S&H Magazine n. 271 • Aprile 2019

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ELISABETTA MATTIA USAI & VERAPROJECT RILASCIANO IL LORO PRIMO ALBUM DI MUSICA

di HELEL FIORI

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n Italia è l’epoca del trap. Dei testi arrabbiati, volgari, che esaltano l’apparire e il farsi strada in maniera violenta. A questo presente storico fatto di confusione politica, incertezza lavorativa, mancanza di punti di riferimento, alcuni artisti scelgono di opporsi in maniera produttiva, pacifica, creativa. Per fortuna ci si accorge che sono molte le voci ad uscire dal coro, e una di queste è quella di Elisabetta Mattia Usai, cantante sassarese che il 15 febbraio scorso ha final-

mente pubblicato il suo primo disco. La lingua scelta è un pastiche di italiano, sardo, francese, inglese; brani che nell’arco di dieci anni si sono trasformati fino a diventare la struttura dell’album (che esce “Senza Titolo”: non si può definire un decennio di vita e di esperienze). Il passaggio dalla creazione compositiva al serio impegno del raccogliere e incidere il materiale è arrivato passo dopo passo grazie alla vittoriosa partecipazione al Piccolo Festival del Cantautore di Sassari nel 2017 con il brano Amouse Toi (gioco di parole tra il francese “divertiti” – verbo se amuser – e la parola amour) che le ha consegnato il palco del Festival Abbabula 2018, dove si è esibita supportata da una stratosferica squadra di musicisti, dando

vita al Veraproject: “Luca Usai al pianoforte, Paolo Laconi al violoncello, Samuel Peitas basso e synth, Federico Carbini batteria e clarinetto, Ermes Conforto, il nostro giovane pupillo, alla chitarra; un ensemble di musicisti polistrumentisti senza limiti di espressione che interpreta la musica in tutte le sue forme ispirandosi a tutti i generi musicali ma a nessuno in particolare, tanto da definire ciò che ne viene fuori: World Progressive” spiega Elisabetta. E la definizione sembra appropriata, visto che è davvero difficile citare i riferimenti musicali contenuti nell’album; c’è il jazz, ci sono i canti popolari italiani e le note degli chansonnier, c’è il bordone classico, ci sono le percussioni anni ’90… ma ci sono i bridge da spettacolo americano, le risoluzioni RnB, il flauto traverso che trascina via la coscienza, e la voce che come una vera Jana sarda con echi e rimbalzi sa attrarci raccontandoci storie lontane, dan-

doci consigli, abbracciandoci. E il grande abbraccio le è tornato enormemente indietro da tutti i fan che hanno contribuito alla realizzazione dell’album aderendo al crowdfunding messo in atto nell’autunno 2018 su Musicraiser. La risposta degli artisti a tanto affetto è stata repentina: appena pubblicato, l’album è stato presentato nella Sala Concerti del Teatro Verdi di Sassari, e nei prossimi mesi verrà portato in altri festival e scenari cittadini, regionali, ed internazionali (date da definire in Francia, Inghilterra e Scozia. Le sedi auspicate sono i circoli sardi extraterritoriali). Per sentire alcune tracce dell’album è sufficiente cercare Elisabetta Mattia Usai & Veraproject su Soundcloud, per acquistarlo si può trovare la copia fisica alle Messaggerie Sarde di Sassari oppure richiederlo scrivendo alla pagina ufficiale Facebook Elisabetta Mattia Usai & Veraproject.


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S&H MAGAZINE Anno XXIV - N. 271 / Aprile 2019 EDIZIONE SASSARI+CAGLIARI

Direttore Responsabile MARCO CAU Ufficio Grafico GIUSEPPINA MEDDE

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Hanno collaborato a questo numero: DIEGO BONO, LUIGI CANU, DANIELE DETTORI, FRANCA FALCHI, HELEL FIORI, ERIKA GALLIZZI, ALESSANDRO LIGAS, GIUSEPPE MASSAIU, ANNALISA MURRU, MANUELA PIERRO, MARCO SCARAMELLA Redazione Sassari, Via Oriani, 5/a - tel. 079.267.50.50 Cagliari, tel. 393.81.38.38.2 mail: redazione@shmag.it

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Editore ESSEACCA S.r.l.s., Via Oriani, 5/a - Sassari Per la pubblicità: tel. 335.722.60.54

Stampa Tipografia TAS S.r.l. - Sassari Social & Web

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10 03 Elisabetta Mattia Usai “Senza Titolo”, il primo album di musica World Progressive con i Veraproject

05 Biru ‘e Concas La Stonehenge sarda

06 Resorzas L’arte della coltelleria in Sardegna

08 Antonello Unida L’importanza di chiamarsi Jodo

10 Angelo Lobina Il sardo che ha conquistato l’Everest

12 Accanto ai più deboli

La missione dei City e Guardian Angels

14 Domenico Ruiu Dalla caccia alla fotografia

16 CEAS Lago di Baratz Educazione ambientale e sostenibilità

issuu.com/esseacca

18 XIII edizione Giocomix

Torna a Cagliari il Festival del Gioco e del Fumetto della Sardegna

20 Franco Columbu

Registro Stampa: Tribunale di Sassari n. 324/96. ROC: 28798. © 2019. Tutti i diritti sono riservati. È vietato riprodurre disegni, foto e testi parzialmente e totalmente contenuti in questo numero del giornale.

Storia di un’icona del body building

22 Progetto Up&Down

Creatori di Versi – Teatro, Cinema, e all’improvviso un Libro

24 Viaggio in Italia Le Marche

25 Dinamo Banco di Sardegna

Volata finale per un posto nei playoff

26 HITWEETS 28 Hertz Cagliari Dinamo Academy

Ultime quattro partite per la salvezza diretta

29 Il dentista risponde

Quali sono le cause della malattia parodontale?

30 Dillo a foto tue

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in Copertina l

L'ABBEVERATA SOSPETTOSA DELLA VOLPE Foto Domenico Ruiu


Foto Sergio Melis

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BIRU 'E CONCAS LA STONEHENGE SARDA

di MARCO SCARAMELLA

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onoscete Stonehenge, il celebre complesso megalitico in Gran Bretagna, formato da un circolo di grosse pietre erette? Gli studiosi ipotizzano che questo sito, risalente al neolitico, possa essere un antico osservatorio astronomico. Quello che, forse, non sapete è che in Sardegna custodiamo un monumento simile, ma più antico del sito inglese, perché risale ad un periodo compreso tra il 3300 a.C. ed il 2700 a.C. La chiamano la Stonehenge sarda, e si trova esattamente nel centro geografico dell’isola, nel territorio che appartiene al comune di Sorgono, in provincia di Nuoro. Il parco archeologico di Biru ‘e Concas, che letteralmente significa “sentiero delle teste”, si trova in località Coa ‘e sa Mandara, una collinetta che svetta a circa 500 metri sul livello del mare, in una zona particolarmente ospitale, che favorì l’insediamento umano, come di-

mostrano i numerosi siti archeologici presenti nei dintorni. Nell’area circostante si possono, infatti, notare tracce di capanne circolari, due nuraghi, i resti di una tomba di Giganti e un dolmen. Questo sito è straordinario per diversi motivi, uno di questi è la forte concentrazione di menhir. Ne sono stati contati circa duecento, e questo rende la zona di Biru ‘e Concas la più ricca di Menhir di tutto il mediterraneo. Menhir è un termine che deriva dal bretone “men” e “hir” e significa pietra lunga. Sono dei i monumenti megalitici conficcati nel terreno, che possono rappresentare simboli fallici in onore della Dea Madre, o possono anche ricordare le figure eroiche degli antenati. Un altro elemento che rende eccezionale questo sito, è il fatto che si trovi esattamente nel centro geografico della Sardegna. Questo elemento porta a chiedersi se tale collocazione sia stata intenzionale e, in questo caso, come hanno

fatto, degli uomini vissuti tremila anni prima di Cristo, a determinare con tanta precisione questa posizione. Una volta raggiunto il sito, potremo notare che i menhir sono disposti singolarmente, in coppia o in gruppi di tre. Altri sono sistemati in posizione circolare, oppure allineati fino ad un numero di venti di seguito. Molti sono collocati in doppia fila, come un corridoio che conduce verso il sorgere del sole, altri sono rivolti a ovest, verso il tramonto. Molti altri, invece, sono spezzati. Uno dei menhir è di tipo antropomorfo, riporta infatti, sinteticamente, un viso con occhi e naso. Un altro, invece, riporta un volto scolpito nell’estremità superiore ed un pugnale all’altezza della vita. L’ingresso al parco di Biru ‘e Concas è libero visto che il sito non è custodito, né gestito. Nonostante ciò la visita è fruibile anche senza l’ausilio di una guida, grazie alla presenza di sentieri ben tracciati e pannelli esplicativi.


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RESORZAS L’arte della coltelleria in Sardegna di MANUELA PIERRO

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’arte in Sardegna è poliedrica e diversificata. Tutta questa abbondanza creativa traspare anche nella fabbricazione dei coltelli (sas re‐ sorzas o sas leppas), in cui gli artigiani esprimono il forte attaccamento alla propria cultura agropastorale e un’abilità manuale tramandata da generazioni. È assolutamente sbagliato pensare al coltello sardo solo come a un’arma: era soprattutto un complice e un compagno da portare sempre con sé nelle lunghe giornate passate col gregge fra i monti, per mangiare, per intagliare sughero e legno e da brandire in caso di minaccia. L’origine del coltello sardo risale addirittura al Neolitico, quando si iniziarono a produrre i primi utensili da taglio in selce e in osso. Successivamente, questi modelli rudimentali iniziarono la loro trasformazione: le lame divennero di ossidiana e il manico probabilmente in legno. Con l’inizio della civiltà nuragica vi fu un notevolissimo sviluppo dei manufatti in metallo, anche grazie alle materie prime che il suolo produceva: con il rame e lo stagno si otteneva il bronzo con cui gli artigiani nuragici producevano stiletti, spilloni, lance e coltelli che venivano addirittura esportati nel Mediterraneo. Questa incredibile dote artigiana è emersa anche da alcuni scavi: in molti villaggi nuragici, infatti, sono emersi strumenti che fanno pensare a delle vere e proprie fonderie specializzate del passato. Il primo coltello sardo ben definito risale però al 1700. Secondo alcuni documenti dell’epoca, i pastori sardi portavano due tipi di coltelli nella cintura come accessori giornalieri: sa daga (una piccola spada) e sa leppa de chintu (spada simile alla sciabola). Alla fine del XIX secolo, l’arte dei coltellinai aveva già raggiunto un livello eco-

nomico esponenziale, soprattutto in alcuni paesi sardi, ma, per prevenire fatti delittuosi che spesso si verificavano durante litigi e faide, la produzione delle lame entrò in profonda crisi. Già dalla prima metà del 1900, il fabbro ricopriva un ruolo sociale fondamentale nelle piccole comunità sarde, visto che tutti si recavano presso la sua bottega per le riparazioni di utensili agricoli e coltelli. La sua officina si trovava quasi sempre al centro del paese ed era un ricettacolo di arnesi affascinanti e misteriosi, che nessuno sapeva utilizzare, se non il fabbro stesso e il garzone a cui lui insegnava il mestiere. Strumenti indispensabili erano la fucina o forgia (furredda o forredda), una sorta di focolare a carbone dove i metalli venivano scaldati fino all’incandescenza prima di essere modellati; il mantice (fodde de fraile o macciu) che serviva a ravvivare il fuoco grazie al soffio d’aria che produceva; l’incudine (in‐ còdina) e il martello (marteddu) utili per la forgiatura, le levigatrici, le mole e le frese che servivano per rifinire le lame o praticare tagli e incisioni e, infine, con la lucidatrice, la lama e il manico assumevano un luccichio brillante. La maggior parte dei mastri coltellinai produceva personalmente il carbone vegetale che occorreva per alimentare la fiamma della fucina, perché una fiamma che generava impurità a causa di un combustibile non idoneo poteva compromettere la qualità della lama: il carbone ottenuto da erica e corbezzolo pare fosse quello migliore grazie alla produzione del carbonio, che determinava la durezza dell’acciaio. Ci sono vari tipi di coltelli e, soprattutto da qualche anno, il coltello sardo per antonomasia è quello a serramanico. La grandezza della lama generalmente è di un palmo in modo da poter essere trasportato in tasca senza fastidi e i materiali più scelti sono l’acciaio inossidabile, l’acciaio C70 (che ha bisogno di manutenzione per non ossidare) oppure l’acciaio damascato, estremamente resistente e anche decorativo.


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Il manico può essere di due tipologie: monolito, ossia realizzato in un unico pezzo, o animato, cioè diviso in due parti e assemblato con i ribattini, cioè piccoli chiodi. I materiali per eccellenza sono il corno di muflone o di montone stagionati almeno due anni. Tra la lama e il manico c’è il collarino, che, oltre a conferire robustezza alla giunzione tra i due elementi, ha anche una funzione decorativa. Ma vediamo nel dettaglio alcuni tipi di coltelli. Sa pattadesa (Pattada) è considerato il coltello sardo per eccellenza. Nato nei primi del 1900, ha due importanti innovazioni: la prima riguarda la forgiatura della lama che ricorda la forma di una foglia di mirto (a foll’e murta), più stretta rispetto ai modelli del passato. La seconda innovazione riguarda invece l’inserimento di un’anima metallica all’interno del manico (che prima era un pezzo unico in corno), al fine di renderlo più resistente. S’Arburesa (Arbus) ha conservato la

sua forgia antica con la lama a forma di foglia d’alloro e il manico in corno di capra o montone a monoblocco. Sa Guspinesa (Guspini) la cui variante più nota è utilizzata per uccidere gli animali e ha per questo una scanalatura sulla lama che favorisce la fuoriuscita del sangue. Sa Lussurgesa (Santu Lussurgiu) è famosa per l’armonia cromatica, per la luminosità e la cura dei particolari, oltre che l’attenzione per la tradizione. In tutto il territorio esistono numerosissime altre varianti, testimonianze concrete dell’estro creativo e della manualità geniale di un popolo che, anche nella produzione di semplici utensili da lavoro, non rinuncia alla perfezione e all’unicità. E ancora oggi non esiste una sola grigliata tra amici o un solo semplice pranzo in famiglia in cui un sardo non mostri orgogliosamente il proprio unico e splendido coltello.

Campidanese con manico in corno di montone con ghiera in alpacca bisellata a mano (Coltelleria Is Lunas)

Guspinesa con manico monoblocco in corno di montone (Non solo coltelli)

Pattadesa con manico in corno di montone sardo striato (Knife Sardinia)

Foto Pierluigi Dessì/Confinivisivi

Arburesa con lama larga in acciaio damascato e manico monoblocco in corno di montone sardo striato (Knife Sardinia)


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di DANIELE DETTORI

Foto Gianmichele Manca

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facile, parlando di Jodo, pensare ai suoi video polemici, a volte sopra le righe, insieme alle iniziative a carattere ambientale e salutistico che porta avanti sui social riscuotendo un gran numero di visualizzazioni tra i followers (e qualche volta tra gli haters). Ma se parlassimo, invece, di Antonello Unida? Nelle prossime righe proveremo a conoscere meglio l’uomo dietro il personaggio, grazie alla chiacchierata che ci ha regalato. «Ho conseguito un diploma di ragioneria e sono da sempre appassionato di sport», ci racconta. «Nel 2015 mi sono laureato in psicologia a Roma, con una tesi sul disturbo ossessivo compulsivo e, in questi ultimi anni, ho seguito diverse masterclass (oggi le chiamano così, io preferisco definirli seminari, alla vecchia maniera) diventando anche counselor». In effetti, la passione di Antonello per tutto ciò che riguarda la conoscenza di sé emerge anche sfogliando le sue foto su Facebook: libri di Jung, trattati di psicologia emozionale e tanto altro. «Sono argomenti che mi interessano molto più della politica», spiega. «Noi siamo animali meccanici. Abbiamo bisogno di uno shock per capire e accorgerci di determinate cose. Negli incontri che periodicamente tengo affronto spesso l’argomento. Per esempio, tutti ricordano cosa

L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI JODO Antonello Unida si racconta, tra psicologia, psicomagia e web

facevano l’11 settembre del 2001, nell’apprendere dell’attentato. Quello è un caso di shock collettivo. Se invece si chiedesse a chiunque cosa faceva l’11 settembre di un altro anno, magari del 2018 (salvo ricorrenze particolari), cadrebbe dalle nuvole. Questo accade perché non si è concentrati sul qui e ora. Una volta un maestro zen mi disse

“Sai cosa è lo zen? La cosa più semplice di questo mondo. Quando mangi, mangi. Quando guardi un tramonto, guardi un tramonto”. Diversamente si cade nella meccanicità e, quindi, nella non consapevolezza». Per aiutare chiunque sia interessato a riacquistare un rapporto più equilibrato con la natura, Antonello tiene appunto incontri

e seminari (molto suggestivi sono quelli sulla spiaggia, in occasione dei solstizi) dove illustra e mette in pratica alcune tecniche imparate negli anni. «Sono amico di Alejandro Jodorowsky, studioso e teorico di psicomagia. Lui mi ha spinto a prendere la laurea e a lui mi sono ispirato per il mio pseudonimo, Jodo. Frequento anche il figlio Cristóbal, che del padre segue il percorso psicosciamanico con studi anche sull’albero genealogico. In questo periodo, però, sto studiando il Libro Rosso di Jung: profondo, archetipico, mitologico». E la decisione di realizzare i video sul web che tutti conosciamo come arriva? «Usavo il web per interagire con il mio relatore, all’università, e ho pensato di usare Facebook per lanciare messaggi a carattere ambientale. Ebbero un grande successo in termini di visualizzazioni e like, così ho pensato che potevo lanciare più messaggi, denunciare situazioni, dare esempi».



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ANGELO LOBINA IL SARDO CHE HA

Eppure tutto questo non è bastato a contenere la sua sete di esplorazione, la sua richiesta di sfide sempre nuove, e così, anni di allenamento e arrampicate in tutta la penisola lo preparano al temerario progetto Sardegna7Summit che lo segnerà come “il primo sardo a scalare le sette vette più alte del mondo”. Un’impresa di certo al limite dell’umano (sono ben pochi ad aver terminato l’odissea alpinistica), ma che Angelo ha affrontato con determinazione, solcando in cinque anni di habitat estremi tra neve, ghiaccio e rocce taglienti, giganti come il Kilimanjaro (Tanzania, 5.895 metri), l’Aconcagua (Argentina, 6.962 metri), il monte Denali (Alaska, 6.195 metri), e molti altri, terminando la sua gloriosa fatica conquistando i due titani più indomabili. Il monte Everest, il famoso culmine himalayano, con i suoi 8.848 metri porta lo sportivo a divenire il primo ad aver issato i quattro mori sul tetto del mondo, mentre il proibitivo Monte Vinson, scoscesa cima ghiacciata di 4.897 metri situata a pochi chilometri dal Polo Sud, ad una temperatura di svariati gradi sotto lo 0, definiscono il nuorese come il nono italiano ad aver domato la meta antartica. Un uomo le cui gesta sono già leggenda tra gli alpinisti e non, a cui abbiamo rivolto qualche domanda:

CONQUISTATO

L’EVEREST di DIEGO BONO

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iamo fatti per mettere alla prova i limiti, per conoscerli, inquadrarli e superarli, per essere curiosi, per osservare e imparare da noi stessi, da ciò che ci circonda, dalla natura, un atto di coraggio costante, di crescita, da sempre obiettivo della nostra specie, per portare a perfezionarci, per diventare migliori. Un sardo ha messo a frutto tutto questo, in continua competizione con se stesso,

ma soprattutto, con uno degli ambienti più difficili e pericolosi che esistano: la montagna, annoverando nella propria carriera imprese straordinarie. Angelo Lobina è un climber nuorese (classe 1962) da oltre trent’anni appassionato di alpinismo, un uomo cresciuto scalando le prime falesie sarde, ma il cui senso di avventura lo ha spinto ben presto ad abbandonare l’isola in cerca di cime e ambienti diversi dal brullo panorama sardo, giungendo a domare, vent’anni fa, le prime cime del Monte Bianco e del Monte Rosa.

Ciao Angelo, grazie per averci concesso qualche minuto, innanzitutto, come nasce la passione per l’alpinismo in un territorio, come quello della nostra Isola, così lontano da questa cultura sportiva? Quando avevo circa 7 anni insieme ad altri due coetanei passavamo i bei pomeriggi di primavera andando al Monte Ortobene, da soli… senza dir niente ai genitori, per provare a salire su un rocciaio noto come Punta Fumosa. Ci sembrava altissimo ed insuperabile (in realtà non più di 5/6 metri) ma ad ogni occasione possibile percorrevamo circa 1 ora di sentiero impervio per provare a scalare questa parete. Si, è vero, in Sar-


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degna non vi è questa cultura per cui queste passioni restarono silenti per lunghissimo tempo, ma quando finalmente iniziai ad arrampicare su roccia seriamente avevo quasi 30 anni ed è un amore che continua ancora oggi a 57 anni. Qual è stata l’impresa più soddisfacente? Quella del Nord America, in Alaska, alla volta del Denali. È una cima ambita da ogni alpinista e non facile. Si viene lasciati da un piccolo aereo nel bel mezzo del nulla, sul ghiacciaio, a 300 km dal villaggio più vicino. Da quel momento in poi si è soli, si deve essere autosufficienti per almeno 20/25 giorni il che impone avere circa 70 kg di carico a testa tra cibo e attrezzatura, da portare con sé trainando una slitta con oltre 4.000 metri che ti separano dalla cima. Io e un amico abbiamo organizzato tutto da soli ed abbiamo portato a termine la spedizione con successo nel 2016. Quell’anno ha avuto successo il 46% dei climber. E quella più rischiosa? Quella in cui ho corso i maggiori rischi è stata sicuramente la prima delle mie spedizioni extraeuropee, l’Aconcagua in Sud America. L’inesperienza e la scarsa conoscenza dei problemi legati all’alta quota hanno esposto me ed il mio compagno di scalata a grossi rischi che solo per una buona dose di fortuna non hanno causato danni. Dopo aver lavorato per giorni per portare le attrezzature in alto e montare i vari campi, abbiamo passato due notti tribolate nella nostra tendina a 6.000 metri sotto la tormenta. L’indomani siamo riusciti con gran fatica a raggiungere la cima ma con l’esperienza di oggi vedo gli errori commessi in quell’occasione. È stato solo grazie ad una grandissima motivazione e determinazione che abbiamo avuto successo. Veniamo alla domanda principale, come ha fatto un sardo a raggiungere l’Everest? Ho inseguito un sogno rimasto a lungo chiuso in un cassetto. Ad un certo momento della mia vita ho capito che dovevo provare a realizzarlo. Mi sono allenato

con grandi sacrifici, senza aiuti, non ho un team alle spalle che fa le cose per me, non avevo neanche un preparatore atletico… ho fatto tutto da solo e in un crescendo di difficoltà mi sono cimentato in varie spedizioni che mi hanno permesso di affrontare il colosso dell’Himalaya con

buone chance di successo. Il resto è stata fortuna. Ciò che possiamo sognare possiamo anche realizzarlo ma per fare questo dobbiamo essere molto determinati ed evitare di ascoltare le immancabili voci di quelli che cercano di distoglierti dai tuoi progetti.


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Accanto ai più deboli nelle strade La missione dei City e Guardian Angels di ANNALISA MURRU

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l volontariato può assumere tante forme, ma ne esiste una che trova il suo raggio d’azione unicamente nelle strade. Sono persone comuni e attentamente preparate che vigilano sulla sicurezza cittadina e prestano assistenza concreta agli utenti più svantaggiati, mettendosi anche a disposizione delle autorità. Abbiamo avuto il piacere di conoscere l’attività di due associazioni presenti sul territorio sardo, i City Angels e i Guardian Angels, grazie alla disponibilità del responsabile della sede di Cagliari dei City Angels, Giorgio Mariotti, e del responsabile della sede di Sassari dei Guardian Angels, Pier Paolo Pintus, uomo chiave di questo racconto. I City Angels nacquero a Milano nel

1994 per opera del giornalista e docente universitario Mario Furlan, ma - come spiega Pier Paolo - solo dopo un tentativo non riuscito di attività sotto il direttivo dei Guardian Angels. I Guardian hanno sede centrale a New York e iniziarono le loro “ronde” su strada nel 1979 per iniziativa dell’italo americano Curtis Sliwa, con l’intento di monitorare la zona della metropolitana e intervenire in caso di emergenza. Furlan, in seguito a dei problemi con la direzione centrale dell’associazione, decise di fondare i City Angels che attualmente sono presenti in Italia e in Svizzera, e che arrivarono in Sardegna quasi per caso. Infatti, un giorno di circa dieci anni fa, Pier Paolo stava ascoltando Radio Montecarlo quando trasmisero la pubblicità dell’associazione, e decise di contattare il presidente, aprendo poi

nel 2009 la prima sede a Sassari. Prendendo dei contatti con Cagliari, un anno dopo nacque la seconda sede e seguì a ruota la sezione di Olbia. Accadde, però, un fatto particolare, in quanto colui che si occupava di gestire le sedi sarde dei City Angels passò ai Guardian Angels e nel 2012 avvenne la conversione di tutte le sezioni, compresa quella di Cagliari, che però mantenne anche la sede dei City Angels per opera di un gruppo di volontari che si costituì in quell’occasione. Le due associazioni si caratterizzano per la divisa rossa e si distinguono dal colore del basco: blu per i City e rosso per i Guardian. Nati per tutelare e assistere gli utenti in zone potenzialmente critiche quali la metropolitana di New York e la stazione centrale di Milano, attualmente sorvegliano zone più vaste.


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I City Angels di Cagliari

Ma chi sono questi volontari? Sono in maggioranza donne, con un’età che varia dai 25 ai 70 anni; sono persone con vite normali fatte di lavoro, famiglia, impegni e difficoltà, ma che sentono una forte spinta verso il prossimo e in particolare nei confronti di coloro che nelle strade ci vivono, proprio ai margini: i senzatetto, persone che hanno bisogno di tutto. Grazie all’azione degli Angels possono gustare un piatto caldo, vestirsi e curare la propria persona. Giorgio Mariotti ci tiene a valorizzare i membri del suo gruppo che pur avendo una vita modesta si privano di qualcosa per acquistare beni di prima necessità da donare a loro: “Conoscono i gusti alimentari e qualche volta riescono a portare, ad esempio, piatti come lo spaghetto con il salmone: diventano quasi dei loro figli. Ogni kit di schiuma da barba, lamette, saponetta e bagnoschiuma può superare i dieci euro, e li acquistano ogni settimana”. I turni si svolgono la sera e l’intervento di squadra è alla base della loro attività, perché la regola numero uno è agire in sicurezza e mai singolarmente. Tutti i volontari vengono “addestrati” prima di scendere in campo, con un periodo di formazione medio lungo che comprende lezioni di autodifesa, primo soccorso e anche psicologia, perché l’approccio deve essere idoneo ad ogni possibile scenario che può riguardare una rissa, un utente con problemi di alcolismo o uno scippo, per citarne qualcuno. Il gruppo si sposta a piedi, ma la sede di Sassari dei Guardian dispone anche di un servizio su ruote per la consegna cibo e altri beni di prima necessità ai senzatetto.

Abbiamo scelto due storie a lieto fine che ci fanno capire quanto possa essere decisivo avere qualcuno che monitora le nostre strade e sia pronto ad intervenire. “La più significativa a Sassari - racconta Pier Paolo - è sicuramente quella di un ex carrozziere caduto in disgrazia che viveva dentro una macchina. Durante l’ultima vera nevicata, nel 2012, lo trovammo nella macchina semi sommersa dalla neve, nudo dalla cintola in giù e immerso nei propri escrementi a causa di una paresi alle gambe. Se non fossimo passati sarebbe sicuramente morto assiderato. Ora vive in una casa di riposo”. Giorgio Mariotti ha a cuore uno sventato tentativo di stupro ai danni di una donna: “La trovammo in stato confusionale, ma riuscimmo ad evitare il peggio”. Due dati positivi che emergono dalla chiacchierata con Giorgio Mariotti, sono l’abbassamento del numero di senzatetto a Cagliari, e il fatto che Cagliari sia una città decisamente più sicura rispetto a città quali Milano o Roma, dato che emerge dagli incontri annuali con gli altri gruppi italiani di City Angels. È confortante sapere che cittadini come noi abbiano la missione di intervenire qualora ci trovassimo in difficoltà, senza chiedere nulla in cambio; in fondo, non è altro che un consapevole e sicuro senso civico che dovrebbe essere vivo in ognuno di noi ma che, nella frenesia e nell’egoismo odierni, spesso dimentichiamo. I Guardian Angels di Sassari


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DOMENICO RUIU DALLA CACCIA ALLA FOTOGRAFIA

Decollo dei fenicotteri (sopra). Aquila reale, il nido a 2 entrate (sotto)

di DIEGO BONO Foto DOMENICO RUIU

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lcune persone vivono la natura e l’ambiente in modo diverso, divenendo nel bene e nel male, tutt’uno con essa, cogliendo con gli occhi di un artista quella bellezza visibile da tutti, eppure da troppi non percepita, del proprio territorio. Domenico Ruiu, fotografo naturalista nuorese (classe 1947) ha stretto il suo primo rapporto con la bellezza della natura locale come cacciatore, una carriera che ha protratto per trent’anni, sin quando, ammaliato dallo splendore della fauna sarda vista da un’ottica differente, al posto del fucile ha deciso di impugnare una macchina fotografica per consacrare nel tempo gli animali più caratteristici non solo della nostra Isola, ma di tutta Italia. I suoi scatti genuini, ma eleganti, che hanno il potere di trascinare lo spettatore in un affascinante contatto diretto con volpi, cervi, aquile e tante altre creature, valgono a Ruiu le prime collaborazioni con riviste, quotidiani e programmi televisivi tematici. Oggi,

considerato massimo esperto del mondo fotografico naturalista, è autore di più di quindici libri, tra cui la celebre raccolta “Il fotografo dei rapaci” (unico libro da collezione di carattere ambientale mai pubblicato in Europa), distribuita in quattro lingue (tra cui il sardo). Nel 2014 l’Università di Sassari celebra la sua importanza con la consegna di una laurea magistrale ad honorem per gli “importanti meriti scientifici della sua attività”, mentre nel 2015 gli viene attribuito il riconoscimento nazionale di “Maestro della Fotografia” (Premio Le Gru), inoltre ad oggi è l’unico fotografo del settore presente nella prestigiosa Galleria Internazionale Alidem - L’arte della fotografia di Milano. Per conoscere al meglio l’uomo che abbandonò la carabina per armarsi di Canon Mark III (con ottiche dal grandangolo da 500 millimetri), abbiamo posto a Domenico qualche domanda. Salve Domenico, per prima cosa, come è nata la passione per la fotografia? Sembrerà strano ma mi ci

sono avvicinato senza esserne appassionato, ma semplicemente perché volevo riprendere gli animali, che invece erano e sono la mia grande passione. Quale è stato il suo percorso di crescita e apprendimento di quest’arte? Assolutamente da autodidatta sino all’incontro a metà degli anni ottanta con Giuliano Cappelli che è stato il vero pioniere della fotografia natura-

listica in Italia. Lo accompagnai in giro per la Sardegna per un reportage e ne nacque una profonda amicizia che ci legò sino alla sua recente scomparsa. Fu lui il mio grande maestro. Senza forzature mi accompagnò nel difficile passaggio dalla foto cruda e violentemente spettacolare della natura, che era la componente principale delle mie immagini, alla composizione delicata e armoniosa dell’ani-


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Cerva sulle dune di Piscinas

male piccolo piccolo inserito nel paesaggio, possibilmente con luci tenui e soffuse; questo è il genere di fotografia che tutt’ora prediligo. Come è passato da cacciare gli animali ad immortalarli su pellicola? Preciso subito che non si è trattato di un “pentimento” ma di una evoluzione. Quando ero ragazzino nessuno mi ha insegnato il rispetto per questi esseri viventi, anzi, allora più uccidevi più “balente” eri. Ho cacciato molto e di tutto sino a quando la cattura della selvaggina mi ha dato emozioni, ma quando ho iniziato a provare pena ho smesso perché non si può uccidere per gioco. E le due passioni possono coesistere? Per anni hanno utilizzato le mie foto per le riviste venatorie, ma la coesistenza tra le due attività è sempre stata molto problematica. Una forte spinta per la scelta definitiva arrivò dalla schiettezza senza mediazioni dei bambini delle scuole elementari. Spesso venivo invitato per far conoscere loro la fauna sarda. Ricordo quanto mi mettevano spalle al muro domande tipo: “Ma se ti piacciono così tanto perché li uccidi?”. Come agisce per uno dei suoi scatti? Il punto più importante è conoscere gli animali che si in-

Dall’alto: grifoni, aquila reale con preda e Domenico Ruiu tra i grifoni

tende riprendere. Poi decidere come fotografarli. Se si sceglie quest’arte bisogna sapersi muovere nel modo più naturale possibile nell’ambiente dove le specie vivono. Mentre per le riprese dal capanno è necessario conoscerne molto bene le abitudini per posizionarlo al momento giusto nei punti più favorevoli. Ci sono lavori che le hanno dato maggiore soddisfazione? Le foto di una Cerva minuta nella vastità delle dune di Piscinas e del suo mare, di un Astore sardo in una giornata di nebbia e neve nei boschi del Gennargentu e di un maschio di Gallina prataiola nel tripudio dei colori della primavera sarda sono state utilizzate nella prima mostra sulla biodiversità del Mediterraneo, tenutasi a Roma una decina di anni fa, diventandone icona. Quali sono i soggetti che preferisce ritrarre? La mia grande passione sono sempre stati gli uccelli rapaci. La fotografia agli uccelli da preda richiede una conoscenza molto approfondita delle caratteristiche comportamentali delle diverse specie; con quelle più sensibili occorre una grande capacità di autocontrollo per saper valutare il limite sin dove si può arrivare: nessuna immagine giustifica il superamento di tale limite. Ci può descrivere le differenze principali che ha riscontrato tra il territorio sardo e gli altri? Tenuto conto delle ovvie differenze climatiche e di vastità territoriale, il livello di naturalezza presente in molte parti della nostra isola è decisamente alto e giustifica l’idioma “Sardegna quasi un continente”. Inoltre il progressivo abbandono delle montagne e delle località più isolate sta facendo aumentare notevolmente tale livello e rendendo di difficile accesso molte zone che stanno diventando sempre più selvagge.


Foto Alessio Saba

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CEAS LAGO DI BARATZ Educazione ambientale e sostenibilità

di FRANCA FALCHI

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a giornata è calda e il cielo è terso di nuvole, il maestrale sulla costa arriva smorzato alle sponde di Baratz. È lo stesso vento che, 10 mila anni fa, l’ha creato durante l’ultima glaciazione, dopo un abbassamento del livello del mare, trasportando un’imponente duna di sbarramento nei tre affluenti che lo alimentano. Unico lago naturale in Sardegna, è situato nella Costa Nord Occidentale e appartiene interamente al territorio del Comune di Sassari che, nel 2000, vi ha istituito il CEAS (Centro per Educazione Ambientale e la Sostenibilità), all’interno del sistema INFEA

del Ministero Ambiente e della Regione Sardegna. Come ogni CEA, la sua missione è quella di contribuire alla conoscenza e far riflettere sul modo di porsi nei confronti dell’ambiente. La struttura, costruita con caratteristiche ecologiche e di risparmio energetico, ha aule didattiche, uffici, spazi espositivi e sala convegni e al suo interno è possibile visitare una mostra didattica permanente, con pannelli illustrativi, e una biblioteca tematica che rientra nel sistema bibliotecario comunale. Mi accoglie Paola, che con Adriana è una delle operatrici di Alea Ricerca e Ambiente, di Oristano, che opera da

tempo nel campo ambientale e che nel 2017 ha vinto il bando di gestione del CEAS per i successivi due anni. Mi illustra progetti e finalità didattiche mostrandomi dove gli scolari, di ogni ordine e grado, svolgono laboratori legati alla sostenibilità e al consumo consapevole, per ottenere stili comportamentali compatibili con le risorse naturali. Qui scoprono il riutilizzo dei materiali di scarto, sperimentano la creazione della carta riciclata con l’uso di strumentazioni e giochi didattici. Il Centro propone attività sia in aula che all’aperto, completamente gratuite per le scuole del Comune di Sassari, ma anche programmi extra comunali. I laboratori sul campo prevedono l’esplorazione diretta con percorsi dinamico-interattivi, dove i bambini vengono guidati alla scoperta attraverso i sensi e si incuriosiscono su habitat, animali e piante. Con metodologie calibrate alle esigenze della classe, scoprono i molteplici intrecci di relazioni tra i vari viventi, e tra essi e il loro ambiente.


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Spostandoci all’esterno, attraverso un giardino con le principali essenze della macchia mediterranea, Paola mi conduce verso uno dei sentieri dell’area. Baratz è incluso nella ZSC (Zona Speciale di Conservazione) della Comunità Europea “Lago di Baratz-Porto Ferro”, sono circa 1300 ettari compresi in parte nel Parco Naturale Regionale di Porto Conte, che vantano 18 habitat di interesse comunitario, 2 dei quali prioritari; 114 specie animali e 22 vegetali di interesse conservazionistico. Attraversiamo una vasta pineta, impiantata negli anni 50 con un cantiere forestale, composta da diverse specie di conifere quali il pino d’Aleppo e il pino domestico. Il sottobosco, coperto da aghi di pino, lascia poco spazio alla macchia che si sviluppa maggiormente nelle radure aperte, più vicine alle sponde del lago. Essenze quali erica e ciclamino testimoniano la pregressa lecceta ormai rara, mentre dominano il lentisco, l’olivastro, il corbezzolo, il mirto, i cisti, le orchidee selvatiche e la palma nana, simbolo dell’area. In questa parte del percorso sono numerose le tracce dei cinghiali che rivoltano la terra in cerca di cibo arandola nel profondo.

Lasciando la pineta alle spalle, possiamo finalmente godere dello spettacolo del lago: una vasta distesa azzurra dall’aspetto magico e suggestivo. Gran parte della magia è data dagli scheletri delle tamerici, disposti ad anelli concentrici ad indicare le variazioni del livello dell’acqua. Un primo cerchio è completamente immerso a testimonianza di un periodo di grave siccità che ha sfiorato la sua estinzione. Il lago ha degli immissari ma è privo di emissari, è collegato al mare di Porto Ferro con un’esigua perdita sotterranea che origina una sorgente dolce sul litorale. Le attività didattiche si svolgono in gran parte nella sponda sabbiosa dove, tra tife, canne palustri e giunco pungente è possibile, con binocoli e cannocchiali, osservare le specie di uccelli che si nascondono sulle rive o che si cibano sulla superficie del lago. Le folaghe fanno da padrone, sono tantissime e il loro vociare chiassoso fa a gara con quello dei gabbiani. Non è difficile osservare i piccoli tuffetti col loro caratteristico modo di immergersi, i germani reali con la livrea iridescente o lo svasso maggiore con la cresta nell’accoppiamento mentre, purtroppo, sono sempre più rari gli aironi.

La grande disponibilità di cibo sia degli ambienti umidi che di macchia, con numerose bacche e frutti, fa sì che il lago sia frequentato nel periodo autunnoinverno da diversi uccelli migratori e svernanti, essendo anche uno dei primi lembi di terra dopo la lunga traversata. Molte di queste specie sono di rilevante interesse scientifico, tra le quali i rapaci notturni, che sono facilmente osservabili, e ai quali sono dedicate delle serate particolari di osservazione, mentre i limicoli sono monitorati nell’ambito di censimenti periodici. Paola mi racconta di come i bambini rimangano incantati nel vedere il rospo smeraldino, la raganella e il discoglosso sardo, al pari della testuggine comune e quella d’acqua dolce o le molteplici esuvie che decorano giunchi e tamerici quando le libellule si sono involate. Alcune attività sono aperte anche ad un pubblico extrascolastico: in aprile è previsto un fine settimana di fotografia naturalistica, la presentazione di un libro ed il laboratorio della carta. A maggio Monumenti Aperti, in cui gli operatori di Alea illustreranno le specie e le priorità dell’ecosistema.


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TORNA A CAGLIARI IL FESTIVAL DEL GIOCO E DEL FUMETTO DELLA SARDEGNA di ALESSANDRO LIGAS

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l 19 e 20 maggio, presso il polo fieristico dell’Hotel Setar, a Quartu Sant’Elena, si rinnova l’appuntamento con l’edizione numero 13 di Giocomix, il festival del gioco e del fumetto della Sardegna, organizzata dall’associazione culturale Mondi Sospesi. La due giorni ha l’obiettivo di sdoganare l’idea che il gioco e il fumetto siano destinati solo ad un pubblico molto giovane, perché gli appassionati di questo mondo sono tanti e di tutte le età. Un avvenimento, nato nel 2010, che si è lentamente affermato come il più importante festival del gioco e del fumetto dell’area metropolitana di Cagliari e come punto di riferimento per tutta la Sardegna “Il Giocomix è un mix di cultura ed in-

trattenimento – racconta Eleonora Guggeri presidentessa di Mondi Sospesi - in cui trovano spazio centinaia di tavoli da gioco, mostre, fumetti, imperdibili pezzi da collezione, spettacoli, incontri con grandi autori, celebrità di internet, tornei, videogiochi, nuove tecnologie, raduni tematici. Questo è solo per citare alcuni degli eventi che si sono tenuti durante le scorse edizioni e che si terranno anche in quella del 2019”. Durante l’edizione dello scorso anno la due giorni dedicata al fumetto ha richiamato quasi 9000 visitatori tra appassionati e curiosi. “Nel corso degli anni Giocomix è cresciuto tanto – prosegue la presidentessa - aprendosi piano piano a nuovi fenomeni della cultura pop. A una crescita dei contenuti è seguita quella del numero di visitatori e inevitabilmente dei suoi

spazi. Ogni anno cerchiamo di capire le tendenze delle fiere nazionali ed internazionali e di andare incontro ai gusti dei giovani che si avvicinano a questo mondo, senza però scontentare chi ne fa parte da tanti anni. Riteniamo importante che l’evento sia un punto di incontro tra più generazioni”. La prima edizione di Giocomix si svolse nel 2010 al Lazzaretto di Cagliari in supporto a una mostra di Daniele Serra e Stefano Obino, a cui parteciparono meno di 500 appassionati. “Un anno quello che ha cambiato il futuro dell’associazione – prosegue Eleonora Guggeri -. Negli anni la manifestazione ha cambiato location, ed è andata in un continuo crescendo come spazi e numero di visitatori arrivando a superare le 8000 presenze”. Nel 2011 la manifestazione si è


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svolta all’Ex Liceo Artistico di Cagliari, in Piazzetta Dettori, ed ha registrato circa 800 presente. L’anno successivo, il 2012, al Palaghiaccio Cagliari, in viale Monastir presso il Capo Horn, dove si sono contate circa 1200 presenze. Nel 2013 e nel 2015 si è tornati al Lazzaretto dove si sono registrate rispettivamente 2500 e 5000 presenze. Dall’autunno del 2016 l’evento ha trovato casa presso il centro fieristico dell’Hotel Setar a Quartu S.E., dove sono state registrate oltre 8000 presenze. Come la scorsa, anche la XIII edizione verrà ospitata in quattro padiglioni a cui si aggiungono anche le nuove aree esterne. “Quella di quest’anno – prosegue la presidentessa - sarà un’edizione più accessibile per le famiglie con tantissime attività, gare ed esperienze gratuite: abbiamo un ricco programma che coinvolgerà davvero tutti, anche grazie alle aree tematiche suddivise per età”. Saranno disponibili nuove postazioni di Playstation VR gratuite per permettere a tutti di provare il fantastico mondo della realtà virtuale. Tornano al centro dell’attenzione i cosplay e le gare tra i costumi. Ci saranno sempre più tavoli da gioco e postazioni per giocare liberamente. Sarà presente una nuova area dedicata al fumetto e una alla creatività, uno spazio mostra e una rinnovata sala conferenze. Sarà possibile partecipare a tantissimi tornei gratuiti di videogiochi e giochi di carte collezionabili ai quali ci si potrà iscrivere direttamente online sul sito del Giocomix. Oltre i giochi da tavolo, i giochi di ruolo, i videogiochi e i giochi di miniature arriva un’area per i più piccoli, con tanti giochi ed esperienze, capace di intrattenere i visitatori dai 3 anni in su. Non solo LEGO, come la scorsa edizione, ma nuove aree per i più piccoli e per le famiglie. Durante l’evento torneranno i grandi raduni di Harry Potter e di Star Wars, il kpop contest, le musiche più belle dei cartoni animati e tante iniziative sulle serie TV del momento. “Prima del Giocomix – prosegue Guggeri - non esisteva un vero evento che racchiudesse in un unico luogo tutti gli appassionati del gioco e del fumetto. A dirla tutta i futuri fondatori e molti soci erano già attivi nell’organizzazione di eventi più piccoli e attività ludiche prima ancora della costituzione dell’associazione, avvenuta nel 2007 con lo scopo di diffondere la cultura del gioco, del fantastico e del fumetto in Sardegna. Diciamo pure che noi organizzatori siamo i primi fan del Giocomix, lo siamo sempre stati e abbiamo dedicato molto tempo

e risorse per farlo crescere. Siamo grandi appassionati del mondo comics and ga‐ mes. Abbiamo per anni preso parte ai grandi eventi nazionali osservando la crescita del più celebre evento nazionale Lucca Comics & Games e di tutto questo mondo. Partendo da quello che accadeva in continente abbiamo pensato che anche la Sardegna dovesse avere un piccolo assaggio di ciò che avevamo vissuto in prima persona”. Il biglietto giornaliero costa 6 euro, ma all’interno del Festival tutte le attività di gioco, compresi i tornei, saranno completamente gratuite. Ulteriori informazioni e il programma completo si può trovare al sito internet giocomix.it.


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di ANNALISA MURRU

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Franco Columbu

ardo, il più basso campione di body building di tutti i tempi. Per alcuni potrà non essere immediato capire di chi si tratta, ma basta un ulteriore indizio per poter scrivere senza ombra di dubbio un nome e un cognome: è l’unico italiano ad aver vinto per ben due volte il primo premio al concorso Mister Olympia, divenendo un pilastro del culturismo mondiale. Parte da Ollolai, piccolo paesino del nuorese, e si sviluppa in California l’incredibile storia di Franco Columbu, campione di body building, affermato medico chiropratico e preparatore sportivo che incarna in pieno la realizzazione del “sogno americano”. Oggi ha 77 anni e vive stabilmente in America, ricevendo i clienti nei suoi studi a Los Angeles. La sua vita, da ragazzo, era una vita come tante altre in quel di Ollolai. Pastore e contadino, si divertiva a sfidare i coetanei in gare di forza e venne notato dal proprietario di una palestra del paese, che lo incoraggiò a provare la boxe. Iniziò così, all’età di 16 anni, a praticare quello sport che la mamma non vedeva di buon occhio; lo accusava di non avere voglia di lavorare e di cercare un guadagno facile “facendo a pugni con altri ragazzi poveri”. Columbu aveva grandi ambizioni, voleva diventare come quei pugili e quegli atleti muscolosi che vedeva in TV e che tanto am-

mirava, e per questo decise di lasciare la sua terra. Aveva 18 anni quando partì per la Germania, direzione Monaco di Baviera. Lavorava come manovale e si allenava nelle discipline del powerlifting e del sollevamento pesi, quando, nel 1965, incontrò Arnold Schwarzenegger, ai tempi un immigrato come lui che praticava il body building. Quel giorno si ritrovarono a chiacchierare con una birra in mano, subito dopo una competizione sportiva, scoprendo di avere tanto in comune: la solitudine che spesso attanaglia chi lascia il proprio paese, e la passione per gli sport di forza unita alla voglia di diventare “qualcuno”. Si allenavano insieme, inizialmente con pesi di cemento costruiti da Franco, e il loro legame divenne indissolubile, tanto che nel 1968 Arnold decise di spostarsi in America e Franco lo seguì l’anno successivo. Furono anni di grandi sacrifici, con giornate serrate divise tra il lavoro autonomo di muratori e quattro ore di allenamento quotidiano presso la palestra Gold’s Gym, a Los Angeles. Condividevano una stanza a Santa Monica e mentre Franco cucinava, Arnold preparava le proteine. In quell’ambiente stimolante, Columbu cominciò a farsi notare, soprattutto per il contrasto dato dalle sue caratteristiche fisiche messe in relazione ai risultati in gara. Infatti, con un’altezza di 1,65 metri e un peso di 85 chili, riuscì a firmare record mondiali nella


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disciplina del powerlifting. I numeri sono impressionanti: sollevò 340 chili nell’esercizio dello stacco da terra, 238 chili nella distensione su panca piana e 297 chili nello squat. La carriera nell’ambito del body building fu una vera e propria scalata senza sosta, a partire dal titolo di Mister Italia del 1968, passando per i titoli di Mister Mondo e Mister Universo, e segnando, infine, l’entrata nella storia della disciplina. Vinse due concorsi di Mister Olympia, il più pre-

stigioso esistente, nel 1976 e nel 1981, sbaragliando una concorrenza esteticamente avvantaggiata sotto il piano dell’altezza e con una straordinaria condizione fisica. I suoi punti di forza, nonché i principi cardine della sua filosofia del body building, furono l’allenamento mirato e con una buona base calistenica, un’alimentazione ricca anche di carboidrati, l’attenzione particolare alle proporzioni del corpo, all’aspetto della pelle naturalmente ab-

bronzata e alla presentazione sul palco (il posing, in gergo tecnico) che non doveva apparire troppo fittizia. Inoltre, Columbu migliorò il suo piano di preparazione atletica mano a mano che lo studio dell’anatomia all’università andava avanti. La vincita del 1981 arrivò in seguito a un grave infortunio che lo costrinse a fermarsi per diversi anni e non mancarono le polemiche sulla sua forma fisica, in particolare sulle gambe, poco sviluppate

a detta di alcuni. Furono formidabili, invece, la routine di posing e lo sviluppo dorsale, pettorale e delle braccia. Columbu è noto anche per alcune spettacolari esibizioni; famosissimi la borsa dell’acqua calda gonfiata con il solo fiato fino a farla scoppiare, e il sollevamento di automobili durante il cambio di una ruota, che gli valsero l’appellativo di strongman italiano. Dottore dal 1977, esercita la professione tutt’oggi ed è autore di uno dei manuali più accreditati per aspiranti body builder, “Franco Columbu’s Complete Book of Bodybuilding”, che fornisce le linee guida su allenamento, alimentazione e ogni altro aspetto che concorre a determinare una condizione fisica vincente. A lui è dedicato il Columbu Championship, concorso internazionale di culturismo che si tiene in Sardegna dal 2016 sotto l’organizzazione di Franco Dente e per il quale il campione torna nella terra natia una volta all’anno. Columbu attribuisce i suoi successi alle sue origini. Il cibo locale, unito alla “rabbia positiva” di chi nasce in umili condizioni, furono secondo lui la marcia in più per competere con atleti esteticamente più predisposti. “La maggior parte delle palestre possono essere suddivise in due segmenti. Ci sono membri che socializzano, e ci sono i campioni”, si legge sul suo sito. La mamma, in seguito, divenne molto fiera di lui.


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UP&DOWN

Creatori di Versi – Teatro, Cinema, e all’improvviso un Libro

di HELEL FIORI

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aper cogliere le opportunità. Trovare la propria strada, sentirsi utili, realizzati. Le mille chiavi diverse con cui cerchiamo di aprire sempre la stessa porta. Qualche volta però il destino non bussa, anzi, la porta la spalanca, e guardandoti dritto negli occhi ti domanda se sei davvero pronto a vivere. A Giovanni Mura è successo così nel 1989, quando durante una ordinaria lezione di educazione fisica si è trovato davanti il proprio destino che lo fissava con “gli occhi a mandorla” – come dice lui – di Antonella Usai. Antonella, ra-

gazza senza età, la prima di una lunga serie di allievi che hanno trasformato Giovanni da semplice insegnante di scienze motorie a fondatore assieme a Sara Colombino dell’Associazione no profit Up&Down, da anni promotrice di laboratori presso il connesso Centro di Riabilitazione socioeducativo che vanta moderni approcci a supporto di persone con disturbi specifici dell’apprendimento. Il Centro con sede a Sassari intreccia metodologie ABA (Applied Behaviuor Analysis, analisi del comportamento) e CBT (terapia comportamentale), oltre a fornire un apporto formativo anche per i genitori, che spesso presenziano e collaborano ai laboratori d’arte, di psicomotricità, di musico-terapia e di logopedia proposti. Giovanni (insieme a Denise, Chicca, Romano, Gavino e Franca) dal 2003 si occupa del laboratorio teatrale, e la sua compagnia di diciotto ragazzi e ragazze ha portato in scena ad oggi una decina di spettacoli, riuscendo nel 2010 a conquistare il secondo posto all’importante Festival internazionale delle abilità differenti di Carpi (MO);

un’altra pietra miliare della loro esperienza corrisponde sicuramente alla scrittura dell’ultima commedia rappresentata dal titolo Verità Nascoste ed ispirata alla drammaturgia napoletana. Qui il coinvolgimento dei ragazzi si è allargato da “semplici” attori a ideatori della trama, e il mettersi in gioco maggiormente ha donato loro soddisfazioni inaspettate nel 2017, quando hanno messo in scena lo spettacolo al Carcere di Alghero riuscendo ad accedere a quel sommerso sociale che è la realtà carceraria, dove hanno saputo intessere importanti rapporti umani. In questi quindici anni la crescita attoriale dei ragazzi è stata dunque esponenziale: dal semplice spettacolo corale degli albori si è passati alla necessità di studiare a memoria il copione e fare propri i tempi comici, delineare personaggi, guadagnare nuove forme d’espressione. L’aumento della complessità delle rappresentazioni ha reso necessario l’utilizzo di un escamotage tecnico, ovvero l’innesto di scene video all’interno della narrazione che snelliscono i cambi scena e le variazioni di trucco; evoluzione che l’anno scorso ha suggerito loro un nuovo progetto gigantesco: nientemeno che fare un film. Qualche indiscrezione sulla storia ce la dà Giovanni, autore della sceneggiatura: Mondiali ’82. L’Italia non è certo tra le favorite,


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ma contro ogni pronostico il triplice urlo Campioni del Mondo! di Nando Martellini sconvolge di gioia il Paese più del finale 3-1 contro la Germania Ovest. Questi eventi fanno da sfondo al dispiegarsi di un giallo, dove l’andamento della vita dei protagonisti si assimila alla risalita degli Azzurri. Scopriamo che durante una sessione di lettura del copione, dove una delle protagoniste si ritrova ad aprire un diario e a leggere una poesia (in origine scritta da Giovanni) uno degli attori ha lasciato gli altri a bocca aperta dicendo: “anche io ho scritto una poesia”. Porta sempre con sé l’unica copia stampata di un testo dedicato alla notte, una notte di insonnia, una notte di ripensamenti. Leggendo quel testo ha dato il via alle confessioni: molti altri hanno scritto poesie. Da lì la naturale esigenza di confrontarsi, di leggere i componimenti, di condividere gli intimi pensieri. Dall’iniziale percorso teatrale si arriva così a un laboratorio di poesia in cui comunicare la propria interiorità senza blocchi, liberi dall’imbarazzo, supportati dalle famiglie e guidati da Giovanni che davanti ai tanti testi raccolti ha voluto spronarli ulteriormente dicendo:

“Facciamo un libro?”. Ed è così che il mosaico di voci ha preso forma sotto il titolo Raccolta di poesie dritte e storte, pubblicato grazie a Carlo Delfino Editore che ha curato anche la grafica della copertina disegnata da Denise, una delle volontarie, e grazie anche alla Fondazione Sef Torres 1903 che ne sponsorizza la stampa. Il libro è composto da circa una quarantina di poesie frutto dell’impegno e della creatività espressi durante i laboratori, e la sua pubblicazione è attesa in contemporanea con l’inizio delle riprese del film per aprile/maggio. Leggiamo nella prefazione le parole di Giovanni da cui traspare lo stesso sorriso con cui ci ha accolto di persona: “Tutto è stato spontaneo, semplice, naturale. Ognuno di loro aveva bisogno di un pretesto, di una occasione per raccontare un pezzo di sé. Spero, mi auguro, che chiunque – mi accontenterei anche di un po’ di meno – legga questa raccolta di poesie abbia una occasione per capire che seppur l’involucro è brutto e sgualcito all’interno nasconde un profumo e un sapore dolce come una caramella alla frutta.” Per maggiori informazioni sul progetto e sulle attività dell’associazione si può visitare la pagina Facebook @progettoupdown o scrivere una mail ad updownsassari@tiscali.it. Per il Centro segnaliamo il numero 3931939356 (anche WhatsApp) e l’indirizzo della sede in Via Ugo La Malfa 25 ang. Via Forlanini 14 a Sassari.


Quel viaggio attraverso l’Europa che, nel corso dell’Ottocento, i giovani intraprendevano per conoscere il mondo, lo proponiamo qui lungo il Bel Paese, alla scoperta delle nostre Regioni d’Italia.

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VIAGGIO IN ITALIA Le Due Sorelle, la Mole Vanvitelliana e la Sfera Grande di Arnaldo Pomodoro a Pesaro

di DANIELE DETTORI

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i caliamo nel versante adriatico, pronti per affacciarci sulle bellissime acque che lambiscono la nostra penisola, questo mese dalle morbide e pianeggianti coste delle Marche. Be’, non completamente pianeggianti in realtà: il Monte Conero, per esempio, è un promontorio ricoperto di vegetazione che domina il mare nelle vicinanze della spiaggia di San Michele, in località Sirolo nella provincia di Ancona. Al suo complesso roccioso appartengono i faraglioni chiamati Le Due Sorelle, che si ergono nel mare al di sotto delle bianche falesie. Più turistica e dorata si presenta invece la spiaggia di Senigallia, conosciuta anche come “spiaggia di velluto” per la sua particolare consistenza al tatto e pluripremiata per la qualità del suo mare.

Ma lasciamo le coste, sempre piacevoli quanto ricche nelle nostre Regioni, e spostiamoci nei centri abitati per conoscere meglio la storia e la cultura marchigiane. Iniziamo con Ancona e con il suo bellissimo porto: si tratta del primo per importanza e traffico in Italia e il suo nucleo originario sembra risalire addirittura a quasi quattrocento anni prima di Cristo. Sopra un isolotto artificiale che si affaccia sulle sue acque sorge l’antico lazzaretto, noto anche come Mole Vanvitelliana, dalla inequivocabile forma pentagonale. Se ci spostiamo all’interno del centro abitato scopriamo una città dalla storia millenaria. La chiesa di Santa Maria della Piazza, per esempio, costruita tra il 1100 e il 1200, sorge sui resti di una chiesa molto più antica che risale, all’incirca, all’epoca del primo porto. Se guardiamo alle facciate degli edifici storici – tra gli altri il Duomo – no-

MARCHE tiamo come gli stili romanico e bizantino abbiano lasciato segni caratteristici sull’architettura cittadina. Ancora, Piazza del Plebiscito, nota come Piazza del Papa in onore del settecentesco Clemente VII, accoglie i visitatori nel cuore di Ancona con il suo Palazzo del Governo e la Torre dell’orologio. Spostandoci più a nord troviamo le città di Pesaro e Urbino, vere chicche artistiche e culturali. Pesaro, in particolare, è rinomata per essere città della ceramica e per il delicato simbolo della rosa che sulle sue pregiate maioliche viene raffigurato. A Urbino, città natale di Raffaello, il Rinascimento si respira a ogni angolo di strada così come nelle numerose raccolte museali ed è impensabile non regalarsi un giro nel centro storico che, dal 1998 è considerato Patrimonio dell’Umanità.

Verso sud passiamo invece per Macerata, dove ci soffermiamo in particolare sul polmone verde della città: i Giardini Diaz. Nati nel 1897, sono stati restituiti al pubblico nel 1998 dopo un felice restyling. Al loro interno si possono seguire diversi percorsi arborei, portare i bambini a divertirsi nell’apposita area giochi o svolgere attività di puro relax. Infine, se andando a visitare le restanti province di Fermo e Ascoli Piceno sentite un languorino, è tempo di mettere qualcosa sotto i denti. Gli ottimi salumi e formaggi marchigiani possono accompagnare una aperitivo in centro città, mentre i vincisgrassi (tipiche lasagne al forno) rappresentano un validissimo primo piatto. La pizza di Pasqua, poi, è una torta salata a base di uova, pecorino e Grana che si consuma proprio in questo periodo.


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DINAMO SASSARI, VOLATA FINALE PER UN POSTO NEI PLAYOFF LA SQUADRA DI COACH POZZECCO PROSEGUE ANCHE IL PROPRIO CAMMINO IN EUROPA di ERIKA GALLIZZI Foto LUIGI CANU

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eriodo determinante per la Dinamo Banco di Sardegna Sassari. Ancora in corsa, sia sul fronte playoff del campionato che su quello della Fiba Europe Cup, la squadra allenata da coach Gianmarco Pozzecco si gioca tutto in questa volata finale. Non tra poche difficoltà, ovviamente, soprattutto per quanto riguarda il campionato, dove il Banco è atteso da scontri ad alto quoziente di difficoltà. Ma cosa è successo, ultimamente, in casa Dinamo? Senza intoppi il cammino in Europa, in cui i sassaresi hanno superato gli ottavi di finale, sbarazzandosi con un netto 2-0 dello ZZ Leiden (andata fuori casa più difficoltosa, ritorno al PalaSerradimigni decisamente “sul velluto”, quantomeno la seconda parte di gara) e si sono aggiudicati il match di andata dei quarti, sul campo turco del Pinar Karsiyaka, fornendo una buonissima prova. In campionato, invece, la Dinamo fatica di più ed il ruolino di marcia dell’ultimo mese è stato di due vittorie e altrettante sconfitte. Il Banco ha ceduto, di fronte ai propri tifosi, alla Vanoli Cremona degli amati ex Meo Sacchetti e Travis Diener, rimediando sul campo un 100-105 (dopo la disputa di un tempo supplementare), poi trasformato, a tavolino, in uno 0-20, dal momento che coach Pozzecco è andato in panca nonostante dovesse scontare un turno di squalifica, per un provvedimento disciplinare risalente al finale della scorsa

stagione, in cui guidava la Fortitudo Bologna. Successivamente, i biancoblù sono usciti sconfitti dal campo della vice-capolista Reyer Venezia (90-98), mentre hanno espugnato il PalaCarrara di Pistoia, in una partita non certo entusiasmante, ma nella quale i due punti erano troppo importanti per poter fare gli “schizzinosi”. Davvero ottima, invece, è stata la netta vittoria con la Dolomiti Energia Trento (88-70), in cui i biancoblù hanno dato ottimi segnali sia dal punto di vista offensivo che difensivo. Per quanto riguarda i singoli, le ultime partite, in particolare quella col Karsiyaka, hanno restituito alla Dinamo un Jack Cooley dominante sotto le plance, cosa che mancava da un po’ di tempo. Proseguono, inoltre, i progressi di Dyshawn Pierre, che ora gioca con fiducia e secondo il suo potenziale, e del playmaker Jaime Smith, pedina importante nello scacchiere biancoblù, mentre pare investito di maggiori responsabilità Rashawn Thomas, che risulta piuttosto intraprendente (a volte con esito positivo, altre un po’ meno). “Rifiutando” le zone poco confortevoli della classifica, il Banco punta ad un posto nei playoff, quota che in classifica dista due punti, in un finale di stagione regolare che presenta anche impegni poco agevoli. La Dinamo, infatti, attende al PalaSerradimigni la Virtus Bologna, poi farà visita alla capolista Milano. Proseguendo il mese di aprile, prima arriverà a Sassari la Scandone Avellino, poi i biancoblù voleranno a Pesaro e, infine, ospiteranno la Leonessa Brescia.


#cinguettii tecnologici a cura di Marco Cau

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È L’ORA DELLA VERITÀ ULTIME QUATTRO PARTITE PER LA SALVEZZA DIRETTA di ERIKA GALLIZZI Foto ROBERTO TRONCI

H

ertz Cagliari Dinamo Academy: una squadra davvero difficile da comprendere fino in fondo. Perde con squadre teoricamente alla portata, poi va a vincere su campi impensabili, pare allergica al PalaPirastu, dove ha colto solo tre successi in tutto l’anno, mentre si trova meglio lontana dalle mura amiche (cinque vittorie). Un rebus, insomma, la squadra di coach Alessandro Iacozza, con un desiderio: la salvezza diretta. La zona retrocessione, al momento, è stata sensibilmente distanziata, ma non abbastanza per essere tranquilli (è lontana solo 4 punti), ma l’ideale sarebbe allontanarsi anche dalla quota playout, ora due punti più in basso. Mancano solo quattro partite alla fine della regular season, con due scontri diretti fondamentali per il raggiungimento dell’obiettivo. Il primo sarà con la Bakery Piacenza, penultima in classifica a quota 14 punti (due in meno rispetto alla Hertz), il secondo sul campo della Termoforgia

Jesi, che divide la posizione proprio con Piacenza. Il finale della fase regolare, poi, prevede due impegni proibitivi: con la Fortitudo Bologna e sul parquet della XL Extralight Montegranaro, rispettivamente capolista e vice-capolista del girone Est della Serie A2. Se la Hertz vuole riservare qualche altra sorpresa negli ultimi due turni, ci sarebbe solo da esserne felici, ma è certo che gli scontri diretti, questa volta, non devono essere falliti. Purtroppo non è andata bene con l’Assigeco Piacenza, con la quale l’Academy ha perso per 77-80, dopo un match caratterizzato da rapidi capovolgimenti di fronte e concluso con una tripla di Murry a pochi secondi dalla sirena finale. Una settimana dopo, si è rifatta sul campo del G.S.A. Udine (di due ex della Dinamo Sassari: Mauro Pinton e Francesco Pellegrino) imponendosi per 70-68, recuperando da un -8 toccato nel corso del terzo quarto, mettendo per la prima volta il naso avanti in avvio di ultima frazione e chiudendo il match con Justin Johnson e Andrea Picarelli freddi dalla lunetta.

Marco Allegretti

Tornando al discorso precedente: l’Assigeco Piacenza viaggiava in classifica con quattro punti in più rispetto a Cagliari, mentre Udine con ben sedici in più, zone alte della classifica e piena quota playoff. Il bello del basket e dello sport in generale, spesso imprevedibile e, per questo, sempre terribilmente affascinante ed attraente. Nella partita con Udine coach Iacozza ha puntato su una “novità” sulla quale stava lavorando da tempo: proporre

Marco Allegretti nel ruolo di ala piccola, viste le sue caratteristiche atipiche o forse “moderne” (per un lungo) e la propensione ad allontanarsi dal canestro. Inoltre, l’Academy ha potuto contare, dopo tanto tempo, su Ousmane Diop, lasciato a sua disposizione dalla Dinamo Sassari per questo importante e difficile finale di stagione. L’ultima sconfitta è arrivata, poi, con la Pompea Mantova, in una gara ben presto indirizzata sui binari degli ospiti.

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Il dentista risponde

Il Dott. Giuseppe Massaiu è un professionista di riferimento e opinion leader in tema di Odontoiatria Naturale e Biologica, insegna in corsi frontali e on-line argomenti clinici ed extra-clinici legati al mondo della Odontoiatria e della Medicina Naturale, Posturale e Olistica oltre che del Management e del Marketing Odontoiatrico. Vectorvstocker - stock.adobe.com

Curiosità sul mondo odontoiatrico

Quali sono le cause della malattia parodontale?

I

n primo luogo è bene sapere che cos’è la malattia parodontale. Nello specifico è lo stadio finale di un’infezione nata e sviluppata all’interno della nostra bocca e che interessa l’osso di sostegno dei denti e le gengive. Il livello iniziale è la gengivite. Tutte le volte che è presente, si assiste al sanguinamento delle gengive quando si spazzolano i propri denti. Quando non viene individuata e trattata per tempo, l’infezione attacca non solo la gengiva, ma anche le ossa che tengono stabili i nostri denti, che alla lunga iniziano a “bal-

lare” e, se non si interviene con tempestività e professionalità, a cadere. Un tempo questa malattia era chiamata piorrea e veniva considerata come un male necessario, legato all’invecchiamento. Ora, invece, siamo ben consapevoli che le sue origini sono quasi del tutto dovute alla poca prevenzione o ad abitudini alimentari o di vita scorrette. Le cause principali per lo sviluppo della malattia paradontale sono la presenza di placca batterica all’interno del solco gengivale, oppure il contatto scorretto tra i denti, detto malocclusione, che provoca

attrito ed erosione tra loro, incrementando il rischio d’infezioni. In tale contesto un grande alleato di questa malattia è il fumo. La nicotina presente nel fumo di sigaretta, infatti, crea problemi circolatori a livello sia gengivale che osseo, indebolendo entrambi e rendendoli più vulnerabili alle infezioni. A questi due fattori si aggiungono, in proporzione meno rilevante: Predisposizioni genetiche; Stato di gravidanza; Malattie sistemiche come, ad esempio, il diabete.

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La malattia parodontale è subdola, spesso infatti non fornisce, a chi ne è vittima inconsapevole, dei particolari segni esteriori, perlomeno fino a che non raggiunge una fase avanzata e, quindi, spesso di difficile soluzione. Per tale motivo sarebbe bene richiedere, durante le visite di controllo dal proprio dentista, un sondaggio parodontale. Questo è un semplice esame che permette di verificare in modo rapido e sicuro se la malattia parodontale è presente. In tal modo si può subito intervenire con la sua cura. Un grande alleato nella prevenzione della malattia parodontale è l’igienista dentale. Questa figura è specializzata non solo nella pulizia dei denti o detartrasi, ma anche nel fornire utili consigli, relativi alle corrette manovre d’igiene da eseguire a casa. Come dico sempre, i rimedi migliori risiedono nell’anticipare il sorgere del problema, piuttosto che intervenire quando il danno è ormai fatto. Ogni mese il Dott. Massaiu risponderà ad uno di voi. Inviate le vostre domande a: dott.massaiu@shmag.it. www.studiomassaiu.it

I

Impronta digitale in 3D Ortodonzia invisibile “Invisalign” Interventi in sedazione cosciente Implantologia avanzata a carico immediato Cura precoce della malocclusione nel bambino Sassari | Via Alghero 22 Nuoro | Via Corsica, 15 079 273825 | 339 7209756 Informazione sanitaria a carattere informativo non promozionale e non suggestivo secondo il comma 282 della legge 248 del 04/08/2006 - Direttore Sanitario Andrea Massaiu Odontoiatra, Iscr. Albo Odontoiatri di Sassari n° 623


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