Espoarte Digital 99 e 1/2

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digital Cover Artist Anna Skoromnaya Interviste

OMAR GALLIANI AQUA AURA MANUELA BEDESCHI JERNEI FORBICI

SPazi

CENTRO ARTI E SCIENZE GOLINELLI

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99 ½


special edition • coming soon arte fiera bologna 2/5.2.2018


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ESPOARTE DIGITAL #99 ½ Espoarte Digital è un progetto editoriale di Espoarte in edizione esclusivamente digitale, tutto da sfogliare e da leggere, con i migliori contenuti pubblicati sul sito www.espoarte.net e molti altri realizzati ad hoc.

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Cover

ANNA SKOROMNAYA, Cream Hand Mixer #1, serie Kindergarten, 2017. Foto: Andrea Parisi

indice

SU QUESTO NUMERO SI PARLA DI...

ESPOARTE Registrazione del Tribunale di Savona n. 517 del 15 febbraio 2001 Espoarte è un periodico di arte e cultura contemporanea edito dall’Associazione Culturale Arteam. © Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l’autorizzazione scritta della Direzione e dell’Editore. Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile alla redazione per la pubblicazione di articoli vanno inviati all’indirizzo di redazione. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista. Tutti i materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti.

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ARTE & IMPEGNO CIVILE: LE OPERE DI ANNA SKOROMNAYA Intervista ad ANNA SKOROMNAYA di Matteo Galbiati

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LA BELLEZZA ANTICA DEL DISEGNO NELLA CONTEMPORANEITÀ DELLA POETICA DI GALLIANI Intervista a OMAR GALLIANI di Matteo Galbiati

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AQUA AURA: DARE FORMA AL SENTIMENTO ENIGMATICO Intervista ad AQUA AURA di Francesca Caputo

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PABLO ATCHUGARRY: UNA SCULTURA CHE SUPERA I CONTRASTI di Matteo Galbiati

20 JERNEJ FORBICI. RITORNO AL FUTURO… Intervista a JERNEJ FORBICI di Francesca Di Giorgio 24

Editore Ass. Cult. Arteam Direttore Editoriale Livia Savorelli Publisher Diego Santamaria Direttore Web Matteo Galbiati

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THE AB FACTORY: UN IDEALE DI COLLABORAZIONE SECONDO ANDREA CONCAS Intervista ad ANDREA CONCAS di Davide Mariani

26 MATTEO MONTANI: UN LENTO CROMATISMO LATENTE… Intervista a MATTEO MONTANI di Matteo Galbiati 28 IL COLORE SI FA ICONA, SI LASCIA DECANTARE IN UN’AMPOLLA PER POI SPLENDERE IN UNA COSTELLAZIONE Intervista a ISABELLA NAZZARRI di Luisa Castellini 30 UNA LUCE CHE PERMANE: GLI INTERVENTI RECENTI DI MANUELA BEDESCHI Intervista a MANUELA BEDESCHI di Matteo Galbiati 32

CARAVAGGIO, UN MITO CHE TORNA A MILANO di Matteo Galbiati

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RADICALI PER SEMPRE di Alessandra Frosini

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RISCOPRIRE FONTANA, ANCORA UNA VOLTA di Kevin McManus

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A MILANO RIVIVE LA RIBELLE CONTESTAZIONE DEL ’68 di Matteo Galbiati

Art Director Elena Borneto

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CENTRO ARTI E SCIENZE GOLINELLI: IL FASCINO “IMPREVEDIBILE” DEL FUTURO di Isabella Falbo

Redazione grafica – Traffico pubblicità villaggiodellacomunicazione® traffico@villcom.net

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MANHATTAN IN SARDEGNA: BETTINA POUSTTCHI AL MUSEO NIVOLA di Davide Mariani

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GIULIO PAOLINI. OPERE SU CARTA: UN LABORATORIO GESTUALE PER LA PERCEZIONE DELL’IMMAGINE Una conversazione con l’autrice ILARIA BERNARDI di Elena Inchingolo

Segreteria di Redazione Francesca Di Giorgio Direttore Responsabile Silvia Campese Redazione via Traversa dei Ceramisti 8/b 17012 Albissola Marina (SV) Tel. +39 019 2071005 redazione@espoarte.net

Pubblicità Direttore Commerciale Diego Santamaria Tel. +39 019 2071005 iphone 347 7782782 diego.santamaria@espoarte.net Ufficio Abbonamenti abbonamenti@espoarte.net Hanno collaborato a questo numero: Francesca Caputo Luisa Castellini Francesca Di Giorgio Isabella Falbo Alessandra Frosini Matteo Galbiati Elena Inchingolo Davide Mariani Kevin McManus

46 UN LIBRO CHE RACCONTA DI CARTE… Intervista a LUCA PIGNATELLI di Matteo Galbiati 48 L’ENCICLOPEDIA DELL’AUTOSCATTO: IL SECONDO VOLUME DE “IL CORPO SOLITARIO” DI GIORGIO BONOMI Intervista a GIORGIO BONOMI di Matteo Galbiati 50 I NOVANTANOVE OGGETTI DI PETRIPASELLI Intervista a PETRIPASELLI di Matteo Galbiati

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COVER ARTIST

ARTE & IMPEGNO CIVILE: LE OPERE DI ANNA SKOROMNAYA ARTEAM CUP 2017 | VINCITORE ASSOLUTO Intervista ad ANNA SKOROMNAYA di Matteo Galbiati

Con questa intervista cerchiamo di approfondire e conoscere meglio l’animo e la ricerca di Anna Skoromnaya (1986), artista che la giuria dell’Arteam Cup 2017 ha voluto premiare assegnandole il premio del Vincitore Assoluto per l’intensa e suggestiva opera Cream Hand Mixer #1 con una motivazione che ha insistito molto su “[…] la forte capacità di restituire all’opera d’arte contemporanea il compito di farsi portatrice di riflessioni non solo estetiche e culturali, ma anche sociali […]”. Ecco il nostro scambio con la giovane artista:

re una filastrocca, induce a prima vista la sensazione di serenità e di ricordi d’infanzia, avvicinando gli spettatori incuriositi. Questa sensazione fiabesca, però, viene drasticamente spezzata, allorché, osserva-

Cosa rappresenta per te, per il tuo lavoro, il riconoscimento avuto in questa edizione di Arteam Cup? Credo che per un’artista vedere le persone toccate e suggestionate dalla visione delle proprie opere rappresenti un momento di soddisfazione e riscontro; ottenere poi un riconoscimento da una giuria composta da persone di grande esperienza nel mondo dell’arte, oltre ad essere un onore, per me è un grande incentivo a continuare nella stessa direzione e un importante appoggio negli impegni e nelle testimonianze che sto cercando di portare avanti. Proprio per questo spero che il premio assegnatomi possa diventare un efficace veicolo per dare il giusto risalto al tema della negazione dei diritti dell’infanzia oggetto della mia attuale serie. Raccontaci brevemente – soprattutto per chi non ha potuto ammirarla dal vivo al BonelliLAB di Canneto Sull’Oglio – l’opera Cream Hand Mixer #1… Si tratta di una scultura multimediale, realizzata in acciaio Cor-Ten, con tre monitor e una cassa audio incorporati, che pone il pubblico davanti al drammatico fenomeno dello sfruttamento dei piccoli nel lavoro. Realizzata a prima vista come un normale scivolo da gioco, con l’audio che riproduce le allegre voci di bambini intenti a canta-

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Anna Skoromnaya con Cream Hand Mixer #1, opera vincitrice di Arteam Cup 2017


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ta da vicino, la scultura si rivela un nastro trasportatore ed il video della bimba, che scivola al suo interno senza fermarsi, riproduce la triste testimonianza di una piccola affaticata e carica di legna da portare. Come si inserisce nel tuo percorso? L’opera fa parte di un’installazione più grande, Cream Hand Mixer, nella quale ho lavorato molto per conseguire una duplice parvenza delle forme e sull’integrazione visiva del fragile contenuto digitale con quello tangibile e ruvido del metallo arrugginito. Volendo comunicare con la stessa forza sia un’immagine ideale e direi nostalgica di un’infanzia felice, sia quella drammatica e reale dello sfruttamento di minori nel lavoro, ho dedicato tempo e grande attenzione a che la scultura potesse somigliare contemporaneamente alle due forme diverse nel giusto equilibrio. In qualche modo è stato un lavoro simile a quello di un profumiere, che dosa con precisione le note di testa, apparentemente più intense, ma più effimere, con quelle di fondo, meno nobili e più persistenti. Riguardo ai video incorporati, poi, ogni ripresa è stata realizzata esattamente dalla stessa angolazione che ho immaginato dovesse essere quella dello spettatore davanti alla scultura, proprio con l’intento di intensificare l’effetto ottico dei bimbi “inglobati” all’interno dei folli giocattoli degli adulti.

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mia di Belle Arti di Firenze, continuando la mia sperimentazione nelle tecniche multimediali. Credo che proprio attraverso i vari studi e la sperimentazione si riesca a definire la propria identità artistica e a sviluppare nuovi linguaggi espressivi. Sulla base delle mie esperienze passate, la ricerca

Quando e come hai iniziato la tua ricerca artistica? Attraverso quali fasi è passata? Da quando ho memoria della mia prima infanzia mi vedo portare sempre con me i miei giocattoli preferiti, i colori ad acquarello e una videocamera. A 15 anni, senza esitazioni e senza mai pentirmene, decisi che l’arte doveva essere il mio percorso di vita, intraprendendo un lungo periodo di studi, prima nel più ambito Collegio d’Arte di Minsk, dove a parte la pittura e disegno studiai con interesse le varie tecniche di arti applicate, poi raffinando la mia formazione all’Accademia di Belle Arti di Minsk, in questo caso in un triennio in grafica d’arte. È da allora che ho sviluppato una particolare passione per le immagini in bianco e nero e l’utilizzo di gradazioni di un solo colore, una scelta cromatica che mi appartiene ancora oggi, dedicandomi con cuore alle varie tecniche di stampa come le acqueforti e le litografie, ma con un’attenzione rivolta anche alla tecnologia come valore aggiunto e qualificante per l’arte. Infine, convinta che un’artista non possa appartenere soltanto ad un singolo posto geografico, ho vinto un grant per continuare gli studi in Europa. Mi sono quindi laureata in pittura all’Accade-

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Anna Skoromnaya, Cream Hand Mixer #1, serie Kindergarten, frame, 2017


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artistica che conduco negli ultimi anni mi rappresenta a pieno e rende libera e travolgente, per me, la mia sperimentazione che, spero, riesca ad arrivare allo stesso modo anche a chi fruisce le mie opere. Lavori molto raggruppando le tue opere per serie, ce le riassumi? Cosa raccontano? La precedente serie di opere multimediali, SOS CODE, focalizza l’attenzione sui rapporti individuo-società e sui meccanismi di condizionamento ed esclusione nella società contemporanea. Si tratta di opere realizzate con una tecnica del tutto inedita, che ho chiamato Dynamic Light Box, dove le figure sono in movimento e in continua trasformazione attraverso un’illusione ottica creata grazie allo spostamento della luce led incorporata. L’attuale serie Kindergarten affronta il tema dello snaturamento e della negazione dei diritti dell’infanzia declinato attraverso diversi aspetti: i drammi dei bambini usati come strumenti di morte dal terrorismo di matrice pseudo-religiosa, dei minori costretti a lavorare in condizioni di schiavitù e delle bambine vendute come spose. In questa serie mi sono interrogata molto su quale linguaggio visivo fosse il più efficace, scegliendo di lavorare con dei video incorporati e con delle tecniche

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olografiche, da me rinnovate per esprimere al meglio quanto effimere e fragili siano le condizioni dei bimbi di cui mi occupo. Si chiudono una dopo l’altra oppure possono coesistere e influenzarsi tra loro? Tutto il mio lavoro è frutto di una costante e coerente ricerca, sia sotto il profilo estetico che dei contenuti trattati. I temi che affronto da anni sono ovviamente ciò che sento di dover esprimere e denunciare attraverso i miei lavori, in un crescendo di consapevolezza anche personale. Ecco perché certamente le due serie non solo coesistono, ma sono l’una lo sviluppo dell’altra. In SOS CODE ho voluto descrivere il deficit di attenzione che ci circonda, la deriva di un vivere in assenza di punti di riferimento relazionali e la faticosa ricerca della consapevolezza sociale, evidenziando al contempo la presenza di meccanismi di esclusione e di condizionamento sociale. In Kindergarten ho voluto scandagliare i meccanismi stessi del condizionamento, arrivando a denunciare con forza l’alienazione dei diritti, dando voce alla fascia più vulnerabile e più importante della nostra società: i bambini. I tuoi lavori uniscono valore estetico e valore etico: che ruolo deve avere oggi, per

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Anna Skoromnaya, backstage riprese video, 2017


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te, l’arte? L’arte è da sempre in grado di comunicare e testimoniare ma, soprattutto, può avere una forza unificatrice delle differenze aiutando a superare intolleranze e divisioni. Io credo fermamente che l’arte contemporanea possa e debba diventare anche un forte veicolo di sensibilizzazione a favore di chi non ha né forza né voce, focalizzando l’attenzione sugli angoli in ombra della nostra società, talvolta magari molto scomodi da guardare, denunciandone le contraddizioni. In questo senso come dialoghi con lo spettatore? Le tematiche che scelgo per le mie opere sono sempre un importante impegno di testimonianza sociale, oltre ad una mera rappresentazione. Alla recente fiera The Others, a Torino, dove ho avuto il piacere di partecipare con uno Special Project sui bambini soldato curato da Espoarte, è stato per me molto significativo il riscontro di centinaia di visitatori colpiti dal tema dell’installazione, questo perché il dialogo ha funzionato. Attraverso il mio operato cerco, infatti, di raggiungere lo spettatore, farlo interrogare e partecipare, portando con sé, quando si allontana, una domanda anche dolorosa e senza risposta, ma che sia comunque un elemento di riflessione e, magari, domani contribuisca al rafforzarsi di una coscienza comune in grado di contrastare i drammi su cui voglio accendere l’attenzione.

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tili e raffinati contrasti: tra materie (nobili e comuni), tra immagini (reali e virtuali), tra consistenze (delicatezza e materialità forte), tra sensi (tutti partecipi nella definizione dell’”oggetto” visivo). Come agisci sul senso e il valore del “contrasto”? Il contrasto è proprio il filo conduttore di tutte le installazioni della serie Kindergarten, ne sottolinea e amplifica il non senso, lo snaturamento ed il ribaltamento della logica. Ho voluto sottolineare questo irraggiungibile gap tra il piano ideale di un parco per l’infanzia, dove tutti i bimbi dovrebbero giocare felici, e il piano della cruda realtà di un “asilo”, dove gli stessi bambini

Nelle tue opere sommi tecniche, codici e linguaggi diversi, come riesci a conciliarli con tanta armonia d’insieme? La mia produzione artistica, in ogni opera, in ogni serie, ha un cuore pulsante, il concetto che voglio esprimere. La mia cifra stilistica ricorrente è, ovviamente, dettata dal mio gusto personale, ancorata alla mia estetica, mentre le tecniche utilizzate diventano “soltanto” i mezzi espressivi che sviluppo e progetto ad hoc per comunicare in modo efficace e secondo la mia sensibilità i messaggi e i temi che affronto. Già da quando immagino un’opera, nelle mie bozze, da subito cerco di far convivere questi diversi elementi, la sfida ogni volta è proprio quella di dar vita a qualcosa di esteticamente coerente con i miei canoni ed in grado di trasmettere anche agli altri e al meglio, con lo strumento tecnologico selezionato, ciò a cui intendo dar valore. Ogni tuo lavoro sensibilizza il nostro sguardo attraverso un complesso meccanismo di lettura che procede per sot-

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Anna Skoromnaya, Cream Hand Mixer #2, serie Kindergarten, dettaglio, 2017. Foto: Andrea Parisi


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diventano giocattoli nelle mani degli adulti, agendo attraverso molteplici ed incolmabili contrasti a livello visivo, percettivo e concettuale. Oltre ai contrasti che hai già nominato, vorrei evidenziare anche quello costituito da ciò che appare allo spettatore e quella che, invece, è la destinazione finale di ogni gruppo installativo: il gioco delle costruzioni trova il suo contrasto nella distruzione che caratterizza il triste futuro dei bambini-soldato, mentre il parco giochi fatto da scivoli, giostre e altalene si rivela nient’altro che una serie di macchine da lavoro per sfruttare i piccoli. Anche il sonoro, che tra le allegre note delle filastrocche cantate contiene testi di opposto contenuto, comunque collide con le drammatiche immagini delle opere. Quanto della tua storia, del tuo vissuto, delle tue esperienze, della tua sensibilità riversi nel tuo lavoro che, per noi che guardiamo, non è mai abbandonato alla sola freddezza della tecnica? Lavorando alla mia attuale serie Kindergarten ho dovuto tornare, in qualche modo, ai ricordi della mia infanzia, abbandonandomi ad un modo più ”giocoso” di inventare e creare ogni singolo particolare delle mie installazioni. Ho potuto ricordare a me stessa che è molto importante non porre

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limiti alla propria fantasia creativa, perché proprio l’arte non deve avere limiti imposti. Le nostre origini, storie, sensibilità, ogni singola esperienza vissuta, come fossero colori su una tavolozza, servono dal primo all’ultimo come strumenti con cui operare, anche per affrontare tematiche universali, ma dal nostro unico e personale punto di vista. Quali nuovi progetti stanno prendendo forma? Su cosa stai lavorando? Sono molto entusiasta della mia prossima mostra personale nello Spazio Arte di CUBO Unipol a Bologna (9 aprile – 31 maggio 2018,) evento per il quale sto già realizzando la mia terza grande installazione della serie Kindergarten, che affronterà il delicato e drammatico tema delle bambine spose. Anna Skoromnaya è nata a Minsk (Bielorussia) nel 1986. Laureata in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze, è docente di Pittura e Disegno all’Accademia di Belle Arti di Sanremo (IM). Vive e lavora tra Genova e Firenze. Info: www.annaskoromnaya.com www.arteam.eu

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Anna Skoromnaya, Popcorn Machine, serie Kindergarten, 2017. Foto: Andrea Parisi


31 GENNAIO - 31 MARZO 2018

IN BETWEEN DIALOGHI DI LUCE SCHEGGI - LEMERCIER - FUSE* A cura di Ilaria Bignotti e Federica Patti

INGRESSO LIBERO SPAZIO ARTE CUBO Centro Unipol BOlogna Piazza Vieira de Mello, 3 e 5 (BO) Tel 051.507.6060 - www.cubounipol.it


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LA BELLEZZA ANTICA DEL DISEGNO NELLA CONTEMPORANEITÀ DELLA POETICA DI GALLIANI TREVISO | MUSEO CIVICO CASA ROBEGAN | FINO AL 28 GENNAIO 2018 Intervista a OMAR GALLIANI di Matteo Galbiati

Riverbera sempre in modo particolare il valore del disegno, quello di antica sapienza, nell’inconfondibile linguaggio di Omar Galliani (1954) che, grazie al progetto di Artika, ha la possibilità di offrirsi nuovamente al pubblico nell’intensa personale Souls – Anime. La seduzione del Disegno Italiano, progetto che rientra nella rassegna Artisti del XXI Secolo.

Realtà del contemporaneo promossa dal Museo Civico Casa Robegan a Treviso. In questa circostanza abbiamo conversato con l’artista circa il valore suggestivo del disegno, anima e cuore del suo sguardo incantato (coinvolgentemente trascinante per chi osserva) teso all’esplorazione di altri orizzonti e nuovi confini visivi:

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Su quali coordinate si muove la mostra presso il Museo Civico Casa Robegan? Che opere hai scelto di presentare? Quali temi le legano? Il legame delle opere in mostra non è filologico o temporale, si muove su coordinate di pieni e vuoti considerando che questo spazio, oggi adibito al contemporaneo, ha


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avuto anticamente una funzione abitativa. Quindi opere dense di grafite o sbiancate nel chiarore del legno. Una prima opera del 1977 e un’ultima opera terminata alcuni giorni fa. Un’esposizione trasversale, sincopata.

Quali artisti sono stati/sono fondamento del tuo immaginario? Tutta la Storia dell’arte e degli artisti scorre dentro di me lasciandomi tracce di nomi, opere, desideri… incompiuti.

Come si riverbera la stratificazione del tempo e della storia nel tuo lavoro? Ho sempre pensato alla storia dell’arte come ad un grande edificio senza tempo in cui si siano stratificate generazioni di segni e sogni. La contaminazione degli stili o delle poetiche fanno parte del mio bagaglio culturale, così come le tecniche del fare, e del disegno in particolare.

Sostieni il valore della “contaminazione” come tuo imprescindibile bagaglio culturale, cosa intendi esattamente? Il nostro è il tempo della contaminazione. Le immagini trasmesse attraverso il web, il cinema, la pubblicità, la comunicazione sono pervase da una evidente contaminazione. Sono figlio della contaminazione. Oggi il traguardo più difficile da raggiungere non è quello dell’affermazione, ma dell’originalità. Qualcuno ha decretato un tempo breve per ogni cosa, una consunzione, una auto-cancellazione scandita da un timer che non ti lascia scampo. Io credo atemporalmente nella “resistenza” e sopravvivenza dell’opera.

Come ricerchi la bellezza? Come la cogli per poi raccontarla allo sguardo ammirato di chi osserva le tue opere? La parola bellezza sembrava ormai desueta e avulsa dal contesto artistico e culturale, quasi impronunciabile senza poi considerare che anche l’orribile o il disgustoso hanno dato vita ad una incerta e perniciosa bellezza, la bellezza della negatività. A volte la bellezza sembra celarsi là dove non te l’aspetti. Può avere tante forme o sostanze. Non basta dire “bellezza”; anche la Madonna del Cardellino di Raffaello, pur nella sua olimpica bellezza e perfezione, forse cela qualcosa di ambiguo o pruriginoso, forse più dei tormenti di El Greco o Caravaggio. La bellezza ci seduce per poi smarrirci nell’abisso del “dopo” o dell’inquieta domanda di cosa possa poi rimuovere in noi una volta consumata e posseduta.

La scelta “urgente” e “necessaria” del disegno ti costringe anche ad un peculiare rapporto col tempo del lavoro e della creazione… Come lo vivi? L’opera si cala nel mio tempo attraverso un’immagine che poi si nutrirà di altre immagini in un continuo sovrapporsi di segni, strati di matita. La condizione del disegno di

I tuoi lavori sembrano sempre sfuggenti, onirici, teofanici, in bilico tra affermazione e dissolvimento. Dove si colloca precisamente la loro dimensione? Teofania, apparizione, manifestazione, epifania dell’opera. Non realizzo progetti o studi preparatori per le mie opere. Le grandi tavole sono realizzate essenzialmente attraverso la basicità di due materiali: il legno, la grafite, in mezzo il soggetto. L’avvicendarsi delle due componenti essenziali generano l’opera. L’origine del soggetto è sfuggente, la sua configurazione si dà attraverso il tempo e la dilatazione del disegno. Il tuo di-segno conserva qualcosa di magico, di magnetico e ipnotico: dove fonda la sua forza? In cosa pensi stia la sua “anima” profonda? Esiste un momento nell’atto del disegnare in cui i miei occhi si chiudono, un momento in cui la mano accarezza il legno e le venature si aprono, sovrapponendosi ai volti, agli oggetti. Occorre allontanarsi dalla muscolarità del disegno e lasciarsi sollevare dalla levità del soggetto.

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Omar Galliani, Floralia, 2015, matita su tavola e inchiostro, cm 50x50 Nella pagina a fianco: Omar Galliani. Souls – Anime. La seduzione del Disegno Italiano, veduta della mostra, Museo Civico Casa Robegan, Treviso


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grandi dimensioni mi obbliga alla verticalità dell’esecuzione provocando fatica e dolore. Durante questo lungo tempo dimentico la fatica della postura e innesco una condizione di astrazione mentale. So che ha importanza rilevante anche il supporto su cui intervieni per sostenere l’unicità e l’indipendenza autonoma del disegno come tecnica. In tal senso mi sembra importante l’allusione alla negredo e all’albedo insite in alcune tue opere. Mi colpisce molto anche quando parli del materiale – la grafite – che usi nelle tue opere che ti pone in costante tensione tra passato e

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futuro. Una sostanza molto più complessa di quello che si potrebbe immaginare? L’alchimia pervade già nella scelta basica degli strumenti – il bianco del pioppo, il nero della matita – ogni parte del mio lavoro. La botanica del pioppo, bianco e verticale, si protende nella sua crescita verso il cielo in cerca del sole. I pioppeti, che corrono in perfetta fila lungo le sponde del Po vicine al mio studio, lo dimostrano. La grafite abita la geologia della terra a migliaia di metri di profondità. È geologicamente un diamante giovane essendo costituito da carbonio, il riflesso luminoso che si irradia dalle mie opere ne è una dimostrazione.

Perché ancor oggi – nell’era ultra tecnologica – il disegno ha tanto da dirci, da insegnarci? Perché ci appassiona e accalora in modo così significante? La resistenza del disegno credo dipenda dall’eccessiva omologazione dei linguaggi artistici oggi in circolazione. È un corto circuito che porta ancor oggi il desiderio del “fare” che trova nel disegno la propria originaria funzione. Il richiamo al foglio attraverso un semplice ma significativo gesto ha ancora una volta un nome “desiderio” dal latino “de Sidus” ovvero dalle stelle, le stesse verso le quali oggi la tecnologia più avanzata vorrebbe riportarci. Origine, bellezza, catarsi, epifania si celano in un semplice “segno” che da Lascaux a Arecibo portiamo ancora oggi nelle nostre tasche, nelle nostre mani. Omar Galliani. Souls – Anime. La seduzione del Disegno Italiano Rassegna Artisti del XXI Secolo. Realtà del contemporaneo ideazione e progettazione Giorgio Russi a cura di Daniel Buso organizzazione Artika catalogo bilingue italiano inglese Quaderni d’arte di Casa Robegan con testi di Flavio Caroli e Teodolinda Coltellaro 2 dicembre 2017 – 28 gennaio 2018 Museo Civico Casa Robegan Via A. Canova 38, Treviso Orari: da martedì a venerdì ore 10.00-13.00 e 15.00-19.00, sabato, domenica e festivi ore 10.00-20.00, lunedì chiuso Ingresso intero €6.00; ridotto €4.00 (studenti under 26, over 65, possessori biglietto Museo Bailo, carta fedeltà Musei Civici, soci enti convenzionati Fai, Arci e Touring Club); gratuito under 18, disabili non autosufficienti con accompagnatore, giornalisti con tesserino Info: Elena Zannoni +39 349 1623368 mostre@artikaeventi.com www.artikaeventi.com www.omargalliani.com

Omar Galliani. Souls – Anime. La seduzione del Disegno Italiano, veduta della mostra, Museo Civico Casa Robegan, Treviso

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AQUA AURA: DARE FORMA AL SENTIMENTO ENIGMATICO ALESSANDRIA | PALAZZO CUTTICA E SALE D’ARTE | FINO AL 28 GENNAIO 2018 REGGIO EMILIA | ANTICA SINAGOGA | FINO AL 14 GENNAIO 2018 Intervista ad AQUA AURA di Francesca Caputo

L’universo di Aqua Aura è costellato di paesaggi enigmatici che trovano corpo nei suoi pensieri, nello studio delle più avanzate ricerche scientifiche, in una visionarietà ricca di simboli che apre alla tensione all’assoluto; opere in cui realtà e immaginazione paiono trovare la loro sintesi più autentica. Tra novembre e gennaio, Aqua Aura è impegnato in due esposizioni ad Alessandria e Reggio Emilia, rispettivamente curate da Matteo Galbiati e Chiara Serri, che sfociano nel libro Lustro (Vanillaedizioni, 2017). Progetti che diventano l’occasione per incontrare l’artista e ragionare sulla sua poetica, sui motivi che hanno guidato questa recente produzione – installazioni video e

ambientali, sculture in alabastro – e l’armonia con i suoi precedenti cicli. Come nasce questo nuovo viaggio? Da quel meraviglioso e misterioso groviglio di accadimenti che tesse e intreccia l’arabesco dell’esistenza. Il premio Special Project di Arteam Cup 2015 gioca il suo bel contributo [ride n.d.r.]. Il caso e gli incontri che si sono innestati sul Premio sono diventati due progetti strettamente connessi, di cui il libro rappresenta il conclusivo coronamento. L’idea si è concretizzata con Matteo Galbiati, assieme alla direzione di Arteam, e l’Associazione Libera Mente Laboratorio di Idee di Alessandria.

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Aqua Aura, Millennial Tears, 2017, video-installazione Full HD a 2 canali, colore, audio, durata 40’, dimensione complessiva cm 160x540 (frame da video-proiezione)


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Nello stesso periodo, confrontandomi con Chiara Serri sul desiderio di realizzare una mostra per Reggio Emilia – omaggio ai cinque anni di lavoro a fianco di VV8 Artecontemporanea – mi ha suggerito lo spazio della Sinagoga come il più adatto ai miei scenari. Materializzando così un’idea cui pensavo da anni: unire le immagini delle distese di ghiaccio con la storia ebraica in un grande lavoro video. La mostra Somewhere Out There ad Alessandria si caratterizza come un percorso tra le tematiche nodali della tua ricerca. Penso che tu abbia ragione: dalla costruzione di un “senso del sublime”, immerso in un contesto del tutto contemporaneo, allo sguardo a dimensione umana delle profondità dell’invisibile e dell’oscurità celata dentro i nostri corpi, fino alla metafisica del tempo millenario, eppure labile, raccolto in un piccolo guscio di ghiaccio… Qui è emerso anche un tema che sovrasta e raccoglie tutta la mia riflessione: la vera rivelazione, per me, è scoprire che il mio lavoro indaga la costruzione di un oggetto e di un sentimento enigmatico assoluti. Come hai scelto di inserire i tuoi lavori nel contesto fortemente connotato delle due sedi di Alessandria? La mostra si è indirizzata da subito su due registri differenti, sin da quando, visitando i siti dei Musei Civici, l’Associazione Libera Mente ha messo a disposizione gli spazi di Palazzo Cuttica e delle Sale d’Arte.

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Il primo incarna le caratteristiche della Wunderkammer, con una miriade di opere e oggetti storici di ogni genere; le stesse stanze sono generose di continue sollecitazioni visive. Il secondo è, invece, una più istituzionale e ordinata raccolta di collezioni di opere della città. Le Sale d’Arte accolgono i lavori che mi connotano di più, le pseudo-fotografie, seguendo un duplice percorso: alcuni lavori di Scintillation sono in dialogo con opere di Casorati e Filia, conservate nelle Collezioni, altri invece occupano in modo esclusivo le sale svuotate del moderno. Nel caso di Palazzo Cuttica, in virtù della sua complessità, l’occasione si prestava per mettere in scena i progetti inediti: installazioni video, sculture e installazioni ambientali. Da un paio d’anni cullavo l’idea di aprire una strada che sterzasse dalla pura bidimensionalità. Entrare in relazione con la difficoltà di questi spazi lo ha reso necessario. I tuoi paesaggi immaginari sembrano oltrepassare i confini delle nuove frontiere della conoscenza, rendendo labile la soglia che separa micro e macro, realtà fisica e metafisica, tempo, natura, uomo e ricerca scientifica. Come coesistono e si evolvono questi fulcri della tua indagine? Ciò che avvolge e plasma, anche nella diversità, le varie fasi delle mie serie è la costruzione dell’oggetto enigmatico che si collega alla mia personale visione della natura dell’opera d’arte. Anche René Magritte partiva da questi presupposti. Dall’enigma

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Aqua Aura, La notte gemella, 2017, stampa digitale su carta cotone su alluminio e cornice floccata, cm 150x260 (dittico)


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dell’oggetto viene il sentimento enigmatico: quella particolare condizione dell’esperienza estetica che, a differenza dell’enigma, non induce inquietudine, ma incanta e sospende, come dall’interno di un’ampolla di vetro. Un mondo senza suoni e senza contorni. Quando si affronta la mia attenzione alla scienza e alla fisica teorica, vedo che nessuno tiene mai in debito conto il valore del liquido amniotico in cui sono immerse queste immagini: ciò che le tiene insieme è un comune lirismo, una sorta di ricerca dell’estasi. Questo unicum dà la vera voce alle opere. Credo che con queste due mostre si comincerà a capirlo meglio. Qual è il fulcro concettuale di Millennial Project nella Sinagoga di Reggio Emilia? Le due esposizioni, insieme, presentano la fase più attuale della mia ricerca. Quella di

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Reggio Emilia è dove meglio si esprime un senso di spiritualità radicale. I lavori installativi e le video-installazioni portano alle estreme conseguenze questa posizione ascetica. Perno di partenza dell’intera mostra, però, rimangono Void e Scintillation, serie che contengono in nuce i germogli di questa deriva o conquista spirituale. Tutto il mio lavoro funziona così: ogni nuova serie ha già in sé le indicazioni della sua evoluzione. In ogni lavoro si scorgono le spore di una prossima fioritura e tutte le opere installative rappresentano i germogli delle opere più “antiche” esposte. L’aula centrale della Sinagoga accoglie la videoinstallazione Millennial Tears, una narrazione fortemente emozionale che racchiude molteplici metafore. Millenial Tears vuole essere il punto focale di questa esposizione e assume un signifi-

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Aqua Aura, The Great Sea of Shadows, 2016, stampa digitale su carta cotone su alluminio e cornice floccata, cm 130x150


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cato particolare anche in relazione al luogo. È espressamente dedicata alle Comunità Ebraiche. L’ispirazione nasce durante una visita al museo Yad Vashem di Gerusalemme, dove viene continuamente letto il testo del Kaddish, la preghiera ebraica per i defunti. Parole del passato che arrivano all’oggi, a testimoniare un lungo viaggio nel tempo. Una suggestione che solo molto tempo dopo, maturando attraverso la visione dei ghiacci islandesi, ha finalmente trovato il suo compimento. Su grandi schermi si alternano visioni di lande artiche desolate, immersioni tra le acque ghiacciate e osservazioni iper-ravvicinate di molecole di lacrime, fin dentro il loro ordito liquido. Ho cercato di costruire la videoopera secondo un criterio al tempo stesso narrativo e della pura estasi o del rapimento. Se ne può seguire l’intera estensione e percorrere il viaggio che porta dai paesaggi iniziali, attraverso il “dramma” del ghiaccio, fin dentro l’universo microscopico della viscosità delle lacrime, oppure pochi minuti, lasciandosi rapire dalla forza ipnotica delle immagini. Che ruolo svolgono i suoni in Millennial Tears? Il canto e la musica hanno enorme importanza, aprono e chiudono l’opera, la contengono come uno scrigno o come delle mani immateriali che portano l’acqua alla bocca. La musica anticipa il racconto per immagini in una sorta di prologo, mentre, quando l’immagine dei paesaggi glaciali viene

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meno e si trasforma in pura astrazione organica, ricompare come un tappeto sonoro e cantato, per chiudersi con canti in ebraico, intonati per gioco e divertimento tra madre e figlio. I suoni sono sempre presenti. Il sussurro e poi il fragore del ghiaccio e degli iceberg che si spezzano, il suono del vento che soffia senza sosta, i rumori sordi dell’acqua e del movimento che i ghiacci emettono sotto la superficie del mare. Sono suoni senza storia, densi, autorevoli perché eterni, come fosse la voce stessa della storia… o la voce di tutto ciò che chiamiamo “Dio”. Quali i temi portanti di Domestic Eternity e Shelters – On The Very Nature Of The Light? Il tempo divergente tra realtà e sua rappresentazione è la base di Domestic Eternity: l’impermanenza dell’esperienza estetica, o della bellezza, per me rimane un tema toccante, quasi struggente. L’utopia di poter conservare ciò che è incorporeo o etereo, come per esempio la luce, è il tema di Shelters – On The Very Nature of the Light. Gli iceberg di alabastro raccolgono e imprigionano il ciclo di un’intera giornata tra le lande desolate dell’estremo Nord. Da essi sprigiona la luce del mattino così come il fragore della pioggia del pomeriggio, e la notte oscura, squarciata dai colori dell’Aurora Boreale. Entrambi contengono la condizione metafisica dell’esistenza entro la loro limitante natura di creazioni estetiche ma lo fanno in modo fragile ed imperfetto.

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Aqua Aura. Somewhere Out There a cura di Matteo Galbiati Special Project Arteam Cup 25 novembre 2017 – 28 gennaio 2018 Palazzo Cuttica, via Parma 1, Alessandria Orari: da venerdì a domenica 15.00-19.00 Sale d’Arte, via Niccolò Machiavelli 13, Alessandria Orari: giovedì, sabato e domenica 15.0019.00 Millennial Project. Una mostra di Aqua Aura a cura di Chiara Serri 2 dicembre 2017 – 14 gennaio 2018 Antica Sinagoga Via dell’Aquila 3A, Reggio Emilia Orari: venerdì ore 16.00-19.00; sabato e domenica ore 10.30-13.00 e 16.00-19.00; in data 19, 20, 26, 27 dicembre 2017 apertura straordinaria ore 10.30-13.00 e 16.00-19.00 Info: www.aquaaura.it www.arteam.eu

Aqua Aura, Millennial Tears, 2017, videoinstallazione sonora, 3 canali video, 30,15 minuti. Allestimento alla Sinagoga di Reggio Emilia


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PABLO ATCHUGARRY: UNA SCULTURA CHE SUPERA I CONTRASTI DIANO MARINA (IM) | SALA “R. FALCHI” – PALAZZO DEL PARCO | FINO AL 7 GENNAIO 2018 di MATTEO GALBIATI

La mostra ospitata nella Sala “R. Falchi” del Palazzo del Parco a Diano Marina (IM), voluta, organizzata e supportata da Civiero Art Gallery, rappresenta un’occasione da non perdere e ha, inoltre, un certo carattere d’eccezionalità: la personale dello scultore Pablo Atchugarry (1954), infatti, non solo porta sulle rive della costa del ponente ligure una ricca selezione di affascinanti sculture del maestro uruguaiano, ma costituisce l’unica esposizione che l’artista ha tenuto in Italia nel 2017. La fama e gli impegni internazionali di Atchugarry lo spingono sempre in ogni an-

golo del mondo e, contando anche i tempi tecnici imposti dalle lunghe lavorazioni delle sue opere, non va preso come dato scontato l’allestire una mostra come questa in cui opere di materiali diversi, tra bronzo, marmo e acciaio, sanno evidenziare con tanta grazia ed esattezza il fluire morbido del suo segno plastico. Atchugarry si è generosamente concesso e speso in questo progetto sia per un’amicizia e una stima profonda che lo legano ai galleristi Lorenzo e Francesco Civiero, sia per l’amore per il nostro Paese, sua seconda casa d’elezione (l’artista ha uno studio in provincia di Lec-

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co ed è cittadino onorario di Diano Marina, n.d.r.), consegnando al pubblico la piacevole verifica del valore di una materia che pare germinare davanti allo sguardo, tanto da spingere le proprie forme quasi a completarsi all’infinito, in un costante divenire strutturale mai definitivamente compiuto. La sua scultura, del resto, si compone e procede proprio attraverso la compenetrazione significante di contrasti: leggerezza e pesantezza, fisicità e immaterialità, morbidezza e durezza, luci e ombre, pieno e vuoto, corpo e anima. Cielo e terra, come si afferma efficacemente nello stesso titolo di questa


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esposizione. In queste opposte ed alterne, contrastanti, opposizioni si sospende il suo fare. Proprio questa dualità di riferimenti e referenti si lega strettamente al suo linguaggio: senza necessitare di troppe celebrazioni, magari ridondanti rispetto alla sobria bellezza del suo lavoro, Atchugarry tocca delicatamente il marmo (o uno qualsiasi degli altri materiali che impiega) con un’attenzione antica, tradizionale, eppure sa rendere poi anche le forme finali con una componente di prorompente contemporaneità. Alla saggezza classica dei tempi passati sa sommare, quindi, nuove visioni per un’attualità artistica che necessità di ristabilire il contatto con una poeticità autentica e sincera. Le sue forme sono volute che carezzano l’aria, danzano con essa inglobando un vuoto che sa diventare non elemento di assenza, ma di altra presenza significante. Si innalzano, si muovono, germinano, fluiscono con lo stesso frugale fascino di una fiamma che si muove sui tizzoni di un camino, sullo stoppino di una candela. Questa è la magia che ci concede questo virtuoso della scultura: Atchugarry sa riportare la percezione dell’armonia e dell’universalità, che tutto assorbono e fondono, ad essere verità per lo sguardo di ciascuno di noi. La semplicità non figuratamente descrittiva

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dei suoi lavori ci appassiona senza compromessi, senza l’aleatorietà di giudizi parziali o faziosi, perché in lui il processo del fare entra in tale simbiosi con una lettura e una visione spontaneamente, quanto concettualmente ed esteticamente, intense e raffinate del mondo da risultare naturale il trasferimento empatico all’accettazione del nostro animo. Unità e sintesi sono i predicati imperativi del suo fare: con questi definisce in ogni piega, in ogni segno, delle sue opere l’equilibrio del bello che dall’empireo lontano del cielo riesce a proiettarsi a terra, a concretizzarsi nella nostra, limitata, dimensione umana. Osservare le sue opere infonde un’energia speciale che ci proietta nel turbinio di pulsioni suscitate da una meraviglia che, forse, non siamo più abituati a provare e, per questo, torna ad essere ai nostri occhi tanto eccezionale e importante. Pablo Atchugarry. Tra terra e cielo a cura di Civiero Art Gallery con il Patrocinio e la collaborazione dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Diano Marina catalogo bilingue italiano-inglese Vanillaedizioni con testo critico di Luca Bochicchio

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7 ottobre 2017 – 7 gennaio 2018 Sala “R. Falchi” Palazzo del Parco Diano Marina (IM) Orari: da mercoledì a domenica 10.0012.00 e 16.00-19.00 Info: Civiero Art Gallery Via San Sebastiano 11, Diano Castello (IM) +39 371 3712776; +39 320 0261297 civieroartgallery@gmail.com www.civieroartgallery.com

In queste pagine: Pablo Atchugarry. Tra terra e cielo, vedute della mostra, Sala “R. Falchi”, Palazzo del Parco, Diano Marina (IM). Courtesy Civiero Art Gallery, Diano Castello


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JERNEJ FORBICI. RITORNO AL FUTURO… VARESE | PUNTO SULL’ARTE | 14 GENNAIO – 17 FEBBRAIO 2018 Intervista a JERNEJ FORBICI di Francesca Di Giorgio

Le ultime tre personali di Jernej Forbici sembrano andare alle radici del suo lavoro, rispettoso di un passato e di una memoria storica che fa parte di un vissuto. I luoghi dove è nato, In my place racconta l’artista «È il titolo che mi “segue” dall’inizio, ed è stata la prima serie di quadri che presentavano le discariche abbandonate vicino a casa mia». Dopo la residenza a Londra, lo studio dei pittori inglesi e del cambiamento del paesaggio inglese dopo la rivoluzione industriale, ha creato la serie Blurry Future, «Offrendo una riflessione sul futuro incerto che ci attende, riportando l’attenzione dello spetta-

tore in situazioni che potrei definire al limite o semplicemente stranianti perché mettono il suo corpo in una relazione dimenticata con la natura». Però è con la locuzione latina, Auri Sacra Fames, espressione tratta dall’Eneide di Virgilio e titolo dell’ultima serie, che Forbici lancia il suo messaggio: «La totale mancanza di una coscienza della responsabilità umana verso il luogo che ci ospita e nutre». L’avidità che spinge l’uomo ad accumulare ricchezza senza badare alle conseguenze (a questo si riferiva Virgilio) implica uno sguardo rivolto al futuro…

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Il 2018 inizierà per te con una con nuova personale in una galleria con cui porti avanti un’importante collaborazione da anni… La collaborazione con Sofia Macchi della Galleria Punto Sull’Arte ormai è consolidata da tempo e proprio per la stima reciproca, la libertà e la continuità del rapporto e delle nostre rispettive ricerche e ruoli, mi offre da tempo la possibilità di presentare sempre progetti molto articolati, come la mostra di gennaio. Di fatto sarà la continuazione e in parte la conclusione del progetto presentato lo scorso ottobre a Latina, alla galleria Romberg (curato da Italo Bergantini e Gianluca Marziani) che interrogava la questione ecologica da anni protagonista della mia ricerca artistica, e in questo caso le modificazioni dell’ambiente-terra quale risultato della cultura, della civiltà, della storia dall’antichità ad oggi. Su quali “idee” stai lavorando in particolare? È normale per l’uomo moderno pensare e accettare che il futuro vada avanti da solo, e che sia una cosa indipendente dalla nostra

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partecipazione. Ma quando ci confrontiamo con la possibilità della non-esistenza, senza nessun futuro, l’idea della nostra estraneità sembra non solo assurda ma anche inaccettabile e terrificante. Ecco, allora, nei miei quadri, l’idea del mondo che arriva alla sua fine. Il progetto, di fatto, mira a sensibilizzare il pubblico intorno a problemi specifici e a mantenere vitale la capacità di leggere e apprezzare, in generale, la verità e l’equilibrio che la natura e la storia consegnano all’umanità. La nuova mostra personale, dunque, dal titolo Welcome to the final show (prende avvio ed ispirazione dalla canzone Sign of the times di Harry Styles), sarà sostanzialmente divisa in due parti. La prima presenta “il prima del dopo”, e la seconda il dopo. Ci sto lavorando da diversi mesi e dovrebbe dare al visitatore, tramite i lavori pittorici e quelli installativi, la sensazione di essere dentro un museo naturalistico (da cui l’Herbarium) per il futuro, però privo di qualsiasi nota futuristica, soltanto raccontando cos’è successo e cos’è rimasto… Con la pittura riesci a costruire veri e propri ambienti in cui i quadri dialogano con

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Jernej Forbici, Sleep in the Fire, 2015, acrilico e olio su tela, cm 260x210, New Documents, 2016, veduta della mostra Galleria Punto Sull’Arte, Varese Nella pagina a fianco: Jernej Forbici, The great failure, 2017, cm 2755x1855, acrilico e olio su tela. Courtesy: Punto Sull’Arte, Varese


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determinati oggetti. Hai parlato di installazioni… È praticamente dagli inizi che aggiungo spesso ai quadri degli oggetti o delle vetrine che in qualche modo creano una barriera tra il quadro e lo spettatore, come una specie di confine che non permette l’avvicinamento al paesaggio già distrutto dall’uomo, per proteggerlo da ulteriori danni. Nelle più recenti installazioni sono presenti da un lato grandi fonti di calore a raggi infrarossi, tavole o mensole piene di documentazione fotografica, disegni o video; o dall’altro, come è già stato per la mostra alla Romberg di Latina, così sarà anche a Varese, grandi vetrine illuminate che contengono le ceneri, le piante morte o gli insetti collezionati nei luoghi inquinati rappresentati già, di fatto, nei lavori pittorici. Credo che uno degli aspetti più contem-

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poranei della tua pittura sia quello di renderci consapevoli di una visione. Che tipo di sguardo cerchi in chi osserva un tuo lavoro? Uno sguardo rivolto alla responsabilità, non solo di tutti noi, ma soprattutto delle persone che sono al potere, quelle che arricchendosi verso assurdi confini, lasciano dietro le spalle disastri irreparabili. Chiedo di essere consapevoli del fatto che non ci sono rimaste vie di uscita e che dobbiamo subito fare un patto, un accordo con la natura, quel “The Natural Contract” di cui già ci parla Michel Serres: «In fact, the Earth speaks to us in terms of forces, bonds, and interactions, and that’s enough to make a contract. Each of the partners in symbiosis thus owes, by rights, life to the order, on pain of death» o ancora: «Back to nature, then! That means we must add to the exclusively social contract a natural contract of symbiosis and re-

Jernej Forbici, Prima del dopo, veduta della mostra, Galleria Romberg, Latina

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ciprocity in which our relationship to things would set aside mastery and possession in favor of admiring attention, reciprocity, contemplation, and respect; where knowledge would no longer imply property, nor action mastery, nor would property and mastery imply their excremental results and origin…». Il legame con la fotografia è ancora forte? La fotografia è per me un mezzo documentario, che mi permette di seguire i cambiamenti di un luogo, ma non la uso mai mentre dipingo. Alla fotografia, negli ultimi anni, come i mezzi documentari (disegni, schizzi, video…), si aggiungono anche gli elementi naturali (piante, fiori, insetti, cenere, terra…) che colleziono e documento, e che avranno una parte importante nella mostra a Varese. In ormai quasi vent’anni nel tuo percorso ti sei mantenuto fedele alla pittura e a tematiche specifiche che non si riducono alla sola riflessione ecologista. Riesci ad individuarle per noi? Possiamo dire che il mio lavoro è, in un certo senso, autobiografico. Sono cresciuto in un piccolo paese circondato da ben tre discariche di rifiuti industriali e una grande fabbrica. Così è logico che il mio lavoro abbia una nota fortemente ecologista che però si

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sviluppa anche nelle domande sulla nostra stessa esistenza, memoria… La pittura è, ed è stata, il primo ed unico medium non solo scelto, ma cercato, letto ed interpretato. L’unico che mi permette di dare voce, attraverso il semplice colore, la materia e la forma (il quadro) a quel senso di fastidio, di dolore, di offesa e rabbia che nascono dal profondo turbamento della natura rispetto alla modernità. Se dovessi osservare l’evoluzione del tuo lavoro dal punto di vista dei “graffi” lasciati sulla tela e dalla presenza constante del colore rosso? Il rosso sulle mie tele nasce dal fango rosso, che rimane dopo la produzione dell’alluminio e che ha fortemente influenzato le nostre vite e il paesaggio nel mio paese nativo. Però negli ultimi anni il rosso ha assunto anche altri significati, tra i quali quello più ovvio, “il sangue” della natura, del pianeta che non ce la fa più. Tutti gli accumuli di colore, i graffi e le forme insolite presentano la mano cattiva dell’uomo, che nelle tele è presente soltanto tramite questi particolari e non merita più di far parte della natura che sfrutta consapevolmente per svariati e ingiustificati motivi.

Jernej Forbici. Welcome to the final show 14 gennaio – 17 febbraio 2018 Inaugurazione sabato 13 gennaio 2018 ore 18.00-21.00 PUNTO SULL’ARTE Viale Sant’Antonio 59/61, Varese Info: +39 0332 320990 info@puntosullarte.it www.puntosullarte.it

Jernej Forbici, Auri sacra fames VI, 2017, acrilico e olio su carta, diametro cm 20

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THE AB FACTORY: UN IDEALE DI COLLABORAZIONE SECONDO ANDREA CONCAS CAGLIARI | THE AB FACTORY | FINO AL 31 GENNAIO 2018 Intervista ad ANDREA CONCAS di Davide Mariani

Inaugurata a Cagliari nel 2016, The AB Factory nasce come spazio creativo aperto al confronto e al sostegno dell’arte e degli artisti secondo un ideale di collaborazione e contaminazione che si ispira alla celebre Factory di Andy Warhol. Oltre agli spazi espositivi di The AB Gallery, The AB Factory si compone di altri due ambienti di condivisione e sperimentazione: il Creative Space AB, nel quale si ospitano eventi, corsi e workshop, e la Print House AB, un vero e proprio atelier in cui gli artisti possono lavorare e realizzare dei multipli in edizione limitata. Fino al 31 gennaio 2018 sarà possibile, inoltre, visitare la mostra Level di Cédric Dasesson, un viaggio che si sviluppa su differenti chiavi di lettura del paesaggio marino e delle linee “emerse” delle terre (sotto, sopra e al livello del mare). Di questa mostra e della filosofia dello spazio ne parliamo con Andrea Concas, ideatore e realizzatore del progetto.

e non solo. Nel testo introduttivo del catalogo scrivi che il suo lavoro si è “naturalmente” imposto nei vostri programmi espositivi. Potresti spiegarci meglio questa affermazione? Lo scorso anno abbiamo iniziato a collaborare con Cédric in occasione della sua prima opera in Limited Edition di Art Backers; lui si è imposto nel nostro programma espositivo con la forza dirompente delle sue opere fotografiche. La presenza di Cédric è diventata presto parte permeante e travolgente della nostra galleria, sfociata con alcune installazioni site-specific realizzate per i nostri collezionisti; da quel momento in poi è stato un crescendo di intese professionali, fino alla realizzazione della personale LEVEL, prima parte di un progetto più articolato che ci accompagnerà per l’intero 2018-19 con altre iniziative curatoriali e di promozione culturale.

Il primo dicembre è stata inaugurata la mostra Level di Cédric Dasesson, fotografo internazionale molto seguito sui social

Oltre a Cédric Dasesson, la galleria promuove il lavoro di altri giovani e meno giovani artisti. Su quali orizzonti si muove

Andrea Concas, © Ph. Luigi Corda

Cédric Dasesson, Level © Ph. Cédric Dasesson

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la ricerca degli artisti con cui scegliete di collaborare? Siamo una giovane, dinamica e “rivoluzionaria” realtà fondata su antichi e forti valori, che agisce con grande rispetto sia degli artisti sia del lavoro professionale del gallerista e prima ancora dei nostri affezionati collezionisti ai quali riserviamo attenzione e qualità nella scelta delle opere. Nella nostra mission abbiamo deciso di sostenere interamente i nostri artisti, aiutandoli sotto diversi punti di vista, dalla curatela al marketing, ospitandoli nel corso di residenze d’artista e supportandoli nella produzione di multipli, fino all’assistenza legale. Anche grazie al supporto di Art Backers, una start up innovativa che opera sull’arte sostenibile e sui temi della certificazione delle opere, The AB Factory punta ad individuare esclusivamente professionisti emergenti ed affermati, offrendo un apporto che possa superare la mera vendita con una visione più ampia e a medio-lungo termine su scala nazionale e internazionale, utilizzando gli strumenti della rete e il prezioso sostegno dei nostri numerosi e qualificati partner. The AB Factory è la prima galleria in Italia affiliata ad Art Backers, editore d’arte specializzato in edizioni seriali. Com’è nata

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questa collaborazione e quali esiti ha generato in questo primo periodo di attività? Siamo davvero onorati di essere stati i protagonisti realizzatori del progetto pilota di Art Backers per la creazione di una rete di Gallerie d’Arte “The AB Gallery” che, a partire dal 2018, apriranno nelle maggiori città italiane ed europee. Il fatto di essere il centro stampa ufficiale dei multipli d’arte di Art Backers, ci ha permesso di entrare in contatto con tantissimi artisti e di vivere pienamente l’ambizioso progetto di crescita internazionale dell’editore d’arte, ritrovandoci, sin da subito, con un numero consistente di artisti e di straordinarie opere d’arte per i nostri collezionisti. Per noi il rapporto tra artista, opera d’arte e fruitori è una condizione fondamentale per produrre cultura grazie all’arte. Puoi darci qualche anticipazione sul programma espositivo del 2018? The AB Factory è in continuo movimento e nel 2018 proseguiremo con la promozione e il supporto dei nostri artisti e quelli di Art Backers, mentre la mostra LEVEL di Cédric Dasesson, che raccoglie un grande interesse di pubblico, diverrà itinerante per l’Italia e confidiamo in alcune città europee. Nel frattempo, abbiamo in avvio programmi di

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formazione professionalizzanti destinati agli artisti, workshop rivolti al mercato e non ultimi gli eventi sociali e di beneficenza, un tema al quale siamo molto sensibili. Pensiamo a mostre personali e forse a una collettiva, mentre stiamo elaborando un progetto molto interessante per la fruizione artistica dei grandi maestri del ‘900, ma è ancora presto per parlarne. Cédric Dasesson. Level Fino al 31 gennaio 2018 The AB Factory Via Alagon, n. 29, Cagliari Info: +39 070 657665 info@theabfactory.it www.theabfactory.it

Cédric Dasesson, Level © Ph. Cédric Dasesson


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MATTEO MONTANI: UN LENTO CROMATISMO LATENTE… CASERTA | GALLERIA NICOLA PEDANA | FINO AL 30 GENNAIO 2018 Intervista a MATTEO MONTANI di Matteo Galbiati

Abbiamo intervistato Matteo Montani (1972), la cui pittura da sempre ci appassiona per l’intensità della sua misura lirica tesa tra apparizione e dissolvimento, in occasione della sua personale intitolata Unfolding alla Galleria Nicola Pedana di Caserta per la quale l’artista ha presentato, da poco, anche una scultura alla Reggia di Caserta. Montani rivela in queste nuove opere la forza dello svelarsi lento dei valori trasformativi e rigenerativi della sua pittura che, coerentemente con i lavori precedenti, sanno trasferire l’essenza della visione nei diversi gradi delle suggestioni percettive che si distillano guardandole.

In attesa della presentazione della pubblicazione dedicata al progetto presso il museo MADRE di Napoli, l’artista ci ha gentilmente concesso, nonostante fosse nel pieno della realizzazione del suo walldrawing, il tempo per questa breve ma intensa conversazione: Su quali contenuti si basa questa mostra? Quali opere presenti? Il contenuto principale di questo progetto è la latenza, che si manifesta nelle condizioni di apparizione e soprattutto di scomparsa. L’apertura è verso l’occhio, il nostro occhio, che, come nel mito di Core, vedendosi ri-

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Matteo Montani, Unfolding, performance, Galleria Nicola Pedana, Caserta


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flesso nella pupilla di Ade fa esperienza della sua mortalità. Core coglieva un Narciso mentre dall’invisibile regno sotterraneo Ade apparve. Il narciso potrebbe essere interpretato, nel nostro caso, come l’opera d’arte…. Stai lavorando anche ad un grande intervento site-specific che ti sta molto a cuore, ci sveli di cosa si tratta? È un’opera difficile e piuttosto ambiziosa, che ho in mente da anni (e anni). Si tratta di un wall painting, in realtà un “wall scrapig off” dal momento che le figure sono ottenute mediante abrasione sulla parete precedentemente preparata a strati di diversi toni di blu. Una volta tirate fuori le figure – che dunque appartengono al muro – le ricopro con diverse mani di calce e latte cosi da farle scomparire… e solo bagnando la parete queste riaffioreranno, per poi scomparire ancora, una volta che il muro sarà completamente asciutto. Come è cambiato nel tempo il rapporto con il colore? Non molto: ho attraversato lunghe fasi monocrome per poi esplodere con gli ori e le policromie. Oggi forse posso dire che sto usando il colore ancora di più per lavorare sulla sua componente epifanica. Ti sposti tra evanescenza, rarefazione e dissolvenza e concretezza disvelamento, apparizione: quali sono le coordinate di

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senso che toccano lo sguardo dell’osservatore? Io credo che il senso più proprio a questo lavoro sia per l’appunto lo sguardo stesso. Per una volta l’occhio oltre a muoversi sulla superficie bidimensionale dell’opera, è anche chiamato ad un coinvolgimento dove entra in gioco il tempo e il mutamento della percezione. Devo dire che fui folgorato da Blue di Derek Jarman, quando a un certo punto mi accorsi che a forza di fissare quello schermo blu, l’occhio cominciava a vedere autonomamente macchie, figure, movimenti… Cosa vuole, in definitiva, raccontarci la tua pittura? In questa mostra la pittura ci racconta tante cose. Oltre a quello che abbiamo già detto, qui, sottraendosi ci parla anche della salvaguardia dell’immagine…

Matteo Montani. Unfolding a cura di Alessandra Troncone 20 novembre 2017 – 30 gennaio 2018 Inaugurazione domenica 19 novembre ore 17.30 Presentazione della pubblicazione MADRE, Napoli, 20 dicembre 2017 ore 18.00 Galleria Nicola Pedana Piazza Matteotti 60, Caserta Orari: da martedì a sabato 10.00-13.00 e 16.30-20.00; venerdì 16.30-20.00 Info: +39 392 6793401 +39 0823 322638 gallerianicolapedana@gmail.com www.nicolapedana.com

Ci sono modelli, maestri, ricerche che ti ispirano e guidano? Oggi guardo con attenzione tutto ciò che è processuale ed esce un po’ fuori dagli schemi pur inserendosi in una tradizione. Non so farti dei nomi precisi, da Shitao nel 1600, passando per Munch e poi Eliasson, Turrel… ci sono artisti che usano l’attimo, la metamorfosi, l’accadimento… Quali sono i tuoi desIderi da realizzare? Futuri progetti? Mi piacerebbe far comparire un arcobaleno, con questa tecnica, su un muro di una città.

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Matteo Montani, Unfolding, work in progress del wall painting, Galleria Nicola Pedana, Caserta


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IL COLORE SI FA ICONA, SI LASCIA DECANTARE IN UN’AMPOLLA PER POI SPLENDERE IN UNA COSTELLAZIONE GENOVA | ABC-ARTE | FINO AL 5 GENNAIO 2018 Intervista a ISABELLA NAZZARRI di Luisa Castellini

C’era una volta la metamorfosi. Il piacere e il dramma del colore, delle sue possibili forme, l’interrogativo dell’immagine. A spezzare questo equilibrio, perennemente messo in discussione, ecco il gesto, l’esperienza, il viaggio, anche siderale, al quale ci invita Isabella Nazzarri nella sua ultima mostra a Genova da ABC-ARTE. Dove il dipinto si lascia volentieri contemplare ergendosi a icona e il colore si sorprende insolitamente sagace in un’ampolla per poi abbandonare ogni ansia terrena e disegnare, in guisa di asteroide d’oro, la poeti-

ca di una costellazione. La tua nuova personale da ABC-ARTE a Genova prende le mosse dal concetto di Clinamen, che sottende la possibilità di autodeterminazione per l’uomo. In che modo questo principio si riverbera nelle tue opere? Il mio percorso artistico è sempre stato legato all’autodeterminazione. C’è un certo nomadismo che si riflette nel mio modo di lavorare, lontano dall’idea di avere uno stile riconosci-

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bile. Ciò che più mi preme non è tanto la coerenza stilistica, ma la metodologia del processo, che nel mio caso è concentrata sulla libertà del gesto, inteso sia come gesto pittorico sia come serie di movimenti atti a creare un lavoro. Che valore assumono, nella tua pratica operativa, i limiti che tu stessa ti imponi – restando in tema di autodeterminazione – e la serialità come orizzonte sul quale muoverti? Il limite principale entro cui cerco di stare


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è quello di uscire costantemente dalla mia confort zone di lavoro. Man mano che un ciclo di lavori va avanti, le opere diventano sempre più consapevoli e, a un certo punto, appaiono come problemi risolti, esperimenti riusciti. A quel punto mi rendo conto che sono arrivata al limite, conosco già la soluzione dell’enigma e andare avanti significherebbe solo mortificare questo perenne esercizio di libertà. Per questo motivo lavoro a diverse serie utilizzando materiali diversi. Questa mostra segna un cambiamento importante della tua ricerca con l’uscita della pittura non “solo” dalla tela, tra sculture e installazioni, ma ancor prima da quel suo germinare e rigenerarsi continuo che abbiamo finora conosciuto e amato a favore di una maggiore iconicità, che invita alla contemplazione. In che modo ha preso corpo questa evoluzione del tuo linguaggio? Sono partita da una pittura legata a forme organiche in continua metamorfosi. Ero molto concentrata sul potenziale evocativo di un’immagine, che tuttora permane nel mio lavoro anche se in modo meno immediato. Ho sentito ad un certo punto l’esigenza di affermare che ciò che dava vita alle forme della mia pittura era il gesto. La forma non era un punto di arrivo ma il risultato di un atto e quindi di un’esperienza. Dall’acquerello che pare continuare a fluire sulla tela alle Monadi, le ampolle trasparen-

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ti colme di resine colorate poste sopra uno specchio: secondo quali rotte il colore delle tue opere si è fatto carne e ha deciso di lasciarsi contemplare in questa sua nuova forma? Le Monadi sono state il lavoro di passaggio che mi ha portato a concretizzare la pittura. Contemporaneamente all’esigenza di affermare la gestualità c’era una volontà di dare corpo al lavoro precedente, molto leggero e evanescente. Come ho detto prima, cerco sempre di andare oltre a ciò che conosco già e questo desiderio di maggiore matericità ha contribuito a ridare al lavoro la freschezza dell’inaspettato. Ho realizzato le ampolle in un lasso di tempo abbastanza lungo, stratificando man mano le resine e aggiungendo via via elementi nuovi. È stato una sorta di brainstorming nel quale ho utilizzato pressoché tutti i materiali che impiego nel mio lavoro. Per questo anche il titolo mi pareva appropriato: sono delle unità indivisibili e indipendenti, e ognuna di loro riflette l’universo del mio studio. Leggerezza, movimento, possibilità di imprevisto tornano nelle Epifanie, rocce dorate che si rincorrono in splendide costellazioni. Come si colloca, nella tua ricerca artistica eminentemente pittorica, la pratica installativa? L’installazione delle rocce è nata conseguentemente alle ampolle che ne contenevano alcuni frammenti. Mi è sembrato naturale,

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avendo dato corpo alla pittura in questa sorta di ampolla-incubatrice, dare vita a un’opera più ambientale. Anche questo lavoro è nato in modo inaspettato attraverso la gestualità e si è evoluto stratificandosi come le pitture e le ampolle. Sospendere le Epifanie ha dato la leggerezza che cercavo nel lavoro e si è contrapposto alla pesantezza evocata dalle rocce. È nata così questa straniante e metafisica costellazione che ci guarda dall’alto e sembra venire da mondi lontani. La pratica installativa è un modo emozionante e completo di lavorare poiché ti permette di realizzare un’opera da vivere all’interno di un ambiente a contatto diretto con chi osserva. Isabella Nazzarri. Clinamen a cura di Daniele Capra con intervento critico di Leonardo Caffo 26 ottobre 2017 – 5 gennaio 2018 ABC-ARTE Via XX Settembre 11A, Genova Info: abc-arte.com

Isabella Nazzarri, Clinamen, allestimento sala Aria, mostra da ABC-ARTE Genova Nella pagina a fianco: Isabella Nazzarri, Monade, 2017, resina epossidica e pigmenti su vetro, cm 25x15


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ARTE

UNA LUCE CHE PERMANE: GLI INTERVENTI RECENTI DI MANUELA BEDESCHI VENTASSO (RE) | CASA CANTONIERA DI VALICO TERMINUS | DAL 28 OTTOBRE 2017 VICENZA | L’IDEA DI AMATORI MARIA LUISA | FINO AL 27 GENNAIO 2018 Intervista a MANUELA BEDESCHI di Matteo Galbiati

Dopo gli impegni presso la Casa Cantoniera di Valico Terminus | Residenza Rurale per Artisti sulle colline emiliane di Ramiseto a Ventasso (RE) e la più recente inaugurazione della personale presso l’Atelier Amatori di Vicenza, abbiamo incontrato Manuela Bedeschi per una ricognizione sugli ultimi esiti delle sue ricerche, in virtù anche dell’importante opere che rimarrà in permanenza immersa nella natura dell’Appennino:

to creando documentazioni per il futuro a memoria del presente o del passato. Io ho lavorato sulla memoria in vari modi e da tempo uso la luce come mezzo predominante che in alcuni casi “solleva” alla base un oggetto pesante creando leggerezza. Di

Come hai vissuto l’esperienza della Residenza Rurale per Artisti della Casa Cantoniera di Valico Terminus? Come è nata questa esperienza? L’esperienza al Valico Terminus è stata molto interessante sia per la conoscenza dei curatori, che per il rapporto che si instaura con l’incredibile natura incontaminata che ho scoperto in queste zone. La cosa è stata possibile grazie a Tiziano Bellomi che, invitato, aveva la possibilità di coinvolgere un amico artista. Stimo molto il suo lavoro e gli sono particolarmente grata per avermi dato questa possibilità. Che energie ti ha dato questo luogo e la sua storia? Come dicevo, il contatto con la natura qui è predominante, e questo produce una carica energetica enorme. La storia, poi, di questo piccolo borgo “scivolato” nell’oblio forzatamente perché diventato pericoloso per gli abitanti, ha particolarmente colpito sia Tiziano che me. Hai lavorato con Tiziano Bellomi in un vero e proprio lavoro a quattro mani: come vi siete coordinati nella creazione dell’opera? Come siete arrivati a concepire questa scultura ambientale? Tiziano ed io lavoriamo molto sulla memoria, anche se con metodologie diverse. Lavorare insieme è stato sorprendentemente facile: lui raccoglie documenti e opere di artisti e li “nasconde” in blocchi di cemen-

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Manuela Bedeschi e Tiziano Bellomi, Luce della Memoria, 2016-17, documenti, cemento, luce a led, impianto fotovoltaico, cm 100x100x100


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conseguenza quest’opera, che cela all’interno la documentazione di Tiziano, ha una forma luminosa esattamente corrispondente al mio modo di lavorare. Decidere insieme questa forma essenziale, cubica, è stato perfetto per entrambi. Su che valori si fonda e cosa restituisce al pubblico? Come avete scelto il luogo dove collocarla in permanenza e che caratteristiche avete voluto/cercato? Dopo aver girato questi posti tutti interessanti, accompagnati e indirizzati dalla passione di Nila e Giovanni, abbiamo realizzato che quest’angolo ora deserto, ma prima abitato, ci aveva particolarmente coinvolto. Abbiamo capito di voler lasciare un segno che ricordasse la “vita” che qui c’era prima e che suggerisse futuri racconti. Cosa rappresenta per te, che lavori sulle specificità ambientali, poter lasciare stabilmente un lavoro? Finora, lavorando sul “luogo”, come sai, parlando di esterno, ero intervenuta sulle facciate di alcuni palazzi. Qui, in mezzo alla natura, il riferimento al luogo è totalmente allargato, è prevalentemente concettuale. La scelta di far accendere la luce solo al tramonto e per un’ora, vuole concentrare e rinforzare il messaggio. Nella mostra di Vicenza, invece, cosa presenti? Come hai sviluppato il tuo intervento in questo luogo? Ho pensato di lavorare su lacerti di memoria che si “muovono” liberamente nell’ambiente, in un moto circolare per attivare flussi di pensieri che si sviluppano nelle mie opere di luce. Ho voluto e pensato a parole che vivono nello spazio, a scritte sospese per attivare un itinerario emotivo e sensibile, un percorso che si sospende tra vita e memoria. Nella luce riverberano tensioni e contrasti cromatici, in un flusso intenso di forme e significazioni, tra concretezza ed effimero. Ripongo, ogni volta, una grande fiducia nella “mia” luce, che spero sappia “narrare” sempre qualcosa. Cosa significa e rappresenta Tailormade? È un termine sartoriale (fatto su misura) che qui, a Vicenza, e in Piazza dei Signori, ha per me una doppia ed importante valenza. La prima, dal punto di vista artistico, sottolinea il costante riferimento al luogo che ospiterà le opere, con l’intento di trovare un preciso dialogo fra dove e cosa nel cercare una corretta intesa fra l’opera e il come la si espone. La seconda valenza, emozionale ed intima, riguarda la parte vicentina della mia vita ed i racconti familiari sulla sartoria del nonno

che si trovava proprio in questa piazza, in posizione diametralmente opposta a quella della sede de L’Idea. Racconti di fatti così lontani da contare più anni di quelli della mia stessa vita. È la consapevolezza, ora, di frequentare la creatività con modi che riconosco essere anche di famiglia, perché ricordano l’attenzione del lavoro sartoriale. Sono memorie che mi riavvicinano a persone vissute nella mia infanzia e poi perse, senza la possibilità di una frequentazione adulta. Per me, ora e qui, il ritorno ad emozioni dolcemente silenti. È stato un anno impegnativo, ma anche pieno di soddisfazioni: cosa ti prospetta il nuovo anno? Quali impegni e progetti ti attendono? Vivo un periodo abbastanza intenso che vede già l’appuntamento per una mia personale nella Galleria Civica Cavour di Padova (che inaugurerà il 9 di febbraio) a cura di Massimiliano Sabbion. Molti altri appuntamenti sono in preparazione, ma, come sai, non se ne parla prima che le date siano certe.

Casa Cantoniera di Valico Terminus Residenza Rurale per Artisti via Lugolo 8, Ramiseto, Ventasso (RE) Info: +39 349 8452986 info@valicoterminus.com www.valicoterminus.com e Manuela Bedeschi. Tailormade a cura di Maria Lucia Ferraguti con il patrocinio di Comune di Vicenza e Provincia di Vicenza 2 dicembre 2017 − 27 gennaio 2018 L’Idea di Amatori Maria Luisa Piazza dei Signori 56, Vicenza Info e orari: +39 0444 542052 lidea@amatori.it www.amatori.it

Manuela Bedeschi e Tiziano Bellomi. Progetto Poviglio a cura di Nila Shabnam Bonetti e Giovanni Cervi con il patrocinio e il sostegno del Comune di Ventasso Dal 28 ottobre 2017 Coordinate 44° 22′ 59.3” N e 10° 14′ 17.7” E

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Manuela Bedeschi. Tailormade, veduta della mostra, L’Idea di Amatori Maria Luisa, Vicenza


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ARTE

CARAVAGGIO, UN MITO CHE TORNA A MILANO MILANO | PALAZZO REALE | FINO AL 28 GENNAIO 2018 di MATTEO GALBIATI

Abbiamo acquisito una certa triste abitudine − spesso, purtroppo, del tutto giustificata − alla delusione dopo aver visitato una mostra che, dalle premesse di cartellone, ci ha illusi sulla qualità “eccezionale” della sua occasione: grandi nomi, necessari solo ad attrarre pubblico più che a definire contenuti; capolavori iconici sviliti in progetti inconsistenti (meglio sarebbe stato lasciarli nei musei di appartenenza, piuttosto che obbligarli a inutili e stressanti tour); scelte “minori” finalizzate a sostenere logiche di mercato. Quante volte, del resto, siamo usciti da mostre − magari anche attese − proprio con l’interrogativo del perché e della ragione di progetti simili? Ebbene Palazzo Reale di Milano da settembre accoglie una mostra che ritrova “antiche”, oggi desuete, intenzionalità e finalità espositive: qui si torna a ripensare all’occasione della mostra come avveniva un tempo, quando le stesse erano concepite per approfondire gli studi su un autore; per far incontrare le opinioni di critici, direttori di musei, docenti universitari, studiosi in genere; per analizzare e restaurare opere; per ripercorrere scientificamente l’analisi di poetiche, tecniche e linguaggi. La mostra non era solo esposizione, ma anche motivo di studio e conoscenza, e nelle nobili sale dello spazio milanese questa impostazione torna a testimoniare il valore di un progetto autentico e importante. Se poi l’artista coinvolto è un genio assoluto come quello di Michelangelo Merisi (1571-1610), che noi tutti conosciamo per il toponomastico Caravaggio, garantito è anche il (facilmente prevedibile) successo, testimoniato, per altro, dalle quotidiane lunghe file di visitatori che attendono di nutrirsi della bellezza senza tempo della realtà-verità della sua drammatica pittura. Questa è la terza esposizione che Palazzo Reale dedica a Caravaggio ma, rispetto le precedenti, qui abbiamo un progetto che ha un peso e un valore davvero differente, come diversa è la finalità e lo spunto iniziale: nel 1951 fu l’esimio lavoro di Roberto Longhi a far risorgere il Merisi dall’oblio, lungo alcuni secoli, in cui era caduta la sua figura. Un mito che divenne ri-

scoperto in una Milano provata dalla Guerra Mondiale finita da pochi anni. Poi, il restaurato Palazzo Reale, ripropose nel 2005 la pittura di Caravaggio e dei suoi svariati emuli, per una mostra che si riallacciava all’epocale progetto longhiano. Due mostre connesse nonostante la lontananza temporale. Oggi accogliamo un’esposizione − qui ci ricolleghiamo alla premessa iniziale − la cui intera attenzione resta rivolta al genio ribelle di Caravaggio. Anche il titolo definisce questo impegnativo orientamento: Dentro Caravaggio. Non abbiamo altra prospettiva, altro codice espressivo se non il suo, non possiamo far altro che immergerci nella sua poesia. Questo ci regalano gli organizzatori a Palazzo Reale: venti capolavori che assorbono tutta la nostra attenzione e ammirazione. Opere magnificenti che abbracciano un ampio arco temporale della vita del maestro lombardo. Opere che vengono dai principali musei italiani ed internazionali, con prestiti di rilievo e non affatto

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scontati. Venti opere che appaiono poche, ma sono moltissime se si pensa alla difficoltà di poterle raccogliere tutte assieme in un solo luogo. Già questo allontana lo spettro della delusione possibile, perché si entra a contatto solo con Caravaggio, spicca solo l’anima delle sue ombre e delle sue luci, l’urgenza della teatralità di gente semplice, autentica, forse anche rozza in alcuni soggetti, elevata al rango eterno della santità. Nulla distrae e distoglie il nostro sguardo dalla sua forte espressività, intensa e ancora dissacrante. Dal suo raccontare una bellezza vera, spontanea, naturale. Avulsa da ogni modello intellettuale e specchio della nuda verità della realtà. I meriti della mostra poi non si limitano solamente all’eccezionalità delle tele esposte e alla scelta integralmente monografica: bisogna guardare anche alla sua genesi che inizia nel 2009-2012, quando, in occasione del quarto centenario della morte dell’artista, furono avviate indagini diagnostiche scientifiche (pos-


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sibili per il prezioso sostegno del mecenatismo del Gruppo Bracco) su 22 tele riconosciute universalmente come autografe del Caravaggio (estese poi ad altri nove dipinti presenti in mostra). Un progetto encomiabile che ha per protagonista Rossella Vodret che, allora alla Direzione della Soprintendenza speciale per il patrimonio artistico e etnoantropologico e per il Polo museale della città di Roma, si pose l’obbiettivo di compiere queste importanti ricerche. Quel desiderio di rileggere i capolavori del maestro innescò un meccanismo di virtuosa progettualità che, non solo ha portato a questa mostra, ma ha impegnato studiosi da tutto il mondo conducendo a inattese scoperte (di cui in mostra si rende conoscenza al pubblico). L’allestimento misurato e sobrio permette di concentrarsi (salvo sovraffollamento da pubblico, ma non è cosa imputabile agli ineccepibili organizzatori) sull’immagine data dalla pittura del genio lombardo e, ancora, un’illuminazione perfettamente studiata lascia integro il fascino del chiaroscuro di Caravaggio, dominatore della teatralità rivelatrice della luce. Senza che “intralcino” la visione dei dipinti, 20 video (uno per ogni opera), posti sul retro del pannello che accoglie il dipinto, raccontano delle ricerche scientifiche e delle conseguenti scoperte, arricchendo la conoscenza di questi capolavori con il fascino del “dietro le quinte” di un lungo lavoro di ricognizione e indagine. Tutte le stagioni della sua vita sono presenti in mostra, dalle prime prove più elaborate alle ultimissime, quando l’immagine resta quasi una teofania nervosa di un colore vibrante e svelto, che definisce solo l’essenziale occorrente alla visione, apparendo (o affondando) le immagini nel buio del nulla. Quando, tralasciando il virtuosismo del particolare, coglie la bellezza assoluta di un’impermanenza fuggevole, presagio di un tempo ormai ridotto. Non vogliamo aggiungere troppi dettagli, definire troppo i contorni di questa mostra, perché vogliamo lasciare al desiderio e alla curiosità di scoperta del lettore (anche se per Caravaggio siamo certi non serva ad alcuno il nostro invito!) cogliere lo spunto utile per poter andare a vederla, certi che, nulla compromette il brivido di misurarsi con l’eccellenza di opere immortali e con la loro bellezza senza tempo. Ci auguriamo che presto si finalizzi anche il progetto di aprire a Milano il preannunciato Centro internazionale di studi caravaggeschi, eventuale eredità preziosissima di una mostra di per sé già straordinaria.

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Beni e delle Attività Culturali e del Turismo main sponsor Intesa Sanpaolo con il sostegno di Gruppo Bracco catalogo Skira

miglia 1 o 2 adulti €11.00, ragazzi 6-14 anni €6.00; gratuito minori di 6, guide turistiche con tesserino di riconoscimento; giornalisti accreditati all’Ufficio Stampa, convenzioni

29 settembre 2017 − 28 gennaio 2018 Palazzo Reale Piazza Duomo 12, Milano

Info: www.palazzorealemilano.it www.caravaggiomilano.it info e prenotazioni: +39 02 92800375 www.vivaticket.it

Orari: lunedì 14.30-22.30 (lunedì 8.30-14.30 riservato scuole); martedì, mercoledì e domenica 9.30-20.00; giovedì, venerdì e sabato 9.30-22.30; ultimo ingresso un’ora prima della chiusura

Michelangelo Merisi da Caravaggio, San Francesco in meditazione, post 1604, olio su tela, cm 128x90, Museo Civico, Cremona © Sistema Museale della Città di Cremona – Museo Civico “Ala Ponzone”. Foto: Pietro Diotti, Nova Foto, Cremona

Ingresso intero €13.00; ridotto €11.00; ridotto Abbonamento Musei Lombardia e Skira €9.00; ridotto speciale €6.00; biglietto fa-

Nella pagina a fianco: Michelangelo Merisi da Caravaggio, Martirio di Sant’Orsola, 1610, olio su tela, cm 143x180, Napoli, Collezione Intesa Sanpaolo, Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano © Archivio Attività Culturali, Intesa Sanpaolo. Foto: Luciano Pedicini

Dentro Caravaggio a cura di Rossella Vodret promossa e prodotta da Comune di Milano, Palazzo Reale, MondoMostre Skira in collaborazione con MiBAC – Ministero dei

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ARTE / DESIGN

RADICALI PER SEMPRE FIRENZE | PALAZZO STROZZI, STROZZINA | 20 OTTOBRE 2017 – 21 GENNAIO 2018 di ALESSANDRA FROSINI

A 50 anni dalla loro nascita e diffusione (1966-1976), Firenze torna a parlare del fenomeno dell’architettura radicale e dei suoi gruppi ed esponenti – Archizoom, Remo Buti, Gianni Pettena, Superstudio, UFO, 9999, Zziggurat – riuniti insieme per la prima volta nella mostra Utopie Radicali alla Strozzina di Palazzo Strozzi. Un viaggio negli anni d’oro di una Firenze che, appena dopo essere stata toccata dalla tragedia dell’alluvione, diventa una delle sedi del recepimento delle nuove istanze culturali, in un clima generale di forte rinnovamento in ambito sociale, politico e filosofico a livello internazionale. Gli “Italian radicals”, nati principalmente nell’alveo della facoltà di Architettura di Firenze sotto Ricci e Savioli, furono portatori di una “radicalità” d’impostazione concettuale e ideale, dettata dalla profonda necessità di riformare il concetto stesso di architettura, per “liberare l’individuo, modificare l’ambiente, intervenire nella materia stessa della realtà, plasmandone nuove prassi creative”. Istanze etiche e sociali che portarono ad uno sconfinamento deciso nelle arti visive. Dal design per gli interni agli spazi urbani, con performance ed happening, nella mostra viene ben documentato il clima comune e le differenze fra i vari gruppi e personalità, partendo dalla fascinazione del fenomeno Pop (Biennale di Venezia del ’64) e del Situazionismo, e procedendo per sezioni tematiche che restituiscono la vitalità e complessità del movimento radicale, attraverso i continui intrecci fra arte, design e architettura. Un caleidoscopico mondo interdisciplinare che irrompe, attraverso opere irriverenti e sarcastiche, in progetti e interpretazioni utopiche della realtà, che utilizzano la componente ludica come strumento dissacratorio e l’ironia come mezzo conoscitivo del mondo e della società. Dalle grandi strutture gonfiabili Urboeffimeri (“eventi di disturbo dei miti e dei riti sociourbani architettonici”) degli UFO del 1968, utilizzate per happening dissacratori nel centro storico di Firenze, ai progetti utopici del Superstudio (Architettura interplaneta-

ria. Autostrada terra luna, 1970-’71), alle città ideali di Zziggurat (La città lineare per Santa Croce, 1969), fino ai progetti di design d’interni di Archizoom (Safari, 1968), solo per citare alcune presenze in mostra, quello che caratterizza questa immersione “radicale” è l’apertura al sogno e alle utopie (e ipertopie) come base per cambiare il punto di vista ben oltre l’architettura, immettendo la vita e la creatività come elemento fondamentale del progetto ideativo. Radicale è del resto ciò che attiene alle radici di qualcosa e, allo stesso tempo, è ciò che riconfigura drasticamente quel qualcosa. Che s’intenda dunque l’architettura radicale come esercizio di critica politica oppure come modo per testare i limiti dell’architettura, è indubbio che si è “radicali per sempre”.

Utopie Radicali Oltre l’architettura: Firenze 1966-1976 A cura di Pino Brugellis, Gianni Pettena e Alberto Salvadori 20 ottobre 2017 – 21 gennaio 2018 Palazzo Strozzi, Strozzina Piazza Strozzi, Firenze Orari: tutti i giorni 12.00-20.00 giovedì 12.00-23.00 Info: Tel +39 055 2645155 info@palazzostrozzi.org www.palazzostrozzi.org

Archizoom Associati, Safari, 1968. Firenze, Centro Studi Poltronova

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ARTE

RISCOPRIRE FONTANA, ANCORA UNA VOLTA MILANO | PIRELLI HANGARBICOCCA | FINO AL 25 FEBBRAIO 2018 di KEVIN MCMANUS

Molto attesa per svariati motivi, la mostra dedicata da Pirelli HangarBicocca alle opere ambientali di Lucio Fontana (1899-1968) non ha deluso. Parto dal “verdetto”, perché tra i meriti dell’evento c’è appunto la capacità di coinvolgere il fruitore fin dall’ingresso, fin dall’Arabesco del 1951, che fa da lanterna ai visitatori entranti e si staglia nel vuoto come una sorta di disegno di luce. Ma tutti gli ambienti ottengono lo stesso effetto, saltano a piè pari le complicate riflessioni di molta arte ambientale fatta da allora a oggi, e pongono il fruitore nel mezzo di un’esperienza estetica immersiva e disorientante. Il merito, certo, è di Fontana, ma l’idea centrale della mostra aggiunge qualcosa: quelle che per l’artista erano esperienze singole, vissute una per una in contesti dove tendevano a spiccare per la loro pregnanza sensoriale, vengono qui proposte in serie, in modo da raccontare una storia per mezzo delle nostre facoltà percettive. Gli occhi che hanno lavorato per adattarsi alla luce di Wood nell’ambiente del 1949, originariamente presentato alla Galleria del Naviglio, si ricalibrano, nel giro di qualche minuto, per le Utopie progettate in occasione della Triennale del 1964, per poi adattarsi gradualmente a percepire le pareti illusorie dell’Ambiente spaziale per il Walker Art Center del 1966, e così via fino ad uscire, di nuovo, in corrispondenza del soffitto al neon per “Italia 61”. Lo studio della percezione, ma anche la particolare concezione di spazio di Fontana, quindi, è raccontata dai nostri stessi occhi, dalle pupille che si dilatano e si richiudono, mostrando in modo efficacissimo cosa intendesse l’artista quando – in molte occasioni a partire dal Manifiesto Blanco del 1946 – auspicava la nascita di una nuova forma d’arte: un’arte che doveva mostrare all’osservatore come fosse fatto lo spazio, come esso apparisse non in quanto costruzione “in negativo” (ciò che separa due oggetti o riempie il vuoto di una stanza), ma come cosa dotata di evidenza e originatrice di possibilità poetiche. Per dirla in termini più specifici, per Fontana lo spazio è quel nuovo medium che doveva sostituire quelli consegnati dalla tradizione, le

Lucio Fontana, Struttura al neon per la IX Triennale di Milano, 1951/2017, veduta dell’installazione in Pirelli HangarBicocca, Milano, 2017 Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano © Fondazione Lucio Fontana Foto Agostino Osio

“pitture” e “le figure statiche in gesso” incapaci di veicolare l’anima del “nuovo spirito”. Un medium comune agli ambienti come ai celebri tagli, e come anche ad operazioni più vicine all’idea convenzionale di scultura. Se per questi ultimi due tipi di lavori la presenza fisica dello spazio è più complessa, nel caso degli ambienti ricostruiti all’Hangar la natura mediale dello spazio è evidentissima; ed è proprio nel variare delle configurazioni architettoniche e luminose di ciascun ambiente che questa natura diventa evidente, proprio come il medium della pittura viene definito in quanto costante nei diversi modi di usare il colore, la linea o la superficie del supporto. Merito ulteriore della mostra, poi, è quello di aver raggiunto l’efficacia dei progetti di Fontana attraverso lo studio dei materiali d’archivio, per lo più inediti, trovati presso la Fondazione Lucio Fontana e altre istituzioni. In questo modo, l’esito finale dell’operazione è anche, al tempo stesso, un saggio storicocritico sul lavoro di Fontana come creatore di ambienti e assiduo frequentatore di architetti e designer. In un’epoca piena di lavori ambientali, di am-

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bienti bui ai quali accedere da tendine nere, sembra incredibile pensare all’importanza fondante di questi lavori così lontani nel tempo; e contemporaneamente l’immediatezza, la forza dell’esperienza che vanno a creare conferiscono nuova freschezza a una tipologia di opera d’arte alla quale siamo forse fin troppo abituati. Lucio Fontana. Ambienti/Environments a cura di Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolì in collaborazione con Fondazione Lucio Fontana 21 settembre 2017 – 25 febbraio 2018 Pirelli HangarBicocca Via Chiese 2, Milano Orari: da giovedì a domenica 10.00-22.00 Ingresso libero Info: +39 02 02 66111573 info@hangarbicocca.org www.hangarbicocca.org


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ARTE

A MILANO RIVIVE LA RIBELLE CONTESTAZIONE DEL ’68 MILANO | GALLERIA GRUPPO CREDITO VALTELLINESE | PROROGATA AL 20 GENNAIO 2018 di MATTEO GALBIATI

La Galleria Gruppo Credito Valtellinese ha scelto di avviare la propria stagione espositiva giocando d’anticipo rispetto ad un’importante ricorrenza che si celebrerà il prossimo anno – il cinquantesimo anniversario del Sessantotto – presentando la mostra intitolata Arte ribelle. 1968-1978 Artisti e gruppi dal Sessantotto (recentemente prorogata al 20 gennaio) con cui, in una parata di opere che presentano artisti attivi tra Roma e Milano, i due poli di rifermento per il fermento sociale e culturale all’epoca nel nostro paese, si raccontano e si rivalutano – anche criticamente – le varie e diversificate esperienze espressive che, al tempo, si sono

accostate alle proteste e alle rivendicazioni che hanno animato quel periodo. Nell’ampio spazio, lasciato aperto e liberamente percorribile, della galleria si susseguono in modo “chiassoso” materiali diversi, dalle stampe ai dipinti, dalle sculture alla grafica, dai disegni alle fotografie, dalla testimonianza delle performance agli interventi ambientali, che, nell’insieme, aiutano a rievocare quel coro rutilante di voci con cui si suggellavano le idee di rivolta politica, di desiderio rivoluzionario e di aspirazioni libertarie. Quando l’arte scendeva in piazza, e qui incontrava la spontanea tensione della “folla”, del “popolo”, si poteva osservare

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un’interessante commistione e un confronto diretto e vivo tra codici differenti, “alti” e “bassi”, che univano un’élite intellettuale alle voci dettate dalle grandi masse. Questa mostra illustra efficacemente questo diverso approccio, questi orientamenti differenti, che emergono in modo chiaro – quand’anche si corra il rischio di “confondere” lo sguardo, ma resta una lettura a posteriori della storia data dal nostro sguardo attuale – dalle storie degli artisti presenti, di chi, affermatosi o rimasto nelle retrovie del sistema, ha condiviso allora, attraverso il proprio lavoro, il fervore del suo tempo. Con spunti e visioni variegate, quindi, abbia-


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mo modo di cogliere gli echi di quella irrequietezza che ha agito come motore della ribellione che dai giovani si estese a masse eterogenee di persone, abbracciando un’ampia porzione della popolazione. Il discrimine di questo interessante progetto espositivo, del resto dichiarato consapevolmente dallo stesso curatore Marco Meneguzzo, non è certo quello di esaudire completamente con un’analisi artistico-culturale la complessità di un’epoca tumultuosa e intensa, ma di osservare una traccia, di dare una testimonianza di quanto, per alcuni visionari, l’arte potesse appoggiare e sostenere la volontà di attuare cambiamenti in ambito sociale, politico, economico. La scelta critica, quindi, ci presenta autori che hanno in comune proprio l’attuazione propagandistica della loro espressione artistica, ovvero quegli artisti che, in virtù di un rinnovamento del linguaggio e delle loro operatività artistiche ed estetiche, hanno portato la propria individuale esperienza a “scendere in piazza”, a farsi concretamente militante. Per questo motivo non deve stupire l’assenza di importanti nomi che, pur essendo tra gli innovatori dell’arte di quegli anni, non hanno mai esteso ad una scelta di campo attiva il loro fare, ma hanno mantenuto il loro percorso artistico solo su un piano “intellettuale”, in una continuità tra il prima e il dopo di quelle date fatidiche. Nemmeno si presenta, in questa occasione, chi, in ambito culturaleintellettuale, ha indirizzato le proprie energie alla protesta attiva, al ruolo diretto in ambito politico-sociale e non ha dato ulteriore corso al suo singolare bagaglio linguistico e alle sue esperienze artistiche, dismettendo le vesti di artista e interrompendo la produzione delle proprie opere. Le ottanta opere, accompagnate da un ricco repertorio di documenti illustrati e di testimonianze fotografiche e documentarie, senza gerarchie precostituite, assolvono il compito di riassumere e condensare una complessa stagione che ha scritto la storia di un’epoca importante e intensa della storia contemporanea, le cui molte eredità vivono, e hanno determinato, il nostro presente. Una mostra, per questo, da visitare con la consapevolezza che il tempo ha reso oggi, ai nostri occhi, quasi anacronistico il tema di quelle rivendicazioni, le nostre abitudini e il nostro sistema attuale hanno, chiaramente, smussando i contorni dei modi di “protestare” e “contestare” di allora (se non gli stessi motivi di protesta). Modi che devono, però, affermare ancora il valore di quelle voci che non temevano di farsi sentire e di lottare per quello in cui, sinceramente ed onestamente, si credeva.

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Arte ribelle. 1968-1978 Artisti e gruppi dal Sessantotto a cura di Marco Meneguzzo mostra prodotta e organizzata dalla Fondazione Gruppo Credito Valtellinese catalogo con saggi di Marco Meneguzzo e Alberto Saibene, Enrico Morteo, Francesca Caputo, Matteo Guarnaccia Prorogata al 20 gennaio 2018 Galleria Gruppo Credito Valtellinese Corso Magenta 59, Milano Orari: da martedì a venerdì 13.30-19.30; sabato 15.00-19.00; chiuso domenica e lunedì (da martedì 12 dicembre: da martedì a venerdì 16.00-19.30; chiuso sabato, domenica, lunedì, 24, 25, 26 dicembre e 1 gennaio) Ingresso libero Info: galleriearte@creval.it www.creval.it

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Carlos Mensa, Tre donne, 1969, olio su tela, cm 130x160. Foto: Fabrizio Stipari / CreVal Nella pagina a fianco: Arte ribelle. 1968-1978 Artisti e gruppi dal Sessantotto, veduta della mostra, Galleria Gruppo Credito Valtellinese, Milano. Foto: Fabrizio Stipari / CreVal


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ARTE / SPAZI

CENTRO ARTI E SCIENZE GOLINELLI: IL FASCINO “IMPREVEDIBILE” DEL FUTURO BOLOGNA | CENTRO ARTI E SCIENZE GOLINELLI | FINO AL 4 FEBBRAIO 2018 di ISABELLA FALBO

Avere un sogno e “vivere” per esso: dare un “significato” al “perché” della nostra vita. Essere persone e cittadini di un mondo globale. Essere curiosi: vedere e capire nella natura e nell’animo umano. Non avere paura di affrontare un futuro imprevedibile: essere coscienti e partecipi della responsabilità sociale che ognuno di noi ha, aiutando i giovani a crescere e a essere liberi di esprimere se stessi e tutti vivere nella costruzione di una società armonica. Costruire, tutti assieme, una società capace di adottare una visione unitaria delle nostre origini, della nostra genesi; solo la “conoscenza” ci può dare le risposte, attraverso la compene-

trazione di arti, scienze e tecnologie e l’ispirazione di una visione umanistica che deve spingerci ad interrogarci tutti sul “perché viviamo”. (Marino Golinelli) Fondata da Marino Golinelli nel 1988, la Fondazione Golinelli di Bologna è fra le principali fondazioni filantropiche private italiane. Totalmente operativa, ispirata al modello americano, si occupa di educazione, formazione e cultura. Con il programma pluridecennale Opus 2065, Fondazione Golinelli ha lanciato sei diverse azioni progettuali nei campi di educazione, formazione, cultura, ricerca, innovazione e impresa. Le principali attività

Centro Arti e Scienze Golinelli, Bologna. Foto: OKNOstudio 38

si svolgono all’Opificio Golinelli, cittadella per la cultura e la conoscenza inaugurata a Bologna nell’ottobre 2015. L’Opificio Golinelli si espande su un territorio di 9.000 mq ed è considerato fra i centri educativi e culturali più attrattivi in Europa. L’11 ottobre 2017 la Fondazione Golinelli ha compiuto un nuovo passo verso il futuro e la crescita con l’inaugurazione del Centro Arti e Scienze Golinelli, che completa il complesso dell’Opificio. Il Centro Arti e Scienze Golinelli, progettato architettonicamente da Mario Cucinella Architects, è una costruzione di circa 700 metri quadrati che vanno ad aggiungersi ai 9.000


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dell’Opificio. Di grande respiro, leggerezza e apertura, la struttura è un involucro vibrante dalla geometria pura e semi-trasparente che nelle ore diurne riflette ciò che ha attorno e nelle ore notturne è luminosa. Una sovrastruttura metallica e modulare lo avvolge librandosi nello spazio. La superficie interna è priva di partizioni o rigide organizzazioni planimetriche per garantire la massima flessibilità di utilizzo. Il nuovo centro non sarà solo spazio espositivo, ma ospiterà anche spettacoli, incontri e le iniziative di Opus 2065 volte al supporto formativo delle giovani e giovanissime generazioni poiché, come afferma Andrea Zanotti, presidente della Fondazione Golinelli: «La creatività costituisce una risorsa fondamentale, e per corroborarne la crescita, essa dovrà nutrirsi e contaminarsi di formazione, ricerca, capacità imprenditoriale ma anche di sensibilità estetica che da sempre costituisce il marchio distintivo del genio italiano». Imprevedibile, la mostra ispirata da un’idea di Marino Golinelli e prodotta da Fondazione Golinelli, è curata da Giovanni Carrada per la parte scientifica e da Cristiana Perrella per la parte artistica; il progetto dell’allestimento è di Mario Cucinella Architects. Questa è l’ultima di sette esposizioni che, a partire dal 2010, hanno indagato in modo

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innovativo temi forti della contemporaneità mettendo in dialogo il linguaggio dell’arte con quello della scienza. Fondazione Golinelli ha sempre creduto nella potenzialità di questo connubio per diffondere cultura e conoscenza: le stagioni più alte della cultura umana si sono prodotte quando arti e scienze si sono intrecciate in modo fecondo. L’intento della mostra è contribuire a colmare la frattura oggi in essere tra cultura umanistica e cultura scientifica. «Imprevedibile» scrive Cristiana Perrella «muove dalla sensazione di incertezza che caratterizza la nostra vita in un momento storico di grandi e rapidissimi cambiamenti, di questioni cruciali per l’umanità […] che richiedono di essere affrontate urgentemente, ma senza poter ricorrere a parametri già noti. […] Abitare l’incertezza è forse una delle cose che gli artisti sanno fare meglio, rilevando sensibilità, urgenze e segnali inespressi della loro epoca senza temere la contraddizione, gli errori, lasciando spazio al dubbio, alle molteplici interpretazioni. L’arte è fondata sull’immaginazione e si alimenta di possibilità, intuizione e speculazione, non di sicurezza». Il futuro non si lascia prevedere, se non per caso, e non si può controllare, ma possiamo prepararci al tempo che ci attende «e soprattutto dobbiamo» come scrive Giovanni

Carrada «cercare per quanto ci è possibile di contribuire a crearlo, cercando in quello che accade oggi i semi di quello che potrebbe accadere domani», consapevoli però che «le analogie fra allora e oggi […] ci offrono delle possibilità, ma sta a noi cercare di realizzarle. Perché il futuro, oltre che imprevedibile, è aperto. È fonte di rischi insospettati, ma anche di nuove soluzioni». Il percorso espositivo mette in dialogo opere di artisti contemporanei italiani e internazionali, scelti per la capacità di attivare connessioni impreviste, chiarire concetti complessi attraverso la loro evidenza visiva, suscitare emozioni in grado di trasmettere, rispetto alla scienza, un diverso tipo di conoscenza e di comprensione, con una serie di exhibit di argomento scientifico, prevalentemente video, lasciando che le suggestioni dell’arte e della scienza aiutino il visitatore a farsi un’idea più ricca e complessa dell’argomento, sviluppando un proprio punto di vista sul futuro che ci aspetta. La mostra si articola in sei sezioni: “Il futuro arriva comunque: l’insieme delle tecnologie che abbiamo creato e che guidano il nostro futuro, evolvendo continuamente e modificando di conseguenza le società, hanno una forza ormai grande quanto quella della natura”.

Veduta della mostra IMPREVEDIBILE, Centro Arti e Scienze Golinelli, Bologna. A parete: Pablo Bronstein, The Age of Steel, 2014-2015. Al centro: Yinka Shonibare MBE, Girl on Flying Machine, 2008. Foto: OKNOstudio 39


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In questa prima sezione il disegno di grandi proporzioni di Pablo Bronstein “The Age of Steel”, 2014-2015, generato dal computer, dialoga con la scultura di Yinka Shonibare “Girl on Flying Machine”, 2008. Con il suo lavoro Brostein rilegge a livello simbolico i mezzi meccanici e le fabbriche, novità della rivoluzione industriale; allo stesso tempo l’idea dei macchinari utilizzati come soggetti da carta da parati allude al declino attuale della produzione industriale pesante e alla riconversione architettonica e funzionale dei suoi luoghi operata dalle industrie creative. La scultura di Shonibare, una bimba vestita dai consueti tessuti dai colori sgargianti comunemente considerati come originali africani, mentre sono in realtà prodotti olandesi esportati in Africa, che guida con entusiasmo e sicurezza una macchina volante del XIX secolo. L’opera riflette sul progresso tecno-

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logico e sottolinea come le innovazioni all’origine della rivoluzione industriale abbiano determinato crescita e progresso ma anche imperialismo e colonialismo. “Il futuro crea più di quanto distrugga: il progresso materiale e quello civile dipendono dall’innovazione, la quale va a beneficio di tutti”. Questa seconda sezione è dedicata a “Little Sun”, 2012, di Olafur Eliasson e Frederik Ottesen. “Little Sun” non è una semplice lampada a forma di girasole che funziona ad energia solare ma è un importante progetto di imprenditoria sociale, con l’obiettivo di portare luce ed energia sostenibili a tutte quelle popolazioni che non hanno accesso all’elettricità. “Little Sun” mostra in modo semplice come l’innovazione e il progresso tecnologico possano creare più di quanto distruggono, aiutandoci a sperare in un futuro migliore.

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“Il futuro non si lascia prevedere (per fortuna): se il futuro fosse prevedibile, i Paesi più avanzati avrebbero i mezzi per approfittarne, restando gli unici a guidarlo: l’imprevedibilità garantisce invece che nessuno potrà mai dominarlo”. In questa terza sezione è presentata l’opera video di Christian Jankowski “Telemistica”, realizzata per la Biennale di Venezia del 1999 curata da Harald Szeemann, e che ha segnato il successo dell’artista tedesco a livello internazionale. “Telemistica” pone lo sguardo sul bisogno umano di prevedere il futuro, in questo lavoro Jankowski, con lo sguardo ironico che lo contraddistingue, interroga dei cartomanti che conducono programmi TV sul successo del suo lavoro in Biennale. “The remaining life of Nasan Tur”, 2013, di Nasan Tur, è un piccolo display led orizzontale che mostra un conto alla rovescia espresso in secondi: la prospettiva di vita residua dell’artista. Conclude la sezione l’installazione audiovisiva realizzata con grafica computerizzata “data.tron[WUXGA version]”, 2011, di Ryoji Ikeda. L’artista ha utilizzato per quest’opera un vastissimo database di dati grezzi tra cui anche una parte di quella miriade d’informazioni personali che produciamo quando navighiamo sul web. Guidate da una colonna sonora potente e ipnotica, immagini in bianco e nero ed elaborazioni grafiche si susseguono velocemente e in un numero potenzialmente infinito. “Il pregiudizio contro le cose nuove: di fronte all’incertezza che ogni vera innovazione porta con sé, la mente umana non è un giudice imparziale. Il rischio è però connaturato con l’innovazione”. La quarta sezione presenta le sculture in fiberglass “Cow of the Future”, 2014, di Joep Van Lieshout, oggetti creati per delle immaginarie tribù del futuro, in linea con l’ipotesi dell’artista al ritorno a una società più primitiva in cui gruppi di persone si organizzeranno in tribù autosufficienti, vivendo in una condizione sospesa tra utopia modernista e primitivismo. Come ossessionato dai ricordi, Flavio Favelli raccoglie oggetti provenienti dal passato che riassembla trasformandoli in creazioni dense di nuovi significati. In “Mille luci” l’artista fiorentino rilegge i simboli delle insegne luminose, come quella dei lubrificanti IP cui è sovrapposta l’immagine mitica di Marilyn Monroe. “Fare i conti con la natura: gran parte dei problemi ambientali sono il prezzo che paghiamo per consentire a tutti noi la vita con gli agi cui siamo abituati, ma l’innovazione può ormai giocare un ruolo importante a favore della natura”. La quinta sezione presenta le opere di Tomas Saraceno, Superflex e Tue Greenfort. “Cosmos Fabric”, 2011, come in generale tut-


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te le opere di Saraceno, sono ispirate dalle forme della natura e del cosmo, nascono dal desiderio di cambiare la nostra visione del mondo, stimolando l’immaginazione e suggerendo un’altra realtà possibile e alternativa a quella che conosciamo, in cui uomo e natura possano integrarsi in modo armonioso, costruendo una rete di scambio e sostegno reciproco. “Experience climate change as an animal”, 2009, di Superflex è un progetto iniziato nell’ambito del programma culturale collegato a una Conferenza ONU sul cambiamento climatico. In quest’occasione gli artisti hanno proposto al pubblico di adottare, attraverso l’ipnosi, l’inconsueto punto di vista di animali che hanno subito l’impatto del riscaldamento globale. “Periphylla V, Periphylla VI, Periphylla VII”, 2016, di Tue Greenfort, è il nome di una grande medusa abissale che da 500 milioni di anni nuota oltre i 700 metri di profondità in acque fredde. Le tre sculture dell’artista danese vogliono fare riflettere sui cambiamenti climatici e le loro ripercussioni economiche e sociali, come il caso della Periphylla, dilagato negli ultimi 40 anni nei fiordi della Norvegia, da quando queste meduse si sono progressivamente spinte più in superficie e verso le coste, distruggendo gli stock ittici presenti nei fiordi. “Chi non innova rischia di perdere anche il pro-

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prio passato: si indaga il passato di grandi nazioni, come la Cina e l’Inghilterra, e si riflette su quello del nostro Paese, per comprendere la necessità di rinnovarci”. La sesta e ultima sezione presenta l’opera di Ai Weiwei “Very Yao”, 2008 e appartiene alla lunga serie di opere dell’artista cinese con le biciclette, mezzo di trasporto che è stato fino agli anni ’80 parte integrante dell’identità cinese, usato da tutti. L’opera fa riflettere sul costo del cambiamento che ha dovuto pagare la Cina contemporanea: la propria anima. Attraverso questa torre monumentale di biciclette senza catena, Ai Weiwei sottolinea il crollo del numero di persone che si spostano in bicicletta poiché la corsa alla modernità della Repubblica Popolare ha posto come must have avere un automobile. L’opera neon “Work No.2833: Don’t Worry”, 2017, di Martin Creed è posizionata in un angolo, in modo che la Y di Worry sia separata dal resto e suggerisca un gioco di parole, infatti la Y nel linguaggio delle chat sta per “yes” oppure “why”. La frase sembra a prima vista voler rassicurare, ma allo stesso tempo insinua un dubbio. Come sempre mostrano le opere di Creed, con la loro leggerezza, l’arte insegna a porsi domande piuttosto che a cercare certezze e a raggiungere attraverso gli interrogativi una visione più complessa della realtà.

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IMPREVEDIBILE, essere pronti per il futuro senza sapere come sarà a cura di Giovanni Carrada e Cristiana Perrella Prodotto da Fondazione Golinelli Progetto allestimento: Mario Cucinella Architects 13 ottobre 2017 – 4 febbraio 2018 Centro Arti e Scienze Golinelli | Opificio Golinelli via Paolo Nanni Costa 14, Bologna Orari: lunedì-venerdì 10.00-19.00 | sabato e domenica 11.00-18.00 | chiusa dal 23 dicembre 2017 al 7 gennaio 2018 Info: www.artescienzaeconoscenza.it www.fondazionegolinelli.it

Veduta della mostra IMPREVEDIBILE, Centro Arti e Scienze Golinelli, Bologna. In primo piano Ai Weiwei, Very Yao, 2008, sullo sfondo Martin Creed, Work No.2833: Don’t Worry, 2017. Foto: OKNOstudio Nella pagina a fianco: Ryoji Ikeda, data.tron[WUXGA version]”, 2011, installazione audiovisiva, proiettore DLP, computer, altoparlanti, dimensioni variabili. Soggetto e composizione: Ryoji Ikeda. Grafica computerizzata, programmazione: Shohei Matsukawa, Tomonaga Tokuyama. Veduta dell’installazione presso il Museo de Arte, Universidad Nacional de Colombia, Bogota, CO, 2011. Foto: Leon Dario Pelaez. Courtesy dell’artista e Almine Rech Gallery Veduta della mostra IMPREVEDIBILE, Centro Arti e Scienze Golinelli, Bologna. Da six a dx: Tomas Saraceno, Cosmos Fabric, 2011; Tue Greenfort Periphylla V-VI-VII, 2016; SUPERFLEX Experience climate change as an animal, 2009. Foto: OKNOstudio


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ARTE

MANHATTAN IN SARDEGNA: BETTINA POUSTTCHI AL MUSEO NIVOLA ORANI (NU) | MUSEO NIVOLA | FINO AL 14 GENNAIO 2018 di DAVIDE MARIANI

Il Museo Nivola ospita negli spazi dell’Ex lavatoio, la prima personale italiana di Bettina Pousttchi a cura di Giuliana Altea e di Antonella Camarda. Artista tedesco-iraniana con base a Berlino, Pousttchi ha sviluppato, a partire dalla seconda metà degli anni Duemila, una ricerca al crocevia tra scultura, architettura e fotografia, attraverso la realizzazione di installazioni a dimensione ambientale che puntano a interrogare la storia e la memoria dei luoghi, il significato dei landmark urbani e i valori di cui vengono investiti dalla collettività. L’opera che ha reso nota l’artista in campo internazionale è Echo Berlin (2009), un gi-

gantesco wallpaper fotografico del distrutto Palast Der Republik – edificio-simbolo della DDR – che ne riproduceva la facciata rivestendo interamente la poco lontana Temporäre Kunsthalle di Berlino. Altre volte, come è accaduto con Suspended Mies all’Art Club di Chicago (2017), le sue installazioni interessano gli spazi interni modificandone la percezione. Il progetto realizzato per il Museo Nivola appartiene a questo secondo filone: l’ambiente espositivo infatti è stato completamente trasformato da un intervento sitespecific, una enorme stampa fotografica su tessuto che pende dal soffitto e attraversa

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Bettina Pousttchi, Metropolitan Life, particolare dell’opera al Museo Nivola di Orani. © Ph. Cédric Dasesson


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l’intero spazio, ridefinendolo. Partendo da quella che è stata l’esplorazione urbana di Costantino Nivola a New York, Pousttchi ha rielaborato digitalmente la facciata del Metropolitan Life Building, grattacielo newyorkese sito sulla Madison Avenue, di fronte al Flatiron Building e non lontano dallo studio dell’artista italo-americano. L’edificio, che fino al 1913 è stato il più alto del mondo, poco dopo la sua costruzione nel 1909 aveva ricevuto numerose critiche per via del suo carattere “italianeggiante” (non è difficile leggervi dei riferimenti al campanile di San Marco a Venezia). Proprio questa sua identità ibrida, che richiama dislocazioni culturali e spazio-temporali tra vecchio e nuovo mondo, Rinasci-

Veduta della mostra Bettina Pousttchi. Metropolitan Life al Museo Nivola © Ph. Cédric Dasesson

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mento e Modernismo, Europa e Stati Uniti, lo rende oggi quanto mai attuale. La sua ricollocazione virtuale in Sardegna, a Orani, aggiunge una ulteriore dimensione a questo gioco di riferimenti incrociati fra tempo e spazio, in una prospettiva transnazionale. Bettina Pousttchi. Metropolitan Life a cura di Giuliana Altea e Antonella Camarda Fino al 14 gennaio 2018 Museo Nivola via Gonare, n.2, Orani (NU) Orari: 10.00 – 13.00 / 15.30 – 19.00 Chiusura settimanale: mercoledì Info: +390784730063 info@museonivola.it www.museonivola.it


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EDITORIA

GIULIO PAOLINI. OPERE SU CARTA: UN LABORATORIO GESTUALE PER LA PERCEZIONE DELL’IMMAGINE EDITORIA | GIULIO PAOLINI | PRINP EDITORIA D’ARTE 2.0 Una conversazione con l’autrice ILARIA BERNARDI di Elena Inchingolo

Giulio Paolini (Genova, 1940) è uno degli artisti italiani più noti a livello internazionale, tuttavia il corpus delle sue opere su carta – ovvero disegni e collages di piccole e medie dimensioni – fino ad oggi risulta sorprendentemente inesplorato, in buona parte inedito e mai oggetto di ricerche scientifiche, né di pubblicazioni, né di una catalogazione ragionata. Giulio Paolini. Opere su carta: un laboratorio gestuale per la percezione dell’immagine, la monografia di Ilaria Bernardi, storica dell’arte e curatrice, edita da Prinp Editoria d’Arte 2.0, costituisce il primo studio sul tema e focalizza l’attenzione sul primo ventennio d’attività dell’artista, 1960-1980, poiché ritenuto di maggior autonomia rispetto alle opere di più ampio formato (quadri, sculture, installazioni) degli stessi anni. La pubblicazione indaga il processo creativo di Paolini, individuando per la prima volta le sue fonti iconografiche e concettuali, il valore dei materiali utilizzati, e soprattutto i suoi gesti distintivi e bipolari, che rivelano l’essenza visiva e percettiva di ciascuna opera. Nel testo si descrive in maniera approfondita la gestualità più istintiva e ricorrente dell’operare su carta dell’artista suddivisa in 9 azioni specifiche: lacerare, accartocciare, con-centrare, dis-perdere, duplicare, interferire, simulare, misurare, mani-polare. Ogni atto in sé esprime una bipolarità, un doppio gesto che afferma, nega e conferma il suo significato, in un fare e dis-fare continuo, che conferisce un senso compiuto al mani-polare, “ovvero operare su carta con le mani al fine di concentrarsi metonimicamente e metalinguisticamente sul supporto cartaceo” – come Ilaria Bernardi sostiene. L’immagine scelta per la copertina, input visivo, che introduce alla lettura del volume, corrisponde ad una fotografia che, alla fine degli anni Settanta, Giulio Paolini commissionò al fotografo torinese Mario Sarotto con l’intento di utilizzarla quale elemento d’immagine in alcune sue opere. Afferma l’artista: “Ho so-

vrapposto alcuni fogli bianchi l’uno sull’altro in modo leggermente sfalsato così che si denunciassero come sovrapposizione fissata da una puntina”. «Così le pagine stesse del libro – continua l’autrice – sembrano l’ideale prosecuzione di “quei fogli fermati da una puntina” rappresentati in fotografia e sottendono la seguente metafora insita nel volume: come il blocco bianco per appunti è per molti di noi il luogo più privato per l’elaborazione dei nostri pensieri e segreti, per Paolini l’opera su carta rappresenta il suo laboratorio più intimo per una riflessione sulla percezione dell’immagine». Incontriamo Ilaria Bernardi durante la Torino Art Week, in occasione della presentazione del libro ad Artissima… Come nasce l’idea del libro? Il libro nasce da uno studio che ho intrapreso nel 2011, dettato innanzitutto da un mio grande interesse per il lavoro di Giulio Paolini. Il primo approccio alla ricerca mi fu dato da Maddalena Disch, direttrice della Fondazione Giulio e Anna Paolini, la quale in una conversazione mi accennò che l’ampissimo corpus di opere su carta dell’artista non era mai stato oggetto di studio né argomento di qualche pubblicazione, e che non era nemmeno mai stato catalogato né archiviato. Proposi a Maddalena di potermi cimentare nell’analisi di quella ancora poco conosciuta tipologia di produzione, cogliendo l’occasione di farla diventare materia per un mio dottorato di ricerca. Col tempo nacque poi una doppia collaborazione che prevedeva da un lato un’indagine storico-artistica sull’opera su carta di Paolini e dall’altra un incarico, affidatomi dalla Fondazione Giulio e Anna Paolini, di archiviazione e catalogazione di questo corpus di opere che comprende più di 1000 esemplari realizzati a partire dal 1960, anno di inizio della produzione artistica di Paolini, fino ai tempi più recenti. La prima particolarità che ho notato affrontan-

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do il lavoro è stata l’evidente differenza tra le opere del ventennio 1960-1980, dotate di una certa autonomia concettuale e formale, e la produzione successiva, dalla netta identità progettuale, strettamente connessa con quadri, sculture e installazioni. Le opere del primo ventennio sono per l’artista un laboratorio privato in cui egli si sente libero di riflettere sul tema, per lui fondamentale, della percezione visiva colta nel rapporto tra l’immagine (foglio bianco incluso) e il suo fruitore (artista incluso). Il libro nasce quindi dall’esigenza di poter condividere con il pubblico il piacere di conoscere e confrontarsi, come è capitato a me in prima persona, con un Paolini del tutto inedito, che ponendo l’attenzione sui suoi gesti operati su carta, sulla composizione della pagina e sulla percezione visiva, dimostra di non essere un concettuale puro in quanto non rinuncia mai all’immagine, come invece fanno i concettuali anglosassoni: la sua è una sfida costante alla ricerca dell’immagine, pur nella consapevolezza della sua virtualità e inafferrabilità.


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Per quanto tempo e in che modo hai lavorato al progetto in funzione della pubblicazione di Prinp Editore? L’archiviazione e catalogazione delle opere su carta è iniziata nel 2011 ed è terminata nel febbraio 2016. Ci tengo però a precisare che l’archiviazione e catalogazione è sempre “in progress” e che se collezionisti o appassionati avessero qualche novità a riguardo sono invitati a rivolgersi alla Fondazione Giulio e Anna Paolini. L’idea della pubblicazione nasce all’inizio del 2015. Procedo per circa un anno all’elaborazione del testo finalizzata al progetto editoriale, poi per motivi professionali sono obbligata a sospenderla per riprenderla e portarla a termine circa 8 mesi fa. L’editore, Prinp Editoria d’Arte 2.0, di Torino, è stato eccezionale perché mi ha seguita in tutte le mie esigenze, anche grafiche, in maniera esemplare: ho infatti richiesto un’impostazione grafica che simulasse un blocco di appunti anni Sessanta/Settanta, con il font dattiloscritto, e con l’impaginato compatto come avevano le pubblicazioni di allora. Desideravo infatti che fosse in linea con il periodo trattato e che desse rilievo alla forte connotazione scientifica da me conferita al volume: l’impaginato più “scarno” rispetto alle pubblicazioni dell’editoria contemporanea ma in linea con il periodo cronologico trattato, è anche funzionale a cercare di portare l’attenzione sui contenuti piuttosto che sulle “lusinghe” di una grafica “d’effetto”. Potresti raccontarci un aneddoto che ti è rimasto particolarmente impresso durante la tua ricerca? Non parlerei di aneddoto, ma di una vera e propria esperienza formativa, grazie al rapporto personale con Maddalena Disch e con Giulio Paolini. Maddalena Disch è una persona eccezionale sia da un punto di vista della conoscenza dell’argomento – collabora con l’artista seguendone l’archivio dal 1995 –, sia per la sua lungimiranza rispetto all’importanza degli archivi d’artista, sia per il suo metodo di lavoro. Negli anni mi ha seguita con affetto, gentilezza e attenzione, insegnandomi come si realizza un archivio e un catalogo ragionato, e l’importanza di entrambi per il presente e per il futuro. Dalla frequentazione diretta e continuativa con Giulio Paolini ho imparato a relazionarmi con un artista straordinario dall’inaudita sensibilità e coerenza concettuale che ho potuto apprezzare nelle innumerevoli interviste che gli ho rivolto: a distanza di più di cinquant’anni, è riuscito non solo a rintracciare le ragioni che lo hanno spinto alla realizzazione di ciascuna opera, ma anche a effettuare un racconto li-

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neare e coerente sulla sua produzione su carta dal 1960 fino ad oggi, tanto da sembrare che dall’inizio avesse già in mente ciò che avrebbe fatto in futuro. Sulla carta il gesto dell’artista è autonomo e autentico. Come, a tuo avviso, il lavoro su carta di Giulio Paolini si differenzia dalle opere scultoree e installative? Certamente, come già anticipato, l’opera su carta di Giulio Paolini del primo ventennio di attività si differenzia dalla produzione successiva e in maniera significativa dalle opere su altri supporti, perché si sviluppa in maniera autonoma attraverso le gestualità e gli elementi propri della grafica, disciplina che Paolini studia alle Scuole Superiori, presso l’Istituto per le Arti Grafiche e Fotografiche Bodoni di Torino. Nelle opere realizzate tra il 1960 e il 1980, è particolarmente spiccata l’attenzione per la possibilità o meno di leggere l’immagine. Ecco allora che alla politezza, all’equilibrio, alla simmetria della composizione si alterna la sua negazione in un gioco di continue sollecitazioni visive, alle quali si aggiunge una grande attitudine per la carta e per la sua manipolazione, dettata anche da un retaggio familiare in quanto suo padre era un rappresentante grafico-cartario. Paolini, proprio per questo motivo, nel lavorare su carta, a mio avviso, è più “autentico”, perché il suo rapporto con la materia è più immediato, più intimo, più “familiare”. Se ti chiedessi di definire le opere su carta di Paolini in tre parole? Si tratta di un laboratorio, intimo e originale, dove, attraverso il gesto, mette in rilievo l’importanza e la forza dell’immagine nonché dello spazio destinato a contenerla. Nell’opera su carta il gesto dell’artista è diretto, evidente, e permette pertanto di comprendere meglio il reale significato della non autorialità da lui da sempre professata. Nel suo lavoro, l’autore c’è quale soggetto agente, con una propria grammatica e “struttura dell’immaginario”, ma non c’è quale creatore ex-novo di qualcosa di concluso e di definitivo. Non vede, non crea, non inventa alcunché, ma si limita a manipolare qualcosa di preesistente che include tutte le visioni possibili. Il qualcosa di preesistente comprende innanzitutto lo spazio del supporto destinato per sua natura ad accogliere immagini, ma comprende anche riproduzioni fotografiche desunte da libri, da riviste d’arte, da settimanali e da fonti a stampa più varie utilizzate per realizzare numerosi lavori su carta. È questo repertorio visivo che ho cercato di rintracciare e documentare nel mio volume andando a scoprire le fonti da cui Paolini ha tratto le immagini preesistenti incluse nei suoi lavori su carta.

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Giulio Paolini, Senza titolo, 1976, collage su carta cm 32,7×24,6. Collezione privata, Ascoli Piceno © Giulio Paolini. Courtesy: Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino

Il libro analizza le opere su carta di Paolini dagli anni Sessanta al 1980. Hai in progetto di proseguire il lavoro fino alla produzione più recente? L’archiviazione e catalogazione di tutte le opere su carta, incluse quelle post 1980, è già stata realizzata anche se, come già detto, è sempre “in progress”. Per quanto riguarda, invece, una nuova pubblicazione che possa essere una prosecuzione ideale del lavoro iniziato, credo non sia possibile; intendo con la stessa modalità esecutiva del presente volume, in quanto la lettura delle opere successive al 1980, essendo così legate ai quadri, alle sculture e alle installazioni dell’artista, andrebbe necessariamente a coincidere e dunque a replicare la già eccellente interpretazione data a questi diversi tipi di produzione da Maddalena Disch nel catalogo ragionato edito da Skira nel 2008. Mi auguro, tuttavia, che questa prima pubblicazione sull’opera su carta di Giulio Paolini offra nuovi spunti per future indagini in merito. GIULIO PAOLINI Opere su carta: un laboratorio gestuale per la percezione dell’immagine Editore: Prinp Testi di: Ilaria Bernardi Foto: courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino Pagine: 242 Formato: 15×22 cm Info: https://prinp.com


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EDITORIA

UN LIBRO CHE RACCONTA DI CARTE… LUCA PIGNATELLI. OPERE SU CARTA | SKIRA EDITORE Intervista a LUCA PIGNATELLI di Matteo Galbiati

Un portone anonimo, come tanti se ne trovano per le vie di Milano, nasconde e protegge un ambiente di assoluto fascino, un luogo che non ti aspetti e non ti immagini. Luca Pignatelli (1962) ci accoglie nel suo studio, un enorme spazio che molti altri ne ricava al suo interno, stanza dopo stanza si rivelano le mille sfaccettature che compongono la personalità del loro “custode”. Carte, cataloghi, oggetti d’antiquariato o pezzi semplicemente “vecchi” con tutta la loro storia avvolta nella loro apparente decadenza, opere finite e in corso di realizzazione; un salottino, una biblioteca, un archivio, un magazzino che ha il sapore di casa, un seminterrato che invita alla scoperta. Qui lo incontriamo per parlare con lui del volume Luca Pignatelli. Opere su carta, ultima monografia che parla della sua ricerca e, nello specifico delle opere su carta. Da ospite perfetto non ci mette molto a rendere calda e confidenziale, quasi famigliare, la nostra visita. Ecco il riassunto della nostra conversazione:

Luca Pignatelli. Opere su carta, a cura di Danilo Eccher, Skira (copertina del volume)

Questo volume raccoglie le opere su carta: da quale esigenza deriva? Come nasce questo impegnativo progetto editoriale? Nasce come conseguenza della mostra Blue note. Opere su carta alla GAM di Torino, quando Danilo Eccher ha accolto un preciso progetto, curato da Elena Lydia Scipioni, interamente dedicato alle mie opere su carta. Avevano voluto dare continuità al mio lavoro senza distinzioni tra carte e dipinti, anzi, individuando proprio nelle carte un’autonomia e un’indipendenza specifiche che le inserisce nel pieno della mia ricerca con pari “dignità” delle tele, senza intenderle come “prove” o “bozze”. Si è voluto, così, sottolineare la coerenza e la continuità del mio linguaggio. Il lavoro si qualifica prescindendo da scelte tecniche e di mezzo. Del resto, con le carte, ho un rapporto che definirei antico, affonda le sue radici nell’ammirazione provata da ragazzo davanti al cartone di Raffaello conservato all’Ambrosiana, davanti al suo formato, alla grandezza della sua visionarietà d’insieme. Ho una passione irrinunciabile per il lavoro dei grandi maestri. Il volume ha poi seguito un suo percorso autonomo e, sganciandosi dalla mostra e abbracciando l’idea di creare un vero e proprio libro, ha entusiasmato tutti, ma ci ha anche “costretti” ad un copioso lavoro di studio, analisi, recupero e riordino dei molti materiali che abbiamo, alla fine, pubblicato. Come sono stati organizzati i materiali raccolti? Le mie carte seguono un percorso altalenante che si muove tra astrazione e figurazione, con l’occasione di pubblicarle in questo volume, per la prima volta, ho avuto modo di mettere “ordine” alle molte varianti e sfumature delle mie opere. Per il resto si è proceduto con una logica ferma, dando spazio a lavori inediti che vengono pubblicati per la prima volta, ed altri che non sono mai usciti dal mio studio. Dentro si trova di tutto, dai “treni” alle architetture, dalle forme geometriche, al rapporto con

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Luca Pignatelli, Fonderia, 2014, tecnica mista su carta, cm 33x33

l’antico. C’è un riassunto molto preciso della mia anima artistica e la sua identità. Che orientamento segue il volume? Cosa emerge? Si sviluppa seguendo un racconto che potrei definire come un riassunto dell’esperienza del ‘900: il mio sguardo è di artista che ha vissuto e si è formato in quel secolo. Raccoglie le suggestioni che hanno “impressionato” il mio lavoro, le energie della storia artistica che ha cambiato corso in quel contesto. Oggi osservo una polverizzazione degli stimoli, dei modelli e la grande mescolanza che sembra imperare, in realtà, è un nemico insidioso perché toglie identità ai singoli caratteri, ai singoli luoghi. Io esigo che il mio lavoro parli di me, ma anche della storia da cui provengo. Quali immagini, temi ed elementi si riscontrano in queste carte rispetto la tua poetica in generale? Cosa raccontano queste opere? Come dicevo non vedo – trovo concordanza in questo con molti dei critici che hanno letto il mio lavoro – dissonanza tra tele e carte, i temi son gli stessi; detto questo un lavoro su carta conserva sempre il calore e la tensione dell’immediatezza dell’idea, assolve


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all’impatto primario del pensiero che vuole tradursi in opere, senza formalizzarsi nella magnificenza del grande lavoro pittorico. Il disegno è, e rimane, sempre più libero, scanzonato, ironico. È una vibrazione nervosa, per Michelangelo era il collegamento tra mano e cervello. Nel disegno trovo la possibilità di variare in modo libero, aperto, sperimentando una ripetizione differente che riplasma e rinvigorisce spesso lo stesso soggetto (ad esempio i Treni) e intercetta la variazione continua delle cose. Il disegno è libero variare e ripetere. Che approccio differente ci restituiscono, allora, di Luca Pignatelli, le carte rispetto agli altri suoi lavori? Quali peculiarità le denotano? Le carte sono istinto, il quadro è gesto eroico. Quest’ultimo si forma con un lavoro impegnativo, concentrato, meditato e assolto con un tempo preciso e curato. Le carte abbracciano elementi che tacitamente sono in accordo “automatico”, spontaneo. Rimando ancora agli artisti dei secoli passati: col disegno loro coglievano spunti istantanei, folgorazioni immediate che si dovevano fissare veloci, prima che la loro efficacia si consumasse svelta. Il mio approccio è quello di chi deve deve raccogliere forme visuali dalle idee, dall’immaginazione. Il quadro di contenuti di questo volume si arricchisce di numerosi apporti critici – e di dialoghi tra artista e critico – come s’inseriscono e distribuiscono nell’articolata trama della monografia? Devo riconoscere il merito a Danilo Eccher, lui ha saputo tessere le trame di questa pubblicazione. Ha coinvolto e chiamato alcuni critici le cui letture si sono indirizzate a temi specifici, questo ha arricchito enormemente il contenuto complessivo che, avvantaggiandosi di analisi personalissime, ha dato spontaneità e ricchezza alla parte critica, mai celebrativa, mai enfatica e sempre efficace, sinceramente sentita da ogni studioso intervenuto, nel determinare specifiche visioni e interpretazioni. Rispetto ai testi, un aspetto che trovo importante e coinvolgente è che la lettura procede quasi come una narrazione che lascia calare nella profondità plurisemantica del suo percorso di ricerca e leggendolo si esce dalla canonica struttura del “catalogo” d’arte… Questo è il punto centrale di questo libro che proprio si allontana dalla canonica definizione di catalogo. Diventa uno spazio aperto, intenso, vissuto in un’alternanza tra opere e testi che rende tutto fluido, sponta-

neo. Giusto e perfetto. Sono molto contento dell’esito finale. Cosa la soddisfa maggiormente di questo volume? Mi piace poter sfogliare tutte queste carte e, in una sola volta, vederle tutte assieme. Mi piace poterlo considerare un libro e, per quanto esaustivo e completo, non una monografia monumentale e sontuosa, il classico catalogo insomma. Sono contento di tutti i testi che articolano la formulazione di un discorso variegato che “dura” per tutto il volume. Chi ha coinvolto la sua realizzazione? Chi deve ringraziare? Sono contento che questo libro sia stato prodotto dalla Galleria M77, un fatto non affatto scontato, come abbiamo visto, per la tipologia di pubblicazione. Quindi un ringraziamento particolare va certamente a loro. Poi a tutti coloro che hanno partecipato a questa impresa, nessuno escluso. Siamo in uno studio che ha un fascino assoluto. Quanto conta questo ambiente che, per come l’hai concepito, esula dal mero luogo di lavoro… In effetti è un ambiente che ho la necessità di vivere tutti i giorni. Se non sono in viaggio, qui vengo sempre, a prescindere se devo o meno lavorare. Qui entro all’interno delle mie “situazioni”, non è un luogo che sta ancorato ad un’identità precisa, io lo vivo nell’aprirsi alle sue mille identità, alle sue svariate sfumature. È ambiente che ha più dimensioni, tutte possibili. Solo qui colgo energie particolarissime che accentrano l’a-

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nima del mio fare. Prossimi progetti? Cosa sta preparando per la prossima stagione espositiva? Sono sempre un po’ segreti… Non annuncio mai progetti in divenire, comunque sono progetti importanti che mi stanno coinvolgendo. Penso si debba abolire l’aspettativa… Bisogna concentrarsi sul lavoro! Quello che posso dire è che di sicuro farò mostre! Titolo: Luca Pignatelli. Opere su carta A cura di: Danilo Eccher Testi di: Danilo Eccher, Arturo Carlo Quintavalle, Elena Lydia Scipioni, Arianna Bona, Anna Musini, Luca Beatrice, Luca Doninelli, Achille Bonito Oliva, Donald Kuspit, Marina Fokidis, Angela Tecce, Michele Buonuomo, Salvatore Veca, Antonella Renzietti Anno: 2017 Pagine: 284 Immagini: 211 Edizione: italiano (disponibile edizione in inglese) Prezzo: Euro 49.00 ISBN: 8857231358 Editore: Skira Editore

Luca Pignatelli, Treno 2384, 2013-2015, tecnica mista su carta, cm 69,7×99,2


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EDITORIA

L’ENCICLOPEDIA DELL’AUTOSCATTO: IL SECONDO VOLUME DE “IL CORPO SOLITARIO” DI GIORGIO BONOMI IL CORPO SOLITARIO (VOLUME II) | RUBETTINO EDITORE Intervista a GIORGIO BONOMI di Matteo Galbiati

Dopo il grande successo riscontrato da Il corpo solitario (edito nel 2011 sempre per i tipi di Rubettino), la monumentale ricerca monografica, condotta da Giorgio Bonomi sul tema dell’autoscatto nella fotografia internazionale contemporanea, approda ora al secondo capitolo di questa impegnativa fatica editoriale. Con l’autore, impegnato in un tour di presentazioni che lo sta portando in ogni angolo d’Italia, abbiamo conversato sui nuovi contenuti della sua ampia ricerca: Finalmente è uscito il secondo volume de Il corpo solitario che stai ancora presentando in questi mesi: cosa ti ha spinto a proseguire la ricerca avviata con il primo volume? Due fatti: l’essermi dimenticato di alcune/i artiste/i anche famose/i e la scoperta di tanti giovani che praticano l’arte con la fotografia e in particolare con l’autoscatto. So che questo lavoro ti ha impegnato per un lungo periodo, come hai condotto i lavori di preparazione prima e come hai organizzato i contenuti nel volume poi? Lo storico, diceva Carlo Ginzburg, è come un detective, così ogni mostra, ogni articolo che poteva contenere “autoscattisti” mi impegnava in una continua ricerca, resa difficile da una certa “cialtroneria” che gli artisti dimostrano quando realizzano i siti in cui le opere vengono riprodotte senza indicare l’anno di esecuzione, la tecnica, il titolo stesso, senza riportare i recapiti per poterli contattare. Comunque ho esaminato quasi 2000 soggetti dei quali fanno autoscatti circa 800 che sono presenti nel II volume (nel primo erano circa 700). Hai voluto attuare qualche correzione o modifica rispetto al lavoro svolto, conscio dell’esperienza avuta con il primo tomo? Sì. Pur mantenendo la stessa impostazione e gli stessi titoli dei capitoli, ne ho tolto uno (quello che esaminava il corpo come merce

negli autoscatti di giornalini pornografici che ora, con internet, hanno perso completamente valore), e ho aggiunto tre capitoli dati i numerosi artisti che lavorano su temi specifici, cioè il corpo nei luoghi degradati, nella natura e delle artiste incinte. Quanti artisti hai raccolto? Sono tutti diversi, tranne alcune eccezioni, rispetto al precedente… Sì, non ho voluto ripetere se non in certi casi… Chi c’è e perché è presente in entrambi i volumi? Ho voluto inserire nel II volume non più di dieci artisti che erano presenti nel primo: sono giovani e credo che siano molto bravi, così ho voluto valorizzarli, escludendo i “famosi” che non ne hanno bisogno. Come li incontri-trovi? Ci sono “autocandidature”? Che criteri critici hai osservato per sviluppare la tua indagine e la tua analisi? Come ho già detto, il mio è un lavoro certosino di indagine e di ricerca, a volte mi vengono suggeriti dei nomi da altri artisti altre volte si propongono. Dato il carattere documentario della mia ricerca, non seleziono, ma registro: l’unica discriminante è che coloro che sono nel libro siano “artisti”, famosi o esordienti, giovani o vecchi, comunque “artisti” cioè che abbiano fatto delle mostre, che abbiano qualche critica, che operino con la “mentalità” dell’artista. La lettura attuata non passa esclusivamente attraverso una fotografia intesa nel “modo canonico”, ma accoglie anche sperimentazioni più “contemporanee”… Certamente, infatti, analizzo il corpo autofotografato in tutti i suoi aspetti, cioè come “narrazione” (come la Narrative Art), come “travestimento”, come messa in scena, oppure quando la stampa dell’immagine ricorre a tecniche “anomale”, vale a dire molto attuali

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Giorgio Bonomi, Il corpo solitario. L’autoscatto nella fotografia contemporanea. Volume II, Rubettino Editore (copertina del volume) Nella pagina a fianco: Marina Buratti, dalla serie Rito, 2013 Simona Palmieri, Senza titolo, 2007


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ma anche il ritorno ai sali d’argento. Come vede se stesso l’artista e come, il mezzo fotografico, ne influenza l’approccio? L’autoscatto resta sempre fedele alle ricerche del suo autore, oppure abbiamo un modo diverso di intendere la propria immagine? L’autoscatto funziona anche da “specchio”, e qui il discorso si farebbe troppo lungo, infatti occorrerebbe risalire all’uso dello specchio, e alla sua simbologia, dall’antica Grecia, comunque con l’autoscatto l’artista cerca la propria identità che può essere quella che ritiene “naturale”, “reale” oppure quella che “vorrebbe”, che “desidera”. Si tenga conto, però, che tra l’idea dell’immagine che si va a scattare e la sua realizzazione c’è sempre un elemento di casualità, dovuta al fatto che chi fotografa non vede quello che riprende ma solo lo pensa e il risultato potrebbe non coincidere del tutto.. Possiamo dire che questi due tomi costituiscano la rassegna più completa ed esaustiva sull’autoritratto fotografico? Credo proprio di sì. I pochi volumi pubblicati sono selettivi, oppure superficiali, come quello recente di Concita De Gregorio che farebbe bene a restare giornalista, dato che la saggistica richiede ben altri impegni. Quali sono gli autori, tra tutti quelli che hai elencato nella tua opera, che pensi abbiano una caratterizzazione più forte, che siano, in qualche modo, più significativi o connotanti? Chi e perché? Tralasciamo i “grandi” che hanno poi prodotto tanti “nipotini”, a volte intelligenti ed altre imbecilli (nel senso latino di “deboli”!), quali Cindy Sherman, la Woodman, Franco Vaccari, ma anche la svizzera Stefania Beretta, Maria Mulas eccetera. Mi piace qui citare un piccolo gruppo di artisti, che definisco “lo zoccolo duro” della mia ricerca e che inserisco in tutte (oramai più di dieci) le mostre che faccio: Francesca Della Toffola che si riprende, con un uso intelligente del Photoshop, nella natura con effetti preraffaelliti; Miriam Colognesi, grande scalatrice oltre che fotografa, che ama autoscattarsi sui ghiacciai (anche nuda!) o, michelangeloantonionescamente, sulle rive dell’Adriatico deserto; Marco Circhirillo che già ha al suo attivo varie modalità di au-

toripresa, dal corpo minuziosamente dipinto all’ambientazione dark fino alle recenti, interessantissime, “moltiplicazioni” del sé; Marina Buratti che offre una sorta di narrazione di sé, con la ripetizione del suo volto o con l’accostamento di più immagini del suo corpo intero o di parti di esso; Edoardo Romagnoli sempre ironico nelle sue “narrazioni”; ironica, nuda o vestita, è anche Andreina Polo; infine mi piace nominare Adriana Festa che ho conosciuto agli inizi della mia ricerca e del suo fotografare che in pochi anni è cresciuta, artisticamente, in maniera esponenziale.

bulimia mediatica, questa massa enorme di facce o corpi di cui non ce ne importa nulla sui desktop, ma il discorso riguarda tutte le pratiche dei social e quindi la sociologia, non l’estetica. È inoltre sconfortante vedere nei musei torme di idiote/i farsi i selfie davanti ai capolavori senza neanche guardarli!

Che valore ha oggi l’autoscatto artistico nella società attuale? Lo stesso che hanno i lavori letterari, filosofici, psicologici, storici sul problema della soggettività e dell’identità: problema dell’uomo, e quindi storico, e, come tale, destinato ad essere eternamente ridiscusso.

Prossimi impegni editoriali? Quali progetti puoi svelarci? Per ora mi riposo! Nell’ultimo anno e mezzo ho pubblicato quattro libri: credo che per un po’ basti. Quindi curo mostre, presento i miei libri e realizzo la mia rivista, e studio, restando fedele a quello che dico sempre ai giovani, e non solo: studiare, studiare, studiare sempre!

Ci dai, comunque, un tuo parere sul fenomeno globale del selfie che porta ad un’iper-produzione di “autoritratti”? So che non te ne sei occupato nella tua analisi per il valore sociale dell’osservazione di questa mania collettiva, non avendo valore e pretese culturali, estetiche e/o artistiche… Un po’ ironicamente li definisco “gli stupidi selfie”, perché se restano foto ricordo, e come tali me li faccio anche io, va bene, ma non vanno confusi con l’arte che è altra cosa. Il problema, ma non è solo dei selfie, è la

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Pensi potrebbe esserci un volume numero 3? Forse: già ho quasi 200 schede di nuovi autoscattisti, in parte da me conosciuti solo ora e in parte nuovi adepti a questo genere di arte fotografica.

Titolo: Il corpo solitario. L’autoscatto nella fotografia contemporanea. Volume II Autore: Giorgio Bonomi Anno: 2017 Pagine: 370 Prezzo: Euro 40.00 ISBN: 9788849850512 Collana: Rubettino Arte Contemporanea, Fotografia Editore: Rubettino Editore


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EDITORIA / PROGETTI

I NOVANTANOVE OGGETTI DI PETRIPASELLI 99OBJECTS | ART PROJECT Intervista a PETRIPASELLI di Matteo Galbiati

In occasione del lancio del primo e del secondo “capitolo” di 99objects – il nuovo complesso progetto di ricerca del duo artistico bolognese, costituito nel 2007, PetriPaselli (Matteo Tommaso Petri e Luciano Paselli) – abbiamo voluto intervistare la coppia di artisti per comprendere l’anima di questo lungo lavoro che li impegna su uno dei temi cari alla loro ricerca come il collezionismo. Quando e come nasce 99objects? Il progetto nasce i primi mesi del 2017 in seguito alla mostra Chiuso per malattia presso lo spazio Adiacenze di Bologna. In quella occasione ci siamo chiesti quale fosse il limite tra collezionismo e scienza oltre che la differenza tra collezionismo come hobby o come patologia. C’è stato uno slittamento del nostro interesse dal piano autobiografico a quello più generale e oggettivo, forse anche per mettere ordine al nostro archivio di esperienze e ricerche.

un determinato periodo o luogo specifico. La collezione cresce e invecchia insieme al collezionista e in questo senso diventa una estensione della persona stessa. Il vostro intervento risulta complesso anche per le aree differenti in cui si sviluppa: abbiamo il publishing, il blog, lo shop. Come e in cosa si differenziano? 99objects è un progetto di ricerca che non si esaurisce nell’ambito artistico. L’area publishing consiste nell’enciclopedia vera e propria: una collana di 99 libri che non sono concepiti come libro d’artista e sono pensati per una distribuzione di media-grande scala. Nella sezione blog del sito 99objects.it riportiamo una serie di curiosità legate all’oggetto del numero cartaceo in corso: in pratica una serie di schede di approfondimento che

Tema chiave è il complesso universo del collezionismo: come lo analizzate? Che visione ne date? Non diamo risposte. Mostriamo quanto sia vasto e sconosciuto il mondo sotterraneo del collezionismo, dando particolare attenzione ai “collezionismi popolari” e la loro connessione con la contemporaneità. Parlate di “collezionismi”, quali tipologie individuate? Che approccio si ha al collezionismo attraverso 99objects? Si potrebbe parlare di infiniti “-ismi”: dal collezionismo che riempie vuoti legati all’infanzia a quello da investimento, da quello che nasce da passioni di famiglia a quelli che sfociano ad accumuli senza forma e patologici. 99objects si propone di analizzare nel tempo le linee di confine tra un collezionismo e l’altro. Cosa significa per voi “collezionismo” e “collezionare”? Significa avere a portata di mano una mappa visiva della propria esperienza, raccogliendo oggetti che siano catalizzatori di

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PetriPaselli, 99objects, Issue 1/99, Souvenir Ashtrays


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PetriPaselli (Matteo Tommaso Petri e Luciano Paselli) In basso: PetriPaselli, Porto Canale di Bellaria, Souvenir d’Italie (99objects, Issue 1/99, Souvenir Ashtrays)

compensano la totale assenza delle parole dell’edizione cartacea. All’interno dello shop invece sono presenti, oltre ai volumi dell’enciclopedia, una serie di oggetti prodotti in collaborazione con grafici e designer che lavorano insieme a noi sull’estetica degli oggetti dei diversi libri: poster a edizione limitata, gadget, sculture e prototipi di oggetti di design. Affrontate l’oggetto e riproponete la documentazione in un libro d’immagini, poi la dimensione “teorica”, scritta, che passa attraverso il blog, infine, nello shop, si acquistano i numeri della rivista-libro, ma anche vi si trovano altre opere e pure lavori che avete realizzato con altre collaborazioni. Non rischiate di disperdere energie o distrarre lo sguardo su orizzonti diversi? È un progetto che rispecchia la complessità del tema trattato. Ha diversi livelli di lettura a seconda dell’attenzione e dell’interesse mostrato dal “visitatore”. Nel tempo si creeranno pubblici diversi che seguiranno solo il blog o, al contrario, saranno più interessati a completare l’enciclopedia cartacea. È un progetto in bilico tra l’arte, il design e l’editoria.

ri dagli schemi che era impossibile trovare un partner unico. Non avrà una evoluzione lineare e prestabilita. Abbiamo deciso di mantenere il pieno controllo dell’evoluzione del progetto scegliendo di volta in volta partner diversi e specifici a seconda della tematica trattata. Quando pensate si potrà chiudere questo lavoro? La sua complessità ne dilata le tempistiche… Avete fatto previsioni? Avete limiti, obiettivi e tempi prestabiliti o preventivati? Mantenendo un ritmo di una pubblicazione ogni 3-4 mesi finiremo di stampare tra 33-35 anni. È un periodo che spaventa, ma allo stesso tempo mette in gioco un aspetto molto interessante: il rapporto di potere tra noi e i nostri acquirenti/collezionisti. Solo

Quale approccio deve avere lo spettatore? Come deve leggere la vostra proposta? Con ironia e curiosità. Lo spettatore “modello” deve lasciarsi affascinare dall’avventura e da un mondo che sembra frivolo ma che è tutt’altro, nascondendo legami con il mondo socio-economico circostante, con l’antropologia, la psicologia, la letteratura e tanto altro. Questo progetto è totalmente autoprodotto, perché questa scelta di autonomia? Su quali risorse vi basate? È un progetto talmente vasto, vario e fuo-

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noi possiamo decidere i tempi, i modi e le quantità di collezioni da portare a termine. È un atto di fiducia nei nostri confronti e nei confronti della vita stessa! Dove saremo tutti tra 35 anni? Come prosegue il resto della vostra attività? Avete altri progetti in corso o di prossima realizzazione oltre a 99objects? Abbiamo diversi progetti, più o meno legati con 99objects. In questi giorni stiamo definendo una collaborazione con la Fondazione Museo Ettore Guatelli di Ozzano Taro, Parma… Sarà una bella sfida.

PetriPaselli. 99objects Publishing, blog & shop Info: www.99objects.it


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