune, Esaote), che ha consentito di studiare il flusso di mezzo di contrasto all’interno della lesione e nel parenchima splenico circostante. I video registrati sono stati valutati in modo soggettivo ed inoltre analizzati oggettivamente mediante un software commerciale. 15 cani sono stati sottoposti a splenectomia e successivo esame istologico delle lesioni. In 6 casi (tutte lesioni benigne) è stato eseguito un esame citologico della milza ed i soggetti sono stati ricontrollati ecograficamente a distanza di tempo per valutare eventuali evoluzioni della lesione. Risultati. 2 casi sono stati esclusi dallo studio perché non è stato possibile raggiungere una diagnosi definitiva, nonostante l’istologia. I rimanenti 19 casi comprendevano 10 lesioni maligne (3 emangiosarcomi, 1 sarcoma indifferenziato, 3 linfosarcomi, 1 istiocitosi maligna, 1 istiocitoma fibroso maligno, 1 mastocitoma), 1 istiocitoma fibroso benigno, 1 ematoma e altre 7 lesioni spleniche benigne. Gli emangiosarcomi e il sarcoma indifferenziato apparivano come lesioni omogenee anecogene (non perfuse) circondate da parenchima splenico molto vascolarizzato. Erano visibili sottili setti di tessuto iperecogeno che entravano nelle aree anecogene e il margine tra queste due parti era molto ben differenziato. L’istiocitoma fibroso maligno appariva come una lesione ipoperfusa omogenea con veloce wash in e wash out rispetto alla milza circostante. I linfosarcomi e l’istiocitosi maligna presentavano un tempo al picco ed un wash out più breve rispetto alla milza, erano ipoecogeni al picco e nella fase di wash out. Si visualizzava una rete di sottili vasi distribuiti in modo uniforme nella lesione. Nella fase di wash out comparivano piccole aree ipoecogene rotondeggianti. L’ematoma era rappresentato da un’area ipoecogena con scarsa perfusione in tutte le fasi. 7 delle lesioni benigne presentavano wash in e wash out simile alla milza, 2 di queste erano leggermente iperecogene nella fase di wash in ma diventavano rapidamente omogenee con la milza. L’istiocitoma fibroso benigno era l’unica lesione chiaramente iperperfusa rispetto alla milza e presentava numerosi vasi nella parte centrale della lesione. Conclusioni. L’ecocontrastrografia è un valido metodo per studiare la perfusione ed aiuta nella caratterizzazione delle lesioni focali della milza. Tutte le lesioni maligne si presentavano ipoperfuse nella fase di wash out, si sono osservate aree iperperfuse solo in associazione a lesioni benigne. Gli emangiosarcomi ed i linfosarcomi hanno presentato un pattern di perfusione specifico. Bibliografia a disposizione presso l’Autore.

Indirizzo per la corrispondenza: Federica Rossi Clinica Veterinaria dell’Orologio Via Gramsci - 40037 Sasso Marconi - Bologna (Italy)


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UN CASO DI ORCHIEPIDIDIMITE ACUTA CON REAZIONE LEUCEMOIDE Monica Serenari Med Vet, Maria Luce Molinari* Med Vet Libero professionista Ravenna * Libero professionista Salerno Il segnalamento. Lucky è un barbone nano maschio intero di 8 anni. L’anamnesi. Il proprietario ci riferisce che Lucky non mangia da tre giorni, è rapidamente dimagrito, rimane nella sua cesta tutto il giorno, perde gocce di urina, non vuole muoversi e grida appena lo si tocca. L’esame clinico. Il cane presenta depressione, sonnolenza, riluttanza al movimento, cifosi, gonfiore della zona scrotale, dolorabilità alla palpazione di entrambi i testicoli, il testicolo destro non è perfettamente disceso in sede scrotale, blefarite bilaterale con scolo oculare, lieve opacità corneale e fotofobia. Le indagini cliniche. L’emogramma mostra una lieve anemia arigenerativa (5.010.000 globuli rossi, Hb 9.6), reazione leucemoide (46.400 globuli bianchi) con left shift, linfopenia e monocitosi. Il profilo biochimico e l’esame urine sono nella norma. Al laboratorio analisi è stato richiesto anche il test di microagglutinazione per la brucellosi che ha dato esito negativo. L’esame ecografico rende evidente una ipoecogenicità uniforme del parenchima di entrambi i testicoli e presenza di una discreta quantità di liquido a livello della vaginale. L’esame neurologico è nella norma. Alla visita oculistica Lucky mostra blefarite e cheratocongiuntivite secca bilaterale (Schirmer 0.3 mm a destra, 0.8 mm a sn). Diagnosi allopatica. Lucky ha orchiepididimite acuta con reazione leucemoide, lieve anemia arigenerativa, blefarite bilaterale e cheratocongiuntivite secca. La repertorizzazione. Con la visita omeopatica abbiamo raccolto i seguenti sintomi MASCHILI GENITALI infiammazione testicoli Grado 3 MASCHILI GENITALI dolore testicoli Grado 3 MASCHILI GENITALI gonfiore scroto Grado 1 MENTE INDIFFERENZA apatia Grado 2 SONNO SONNOLENZA Grado 2 OCCHI SECCHEZZA Grado 2 OCCHI AGGLUTINATI mattina Grado 3 OCCHI INFIAMMAZIONE palpebre-bordi Grado 3 VESCICA MINZIONE sgocciolamento involontario Grado 3 SINTOMI GENERALI movimento aggrava Grado 1 SINTOMI GENERALI, aria aperta migliora Grado 1 SINTOMI GENERALII, emaciazione Grado 2 La prognosi omeopatica. Lucky è un primo livello di salute, prescriveremo il rimedio sulla totalità dei sintomi e ci aspetteremo un netto miglioramento dei sintomi senza aggravamento. La prescrizione. Il rimedio che copre meglio il caso è Clematis erecta e la potenza scelta per Lucky è la 30 CH che abbiamo somministrato in plus per 7 giorni. Clematis è un rimedio vegetale della famiglia delle ranuncolaceae, appartenente al miasma luetico che ha un forte tropismo per il parenchima testicolare, la pelle, le vie urinarie e gli occhi . L’evoluzione del caso. Il cane dopo 2 ore dalla somministrazione del rimedio è stato meglio ha mangiato, ha iniziato a muoversi e non ha più guaito. Dopo cinque giorni dall’assunzione di Clematis il cane è stato sottoposto ad una visita di controllo e a nuove indagini cliniche. L’emogramma mostra una notevole diminuzione dei globuli bianchi (20.800) e un incremento dei globuli rossi (5.830.000), dell’emoglobina (11.2), l’anemia è ora rigenerativa. Il test di Schirmer si è normalizzato. Il gonfiore e il dolore a livello dello scroto si è notevolmente ridotto. Ecograficamente è ancora presente una uniforme ipoecogenicità del parenchima testicolare. Dopo sedici giorni dall’inizio dell’assunzione di Clematis l’anemia è rientrata e i globuli bianchi si sono ridotti a 13.000. L’ecogenicità di entrambi i testicoli è aumentata. Alla visita oculistica il cane mostra un notevole miglioramento della blefarite e la produzione lacrimale è normale. Conclusioni. Il rimedio simillimum agisce non solo sulla sintomatologia clinica evidente ma tocca in profondità l’organismo andando ad agire anche sulle patologie e sui sintomi che fanno da corollario al caso, curando il disturbo centrale e lo squilibrio energetico del soggetto. Clematis è conosciuto dagli omeopati per essere un rimedio della sfera genitale maschile, ma in Lucky ha normalizzato dati di laboratorio veramente preoccupanti come una reazione leucemoide e una anemia arigenerativa. Possiamo dire con ogni certezza che l’omeopatia classica ha guarito e non solo curato il piccolo Lucky Bibliografia F. Schroyens Syntesis 8.0. G. Vithoulkas - Materia Medica Viva e La scienza dell’omeopatia. J. T. Kent - Materia medica omeopatica.

Indirizzo per la corrispondenza: Monica Serenari via Canalazzo 111 - 48100 Ravenna - E-mail monicase@libero.it


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UROLITIASI IN UN CONIGLIO DA COMPAGNIA Sergio Silvetti Med Vet1, Mattia Bielli Med Vet2 1 Libero professionista, Miasino (No) 2 Libero professionista Novara

Introduzione. Le cause dell’urolitiasi nel coniglio da compagnia non sono state ancora esattamente chiarite; si riconoscono numerosi fattori predisponenti nutrizionali, anatomici, fisiologici e, raramente, infettivi; non si riconosce una predisposizione di razza e di sesso. Si descrive di seguito un caso di urolitiasi vescicale in un coniglio da compagnia Caso clinico. Un coniglio da compagnia maschio castrato di circa 6 anni è portato per una visita di routine. Vive in casa con una femmina intera coetanea ed entrambi sono alimentati con miscele di semi, pellettato per conigli, biscotti e pochissima verdura; non viene offerto fieno. A parte le scorrettezze nell’alimentazione, l’anamnesi non riporta nulla di particolare e l’unica alterazione che si rileva alla palpazione addominale è la presenza di una massa dura, a superficie liscia, delle dimensioni di un uovo di piccione, localizzata nell’area prepubica in assenza di manifestazioni dolorifiche o di particolare disagio alla manovra. La radiografia nelle proiezioni LL e DV permette di evidenziare un singolo grosso urolita e la calcificazione della papilla renale del rene sinistro. Un prelievo ematico evidenzia un lieve aumento dell’azotemia e si programma l’intervento di cistotomia. Nell’attesa si consiglia un graduale cambio di alimentazione mantenendo un buono stato d’idratazione stimolando il consumo di liquidi e si inizia una terapia antibiotica con enrofloxacina 10 mg/kg s.i.d. e procinetica con cisapride 5 mg/kg s.i.d. Il giorno dell’intervento non viene riferito nessun problema collegato con la minzione se non l’aumento della frequenza; il paziente peraltro non sembra per niente disturbato dal suo problema. Si provvede all’anestesia con una miscela di Medetomidina 120 µg/kg, Ketamina 15 mg/kg e Butorfanolo 0.6 mg/kg IM e viene somministrata enrofloxacina 10 mg/kg i.m. Incannulata la vena cefalica si somministrano carprofen 5 mg/kg e RLS 8ml/kg/ora. Non avendo avuto successo l’intubazione oro-tracheale, l’anestesia viene mantenuta tramite maschera con una miscela di O2 1.5 l/min ed isofluorano al 2,5 - 3%. Preparata la parte, si guadagna l’accesso in addome attraverso un’incisione mediana della cute in regione prepubica All’apertura della parete muscolare si rende subito evidente la vescica che viene esteriorizzata e mantenuta in situ con due suture di posizionamento. Un’incisione mediana di circa 2 cm sulla sua faccia dorsale rivela una parete fortemente ispessita e permette di estrarre l’urolita senza difficoltà; un lavaggio della cavità vescicale con soluzione salina sterile tiepida per eliminare eventuali residui completa l’operazione. La parete vescicale viene richiusa in tre strati con sutura continua in Polidioxanone monofilamento riassorbibile 5/0 e se ne controlla la tenuta riempiendo la vescica con soluzione salina sterile. La parete addominale e il sottocute vengono suturati con Polidioxanone monofilamento 4/0 con sutura continua semplice mentre la cute con tecnica intradermica in monofilamento 5/0. Al termine si somministra Atipamezolo (1.12 mg/kg) e si segue il risveglio in gabbia con lampada riscaldante. Il paziente viene dimesso dopo 5 ore con enrofloxacina 10 mg/kg s.i.d per una settimana, cisapride 5 mg/kg s.i.d. per 3-4 giorni e carprofen 4 mg/kg s.i.d. per 2 giorni. Il controllo telefonico il giorno successivo riferisce che il soggetto ha cominciato a mangiare la sera stessa e di conseguenza si è sospesa la somministrazione di cisapride. Il controllo a 3 giorni rivela il paziente in ottimo stato, appetito buono, produzione fecale buona e cicatrizzazione della ferita quasi completa; residua solo un lieve disagio alla palpazione dell’area prepubica. L’analisi quali/quantitativa del calcolo ha permesso di determinarne la composizione in ossalato di Calcio. Discussione. L’urolitiasi, comprendente anche il fenomeno di “fango vescicale” nel coniglio, non ha ancora un’eziologia ben definita come in altri mammiferi. Un ruolo che sembra essere fondamentale è dato dal particolare metabolismo del Ca del coniglio che viene assorbito prevalentemente con meccanismo passivo dall’intestino ed escreto in elevate quantità nelle urine, a differenza di altri mammiferi che lo eliminano per via biliare. Il caso illustrato dimostra a volte la difficoltà, da parte dei proprietari, di riuscire ad evidenziare i sintomi dei loro animali o forse a non riuscire ad interpretarli correttamente nonché la capacità di questi animali, considerati prede in Natura, di saper nascondere sintomatologie anche importanti per apparire sempre al meglio della condizione.

Indirizzo per la corrispondenza: Sergio Dr. Silvetti Via Umberto I n° 30 28010 Miasino (No) Tel. 3401441276 E-mail: sergio_74@tiscali


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GRANULOMA TRACHEALE DA MYCOBACTERIUM XENOPI IN UN GATTO Davide De Lorenzi1, DMV, SCMPA, DECVCP; Laia Solano-Gallego1, DVM; Alessandra Tosini2, DVM 1 Libero professionista, Padova; 2Libero professionista, Brescia Introduzione. Le neoformazioni tracheali rappresentano una rara evenienza nel gatto; si tratta in generale di neoplasie maligne primarie anche se esiste una segnalazione bibliografica di proliferazione tracheale polipoide multipla ad origine infiammatoria; il presente lavoro descrive un caso di granuloma tracheale nel gatto causato da Mycobacterium xenopi. A conoscenza degli autori si tratta del primo caso segnalato di questa patologia nel gatto. Segnalamento, segni clinici, diagnosi e terapia. Tigre, un gatto maschio sterilizzato di 15 anni viene portato alla visita a causa di un episodi di dispnea acuta preceduta da 5 giorni di tosse progressivamente ingravescente. La valutazione clinica premette di rilevare dispnea inspiratoria, rumore inspiratorio aspro localizzato a livello della porzione inferiore della trachea cervicale, anisocoria appena evidenziabile e diffusa gengivite associata a depositi di tartaro dentale. L’emogramma mostra leucocitosi (40.620/µL, valori di riferimento 6300-19.600/µL) con neutrofilia matura, monocitosi, linfopenia ed eosinopenia mentre le valutazioni biochimiche presentano diminuzione della sideremia totale (14 µg/dL, valori di riferimento 110-17014µg/dL) ed aumento del lattato (37.3mg/dL, 0-9 mg/dL) e del glucosio (275 mg/dL, valori di riferimento 75-130mg/dL). La ricerca su siero dell’antigene del virus della leucemia felina e degli anticorpi per il virus della immunodeficienza felina (Snap test® IDEXX) è risultata rispettivamente negativa e positiva. I radiogrammi toracici evidenziano una neoformazione rotondeggiante, di circa 1 cm di diametro, apparentemente localizzata a livello del lume tracheale, in corrispondenza della 6-7 vertebra cervicale; la valutazione broncoscopica conferma il sospetto radiologico. Viene evidenziata una neoformazione intratracheale occludente circa l’85% del lume tracheale, a base di appoggio ridotta, che viene rimossa endoscopicamente. Dalla neoformazione vengono eseguiti numerosi campioni citologico per impressione ed il pezzo viene fissato in formalina tamponata al 10%. Il quadro citologico è riferibile a flogosi granulomatosa sostenuta da Mycobacterium sp. ed analoga diagnosi viene formulata istologicamente. Per potere individuare con precisione l’agente eziologico viene eseguita la PCR da tessuto incluso in paraffina che conferma il genere Mycobacterium e mostra una corrispondenza del 90% con Mycobacterium xenopi. Il gatto viene tratta con enrofloxacina alla dose di 5 mg/kg per os SID per la durata di un mese. Tigre muore circa 6 mesi dopo la sospensione della terapia a causa di insufficienza renale apparentemente non collegata al problema infettivo, senza mai avere ripresentato segno clinici riferibili a patologia respiratoria. Discussione. A tutt’oggi sono riportati in letteratura 17 casi di neoformazioni intratracheali nel gatto: di questi 16 sono neoplasie maligne (8 linfomi, 5 adenocarcinomi, 1 carcinoma non meglio definito, 1 carcinoma squamocellulare, 1 carcinoma sieromucinoso) ed una è risultata essere una proliferazione benigna di natura polipoide. Mycobacterium xenopi fa parte dei micobatteri cd opportunisti che possono causare, in determinate situazioni cliniche, infezioni generalmente localizzate. Questo agente eziologico, segnalato come causa di lesione granulomatosa cutanea e di linfoadenite in 2 gatti, può determinare nell’uomo immunodepresso lesioni localizzate per lo più all’apparato respiratorio inferiore, alla pelle ed al sistema osteo-articolare. In analogia con quanto segnalato in medicina umana, anche in Tigre possono essere riconosciuti due importanti fattori di immunodepressione: la positività al virus dell’immunodeficineza felina e l’età avanzata. Conclusioni. Sulla base di quanto descritto, il presenza di una neoformazione intratracheale nel gatto, deve essere inserito nell’elenco delle possibili diagnosi differenziali anche il granuloma da Mycobacterium. Bibliografia Brown MR, Rogers KS, Mansell KJ, Barton C. Primary intratracheal lymphosarcoma in four cats. J Am Anim Hosp Assoc. 2003 Sep-Oct;39(5):468-72. Gunn-Moore DA, Jenkins PA, Lucke VM. Feline tuberculosis: a literature review and discussion of 19 cases caused by an unusual mycobacterial variant.Vet Rec. 1996 Jan 20;138(3):53-8. Sheaffer KA, Dillon AR. Obstructive tracheal mass due to an inflammatory polyp in a cat. J Am Anim Hosp Assoc. 1996 Sep-Oct;32(5):431-4. Tomasovic AA, Rac R, Purcell DA. Mycobacterium xenopi in a skin lesion of a cat. Aust Vet J. 1976 Feb;52(2):103. MacWilliams PS, Whitley N, Moore F. Lymphadenitis and peritonitis caused by Mycobacterium xenopi in a cat. Vet Clin Pathol. 1998;27(2):50-53.

Indirizzo per la corrispondenza: Davide De Lorenzi Clinica Veterinaria S.Marco Via Sorio 114/C Padova Tel. 0498561098 E-mail: davide.delorenzi@fastwebnet.it


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INSUFFICIENZA RENALE NEL CANE ANZIANO E TERAPIA OMEOPATICA Maria Cristina Stocchino MedVet Scuola Superiore Internazionale di Medicina Veterinaria Omeopatica “Dott. Rita Zanchi” Cortona (Ar) Segnalamento. Cane yorkshire terrier femmina ohe di 11 anni. Alimentazione. Passato di verdura, pasta, carne. All’inizio non le piaceva poi si è adattata. Non ha mai digerito le ossa, quando le mangia fa le feci bianche come gesso. Le piacciono i dolci, il cioccolato, l’insalata belga, le arance,il cetriolo, la mela, tutto il cibo fresco e croccante. Beve pochissimo. Le piace più il salato. Generali. È freddolosa ma in estate non sta al sole. Non le piace farsi lavare, non sopporta il rumore del phon. Si prende subito le pulci. Storia patobiografica. Sempre stata tendenzialmente stitica. Ha avuto due gravidanze e durante la seconda ha manifestato costipazione ostinata. Per il resto i parti e il puerperio hanno avuto un normale decorso. Poi ha avuto false gravidanze ad ogni calore ed è stata ovarioisterectomizzata. Caduta da una finestra si era “infilzata” nelle sbarre del cancello. Suturata in più punti sono residuate aderenze e un’ernia inguinale di piccole dimensioni. Lussazione rotulea congenita con sporadici attacchi artrosici. Lieve insufficienza valvorare cardiaca. Temperameno e comportamento. Ha paura di tutto. Sente il temporale che arriva e inizia a tremare; trema e salta in braccio e continua a tremare.ha paura di tutti gli animali e delle persone. Abbaia a qualunque rumore. È gelosa e dispettosa, fa pipì sul letto del figlio quando viene a fare visita alla madre. Anche col nipotino manifesta un po’ di gelosia. Da sola ha paura. Problema attuale. Ha mangiato un pezzo di osso e carne d’agnello; da allora ha cominciato a star male, polidipsia e poliuria. Le analisi hanno svelato l’insufficienza renale. In concomitanza con questi sintomi ha manifestato barcollamenti, perdita di equilibrio e tics. Kissy insuf. Renale Tabella riassuntiva esami ematochimici-logici da gennaio 03 a maggio 03 DATA

EMOCROMO

UREA

CREA

PHOS

02-01-03

Lieve disidr. Lieve granulocitosi

2,28 g/l

24,77 mg/l

75.55 mg/l

13-01-03

Norm.

0,72 g/l

20,18 mg/l

49.99 mg/l

14-03-03

Norm.

0,70 g/l

29,34 mg/l

30,73 mg/l

30-05-03

norm

0,25 g/l

5,00 mg/l

35,00 mg/l

L’analisi delle urine effettuata a gennaio rivela e conferma l’insufficienza renale cronica, con presenza di sedimento urinario inattivo. Somma dei sintomi (+ gradi) Questa analisi contiene 218 rimedi e 5 sintomi. Intensità considerata 1 1234 1 2 1234 1 3 1234 1 4 1234 1 5 1234 1

1: 2: 3: 4: 5:

mente - paura - tremante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 mente - paura - temporale, del - prima . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 mente - gelosia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 sintomi generali - cibi e bevande - verdura - desiderio . . . . . . . . . . . . . . 4 retto - stitichezza - difficile, defecazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174 Gels. 4/6

Lach. 3/8

Op. 3/7

Nat-c. 3/6

Plat. 3/6

Calc-s. 3/5

Phos. 3/5

Puls. 3/5

Sep. 3/5

Cham. 3/4

Positr. 3/3

3 1 1 1

1 4 3

3 1 3

2 2 2

2 1 3

2 1 2

1 2 2

1 2 2

1 1 3

2 1 1

1 1 1

Commento. Kissy è un cane che ho in cura da diversi anni. In virtù di alcuni suoi sintomi “storici” come il morboso attaccamento alla proprietaria, la stitichezza, l’assenza di sete, e le false gravidanze, le era stata prescritta la pulsatilla che però, in questo frangente non ha portato nessun beneficio al cane.


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In abbinamento alla fluidoterapia, all’utilizzo di integratori a base di omega 3 e 6, e ad una dieta commerciale con ginseng e ananas monoproteica al pesce, la repertorizzazione ha condotto alla prescrizione di gelsemium sempervirens 200 ch una volta al dì per tre giorni. Note su Gelsemium sempervirens. Rimedio di origine vegetale appartenente alla famiglia delle loganiacee. L’andamento prostrato della pianta la fa usare come rampicante ma non è in grado di reggersi da sola e deve essere legata a sostegni per alzarsi e stare dritta. Contiene alcaloidi tossici, come la semprevirina ad azione curarosimile. Tropismo: sistema nervoso e apparato cardiovascolare. Eziologie: cattive notizie, dispiaceri. Impegni importanti. Sintomi fisici: estremità: incoordinazione motoria. Lussazione rotulea. Sintomi generali. Tremore esterno generalizzato. Difficoltà di movimento. Sintomi mentali: paura di tutto. Tipologia: soggetti bisognosi di stabilità, emotivi, paurosi, timidi, tremebondi. La loro necessità di protezione li induce alla dipendenza da altre persone. Tematiche: responsabilità, paralisi, caduta. Archetipo: don abbondio. D/d: Nat.c. De natrum possiede una sorta di tristezza, l’avversione al temporale e la sensibilità al rumore, ma l’immagine generale del rimedio non è sovrapponibile. Mancano totalmente i sintomi neurologici, i tics e il tremore caratteristici di questo cane. Puls. È sicuramente un rimedio similare; il suo attaccamento alla figura della madre (in questo caso la proprietaria), la stitichezza, l’assenza di sete, le false gravidanze. Ma è un cane che non si lamenta, non piange, e la sua richiesta di attenzioni non è plateale, è discreta. Lach. Questo soggetto non è così “intenso” come la prescrizione di lachesis richiederebbe, il quadro mentale è molto differente, anche la gelosia non è violenta e plateale come in lach. In seguito alla somministrazione del rimedio, si è avuto, come testimoniano le analisi di maggio, il ripristino dei normali parametri ematici.

Indirizzo per la corrispondenza: M. Cristina Stocchino c/o Amb. Vet. Ass.to Doro, Pilo, Stocchino Via Luna e Sole 42 07100 Sassari Tel. 079298692 - Fax: 1782201899 - E-mail: dopistovet@tiscali.it


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UN CASO DI LEUCEMIA MIELOIDE ACUTA CON INFILTRAZIONE CUTANEA Silvia Tasca1 Med Vet, Roberta Gai2 Med Vet, Romina Giannotti2 Med Vet, Erika Carli1 Med Vet, Carlo Patron1 Med Vet, Marco Caldin1 Med Vet 1 Laboratorio d’Analisi Veterinarie “San Marco”, Padova 2 Libero professionista, Dogana (RSM) Le manifestazioni cutanee rilevabili in corso di leucemie sono convenzionalmente divise in lesioni benigne aspecifiche e lesioni maligne specifiche (leucemia cutis). Le prime sono principalmente secondarie alla neutropenia, che si osserva frequentemente in soggetti leucemici, come espressione di una mancata produzione midollare per infiltrazione d’organo; le seconde invece, sono infiltrazioni cutanee di cellule neoplastiche, localizzate o disseminate, che possono coinvolgere più strati della cute. Nella pratica clinica le lesioni benigne aspecifiche sono rilievi comuni in corso di eventi leucemici, mentre quelle maligne sono rare. Il coinvolgimento cutaneo ad opera di cellule neoplastiche si registra frequentemente in corso di neoplasie solide con interessamento primario della cute (linfoma cutaneo, mastocitoma, istiocitoma…), mentre nelle leucemie è un reperto eccezionale. A nostra conoscenza in letteratura veterinaria si riporta un unico caso di leucemia linfocitica cronica (CLL) con coinvolgimento cutaneo (Couto et al., 1986), mentre non esistono segnalazioni bibliografiche, che descrivano infiltrazioni cutanee in corso di leucemie mieloidi, contrariamente a quanto riportato in medicina umana. Nel presente studio si descrive un caso di leucemia mieloide acuta senza maturazione (AML-M0), con interessamento cutaneo. Un pastore tedesco, maschio intero di 8 anni di età, viene portato a visita per una neoformazione sottocutanea (1,5x4 cm), adesa ai piani sottostanti, a carico della mascella destra. Al successivo controllo, nonostante una settimana di terapia antibiotica, si registra un ulteriore aumento della massa; il cane, poco collaborativo, viene quindi posto in anestesia e sottoposto a prelievo di sangue, esame citologico ed istologico della neoformazione. All’esame emocromocitometrico si evidenzia leucocitosi [31.9*103/µl (6.2-14.0 *103/µl)] formata da un 82% (26.158 cell/µl) di elementi di incerta classificazione (cellule rotondeggianti di dimensioni medio-grandi, con rapporto nucleo:citoplasma elevato, margini citoplasmatici e nucleari irregolari, cromatina finemente dispersa, citoplasma scarso e chiaro). Alla prima valutazione citologica e istologica il quadro complessivo appare suggestivo di un linfoma cutaneo. Si prosegue quindi a citologia midollare ed immunofenotipo su sangue e succo midollare: il midollo emopoietico è ipercellulato e vede le tre filiere residenti (eritroide, granulo-monocitaria e megacariocitaria) in gran parte sostituite da elementi rotondeggianti, di dimensioni medio-grandi, con rapporto nucleo:citoplasma elevato, margini citoplasmatici e nucleari irregolari, nucleo eccentrico mono o multinucleolato, citoplasma moderatamente abbondante e basofilo. All’immunofenotipo, ottenuto mediante metodica citofluorimetrica, sia su sangue che su midollo, si osserva una netta positività al CD34 (marcatore specifico per i blasti) e negatività ai marcatori specifici per la serie linfoide T e B (CD3 e CD79 rispettivamente). Data la discrepanza tra i rilievi cutanei e quelli ematologici si opta per un approfondimento immunoistochimico sulla biopsia cutanea, dove di nuovo emerge la mancata espressione dei marcatori della serie linfoide, dimostrando le medesime caratteristiche fenotipiche delle cellule sovradescritte. In conclusione, sulla scorta dei risultati, la diagnosi definitiva è di leucemia mieloide acuta senza maturazione (AML-M0), con infiltrazione cutanea.

Indirizzo per la corrispondenza: Laboratorio San Marco Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova Tel. 049-8561039 - Fax 02-700518888 E-mail: st@sanmarcovet.it


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STUDIO CONTROLLATO SU EFFICACIA E TOLLERABILITÀ DELLA CEFALESSINA IN SOMMINISTRAZIONE MONOGIORNALIERA PER VIA ORALE NEL TRATTAMENTO DELLA PIODERMITE SUPERFICIALE DEL CANE 1

Stefano Toma1 DMV, Silvia Colombo2 DMV Dipl ECVD, Chiara Noli3 DMV Dipl ECVD Libero professionista, Parma; 2 Libero professionista, Milano; 3 Libero professionista, Cuneo

Introduzione. La piodermite superficiale è una infezione cutanea di comune riscontro nel cane, sostenuta da batteri piogeni, nel 90% dei casi da Staphiloccoccus intermedius, e che necessita di terapia antibiotica di durata variabile dalle tre alle otto settimane. La cefalessina, cefalosporina di prima generazione, è considerata l’antibiotico di prima scelta per il trattamento delle piodermiti superficiali, grazie alla sua ottima efficacia e tollerabilità, anche per somministrazioni protratte, e minima capacità di indurre resistenza batterica. La posologia standard per il trattamento di questa malattia è 15-30 mg/kg BID per os, e la durata del trattamento consigliata è di un periodo superiore a quello di guarigione clinica di una settimana per le piodermiti superficiali e di due settimane per le piodermiti profonde. Scopo. Questo studio ha valutato l’efficacia e la tollerabilità della somministrazione della cefalessina alla dose di 30 mg/kg SID per os per il trattamento della piodermite superficiale sostenuta da S. Intermedius, come confermato da coltura batterica, confrontandola con la posologia standard. Materiali e metodi. Nello studio sono stati inclusi 16 cani affetti da piodermite superficiale. Otto sono stati trattati con cefalessina (Rilexine®, Virbac) alla posologia di 15 mg/kg BID e otto con 30 mg/kg SID. Non sono stati inclusi cani che avevano ricevuto terapie antibiotiche per bocca o localmente nei 15 giorni precedenti l’inclusione, animali affetti da piodermite profonda, interdigitale, recidivante, cronica, cani affetti da malattie parassitarie, neoplastiche o immunomediate, e animali affetti da dermatite da Malassezia. Inoltre non sono stati inclusi animali con insufficienza renale cronica o acuta e quelli con nota allergia alle penicilline o alle cefalosporine. Il giorno dell’inclusione è stato eseguito un esame clinico completo ed è stata compilata una cartella clinica con la descrizione e la valutazione della gravità delle lesioni, prendendo in esame i seguenti parametri: 1) natura delle lesioni, 2) estensione delle lesioni, 3) prurito, 4) dolore alla palpazione delle lesioni, 5) ripercussioni sullo stato generale dell’animale. La somma totale dei valori attribuiti a ciascun parametro è stata utilizzata come indice per la valutazione della gravità della malattia ad ogni visita. Il tasso di miglioramento di questo indice, il tempo necessario per la risoluzione delle lesioni e la percentuale di ricaduta sono stati confrontati fra i due gruppi in esame. Inoltre è stato prelevato un campione di pus dalle lesioni cutanee mediante tampone sterile, inserito immediatamente in apposito terreno di trasporto e inviato al laboratorio per l’esecuzione della coltura batterica e dell’antibiogramma. Dopo l’inclusione e l’inizio della somministrazione del farmaco gli animali sono stati controllati a scadenze quindicinali sino a due settimane dopo la sospensione della terapia, per la valutazione di eventuali ricadute. Per la valutazione statistica dei risultati è stato utilizzato il metodo ANOVA (analisi della varianza) per misure ripetute nel tempo fra i due gruppi. La percentuale delle guarigioni cliniche è stata comparata utilizzando il test esatto di Fisher. Il tempo necessario per la guarigione nei due gruppi è stato analizzato tramite il test Log-rank. Risultati. In tutti i cani si è ottenuta la completa risoluzione dei sintomi in 14-42 giorni, senza differenza fra i gruppi. Cinque animali, uno nel gruppo a somministrazione bigiornaliera e quattro nel gruppo a somministrazione monogiornaliera, hanno mostrato fenomeni di vomito, non tali da dovere sospendere la terapia. Solo in un animale, i cui batteri avevano mostrato sensibilità intermedia alla cefalessina e che aveva mostrato vomito, ha avuto una ricaduta della piodermite dopo 14 giorni. Conclusione. In conclusione, secondo i risultai dello studio, la somministrazione monogiornaliera di cefalessina (Rilexine®, Virbac) è efficace quanto quella standard bigiornaliera per il trattamento della piodermite superficiale del cane.

Indirizzo per la corrispondenza (preferibilmente via posta elettronica): Stefano Toma Bgo del Correggio 20, 43100 PARMA Tel. 328/17302905 E-mail: stefanotoma77@hotmail.com


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ERNIE DISCALI MULTIPLE: CHARLIE UN CASO RISOLTO Maurizio Tomassini Med Vet Via Milano, 214 - 20033 Desio (Mi) Introduzione. Il lavoro prende in considerazione un caso di ernie discali multiple in un cane maschio intero di razza Dalmata di 11 anni. Scopo del lavoro. Dimostrare che la terapia Agopunturale ha avuto parte fondamentale nel recupero totale di un soggetto che con le terapie allopatiche non aveva avuto miglioramenti decisivi cosa che comprometteva la qualità della vita ed il proseguimento di una vita normale. Cenni anatomici ed eziopatogenetici. Si descrive brevemente l’anatomia della colonna vertebrale, l’eziopatogenesi dell’ernia discale e la lesione nel suo complesso ed il trattamento clinico e chirurgico in medicina allopatica. Descrizione della lesione secondo la Medicina Tradizionale Cinese. Si presenta la lesione dal punto di vista della Medicina Tradizionale Cinese, inquadrando la patologia secondo la sindrome di appartenenza con una breve descrizione della stessa, secondo le otto regole, ed i sei livelli energetici. Materiali e metodi. Si sono usati aghi cinesi monouso sterili di misura 0.30x25 mm. e di misura 0.35x40 mm. È stata usata anche la moxa su tutta la colonna e su punti di Agopuntura. Si sono effettuate dieci sedute di venti minuti l’una con cadenza settimanale. I punti usati sono stati variati secondo i miglioramenti ottenuti. Descrizione del caso clinico. La sintomatologia esordisce con una paraparesi al treno posteriore, atassia e impossibilità alla stazione. Il soggetto viene sottoposto ad indagini radiografiche, con Rx in bianco, Mielografia e Tomografia Assiale Computerizzata. Dalle indagini radiologiche emerge un quadro di ernie discali plurime e calcificazioni in varie sezioni della colonna vertebrale. Dato il numero delle ernie, il soggetto viene giudicato inoperabile e viene sottoposto a terapia dapprima con FANS poi con corticosteroidi. La terapia ha un effetto parziale in quanto la situazione dopo la somministrazione dei farmaci è la seguente: difficoltà a rimanere in stazione per periodi di tempo mediamente lunghi, difficoltà alla deambulazione, sensorio depresso, appetito capriccioso. I proprietari decidono come ultima spiaggia di provare con l’Agopuntura, pur essendo molto scettici sui risultati di una terapia non convenzionale. Si decide di effettuare sedute settimanali. Nelle prime sedute si usano punti volti a far riprendere lo scorrimento dell’energia: Top Tail, GV 4, GV 14, GB 34 con ago secco. Dopo due sedute non essendoci variazioni notevoli, si passa anche all’uso della moxa, si impiegano punti quali BL 60 in transfissione con KI 3 e BL 62 sempre con ago secco. Da questo momento c’è un notevole miglioramento, si nota che il cane reagisce di più agli stimoli esterni, è più interessato al cibo, inizia a muoversi con più sicurezza sugli arti posteriori. Si effettuano altre sette sedute sempre con gli stessi punti e l’applicazione di moxa. Alla fine del percorso terapeutico il soggetto si presenta con un sensorio normale, ha ripreso ad alimentarsi normalmente, vuole uscire per la passeggiata, riesce addirittura ad urinare alzando la gamba. Il follow up a 11 mesi mostra che i miglioramenti sono duraturi e che il soggetto non ha più presentato problemi riferibili alla patologia trascorsa. Conclusioni. Viene dimostrata l’utilità della terapia agopunturale in questo caso che non aveva ottenuto pieni riscontri positivi con la terapia convenzionale. Da rimarcare la assoluta mancanza di effetti collaterali con i punti utilizzati, la pronta ripresa dell’animale e l’effetto duraturo della terapia. Bibliografia Done, Goody, Evans, Stickland - Atlante di anatomia veterinaria 3 cane, gatto - UTET 1997. Evans, deLahunta - Guide to the dissectoine of the dog 5° edition - Saunders 2000. Bojrab, Ellison, Slocum - Tecnica chirurgica - UTET 2001. Bojrab - Current tecniques in small animal surgery 4° edition - William & Wilkins 1998. Slatter - Textbook of small animals surgery - Saunders 1993. Allen M. Schoen - Veterinary Acupuncture - Mosby 2001.

Indirizzo per la corrispondenza: Maurizio Tomassini Via Milano, 214 - 20033 Desio (Mi) Tel. 0362/629375 - Fax 0362/300081 E-mail: clinvetdesio@tomassinimaurizio.191.it


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LA CITOLOGIA DEI LIQUIDI DI VERSAMENTO NEI CARNIVORI DOMESTICI: ESPERIENZE SU 126 CASI Vanessa Turinelli1 Med Vet, PhD; George Lubas2 Med Vet, Dipl ECVIM-CA; Corinne Fournel-Fleury3 Med Vet, PhD, Dipl ECVCP 1 Libero professionista Livorno, Italia 2 Dip. di Clinica Veterinaria, Università di Pisa, Italia 3 Laboratoire d’Hématologie-Cytologie-Immunologie, Ecole Nationale Vétérinaire de Lyon, France Scopo. L’esame citologico è sempre indicato di fronte ad un versamento cavitario, sia esso pericardico, toracico o addominale poiché permette nella maggior parte dei casi di emettere una diagnosi. Metodi. Questo studio è stato effettuato in una Istituzione pubblica di ricerca e insegnamento dal 2002 al 2004 e comprende l’analisi citologica di 126 liquidi di versamento di pazienti presentati alla consultazione clinica nell’Istituzione o di prelievi spediti da colleghi veterinari (al suo laboratorio). Sono compresi liquidi di versamento toracici, addominali e pericardici di cani e gatti, per i quali è stata realizzata una conta cellulare, una conta differenziale delle cellule nucleate e un dosaggio delle proteine totali refrattometriche, prima dell’analisi morfologica. Tutti i prelievi sono stati sottoposti a citocentrifugazione, colorati con May Grunwal-Giemsa e analizzati sempre da due patologi clinici. I liquidi di versamento sono stati classificati in tre tipi principali: trasudati, trasudati modificati ed essudati, in base all’aspetto fisico, la conta cellulare, la concentrazione delle proteine totali e l’aspetto citologico, così come descritto in letteratura. Risultati. Si sono ottenuti 28 trasudati, 32 trasudati modificati e 66 essudati. I trasudati modificati e gli essudati sono stati ulteriormente classificati in base a criteri puramente morfologici in versamenti infiammatori/reattivi, versamenti emorragici e versamenti tumorali. Sono stati diagnosticati 49 versamenti infiammatori/reattivi, 18 emorragici, 18 tumorali ed è stato formato un ulteriore sottogruppo comprendente i versamenti a predominanza linfoide (13 casi) per i quali erano necessariamente fornite più ipotesi diagnostiche. I versamenti di tipo trasudato erano caratterizzati dalla presenza di poche cellule, soprattutto cellule macrofagiche e rare cellule mesoteliali normali, senza anomalie morfologiche. I versamenti di tipo infiammatorio erano caratterizzati da una cellularità elevata e comprendevano cellule infiammatorie con predominanza di neutrofili, degenerati o meno, associati a cellule macrofagiche, realizzanti talvolta immagini di leucofagocitosi, linfociti e plasmacellule e cellule mesoteliali, talvolta displastiche e potevano essere settici o meno. I versamenti a predominanza linfoide, diagnosticati soprattutto nella specie felina (11/13), erano caratterizzati da una maggioranza di piccoli linfociti normali, associati a cellule macrofagiche e cellule mesoteliali ben differenziate; per questo tipo di versamento non è possibile fornire un’unica ipotesi diagnostica. I versamenti di tipo emorragico erano caratterizzati dalla presenza di eritrociti, numerosi macrofagi, realizzanti talvolta immagini di emofagocitosi, cellule mesoteliali normali o degenerate. I versamenti tumorali presentavano aspetti variabili e si sono osservati: 5 mesoteliomi (conferma istologica in 4 casi e in un caso si è potuto ripetere solo il prelievo e l’esame citologico a distanza di tre settimane, confermando la prima diagnosi), caratterizzati da una predominanza di cellule mesoteliali presentanti sempre le medesime atipie morfologiche; 3 emangiosarcomi (conferma istologica in 2/3 casi, un caso è sfuggito al follow up), caratterizzati dalla presenza di un fondo emorragico e infiammatorio nel quale si potevano ritrovare rare cellule atipiche isolate o formanti piccoli raggruppamenti pseudo-epiteliali; 2 adenocarcinomi (conferma istologica in 1/2 casi ma entrambi PAS+), caratterizzati da un background infiammatorio con predominanza di cellule macrofagiche e cellule mesoteliali talvolta displastiche, associato a cellule atipiche formanti raggruppamenti coesivi a carattere ghiandolare; 2 sarcomi (conferma istologica 1/2 di emangiosarcoma mentre l’altro è risultato lisozima+ quindi istiocitosi maligna), poco differenziati, caratterizzati dalla presenza in un background infiammatorio e/o emorragico di cellule d’aspetto fibro/istiocitico a carattere maligno; 1 chemodectoma (conferma istologica) caratterizzato da un fondo emorragico e rari nuclei liberi, senza citoplasma e nucleoli prominenti; 5 versamenti tumorali maligni per i quali non è stato possibile fare diagnosi differenziale tra mesotelioma anaplastico e carcinoma (esame istologico in 3/5 con 2 mesoteliomi e un carcinoma per gli altri due l’immunofenotipo ha rilevato che si trattava di mesotelioma). Conclusioni. Questo studio evidenzia le caratteristiche citologiche che hanno condotto alla diagnosi dei vari liquidi di versamento e le difficoltà diagnostiche nel differenziare i versamenti tumorali, per i quali si è dovuto ricorrere all’ausilio di altri esami quali l’istologia, le colorazioni citochimiche (Periodic acid Schiff,) e l’immunofenotipo attraverso l’utilizzo dei markers per il riconoscimento dei filamenti intermedi dei vari tipi cellulari (citocheratina, vimentina, lisozima).

Indirizzo per la corrispondenza: Vanessa Turinelli, Via Sarti 11, 57128 Livorno Tel: 335 5383251 E-mail: vanessa.turinelli@virgilio.it


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CHEMIOTERAPIA INTRALESIONALE NEL CARCINOMA SQUAMOSO FELINO DEL PLANUM NASALE, CASI CLINICI Fabio Valentini, Med Vet, MS Libero professionista, Roma Introduzione. Nel gatto, il carcinoma squamo-cellulare (CSC) rappresenta una delle neoplasie cutanee più comuni. Si tratta di un tumore maligno delle cellule dell’epitelio squamoso; è localmente invasivo ma poco prono a dare metastasi a distanza. L’eziologia è multifattoriale ma le radiazioni ultraviolette (UV) svolgono, di certo, un ruolo chiave a causa della loro capacità di danneggiare il DNA ed, in particolare, il gene p53, fondamentale nei processi di controllo e riparazione degli acidi nucleici. I soggetti maggiormente colpiti sono quelli a mantello bianco (rischio 5 volte maggiore rispetto agli altri gatti) e le lesioni si sviluppano principalmente in zone depigmentate e più esposte ai raggi ultravioletti come il planum nasale (sede colpita più frequentemente), le palpebre ed i padiglioni auricolari. Nel gatto il CSC si presenta sotto due forme cliniche principali: ulcerativa (più comune) e proliferativa. Vi sono diverse possibilità terapeutiche nel trattamento del CSC del planum nasale nel gatto come la chirurgia, la crio-chirurgia, la terapia fotodinamica, la radioterapia, la chemioterapia sistemica ed intra-lesionale e, anche se non supportato da una robusta letteratura, l’utilizzo dei retinoidi. In questa comunicazione breve verranno presentati alcuni casi di CSC del planum nasale trattati con chemioterapia intra-lesionale a base di carboplatino e siero autologo. Materiali e metodi. Sono stati presi in considerazione quattro casi di CSC del planum nasale diagnosticato per mezzo di esami citologici e/o istologici; vi erano tre femmine ed un maschio, tutti di razza europea e di età superiore ai dieci anni. Gli animali sono stati sottoposti al minimum data base ed è stata effettuata la stadiazione clinica delle lesioni (T1, T1, T2 e T3). Questi animali, previa anestesia, hanno ricevuto carboplatino alla dose di 3-4 mg/cm3 di lesione addizionato ad una quantità uguale di siero autologo. Le sedute avvenivano ogni 15 giorni con un minimo di quattro somministrazioni. Le infiltrazioni sono state eseguite con la tecnica “a blocco di campo”. Risultati. Dopo quattro somministrazioni di carboplatino intra-lesionale i gatti con T1 hanno ottenuto una remissione parziale (RP) ed una remissione completa (RC); il gatto con stadio T2 ha ottenuto un periodo di malattia stabile (MS) durato circa tre mesi per poi passare a malattia progressiva (MP); il gatto con T3 ha manifestato da subito refrattarietà alla terapia sviluppando MP. Il T1 con RP è stato eutanasizzato a tre mese dalla diagnosi per cause non correlate al CSC; l’altro gatto con T1 è stato in RC per sei mesi dalla diagnosi ed ha sviluppato poi un’altra lesione carcinomatosa sul lato opposto del planum rispetto alla lesione precedente; è tutt’ora in cura e la sua qualità di vita è ottima; il gatto con T2 e MP è tutt’oggi vivo a quattro mesi dalla diagnosi con qualità di vita accettabile mentre il gatto con T4 è stato eutanasizzato a sei mesi dalla diagnosi per grave MP che aveva compromesso la qualità di vita dell’animale. Discussione. La chemioterapia intralesionale con carboplatino e siero autologo rappresenta un trattamento conservativo che va inserito nella lista delle opzioni terapeutiche per il CSC del planum nasale del gatto. È indicata se si verificano tre condizioni contemporaneamente: proprietario contrario all’intervento chirurgico, lesione singola allo stadio Tis, T1 e T2 e impossibilità di usufruire di altre forme di trattamento. La logica di questo tipo di terapia è quella di ridurre gli effetti collaterali riscontrabili in corso di chemioterapia sistemica ed aumentare, invece, la concentrazione del farmaco a livello della lesione e nelle sue immediate vicinanze. Gli effetti collaterali legati alla terapia intra-lesionale sono trascurabili, va considerato però che ad ogni somministrazione il gatto deve subire una sedazione profonda o, più spesso, una vera e propria anestesia. Sulla base della letteratura corrente e dell’esperienza personale dell’autore, è importante sottolineare il fatto che le lesioni più responsive a tale trattamento sono quelle precoci e di piccole dimensioni appartenenti agli stadi precedentemente menzionati. La bibliografia è disponibile presso l’autore.

Indirizzo dell’autore presentatore: Fabio Valentini, Via Benaco 07, 00199 Roma Tel. 339/1464685 E-mail: f.valentini@email.it


INGLESE-FRANCESE Le comunicazioni sono elencate in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore presentatore.


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Urinary incontinence in the dog: clinical workup and differential diagnosis Susi Arnold Prof Dr Med Vet, Dipl ECAR, Zurigo, Svizzera

Reichler Iris, Med Vet, Zurigo, Svizzera Hubler Madeleine, Med Vet, Dipl ECAR Zurigo, Svizzera Continence is an expression which refers to the condition during the filling phase of the urinary bladder. The physical condition for continence requires that the urethral closure pressure is higher than that of the bladder pressure. It follows that in the reverse situation, when the bladder pressure exceeds the urethral closure pressure, will result in the loss of urine. This situation occurs at micturition. But, if the bladder pressure exceeds the urethral closure pressure during the filling phase of the bladder an uncontrollable loss of urine occurs, this is urinary incontoninence,. If the anatomical conditions are normal, two pathophysiologically different mechanisms can result in urinary incontinence: An increased bladder pressure with a normal urethral closure function or an insufficient urethral closure function with a normal bladder pressure (= sphincter incompetence). Rosin and Barsanti (1) proved for the first time, that urinary incontinence after spaying is caused by sphincter incompetence. Urinary continence is the ability to control voluntarily micturition. For an animal to be continent several different functions of the nervous system and the urinary tract have to be co-ordinated in the following manner (2): 1. The ureters must lead into the bladder. 2. The urinary bladder has to serve as a reservoir and to have the ability to expand without elevating the intravesical pressure. 3. The urethra has to generate the necessary “resting-pressure” in order to prevent urinary loss during the filling phase of the bladder. 4. Once the bladder has reached the limit of its capacity the efferent neurons must send a signal to the spinal cord and from there to the central nervous system. 5. The central nervous system has to react with an appropriate return signal. 6. The impulse must be transmitted by the spinal cord to efferent neurons, which in turn initialize the contraction of the abdominal muscles and the detrusor muscle. 7. As soon as the bladder contracts, the bladder neck has to relax, and the reflex, which leads to a reduced urethral tonus, has to occur. A complex and functionally coherent system is the requirement for continence. There are many possible causes for urinary incontinence. Urinary incontinence is classified as either neuregenic or non-neurogenic. But in many cases this grouping is unsuitable. For example urinary incontinence in bitches after spaying is classified as non-neuro-

genic, because the the neurological examination is normal. In spite of that most cases respond to treatment with alphaadrenergica, which act like a neurotransmitter. Although sphincter incompetence due to spaying is the most common, a thorough examination should be performed on every incontinent animal. First, a detailed history is necessary as it provides important clues on the type of incontinence, and in turn assists in decisions on the diagnostic work-up. If urinary incontinence was present before the operation, an insufficient education or a congenital malformation (ectopic ureters, persistent urachus, intersex) of the urogenital tract should be considered. If the onset of urinary incontinence occurred immediately after surgery, an iatrogenic ureterovaginal fistula could be the cause. If incontinence exclusively occurs after a walk then a urovagina has to be considered. Affected bitches mainly loose urine where they sit down. Urovagina can also be caused by a vaginal neoplasia, which prevents urine passing by the vestibulum. In many cases urine collects in the vagina when the bitch urinates, in the absence of a pathological condition. If, by history, the bitch is incontinent after long walks an instability of the detrusor could be the underlying cause. This may be due to a persistent urachus, which prevents a complete retraction of the empty bladder. Thus, the bladder is forced into a certain position that may result in a transient instability of the detrusor, in particular after heavy exercise. If incontinence exclusively occurs during sleep and the bed is wet, it is most likely a urethral sphincter incompetence. If spots of urine are found far away from the bed it rather points out an emergency urination, which has nothing to do with incontinence. Dogs with polyuria and polydypsia are more prone to urinate during the night and are erroneously presented as incontinent. Therefore, information on the daily water intake is required. In many cases a bacterial cystitis causes contractions of the detrusor during the filling phase of the bladder, leading to an involuntary urine loss. Because sphincter incompetence predisposes the bitch to bacterial cystitis, the urinary incontinence may remain in spite of a successful treatment of the cystitis. For very young bitches presented for urinary incontinence, an intravenous contrast study should be performed, in order to rule out congenital malformations. An urethrocystogram combined with a pyelogram is suitable for ruling out iatrogenic ureterovaginal fistulas, in bitches which became incontinent immediately after surgery. Possible neoplasia of the urinary tract in elderly bitches can usually be verified by endoscopy or radiography.


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If the history, or the physical exam, is suggestive of a neurological problem, a thorough neurological exam should be performed. Depending on the location of the lesion, radiological procedures or cerbrospinal fluid analysis is indicated to determine the underlying cause (degeneration, neoplasia or inflammation). If a spayed incontinent bitch is presented with a typical history (urinary loss while asleep), and the above mentioned causes for incontinence can be ruled out, it is then most likely a urethral sphincter mechanism incompetence (USMI) due to neutering. Minimal data base in a bitch presented for urinary incontinence: • Physical exam (including careful examination of the lumbar spine!) • Neurological exam (in particular examination of the anal and patellar reflexes) • Vaginoscopy • Serum biochemical profile • Hematology • Bacterial culture of urine • Urinalysis • (Radiological examination if necessary) In addition in male dogs: • Thorough examination of the prostate (digital palpation, ultrasonography, radiography) • Exclusion of ectopic ureters (at any age, also in sexually intact males!) The general risk for urinary incontinence is low (0-1%) in intact bitches (3-5). In contrast, urinary incontinence is a common problem in spayed bitches affecting up to 20% (6). The underlying pathophysiological mechanism is a reduction of the urethral closure function after spaying (7-9). It is believed that there is a direct relationship between the removal of the ovaries and urinary incontinence (10). This was clearly demonstrated by the epidemiological study of Thrusfield (11).

References 1.

2.

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4. 5. 6.

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8.

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10. 11.

Rosin AE, Barsanti JA. Diagnosis of urinary incontinence in dogs: Role of the urethral pressure profile. J Am Vet Med Assoc 1981;178(8): 814-822. Barsanti, J. A., Finco, D. R. (1983). Hormonal responses to urinary incontinence. In: R. W. Kirk (Hrsg.): Current Veterinary Therapy VIII. Philadelphia: W. B. Saunders Co., 1086-1087. Holt PE, Thrusfield MV. Association in bitches between breed, size, neutering and docking, and acquired urinary incontinence due to incompetence of the urethral sphincter mechanism. Vet Rec 1993; 133: 177-180. Krawiec DR. Diagnosis and treatment of acquired canine urinary incontinence. Comp Anim Pract 1989; 19: 12-20. Thrusfield MV. Association between urinary incontinence and spaying in bitches. Vet Rec 1985; 116: 695. Arnold S, Arnold P, Hubler M, Casal M, Rüsch P. Incontinentia urinae bei der kastrierten Hündin: Häufigkeit und Rassedisposition. Schweiz Arch Tierheilk 1989; 131: 259-263. Holt PE: Simultaneous urethral pressure profilometry: Comparison between continent and incontinent bitches. J Small Anim Pract 1988; 29: 761-769. Nickel RF. Studies on the function of the urethra and bladder in continent and incontinent female dogs. PhD thesis, Utrecht: University Press; 1998. Arnold S: Urinary incontinence in castrated bitches. Part 1: Significance, clinical aspects and etiopathogenesis. EJCAP 1999; 9: 125129. Joshua JO. The spaying of bitches. Vet Rec 1965; 77: 642-647. Thrusfield MV, Holt PE, Muirhead RH. Acquired urinary incontinence in bitches: its incidence and relationship to neutering practices. J Small Anim Pract 1998; 39: 559-566.

Author’s Address for correspondence: Prof. Dr. Susi Arnol Dept. of Animal Reproduction Vetsuisse-faculty University of Zurich Winterthurerstr, 260 8057 Zurich - Switzerland


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of patterns, distribution of the pattern (asymmetric vs. symmetric), and intensity of patterns. Other findings of importance include bronchiectasis, pneumothorax, pleural effusion, diaphragmatic hernia, mass lesions, bullae or cysts, megaesophagus, or thoracic foreign bodies. Lack of radiographic abnormalities in an animal with respiratory signs does not definitively rule out pulmonary disease. Metastatic nodules may be too small to identify, recent inflammatory lesions may not be visible, and thromboembolism (PTE) may not cause radiographic change. Ultrasonography has limited utility in pulmonary medicine since air is an extremely poor media for sound waves. Ultrasound is used to examine pulmonary mass lesions, consolidated lungs lobes, vascular patency, and to guide aspiration of lesions. It may also rule out cardiac, pleural, and mediastinal disease. Ultrasonography is widely available, safe and does not result in exposure to radiation. It is very operator dependent and requires animal restraint. Computerized tomography (CT) is the gold standard for detection of pulmonary metastasis. It can be used to detect vascular lesions or to demonstrate location and extent of parenchymal, interstitial and bronchial lesions. CT provides excellent detail on anatomic relationships and can be used to guide aspirates and biopsies. Contrast allows evaluation of vascularized structures. Unlike conventional radiography, CT requires heavy sedation or general anesthesia and equipment is more expensive (although increasingly available). There are a variety of types of CT imaging, each with its unique ideal usages, advantages, and disadvantages. Specialized imaging techniques that have some use in pulmonary medicine include fluoroscopy, angiography, nuclear scintigraphy, magnetic resonance imaging, and positron emission tomography. Familiarity with the utility of these techniques will allow for appropriate referral

VISUALIZATION All forms of direct visualization of the lungs and airways are to some degree invasive. Bronchoscopy allows a scope to be passed through the airways. Mucosal condition, amount of mucus, presence of hemorrhage, structural airway integrity, mass lesions, or foreign bodies can be visualized. Bronchoscopy can also be used to guide sample collection for culture and cytologic evaluation and to remove foreign material. Bronchoscopy allows separate evaluation of different lung lobes. It requires general anesthesia and will occlude airway lumen. Supplemental oxygen provided through the biopsy channel of the scope or via catheter passed along the side of the scope may minimize hypoxemia. The technique requires special equipment and some degree of expertise. Respiratory distress is a relative but not absolute contraindication to bronchoscopy. The pulmonary parenchyma can be visualized directly via thoracotomy or thoracoscopy. Both are invasive procedures but allow directed tissue biopsy and removal of abnormal lung tissue. Thoracoscopy may allow shorter recovery times, but requires specialized equipment and some degree of expertise. These techniques will mentioned again in part II.

SUGGESTED READING Textbook of Veterinary Diagnostic Radiology. Thrall D, editor. 4th ed. Saunders (Elsevier), 2002. Textbook of Respiratory Disease in Dogs and Cats. King LG, editor. 1st edition, Missouri, Saunders (Elsevier), 2004.

Author’s Address for correspondence Leah Cohn - University of Missouri College of Veterinary Medicine, Columbia, MO, USA, 65211


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Acquired incontinence (usmi urethral sphincter mechanism incontinence) in the spayed bitch: etiology and pathophysiology Susi Arnold Prof Dr Med Vet, Dipl ECAR, Zurigo, Svizzera

Reichler Iris, Med Vet, Zurigo, Svizzera Hubler Madeleine, Med Vet, Dipl ECAR Zurigo, Svizzera Urinary incontinence is the most frequent side effect of spaying, embarrassing not only to the owner but to the affected dog itself. The underlying pathophysiological mechanism of urinary incontinence after spaying is a reduced closure pressure of the urethra, known as “urethral sphincter mechanism incompetence (USMI). Within one year after spaying the urethral closure pressure is significantly reduced. Because many bitches only become incontinent years after surgery it took a long time until spaying was considered to be the cause. In one study, 83 (=20%) of 412 bitches, incontinence occurred 3 to 10 years after surgery (1).

Risk factors In 1978 it was already pointed out that the tendency towards incontinence after spaying is significantly higher in large dogs compared to small dogs (5). This was confirmed in our own study: of 205 bitches with a body weight of less than 20 Kg, 19 (=9%) became incontinent, whereas 64 bitches (=31%) out of 207, weighing more than 20 Kg, were affected (1).

Breed disposition In one study (1) on the incidence of urinary incontinence after spaying, 7 breeds were represented by more than 10 animals: German Shepherd (47), Dachshund (36), Boxer (20), Poodle (15), Spaniel (14), Appenzeller (13) and Bernese Mountain Dog (12). The incidence of incontinence in Boxers was very high (65%), but among German Shepherds (11%) and Dachshunds (11%) was less than the average for all dogs (20%). Remarkably, there was no incontinence recorded for the 14 Spaniels and the 12 Bernese Mountain Dogs (1). Due to the small numbers in other breeds, no statement can be made about their predisposition to urinary incontinence. Of the numerous bitches referred to the Veterinary Animal Hospital in Zurich for the endoscopic injection of collagen, Doberman Pinschers and Giant Schnauzers were obviously well represented.

Method of surgery Some authors assumed that after ovariohysterectomy, adhesions around the uterine stump could cause some neu-

ronal damage, leading to urinary incontinence (6; 7). However, there was no significant difference in the incidence of urinary incontinence between ovarectomised and ovariohysterectomised bitches. Of 260 ovarectomised bitches 21% had urinary incontinence after surgery, whereas of 152 ovariohysterectomised bitches 19% became affected (1). Therefore, the hypothesis of a neuronal damage due to surgery can be disregarded.

Time of neutering The question of whether the timing of neutering, before or after the first heat, or the increasing age of the bitch will alter the risk of incontinence, is of importance to the practitioner. An English study showed that 3 (21%) of 14 bitches spayed after puberty became incontinent, but only 1 (0.5%) of 180 bitches neutered before puberty was affected (8). Regarding these results, early spaying seems to be advantageous for urinary incontinence. A study was therefore done to evaluate the risk of urinary incontinence after spaying before the first heat (9). 206 owners of early spayed bitches were questioned on the side effects. The average age of the bitches was 7 years at the time of the survey. Urinary incontinence occurred in 9.7% of bitches. Conclusion: As a result of early spaying the incidence of incontinence was greatly reduced. This result was confirmed by a recent study (10). But, when/if early spayed bitches became incontinent the degree of severity was markedly increased. This relative disadvantage of early spaying is negligible when compared to the benefits, such as lower incidence of urinary incontinence and the well known protection against mammary tumours.

Etiology The causal relationship between the removal of the ovaries and UI is clearly demonstrated (11). It is still unknown what is the triggering mechanism of UI after spaying. Initially an estrogen deficiency after spaying was assumed to be the underlying cause (6). This hypothesis is contradictory to several observations. For example bitches treated with depot preparations of


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Incidence of incontinence in bitches spayed before / after the first heat: Comparison of two analogous studies Examined parameters

Incidence after early spaying (9)

Incidence after later spaying (1)

Statistical analysis early/later spaying

5.1% 12.5%

9.3% 30.9%

SD (p= 0.001)

Type of incontinence: - only during sleep - in sleep and awake - only when awake

35% 60% 5%

98% 2% --

SD (p= 0.000)

Frequency of incontinence - daily - 1 x per week - 1 x per month

90% 10% --

57% 30% 13%

SD (p= 0.018)

Type of operation: - ovariectomy - ovariohysterectomy

8% 15%

21% 19%

NS (p= 0.9)

2.8 years

2.9 years

NS (p= 0.9)

Incidence of incontinence: - < 20kg body weight - > 20kg body weight

Time after spaying until occurrence of incontinence

SD= Significantly different (p<0.05); NS= No significant difference.

gestagens, for suppressing the estrus, have not an increased risk of UI, although this treatment results in ovarian atrophy and the estrogen level remains on a basal level (12). Another side effect after spaying is the increase of plasma gonadotropin levels, because of the lack of the negative feed back of the ovaries (13). About 42 weeks after the removal of the ovaries the gonadotropin levels reach a plateau, whereas the plasma FSHlevel is 17 times and the plasma LH- level is 8 the initial concentration (14). One could therefore ask of whether the elevated FSH- and LH plasma levels are responsible for the increased risk of UI in spayed bitches. If this were correct, then affected bitches could be successfully treated with depot preparations of GnRHanalogs, through a down-regulation of GnRH-receptors of the hypophysis and this in turn decreasing the plasma gonadotropin levels. Indeed, in 7 of 13 bitches suffering from USMI continence was achieved, for an average of 247 days, with the injection of GnRH-analogs (15). However, it is questionable whether the success of this treatment is due to a decrease in gonadotropin levels as the levels between responders and nonresponders are not different (16). It is possible that GnRH has a direct effect on the lower urinary tract, but the success of therapy is not based on of a normalisation of the urethral sphincter competence (16). Recent studies in Beagle bitches have given rise to the assumption that GnRH modulates the bladder function (16).

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Author’s Address for correspondence: Prof. Dr. Susi Arnol - Dept. of Animal Reproduction Vetsuisse-faculty University of Zurich, Winterthurerstr, 260 - 8057 Zurich - Switzerland


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Medical and surgical treatment of USMI Susi Arnold Prof Dr Med Vet, Dipl ECAR, Zurigo, Svizzera

Reichler Iris, Med Vet, Zurigo, Svizzera Hubler Madeleine, Med Vet, Dipl ECAR Zurigo, Svizzera

The medical treatment of USMI is the method of choice and should always precede a surgical therapy. The action of the used substances implies an increase of the urethral closure pressure. In the first line alpha-adrenergic agonists are used. The effect of these sympathomimetic drugs ia explained by the fact, that 50% of the urethral closure pressure is generated by the sympathetic nervous system. Alphaadrenergic agonists improve the urethral closure pressure by stimulation of the alpha-receptors of the smooth urethral musculature (1-6). The treatment with alpha-adrenergic agonists results in continence in 75% of incontinent bitches. An alternative is the treatment with estrogens, which is successful in 65% (7-9). But with estrogens unwanted side effects can occur such as swelling of the vulva and attractiveness for male dogs (8). Nowadays only short-acting estrogens are used (10). The depot preparations used in the past are obsolete, in part because they can potentially cause a bone narrow depression (11). Estrogens indirectly increase the urethral closure pressure; they sensitise the alpha-receptors for endogenous and exogenous catecholamines (12). If therapy with alpha-adrenergic agonists is unsatisfactory, a combination with estrogens may potentiate the effect. The alpha-receptors are divided in alpha1- and alpha2subtypes. These receptor subtypes are distributed differently in each single effector. Alpha-1 receptors are found in many target organs of the sympathetic nervous system. With a few exceptions, alpha-2 receptors are not present in target organs of the sympathetic nervous system, but in neuronal synapses. It is now known, that the alpha-receptors at the bladder neck and proximal urethra of the bitch, which are responsible for continence, belong to the subtype 1 (13). The side effects of alpha-adrenergic agonists is explained by the fact that alpha-1 receptors are not just found at the bladder neck, but also in other organs, especially in the wall of blood vessels. Phenylpropanolamine (PPA) acts selectively on alpha-1 receptors. The older substance Ephedrine is less selective than PPA. It also stimulates beta-receptors and therefore has the tendency to have more side effects (1,2). In contrast to PPA a habituation to Ephedrine occurs. Because of these reasons PPA is the therapy of first choice. In humans treatment with PPA sometimes causes side effects, such as an increase in blood pressure and headache. It may occasionally trigger a stroke or a heart attack and is therefore no longer used. With PPA used in dogs, at the recommended dose of 1.5 mg/Kg BW bid or tid, an increase in blood pressure was not observed (4, 14). The side effects

observed in dogs were never life threatening and usually were self-limiting; diarrhoea, vomiting, anorexia, apathy, nervousness and aggressiveness (6,7,15). For refractory cases different surgical therapies are available, of which colposuspension (16), urethropexie (17) and the endoscopic injection of collagen (18) are mainly used, with a success rate of 50 – 75%. With all three techniques a deterioration in the response rate was seen over time. At our clinic, we prefer the endoscopic injection of collagen as this method is least invasive, with a minimal rate of complications and the results are as good as the more invasive techniques. Colposuspension (16): The bitch is placed in dorsal recumbency with the hind limbs flexed. A Foley catheter is used to empty the bladder. The catheter cuff is inflated with air and drawn into the neck of the bladder. A caudal, midline, abdominal skin incision is made. The prepubic tendon is exposed on both sides of the mid-line. The external pudendal vessels are identified and avoided. Traction on the bladder allows the bladder neck to be identified due to the presence of the inflated Foley catheter cuff. An index finger is inserted through the vulva and used to displace the vagina cranially. The fat and fascia around the ventral bladder neck and proximal urethra are separated until the vaginal wall is exposed dorso-lateral to the urethra. The vaginal wall is grasped with Allis tissue forceps on each side of and approximately one centimetre away from the proximal urethra. The surgeon withdraws the finger from the vagina and changes his gloves. The vagina on each side of the proximal urethra is anchored to the prepubic tendon using two 0 or 1 monofilament nylon sutures. Sutures are taken through the full thickness of the vaginal wall and are pre-placed. Before tying, tension is placed on the sutures to determine that strangulation of the urethra between the vagina and pubis would not occur. Once the sutures are tied, a final examination is performed to confirm that the urethra is freely moveable between the vagina and pubis and is not compressed in any way. The beneficial effect of the operation may be the resultant re-location of the bladder, bladder neck and proximal urethra into an intra-abdominal position. Urethropexy (17): A caudal midline celiotomy is performed. Blunt dissection in the midline is used to visualise the ventral aspect of the urethra at the level of the cranial pubic brim. A suture of 2/0 or 0 polypropylene is placed caudal to one prepubic tendon so that it enters the caudal


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abdomen. While traction is applied to the bladder neck and urethra via the bladder neck stay suture, the polypropylene suture is passed transversely through the muscular layers of the adjacent urethra. Once placed trough the urethra, the suture is passed caudal to the opposite prepubic tendon and out of the abdominal cavity. The suture ends are hold together wit a pair of haemostatic forceps. The procedure is repeated, with a second polypropylene suture being placed through the urethral wall approximately 3 to 5 mm cranial to the first. Both the polypropylene sutures are now tied. This results in the closure of the most caudal aspect of the celiotomy incision and fixation of the urethra to the ventral abdominal wall at the end of the cranial pubic brim. The mechanism of action remains uncertain, although re-location of the bladder neck into an intra-abdominal position and the production of a localised increase in urethral resistance are likely consequences of the procedure. Urethral submucosal injection of collagen (18): The goal of treatment is to enhance the closure of the proximal urethra. Under general anaesthesia, the patient is placed in dorsal recumbency with the hindlimbs extended cranially. Then under cystoscopic control three collagen deposits (Zyplast®, Collagen International Inc. Lausanne, Switzerland) are injected in a circular manner approximately 1.5 cm caudal to the bladder neck (18). In 19 of 32 (=59%) bitches urinary incontinence resolved with a single collagen injection, but 5 bitches still needed phenylpropanolamine for complete continence. A second injection was performed in 9 dogs, of which 5 became continent, including two bitches with additional medication. The final success rate was 75%. An aim of a recent study was to evaluate the long-term success of the endoscopic injection of collagen. After a mean observation period of 33 months the final success rate was 68% (19).

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Urinary incontinence in male dogs Susi Arnold Prof Dr Med Vet, Dipl ECAR, Zurigo, Svizzera

Reichler Iris, Med Vet, Zurigo, Svizzera Hubler Madeleine, Med Vet, Dipl ECAR Zurigo, Svizzera

In contrast to bitches, urinary incontinence in male dogs is rarely observed. In a study of 65 dogs with USMI only 5 patients (7.5%) were male (1). The clinical workup of incontinent male dogs is principally performed according to the same schedule for incontinent bitches, but some sex specific features have to be evaluated. For example, the loss of prostatic secretions can mimic urinary incontinence. Prostate diseases, such as prostatitis, prostatic cyst, neoplasia and cystitis, must be first ruled out. Also to be ruled out are ectopic ureters in male dogs, a congenital malformation that often first causes urinary incontinence when the dog is of an advanced age. Another congenital malformation resulting in urinary incontinence, already during puppyhood, is a megaurethra. Most often this malformation is accompanied by prostatic aplasia. In male dogs USMI represents only 13% of the cases with urinary incontinence, while in bitches it makes up 44% (1). As in bitches the clinical examination and laboratory analyses are also normal in male incontinent dogs. Also, as in bitches urinary incontinence is an acquired disease whose underlying cause is unclear (2). In contrast to bitches about half of the male dogs affected by USMI are intact. In bitches the entire urethra is responsible for the generation of the urethral closure (3, 4). However, in males has been found, through clinical experience, that only the proximal quarter, represented by the pars prostatica and pars membranacea, is responsible for continence. Thus, voluntary control of urination is maintained, even patients affected by urolithiasis of the lower urinary tract where a permanent urethrostomy has to be performed at the pars spongiosa, or even at a perineal location (5). Surgery at the transition from the pars membranacea to the pars spongiosa normally does not result in incontinence. Nevertheless, surgery performed in the area of the pars membranacea may lead to a transient incontinence (6) and operations of the proximal urethra, for example removal of the prostate, are regularly accompanied by incontinence (7). USMI in male dogs is not exclusively observed in association with surgery of the urethra. For unknown reasons the urethral closure function spontaneously deteriorates, leading to uncontrolled loss of urine. The diagnosis of USMI is established by ruling out other causes, or it may be confirmed through a urethral pressure profile. In a study of 5 continent male dogs, the maximum urethral closure pressure within the area of the prostate was 20.0 + 10.3 cm H2O. In 14 male dogs affect-

ed by USMI the maximum urethral closure pressure was significantly lower, 13.9 + 5.7 cm H2O. In contrast, in the area of the pars membranacea the maximum urethral closure pressure was not significantly different (7.5 + 3.8 cm H2O vs.7.4 + 3.1 cm H2O) (8). These results support the diagnosis of „urethral sphincter incompetence“ in incontinent male dogs and are in agreement with clinical experience, and indicate that the functional integrity of the prostatic area is especially important for continence. Neither in male dogs, nor in bitches, is the urethral closure generated by an anatomically defined urethral sphincter. It is entirely dependent upon the co-operation of different physiological mechanisms. These can be divided into neuromuscular and non-neuromuscular components. About 60% of the urethral closure function is attributed to neuromuscular components (9) and is mainly controlled by the sympathetic nervous system. The remaining 40% is attributed to the nonneuromuscular components. Because of the relatively large contribution of the sympathetic nervous system to the urethral closure it is obvious why the treatment with alphaadrenergic substances is often successful in bitches. Similar success rates would be expected in male dogs as there are no significant differences between the two sexes in the urethral wall anatomy or the physiological mechanisms. However, the clinical experience does not correspond to the expectations: In a study of 12 incontinent dogs (8) only 4 of them responded to the treatment with phenypropanolamine. The treatment with sex-steroids also showed questionable results. The last hope is therefore often surgery. Deferentopexy / prostatopexy: An effect similar to colposuspension in bitches can be obtained in male dogs by fixating the deferent ducts or the prostate to the abdominal wall. This technique is reported in 8 dogs (10, 11). Using classical surgery with a caudal midline approach, the distal ends of both deferent ducts are located at the internal os of the inguinal canal and then gently pulled forward (thus stretching the urethra cranially) and moved laterally reaching an angle of 60° to the midline. The deferent ducts are then pexied to the lateral abdominal wall in a position perpendicular to the celiotomy and 1/3 of the distance between the midline and the lateral aspect of the vertebral column. The pexying technique includes making an incision in the rectus abdominis muscle, then penetrating bluntly the abdominal wall with a hemostatic forcep, grasping the end of the deferent, pulling it through the abdominal wall and anchoring it to the body wall under a moderate degree of tension so that the prostate gland is moved about 1 cm cranially. A pexying technique for the


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prostate, which is anchored to the prepubic tendon on either side of the urethra, is also reported in 2 dogs (12). Following prostatopexy (12) or deferentopexy (10) both the success rate (4/9 dogs were fully continent without medical treatment, 4/9 still needed some medical treatment to achieve full continence, with no improvement in one case), as well as the cranial shift of the bladder neck (from 5 to 50 mm), were similar when compared to colposuspension (13). At our clinic we treated male dogs suffering from USMI with an endoscopic collagen injection into the urethral submucosa. For this a midline incision and a cystotomy are necessary as the endoscope is not flexible and cannot be introduced via the penis. The collagen depots are placed at the middle of the prostatic area, which is well recognised at the intraluminally elevated culicula seminalis. To prevent the risk of an iatrogenically caused prostatitis, intact male dogs with USMI have to be castrated 3 weeks before the procedure. The success rate of the collagen injection is similar to the more invasive surgical techniques, but with a much lower rate of complications.

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Author’s Address for correspondence: Prof. Dr. Susi Arnol - Dept. of Animal Reproduction Vetsuisse-faculty University of Zurich Winterthurerstr, 260 - 8057 Zurich Switzerland


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Inhalational delivery of medications to dogs and cats Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

Inhalational therapies have widespread use in human medicine but are used less often in veterinary medicine. Interestingly, most published studies of inhalational therapy in veterinary medicine focus on equine medicine. Advantages of inhaled delivery of medication include reduced systemic side effects when medications are applied directly to target respiratory tissues, higher drug concentrations at targeted respiratory tissues than might be achieved through systemic administration, a rapid onset of action, and avoiding hepatic first pass metabolism. Inhalational therapies have become the therapies of choice for treating asthma in humans largely because far fewer systemic side effects occur after inhalational as opposed to systemic therapy. Of course, the inhalational route of administration is not perfect. A major function of the respiratory defenses is to prevent particulates from reaching the lower airways. Efficient removal of particulates means that only a small proportion of the administered medication reaches the lower airways with much drug lost in the device or in the oropharynx. The drug administration devices are designed to be used by humans on a voluntary basis, and several require purposeful respiration and breathe holding. Additionally, respiratory depth and rate, tidal volume, and airflow rates all impact drug delivery by the aerosol route and all may be impacted by respiratory disease. Drugs themselves or preservatives contained in the drug preparation may cause airway irritation and possible bronchoconstriction. There are two major categories of devices designed to deliver drugs by aerosolization and subsequent inhalation. These include nebulizers and metered dose inhalers (MDI). The two are quite distinct devices, and have distinct uses. In general, nebulizers deliver much smaller particles allowing deeper respiratory penetration and provide fluid along with drug. Uses for inhalation therapy include systemic disease as well as respiratory disease. Recently inhaled insulin has been approved for the management of diabetes mellitus in people. Aerosolized delivery has also been used for targeted chemotherapy of metastatic and primary lung tumors, for vaccine deliver, for gene therapy, and even to treat pulmonary hypertension.

Nebulizers Nebulizers utilize compressors to generate relatively high air pressures and flow rates; modifications of the basic system exist to improve delivery or modulate particle size. Standard nebulizers are available in portable sizes of a modest price, certainly suitable for use in veterinary hospitals and even practical for at-home use by owners (e.g., Nebulair Vet-

erinary Portable Ultrasonic Nebulizer®, DVM Pharmaceuticals, and many portable products for the human market). In veterinary medicine, the predominant use of nebulizers is for treatment of respiratory infection. Nebulizers have long been used to provide airway humidification or to administer antimicrobials directly into the respiratory tract. Mucolytic agents (e.g., N-acetylcysteine) have also been nebulized to treat animals with respiratory infection. Sterile saline nebulization without antimicrobial drugs for 15-30 minutes at a time, administered 3-4 times per day, is safe and the author’s impression is that this is a useful therapy for pneumonia. There are antimicrobial drugs which do not contain potentially reactive additives or preservatives made especially for nebulization to people with pneumonia but these are expensive. Veterinarians sometimes nebulize aminoglycoside antibiotics made for parenteral use. There are no well established guidelines for dosing but typically the dose that would be used systemically is diluted in saline and nebulized over a single 15-30 minute session. From 5 to 10% of patients may experience bronchoconstriction. Therefore, bronchodilators may be administered by parenteral routes 15 minutes prior to nebulization or via an initial period of nebulization with the bronchodilator added directly to the nebulized fluid before the addition of the antimicrobial drug. Delivery of antimicrobials should not replace systemic antimicrobials in animals with pneumonia. Nebulization can be accomplished by face mask, by tent, in a closed aquarium type container into which the animal is placed, or into a tracheotomy tube. The device must be kept meticulously clean to avoid causing iatrogenic respiratory infection. Nebulization of a nosocomial Pseudomonas, for instance, could have devastating consequences for an animal with compromised respiratory function.

Metered dose inhalers Metered dose inhalers (MDI) are designed for at home use and are the preferred route of delivery for glucocorticoid and bronchodilator medications in humans with asthma. They are also used to treat cats with bronchopulmonary diseases (eg, asthma) and dogs with chronic bronchitis. Particles delivered by MDI are larger than those created by nebulization and thus do not penetrate as deeply. A MDI consists of a mouthpiece and an actuator (holder) into which a canister of medication is inserted. Manually depressing the canister results in the release of a single dose of medication. People shake the canister, exhale deeply, insert the mouth piece, and simultaneously depress the canister and inhale deeply. They then hold their breath, exhale, and rinse the mouth and spit


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to remove the majority of the drug deposited in the oropharynx (only ~10% of each dose reaches the airways). Devices called spacers designed to fit the MDI have allowed their adaptation for use in animals. These devices were not designed for veterinary use but rather for young children, the elderly, or others with less than ideal coordination. The spacer also has the advantage of allowing the largest particles to fall out and not enter the patient’s mouth. Several types of spacers are available, from simple tubes to holding chambers with one-way valves activated by inhalation. Until recently, all MDI used chlorofluorocarbons as propellants. Concerns about the ozone layer have led to new technologies, including alternate propellants and the use of dry powder inhalers (DPI). The DPI devices contain no propellant but rely on the patient’s inhalation through a reservoir containing the dry power dose. These devices will likely be less useful for veterinary patients since they do not use a spacer and require voluntary inhalation of a certain rate to deliver the drug. For veterinary patients, the most common use of MDI is delivery of corticosteroids (e.g., fluticasone propionate; Flovent 110 or 220 µg/actuation) or albuterol bronchodilators (e.g., Ventolin or Proventil 90 µg/actuation). Not all MDI fit all spacers, so it is important to be sure the device will work with the MDI prescribed. There are spacer devices made specifically for veterinary patients (Aerokat®; aerokat.com), or devices for people can be adapted for veterinary use. In the author’s experience, few owners have trouble administering the inhaled medication in this fashion.

In fact, many owners have commented that aerosol therapy is far simpler than “pilling” their cat. There are no scientific studies reporting on the efficacy of either steroids or albuterol delivered by MDI in animals. There is only a single published study demonstrating the ability to deliver particles to the lower airways in conscious, unsedated cats via aerosol, and this study used a nebulizer device designed to create smaller (and therefore more deeply penetrable) particles than would a MDI. Because of the many questions still surrounding efficacy of delivery by MDI, these drugs should be used as adjuncts in the treatment of animals with more than mild disease symptoms. Concomitant use of inhaled and systemic steroids may allow minimization of systemic dosages. Once signs are controlled, a trial of aerosolized medications without concurrent systemic medications can be attempted.

SUGGESTED READINGS Schulman RL, et al. Investigation of pulmonary deposition of a nebulized radiopharmaceutical agent in awake cats. Am J Vet Res. 65(6):806809. 2004. Pongracic JA. Asthma medications and how to use them. Curr Opin Pul Med. 6(1):55-8, 2000. Padrid P. Feline asthma: diagnosis and treatment. Vet Clin N Am. 30(6); 1279-1294, 2000.

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Diagnostic investigation of lung disease - I part Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

There are many techniques available for diagnosis of animals with pulmonary disease. Before deciding which techniques are most appropriate, the first question must be whether pulmonary disease is present at all. Extrapulmonary respiratory disease, neurologic disorders, acid-base disturbances, metabolic and endocrine disease can mimic pulmonary disease. History and physical examination are key in localization of disease to the pulmonary parenchyma. Additionally, routine laboratory data base information such as CBC, serum biochemistry profile, urinalysis, fecal examinations, and even serologic tests will help rule out non-pulmonary causes of disease and occasionally identify a specific pulmonary diagnosis. There are a variety of testing methodologies that provide information directly relevant to pulmonary disease. These tests include functional studies, imaging studies and direct visualization of the airways, and invasive studies to collect samples for cytologic and microbiologic analysis.

other factors. Normal SpO2 should be >95%. A SpO2 of 90% is roughly equivalent to a PaO2 of 60%, but the information generated by pulse oximetry is not identical to the information generated by arterial blood gas assay. True pulmonary function tests assess the ability to move air and exchange gasses. Techniques include tidal breathing flow volume loops, plethysmography, spirometry, capnograpy, and others. These types of test are widely used in human medicine but rarely in veterinary medicine. Pulmonary function tests require specialized equipment and many of the most important measures cannot be performed on conscious animals. Capnography does enjoy widespread use in veterinary medicine to assay breath carbon dioxide concentration as a measure of hypoventilation and physiologic dead space in anesthetized or ventilated patients.

IMAGING FUNCTIONAL ASSESSMENT Oxygenation is assessed by observation of mucus membrane color, measurement of arterial blood oxygen tension, or measurement of hemoglobin – oxygen saturation. Hypoxemia exists when arterial oxygen tension falls below 85%. Observation of mucus membranes for cyanosis is safe, non-invasive, and cost free, but is insensitive. Cyanosis is not apparent until PaO2 falls to 50% or less. Because cyanotic membrane color depends on an absolute amount of unsaturated hemoglobin, anemic animals may not ever become cyanotic. Arterial blood gas assay is a more sensitive way to detect hypoxemia. Measurement of PaO2 provides assessment of hypoxemia and the need for supplemental oxygen support, can be used to monitor response to therapy, and can provide evidence of ventilation/perfusion mismatching when the alveolar-arterial gradient is increased ((150 - PaCO2) PaO2) >20). Additional useful information provided by arterial blood gas measurement includes acid-base status and evaluation of ventilation. Arterial blood obtained for blood gas measurement must be assayed quickly, and thus requires special equipment. Coagulopathy is a relative contraindication. Pulse oximetry assesses the oxyhemoglobin content of perfused tissues and can be used to asses the need for and response to oxygen therapy. It is completely non-invasive, risk free, and affordable. Results are nearly immediate, and continuous monitoring of pulse oximetry is possible. Interference is possible due to motion, probe positioning, and

The single most useful tool in the evaluation of animals with lung disease is radiographic imaging. Radiography is simple, safe, and cost efficient and offers tremendous potential information with only severe dyspnea as a contraindication. Images can be stored indefinitely allowing for consultation with experts. There are minimum sizes before lesions are noticeable, and differences in opacity between the lesion and surrounding tissue must exist to visualize lesions. Radiation exposure is a disadvantage. Radiography requires attention to detail and technique. Techniques appropriate to lungs require a longer gray-scale (i.e., short MAS, high KVP). A too dark or too light technique can easily hide lesions. Positioning should include the entire thorax. Inspiratory images are best for evaluation of pulmonary parynchema, but both inspiratory and expiratory images may be required to demonstrate intrathoracic airway collapse. When trying to demonstrate pulmonary mass effects, both right and left lateral views as well as a DV or VD view are required since the “down” lung is somewhat compressed. Computerized or digital radiography uses smaller amounts of radiation and produces images on a computer screen. Contrast and brightness can be adjusted and images can be shared immediately via internet or can be printed to radiographic film. Interpretation of thoracic radiographs begins with assessment of positioning and technique. Extrapulmonary structures are evaluated. When evaluating the lung fields themselves, note should be made of the lung patterns (alveolar, bronchiolar, interstitial, vascular, combination), the location


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Diagnostic investigation of lung desease - II part Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

There are several ways to obtain samples from the lower respiratory tract for cytologic evaluation and microbiologic culture. Samples should be handled quickly and gently to avoid damaging cells. Lavage samples should be sedimented and a gentle line smear prepared and allowed to air dry. Cultures should be performed quantitatively since airways are not necessarily sterile. It is important to interpret culture in light of cytologic findings because bacterial growth in the absence of inflammation may be unimportant. Special requests and/or sample handling are required for anaerobic culture and culture of Mycoplasma sp. or fungal organisms.

SAMPLING TECHNIQUES Tracheal lavage is indicated for diagnosis of large airway disease or to obtain microbiologic and cytologic samples in animals with productive pneumonia. It is rarely useful in the diagnosis of interstitial lung disease. It is a relatively safe, simple, inexpensive technique that requires no special equipment. Endotracheal lavage is best for cats and small dogs. It requires a brief general anesthesia but is simple to perform and complications are rare. The animal is intubated and a sterile rubber catheter is advanced through the endotracheal tube until its tip is at the level of the carina (~ 4th intercostal space). Five ml of sterile saline is injected rapidly then aspirated back. The procedure is repeated 2-3 times. As soon as adequate diagnostic samples (1-2 ml of turbid fluid) are recovered, anesthesia is discontinued. Oxygen is administered via the endotracheal tube until a laryngeal reflex has returned, and the animal is observed afterwards. Transtracheal lavage is used instead of endotracheal lavage in larger dogs and does not require anesthesia. A SQ injection of lidocaine is used, and sometimes a mild sedative. Rare complications include tracheal lacerations, SQ emphysema, pneumomediastinum, and possible tracheal foreign body if the catheter tip is sliced. The dog is restrained in a sitting position with the nose tilted towards the ceiling at a 45o angle. The ventral neck is clipped and cleaned, and a small bleb of lidocaine placed. A “through the needle” jugular catheter is used. Needle insertion can be between any two tracheal rings depending on catheter length to allow it to reach the carina. Grasping the trachea to stabilize it, insert the needle (bevel downward) through the lidocaine skin bleb first and then between the cartilage rings with a rapid stabbing motion. The needle is held downward into the tracheal lumen and the catheter advanced through the needle. The dog should cough rather than gag. NEVER back the catheter out through the needle as it may be sheared

off by the needle bevel. Once the catheter has reached level of the carina, the needle is backed out of the trachea and the guard clamped while leaving the catheter in place. A syringe containing 5-8 ml of sterile saline is attached to the catheter and rapidly injected. If the dog fails to cough an assistant should coupage the chest. Fluid should be aspirated back quickly. This is repeated several times with the goal to recover only a small fraction of the injected fluid (1-2 ml). After removing the needle and catheter the neck is loosely wrapped and the dog observed. Bronchoalveolar lavage (BAL) is indicated for the diagnostic evaluation of small airway disease and alveolar disease, and sometimes interstitial lung disease. The samples produced by BAL come from deeper areas of lung and distal airways (as demonstrated by foamy surfactant). They provide excellent samples for cytologic and microbiologic evaluation but BAL requires general anesthesia, causes transient hypoxemia, and can induce bronchospasm. Respiratory distress is a relative contraindication. BAL may be accomplished in a blinded method or bronchoscopically guided. The blinded method requires no special equipment and is simple and inexpensive. The bronchoscopically guided method allows lavage of specific areas of the lung and also allows direct observation of the airways but requires special equipment and expertise. Blinded BAL is most useful for generalized lung disease (eg, asthma). As with endotracheal lavage, the animal is anesthetized and preoxygenated before cleaning passing a sterile tube through the endotracheal tube. Instead of a rubber catheter, a stiff polypropylene catheter (7-8 Fr for cats) is inserted past the carina until it encounters resistance indicating that it is wedged in a bronchus. There is no way of guiding it to a specific bronchus or even a specific lung lobe. Sterile saline is injected and recovered in the same fashion as for endotracheal wash. Fluid recovery may be facilitated by the use of a mucus suction trap. A foamy liquid indicates surfactant which is evidence of a good wash. Supplemental oxygen should be given during anesthetic recovery and cats should receive a bronchodilator. Bronchoscopically guided BAL uses the scope to collected guided samples from a specific lung lobes and is therefore preferred with regional disease. Instead of using a catheter scope itself is lodged into a distal airway and used to both inject and collect fluid. Aliquots from different lobes can be kept separate. Sterile bronchial brush samples can be used for both culture and cytology of the airways and can be obtained in a blinded or bronchoscopically guided fashion. The samples, which are vastly smaller than those produced by BAL, are only useful for airway or productive alveolar disease. The brush itself is expensive making this procedure more costly


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than BAL. The only advantage over BAL is that the quick procedure does not cause hypoxemia. Transthoracic (fine) needle aspiration of the lung is most useful for cytologic evaluation of pulmonary nodules, consolidated lung or masses, or for diffuse severe lung disease. Cytology may confirm neoplasia or infection but tiny samples are often non-diagnostic. Contraindications include coagulopathy, abscess, pulmonary hypertension, and cystic lesions. Ideally, aspirate is guided by imaging studies but if disease is diffuse the caudal lobes are targeted. Aspiration requires only manual restraint and is quick, simple and inexpensive. A 22 ga needle attached to syringe is inserted through the skin caudal to the intended site of aspiration. The needle is advanced in the subcutaneous tissue to the front of the next rib then quickly inserted through the intercostal muscles into the pulmonary parenchyma. Negative pressure is applied to the syringe several times in quick succession without moving the needle. The needle is pulled out and the aspirated material is used to prepare a gentle smear for cytologic examination. Samples are usually inadequate for culture. Complications are rare but may include pneumothorax, hemothorax, hemorrhage, and organ, vessel, or nerve laceration.

require anesthesia. These include open thoracotomy (ventral or lateral), keyhole surgery, or thoracoscopy. Coagulopathy and anesthetic intolerance are relative contraindications to any type of lung biopsy. Complications include laceration, hemorrhage, and pneumothorax as well as surgical site infection. Thoracotomy allows optimum visualization and tactile evaluation of tissue as well as the best control of hemorrhage or bronchial leakage. It is preferred if removal of a lobe is anticipated. It is the most expensive, invasive procedure and requires the longest post-operative recovery. Lateral keyhole thoracotomy uses a much smaller incision and requires less anesthetic and recovery time. However, it does not allow full exploration of the lungs and lobectomy is more difficult with a key hole approach. Thoracoscopy is less invasive than thoracotomy but may require longer anesthesia time than the keyhole biopsy method. It allows visualization of much of the lung surface but is not recommended if removal of a lobe is anticipated. If hemorrhage occurs during thoracoscopy it may necessitate thoracotomy.

Suggested Reading HISTOLOGIC SAMPLING Lung biopsy is used when less invasive methods fail to produce a diagnosis and can be combined with lobectomy when a single lobe is diseased. Biopsy is especially useful in the diagnosis of interstitial lung disease. Only biopsy can provide information on architecture of the lung, including fibrosis. There are several techniques but all are invasive and

Textbook of Respiratory Disease in Dogs and Cats. King LG, editor. 1st edition, Missouri, Saunders (Elsevier), 2004.

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Pleural effusion in the dog and cat Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

Pleural effusion is a relatively common cause of respiratory distress in the dog and cat. Both species are affected by a variety of types of effusion with numerous causes and variable prognosis. Pleural effusion may be discovered incidentally or may cause respiratory distress. Small amounts of effusion may not result in changes on physical examination. If fact, it requires approximately 10 ml/kg off effusion to result in radiographic detection of pleural fluid, and more than 30 ml/kg of effusion to result in altered physical examination. Respiratory distress may not be severe until more than 50-60 ml/kg of effusion have accumulated. Clinical signs related to pleural effusion include tachypnea, respiratory distress (primarily on inspiration), shallow respiration, decreased bronchovesicular lung sounds in dependant portions of the thorax and/or increased bronchovesicular sounds in the remainder of the thorax, and hyporesonance on percussion of the dependant portions of the thorax (detection of “fluid line”). Cough is uncommonly associated with pleural disease but is found in association with disease extension to or from the lungs or airways. Because pleural effusion may be associated with systemic illness, clinical findings may be related to systems other than the respiratory system or may be related to an underlying respiratory pathology (eg, infectious pneumonia, lung cancer). Confirmation of pleural effusion may be obtained radiographically or via thoracocentesis. Animals presenting with inspiratory distress and quiet dependent lung sounds may be harmed by the restraint required to obtain radiographs; in such cases, thoracocentesis may prove life-saving as well as providing crucial diagnostic information. Even if radiographs are obtained first to document pleural fluid, an aliquot of the fluid will be required for further diagnosis. Analysis of the collected fluid varies with differential diagnosis. In general, samples should be submitted for fluid and cytologic analysis with aliquots saved for aerobic and anaerobic culture if needed. Other tests may be appropriate depending on signalment, clinical signs, and ancillary evidence of disease. Pleural fluid may be classified as hemorrhagic, transudative, or exudative. Frank hemorrhage in the pleural space is most often associated with trauma or defects in secondary hemostasis (eg, vitamin K antagonist rodenticide exposure). Transudates are poorly cellular fluids (<500 TNC/ul) with low protein content (<3 g/dl); modification of these fluids (often with time) may increase either cell number (5005,000 TNC/ul) or protein content (3-5 g/dl). There is tremendous variability in exudate type (eg, cell count and type, protein content). Important causes of exudate include infection, neoplasia, and lymphatic/vascular disruption.

Chylothorax Chylothorax in dogs or cats may be due to heart failure, trauma, heart worm disease, or thoracic granuloma but the condition is most often idiopathic. The defining characteristic is that triglyceride content of the fluid is higher than that of serum. When an underlying disease can be identified and corrected the prognosis is good, but idiopathic chylothorax carries a guarded prognosis. Neither medical nor surgical management is always successful. Recent descriptions of thoracic duct ligation accompanied by pericardectomy may offer additional benifit. Medical treatment including a low fat diet supplemented with MCT oil, rutin, and even octreotide have been described but are not associated with a high success rate. Chyle itself may be irritating and lead to fibrotic pleuritis.

Pyothorax Bacterial infection of the pleural space leading to accumulation of purulent fluid occurs in both dogs and cats. In dogs, infection often follows entry of foreign material such as grass awns into the thoracic cavity while in cats pyothorax is associated with cat fights. Often, no cause is ever identified in either cats (C) or dogs (D). The most common pathogens identified in pyothorax are Pasteurella (C), Bacteroides (D&C), Actinomyces (D&C), Clostridium (C), Nocardia (D); infections are often mixed. The purulent fluid is usually off white, beige, pink, or red (“cream of tomato soup” color) and malodorous. With Nocardia or Actinomyces infections, it may contain white or yellow granular material (sulfur granules). Both aerobic and anaerobic cultures should be requested from the fluid. Animals with pyothorax are usually systemically ill and may have complications of sepsis. Although aggressive, broad spectrum antibiotics including anaerobic coverage is mandatory for therapy of pyothorax, it is not adequate. The purulent fluid must be drained, ideally by continuous evacuation. In dogs, surgical thoracotomy has been demonstrated to provide a survival benefit as well.

Feline Infectious Peritonitis (FIP) FIP results from mutation of an enteric coronavirus in an individual cat. Disease is related to the immune response to infection, and can occur in either an effusive or dry granulomatous form. In the effusive form, pyogranulomatous


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inflammation centered around vessels leads to leakage of a high protein fluid. Effusion may occur in the peritoneal cavity, pleural space, or both. Cats are frequently systemically ill with fever, hyperglobulinemia, and neutrophilia. The effusive fluid is often clear straw or yellow in color and viscous. Polymerase chain reaction performed on the effusive fluid is supportive but not diagnostic of FIP; PCR cannot discriminate between the enteric corona and its mutated virulent form. Serology is seldom useful as it may be negative in an infected cat or positive in a cat that does not have FIP. The gold standard method of diagnosis relies on tissue biopsy, but the combination of classical signalment and history (young cat from a cattery or shelter setting) with compatible signs, supportive laboratory findings, and typical effusion is persuasive evidence of disease. Supportive care, immune suppression, and therapies such as pentoxifylline or IFN omega are often used in treatment but prognosis remains very poor.

Transudate/modified transudate Transudates are typically due to increased hydrostatic pressure or less commonly, decreased oncotic pressure. With time the mesothelial cells become proliferative and both protein and cell content of the transudate may increase. Increased hydrostatic pressure resulting in pleural transudate is most often associated with heart failure. In cats, both right and left heart failure may cause pleural effusion but in dogs only right heart failure does so. Decreased oncotic pressure (albumin of <1.5 g/dl) may also result in pleural transudate. Typically, hypoalbuminemia results in more profound ascites than pleural effusion. Intravenous fluid administration in an animal with hypoalbuminemia or compromised

cardiac function can precipitate pleural effusion when none was apparent prior to fluid therapy. Ideally, transudate fluids are addressed by treating the underlying cause.

Neoplastic effusion Both dogs and cats are susceptible to thoracic neoplasia resulting in pleural effusion although prevalence of tumor type varies with species. Lymphoma and thymoma predominate in cats, while carcinoma and thymoma predominate in dogs. Mesothelioma is rare in either species, and a variety of other tumor types might lead to neoplastic effusion on occasion. Young FeLV + cats are more likely to have mediastinal lymphoma, but most other tumor types tend to occur in older animals. The effusive fluid itself may be clear, cloudy, or hemorrhagic. Protein content is often moderately increased, as are total nucleated cell counts. The cell type varies with the neoplastic process, but it may be very difficult to differentiate carcinoma, mesothelioma, or reactive mesothelial hyperplasia cytologically. Supportive therapy is combined with appropriate chemotherapy or radiation therapy to treat the neoplastic condition. The prognosis for most causes of neoplastic pleural effusion is poor.

References available on request

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Update on feline asthma Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

Introduction Feline asthma is one of the most common bronchopulmonary diseases in cats and is responsible for substantial morbidity and occasional mortality. It is an IgE mediated hypersensitivity response against what otherwise would be harmless environmental aeroallergens. Exposure to an allergen allows for production of allergen-specific IgE formation. Those IgE antibodies then bind to mast cells on respiratory mucosal surfaces. Upon re-exposure to allergen, IgE on the surface of the mast cell bind allergen and send an intracellular signal to trigger mast cell degranulation. Mediators that are either immediately released from granules, or later synthesized within mast cells are major contributors to signs of asthma. Inflammation in the airways leads to cellular infiltration (mostly eosinophils), increased mucus production, bronchoconstriction, and creates permanent architectural changes in the lung called airway remodeling. All of these lead to clinical signs of asthma.

Clinical presentation of the asthmatic cat Any cat may have asthma, although it is most commonly diagnosed in young to middle aged cats and may be more common and/or severe in Siamese cats. Typical clinical signs include some combination of coughing, wheeze, and intermittent respiratory effort or distress. Signs are often slowly progressive but can cause severe bronchoconstriction and sudden dyspnea. Differential diagnosis for respiratory distress include congestive heart failure or pleural effusion, while differential diagnosis for cough include pulmonary parasites and infectious or non-infectious bronchitis. Although routine blood, urine, and fecal tests help evaluate overall health and rule out other disease, radiography and airway lavage are the most useful tests. Peripheral eosinophilia is common (~20%) but non-specific. Asthma cannot be ruled out because of normal thoracic radiographs but many cats have some combination of a bronchial lung pattern and evidence of hyperinflation (eg, increased lucency or flattening and caudal displacement of the diaphragm). Airway lavage typically demonstrates increased numbers of eosinophils and sometimes neutrophils. Lavage samples should be cultured (including Mycoplasma).

Therapeutic options for feline asthma Therapeutic strategies for the treatment of asthma can either focus on suppressing the inflammation and bronchoconstric-

tion once they have developed, or can attempt to turn off the aberrant hypersensitivity reaction before it causes airway inflammation and bronchoconstriction.

Traditional therapies Traditional therapy for asthmatic cats has relied on environmental modulation as well as injectable and oral corticosteroids and bronchodilators. If the allergen causing asthma can be identified, and it is possible to remove it from the environment, the driving force for the induction of asthmatic events is removed. More often than not, the allergen is either ubiquitous or the patient is sensitized to multiple allergens, making it impossible to completely remove all allergens. Hepa-type filters can be beneficial in reducing the load or indoor aeroallergens. It is also important to decrease exposure to environmental airborne irritants, especially smoke, dusts (eg, kitty litter), and aerosols. The mainstay of therapy for asthmatic cats or people is the reductions of inflammation, most often via treatment with glucocorticosteroids (GC). The inflammatory component of asthma must be addressed to prevent progression of disease and irreparable damage to the lungs. GC should be used in the initial management of this disease and with flare-ups, but GC actions are not immediate. Because GC can produce serious adverse effects they should be tapered to the lowest effective dose to control clinical signs and may be discontinued during periods of disease remission. For routine oral use prednisolone is preferred over prednisone for cats. Inhalant GC therapy allows direct application of GC to airways with minimal systemic absorption, allowing maximal respiratory effect with minimal systemic effect. Metered dose inhalers containing GC (eg, fluticasone or flunisolide) can be adapted for use in asthmatic cats. Inhalant therapy should be used in cats with mild symptoms or as an adjunct to systemic GC in more severely effected cats. Bronchodilators enhance airflow to the lungs. However, the use of bronchodilators as monotherapy is not advocated. Asthma is not just a disease associated with airway hyperreactivity; inflammation plays a key role in both clinical manifestations as well as permanent airway remodeling. Bronchodilators, including methylxanthines like aminophylline and theophylline, or beta-2 agonists like terbutaline, can be administered to cats orally or parenterally. Parenteral terbutaline can be life-saving during asthmatic crisis. More recently, administration of the beta-2 agonist albuterol by metered dose inhaler has been advocated. In people with asthma, overuse of inhalant bronchodilators may increase morbidity and mortality. Inhalant albuterol is composed of


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two racemic enatimores, one of which causes bronchodilation while the other may cause paradoxic inflammation and bronchoconstriction. For now, it seems wise to use inhaled albuterol only as needed and to focus routine treatment on inflammation.

Alternative therapies Alternative therapies are available to people with asthma but investigation of these therapies in cats is lacking. Serotonin is a mediator of smooth muscle contractility in feline airways. Antagonizing the effects of serotonin by using cyproheptadine has theoretical promise, but ongoing studies at my institution have failed to support a benefit from cyproheptadine. Leukotriene (LT) antagonists such as zafirlukast and montelukast are useful in many but not all people with asthma. Although these drugs have been used in cats, there is no proven utility for these drugs in feline asthma. Unlike in humans, cysteinyl LTs do not appear to be an important mediator in feline asthma. Also, administration of zafirlukast to cats with experimentally induced asthma had no beneficial effects on reducing airway inflammation or hyperreactivity. Other methods can be used to suppress or alter the immune response. Cyclosporin decreases IL-2 production, leading to inhibition of T cell proliferation. It has been used in severely asthmatic people as a GC sparing anti-inflammatory drug but its routine use is not advocated because of the potential for severe adverse effects. Tricking the immune response into believing that it must deal with bacterial infection by administering CpG motifs may turn the immune system away from a Th2 response that promotes asthma. In the future, CpG motifs may be used as “adjuvants” for other forms of immunotherapy.

To date, allergen-specific immunotherapy is the only treatment associated with a cure of allergic disease. Identification of allergens to which the patient has been sensitized is critical but difficult in practice. Concurrent medications (especially steroids) can interfere with both blood and skin testing. Additionally, presence of IgE to a particular allergen does not mean that that specific allergen is responsible for disease.

Suggested readings 1. 2.

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Padrid P. Feline asthma - Diagnosis and treatment. Vet Clinics North Am - Small Anim Pract. 30:1279, 2000. Costello J, et al. Summary: the pharmacology of leukotrienes in asthma. Adv in Prostaglandin, Thromboxane and Leukotriene Res 1994;22:263-268. Padrid P, et al. Cyproheptadine-induced attenuation of type-I immediate-hypersensitivity reactions of airway smooth muscle from immune-sensitized cats. Am J Vet Res 1995;56:109-115. Mellema M, et al. Urinary leukotriene levels in cats with allergic bronchitis. American College of Veterinary Internal Medicine Forum 1998;724. Norris C, et al. Cysteinyl leukotrienes in urine and bronchoalveolar lavage fluid in an experimental model of feline asthma. Am J Vet Res 2003;64:1449-1453. Broide D, et al. Systemic administration of immunostimulatory sequences mediates reversible inhibition of Th2 responses in a mouse model of asthma. J Clin Immunol 2001;21:175-182. Reinero CR, et al. Effects of drug treatment on inflammation and hyperreactivity of airways and on immune variables in cats with experimentally induced asthma. Am J Vet Res. 66:1121-1127, 2005.

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Update on serologic testing for infectious disease in cats Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

SEROLOGIC TESTING CONCEPTS Serology is the measurement of antigen-antibody interactions for diagnostic purposes. These interactions can be used in one of two ways. First, detection of specific antibody can provide evidence that an animal has been exposed to a given antigen. Most often, this is used as circumstantial evidence of infectious disease. Second, specific antibody can be used to detect or identify a particular antigen. This can be used as direct evidence of infection, but not necessarily of disease. Serologic tests can be classified as tests of primary antigen-antibody interaction, secondary tests of interaction, or tertiary tests of interaction. In primary binding tests, antigen and antibody are allowed to interact and form complexes. The resulting complexes are quantified using reagents labeled with radioisotopes, fluorescent dyes, or enzymes. Common examples of these sensitive diagnostic techniques include indirect fluorescent antibody tests (IFA) and enzyme-linked immunosorbent assay (ELISA). Secondary binding tests measure the results of antigen-antibody interaction (agglutination, hemagglutination, precipitation, neutralization, or complement fixation) in vitro. Examples include Coomb’s test, gel immunodiffusion (e.g., Coggin’s test) and immunoelectrophoresis. Tertiary binding assays are not commonly used for clinical disease diagnosis, but measure the actual protective effect of antibody in an animal. Feline practitioners employ serology to evaluate the likelihood that a given cat has a particular infectious disease. Although useful, there are limitations to serologic testing. The first deals with meaning of a positive antibody test. The presence of antibody indicates exposure to an antigen, but does not necessarily indicate active infection or disease. In some cases, the antigen may be cleared from the animal without causing disease, and yet result in a positive antibody titer. Such is often the case for fungal antibody titers to Histoplasmosis, for example. In other cases, the antibody detected may not be pathognomonic for a given infection. For example, antibody generated in response to feline infectious peritonitis (FIP) is indistinguishable from antibody generated against feline enteric corona virus. In yet other cases, the antibody may be found as a result of passive transfer rather than as a result of the cat having a given infection. Such may be the case with kittens allowed to nurse feline immunodeficiency virus (FIV) infected queens. On the other hand, antibody is not always detected in the presence of active infection. The most common reason for antibody tests to be negative despite infection is that insufficient time has elapsed between infection and measurement of an antibody

response. For example, serologic testing for cytauxzoonosis would be relatively useless because the peracute nature of the illness means that illness precedes antibody production. Alternatively, immunocompromised animals may fail to produce detectable antibody despite longstanding infection. This may be the case during the terminal stages of either FIV or FIP infection. Even those tests that detect the presence of antigen instead of antibody have limitations. For instance, although detection of feline leukemia virus (FeLV) antigen does denote infection, the animal may be able to clear the infection without becoming ill. Immunoassays can be designed to reflect the presence of any and all antibodies to a given antigen, or they may specifically detect antibodies of a given isotype (i.e., IgM, IgG, IgA, IgE). Because antibody isotype varies in relation to onset and duration of antigen exposure, it is important to know what isotypes of antibody are being measured by a given test. Initial antibody response to infectious agents is predominantly IgM mediated, but the response later switches to IgG and/or IgA. For agents like Toxoplasma gondii, capable of causing chronic infection without resulting in illness, an IgG response may be chronic in nature. Therefore, simple detection of a positive antibody titer, even a high titer, is not proof of active infection. In such cases, documentation of active infection requires either a positive IgM titer, or proof of an increase in IgG titer (2 doublings, or a 4-fold increase) over a period of several weeks. Because of variability inherent in immunoassay, titers should be run by the same laboratory, and samples should ideally be banked in order to run assays simultaneously. An additional set of limitations pertains to the likelihood that a given test accurately reflects disease presence or absence. Any test, no matter how good, is subject to both false positive and false negative results. These are reflected in the diagnostic sensitivity and specificity of the test. Diagnostic sensitivity refers to the proportion of tests run on infected animals that are positive, while diagnostic specificity refers to the proportion of tests run on uninfected animals that are negative. It is apparent then that to “rule out” a diagnosis, a test with a high sensitivity is desired, while to “rule in” a diagnosis, a test with a high specificity is desired. Even more important to the clinician than a given test’s sensitivity and specificity are the test’s positive and negative predictive values. The positive predictive value is the probability that an animal that tests positive actually has the disease in question, while the negative predictive value is the probability that an animal that tests negative is free of disease. While positive predictive value certainly is related to the sensitivi-


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ty and specificity of the diagnostic assay, it is also related to the prevalence of disease in the population of animals tested. This means that a positive test result in a population with a low incidence of disease, even when the test is very sensitive and specific, has a greater chance of being a false-positive than when the same test is applied to a population with a high disease prevalence. Remember that no test is perfectly accurate all the time. Serologic test results should be viewed as one piece of the puzzle, not as the entire picture!

SPECIFIC USE OF SEROLOGIC TESTS IN FELINE MEDICINE Feline Leukemia Virus (FeLV) Feline leukemia virus is a retroviral infection of cats that results in immune suppression, oncogenesis, and hematologic dyscrasia, among other sequelae. Diagnosis of FeLV clinically most often relies on serologic assays designed to detect viral antigen (specifically, viral p27 antigen). Primary binding assays, including both ELISA type immunochromatographic assays and IFA tests, are the mostly commonly performed diagnostic assays. Despite similarities in the assays, there are important differences. Most in-house detection kits use some variant of ELISA methodology. Importantly, ELISA tests detect soluble (free) viral p27, while IFA test detects antigen incorporated into cells. For this reason, ELISA may detect p27 antigen in transiently or persistently viremic cats, whereas detection of p27 in an IFA test implies persistent viremia. A positive ELISA result should be confirmed before concluding that the cat has FeLV infection. Confirmation may consist of repetition of the ELISA test in 2 to 3 months, or by IFA testing immediately. A cat with a positive ELISA and negative IFA typically either becomes IFA positive within weeks, or reverts to a negative ELISA status. Cats that revert to a negative status may maintain latent infection, and it is possible that FeLV could cause disease at some future time. Generally, the IFA test is regarded as more specific but less sensitive than ELISA tests. Testing by ELISA should use serum or plasma rather than whole blood. Tests using tears or saliva are available, but have a large risk of false positive or negative results and should not be used. Whole blood is used in FA testing. Additionally, bone marrow may be FA tested to help rule out latent infection in a serologically negative cat suspected of being FeLV infected. Neither vaccination nor maternal antibody will interfere with testing for FeLV infection.

Feline Immunodeficiency Virus (FIV) Feline Immunodeficiency Virus is a retrovirus also, but it is of the lente-viral subgroup. Like other lente virus infections (e.g., HIV), viral burden in FIV infection is typically small. For this reason, FIV infection is not documented by assaying for antigen as is done for FeLV retroviral infection. Instead, FIV reactive antibody response is assayed. The typical tests for FIV infection include ELISA type immunochro-

matographic assays, IFA, and Western Blot analysis; inhouse detection kits utilize the ELISA type methodology. As with FeLV, positive in-house test results should be confirmed. Confirmation of FIV infection typically relies on Western blot detection of antibody. Any serologic test that identifies antibody rather than antigen is subject to unique interpretive dilemmas. For instance, antibody response may not be detectable early in infection or late in the course of infection, particularly in an immunosuppressed animal. Although most cats seroconvert within 60 days of infection with FIV, seroconversion may take considerably longer in some cases. False positive results may also be detected using antibody assays. Two causes of false positive FIV tests are particularly important. The first is a positive test in a young kitten. Kittens can be infected by the queen, but this means of transmission is relatively uncommon. It is at least as likely that a positive antibody test in a young kitten is the result of passive transfer of FIV antibody from the queen as it is that the queen has infected her offspring. Because maternal antibody can result in a false positive test, positive kittens should be re-tested every 60 days or until 6 months of age to confirm infection. A second reason for false positive antibody test results is prior vaccination. A FIV vaccine was introduced in July of 2002, and this vaccine results in FIV antibody production. To date, there are no serologic testing methods that can distinguish between FIV antibody resulting from infection or from vaccination.

Feline Infectious Peritonitis (FIP) Feline Infectious Peritonitis is an infectious disease caused by mutation of an otherwise relatively benign enteric coronavirus. Mutation allows for dissemination of the virus, and the resulting host immune response results in disease development. Diagnosis of FIP has long been problematic, and tissue biopsy or necropsy remain the only ways to definitively arrive at this diagnosis. Serologic tests marketed for the diagnosis of FIP actually detect antibody to corona virus, and cannot distinguish between the mutated corona resulting in clinical FIP and the enteric feline coronavirus. For that matter, they can not distinguish between antibody generated to FIP and antibody generated to any other coronavirus, including canine coronavirus. Most available tests are of the “send out” variety, but there are in-house ELISA tests available. Vaccination for FIP can rarely result in a positive systemic antibody response, as can some unrelated modified live vaccines. For all these reasons, a positive antibody test does NOT prove that a cat has FIP. Because cats can be infected with coronavirus and never develop FIP, corona antibody testing is not useful in predicting what cats in an exposed household will develop FIP in the future. At the other end of the spectrum, not all cats with FIP have a positive antibody response. This is particularly problematic in terminal stages of the disease, when antibody production may be poor or antibody may be complexed with antigen. Does this mean that there is no use for corona viral titers in feline medicine? Although a positive test does not prove FIP, and a negative test does not rule out FIP, there can be


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limited utility in testing. Those tests that produce a titer rather than a simple “yes” or “no” answer hold implications for the likelihood of diagnosis. A very high, positive titer in a cat with clinical symptoms of FIP is more likely to have FIP than is a similar cat with a negative or low positive titer. Antech laboratories markets a ELISA test described as “FIP specific”. The company states that a protein named 7B is produced only by pathogenic, FIP producing coronavirus. This specialized ELISA tests identifies antibody reactive to the 7B protein. Recent experimental evidence suggests that this 7B protein is not found on all FIP causing coronavirus, and that at least some non-FIP causing coronavirus do produce the 7B protein. So, once again, it appears that serologic testing cannot prove or disprove that a cat has FIP.

Cryptococcosis Cryptococcus neoformans is an important cause of fungal infection in the cat, and is particularly likely to result in feline nasal infection. Although serologic titers to many fungal infections rely on detection of antibody and are of poor diagnostic predictive value, serologic tests for cryptococcosis are unique. Although cryptococcal antibody titers are available, a more reliable diagnostic test is the latex agglutination test for cryptococcal capsular antigen, or alternatively immunochromatographic assay for capsular antigen. While cytologic identification of organisms is ideal, capsular antigen tests can be a more sensitive means of diagnosis. Because the test detects antigen rather than antibody, it can be used not only diagnostically, but can be used to monitor response to treatment of established cryptococcal infection. Successful treatment is expected to result in decreasing titer. Capsular antigen testing is usually performed on serum, but infection of the central nervous system may lead to positive CSF results.

Heartworm Diagnosis of heartworm disease in cats is often difficult; microfilaria are rarely observed, worm burdens are low, and radiographic indication of infection may be lacking. Often, serologic assays including assays for both antibody and antigen are used simultaneously to achieve this diagnosis. When antibody assays are used, species specific testing is mandatory. Although these tests are quite sensitive, in areas of low disease incidence positive tests should be interpreted with caution. Again, detection of antibody identifies exposure but does not prove that the animal has an adult heartworm infection; exposure to larval stages can cause a positive test without persistent heartworm infection. As always, antibody tests require some time (i.e., 2-3 months) after infection to become positive. The other commonly used serologic test is the adult heartworm antigen test. Because this test identifies antigen rather than antibody, it is not species specific and the same test that

is run on dogs may be run on cats. Although this test is quite specific (meaning a positive is likely really positive), the sensitivity is less than ideal. Poor sensitivity is often related to low worm burdens or to single sex infection. Cats typically have lower worm burdens than dogs, meaning that sensitivity in cats is worse than that in dogs.

Toxoplasmosis Toxoplasma gondii infection is common in cats, but the disease toxoplasmosis is far less common. Once infected, the organism remains in the tissues for life. On occasion, serious illness or even death may result from active disease in cats. Because serologic assays for feline toxoplasmosis are generally assays for antibody, and because many (or even most) cats have been exposed to the organism, serologic diagnosis of active disease is somewhat complicated. Identification of a single elevated IgG titer, even a very high IgG titer, indicates infection but not disease. Healthy cats can maintain high IgG titers for years after infection, and maybe even for life. Documentation of active infection in a sick cat requires either a 4-fold increase in IgG titer, or more typically, documentation of an elevated IgM titer. Serum IgM titers do not remain elevated for life but typically decrease to very low levels within 16 week in healthy but infected cats.

Bartonellosis Cats can be infected with several species of Bartonella, including B. henselae and B. Clarridgeiae. Bartonellosis in cats is quite prevalent, with up to 50% of tested cats seropositive in some studies. Until recently, bartonellosis was considered an asymptomatic infection only of concern because of zoonotic implications (transmission of cat scratch disease). More recently, bartonellosis has been associated with a variety of disease manifestations in the cat, including as a possible cause of stomatitis, uveitis, and lymphadenitis. The full spectrum of clinical feline bartonellosis as well as the frequency of disease caused by bartonellosis remains to be defined. Serologic assays for bartonellosis detect antibody. Because antibodies are cross reactive, the test antigen is generally B. henselae. As an antibody test, some time will be required from infection to seroconversion. Also, a positive test in a kitten less than 6 months of age may indicate either infection or simply may reflect the presence of maternal antibody. Kittens are not infected in utero or through milk, and infection only occurs following exposure to arthropod vectors. Routine testing of healthy cats is not recommended.

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Update on feline retroviral infections Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

Introduction Feline retroviral infections are found worldwide, and still represent an important cause of morbidity and mortality for pet cats. These diseases affect anywhere from 0 to 44% of cats in a given population, depending on geographic region and life-style of the cat. Indoor-only cats from closed breeding facilities are seldom infected, while free roaming cats are more often infected. Feral cats are not more likely to be infected than owned cats, but outdoor cats are much more likely to be infected than cats housed completely indoors. These differences are largely due to the availability of convenient testing methods which have allowed removal of infected cats from closed populations. Vaccination may also play some role in the decreased incidence of infection in well cared for pet cats.

Feline Retroviruses Retroviruses have the unique ability to use a “reverse transcriptase” to turn there genetic material from RNA to DNA within an infected host cell. These viruses integrate their genetic material with that of the host for the remainder of the host’s life. There are several subtypes of retrovirus, including oncornoviradae (named for there propensity for neoplastic transformation of infected tissues), lentiviradea (named for their slow onset of disease), and spumaviridae. These virus types are host species specific, and cats are susceptible to several different retroviral infections. Clinically, Feline Leukemia Virus (FeLV; an oncoviradae) and Feline Immunodeficiency Virus (FIV; a lentiviradeae) are the most important cause of disease in cats.

Feline Leukemia Virus FeLV was first discovered in 1964. Diagnostic testing became readily available in the early 1970’s, and commercial FeLV vaccines became available in the mid 1980’s. FeLV is most often a disease of young cats and kittens, although cats of any age or gender can be affected. Clinical syndromes include immunodeficiency with secondary infection, bone marrow suppression, and neoplastic disease. Both horizontal and vertical transmission occur. Close contact involving mutual grooming is typically involved in transmission while fomites play only a very minimal role. There are several possible outcomes of exposure; recovery, latent infection, or persistent viremia. Kittens are more likely to become persistently viremic than are adult cats, but outcome

of exposure depends on many factors. Latent infection implies that the viral particles are sequestered in the marrow without causing viremia. It is possible for these infections to become manifest after many years, thus accounting for cats that have been kept indoors without other cats for years but which develop FeLV-related disease later in life. Persistently viremic cats are likely to develop overt disease within a relatively short period after infection, with about 1/3 of all infected cats dying each year after infection. Clinical disease varies greatly, in part depending on the subgroup of FeLV causing infection. Although mild illness may be seen near the time of infection, cats recover and remain healthy for some period of time. Persistently infected cats eventually develop either secondary infection with a variety of organisms, develop anemia or pancytopenia, or develop neoplastic disease including thymic, renal, and CNS lymphoma. Other manifestations are seen on occasion (eg, glomerulonephritis, infertility, abortion). Findings on CBC, biochemical profile, and urinalysis depend on secondary disease manifestation and are not specific for FeLV. Macrocytic anemia is suggestive of FeLV, but anemias may be normocytic, regenerative or non-regenerative in nature. Circulating blast cells are identified in cats with overt secondary leukemia. Diagnostic testing for FIV should be performed on any sick cat, and should also be advised at adoption of a new cat into the household or periodically on outdoor cats. The most commonly used diagnostic test for FeLV is an ELISA to detect the viral core antigen p27. Because this test becomes positive before incorporation of viral genetic material into marrow stem cells, + cats may clear the infection and revert to a negative status. Therefore, all cats that test positive by ELISA should either be retested in 2 to 3 months or the presence of cell incorporated viral genetic material should be confirmed by fluorescent antibody (FA) testing. Latent infection cannot be detected using either blood ELISA or FA tests. Only bone marrow aspirate with FA testing or cell culture can demonstrate latent infection. There are no reliable commercial PCR assays for FeLV infection. There is no cure. Healthy FeLV infected cats should be kept indoors both to prevent exposure of other cats and to protect them from secondary infection. Vigilant provision of routine health maintenance including vaccination and dental care are essential. Secondary infections should be identified as to source and treated aggressively with appropriate microbicidal agents. FeLV associated neoplasia may be treated with either chemotherapy or radiation as appropriate for tumor type. FeLV associated anemia is often difficult to treat. Secondary infection with M. haemofelis should be ruled out, and proven immune mediated anemia should be


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treated with immune suppression. Blood transfusion may be used supportively. Some cats respond to human recombinant erythropoietin (100 units/kg SQ three times per week). Immunomodulation has often been attempted, but there are few controlled clinical trials to demonstrate utility of such therapies. Staphylococcus protein A (10 µg/kg IP twice weekly) has resulted in subjective improvement in ill FeLV infected cats. Cats dually infected with FeLV and FIV showed some improvement after treatment with recombinant feline IFN omega (1 [M}/kg/day SQ for 5 days, in 3 series at day 0, 14, and 60). Ideally, uninfected cats should be housed indoors with only other non-infected cats. Vaccination is available for FeLV infection but should only be administered to FeLV negative cats. As with all vaccines, there are potential risks of vaccination (including vaccine site sarcoma) and risk:benefit ratio must be individually weighed; FeLV is not a core vaccine for low risk adult cats. Both killed and subunit vaccines seem to be equally efficacious, but vaccine is never completely effective and vaccine failures occur for a variety of reasons.

Feline Immunodeficiency Virus FIV was first discovered in 1987, and routine diagnostic testing was available very soon thereafter. The first FIV vaccine was released in 2002. FIV is primarily a disease of adult cats, with males more frequently infected than females. Although vertical transmission can occur, it is not epidemiologically important. Instead, the disease is typically spread by close contact between cats, especially associated with fighting behaviors of adult male cats. After initial infection, the virus replicates in lymphoid (including thymic) and salivary tissue, with subsequent dissemination to other sites. As the cat mounts a partially effective immune response, the number of circulating viral particles lessens and the cat appears healthy. Eventually (often after many years), there is a gradual deterioration in immune function. Finally, secondary infections and associated illness occur, resulting in the terminal phase of disease. As with FeLV, clinical signs vary greatly. The acute infection is usually silent but may causes self-limiting fever, neutropenia, and lymphadenopathy. Cats typically remain well for many years before eventually developing secondary infections or complications of disease. Common presenta-

tions include recurrent fevers, anorexia, weight loss, malaise, inflammatory ocular disease, gingivitis and stomatitis, secondary infections of the GI, respiratory, and urinary tracts, or even malignancy. Occasionally, neurologic manifestations of FIV are identified without other infectious or neoplastic disease of the nervous system. Diagnostic testing for FIV should be performed on any sick cat, and should also be advised at adoption of a new cat into the household or periodically on outdoor cats. While lymphopenia, neutropenia, anemia and thrombocytopenia may be seen in late stages of infection they are certainly nonspecific. Likewise, biochemical or urinalysis abnormalities are non-specific and likely to reflect secondary disease processes. Routine testing for FIV assays for serum antibodies rather than antigen. ELISA tests are readily available and have good sensitivity and specificity. Unfortunately, detection of antibody cannot distinguish between antibody formed to true infection or antibody acquired via passive transfer from the queen or via vaccination. Positive kittens should be retested after a minimum of 6 months of age. As with any test, false + and false – results do occur. Western blot can be used to confirm the presence of FIV antibody, but still do not determine if the source of antibody is actually response to infection. Recently infected cats or severely immunosuppressed cats may test negative despite infection. Virus detection via PCR is not routinely available. There is no cure for FIV. Healthy, FIV infected cats should be kept indoors and routine health care should be maintained, including routine dental care and vaccination. Sick cats require prompt diagnosis and treatment of secondary complications. Immunomodulation has been attempted, but controlled trials are lacking. Neurologic manifestations may respond to antiretroviral therapy (AZT, 15 mg/kg PO BID), but side effects are common. Vaccinations exist for FIV, but once vaccinated cats are expected to test positive for infection and should therefore be clearly identified (microchips or tattoos). The necessity of vaccination in cats unlikely to fight, such as indoor cats, is debatable.

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Bacterial respiratory infections of the cat Leah A. Cohn DVM, BS, PhD, Dipl ACVIM, Columbia, USA

For purposes of discussion, the respiratory tract can be divided into sections; the nasal and nasopharyngeal passages, the conducting airways, the pulmonary parenchyma, and the pleural space. Each of these sections is susceptible to a variety of diseases, including bacterial infection. This talk will focus specifically on bacterial respiratory infections in cats.

Infection of the nasal and nasophargyneal passages In nearly every case, bacterial infection of the nasal passages is secondary to some underlying disease process. Antibiotic therapy can result in remission of clinical signs, but a cure is highly unlikely. The best approach to cats with chronic nasal signs is to perform a thorough diagnostic evaluation for a primary nasal disease in hopes of identifying a directly treatable problem. Unfortunately, extensive diagnostic evaluation will fail to identify a specific underlying disease in cats with chronic nasal discharge in as many as half the cats. In such cases, a diagnosis of “chronic idiopathic rhinosinusitis” is made. This syndrome is typically characterized by either lymphoplasmacytic or suppurative inflammation on nasal biopsy. Susceptibility of cats to infection with calicivirus or herpesvirus may explain the frequent occurrence of this syndrome. It is speculated that these infections lead to manifestations of feline chronic rhinosinusitis later on due to either viral reactivation, viral cytolysis with resultant damage to nasal tissue, or nasal tissue damage resulting from immune response to viral pathogens. Damaged nasal tissues would be more susceptible to secondary bacterial infection, or even osteomyelitis of the nasal turbinates. A variety of bacteria, including Pseudomonas aeruginosa, can be isolated by nasal swab from healthy cats and cats with chronic rhinitis. Elucidating the role of bacteria in chronic rhinosinusitis is made more difficult because readily obtained nasal swabs are poor specimens for culture. Bacteria obtained from nasal swabs reflect surface contamination rather than tissue infection. Although bacterial rhinitis is likely to be a secondary event in most of cases, treatment with antibiotics is sometimes successful in controlling the clinical sign of nasal discharge in cats with chronic rhinosinusitis. Short courses of multiple different antibiotics should be avoided. In the absence of tissue culture based proof of the need for a specific type of antibiotic, empiric choices should have a broad therapeutic index. Amoxicillin or amoxicillin-clavulanic

acid are reasonable choices. I generally prescribe a minimum course of 4-6 weeks, presuming that secondary infection will involve the turbinates and that fibrosis may be present (i.e., complicated rather than simple infection, as when treating osteomyelitis). However, if improvement has not occurred within 5-7 days it is unlikely to be effective with longer treatment. Mycoplasma sp. and Bordetella bronchiseptica may be primary or secondary nasal pathogens. For this reason, some clinicians recommend a 2-3 week course with antibiotics with a spectrum of action more effective for these organisms. Choices include doxycycline, azithromycin, or fluoroquinolones (note: fluoroquinolones are associated with retinal degeneration in cats). A study comparing the clinical response to amoxicillin or azithromycin in shelter cats with signs of rhinitis (typically acute rather than chronic disease) found no significant differences between these treatments.

Infection of the conducting airways Infectious tracheobronchitis is less common in cats than dogs, and when it does occur is often associated with viral upper respiratory infections. B. bronchiseptica can be isolated from both healthy cats and cats with evidence of respiratory disease. The true incidence of infection of the respiratory tract due to B. bronchiseptica in cats is unknown. In those cats believed to be infected rather than colonized with this potential pathogen, cough is reported as the predominant clinical sign. Unlike infectious tracheobronchitis in dogs, the cough in cats is not particularly loud or in other ways “different” than cough due to other causes. Infection in cats is usually documented in very young cats or kittens housed in multi-cat environments. Although vaccines are available for prevention of B. bronchiseptica infection in cats they are not considered routinely indicated for most cats. Feline bronchopulmonary disease such as asthma or chronic bronchitis is not infectious. Rarely, these cats develop secondary bacterial infections. Because the airways are not sterile even in health, bacterial culture of airway lavage should be interpreted carefully in light of cytologic findings and clinical signs. Occasionally, cats with a heavy growth of Mycoplasma species will be identified and may benefit from appropriate antibiotic therapy. Mycoplasma require special culture conditions; these organisms can also be isolated via polymerase chain reaction. They are resistant to many commonly used antibiotics, but are generally susceptible to macrolides, tetracyclines, chloramphenicol, and fluoroquinolones.


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Infection of the pulmonary parenchyma Cats are subject to bacterial pneumonia far less frequently than are dogs. Bacterial pneumonia is a life-threatening disease, but occurs very rarely in otherwise healthy animals. Most bacterial pneumonia occurs in ill, debilitated, or immunodeficient animals, or when physical defenses have been breached. Efforts should be made in any animal with bacterial pneumonia to identify a predisposing cause such as regurgitation or immunodeficiency states. Profound differences exist in the presentation of animals with pneumonia depending on the severity of disease. Interestingly, many cats with pneumonia lack signs referable to respiratory compromise; cough is apparently uncommon in cats with pneumonia. Pathogens incriminated are usually opportunistic, and include anaerobes as well as aerobes. Polymicrobial infections are possible, especially in cats with aspiration prior to pneumonia. Transoral wash or bronchoalveolar lavage provides material for cytologic exam and culture prior to initiation of broad-spectrum antibiotics. Identification of degenerative neutrophils containing bacterial debris is highly supportive of the diagnosis of bacterial pneumonia. Culture and sensitivity should tests for aerobic organisms, anaerobic organisms, and Mycoplasma. Therapy for bacterial pneumonia depends somewhat on severity of illness. Antimicrobial therapy should ideally be based on culture and sensitivity results, but is not withheld pending culture. Initial therapy should be broad spectrum. Combination therapy with a beta lactam and a fluoroquinolone is often the initial empiric therapy. Supportive therapy is imperative in the treatment of bacterial pneumonia, and includes maintenance of hydration (systemically and airway hydration via nebulization), oxygenation, and nutrition. Physiotherapy can also prove helpful. Suppression of cough is contraindicated in animals with pneumonia as the goal should be to promote clearance of infected mucus. Non-traditional pathogens may sometimes cause pneumonia in cats. Mycoplasma, fastidious microbes that lack a

cell wall, may play a primary or secondary role in pulmonary infection of cats. Cats are rarely diagnosed with acid-fast mycobacterial infections. Siamese and Abyssinian cats are reported to have M. avium infections more often than other cat breeds.

Infection of the pleural space Pyothorax is a bacterial infection of the pleural space leading to accumulation of purulent fluid. In cats it is often associated with fight wound inoculation of bacteria into the chest. Despite this association, pyothorax may occur in cats kept indoors without other cats in the household. The most common pathogens identified in feline pyothorax are Pasteurella, Bacteroides, Actinomyces, and Clostridium. Infections are often mixed and may contain several bacterial species. The purulent fluid is usually off white, beige, pink, or red (“cream of tomato soup” color) and malodorous. With or Actinomyces or Nocardia infections, it may contain white or yellow granular material (sulfur granules). Degenerate neutrophils are the predominate cells type and bacteria are often observed cytologically. If measured, both glucose and pH in these fluids is low. Both aerobic and anaerobic cultures should be requested from the fluid. Animals with pyothorax are usually systemically ill and may have complications of sepsis. Although aggressive, broad spectrum antibiotics including anaerobic coverage is mandatory for therapy of pyothorax, it is not adequate. The purulent fluid must be drained, ideally by continuous evacuation. Although exploratory thoracotomy in dogs with pyothorax is beneficial to survival, surgical impact on survival has not been investigated in cats.

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“Stroke” in small animal: does it exist? Laurent S. Garosi Med Vet, Dipl ECVN, MRCVS, Higham, England

Cerebrovascular accident (or stroke) The term cerebrovascular disease is defined as any abnormality of the brain resulting from a pathological process compromising its blood supply. Pathological processes that may result in cerebrovascular disease include (1) occlusion of the lumen by thrombus or embolus, (2) rupture of the blood vessel wall, (3) lesion or altered permeability of the vessel wall and (4) increased viscosity or other changes in the quality of the blood. Stroke or cerebrovascular accident (CVA) is the most common clinical presentation of cerebrovascular disease and is defined as a sudden onset of nonprogressive focal brain signs secondary to cerebrovascular disease. By convention, these signs must continue for more than 24 hours to qualify for the diagnosis of stroke, which is usually associated with permanent damage to the brain. If the clinical signs resolve within 24 hours, the episode is called a transient ischaemic attack. From a pathological point of view, the lesions affecting the cerebral blood vessels are divided into two broad categories: (1) ischaemia with or without infarction secondary to obstructed blood vessels and (2) haemorrhage caused by rupture of the blood vessel wall.

Ischemic stroke With limited stores, the brain relies on a permanent supply of glucose and oxygen to maintain ionic pump function. When perfusion pressure falls to critical levels, ischemia develops, progressing to infarction if it persists long enough. An infarct is an area of compromised brain parenchyma caused by a focal occlusion of one or more blood vessels. It may be due either to vascular obstruction that develops within the occluded vessels (thrombosis) or to obstructive material that originates from another vascular bed and travels to the brain (thromboembolism). Depending on the size of vessel involved, infarcts can be seen as being the consequence of small vessel disease (lacunar infarct) or large vessel disease (territorial infarct). In contrast to the core where ischaemia is severe and infarction develops rapidly, areas surrounding the core (called the penumbra) show a more moderate decrease of cerebral blood flow and can tolerate longer durations of ischaemic stress. In the penumbra, neurons are still viable but at risk of becoming irreversibly injured. The penumbra changes as the infarct evolves. Penumbra tissue has the potential for recovery and therefore is the target for interventional therapy in acute ischaemic stroke. The factors causing the evolution of the penumbra to irreversible injury are multiple and complex. The time window during which the

penumbra is no longer viable depends on the degree of blood flow reduction, and the region of the brain involved. Ischaemic strokes have been reported infrequently in the veterinary medical literature when compared with the medical literature. Apart from recent reports by Garosi and others (2005), most have been based on postmortem results in dogs that died or were euthanized as a result of the severity of the ischaemic stroke and/or the suspected underlying cause of the stroke. This may affect the prevalence and type of underlying causes, as it is likely that only the most severely affected dogs, or dogs in which infarction occurred secondarily to a disease with a poor prognosis, would die or be euthanased. Suspected underlying causes identified in histopathologically-confirmed cases included: septic thromboemboli, atherosclerosis associated with primary hypothyroidism, migrating parasite or parasitic emboli (Dirofilaria immitis), embolic metastatic tumor cells, intravascular lymphoma, and fibrocartilaginous embolism. In a recent large multicentre study based on clinical and MRI-based suspicion of ischaemic stroke, a concurrent medical condition was detected in just over 50 percent of dogs with brain infarcts with chronic kidney disease and hyperadrenocorticism being most commonly encountered. Hypertension was documented in 30 percent of dogs. Chronic kidney disease and hyperadrenocorticism were the most commonly suspected underlying cause for this hypertension.

Haemorrhagic stroke In haemorrhagic stroke, blood leaks from the vessel directly into the brain, forming a haematoma in the brain parenchyma, or into the sub-arachnoid space. The mass of clotted blood causes physical disruption of the tissue and pressure on the surrounding brain. This alters CNS volume/pressure relationships with the possibility of increasing intracranial pressure and decreasing cerebral blood flow. In contrast to the high incidence in man, intracerebral haemorrhage resulting from spontaneous rupture of vessels is considered rare in dogs. Secondary haemorrhage had been reported in dogs in association with various causes such as rupture of congenital vascular abnormalities, haemorrhage into primary and secondary brain tumours, inflammatory disease of the arteries and veins or intravascular lymphoma, brain infarction (hemorrhagic infarction) or impaired coagulation. Non-traumatic subarachnoid haemorrhage has been reported in dogs but remains very rare when compared to its occurrence in man, where aneurysmal rupture is the most common underlying cause.


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Diagnosis of stroke In all forms of stroke, the denominative feature is the temporal profile of neurological events. It is the abruptness with which the neurological deficits develop that stamps the disorder as being vascular. The other important aspect of the temporal profile is the arrest and then regression of the neurological deficit in all except the fatal strokes. Worsening of oedema (associated with secondary injury phenomena) can result in progression of neurological signs for a short period of 24-48 hours. Haemorrhage might make exception to this description and be presented with a more progressive onset over a very short period of time. Clinical signs usually regress after 24-48 hours; this is attributable to diminution of the mass effect secondary to haemorrhage and reorganisation or oedema resorption. Neurological deficits depend on the neurolocalisation of the vascular insult (forebrain vs brainstem). Infarct of an individual brain region is associated with specific clinical signs that reflect the loss of function of that specific region. With hemorrhagic stroke, the total clinical picture is different as the haemorrhage usually involves the territory of more than one artery and pressure effects cause secondary signs. Neurological signs are largely related to increasing intracranial pressure, which gives rise to non-specific signs of forebrain or brainstem disease. Imaging studies of the brain (computed tomography or magnetic resonance imaging) are necessary to confirm suspicion of stroke, to define the vascular territory involved and the extent of the lesion and distinguish between ischaemic and hemorrhagic stroke. It is also necessary to rule-out other causes of neurological deficit such as tumour and encephalitis. Ancillary diagnostic tests in ischaemic stroke should focus on evaluating the animal for hypertension (and potential underlying cause), endocrine disease (hyperadrenocorticism, hypothyroidism, hyperthyroidism, diabetes mellitus), kidney disease, heart disease and metastatic disease. In case of haemorrhagic stroke, diagnostic tests should be targeted to screen the animal for clotting disorder (and potential underlying cause), hypertension (and potential underlying cause) and metastatic disease.

Treatment and prognosis of stroke Once the diagnosis of stroke has been made, potential underlying causes should be investigated and treated accordingly. Most cases of ischaemic stroke recover within several weeks with only supportive care. In terms of neuroprotection in stroke therapy, there is no evidence that glucocorticoid treatment provides any beneficial effect. Treatment strategy for ischaemic stroke considered in man with other neuroprotective agents (NMDA antagonists, Ca2+ channel antagonists, sodium channel modulators) or thrombolytic therapy

remains to be evaluated in clinical setting in dogs. The medical management of dogs with intracerebral haemorrhage commonly includes stabilisation of the patient (airway protection and control of vital signs), assessment of the neurological status, determination of potential underlying cause of the haemorrhage, and assessment for the need for specific treatment measures including management of raised intracranial pressure and treatment of the eventual underlying cause. Surgical evacuation of the haematoma is employed mostly in dogs with large haematoma volume or in those with a worsening neurologic status. The prognosis of stroke depends mainly on the neuroanatomic location of the stroke, the presence of secondary pathological effects (oedema, haemorrhage, increased intracranial pressure and brain herniation) and especially the underlying cause if one is identified. Most dogs with ischaemic stroke tend to recover within several weeks with only supportive care. The presence of a medical condition was a significant factor in the occurrence of subsequent infarct in the case series reported by Garosi and other (2005).

Bibliography Adams RD, Victor M (1997) Cerebrovascular diseases. In: Adams RD & Victor M eds. Principles of neurology. 6th ed. New York: McGrawHill Inc. pp 777-873. Graves MJ (1997). Magnetic resonance angiography. British Journal of Radiology 70, 6-28. Garosi LS, McConnell JF (2005) Brain infarct in dog and human: a comparative review. Journal of Small Animal Practice 46:521-529. Garosi LS, McConnell JF, Platt SR, Baronne G, Baron JC, de Lahunta A, Schatzberg SJ (2005) Results of diagnostic investigations and longterm outcome of 33 dogs with brain infarction (2000-2004). Journal of Veterinary Internal Medicine19:729-731. Garosi LS, JF McConnell, SR Platt, G Baronne, JC Baron, A de Lahunta, SJ Schatzberg (2006) Clinical and topographical magnetic resonance characteristics of suspected brain infarctions in 40 dogs. Journal of Veterinary Internal Medicine (in press). Hakim AM (1998) Ischaemic penumbra: the therapeutic window. Neurology 51, S44-46 Heiland S (2003) Diffusion- and perfusion-weighted MR imaging in acute stroke: principles, methods, and applications. Imaging Decisions in MRI 4, 13-25. Kalimo H, Kaste M, Haltia M (2002) Vascular diseases. In: Graham DI & Lantos PL eds. Greenfield’s neuropathology. 7th ed. London: Arnold. pp 233-280. McConnell JF, Garosi LS, Platt SR, Dennis R (2005) MRI findings of presumed cerebellar cerebrovascular accident in twelve dogs. Veterinary Radiology and Ultrasound 46, 1-10. Platt SR, Garosi L (2003) Canine cerebrovascular disease: do dogs have strokes? Journal of the American Animal Hospital Association 39, 337-342.

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Advance diagnostic imaging in cerebrovascular accident Laurent S. Garosi Med Vet, Dipl ECVN, MRCVS, Higham, England

The term cerebrovascular disease is defined as any abnormality of the brain resulting from a pathological process compromising its blood supply. From a pathological point of view, the lesions affecting the cerebral blood vessels are divided into two broad categories: (1) ischaemia with or without infarction secondary to obstructed blood vessels and (2) haemorrhage caused by rupture of the blood vessel wall. With limited stores, the brain relies on a permanent supply of glucose and oxygen to maintain ionic pump function. When perfusion pressure falls below critical levels, ischemia develops, progressing to infarction if it persists long enough. An infarct is an area of compromised brain parenchyma caused by a focal occlusion of one or more blood vessels. It may be due either to vascular obstruction that develops within the occluded vessels (thrombosis) or to obstructive material that originates from another vascular bed and travels to the brain (thromboembolism). Depending on the size of vessel involved, infarcts can be seen as being the consequence of small vessel disease (lacunar infarct) or large vessel disease (territorial infarct). In haemorrhagic stroke, blood leaks from the vessel directly into the brain, forming a haematoma in the brain parenchyma, or into the sub-arachnoid space. The mass of clotted blood causes physical disruption of the tissue and pressure on the surrounding brain. Imaging studies of the brain are necessary to rule-out other causes of acute onset of neurological signs and to confirm a suspicion of stroke. They are also necessary to define the vascular territory involved, the extent of the lesion, and to distinguish between ischaemic and haemorrhagic stroke. MRI is the most sensitive imaging modality for diagnosing ischaemic stroke with changes seen within an hour of onset.

IMAGING OF ISCHAEMIC STROKE COMPUTED TOMOGRAPHY Computed tomography (CT) images are frequently normal during the acute phase of ischaemia; therefore the diagnosis of ischaemic stroke using CT relies upon the exclusion of mimics of stroke. Early CT signs of ischaemia can be subtle and difficult to detect even by very experienced readers and include parenchymal hypodensity, loss of gray-white matter differentiation, subtle effacement of the cortical sulci, and local mass effect. CT has until recently been the preferred imaging modality in man to determine the presence of haemorrhage in early stroke, with haemorrhage appearing

hyperdense in the early stages. Recent developments in MRI mean this is no longer the case and CT now has no advantage over MRI in the diagnosis of ischaemic stroke.

CONVENTIONAL MAGNETIC RESONANCE IMAGING Conventional magnetic resonance imaging can be used to depict ischaemic stroke within 12 to 24 hours of the onset and to distinguish haemorrhagic lesions from infarction. Although infarcts can sometimes be difficult to differentiate from other pathologic processes such as inflammatory diseases, they tend to have certain distinguishing characteristics on conventional MR images. 1- A distinctive diagnostic aspect of ischemic stroke is their location and distribution, which depends on the vascular territory involved. The conformity of an ischemic/infarct to a vascular territory is an important element in the diagnosis that helps in distinguishing these lesions from brain tumours, inflammation, and trauma. Ischemic/infarcts are caused by occlusion of a cerebral blood vessel. They therefore occur and are limited to the region of the brain vascularized by the affected vessel with often sharp demarcation with the surrounding normal brain tissue and minimal or no mass effect 2- Ischemic/infarct are caused by blood perfusion failure and therefore energy depletion. The consequence for the cell is failure of the Na+/K+ pump and accumulation of Na+ and water within the cell, i.e. cytotoxic oedema. The MRI changes seen in ischaemic parenchyma rely on an increase in tissue water content. Gradually the T2-weighted or FLAIR images become more hyperintense (T2 prolongation which produces higher signal in areas of increased tissue water content) in the ischaemic region particularly over the first 24 hours 3- MRI changes are best appreciated in the grey matter and are well visualised in deep grey matter structures such as the thalamus and basal ganglia due to the selected vulnerability to ischemia 4- Contrast-enhancement (associated with reperfusion) is not usually seen until at least 7 to 10 days T2-weighted and fluid-attenuated inversion recovery (FLAIR) images are particularly useful in imaging of ischaemic stroke to give a more anatomical image of the brain and depict edema, old infarcts, microangiopathic changes, tumors and other pathology. With these sequences, ischaemic infarction appears as a hyperintense lesion. Dif-


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ferentiation of ischaemic core from penumbral tissue is however not possible. T2*-weighted (gradient echo) images are use to show the presence of or exclude intracranial hemmorhage.

FUNCTIONAL MAGNETIC RESONANCE IMAGING Several functional magnetic resonance imaging (fMRI) techniques have been developed in the early diagnosis of stroke and follow-up stroke treatment in human. They include diffusion and perfusion imaging and magnetic resonance angiography (MRA). Diffusion and perfusion MRI are new techniques that monitor water transport in the microenvironment at cellular or capillary levels. They provide complementary information about the pathophysiological processes following cerebral ischaemia. • Diffusion weighted images (DWI) DWI is used commonly in humans to improve the sensitivity and specificity for the diagnosis of acute stroke making it an ideal sequence for positive identification of hyperacute stroke, excluding stroke mimics. The temporal evolution of the DWI signal also allows the discrimination of acute versus chronic lesions. Moreover, the sequence is sensitive, detecting lesion as small as 4 mm in diameter. Magnetic resonance DWI detects the random molecular motion of water in vivo. The degree of this mobility can be quantified by a physical parameter known as the apparent diffusion coefficient (ADC). In biological systems, free diffusion is restricted by physical barriers (e.g. cell membranes) and chemical interactions (e.g. binding to macromolecules). Acute infarction leads to water trapping within the cells and causes reduced diffusion. This phenomenon of decreased diffusion and cytotoxic edema produces a regional hyperintensity on DWI. The image intensity on DWI is dependent on the ADC as well as the transverse relaxation time (T2). Because DWI are affected by T1 and T2 contrast, stroke lesions also become progressively brighter owing to concurrent increases in brain water content, leading to the added contribution of hyperintense T2weighted signal known as “T2-shine through”. To differentiate between true restricted diffusion and “T2 shine through”, bright lesions on DWI should always be confirmed with apparent diffusion coefficient maps, which exclusively measure diffusion. The ADC map helps to remove the effect of T2-weighted hyperintensity (associated with cytotoxic edema) that can contribute to diffusionweighted hyperintensity. Diffusion weighted images can be used to improve the sensitivity and specificity for the diagnosis of acute stroke. This type of study also permits the discrimination of acute versus chronic lesions. The classic appearance of acute infarction is hyperintensity on DWI and reduced ADC. The ADC values remain below normal (reflect cellular swelling) over the first 8 to 10 days and progress to pseudonormal and supernormal values at chronic time points beyond 10 days (due to cellular necrosis or lysis).

• Perfusion images (PWI) In addition to diffusion-weighted imaging, MR perfusionweighted imaging is employed to depict brain regions of hypoperfusion and derives the tissue at risk by comparing the results with the findings on DWI. Perfusion-weighted imaging involves the repeated and rapid acquisition of images before and after the injection of a contrast agent using a two-dimensional gradient-echo or spin-echo EPI sequence. The shortening of the T1-relaxation rate over time is proportional to the concentration of the contrast agent and thus provides information on tissue perfusion. Diffusion and perfusion MRI techniques have made it possible to distinguish between the two compartments (central core and peripheral penumbra) of ischaemic tissue. With perfusion-weighted images, the blood supply of the tissue and area of hypoperfusion can be monitored, whereas diffusion-weighted images (DWI) approximately reflects the irreversibly damaged infarcted core. The volume difference between the two, also termed PWI/DWI-mistmatch, has some correlation with the ischaemic penumbra. • Magnetic resonance angiography (MRA) In addition to its use for tissue evaluation, MRA can noninvasively assess the intracranial vascular status of stroke patients. Two techniques can be used: time of flight (TOF) MRA and contrast-enhanced MRA. One of the main limitations of MRA is its lower resolution compared with conventional angiography. This becomes progressively worse as the luminal size decreases. In human, angiographic techniques are particularly used for screening of carotid artery stenosis, vascular malformation (such as arteriovenous malformation, venous angioma) and aneurysms. The use of MRA in dogs has been described and may allow identification of underlying vascular lesions in cases of canine stroke.

IMAGING OF HEMORRHAGIC STROKE COMPUTED TOMOGRAPHY (CT) CT is exquisitely sensitive for detection of acute haemorrhage. Acute haemorrhage is evident as a hyperdensity on CT due to hyperattenuation of X-rays by the globin portion of blood. The attenuation decreases until the hematoma is isodense at about 1 month after the onset. The periphery of the hematoma contrast enhances from 6 days to 6 weeks after the onset due to revascularisation.

CONVENTIONAL MAGNETIC RESONANCE IMAGING The two most important biophysical properties in the generation of MR signal intensity patterns seen in evolving intracranial haematomas are the paramagnetic effects of iron associated with the changing oxygenation states of haemoglobin and the integrity of red blood cell membranes that, when intact, compartmentalise the paramagnetic iron. However, the MR signal intensity of intracranial haemorrhage is also influenced by several intrinsic (time from ictus, source,


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size and location of haemorrhage) and extrinsic (pulse sequence and field strength) factors. The causes of these intrinsic and extrinsic variations in haematoma intensity are difficult to evaluate with clinical studies since it is frequently impossible precisely to ascertain the interval between haemorrhage and MR imaging. Gradient echo sequences have been proven to be the most accurate of all of the MR pulse sequences, and more accurate than computed tomography, in predicting the extent of haemorrhage on pathologic examination in a dog model. Compared to other sequences, gradient echo scans demonstrate readily detectable hypointensity regardless of the time from ictus, the source and location of haemorrhage, or the field strength. Hypointensities on gradient echo images is however not specific for haemorrhage and may also be seen with calcification, air, iron, foreign bodies and melanin. Air, calcification and often foreign bodies would also be normally hypointense on all the pulse sequences.

Bibliography Adams RD, Victor M (1997) Cerebrovascular diseases. In: Adams RD & Victor M eds. Principles of neurology. 6th ed. New York: McGrawHill Inc. pp 777-873

Graves MJ (1997). Magnetic resonance angiography. British Journal of Radiology 70, 6-28 Garosi LS, McConnell JF (2005) Brain infarct in dog and human: a comparative review. Journal of Small Animal Practice 46:521-529 Garosi LS, McConnell JF, Platt SR, Baronne G, Baron JC, de Lahunta A, Schatzberg SJ (2005) Results of diagnostic investigations and longterm outcome of 33 dogs with brain infarction (2000-2004). Journal of Veterinary Internal Medicine19:729-731 Garosi LS, JF McConnell, SR Platt, G Baronne, JC Baron, A de Lahunta, SJ Schatzberg (2006) Clinical and topographical magnetic resonance characteristics of suspected brain infarctions in 40 dogs. Journal of Veterinary Internal Medicine (in press) Hakim AM (1998) Ischaemic penumbra: the therapeutic window. Neurology 51, S44-46 Heiland S (2003) Diffusion- and perfusion-weighted MR imaging in acute stroke: principles, methods, and applications. Imaging Decisions in MRI 4, 13-25 Kalimo H, Kaste M, Haltia M (2002) Vascular diseases. In: Graham DI & Lantos PL eds. Greenfield’s neuropathology. 7th ed. London: Arnold. pp 233-280 McConnell JF, Garosi LS, Platt SR, Dennis R (2005) MRI findings of presumed cerebellar cerebrovascular accident in twelve dogs. Veterinary Radiology and Ultrasound 46, 1-10 Platt SR, Garosi L (2003) Canine cerebrovascular disease: do dogs have strokes? Journal of the American Animal Hospital Association 39, 337-342

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Cns inflammatory (UK) problems: the neurologist’s viewpoint, clinical approach and treatment Laurent S. Garosi Med Vet, Dipl ECVN, MRCVS, Higham, England

INFECTIOUS OR NON-INFECTIOUS? THAT IS THE QUESTION… Inflammatory CNS diseases are an extremely heterogenous group of diseases as far as their causes, pathological process involved and lesion distribution is concerned. Two distinct groups can be made: the meningoencephalomyelitis of unknown etiology and the infectious meningoencephalomyelitis. Meningoencephalomyelitis of unknown etiology in the dog is commonly attributed to granulomatous meningoencephalomyelitis (GME) and the breed-specific meningoencephalitides. GME is an angiocentric, mixed lymphoid, infiltrative process that predominantly affects the CNS white matter and leptomeninges. The clinical signs are variable and reflect the morphologic type of disease and the site of the lesion. Three forms of GME have been described based on both morphological and clinical neurological abnormalities: disseminated, focal, and ocular. The disseminated form typically manifests with acute onset of rapidly progressive clinical signs suggestive of multifocal CNS disorder whereas focal GME is associated with clinical signs suggestive of a single space-occupying mass with an insidious onset and slowly progressive course. Ocular form of GME manifests with acute onset of visual impairment and dilated non-responsive pupils caused by optic neuritis. Dogs with the ocular form can subsequently develop CNS lesions. The cause of GME is not known with immune-mediated, infectious and neoplastic causes proposed as possible causes. Current thoughts are a non-specific neurotropic response of the canine immune system and multiple etiologies may be involved. The lesions associated with the breed-specific meningoencephalitides differ from those in GME in distribution and severity. Pug dog and Maltese encephalitis is characterized by extensive necrosis and non-suppurative inflammation of the cerebral gray and subcortical white matter (necrotizing meningoencephalitis or NME). The neurological signs are acute and progressive and reflect mostly forebrain disorder with seizures observed in most dogs. A necrotizing encephalitis is also described in Chihuahua, Shi Tzu and Yorkshire Terrier and characterized histologically by multifocal area of extremely severe mononuclear inflammation surrounding large malacic gliotic center predominantly affecting the brainstem and periventricular cerebral white matter (necrotizing leukoencephalitis or NLE). Brainstem signs with central vestibular dysfunction predominate frequently. A

genetic basis is probable. Without histopathology, the antemortem diagnosis of GME or breed-specific meningoencephalitides is often presumptive. The terminology meningoencephalitis of unknown etiology should therefore be used for cases in which brain tissues have not been subject to histopathological evaluation. Encephalitis and meningitis often exist concurrently in dogs and cats with infection of the central nervous system. Numerous infectious agents have been incriminated and include viral (distemper, rabies, parvovirus, pararinfluenza, herpes, feline leukaemia, feline immunodeficiency virus), bacterial (from direct inoculation, embolism from other source or extension of bacterial processes), rickettsial (Ehrlichia, Rocky Mountain spotted fever), protozoal (Toxoplasma, Neospora), fungal (Blastomycosis, histoplasmosis, cryptococcosis, aspergillosis, coccidiomycosis) and spirochaetes (Lyme disease, leptospirosis) agents. Adding to this list, a number of parasites have been reported to affect the brain during aberrant migration (Toxocara, heartworm,Cuterebra larvae). Their incidence depends mainly on geographic location. Disease tends to be acute on onset and progressive, with often a multifocal or diffuse distribution of lesions seen within the CNS.

DIAGNOSIS A female predisposition for GME has been reported and the disease is most common in young to middle-aged dogs. Most cases of breed-specific meningoencephalitides described so far occurred in young and adult (6 months to 7 years) with no gender predisposition. Antemortem diagnosis of GME or breed-specific meningoencephalitides (NME, NLE) often lacks histopathological confirmation. Extraneural signs such as hyperthermia are rare. Blood examination may be normal or reveal a stress leukogram. CSF findings include a pure mononuclear pleocytosis or a mixed cell population (particular in acute cases). Although CSF mononuclear pleocytosis is a sensitive indicator for CNS inflammation, it cannot discriminate between immune-mediated, infectious, and neoplastic differential considerations for canine meningoencephalitis. The absence of CSF abnormality does not rule-out the possibility of GME, particularly in dogs pre-treaded with corticosteroids or where the lesions are not in close proximity to the ventricular system and subarachnoid space. CSF findings in dogs with NME or NLE reveal as well a moderate pleocy-


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tosis with mononuclear cells or mixed cell pleocytosis and mild to marked elevation of protein concentration. Imaging findings in meningoencephalitis of unknown etiology are non-specific but can help to support the suspected clinical diagnosis. CT-scan may reveal hyperdense lesions after injection of contrast medium intraveinously. The most consistent MR imaging findings in dogs with multifocal form of GME are the presence of multiple hyperintense T2W or FLAIR lesions scattered throughout the cerebral white matter. Contrast-enhancement may or may not be present. Central nervous system lymphosarcoma, and less commonly glial neoplasms and metastatic neoplasia can present with similar clinical and imaging findings and should therefore enter in the differential diagnosis of this form of GME. The focal form of GME presents on CT or MR imaging as a non-specific single space-occupying mass. The more characteristic distribution of the lesions observed in breed-specific meningoencephalitis (NLE or NME) may aid in the imaging diagnosis of these conditions. As such, diagnoses of “GME” or “breed-specific meningoencephalitis” made from clinical signs, CSF, imaging and negative infectious disease titers are presumptive and histologic examination of the nervous tissue (brain biopsy or postmortem) is required for a definitive diagnosis. Combined intrathecal and systemic high IgA levels are also very useful for the diagnosis of aseptic suppurative meningo-arteritis. Blood examination findings with infectious disease can range from leucocytosis with neutrophilia and left shift with bacterial infection, eosinophilia with increased muscle enzymes with protozoal diseases, lymphopenia with eventually leucopenia or leucocytosis with canine Distemper, hyperglobulinemia with feline infectious peritonitis. CSF and infectious titre (serology and/or PCR) performed on serum and/or CSF are the most reliable antemortem diagnostic test for identifying infectious CNS diseases. CSF findings in canine Distemper range from little changes in the acute phase to mononuclear pleocytosis and increased protein content in chronic inflammatory form. A marked neutrophilic pleocytosis is usually present with bacterial infection, feline infectious peritonitis (associated with marked increase in protein content) or aseptic suppurative meingoarteritis. A mild mixed pleocytosis and increase protein is often seen with protozoal disease. Bacterial cultures of CSF and blood are indicated on suspicion of bacterial meningoencephalitis but are often unsuccesfull.

TREATMENT Immunosuppressive doses of corticosteroids have been the mainstay of treatment for presumptive GME, aseptic suppurative meningo-arteritis and the breed-specific meningoencephalitides. Response to corticosteroids has frequently been reported as variable and temporary with animals often having a dramatic initial response, but relapses are common. Long-term, high-dose corticosteroids treatment commonly causes adverse effects such as gastrointestinal ulceration, pancreatitis and iatrogenic hyperadrenocorticism. Radiation, azathioprine, procarbazine, cytosine arabinoside and cyclosporine as sole agent or as an adjunctive

treatment with prednisone have been reported to be effective in some dogs with GME. Combined trimethoprim-sulfonamide, pyrimethamine and/or clindamycin are indicated for protozoal disease. Treatment of bacterial infection consists of high doses of broad-spectrum antibiotics known to penetrate the blood brain barrier. Glucocorticoids may be indicated during the first 48 hours of treatment. Treatment of viral diseases such as canine distemper or feline infectious peritonitis is essentially palliative.

PROGNOSIS The prognosis for long-term remission in proven cases of GME and the breed-specific meningoencephalitides has been reported as being poor. However, such reports have been limited to histopathologically confirmed cases of GME that died or were euthanized as a result of the severity of their disease, so the poor prognosis in these studies may be biased. Others have reported greater than one year survival in dogs with suspected GME treated with aggressive immunosuppression including prednisone and azathioprine. The prognosis of aseptic suppurative meningo-arteritis is good with an early aggressive and sustained therapy.

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Periodontal disease - Why it is so common, and why it is important in our patients Colin Harvey DVM, BVSc, MRCVS, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Philadelphia, USA

Plaque-induced “Periodontal Disease” is often separated into: Gingivitis - inflammation of the gingiva; and Periodontitis - inflammation of the periodontal ligament and alveolar bone. Periodontitis is alveolar bone osteomyelitis, and is recognized as ‘gingival recession’ or deep pocketing. Around 500 bacterial species have been identified to date in periodontal pockets in dogs and cats. When occlusal scrubbing is insufficient, the dental plaque biofilm on the enamel thickens and matures. In the deeper part of the biofilm, the oxygen is strangled out by active growth of aerobic organisms and an anaerobic environment is established. “Periodontopathogens” are the specific anaerobic bacteria that are the putative cause of gingivitis and periodontitis. The Gram negative anaerobic rod Porphyromonas gingivalis is considered to be the key human periodontopathogen; the carnivore equivalent is named Porphyromonas gulae. Spirochetes are very common in periodontal pockets. The initial pathological effect locally is inflammation of the gingival tissues. Neutrophils are attracted to the site, move onto the epithelial surface through the large intercellular spaces of the sulcular epithelium, and engulf and digest the plaque bacteria. Many of these neutrophils become overfull and burst, releasing bacterial toxins and destructive enzymes and cytokines. When oral hygiene is poor, the bacterial load is constantly enlarging. This ratchets up the inflammatory response, and the mixture of bacterial and cell degradation products becomes destructive in its effect on the periodontal tissues. The sulcular epithelial layer ulcerates, exposing the more vulnerable connective tissue more fully to bacterial invasion. As the destructive inflammatory-infective mixture descends deeper into the tissue, inflammationinduced resorption nibbles away the alveolar bone to produce periodontitis (alveolar bone osteomyelitis). Continuing bone loss causes instability of the attachment of the tooth. The result is mobility, which causes the tooth to be pushed against the remaining bone during chewing, and finally loss of the tooth, but not before there is only a matchstick of mandibular bone present adjacent to the roots of the first mandibular tooth in some toy-bree dogs. Pathological fracture of the mandible is possible. In the typically long period between the initial gingivitis and the final exfoliation of the tooth, bacteria that find themselves adjacent to capillaries may end up causing bacteremia. Bacteremia is frequent in patients with gingivitis and active periodontitis, and it is rapidly cleared by the reticulo-endothelial system in otherwise healthy patients. However, there is an association between severity of periodontal disease and distant organ abnormalities in both humans and dogs, and a recent study

in dogs has shown that systemic effects can be reversed by periodontal treatment. Even in a cooperative dog, we cannot reliably probe the pockets of an awake patient. Simple ‘pocket depth’ is an unreliable measure; it may under or over-estimate the extent of periodontitis as a result of gingival recession or gingival hyperplasia, respectively. We can recognize gingivitis and gingival recession; however, in dogs there is often poor correlation between the severity of visible gingivitis and the extent of active or prior periodontitis. Prevention is directed at retarding accumulation of plaque and calculus, or by suppressing the tissue-destructive effects of the inflammatory response. What is the owner willing and able to do and the patient willing to accept? Daily brushing remains the gold standard. A combination of approaches is best. Options include: 1. Stimulation of natural chewing activity, e.g. consistent use of chew products and diets that are effective in retarding accumulation of plaque and calculus. Look for the VOHC Accepted Seal® (www.VOHC.org). 2. Chemical anti-plaque effect. The long-term effectiveness of chlorhexidine in dogs is well documented. Many other ‘anti-plaque’ products are also marketed, though little or no documentation of effectiveness is available. 3. Surface treatments extend the benefit of professional scaling. Polishing the tooth surface after scaling is the standard. Newer treatments include application of a silicone or wax-like material to the surface of the tooth. 4. Prevent accumulation of calculus mechanically (by professional scaling) or by a chemical effect (polyphosphates have a Ca++ chelating effect that retards deposition of salivary or dietary calcium salts as calculus). 5. Correct ‘host factors’ that may exacerbate periodontitis (e.g. systemic disease). 6. Prevent accumulation or reduce the effects of pathogenic bacteria. Systemic antibacterial treatment is not recommended for long-term use. An antibiotic drug placed in a carrier in a periodontal pocket does is moderately effective. Recent work with P. gulae in dogs shows that a vaccine approach may be effective.

Reference Harvey CE: Periodontal Disease: Understanding the options. Veterinary Clinics of North America – Small Animal Practice. 35; 819-836, July 2005.

Author’s Address for correspondence: Colin Harvey - VHUP 3113 - 3900 Delancey Street Philadelphia, PA 19104, USA


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Periodontal disease Prevention and treatment in dogs and cats Colin Harvey DVM, BVSc, MRCVS, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Philadelphia, USA

Management of periodontal disease consists of prevention and, when there is extensive periodontitis (alveolar bone loss), surgical or other treatment to eliminate pockets or reestablish a functional gingival cuff. In severely affected locations, extraction is the only practical treatment. Periodontal management is not like neutering a healthy young animal every patient is unique in the extent of plaque/calculus deposition and in the tissue response and effects, and most periodontal patients are middle-aged or old. Periodontal management under anesthesia without discussion of the potential procedures required with the owner is a common causes of consumer complaints about veterinary care, and likely results in grossly insufficient care in many patients because the time alloted for that patient is not long enough for the indicated procedures. Although some veterinary technicians can scale teeth effectively, keep in mind that gingivitis and periodontitis are ‘diseases’ and that diagnosis and determination of the indicated treatment are functions limited by veterinary practice acts to a licensed veterinarian. Prior to anesthesia, two factors need to be determined: 1. Is the patient healthy enough for the duration of anesthesia that may be required for dental scaling/polishing and specific treatment of any severely affected teeth? 2. If involved periodontal treatment may be required, is the owner willing and able to apply home care consistently over the long-term? Once the patient is under anesthesia, examination is critical. In some cases, scaling may be necessary before a tooth can be examined. In a mouth with complete dentition, there are 42 separate decisions to be made – one for each tooth, based on the worst affected root of that tooth. Triage each tooth as: • No moderate or severe periodontitis - scaling/polishing is the only professional procedure required. • The tooth can be retained, but requires specific periodontal treatment in addition to scaling/polishing. • The tooth is too diseased to retain – extraction is the only option. It is useful to differentiate between ‘preventive’ procedures and ‘treatment’ procedures, both of which fit under the term periodontal ‘management’. Dental scaling/polishing is a preventive procedure – it removes the cause of the inflammation and infection and allows the tissues to restore themselves to health. Modern ultrasonic instruments, used with tips designed for subgingival scaling, have made dental scaling easier and more pleasant to perform. These instruments have not replaced the need

to be thorough, and dental scaling in a patient with even moderate accumulations of calculus takes time. A complete scaling/polishing procedure includes periodontal examination (including charting and dental radiographs, if indicated), supra- and sub-gingival scaling, examination of the tooth (crown and root), polishing all non-attached tooth surfaces, sub-gingival irrigation and recommendations for home care. In a human patient with severe periodontitis, scaling/polishing is a pre-treatment procedure – a decision on the actual ‘treatment’ of the periodontitis or soft tissue loss is often delayed for a couple of weeks until the effect of the scaling/polishing procedure is clear. Post-scaling examination indicates what specific surgical treatment, if any, is required. The need for anesthesia for complete oral/dental examination in veterinary patients limits what we know about our patients prior to induction of anesthesia. In many veterinary patients, staged procedures are impractical or unacceptable to the owner. Thus, even in some cooperative patients, veterinary dentists are required to diagnose and complete treatment at one session, and the examination to determine need for surgical treatment is made on unhealthy tissues. Patients with extensive periodontitis can be treated with an antibiotic drug for 7-10 days prior to anesthesia, so that the tissues are less inflamed when they are examined. When there is extensive periodontitis or soft-tissue loss present, ‘treatment’ is either: correction of existing loss of attachment so that remaining attachment is stabilized and further tissue loss is prevented; or extraction of the tooth. There are many treatment options that will permit retention of teeth that have severe loss of attachment. Which specific procedure to use depends on several factors, including extent and health of gingiva surrounding the tooth, extent of loss of attachment, mobility of the tooth, and furcation exposure (loss of alveolar bone between the roots of multi-rooted teeth). Surgical treatment (other than extraction) is always accompanied by thorough scaling and polishing.

Reference Harvey CE: Periodontal Disease: Understanding the options. Veterinary Clinics of North America – Small Animal Practice. 35; 819-836, July 2005.

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Oral surgery The little things that make a big difference Colin Harvey DVM, BVSc, MRCVS, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Philadelphia, USA

Oral tissues are well-vascularized, heal more rapidly than skin and thrive in a contaminated environment. Oral surgery should be easy compared with surgery on other body structures. It is, if the interface between bone and soft tissue and the complicating effects of teeth in the surgical site are accomodated. Most oral surgical procedures involve the gingiva, whether the procedure is part of periodontal treatment, trauma repair, extractions or tumor removal. The gingiva is thick, non-elastic, and firmly attached to underlying bone. There is an abrupt change at the mucogingival junction to a thinner elastic epithelium that is loosely attached to underlying bone; there are large neurovascular bundles in the connective tissue.

Principles of oral surgery: Incision: Plan and your proposed incision line and follow the plan as you are making the incision. When working around teeth, include the interdental papillas and avoid making long narrow flaps. Use a new scalpel blade under twohand control - it is very easy for the scalpel to veer off when it is pressed against bone. Make one incision instead of a series of jagged incisions. Do not use an electroscalpel to make incisions that will be sutured. Keep major neuro-vascular structures (infraorbital, mental) out of harms way as you are make the incision. Dissection: Use a periosteal elevator to separate the incised gingiva from the bone. This requires a firm hand combined with excellent control. Maintain an angle of about 30° between the elevator and the surface of the bone, stretching and separating the gingiva from the bone without lacerating it. Keep the location of the mucogingival junction in mind - alveolar mucosa is much more yielding and the elevator can slip and lacerate the tissue if it is not controlled. During the procedure that will follow creation of the flap, keep the raised gingiva and underlying bone moist. Control of hemorrhage: Local ligation may not be an option because the vessel is in a bony canal or has retracted into adjacent tissue containing critical neural structures. For mandibular and palatal arteries that are not accesible to ligation, use pressure. If oral bleeding is out of control, ligate the carotid artery/ies. Limit use of electrosurgery to connective tissue sites with no major neural structures in close proximity.

Closure: Check the surface of the bone – smooth rough prominences with a large round bur so they will not tear the soft tissues as the tissues are moving post-operatively. Plan the sutures so that the gingival margin of remaining teeth will be reformed. If there is an option for placement of the sutures so that the incision will not lie over a void, use it, even if it means enlarging the incision line somewhat so that the tissue can be rotated away from the void. Cover bony defects by suturing the tissues into apposition without tension. If necessary, undermine the alveolar mucosa further to provide sufficient tissue for suturing without tension. The choice of material or type of needle is less important than the care with which it is placed. Generally, a simple interrupted pattern of 4-0 or 5-0 absorbable material is used with a reverse cutting needle. Gingiva tends to tear when roughly handled; to place a needle through attached gingiva, press the needle point onto the bone surface, back off slightly, then turn the needle so that the point is parallel to the bone surface as you are sliding the needle through the tissue. Snug the tissues into apposition – do not tie them tightly. Place one extra throw on the knot and leave the cut ends longer than you normally would for an absorbable suture, as the tongue will work on the sutures and untie short ends. Radical procedures: When performing a radical surgical procedure, do not be shy or slow. When reconstruction will be needed (usually to separate the nasal and oral cavities), plan the incisions so as to avoid tension on the suture lines. There is tissue available, but you may have to think creatively to find it. Remove more bone to smooth out the perimeter of a defect. Make large releasing incisions, and use the other lip if necessary. Management of dehiscence: clean up the incision edges, enlarge existing flaps if necessary to create a tension-free closure. Antibiotic treatment often is not necessary; postoperative analgesia is necessary for quick recovery of function. Prevent access to chewing materials for 2-3 weeks.

Reference Harvey CE, Emily PP: Small Animal Dentistry. CV Mosby Co, St. Loius, 1993.

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Feline oral and dental conditions What’s New Colin Harvey Colin Harvey DVM, BVSc, MRCVS, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Philadelphia, USA

Accumulation of dental plaque and calculus causes gingivitis, which commonly leads to periodontitis (alveolar osteomyelitis). Periodontal disease in cats can be controlled, though cats generally do not cooperate with home care procedures. Two frustrating oral diseases, stomatitis and dental resorptive lesions, are much more common in cats than in dogs.

Stomatitis Stomatitis is inflammation anywhere in the mouth. Painful “chronic stomatitis” (non-gingival oral inflammation or ulceration) is recognized clinically in cats. Bilateral inflamed or ulcerated lesions are seen adjacent to inflamed gingiva or in the caudal buccal folds; tongue and hard palate are rarely affected. Diagnosis: The purpose of diagnostic tests in these patients is to confirm or eliminate possible underlying causes. FeLV and FIV testing of cats with chronic oral inflammation is strongly recommended, as these viral infections cause immune suppression. Viral isolation tests often identify presence of calicivirus in oral fluids, though caliciviruses are often also found in clinically normal cats. Hypergammaglobulinemia is common, as a result of antibody production following bacterial invasion into oral tissues. Biopsy often shows large numbers of lymphocytes and plasma cells; however, these are an expected response to chronic bacterial infection. To date, although much is now known about the pathophysiology, no specific cause for feline stomatitis has been identified. Many treatments are currently used, with mixed success. Periodontal management (scaling, home care) is part of medical treatment; it is rarely sufficient by itself. Owner compliance is often poor in a cat with oral pain. Antibiotic therapy often produces short term benefit. Suppression of oral bacterial activity reduces oral inflammation, restores appetite and reduces discomfort; however there is usually rapid recurrence. Culture and susceptibility testing is a waste of time and money because of the rich oral flora. The drugs of choice are amoxicillin-clavulanic acid, clindamycin, metronidazole or pradofloxacin. Anti-inflammatory drugs often produce improvement that lasts longer than does a short-term course of antibiotics, and can be titrated down to achieve the minimum dosage; long term treatment is required in some patients. Immune-suppressive drugs and many other treatments have been used. There are no blinded, controlled random clinical trial results to assist the clinician. Extraction of all premolars and molar teeth is the most dependable treatment: significant, long-term improvement is reported in 70-80% of affected cats. Removal of root fragments is essential.

Dental Resorptive Lesions In this condition, cavitations occur anywhere on the cemental surface of tooth roots. Lesions located at the gingival margin are often covered by granulomatous gingival tissue, and the lesion can undermine the crown, causing it to fracture. Retained roots are a common result. Jaw chattering often is elicited upon probing affected teeth and gingiva. Because of the pain accompanying this condition, cats can become dysphagic, anorectic and dehydrated, though resorptive lesions (especially of canine teeth) are sometimes seen with little or no accompanying gingival inflammation or obvious pain. Dental resorption most frequently involves premolar and molar teeth. One or more teeth are affected in about 50% of domesticated cats aged 4 years or more. The condition is not caries demineralization of tooth substance. The pathogenesis is known (stem cells are attracted and activated as clastic cells). Microscopically, many early lesions with no inflammatory foci are seen. Recently, hypervitaminosis D has been suggested as a possible etiology, as affected cats have higher serum levels than do cats with no clinically evident lesions. Application of a dental restorative material following preparation of the cavity has poor long-term results because the lesion often continues to develop. Currently, extraction of teeth with resorptive lesions is the only practical treatment; it does not prevent the development of lesions in remaining teeth and is often difficult because affected teeth fracture easily and ankylosed roots are hard to separate. A radiograph confirms that extraction is complete. Planned retention of vital root segments is acceptable if: the retained fragment is below bone level; there is no gingivitis-stomatitis present in that part of the mouth; there is no radiographic evidence of periapical disease; and the gingiva is sutured. In the cat, 70% of all oral neoplasms (benign or malignant) are squamous cell carcinoma, typically seen as a protuberant lesion on the gingiva or root of the tongue. Always biopsy asymmetrical oral masses in cats. Recent chemotherapy, radiation therapy or combination trials have not identified a successful treatment.

References Harvey CE: Oral and Dental Diseases. In Feline Medicine and Therapeutics. E Chandler and CJ Gaskell. 2004. Reiter AM, Lewis JR, Okuda A: Update on the etiology of tooth resorption in domestic cats. Vet. Clin Nor Am Sm Anim Pract, 913-942, July 2005.

Author’s Address for correspondence: Colin Harvey - VHUP 3113 - 3900 Delancey Street Philadelphia, PA 19104, USA


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When a case become a surgical case? Use of antibiotics in surgery between myth and reality: yes, no, when, how many, for how long? Monitoring of the post-surgical patient: guidelines based upon severity Post-op pain management: drugs to be used during intensive care before dismissal Post-op pain management: drugs to be used after dismissal Physiotherapy: an underestimated item for the small animal surgeon

Duncan Lascelles BSc, BVSc, PhD, MRCVS, Cert VA DSAS(ST), Dipl ECVS, Dipl ACVS, Raleigh, USA

Abstracts will be available after 12th of June 2006 on the web site www.scivac.it/53/atti/


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Radiology of the spine: is myelography still the “gold standard”? Llabrés-Díaz, Francisco J. DVM, DVR, Dipl ECVDI, MRCVS, Higham Gobion, Herts, UK

The direct answer to this question is “no”. Myelography is no longer the best imaging technique available when evaluating patients with clinical signs indicative of a spinal condition. However, this does not automatically mean that it does not have a role to play in veterinary neurology. One needs to know and understand, however, a) the indications and limitations of radiographymyelography, b) the artefacts and non-significant findings that can be encountered and c) when this technique is relevant to the clinical scenario. These very important points will be discussed during the presentation. Equally, the importance of a correct complete clinical and neurological examination, as well as the use of other ancillary diagnostic tests, cannot be overemphasised and, although it will not be discussed here, should always be taken into account. Among the indications for myelography we can include: 1. To confirm a lesion suspected on survey radiographs. 2. To confirm that a lesion seen on survey radiographs but that does not correlate with the results of the neurological examination is indeed likely to be clinically insignificant. 3. Decide which of multiple lesions detected on survey radiographs and that could explain the clinical signs is/are more significant. 4. Identify a lesion that was not visible on survey radiographs but was suspected from the history, clinical signs and neurological examination. 5. Once a lesion is identified, to determine its exact location and once it has been decided that surgical treatment would be appropriate, to determine the best surgical approach. 6. In particular cases, for instance in cases of caudal cervical spondylomyelopathy (Wobbler’s syndrome), to determine whether a lesion is static or dynamic, which will determine the type of surgery that is most likely to benefit the patient, if surgery is finally considered necessary. 7. Confirm a diagnosis of exclusion (e.g. ischaemic or degenerative myelopathy). Regarding myelographic technique, only few comments will be included: 1. Choice of contrast medium: water soluble iodinated, non ionic, low osmolar medium of 300mgI/ml is routinely used in our practice (Iohexol, Omnipaque, Amersham Health). Less concentrated preparations are available, but higher concentrations provide better subarachnoid space opacification and are more susceptible to the useful effect of gravity (Kirberger, R. M. 1994).

2. Dose: 0.3-0.45 ml/kg, with a higher dose if the lesion is likely to be further away from the injection site and in smaller breeds of dogs and cats; lower dose in the opposite situation, closer lesion or larger patients. A maximum dose of 9ml (Kirberger, R. M. 1994) and a minimum dose of 1ml have been mentioned in the literature. A slightly larger total dose than 9ml is likely to be needed if one is interested in evaluating the whole spine in a giant dog, however, it is true that 10 to 11mls can be surprisingly enough in large dogs. The patient needs to be maintained properly hydrated during the examination as this will help clearing of the contrast medium from the body. The head should be raised to avoid accumulation of the contrast medium in the intracranial subarachnoid space. 3. Injection site: a. Cerebellomedullary cistern: technically easier; risk of severe complications if piercing the spinal cord; the caudal portion of the lesion may not be seen as contrast will follow to the area of less resistance (brain’s subarachnoid space); analysis of a CSF sample may theoretically be less useful as it is assumed that CSF flows craniocaudally; artefacts associated with subdural injection of contrast medium are more likely. Apparently higher risk of seizures post myelogram (Barone, G. and others 2002). b. Lumbar cistern: technically more challenging; relatively less severe effects if the cord is pierced, but not to be forgotten; pressure can allow contrast flow around the lesion, and therefore a better delineation of its margins; analysis of a CSF sample will theoretically be more useful; artefacts associated with epidural leakage of contrast medium are more likely. The recommended injection site is L6-7 for small dogs and cats but L5-6 in larger dogs. 4. Use of gravity: (use of a tilting table can be very useful) a. To speed up the caudal flow of contrast medium after cerebellomedullary cistern puncture. b. To overcome the resistance of the contrast medium to surround a lesion after cerebellomedullary cistern puncture. c. To achieve good filling of the contrast columns around the cervicothoracic and thoracolumbar portions of the spine, which are areas that routinely show poor contrast filling, or any other area that in a particular patient shows poor filling of the subarachnoid space.


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Artefacts in myelography Mainly subdural injection of contrast medium in cervical myelograms (Scrivani, P. V. 2000), (Penderis, J. and others 1999) and epidural leakage of contrast in lumbar myelograms, although both artefacts can occur with both types of injection. Contrast medium whithin soft tissues outside the vertebral canal or in the spinal cord parenchyma/central canal. Iatrogenic injection of gas bubbles in the subarachnoid space, seen as very well defined radiolucent filling defects. When subdural injection/epidural leakage occurs, the subarachnoid space does not receive the full dose of contrast medium and, in addition, the epidural or subdural contrast can be superimposed to the myelogram, making its evaluation even harder. This is why performing a test injection can be very important, as retrieving CSF does not rule out the possibility of subdural, epidural or even parenchymal injections of contrast medium, as only part of the needle bevel needs to be in the subarachnoid space for CSF to flow. If part of the contrast medium has reached the epidural space, the visualisation of the subarachnoid contrast columns will improve as the rest of the contrast is cleared up by normal venous return. Reradiograph the area in 10 minutes to evaluate the clearing process. If the contrast disappears also from the subarachnoid space, performing a second lumbar injection with a slightly lower dose, hoping to avoid re-leakage, or injecting into the cerebellomedullary cistern, can be helpful. In the worse case scenario, it may be necessary to wake up the patient and repeat the study in a different day. Contrast medium in the central canal is an uncommon finding that can be of no significance if the canal measures less than 1mm in diameter (Kirberger, R. M. and others 1993), as sometimes the central canal communicates with the subarachnoid space or, on occasions, the contrast medium gains access to the canal through the needle tract. However, the central canal is very likely to be abnormally wide if abnormal communications between the subarachnoid space and the central canal exist (trauma, neoplasia or after direct injection in the canal). The latter is more likely to occur if the injection is performed further cranially in the lumbar spine, especially at the level of the lumbar intumescence. The prognosis of central canal injection is guarded, even more so as higher volumes of contrast reach the central canal.

Systematic approach to interpretation of a myelogram 1. Critical evaluation of the quality of the myelogram (adequate filling of the subarachnoid space by contrast medium, absence of artefacts, etc). 2. Position and width of the contrast columns on all radiographic views.

3. Position, diameter and opacity of the spinal cord on all radiographic projections. If a lesion is found, this should be further classified as a) extradural b) intradural but extramedullary or c) intramedullary

Differential diagnoses a) Extradural: mainly disc protusions/extrusions, haematomas and neoplasia (bone or soft tissue, primary or secondary). Consider also, hypertrophy of ligamentum flavum, synovial cysts, fracture/luxation, abnormally developed vertebrae (wobbler’s syndrome, severe cases of hemivertebrae, etc), empyema, granuloma. b) Intradural-extramedullary: mainly arachnoid cysts and neoplasia (meningiomas, nerve sheath tumours), but consider also arachnoid haematoma or granuloma (rare). c) Intramedullary: mainly oedema/contusion and neoplasia. Other possibilities would include syringohydromyelia or myelomalacia.

Limitations of myelography 1. Normal myelograms (ischaemic myelopathy, degenerative myelopathy, granulomatous meningoencephalomyelitis, meningitis). 2. Areas where a myelogram may not be useful (lumbosacral disease, empyema, retroperitoneal extension of discospondylitis, among others). 3. Difficult cases with a lack of good delineation of the subarachnoid space by the contrast medium a. Cord odema/contusion/haemorrhage b. Large extradural lesions (disc material and haemorrhage, mainly)

References Barone, G., Ziemer, L. S., Shofer, F. S. & Steinberg, S. A. (2002) Risk factors associated with development of seizures after use of iohexol for myelography in dogs: 182 cases (1998). J Am Vet Med Assoc, 220, 1499-1502. Kirberger, R. M. (1994) Recent developments in canine lumbar myelography. Compendium on Continuing Education for the Practicing Veterinarian, 16, Kirberger, R. M. and Wrigley, R. H. (1993) Myelography in the dog: review of patients with contrast medium in the central canal. Veterinary Radiology and Ultrasound, 34, 253-258. Penderis, J., Sullivan, M., Schwarz, T. & Griffiths, I. R. (1999) Subdural injection of contrast medium as a complication of myelography. J Small Anim Pract, 40, 173-176. Scrivani, P. V. (2000) Myelographic artifacts. Vet Clin North Am Small Anim Pract, 30, 303-14, vi.

Author’s Address for correspondence: Llabrés-Díaz, Francisco J. Davies Veterinary Specialists, Manor Farm Business Park, Higham Gobion, Herts, UK


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Advanced diagnostic imaging of the spine Llabrés-Díaz, Francisco J. DVM, DVR, Dipl ECVDI, MRCVS, Higham Gobion, Herts, UK

As mentioned in the presentation regarding spinal radiography, myelography is no longer the best diagnostic imaging technique for the evaluation of veterinary patients affected by spinal or paraspinal pathology. Both CT and MRI are becoming more widely available and, especially MRI, has started to displace the use of radiography-myelography in some referral centres. The aim of this presentation is to illustrate the use of MRI for the diagnosis of spinal conditions in veterinary medicine, as the author has greater clinical experience with the use of this technique than with CT. It must be understood, however, that both CT and MRI are not free of some limitations and, similarly to what was mentioned for the use of myelography, it is very important to understand that an MRI, even if technically perfect, cannot and will not substitute a correct clinical and neurological examination and is only another step to a correct diagnosis.

using paramagnetic contrast medium injected intravenously during the examination, (discospondylitis and neoplasia would be good examples where the use of contrast medium is considered useful). 8. One of the areas where MRI is becoming widely used is for the investigation of cases of cauda equina syndrome particularly associated with lumbosacral disc pathology. The dural sac may end cranial to the lumbosacral disc and, in those cases where it reaches this level, its decreased diameter and its more dorsal position within the distal portion of the vertebral canal hinders an accurate myelographic evaluation. MRI can rule out or accurately characterise disc pathology as well as determine the presence and severity of other complicating factors like lateral spondylosis deformans or intervertebral foraminal stenosis, for instance.

Limitations of MRI Advantages of MRI versus traditional radiographic techniques 1. Images can be obtained on any plane (although images on the three orthogonal planes: dorsal, sagittal and transverse, are routinely obtained). 2. MR will offer detailed information about the spinal cord parenchyma, the CSF filled subarachnoid space, the epidural space and the perivertebral soft tissues (as a summary, very good soft tissue contrast when compared to imaging techniques based on X-rays). 3. Image formation is not based on the use of ionising radiation. 4. It is therefore very suitable for the investigation of neurological conditions (Dennis, R. 2003). 5. There is no need to inject contrast into the subarachnoid space, decreasing the risk of iatrogenic lesions and secondary seizures (Pooya, H. A. and others 2004). 6. Although it was historically considered that CT offered higher quality images of osseous structures (the vertebrae in the particular case of the spine), the use of particular MR sequences, mainly gradient echo sequences, allows detailed investigation of the vertebrae, among other things (also used for the confirmation of the presence of haematomas or haemorrhage, for instance) (Dennis, R. 2005). 7. Multiple other MRI sequences are available, a detailed description of which is beyond the limits of this summary. As a bottom line, the radiologist can gain further information regarding the characteristics of some lesions using a combination of the different sequences, and especially

1. For the clinician wanting to start using MRI a. Expense of acquiring and maintaining the equipment, especially if a high field superconducting magnet is chosen. In addition, part or all of the anaesthesia monitoring equipment needs to be MRI compatible. In our centre longer tubes allow anaesthesia monitoring from the control room, needing only to go through the expense of acquiring a MR compatible pulsoximetry probe. b. Time and effect needed to become familiar with the technique and, more importantly, the interpretation of the generated images. c. Length of the examination when compared to CT or a “quick” myelogram (some of the gratifying four radiograph myelogram <two survey and two post injection radiographs> that we manage to see every so often!). Therefore, MRI may not be the technique of choice in critically ill patients, especially if a closed MR system, where the magnet completely surrounds the patient, is used, due to the difficulty of gaining access to the patient. d. It may be difficult to obtain high quality images of the spine of small dogs and cats due to the small size of their spinal cords. e. The quality of the images of the thoracic or thoracolumbar portions of the spine may be negatively affected by cardiac and/or respiratory movements. 2. For the owner of the affected dog/cat a. Expense of the examination 3. For all (vet/owner/pet)


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a. Performing an MRI, like any other diagnostic imaging technique, is not equivalent to obtaining a histopathological diagnosis of the lesion and further tests will be needed to confirm the suspected diagnosis, incurring in further expense for the owner.

MRI patterns of the most commonly diagnosed spinal pathologies in small animals 1. Disc disease a. Acute b. Chronic c. Haemorrhagic d. Intramedullary extrusion e. High velocity low volume f. Extracanal This is a summary of some of the disc lesions more commonly seen. MRI will be useful to accurately localise diseased discs (care must be applied not too immediately assume that a degenerated, non-hydrated disc is causing the clinical signs) and to determine the presence and severity of spinal cord compression when assessing the amount of CSF and epidural fat that remain around the spinal cord. Other associated changes, not seen in every case, like haemorrhage (usually epidural) and secondary cord damage (sometimes defined as high velocity low volume disc) can also be readily diagnosed. Haemorrhage should be considered if a hyperintense lesion is seen on both T1 and T2 weighted sequences and it does not obviously correspond to fat. However, the lesion needs to be 2 to 7 days old to show this particular intensity pattern on T1 and T2 based sequences (Tidwell, A. S. and others 2002). However, gradient echo techniques can confirm that a lesion is haemorrhagic few hours after the lesion has formed, revealing a hypointense lesion (Tidwell, A. S. and others 2002), (Platt, S. R. and others 2003). With a high velocity low volume disc, the traumatic effect caused by the disc material and the secondary focal oedema appears as a hyperintense area on T2 based sequences. A focal hypointensity may be seen within the cord on this sequence if some mineralised disc material crosses the meninges to get into the spinal cord, but intramedullary extrusions, although described (McConnell, F. J. and others 2004), are less common. 2. Ischaemic myelophathy: Largely indistinguishable from an intraparenchymal cord lesion associated with a high velocity low volume disc purely on MR images, as it can also appear as a focal hyperintense area on T2 weighted sequences. However, one should investigate the presence of disc pathology on the neighbouring discs to try to reach the correct diagnosis, although this is not completely reliable. The exact type of pathology involved is somehow slightly less important, as clinically both types of lesions are likely to be associated with a peracute onset of clinical signs and therefore, being practical, one only needs to confirm the presence of a non-compressive cord pathology in this clinical scenario. 3. Neoplasia a. Spine b. Nerves and meninges

c. Vertebral and paravertebral disease MRI, especially aided with the use of paramagnetic contrast medium, offers extremely good images of all types of neoplasia, allowing also a good assessment of the extension of the pathology. Sometimes, however, it may be difficult to differentiate intramedullary from intradural but extramedullary lesions if a clear widening of the subarachnoid space leading to the lesion is not identified. 4. Caudal occipital malformation syndrome and associated syringohydromyelia Pathology commonly seen in the Cavalier King Charles Spaniel. The abnormal conformation of the caudal fossa of the skull leads to cerebellar compression, foramen magnum overcrowding, brain stem compression and abnormal CSF flow with associated spinal syringohydromyelia (Lu, D. and others 2003; Rusbridge, C. and others 2003). Interestingly, there is relatively poor relationship between the severity of the caudal fossa changes and the clinical signs. Other causes of syringohydromyelia need to be considered, especially in other breeds. 5. Dyscospondylitis and empyema Gradient echo sequences will be very useful to determine whether endplate irregularity is present. Equally, the use of paramagnetic contrast medium will be very useful to assess the degree of soft tissue inflammation. The author has seen dramatic cases of both intracanal extension of the pathology (empyema) or retroperitoneal extension of the pathology, and MRI has been very useful to reveal these changes when compared to radiographs of the same cases.

References Dennis, R. (2005). Use of gradient echo pulse sequences in MRI of the spine in small animals. EAVDI Annual Congress, Naples, Italy. Abstract proceedings page 25. Dennis, R. (2003) Advanced imaging: indications for CT and MRI in veterinary patients. In Practice, 25, 243-254. Lu, D., Lamb, C. R., Pfeiffer, D. U. & Targett, M. P. (2003) Neurological signs and results of magnetic resonance imaging in 40 cavalier King Charles spaniels with Chiari type 1-like malformations. Vet Rec, 153, 260-263. McConnell, F. J. and Garosi, L. S. (2004) Intramedullary Intervertebral Disk Extrusion in a Cat. Veterinary Radiology & Ultrasound, 45, 327330. Platt, S. R. and Garosi, L. S. (2003) Canine cerebrovascular disease: do dogs have strokes? J Am Anim Hosp Assoc, 39, 337-342. Pooya, H. A., Seguin, B., Tucker, R., Gavin, P. & Tobias, K. M. (2004) Magnetic Resonance Imaging in Small Animal Medicine: Clinical Applications. Compendium on Continuing Education for the Practicing Veterinarian, 26, 292-302. Rusbridge, C. and Knowler, S. P. (2003) Hereditary aspects of occipital bone hypoplasia and syringomyelia (Chiari type I malformation) in cavalier King Charles spaniels. Vet Rec, 153, 107-112. Tidwell, A. S., Specht, A., Blaeser, L. & Kent, M. (2002) Magnetic resonance imaging features of extradural hematomas associated with intervertebral disc herniation in a dog. Vet Radiol Ultrasound, 43, 319-324.

Author’s Address for correspondence: Llabrés-Díaz, Francisco J. Davies Veterinary Specialists, Manor Farm Business Park, Higham Gobion, Herts, UK


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CNS inflammatory problems: the view of the radiologist Llabrés-Díaz, Francisco J. DVM, DVR, Dipl ECVDI, MRCVS, Higham Gobion, Herts, UK

Inflammatory or infectious processes affecting the central nervous system can be both easy and straight forward or very frustrating to diagnose for the radiologist. Some typical examples of this would be: a) a painful dog where there is a very strong clinical suspicion of discospondylitis and b) a painful dog where there is a very strong clinical suspicion of menigoencephalitis or meningomyelitis. Discospondylitis cases may be frustrating because it is not uncommon for the radiographic signs to show some delay with respect to the progression of the clinical signs, i.e. when the dog is worse clinically the radiographs may show little or nothing whereas when the dog is improving or clinically even back to normal is when the radiographic signs may be more obvious (a radiographic pattern of bone lysis/irregularity of the endplates of the neighbouring vertebrae would be typical of a chronic radiographic phase of the disease). The role of MR in this particular scenario will be discussed later. Radiographs of a case with menigoencephalitis or meningomyelitis are very likely to be normal. The injection of radiographic contrast medium into the subarachnoid space to perform a myelogram will affect the results of the CSF analysis and therefore MR, if available, is a much better diagnostic imaging tool in this clinical scenario as a complete MRI study can be performed before a CSF sample is analysed, hopefully offering a diagnosis, or, at least decreasing the list of possible differential diagnoses of the case without the need to go through the risk of performing a myelogram. MR is likely to be normal if only the meninges and not the brain or spine parenchyma are affected, although in some cases dramatic meningeal enhancement is identified on T1 weighted images after the administration of paramagnetic contrast medium if the meninges are markedly affected (Mellema, L. M. and others 2002). Subtraction techniques, which allow the MR computer to obtain another set of images of areas of post contrast enhancement through post processing of the- pre and post-contrast T1 weighted images, can be useful to demonstrate this in less obvious cases. Therefore, a more practical and critical approach to these cases consists of using MR as the first imaging diagnostic tool, looking for confirmation of the clinical suspicion or, failing this, looking to rule out other possible differential diagnosis of pain and to make sure that there is no obvious reason why a CSF sample should not be taken (for instance, in cases of atlanto axial instability, small fractures of the cranial cervical vertebrae, etc). Although these two examples correspond to real and relatively common clinical scenarios, it is very important to understand that there will be many other inflammatory/ infec-

tious conditions affecting the central nervous system that can be more readily diagnosed with radiographs and especially with MRI. The latter is, however, superior to the former in most cases and especially when trying to diagnose intracranial pathology. As mentioned previously, the author does not have clinical experience working with neuro-CT and therefore very little will be included here regarding the use of this technique. Other references, however, also support the fact that MR is superior to CT to evaluate the CNS parenchyma (Dennis, R. 2003). Radiography-myelography can be useful to diagnose cases of discospondylitis, spondylitis and some cases of vertebral canal empyema. - Dyscospondylitis: the typical radiographic pattern of this pathology has already been explained. MRI can detect areas of abnormal disc intensity signal and/or areas of post contrast enhancement in the region of the intervertebral disc, the vertebral endplates, the vertebral canal and the perivertebral soft tissues, before the more obvious end plate changes are identified. Further tests will be needed to try to identify the underlying infectious agent and decide the best course of action, however. - Spondylitis: usually associated with new bone formation affecting the ventral aspect of one or more vertebra(e). A radiographic differential diagnosis would be metastatic spread of a caudal abdominal (prostate, urethral, anal sac glands, etc) tumour to the caudal lumbar vertebrae. In other areas of the spine, infectious (more likely bacterial) causes should be investigated. Typical causes would be infection associated with a tracking foreign body, bite wounds or iatrogenically introduced infections. MR may not be needed to detect the periosteal reaction, but can be very useful to assess the degree of soft tissue involvement associated with it and can be especially useful in cases where a discharging sinus has developed. - Empyema (septic process affecting the epidural space in this case) can be seen (although not automatically diagnosed) on myelograms, especially if discospondylitis is associated with multifocal or diffuse extradural lesions (Lavely, J. A. and others 2006). However, cases without concurrent discospondylitis and with focal compressive lesions can also be sometimes identified on myelograms and therefore this uncommon but important differential diagnosis needs to be considered in cases with marked spinal pain and fever and that myelographic finding. MRI is considered superior in humans for the diagnosis of this disease, and, in addition, is commented that myelography


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could potentially allow for the spread of the pathology into the subarachnoid space and therefore it would make sense to avoid myelography in this clinical scenario, if MRI is available. In addition to the already mentioned pathologies, MRI will also be useful to diagnose: - Inner ear disease: usually an extension of middle ear disease and readily diagnosed with MRI through loss of the normal hyperintense signal of the inner ear structures on T2 weighted images (Allgoewer, I. and others 2000; Benigni, L. and others 2006; Dvir, E. and others 2000; Garosi, L. S. and others 2000; Garosi, L. S. and others 2003; Lamb, C. R. and others 2000) - Intracranial extension of inner ear disease (which can be dramatic in certain cases). - Some cases of granulomatous meningoencephalomyelitis, necrotising encephalitis and some cases of infectious encephalitis, especially if associated with a focal mass lesion (abscess or fungal granuloma). Applying the equivalent to the radiographic roentgen signs (number, size, shape, position, margination, radiopacity, plus or minus function and progression of the signs over time, but changing radiopacity for intensity pattern) one could very broadly summarise the general pattern of inflammatory/infectious pathologies (except in cases of discospondylitis, meningitis, dramatic inner ear infections, abscesses or granulomas) as multifocal intraparenchymal lesions with far less well defined margins than those seen with the majority of tumours and with a general intensity pattern that could be summarised as follows: the lesions will tend to be hyperintense to the surrounding brain or cord parenchyma on T2 based sequences (T2 weighted and T2 Flair) but iso- to slightly hypointense on gradient echo and T1 weighted sequences, showing a variable pattern of enhancement after the administration of paramagnetic contrast medium. The final diagnosis therefore usually requires histopathology, although a complete CSF analysis, including also other ancillary tests like serology or PCR for distemper, toxoplasma and neospora in dogs and Felv, FIV, toxoplasma and coronavirus in cats to try to identify infectious conditions, can help to reach a diagnosis. Care must be applied not to jump into a conclusion that a multifocal pattern is going to be always inflammatory or infectious, as multiple well defined masses could be seen with metastases and multiple ill defined lesions with the general pattern described above could be seen with CNS lymphoma. Slightly more typical patterns can be seen with cases of necrotising encephalitis (Pug, Yorkshire terrier, Maltese, potentially Pekingese) (Ducote, J. M. and others 1999; Kuwabara, M. and others 1998; Lotti, D. and others 1999), granulomatous meningoencephalomyelitis (consider this differential in a middle aged female dog of a terrier breed) (Ryan, K. and others 2001) and FIP in cats. Less frequently, eosinophilic encephalitis can sometimes be seen. With necrotising encephalitis diffuse areas of abnormal signal (usually hyper on T2W, hypo on T1W, with no or faint enhancement) are detected affecting the white matter of the forebrain due to the presence of underlying necrosis and

inflammation, which can also affect the neighbouring meninges. In the Maltese and Pug both grey and white matter are affected. Other references will quote that both grey and white matter will be affected on all three breeds. The brain stem can also be affected in the Yorkshire Terrier (Ducote, J. M. and others 1999). Three forms of granulomatous meningoencephalomyelitis can be seen: diffuse, focal or ocular forms. The intensity pattern will be similar to the previously described, although some reference will mention that contrast enhancement may be a more consistent feature because of the perivascular location of the abnormality at an histopathological level and the fact that the lesions tend to affect the white matter (Ryan, K. and others 2001). Focal lesions are frequently seen affecting the brain stem and are impossible to differentiate from neoplasia based purely on imaging. A pattern of marked periventricular enhancement after contrast administration can be seen in some cases affected by FIP.

References Allgoewer, I., Lucas, S. & Schmitz, S. A. (2000) Magnetic resonance imaging of the normal and diseased feline middle ear. Vet Radiol Ultrasound, 41, 413-418. Benigni, L. and Lamb, C. R. (2006) Diagnostic imaging of ear disease in the dog and cat. In Practice, 28, 122-130. Dennis, R. (2003) Advanced imaging: indications for CT and MRI in veterinary patients. In Practice, 25, 243-254. Ducote, J. M., Johnson, K. E., Dewey, C. W., Walker, M. A., Coates, J. R. & Berridge, B. R. (1999). Computed tomography of necrotizing meningoencephalitis in 3 Yorkshire Terriers. Vet Radiol Ultrasound, 40, 617-621. Dvir, E., Kirberger, R. M. & Terblanche, A. G. (2000) Magnetic resonance imaging of otitis media in a dog. Vet Radiol Ultrasound, 41, 46-49. Garosi, L. S., Dennis, R. & Schwarz, T. (2003) Review of diagnostic imaging of ear diseases in the dog and cat. Vet Radiol Ultrasound, 44, 137-146. Garosi, L. S., Lamb, C. R. & Targett, M. P. (2000) MRI findings in a dog with otitis media and suspected otitis interna. Vet Rec, 146, 501-502. Kuwabara, M., Tanaka, S. & Fujiwara, K. (1998) Magnetic resonance imaging and histopathology of encephalitis in a Pug. J Vet Med Sci., 60, 1353-1355. Lamb, C. R. and Garosi, L. S. (2000) Two little ducks went swimming one day. Vet Radiol Ultrasound, 41, 292. Lavely, J. A., Vernau, K. M., Vernau, W., Herrgesell, E. J. & LeCouteur, R. A. (2006) Spinal Epidural Empyema in Seven Dogs. Veterinary Surgery, 35, 176-185. Lotti, D., Capucchio, M. T., Gaidolfi, E. & Merlo, M. (1999) Necrotizing encephalitis in a Yorkshire Terrier: clinical, imaging, and pathologic findings. Vet Radiol Ultrasound, 40, 622-626. Mellema, L. M., Samii, V. F., Vernau, K. M. & LeCouteur, R. A. (2002) Meningeal enhancement on magnetic resonance imaging in 15 dogs and 3 cats. Vet Radiol Ultrasound, 43, 10-15. Ryan, K., Marks, S. L. & Kerwin, S. C. (2001) Granulomatous meningoencephalomyelitis in dogs. Compendium on Continuing Education for the Practicing Veterinarian, 23, 644-651.

Author’s Address for correspondence: Llabrés-Díaz, Francisco J. Davies Veterinary Specialists, Manor Farm Business Park, Higham Gobion, Herts, UK


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Detection of proteinuria - how to perform and interpret screening tests to detect proteinuria in dogs and cats George E. Lees Med Vet, MS, Dipl ACVIM, College Station, Texas, USA

Detection of proteinuria is important for at least 2 reasons. First, recent data have shown that proteinuria is associated with untoward clinical outcomes in both dogs and cats. That is, detection of proteinuria identifies animals that are at increased risk for life-threatening illnesses. Secondly, there is emerging evidence to suggest that treatment of proteinuric dogs and cats with medical interventions that reduce the magnitude of their proteinuria improves their clinical outcomes. Thus, proper management of animals with proteinuria is clinically consequential and begins with accurate detection of proteinuria using screening tests that are performed and interpreted correctly.

investigating the cause of illness in a sick animal, and (b) when performing a routine health evaluation in an apparently healthy animal. In addition, animals (especially dogs) with chronic illnesses that are known to often become complicated by proteinuric renal disease should be tested for proteinuria at ≤ 6-month intervals. Similarly, periodic screening for proteinuria aids early detection of renal disease in apparently healthy animals that are known to be ‘at risk’ for development of glomerular disorders (eg, dogs that might have an inherited glomerular disease).

TESTS FOR PROTEINURIA PERFORM A COMPLETE URINALYSIS

Dipstick colorimetric test

The first important point is that tests to screen for proteinuria should always be performed in conjunction with a complete urinalysis (ie, examination of physiochemical properties including specific gravity by refractometry and dipstick colorimetric tests, as well as microscopic examination of urine sediment). There are numerous reasons why this is important. First of all, a complete urinalysis also screens for some important non-urinary diseases (eg, diabetes mellitus), as well as for evidence of several types of lower urinary tract disease (eg, bacterial urinary tract infection, urolithiasis, neoplasia) that occur commonly in dogs and cats. These latter conditions are just as important to the urinary tract health of these animals as proteinuria, and they often are clinically occult (ie, not manifested by clinical signs) when they are nonetheless detectable by abnormal urinalysis findings (eg, hematuria, pyuria, and/or microscopic bacteriuria). Finally, even when considering only issues related to testing for proteinuria, results from other parts of the urinalysis (especially the specific gravity and sediment findings) make important contributions to the initial interpretation and assessment of all screening tests for proteinuria.

This test has the great advantages of being relatively simple, inexpensive, and already in common use as a component of conventional urinalyses. This reagent pad test is based on the phenomenon called the “protein error of pH indicator dyes.” Fundamentally, the test is based on the ability of amino groups of proteins to bind with and alter the color of some acid-base indicators even though the sample pH us kept constant by a buffer that the test pad also contains. Because albumin has more free amino groups available to react with the indictor dye than other proteins, the dipstick test mainly detects albumin in the urine, rather than other proteins (eg, globulins, Bence Jones proteins, mucoproteins). The lower limit of sensitivity for the urine dipstick test for proteinuria is about 30 mg/dL. The greatest shortcoming of the dipstick test for proteinuria is its poor specificity in both dogs and cats. That is, the test often gives false-positive results. In a recent study reported by Grauer and colleagues, for example, the specificity of dipstick tests as compared with quantitative speciesspecific immunoassays for albumin was 69% (31% falsepositives) in dogs and only 31% (69% false-positives) in cats. When urine samples with an alkaline pH (≥ 7.5) and/or hematuria (≥ 10 RBC/hpf), pyuria (≥ 5 WBC/hpf), or bacteriuria were excluded from the analysis, specificity improved to 84% in dogs and 55% in cats. Thus, even under the best of circumstances, a positive dipstick reaction for protein in cat urine actually was a true-positive result only slightly more than half the time (and, under all circumstances, less than one-third of the time). The reason for such a high rate of false-positive dipstick reactions in urine of dogs and cats is that the high concentration and/or alkaline

WHEN TO SCREEN FOR PROTEINURIA The general recommendation is to perform a complete urinalysis, with attention to detection of proteinuria if it is present, in all of the same circumstances when you are prompted to perform comprehensive laboratory testing (eg, complete blood count and/or serum biochemical profile) for a dog or cat. This usually occurs in 1 of 2 settings; (a) when


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pH of urine produced by these species often exceeds the buffer capacity in the reagent test pads (which were formulated for human urine). The urine dipstick colorimetric test has a couple of other short-comings that should be considered. First, the actual ‘reading’ is somewhat operator dependant. That is, when the test is performed manually, different people may judge the color change differently. In addition, discoloration of the urine may alter the apparent color change of the reagent pad. One potential solution to these problems is to use an automated device to ‘read’ the urine dipstick. Such a device standardizes the colorimetric assessment, and the urine dipsticks that are designed for use with such devices include a ‘reference pad’ that is used to adjust the assessment for any ‘background’ discoloration of the sample. Yet another potential short-coming of the dipstick is that it does not detect the low, but nonetheless abnormal, amounts of urine albumin that are termed ‘microalbuminuria’ (ie, albumin concentrations in the 1 to 30 mg/dL range). This issue will be discussed subsequently under the heading of species-specific immunoassays for albuminuria.

Sulfasalicylic acid turbidometric test The sulfasalicylic acid (SSA) turbidometric test also is relatively simple and inexpensive. Like the dipstick, the SSA test is semiquantitative (results are reported as neg, trace, 1+, 2+, 3+, or 4+), but the SSA test is both more sensitive and more specific than the dipstick. Indeed, because of its greater specificity, most large veterinary clinical pathology laboratories (eg, commercial labs, veterinary teaching hospital labs) routinely use the SSA as a ‘back-up’ test for proteinuria. Whenever the dipstick is positive, a SSA test is performed on the sample to determine whether the result is a true-positive (SSA also positive) or a false-positive (SSA negative). The SSA turbidometric test is conducted by mixing equal volumes of urine supernatant and a 5% solution of sulfasalicylic acid in a clear, glass test tube. The test is based on the fact that the acid pH of the SSA solution will cause the proteins to precipitate, causing turbidity that is approximately equal to the amount of protein in the urine. The amount of turbidity is graded (ie, negative to 4+, as above) by an observer, using either descriptive (written) or visual standards. Thus, although the SSA test is less convenient than the dipstick and it also is somewhat ‘operator dependent’ (ie, different observers might not always grade the turbidity the same), it has the advantage of being a much more specific test for proteinuria. In addition, the SSA is more sensitive than the dipstick; the lower limit of detection for the SSA test is about 5 mg/dL, and it also will detect Bence Jones proteins in the urine.

Species-specific immunoassay for urine albumin The newest methods for screening dog and cat urine for abnormal protein content utilize species-specific anti-albumin antibodies in semi-quantitative or quantitative immunoassays. These tests are very sensitive and very specific; they just detect albumin. However, albumin usually is the most abundant and diagnostically significant abnormal urine protein. The semi-quantitative tests (eg, E.R.D.Screen Urine Tests, Heska, Ft. Collins, CO, USA) are intended for point-of-care testing and are calibrated mainly for detection of microalbuminuria (ie, urine albumin concentration in the 1-30 mg/dL range after diluting the urine to a standard specific gravity of 1.010). However, the ‘high positive’ result for the semi-quantitative test usually indicates overt albuminuria (ie, an albumin concentration > 30 mg/dL), and the test does not give further information about different magnitudes of albuminuria much greater than that concentration. Species-specific anti-albumin antibody reagents also have been adapted to quantitative (eg, ELISA) immunoassays that are available from some commercial laboratories. Such tests (with dilution, as needed, to keep the concentration of albumin in the sample that is tested within the dynamic range of the assay) can provide a reasonable estimate of the actual urine albumin concentration across the full range of possible results (ie, in both the microalbuminuric and overtly albuminuric ranges). When screening for proteinuria, the semi-quantitative (ie, point-of-care) tests for microalbuminuria mainly have two potentially important applications. One such application is for testing of urine samples that were negative by dipstick analysis to detect microalbuminuria in samples in which that low, but nonetheless abnormal, amount of proteinuria would otherwise escape detection. The implications of isolated microalbuminuria (ie, microalbuminuria without any other abnormal findings) will be discussed in a subsequent lecture. A second application of the test is for follow-up testing of samples that have yielded weakly positive (equivocal) dipstick reactions. That is, because immunoassays for urine albumin are highly specific tests, they also can be used (ie, like the SSA test, as described above) to discriminate between true-positive and false-positive dipstick reactions.

Recommended reading 1.

2.

Osborne CA, Stevens JB. Urinalysis: A Clinical Guide to Compassionate Patient Care. Bayer Animal Health, Shwanee Mission, Kansas, USA, 1999, pp 111-116. Lees GE, Brown SA, Elliott J, Grauer GF, Vaden SL. Assessment and management of proteinuria in dogs and cats: 2004 ACVIM Forum Consensus Statement (Small Animal) J Vet Intern Med 2005;19:377385.


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Assessment of proteinuria – how to localize the origin of proteinuria and evaluate its persistence and magnitude George E. Lees Med Vet, MS, Dipl ACVIM, College Station, Texas, USA

Proteinuria not only must be detected, it must be assessed appropriately to determine its implications for the patient. Assessment of proteinuria involves investigation of three key elements: • Localization – the process of determining the likely site or mechanism that is causing the proteinuria • Persistence – determining whether or not proteinuria persists over time requires repeated testing. • Magnitude – use of appropriate quantitative methods to obtain reliable indices of the magnitude of urine protein loss is crucial for clinical decision making and for monitoring trends, including response to treatment if therapy is indicated

Localization of proteinuria Proteinuria has numerous possible causes. The recommended scheme for classifying causes of proteinuria is outlined in Table 1. One attribute of this classification scheme is that it provides a specific correlate for each step in the recommended diagnostic process for localization of proteinuria in dogs and cats. When an excessive amount of protein is detected by urinalysis, localization of the likely source of the proteinuria involves these sequential steps:

Table 1 - Categories of causes of proteinuria Prerenal – due to abnormal plasma content of proteins freely filtered by normal glomeruli - Normal proteins (not usually free in plasma) - Abnormal proteins (eg, Bence Jones proteins) Renal – due to abnormal renal handling of normal plasma proteins Functional – mild, transient proteinuria that is not caused by lesions of renal parenchyma Pathological – proteinuria due to structural or functional lesions within the kidneys Glomerular – ie, altered glomerular permselectivity Tubular – ie, reduced tubule reabsorption of filtered proteins Interstitial – ie, exudation of proteins from peritubular capillaries into the urine Postrenal – due to entry of protein into the urine after it enters the renal pelvis - Urinary; due to hemorrhage or exudation from the walls of the urine excretory pathway - Extraurinary; due to secretions, hemorrhage, or exudates emanating from the genital tract or external genitalia

Step 1. To exclude “extraurinary postrenal,” evaluate urine obtained by cystocentesis. Step 2. To exclude “prerenal,” evaluate plasma protein concentration (seeking evidence of dysproteinemia that might explain the proteinuria. If the proteinuria is not prerenal and not extraurinary, it is “urinary,” and the next task is to evaluate the urine sediment for evidence of inflammation or hemorrhage. Step 3. To rule in “urinary postrenal,” find evidence of inflammation or hemorrhage, with or without clinical signs of excretory pathway disease (eg, pollakiuria) but without apparent clinical signs of nephritis. Step 4. To rule in “pathologic, interstitial renal,” find evidence of inflammation associated with clinical signs of active nephritis (eg, tender kidneys, fever, renal failure).

If the proteinuria is “urinary” and not associated with urine sediment evidence of inflammation or hemorrhage, the remaining possibilities are: • “functional renal,” which is low-grade (ie, of low magnitude, mild, or “light”) and transient. • “pathologic, tubular renal,” which also is low-grade but typically persistent. In some cases such proteinuria is accompanied by normoglycemic glucosuria, abnormal electrolyte excretion, or both that indicate presence of multiple tubular reabsorptive abnormalities and help to identify the tubular origin of the proteinuria, but tubular proteinuria often occurs in the absence of such findings. • “pathologic, glomerular renal,” which can be of any magnitude from very low-grade (eg, microalbuminuria alone) to very substantial (ie, nephritic range) but also typically is persistent.


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Consequently, the final steps in the localization process are: Step 5. To rule in “pathologic, glomerular renal” if the magnitude of proteinuria is sufficiently high to justify this conclusion (eg, with a urine protein to creatinine (UPC) ratio ≥ 2.0 in dogs and cats). Step 6. To rule in “functional renal” if the proteinuria is mild and proves, with follow-up evaluation, to be transient. Step 7. To rule in “pathologic, glomerular renal” (albeit low-grade) or “pathologic, tubular renal” if the proteinuria is mild but proves, with follow-up evaluation, to be persistent. These 2 types of proteinuria cannot be reliably distinguished from one another by conventional testing that is currently available unless or until animals with “pathologic, glomerular renal” experience an increase in the magnitude of proteinuria that is sufficient to rule out “pathologic, tubular renal” (ie, UPC ≥ 2.0, as in Step 5).

Persistent renal proteinuria Proteinuria that is localized as being of “renal” origin and also is of sufficient magnitude to be self-evidently due to altered glomerular permselectivity (UPC ≥ 2.0, but the greater the magnitude of proteinuria, the more compelling the evidence) can be presumed to be persistent. However, when the magnitude is proteinuria is mild (UPC < 2.0), it is necessary to demonstrate that the abnormality is persistent to avoid undue concern about proteinuria that actually is functional and thus inconsequential, albeit of renal origin. Persistence of proteinuria is properly demonstrated by finding the abnormality on 3 or more occasions, 2 or more weeks apart. Additionally, comparison of serial values requires appreciation of the range of day-to-day variation that may be observed in animals with generally stable proteinuria. In animals (especially dogs) with heavy proteinuria, it is not necessary to wait weeks before retesting, but it is still advisable to evaluate several independent samples (ie, obtained on separate days) to more accurately establish the prevailing magnitude of proteinuria.

Assessing the magnitude of persistent renal proteinuria The clinical implications of persistent renal proteinuria depend entirely on the magnitude of proteinuria and whether or not that magnitude is changing. Therefore, proper use of reliable quantitative indices of the amount of daily urine protein loss is a crucial component of the assessment of proteinuria. Determination of the total amount of protein in all the urine produced by a patient during a 24-hour interval is the

‘gold standard’ method for assessing magnitude of proteinuria. However, this method has many drawbacks that preclude its routine use in clinical veterinary practice. The alternative approach, which is now well established for veterinary applications, is to measure the concentration of protein (either all proteins or just albumin) in the urine, and then adjust that concentration in a way that compensates for differences in daily urine volume to produce an index that is proportional to the animal’s total daily urine protein loss (ie, magnitude of proteinuria). There are 2 ways to adjust the concentration. One way is to divide the protein concentration by the creatinine concentration in the same urine sample. When this is done for total urine protein (measured in mg/dL) and urine creatinine (also measured in mg/dL), the result is a unit-less value that is called the urine protein to creatinine ratio (UPC). When this is done for albumin (in mg/dL) and creatinine (in mg/dL), the result normally is such a small fraction that the conventional practice is to multiply the result by 1,000 and report the index as xx mg/gm (mg of albumin per gram of creatinine). The second way to adjust the urine protein concentration for variations in daily urine volume is to express the protein concentration only as the value that it would be at a standardized urine specific gravity of 1.010. This can be done either by diluting the sample to a specific gravity of 1.010 before it is assayed, or by measuring the protein (albumin) concentration and specific gravity in the original sample and then mathematically ‘correcting’ the concentration to the standard specific gravity (ie, 100 mg/dL in urine with 1.020 specific gravity would equate to a value of 50 mg/dL in that sample diluted to 1.010, and 90 mg/dL in urine with 1.030 specific gravity would equate to a value of 30 mg/dL when diluted to 1.010, and so on). Currently in veterinary medicine, the most conventional practice is to index total urine protein to urine creatinine (ie, the UPC ratio) and to index urine albumin to urine specific gravity, producing the ‘normalized’ urine albumin concentration (nUAlb) in mg/dL at a urine specific gravity of 1.010. Urine albumin concentrations in urine specimens with specific gravity values ≤ 1.010 are reported as measured in the original sample (ie, without any adjustment). The UPC is the most thoroughly studied and widely used index of magnitude of proteinuria in dogs and cats; most clinical recommendations are coupled to assessments of magnitude proteinuria using the UPC. An alternative approach may be to use indices based quantitative immunoassays of urine albumin, but that option has not yet been widely studied.

Recommended reading 1.

Lees GE, Brown SA, Elliott J, Grauer GF, Vaden SL. Assessment and management of proteinuria in dogs and cats: 2004 ACVIM Forum Consensus Statement (Small Animal) J Vet Intern Med 2005;19:377385.


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Investigation of persistent renal proteinuria how to evaluate animals that have persistent renal proteinuria to identify treatable underlying diseases or risk factors that promote renal disease progression George E. Lees Med Vet, MS, Dipl ACVIM, College Station, Texas, USA

Proper responses to persistent renal proteinuria are a series of escalating steps that depend on the magnitude of proteinuria and patient status (Fig. 1). • Monitor – refers to repeating 1 or more tests that have been done previously to detect changes with passing time. • Investigate – refers to performing new or additional tests to discover an underlying systemic disease or to define the animal’s renal disease more exactly. • Intervene – refers to prescribing dietary changes, use of pharmacologic agents, or both in an attempt to beneficially modify the course of disease or improve the animal’s health. Implementation of this approach of escalating responses should be sequential and inclusive. That is, one should only monitor (ie, not investigate or intervene) in circumstances that are the least compelling. But, in other more compelling circumstances, one should investigate and monitor (ie, but not intervene). This escalation (step up) might be immediate or sequential depending on the situation. Further, one should intervene as well as investigate and monitor in the most compelling situations, and again, this step up might be immediate or sequential depending on the circumstances. Importantly, correct use of this escalating approach precludes intervention (treatment) without appropriate investigation and monitoring, as well as investigation (especially invasive tests) without sufficient evidence, which might arise from monitoring, to justify the risk to the animal and the cost to the owner. Persistent renal proteinuria always should prompt action, but appropriate actions depend on the prevailing magnitude of proteinuria and clinical status of the patient. For a seemingly healthy, nonazotemic dog or cat with mild renal proteinuria (eg, persistent microalbuminuria or UPC values persistently ≥ 0.5 but < 1.0), for example, the appropriate response is to merely continue to monitor the animal’s condition. The purpose of prospective monitoring of such an animal is to detect worrisome trends (if they occur) in a timely manner, so that further investigation (and treatment, if indicated) can be pursued. The key point here is that not all patients in this category have progressive chronic kidney disease (actually, it is likely that the majority do not), and the animals that do not have progressive disease will not require further investigation nor benefit from treatment. However, if the proteinuria progresses to a higher magnitude (or is not

Figure 1 - Escalating, step-wise responses to proteinuria.

discovered until it has already progressed to such magnitude), further investigation and possibly treatment is warranted. The key point here is that the high or rising magnitude of proteinuria is a marker of progressive disease, which does need to be detected and treated as early as possible. Yet another indication that an animal’s renal disease is progressive is that it has already produced renal azotemia. Consequently, the magnitudes of proteinuria that should prompt further action are lower in azotemic animals than they are in nonazotemic animals.

What and how to monitor Animals with persistent renal proteinuria should be examined at regular intervals, but the appropriate length of time between rechecks depends on the circumstances. When important variables have not yet been characterized or are changing, rechecks may need to be scheduled as frequently as every 1-2 weeks. At the other extreme, when the animal’s condition is stable or under good control, rechecks may not be required more often than every 4-6 months. Each examination should include a review of the animal’s recent history (review of systems, medications, diet, etc.) and a thorough physical examination, including an accurate weight and careful assessment of body condition score. With


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regard to testing, the most important variables to monitor are systemic blood pressure, UPC, and serum creatinine concentration (SCr). Serial evaluation of SCr within a single animal is a reasonably good way to monitor for changing GFR, provided that the SCr values that are being compared are obtained when the animal is euvolemic (ie, normally hydrated) and using the same laboratory method. Progressive increases in SCr are noteworthy, even though the increments of change may be small (“creatinine creep”) and the values may initially be rising within the normal range. Serial evaluation of the UPC also is important, but small differences between sequential values may not indicate a real change in the animal’s prevailing magnitude of proteinuria. Studies of day-to-day variability of UPC values in dogs in cats with stable magnitudes of proteinuria have suggested that serial values probably need to differ by at least 35-50% in dogs and 90% in cats before they can be confidently interpreted to mean that an actual change in the magnitude of proteinuria has occurred. Finally, repeated evaluation of blood pressure (BP) is crucial for 2 reasons. First, even more so than for SCr and UPC, the animal’s prevailing systemic BP should be established by obtaining measurements on several occasions, partly to permit the animal to become acclimated to the procedure. Secondly and even more importantly, however, systemic hypertension is itself a treatable independent risk factor for renal disease progression, especially in highly proteinuric animals. Therefore, systemic hypertension is a common, but often clinically ‘silent’, complication of proteinuric nephropathies that must be carefully monitored and treated appropriately when it occurs in order to attain the best available clinical outcomes.

What and how to investigate

ly one that might be treatable. Seeking for an underlying disease generally is approached by a combination of screening each individual body system for any evidence of an abnormality using relevant physical examination techniques (eg, fundic exam), diagnostic imaging (eg, thoracic radiography and abdominal sonography), and laboratory testing (eg, comprehensive hematologic and biochemical profiles) with serologic testing for parasitic, viral, bacterial, rickettsial, protozoal, or fungal infections of geographic relevance. Another important decision is whether or not to include evaluation of a renal biopsy in the animal’s diagnostic investigation. Conventional light microscopic evaluation of renal biopsies often has accomplished little more than to discriminate between amyloidosis and ‘glomerulonephritis’ that is typically said to be ‘immune-mediated’ without any direct evidence (ie, from immunostaining or ultrastructural evaluation of the biopsy specimen) to substantiate that presumption. Historically, such information has proven to be of limited utility for refining prognosis or guiding therapy for dogs or cats with proteinuric nephropathies. However, there is reason to expect that evaluation of renal biopsies with more discriminating diagnostic methods will increasingly permit veterinarians differentiate types of glomerular disease with particular prognostic and/or therapeutic implications. This is especially needed in order to rationally formulate treatment protocols that are appropriately targeted for specific disease entities, rather than just treating all animals with glomerular disease with a single nonspecific ‘standard care’ therapeutic protocol (eg, diet change, ACE inhibitor, and low-dose aspirin).

Recommended reading 1.

Proteinuric nephropathies in dogs and cats often occur secondary to some underlying systemic infectious or non-infectious inflammatory disease or neoplasia. Consequently, one of the most important things to do when renal proteinuria is discovered is to carefully search for such a disease, especial-

2.

Lees GE, Brown SA, Elliott J, Grauer GF, Vaden SL. Assessment and management of proteinuria in dogs and cats: 2004 ACVIM Forum Consensus Statement (Small Animal) J Vet Intern Med 2005;19:377385. Vaden SL. Glomerular diseases. In Ettinger SJ, Feldman EC, Textbook of Veterinary Internal Medicine, ed 6, Elsevier Saunders, St. Louis, MO, 2005, pp 1786-1800.


50

Treatment of renal proteinuria how to treat animals with proteinuric nephropathies George E. Lees Med Vet, MS, Dipl ACVIM, College Station, Texas, USA

TREATMENT OF RENAL PROTEINURIA IN GENERAL The rationale for treating renal proteinuria can be considered on 2 levels. First, to the extent that proteinuria has direct toxic, pro-inflammatory or pro-fibrotic effects in kidneys, treatments that reduce proteinuria should ameliorate these harmful processes and thus slow renal disease progression and improve clinical outcome. Because the role of proteinuria as a direct cause of renal injury is still uncertain, however, this rationale for treating proteinuria remains unproven at the mechanistic level. On a second, more outcome-oriented, level (ie, focused on what happens, even if why it happens remains uncertain), all the available evidence from studies in human beings and animals suggests that the following statements are true: • In subjects with chronic kidney disease, greater proteinuria is associated with worse clinical outcomes. • In subjects with chronic kidney disease, certain treatments slow disease progression and improve clinical outcomes (ie, are “renoprotective”). • When renoprotective treatments are effective, they are associated with a reduction in magnitude of proteinuria as a response to treatment, especially in those subjects with greater magnitudes of proteinuria initially. This means that we should be treating animals with progressive forms of chronic kidney disease, especially those with greater magnitudes of proteinuria, with interventions that are intended to be renoprotective and that reduction of proteinuria should be one of the goals of such interventions. The use of proteinuria reduction as a therapeutic target is appropriate in this setting regardless of whether reduction of proteinuria is directly beneficial (because it reduces direct, protein-mediated injury) or it merely is associated with, and thus a marker of, other mechanisms by which the interventions are acting beneficially. Potentially renoprotective interventions that modulate proteinuria include administration of pharmacologic agents, especially drugs that block the renin-angiotensin-aldosterone (RAAS) system, as well as certain dietary modifications. Although reduction of proteinuria is an effect of each intervention, none of these interventions reduces proteinuria as its sole effect and even the mechanisms by which they reduce proteinuria are multiple and interacting. Moreover, each of the interventions has beneficial effects mediated mechanisms that are completely independent of effects on proteinuria. For example, angiotensin converting enzyme

(ACE) inhibitors decrease angiotensin-II (Ang-II) production, but ang-II has multiple effects. These include hemodynamic effects that both increase glomerular capillary pressure and decrease perfusion of peritubular capillaries. AngII also has a direct role in altering glomerular permeability to proteins and has numerous non-hemodynamic effects (eg, induction of cytokine release, activation of macrophages, stimulation of mesangial cell proliferation and mesangial matrix formation, etc.) that promote inflammation and fibrosis. Effects of ang-II on intra-glomerular capillary pressure and on capillary wall permselectivity increase proteinuria and ACE inhibitors reduce proteinuria by countering these effects. However, the renoprotective effects of ACE inhibitor administration might be importantly mediated by limiting the effects of ang-II that have nothing to do with reduction of proteinuria, per se (eg, by reducing peritubular hypoxia, or by limiting direct ang-II stimulation of pathways leading to inflammation and fibrosis). In addition, some dietary modifications (eg, restricting sodium intake, restricting protein intake) have effects that are mediated in part by altering RAAS activity. The multiple and interacting mechanisms by which renoprotective interventions work in vivo confound efforts to precisely define the role of proteinuria as a mediator of renal disease progression; however, this does not preclude effective use of proteinuria as a marker of therapeutic response. Therapeutic targeting of proteinuria requires serial evaluations of the magnitude of the proteinuria before and during treatment, and specification of appropriate proteinuria reduction goals. Use of the UPC is the recommended way to assess magnitude of proteinuria, but due to day-to-day variability of UPC values, consideration should be given to using the average of 2-4 UPC determinations (ie, on separate days) as the most reliable measure of an animal’s magnitude of proteinuria under the prevailing conditions (eg, baseline, during treatment, etc.). Specific, evidence-based guidelines for how long to wait in dogs or cats before evaluating response of proteinuria to treatment and for what the desired proteinuria reduction goal should be have not been promulgated. In one study, up to 4 weeks was required to achieve the full effects of diet changes on the UPC in dogs. In another study, re-evaluation of UPC after 30 days of enalapril treatment was used to determine whether the enalapril starting dose was sufficient or needed to be increased. Thus, it is reasonable to suggest that evaluation of the UPC response to an anti-proteinuric intervention should begin about 1 month after treatment is started; however, there is some evidence


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suggesting that in human beings the maximum anti-proteinuric effect of ACE inhibitor therapy may take up to 3 months to develop. Whether proteinuria reduction should be targeted to achieve a specified UPC value (eg, UPC < 2.0) or a specified proportional reduction of the pre-treatment value (eg, UPC < 50% of initial value) is unknown. A 50% reduction of UPC was used as the therapeutic target in the clinical trial enalapril treatment of proteinuric dogs that demonstrated beneficial effects, so it is reasonable to use that amount of reduction as the minimum goal, at least until more data become available. However, it may well be that the greater the reduction of proteinuria (ie, the more closely that the UPC approaches the normal reference range) the better the effect on clinical outcome, but data from clinical studies of dogs and cats addressing this issue are not available.

often recommended for clinical use in dogs. Enalapril (0.5 mg/kg q12h) also has been shown to reduce proteinuria and slow the progression of histologic lesions in dogs with the remnant kidney model of renal failure. By contrast administration of benazepril (at several doses up to 1-2 mg/kg q24h) had no effect on proteinuria in cats with the remnant kidney model of renal failure, but benazepril treatment did reduce systolic blood pressure and favorably altered intrarenal hemodynamics. However, initial results from a clinical trial in cats with spontaneous renal diseases indicated that benazepril treatment (0.5-1.0 mg/kg q24h) exhibited antiproteinuric effects but that the treatment significantly prolonged survival only a small subgroup of cats with higher levels of proteinuria (UPC > 1) initially.

Dietary Modifications SPECIFIC TREATMENTS OF RENAL PROTEINURIA IN DOGS AND CATS Angiotensin Converting Enzyme Inhibitors In human beings, several large controlled clinical trials using different ACE inhibitors and involving patients with various nephropathies have demonstrated renoprotective effects and improved clinical outcomes attributable to this intervention. Although ACE inhibitors have many effects, multi-variant analyses of the results of such studies have shown ACE inhibitors to have beneficial effects that are associated with their anti-proteinuric effects and are independent of their anti-hypertensive effects. Effects of ACE inhibitors have been studied in dogs and cats with naturally occurring and experimentally induced renal diseases. A randomized, placebo-controlled trial of enalapril treatment in dogs with idiopathic glomerulonephritis (UPC > 3.0, serum creatinine concentrations < 3.0 mg/dL) has been reported. The enalapril-treated dogs received the drug (0.5 mg/kg q1224h) for 6 months, and all dogs in the study were also treated with a diet modification and low-dose aspirin. Enalapril treatment lowered systolic blood pressure, reduced proteinuria, and improved outcome (ie, reduced the frequency of serum creatinine concentration increases ≥ 0.2 mg/dL after 6 months of treatment) in this study. In another study, enalapril (2 mg/kg q12h) reduced proteinuria and slowed disease progression in dogs with X-linked hereditary nephropathy (XLHN). In a different study of dogs with XLHN, however, a lower enalapril dose [5 mg orally q12h (up to a maximum dose of 2 mg/kg), which yielded an average starting dose of 1.85 mg/kg in 1-month-old puppies that diminished to an average dose of 0.22 mg/kg q12h as the dogs grew larger during the study] had no effect on proteinuria or disease progression. Taken together, these 2 studies in dogs with XLHN show that the dose of ACE inhibitor that is administered can have important effects on the results obtained; however, the dose that was effective in 1 study was higher than what is

Protein intake is one dietary influence on the magnitude of proteinuria observed in animals with glomerular proteinuria. In general, feeding more protein increases the urinary protein loss, and feeding less protein reduces the urinary protein loss, but protein and caloric malnutrition must be avoided. The optimum dietary protein intake for dogs and cats with proteinuric renal diseases has not been well defined, especially in the context of concomitant pharmacologic therapy (eg, ACE inhibitor administration). Moreover, effects on renal disease progression, if any, that arise from making dietary adjustments that limit proteinuria in dogs or cats that have heavy proteinuria have not been studied. In contrast, dietary intake of lipids, particularly the relative and absolute amounts of dietary n-3 versus n-6 fatty acids, has been shown to affect proteinuria and renal disease progression in dogs.

Recommended reading 1.

2.

3.

4.

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Staphylococcus as a pathogen David H. Lloyd Professor B, Med Vet, PhD, FRCVS, Dipl ECVD, Herts, UK

Introduction

Virulence determinants

The staphylococci are gram-positive, catalase positive, coccoid bacteria that are typically found growing in clusters although they may also appear a single cells, pairs or short chains.1,2 They are able to colonise the skin and mucous membranes of a wide variety of animals. Over 30 species of staphylococci are recognised. They are divided into the pathogenic staphylococci, which are coagulase-positive, and the coagulase-negative staphylococci but some species are coagulase-variable. In dogs and cats, the most common pathogenic species is Staphylococcus intermedius although Staphylococcus aureus is sometimes involved and is increasingly found in the form of methicillin-resistant S. aureus (MRSA).3,4,5 Staphylococcus hyicus, most commonly recognised as a pathogen of the pig, is involved occasionally in small animals.3 Species not generally regarded as pathogenic but which may play a role as pathogens include S. lugdunensis, S. schleiferi and S. felis. The role of such organisms may have been underestimated in the past.6,7,8 The staphylococci are generally greyish white in colour and form circular, smooth, shiny colonies on blood agar; S. aureus produces a yellow pigment and colonies may appear golden although pigment production may be delayed and recognition of weak pigment production on coloured media may be difficult. Biochemical and morphological differentiation of S. intermedius and S. aureus can be difficult and incorrect identification sometimes occurs.9,10 This presentation will examine the mechanisms involved in staphylococcal pathogenicity, focusing on S. aureus and S. intermedius and dealing with recent discoveries relating to the interaction of these two species and the modes of control of virulence factor production.

Virulence determinants11,12 allow the organism to colonise, accumulate in sufficient numbers and elicit host tissue damage whilst avoiding the immune and non-specific defences of the host.13 In essence, they are survival mechanisms but they are not essential to growth and survival. When these determinants cause sufficient damage and the host’s defence mechanisms are overwhelmed, disease occurs. Relatively little is known about the pathogenesis of S. intermedius infection in dogs and cats. However, some differences have been demonstrated between the characteristics of isolates from cases of canine skin infection and those from healthy carriers.14,15,16 Nevertheless, S. intermedius produces a diverse arsenal of virulence factors that are likely to be causative factors of staphylococcal infection in small animals. The virulence components are thought to share overlapping roles, acting either in concert or alone. Based on studies of S. aureus, considerable knowledge is available about their contribution to the development of infection in humans.

Morphological components Components of the surface of the staphylococci can be involved in promoting virulence and induction of disease. Most staphylococci are able to produce capsules, which can protect them by inhibiting chemotaxis and phagocytosis involving polymorphs, and can also facilitate adherence; this seems to be of particular importance in promoting attachment to plastics by coagulase-negative staphylococci. The cell wall itself, which is largely composed of peptidoglycan, may also bear clumping factor (bound coagulase) and protein A in pathogenic staphylococci.2

Virulence factors of S. aureus and S. intermedius • Staphylocoagulase promotes coagulation of serum. Purified coagulase from S. intermedius coagulates human, canine and rabbit fibrinogen but not that of rats or guinea pigs.17 • Peptidoglycan from the cell walls can stimulate production of endogenous pyrogens, promote release of IL- 1, attract polymorphs and activate complement. Peptidoglycan and lipoteichoic acid can act together to induce shock.2 • Cell wall bound protein A is capable of binding Fc receptors and preventing antibody-mediated immune clearance whilst extracellular protein A can form immune complexes and deplete complement levels. There is controversy about the frequency of cell wall bound and secreted protein A amongst S. intermedius isolates.18,19 • Leucotoxin is a member of the staphylococcal synergohymenotropic toxin family and is produced by both S. intermedius and S. aureus. It acts by forming lethal transmembrane pores in target mammalian cells.20 • Enterotoxins of staphylococci (SE) are heat stable, pyrogenic toxins which share the ability to act as superantigens but differ in other characteristics. Types A, B, C, D, E, G, H, I, and J are recognised. Data regarding the production of these toxins by S. intermedius are limited.21,22


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• Haemolysins are cytotoxic agents that can damage erythrocyte cell walls. Most isolates of S. intermedius produce beta and delta haemolysins but alpha haemolysin has not been demonstrated.18 However, their exact role is poorly understood.23 • Exfoliative toxin is a cause of staphylococcal scalded skin syndrome in humans. It has been demonstrated in canine S. intermedius derived from pyoderma and shown experimentally to cause exfoliation in dogs.24,25

by adjusts its expression of virulence genes to facilitate species-specific and intraspecies cell-cell communication.26 It is likely that this mechanism is involved in determining when S. intermedius becomes pathogenic.

Bibliography 1. 2.

What Induces Disease?

3.

Although animals commonly carry pathogenic staphylococci, cutaneous infection is infrequent because the skin is very resistant to disease. Application of cultures to the skin rarely causes disease unless the skin is damaged. Cutaneous resistance is provided by a combination of surface barrier function, surface environmental conditions and cell to cell communication enabling early antimicrobial responses by the skin. These factors limit colonisation and microbial proliferation at the surface of the skin. When these defence mechanisms are impaired, the skin may become susceptible to colonisation by pathogens and if such pathogens are able to multiply, they may then begin to produce virulence factors, causing further damage and the release of nutrients from the damaged tissue. A vicious circle is now established which can promote further multiplication and invasion. In superficial staphylococcal infection, induction of pruritus commonly occurs, leading to self-trauma and further microbial invasion.

4.

Quorum sensing Quorum sensing is a phenomenon in which cells express particular characteristics only when population densities exceed certain levels. In S. aureus, toxin production is initiated by quorum sensing via the agr system through signalling molecules generated as cell density increased. Our studies have confirmed the presence of sequences in S. intermedius related to the agr of S. aureus and have shown that expression of RNAIII (effector of the agr system) and two of the S. intermedius exotoxins, leukotoxin and enterotoxin C, is initiated by an environmental signal generated during bacterial growth. In contrast, S. intermedius was insensitive to substances produced by S. aureus.26 This suggests that S. intermedius uses quorum sensing to monitor proximity of other signal-producing cells and there-

5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.

13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23.

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Author’s Address for correspondence: David H. Lloyd Department of Veterinary Clinical Sciences, Royal Veterinary College, Hawkshead Campus, North Mymms, Herts, UK


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Canine pyoderma David H. Lloyd Professor B, Med Vet, PhD, FRCVS, Dipl ECVD, Herts, UK

Introduction

Surface Pyoderma

Dogs are susceptible to cutaneous bacterial infection. These diseases can be classified quite satisfactorily according to the depth of infection. So-called “surface” infections affect only the superficial part of the epidermis, are normally restricted to the interfollicular regions or mouths of hair follicles and normally do not cause formation of pustules. Examples are acute moist dermatitis, “skin fold pyoderma” and bacterial overgrowth (Table 1). “Superficial” infections involve infection of the epidermis with the formation of pustules. Impetigo causes interfollicular pustules whereas superficial pyoderma infects both the hair follicles and the interfollicular regions. Deep pyoderma occurs when infection reaches the dermis leading to furunculosis, cellulitis, granulomatous disease and panniculitis. The term “pyoderma” is used quite loosely and does not imply that pus is visible in all such cases. Indeed, conditions such as microbial overgrowth tend to have infiltrates, which are primarily mononuclear.

These are diseases in which changed conditions at the cutaneous surface degrade surface barrier function and promote bacterial proliferation; pruritus is an important effect. In acute moist dermatitis (pyotraumatic dermatitis) selfinflicted damage is the trigger; this is commonly a consequence of flea allergy or other causes of pruritus. The damage is inflicted by biting and licking and thus transfers oral flora to the degraded skin. Continuing damage ensures that the disease progresses. Microbes involved include typical oral flora but pathogenic staphylococci, especially S. intermedius are still the predominant isolates. Diagnosis is based on typical clinical signs and history. Careful examination of the lesions, after cleaning, is essential in case underlying superficial or deep pyoderma, including pyotraumatic folliculitis and furunculosis, is present. In such cases treatment must be directed at the deeper infection. Skin fold pyoderma results from damage caused by rubbing coupled with a moist environment. This is a chronic effect and reduced barrier function caused by rubbing coupled with changes in secretion by the cutaneous glands and contamination by other secretions (e.g. saliva, tears) provide a warm moist environment favouring microbial proliferation. Pathogenic staphylococci tend to predominate but gram-negatives and commonly, Malassezia pachydermatis, may be involved. The microbes promote irritation of the skin and rubbing or licking by the host; again a vicious circle is created. Diagnosis is based on clinical signs. Care must be taken to exclude deeper infections and also demodecosis which is sometimes present.

Infecting Organisms

Pathogenic staphylococci are involved in the great majority of cases of canine cutaneous infection. Staphylococcus intermedius can be isolated in over 90% of these. Occasionally, other pathogenic staphylococci are present including S. aureus and S. hyicus. Increasingly, there are reports of isolation of both coagulase-positive and coagulase negative S. schleiferi in canine cutaneous infection. A variety of other bacteria may also be found in the lesions of canine Surface pyoderma pyoderma. Gram-negatives, such as • Acute moist dermatitis Proteus spp. and E. coli are probably Table 1. Classification • Skin fold pyoderma secondary invaders. Cutaneous infec1 of Canine Pyoderma • Microbial overgrowth tion by the other organisms, such as Superficial pyoderma the actinomycetes and mycobacteria, 1. Commonly both pathogenic • Impetigo (“puppy pyoderma”) is associated with exposure to sources staphylococci and Malassezia. • Mucocutaneous pyoderma of infection coupled with cutaneous Not strictly pyoderma as infil• Superficial spreading pyoderma wounds or intercurrent disease, which trate primarily mononuclear. • Superficial folliculitis pave the way for invasion through the 2. Very rare • Dermatophilosis2 skin or via the systemic route. Deep pyoderma The depth of the infection is probably determined by the severity of • Muzzle folliculitis & furunculosis the depression of immunity induced • Localised deep pyodermas (nasal, pedal & pressure by the underlying cause(s). These point pyodermas, pyotraumatic folliculitis & furunfactors probably permit proliferation culosis) of the staphylococci at the skin sur• Generalised deep pyoderma face promoting first colonisation • Bacterial granulomas and then infection.


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Microbial overgrowth may occur where there is disturbance to surface barrier function or greasiness at any site. It includes Malassezia dermatitis but sometimes is purely bacterial. This condition will be considered separately.

Superficial Pyoderma These diseases require cutaneous barrier function and immunity to be impaired to an extent which not only allows surface microbial proliferation but also permits invasion of the epidermis. Impetigo classically occurs in adolescent dogs and is probably caused by imbalance of physiological changes in the skin as the dog matures. The condition in young dogs involves pathogenic staphylococci; it is generally selfresolving as the dog matures but may require minimal therapy. In older dogs with endocrinopathy or other debilitating diseases a more severe syndrome is seen and may involve gram-negative bacteria (Pseudomonas, E. coli) as well. Diagnosis is based on the history and presence of non-follicular pustules containing bacteria. Folliculitis occurs when bacterial proliferation in the hair follicles leads to pustules within the hair follicle and follicular epidermis. It may be restricted to the mouth and upper part of the follicle but may extend more deeply. The papular and pustular lesions, which result, are typically markedly pruritic and selfinflicted damage may extend the infection and lead to furunculosis. In typical cases, S. intermedius or other pathogenic staphylococci are involved. Where there is marked self-trauma and in severe cases, secondary infection with gram-negatives may occur. Lesions associated with folliculitis typically display socalled “target” lesions surrounded by epidermal collarettes. Formation of these may be associated with secretion of exfoliative toxin by S. intermedius. Secretory activity for this toxin differs amongst clones of this organism and it is possible that the extending lesions of “superficial spreading pyoderma” are associated with clones with elevated secretory ability. Diagnosis is based on the presence of papules and pustules and the demonstration of bacterial infection in the lesions. Mucocutaneous pyoderma is typically seen at the lips, particularly the commissures, where initial swelling is followed by crusting and erosion. Papule and pustule formation may be seen and deep pyoderma, sometimes associated with haemorrhage, may also be present in some cases. Response to topical or systemic antibiotics supports the bacterial aetiology of this disease and helps confirm the diagnosis. If there is no response to appropriate antibiotic therapy, histopathology is indicated.

They occur when there is marked reduction in cutaneous barrier function and immunity. When this affects general body immunity lesions may be extensive or generalised. In deep pyoderma infecting organisms are able not only to invade the epidermis but also the dermis and, in some cases, the subcutis. Commonly, these diseases are a consequence of extension of superficial pyoderma but they may be associated with other diseases causing skin damage or depressing immunity. Trauma to superficial lesions may lead to fracture of hair follicles with escape of the infection organisms into the dermis. Inoculation of pathogenic staphylococci into the dermis of healthy dogs results only in transient lesions and thus other factors are required to promote deep pyoderma. In most cases, fragments of hair or follicular keratin are involved and act as foreign bodies, promoting infection and inhibiting antimicrobial activity by host cells. Other agents can also have this effect. The result is formation of a granuloma. Diagnosis is based on the presence of large papular or nodular infected lesions, often associated with haemorrhage or the presence of sinuses. A variety of organisms may be involved in the deep granulomatous infections and it is always of great importance to identify the nature of the infecting agent(s). In severe disease, multiple infecting organisms are commonly present. Histopathology and deep bacteriology and mycology, including sampling from tissue obtained by biopsy, is advisable. In cases of recurrent deep pyoderma associated with non-healing wounds, mycobacterial infection should be suspected. As special diagnostic methods are required for such infections, it is important to inform the diagnostic laboratory of this possibility when submitting specimens. Therapy must be prolonged to deal with such lesions and, as always, the underlying causes must be identified and eliminated. Causes include demodicosis, pruritic diseases leading to self-trauma, endocrinopathy, infection by other organisms (e.g. dermatophytosis, leishmaniosis) and immunosuppression. There are breed predispositions for some of these conditions e.g. muzzle folliculitis & furunculosis in Doberman pinschers and English bulldogs.

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Deep Pyoderma These diseases may be localised (muzzle folliculitis & furunculosis; nasal, pedal & pressure point pyodermas, pyotraumatic folliculitis & furunculosis) when there is local cutaneous disruption, or generalised.

Author’s Address for correspondence: David H. Lloyd Department of Veterinary Clinical Sciences, Royal Veterinary College, Hawkshead Campus, North Mymms, Herts, UK


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Update on medical management of pyoderma David H. Lloyd Professor B, Med Vet, PhD, FRCVS, Dipl ECVD, Herts, UK

Introduction

Superficial Pyoderma

Canine pyoderma is not a primary disease. Thus it is always important to identify underlying factors. Commonly these are allergies but endocrinopathy, immunodeficiency, ectoparasitic infestation, follicular dysplasia and breed predisposition may be involved. Diagnosis of underlying conditions may not be easy. Treatment during the diagnostic phase should be designed to advance diagnosis and avoid camouflaging diagnostic clinical signs. Antibiotic therapy is a good diagnostic strategy as it eliminates pyoderma and helps expose underlying conditions. This presentation will assume that a diagnosis has been made and treatment of underlying causes will not be covered. Cutaneous microbial overgrowth will be covered separately.

Impetigo normally responds to antimicrobial shampoos. Use on two or three occasions over a period of 7-10 days should be effective in uncomplicated cases. Spontaneous resolution commonly occurs. Mucocutaneous Pyoderma may respond to treatment with antibacterial shampoos, as described above, followed by the use of antibacterial ointment, such as mupirocin. Daily treatment for two weeks and then once or twice a week may be effective. Following resolution, the disease may remain in abeyance but commonly repeated treatment is required. With deeper or more extensive infection, or if topical treatment is difficult, systemic antibiotic is required. Treatment for 4 weeks or more may be necessary. If not successful, further diagnostic procedures, including biopsy, are required. Superficial Folliculitis. Normally systemic antibiotic therapy is used. Bacteriostatic antibiotics are effective but bactericides may be more effective. Treatment for at least one week beyond clinical cure is advisable. Recovery may be promoted by use of antibacterial shampoos containing chlorhexidine or benzoyl peroxide, which aid removal of crusts and reduce surface bacterial populations. Mild superficial pyoderma can be treated with such shampoos without systemic antibiotic but this is labour-intensive; shampooing every 2-3 days is required. Once lesion resolution occurs, shampooing can be reduced to once or twice a week; in winter weekly to monthly shampooing may be sufficient to maintain remission. Where there is recurrent infection and underlying causes cannot be identified or controlled, long-term treatment options need to be considered. Regular shampooing with antibacterial shampoo may give control. Otherwise, the main options are pulse therapy with antibiotics and staphylococcal vaccination. Vaccination is a better choice. Wellprepared autogenous vaccines (bacterins) are effective in about 50% of cases; responding dogs do not need other therapy. An American bacterial lysate prepared from S. aureus, has also been shown to reduce the frequency of folliculitis and decrease the need for repeated antibiotic therapy. Pulse or continual low dose therapy should be a last resort as it may promote development of antibiotic resistance, although recent evidence (Carlotti et al 2004) indicates that this risk may be low. In view of the fact that the causative pathogen may be harboured on the mucosae, particularly of the upper respiratory tract and anus, some clinicians have used topical antibiotic to treat the nasal and or anal mucosae. Experimental

Surface Pyoderma Acute Moist Dermatitis. Prevention of further trauma is essential and will sometimes allow healing without further therapy. Ensure that there is no underlying folliculitis or furunculosis. Because the epidermal damage is a consequence of trauma, healing is rapid. However, lesions are often painful and topical therapy, requiring direct contact with skin, can be hazardous. Topical antibiotic and steroid gels or creams are effective but spraying with a soothing, antimicrobial, astringent preparation (Ascher et al 1995) has been shown to be as effective and is likely to be less hazardous. Lesions should be substantially healed in 7-10 days. Where there is marked pruritus, systemic glucocorticoids may be required. Skin Fold Pyoderma. Ideally, folds are removed surgically. If surgery is not feasible, measures to render the microenvironment within the fold inhospitable to bacteria and yeasts are required. Cleansing every 2-3 days with an antimicrobial shampoo is effective. Benzoyl peroxide, chlorhexidine, and chlorhexidine and miconazole are effective. Chlorhexidine is quite unstable and so it is advisable to select well-formulated preparations with published efficacy against both bacteria and Malassezia. Benzoyl peroxide must used with care as animals may develop sensitivity and it can be irritatant. Ethyl lactate may be effective in milder cases and has low irritancy. Intervals between shampooing may be extended by the use of antimicrobial creams and gels. Spraying with a soothing, antimicrobial, astringent preparation may also be effective.


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studies have shown that S. intermedius populations can be eliminated by this method using fusidic acid (SaijonmaaKoulumies et al). Anecdotally, this has helped in some cases of recurrent pyoderma.

Generally, manufacturer’s recommended dose rates will be effective. Occasionally you will need to use higher doses to achieve effective levels of antibiotic within lesions or to overcome low level resistance.

Deep Pyoderma

Bibliography

When deep infection occurs, there are local factors causing skin damage and more serious deficiencies in the immune system of the affected animal. If these can be resolved, recovery should be complete. Determined efforts to identify the underlying factors should be made. Demodecosis is a common cause. With discharging lesions, antimicrobial washes and soaks are useful to remove pus and debris, and may accelerate recovery. Clipping is helpful, enables the extent of lesions to be demonstrated and can be useful in persuading clients to comply with treatment. Prolonged systemic antibiotic treatment with bactericidal antibiotic is necessary and must continue for at least two weeks beyond clinical cure. Where lesions are in areas with poor blood supply or large granulomatous lesions, fluoroquinolones, which penetrate well, are particularly useful. On rare occasions it may be necessary to use unusual antibiotics to achieve penetration, such as rifampicin. In some cases, unusual organisms such as actinomycetes or mycobacteria are involved, and there may be concurrent infection with fungi. Careful diagnostic procedures, including discussion with the laboratory concerned, may be required as routine methods may not be effective.

Choice of Antibiotics and Dosage Although antibiotics can be selected empirically, where recurrent infection occurs or there is a lack of response, microbiological culture and sensitivity should be carried out. Ensure that you use a reliable laboratory and question unusual result e.g. very broad resistance in an organism identified as S. intermedius; this could turn out to be a methicillin-resistant S. aureus. Remember that several different strains may be present on a single animal. Thus a single sensitivity test may not give the full picture. Failure of a particular antibiotic may mean you have only eliminated part of the causative bacterial population. If in doubt always retest. Ensure your sample contains material from deep within the lesions; biopsy may be necessary for this.

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Author’s Address for correspondence: David H. Lloyd Department of Veterinary Clinical Sciences, Royal Veterinary College, Hawkshead Campus, North Mymms, Herts, UK


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Canine cutaneous microbial overgrowth David H. Lloyd Professor B, Med Vet, PhD, FRCVS, Dipl ECVD, Herts, UK

Introduction Microbial overgrowth is a newly described skin condition of dogs characterised by the presence of substantially increased populations of bacteria, particularly Staphylococcus intermedius, and the yeast Malassezia pachydermatis. Both bacteria and yeasts may be present simultaneously. When only M. pachydermatis is present the condition is equivalent to Malassezia dermatitis. However, microbial overgrowth occurs much more commonly and in a wider range of clinical situations than has been described for Malassezia dermatitis. It is often an unrecognised cause of pruritus, particularly in occluded areas such as the pedal webs. It commonly occurs in atopy or other allergies and successful treatment will often greatly reduce the measures needed to bring pruritus in such cases under control.

Aetiology and pathogenesis Bacteria. Bacteria are inhabitants of the skin surface and mucosae but generally maintain low populations on healthy skin. On the skin, this situation is a consequence of the unfavourable surface microenvironment and defensive measures maintained by the skin1. When the skin is damaged or its defences are impaired by skin diseases or defects in immunity, bacterial adherence to the keratinocytes is promoted and the bacteria are able to proliferate. The pathogenic staphylococci and, in dogs, particularly S. intermedius seem particularly able to take advantage of such changes. When high local cell densities (biofilm formation) of staphylococci are established, quorum sensing can take place2. This is a mechanism in which cell density signals are exchanged amongst the staphylococci allowing them to initiate the production of toxins that can irritate and damage the skin when population sizes reach a certain threshold. Many factors can lead to cutaneous irritation favouring bacterial adherence, proliferation and biofilm formation e.g. atopy, increased moisture, impaired surface barriers, factors that degrade the skin surface (rubbing, self trauma, maceration), seborrhoeic changes, exudation, depressed cutaneous immune function. Once toxin production has been initiated, more cutaneous damage is induced and immunity may be further impaired leading to a vicious circle of damage and bacterial proliferation. Malassezia. M. pachydermatis is present as a commensal of the skin and mucosae of most dogs. In healthy animals it is more commonly isolated from and exists at higher population densities at the lips and interdigital skin than at the ears. The anus seems to be the most frequently colonised

mucosal site3. M. pachydermatis acts as an opportunistic pathogen and factors promoting its pathogenicity may include increased temperature and humidity, excessive lipid secretion, intercurrent diseases, and therapy with antibiotics and glucocorticoids; however, this remains controversial4. Application of M. pachydermatis to the skin of beagles can evoke inflammatory reactions which are more severe under conditions of increased humidity and lead to delayed hypersensitivity responses5 and this yeast can produce a variety of enzymes including lipases and esterases which may be able to damage the skin directly or indirectly6. Breed-related factors are important in Malassezia dermatitis; basset hounds and West Highland white terriers are particularly predisposed. Skin and mucosal populations of M. pachydermatis are elevated in healthy bassets and adherence of the yeast to corneocytes from healthy bassets is greater than to Irish setters. However, adherence in affected basset hounds is lower than in normal dogs7. It may be that it is the special lipid composition of canine skin which exerts a permissive effect on colonisation and infection by this organism which, although not lipid dependent, grows much more rapidly in vitro in media supplemented with lipid. Basset hounds, which tend to have greasy skin, may provide a more favourable environment than other less-susceptible breeds. Since S. intermedius and M. pachydermatis are inhabitants of the mucosae, including the oral cavity, and will therefore be transferred to the skin continually, particularly in areas which require cleaning or grooming and which are pruritic. Thus there is potential for the establishment of microbial overgrowth whenever the skin is damaged or there is underlying disease impairing cutaneous function.

Clinical Features Microbial overgrowth is characterised typically by the presence of erythema, greasiness or exudation, pruritus and saliva staining in the absence of papules and pustules. Owners may be unaware of the lesions and careful clinical examination with good illumination is necessary. In chronic or severe lesions there may be excoriation and lichenification. There is commonly malodour, especially when Malassezia is involved. Overgrowth is normally seen in areas of skin that are moist or occluded such as the lips, between the pads and digits, in the groin, perivulvar and perianal areas, on the ventral abdomen, in the axillae, on the pinnae of the ears, and in skin folds. It is frequently present in dogs with allergic skin disease. It can be very localised or may affect several sites on a dog.


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Diagnosis Microbial overgrowth should be suspected whenever compatible lesions are present, even if they are mild. Diagnosis is confirmed by cytology using tape strip samples, glass slide impressions or swab smears stained with DiffQuik showing elevated populations of bacteria or Malassezia. Tape strips are preferred because they organisms are sometimes not located at the surface of the lesions and repeated application of the tape to the same site will reveal deeper populations. The presence of numbers of bacteria8 above 5 or Malassezia above 2 per x1000 oil immersion field is suggestive of microbial overgrowth. Commonly populations are very much higher but the organisms may be found in clusters so at least 20 fields should be examined. Successful treatment of microbial overgrowth will often permit underlying diseases to be identified. Unless such underlying problems are identified and controlled, overgrowth is likely to recur.

Treatment and Control The condition normally responds to topical therapy with antimicrobial shampoos containing chlorhexidine, or chlorhexidine and miconazole that are active against staphylococci and Malassezia. Shampooing every 2-3 days for 2 weeks will normally bring the condition under control. Then treatment once or twice a week is usually sufficient. Chlorhexidine powder may also be useful for localised pedal lesions. Recent studies have shown that an astringent, soothing antimicrobial spray is convenient and effective against Malassezia overgrowth9. This spray is also effective against bacteria found in microbial overgrowth and is used for the treatment and management of this condition by the author, particularly when lesions are localised. In severe or extensive cases of microbial overgrowth or when washing of the affected areas is not practicable, systemic therapy with cefalexin at 15 mg/kg twice daily8 and or imidazoles can be very helpful, depending on the nature of the microbes involved. Ketoconazole (5-10 mg/kg twice daily

with food) or itraconazole (5 mg/kg twice daily or 10 mg/kg once daily) are effective when used for 2-4 weeks. Evaluation of the response to treatment can quickly and easily be achieved using tape strip specimens stained with DiffQuik.

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Antimicrobial resistance in Staphylococci David H. Lloyd Professor B, Med Vet, PhD, FRCVS, Dipl ECVD, Herts, UK

Introduction Use of antimicrobials promotes development of resistance amongst micro-organisms which become exposed to these agents whether they are infecting pathogens or members of the normal flora1. The rate at which resistance develops depends on selection density (the amount of antimicrobial used per individual in a defined geographic area)2. Compared with use of antimicrobials in agriculture and human medicine, companion animal use (dogs, cats, horses) is small. In the UK, in 2001, total therapeutic antimicrobial use in agriculture was 420 tonnes. In horses, dogs and cats it totalled 39 tonnes (about 9%); this figure has remained around 30-40 tonnes since 19953,4. Close proximity of pets and owners provides opportunities for exchange of micro-organisms and resistance determinants amongst these populations, and veterinary use of antimicrobials in small animals has been assumed to carry a risk towards the human population5.

Staphylococcal infection in dogs Staphylococcal infection in the dog normally involves Staphylococcus intermedius (SI; about 90% of cases). S. aureus is occasionally isolated and, rarely, S. hyicus6. Involvement of S. schleiferi is being recognised both in skin disease and otitis7,8 but its role as a pathogen is still undefined. SI is a commensal of the dog9 and resident of mucosae and thus influenced by antibiotics administered for infections of all kinds. In the UK, Lloyd et al.6 examined sensitivity in 2,296 canine isolates (predominantly SI) from the skin, ears and mucosae in referral practice during 1980-1996. Resistance to penicillin increased from 69.0 to 89.3&. Oxytetracycline resistance remained at about 40%; resistance to erythromycin and lincomycin, and to co-trimoxazole peaked at about 20 and 15% respectively in 1987-89 but then fell. Only one cefalexin resistant isolate was found between 1986 and 1996. No resistance to co-amoxiclav, oxacillin, methicillin and enrofloxacin was demonstrated. Since then, more resistant isolates have been identified in the UK. In France, a study from Nantes10 showed an increase in the proportion of multiresistant (≥3 antimicrobials) SI from 11% in 1986-7 to 28% in 1995-6. A rising trend of antimicrobial resistance has also been demonstrated in Switzerland11. Fluoroquinolones were registered for use in Europe in the mid 1990s and there is evidence of increasing resistance amongst canine SI. Resistance was reported at 0.9% amongst 858 isolates examined between 1996 and 1998 by Lloyd et al. in the UK12 but higher levels have been observed in Swedish dogs (8-12%) in 1992 and 20005.

Acquisition of antimicrobial resistance by SI has been reported to be associated with repeated treatment13 and resistance may be acquired by plasmid transfer from other staphylococci on canine skin14. However, in SI there is low carriage of plasmids and a tendency for resistance to be chromosomal15,16. This may have protected SI from acquisition of multi-resistance, as has happened with S. aureus, S. hyicus and S. schleiferi7,17. In the clinic, selection of effective antibiotics for canine SI infection, even in referral practice, is almost never an issue in the UK. However, more resistance is reported in other countries10 and increasing mobility of animals and owners creates risk in all countries. Misidentification of S. aureus, including methicillin-resistant S. aureus (MRSA), as SI is sometimes responsible for reports of methicillin resistance in SI. In contrast to SI infections, problems do occur when other pathogenic staphylococci cause canine infection. This is generally associated with repeated treatment and chronic infection, circumstances when multi-resistant strains, especially MRSA, are increasingly isolated7,18. Methicillin resistance in coagulase negative and coagulase variable staphylococci is relatively common e.g. S. schleiferi19. However, multidrug resistance in S. schleiferi does not appear to be a problem.

Staphylococcal infection in cats In cats, SI appears to be the predominant pathogenic staphylococcal species both in the USA and in Britain, but S. aureus is also involved20,21. S. felis is also commonly present and may play a pathogenic role22. Cats are less often treated for cutaneous infections and tend to have intermittent problems that respond to short courses of antibiotics. Medleau and Blue23 examined isolates of staphylococci from skin lesions of 45 cats in the Southern United States and found that of 32 isolates from 30 of the cats, 23 were coagulase positive (16 S. aureus, 5 S intermedius, 2 S hyicus). The isolates were susceptible to coamoxiclav, cloxacillin, cephalothin, chloramphenicol, gentamicin, erythromycin, and trimethoprim-sulphamethoxazole; resistance to penicillin G, ampicillin, and tetracycline was frequent. In contrast, Patel et al.21 examined 187 isolates from 11 healthy domestic cats, 9 with skin lesions and 10 feral cats in South London. The 40 pathogenic isolates consisted of SI (90%) and S. aureus, all but 7 from lesions. Of all the isolates, only 22 (11.75%) showed resistance to co-trimoxazole (3.8%), lincomycin (6.4%), enrofloxacin (0.05%) or oxytetracycline (1.6%). Interestingly, resistance was greater amongst the feral cats (p<0.01) suggesting that environmen-


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tal exposure to antibiotics was more significant in driving antibiotic resistance than direct contact with people or veterinary treatment24.

3. 4. 5.

Transfer of resistant staphylococci between pets and owners

6.

SI is a resident of mucosal sites in most dogs and is likely to be transferred to the skin of the owner and others handling them, during grooming, play and other activities. When staphylococcal infection is present, large numbers of multi-resistant bacteria may be transferred25. However, there is little evidence of long-term persistence of such organisms in human hosts and it seems likely that SI is poorly adapted to survival in healthy humans. Reports of infection in humans by SI are rare. However, in 2000, SI was identified in ear fluid from a patient with otitis externa26. SI was also isolated from the patient’s pet dog although the two isolates were not shown to be the same. In a study of 3,397 isolates of coagulase-positive staphylococci from hospitalised patients in Strasbourg, France, only two were identified as SI27. However, SI infecting humans can be mis-identified as S. aureus28. It would seem that risk of human infection with SI is very low, except in immunocompromised individuals. Transfer of resistance is also likely to be at low risk. In contrast, transfer of resistant human pathogenic staphylococci, such as MRSA, between dogs and associated humans seems more common and is likely to occur when the dogs are treated with antibiotics effective against resident staphylococci, providing an avenue for establishment of resistant pathogens. Sometimes, in MRSA infection, a link to human medicine can be established and isolates from pets may be indistinguishable from epidemic human hospital strains, pointing to hospital infection as a source. However, case reports of human infection and subsequent MRSA isolation from mucosae of healthy family dogs29,30,31 indicate that the role of dogs in transfer of MRSA to owners needs to be assessed as does the role of veterinarians in infection of dogs they treat.

8.

7.

9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31.

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Author’s Address for correspondence: David H. Lloyd - Department of Veterinary Clinical Sciences, Royal Veterinary College, Hawkshead Campus, North Mymms, Herts, UK


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Alfa Agonisti: Romifidina, Medetomidina e Dexmedetomidina Veronique Martin-Bouyer Med Vet, Lyon, Francia

Abstracts will be available after 12th of June 2006 on the web site www.scivac.it/53/atti/


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Vision in the animal kingdom Ron Ofri Med Vet, PhD, Dipl ECVO, Rehovot, ISRAEL

Veterinarians are frequently confronted by questions such as “Why do cats see better at night?”, “Is it true that dogs are color blind?”, or “How sharp is my dog’s eyesight?”. Vision is a very complex sense that is affected by numerous factors, varies greatly between species and can be evaluated in numerous ways, so there is no simple answer to these questions. This talk will not provide a comprehensive and detailed discussion of the subject, but instead will focus (pun intended) on some of the significant differences in vision between humans, dogs and cats.

WHY DOES MY PET SEEM TO BE UNINTERESTED IN WATCHING TV? Responses to rapidly flickering lights are generated by cones. In between flickers, cones undergo a brief process of recovery that enables them to generate the response to the next flicker. When the flickers become too rapid, the cones are unable to recover sufficiently between flashes. At this point, the responses of the cones “fuse”, and they generate just one response to a series of rapid flashes. In humans, cone responses fuse at 45 Hz. Therefore, pictures generated by computer or TV screens, which flicker at 50 or 60 Hz, are perceived as one continuous image. However, in dogs and cats, cone responses fuse at 70-80 Hz. Therefore, when watching television, pets can perceive individual flickering images, which probably has a dramatic effect on their interest in the program! Similarly, pets can detect the flickering of fluorescent lights, a fact that may be taken into account when designing the lighting of your clinic.

DOES MY PET HAVE COLOR VISION? Color vision is the domain of the cone photoreceptors. Based on wavelength sensitivity of the photopigment contained in their outer segments, four types of cones have been identified, with animals having anywhere from one to all 4 populations. Species that have just one cone population are limited to perceiving different shades of that one color (e.g., rats, with cones sensitive to yellow light). In species with more than one population, “richer” color vision is possible through activation of different proportions of the various populations. Contrary to prevalent public opinion, dogs and cats do not “see in black and white”. Dogs have two populations of cones. One population absorbs light in the blue-violet spectrum (peak absorption - 432 nm), while the second population absorbs light in the yellow spectrum (555 nm). This contrasts with humans who have a third population of

cones, absorbing light in the green spectrum. Therefore, dogs can be likened to “color blind” (dichromatic) people who lack the green cone population, a condition known as deutranopia: they can see colors, but are unable to distinguish between red and green shades. This means that guide dogs do not distinguish between red and green traffic lights, and rely on changes of illumination to cross streets! Similarly, cattle have cones absorbing in blue and in yellow wavelengths, which means that bulls do not perceive the color of the red cloth used by bullfighters. Cats, on the other hand, have 3 cone populations, with peak absorptions at 450, 500 and 550 nm. However, numerous behavioral studies failed to reveal rich color vision in felines. In this context one should remember that dogs and cats have far fewer cones than humans, so one can assume that color vision in these species is not as “rich” as it is in humans. It is hypothesized that during evolution the number of cones in the retinas of nocturnal species was reduced to allow an increased number of rods, thus enabling more sensitive night vision.

NIGHT VISION Both dogs and cats have very sensitive night (scotopic) vision. Studies show that the threshold light intensity needed to elicit vision in humans is X6 the threshold intensity in the cat. Several physiological and anatomical mechanisms account for this improved visual performance in the dark. The first is the amount of light entering the eye. The corneal diameter in the cat is 16.3 mm, and the diameter of the dilated feline pupil is 10.1 mm. In humans, the respective figures are 11.1 and 6.0 mm. Therefore more light can pass through the cat cornea and pupil and reach the retina. Obviously, these differences are inconsequential at daytime, when there is sufficient illumination for vision. However, at night, when “every photon counts”, the ability of the cat eye to admit more stray light is very important. It is estimated that the larger corneal and pupillary diameters of the cat cause a 5.2 fold increase in the amount of retinal illumination, compared to humans. Furthermore, the cat is more capable of exploiting this light, thanks to the tapetum lucidum. This structure, located in the choroid, gives the fundus of most mammals (with the notable exception of primates) its rich color variety. It also has an important functional role, acting as a mirror that reflects light back to the retina. Photons that are not absorbed by photoreceptors are “wasted” in the eye, as they do not contribute to vision. The tapetum reflects these photons back towards the photoreceptors, thus doubling the probability that they will be absorbed. Once again, such reflectance is of little importance at daytime (and indeed


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Table 1 - Concentrations of rods and cones HUMAN

CAT

Maximal cone concentration (per mm2)

199,000

27,000

Maximal rod concentration (per mm2)

160,000

460,000

Cone concentration in retinal periphery (per mm2)

5,000

<3,000

Rod concentration in retinal periphery (per mm2)

40,000

250,000

even causes some blurring of vision), but is extremely important at night. However, the most important factor in determining sensitivity to low light levels is the proportion of rods and cones. Rods are very sensitive to low light levels, and can function in intensities that are 10-5 those required by cones. Furthermore, this sensitivity can be increased through neuronal and biochemical mechanisms, in a process called dark adaptation. As Table 1 demonstrates, cats have a much higher concentration of rods than humans throughout the retina, thus contributing significantly to their night vision, while detracting from their visual acuity.

HOW SHARP IS MY PET’S EYESIGHT? Sharpness of vision, or visual acuity, is determined by a number of factors.

How well does my pet focus? Incoming light must be focused on the retina in order to generate a sharp image. The active focusing process is called accommodation. In mammals, accommodation takes place in the lens. In humans, it is accomplished through changes in the lens curvature. To view distant objects, sympathetic stimulation causes relaxation of our ciliary muscle, resulting in a flatter (discoid) lens; an opposite process, resulting in spheroid lens, takes place when viewing nearby objects. Due to differences in anatomy and physiology of the lens, cats and dogs are incapable of changing the shape of their lens. Instead, they change its position in the eye. When viewing distant objects, the lens is retracted (towards the retina), and it is moved forward for viewing nearby objects. This results in a diminished accommodative capability. The accommodative power of a human teenager is around 15 diopters (D), compared to 3-4 D in the dog and cat.

Does this mean that my pet requires glasses? No. Accommodation is an active process that changes the refractive power of the eye, but other anatomical and physiological mechanisms ensure that light will be focused on the retina (emmetropia). Large surveys show that the majority of both dogs and cats are within 0.5 D of emmetropia; even in humans, glasses are rarely used to correct such a small refractive error. It is interesting to note that the refractive error of our pets changes is affected by habitat, breed and

other factors. For example, outdoor cats tend to be nearsighted (myopic), while indoor cats tend to be far-sighted (hyperopic). Similarly, small breed dogs tend to be myopic, and large breed dogs tend to be hyperopic.

The effect of retinal anatomy on visual acuity As noted previously and demonstrated in Table 1, the “evolutionary price” for improved night vision is a reduction in the number of cones and the resulting visual acuity. Furthermore, the acuity of feline cone responses is only 25% of the human cones. And the tapetum, which is so helpful for night vision, causes scattering of light and visual blurring in daytime.

So my pet sees quite poorly? In terms of visual acuity, the answer is “yes”. Visual acuity is typically expressed as a Snellen fraction. The acuity of normal humans is 20/20 (or 6/6 under the metric system). Reported values in animals vary greatly, as there are numerous methods of determining visual acuity (behavioral, electrophysiological and optokinetics being the main ones). However, on average it is estimated that the visual acuity of the dog is 20/75, meaning that a dog needs to be 20 feet from an object in order to see it as well as a person standing 75 feet away (or 6 and 22 meters, respectively). The estimated acuity in the cat is worse, and is reportedly 20/150 (or 6/45), meaning that a cat has to be more than 7 times closer to an object to see it as sharply as we do.

CONCLUSIONS Compared to humans, dogs have inferior color vision, binocular vision (not discussed here), accommodative capabilities and visual acuity. In cats, binocular and color vision may be more similar to humans than to dogs. However, both cats and dogs have superior night vision and flicker detection. They are also likely to have better motion detection and low contrast vision (not discussed). These properties enable dogs and cats to see well at night, while we are left groping in the dark. Author’s Address for correspondence: Ron Ofri - Koret School of Veterinary Medicine, Hebrew University of Jerusalem PO Box 12, Rehovot 76100, (ofri@agri.huji.ac.il)


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Blindness in veterinary ophthalmology: examination, causes and treatment Ron Ofri Med Vet, PhD, Dipl ECVO, Rehovot, ISRAEL

I. EXAMINATION OF THE BLIND ANIMAL 1. History a) Is the blindness of sudden onset, or gradual onset? o Frequently, owners will report sudden onset blindness, even though the results of the ophthalmic examination will reveal changes associated with chronic, long standing disease. Careful questioning will reveal that the blindness was noticed when the animal’s environment was changed (visiting friends, moving to a new house). We can assume that even though the animal has been blind for a long time, the gradual onset of the disease enabled it to learn to navigate in a familiar environment. The change in environment will cause it to bump into objects, misleading the owners into believing that the blindness is acute. b) Was deterioration of vision associated with preferential loss of night vision or day vision? o One of the first behavioral signs of inherited, degenerative diseases of the outer retina (commonly known as Progressive Retinal Atrophy) is loss of night vision (nyctalopia) as rods are affected before cones. ➟ Be careful of how you phrase the question!! Do not “lead” the owners. ➟ Other rod functions (such as detection of moving objects, or objects in the peripheral visual field) are also affected before cone functions (color vision, detection of objects in the central visual field). However, these changes are usually too subtle to be detected by owners. o Is the loss of night vision progressive? A disease known as “Congenital Stationary Night Blindness”, reported in dogs and horses, causes nyctalopia, but does not affect daytime vision. o Several (infrequent) retinal diseases may present with day blindness (hemeralopia). These include inherited cone degeneration (e.g., in the Alaskan malamute) and retinal pigment epithelium dystrophy (formerly known as CPRA). These diseases may be progressive, but not necessarily so. c) Is the animal healthy? Are there other signs of illness, besides loss of vision? o As will be seen later, blindness may be caused by numerous systemic or neurological diseases. These will frequently be accompanied by additional signs of clinical disease.

o Therefore, the clinician must take a complete (nonophthalmic) history of the patient. Furthermore, a complete physical examination and a thorough neurological assessment are part of the workup of every case of blindness. However, these will not be discussed in this lecture.

2. Assessing Vision & Function in the Blind Animal a) Menace Response This involves making a sudden threatening gesture which is supposed to elicit a blink response. The afferent arm of the response consists of the retina, optic nerve axons, the optic tract (leading from the optic chiasm to the lateral geniculate nucleus in the diencephalon) and the optic radiation (from the diencephalon to the visual cortex). The efferent component of the response includes the primary motor cortex, cerebellum, and the nucleus of cranial nerve VII (facial nerve). It is important to note that the menace response involves cerebral cortical integration and interpretation and therefore is not a reflex. Rather, it is a cortical response that requires the entire peripheral and central visual pathways, as well as the visual cortex and the facial nucleus of cranial nerve VII, to be intact for the response to occur. o The menace response should be evaluated in one eye, while the other eye is being covered. o Be careful not to touch the eyelashes/hair of the patient, as this may cause a “false positive” response. o Wind movement may also cause a “false positive” response ➟ Consider making the menace gesture behind a glass partition o Likewise, “false negative” results (lack of a menace response in a visual animal) are also possible: ➟ Facial nerve paralysis will cause a false negative result. Therefore, in the absence of a menace response always test: • The blinking reflex (touching of the canthus) • Protrusion of the third eyelid, caused by retraction of the eye (due to contraction of the retractor bulbi muscle, mediated by the abducens nerve) in response to the menacing gesture ➟ The menace response is absent in very young (<1012 weeks) animals, and may also be affected by the mental state of the patient o It is important to remember that the menace response is a very crude method of assessing vision, and in fact requires visual acuity of only 6/600!


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b) Additional Visual Tests • Obstacle course o Be consistent in the obstacle course that you construct ➟ Make sure it can be navigated by normal animals! o Test the patient in photopic and scotopic conditions o Consider patching one eye • Visual placing response o Useful when results of the obstacle course and menace response are equivocal o Lift the animal towards the table, allowing it to see the approaching surface. A normal animal will extend its leg towards the surface before its paw touches the table c) The Pupillary Light Reflex (PLR) Unlike the menace response, the PLR is a subcortical reflex. Therefore, it does NOT test vision, and a normal PLR may be found in a cortically blind animal. Furthermore, the PLR is usually present (though it may be diminished or slow) in animals suffering from outer retinal degeneration (PRA), cataracts, and other causes of subcortical blindness. Nevertheless, the PLR is a very important test, which helps localize the lesion which causes loss of vision. The afferent pathway of the PLR runs from the retina through the optic nerve to the optic chiasm, where most of the axons cross over to the contralateral side, through both optic tracts, and over the lateral geniculate nuclei, to synapse ventrally at the pretectal nuclei (PTN). Axons from each PTN relay to both the left and the right parasympathetic nuclei of the oculomotor nerve (CN III); however, the majority of axons will cross over and synapse in the contralateral parasympathetic nucleus, located in the tegmentum of the midbrain. Because each PTN relays to both parasympathetic nuclei, both the right and the left pupils will constrict in response to light stimulation of either eye. The constriction that occurs in the stimulated eye is known as the direct PLR and the constriction of the contralateral, unstimulated eye is called the consensual (or indirect) PLR. Since the afferent PLR pathway contains two levels of fiber crossings, first at the optic chiasm and later after exiting the PTN, in most species the direct PLR is stronger than the indirect one. More precisely, the direct PLR is stronger in those species that have more than 50% decussation at the optic chiasm. On the other hand, in humans, where the decussation rate is 50%, the direct and consensual pupillary light reflexes are of equal amplitude. • Once again, false negative results are possible: o Previous treatment with atropine, or other parasympatholytic drugs o Iris disease, including iris atrophy, posterior synechia and severe uveitis o These conditions may be bilateral or unilateral. If unilateral, they will affect only the direct PLR, but not the consensual PLR of the unstimulated eye. • The dazzle reflex is another subcortical reflex. It is manifested as a bilateral, partial blink reflex in response to a bright light. The anatomical pathway

responsible for this reflex is poorly understood. However, this test is a very useful substitute for the PLR in cases when the pupils can’t be seen, such as in cases of severe corneal edema or hyphema, or in cases when a “false negative” PLR is suspected.

3. Additional Tests of the Visual System a) As noted, a neurological examination should be conducted in cases of blindness. Attention should be paid to: • Cranial nerve deficits • Change in mental status-stupor, delirium, depression • Abnormal gait – ataxia, circling, paresis • Abnormal body posture – head tilt, head turn… b) Electrophysiology – these tests require a referral to a specialist • The electroretinogram (ERG) is used to record electrophysiological responses of the retina to visual stimulation. o It is very useful in diagnosing early stages of outer retinal degeneration (PRA), and also in differentiating between optic neuritis and sudden acquired retinal degeneration (SARD) (see below). o Since the ERG measures retinal activity, it will be normal in cases of post-retinal blindness (optic neuritis or cortical blindness). Such cases are best assessed by the visual evoked potentials (VEP), which involve recording cortical electrophysiological responses to visual stimulation. c) Imaging techniques – radiography, CT and MRI may be used to workup suspected cases of central blindness.

4. Localizing the Lesion in the Blind Patient Based on the results of the ophthalmic examination, the patient may be categorized into one of 4 general categories: a) Abnormal ophthalmic findings combined with a normal/diminished PLR • Opacity of the ocular media: severe blepharospasm, corneal edema, hyphema/hypopyon, cataract, vitreal hemorrhage…. • Retinal disease – outer retinal degeneration (PRA), chorioretinitis b) Abnormal ophthalmic examination and an absence of PLR: • Glaucoma • Retinal detachment • Optic neuritis involving the proximal portion of the optic nerve, and causing papilledema o Infectious and non-infectious causes of optic neuritis o Retrobulbar abscess/cellulitis • Optic nerve hypoplasia/atrophy: • congenital, post-traumatic, chronic glaucoma c) Normal ophthalmic examination and an absence of PLR: • Sudden Acquired Retinal Degeneration (SARD)


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• Optic neuritis involving the distal portion of the optic nerve, in which case the optic nerve head will be normal looking o Infectious and non-infectious causes of optic neuritis • Neoplasia of the optic nerve or neoplasia compressing the optic nerve or chiasm • Lesions affecting the contralateral optic tract, up to the level of the lateral geniculate nucleus: o Hypothalamic and thalamic neoplasia o Cerebrovascular accident d) Normal ophthalmic examination, and absence of PLR: These are usually neurological cases, caused by central lesions affecting the visual pathways from the lateral geniculate nucleus to the contralateral visual cortex. Causes include: • Congenital lesions - especially hydrocephalus • Metabolic causes – hepatic encephalopathy, hypoglycemia… • Inflammatory CNS disease – granulomatous meningoencephalitis • Infectious CNS disease – neospora, toxoplasma, distemper, Cryptococcus… • Toxins – lead toxicity… • Forebrain disease – trauma, neoplasia, hemorrhage, cerebrovascular disease…

DISCUSSION OF SELECT CAUSES OF BLINDNESS I. RETINAL CAUSES OF BLINNESS 1. Progressive Retinal Atrophy/ Rod-Cone Degeneration A. Pathogenesis This disease is the most common inherited retinal disease in dogs, and the leading inherited cause of canine blindness. In most cases (see below “Breed particulars”) it is transmitted as an autosomal recessive disease. The disease is characterized by an inherited defect in one of the phototransduction enzymes of the retinal photoreceptors. Different canine breeds have different forms of the disease, depending on the location of the mutation, and the defective enzyme. However, regardless of the specific mutation/enzyme, the final pathway of all forms of the disease is progressive atrophy of rods and cones. B. Breed Particulars ➟ Cross breeding experiments, using affected American & English cocker spaniels, miniature & toy poodles, Labrador retrievers and Portuguese water dogs have shown genetic homogeneity of prcd in these breeds. In other words, the gene mutation that affects these breeds is at the same locus. ➟ An autosomal recessive mode of inheritance has also been established in the akita, miniature long haired dachshund, papillon, Tibetan terrier and Tibetan spaniel.

➟ Siberian huskies - X-linked retinal degeneration (common in males). Sex linkage also reported in samoyeds ➟ The miniature schnauzer may have an incompletelydominant form of PRA. Some carrier dogs (which have a mutant gene on one chromosome only) have clinical and electroretinographic signs of PRA ➟ PRA has also been described in the Irish, Gordon & English setter, Norwegian elkhound, Tibetan & English mastiff, Afghan hound, collie, greyhound, miniature pinscher, pointer, saluki, Swiss hound, Shetland sheepdog, border collie, Cardigan Welsh corgi, beagle, borzoi, and cairn terrier. C. Diagnosis Behavioral signs of PRA/prcd ➟ Bilateral disease, though the dog may present with varying degrees of disease in the 2 eyes ➟ Age of onset varies, according to breed. In the longhaired dachshund, initial signs may be observed at 6 months of age, while in the miniature poodle the disease may develop as late as 12 years of age (mean age 3-5 years). In the English cocker spaniel, it is unusual to see clinical signs before the age of 8 years. ➟ The initial behavioral sign is usually loss of night vision, or nyctalopia, reflecting damage to the rods. Therefore, behavioral evaluation of the dog (menace response, maze test) must be performed under varying light conditions ➟ The disease is progressive, invariably leading to blindness Ophthalmoscopic signs of PRA/prcd ➟ Initial changes are usually observed in the peripheral tapetum, near the non-tapetal junction. These include vascular attenuation (especially of arterioles) and gray discoloration (mild hyporeflectivity). ➟ Moderate and advanced cases are characterized by: ➟ Progressive tapetal hyperreflectivity, due to thinning of neural retina ➟ Blood vessel attenuation - “ghost vessels” ➟ Mottling of the non-tapetum - areas of pigment clumping adjacent to areas of depigmentation. This appearance is caused by migration of phagocytic RPE ➟ Optic nerve atrophy-pallor resulting from demyelination and loss of circulation Additional ophthalmic findings ➟ Pupillary light response is usually present, though it may be slow and incomplete ➟ Cataracts - are they really a secondary complication? Electroretinography The electroretinogram (ERG) is used to record the electrophysiological responses of the photoreceptors to light stimulus. Its importance in veterinary ophthalmology results from several factors:


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➟ The flash ERG provides an objective and accurate assessment of outer retinal function, more reliable than subjective ophthalmoscopic and behavioral signs ➟ Early diagnosis - in many breeds, electrophysiological abnormalities associated with PRA/prcd may be detected long before the appearance of behavioral or funduscopic signs. In the poodle, for example, ERG abnormalities are present at age 8-10 months, though clinical signs may not appear till 1-2 years later. ➟ In cataract patients, where lenticular opacities prevent a thorough fundus examination, the ERG is used to determine the presence of retinal function and the surgical prognosis. DNA testing ➟ Commercial DNA tests for PRA/prcd are available in ~15 breeds at www.optigen.com ➟ The advantages of DNA tests are that they can be conducted at any age, and can also identify heterozygous carriers ➟ However, most of the current tests identify genetic markers, rather than the mutated gene itself, so their accuracy has been questioned

2. Retinal Detachment A. Introduction ➟ Retinal detachment is a separation between the retina and choroid. A result of the separation is ischemia of the photoreceptors. If the separation is not quickly resolved, and blood supply restored, photoreceptors will begin dying, leading to irreversible blindness. ➟ Focal detachments, involving a small part of the retina, will cause a defect in the visual field (scotoma). However, this will have little impact on the animal’s behavior, and therefore this kind of detachment may not be presented to the clinician.

combined with liquefaction of the vitreous body (as a result of inflammation or senile changes). The liquefied aqueous penetrates the subretinal space through the retina holes, and causes detachment. C. Causes Of Retinal Detachment The list of possible causes for retinal detachment depends on the type of detachment. ➟ Rhematogenous detachment may be caused by senile changes, trauma or inflammation (see below) ➟ Traction detachment may be caused by lens luxation, or by inflammation (see below) ➟ Serous detachments may be caused by bleeding or inflammation. Causes of exudative detachment An inflammation that leads to retinal detachment is usually one that involves the choroid and retina (chorioretinitis or retinochorioditis). As is the case for anterior uveitis, it is conceivable that any systemic or ocular inflammation will lead to chorioretinitis. However, chorioretinitis is usually an inflammation caused by an infectious agent. In the Mediterranean region, the most common ones include: ➟ Viral causes – distemper in the dog. FIP, FeLV and FIV in the cat ➟ Rickettsia – Ehrlichia canis ➟ Protozoa – Leishmania, Toxoplasma ➟ Fungal infections are very common in North America Causes of hemorrhagic detachment Any cause of systemic bleeding could result in a hemorrhagic retinal detachment. Common causes include: ➟ Systemic hypertension ➟ Thrombocytopenia (Ehrlichia canis) ➟ Caogulopathies ➟ Hyperviscosity ➟ Anemia ➟ Trauma

B. Pathogenesis There are 3 types of detachments, depending on the mechanism of their formation: ➟ Serous detachment is caused by accumulation of fluid in the subretinal space, between the retina and choroid. This fluid, which originates in the choroid, may be blood or exudates. ➟ Traction detachment is caused by a force which pulls the retina off the choroid. This force may be generated by: o Forward movement of the vitreous body (for example, following anterior lens luxation) o Fibrin. Formation of fibrin strands and clots is a frequent complication of ocular inflammation. These strands may also form between the retina and lens. Re-organization of the strands, and their contraction, may pull the retina off the choroid. ➟ Rhematogenous – Formation of holes in the retina (as a result of trauma, surgery or senile changes),

D. Clinical Signs Of Retinal Detachment ➟ Blind eye (no menace response) ➟ Fixed dilated pupil. A consensual PLR will be present when stimulating the contralateral eye. ➟ When performing an Ophthalmoscopic examination, the clinician will find it difficult to focus on the retina (since it moved from its natural place). It is possible to see a “sheet” floating in the posterior part of the eye. This sheet, which is the retina, may be transparent, white (i.e., edematous), or hemorrhagic, depending on the cause of detachment. Retinal blood vessels may be seen on it, and it is frequently seen in the posterior segment even without the use of an ophthalmoscope. ➟ Ultrasound. A 10 MHz probe can image the detached retina. This image is called “the seagull sign”, because the detached retina usually remains anchored to the eye in the optic disc and to the ora


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serrata. An ultrasound examination is particularly useful when an ophthalmoscopic examination can not be conducted due to severe corneal edema, hyphema, cataract… E. Treatment Of Retinal Detachment ➟ It is imperative to diagnose the primary cause of the detachment, and to treat it. Therefore, systemic workup has to be performed. Depending on the type of detachment, this workup could include: o Cardiovascular evaluation, including measurement of blood pressure, echocardiogram, renal function…. o Rule out of infectious diseases – CBC, serology… ➟ Lens extraction surgery is indicated in cases where the detachment is secondary to anterior lens luxation ➟ Fibrin clots and strands can be dissolved by injecting tissue plasminogen activator (TPA) into the eye, thus preventing traction detachments. ➟ Treatment of exudative serous detachments involves draining the subretinal fluid. This may be done using hyperosmotic agents (mannitol, oral glycerine). Systemic carbonic anhydrase inhibitors should also be considered. If the cause of the exudate is inflammatory, systemic steroids should be administered. ➟ Specialized referral centers may perform surgery to re-attach the retina. ➟ If the detachment is partial, its progression may be prevented with laser photocoagulation, which “welds” the retina in place and seals adjacent holes.

4. Glaucoma This is another important differential diagnosis for loss of vision, usually characterized by acute presentation and fixed, dilated pupils. Discussion of glaucoma is outside the scope of this lecture.

II. POST-RETINAL BLINDNESS Post retinal blindness can be caused by a disease process anywhere along the visual pathway. As noted earlier, results of the PLR test will be very helpful in preliminary localization of the lesion. Absence of PLR implies that the lesion is in the optic nerve, chiasm or tract. The PLR will be present in more distal lesions, including those of the lateral geniculate nucleus, optic radiation and the visual cortex. Each of these locations may be affected by different diseases, and should be addressed accordingly.

1. Optic nerve diseases causing blindness Optic neuropathy includes degenerative, ischemic, inflammatory or compressive condition. Opthalmic examination of the fundus and optic disk followed by ERG can help differentiate primary retinal from optic nerve disease, as the signal is extinguished or normal, respectively.

Optic Neuritis Probably the most common optic nerve disease that causes blindness

3. Sudden Acquired Retinal Degeneration (SARD) A. Pathogenesis ➟ An acquired disease of an unknown cause, typically appearing in middle-aged (female) dogs ➟ The history provided is one of sudden onset blindness. ➟ The typical patient is “cushinoid”: o In many dogs, owners will report a history of lethargy, weight gain and PU/PD during the last few months. o Bloodwork is also suggestive of Cushing’s disease

A. Cause An inflammation of the optic nerve that can be caused by: ➟ Any cause of meningitis ➟ Infectious causes – distemper, fungal diseases (e.g., Cryptococcus), toxoplasma, bacteremia… In many of the systemic disease, the ocular signs may be the presenting complaint. ➟ Neoplasia, trauma or an abscess in CNS regions where the optic nerve passes (especially at the optic chiasm!) ➟ CNS diseases – GME, reticulosis… ➟ Idiopathic – probably the most common cause B. Diagnosis

B. Diagnosis ➟ Blind eye with a fixed, dilated pupil ➟ Fundus appears normal during the first few months. Degenerative changes may appear at a later stage (few months) ➟ ERG is flat, indicating lack of retinal activity. Currently there is no treatment for SARD. It is hoped that once the cause is identified, treatment can be offered.

➟ Blind eye with a fixed, dilated pupil ➟ ERG is normal, since the retina is not affected (thus distinguishing optic neuritis from SARD) ➟ The optic disc may appear normal or inflamed (edematous, hemorrhagic) depending on which part of the nerve is involved. If the proximal part of the optic nerve is involved, papilledema and vascular congestion of the optic disc are seen on examination of the fundus. Atrophy of the optic disc is noticed as


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the disease resolves. Inflammation of more distal parts of the nerve may present with a normal-looking disc. C. Treatment Treatment is based on identifying and treating the primary cause. Systemic steroids should be administered if no systemic cause is found. D. Prognosis Many of the systemic causes (e.g., distemper) carry a grave prognosis, and may be lethal. Even idiopathic optic neuritis often leads to irreversible blindness. In a study of 12 dogs with optic neuritis, only 7 survived, among which 5 remained blind.

Additional optic nerve diseases causing blindness • Tumor, such as lymphosarcoma, can infiltrate any part of the visual pathway and can present as a unilateral or bilateral visual deficit (depending on the exact site of infiltration). Compression of the optic nerve by a tumor will cause papilledema, followed by atrophy of the optic disc. • Granulomatus meningoencephalitis (GME), a suspected immune mediated inflammatory process, can present with clinical signs similar to a neoplastic disease. Granulomatus lesions can infiltrate or compress the optic nerve and also cause atrophy or swelling of the optic disc. • Hypovitaminosis A causes abnormal bone growth and narrowing of the optic foramen, resulting in secondary compression of the optic nerve. This produces initial papilledema, with subsequent retinal degeneration. The disease is more common in cattle than in other species.

2. Diseases of the optic chiasm causing blindness Tumors of the pituitary gland may compress the optic chiasm, and cause visual field deficit. Compromised vision will usually only be noticed very late in the development of the mass. However, most pituitary gland tumors grow dorsally into the hypothalamus instead of spreading out rostrally or caudally. Feline ischemic encephalopathy is another disease that may occur at the optic chiasm and cause bilateral blindness with dilated and unresponsive pupils.

3. Diseases of the optic tract causing blindness The most common bilateral optic tract disease is demyelination, resulting in loss of neuronal transmission. Demyelination may be complete or incomplete, though incomplete demyelination will not cause blindness, and therefore is seldom diagnosed (unless accompanied by other clinical signs). Demyelination of the optic tract is usually caused by degenerative or inflammatory (infectious) diseases. A common cause is canine distemper virus, which was found to have a predilection for causing disease in both optic tracts simultaneously. The disease is not characterized by additional localizing lesions - the pupils may be more widely dilated, sluggish, and incomplete in their response to light stimulation, and vision loss may, or may not, be apparent. Demyelination may also be observed in globoid cell leukodystrophy, which (similar to neuronal storage diseases) is caused by an enzymatic abnormality. The lesions will be mainly in the cerebellum and spinal cord, but demyelination of different parts of the visual pathway, including the optic nerve, optic tract and optic radiation were also reported. The demyelination will affect neuronal transmission through the optic tract, and may result in complete blindness. Unilateral neoplasia of either the hypothalamus or the thalamus will cause contralateral homonymous hemianopia. The direct PLR will be sluggish or absent. Usually, lesions at this location will also affect the internal capsule and the rostral part of the cruse cerebri, causing some postural reaction deficits. Similar signs are also seen with any unilateral vascular, traumatic or ischemic event, though the presentation will usually be acute.

4. Visual Deficits with PLR Lesions and diseases beyond the optic tract (i.e., in the Lateral Geniculate Nucleus, optic radiations or visual cortex) will present with blindness (in bilateral diseases) or contralateral homonymous hemianopia (in unilateral cases) with normal PLR. Possible causes include neoplasia; GME; storage disease; metabolic diseases (hypoglycemia, hepatic or uremic encephalopathy); encephalitis (e.g., necrotizing encephalitis in toy dog breeds); canine distemper; hydrocephalous; demyelinating diseases; vascular events (trauma, hemorrhage or infarcts); equine encephalitis. Such cases should be worked up in consultation with a neurologist.

Author’s Address for correspondence: Ron Ofri - Koret School of Veterinary Medicine, Hebrew University of Jerusalem PO Box 12, Rehovot 76100, (ofri@agri.huji.ac.il)


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Advances in treatment of select diseases veterinary ophthalmology: present and future Ron Ofri Med Vet, PhD, Dipl ECVO, Rehovot, ISRAEL

TREATMENT OF CANINE KERATOCONJUNCTIVITIS SICCA Keratoconjunctivitis sicca (KCS) is a progressive inflammation of the cornea and conjunctiva caused by a deficiency in the aqueous component of the tear film. Historical treatment of the disease included artificial tears, mucolytic agents, antibiotics (in cases of infection/ulceration) and pilocarpine, a parasympathomimetic agent which would stimulate cholinergic innervation of the lacrimal gland. In 1989, treatment of canine KCS was revolutionized when Kaswan et al reported that topical cyclosporine (CsA) is an efficacious drug in the treatment of the disease. Most cases of canine KCS are probably caused by an autoimmune inflammation of the tear gland, and it is believed that CsA exerts a therapeutic effect by inhibiting T-helper lymphocyte proliferation and infiltration of lacrimal gland acini, allowing for regeneration of the gland and the return of secretory function. Even though CsA has become the treatment of choice for canine KCS, it is not 100% effective. It has been reported that the drug, administered topically as a 0.2% ointment and as a 1% or 2% oil-based solution, improved tear production in 71–86% of dogs with KCS. Therefore, there is a need to find new drugs, which can be used to treat dogs that do not respond to CsA treatment, or dogs that suffer adverse effects (topical irritation, etc.). Two related drugs that may be promising alternatives to CsA are pimecrolimus and tacrolimus. Unlike CsA, which is an immunosuppressive drug, these are considered immunomodulating drugs. They are ascomycin-derived macrolides that bind specifically to the cytosolic receptor, immunophilin macrophilin-12. The resulting drug-receptor complex inhibits calcineurin-dependent dephosporylationactivation of specific nuclear factors in activated T cells, thus preventing transcription of pro-inflammatory cytokines. This results in lack of activation of T helper cells types 1 and 2. T cell proliferation and mast cell activation are also inhibited. It is hypothesized therefore that these drugs could reduce cell-mediated inflammation of the lacrimal gland. Two studies will be presented. The first shows that pimecrolimus is just as effective as cyclosporine in improving tear production, and more effective in reducing clinical signs of KCS. The second study shows that tacrolimus improves tear production in dogs that are resistant to cyclosporine therapy. Therefore, these drugs are a promising alternative to topical CsA for treatment of KCS and may be beneficial in patients with less than optimal response to topical CsA.

TREATMENT OF MELTING CORNEAL ULCERS: INHIBITING MATRIX METALLOPROTEINASES Uncomplicated corneal abrasions (superficial damage to epithelium) or ulcers (deeper damage, involving corneal stroma) will heal uneventfully, though topical antibiotic treatment is usually provided, to avoid infection. However, due to microbial infection or to extensive stromal involvement, some corneal ulcers undergo “melting”. This process, also known as keratomalacia, is characterized by rapid and progressive degeneration of the corneal stroma, which may result in corneal perforation within 24 hours. This rapid degradation of corneal stroma is the result of proteinase activity. These enzymes, also known matrix metalloprtoeinases (MMP’s) are secreted by the infective microorganisms (e.g., Pseudomonas), but are also found in the tear film, white blood cells and corneal cells. The body’s own MMP’s play an important role in normal corneal repair and healing, but an increase in their levels or activity will cause degradation of the corneal collagen, elastin, etc. Several drugs and substances have recently been shown to have an inhibitory effect on MMP activity. The effect is usually mediated by chelating co-factors, such as zinc or calcium, required for MMP activity. The resulting inhibition rate of MMP activity is usually > 90%. Therefore, these drugs could become important therapeutic agents in the treatment of ulcerative keratitis and keratomalacia. The drugs include: 1. N-acetyl cysteine – applied as a 10%-20% topical solution every 1-4 hours. 2. Tetracycline – may be administered topically (0.0250.1%0 or systemically. The anti-MMP activity is in addition to the drug’s antimicrobial effect. 3. EDTA – topical treatment with 0.05-0.2% solution 4. Autogenous serum – about 10% of the proteins in the serum are α2-macro globulins, which are potent MMP inhibitors. Serum is obtained from blood, following clotting and centrifugation, and can be applied every 1-2 hours. It should be replaced every 8 days (to avoid contamination. Growth factors in the serum may also promote corneal healing.

TREATMENT OF FELINE HERPES KERATOCONJUNCTIVITIS Treatment of feline herpes virus is very frustrating, due to the limited availability of effective drugs. One of the main


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reasons for this is the fact that many of the drugs that are effective against human herpes virus are not effective against feline herpes virus. The cost of the drugs and the need for frequent administration are additional factors that prevent owners from providing optimal treatment to their cats.

Clinically proven drugs 1. Trifluridine – Very effective against feline herpes, and is available commercially in many countries. However, it is topically irritating and the recommended dose is every 2 hours, which makes compliance very difficult. 2. Idoxuridine – Slightly less effective against feline herpes virus than trifuridine. Also, it is not available commercially, and must be compounded by special pharmacists. However, it is less irritating and needs to be given “only” 4 times/day. 3. Vidarabine – less effective than idoxuridine, and even more difficult to obtain (can be compounded as a 3% ointment), but well-tolerated in cats.

Ineffective or contraindicated drugs 1. Acyclovir is a commonly-used drug in the treatment of human herpes infections. However, the effective dose against feline herpes is x80 the dose in humans, making this drug ineffective in cats. 2. Bromovinyldeoxyuridine – not effective against feline herpes virus 3. Valacyclovir – contraindicated in cats due to bone marrow supporession, s well as hepatic and renal toxicity. 4. Steroids should not be used in the treatment of feline herpes conjunctivitis, as they may increase the activity of latent viruses and exacerbate the infection. The future? 1. A number of drugs have been shown to be effective against feline herpes in vitro, but have yet to be tested in vivo or in clinical trials. These include: • Ganciclovir • Cidofovir • Pencicolvir 2. L-lysine – preliminary studies show that L-lysine given orally (500 mg, twice daily) may be effective in treatment of feline herpes virus. The drug inhibits viral replication by competing against arginine. 3. Interferon – there are reports that the drug (administered orally or topically) may be an effective treatment.

NEUROPROTECTIVE TREATMENT IN GLAUCOMA Today there is increasing recognition that additional factors, besides elevated IOP, also play a role in the progressive loss of vision that characterizes glaucoma. These factors may be the reason why glaucomatous neuropathy develops in many normotensive patients, and may account for the fact

that in other patients loss of vision progresses even after IOP has been successfully lowered. Similar pathogenesis of axonal damage, which progresses even after the initial insult has been alleviated, is observed in many neurologic disorders including stroke, hypoglycemia, trauma and epilepsy. There is growing evidence that in these, and other, diseases, progressive axonal damage is the result of secondary degeneration. It is suggested that axons damaged by the initial insult release various substances into their immediate surroundings. The localized high concentrations of these substances create a hostile micro-environment. Adjacent axons, which were not damaged during the initial insult, undergo secondary degeneration as a result of being immersed in this toxic milieu. This creates a “domino effect” in which (in the case of glaucoma) optic nerve axons will continue to degenerate even after IOP has been successfully lowered, resulting in further loss of vision. In searching for mediators of secondary degeneration, much of the attention has focused on the role of glutamate, an amino acid that normally functions as an excitatory neurotransmitter in the central nervous system. However, following neuronal injury, intracellular glutamate is released by damaged axons into the immediate surroundings. The resulting locally-elevated concentration of glutamate causes overstimulation of NMDA glutamate receptors in neighboring (undamaged) neurons. This stimulation (excitotoxicity), in turn, leads to increased calcium influx, thereby starting an intracellular enzymatic cascade progressing to apoptosis and cell death. Therefore, it follows that compounds which inhibit glutamate may slow or stop the cascade of secondary degeneration, and protect the undamaged neighboring axons. This therapeutic approach, known as neuroprotection, is being studied in a number of acute and chronic neurological disorders; some neuroprotective compounds are in advanced testing stages in humans. There is growing evidence that glutamate also plays an important role in the progression of optic neuropathy and loss of vision in glaucomatous patients, and that this damage may be attenuated by glutamate receptor antagonists. Elevated glutamate levels have been demonstrated in rats with partial optic nerve lesion. Inhibition of glutamate NMDA receptors, using memantine, resulted in decreased secondary degeneration and protection of the optic nerve. Further proof for the toxic role of glutamate in optic neuropathy was the intravitreal injection of glutamate in mice and rats. These injections resulted in glaucomatous- like damage to the retina and optic nerve, damage which was once again prevented by memantine Glutamate’s role in optic neuropathy is not restricted to induced nerve damage. Elevated glutamate levels have been demonstrated in the vitreous of glaucomatous rabbits, dogs and humans. Therefore, the testing of neuroprotective drugs in glaucomatous patients is warranted. Obviously, such drugs are not expected to restore vision which has been lost prior to initiation of treatment. However, it is hoped that neuroprotective therapy will prevent (or decrease) damage to additional optic nerve fibers, and thereby halt (or slow down) the progressive loss of vision that is the scourge of glaucoma.


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SCIENCE FICTION? RESTORTING VISION IN THE BLIND PATIENT Several approaches are being developed to restore vision to blind patients. These approaches have yielded promising results in patients suffering from (inherited) diseases of the outer retina. Therefore, they could potentially be used to restore vision in patients suffering from PRA (prcd), congenital stationary night blindness, etc. Two therapeutic approaches are being tested. The first approach is based on restoring function to the photoreceptor by replacing the defective gene. This can be done using genetic engineering methods, which involve inserting the missing gene onto a modified virus and injecting it subretinally. Such studies have been conducted in dogs with various forms of inherited photoreceptor diseases by Dr. G Aguirre (Cornell/Pennsylvania) and Dr. K Narfstrom (Missouri). The operations have restored vision (proven both behaviorally and using ERG) in a large number of dogs, with some patients already monitored for 3-4 years post-surgery.

Photoreceptor function can also be restored following subretinal injections of stem cells or RPE basement membrane. A second therapeutic approach involves use of retinal implants. These are miniaturized electrodes that are implanted on the surface of the retina. The electrode receives visual input either from light sensitive diodes or from a miniature camera (mounted on glasses). The visual input is translated into electrical currents that stimulate the ganglion cells and generate a neuronal signal. The technology is in its preliminary stages, and is severely limited by the number of electrodes that can be implanted (thus affecting visual resolution), but has already been used on humans (and dogs!). See www.2-sight.com for more details.

Author’s Address for correspondence: Ron Ofri Koret School of Veterinary Medicine, Hebrew University of Jerusalem PO Box 12, Rehovot 76100, (ofri@agri.huji.ac.il)


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Imidacloprid plus moxidectin topical solution - a novel therapeutic for ectoparasitic diseases in dogs and cats Joy D. Olsen Med Vet,, Leverkusen, Germania

A new topical endectocide formulation containing 10% imidacloprid and 2.5% moxidectin for dogs, or 1% moxidectin for cats, has been developed and approved for use in many European countries. The combination of these active ingredients provides not only for the prevention of heartworm disease and treatment of common intestinal worms, but also treatment for ectoparasitic diseases such as flea infestation, ear mites, sarcoptic mange and demodicosis. Imidacloprid belongs to one of the newer class of insecticides called chloronicotinyl nitroguanidines or neonicotinoids, and was the first of this class developed for use in animal health The activity of imidacloprid against fleas is highly potent and rapid, and the lethal effects are mediated on contact and through penetration of the compound through the flea intersegmental membranes. The rapid killing of fleas on contact is especially beneficial for pets that suffer from flea allergy dermatitis (FAD), and imidacloprid is approved to be used as part of a treatment strategy for FAD. In addition to potent and rapid adulticidal activity against fleas on dogs and cats, imidacloprid has also been shown to have significant flea larvicidal activity, both in laboratory studies as well as in simulated home environments. Flea larvae in the pet’s surroundings are killed after contact with a pet treated with imidacloprid, which is important as immature stages in the environment are a reservoir of reinfestation. Exposure of larvae to minute quantities of imidacloprid results in marked reduction of developing flea populations in comparison to environments of untreated animals, thus helping further to break the flea life cycle and rapidly reduce the level of flea infestation. Imidacloprid has also been shown to have activity against biting (Trichodectes canis) and sucking lice (Linognathus setosus) on dogs. Following application of the imidacloprid/moxidectin spot-on formulation to the skin, the imidacloprid active spreads over the body surface and throughout the hair coat of dogs and fur of cats. The dose-rate and concentration of imidacloprid was adopted from previously-approved topical formulations of imidacloprid. Controlled laboratory and field evaluations were conducted to demonstrate that the combination of the two active ingredients do not interact and instead perform as single components. Studies using weekly flea infestations in dogs and cats, and in comparison to a imidacloprid topical solution alone, demonstrated very high levels of flea control and that the presence of moxidectin does not interfere with the efficacy of imidacloprid. The imidacloprid/moxidectin solution is the first product for dogs and cats to incorporate moxidectin in a topical for-

mulation. Moxidectin is a potent broad-spectrum endectocide of the macrocyclic lactone class. The macrocyclic lactones consist of two closely related groups – avermectins and milbemycins. Moxidectin is a 16-member pentacyclic lactone of the milbemycin class and a semisynthetic derivative of nemadectin, a fermentation product of the Streptomyces cyanogriseus noncyanogenus organism. Moxidectin has been previously available throughout the world in different oral, injectable and topical formulations for use in dogs, horses and livestock animals. Like other macrocyclic lactones, moxidectin has high affinity for and binding of receptors at glutamate-gated ion channels specific to parasites. Binding of receptors on the neuronal membranes of nematodes and muscle membranes of arthropods leads to influx of chloride ions, followed by hyperpolarization, paralysis and death of the parasite. Milbemycins and avermectins are also thought to have agonist activity at the gamma-amino butyric acid (GABA) receptor complexes in the peripheral nervous system of invertebrates. Because GABA receptors are restricted to sites within the central nervous system in mammals and the blood-brain barrier prevents access of these drugs, mammals are generally protected from any neurologic effects. The broad spectrum of activity of moxidectin includes a biologically diverse range of parasites in cats in dogs including nematodes of the gastrointestinal tract, developmental stages of filarial nematodes (e.g. Dirofilaria imitis) and also, of special interest, arachnids such as mites. Following topical application of the moxidectin and imidacloprid combination solution, moxidectin is extensively absorbed through the dermis. Moxidectin is a highly lipophilic compound with a higher volume of distribution and longer elimination half-life than many other macrocyclic lactones. Pharmacokinetic studies indicate that following topical application, peak serum concentrations of moxidectin are reached by one day in cats and within 4 – 9 days in dogs, with half-lives of approximately 15 days and 35 days, respectively. These studies also confirmed the very high volume of distribution of 80 l/kg in cats and 70 l/kg in dogs, suggesting that moxidectin distributes widely in the tissues. The extensive tissue distribution and long elimination half-life observed with application of the topical formulation provides for prolonged activity against target parasites. The doses of moxidectin in the dog (2.5%) and cat (1%) formulations were determined by a number of dose-response studies with different concentrations of moxidectin added to a 10% imidacloprid formulation and based on differing species characteristics.


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In addition to treatment and prevention of flea infestation, the imidacloprid/moxidectin spot-on is approved for the treatment of various mites including ear mite infestations (Otodectes cynotis) in dogs and cats, and sarcoptic mange (Sarcoptes scabiei var. canis) and demodicosis (Demodex canis) in dogs. In evaluation of the efficacy for ear mite infestations in cats, three independent laboratory studies and one field study, in 30 practices across France and Germany, were conducted under VICH guidelines. In all studies, two consecutive monthly treatments were efficacious in curing all cats from Otodectes cynotis infestations as assessed 22 days following the second treatment (Study Day +50). While a high percentage of cats (≥ 80%) had resolution of their ear mite infestations following one monthly treatment, some cats may require an additional application. In a similar laboratory study in dogs, efficacy following a single treatment was found to be 98.3% and 98% following two treatments four weeks apart. In a multicenter field study in Europe, treatment with either one or two monthly treatments resulted in an 86.7% parasitological cure rate in treated dogs. A controlled laboratory study to evaluate the efficacy of imidacloprid/moxidectin topical solution for treatment of sarcoptic mange in naturally infested dogs demonstrated 100% parasitological cure rate in treated dogs with two treatments 28 days apart, with a trend toward a more rapid and improved response in resolution of clinical signs as compared to the selamectin-treated control group. The results of the laboratory study were confirmed in a controlled, randomized multicenter trial conducted in France, Germany, UK and Albania, wherein the imidacloprid/moxidectin solution applied twice (four weeks apart) was highly efficacious in resolving Sarcoptes scabiei var. canis infestations on treated dogs and resulted in almost complete resolution of clinical symptoms within 50 to 64 days after the start of treatment. One-hundred percent of dogs had no evidence of Sarcoptes mites on Day 56 (±2 days) after the start of treatment. Treatment of canine demodicosis was first evaluated in a laboratory study in South Africa in dogs with severe generalized demodicosis. Following encouraging results in reduction of mite number with up to four monthly applications, a multicenter, controlled, randomized and blinded field study was conducted under European field conditions. Dogs entered into the study had generalized demodicosis and were treated with either imidacloprid/moxidectin topical solution or oral milbemycin oxime at 0.5 – 2.0 mg/kg body weight daily. Presence of mites in skin scrapings and

clinical improvements were monitored at 4 week intervals, up to six times. In the moxidectin topical group, each dog received two to four monthly treatments, while in the control group, dogs received two to four 28-day-periods of daily medication with milbemycin. Treatment was discontinued in all dogs either upon achieving two consecutive negative skin scrapings, or after Day 84. At study end, no mites could be detected in 26 of 30 dogs treated with imidacloprid/moxidectin spot-on and in 29 of 33 dogs treated with oral milbemycin oxime. Overall, the treatment with the imidacloprid/moxidectin formulation was found to be highly convenient and cost-effective in comparison to the oral therapy for generalized demodicosis.

References Arther RG, Bowman DD, McCall JW, Hansen O, Young DR. Feline Advantage HeartTM (imidacloprid and moxidectin) Topical Solution as monthly treatment for prevention of heartworm infection (Dirofilaria immitis) and control of fleas (Ctenocephalides felis) on cats. Parasitol Research (2003) 90:S137-S139. Fourie LJ, Kok DJ, Heine J. Evaluation of the efficacy of imidacloprid 10% / moxidectin 1% spot-on against Otodectes cynotis in cats. Parasitol Research (2003) 90:S112-S113. Fourie LJ, Du Rand C, Heine J. Evaluation of the efficacy of imidacloprid 10% / moxidectin 2.5% spot-on against Sarcoptes scabiei var canis on dogs. Parasitol Res (2003) 90:S135-S136. Fourie LJ, Heine J. Evaluation of the efficacy of Advocate (moxidectin 2.5% and imidacloprid 10%) spot-on for the treatment of generalized demodicosis in dogs. Proc 6th Intern Ectoparasite Symp, BSAVA Congress, April 2005, Birminham UK, p. 32-36, published by UKVet Publications. Hanson I, Mencke N, Asskildt H, Ewald-Hamm D, Dorn H. Field study on the insecticidal efficacy of Advantage against natural infestations of dogs with lice. Parasitol Res (1999) 85:347-348. Heine J, Krieger K, Dumont P, Hellmann K. Evaluation of the efficacy and safety of imidacloprid 10% plus 2.5% spot-on in the treatment of generalized demodicosis in dogs: results of a European field study. Parasitol Research (2005) 97:S89-S96. Krämer F, Mencke N. Imidacloprid. In Flea Biology and Control. SpringerVerlag. Berlin, Germany, 2001. Krieger K, Heine J, Dumont P, Hellmann K. Efficacy and safety of imidacloprid 10% plus moxidectin 2.5% spot-on in the treatment of sarcoptic mange and otoacariosis in dogs: results of a European field study. Parasitol Research (2005) 97:S81-S88.

Author’s Address for correspondence: Joy D. Olsen Bayer HealthCare AG, Animal Health Division, Leverkusen Germany


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Evaluation of heart function using blood-based tests: current use and future applications Mark A. Oyama DVM, Dipl ACVIM-Cardiology, Philadelphia, USA

The evaluation of heart function in dogs is typically accomplished by electrocardiography, radiography, and echocardiography. These tests are relatively expensive, timeconsuming, and in the case of echocardiography, require equipment and expertise that is often not readily available. Other organ systems, such as the liver or kidneys, use biochemical markers to help determine function (eg. ALT and BUN) and provide a rapid, relatively non-invasive, and inexpensive way to diagnose and monitor disease in dogs and cats. Until recently, the heart has lacked similar blood-based tests. In humans, several cardiac enzymes have been used to assist in the diagnosis of acute myocardial infarction, namely creatine kinase, myoglobin, and lactate dehydrogenase. Unfortunately, these substances lack sufficient sensitivity and specificity for successful clinical application in dogs. Over the past decade, a new generation of cardiac markers and neurohormones has been developed. These markers have found use in human medicine, not only for myocardial infarction, but also in the setting of chronic heart failure. Emerging data indicate that as many as three different biochemical cardiac markers could be useful in the clinical evaluation of dogs with heart disease. These markers, atrial natriuretic peptide (ANP), B-type natriuretic peptide (BNP), and troponin-I (TnI) could provide clinicians with valuable information regarding likelihood of congestive heart failure, detection of asymptomatic (occult) disease, and severity of underlying injury to the myocardial tissue. The author and other cardiologists are optimistic that these tests will eventually become widely available, routinely used, and clinically useful tools to assess heart disease in the dog.

Atrial Natriuretic Peptide ANP’s biologic activity serves as a counterbalance to that of the renin-angiogtensin-aldosterone system, insofar as it promotes vasodilation and natriuresis. ANP is produced by atrial myocardiocytes in response to increased atrial pressure and resultant stretch as frequently occurs during congestive heart failure. Thus, the clinical application of ANP best relates to its role as a marker of congestive heart failure brought on by elevations in atrial pressure. In a study examining dogs that presented to the hospital for respiratory distress, ANP possessed good sensitivity and specificity for predicting heart failure as the primary cause of the dyspnea (versus other non-cardiac causes such as pneumonia, neoplasia, and chronic bronchitis).1 A commercial ANP ELISA kit has been developed specifically for use in dogs (VetsignTM, Guildhay Ltd, Surrey, UK). The author views ANP

as useful in helping diagnose congestive heart failure and perhaps in monitoring efficacy of treatment. Since substantial release of ANP does not occur until relatively late in the course of disease2, ANP does not appear useful in detecting occult heart disease in asymptomatic patients. Current Uses of ANP Testing • Aid to diagnose congestive heart failure in dogs Potential Uses of ANP Testing • Aid to diagnosis congestive heart failure in cats • Monitoring response to treatment • Providing prognosis Circumstances in which ANP Testing is Unlikely to be Useful • Detection of early stages of heart disease

B-Type Natriuretic Peptide BNP is similar to ANP in that it promotes vasodilation and natriuresis. BNP is produced by both the atrial and ventricular muscle tissue in response to stretch or increased wall stress. BNP testing has become a valuable and widely used tool in humans with heart disease. Two human BNP assays are approved for detection of congestive heart failure. In addition, these tests are used as a prognostic tool and as a guide for optimizing therapy in individual patients. The author believes that BNP testing will have similar application in dogs and cats with heart disease. Studies in dogs reveal that BNP is elevated in proportion to severity of disease and is also detected relatively early in the course of disease.3,4 The author has completed a study, which indicated that in a population of 118 dogs, BNP assay prospectively detected occult disease with sensitivity of 95% and specificity of 62%, and in this regard, BNP was superior to both ANP and TnI.5 This finding suggests that BNP could be useful as a screening test for dogs with occult disease. Furthermore, in humans, BNP is a strong indicator of clinical outcome, with higher levels predicting a poorer prognosis, and the authors are currently evaluating BNP as a prognostic indicator in dogs with subaortic stenosis or with cardiomyopathy. Commercially-available human BNP immunoassays do not cross-react with canine BNP, and BNP assay in dogs has been typically performed using a relatively crude and labor-intensive radioimmunoassay procedure. Newer canine-specific ELISA-based BNP tests may have the capacity to reduce technical difficulties and improve test precision


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and accuracy. The author is part of an effort to develop both canine and feline BNP ELISA tests for commercial use. Current Uses of BNP Testing • Humans: diagnosis, prognosis, response to treatment • Veterinary medicine: no approved tests available Potential Uses of BNP Testing based on Veterinary Studies • Differentiation of cardiac vs. non-cardiac dyspnea in the dog • Detection of occult cardiomyopathy in dogs

Current Uses of TnI Testing • Humans: diagnosis of acute myocardial infarction • Veterinary species: no approved use Potential Uses of TnI Testing based on Veterinary Studies • Assessment of disease severity in dogs with subaortic stenosis, cardiomyopathy, and mitral valve disease • Assessment of disease severity in cats with cardiomyopathy • Prognostic indicator in dogs with cardiomyopathy • Monitoring response to treatment • Assessment of cardiac damage due to extra-cardiac disease (e.g. gastric dilation and volvulus)

Cardiac Troponin-I Cardiac TnI is helps regulate actin and myosin interaction along with troponin-C and troponin-T. TnI inhibits the interaction between the filaments until the troponin complex is bound to calcium ion whereupon contraction is initiated. Injury to the myocardial cell causes disruption of the actin-myosin-troponin functional unit, and TnI is released into the cytoplasm and enters the general circulation through the cell’s damaged sarcolemmal membrane. The majority of TnI that is released in humans is complexed with either troponin-C or troponin C and T. In humans, TnI is a highly sensitive and specific indicator of cardiac muscle damage and is the current gold standard laboratory test for myocardial infarction. Low-level injury to the myocardium from other causes, such as myocardial or valvular disease, causes release of detectable TnI when highly sensitive TnI assays are used. Fortunately, there is sufficient homology between human and canine TnI so that automated human assays function well with canine plasma.6 The author and others have reported increased TnI concentrations in dogs with a variety of diseases including DCM, mitral valve regurgitation, trauma, gastric dilation and volvulus, myocarditis, and subaortic stenosis.7,8 TnI is not uniformly elevated in dogs with heart disease, preventing the use of TnI as a screening test in asymptomatic dogs or as a diagnostic test for congestive heart failure. As a marker of myocardial injury and necrosis, TnI may be better suited as a prognostic indicator in dogs with severe injury or as a guide towards optimal therapy. In dogs with clinically apparent DCM, the TnI concentration correlated with survival. Dogs with elevated TnI were three times more likely to be euthanized or die versus dogs with lesser TnI concentrations.7

Circumstances in which TnI Testing is Unlikely to be Useful • Detection of early stages of heart disease • Differentiation of cardiac vs. non-cardiac causes of dyspnea

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Conflict of Interest Statement Dr. Oyama performs paid consulting for IDEXX Inc, Portland, ME, USA.


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Canine mitral valve disease: how, when, and why to treat Mark A. Oyama DVM, Dipl ACVIM-Cardiology, Philadelphia, USA

Degenerative mitral valve disease (DMVD) is the most common disease of adult dogs. A common clinical problem is deciding how, when, and why to treat dogs with this disease. In this case-based presentation, commonly encountered clinical dilemmas will be presented and attendees will participate in working through the problems, learning how to best apply their clinical skills and how to use new information presented about this disease.

Clinical Problem #1: The Old Small Breed Coughing Dog Typical presentation and physical examination: small breed dog with history of coughing and occasional respiratory signs, moderate to loud mitral valve murmur on physical examination, harsh lung sounds, cough easily elicited on tracheal palpation. Clinical dilemma: Heart failure or primary respiratory disease? Clinical questions to be answered: ♦ What does the intensity of the murmur tell us about the likelihood of heart failure? ♦ How can we determine if an interstitial pulmonary pattern is representative of heart failure or primary lung disease? ♦ Is an ECG or cardiac ultrasound necessary to make the correct diagnosis? ♦ If heart failure is suspected, what treatments should be administered? ♦ Are there blood-based tests that can help differentiate between heart failure and respiratory disease? ♦ What should we do if we cannot differentiate between the two?

Clinical Problem #2: To Treat or Not to Treat? Typical presentation and physical examination: dog with a loud mitral murmur that is asymptomatic Clinical dilemma: Do I treat this dog? And if so, with what medications? Clinical questions to be answered: ♦ How many dogs with a murmur will eventually experience heart failure? ♦ How do I grade the severity of disease? ♦ Are there medications that slow the progression of mitral valve degeneration? ♦ Are there medications that delay the onset of heart failure? ♦ If I choose not to treat at this time, when do I reevaluate this patient?

♦ If I choose not to treat at this time, what future findings would make me reconsider this decision?

Clinical Problem #3: Atrial Fibrillation Typical presentation and physical examination: dog with severe mitral valve disease, history of congestive heart failure, and atrial fibrillation Clinical dilemma: How do I treat this dog? Clinical questions to be answered: ♦ What is the impact of atrial fibrillation on heart function and heart failure? ♦ Can I restore sinus rhythm in this patient? ♦ What medications should be used to treat atrial fibrillation? ♦ How do I monitor response to therapy? ♦ Is there value in performing 24-hour ambulatory (Holter) monitoring?

Clinical Problem #4: Severe Disease that is No Longer Responding to Treatment Typical presentation and physical examination: dog with severe mitral valve disease, frequent episodes of congestive heart failure that are no longer responding to conventional treatment Clinical dilemma: How do I treat this dog? Clinical questions to be answered: ♦ Why do dogs become refractory to treatment? ♦ Have I truly maximized conventional therapy? ♦ If so, are there other drugs that can help resolve heart failure? ♦ How do I use these new drugs? ♦ How do I monitor response to therapy? ♦ What are the potential adverse effects of using these new drugs? ♦ Are there extra-cardiac drugs that can be used to address chronic weight loss and poor appetite?

Suggested Readings and References Gry Moesgaard S et al. Neurohormonal and circulatory effects of short-term treatment with enalapril and quinapril in dogs with asymptomatic mitral regurgitation. J Vet Int Med 2005:19:712-719. Haggstrom J et al. New insights into degenerative valve disease in dogs. Vet Clin North Amer Sm Ani Pract 2004:34:1209-1226. Smith PJ et al. Efficacy and safet of pimobendan in canine heart failure caused by myxomatous mitral valve disease. J Small Anim Pract. 2005;46(3):121-30. Olsen LH et al. Early echocardiographic predictors of myxomatous mitral valve disease in dachshunds. Vet Rec. 2003;152(10):293-7.


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Cardiac Doppler tissue imaging Mark A. Oyama DVM, Dipl ACVIM-Cardiology, Philadelphia, USA

Tissue Doppler Imaging

Color Doppler M-mode imaging

Tissue Doppler imaging (TDI) examines the motion of cardiac tissue. Myocardial motion, as compared to blood flow, returns high amplitude and low velocity signals. By use of selective filters, TDI settings on modern ultrasound units optimize TDI studies. The most common structure interrogated by TDI is the mitral valve annulus. The velocity of the annulus represents the rate of change of ventricular length during diastolic filling. TDI measures both early and late diastolic annular velocity (EDTI and ADTI, respectively). The interpretation of DTI studies is similar to that of mitral inflow velocity, in that poor diastolic function is revealed by decreased EDTI, elevated ADTI, and EDTI / ADTI <1. Mitral annular motion, unlike mitral inflow velocity, is relatively insensitive to changes in preload. Thus, in cases of moderate to advanced diastolic dysfunction, increased left atrial pressure does not affect the balance between early and late annular motion, and EDTI/ADTI typically remains <1. By indexing mitral inflow velocity to TDI-derived mitral annular velocity, the effect of ventricular diastolic function can be removed from the mitral inflow information, leaving an index of preload that can be used to estimate left atrial pressure. In this way, TDI offers a non-invasive index of filling pressures that can be used to help make clinical decisions regarding presence of absence of congestive heart failure. Recently, TDI has been used to assess systolic motion of the left ventricle and may be more sensitive to early changes in contractile function than traditional 2D or Mmode ejection indices. The full clinical application of DTI has yet to be realized. The primary promise of DTI is development of a rapid, easily obtainable, accurate, and quantitative measure of diastolic heart function, which has been previously lacking in clinical echocardiography. In addition to furthering our understanding diastolic abnormalities and their progression during course of disease, it is anticipated that DTI can help test the efficacy of new treatment strategies.

Color M-mode imaging superimposes a color flow Doppler study over a conventional M-mode study, permitting the study of blood flow in relation to the anatomic structures. Color M-mode interrogation of the early inflow of blood from the left atrium to LV (early mitral inflow), represents the velocity of blood flow (cm/sec) along the length of the LV throughout the entire early portion of diastole. This measure of mitral inflow propagation velocity, Vp, is relatively independent from atrial filling pressures and possesses a strong correlation with LV relaxation. Vp decreases in patients with poor ventricular relaxation and is recognized as a decrease in the slope of the color flow M-mode signal. In clinical practice, measurement of Vp is hindered by a large degree of variation in signal acquisition, quality, and measurement. In one study, Vp was not useful in dogs with experimental mitral valve regurgitation. In other studies involving cats, the ratio of early mitral inflow to Vp possessed moderate correlation with left ventricular end-diastolic pressures. This presentation will discuss TDI and color M-mode techniques and measurements. The use of these methods in human medicine will be briefly reviewed. Current uses in veterinary medicine will then be discussed. Finally, future directions involving TDI and color M-mode will be presented.

Suggested References 1. 2.

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Use of beta-blockers for the treatment of canine dilated cardiomyopathy and mitral valve disease Mark A. Oyama DVM, Dipl ACVIM-Cardiology, Philadelphia, USA

DCM is the most common cardiomyopathy afflicting canine patients. In breeds such as the Doberman pinscher, Great Dane, Boxer, and Irish Wolfhound, the impact of DCM is profound. The expected survival after the onset of clinical signs is extremely short, an average of only 5 months; this despite therapy with digitalis, diuretics, and angiotensin converting enzyme (ACE) inhibitors. B-blockers offer a novel way to improve treatment of this disease. In people, B-blockers improve ejection fraction more than any other type of medical heart failure treatment. Chronic therapy with B-blockers improves systolic function, exercise tolerance (variably), quality of life (variably), and increases survival. Prospective placebo-controlled evaluation of Bblockers in dogs with naturally occurring DCM has not been reported. This presentation will discuss the rationale for Bblocker use in both DCM and mitral valve disesae, the various types of B-blockers that are available, and results from a prospective clinical trial recently completed by the author investigating the use of carvedilol in dogs with DCM. The cardinal feature of DCM is the progressive loss of myocardial systolic function, and it seems counterintuitive that negative inotropes such as B-blockers would be useful. Indeed, B-agonists such as dopamine and dobutamine are commonly used to treat congestive heart failure caused by severe DCM. Moreover, as cardiac function deteriorates, heightened activity of two neurohormonal systems, the renin-angiotensin-aldosterone system and the sympathetic nervous system, compensates by increasing contractility, expanding plasma volume, and maintaining blood pressure. Thus, increased activity of the sympathetic nervous system provides support to the failing heart, and treatments, which interfere with this response, a contraindication. However, it is now clear that when chronically activated, the sympathetic nervous system begins to induce cardiac damage and hasten the progression of disease. Chronically elevated levels of circulating catacholamines cause direct myocyte necrosis and apoptosis, inefficient metabolic substrate utilization, and abnormalities in intracellular Ca2+ handling by the sarcoplasmic reticulum. To help protect against these effects, the myocyte desensitizes itself by reducing the density of Breceptors on its surface, as well as uncoupling the G protein and cAMP complex from the receptor mechanism. As a result, the heart loses its ability to respond to native sympathetic support during times of increased need (i.e. exercise). The rationale behind the use of B-blockers is to interrupt this system, much like the effect of ACE inhibitors on the reninangiotensin-aldosterone system. As previously mentioned, the effect of B-blockade in human DCM patients includes an

improvement in systolic function, exercise capacity, quality of life, and most recently, survival. In addition, B-blockade has been shown to directly decrease circulating levels of norepinephrine epinephrine, and renin. The objectives of the proposed study involve tolerability, systolic function, neurohormone levels, and quality of life. The pertinent literature associated with these 4 effects will be briefly discussed. Administration of B-blockers to patients with compromised myocardial function is not without risk. Initiation of therapy can acutely reduce adrenergic inotropic and chronotropic support, thereby worsening myocardial function. Administration of B-blockers usually requires a 4 to 8 week titration period during which doses are gradually increased to a therapeutic level. Staring doses of carvedilol are typically 12% of the target dose. During this initial period, 7% of human patients do not tolerate carvedilol treatment. In these instances, complete withdrawal from drug is usually not required and treatment can be continued at the highest dose tolerated. Improved tolerance can be achieved by selecting a third generation agent versus a first or second generation agent. Third generation agents possess ancillary vasoactive properties, and carvedilol exhibits mild 1-antagonism, resulting in peripheral vasodilation. This activity helps offset the initial decline in myocardial function and may be the reason for its improved tolerability. Despite this, titration in people is carried out with careful attention to blood pressure, symptomatology, and renal function. Uptitration is typically performed every week when the medication dosage is progressively doubled. Patients who experience adverse effects usually do so within the first 2 or 3 dose adjustments. B-blocker therapy has been shown to consistently improve or prevent deterioration of systolic function and ventricular dimensions. A recent meta-analysis of 18 prospective double-blinded placebo-controlled clinical trials involving use of B-blockers in people included over 55,000 DCM patients and revealed a mean increase in ejection fraction from 23% to 31% (p<10-9).1 Results of the CIBIS trial revealed that fractional shortening increased after treatment with the B-blocker, bisoprolol.1 Ejection fraction and fractional shortening are the most commonly used measures of systolic function, but systolic time intervals also improve after treatment with B-blockers. In association with functional improvement, treatment results in reversal of pathologic cardiac remodeling. Pooled results from 3 different trials show that left ventricular end-diastolic and end-systolic dimensions were reduced by an average of 4.6mm and 2.9mm, respectively.2 These results demonstrate that B-


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blocker use has the capacity to reverse established remodeling, a benefit not achieved with standard heart failure drugs such as diuretics and digitalis. In several studies B-blockers failed to improve ejection fraction or ventricular dimensions versus the baseline measurement, but as compared to controls, prevented their deterioration. This effect may be just as beneficial as an absolute increase in values. Previous studies have revealed mixed results involving the level of circulating catecholamines following treatment with B-blockers. Some studies show that plasma levels of norepinephrine decrease and some show no change. 3,4 One study prevented the increase in norepinephrine that occurred in the controls. The variable results may be related to the underlying disease process. Woodley found that norepinephrine levels decreased in patients with idiopathic DCM (similar to disease found in dogs) but did not in patients with DCM due to ischemic coronary artery disease. It is also interesting to note that even in the studies where the norepinephrine level did not change, heart rate was significantly lower after treatment, an indicator of effective receptor blockade and adrenergic antagonism. Plasma renin activity is decreased after B-blocker administration.5 This effect is attributed to inhibition of B1-receptors that effect renin release from the renal juxtaglomerular apparatus, or to improved renal perfusion. The detrimental effects of the renin-angiotensin-aldosterone system are well known and include fluid retention, vasoconstriction, and pathologic ventricular remodeling. Typically, ACE inhibitors are used to prevent the formation of angiotensin II further along the renin-angiotensin-aldosterone axis, and the value of decreasing plasma renin activity has been questioned; however, there are alternative pathways for the conversion of

angiotensin I to angiotensin II, and reduction of plasma renin activity may help provide a more complete inhibition of this system. ANP is elevated during treatment with B-blockers. These elevations may be due to decreased excretion or a reduction in the inhibitory effect of adrenergic stimulation on ANP release. The physiologic effects of ANP counteract the effects of the renin-angiotensin-aldosterone and sympathetic nervous systems, and may account for some of the salutary effects of B-blockers.

References 5.

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Fracture treatment strategies and complications in growing dogs and cats Ross H. Palmer DVM, MS, Dipl ACVS, Fort Collins, Colorado USA

Bone in immature animals is biomechanically, anatomically, and physiologically distinct from mature bone. Failure to recognize the unique features of immature bone when treating fractures increases the risk of complications that may cause years of morbidity. Mature bone’s inorganic mineral content accounts for 65 to 70% of its dry weight and gives bone its solid consistency and rigidity. The organic extracellular matrix, composed primarily of collagen, gives bone its flexibility and resiliency. The mineral content of bone rapidly increases during skeletal growth such that its stiffness increases up to 20 fold in the first 6 months. Compared to mature bone, immature bone is more ductile, absorbs more energy, and tolerates more strain and elastic deformation prior to fracture. Accordingly, incomplete “greenstick” fractures and bent (plastically deformed) bones are almost exclusively seen in growing dogs. The brittle nature of adult bone causes it to fracture with little plastic deformation such that anatomic reconstruction of bony segments is feasible when indicated. The more ductile nature of immature bone, however, can plastically deform quite significantly prior to fracture. Additionally, the soft nature of immature bone makes implants more prone to premature loosening. Fractures in the growing dog often occur in the region of the physis. Unfortunately, rather than occurring in the hypertrophic zone as is typical in humans, naturally occurring physeal fractures in the canine often occur in the proliferative zone.1 This may account for the relatively high risk of physeal dysfunction following injury in dogs. The effect of gonadectomy on physeal function should also be considered. Gonadectomy delays normal physeal closure and the earlier gonadectomy is performed, the more prolonged is the delay.2 The periosteum of growing dogs and cats is relatively thick and vascular and contributes dramatically to appositional bone growth and the rapid development of callus fracture healing. However, excessive emphasis on the fracture healing potential of growing dogs often distracts veterinary attention from the goal of rapid restoration of normal limb function. Several general treatment strategies are applicable to growing dogs and cats: • Focus upon rapid, full restoration of limb function in treatment selection rather than on fracture healing. • Frequent convalescent recheck examinations with attentive observation of limb use and joint mobility and function. • Do not span physes with implants that prevent longitudinal bone growth.

• Pins spanning a physis should be of as small a diameter as possible to achieve proper stability and should be positioned such that they can be removed when fracture union is achieved. Pelvic fractures in puppies have an excellent prognosis for healing with most any treatment. However, severe mechanical constipation and secondary colo-rectal dysfunction may result if malunion causes excessive pelvic canal narrowing. Internal plate fixation of ilial fractures is performed when there is risk of pelvic collapse and the plate is contoured such that pelvic canal is opened to its normal dimension. When anatomic reconstruction of longitudinal ilial fractures is feasible, lag screws placed from ventral to dorsal alone or through a second bone plate reduces the risk of screw loosening by increasing the implant-bone interface and creating a tension band effect on the ventro-lateral tension band surface.3-5 Femoral fractures in growing dogs and cats often occur at the physes, but also occur in the diaphysis. Slipped capital femoral epiphysis (SCFE) occurs in both dogs and cats. In cats, this condition often develops in overweight, neutered males between 1.5 and 2.5 years of age despite the lack of a traumatic incident and is theorized to be the result of chronic mechanical overload of the physis that is delayed on closure because of early gonadectomy.6 This condition may involve one or both hips. If only one hip is involved, the contralateral hip should be closely evaluated on radiographs and the pet owner informed that delayed development of the condition in the contralateral hip is not uncommon. In cats, SCFE can be effectively treated with internal fixation or femoral head/neck excision. In dogs, SCFE is most commonly the result of trauma, but nontraumatic cases have been identified.7 The risk of coxofemoral osteoarthritis is increased when SCFE develops in dogs < 4 months of age because physeal closure results in a shortened femoral neck. Normal femoral neck length and limb use are important in the normal development of the coxofemoral joint. Fixation of SCFE with multiple Kirschner wires is more stable than a single wire.8 Fixation with a lag screw is even more stable, but should be avoided if preservation of physeal growth is desired.9 Distal femoral physeal fractures are common in dogs and cats. Cats often develop Salter-Harris I fractures and dogs most commonly have Salter-Harris II fractures. Internal fixation of these fractures is easily performed with cross-pinning or dynamic pinning techniques. Cross-pinning provides superior to resistance to rotational forces, but either fixation provides adequate stability.10 A single


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intramedullary pin can be used if the interdigitation of the unique “four pegs in four cups” contour of the distal femoral physis provides adequate rotational stability. Femoral diaphyseal fractures often involve the distal half of the bone. While the prognosis for fracture union is excellent in properly treated fractures, the risk of quadriceps contracture should be assessed. Risk factors for quadriceps contracture include distal femoral fracture, extensive comminution or soft tissue injury, unstable fracture fixation, reduced stifle flexion upon fracture reduction/alignment, surgical stabilization combined with external coaptation. When there is increased risk of quadriceps contracture, a 90º/90º flexion sling should be used during the first 48-72 hours after surgery followed by passive/active physical therapy each day for the first 3-4 weeks after surgery. Attentive convalescent care should include recheck examinations every 2-3 days during the first two weeks following surgery. Tibial fractures are relatively common in growing dogs and may occur at the physes or within the diaphysis. The tibial tubercle develops from a separate ossification center from the proximal tibial epiphysis. Avulsion fracture of the tibial tubercle may occur as an isolated injury or in combination with Salter-Harris I or II fractures of the proximal tibial physis. Tibial tubercle fractures may be treated with Kirschner wires or tension band fixation, though the latter is more likely to permanently close the physis. Salter-Harris fractures of the proximal tibial physis are often treated with multiple Kirschner wires. Radiographs are often made in 2week intervals and implants are removed, if feasible, at the earliest sign of fracture union. Greenstick (incomplete) and minimally displaced fractures of the tibial diaphysis are relatively common in growing dogs. While coaptation is frequently effective in achieving bony union of such fractures, maintaining the stifle in some flexion, encouraging slow, controlled limb use and keeping the duration of coaptation to

a minimum helps maintain retropatellar pressure and avoid the complication of patellar luxation.

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Author’s Address for correspondence: Ross H. Palmer Colorado State University Veterinary Medical Center Fort Collins, Colorado USA


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Clinical tips for early detection of elbow dysplasia Ross H. Palmer DVM, MS, Dipl ACVS, Fort Collins, Colorado USA

Early detection of elbow dysplasia is very important in order to avail pet owners of all treatment options and to treat underlying problems prior to the development of secondary osteoarthritis. Early detection of ED requires that the veterinarian develop an “index of suspicion” based upon patient signalment and history, then carefully perform a physical examination, and finally closely scrutinize radiographs for subtle supportive findings.

Signalment and History ED is most common in Golden Retrievers, Labrador Retrievers, Rottweilers and Bernese Mountain dogs, but can affect most any large breed of dog including mongrels. Ununited anconeal process (UAP), specifically, is most prevalent in German Shepherds. Puppies may present for thoracic limb lameness, stiffness, exercise intolerance, or non-specific mobility problems as early as 4 months of age.

Gait Many puppies with ED stand with their paws externally rotated (supination). They may display an obvious “headbobbing” lameness or the lameness may be subtle. Having the patient descend stairs may be helpful in exacerbating subtle lameness. A “bunny-hopping” gait in the thoracic limbs is common as the pup descends stairs when bilateral elbow discomfort is present. When unilateral elbow discomfort is present, puppies will often lead down to each step with the comfortable limb.

Physical Examination Joint effusion is most easily detected in the standing patient as a puffy, fluid pouch between the lateral epicondyle and the olecranon. Palpation to assess for pain and range of motion (normal = flexion angle of 36º to 166º) can be performed in the standing or recumbent patient. Normally, during elbow flexion, puppies can place their distal antebrachium against the point of their shoulder with no discomfort. When elbow flexion is painful, dogs resist full flexion or pull their shoulder joint dorsally to relieve the elbow flexion. As ED progresses, elbow flexion is physically restricted by osteophytosis and/or periarticular fibrosis. Normal puppies can extend their elbow with no discomfort and display only mild discomfort upon forced, full elbow extension. The

elbows should specifically be tested in pronation and in supination and this is not painful in most normal puppies. Most puppies with ED will display some discomfort during elbow pronation and/or supination.

Radiographic Examination Concurrent diagnosis of juvenile orthopedic diseases such as panosteitis is often quite simple, but should not prevent the veterinarian from closely scrutinizing for a more challenging diagnosis of FMCP. Detection of a FMCP is diagnostic for elbow dysplasia, but detection of an FMCP is the exception rather than the rule. Clear radiographic delineation of an FMCP is difficult due to the superimposition of the medial coronoid process (MCP) upon the radial head. In addition to standard medio-lateral, flexed medio-lateral, and cranio-caudal views, various special views have been described (Cd75M-CrLO, Cr15-CdMO, MEDLAP) to increase radiographic diagnostic sensitivity for FMCP. Even with special views, however, radiography lacks sensitivity. While scintigraphy and computed tomography (CT) are of additional diagnostic value, the economy and availability of radiography make it the primary screening tool for ED. Accurate radiographic positioning and scrutiny of specific areas maximizes its diagnostic value: • Abnormal contour or lack of detail of the normal contour of the MCP (medio-lateral view) • Mild sclerosis below the trochlear notch of the ulna in the region of the MCP (medio-lateral view) • Periarticular osteophytes (“lipping”, “spurring”) associated with the MCP (cranio-caudal view) • Periarticular osteophytes along the dorsal margin of anconeal process (flexed medio-lateral view) • Osteochondritis dissecans (OCD) of the medial aspect of the humeral condyle (cr-cd view) • Incongruity of the humero-ulnar and/or radio-ulnar joints (medio-lateral view) • Un-united anconeal process (flexed medio-lateral view) On the standard medio-lateral view, the MCP should be identified in dogs > 6 months of age as a completely ossified, pointed, beak-shaped structure that meets the articular surface of the humeral condyle. Distally, from the point of the MCP, the cranial surface of the process and the proximal ulna should have a shallow concave contour. Lack of the beak-shaped point or presence of a convex or flattened shape to the cranial margin of the MCP is strongly suggestive of FMCP. Radiographic subtrochlear sclerosis on the medio-lateral views is a combination of subchondral sclerosis and periar-


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ticular osteophyte formation along the base of the trochlear notch of the ulna. This is a subjective evaluation and is very subject to minor variations in radiographic technique. Radiographic evaluation of both elbows can be helpful in patients with unilateral disease, but often the disease is bilateral. The best area to evaluate for sclerosis on a properly positioned medio-lateral view is on the distal aspect of the trochlear notch where there is no superimposition of the radius. Slight variations in radiographic positioning can produce obliquity where superimposition of the radial head or medial aspect of the humeral condyle/epicondyle can mimic sclerosis of the proximal ulna. Osteophytosis is progressive and typically follows the radiographic changes described above. Early in the course of the disease, these osteophytes are most easily detected on the dorsal margin of the anconeal process, especially on the flexed medio-lateral view. On the medio-lateral view, the ridge of the lateral epicondyle can sometimes be seen. The articular cartilage of the trochlea of the humerus joins the lateral epicondyle as a thin, knife-edge, making its radiographic visualization very dependent on positioning and radiographic technique. On radiographs where it can be seen, it appears as a faint line with a smooth, curved contour. Osteophytosis along this border appear as a bump along this smooth contour. The cranio-caudal view is the most helpful for detecting OCD of the medial aspect of the humeral condyle (trochlea). The lesion is seen as a radiolucent area on the medial articular edge of the humeral trochlea. On a lateral view it may be seen as a flattening of the medial caudo-ventral edge of the humeral trochlea. Care must be taken on the medio-lateral views (standard and flexed) to direct the radiographic beam down the long axis of the humeral “condylar spool”, producing a set of concentric rings centered on the humeral condyle. Evaluation of how the humerus, radius and ulna fit together is very subjective and very susceptible to subtle positioning errors. The flexed medio-lateral view forces the joint together and can mask joint incongruity or subluxation. The flexed medio-lateral view also is more prone to subtle obliquity shifts of humeral condyle. The standard medio-lateral view is the

easiest to properly position and to accurately evaluate for joint incongruity. In this view, the smallest circle of the humeral condyle is the narrow, grooved portion of the condyle that articulates with the central “keel” of the trochlear notch of the ulna. These 2 surfaces should be separated only by 2 radiolucent cartilage surfaces and should be uniformly parallel throughout their circumference. Humero-ulnar incongruence can be detected as the arc of the humeral trochlea and the keel of the trochlear notch of the ulna not fitting well together. Joint surface contact mapping suggests that there may be some normal or physiologic humero-ulnar incongruity in dogs, but it may be that incongruity severe enough to be detected radiographically is pathologic. Radiographic detection of a “step” incongruity, where the MCP appears elevated above the radial head, has been associated with FMCP. This step can be masked on the flexed medio-lateral view. Un-united anconeal process (UAP) is best diagnosed on the flexed medio-lateral view. The anconeal process arises from a secondary center of ossification in the elbow at 11-12 weeks of age in large breed puppies. Traditionally it has been stated that the anconeal process does not fuse with the ulna until 4-5months of age such that the diagnosis of UAP cannot be made prior to this time, but recent data suggests that earlier diagnosis can be made in German Shepherds (A. Vezzoni, personal communications). Bilateral radiographs should be made because the disease is often bilateral (2035% of cases). UAP is seen as a lucent line of variable width and clarity separating the anconeal process from the ulna. Some patients with a strong history and physical examination findings of ED have very minimal or no detectable radiographic findings. On occasion, scintigraphy can be helpful in localizing pathology to the elbow such that CT and arthroscopic evaluation can be more easily recommended to pet owner.

Author’s Address for correspondence: Ross H. Palmer Colorado State University Veterinary Medical Center Fort Collins, Colorado USA


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How do I diagnose hip dysplasia in growing dogs? Ross H. Palmer DVM, MS, Dipl ACVS, Fort Collins, Colorado USA

Canine hip dysplasia (CHD) is a complex, multifactorial, progressive disease that develops during postnatal skeletal growth. CHD in the growing dog is clinically characterized by increased dorsal acetabular rim (DAR) slope and functional hip joint hyperlaxity that permit pathologic coxofemoral subluxation and the development of secondary joint remodeling and degeneration. Veterinarians are frequently challenged to diagnose CHD in growing dogs prior to the onset of these irreversible secondary changes. Early diagnosis and proper treatment can arrest the progression of the disease and alter its pathogenesis. Passive hip joint laxity refers to laxity that can be demonstrated in puppies by means of external veterinary manipulations (Ortolani test, Barden test, PennHIP distraction index). Some degree of passive hip joint laxity is detectable via PennHIP in all dogs. Passive hip joint hyperlaxity has been shown to be a heritable phenotype of CHD as well as a breed-specific risk factor for the development of osteoarthritis (OA). Detectable passive hip joint laxity does not always relate directly to the development of CHD symptoms or OA. From a therapeutic standpoint, the challenge faced by veterinarians is to detect functional hip joint hyperlaxity in which dynamic subluxation occurs spontaneously during daily patient activities.

Signalment Most any large breed dog may develop CHD, but commonly presented breeds include Golden Retrievers, German Shepherds, Rottweilers, Labrador Retrievers, Chesapeake Bay Retrievers, Saint Bernards, and English Mastiffs. Puppies are seldom presented because of symptomatic concerns prior to 4 to 5 months of age.

History Puppies are most often presented to the veterinarian by the pet owner for vaguely expressed concerns such as pelvic limb weakness, reluctance to rise in hind end, reluctance to climb stairs, and intolerance of extended periods of exercise. Puppies are seldom presented for discrete pelvic limb lameness. Assymptomatic puppies are presented for screening evaluation in consideration of prophylaxis via juvenile pubic symphysiodesis (JPS) with increasing frequency.

Gait Evaluation Many growing dogs with functional hip joint hyperlaxity and dynamic subluxation display a unique “tight skirt” gait at a walk or trot in which they do not fully extending

their hips. Some puppies display a “bunny-hopping” gait at a walk or trot or when ascending stairs. Dynamic hip subluxation can be visualized and/or heard in some puppies while they walk.

Hip Palpation While an assistant leads the puppy at a walking gait, the examiner should walk behind the patient while resting his/her hands on the pup’s hips. Palpable dynamic hip subluxation and reduction is detected in some patients and is a definitive indicator of pathologic functional hip joint hyperlaxity. It is also helpful for the examiner to place his/her hands on the puppy’s hips and gently sway the hind end from side to side in order to detect palpable subluxation and reduction. Hip extension and hip abduction are often painful in puppies with early CHD. The Ortolani test can initially be performed in the unsedated standing or laterally recumbent puppy if it is cooperative. A negative Ortolani test is not a definitive finding in the unsedated animal. Next, the puppy is heavily sedated or anesthetized for definitive hip palpation and radiography. The Ortolani test can be performed in lateral or dorsal recumbency or both. The Ortolani test is palpation test for passive hip joint laxity and requires some inference to conclude that functional hip joint hyperlaxity is present. When performing the Ortolani test, the hip should be held in a neutral standing angle so that the joint capsule and periarticular tissues are in their passively relaxed state. Inadvertently holding the hip in extension, flexion, abduction, adduction, internal or external rotation may tighten the joint capsule and periarticular tissues and cause abnormal hip joint laxity to go undetected. A palpable reduction of the femoral head into the acetabulum during abduction of the femur is referred to as a “positive Ortolani sign”. In and of itself, a positive Ortolani sign is not an indication for Triple Pelvic Osteotomy (TPO). When a positive Ortolani sign is detected, the examiner should measure and record the angles of reduction and subluxation. Measurement of these angles with an electronic goniometer (Slocum Enterprises, Eugene, Oregon, USA) has been most repeatable in our hands. The angle of reduction is an indicator of hip joint laxity. The angle of subluxation is an indicator of the slope of the dorsal acetabular rim. Sensitive palpation of reduction and subluxation is also important. Indistinct reduction is suggestive of acetabular filling or remodeling. Indistinct subluxation or a biphasic subluxation is suggestive of dorsal acetabular rim erosion. The palpation findings are complemented by comprehensive radiographic evaluation of the hip.


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Radiographic Examination

Other Examination Tools

A ventro-dorsal hips extended (“OFA-like”) radiograph is made to evaluate for degenerative changes such as osteophytosis, shallow acetabula, femoral head flattening and thickening of the femoral necks. Coxofemoral subluxation may also be detected on this view, but it is important to remember that the marked hip extension tends to artificially “tighten” the hip joints. Therefore, subluxation present on ventro-dorsal hips extended views is real, but the absence of subluxation on this view does not rule-out hip joint hyperlaxity. A standard lateral radiographic view is useful to evaluate for lumbosacral spinal pathology, femoral neck anteversion, coxofemoral subluxation and remodeling and regional anatomic relationships. A femurs abducted (“frog leg”) radiograph is helpful to assess acetabular depth. Acetabular filling or remodeling is easier to detect when the femoral heads are compressed into the acetabula with this view. A dorsal acetabular rim (DAR) radiograph is essentially a skyline view across the dorsal acetabular rims. The normal dorsal acetabular rim has a “beak-shaped” contour and minimal slope. In the dysplastic puppy with advancing hip degeneration, there is blunting of the normal contour of the lateral margin of the dorsal acetabular rim and increased DAR slope. PennHIP radiography includes several of the views mentioned above and a passive distraction view. Other distraction radiography views have been described and each have their own advantages and disadvantages. For the PennHIP distraction view an adjustable, padded, radiolucent apparatus is placed between the thighs of the dorsally recumbent dog. The hips are placed in an approximate standing angle and gently adducted until the medial thigh surfaces are firmly in contact with the apparatus such that passive hip joint distraction occurs. The radiographs are sent to PennHIP for measurement of distraction index (DI) and for inclusion in their database.

Computed tomography (CT) can be used for high detail evaluation of dorsal acetabular rim integrity and acetabular depth. Studies have shown that consistency in patient positioning and scan landmarks are critical for consistent accuracy. Recently arthroscopic evaluation of the coxofemoral joint has been described and appears to be the most sensitive indicator of synovitis, round ligament tearing and chondromalacia.

Case selection Juvenile Pubic Symphysiodesis (JPS) must be performed prior to 20 weeks of age in large breed dogs in order to maximize it effectiveness. Many puppies are asymptomatic for CHD at this time making the efficacy of this procedure is difficult to assess. However, the procedure’s relative simplicity, low cost, low morbidity have caused many pet owners to be proactive in seeking evaluation of their pet for JPS. JPS is considered when the combined findings are predictive of future CHD development: a positive Ortolani sign with angle of reduction of 20º to 40º, an angle of subluxation of 0º to 15º, and no palpable or radiographic degenerative changes. Triple Pelvic Osteotomy (TPO) is indicated for young dogs (usually 4.5 to 10 months old) with symptoms of CHD, but minimal palpable or radiographic evidence of degeneration. Puppies have a positive Ortolani sign with an angle of reduction of 20º to 40º, an angle of subluxation of 5º to 20º, and distinct transitions between subluxation and reduction. The DAR view does not show significant blunting.

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What’s new in bone plating? The Locking Compression Plate (LCP) Ross H. Palmer DVM, MS, Dipl ACVS, Fort Collins, Colorado USA

Conventional Bone Plating Fracture healing requires that the fracture zone have conditions of both adequate mechanical stability and adequate biologic viability. Satisfying one condition, but not the other leads to patient morbidity and nonunion of the fracture. For many years the primary challenge was to accomplish adequate fracture stability. One tremendous leap toward this goal was accomplished in 1965 when AO ASIF bone plating techniques were introduced to veterinary orthopedic surgery. The dynamic compression plate (DCP®, Synthes) was developed such that insertion of screws into the eccentric ends of the specially designed sloping, oval holes accomplished compression of transverse fractures. This era of bone plating focused on accomplishing rigid stability. Of course, not all fractures are of transverse configuration; therefore, anatomic reconstruction of the bony column is not always possible or desired. In fact, in effort to achieve anatomic reconstruction of the highly comminuted bony column, tremendous disruption of fracture zone viability often contributed to nonunion. The concept of biologic osteosynthesis evolved in which highly comminuted fractures were spatially aligned rather than anatomically reduced in order to preserve fracture zone viability. In such instances, there is tremendous stress concentration at unfilled screw holes within the DCP. Further, the footprint of the plate against the surface of the bone disrupted cortical bone blood flow under the plate. Surgeons often desired to use plates in combination with intramedullary pins in order to extend the fatigue life of bone plates, but the screw hole configuration of these plates restricted screw angulation to a relatively narrow spectrum. The limited-contact dynamic compression plate (LC-DCP®, Synthes) was designed with a scalloped contour on its underneath surface such that the footprint of the plate upon the bony surface permits greater cortical blood flow (though this is also influenced by the contour and topography of the bony surface to which the plate is applied). The scalloped contour of the plate also reduces the stress concentrating effect of unfilled screw holes. Additionally, the screw holes of the LC-DCP are designed such that screws can be inserted at much greater angles than with the DCP. This feature permits screws to be more easily inserted at angles to avoid intramedullary devices. Each of these evolutions of the bone plating utilizes tightening of conventional screws within the bone to firmly compress the bone plate to the surface of the bone. There is no rigid link between the bone plate and the screw such that construct rigidity is not achieved when the bone plate is not

firmly compressed against the bone. The amount of compression between the plate and the bone surface is influenced by the number of screws inserted, thread diameter of screws, and bone quality. If patient loading of the limb induces forces in excess of the frictional hold at bone platebone interface there is a loss of stable fracture fixation. As a result, there is emphasis on screw tightening and maximizing the number of screws used to compress the plate against the bone. Screw tightening pulls underlying bone segments to the under side of the bone plate such that precise contouring of the plate to the contours of the normally shaped bone is required. When conventional screws are tightened through improperly contoured conventional bone plates a primary loss of fracture reduction is induced. Alternatively, premature screw loosening prior to fracture union causes a loss of stability and secondary loss of fracture reduction (Fig. 1).

Locking Compression Plate (LCP®, Synthes) The LCP is a dramatic shift from conventional bone plating. The LCP utilizes a specially designed locking screw that has a threaded screw head that rigidly links to the bone plate through specially designed screw hole with matching thread form. The rigid link between the screws and the plate creates a fixed angle construct with dramatically different mechanical behavior than conventional bone plating. The rigid locking screw-LCP interface does not compress the LCP against the bone and maintains the fracture reduction present during plate application. This subtle evolution in bone plate design also alters the method of bone plate and screw application.

Figure 1 - “Toggle” loosening of conventional screws from bone and DCP ➠ secondary loss of fracture reduction.


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The LCP is designed with combination-use screw holes (combi-hole™) that accept traditional screws or locking screws. Different surgical techniques are used to apply locking screw-LCP constructs as compared to combination locking screw and conventional screw-LCP constructs. Locking screw-LCP constructs utilize exclusively locking screws throughout the construct and therefore do not require precise plate contouring. In selected instances the surgeon may elect not to contour the plate at all. This construct functions mechanically and biologically more as an internal fixator rather than as a conventional bone plate. The rigid locking screw-LCP interface ensures angular stability of the screws and prevents “toggle” loosening of the screws in the bone. The fracture must be reduced prior to plate application because this construct will not reduce the fracture as can be performed with conventional plating. Because the LCP is not compressed against the bony surface there is minimal disruption of cortical blood flow. This mode of application may be particularly advantageous in percutaneous plating where biologic osteosynthesis is indicated. Locking screws must be inserted in a fixed angle that is determined by drilling through a drill guide that is threaded into the locking screw hole. Care must be used to properly orient the bone plate because even minor angulations of locking screws to center them in the cross-sectional area of the bone are not possible. Locking screw-LCP constructs cannot be used to achieve dynamic compression because the screw heads of the locking screws do not slide within the contours of the screw holes. In humans, unicortical placement of locking screws is more commonly employed than with conventional screws. Whereas bicortical placement helps eliminate toggle loosening of conventional screws, locking screws are not prone to toggle because they are stabilized by the bone on one end and the rigid link to the plate on their other end. All orthopedic constructs will fail at their “weak link” if fracture consolidation does not occur to protect the implant system. If the plate is the weak link (such as may occur when a screw hole is left unfilled over a non-load-sharing fracture), locking screw-LCP constructs fail similar to conventional screwplate constructs. When the bone plate is not the weak link, locking screw-LCP constructs fail differently than conventional constructs. Conventional constructs often fail by screw loosening that allows the screws to toggle free from the bone and bone plate. This mode of failure is particularly common in soft bone (growing dogs, flat bones, metaphyseal areas). Conversely, locking screw-LCP constructs are not prone to failure by screw loosening even in soft bone. Locking screw-LCP constructs may fail by catastrophic failure of the bone segment in which the screws are inserted or by fatigue failure of all screws within a cluster (unlikely). Catastrophic failure of a bone segment may be more likely when unicortical locking screws are used in our small animal patients because they have relatively thin cortices as compared to humans and large animal patients. Combination locking screw and conventional screw-LCP constructs are often employed to reduce implant costs, to accomplish dynamic fracture line compression or because surgeons are more comfortable with more traditional bone

Figure 2 - Combi-hole™ can accept conventional screws (right side of hole) or locking screws (left side of hole).

Figure 3 - Locking screws (left) have angular stability in soft metaphyseal bone. Conventional screws (right) used to compress the fracture line.

plating techniques. Surgeons must be cautious however, because surgical techniques for application of combination constructs are different from both conventional and locking constructs. LCP’s applied as combination constructs must be precisely contoured to the bone. Distortion of a screw hole will prevent application of a locking screw to that hole. It is important to place conventional screws into each bone segment prior to inserting locking screws – “lag before you lock” is a helpful reminder. If locking screws are placed first, subsequent placement conventional screws will attempt to compress the plate against the bone while the locking screws maintain the plate at a fixed position relative to the bone surface. Conventional screws can be used to achieve dynamic compression followed by insertion of locking screws to achieve a fixed angle construct. In selected instances, a locking screw-LCP cluster may be used in one bone segment for angular stability of screws in soft bone while a conventional screw-LCP cluster is used in the other bone segment to achieve dynamic compression (Fig. 3).

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Conducting clinical trials: disease-oriented vs. patient-oriented evidence Ross H. Palmer DVM, MS, Dipl ACVS, Fort Collins, Colorado USA

We are scientists and, as such, we seek accurate data upon which we can form solid treatment recommendations with regard to our patients’ health, comfort, lifestyle and wellbeing. Such is the intent of evidence-based medicine (EBM), which has been defined as “the conscientious, explicit and judicious use of current best evidence in making decisions about the care of individual patients.”1 For the purpose of training clinicians to critically analyze available information, study designs have been stratified into classes ranging from strongest (Class I) to weakest (Class IV) evidence:1 Class

Description of evidence source

I

Multiple, randomized, blinded, placebo or sham-controlled clinical trials

II

High quality clinical trials using historical controls

III

Uncontrolled cases series

IV

Expert opinion, extrapolation from bench research or physiologic studies

In addition to seeking strong (class I and II) evidence through clinical trials, veterinarians should seek meaningful, relevant evidence that helps them to answer the questions that their pet owning clients are asking. Indeed, one of the essentials steps of effective utilization of EBM is training clinicians and clinical researchers to ask the right questions. The acronym “PICO” is helpful in guiding clinicians to ask the right questions and to evaluate the relevance, usefulness, and meaningfulness of clinical trial results to their patient.2 • P Patient/problem – do the results of the study pertain to my patient? • I Intervention – are the interventions evaluated in the study a consideration for my patient? • C Comparison– to what are the results of the intervention compared? A control group? • OOutcome – what outcome is important to the patient (pet owner)? Unfortunately, there is often a misunderstanding between ourselves and our clients with regard to what outcomes from orthopedic surgery are important.3 We can often get a sense of what outcome is of importance to our individual clients by listening to their questions. Why did the pet owner seek our services for this condition? What is their desired outcome? What will they use to define “success” or “failure” of treatment? Our relationship with our patients and our patients’

families is not unlike that of a pediatrician. Together we make decisions for our patients on their behalf, “by proxy” if you will. Orthopedic care is unique in that our treatments seldom impact mortality. Instead, our clients often present their pets to us in hopes that we can improve their health related quality of life (HRQL) as compared to natural progression of the disease/injury. As such, a well-designed study that collects objective data points that are of little direct concern to our clients may be of little real help in our answering their questions. “Will he be able to climb the stairs”? “Will she still be able to go on 10 mile hikes”? “Can I keep her in competition”? These are the questions asked by our clients. With regard to juvenile-stage canine hip dysplasia (jCHD), our clinical studies often measure parameters such as DAR slope, acetabular angle, radiographic OA scores, and forceplate data as surrogate measures for what we really want to know. It takes a relatively large leap to get from any of these measures to accurate answers to our clients’ questions. This is often the case in medical studies where we study what has been called Disease-Oriented Evidence (DOE). In contrast, Patient-Oriented Evidence that Matters (POEM) measures patient morbidity or mortality, the patients’ ability perform some meaningful and measurable lifestyle task or health related quality of life. Because executing large-scale, prospective, blinded and placebo or sham-controlled randomized clinical trials (class I) is time-consuming and costly, we ideally seek to design studies that will provide meaningful answers to relevant questions regarding applicable interventions that pertain to a large group of patients. Health related quality of life questionnaires are being used with increasing frequency in human orthopedic studies for this purpose. In essence, before we leap into randomized clinical trials in search of objective answers, we should first evaluate our questions to be sure that the answers yielded by the study are likely to be meaningful and relevant to our clients. What do we really want to know? What do our pet owning clients really want to know? Health related quality of life questionnaires are one instrument being used in randomized clinical trials to arrive at patient-oriented evidence that matters. Development of such an instrument is a rigorous process. The questionnaire then requires validation to be certain that the questionnaire measures that which it intends to measure across a demographic spectrum of pet owners and across a spectrum of time. The process of developing a HRQL questionnaire requires researchers to identify patient behaviors that a demographic


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spectrum of pet owners defines as measurable, describable, and meaningful with regard to their pets’ quality of life as it is related to the health condition in question. One such method currently being employed at Colorado State University is described herein: The process is initiated by a series of client interviews in order to identify these meaningful, measurable patient behaviors. A list of positive and negative terms frequently used by pet owners to describe each of these behaviors is developed in order to facilitate their measurement in the eventual HRQL questionnaire. These descriptors are elicited from pet owners by first asking them several general “open-ended” questions encouraging them to describe their pet’s current health status and their pet’s normal health status prior to developing the medical condition. Next, a semi-structured interview is conducted with each pet owner. The semi-structured interview contains a set of questions regarding observable pet behaviors under consideration. For each question there is a set of “floating prompts” to facilitate pet owners’ ability to provide positive and negative descriptors if needed. The goal of this process is to a develop a list of terms that are consistently used across a demographic spectrum of pet owners to describe positive or negative outcomes with regard to each observable behavior that they regard as meaningful in their pet’s health related quality of life. Once the HRQL questionnaire is developed, there are several ways to test the validity of the instrument, one of which is called “test-retest” validation. It is important to realize that some HRQL questionnaires may be valid for one pet owner demographic, but not for another due to variation in regional lexicon and/or what they regard as meaningful and important for their pets’ lifestyles. In our experience, it rapidly becomes evident during this HRQL questionnaire development process as to whether or not previously published clinical trials of therapeutic interventions for a given medical condition have answered the

questions that are meaningful to one’s client pet-owners. As an example, in one of our HRQL studies currently in progress, it quickly became apparent that the ability to return dogs to an unrestricted level of activity (absence of physical dependence upon the owners for patient confinement) without ensuing lameness was the desired therapeutic outcome. Previously published studies of radiographic osteoarthritis scores, veterinarian-measured lameness scores, and even force plate data at a walking gait are not ideal measurement parameters for this condition because relatively large assumptions or inferences are required to assume that a given pet will benefit in a meaningful way from any of the interventions evaluated. Our clients stated that return of each of these parameters to normal “preinjury” levels would be meaningless in the face of owner observations that lameness resulted whenever patient confinement by the owner was not instituted.

References 1.

2.

3.

Berg AO. Dimensions of evidence, in Geyman JP, Deyo RA, Ramsay SD (eds): Evidence-based clinical practice, Boston: Butterworth-Heinemann, 2000, pp 21-27. Turning information needs into questions, Handbook of EvidenceBased Veterinary Medicine, Cockcroft P, Holmes M (eds), Blackwell Publishing, 2003 Rosenberger PH, et al. Shared decision-making, preoperative expectations, and postoperative reality: differences in physician and patient predictions and ratings of knee surgery outcomes. J Arthro Rel Surg 21:562-569, 2005.

Author’s Address for correspondence: Ross H. Palmer Colorado State University Veterinary Medical Center Fort Collins, Colorado USA


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Cytology of the liver: review of basic changes Rose E. Raskin DVM, PhD, Dipl ACVP, West Lafayette, Indiana, USA

Indications for Liver Biopsy • Hepatomegaly may be detected by palpation or by radiography and sonography. • Imaging abnormalities may present as a generalized enlargement or focal lesions. • Elevated liver enzymes or bile acids signify direct or indirect hepatocellular damage as well as biliary or circulatory dysfunction of the liver. These should be persistent, not transient changes. • Staging systemic neoplastic diseases, especially lymphoma and mast cell tumor, is helpful for proper treatment.

material from the liver. Note: There may be more than one category in a given sample. 1. Normal epithelial cells 2. Cellular degeneration or injury 3. Hyperplasia or adenoma 4. Pigment abnormalities 5. Inflammation 6. Malignant neoplasia 7. Hematopoietic tissue 8. Nondiagnostic sample

Normal Hepatic Tissue Contraindications for Liver Biopsy • Hemostatic abnormalities may be ruled out with PT, APTT or ACT, platelet count, and bleeding time tests prior to biopsy. • Hypoproteinemia can be checked by CBC and chemistry tests. It is important because low protein can inhibit wound healing which is important for surgically obtained biopsies. • Anesthetic risks in a patient should be considered, depending on biopsy technique used.

Biopsy Technique Considerations are dependent on the need to visualize the liver, the degree of anesthetic risk, and the presentation of disease (focal vs. diffuse). • Laparotomy requires general anesthesia and allows for full visualization of the liver. This procedure also permits surgical correction, if indicated. Wounds made by the biopsy can be easily checked for excess bleeding. The sample obtained is diagnostic. • Keyhole incisions are used to isolate the liver or with laparoscopy. This technique requires heavy sedation with local anesthesia. A cutting needle is used for an incisional biopsy and cytologic imprints should be made when the sample is obtained before it is placed into formalin. • Ultrasound-guided sampling requires sedation and local anesthesia. Samples are often diagnostic due to the assistance of sonography. A cutting needle and aspirations are utilized as above under keyhole incisions. (PREFERRED). • Blind sampling techniques may be used for diffuse liver lesions, such as those associated with lipidosis, steroid hepatopathy, or round cell neoplasia. This type of sampling requires minimal sedation for the aspiration. Both cutting needles and aspiration techniques are used.

Cytodiagnostic Groups for Liver Cytology include eight categories frequently used to classify cytologic

• Hepatocytes consist of clumps or sheets of large uniform cells. Cells are characterized by low nuclear to cytoplasmic ratios, lightly basophilic and granular cytoplasm, centrally placed round nucleus that has stippled chromatin and a prominent nucleolus. Occasionally cells are binucleated and nucleoli are multiple. • Biliary epithelium consists of sheets of small uniform cells with high nuclear to cytoplasmic ratios. Large biliary ducts are lined by a simple columnar epithelium. Nucleoli are often indistinct. • Mast cells and macrophages may be occasionally found in low numbers.

Hepatocellular Degeneration or Injury • Hydropic change (vacuolar degeneration) produces a foamy appearance within the cytoplasm of hepatocytes that is the result of swelling of endoplasmic reticulum related to increased intracellular water. This may be seen in tissue anoxia and toxic hepatopathies. • Fatty change appears as discrete clear vacuoles within the hepatocyte cytoplasm that is the result of accumulation of lipids that can freely coalesce. This appearance is often diagnostic for lipidosis. • Glycogen accumulation occurs with altered glucose metabolism such as seen in steroid hepatopathy. Cytoplasm appears foamy, similar to hydropic change. Steroid induced change is most notable in the dog, but occasionally has been observed in the cat. • Necrosis may occur as a result of toxicosis, infectious disease, or neoplasia. Cells appear indistinct, with loss of cellular detail. • Fibrosis is related to increased connective tissue reaction to damage, such as that seen in cirrhosis, post-necrosis hepatopathy, or chronic inflammation.


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• Amyloid deposition is an uncommon condition often related to a chronic inflammatory disease. Presence of Congo red positive eosinophilic amorphous material around hepatocytes is diagnostic. Hepatic Hyperplasia (Regeneration) or Adenoma are grouped together since they have a similar cytologic appearance. • Frequent binucleation is noted within hepatocytes. • Increased nuclear to cytoplasmic ratio indicates rapid growth. • Mild to moderate anisocytosis and anisokaryosis is present. • Increased cytoplasmic basophilia may be noted due to rapid growth. • Increased frequency of intranuclear crystalline inclusions. • Conditions to consider include nodular hyperplasia, toxic hepatopathy, hepatocellular adenoma, bile duct adenoma, and cirrhosis. Hepatic Pigment Abnormalities are observed within hepatocytes appearing as shades of blue and green with routine stains. The etiology of these pigments may be differentiated by the cytochemical reactions. • Biliary stasis within canniculi appears as green casts or granular material between hepatocytes. Conditions associated with bile pigment changes include cholangitis, liver flukes, lipidosis, steroid hepatopathy, toxic hepatopathy, nodular hyperplasia, and cirrhosis. • Hemosiderosis is an overload condition in which iron appears as blue or blue-green coarse granular material that stains positive with Prussian blue. Chronic hemolysis and excessive iron supplementation are associated with hemosiderosis. • Lipofuscin appears as blue-green granules on WrightGiemsa stained preparations which represent degenerated lipids resulting from cellular aging. • Copper accumulation appears blue-green material which stains positive with rubeanic acid. This may be a primary accumulation or secondary related to liver disease. Hepatitis/Cholangitis • Neutrophilic (suppurative) inflammation is associated with necrosis, bacterial infection, and feline suppurative cholangiohepatitis. Degenerate or nondegenerate neutrophils are increased over that found in peripheral blood. • Lymphocytic or plasmacytic (nonsuppurative) inflammation is common in feline lymphocytic cholangiohepatitis. Lymphoid cells are small, well-differentiated forms associated with chronic disease that may be difficult to distinguish on cytology from a small cell lymphoma. • Eosinophilic inflammation may be associated with liver flukes or mast cell tumor occurring within the liver.

• Pyogranulomatous inflammation consists of a mixed population of neutrophils and macrophages. This is associated with mycobacteriosis, histoplasmosis, and toxoplasmosis. Malignant Neoplasms of the Liver include primary and secondary or metastatic cancers. • Primary tumors include: hepatocellular carcinoma, bile duct carcinoma, and hemangiosarcoma • Secondary tumors include: myeloid (nonlymphoid) leukemias, intestinal carcinomas, and pancreatic islet cell tumor • Lymphoma and mast cell tumor may be primary or secondary Hematopoietic Tissue • Extramedullary hematopoiesis resembles a mixed bone marrow cell population including erythroid, granulocytic, and megakaryocytic precursors. It is often related to a physiologic need, such as in bone marrow disease or hypoxic conditions. • Myelolipoma is an uncommon tumor resembling extramedullary hematopoiesis, but also contains considerable lipid material. It is benign and often localized. Summary of Specific Hepatic Disease Cytologic Characteristics • Toxic hepatopathy: features seen include hydropic change, cholestasis, necrosis, and regeneration with fibrosis (if chronic) • Lipidosis or steroid hepatopathy: features include fatty change (lipidosis) and hydropic change (steroid hepatopathy) and cholestasis • Nodular hyperplasia or cirrhosis: features include hyperplastic hepatocytes, hyperplastic biliary epithelium, cholestasis, and fibrosis

Suggested Cytology References Baker R, Lumsden JH. Colour Atlas of Cytology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2000 Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH. Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2nd Ed. 1999 Radin MJ, Wellman ML. Interpretation of Canine and Feline Cytology: Ralston Purina Company Clinical Handbook Series. The Gloyd Group, Inc, Wilmington, DE; 2001 Raskin RE, Meyer DJ (eds). Atlas of Canine and Feline Cytology: WB Saunders Co, Philadelphia; 2001

Author’s Address for correspondence: Rose E. Raskin Professor of Veterinary Clinical Pathology Purdue University West Lafayette, Indiana, USA


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Cytology of the liver: advanced case examples Rose E. Raskin DVM, PhD, Dipl ACVP, West Lafayette, Indiana, USA

In this discussion, we will cover the cytologic aspects of specific case examples that affect the liver. These will involve the cytodiagnostic or general classification groups of hyperplasia, inflammation, hepatic degeneration, response to tissue injury, and neoplasia.

erate or nondegenerate neutrophils are increased over that found in peripheral blood. Bacteria may be occasionally found within neutrophils or extracellularly.

Lymphocytic Cholangiohepatitis HYPERPLASIA Nodular Hyperplasia This condition is common in aged dogs and often presents with multiple randomly distributed well-defined nodules. Histologically, these retain a lobular structure in contrast to neoplastic conditions. The cytologic features of these enlarged hepatocytes include diffuse or focal vacuolization. There are discrete vacuoles containing lipid or cytoplasmic foaminess that is often associated with glycogen deposition.

Regenerative Hyperplasia Damaged livers respond frequently with hyperplasia related to exposure to toxins such as drugs, aflatoxins, or plants. There is significant fibrosis that is not found in nodular hyperplasia of older dogs and the normal architecture is lost. These may be similar but not identical histologically to hepatocellular adenomas. Cytologic changes with toxic hepatopathy include an increased nuclear to cytoplasmic ratio indicating rapid growth. Frequent binucleation is noted along with mild to moderate anisocytosis of hepatocytes. In addition, the cytoplasm contains more proteins for proliferation and therefore increased cytoplasmic basophilia. Hepatocytes may display hydropic change with decreased cytoplasmic staining around the cell periphery related to organelle swelling. There appears to be an association between intranuclear crystalline inclusions and hyperplastic liver conditions although these inclusions have been noted in some clinically normal patients. With chronic injury and resulting cirrhosis, fibrocytes and fibroblasts along with wispy eosinophilic strands of collagen can be found in dense aggregates. This may be accompanied by the presence of bile casts.

INFLAMMATION Suppurative Hepatitis/Cholangitis This inflammation is associated with necrosis, bacterial infection, and feline suppurative cholangiohepatitis. Degen-

The presence of small to intermediate sized lymphocytes and plasma cells is found in this syndrome in cats often in association with a mild pancreatitis. Plugged bile canniculi may be noted in addition on cytology in this syndrome. Uncommonly, a uniform population of small lymphocytes may resemble a well-differentiated lymphoma but a mixed cell population suggests an inflammatory process.

Parasitic Reaction Reaction to the presence of flukes or their eggs has been rarely noted on cytology with evidence of an eosinophilic and neutrophilic inflammatory response along with evidence of biliary stasis. Fluke eggs have been found on cytology and appear green, presumably from the bile. Platynosomum concinnum is a parasite of cats in North America with a life cycle involving lizards and snails. Amphimerus pseudofelineus is another fluke found in cats.

Cytauxzoonosis This is a tick-borne disease of cats that occurs in the southern part of the United States. The organism infects organs such as the liver and can be observed from impression smears as basophilic intracytoplasmic structures (merozoites) arranged as schizonts within the swollen macrophages.

HEPATIC DEGENERATION Glucocorticoid Hepatopathy Corticosteroids that are administered exogenously or which occur in increased amounts endogenously produce a vacuolar change referred to as steroid hepatopathy. The condition can occur in both dogs and cats with similar morphologic effects. The increase in glycogen within the hepatocytes appears similar to hydropic change with indistinct vacuolization of the cytoplasm. It may be diffuse or localized to the cell periphery. Intranuclear inclusions may be observed in this condition nonspecifically along with biliary stasis.


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Feline Hepatic Lipidosis

NEOPLASIA

This common condition occurs as a result of the accumulation of triglycerides within hepatocytes often following bouts of anorexia. As the disease is diffuse throughout the parenchyma, fine needle biopsy is often diagnostic. Hepatocytes may have single or multiple clear punctate vacuoles within the cytoplasm. At times, the vacuoles may become so numerous as to crowd the nucleus to one side of the cell. The appearance of these highly vacuolated hepatocytes can be difficult to distinguish from foamy macrophages. Also present on cytology is biliary stasis with plugged bile canniculi and increased green granules within hepatocytes. To confirm the presence of lipid within the vacuoles, one can use equal amounts of oil-Red-O and new methylene blue on unstained, unfixed smears. As the lipid is incorporated into the cell, it is a dull orange color compared to the extracellular bright orange droplets.

Hepatocellular Adenoma

Copper-Associated Hepatopathy Certain breeds of dogs such as Bedlington and West Highland White Terriers as well as patients with accumulations of toxic amounts of copper develop liver failure from the inflammatory reaction. Pale green refractile granules that are positive with rubeanic acid are diagnostic for copper. This may be a primary accumulation that leads to liver disease or the result of liver disease. Romanowsky staining can produce a similar stain appearance of hepatocytes granules that are positive for a bilirubin stain and therefore represent bile. However it has been noted that green granules within hepatocytes without bile casts are most likely lipofuscin. This pigment occurs with the normal aging of cells and the subsequent degeneration of cellular lipids, the so-called “wear and tear pigment”.

This uncommon neoplastic condition usually presents as a solitary lesion in dogs and cats. Clinical signs are generally minimal so these tumors are generally found incidentally at necropsy. Histologically, these compressive lesions contain minimal fibrosis. Hepatocytes are uniform in appearance but larger than normal containing increased amounts of lipid, glycogen, or lipofuscin granules within the cytoplasm. There is mild anisocytosis and anisokaryosis as well as increased basophilia of the cytoplasm. Nucoleoli are slightly more prominent than normal. Mitotic figures are not common.

Hepatocellular Carcinoma It is said that hepatocellular carcinoma is more common in dogs than cholangiocarcinoma. In the cat, cholangiocarcinoma is considered to occur more frequent than hepatocellular carcinoma. Clinical signs reflect liver disease with increased activity of several hepatic enzymes. Histologically, hepatic trabeculae appear thick or variable in size compared with more uniform and thinner trabeculae of adenoma lesions. Cytologically, hepatocytes may resemble normal hepatocytes but in poorly differentiated forms, hepatocytes appear highly pleomorphic making diagnosis of malignancy easier. In these cases, malignant features of anisokaryosis, multinucleation, high and variable nuclear to cytoplasmic ratio, and multiple nucleoli are present. Mitotic figures are more frequent in the carcinoma compared with the adenoma.

Cholangiocarcinoma

Amyloidosis

This is a relatively uncommon tumor but in cats it may be the most frequent primary hepatic malignancy according to some studies. Histologically, there are acinar formations especially in the more well-differentiated tumors and fibrous connective tissue may be substantial. A mucinous cystic fluid often fills the lumen. Mitotic figures are often much more abundant compared with hepatocellular carcinoma. Cytologically, the cells tend to exfoliate in dense clusters. The welldifferentiated tumors have relatively uniform size and cuboidal shape with scant cytoplasm. More anaplastic changes such as anisokaryosis, prominent nucleoli, and high nuclear to cytoplasmic ratio are seen with the poorly-differentiated cholangiocarcinoma.

This is an uncommon condition often related to a chronic inflammatory disease. Amyloid is identified by the presence of Congo red positive eosinophilic amorphous material around hepatocytes. Inflammatory cells such as neutrophils and lymphocytes are often present in this situation.

Author’s Address for correspondence: Rose E. Raskin Professor of Veterinary Clinical Pathology Purdue University, West Lafayette, Indiana, USA

Hemosiderosis Animals that undergo chronic breakdown of erythrocytes or receive supplemental iron develop an overload condition in which iron accumulates within hepatocytes. This material appears as blue or blue-green coarse granular material that stains positive with Prussian blue.

RESPONSE TO TISSUE INJURY


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Cytology of body cavity fluids: review of basic changes Rose E. Raskin DVM, PhD, Dipl ACVP, West Lafayette, Indiana, USA

What is an effusion? An effusion represents increased accumulations of fluid within a mesothelial cell-lined body cavity. The body cavities included are the abdominal or peritoneal, thoracic or pleural, and pericardial. The presence of an effusion is recognized when animals display clinical signs of dyspnea, muffled heart sounds, ascites, or abdominal pain. These relatively clear fluids are formed generally by three mechanisms. • High hydrostatic pressure from within blood or lymph channels related to obstruction to flow • Low oncotic pressure within vessels due to hypoalbuminemia which won’t retain fluids • Increased membrane permeability resulting from inflammation

How are effusions collected and fluids processed? Peritoneal fluid is collected from the animal in left lateral recumbency or in a standing position. Following surgical preparation of the site between the umbilicus and urinary bladder, a 20-22 g needle is used to penetrate the abdomen slightly lateral to the midline. Fluid may drip into a tube or be suctioned using 6 or 12 ml syringes. The pleural fluid is collected with the patient standing or sitting. A flexible (intravenous) catheter is placed in the 7th or 8th intercostal space following surgical preparation and infiltration with a local anesthetic. A 3-way stopcock may be used to remove large volumes of fluid and prevent air leakage. The pericardial sac fluid is removed with the patient sedated and in lateral recumbency. A venous catheter is placed into the lower portion of the 4th intercostal space towards the heart until it penetrates the pericardium. For each of the sites, one ml of fluid should be placed into a red top tube for culture with the remainder used to make direct smears by coverslip or glass slide and then placed into purple EDTA tubes for cell counts and protein analysis. If direct smears cannot be made immediately the fluid can be placed into an EDTA tube and processed later.

How are effusions evaluated? • Color and degree of transparency is recorded along with any noticeable odor • Total solids or protein is measured by refractometer, especially after centrifugation in a microhematocrit tube if the fluid is not clear

• Cell counts may be made by automated counter, if clear. Otherwise most fluids are counted by hemocytometer • A smear (squash method) is performed between two coverslips or two glass slides for identification of cell types, presence of infectious agents or neoplasia. • Cell types often recognized in effusions include: 1. Large mononuclear cells may be mesothelial cells or macrophages. These cells are difficult to distinguish and are therefore grouped into one category. These should be the predominant cells in effusions. 2. Neutrophils are often present as the predominant cell type in horses but not in dogs and cats. Record the presence of degeneration if seen. Increased numbers signifies the presence of inflammation. 3. Small mononuclear cells are lymphocytes which are present in low numbers normally. 4. Eosinophils are rarely present in effusions, but should be recorded separately, if present.

How are effusions classified? Most body cavity fluids are classified as transudates, modified transudates, or exudates based on protein content and cell counts. • Transudate has low cellularity (< 1000/µl for most animals) and low protein content (< 2.5 g/dl). It is generally formed as a result of low oncotic pressure related to severe hypoalbuminemia (< 1.0 g/dl) that can develop from nephrotic syndrome, for example. Low protein fluid may also develop from portal hypertension related to the leakage of lymph with low protein content from the intestinal portal vessels as a result of increased hydrostatic pressure. • Modified Transudate indicates an effusion of variable cellularity and protein content. It is often formed as a result of increased hydrostatic pressure. Nonseptic intestinal disease in horses such as volvulus and right-sided heart failure are common causes. • Exudate is an effusion with inflammation. Cell counts are increased (> 5000/µl for most animals). Protein is often increased (> 3.0 g/dl). Due to the increased cell count, the character of the fluid is often cloudy. Septic Exudate indicates a visible microorganism, usually bacterial or fungal, is present in the cells of the smear. Causes include penetrating wounds, gut rupture, or mycotic enteritis. Nonseptic Exudate indicates the lack of a visible microorganism within neutrophils or macrophages. Causes may include Feline Infectious Peritonitis (FIP), bile leakage, egg yolk peritonitis, or uroperitoneum.


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Classification of Body Cavity Effusions in Small Animals Color/Turbidity

Total Protein (g/dl)

Specific Gravity

WBC (# per µl)

Predominant Cell Type

Transudate

Colorless/Clear

< 2.5

< 1.017

< 1000

Mesothelial

Modified Transudate

Light yellow to apricot/ Clear to Cloudy

2.5 - 5.0

1.017 - 1.025

500 - 10,000

Mixed population

Apricot to tan/Cloudy

> 3.0

> 1.025

> 5,000

Neutrophils nonseptic: nondegenerative septic: degenerative

Pink to red/Cloudy

> 3.0

> 1.025

> 1,000

Erythrocytes WBCs similar to blood Macrophages display erythrophagocytosis

Chylous

White/Opaque

> 3.0

> 1.018

Variable

Acute: Small lymphocytes Chronic: Mixed population

Bilious

Dark yellow or brown or green/Opaque

> 3.0

> 1.025

> 5,000

Mixed population with green-black or yellow material phagocytized by macrophages

Light yellow or apricot/ Clear or Cloudy

2.5 - 5.0

> 1.018

500 - 10,000

Reactive mesothelium Neoplastic cells

Exudate

Hemorrhagic

Neoplastic

When a specific diagnosis is possible, other terms are used to describe the effusions such as hemorrhagic, chylous, bilious, or neoplastic. • Hemorrhagic effusion is colored red, pink, or occasionally yellow. This category is used when the effusion is bloody due to acute or chronic hemorrhage without the presence of another abnormality. It is not used to imply blood contamination. It is commonly associated with pericardial effusion. Acute hemorrhage is characterized by intact erythrocytes engulfed by macrophages or neutrophils. Peracute bleeding and blood contamination are associated with platelets which can remain intact for about one-half hour following collection. Chronic hemorrhage is characterized by hemosiderinladen macrophages, cells containing coarse blue-black granules which are positive for iron using Prussian blue stain. • Chylous effusion has a white or pink white color with no transparency; therefore termed opaque. This is most often related to the presence of chyle from rupture of the thoracic duct lymphatics which may be caused by trauma, neoplasia, infection, or idiopathic reasons. Chyle consists of chylomicrons which are composed of triglycerides. The condition can be diagnosed by the presence of high triglyceride concentrations, often > 100 mg/dl in the effusion fluid. WBC counts are increased over transudates, but < 10,000/µl and the predominant cells are small to medium lymphocytes. • Neoplastic effusion indicates an abnormal cell population is present, displaying features of malignancy. Common neoplasms to consider include: lymphoma, carcinoma, or

mesothelioma. Cell counts and protein may be similar to a modified transudate or an exudate. Pericardial effusions have been reported to be distinguished by pH. Alkaline effusions (pH ≥ 7.0) measured by a urine reagent dipstick are associated with neoplasia while effusions pH < 7.0 are associated with benign lesions. • Bilious effusion is formed from the rupture of the common bile duct or leakage from intrahepatic bile ducts. The color is dark yellow or green and generally opaque. Some bile is termed “white” since only amorphous noncolored protein material is present. Inflammation by a mixed cell population is common.

Suggested Cytology References Baker R, Lumsden JH. Colour Atlas of Cytology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH. Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2nd Ed. 1999. Radin MJ, Wellman ML. Interpretation of Canine and Feline Cytology: Ralston Purina Company Clinical Handbook Series. The Gloyd Group, Inc, Wilmington, DE; 2001. Raskin RE, Meyer DJ (eds). Atlas of Canine and Feline Cytology: WB Saunders Co, Philadelphia; 2001.

Author’s Address for correspondence: Rose E. Raskin Professor of Veterinary Clinical Pathology Purdue University West Lafayette, Indiana, USA


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Cytology of body cavity fluids: advanced case examples Rose E. Raskin DVM, PhD, Dipl ACVP, West Lafayette, Indiana, USA

In this discussion, we will cover the cytologic aspects of specific case examples that involve the body cavities lined by mesothelium. These will involve infectious agents, parasites, foreign material, and neoplasia.

Actinomycosis The anaerobic bacteria from the family Actinomycetaceae are normally found in the oral cavity but when inhaled or inoculated into other tissues produce considerable hemorrhage and a mixed neutrophilic and macrophagic response. Neutrophils are frequently degenerate with marked karyolysis. Effusions appear serosanguineous to purulent with often macroscopic yellow-tan granules (sulfur granules) that contain colonies of the organisms. This appearance has been often called “tomato soup”. By crushing the yellow fragments, one has a better chance of seeing the pleomorphic filamentous bacteria which are both intracellular and extracellular. These slender bacteria resemble dots and dashes with a beaded eosinophilic appearance.

Histoplasmosis This is a fungal disease of dogs and cats found in various parts of the world including the United States, Italy, Croatia, Austria, Japan, and Australia. It is present in the soil associated with bird and bat excrement. The disease produces pulmonary nodules from inhalation of the microconidia of the mycelial phase. Within the body the higher temperature causes the organism to convert to the yeast phase which can disseminate widely throughout affecting the blood, bone marrow, lymph nodes, spleen, liver, and gastrointestinal tract in addition to the respiratory tract especially if the animal is immunocompromised. Typically, there are a variable number of intracellular organisms within macrophages and neutrophils and rarely eosinophils. The yeast form is recognized by its uniform oval shape measuring 2x4 microns. The basophilic center has a clear halo caused by shrinkage during staining. Periodic acid-Schiff staining can enhance its appearance especially in histologic sections.

Feline Infectious Peritonitis Young cats are most prone to infection by this coronavirus leading to effusive and noneffusive forms of the disease. Cats with the effusive form of FIP present with ascites or

thoracic effusion. The fluid in these cases is clear, straw to golden colored, and viscous. It is an exudate with high cellularity, counts that range from 1,000-10,000/ul and occasionally up to 30,000/ul. The protein content is also very high, often greater than 4.5 g/dl causing the fluid to froth upon shaking. Most of the protein is globulin, beta or gamma. It is reported that an albumin to globulin ratio of less than 0.8 on the fluid is suggestive of FIP or if the gamma globulin content is greater than 32%. Cytologically, the high protein content produces a very granular and basophilic background. Cells present in this fluid are predominantly nondegenerate neutrophils with lower numbers of large mononuclear cells which are mesothelium or macrophages. Occasional lymphoid cells namely small lymphocytes and plasma cells also may be seen. There is no evidence of bacterial infection.

Cestodiasis Animals living in the western part of North America may be infected by aberrant migration of intestinal tapeworm parasites. Most affected are dogs which present with abdominal distension, lethargy, and anorexia. Grossly, the fluid has a tapioca pudding appearance due to the large pieces of tissue debris suspended in the cloudy tan-colored fluid. Cytologic analysis of the abdominal fluid reveals a mixed inflammatory exudate with numerous calcareous corpuscles (clear yellow-gold, round to oval structures) typical of Mesocestoides species infection. Less often seen are visible tetrathyridia which are the larval form of the parasite. These larvae have oval structures at one end that represent suckers. Polymerase chain reaction amplification can be performed to identify cestode DNA.

Uroperitoneum Rupture of parts of the urinary tract is responsible for this condition. Urine in the peritoneal cavity acts as a chemical irritant producing an inflammatory response or exudate. Due to the dilution by the fluid, the protein content is often low. Early in the condition, a mononuclear predominance is present but as the irritation continues inflammation results. Neutrophils present in this toxic environment display karyolysis giving the nuclear border a ragged appearance. In some cases urine crystals can be identified. Indicators for the presence of urine include increased amounts of potassium or creatinine in the fluid, generally in the ratio of 2:1 compared with that in serum.


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Bilious Effusion Injury to the gall bladder or bile duct can result in release of bile into the peritoneum. The fluid color is usually brown, green, or dark yellow. The cell count often reflects the exudative character of the fluid. The cells include mostly nondegenerate or mildly karyolytic neutrophils as well foamy or highly vacuolated macrophages. These macrophages are noted to contain golden yellow to blue-green amorphous material, similar to that seen in the background. Also present in the background may be evidence of a lightly basophilic amorphous material that results from the mucus produced, the so called “white bile”. Additional support for biliary leakage is measurement of increased concentration of bilirubin above levels in serum.

Chylous Effusion This effusion is most often found in the thorax but rarely produces an ascites. It is characterized by a white or pink white color that is opaque related to the presence of chyle. Chyle consists of chylomicrons which are composed of triglycerides. The condition arises from rupture of the thoracic duct lymphatics which may be caused by trauma, neoplasia, infection, or idiopathic reasons. Biochemically, the condition can be diagnosed by the presence of high triglyceride concentrations, often > 100 mg/dl in the effusion fluid. WBC counts are elevated generally < 10,000/:l and the predominant cells are small to medium lymphocytes. Long-standing chylous effusions may result in a mixed inflammatory response with neutrophils and macrophages.

Lymphoma Clinical signs of a mass with associated effusion suggest neoplasia versus rupture of thoracic duct with resulting chylous fluid. The exfoliation of a lymphoid neoplasm into the body cavity can be difficult to recognize if small or medium size lymphocytes predominate. Lymphoid cells measuring 3 or more times the size of a red cell are abnormal by their large size. There may be one or more prominent nucleoli as well. The monomorphism of the cell population and increased cell

count will also support a diagnosis of lymphoma. Some Tcell lymphomas may be accompanied by a paraneoplastic population of eosinophils. Such increases may cause the effusion fluid to appear grossly green. Immunophenotyping is recommended to better characterize the neoplasm for biological behavior and hence treatment.

Mesothelioma Mesothelium is specialized epithelium derived embryologically from the mesoderm. Rare instances of mesothelioma are encountered. Effusions with abnormal large mononuclear cells arranged in large clusters raise suspicion for neoplasia. Most frequently, inflammatory effusions contain small cell clusters of mesothelium consistent with a reactive response. Mesothelioma cells resemble carcinomas as several nuclear criteria for malignancy are present. These may include anisokaryosis, variable and high nuclear to cytoplasmic ration, coarse chromatin, prominent and multiple nucleoli, and multinucleation. Large rafts of malignant appearing cells without evidence of inflammation provide strong support for a neoplastic population. It has been reported that pericardial effusions with a pH greater than or equal to 7.0 as determined by urine reagent dipstick are more likely neoplastic whereas a more acid pH is associated with benign or inflammatory causes. The best determination of malignancy is best made on clinical history and histopathology.

Bibliography Baker R, Lumsden JH. Colour Atlas of Cytology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2000, pp 159-176. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH. Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2nd Ed. 1999, pp 142-158. Greene CE. Infectious Diseases of the Dog and Cat: WB Saunders Co, Philadelphia; 1998, pp 58-69, 378-383. Raskin RE, Meyer DJ (eds). Atlas of Canine and Feline Cytology: WB Saunders Co, Philadelphia; 2001, pp.187-205.

Author’s Address for correspondence: Rose E. Raskin Professor of Veterinary Clinical Pathology Purdue University, West Lafayette, Indiana, USA


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Exotic pet cytology: a new and not well known field of interest Rose E. Raskin DVM, PhD, Dipl ACVP, West Lafayette, Indiana, USA

The same cytologic principles and general categories of cytodiagnosis apply in exotic pets similar to those in dogs and cats. The major differences are the recognition of inflammatory cell types and the unusual infectious agents that can affect these species. General cytodiagnostic categories of cytology include inflammation, response to tissue injury, and neoplasia. Examples of cases presented will focus on reptiles and small domestic mammals.

Reptile Inflammatory Cells Inflammation can be classified by the type of cells that predominant in the lesion such as heterophilic, macrophagic, eosinophilic, or mixed cell. The heterophilic response is the most acute and common with bacterial infections. The heterophil is large (10-23 microns) and contains numerous fusiform, bright orange-pink granules. In contrast to birds which have lobed nuclei, most reptiles have a round to oval nucleus, but some lizards have nuclei with multiple lobes. The heterophil is similar to the mammalian neutrophil in its functions of phagocytosis and microbiocidal activity. During acute inflammation degranulation and cellular degeneration occurs causing a center of necrotic tissue that incites macrophages to enter leading to a mixed cell reaction. Compared with mammals, inflammation in reptiles does not produce liquid creamy pus but rather a yellow-white caseous material. Macrophages appear similar to those of mammals and are derived from monocytes. Giant cells, derived from a grouping of macrophages, may occur within hours in birds, and possibly the same is true in reptiles. Therefore the presence of giant cells may not indicate chronicity as it does in mammals. Some reptiles such as the iguana and certain tegu and dragon lizards as well as snakes have a subset of monocytes termed azurophils. These cells have numerous fine eosinophilic granules dispersed throughout the cytoplasm. Eosinophils are infrequently found in inflammatory responses. They may contain round green blue to gray granules as in the iguana or contain the more typical eosinophilic round granules. It is not unusual to find in inflammatory lesions evidence of thrombocytes present as tight clusters indicating recent bleeding.

Kurloff Bodies in Guinea Pigs These are unique structures found in up to 4% of leukocytes in blood. These variably sized mucopolysaccharide

cytoplasmic inclusions occur within some lymphocytes of guinea pigs or of related species, such as the capybara. They appear as round granular eosinophilic structures that are thought to provide natural killer cell function and are associated with some lysosomal enzymes.

Heterophils in Rabbits The neutrophil of the rabbit and to a lesser degree in the guinea pig appear more eosinophilic than the typical clear or lightly granular cytoplasm of other mammalian species. This has given rise to the term “pseudoeosinophil”. The increase in staining is related to the fusion of many small acidophilic granules or primary granules. The colored cytoplasm as opposed to the neutral or nonstaining appearance allows these leukocytes to be best termed as heterophils. Their function is identical to other mammals but they do not stain cytochemically for myeloperoxidase as most mammals.

Egg Yolk Peritonitis The appearance of a cloudy coelomic effusion in a bird or reptile with the microscopic appearance of amorphous basophilic material in the background suggests the presence of egg yolk following rupture into the body cavity. The protein content is elevated above 3 g/dl. The inflammatory response is mixed with heterophils and macrophages some of which appear to contain cellular debris. There is no evidence of infection.

Respiratory Cytology Washes of the nasal passages, trachea, and bronchi are a frequent method of evaluation of the respiratory tract in reptiles. The epithelium is similar to that of mammals in that cuboidal shape predominates in the nasal region whereas columnar ciliated epithelium is found along the trachea and larger bronchi. Alveolar macrophages are present within bronchoalveolar washes of the lung. Most frequently bacterial infections are encountered with rods being most frequent. The presence of intracellular bacteria within heterophils or macrophages suggests true sepsis and not contamination. Occasional lung parasites have been identified by the presence of ova or larva within the washes.


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Gastrointestinal Cytology

Lymphoma in ferrets

Gastric lavages are a common method of evaluation of digestive tract abnormalities in snakes. The presence of infections by an overgrowth of bacteria or by protozoal agents can be recognized. Small round lightly basophilic structures measuring 4-6 microns with purple granular internal structure have been identified in snakes with clinical signs of regurgitation and weight loss. These protozoal organisms are accompanied by an inflammatory response by macrophages predominantly. The organisms stain positive for acid-fast staining and are diagnosed as Cryptosporidium sp. by fluorescent antibody technique.

Lymphoma is a common neoplastic condition in ferrets accounting for approximately 12% of all tumor types. The most common type in adults is a multicentric lymph node presentation composed of small lymphocytes predominantly. This leads to often an equivocal diagnosis of lymphoma on cytology. In these cases histopathology is highly recommended. Affected lymph nodes may be found in the cervical, peripheral, or abdominal regions. The next most common is the juvenile form in ferrets less than 2 years of age. This often presents acutely with respiratory distress as mediastinal proliferation is present frequently involving the thymus. The spleen and liver may be affected in the juvenile forms along with peripheral lymphocytosis. Cells are more immature involving medium to large lymphocytes and most often of T-cell phenotype. Another form of lymphoma that exists in the adult ferret consists of immature lymphoid cells and occurs in a variety of locations. Splenic aspirates from ferrets with splenomegaly can be frustrating as small lymphocytes are typically most abundant. Furthermore, in the majority of instances extramedullary hematopoiesis will be evident by the frequency of erythroid precursors. In lymphoma of the spleen one should find a monomorphic population of cells with large nuclei, prominent nucleoli, and an absence of hematopoietic precursors.

Gout This is an inflammatory condition derived from the build up of uric acid crystals in internal organs or joints often to dietary factors such as increased protein intake and decreased water consumption. Support for the diagnosis can be made by examining aspirated crystalline material microscopically looking for characteristic needle-shaped colorless crystals that demonstrate birefringence through polarized lenses. Serum levels of uric acid concentration are often markedly elevated. The differential for crystalline deposits in the subcutaneous tissues or organs is pseudogout derived from metastatic or dystrophic calcification with the deposit of calcium phosphate (hydroxyapatite) in turtles and lizards.

Mammary gland tumors in rats Fibroadenoma is a very common benign condition in the rat. Grossly, the masses may be very large and weigh as much as the animal but do not metastasize. These are benign lesions under hormonal influence. These subcutaneous swellings often appear along the ventral abdomen from the axillary to the inguinal region. Another common lesion is the fibroadenomatous hyperplasia which may appear similar with reactive epithelial cells having a higher nuclear to cytoplasmic ratio, secretory activity and few if any malignant features. There is often connective tissue proliferation resulting in minimal cellularity or the presence of reactive fibroblasts. In contrast to this tumor, mammary cysts can be identified cytologically by aspiration of a proteinaceous serous fluid of low cellularity with mostly a few mononuclear cells such as macrophages.

Bibliography Benirschke K et al (eds). Pathology of Laboratory Animals: Springer-Verlag, New York. 1978, pp 1194-1213 Campbell TW. Clinical pathology. In: Mader D (ed): Reptile Medicine and Surgery. WB Saunders Co, Philadelphia. 1996, pp 248-251. Erdman SE et al. Clinical and pathologic findings in ferrets with lymphoma: 60 cases (1982-1994). J Am Vet Med Assoc. 1996, 1285-1289. Harr KE et al. Gastric lavage from a Madagascar tree boa (Sanzinia madagascarensis). Vet Clin Pathol. 2000, 93-96. Montali RJ. Comparative pathology of inflammation in the higher vertebrates (reptiles, birds, and mammals). J Comp Path. 1988; 99:1-26. Raskin RE. Reptilian complete blood count, In: Fudge AM (ed): Laboratory Medicine: Avian and Exotic Pets. Philadelphia, WB Saunders Co, 2000, pp. 193-197. Thrall MA et al (eds). Veterinary Hematology and Clinical Chemistry: Lippincott Williams & Wilkins, Philadelphia. 2004, pp 211-224, 259-276.

Author’s Address for correspondence: Rose E. Raskin Professor of Veterinary Clinical Pathology Purdue University, West Lafayette, Indiana, USA


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Advanced Cytology on Skin Mass Rose E. Raskin DVM, PhD, Dipl ACVP, West Lafayette, Indiana, USA

Follicular cyst This nonneoplastic lesion may also be termed epidermal inclusion cyst or epidermoid cyst. These cysts are found in a third to a half of the nonneoplastic noninflammatory tumorlike lesions removed in dogs and cats, respectively. The cyst occurs most frequently in middle to older aged dogs. They may be single or multiple, firm to fluctuant, with a smooth, round, well circumscribed appearance. These are often located on the dorsum and extremities. Keratin bars, squames, or other keratinocytes predominate on cytology. Degradation of cells within the cyst may lead to the formation of cholesterol crystals which appear as negative stained, irregularly notched, rectangular plates best seen against the amorphous basophilic cellular debris of the background.

Mucocele or Sialocele Duct rupture related to trauma or infection leads to an accumulation of saliva within the subcutaneous tissues. The presence of a fluctuant mass containing clear to bloody fluid with string-like features suggests a salivary gland duct rupture. The cytologic specimen often stains uniformly purple from the high protein content. The background may contain scattered, pale basophilic, amorphous material, consistent with saliva. The fluid is often bloody with evidence of both acute and chronic hemorrhage. Erythrophagocytosis is common and occasional yellow rhomboid crystals may be seen. These are termed hematoidin crystals and are associated with chronic hemorrhage. The nucleated cell population consists predominately of highly vacuolated macrophages displaying active phagocytosis. Distinction between these cells and secretory glandular tissue may be difficult, especially when cells are individualized and nonphagocytic. Nondegenerate neutrophils are common, becoming degenerate when bacterial infection occurs.

Nodular panniculitis/steatitis This condition may have an infectious or noninfectious etiology. Causes of noninfectious panniculitis include trauma, foreign bodies, vaccination reactions, immune-mediated conditions, drug reactions, pancreatic conditions, nutritional deficiencies, and idiopathic. The condition appears in the cat and dog as solitary or multiple, firm to fluctuant, raised, well demarcated lesions. These may ooze an oily yellow-brown fluid. Sites of prevalence involve the dorsal trunk, neck, and

proximal limbs. Cytologically, nondegenerate neutrophils and macrophages predominate against a vacuolated background composed of adipose tissue. Small lymphocytes and plasma may be numerous, especially in lesions induced by vaccination reactions. Frequently, macrophages present with abundant foamy cytoplasm or as giant multinucleated forms. When chronic, evidence of fibrosis is indicated by the presence of plump fusiform cells with nuclear immaturity. The fibrosis may be so extensive as to suggest a mesenchymal neoplasm.

Neoplasia Neoplasia is initially diagnosed when a monomorphic cell population is present and significant inflammation is lacking. Further division into benign and malignant types is based on cytomorphologic characteristics. Benign cells display uniformity in size, nuclear to cytoplasmic ratio, and other nuclear features. Malignant cells often display three or more anaplastic cellular features. Malignant features include variation in cell size, cell shape, or state of maturation between cells from a similar origin (pleomorphism). Variation in nuclear size is termed anisokaryosis. The nuclear to cytoplasmic ratio (N:C) is high or variable. Chromatin may be coarsely clumped. Nucleoli are enlarged, multiple, and variably-shaped. Abnormal mitotic figures have uneven divisions or isolated chromatin. Nuclear molding occurs with rapid growth of cells. Neoplasms can be divided into four general categories based on their morphologic appearance. These categories of neoplasms are: epithelial, mesenchymal, round or discrete, and naked nuclei.


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Cytomorphologic Categories of Neoplasia Category

General Features

Examples

Epithelial

Clustered, tight arrangement of cells

Transitional cell carcinoma, lung tumors

Mesenchymal

Individualized, spindle to oval cells

Hemangiosarcoma, osteosarcoma

Round/Discrete Cell

Individualized, round, discrete cells

Lymphoma, transmissible venereal tumor

Naked Nuclei

Loosely adherent cells with free round nuclei

Thyroid tumors, paragangliomas

Squamous cell carcinoma

Fibrosarcoma

This is a common tumor occurring as solitary or multiple proliferative or ulcerative masses. It is most common on the limbs of dogs and thinly haired areas of the pinnae or face of cats. Cytologically, purulent inflammation often accompanies immature or dysplastic squamous epithelium. Bacterial sepsis may occur if the surface has eroded. Characteristic tadpole shape and keratinized blue-green cytoplasm may be helpful criteria in determining the cell of origin. Squames and highly keratinized nucleated squamous epithelium are frequent in well-differentiated tumors corresponding to the keratin pearls seen histologically. Cellular and nuclear pleomorphism is marked. Perinuclear vacuolation may be present. The neoplastic epithelium may appear as individual cells or as adherent sheets of cells.

In young cats this tumor may be caused by the feline sarcoma virus and may be multiple. In older dogs and cats, tumors are solitary with a predilection for the limbs, trunk, and head. They are poorly circumscribed and sometimes ulcerated. Cytologically, fibrosarcoma consists of abundant numbers of large plump cells occurring individualized or in aggregates. Multinucleated giant cells may be present occasionally. Nuclear pleomorphism may be marked compared with the benign counterpart. Cells are less uniform and generally have high nuclear to cytoplasmic ratios.

Canine hemangiopericytoma

Found commonly in dogs and cats as typically a single, firm, elevated, well demarcated round intradermal mass that may be ulcerated or cystic. Many tumors appear pigmented due to abundant melanin. Tumors in cats may be cystic. They are located mostly about the head with frequent occurrence on the neck and limbs. Cytologically, basal cells are small cells characterized by high nuclear to cytoplasmic ratios, monomorphic nuclei, and deeply basophilic cytoplasm. They may be arranged as clusters or in row formation.

This is a common tumor generally considered to affect dogs only. These are often solitary tumors with a predilection for the joints of the limbs, but are found commonly on the thorax and abdomen. They are firm to soft, multilobulated, and often well circumscribed. Cytologically, preparations are moderately cellular. Plump spindle cells may be individualized or arranged in bundles, sometimes found adherent to the surface of capillaries. Nuclei are ovoid, with one or more prominent central nucleoli. Multinucleated cells are occasionally seen. Associated with cells may be a pink amorphous collagenous stroma. The cytoplasm is basophilic and may contain numerous small discrete vacuoles. Lymphoid cells have been found in approximately 10% of cases.

Perianal gland adenoma

Lipoma

The tumor may be single or multiple occurring generally near the anus, but may also be found on the tail, perineum, prepuce, thigh, and along the dorsal or ventral midline. Initially they grossly appear as smooth, raised round lesions which become lobulated and ulcerated as they enlarge. The tumor arises from modified sebaceous gland epithelium. Cytologically, sheets of mature round hepatoid cells predominate characterized by abundant finely granular pinkish-blue cytoplasm. Nuclei resemble those of normal hepatocytes appearing round with an often single or multiple, prominent, nucleolus. A low number of smaller basophilic reserve cells having a high nuclear to cytoplasmic ratio may also be present, but these lack features of cellular pleomorphism.

This is the most common connective tissue tumor in dogs. The tumor may be single or multiple, occurring mostly on the trunk and proximal limbs. These are dome-shaped, well circumscribed, soft, often freely moveable masses within the subcutis which can grow slowly becoming quite large. Cytologically, unstained slides appear wet with glistening droplets that do not dry completely. Lipid may be best demonstrated with a water soluble stain (new methylene blue) and a fat stain (oil-red-O). When stained with alcoholbased Romanowsky stains, lipid is dissolved leaving slides often void of cells. When present, intact adipocytes have abundant clear cytoplasm with a small compressed nucleus to one side of the cell.

Basal cell tumor


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Hemangiosarcoma This is a malignant infiltrative mass of the dermis or subcutis. Lesions are raised, poorly circumscribed, ulcerated, and hemorrhagic. Cytologically, slide preparations are of low cellularity with numerous blood cells within the background. Evidence of hemorrhage with hemosiderin-laden macrophages may be present. Neoplastic cells are pleomorphic ranging from large spindle to stellate. Cytoplasm is basophilic, having indistinct cell borders and occasional punctate vacuolation. Cells have high nuclear to cytoplasmic ratios, oval nuclei with coarse chromatin and prominent multiple nucleoli.

Melanoma Benign tumors are mostly dark brown to black, circumscribed, raised, dome-shaped masses covered by smooth hairless skin. Malignant tumors are variably pigmented, infiltrative, frequently ulcerated and inflamed. Cytologically, cells are pleomorphic ranging from epitheloid to fusiform, or occasionally as discrete round cells. In well-differentiated tumors, nuclei may be masked by numerous fine black-green cytoplasmic granules. Poorly differentiated tumors may contain few or no cytoplasmic granules. Nuclei in benign forms are small and uniform compared with characteristics of anisocytosis, anisokaryosis, coarse chromatin, and prominent nucleoli seen in the malignant melanomas.

Canine histiocytoma This is a very common benign rapidly growing tumor of mostly young dogs. The tumor appears as a small solitary, well circumscribed, dome-shaped, red ulcerated, hairless mass. It occurs commonly on the head, especially ear pinna, as well as on the hindlimbs, feet, and trunk. Cytologically, cells have round to indented nuclei with fine chromatin and indistinct nucleoli. Cells exhibit minimal anisocytosis and anisokaryosis. The cytoplasm is abundant and clear to light-

ly basophilic with indistinct cell borders. A variable number of small well-differentiated lymphocytes are common in regressing lesions.

Mast cell tumor Tumors in dogs are generally solitary, nonencapsulated and highly infiltrative into dermis and subcutis. Mast cell tumors in cats are usually solitary, well circumscribed, dermal masses that occur on the head, neck, and limbs. Multiple masses are common in young Siamese cats. Mast cell tumors in cats are common also in visceral organs, spleen, and liver. Cytologically, tumor cells may vary in the degree of granularity with some cells having numerous distinct metachromatic stained granules while others contain moderate numbers of granules or few to no cytoplasmic granules. In less differentiated forms, anisokaryosis, coarse chromatin, and prominent nucleoli may be present along with a poorly granulated cytoplasm. Giant binucleated cells are more commonly found in poorly differentiated forms. Eosinophils are more numerous in canine tumors than feline tumors.

Suggested Cytology References Baker R, Lumsden JH. Colour Atlas of Cytology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2000 Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH. Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat: Mosby, St. Louis; 2nd Ed. 1999 Radin MJ, Wellman ML. Interpretation of Canine and Feline Cytology: Ralston Purina Company Clinical Handbook Series. The Gloyd Group, Inc, Wilmington, DE; 2001 Raskin RE, Meyer DJ (eds). Atlas of Canine and Feline Cytology: WB Saunders Co, Philadelphia; 2001

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The different types of shock Deborah Silverstein DVM, Dipl ACVECC, Philadelphia, USA

“Shock” is a state of severe hemodynamic and metabolic derangements characterized by decreased tissue perfusion, impaired oxygen delivery, and inadequate cellular energy production. When the cell is unable to generate adequate energy supplies, the cells, organs, and patient will not function properly and eventually fail. This manifests clinically as multiple organ failure, the ultimate endpoint of untreated, and sometimes even treated shock. The classic clinical presentation of an animal in shock includes pale mucous membranes, slow capillary refill time, tachycardia or bradycardia (felines), poor pulse quality, and mental dullness. There are vasodilatory and cellular forms of shock that may not display these classic signs, however. Regardless of the cause of shock, cells are forced to undergo anaerobic glycolysis when oxygen delivery or mitochondrial function is deranged, resulting in the production of lactic acid. The four categories of shock that will be discussed include cardiogenic, distributive, hypoxic, and metabolic. Cardiogenic shock typically results in low-forward flow states due to heart-related problems. The poor cardiac output stems from poor contractility of the myocardium or low preload. Potential causes of cardiogenic shock include dilated cardiomyopathy leading to poor contractility, toxins or drugs that cause myocardial damage or depression, hypertrophic cardiomyopathy which results in poor preload, obstructive diseases such as stenosis, backload regurgitation as seen with valvular disease, pericardial tamponade or pericardial fibrosis resulting in low preload, or severe arrhythmias causing poor preload and inefficient contractility. The treatment of cardiogenic shock often depends on the underlying disease process. If poor myocardial contractility is the cause of shock, treatment with a beta-agonist is indicated. Dobutamine is the most common emergent treatment to increase cardiac function. If the animal is receiving drugs that cause myocardial depression, these should be discontinued (ie anesthetics). Some animals with valvular disease will benefit from afterload-reducing drugs such as nitroprusside or hydralazine +/- a positive inotrope depending on the degree of contractility. If the amount of pericardial effusion is large enough to cause tamponade, a pericardiocentesis should be performed and fluid therapy administered. Severe, persistent arrhythmias should be treated appropriately with antiarrhythmics or cardioconversion. Distributive shock encompasses a variety of abnormalities that are generally associated with an inappropriate distribution of cardiac output to the tissues. This includes a decrease in intravascular blood volume as seen with hypovolemic shock resulting from hemorrhage, hypoproteinemia, increased vascular permeability, or diseases leading to severe dehydration. Hypovolemia is included with distribu-

tive shock sine it is normally associated with a compensatory peripheral vasoconstriction that that interferes with peripheral (ie visceral organ) perfusion. If hypovolemia is not associated with peripheral vasoconstriction (as commonly seen with sepsis), it causes hypotension which also causes reduced coronary and cerebral blood flow and leads to distributive shock. Many animals are presented to the emergency service following trauma and appear to be in hyopvolemic shock, even if there is no blood loss. This is because of the neurohormonal response to trauma that leads to severe vasoconstriction and maldistribution of the available intravascular blood volume. Arteriovenous shunts cause a reduction in the net cardiac output and blood flow to the tissues. Occlusion of vessels from external sources, as seen with intestinal torsions, masses, or foreign bodies, interfere with blood flow to the involved organ. Similarly, thromboembolic disease prevents normal blood flow to the downstream organs and severe pulmonary thromboemboli can lead to cor pulmonale and right heart failure. The treatment of distributive shock typically includes shock fluid therapy. Combinations of isotonic crystalloids, synthetic colloids, hypertonic solutions, and blood products might be necessary, depending on the underlying disease process. States of hypoxic shock are characterized by normal tissue perfusion (unlike distributive shock), but abnormal oxygen content or oxygen unloading to the tissues and cells. Hypoxemia (a low partial pressure of oxygen or low hemoglobin saturation due to pulmonary pathology) and anemia (low oxygen content) are the most common causes of hypoxic shock. Additional disease processes that might lead to hypoxic shock include methemoglobinemia (oxidized, ferric hemoglobin) and carboxyhemoglobin (carbon monoxide poisoning) since these abnormalities decrease the oxygen carrying capacity of hemoglobin. The treatment of hypoxic shock is aimed at increasing oxygen content. Oxygen therapy should be provided to all patients. Animals with severe pulmonary disease may benefit from positive pressure ventilation. Dogs or cats with lifethreatening anemia should be administered appropriate red cell blood products or hemoglobin-containing solutions. Toxicities such as methemoglobinemia should be treated appropriately (vitamin C and N-acetylcysteine). There are instances when the tissues are adequately perfused and oxygenated, but the cells are still unable to produce adequate energy levels to maintain viability. This is metabolic shock and it commonly occurs due to an intracellular problem that interferes with energy production. Sepsis, in addition to all of its vasoactive intermediates and cellmediated injury, interferes with normal cellular function and


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often causes “cytopathic hypoxia.” Cyanide intoxication disrupts normal mitochondrial cytochrome oxidative phosphorylation and leads to metabolic shock. Animals with heat stroke have a cellular metabolic rate that exceeds the animal’s ability to deliver energy substrates and often results in metabolic shock. Hypoglycemia leads to inadequate energy substrate for normal cerebral metabolism and can also cause metabolic shock. Diagnosis and treatment of metabolic shock can be difficult. Hypoglycemia is easily discovered and treated with glucose supplementation. Cellular dysfunction is diagnosed via exclusion of other causes of shock. The treatment is generally supportive in an attempt to optimize oxygen delivery to the tissues and treat the underlying disease. Septic shock is a state of circulatory shock that is caused by an underlying infectious agent. The resulting inflammatory response to the insult includes the release/activation cytokines, proteases, catalases, eicosanoids, and activation of the complement, coagulation, and fibrinolytic cascades. These processes interfere with intracellular metabolism and function. Subsequent decreases in myocardial contractility, cardiac output, and oxygen delivery ensues. Inappropriate changes in vasomotor tone often occur resulting in either hypotension (vasodilation) or impaired tissue perfusion (vasoconstriction). Gastrointestinal ulceration or hemorrhage and oliguric or anuric renal failure may develop. Increased endothelial permeability may result in hypopro-

teinemia and hypovolemia. Coagulopathies, lactic acidosis, and hypoglycemia also commonly result. It is therefore apparent that sepsis can lead to various types of shock: cardiogenic, distributive, hypoxic, and metabolic. The treatment of the various causes of shock in patients with sepsis is beyond the scope of this discussion. Identification of the source of sepsis and appropriate therapy are paramount. Monitoring cardiac function, cardiovascular and pulmonary parameters, and labwork values regularly will allow early recognition and treatment of secondary problems. Regardless of the cause of shock, rapid assessment of these critical patients, early identification of the underlying disease, and restoration of cardiopulmonary and cellular stability is vital. By understanding the various categories of shock and common etiologies of these categories, the veterinarian will be able to more successfully treat these emergent patients.

References available upon request. Author’s Address for correspondence: Deborah Silverstein Matthew J Ryan Veterinary Hospital University of Pennsylvania 3900 Delancey Street Philadelphia, PA 19104-6010 E-mail: dcsilver@vet.upenn.edu


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SIRS, MODS, and sepsis in small animals Deborah Silverstein DVM, Dipl ACVECC, Philadelphia, USA

The systemic inflammatory response syndrome (SIRS) is the clinical manifestation of the body’s response to severe injury, microbial invasion, severe inflammation, or neoplasia. The terminology used to discuss sepsis and inflammation is often confusing. Bacteremia refers to the presence of viable bacteria in the bloodstream. The systemic inflammatory response syndrome (SIRS) is the clinical manifestation of the inflammatory response that occurs in response to an infectious or non-infectious insult to the animal (ie sepsis, burns, trauma, heatstroke, pancreatitis, immune-mediated disease). There is no gold standard for the diagnosis of SIRS, but parameters have been derived from the human literature for dogs and cats. The presence of three or more of the following clinical signs is highly suggestive of SIRS in dogs: tachypnea (RR>40 breaths per minute or PaCO2<30 mmHg), tachycardia (HR >120 beats per minute), leukocytosis or leukopenia (WBC>18,000/µl or <5,000/µl or band neutrophil fraction >5-10%), and fever or hypothermia (T>104˚F or <100.4˚F). The presence of three or more of the following clinical signs is highly suggestive of SIRS in feline patients: tachypnea (RR>30 breaths per minute or PaCO2<32 mm Hg), bradycardia or tachycardia (HR<140 beats per minute or >225 beats per minute), leukocytosis or leukopenia (WBC>19,500/µl or <5,000/µl or band neutrophil fraction >5-10%), and fever or hypothermia (T>104˚F or <100˚F). An infection is an inflammatory response secondary to the presence of microorganisms or the invasion of normally sterile tissue by microorganisms. Sepsis is SIRS secondary to a pathogenic organism (most commonly bacterial, but includes viral, protozoal, and fungal organisms as well). Severe sepsis refers to sepsis accompanied by a combination of organ dysfunction, hypoperfusion, or hypotension (systolic blood pressure <90 mmHg or a reduction >40 mmHg from baseline). Septic shock is defined as severe sepsis with hypotension that is refractory to intravascular fluid resuscitation. Multiple organ dysfunction syndrome (MODS) refers to the derangements of cardiovascular, pulmonary, gastrointestinal, and/or hepatic function secondary to SIRS. Canines, equines, and humans demonstrate an early, hyperdynamic phase of sepsis that is characterized by a high cardiac output, low systemic vascular resistance, and normal to increased blood pressure. These changes are clinically recognized as fever, tachycardia, tachypnea, brick-red or muddy mucous membranes, bounding pulse quality, depression, and inappetance. However, this “hyperdynamic” state is rarely evident in the feline species. Rather, common clinical signs of sepsis in the cat include lethargy, pale mucous membranes, diffuse abdominal pain, tachypnea, bradycardia, poor pulse quality, anemia, hypoalbuminemia,

hypothermia, and icterus. The diagnosis of sepsis is based on clinical and laboratory findings and the identification of a septic focus. High risk patients should be treated empirically if there is a high suspicion of sepsis. A definitive diagnosis of sepsis in dogs and cats is often challenging. Positive blood cultures will confirm bacteremia and serum endotoxin concentration measurements can verify endotoxemia. These tests do not typically allow for a rapid diagnosis, making clinical suspicion especially valuable while laboratory and microbiology results are pending. Common foci of sepsis include peritonitis, pneumonia, pyothorax, and pyelonephritis. It is therefore important that animals with clinical signs of sepsis have a complete diagnostic evaluation, including a CBC, Chemistry, coagulation profile, UA with culture and sensitivity, chest radiographs, and/or abdominal ultrasound, abdominal radiographs, and echocardiography. The source of infection should be identified as rapidly as possible and surgical interventions performed if necessary to drain, debride, or remove the focus of sepsis. If indicated, culture and sensitivity of endotracheal wash fluid, pleural fluid, abdominal fluid, cerebrospinal, and/or joint fluid should be performed. In ~20-30% of patients a source of infection is not found. The goal of therapy in dogs and cats with sepsis is to treat the infection appropriately and maintain adequate oxygen delivery to the tissues. Prevention of MODS is paramount since the mortality rate typically exceeds 50%. Antibiotic therapy is of utmost importance in septic patients, in addition to aggressive supportive care. Broad-spectrum antibiotic therapy should be initiated pending culture and sensitivity results. Empirical antibiotic choices should be effective against grampositive and negative organisms, as well as anaerobes. Initial combinations might include ampicillin and baytril, ampicillin and amikacin, cefazolin and amikacin, ampicillin and ceftazidime, or clindamycin and baytril. Single agents such as ticarcillin/clavulanic acid, cefoxitin, or imipenem (if bacterial resistance is suspected) could be used initially as well. The bacteria will release endotoxin from their cell walls as they are killed, and the patient must therefore also receive adequate supportive care to maintain oxygen delivery. Hemodynamic support primarily comprises the administration of intravenous fluids +/- vasopressor therapy. If the animal is in shock, a bolus of isotonic crystalloids +/- synthetic colloids should be administered. Blood products (packed red blood cells, fresh frozen plasma, or fresh whole blood) should be utilized as necessary to maintain the hematocrit >24% and clotting times within normal limits In animals with severe hypoalbuminemia (<1.5 gm/dL), plasma therapy or 25% human albumin may be beneficial


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to aid in the transport of drugs, hormones, chemicals, toxins, and enzymes. Central venous pressure monitoring (normal 0-10 cm H20) may be helpful in the assessment of fluid status. Maintenance fluid therapy should be determined based on the animal’s maintenance needs, dehydration, and ongoing losses. If adequate fluid therapy is unable to reestablish adequate blood pressure, vasopressor therapy is indicated. Dopamine, norepinephrine, dobutamine, epinephrine, +/- vasopressin are often used (see notes on “Vasopressor Therapy in Shock” for further information). Animals that are not responding to aggressive therapy may have a transient adrenal insufficiency. Appropriate testing and treatment may be required. Oxygen therapy is indicated if the animal has a decreased oxygen content (SpO2<93%, PaO2<80 mmHg, or hematocrit <24% pending transfusion) that is leading to a decrease in oxygen delivery to the tissues. Inspired oxygen concentrations of <60% should be used, if adequate, to prevent oxygen toxicity. Adequate nutrition is critical for septic patients with secondary hypermetabolic states. The enteral route is preferable if the animal is normotensive, not vomiting, and alert. Parenteral nutrition should be administered if the enteral route is not feasible or contraindicated. If the blood glucose falls below 60 gm/dL, 0.5 mL/kg of 50% dextrose should diluted and administered intravenously over 1-2 minutes, and the patient’s fluids supplemented with dextrose (2.57.5%). Gastrointestinal (GI) protectants (antacids and/or

sucralfate) and/or antiemetics should be used as needed in septic dogs and cats. Septic patients should be closely monitored since minuteto-minute changes in the animal’s condition may require continuous adjustments or interventions. Physical examinations, body weight, PCV/TS, blood glucose, electrolytes, blood gas, coagulogram, urine output, blood pressure, EKG, pulse oximetry, and central venous pressure should be closely followed and repeatedly assessed. Although the current treatment recommendations for sepsis remain primarily supportive, novel therapies are under continuous investigation. Clinical trials targeting the various stages of the inflammatory cascade, the patient’s immunocompetency, and the specific pathogens have not revealed consistent results. Although prevention remains the most successful strategy, the use of nitric oxide inhibitors, opiate antagonists, monoclonal antibodies, cyclooxygenase inhibitors, PAF-antagonists, and gene therapy may hold promise for future trials.

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Shock fluid therapy: restoring an effective circulating volume Deborah Silverstein DVM, Dipl ACVECC, Philadelphia, USA

“Shock” is a state of severe hemodynamic and metabolic derangements characterized by decreased tissue perfusion, impaired oxygen delivery, and inadequate cellular energy production. The clinical signs of shock can vary, largely due to the underlying condition. A high level of sympathetic tone is commonly characterized by pale mucous membranes, prolonged capillary refill time, dull mentation, poor pulse quality, cold extremities, and tachycardia (or bradycardia in cats). In contrast, septic shock often causes vasomotor dysfunction and cytokine induced peripheral vasodilation, high cardiac output, and hyperemic mucous membranes with a brisk capillary refill. Normalization of intravascular volume and preload, arterial blood pressure, cardiac output, and oxygen content are crucial to support tissue perfusion, in addition to controlling or reversing the initiating cause of shock. A delay in the treatment of an animal in shock can lead to irreversible organ damage and, potentially, death. The cornerstone of therapy for non-cardiogenic shock includes aggressive volume resuscitation. An increase in intravascular volume will increase left ventricular end-diastolic volume (preload), stroke volume, and cardiac output in order to increase systemic oxygen delivery. Intravenous administration of fluids through a short, large bore catheter is the most desirable method of administration for shock. If rapid intravascular access is not possible, a venous cut-down procedure or intraosseous needle placement should be performed. Isotonic crystalloids, also called replacement fluids, are the most commonly used fluid for the treatment of shock. These are electrolyte-containing fluids with a composition similar to that of the extracellular fluid (ie 0.9% sodium chloride, lactated Ringer’s solution, Normosol-R, and Plasmalyte-148). There is evidence to support the use of 0.9% sodium chloride in animals with head trauma to avoid rapid changes in osmolality since this is the highest sodium-containing isotonic crystalloid. A shock dose of isotonic crystalloid solution is approximately one blood volume: 90 mL/kg in the dog and 50 mL/kg in the cat. The fluid administered rapidly distributes into the extracellular fluid compartment so that only ~25% of the delivered volume remains in the intravascular space by 30 minutes after infusion. It is important that excessive fluid volumes are not administered to avoid volume overload. It is generally recommended to administer 1/3-1/2 of the shock dose as quickly as possible, followed by additional boluses as indicated by clinical parameters and repeated physical examination. It may even be advantageous to perform “hypotensive resuscitation” (to a mean arterial pressure of ~60 mmHg) in patients that are bleeding until the hemorrhage is controlled,

since aggressive fluid therapy in this setting can worsen bleeding and outcome. Readily available synthetic colloid solutions include dextran-70 (D70) and hetastarch (HES). Colloids are large molecules (molecular weight >20,000daltons) that do not readily sieve across the vacular membrane. The colloidal particles in these synthetic solutions are suspended in 0.9% sodium chloride. They are hyperoncotic to the normal animal and therefore pull fluid into the vascular space. They cause an increase in blood volume that is greater than that of the infused volume and help to retain this fluid in the intravascular space in the animal with normal capillary permeability. The recommended dose of synthetic colloids for the treatment of shock is up to 20 mL/kg in the dog and up to 10 mL/kg in the cat (note: rapid administration of HES in the cat has been reported to cause vomiting). Excessive volumes can lead to volume overload, coagulopathies, and hemodilution. These fluids are appropriately used for shock therapy in acutely hypoproteinemic animals (total protein < 3.5 gm/dL) with a decreased colloid osmotic pressure. They can also be used with isotonic crystalloids to maintain adequate plasma volume expansion with lower interstitial fluid volume expansion and to expand the intravascular space with smaller volumes over a shorter time period. Despite multiple clinical studies in humans, there is no definitive documentation that the use of colloids is superior to the use of crystalloids for resuscitation, and the price of colloids is significantly greater than that of crystalloids. Hypertonic saline (7.0-7.5%, HS) administration causes a transient osmotic shift of water from the extravascular to the intravascular compartment. It is administered in small volumes, 5 mL/kg, over 5-10 minutes. In addition to the fluid compartment shift caused by HS, there is evidence that it may also be beneficial to reduce endothelial swelling, increase cardiac contractility, cause mild peripheral vasodilation, and decrease intracranial pressure. Due to the osmotic diuresis and rapid redistribution of the sodium cations that ensue following the administration of HS, the intravascular volume expansion is transient (<30 minutes) and additional fluid therapy must be used with HS. In order to pull fluid into the vascular space and prolong the effect intravascular volume expansion, a HS/synthetic colloid mixture is commonly administered for resuscitation from shock. A 1:2.5 ratio of 23.4% HS with dextran 70 (HSD) or hetastarch will make a 7.5% saline mixture (ie 17 mLs of 23.4% saline added to 43 mLs of dextran 70). There are a number of veterinary studies supporting the beneficial use of HSD for resuscitation in dogs with traumatic shock, pyometra with


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septic shock, burns, hemorrhagic shock, endotoxemia, and gastric dilatation-volvulus. The need for blood products during resuscitation is dependent on the patient’s disease process. Most fluidresponsive shock patients will tolerate acute hemodilution to a hematocrit of <20%. In animals unresponsive to fluid therapy alone, the hematocrit should be maintained >30% to maximize oxygen carrying capacity. Excessive increases in hematocrit should be avoided since this will increase blood viscosity. Most animals can tolerate an acute loss of 10-15% of blood volume without requiring a blood transfusion. Acute hemorrhage exceeding 20% of the blood volume often requires transfusion therapy in addition to the initial fluid resuscitation discussed above. In animals with acute blood loss requiring transfusion therapy, fresh whole blood or packed red blood cells and fresh frozen plasma should be used in an attempt to stabilize clinical signs of shock and maintain the hematocrit above 25% and the clotting times within the normal range. Packed red blood cells and fresh frozen plasma are administered at a dose of 10-15 mL/kg and fresh whole blood at a dose of 20-25 mL/kg. Refrigerator-stored plasma or frozen plasma that is more than 1 year old no longer contains platelets or the labile coagulation factors (V, VIII, and vonWillebrands). Platelets are only present in fresh blood within 6 hours of collection and are their use is indicated in animals with thrombocyotpoenia-induced bleeding disorders or massive hemorrhage. Plasma products are most commonly used in animals with profound blood

loss, a coagulopathy, or severe hypoalbuminemia. Its ability to increase colloid osmotic pressure is limited compared to the hyperoncotic synthetic colloids, but it does supply albumin, an important carrier of certain drugs, hormones, metals, chemicals, toxins and enzymes. If blood typing +/- crossmatching is not possible, dogs should receive DEA 1.1 negative blood. Cats that are not typed should not receive blood products since potentially lethal reactions may occur. In animals with excessive hemorrhage into the pleural or peritoneal cavity, autotransfusion of whole blood should be considered. The blood is gently aspirated, anticoagulated, and filtered prior to administration. Hemorrhage due to neoplastic or septic processes should not be autotransfused. Fluids should be administered as rapidly as possible with continuous reassessment and monitoring. The initial fluid resuscitation should be completed within 15 minutes of the original examination. Repeated boluses may be repeated as necessary, but overhydration should be avoided.

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The use of vasopressors in shock patients Deborah Silverstein DVM, Dipl ACVECC, Philadelphia, USA

Critically ill patients that remain hypotensive despite adequate intravascular volume require the use of vasopressor therapy. Since both cardiac output and systemic vascular resistance affect oxygen delivery to the tissues, therapy in hypotensive patients includes maximizing cardiac function with fluid therapy and inotropic drugs and/or modifying vascular tone with vasopressor agents. Commonly use pressors include catecholamines (epinephrine, norepinephrine, dopamine) and the sympathomimetic drug phenylephrine. In addition, vasopressin, corticosteroids, and glucagon have been used as adjunctive pressor agents. Different sympathomimetics cause various changes in the cardiovascular system, depending on the specific receptor stimulation caused by the drug. Conventionally, adrenergic receptor location and function involves the alpha-1 and beta2 receptors located on the vascular smooth muscle cells that lead to vasoconstriction and vasodilation, respectively, while beta-1 receptors in the myocardium primarily modulate inotropic and chronotropic activity. In addition, there are dopaminergic-1 receptors in the renal, coronary, and mesenteric microvasculature that mediate vasodilation and dopaminergic-2 receptors in the synaptic nerve terminals that inhibit the release of norepinephrine. Dopamine has multiple potential actions on adrenergic and dopaminergic receptors. Primarily dopaminergic effects are seen at low doses (1-5 mcg/kg/min), mainly beta-adrenergic effects are seen at moderate doses (5-10 mcg/kg/min), mixed alpha and beta adrenergic effects are present at high doses (10-15 mcg/kg/min), and primarily alpha adrenergic effects are seen at very high doses (15-20 mcg/kg/min). The actual dose response relationship is unpredictable in a given patient because it is dependent on individual variability in enzymatic dopamine inactivation receptor down regulation, and the degree of autonomic derangement. Dopamine dosages greater than 10 mcg/kg/min are therefore required to produce a pressor response. Dopamine can be used as a single agent therapy to provide both inotropic and pressor support in animals with vasodilation and decreased cardiac contractility. In comparison to other pressor drugs, dopamine is less potent inotrope than epinephrine (or dobutamine) and less vasoconstricting than norepinephrine. The cardiovascular effects of dopamine may dissipate after several days of therapy, perhaps due to receptor down regulation and/or induction of increased post synaptic norepinephrine release. Despite dopamine’s beneficial effects on cardiac output and blood pressure, it may have deleterious effects on gastrointestinal blood flow. When dopamine is used as a vasopressor agent in experimental dogs, gastric mucosal pH is decreased; most likely secondary to a redistribution of mesenteric blood flow as the alpha mediated

effects of the drug at pressor dosages obliterates the vasodilating effects via splanchnic dopamine-1 receptors. For this reason, the use of prolonged, high dose dopamine should be used with caution. Norepinephrine (NE) has mixed alpha and beta-adrenergic receptor agonism with preferential alpha receptor activity. Therefore, the effects on heart rate and contractility are mild, and NE is commonly used as a pressor agent in the animals with normal or increased cardiac output states. Canine septic shock models have demonstrated that the effects of NE on cardiac function are diminished compared to nonseptic controls. In septic patients with cardiac insufficiency and vasodilation, it may be desirable to use NE in conjunction with dobutamine (a potent beta agonist) to prevent the deleterious effects of increasing afterload on a diseased heart. Septic animals that display normalization of arterial blood pressure with the use of NE may have beneficial effects on renal blood flow. However, NE administration in dogs with hypovolemic shock will induce deleterious renal vasoconstriction. Norepinephrine was also shown to improve urine output and creatinine clearance when added to dopamine or dobutamine in patients with septic shock. Splanchnic oxygen delivery and increases in gastric mucosal pH are evident in humans that receive NE therapy for the treatment of hypotensive septic shock. The vasopressor dose of NE in humans (and extrapolated to dogs) is 0.2-3.3 mcg/kg/min. Epinephrine (epi) is a potent pressor with mixed alpha and beta agonism. Although epi is thought to have more potent beat-agonist effects than NE, individual response is quite variable in patients with systemic inflammatory diseases and hypotension. Therefore, caution should also be exercised in patients with heart disease. Epi may significantly impair splanchnic blood flow compared to norepinephrine and dobutamine in combination. This is most likely because of epi’s strong alpha-adrenergic activity with subsequent vasoconstriction in regional vascular beds, although epi does also activate vasodilatory beta receptors. Epi is rarely used as a sole first-line vasopressor agent due to it s potential side effects, but may be necessary in critically ill animals. Epi also inhibits the mast cell and basophil degranulation and is therefore the drug of choice in patients suffering from anaphylactic shock. It is also commonly used for the treatment of cardiac arrest. Phenylephrine is pure alpha agonist drug that causes profound vasoconstriction. It has been shown to cause an increase in cardiac output and blood pressure, presumably due to increased venous return to the hear and activation of alpha 1 receptors in the myocardium. Phenylephrine is typically used in patients that are unresponsive to other sympathomimetics, although it can be used as a sole first-line agent


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in vasodilated, hypotensive animals. Since phenylephrine has no beta activity, it is the least arrhythmogenic of the sympathomimetic pressor drugs and is therefore desirable in animals that develop tachyarrhythmias in response to other pressor agents. Dobutamine is a beat agonist with no alpha effects. It increases cardiac output, oxygen delivery, and oxygen consumption without causing vasoconstriction. It is therefore useful in animals with cardiac insufficiency. It may worsen or precipitate tachyarrhythmias. Vasopressin is a non-adrenergic vasopressor agent that will be discussed in full detail in another lecture. Vasopressin has both direct and indirect effects on the vascular smooth muscle via the V1 receptors to induce vasoconstriction in most vascular beds. In vitro, vasopressin is more potent than phenylephrine or NE. This drug causes vasodilation in renal, pulmonary, mesenteric, and cerebral vasculature to maintain perfusion to these vital organs. Vasopressin administration has been found useful in animals with catecholamine-resistant vasodilatory shock. Dogs with hyperadrenocorticism and those chronically receiving exogenous corticosteroids often exhibit an increase in blood pressure. This response is most likely due to suppression of endogenous vasodilators such as the kallikreinkinin system, prostacyclin, and nitric oxide. Glucocorticoids also modify the rennin-angiotensin system and upregulate angiotensin II receptors in the vasculature. An increase in

blood pressure and systemic vascular resistance are typically seen within 24 hours in dogs that receive corticosteroid therapy. Critically-ill, hypotensive animals may benefit from physiologic doses of corticosteroids, but further research is required to confirm this. Glucagon is typically secreted from the pancreas and is classified as a “counter-regulatory” hormone. Exogenously administered glucagon also causes a positive inotropic effect that leads to an increase in cardiac output and blood pressure. Glucagon activates adenylate cyclase independent of beta-adrenergic receptor stimulation and has been shown to increase heart rate and stroke volume in canine hemorrhagic shock models. This drug may be useful in critically ill patients that are unresponsive to beta agonist drugs or those receiving sympathomimetic therapy that is complicated by beta blocker agents. Further research is needed.

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Vasopressin therapy for vasodilatory shock: a pilot study Deborah Silverstein DVM, Dipl ACVECC, Philadelphia, USA

Profound vasoconstriction occurs when a decrease in arterial blood pressure leads to inadequate tissue perfusion. However, animals with septic shock often have failure of this vasoconstrictive response and an inappropriate vasodilation or vasoplegia occurs, as evidenced clinically by red mucous membranes and warm extremities. The ensuing vasodilatory shock is characterized not only by hypotension from the peripheral vasodilation (despite intravascular fluid resuscitation), but also by a poor response to therapy with vasopressor drug administration, also termed “catecholamine-resistant vasodilatory shock.” Catecholamine-resistant vasodilatory shock is a potentially fatal complication in patients with septic shock or multiple-organ dysfunction syndrome (MODS). It appears to be a final common pathway in patients that sustain severe, prolonged shock states of any origin. Therefore, patients suffering from hypotension and decreased oxygen delivery to the tissues secondary to hypovolemic or cardiogenic shock may not be “cured” by correction of the initial problem. Derangements of normal vasodilatory and vasoconstrictor mechanisms lead to this apparent vasoplegia, despite elevated levels of norepinephrine, endothelin, and angiotensin II. The vascular smooth muscle is typically non-responsive to exogenously administered catecholamines as well. Elevated levels of nitric oxide and activation of the smooth muscle ATP-sensitive potassium (KATP) channels appear to be two of the primary causes for the inappropriate vasodilation, but the lack of reflex vasoconstriction is not as clearly understood. Other potential contributors to the vasoplegia include fatal injuries to the vascular cells from prolonged hypotension, inadequate oxygen extraction from the tissues inducing continued vasodilation, and an increase in the activity of vasodilatory prostaglandins. However, experimental and clinical studies investigating the effect of increasing oxygen delivery or inhibiting prostaglandin synthesis have failed to show benefit for the treatment of catecholamine resistant vasodilatory shock. One additional mechanism that appears to play a significant role in the pathogenesis of refractory vasodilatory shock in both animals and people is the deficiency of vasopressin, also known as antidiuretic hormone. Vasopressin has many roles in the body, but its ability to stimulate constriction of the vascular smooth muscle and help to maintain arterial blood pressure is especially important in states of hypotension. Vasopressin, or anti-diuretic hormone, is a peptide synthesized and stored in the hypothalamus and posterior pituitary, respectively. It is an important hormone in the regula-

tion of body fluid balance in healthy animals, restoration of vascular tone in hypotensive states, and stimulating the release of factors VIII, von Willebrand, and ACTH. It is commonly released in response to an increase in osmolality (sensed in the brain) or hypotension (sensed by baroreceptors in the left atrium, aortic arch, and carotid sinus), although additional stimuli have been identified. The cellular effects of vasopressin are mediated by interactions of the hormone with two principal types of receptors: V1 and V2. V1 receptors are predominantly located in the gastrointestinal tract and vascular smooth muscle, but also in the bladder, myometrium, kidneys, and central nervous system. V2 receptors are primarily found in the principal cells of the renal collecting ducts. Interestingly, vasopressin has been shown to produce vasoconstriction in some vascular beds and vasodilation in others (renal, pulmonary, mesenteric, and cerebral). The pressor (vasoconstrictive) effects of vasopressin are non-adrenergic and thought to be mediated by its direct and indirect effects on arterial smooth muscle. In healthy animals, vasopressin does not play a significant role in the control of vascular smooth muscle, but it is critical when hypotension develops. This is due to its ability to reset the cardiac baroreflex to a lower pressure. In vitro, vasopressin is a more potent vasoconstrictor than angiotensin II, norepinephrine, or phenylephrine on a molar basis. Vasopressin levels greater than 100 pg/mL are necessary to stimulate a significant increase in mean arterial pressure. Low flow states secondary to hypovolemia or septic shock are associated with a biphasic response in serum vasopressin levels. There is an early increase in the release of vasopressin from the neurohypophysis in response to hypoxia, hypotension, and/or acidosis which leads to high levels of serum vasopressin. This plays a role in the stabilization of arterial pressure and organ perfusion in the initial stages of shock. Agents that block the V1 receptor have been shown to lower arterial pressure in both acute hemorrhagic shock and septic shock. Vasopressin levels in a normal, hydrated dog are around 4 pg/mL. Osmoregulation is maximally effective at 20 pg/mL. Studies in dogs have found concentrations of vasopressin in the range of 300-1000 pg/mL during the early phase of hemorrhagic shock and 500-1200 pg/mL following experimentally induced endotoxemia. In the later phase of shock, however, the vasopressin levels are decreased, presumably due to degradation of released vasopressin and a depletion of the neurohypophyseal stores that take time to resynthesize. The vasopressin concentration in the experimental dogs decreased to 29 pg/mL in the late phase of hemorrhagic


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shock. Humans with advanced vasodilatory shock have been found to have both a deficiency of vasopressin secretion and an enhanced sensitivity to vasopressin-induced blood pressure changes. Additionally, vasopressin levels are markedly increased in animal models of acute sepsis, but this increase is followed by a rapid decline over the ensuing few hours. Additional hypotheses for the low levels of vasopressin include a decrease in baroreceptor stimulation of vasopressin release secondary to impaired autonomic reflexes, as seen in sepsis, or tonic inhibition by atrial stretch receptors secondary to volume loading or mechanical ventilation. In addition, vasopressin release may be inhibited by nitric oxide or high circulating levels of norepinephrine. Preliminary studies in humans and animals have demonstrated promising results in the management of people with refractory hypotension using a vasopressin intravenous infusion (in addition to its use for CPR and central diabetes insipidus). Many patients with refractory hypotension are subsequently weaned off of catecholamine support by the addition of vasopressin therapy. Animal trials thus far support the potential benefits of vasopressin in animals suffering from hypotensive states. However, high dose therapy is associated with excessive coronary and splanchnic vasoconstriction, as well as a hypercoagulable state. The excessive vasoconstriction can lead to a reduction in cardiac output or even fatal cardiac events, especially in patients with decreased myocardial function. A recent study by Guzman et al compared the effects of intravenous norepinephrine to that of intravenous vasopressin on systemic splanchnic and renal circulation in dogs with

experimental endotoxic shock. The systemic and splanchnic blood flow changes were comparable, however the vasopressin infusion restored renal blood flow and oxygen delivery, but the norepinephrine did not. Another canine study by Morales et al studied the effect of vasopressin administration in dogs with experimental hemorrhagic shock and subsequent requirement for a norepinephrine infusion (3 mcg/kg/min) to maintain a mean arterial pressure of 40 mm Hg. The administration of a vasopressin infusion resulted in an increased in mean pressures from 39 +/-6 mm Hg to 128 +/- 9 mm Hg. The serum vasopressin levels were markedly elevated during the acute hemorrhage, but decreased from 319 +/-66 to 29 +/-9 pg/mL prior to administration of vasopressin. A pilot study was recently completed in clinical dogs and found that vasopressin did increase the blood pressure in dogs that were refractory to dopamine therapy at 10 mcg/kg/min. The details of this study will be further presented in the lecture.

References available upon request. Author’s Address for correspondence: Deborah Silverstein Matthew J Ryan Veterinary Hospital University of Pennsylvania 3900 Delancey Street Philadelphia, PA 19104-6010 E-mail: dcsilver@vet.upenn.edu


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An update on management of feline lower urinary tract desease Andrew H. Sparkes Bvet Med, PhD, Dipl ECVIM, MRCVS, New Market, UK

Cats with lower urinary tract disease tend to present with the same spectrum of clinical signs irrespective of the underlying cause including dysuria, haematuria, pollakiuria and inappropriate urination. Male cats will sometimes develop stranguria and a cat that develops obstructive uropathy is at high risk of death within 3-4 days due to acute renal failure. There are a number of potential underlying aetiologies for FLUTD and in general, idiopathic cystitis accounts for 6070% of cases, urolithiasis and urethral plugs for 20-40%, and bacterial infection for less than 10%. Other causes include urethral strictures and neoplasia. In contrast to dogs, bacterial urinary tract infections (cystitis, urethritis) are very uncommon in cats, with a number of studies suggesting that this accounts for only 1-3% of FLUTD cases. Urolithiasis is an important cause of clinical signs. Oxalate and struvite uroliths occur with approximately equal frequency. While struvite stones can be dissolved with appropriate dietary management (eg, Hills s/d), oxalate cannot be dissolved and require surgical removal. Long-term prevention of recurrent urolithiasis depends on modifying the urine composition to reduce the risk of further crystalluria and stone formation. Some risk factors for oxalate and struvite urolithiasis are effectively contradictory (urine pH, magnesium concentration), and thus diets designed to address the specific requirements of these two types of stone are ideal for maintenance (eg, Hills c/d and Hils x/d). Urethral plugs are probably a manifestation of idiopathic cystitis in most cases. The plugs have a protein matrix (probably largely inflammatory proteins) within which various other elements are trapped (eg, cells, cellular debris and crystals) which contribute to the blockage. In the vast majority of cases, the blockage is associated with struvite crystals, and although the crystals are not the cause (they would be passed normally if it were not for the protein matrix), they contribute to the blockage. Long-term management of such cases should involve the use of diets designed to minimise struvite crystal formation (eg Hills c/d). Idiopathic cystitis accounts for the majority of FLUTD cases. The majority of cases of idiopathic FLUTD (iFLUTD) spontaneously resolve within a few days irrespective of treatment, making response to treatment very hard to assess. Often, what is taken to be improvement due to therapy is in fact simply spontaneous recovery. Of the few published well-controlled studies, no interventional medical therapy has been shown to be of benefit in iFLUTD. Many drugs have been used that have not been the subject of any clinical trials.

Unfortunately, a number of drugs that have been evaluated for therapy in feline idiopathic cystitis have only been evaluated in short-term studies (lasting 1-2 weeks). While these studies have shown no benefit for the use of drugs such as prednisolone and amitriptyline in comparison with placebo therapy, because of the rapidly self-resolving nature of the disease it may not be possible or reasonable to expect that a short-term benefit would be established. Of more clinical value is the use of long-term placebo controlled studies looking at frequency and severity of recurrent episodes. However, such studies are more difficult and more expensive to conduct so relatively few have been performed. Recent evidence from investigation of iFLUTD cases has revealed a number of similarities to a form of sterile (noninfective) cystitis in humans termed ‘interstitial cystitis’. Although differences between the two diseases exist (interstitial cystitis for example tends to have a prolonged, intractable clinical course), there are many striking similarities such as the finding of sub-mucosal haemorrhages on cystoscopy (‘glomerulations’), increased bladder wall permeability, reduced excretion of glycosaminoglycans, and submucosal oedema and inflammation characterised by increased numbers of mast cells seen on bladder wall biopsy. On the basis of these findings, some of the treatments that have been shown to be useful for the management of interstitial cystitis in humans have been tried in cats with iFLUTD. Amitriptyline falls into this category, and belongs to a group of drugs known as the ‘tricyclic antidepressants’. It certainly has some central nervous system effects which may help in controlling iFLUTD, as it is thought that stress factors may be involved in the development of disease in at least some cats. However, the drug has a number of other potential beneficial effects in terms of reducing neurogenic inflammation in the bladder and controlling the discomfort associated with the disease. Generally, amitriptyline has been used at a dose of 2.5-10 mg per cat, given once daily in the evening (as administration may cause temporary sedation). Although short-term studies have not been able to demonstrate a benefit, one long-term open uncontrolled study did suggest genuine benefit in some cats with longstanding intractable cystitis. Glycosaminoglycan (GAG) replacements (e.g. pentosan polysulphate, glucosmaine) are also widely recommended in the management of iFLUTD. Again, their use is somewhat controversial although the finding of significantly reduced concentrations of GAG’s in the urine of cats affected with idiopathic cystitis provides a strong rationale for their use.


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Clinical experience with these drugs has been variable, but in two long-term controlled studies, the use of GAG replacers did not appear to make a significant difference to the recurrence of iFLUTD in affected cats. Nevertheless, although both studies failed to show a significant beneficial effect of GAG replacers, both studies also identified a few individual cats that seemed to consistently respond to their use and have recurrent signs when therapy was stopped. Although still uncertain, it would therefore appear that some cats may benefit from this therapy although possibly not most affected cats. Although the use of diets to specifically to minimise production of urinary crystals has little or no scientific rationale in the management of iFLUTD, dietary manipulation is probably the single most important component of long-term management of this disease. Dietary change is the only form of therapy that has consistently shown to be of real benefit in cases of iFLUTD, and this forms the most important part of long-term management. In one of the few controlled studies to show a long-term benefit in cats with idiopathic cystitis, those fed a wet diet had a significantly reduced rate of recurrence of disease compared to those fed a dry diet (no other interventions were given), and the urine concentration produced in the two groups was significantly different. This study and subsequent observations lends strong support to concentrating on diet as the most valuable form of therapy for iFLUTD. Feeding a wet (tinned/sachet) diet rather than a

dry diet is always recommended and the feeding of a ‘pH neutral’ diet such as Hills c/d tinned is an appropriate choice as this results in production of a urine pH in the region of 6.3 – the range typically found in cats on a ‘natural’ diet of rodents. Furthermore the use of a relatively low solute-load diet like this should help in the production low urine concentration, which is probably one of the major mechanisms for the benefit seen in dietary therapy. Although adding salt to the diet, in sufficient quantities, can also result in production of a relatively low urine SG, there may be a number of potential adverse effects associated with increasing the salt content of the diet (potentially contributing to volume expansion and hypertension, and exacerbating any renal compromise present), so the use of salt supplementation and diets with higher salt levels is discouraged. The use of ‘pet fountains’, flavoured waters and other methods of enhancing water intake (beyond just the use of wet diets) is highly recommended. In cases of recurrent iFLUTD, a primary aim should be to reduce the urine SG to 1.035 or less, and avoid abnormal acidification or alkalinisation.

Author’s Address for correspondence: Andrew H. Sparkes The Feline Unit Center for Small Animal Studies Animal Health Trust, New Market, UK


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Diagnosis and management of chronic renal failure Andrew H. Sparkes Bvet Med, PhD, Dipl ECVIM, MRCVS, New Market, UK

The underlying aetiology of feline CRF is often obscure although a variety of causes have been documented. Histological evaluation of kidneys from affected cats usually reveals chronic interstitial nephritis (CIN) as the most common finding, but the cause of this uncertain. It has been speculated that chronic pyelonephritis or glomerulonephritis may account for at least some of these ‘end stage’ cases of chronic renal failure. The clinical manifestations of feline chronic renal failure are often non-specific, with dehydration, anorexia, lethargy and weight loss being the most common signs. Polydipsia and polyuria (PU/PD), which would be regarded as major clinical signs in canine CRF are reported much less frequently in cats partly, perhaps, because of their lifestyle (decreased recognition of PU/PD) but probably also because many cats retain much greater urine concentrating ability in the face of CRF than is the case in dogs. Furthermore, although CRF is typically associated with palpably small and irregular kidneys, many cats with CRF have enlarged kidneys reflecting underlying conditions such as polycystic kidney disease and renal lymphoma that lead to renomegaly. Other common manifestations of the uraemic syndrome in cats include vomiting (due to central effects of uraemic toxins, hypergastrinaemia and uraemic gastric ulceration), pale mucous membranes (due to anaemia), and hypertensive retinopathy (including retinal detachments). Systemic hypertension has been reported to occur in up to 60-70% of cats with CRF. Diagnosis of CRF is usually based on clinical signs with the demonstration of azotaemia and inappropriately concentrated urine. Because cats often retain some concentrating ability during CRF, isosthenuria is not necessarily observed. In one study, isosthenuria was found in 57% of cats with CRF, but degrees of hypersthenuria (SG >1.015) in 42%. In another study, 60% of cats with CRF had a SG >1.012. Few cats with advanced CRF can concentrate urine above 1.035 though, and azotaemia with a urine SG <1.035-1.040 is usually considered evidence of primary renal failure. In addition to azotaemia, a number of other clinicopathological changes are commonly observed in feline CRF. Important amongst these are hyperphosphataemia (due to the decreased GFR), acidosis (inability of the failing kidneys to excrete the normal acid load), hypoproliferative anaemia (due to reduced erythrocyte life-span, uraemic suppression of erythropoiesis and a relative or absolute deficiency of erythropoietin). Although measurement of glomerular filtration rate (GFR) is possible, and is the standard test of renal function, current methodologies are cumbersome and/or expensive

and so not routinely used in clinical practice. Instead, evaluation of serum urea and creatinine levels are usually used as an indicator of renal function. If non-renal factors are eliminated, azotaemia implies functional loss of around 75% or more nephrons. Care needs to be exercised in interpreting urea and creatinine levels though, particularly in the highnormal to mildly elevated range, as even a quite substantial deterioration in renal function here will only result in relatively small elevations of urea/creatinine. Conversely, late in renal disease a relatively small deterioration in renal function can cause a marked increase in urea/creatinine concentrations. In general, serum creatinine concentrations reflect renal function more accurately than urea concentrations. Inadequate water intake in CRF is associated with dehydration, reduced renal perfusion and further impairment of renal function. Some cats are presented in acute decompensation of CRF due to sudden volume depletion, whereas others, particularly as CRF progresses, may experience chronic or recurrent dehydration and renal hypoperfusion. Acutely decompensated cats require intravenous fluid therapy, and reassessment of azotaemia after correction of the dehydration to permit accurate assessment of renal function. Maintaining adequate fluid intake is of prime importance in CRF, and owners should be made aware of the obligatory polyuria that frequently accompanies renal failure and, therefore the consequent need for free access to water. Additional water intake can be achieved in a variety of ways (e.g. feeding moist rather than dry foods, supplementing the diet with water or broths), but in cats that fail to maintain adequate voluntary fluid intake, many owners may be willing to administer subcutaneous fluids in the home environment (e.g. fluids composed of two parts 5% dextrose to one part lactated Ringer’s solution). The clinical benefits of protein restriction in CRF have been supported by studies performed both in cats and other species. The products of protein catabolism are thought to contribute significantly to the clinical signs associated with the uraemic syndrome, and thus dietary restriction of nonessential protein should reduce nitrogenous wastes and help to ameliorate clinical signs such as vomiting, anorexia, inappetence, weight loss, anaemia and lethargy. Moderate protein restriction in the face of azotaemia is therefore a standard recommendation for cats with CRF, and is usually best achieved through the use of commercial low-protein diets. Whether dietary protein restriction itself has any impact on the progression of renal failure in cats is still controversial area. As in dogs with reduced nephron numbers, the response of the remaining nephrons in cats is an increase in single nephron GFR (SNGFR) achieved by glomerular hyperfiltra-


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tion, glomerular hypertrophy and glomerular hypertension, and is associated with increased proteinuria. Restriction of dietary protein may help minimise such changes and a recent meta-analysis of several studies in humans did suggest that protein restriction may slow the progression of CRF. However, even if this applies to cats, the effect of protein restriction of the progression of renal failure is likely to be small (although it can impact greatly on quality of life). Nevertheless, there is now very strong evidence for the clinical benefit of using protein and phosphate restricted diets such as Hill’s k/d, not only to provide a better quality of life, but also to significantly delay the progression of renal failure. This effect though, is probably largely mediated through phosphate restriction. Phosphorus retention in CRF is an important factor in the development of renal secondary hyperparathyroidism and also soft-tissue mineralisation. Dietary phosphorus restriction may therefore blunt renal secondary hyperparathyroidism, and may help prevent renal histological changes (mineralisation, fibrosis and inflammation) found in cats fed unrestricted diets. There is clear evidence therefore to strongly recommend the use of a diet such as tinned Hill’s k/d in the routine management of feline CRF patients. If hyperphosphataemia persists (fasting serum phosphorus >2 mmol/l) despite dietary restriction, oral phosphate binders may be given with meals – seve-

lamer (Renagel ®) has been recommended at a dose of 200mg bid/tid per cat PO for this. Hypokalaemia, probably mainly from inappropriate kaliuresis, is also a common finding in feline CRF. The cardinal sign of severe hypokalaemia is polymyopathy, with generalised muscle weakness and ventroflexion of the neck, but even mild hypokalaemia (without associated polymyopathy), may adversely affect renal function and contribute to CRF. Renal diets need to be replete in potassium and where hypokalaemia exists, potassium supplementation of is strongly recommended Systemic hypertension is a very common finding in feline CRF with a prevalence of around 20%. Uncontrolled hypertension is highly likely to lead to progressive renal failure and will have other (cardiac, ophthalmic, neurological) effects as well. Adequate control of blood pressure (systolic pressure <160-170 mmHg) is important in renal failure and is probably best achieved withamlodipine (0.625-1.25 mg/cat/day PO).

Author’s Address for correspondence: Andrew H Sparkes The Feline Unit Centre for Small Animal Studies Animal Health Trust, New Market, UK


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Nutritional support for sick and anorexic cats Andrew H. Sparkes Bvet Med, PhD, Dipl ECVIM, MRCVS, New Market, UK

Anorexia is a significant complication in hospitalized cats that should not be overlooked or ignored. Careful patient evaluation and both non-pharmacological and pharmacological strategies to overcome anorexia should be considered. Not all inappetent patients require nutritional support, but if appropriate support is to be given, patients with, or at risk of developing PEM, must be identified and managed early during the course of the disease to minimise the potentially serious adverse effects. Identification of these patients is not easy as PEM may have an insidious onset and it is not characterised by any specific clinical signs. Ideally, one or more laboratory tests could be used as sensitive and specific markers of PEM, and thus be employed to objectively assess nutritional status, but no simple reliable markers are available either in human or veterinary medicine at present. Although abnormal results of laboratory tests are often encountered in PEM (e.g. lymphopenia, reduced plasma proteins - albumin, transferrin, prealbumin etc., anaemia) which should alert the clinician to the possibility of PEM, they are neither sensitive nor specific markers. More emphasis has to be placed on various subjective criteria to assess our patients, and the following are suggested as guide-lines to indicate the type of patient that may require support: • Loss of ≥10% bodyweight during the preceding 7-14 days • Anorexia or marked inappetence of ≥3 days duration in the cat. This time can be longer in dogs (≥5-6 days) but the inability of cats to down-regulate liver transaminases to reduce protein requirements dictates an earlier onset of PEM in this species). • Presence of cachexia • Presence of inadequate body fat or muscle mass • Patients with conditions resulting in direct protein/energy loss (e.g. exudative peritonitis/pleuritis, especially when being drained) Cats presented with any of these signs should have their dietary intake monitored very closely, and if caloric requirements are not being met, nutritional support should be instigated immediately. Appetite stimulation should include consideration of ways to minimise stress. This may be particularly important in a hospitalised cat and consideration should be given to various aspects of the environment including noise, temperature, ability to hide (eg, cardboard box in cage), pain relief, the use of pheromone sprays such as ‘Felifriend’ and petting/stroking to encourage the cat to eat. With persistent moderate inappetence, if there is no physical impediment to prehension and ingestion of food, and if circumstances allow, attempts at appetite stimulation may be appropriate. A

number of factors may increase the palatability of food or the desire to eat including: • Feed the normal home diet - cats often develop strong preferences linked to familiarity • Provide wide, shallow food bowls (no interference with whiskers) • Offer small amounts of fresh food frequently • Feed moist rather than semi-moist or dry food • Feed warm food (80-100°F) • Feed a high fat, high protein diet (e.g. Hill’s a/d, Hills c/d, Hills m/d, Hills p/d) • Feed foods with strong (especially meat, fish or cheese) odours • Provide a comfortable, quiet environment • Provide physical encouragement (petting and stroking) • Clean encrustations from the nose if present • Provide adequate analgesia if pain is present In addition to manipulating the diet, with persistent anorexia pharmacological stimulation of appetite may be employed prior to considering tube feeding. Some of the agents available and commonly used are listed below. The side-effects associated with glucocorticoids and progestagens generally preclude their use as specific appetite stimulants, while anabolic steroids are not potent agents and are of little or no value in the short-term management of anorexia. • Diazepam (0.05-0.2 mg/kg IV BID/TID; 1-2mg/cat PO, BID/TID) • Oxazepam (0.25-0.5 mg/kg PO SID/BID) • Prednisolone (0.25-0.5 mg/kg PO/IM SID) • Megoestrol acetate (1mg/kg PO BID) • Cyproheptadine (2mg per cat PO BID) Benzodiazepines are effective appetite stimulants in most cats, but may not work so well in the severely ill. They probably act by direct appetite stimulation within the CNS, but individual drugs are not equipotent, their relative activity being structure-dependent. Diazepam is the most widely used drug in this class; it is far more effective given intravenously than either intramuscularly or orally, and may be administered up to two or three times daily. As with all benzodiazepines the dose needed to induce eating will frequently result in sedation and ataxia and doses should be kept to the minimum necessary. Furthermore in some cats the response to benzodiazepines is poor (especially sick cats as noted above), and the appetite-stimulant properties frequently decline with continual use. It is generally recommended that benzodiazepines are not used for appetite stimulation for longer than 2 to 3 days. Oxazepam may be a more effective drug for longer term oral use, but in our clinic we normally use cyproheptadine as an oral appetite stimulant.


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Cyproheptadine is an effective appetite stimulant in many cats and is widely available. It is given orally and can be used both within a clinic setting and also in the home environment. Whilst very effective as an appetite stimulant, it may typically take 2-3 days to have full effect and as with diazepam it is likely to be much less effective in severely ill cats. In cats, the requirements for some B-vitamins (niacin and pyridoxine) is approximately four-times higher than dogs, and experimental depletion of B vitamins does lead to anorexia. It is important therefore to ensure adequate intake of B vitamins (orally or parenterally), but there is little evidence that supplementation of these alone is adequate to overcome clinical anorexia. Addition of B vitamins to intravenous fluids is an easy way of ensuring adequate intake. Whenever appetite stimulation is employed, it is essential to evaluate critically the success of the therapy. As with the monitoring of any patient at risk of PEM, caloric requirements should be calculated, and the amount of food to be consumed over 24 hours can be determined once the caloric density of the food is known. If caloric intake is inadequate then other means of providing nutrition such as enteral tube feeding should be used. Food aversion can also be a significant cause of anorexia in cats. This can happen when cats are offered food at the same time that they are vomiting or feeling nauseous, either as a result of an underlying disease, or as a result of medications. Cats that begin to refuse a food offered when they feel nauseous may continue to refuse to eat that food even when the feeling of nausea has subsided, due to the continued association between the two. This is another reason why it

may be important to provide nutritional support via tube feeding when in doubt so that food aversion can be avoided while nutritional support still provided. Oesophagostomy intubation is commonly used for tubefeeding cats – it can be used inter-changeably with nasooesophageal intubation but also where these tubes are not tolerated or cannot be used. This form of tube feeding is also suitable for longer-term nutritional support (e.g. several weeks or even months). Oesophagostomy tubes are easily inserted and have proved to be remarkably valuable in nutritional support with very few complications. Placing the tube requires a short, light general anaesthetic but once in place, these tubes are easy to maintain. The larger diameter of oesophagostomy tubes allow feeding of standard semi-liquid food types (eg Hills a/d is ideal for this purpose) and thus gastrointestinal disturbances are less common than when using naso-oesophageal tubes where liquid foods that are inevitably relatively high in carbohydrates must be used.. When the tube is removed, the ostomy site will heal within two weeks, and problems such as oesophageal stricture formation do not seem to occur. Oesophagostomy tubes should not be used in cases of oesophageal dysfunction or repeated uncontrolled vomiting.

Author’s Address for correspondence: Andrew H. Sparkes The Feline Unit Center for Small Animal Studies Animal Health Trust, New Market, UK


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Common dermatoses and the impact of nutrition Andrew H. Sparkes Bvet Med, PhD, Dipl ECVIM, MRCVS, New Market, UK

Essential fatty acids are a group of polyunsaturated fatty acids (PUFA) that are required to maintain normal health and metabolism, having wide ranging of roles in health and disease. The EFA’s are part of the component of all cell membranes in the body contributing to both cellular structure and function, and they are also the substrates for the cyclo-oxygenase (COX) and lipoxygenase (LOX) family of enzymes and thus the precursors of eicosanoids which play a role in numerous processes including inflammation, blood clotting, maintaining blood pressure, immune function and even gene regulation. Early research in the 1920’s identified that EFA deficiency resulted in numerous disease manifestations including: • Growth retardation • Skin thickening, scaling, crusting and inflammation • Infertility • Organ failure • Death Since that time, many studies have been conducted to further identify the role of EFAs in disease and their potential therapeutic use, with much attention being focussed on dermatological disease as this is one of the earliest, most obvious, and potentially most severe manifestations of EFA deficiency. Polyunsaturated fatty acids (PUFA) are fatty acids with two or more double bonds in their chain of carbon atoms. There are two major groups of PUFA known as the omega3 and omega-6 families. Although a number of the longerchain PUFAs can be synthesised (primarily in the liver) through the activity of desaturase and elongase enzymes, for this to occur, mammals have an absolute requirement for a dietary supply of linoleic acid (LA – an ω-6 PUFA) and alpha-linolenic acid (ALA – an ω-3 PUFA) which they cannot synthesise. While LA and ALA are abundant in various plant materials, and can form the basis for the synthesis of other PUFAs in most mammals, this is not necessarily true of obligate carnivores such as the cat. Cats possess a very low level of ∆6desaturase enzyme activity (and possibly also other desaturase enzymes) meaning they are effectively unable to synthesise many necessary PUFAs from LA and ALA sources. Cats thus require a dietary source of arachidonic acid (AA, regarded as another essential fatty acid in this species) and probably also eicosapetaenoic acid (EPA), in addition to LA and ALA, although absolute omega-3 requirements have been poorly investigated in cats and other species. It has become well established that dietary deficiency in ω-6 EFAs (linoleic acid) results in marked cutaneous abnormalities. The EFAs are an integral part of cell membranes, contributing significantly to their fluidity and thus

helping to maintain normal structure and function. Linoleic acid is also incorporated into ceramides (a family of sphingolipids) which form the major lipid component of the stratum corneum and function both as inter-cellular adhesives and to maintain normal cutaneous barrier properties, preventing loss of water and nutrients from the skin. In deficiency states, dogs and cats may therefore develop various cutaneous abnormalities including seborrhoea sicca, a dry dull coat, decreased skin elasticity, sebaceous gland hypertrophy, increased sebum viscosity, increased transepidermal water loss, and increased epidermal cell proliferation (leading to hyperkeratosis). Supplementation with LA will rapidly reverse these signs, and there is additional evidence that LA supplementation can be beneficial in other forms of seborrhoea. Beyond their role in maintaining the normal integrity, structure and function of skin, EFAs have a pivotal role in inflammation, both in the skin and elsewhere in the body. The key link between EFAs and inflammation is through eicosanoids, which are a family of oxygenated derivates of three specific 20-carbon EFAs – namely DGLA and AA (both ω-6 EFAs), and EPA (an ω-3 EFA). These EFAs are liberated from cell membranes under the action of phospholipase (increased amounts being liberated with tissue injury). The EFAs are then acted upon by either cyclo-oxygenase (COX-1 and COX-2) enzymes, or lipoxygenase (LOX) enzymes with the resultant formation of prostanoids (prostaglandins and thromboxanes), and leukotriene – these compounds collectively forming the eicosanoids. Although arachidonic acid is the major EFA liberated by phospholipase activity, and although COX and LOX enzymes have a preferential selectivity towards AA as a substrate, both DGLA and EPA will compete with AA as substrates for these enzymes, and their metabolism results in production of a different series of eicosanoids. Eicsoanoids of the 2-series (derived from AA by COX activity) and the 4-series (derived from AA by LOX activity) are regarded as strongly pro-inflammatory. Although these eicosanoids are important in normal tissue responses and serve an important function in the normal healing processes and immune function, if they are produced in excessive quantities they can contribute to pathological inflammatory states. In contrast to this, eicosanoids of the 1-, 3-, and 5-series (produced by COX and LOX activity from DGLA and EPA) are generally regarded as either noninflammatory or mildly-inflammatory in nature. Furthermore, ω-3 EFAs are thought to contribute direct antiinflammatory properties, partly through products of their metabolism (for example the production of so-called ‘E


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series resolvins’ via COX activity) and partly through modifying the expression of genes involved in the inflammatory process. This concept is especially important as DGLA and EPA will compete with AA as substrates for COX and LOX activity, and this means that if the EFA content of cell membranes can be altered to increase the ratio of ω-3 : ω-6 EFAs, and to increase the proportion of DGLA compared with AA, the resultant proportion of different eicosanoids will be modified in favour of reduced inflammatory responses. Conversely, and higher ω-6 content in the diet will tend to promote a more vigorous inflammatory response. Ultimately this means that careful and controlled dietary modification can be used as a means of manipulating tissue concentrations of different EFAs to form an environment where there is a less inflammatory balance of eicosanoids. This is the basis of altering the GLA and ω-3 concentration of diets in conditions associated with pathological inflammatory states. The importance of dietary EFAs has clearly now gone way beyond the initial concepts of their relevance in maintaining the normal structure and integrity of the skin. A review of published data suggests that in the vast majority of clinical trials of allergic skin disease of a variety of types including atopy and flea hypersensitivity (both open and blinded trials), dogs and cats provided with EFA supplementation (specifically a greater proportion of ω-3 EFAs) have improvement in their clinical signs, with reduction in levels of pruritus and or other signs such as reduced erythroderma and skin oedema,

confirming the efficacy of this form of therapy as an important adjunct in inflammatory dermatoses. In a recent large, multi-centre study of 89 adult dogs with non-seasonal pruritus thought to be due to atopy and/or food allergy (by excluding other recognised causes of the pruritus), the efficacy of Hill’s d/d® (salmon and rice or venison and rice varieties) was assessed. The efficacy of the diet in controlling signs of disease was assessed by evaluating owner and veterinary clinical scores at four and eight weeks after the switch to d/d. Any dog that had received ω-3 supplements or had been on diets with a high ω-3 content within the previous three months was excluded from the trial. Other treatments that could affect the condition were only permitted if the dogs had previously been on the treatment and if administration regimes were not changes throughout the trial period. The results of this study showing substantial and sustained improvements in both veterinary- and ownerobserved clinical scores demonstrate the clinical efficacy of a carefully formulated veterinary diet. Not only is selection of a protein source important for animals with suspected food hypersensitivity, but in animals suffering with any form of allergic skin disease, manipulation of dietary EFA’s may have a significant

Author’s Address for correspondence: Andrew H. Sparkes The Feline Unit Center for Small Animal Studies Animal Health Trust, New Market, UK


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Modern approaches to prevent Canine Vector Borne Diseases (CVBD) Dorothee Stanneck Med Vet, Dipl ECVP, Leverkusen, Germany

The principle of prevention has become firmly established in veterinary medicine. The basic rule that prophylaxis is preferable over therapy, which applies in the case of farm animals, should also be practised in small animal practice, whenever suitable products are available. During recent years the importance of protecting our companion dogs against diseases transmitted by arthropods (canine vector borne diseases, CVBD) instead of simply try to cure the diseases after their outbreak became more and more evident. Disease management and prevention instead of therapy is traditionally well known in farm animals using hygienical and immunological tools. In companion animals preventative vaccinations against viral infections are commonly used. But the specific category of vector transmitted infectious diseases in dogs that are often characterized as to be life threatening and difficult to prevent, treat or cure rise the need – and the chance – of a different approach for protection of the host animal against the pathogens. The main CVBDs are transmitted by ticks (Borrelia burgdorferi, Ehrlichia canis, Babesia canis spec., Hepatozoonon), mosquitoes (Dirofilaria immitis) and sand flies (Leishmania infantum spec.). The most important tick-transmitted infectious diseases causing severe clinical illness in dogs are babesiosis and ehrlichiosis. and, to a lesser extent, Borrelia burgdorferi and Rickettsia conorii infections. Infections with these two agents commonly produce subclinical infection, as diagnosed by seroconversion, their association with clinical disease in dogs is difficult to prove. Dogs also appear to be susceptible to infection with Coxiella burnetii (Q-fever) and tickborne viral encephalitides, but reports of clinical illness are not common. Other canine tick-transmitted infections include Haemobartonella spp., Bartonella spp., Francisella tularensis and viral agents causing e.g. encephalitis. The diptera transmitted Dirofilariosis and Leishmaniosis are well known in the Mediterranean Europe, causing severe diseases with the latter even being important as a reservoir of human infections. From the method of prevention standpoint, the CVBDs can be categorized in two groups: 1.) prevention against the pathogen is possible and established or 2.) prevention against the pathogen is impossible for several reasons. The first group contents mainly one CVBD, the dirofilariosis. Prevention of this cosmopolitan parasite is well established by regular treatment of the exposed dogs with macrocyclic lactones at least during the mosquito season. Vaccination of dogs as important tool to control other arthropodborne diseases is not available, with the exception of a vaccine against Babesia canis and in parts of the world Borrelia burgdorferi. A vaccine against Leishmania esp. to control

this serious disease in humans is long been hoped for, while currently still not available. Accordingly the second group contains the vast majority of CVBDs. The only chance to protect the animal against these diseases is to interrupt the transmission process from vector to host. The pathogen cycles and specific vectorpathogen-host relations are not 100% understood in all cases but they have one thing in common: protection against them means prevention of the vector transmitting the infectious stage. Since transmission occurs usually during the vector’s blood feeding activity, a CVBD protective drug has to be quick enough in efficacy to prevent the infected tick or sand fly from successfully biting and taking a blood meal. The speed of transmission is different for several pathogens in the several hosts. A sand fly for example will have only a few seconds host contact during which a successful transmission has to be managed in opposite to ticks which show feeding split up in certain phases and in which transmission may occur after several hours or even later. Moreover, sometimes the duration until onset of transmission differs within the tick genus from pathogen to pathogen, for example the quick transmission of Babesia and Ehrlichia, starting after 2 hours compared the slow transmission of Borrelia which needs obviously about 18 hours to be initialized. Since the single transmission kinetic is in many cases not sufficiently known and a single tick may carry several pathogens, preventional treatment should be efficacious enough to keep even the worst case scenario under control. There is a broad range of insecticides and acaricides available in the small animal practice, pet shop or supermarket that claim to be efficacious against several arthropods. Although their killing efficacy towards their targets may be undoubted, it is important to investigate if they are suitable to prevent dogs from CVBD. An insecticide or acaricide with slow action may influence the amount of blood removed from a infested dog or may reduce the size of a parasite’s population on a treated dog or in the dog’s surroundings but will not be effective in defending the animal against CVBD transmission. In this respect, either repellents or drugs with extremely quick action have to be the first choice. The lessons learned e.g. during human Malaria management should be applied also for similar cases in Veterinary Medicine while keeping in mind the specific requirements in animals compared to human patients. It will neither possible to keep a dog living in a mosquito tent nor to treat it every 8 hours with a repellent spray or make him stay at home after dawn. Therefore the dog itself has to be protected long lasting and safe against arthropod attacks. That only can be provided by active ingredients with strong antifeeding


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properties, especially certain pyrethroids. From this group the synthetic pyrethroid permethrin is well established for human use for impregnation of tents, clothing and other environmental textiles. Permethrin on the one hand acts as strong repellent by it’s so called “hot foot effect” and has on the other hand a very quick knock down killing efficacy. Both effects combined prevent the important vector arthropods successfully from biting. This has been shown for a permethrin/imidacloprid containing spot on in several parasites during the last years: repellency measured as antifeeding efficacy has been shown in several sand flies (Phlebotomus papatasi, P. perniciosus, Lutzomyia longipalpis), flies (Stomoxys calcitrans) and mosquitoes (Aedes spec., Culex spec.) for the duration of several weeks after a single permethrin spot on treatment. Repellency measured as quick removal of the parasites from the host (2 hours after reinfestation) has been shown for several ticks (Ixodes ricinus, Rhipicephalus sanguineus, Dermacentor spec.) for the duration of three to four weeks after treatment. Moreover, several vector-host transmission studies have been run and have shown successfully the protectional efficacy of the spot on treatment: in theses studies dogs were fully protected from transmission of Borrelia burgdorferi and Anaplasma phagocytophilum by Ixodes scapularis. In summary, it is necessary to keep any dog living in tick and/ or sand fly endemic areas or travelling with their owners to those regions under the consistent protection of such strong antifeeding agents during the whole arthropod activity season. Therefore it is necessary to have them in a form convenient to apply, such as a monthly spot on, to keep the owner’s compliance to treat the animal as often as necessary. A dog protected by this shield of repellency will have the best chance to live undisturbed by the threat of CVBDs.

References Blagburn B.L., Spencer J.A., Billeter S.A., Drazenovich N.L., Butler J.M., Land T.M., Dykstra C.C., Stafford K.C., Pough M.B., Levy S.A., Bledsoe D.L. (2004) Use of imidacloprid-permethrin to prevent transmission of Anaplasma phagocytophilum from naturally infected Ixodes scapularis ticks to dogs. Vet. Therapeutics Vol. 5, No. 3 212 – 217. Breitschwerdt E.B. (2003) Canine and feline Ehrlichiosis: new developments. In: Proceed. 19th Annual Congress of ESVD – ECVD Tenerife, Spain, 66 – 74. Breitschwerdt E.B. (2003) Transmission times and prevention of tick-borne diseases in dogs. Comp of Cont. Educ. Vol25(10):742 - 751. Mencke N., Volf P., Volfova V., Stanneck D. (2003) Repellent efficacy of a combination containing imidacloprid and permethrin against sand fly (Phlebotomus papatasi) on dogs. Parasitol. Res. 90: S 107 – 110. Mencke N., Volf P., Volfova V., Stanneck D., Miró G., Gálvez R., Mateo M., Montoya A. & Molina R. (2005) Repellent Efficacy of a Imidacloprid/ Permethrin spot-on against sand flies (Phlebotomus papatasi, P. perniciosus and Lutzomyia longipalpis. In: Proceed. 8th. Internat Symp Ectoparasit Pets, Hannover, Germany,May 2005, p. Shaw S.E., Day M.J., Birtles R.J. & Breitschwerdt E.B. (2001) Tickborne infectious diseases of dogs. Trends in Parasitol. Vol. 17 No. 2 74 - 80. Spencer J.A., Butler J.M., Stafford K.C., Pough M.B., Levy S.A., Bledsoe D.L. & Blagburn B.L. (2003) Evaluation of permethrin and imidacloprid for prevention of Borrelia burgdorferi transmission from blacklegged ticks (Ixodes scapularis) to Borrelia burgdorferi-free dogs. Parasitol. Res. 90: S 106-107. Stanneck D., Fourie L.J., Emslie R., Krieger K. (2005) Repellent efficacy of imidacloprid 10%/ Permethrin 50% spot-on (Advantix) against stable flies (Stomoxys calcitrans) on dogs. In: Proceed. 8th. Internat Symp Ectoparasit Pets, Hannover, Germany,May 2005, p.

Author’s Address for correspondence: D. Stanneck Bayer HealthCare, Animal Health Division, Leverkusen, Germany


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Business or personal – is your clinic draining you? Anne-Marie Svendsen DVM, MRCVS, Copenhagen, Danimarca

As much as we enjoy our work and our profession there might come a time where life just doesn’t seem to run as smoothly as it used to. You seem more tired, it is a relief when an appointment is cancelled and you just don’t seem to be as excited about every day work as you used to. This might mean that you are at risk for high level stress or burnout, something that the veterinary profession have in common with other ‘helping and caring’ professions such as doctors, nurses, teachers etc.

Three levels of stress Level 1 – no obvious ill effects. The person may even enjoy the adrenaline buzz of being busy Level 2 – irritability, fatigue and anxiety Level 3 – withdrawal, illness, poor judgement, depression and guilt1

How stressed are you? Stress and extreme stress (burnout) may show in a variety of symptoms – both physical and mental. Here are some of the most common ones: - Chronic job dissatisfaction - A constant or frequent sense of urgency - Tendency to dehumanise clients or easily loose patience with animals or the rest of the team - Pessimism and self-doubt - Troubling physical symptoms such as: difficulty sleeping, constant tiredness, headaches and sexual disinterest - Relationship problems, especially with your spouse or children - Emotional outbursts or withdrawal from others - Repeated illness - Lack of interest in social or other activities

The stages of practice development The way your see your practice and the way you run it can have a significant influence on how much stress you experience. Veterinarian and management guru Steven D. Garner describes practice development as 3 levels: 1. Infancy 2. Teenager 3. Maturity In the infancy stage life is good. The practice isn’t terribly busy, you are doing what you like to do and what you were trained to do. People listen to you and you have the time to bond with them. You are the personal contact point for the clients. The clients think of you as the practice, and you have the attitude that if you want something done right you must do it yourself. As a successful practice you grow and then you become busier. This takes you to the teenager stage.

In the teenager stage you can never find enough people. You hire people to do the stuff you do not like to do, but you seem to have problems with finding the right people. You are still the practice, but because you are busy things might slip and client service is not as good as it used to be. You might look around and think: Who is training the staff? Who is ordering the supplies? Who is keeping up with technology? Who is planning for the future? You might try to cope by working harder and ending up with a burnout, or you might start hiring in new people – but somehow they are never good enough. At this stage the practice is still you – and since it has grown to a point where you as a veterinarian are unable to control it, to do every task, to inspect every job and to perform every function, the practice is no longer doing well. In the maturity stage you realise that your practice is a business – and that your business is a commercial enterprise that has the purpose of some day being sold and providing you with a good pension. This business is about the customers – and they do not necessarily want you, they want a healthy pet. You also recognise that there are 3 people in you: - The Entrepreneur – the imaginative inventor that has a vision and a dream with a purpose. Money is equity - The Manager – the person who invents systems that manage people and that goes through constant learning. Every business is a school. Money is profit - The Veterinarian – the wealth producer that determines who we are and how we do things and that represents the brand of the business. Money is the salary. Taking your business to the maturity stage is one way that may help you avoid stress and burnout, as it allows you to clearly differentiate between your practice and your self – and it trains you to take a step backward and delegate. However, stress is a part of every day life and even in the mature practice it can be helpful to look at ways to cope with it.


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Coping with stress In order to determine how you can best cope with stress, it is necessary to understand what about your daily life stresses you. There are 3 exercises that will help you do this . 2

1. Categorise your stressors Spend 5 minutes writing down everything that causes you stress – from health and financial concerns to worries about the environment and your neighbour’s dirty front door. Next, place each stressor in one of the following categories. - Category 1: I can control it, and it’s important to me - Category 2: I can’t control it and it’s important to me - Category 3: I can control it and it isn’t very important to me - Category 4: I can’t control it, and it isn’t very important to me Now look at your lists. Stressors in category 1 are best addressed with techniques that change the situation. Those in category 2 are best addressed with techniques that change your perception or your body’s stress response. Seriously question whether or not you need to worry about the ones in category 3 and stop worrying about the ones in category 4! 2

2. The roles you play List all the different roles you play in different situations e.g. veterinary professional, practice administrator, parent, bicyclist etc. Next, put the roles you listed in order of importance to you, and think about how much time you spend during a typical month on each. Are you spending the most time on the roles that are most important to you? The greater the mismatch between the importance of an activity and the time spent on it, the greater the stress. 3. Balancing your activities List three things you enjoy but seldom do and three things you hate but do too often. Plan a specific time to do one of the activities you enjoy – and brainstorm ways to minimise the things you hate. The next step is to look at ways to cope with your stressors. There are 3 things to consider here: 1. Change the situation 2. Change your perception / attitude 3. Increase your resistance to stressors

Changing the situation Where it is possible to change the situation it is highly recommended to do so. Here are some ideas on how to get started: - Take responsibility – this allows you to actually change things.

- Clarify your values – think about what you really want out of life. Are your activities balanced and are you playing the roles you want to - Delegate wherever possible. Many tasks being done by veterinarians can be performed just as well (or better…) by other members of your team. - Get realistic – differentiate between what is perfect and what is excellent. Perfection is only achieved very rarely and it is frustrating to set your expectations that high. Excellence allows for learning mistakes and for bad days – it simply means that you are doing the best you can at that time. Everybody is human. Get used to it. - Think creatively. Is there a different approach to the situation that never occurred to you before? - Set limits and explain them. Whatever you decide that your limits are, make them very clear and stick to them. If you decide to make an exception, be sure the other person understands what the limit is and why you are bending your personal rule

Changing your perception/attitude A good rule of time management is: ‘You don’t manage time. You manage YOURSELF’. Certainly this attitude will help you feel more in control. Here are some ways that might help: - Be aware – what can you control and what can you not - Don’t take it personal. The situation at work deals with what you DO, not with whom you ARE - Think positive!! And talk to yourself positively. - Compartmentalise – don’t let work interfere at home. Once you walk out the door, your focus needs to be on your home - Get help from others. Talk about your work stress with family and friends and try to build a support system at work where you can laugh at the situation with others - Avoid the things you can’t change

Increase your resistance to stressors Stress is a reaction of the body. Therefore there are things we can do to help the body cope better: - Practice slow, deep breathing as a means to relax yourself - Exercise regularly – a minimum of 10 minutes every day. The key words here are EVERY DAY - Eat nutritiously - Play! With your children, with your spouse and with your friends. This helps you relax and think more creatively

References 1. 2.

McMahon, G. Point of view. Counselling (1999) 1, 5. Soares, C.J. Give yourself a breather. Veterinary Economics, Oct 2005, 55-63.


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Finances of the practice – generating income and slowing down costs Anne-Marie Svendsen DVM, MRCVS, Copenhagen, Danimarca

By definition, profit = (revenues – costs). Therefore a change in profit can only result from either a change in revenue or a change in costs. However, in order to analyse what services give you the most profit, you need to consider the fact that there are 2 different types of costs: fixed costs and variable costs. Fixed costs are those costs that remain constant within a range of business activity e.g. salaries, rent, insurance, utilities, telephones, licenses etc. Variable costs fluctuate directly in proportion to the level of business activity and include x-ray film, medical and surgical supplies, office supplies, pet foods, laboratory supplies etc. This also highlights the fact that in most veterinary practices it is unrealistic to expect to be able to significantly increase your profit by decreasing your costs, as a lot of them are directly tied to your revenue. On the other hand you have unlimited potential for increasing your revenue.

Slowing down costs Looking at benchmarks set by the US study of Well-Managed Practices, we can give approximate targets for how many percent of revenue the individual costs could be.

Total revenue

100%

Variable costs

21%

Fixed costs Nonveterinary costs Facility costs

8% 23% 8%

Total operating costs

60%

Amount available for veterinary compensation and reinvestment

40%

Veterinary compensation

19%

Owner management compensation

3%

Total veterinary and management compensation

22%

Amount available for reinvestment

18%

Amount reinvested into practice Remaining amount available to owners

3% 15%

The key way to increase your profits is to grow your topline!

There are 4 key areas that can be helpful to you in slowing down your costs: • Reduce your accounts receivable (money owed to you by clients) • Manage your inventory • Manage the time of you and your team • Maximise the use of your practice space Figure out who owes you money – and how much. Then determine which clients you could work with to achieve payment. Send the ones that don’t seem promising to collections. Do your best to encourage cash payment at the time of the appointment. Managing your inventory well is a key factor in liberating cash for the business. Aim to reduce your inventory to a 2-4 weeks supply. Look at the true value of the individual products = (profit of product)x(number of times it is sold per year), and consider whether or not there are some products that could be discontinued. Some products with a lower margin may actually make you more money, because they sell more often. Avoid duplication of products e.g. determine which flea products you will recommend and sell just that brand or at most one extra. Delegate as much as possible to your team – letting one of them manage the inventory is a good place to start. Identify what times of the day are busy times and where there is down time that may be utilised constructively. Consider using the down time to either directly improve the look or the skills of your practice or to generate more income by focusing on following through with your clients and improving compliance. Have a prioritised list in place that ensures that any spare time is used wisely to grow the practice. Look at the space you have. Exam rooms are key drivers of income and having enough of them gives you the opportunity to leverage your team better. Consider multiusage of the different rooms – an exam room might work as a dental area as well, while a broom closet could function as an extra work station in the back. Use vertical space – look at orderly storage use on your walls. See also the article on ‘Improving the practice – layout, design and remodelling tips’.


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Generating income The possibilities are endless when it comes to generating income. The main thing to remember is to focus on the low hanging fruit – that which is easy to implement and gives you the biggest return on investment. Here are some of the areas you may want to look at: 1. Fees 2. Services currently given away for free 3. Compliance 4. Passive income 5. Services offered No other single marketing decision impacts your bottom line as directly and powerfully as pricing: a 5% price increase is a 5% increase to your bottom line. Adjust your fees frequently – at least twice a year. They should be increased by AT LEAST the inflation rate. Price on the high side – most veterinarians are undercharging, not overcharging. The AAHA compliance study found that clients switched to another veterinarian because ‘the prior veterinarian was too expensive’ only 4% of the time1. Also consider the fact that you could raise your fees by 20%, lose 17% of your clients, and still make the same revenue as before. The key is to use value-based pricing and set your fees based on the clients’ perception of the service provided. Key services, such as vaccinations and castrations, might need to be priced competitively, while services such as laboratory work, non-routine dental procedures and dermatology can be priced differently, because you have the opportunity to explain the value of the service to the client. Also consider the total value of the client’s visit – if your team know the life history of every pet and client, show their affection and dedication and make every visit pleasant, you will be able to ask a higher fee for your services. Set the fees on the basis of the 90% of clients that are happy to pay. If you do not receive any complaints on your fees, you are not charging enough. Charge for what you do. In exam services alone, veterinarians routinely give away medical progress exams, extended exams and post-surgical evaluations. This cheats the bottom line and devalues your services to the client. If you make a conscious decision to give something away, create a fund at the beginning of the year with a set amount of money specifically for discounts and free services. Every time you give a service away, deduct it from the fund, and when

the fund is used up – no more freebies. This will help you manage how much you give away. Increasing compliance is a huge opportunity for increased revenue. The biggest barrier to compliance is the lack of an effective recommendation1. Simply providing the client with a strong, clear recommendation at every visit will go a long way to increasing compliance. However, to increase the compliance futher there are things you can do: • Educate your team members, so everybody gives the same recommendations • Provide educational materials to the clients – in the waiting room, in the exam room and to take home. Remember that if you are giving a leaflet to a client, underline key messages while they look on – this increases the likelihood of them remembering your recommendation and reading the leaflet • Practice proactive scheduling. Ask the team to schedule the pet’s next appointment for recommended care at the end of the current visit. If the client can’t schedule that day, call two or three days later, and then follow up with a written reminder • Follow up on reminders. Call people after they have received a written reminder for a service to help them set up an appointment Veterinary time is often the limiting factor in creating revenue. An important way to work around this is to create passive income (income generated by the team rather than by the vet) in the practice. Important sources of passive income are things like pet food sales, nail trims, ear cleanings, suture removals, new puppy or kitten programmes, weight management programmes and geriatric programmes. Looking at what services you might want to offer, consider the following: Geriatric pets contribute 50% more than their younger counterparts, suggesting that a strong geriatric programme is an opportunity to focus on. Another key opportunity is dental prophylactic treatment. Many boardcertified dentists recommend prophylactic treatment for dental disease grade 1 and higher, but only 35% of dogs and cats that had grade 2, 3 or 4 dental disease and had been seen within the last year had received dental care1.

References 1.

The Path to High-Quality Care. American Animal Hospital Association, 2003.


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Improving the practice layout, design and remodelling tips Anne-Marie Svendsen DVM, MRCVS, Copenhagen, Danimarca

Take a step back and look at your practice with critical eyes. Does it meet your needs? Does it meet the needs of your clients? And does it do so in a pleasing and highly marketable way? A survey of pet owners conducted by Hill’s Pet Nutrition in 1998 identified that clients want a practice that: • Is clean • Smells clean • Is bright • Is neat, tidy and spacious • Looks new and modern (inspires confidence) • Provides comfort and convenience such as separate dog and cat waiting areas, coffee, magazines, dog refreshments and available parking At the same time you need a practice that is designed to give you the best possible lay out and traffic flow.

to encourage discussion with the client. You can also use folding exam tables, so the first impression the client has is of a spacious room. Throughout the practice it is important that there is focus on odour and noise control. Frequent cleanings, floors and walls designed for easy and effective cleaning, and sound dampening efforts will all help. Odour and noise can be a big part of a client’s decision on whether or not to stay with the practice. Wherever possible make the rooms multipurpose (office and exam room, special procedures and exam room, office and answering telephones room, comfort room for staff and attended euthanasia area + visiting area for hospitalised patients etc) and install equipment on rolling tables, so it can be transported around easily.

Layout

Design

Try to consider your practice in terms of ‘work zones’ such as the client zone, the treatment zone, the dwelling zone etc. Think about how traffic flow runs from zone to zone. Draw an overview of your practice and use different colour pens to draw out how the team and the clients move around – this will quickly highlight any potential traffic jam areas and may give you ideas about how to reorganise the use of the space. Because the first impression of the practice is through the reception area, this is a key area to focus on. Make sure you have adequate storage space, so your reception area is not cluttered and filled up with many different things, and paint it in a light, warm colour. By letting the furniture be portable, you can adapt the room to many different uses without having it filled up the whole time. Another tip is to use high-quality lighting that reduces glare while giving the practice a modern look. Your reception area makes a statement to your clients about who the practice is, and therefore you need to really think about what qualities you want to convey. Consider investing in a really nice reception desk to use as the focal point for the area. The exam room is the next area the client sees. Again, make sure that it is painted in a light, warm colour. Using glass fronted cabinets allows you to quickly see where everything is while keeping it dust free and maintaining an uncluttered atmosphere in the room. Anything that will fit in a cabinet or a drawer should be placed there. Consider creating a wall display that highlights a key service and product

Clients are looking for modern, spacious surroundings – all something that can be accomplished more easily than you might think. There are a couple of key elements that you might want to look at: • Colour • Lights • Glass • Storage • Plants / decorations • Art / personality Dark colours make rooms seem smaller and more cramped. Using a light colour with a warm tone to it can give your practice rooms an extra lift. For more effect, use small touches of complementary colour in the surroundings – door trimmings, panels etc. Consider what is trendy and use a mild version of it – you should repaint your walls every 5 years anyway, so becoming dated is less of an issue. Appropriate use of modern lights to provide comfortable working conditions is a must, while using spot lighting or track lighting to highlight paintings, displays, the reception desk or other key focuses can help focus the attention of the clients. The best light source possible is natural light. Skylights, un-shuttered windows or glass walls are all things to consider. You can use internal glass walls, windows or doors to give the impression of more space and to use as a marketing tool – e.g. having a glass window to the surgery area, so waiting clients can see the procedures being carried out.


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Appropriate storage is an important feature that will help you maintain an open and airy space. Look for storage off site for old records or files. Look up – and use the space all the way to the ceiling. Find storage opportunities over cages, in hallways and under benches. Don’t hesitate to invest in new cabinets or storage solutions – it is money well spent, and you can quite often find cheap options from stores like Ikea. Using sliding doors wherever possible will also provide you with more useful space. Broom closets can be converted into the most amazing things, while brooms and mops often can be stored effectively by hanging them on the back side of a door. Appropriate use of plants (placed where dogs cannot pee on them) and one or two decorations can also give the impression of a far more modern clinic. Ask someone who is comfortable with interior design – and be prepared to say no if you don’t like the suggestion!

Remodelling The easiest way to quickly freshen up the look of your practice is to clean up the clutter!! Look at what you have accumulated. If you haven’t used it in the last 4 years, the likelihood is that you won’t use it ever. If you don’t want to throw it out – move it into off-site storage, so it is out of the way. Anything that possibly can go behind closed cabinet doors should do so. Glass fronted cabinets will allow you to see what you have – but do be sure that everything is well placed and orderly. Try to keep the floor as free as possible. Look at your reception area and make sure that you have an appropriate rack for the pet food. If it is worth selling, it is worth getting it off the floor and making a nice display. This makes cleaning easier and makes the practice look more spacious. You might want to take a picture of the different areas of the practice. You will often notice things on a picture that you overlook when you are physically present. Set a clear

list of priorities – what aspects of the practice needs remodelling the most? What can be done easily and with maximum impact? What can be done with a limited budget and a creative mind? Do your best to work around your clients, or alternatively get enough people to do the job that it can be done over a weekend or a short holiday. Make sure that you take lots of pictures of what the practice looked like before you do the remodelling. Both you and clients will love a ‘Before and after’ book in the waiting area, and it will point out to the clients that you care about the practice and about keeping things nice. The easiest things to change (in order) are colours, floorings, ceilings and lighting. The quickest and cheapest way to improve your practice is to repaint the exam room and the reception area in an inviting colour and hang a small amount of tasteful artwork. Remember that a fun and relaxing shade of colour for the back costs just the same as a white colour – but might improve morale. Because pets spend a lot of time on the floor in the waiting area, clients will notice a change in flooring immediately. Make sure your floors are easy to clean, has a warm colour and a nice texture. Watch out for economy solutions – this is one area where it is a good idea to invest in good materials. Take a look upwards and consider your ceilings – are they in need of repair and painting / new tiles? While fixing your ceilings consider adding acoustic ceiling baffles in the reception area and kennel area to muffle sounds. Nice ceilings add that important finishing touch – and they provide the perfect background for your lighting. Using different levels of light and light fixtures in your reception area creates drama. In the seating area, use incandescent lamps to set a homier mood. Then combine different kinds of lighting fixtures to create interest. Consider changing the colour of the lights you use. Light bulbs come in colour temperatures that range from a cool blue, to white, to a warmer yellow.


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Marketing your practice – what works? Anne-Marie Svendsen DVM, MRCVS, Copenhagen, Danimarca

The first thing to realise as you set out to market your practice effectively is that in order to succeed you need to focus on the client and what they want. One thing that we tend to forget in veterinary practice is that clients are also consumers – and that the behaviour they learn in the rest of the world inevitably gets carried over to how they behave, communicate and ‘shop’ in the veterinary practice. So – before you even look at marketing – ask yourself these questions: Are my opening hours the ones that the clients want? Do I offer the services that the clients are looking for? Do I treat my clients in the way they like? Are the physical premises of the practice what the clients are looking for? Being able to answer yes to these questions give you something to build your marketing on – and a reasonable chance of success.

Attracting new clients New clients come from a number of different directions. They may have seen your practice as they pass by, they have found you in the phone book / on the internet, they have met you in the community or someone has recommended you to them. A key way to gain the attention of potential clients as they pass by is to paint the trim of the building or the front door in a different colour whenever you repaint. This causes people to stop and pay attention and hopefully notice the inviting look of the practice and the clear signage. Then when they want to book an appointment they can easily look you up in the phone book and on the internet. Another area where you probably find new clients is through the contacts your get in the community. This can be through your church, your neighbourhood or other areas, but consider doing something a bit more purposeful. You may offer businesses that you will come around and give a short talk on pet care in their lunch period and answer any questions they may have. You can offer articles on pet care to the local newspaper and even offer to run a column where you answer questions. If you have a pleasant speaking voice, the local radio is another thing to consider. Again, don’t necessarily spend your money on placing advertising – try to work with them to provide something of far more value – your time and your knowledge. Ask all your new clients how they heard of you. If they tell you that you were recommended by someone else – send that person a thank you card and a small gift! If the same person recommends you to multiple people, send them a bigger gift or the offer of a free health check as a thank you! Up to 80% of your new clients can come from recommendations from existing clients – support that trend!

The initial contact and impressions A key first point of contact is the phone. And if that first contact isn’t positive it may be the last one as well. There are 2 aspects to consider when looking at how effective your marketing is over the phone: 1. The way the phone is answered 2. What is communicated on the phone Take the time to consider the phone conversations. Is the telephone answered within the first 3 rings? Is the person answering the phone doing so in a positive, smiling and pleasant manner? Are the name of the practice and the name of the person answering the phone stated clearly? A recent survey in the UK used mystery shopping to look at practices in some detail1,2. When clients phoned up almost 75% had to wait seven rings or more, more than 73% didn’t know the name of the person they were talking to, 88.9% didn’t know their role and 75% of them were not offered an appointment. In addition 51% thought that the level of information offered about the practice, its capabilities and the services it offered were below average. Even when clients walk through the door the results are not that much better. It is therefore important to train your team members (and yourself) in answering the phone correctly, providing adequate information about the practice and what it can offer and always, always offer an appointment. Some practices create a practice leaflet that can be given or send out to anyone that calls with questions – this way the practice has a second chance of highlighting its strengths and capabilities. Tape some of the phone conversations so they can be used for training purposes and remember to give lots of positive feedback when the team gets it right.

Marketing to existing clients A US study of 924 ideal clients from 54 practices identified that loyal clients that will happily spend money on their pets were service-oriented rather than price-conscious, had high expectations and perceived that their veterinary practice offered them high-quality medicine and surgery3. This highlights the need for the practice to clearly display what services they have to offer and to do so in a professional manner. A good idea is to get a professional photographer in to take pictures of the team doing surgery, cleaning teeth, drawing blood, cuddling pets etc. and to post those in the reception area. Make them personal – identify WHO is doing the procedure, WHAT is it, WHO is it being performed on and WHO owns the pet.


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Even though clients may have been with you for years that does not necessarily mean that they know what services you offer – and if they don’t know they can’t ask for them. You can make a list of all the services you offer with a short explanation of the benefits of the service, e.g. ‘Check-up and cleaning of teeth – helps keep the teeth healthy and gives your pet fresher breath’. Make sure that the service is named and explained in every day language that the client can relate to. If it is possible to make a link to what is being done for people, it can also increase the interest of the client. Both products and services can be focused on with a display in the waiting area. A three-dimensional display that allows clients to pick up the products is ideal, especially if it also provides explanations of the benefits of the product. Be creative with your displays. E.g. if we stay with the dental example and your product is a dental diet, you might want to have a huge toothbrush – easily made with some cardboard and a bit of fantasy. Encourage your team to take an active part in creating and maintaining the displays and to use them as an opening to discuss the product and/or the service with the clients. If you have taken the decision to shape up the look of your practice (see also the article on ‘Improving the practice’), invite everyone to an open house and use your imagination to let as many people as possible know about the open day. Demonstrate how to clip the nails of a dog, explain the anatomy of the ear – be inventive and make the day informative and fun. Often clients don’t realise how much happens in the back of the practice, and they leave the open day being impressed and having a new appreciation of all you can offer.

A more direct approach is to target specific groups of clients and offer them a tailor made service. This could easily be done with owners that have geriatric pets. It could be done in the form of a newsletter or other type of information describing how to keep your elderly pet happy and healthy. The focus could be on how regular health check ups and lab analysis can catch diseases early so they could be managed effectively with the right diet and the right treatment. Provide the pet owners with special offers, so they have an incentive to book an appointment right now. Maybe the health check up is for free – and you just charge for anything else done. The key is to get those owners through the door, so you have a chance to talk to them and educate them on how you can help their pet. Another easy thing to do is to use a digital camera and take before and after pictures of dental procedures, nail clippings, grooming, cancer surgeries etc. If you brand the pictures with your logo and your telephone number before you print them out, you have created a unique business card that the owner is far more likely to keep than anything else. You have also proven to them just how much of a difference you have made – and that means that they appreciate the value of the service you provide.

References 1. 2. 3.

Onswitch Insight survey, 2004. Mystery shopping: a unique look through your clients’ eyes. Vet Business J, August/September 2005, 4-8. ‘Ideal’ Clients Have Their Say; What’s Important to Them? J Vet Econ. Jan 1995.


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Une fois par année, je propose à mes clients de comportement ayant partiellement résolu- ou résolu, ou encore face à des difficultés pratiques… de même qu’à des clients possédants des chiens et juste désireux d’en savoir plus sur leurs chiens un cours de comportement dont le thème est:

“Mieux communiquer avec son chien” Anne-Marie Villars Med Vet, Dipl ENVF, Lausanne, Svizzera

Je souhaite présenter ce cours afin d’illustrer comment rendre accessible les notions de base de comportement et de communication avec le chien au grand public, et pourquoi pas encourager des confrères à organiser le même type d’activité dans leur clientèle. Je souhaite aussi présenter les moyens nécessaires à chaque vétérinaire, désireux de bâtir un tel cours (terrain, salle, vidéo, support écrit théorique) leur faire partager mon plaisir et mon enthousiasme, de même que celui des participants au cours de ce type d’enseignement. Ces moyens sont simples: 1.- Une salle pour l’enseignement théorique permettant d’accueillir une cinquantaine de personnes avec mon ordinateur, un écran et un beamer. Une éventuelle machine à café, un frigo éventuel pour servir des boissons fraîches, des gamelles à eau, de l’eau pour abreuver les chiens. 2.- S’entourer de personnes compétentes pour l’enseignement pratique sur le terrain, (nous sommes une équipe de 5 personnes, dont un cameraman) et d’une ou deux personnes supplémentaires pour préparer les lieux, servir les cafés, assurer le confort des gens. La présence d’un chien “modèle” pour montrer les exercices et réguler les chiens participants est souhaitable. 3.- Un terrain attenant, clôturé, équipé d’une porte et de poubelles avec distributeurs à crottes. Un parking bien ombragé ou un couvert boisé et ombragé et/ou la possibilité d’accepter les chiens dans la salle d’enseignement théorique…si ils sont capables de rester calmes et silencieux, généralement dans la deuxième partie du cours. 4.- Un support technique écrit, une feuille d’évaluation, un diplôme à remettre en fin de cours à chaque participant (très apprécié), des badges sous forme de cartons avec nom et sexe du chien du chien et du propriétaire permettant de placer les gens dans la salle selon une stratégie permettant à chacun de se retrouver alternativement devant ou derrière dans la salle. 5.- D’éventuelles muselières, des ovni (bouteilles de pet remplies de gravier par exemple), quelques obstacles simples, des planches, des cabas en plastic, des parapluies, des ballons, un skate, un vélo etc… selon notre fantaisie.. 6.- Une forêt attenante permettant une balade avec tout le groupe, une ville à proximité pour la promenade en ville avec des possibilités de parquer assurées et un trajet bien étudié.

Le même type de cours peut aussi s’organiser sur une seule journée au sein de clubs cynologiques et permettent de grandement faciliter les relations entre vétérinaires et éducateurs dans le sens d’une bonne collaboration mutuelle. Ce type de cours peut être organisé ou supervisé par beaucoup d’entre nous. Il demande la disponibilité de 5 journées ou demi-journées espacées chacune de 5 à 10 jours afin de laisser du temps au temps: les participants reçoivent des devoirs quotidiens à pratiquer à la maison ou en promenade avec leur chien afin d’améliorer la qualité de leur communication avec leur chien dans des exercices et des situations de la vie de tous les jours telles que 1) des situations éducatives simples: le rappel, la marche en laisse, l’assis ou le coucher 2) des situations hiérarchiques: envoyer au panier, caresses salariées, rester à la place attribuées etc 3) des situations de rencontres, de promenades (en ville, en forêt, en campagne etc.) 4) quoi faire dans les rencontres avec des enfants, des joggers, des cyclistes, d’autres chiens, des cavaliers, du gibier etc… et 5) des devoirs théoriques, soit la lecture du support d’environ 50 pages qui représente environ 10 pages de lecture par semaine…ce qui reste réalisable pour chacun. Ce cours est un apprentissage dans le temps… Il est bâti sur 5 dimanches; il est conçu pour une cinquantaine de familles et leurs chiens sous une forme d’apprentissages pratiques et théoriques. La vidéo est largement utilisée pour expliquer les interactions entre les chiens des participants sur le terrain. L’alternance de moments théoriques et pratiques permet aux participants de mieux apprendre en utilisant et intégrant les informations théoriques dans les situations pratiques. Le partage et l’échange de difficultés et d’expériences entre propriétaires enrichissent et permettent à chacun de surmonter celles-ci. L’ambiance rapidement détendue permet aussi des apprentissages dans le plaisir pour les participants. Les familles sont accompagnées dans leurs difficultés de tous les jours, les situations sont non seulement évoquées en théorie mais pratiquées dans le cadre du cours: une sortie en ville, en forêt, un transport public, en plus des exercices sur un terrain font partie du suivi de ce cours. Je vais illustrer ma présentation essentiellement de vidéos présentant des “moments forts” de la rencontre de cette cinquantaine de chiens sur le terrain, montrer les premiers instants de la rencontre entre chiens du cours de cette année ou d’années précédentes, expliquer quelle doit être l’attitude des propriétaires lors de rencontres de chiens libres sur un terrain,


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montrer ce qui se passe dans une rencontre de ce type tant pour les participants (propriétaires, vétérinaire accompagnés d’une équipe de collaborateurs non vétérinaires) que pour les chiens; je vais essayer d’illustrer les temps forts pour les gens, pour les chiens et pour les organisateurs. Le temps fort le plus important pour les propriétaires sont les premiers moments du cours…jusqu’à la fin du deuxième lâcher de chiens sur le terrain; une fois cette épreuve franchie les gens peuvent apprécier leur cours et se détendre. Les temps forts pour les chiens sont le premier lâcher de chaque nouvelle journée et la balade en forêt. Les temps forts pour les organisateurs sont également les premiers instants de chaque journée jusqu’au premier lâcher et…. les dernières minutes du cours. Je vous propose sur les 2 pages suivantes, les documents explicatifs et l’inscription que les clients peuvent trouver à mon cabinet vétérinaire durant les trois mois précédent le cours. Ce document a aussi été publié, gracieusement, dans le journal de la SPA locale. J’ai d’ailleurs donné ce cours dans le cadre de la structure et en collaboration avec la SPA qui m’a prêté les locaux et préparé le terrain. Si l’un d’entre vous désire se lancer, je lui fournis volontiers un modèle écrit de mon support théorique; ci-joint, le modèle de l’inscription et de l’invitation au cours.

Modèle de l’inscription: Inscription au cours de comportement des dimanches 22 et 29 mai, 5, 12 et 19 juin 2005 Ce cours est compris comme un cours - bloc. Il doit être suivi dans son intégralité. Il n’est pas possible de s’inscrire pour un seul dimanche! Il est destiné à toute personne ou famille possédant un chien de plus de deux mois, vacciné depuis moins d’une année. Il s’adresse aussi bien aux propriétaires de chiens simplement désireux d’améliorer leur relation quotidienne avec leur compagnon, de mieux le comprendre ou de démarrer une relation idéale avec lui qu’à des propriétaires en difficultés avec leur chien et désireux de les résoudre. Je m’inscris à suivre le cours “ Mieux communiquer avec mon chien ”. Je serai présente les 5 dimanches sus – mentionnés avec mon chien. Je me suis acquitté de la finance d’inscription ce jour (une finance/chien) et je m’engage à respecter les consignes données. Je reste en tout temps et en tout lieu, responsable de mon chien tout au long de ce cours. Mon nom:………………………………………………………… Mon prénom:…………………………………………………… Mon adresse:…………………………………………………… Ville et numéro postal:………………………………………… Mon téléphone:………………………………………………… Mon téléphone portable:……………………………………… Je viendrai (entourer ce qui convient): ❐ Seul ❐ Nous sommes 2 ❐ Nous venons avec nos enfants Le nom de mon mari/compagnon:…………………………… De chaque enfant: 1:………………………………………………………………… 2:………………………………………………………………… 3:…………………………………………………………………

Le nom de mon chien:…………………………………………… Son sexe: ❐ mâle ❐ femelle Est-il castré: ❐ oui ❐ non Son âge:…………………………………………………………… Sa race:…………………………………………………………… Son poids:………………………………………………………. Ses difficultés:…………………………………………………… ……………………………………………………………………… Modèle d’invitation au cours: Si vous souhaitez développer votre relation ou résoudre vos difficultés, avec votre chien, ce cours est pour vous: DATES: 5 dimanches, les 22 et 29, mai, les 5, 12 et 19 juin 2005, entre 10h et 16h. Le premier jour le rendez-vous est à 9h00. LIEU: Ste-Catherine, forum de la SVPA, Chalet à Gobet. Il est destiné à tout propriétaire de chien, accompagné de son chien et de sa famille. Coût cours, avec un texte de cours complet: 300 francs, à régler avant le 30 avril 2005, Objectifs: 1.- Découvrir le plaisir de communiquer harmonieusement avec son chien, sans brutalité 2.- Permettre une meilleure intégration du chien dans sa famille et dans la vie de tous les jours 3.- Connaître les modes de fonctionnement sociaux du chien et savoir les utiliser dans l’éducation de son chien, dans sa vie quotidienne 4.- Apprendre les clefs du langage canin: postures ou mimiques et intonations et les utiliser dans des exercices éducatifs pratiques 5.- Démystifier certaines “croyances” populaires. Moyens: 1.- Des temps de formation théoriques interactifs, avec support vidéo 2.- Alternés de séances d’éducation pratiques sur le terrain, en ville et en forêt 3.- Des temps d’observation des interactions entre chiens filmées et analysées 4.- Le travail du rappel et des ordres de bases indispensables à une vie sans soucis avec son chien Conditions de participation: Fermes, en cas d’annulation un mois avant le début du cours, 50% remboursés, au delà de ce délai les frais ne sont pas remboursés. 1.- Venir –de préférence en famille- avec son chien, un collier, une laisse, - le pic-nic !-, la volonté d’écouter, de participer, d’apprendre et de respecter les consignes 2.- Consacrer chaque jour, chez soi, 20 minutes à réviser et travailler avec sérieux, les devoirs appris chaque dimanche 3.- Venir avec une muselière si votre chien a déjà mordu ou pincé 4.- Renvoyer au plus vite (nombre d’inscriptions limitées, prises dans l’ordre d’arrivée) le coupon d’inscription cijoint et s’acquitter de la finance d’inscription (300fr) avant le 30 avril Pour tout renseignement supplémentaire: +4121/616.10.66 Cabinet Vétérinaire Dr Anne-Marie VILLARS Comportementaliste DENVF diplômée Rue du Simplon 3 D - CH 1006 Lausanne


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La communication canine Anne-Marie Villars Med Vet, Dipl ENVF, Lausanne, Svizzera

Toute communication nécessite la participation d’un émetteur, émettant des signaux à un récepteur. “ On ne peut pas ne pas communiquer ” a dit Bateson. La première fonction de la communication est la reconnaissance de sa propre espèce. Le message envoyé est toujours hétérogène, c’est-à-dire qu’il n’utilise jamais un seul canal de communication, toujours plusieurs.Tout le corps du chien est impliqué dans l’émission de signaux servant à la communication intra spécifique. On distinguera l’émission de signaux involontaires et volontaires. Les bases de la communication canine s’apprennent au cours de la période sensible, par un phénomène d’empreinte qui correspond à une hyper communication primaire parentale. Celle-ci façonne de manière durable le comportement du récepteur que représente le chiot. Elle permet au chiot de reconnaître ses partenaires privilégiés (mère, parents) d’attachement, de jeux (fratrie) et d’attirance sexuelle, le chiot apprend ainsi qu’il appartient à l’espèce canine. L’approche, puis le contact au sein de l’espèce devient possible par l’apprentissage des postures, des mimiques et des rituels durant cette première période de vie. Ils permettront ultérieurement des comportements de cour spécifiques à l’espèce apprise. L’apprentissage des gestes de soumission, d’accueil et d’apaisement, servant à maintenir un contact durable vont apparaître au fil des premières semaines de vie du chiot. Les émissions olfactives et phéromonales sont produites par les glandes faciales, podales ou péri anales. Elles sont perçues au niveau de la cavité nasale, de l’organe voméronasal pour les phéromones et des récepteurs gustatifs. Elles se trouvent aussi dans l’urine, le sébum et les sécrétions vaginales. L’animal n’a aucun contrôle sur ces émissions qui peuvent trahir son état émotionnel face à un congénère (par ex. lors d’une émotion de peur). Les émissions sonores involontaires, non vocales sont constituées des halètements, des bâillements et des claquements de dents, toujours émis dans une émotion sans le contrôle volontaire de l’animal. Les émissions olfactives involontaires: sont émises par des glandes soit, elles expriment la peur, soit il s’agit d’émissions phéromonales, ou d’urine, ou de sébum, ou de sécrétions vaginales. Les émissions visuelles involontaires sont: la piloérection, la mydriase, ou le myosis, les tremblements, et les sursauts. Les signaux volontaires sont les émissions sonores vocales et les postures spécifiques motrices et volontaires. Des éléments morphologiques, consistants essentiellement en taches de couleur, disposées par effet de contraste, telles que les tâches (sur la face), l’écusson (région ano génitale) servent à souligner la communication visuelle, chez les

races originelles. Par contre, la sélection de certaines races modernes peut altérer fortement la communication: face lisse des bull-terriers, caudectomie, coupe des oreilles, pilosités excessives, plis excessifs ! Les postures et les émissions visuelles involontaires exprimant les émotions appartiennent à la communication visuelle. Les émissions sonores vocales sont le moyen de communiquer à longue distance, elles peuvent servir à coordonner une chasse en groupe, ou viennent appuyer une posture spécifique, tel qu’un aboiement dans l’invite au jeu ou le grognement dans la menace. Elles peuvent être constituées de jappements, de hurlements, de toussotements, de cris aigus, de grognements et d’aboiements. Elles sont perçues par le chien entre 65 Hz et 15000 Hz. En milieu naturel, elles sont plus intensives les trois premières semaines de la vie du chien (période néonatale + transition) sous forme de gémissements et de miaulements, puis elles diminuent en intensité pour se transformer en véritables aboiements, que le chiot teste et exerce durant la période de socialisation, puis elles vont jouer un rôle mineur dans la communication adulte… sauf au contact humain, où par stimulation et imitation, ces vocalises peuvent persister comme support de communication. Il y a des différences génétiques dans l’utilisation de ces vocalises: le basenji est quasi muet, certaines races asiatiques, les chow-chow, les sharpei ou les lévriers sont relativement silencieuses; les races nordiques utilisent davantage le hurlement, les caniches ou les schnauzers sont plus aboyeurs, les teckels et les fox chassent à la voix dans les terriers. Il n’y a pas de dictionnaire des vocalises canines, mais un chasseur reconnaîtra le cri de départ sur un gibier, ou les vocalises de poursuite de son chien… et chacun d’entre nous est capable de reconnaître l’intonation amicale ou agressive d’un aboiement! L’aboiement est généralement un état d’excitation.

Les postures spécifiques Elles nécessitent un apprentissage, elles sont constituées de mimiques et de postures organisées en séquences ritualisées. Par exemple, une démarche lente, raide, poitrail en avant, oreilles pointées, queue droite avec le regard vers la croupe de l’autre indique une approche dominante. De même, l’exhibition des organes génitaux, au cours de mictions de marquage, avec la patte levée le plus haut possible en se déhanchant est aussi une posture de dominance. La queue et les oreilles, de même que la lisibilité des mimiques faciales sont indispensables à une communication canine claire.


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Les rituels sont généralement fondés sur des actes liés aux fonctions essentielles de la vie, ils perdent leur fonction première pour acquérir une fonction de communication: ainsi la posture de soumission dérivée du réflexe périnéal d’élimination: la mère retourne ses chiots et déclenche l’émission des excrétions par léchage de la zone périnéale. A la période de socialisation, puis à l’âge adulte le chien va exécuter cette séquence de renversement pour signaler sa soumission complète à l’adversaire et va déclencher l’inhibition de l’agression. De même, le léchage du coin des babines, qui est basé sur une demande de régurgitation à la période de transition devient la ritualisation d’une soumission active à l’âge adulte. Les éléments de la posture de dominance: Le chien se dresse sur son corps, le poil hérissé, la tête haute, queue et oreilles dressées, le regard dirigé vers la croupe de l’adversaire, il a une démarche raide, il retrousse les babines, peut émettre grognement ou claquements de mâchoire il peut mettre un membre ou la tête sur l’encolure de l’autre chien, il peut “ exercer un rappel à l’ordre ” par un pincement contrôlé de l’encolure du chien, respectivement de la main de l’homme. Les éléments de la posture de combat: Le chien attrape l’adversaire au niveau de l’auge (sous le cou) ou de l’encolure (sous le menton) ou il se met debout, par dessus pour l’adversaire pour le plaquer au sol. Les éléments de la posture de dominé: Le chien s’affaisse, la queue entre les jambes, les oreilles plaquées en arrière, c’est une posture passive, il détourne le regard, il s’immobilise, ne regarde pas,s’éloigne doucement,avec un petit battement de queue, il peut stimuler la région labiale de l’adversaire par un léchage. Les éléments de la posture d’apaisement: Les oreilles sont bien couchées, le corps est affaissé, il détourne le regard et s’éloigne doucement. Les éléments de la posture de soumission: Le chien s’immobilise et présente le ventre en détournant le regard. Les éléments de la posture de jeu: Le chien fait des aplatissements répétés de l’avant-main avec un raidissement du corps en battant de la queue, parfois en aboyant.

forme de chémorécepteurs dans les cavités nasales, de l’organe de Jacobson (voméro nasal) et de papilles gustatives. En effet, les éthologues englobent dans la communication olfactive le sens du flair et du goût. Il va donc capter des signaux par l’olfaction, le “ flehmen ” ou le goût. Le canal tactile: chronologiquement, le toucher est le premier sens chez le chiot, puisqu’il apparaît perceptible à 40jours de gestation, soit avant la naissance. La face, soit la truffe, les vibrisses, les sourcils et le menton sont le siège de son sens tactile qui permet au chien d’explorer un objet (corpuscules tactiles de Meissner). Les corpuscules lamellaires de Vater-Pacini sont sensibles à la pression et aux vibrations, ils interviennent dans la perception somesthésique, par exemple au niveau des cils (déclenchement du clignement à la menace) et au niveau du menton, où ils permettent au chien de suivre une piste, la truffe collée au sol. La communication tactile est aussi perçue sur tout le corps, par des récepteurs sensitifs cutanés. Le chien est sensible aux caresses, au léchage; il s’agit d’un mode de communication peu exploré, dont on pense qu’il sert aussi à souligner les messages olfactifs et phéromonaux. Le canal auditif: La fin de la période de transition (trois semaines) est marquée par la capacité du chiot à percevoir les sons, ses oreilles se sont ouvertes et sont fonctionnelles. Le chien entend les ultrasons, son spectre acoustique est excellent, compris entre 65Hz et 15000Hz. Pour le chien, les mots, le texte ont beaucoup moins d’importance que l’intonation dans sa communication ! Il utilisera conjointement le canal visuel dans la lecture des messages transmis. L’homme, lui,en général donne un ordre au chien par le canal verbal! Le chien perçoit le non verbal et le para verbal: les intonation, le timbre, la hauteur de la voix, le rythme des mots, les gestes, les mimiques, les postures, l’assurance ou l’hésitation, les micro signaux, et les émotions…: par les canaux visuels,olfactifs, et tactiles. Ainsi, un exercice conditionné (club) est un apprentissage d’un mot par association à un cotexte clair! Le chien, dans sa vie de tous les jours analyse les signaux non verbaux du contexte et du cotexte:Un exemple: pour le chien, prendre la laisse et mettre ses habits “chien” signifie sortir. Il apprend par répétition, par fixation, puis simplification en un signal précis, attractif, significatif et se crée un rituel. Un exemple: la réponse positive de l’homme à des manifestations d’émotions du chien amplifiera les rituels de salutation lors du retour du maître jusqu’à l’hystérie! Il faut donc que les mots et les gestes de l’homme soient clairs, que le maître soit sûr dans son énoncé, qu’il ne doute pas de son chien, ni de sa relation satisfaisante avec lui.

Les canaux de communication du chien Le chien est plus performant que l’homme au niveau de l’odorat, du toucher et de l’ouïe; il a une vue qualitativement différente. Il vit dans un monde sensoriel très différent du nôtre. Le canal olfactif: Le chien vit dans un monde d’odeurs ! Il possède, en moyenne, 160 cm2 de surface réceptrice des odeurs et des phéromones (nous en possédons 5cm2) sous la

Le canal visuel: La rétine du chien est riche en bâtonnets lui permettant de voir et de chasser dans la quasi-pénombre. Le chien a une vision en couleur et une lecture des détails dès une distance de 25 cm; malgré une mauvaise acuité visuelle, 3/10 en moyenne, il est capable de détecter des micro signaux non verbaux,par son excellente perception des mouvements. D’autre part, il possède un champ visuel latéral plus étendu que l’homme, compris entre 80 et 100 degré, suivant la race.


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Les fonctions de la communication 1. La première fonction de la communication est la reconnaissance spécifique, ceci est valable pour chaque espèce. le chien doit au cours de sa période sensible, par le phénomène d’“ empreinte ” apprendre à reconnaître son espèce,ses partenaires privilégiés d’attachement, de jeu et d’attirance sexuelle. Une fois cette empreinte faite, il doit apprendre les rituels de son groupe, tels que les comportements de cour, les gestes de soumission, d’accueil, d’apaisement, et les signaux qui établissent et maintiennent le contact. Le chien fonctionne avec ses rituels de la communication canine, qu’il apprend pendant sa socialisation. Ces comportements sont basés sur des rituels issus de comportements primaires dont la fonction, la motivation originale est modifiée: les mouvements sont simplifiés et amplifiés, le comportement devient stéréotypé dans son intensité. Un exemple: la posture d’apaisement, un rituel d’appel au jeu, l’arrêt d’un comportement, la posture de dominance et leur signification pour son espèce. L’absence de certains rituels va signer le défaut d’identification. Ainsi un chien présentant un bon rituel d’accueil et de présentation envers ses congénères, sachant soit se soumettre, soit interrompre son agression face à une posture d’apaisement et utilisant ses comportements de cour envers des partenaires de son espèce indique l’acquisition d’un développement adéquat durant sa prime enfance. 2. La deuxième fonction de la communication, par l’utilisation de postures et de productions vocales est la cohésion du groupe: la cohésion dans un groupe social de prédateurs est nécessaire pour renforcer l’efficacité des actions de chasse. L’inhibition de l’agressivité chez le chien fait appel à une hiérarchisation du groupe; celle-ci permet la stabilité du groupe et une économie importante de combats en apportant une solution aux conflits. Les rituels propres à l’espèce ont une fonction anxiolytique et permettent le bien-être de chaque individu s’ils sont connus et respecté du groupe; autrement, ils sont un frein à la cohésion de celui-ci.

La communication chez le chien en matière de privilèges:

Il grogne quand on le pousse. Il protège sa place. Il possède sa chambre/ou dort dans la chambre… Il impose un rituel de déplacement: arrêt et posture de soumission quand on traverse le territoire qu’il contrôle. Il passe sa journée à surveiller les environs de son domaine (chien de fenêtre). Il possède son fauteuil. 3. Le troisième privilège: La sexualité: Seul le chef a le droit d’exprimer sa sexualité devant les autres. Il ne tolère pas de démonstration de la part des autres. Il choisit sa femelle dominante. Il y a augmentation des marquages urinaires. Il grogne ou chasse sa femelle lorsqu’elle rapporte les odeurs d’un autre mâle. Quand la communication est mauvaise: Le chien s’interpose et empêche Mr de s’approcher de Mme (inversement pour la femelle). Il chevauche ses maîtres. Il grogne quand Mr approche Mme. Il empêche le père d’entrer dans la chambre d’une de ses filles (formation d’un sous-groupe). Il y a davantage de conflits pendant les règles de sa maîtresse. Il occupe le lit de son partenaire sexuel et essaye de chasser son concurrent direct. 4. Le quatrième privilège: Le contrôle des relations sociales: Le chien grogne les autres sans être réprimandé. Il mord ou pince sans déclencher de riposte. Il décide pour le groupe et donne des ordres. …Tels que apporter sa laisse. Il reçoit des marques de soumission: Caresses, léchage des babines. Il aboie à la porte pour se faire ouvrir. Il réclame à boire. Il décide de la promenade et tire sur sa laisse. Il initie et décide de l’arrêt des contacts.

1. Le premier privilège: Le privilège alimentaire:

Quand la communication n’est pas claire: Le chien mange quand on le regarde. Il choisit ses morceaux, il est difficile. Il mange dans la gamelle des autres, il réclame à table. Il refuse de manger si son maître ne le regarde pas ou mange à la main. Il empêche les autres de manger. Il laisse un peu de nourriture dans sa gamelle pour les autres. Il protège sa gamelle et grogne (agr. hiérarchique) quand on s’approche. Il mange à chaque contrariété (si la dominance est instable).

Le chien refuse les contraintes. Il ne revient pas à l’appel. Il empêche le groupe de sortir: Il mord ou pince quand ses maîtres partent de la maison. Il empêche le groupe de communiquer avec les étrangers (téléphone, voisins). Il protège son territoire. Les troubles de la communication entre le chien et son maître:

2. Le deuxième privilège: Le contrôle de l’espace: Le chef surveille les déplacements du groupe. Il occupe le centre de l’espace, se met dans un poste de surveillance.

Liste des non-sens ou les incohérences émis par le maître: Avoir une activité de chef en émettant des signes de peur. Ne pas cesser de crier, contraindre ou frapper un chien qui


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émet des signes de soumission. Crier ou être en colère pour rappeler son chien (double message contraire). Crier ou se fâcher quand le chien fait ses besoins. Ne pas être cohérent dans ses exigences: accepter un jour telle action et la punir le lendemain. Attitudes du maître perçues comme des marques de soumission: Se faire mordre ou pincer et accepter le léchage de la plaie. Avancer le corps ou la main en hésitant. Être en position physiquement inférieure. Perdre une bagarre ou un jeu de traction sur un objet. Céder sa place, accepter les bousculades. Céder aux aboiements. Donner des caresses ou embrasser le chien. Partager son repas ou regarder l’autre manger. Attitudes du maître perçues comme des marques de soumission: Accepter les grognements ou autres manifestations hiérarchiques. Suivre le leader (laisse et rappel).

Éponger ou ramasser l’urine du chef, ne pas être capable de faire des marquages urinaires significatifs: plus haut et avec l’odeur du chef. Enfin et surtout ne pas sentir le chef ! Signaux de dominance de l’homme: Regarder le chien dans les yeux. Soulever le chien, le porter. Prendre le chien par la peau du cou, le secouer (menace de mort). Manipuler, tirer, pousser, soigner. Maintenir le chien sur le dos. Caresser ou poser la main sur le dessus, brosser, peigner le dos. Mettre, défaire la laisse, le manteau. Tenir le nez, la patte. Tirer, bousculer, gonder, crier, hurler, frapper. Réveiller. Prendre la gamelle. Décider pour le groupe: promenades, repas…

Anne-Marie Villars - Rue du Simplon 3 D-CH- Lausanne E- mail: anne-marie@citycable.ch


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Les puppies Anne-Marie Villars Med Vet, Dipl ENVF, Lausanne, Svizzera

Ou du mythe du chiot parfait à la réalisation pratique d’une école de chiots.

Qu’est ce qu’une école de chiots? C’est un lieu de rassemblement où l’on pratique un enseignement, avec de l’esprit, de l’intelligence, beaucoup de compréhension. Cela nécessite une somme de connaissances et peut-être même des aptitudes naturelles pour partager son savoir et aimer le transmettre. L’école des chiots est destinée à des propriétaire de chiots avec leur famille, ou à des éleveurs avec leurs chiots; mais surtout aux chiots avec leurs maîtres, même expérimentés,que ceux-ci en soient à leur premier chiot ou à leur dixième chiot! L’apprentissage est double. Tout d’abord pour les maîtres: apprendre des règles éthologiques et des principes éducatifs. Assurer un développement harmonieux, à leur chiot, apprendre et lui apprendre la “position de soumission”. Ensuite pour les chiots, qui eux, viennent pour s’amuser entre chiots et aussi, devenir sociable envers les humains et d’autres espèces amies; pour pouvoir s’intégrer dans une hiérarchie (ni trop dominant, ni trop soumis), s’adapter à la vie citadine, être capables de self contrôle, n’être ni trop actifs, ni agressifs ou trop aboyeurs, ni craintifs; devenir propres, obéissants et capables de rester seuls, quelques heures par jour. Les objectifs d’une école des chiots, sont de respecter le profil comportemental du chiot, d’enseigner une socialisation maximale avec une base d’éducation. Ainsi, le rappel sera appris en utilisant le réflexe naturel du chiot de suivre sa mère, avec du renforcement positif, et en apprenant aux maîtres à savoir être attractif! Pour favoriser la sociabilité des chiots, nous allons multiplier les contacts des chiots avec des humains variés, pendant la phase de socialisation, au moyen de sorties avec l’école! Il est important de multiplier et maintenir ces contacts pour une socialisation durable. Et pour favoriser la familiarisation à l’environnement, il faut exposer les chiots à des stimuli (auditifs, visuels, olfactifs, tactiles) variés, en intérieur et en extérieur. Il est aussi nécessaire d’enrichir le milieu de vie du chiot les 14 premières semaines de vie. L’école est aussi un merveilleux lieu de rencontre, où peuvent se dérouler des jeux entre congénères, un enseignement pour les maîtres du chiot, sa famille, les enfants de sa famille. Cette rencontre permet un échange entre humains et chiots. Le rôle des animateurs d’une école de chiot est d’abord d’encadrer le groupe, mais aussi la prévention ou le dia-

gnostic des pathologies comportementales du jeune âge (tel le HSHA, le syndrome de privation), la prophylaxie des affections plus tardives (par exemple les sociopathies ou les hyperattachements secondaires). Nous avons aussi un rôle éducatif, un devoir de socialisation intra- et interspécifique et à l’environnement. La présence de chiens adultes modérateurs équilibrés est nécessaire et doit être contrôlée par les animateurs de l’école. L’importance des jeux entre chiots permet une continuité des contacts et des interactions. Elle apprend aussi aux chiots à découvrir les rituels et aux humains de les voir, de se les faire expliquer et d’en acquérir la connaissance. De même, l’importance du maintien de l’acquisition de la morsure inhibée par un enseignement adéquat au sein de l’école. Car souvent, le chiot l’a plus ou moins acquise à 8 semaines! Et le désapprend ensuite… dans sa nouvelle famille (il fait ses dents, croit-on) Apprendre aux maîtres à intervenir immédiatement dès que le chiot commence à mordiller est primordial ! Nous leurs apprenons aussi comment doser la punition et le renforcement positif, à savoir renforcer l’acquisition des autocontrôles et l’apprentissage du signal d’arrêt. Parfois, les jeux dégénèrent par des comportements trop impulsifs ou des mordillements qu’il faut savoir stopper. généralement en posture de soumission et en restant très calme. Il faut savoir faire preuve de douceur, de fermeté et de patience! Ne pas s’énerver, donner des indications calmes. Savoir récompenser le positif plutôt que punir le négatif. Faire preuve de fermeté, c’est simplement exiger que l’ordre soit exécuté jusqu’au bout. Notre rôle est aussi la prévention des agressions: ainsi, la prévention des agressions compétitives: - en évitant d’accorder des prérogatives dominantes! La prévention des agressions d’autodéfenses: - par une socialisation intensive, de l’habituation et le toucher Et la prévention des agressions de prédation: - par l’apprentissage d’espèces amies, telles que les chats, les poules On connaît 3 classes d’agressions: ■ 1. Agr. de compétition (ou hiérarchiques) ■ 2. Agr d’autodéfense: - Par irritation - Par peur - Territoriale - Maternelle ■ 3. Agr. de prédation - sur petites proies - sur grandes proies


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Le déroulement pratique: Au niveau sanitaire: une primo-vaccination nécessaire. Groupe: - 4 à 10 chiots (chiots variés: âges, races etc) - 4 à 25 humains: du grand-père à toute la famille Il y a obligatoirement une première leçon d’information. Le rythme de mon école: Une leçon hebdomadaire de 90 minutes/classe. Les chiots sont acceptés dès 6 semaines jusqu’à l’âge de 6 mois à la dernière leçon Des compétences humaines sont nécessaires pour les animateurs de l’école des chiots, car il s’agir d’animer un groupe très disparate, cela nécessite d’être calme et pédagogue, de savoir communiquer simplement avec des mots adaptés à la clientèle présente. Nous sommes 5 animatrices et 2 au minimum sont présentes pour une école, souvent 3! La présence de chiens adultes équilibrés, calmes et compétents à l’école des chiots est indispensable: Cela est nécessaire pour moduler les chiots hystériques ou mal contrôlés. Un mâle adulte réglera et identifiera le démarrage pubertaire des jeunes mâles et leur apprendra le respect hiérarchique. S’il est de taille respectable, il permettra aux propriétaires de petits chiens d’accepter les interactions de gros chiens avec leur chiot plus facilement et leur évitera une surprotection! Des adultes de moyenne ou petite taille peuvent également mieux faire accepter des interactions sur ces mêmes chiots en tout cas au début. La version actuelle: 2 cours: 1 heure 1/2 Une leçon d’information: 30 min Un suivi de 9 leçons avec 4 thèmes comportement et 4 thèmes communication La 9ième leçon: vidéo Le programme: J 1. Comportement 1: Alimentation, lieu de couchage et caresses; quel sens cela prend-il pour le chien? J 2. Communication 1: La propreté et les premiers apprentissages J 3. Comportement 2: Postures et rituels hiérarchiques: Se promener avec son chien et fonctionnement d‘un groupe de chiens J 4. Communication 2: Punir, récompenser, éduquer J 5. Comportement 3: Socialisation J 6. Communication 3: Les bases du rappel et la marche en laisse J 7. Comportement 4: Jeux et autocontrôles J 8. Communication 4: lui apprendre à rester seul, s‘asseoir, se coucher J 9: Théorie: vidéo pour tous à 18h Les précautions à prendre: Un contrat L’absence d’objets dangereux Le lâcher dans des zones exemptes de risques Les chiots en laisse lors des sorties dans la circulation Terrain, locaux et matériel: Où a lieu une école de chiots? 1. A l’intérieur: dans les locaux de mon cabinet

2. A l’extérieur: - Un jardin clôturé: avec des obstacles sans danger - Des sorties à travers la ville - Un terrain de la ville Matériel: Caméra-vidéo, TV ou Beamer pour la leçon vidéo Des jouets variés, quelques accessoires (sèche-cheveu, aspirateur, ballons, pétards etc) Lieu d’implantation? Pourquoi pas chez un éleveur? Ou dans un club cynologique? Ou comme je l’ai obtenu avec les. autorités de ma ville: un terrain d’éducation adapté, clôturé. Des sorties indispensables: La première sortie: Avec des stimulations modérées Apprendre une marche en laisse souple A l’aide du renforcement positif Penser à la propreté de sa ville: les sachets à crottes Enseigner des rudiments d’éducation Et des réflexes conditionnés simples: l’assis avant de traverser une route La deuxième et la troisième sortie: Prendre un bus en groupe, inviter les gens à caresser les chiots Balade et exercer le rappel Inciter à des rencontres diverses avec des stimuli plus importants: en allant dans des lieux de plus en plus bruyants L’effet groupe: L’effet stimulant du groupe permet aux chiots les plus timides de se laisser entraîner par imitation à suivre rapidement les plus audacieux Les conclusions Du mythe à la réalité Les dérapages et les risques d’échec d’une école de chiots L’absence: - De familiarisation à l’environnement citadin et de contacts avec la rencontre d’une multitudes de personnes, de lieux bruyants, de sorties en ville etc: Attention aux dangers d’un terrain unique ! Risque de ne pas détecter, voir d’entretenir un syndrome de privation - De chiens adultes: Certaines écoles sont limitées à de simples jeux entre chiots! …voir parfois séparation par classes d’âges ou par races! Et sans chiens adultes co-éducateurs ! La compétence du chien adulte est un immense apport. Elle permet souvent de détecter et réguler les chiots hyperactifs. Elle permet aussi l’habituation des maîtres et leur évitera l’hélitreuillage et la surprotection! - D’éducation de base: Il est important: d’enseigner au minimum, le rappel, l’assis, le couché et la position de soumission et inhibition de la morsure! - De connaissances du langage et du fonctionnement hiérarchique:Absence de mise en place d’une structure hiérarchique, l’apprentissage de notions de ce que sont les prérogatives d’un dominants:


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Alimentaires Spatiales Sexuelles Sociales

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Dialogue et contact sympathiques Utile à l’insertion de l’animal dans la société Se faire connaître/ Superviser Plaisir des chiots à venir ultérieurement en consultation !

“Nothing is free in the life” Conclusions: ■ Expérience enrichissante et positive ■ Conseils en groupe ■ Améliorer le contact ■ Fidéliser sa clientèle sans faire de concurrence ■ Outil prophylactique ■ Prévenir les troubles de la communication et hiérarchiques ■ Attente des maîtres différentes ■ Prophylaxie des affections comportementales

Par Docteur Anne-Marie VILLARS Médecin Vétérinaire Comportementaliste diplômé D.E.N.F. Cabinet Vétérinaire - Rue du Simplon 3 D CH 1006 LAUSANNE Tél: +4121/616.10.66 Fax: +4121/ 616.68.65 Mail: anne-marie.villars@citycable.ch Vous pouvez consulter mon mémoire détaillé sur l’école des chiots sur le site de www.zoopsy.com


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