Espoarte Digital 100 e 1/2

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Cover Artist Giuseppe Stampone

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Cotton Candy Maker#3 (frame)

11 APRILE- 1 GIUGNO 2018

KINDERGARTEN

Childhood denied

Anna Skoromnaya

Vincitrice assoluta del premio Arteam Cup 2017 a cura di Matteo Galbiati

INAUGURAZIONE Mercoledì 11 aprile ore 18:00 SPAZIO ARTE In collaborazione con

CUBO Centro Unipol BOlogna Piazza Vieira de Mello, 3 e 5 (BO) - Tel 051.507.6060 - www.cubounipol.it App CUBO


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ESPOARTE DIGITAL #100 ½ Espoarte Digital è un progetto editoriale di Espoarte in edizione esclusivamente digitale, tutto da sfogliare e da leggere, con i migliori contenuti pubblicati sul sito www.espoarte.net e molti altri realizzati ad hoc.

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Cover

GIUSEPPE STAMPONE, Saluti da L’Aquila, penna Bic su carta, 15 moduli, cm 40x34 ciascuno. Collezione La Gaia Busca Cuneo

indice

SU QUESTO NUMERO SI PARLA DI...

ESPOARTE Registrazione del Tribunale di Savona n. 517 del 15 febbraio 2001

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GIUSEPPE STAMPONE: UNA “FOTOCOPIATRICE INTELLIGENTE”… Intervista a GIUSEPPE STAMPONE di Matteo Galbiati

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L’ARTE ORAFA DI GIO’ POMODORO TRA SEGNO ED ORNAMENTO Intervista a PAOLA STROPPIANA di Livia Savorelli

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HIDDEN BEAUTY: DACCI E KINTERA CURATORI A ROMA Intervista a MARINA DACCI di Chiara Serri

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LONGEVITÀ E ARTE. IL MIRACOLO DI VILLA CROCE Intervista a NUVOLA RAVERA di Valeria Barbera

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MARCELLO CARRÀ: INTERPRETAZIONI FUTURISTE IN PUNTA DI BIC Intervista a MARCELLO CARRÀ di Matteo Galbiati

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SPECIALE PARMA 360 FESTIVAL DELLA CREATIVITÀ CONTEMPORANEA

Editore Ass. Cult. Arteam

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ALLORA & CALZADILLA AL MAXXI: CORTOCIRCUITI VISIVI (E SONORI) di Davide Mariani

Direttore Editoriale Livia Savorelli

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SOL LEWITT: ARTE&ARCHITETTURA, UN “PROGETTO” CONCETTUALE di Matteo Galbiati

Publisher Diego Santamaria

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MILTOS MANETAS AL MAXXI: INTERNET PAINTINGS di Jacopo Ricciardi

Direttore Web Matteo Galbiati

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GIORGIO DE CHIRICO. VISIONI METAFISICHE DEL NULLA di Michele Bramante

Segreteria di Redazione Francesca Di Giorgio

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LE FUTURISTE IN MOSTRA AL MAN DI NUORO di Davide Mariani

Direttore Responsabile Silvia Campese

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FRIDA KAHLO. OLTRE IL MITO di Francesca Caputo

Redazione via Traversa dei Ceramisti 8/b 17012 Albissola Marina (SV) Tel. +39 019 4500744 redazione@espoarte.net

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WALLINGER, MARK. L’IO COME MISURA DI TUTTE LE COSE di Alessandra Frosini

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DOPO ZANG TUMB TUUUM: TUTTA L’ARTE DI UNA NAZIONE di Luca Bochicchio

Art Director Elena Borneto

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RAFFAELLO: A BERGAMO UNA BELLEZZA SENZA TEMPO di Matteo Galbiati

Redazione grafica – Traffico pubblicità villaggiodellacomunicazione® traffico@villcom.net

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REVOLUTIJA: DA CHAGALL A MALEVICH DA REPIN A KANDINSKY di Isabella Falbo

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LA NUOVA TOSIO MARTINENGO NON DELUDE LA LUNGA ATTESA di Mariacristina Maccarinelli

Direttore Commerciale Diego Santamaria Tel. +39 019 2071005 iphone 347 7782782 diego.santamaria@espoarte.net

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LA MANIFATTURA LENCI IN MOSTRA AL MIC DI FAENZA di Irene Biolchini

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BOETTI #1: AD ASTI L’ARTE “SENZA GERARCHIE” DI ALIGHIERO di Matteo Galbiati

Ufficio Abbonamenti abbonamenti@espoarte.net

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BOETTI #2: A MILANO IL “BESTIARIO” DI ALIGHIERO di Matteo Galbiati

Hanno collaborato a questo numero: Valeria Barbera Irene Biolchini Luca Bochicchio Michele Bramante Francesca Caputo Isabella Falbo Alessandra Frosini Matteo Galbiati Mariacristina Maccarinelli Davide Mariani Jacopo Ricciardi Livia Savorelli Chiara Serri

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DORFLES “AMERICANO”: L’ULTIMA RACCOLTA DI SCRITTI PER 60 ANNI DI REPORT DAGLI U.S.A. Intervista a LUIGI SANSONE di Matteo Galbiati

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PUNCTUM FLUENS: TRA CINEMA SPERIMENTALE E ARTI VISIVE Intervista ad ANTONIO BISACCIA di Davide Mariani

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ROBERTO FLOREANI: BOCCIONI UNA LETTURA COMPLETA Intervista a ROBERTO FLOREANI di Matteo Galbiati

Espoarte è un periodico di arte e cultura contemporanea edito dall’Associazione Culturale Arteam. © Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l’autorizzazione scritta della Direzione e dell’Editore. Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile alla redazione per la pubblicazione di articoli vanno inviati all’indirizzo di redazione. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista. Tutti i materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti.

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GIUSEPPE STAMPONE: UNA “FOTOCOPIATRICE INTELLIGENTE”… FOLIGNO (PG) | CIAC CENTRO ITALIANO ARTE CONTEMPORANEA | 24 MARZO – 30 SETTEMBRE 2018 Intervista a GIUSEPPE STAMPONE di Matteo Galbiati

Al CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea di Foligno (PG) abbiamo incontrato Giuseppe Stampone (1974) che, con Ugo La Pietra (1938), condivide gli spazi del museo umbro in un progetto che li vede confrontarsi in due personali indipendenti, pur in stretto dialogo. Abbiamo posto all’artista alcune domande, questo il report della nostra lunga conversazione: La tua personale ha un titolo particolare. Ce lo spieghi? Come si lega ai contenuti proposti? L’arte, oggi, ha una responsabilità etica pri-

ma che estetica. Ho scelto di intitolare la mia personale Perché il cielo è di tutti e la terra no? partendo dal presupposto che ci siamo dimenticati che il cielo simboleggia qualcosa di universale che sottende tutte le nostre differenze. Quando l’umanità è apparsa sullo scenario terrestre ha compiuto un gesto primordiale e stupefacente, ha alzato lo sguardo dal fango e ha guardato il cielo, come scriveva Wilde. Un gesto che, oggi, rappresenta l’antitesi fisica dell’azione quotidiana, dato che siamo tutti – me compreso – impegnati a tenere il capo chino su uno schermo, su un computer, su uno

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Giuseppe Stampone, P & W, Peace & War, 2014, penna Bic e smalto su carta, installazione (dimensioni variabili), 114 elementi / cm 50x40 ciascuno. Veduta della mostra al CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea, Foligno (FG) Courtesy: l’artista e Prometeogallery di Ida Pisani Milano Nella pagina a fianco: Giuseppe Stampone, Global Dictature/1, 2012, penna Bic su carta 20 elementi, cm 48x42 ciascuno. Courtesy: Prometeogallery e l’artista. Collezione Calabresi, Roma - Cortona


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smarthphone. Questo ci fa assumere inevitabilmente un atteggiamento di chiusura, io voglio invitare il fruitore a compiere nuovamente un gesto di apertura. Sollevare lo sguardo e guardare lo spazio infinito del cielo che accomuna tutti gli esseri umani. Indipendentemente dalle differenze antropologiche, culturali, fisiologiche, il colore della pelle, se siamo nati in Michigan o in Papuasia, quando il nostro sguardo è rivolto al cielo decidiamo di essere tutti e nessuno. Al contrario, quando poggiamo i nostri piedi sulla terra, lo facciamo sempre sulla terra di qualcuno, che sia la nostra o quella di un altro. Il cielo non conosce la proprietà privata o la gerarchia di appartenenza. Tutti possono alzare lo sguardo verso cielo, ma non tutti possono camminare, abitare, vivere in qualsiasi luogo della terra. La mia intenzione è quella di tornare all’immaginazione e il cielo è il luogo d’eccezione per i sognatori, ma non uso il termine sognatore nella sua accezione più romantica e forse un po’ qualunquista del termine, come colui che guarda in alto, sopra di sé, senza temere il nuovo, verso inedite mera-

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viglie e che si prende gioco di un sistema che ristagna. Come il sistema dell’arte omologato e manieristico, che strizza l’occhio ad uno stile consolidato e poco rischioso che ha esaurito i suoi feticismi legati alla produzione di oggetti di qualcosa di già visto, già vissuto. Forse cambiano le forme, ma i contenuti rimangono gli stessi, come in un terribile déjà-vu. Come ha commentato ironicamente Enzo Cucchi definendoli il ready made del rest made, del rest made, del rest made… Per fortuna c’è sempre qualche esempio positivo in questo nostro mondo come Tomàs Saraceno, Francis Alys, Ryan Trecartin. Hai parlato di temi chiave della tua ricerca che questo progetto mette in risalto: quali sono? Come li può leggere il pubblico? Sebbene io sia legato al recupero del fare, il mio approccio all’arte è un approccio concettuale, pertanto non esiste, da parte mia, una ragione manieristica legata al concetto del fare intesa come il bel fare, piuttosto è un’urgenza sempre più incombente di dare una forma (fare) ai propri pensieri. Questa

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azione fattiva nutre l’esigenza di un tempo preciso. Un tempo reale, che non deve subire l’accelerazione imposta dal mercato, da internet e dal nuovo villaggio globale. Uno spazio-tempo all’interno dell’opera determinato innanzitutto dalla dilatazione del tempo stesso. Il fare che implica un tempo di realizzazione che ci fa recuperare il nostro tempo intimo. Warhol si definiva una macchina, io una fotocopiatrice intelligente che, però, fa una sola copia. Quando scelgo un’immagine globale, un’immagine presa da Internet, l’importante non è l’appropriazione dell’immagine in sé, ma l’appropriazione del tempo che impiego a riprodurre quell’immagine. Io sono per il recupero del made in, del rifare. L’artigianalità non è più un fatto manieristico, ma concettuale. Se ti chiedessi di fare un vaso e, ipoteticamente, tu ci impiegassi un’ora e se poi lo chiedessi a qualcun altro e quest’ultimo ci mettesse sei mesi, quei sei mesi implicano il tempo per riscoprire la storia di quell’oggetto, la memoria, conoscerne il materiale, ma sopratutto dare qualità attraverso il “giusto tempo dilatato


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Giuseppe Stampone, Linea retta finita, 2015, installazione interattiva, mini camion elettrico, struttura di legno, telecomando, cm 300x20x30. Veduta della mostra al CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea, Foligno (FG). Courtesy: l’artista e Prometeogallery di Ida Pisani, Milano-Lucca

alla formalizzazione del pensiero”. Quindi questo significa prendersi il proprio tempo per fare le cose con un’attenzione nuova. Vedrei molta più rivoluzione in un gesto simile piuttosto che rispondere violentemente a questa dittatura globale legata ad un modo di vivere troppo frenetico, veloce e ossessivo. Siamo la generazione-sommario, ci basta leggere l’indice per dire di aver letto il libro, guardiamo il trailer e pensiamo di aver visto il film, compriamo il posacenere con la stampa di Van Gogh e raccontiamo che siamo esperti d’arte, questo è possibile perché l’approssimazione viene incoraggiata come un valore, un sapere orizzontale, ma mai verticale, un sapere da fast-food. Dobbiamo ricominciare a dedicare il giusto tempo alle cose che facciamo e ai contenuti che assorbiamo. Ti sei definito “una fotocopiatrice intelligente”, una definizione particolare per un artista, cosa intendi? Ognuno di noi, ogni giorno, viene bombardato da milioni di immagini, come possiamo comprenderne il significato, il contenuto di queste immagini se non abbiamo il tempo materiale per osservarle? Come una fotocopiatrice intelligente, estra-

polo dei file da Internet, quindi file liquidi, iconici e li ricopio tali e quali. Ricopiandoli in modo uguale, trasformo la maniera in concetto, perché rifare il file, innanzitutto, trasforma un’immagine iconica da liquida a solida. Si badi al semplice dato di fatto che un file pescato dal Web, quindi che chiunque potrebbe trovare e decidere di stampare infinite volte, io lo rifaccio come un pezzo unico, disegnandolo con la penna Bic. Rifaccio un Mao, una guerra o altri drammi sociali del mondo. Non mi interessa confrontarmi con archivi storici, voglio creare dei nuovi archivi, attuali e contemporanei, archivi che possano raccontare il mio tempo, il mio vissuto e non quello di una generazione passata, che ha affrontato, sì, delle sfide, sicuramente diverse dalle mie. Sarebbe riduttivo e semplicistico dire che si tratta di mera gratificazione estetica, c’è più un godimento fisico. Nell’attimo in cui disegno, rallento il mio tempo e dinnanzi ad Internet e alla globalizzazione reagisco e mi riapproprio della mia intimità e del mio tempo, ottenendo in questo modo anche una gratificazione non solo fisica, bensì mentale. Riappropriarsi del proprio tempo, rallentarlo, goderselo, ti permette di riflettere su qualsiasi azione tu stia (o non stia) per com-

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piere. Credo che sia inevitabile rimanere coinvolti nella frenesia dello spazio-tempo contemporaneo, la dilatazione del tempo ti ridà, ti fa ri-conoscere, ti riporta all’Archè. E riprendersi il proprio tempo attraverso la dilatazione significa riappropriarsi della propria vita, avere il tempo di decidere ma soprattutto di scandire ogni passaggio. A questo proposito, faccio sempre l’esempio della cerimonia del tè: un rito che prende un’estetica del quotidiano, come quella di bere il tè, e la eleva ad opera d’arte. Un maestro giapponese della cerimonia del tè, ripete sempre le stesse azioni per trent’anni ed è proprio la ripetizione che conduce alla perfezione. Succede lo stesso nel disegno, ogni giorno, quando copio, compio questo gesto quotidiano e questo gesto si trasforma in una sorta di mantra per tentare di raggiungere la perfezione. È interessante, parlando proprio del rito del the, le diversità fra Occidente ed Oriente. Si pensi che in Europa, nel 1400, l’uomo voleva adattare la natura a sé, tutto è possibile all’uomo, mentre nello stesso periodo storico, in Oriente, l’uomo si voleva adattare alla natura. Ci sono diverse opere e installazioni ce


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Giuseppe Stampone, Dittatura, 2012, penna Bic su carta, 20 elementi, cm 48x42 ciascuno. Veduta della mostra al CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea, Foligno (FG). Courtesy: Prometeogallery e l’artista. Collezione Calabresi Roma - Cortona

le riassumi brevemente, anche nei loro significati? Mi piace questa domanda. Sicuramente sapresti rispondere a questa domanda molto meglio di me e sicuramente daresti al lettore una visione più lucida e più distaccata emotivamente. Non amo quando un’artista parla nello specifico di alcuni suoi lavori, mi fa tornare in mente il concetto di giustificazione. Mi fa tornare in mente quelle grandi mostra internazionali dove, come ho spiegato precedentemente, al fianco del lavoro c’erano questi grandi ed ingombranti fogli illustrativi che avevano il fine di spiegare e giustificare l’opera. La mostra va semplicemente vista e sicuramente ci saranno immagini che sapranno dar voce in maniera più (o meno?) chiara alle mie intenzioni. Non a caso, mi piace definire il fruitore spettatore contenuto perché ognuno farà propria la lettura dell’opera a seconda della propria forma mentis. Personalmente chiedo al fruitore solo di fare allo stesso tempo un’esperienza fisica (corpo), mentale (testa), emotiva (cuore) all’interno della mia architettura. Amo moltissimo usare i più svariati media, li scelgo per ogni caso specifico, per dare

forma al tipo di linguaggio personale che ho intenzione di utilizzare quella specifica volta. Sono letteralmente ossessionato dal ‘400 fiorentino (è il tema sul quale mi sono laureato e lo studio ancora oggi dopo venticinque anni) e la figura che mi appartiene di più, come forma mentis e come artista, è indubbiamente Piero della Francesca. Secondo il dizionario, un’ossessione è un pensiero che si ripresenta costantemente a qualcuno. Il lavoro di Piero della Francesca mi si ripresenta costantemente e quotidianamente. Un pittore, uno scultore, un architetto; nella sua pittura c’era la plasticità scultorea di Donatello, la figurazione concettuale di Masaccio e l’architettura di Brunelleschi, non solo, era anche un grande teorico. Pensiamo semplicemente al suo De prospectiva pingendi oppure alla passione per il suo studio sui cristalli. Non sottovaluto la produzione teorica di Piero della Francesca, come non è da sottovalutare quella di Leonardo o di Alberti perché è questo il momento in cui nasce la figura dell’artista rinascimentale che non è più un bravo artigiano, bensì un intellettuale. Sono anche gli anni in cui nascono due strumenti, ai quali sono personalmente

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molto legato: la prospettiva e il carattere a stampa di Gutenberg. Considero questi due strumenti le due armi di distruzione totale più pericolose che l’uomo abbia mai creato. La prospettiva toglie l’esperienza empirica all’uomo: ferma lo spazio esistenziale per concettualizzarlo. All’interno del quadro prospettico rinascimentale, la realtà non è più una narrazione orale tramandata di genitore in figlio, ma è una visione politica dettata dai committenti. Allo stesso modo, il carattere di Gutenberg trasforma a proprio piacimento l’esperienza. La tua è un’arte partecipata, condivisa, aperta e dialogante, ricusi la definizione di artista in senso stretto, dichiari di non saper dipingere, di non saper fare tecnicamente… Eppure la tua pratica accoglie lo sguardo dell’altro e lo fa riflettere in modo profondo, segno di una fondatezza chiara di pensiero e di visione. Come ci riassumi la tua attitudine artistica ed intima? Dove guardano i tuoi occhi e la tua mente? Non faccio nulla di speciale, cerco solo di respirare a pieni polmoni quando parlo di arte. Quando disegno o giro un corto, non faccio altro che respirare bene. Forse respirare bene significa – di nuovo – semplice-


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mente prendersi il proprio tempo. La mostra non è di facile lettura, occorre impegno e capacità di approfondire: come pensi reagisca il pubblico? Come deve essere percepita? Che spunti, aiuti, indirizzi o chiavi di lettura dai? Questa domanda mi piace moltissimo ed è determinante in questa nostra chiacchierata, però ti rispondo facendoti un’altra domanda: quando Raffaello ha dipinto la Stanza della Segnatura, in Vaticano, tutti quelli che si sono trovati di fronte a La Scuola di Atene, conoscevano il Neoplatonismo e l’esperienza empirica aristotelica? Sicuramente non molti, tuttavia sono sicuro che quelle stanze fossero talmente magnifiche – allora come oggi – che, anche per colui che non possedeva le chiavi d’accesso per codificare i contenuti delle opere raffaellesche, sarebbe stato impossibile rimanere inermi di fronte a quello spettacolo. Giuseppe Stampone, Saluti da L’Aquila, penna Bic su carta, 15 moduli, cm 40x34 ciascuno. Collezione La Gaia Busca Cuneo

La mostra condivide lo stesso periodo espositivo con la personale di Ugo la

Pietra Istruzioni per abitare la città. Quali spunti condividi con lui? Come si legano i due progetti che presentano artisti dalla connotazione e dalla storia differente? Con Ugo condivido la figura dell’essere artista sia fuori che dentro le mura. Sono entrato in contatto con lui alcuni anni fa, in tempi meno sospetti potremmo dire (era dagli Anni ‘70 che nessuno parlava più di lui, fortunatamente ora si sono accorti dell’errore. Spesso, chi è in anticipo sui tempi, viene ripescato dopo qualche decennio e ci si rende conto che si ha di fronte un vero artista), quando lo portai con me a Parigi, durante Fiac. Partecipò ad un mio progetto, Studio Visit, dove avevo creato un’architettura con tavoli, sedie, mobili, un vero e proprio studio d’artista, il mio studio d’artista, e vi ospitavo Ugo come artista di un’altra generazione ma con il quale avevo riscontrato delle assonanze nei nostri lavori. Come le sue Mappe tattili degli Anni ‘70 e le mie Mappe partecipative, oppure con il suo recupero dell’artigianato degli Anni ‘80 e il mio Made in Italy. Non è solo una questione di temi, ma anche di pluralità dei media usati. Infine nutriamo entrambi un grande amore per l’architettura anche se lui è un vero architetto, io mi sento un architetto mancato. Etica, politica, valore e impegno sociale sono imprescindibili elementi per la tua ricerca come per la sua… Tutte le mie opere, essendo figlio di emigranti nato in una banlieue francese, sono rivolte prima di tutto ad un fatto etico più che estetico. Sono convinto che, in realtà, tutta l’arte sia politica, ma, attenzione, non in senso descrittivo. Credo sia più politico l’orinatoio di Duchamp o il taglio di Fontana che una rappresentazione didascalica della violenza. Forse, il termine migliore che mi viene in mente è artista attivista. Ogni uomo si manifesta per le sue azioni ma ogni artista si manifesta anche con le proprie forme e i propri contenuti. La mia ricerca artistica si manifesta e trova la sua sintesi più riuscita nel concetto di Global Education, dalle installazioni multimediali e interattive a monumentali progetti di arte pubblica e partecipativa, come, allo stesso tempo, provo un’urgenza pratica attraverso il medium della penna Bic nelle mappe e negli abecedari. Il mio metodo è basato sulla rete di relazioni, collaborazioni, connessioni e condivisioni che si sviluppano col mio network Solstizio Project. Dato che la Global Education è un progetto di un mondo in cui la conoscenza diventa sempre più connettiva, pertanto ho cercato di dare un senso realizzando abe-

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cedari in penna Bic – strumento scolastico per eccellenza – che giocano su dei topics, dei tags, dei simboli e delle immagini popolari, spesso inerenti fatti storici e di cronaca contemporanea, a cui seguono mappe concettuali, slogan, installazioni interattive e tours in diversi paesi del mondo, come in quelli che ho organizzato in occasione delle Biennali di Kochi e de La Biennale di Habana (2012) o all’ultima Biennale di Architettura di Seoul (2017). In queste opere invito il pubblico a meditare su questioni fondamentali come le migrazioni, l’accesso alle risorse idriche e la guerra attraverso progetti come Greetings from… (2010 – in corso), Architecture of Intelligence (2007 – in corso), Acquerelli per non sprecare la vita (2006-2012), Why? (2007 – in corso)… È la grande storia associata alle nostre storie personali. Queste vengono tradotte in abecedari, una griglia alfabetica di immagini e parole create con le assemblee partecipative in cui si decide quale parola associare a una determinata immagine; ad esempio l’immagine di un lingotto d’oro viene abbinata all’H di H2O, oppure l’immagine di Gesù alla S di Superman. Uso il format dell’ABC perché desidero riparare l’alfabetizzazione dittatoriale a cui siamo stati assoggettati. Una volta che le lettere sono pronte le espongo a modi slogan, come Arbeit Macht Frei (2012), Hasta la Victoria Siempre (2011) o Yes We can (2012). Con le stesse lettere creo, inoltre, guide turistiche che rompono l’immaginario massificato di determinati luoghi riportando percorsi tracciati dagli abitanti coinvolti. Oltre 100.000 immagini compongono il dizionario della Global Education, dove ogni immagine è inserita in ordine alfabetico e corrisponde ai singoli partecipanti. Tutto ciò nasce da un’esperienza personale pregressa.

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anni. Mi fermo, ti ho già detto troppo, solitamente rispondo a queste domande sul futuro con un ironico: “cercherò un’opzione per uscirne vivo!”. Giuseppe Stampone. Perché il cielo è di tutti e la terra no? a cura di Italo Tomassoni, Giacinto Di Pietrantonio e Giancarlo Partenzi 24 marzo – 30 settembre 2018 CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea Via del Campanile 13, Foligno (FG) Orari: venerdì 16.00-19.00; sabato e domenica 10.30-12.30 e 16.00-19.00 Ingresso €5.00; biglietto cumulativo con il secondo polo dell’ex Chiesa della Santissima Trinità in Annunziata €6.00 Info: +39 074 2353230 info@centroitalianoartecontemporanea.it ciacfoligno@gmail.com www.centroitalianoartecontemporanea.com

Adesso dopo questa fatica cosa ti aspetta? Altri e prossimi impegni? Quando si avvicina la conclusione di un grande progetto, come questo di Foligno, arriva la depressione post partum! Ovviamente è una battuta, ma penso renda l’idea del sentirsi svuotati da qualcosa che per molte settimane ha catalizzato tutte le tue energie e il tuo tempo. I progetti adesso sono tanti, posso parlarti di uno di quelli a cui tengo di più, sia per il contenuto ma anche per il tempo che vi ho investito, è la chiusura di un libro sull’arte a cui sto lavorando da quattro anni insieme a Giacinto Di Pietrantonio. Penso di poter finire gli oltre 300 disegni entro la fine di quest’anno, poi ci sarà l’apertura della mia scuola Global Education sotto il mio amato Gransasso, un progetto al quale sto lavorando ormai da 15

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Giuseppe Stampone, Saluti da L’Aquila, penna Bic su carta, 15 moduli, cm 40x34 ciascuno. Collezione La Gaia Busca Cuneo


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ARTE / DESIGN

L’ARTE ORAFA DI GIO’ POMODORO TRA SEGNO ED ORNAMENTO VICENZA | MUSEO DEL GIOIELLO | 22 MARZO – 2 SETTEMBRE 2018 Intervista a PAOLA STROPPIANA di Livia Savorelli

Nella splendida sede del Museo del Gioiello di Vicenza, all’interno della Basilica Palladiana, sta per prendere vita un evento particolarmente atteso: una mostra dedicata alla produzione orafa del grande Gio’ Pomodoro. Un focus, questo, mancante da parecchio tempo che riunisce una selezione di gioielli provenienti da tutto il mondo, datati dagli anni ’50 ai ’90. Nel dialogo con la curatrice Paola Stroppiana, alcune anticipazioni… Come nasce l’idea di questa grande mostra dedicata ai gioielli di Gio’ Pomodoro ed ospitata nel prestigioso Museo del Gioiello di Vicenza? Puoi delinearci le linee

guida della mostra e le scelte curatoriali da te fatte, in merito alla selezione delle opere orafe del grande Maestro? L’omaggio al Maestro Gio’ Pomodoro, nato a Orciano di Pesaro nel 1930, orafo, incisore, scultore e scenografo, avviene a 16 anni dalla sua scomparsa, avvenuta a Milano, nel suo studio, il 21 dicembre del 2002. La mostra è preziosa occasione per portare all’attenzione del pubblico il contributo del grande artista, universalmente noto per le sue sculture, alla moderna concezione di “gioiello d’artista” come opera d’arte in sé compiuta, e alla codificazione di tale fenomeno critico nell’Italia del secondo dopo-

Gio’ Pomodoro, Bracciale, 1972, oro bianco, oro giallo-malachite. Foto: Michele Porcari

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guerra. Se si esclude il circuito di mostre antologiche internazionali intitolate Ornamenti 1954-1995, curate da Giuliano Centrodi, che si svolsero a Venezia, Arezzo, Tokyo, Vienna e New York e che avvennero con lui ancora in vita, sono quindi molti anni che mancava una personale sulla sua sola produzione in ambito orafo. Ho proposto al Museo del Gioiello di Vicenza, una realtà relativamente recente e quasi unica nel suo genere, una mostra che ripercorresse le tappe creative della produzione orafa del Maestro e l’adesione al progetto da parte del direttore Alba Cappellieri, professore ordinario al Politecnico di Milano dove insegna Design del Gioiello e dell’Accessorio, è stata entusiasta. Oggi, grazie alla stretta collaborazione con l’Archivio Gio’ Pomodoro nella persona del figlio del Maestro, Bruto Pomodoro, si propone al pubblico una selezione importante di suoi gioielli provenienti da tutto il mondo (in questa mostra sono oltre sessanta) che coprono un ampio arco temporale, dagli anni ’50 agli anni ’90, per illustrare al meglio le diverse fasi della sua ricerca e leggerne l’evoluzione stilistica.

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in tutte le sue creazioni orafe convivono la grande capacità di progettazione, il segno, intellettualmente espresso in disegni di rara bellezza (alcuni di essi sono pubblicati nel catalogo che accompagna la mostra, edito da Gli Ori di Pistoia) e l’ornamento, frutto di un ricco archivio di riferimenti alla cultura classica, in particolare alla mitologia greca che spazia sino alla dimensione ritualemetafisica. Una ricchezza di intenti che attraversa i decenni, rendendo i suoi gioielli opere d’arte assolute, senza tempo, dense di significati e simboli che parlano ancora oggi all’uomo contemporaneo. La mostra presenta un’importante selezione di gioielli, molti provenienti da importanti collezioni private ed alcuni esemplari esposti al Guggenheim di New York nel 1994? Ci dai qualche anticipazione sulle opere più pregevoli esposte in mostra?

Il titolo della mostra pone, fin da subito, l’accento su due caratteristiche riconducibili al gioiello di Pomodoro: il segno e l’ornamento, evidenziando come egli fosse un importante precursore di quello che, in tempi più recenti, venne chiamato “gioiello d’artista”. Ci descrivi brevemente l’evoluzione orafa di Pomodoro in termini stilistici, nell’ambito della sua ben più ampia creatività e ce la contestualizzi dal punto di vista storico? Nel campo delle arti orafe, ambito in cui ha iniziato giovanissimo a muovere in primi passi in un laboratorio pesarese, la ricerca di Pomodoro ha raggiunto esiti altissimi e ancora oggi paradigmatici. In mostra si propone un racconto cronologico che tiene sempre conto del momento storico, a partire dai primi anni ‘50, quando i suoi gioielli testimoniano il passaggio (avvenuto parallelamente anche nella scultura) dal figurativo all’Informale, sino agli esemplari in lamina d’oro puro sbalzato e fusione nell’osso di seppia, tecnica antichissima in cui Pomodoro insieme al fratello Arnaldo fu grande maestro. Si passa al geometrismo degli anni ‘70, dove all’elemento meccanico si affianca un cromatismo acceso di smalti e pietre di colore, per giungere alla estrosità figurale degli esemplari degli anni ‘80 ricchi di riferimenti alla cultura classica, ai gioielli seriali, ai prototipi e alle nuove sperimentazioni degli anni ‘90 sulle pietre dure, qui esposti per la prima volta. Come ho voluto sottolineare nel titolo della mostra,

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Gio’ Pomodoro, Collana 1967, modello GP1 per GEM Montebello, argento rodiato. Courtesy: Didier Ltd London


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Dei sette gioielli di Gio’ esposti in quella memorabile mostra curata da Germano Celant ben cinque sono presenti, e lo splendido bracciale a fascia è stato scelto anche come immagine guida della mostra, proprio perché è un’opera d’arte assoluta, scultorea: uno “scudo” a fascia con quattro grandi campiture in smalto bianco profilate in oro, realizzato nel 1967. Un sole (al pari dei Soli, serie di sculture che realizzava nei medesimi anni) che si irradia a partire dal grande diamante centrale, contornato da smalti concentrici neri e blu. Pomodoro utilizzava molto la forza cromatica e volumetrica degli smalti, e molti esemplari in mostra raccontano questa sua predilezione. Mi preme sottolineare che Pomodoro ha espresso nel gioiello e la forza della propria creatività, la sua costante ricerca su temi quali la luce e il vuoto, che ha poi dilatato e portato nella proprie opere scultoree. Questo in contrasto alla pratica per cui pittori e scultori, nell’accostarsi al gioiello, spesso riducono nella dimensione e nei materiali la loro cifra stilistica, miniaturizzandola o adeguandola al corpo in modo letterale, con esiti non sempre convincenti. Un’inversione che riafferma la pari dignità del gioiello come opera d’arte, nell’annullamento tra arti maggiori e minori che Pomodoro già rivendicava e che nel Secondo dopoguerra

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era maggiormente riconosciuto: anche la ceramica aveva un ruolo di primo piano tra le espressioni artistiche dei più grandi artisti, grazie alla plasticità che, come il gioiello, permetteva di esprimere perfettamente le inquietudini materiche dell’arte informale. Altrettanto notevole la linea seriale di gioielli in argento progettati per la GEM del cognato Giancarlo Montebello (che sposò la sorella Teresa) alla metà degli anni ‘70, uno dei primi esperimenti di produzione seriale di “gioielli d’arte economici”, e la realizzazione di un taccuino di 38 tavole per prototipi di tagli in pietra dura con interessanti meccanismi a staffa con le pietre intercambiabili, molti dei quali esposti in mostra, progettati per l’azienda Cesari&Rinaldi dell’inizio degli anni ’90.

Ritratto di Gio’ Pomodoro ©Jack Mitchell

I gioielli di Gio’ Pomodoro: il segno e l’ornamento a cura di Paola Stroppiana 22 marzo – 2 settembre 2018 Museo del Gioiello Piazza dei Signori, Vicenza Orari: da martedì a venerdì dalle 15.00 alle 19.00; sabato e domenica dalle 11.00 alle 19.00 Biglietti: intero 6 euro, ridotto 4 euro Info: +39.0444.320799 www.museodelgioiello.it

Gio’ Pomodoro, Bracciale 1967, oro giallo, smalti diamante. Foto: Michele Porcari

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ARTE

HIDDEN BEAUTY: DACCI E KINTERA CURATORI A ROMA ROMA | Z2O SARA ZANIN GALLERY | 24 MARZO – 19 MAGGIO 2018 Intervista a MARINA DACCI di Chiara Serri

La bellezza: dove e come cercarla. Con tutti i limiti di un manuale di auto-aiuto, non senza una buona dose di ironia, la mostra Hidden Beauty di Z2O Sara Zanin Gallery propone un percorso esperienziale attraverso le opere di Anna Hulačová, Krištof Kintera, Pavla Sceranková e Richard Wiesner, per vivere con maggiore consapevolezza il nostro presente. La Bellezza (il buon Dio, per Aby Warburg) è nascosta nei dettagli, nelle pieghe di una quotidianità

che frequentiamo assiduamente, ma non necessariamente viviamo. Il progetto, co-curato da Marina Dacci e Krištof Kintera, non intende offrire una definizione di Bellezza, ma invitare il pubblico a guardare le piccole cose con occhi acuti, “per sentirsi al mondo”. Un teatro di sguardi e di artefatti, disseminati anche al di fuori della galleria, che ci viene illustrato da Marina Dacci qualche giorno dopo il vernissage…

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Hidden Beauty, 2017, installation view, z2o Sara Zanin Gallery, Roma Nella pagina a fianco: Krištof Kintera, immagine guida della mostra


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Z2O Sara Zanin Gallery organizza per la prima volta una mostra che esce dalla galleria allestendo le opere di Krištof Kintera, artista e co-curatore della mostra Hidden Beauty, anche in luoghi praticati con altre finalità. Qual è il criterio che ha portato alla scelta degli spazi? Come si inseriscono i suoi lavori in questa nuova dimensione? Questa mostra ha molte anime e molti obiettivi. L’idea di uscire dagli spazi tradizionali della galleria, per le opere di Kintera, nasce dalla naturale vocazione dell’artista a operare anche in spazi non istituzionali, a volte commerciali. Un’apertura che si sposa con uno degli aspetti peculiari del progetto, ovvero la ricerca della bellezza nascosta nel nostro quotidiano. Kintera, inoltre, è fortemente interessato ad un’arte che possa arrivare a tutti e non solo a chi abitualmente frequenta gli ambienti deputati ad ospitarla. Quando ho proposto l’idea di fare una mostra diffusa, Krištof ha accettato con entusiasmo e così è iniziato un processo lungo: dapprima di selezione e condivisione dei luoghi (luoghi disparati tra loro, che spesso hanno target diversi di clienti), successivamente la scelta delle opere che in quei luoghi potessero caricarsi di senso, giocando sull’assonanza, sul contrappunto, sulla provocazione e sull’ironia. Mi premeva dare uno spaccato delle varie anime del lavoro dell’artista, scegliendo opere formalmente anche molto diverse tra loro e appartenenti a anni differenti. A questo ha fatto seguito la negoziazione con i proprietari per condividere con loro sia l’intenzione progettuale, sia il tipo di lavoro, sia la collocazione dell’opera. Devo dire che siamo rimasti sorpresi dalla disponibilità incontrata e dall’interesse degli esercenti che hanno saputo comprendere la necessità allestitiva, così come modo noi abbiamo cercato di rispettare le loro esigenze operative. Una mappa in galleria evidenzia il circuito e gli orari di fruizione della galleria e degli esercizi commerciali, che quasi sempre combaciano.

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posto a Kintera di selezionare alcuni artisti del suo paese che, secondo la sua visione e la sua sensibilità, fossero orientati in questa direzione. Ne abbiamo scelti tre, congiuntamente. Tutti questi artisti, come puntualizzavi giustamente, operano con esiti formali differenti, ma noi abbiamo letto nella loro ricerca in modo chiaro la tensione e il bisogno di riscoprire e inventare ogni giorno una qualche forma di bellezza per sentirsi al mondo. Per tutti, un lavoro su una postura legata alla ricerca del mistero, dell’enigma, di quella bellezza che lavora “come un enzima combinando gli elementi che esistono secondo un ordine inatteso” (come scrive Mauro Sargiani nel booklet che accompagna la mostra). Quali sono i tratti principali che identificano la ricerca di ciascun autore? La ricerca di Krištof Kintera è focalizzata,

Gli artisti invitati sono tutti originari di Praga. I loro percorsi e i loro curricula sono, tuttavia, molto diversi. Quali sono i principali elementi di convergenza? Prima di tutto vorrei precisare che questa mostra è nata quasi “per caso”, parlando con Krištof durante il disallestimento di un suo importante progetto alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia. Si ragionava sull’idea di bellezza, quella bellezza che va trovata nei gesti, negli incontri e nelle esperienze quotidiane, quindi si è discusso di attitudine dello sguardo più che di definizione della bellezza in sé. Con Sara Zanin abbiamo pro-

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nell’ultimo periodo, sulle possibili forme di bellezza “sintetica” che nascono da scarti e assemblaggi di oggetti e di produzioni tecnologiche a cui l’artista conferisce un’aura lirica rispetto alla loro funzione originaria. Nelle sue opere, natura naturale (che ormai abbiamo perduto inesorabilmente), cultura e tecnologia dialogano con esiti spesso amari e ironici, nel quadro di una profonda interrogazione politica e sociale. Anna Hulačová cerca un compromesso fertile e conciliante, anche se sofferto, col mondo naturale e semplice legato alle sue radici culturali. Gli esiti della sua ricerca coniugano passato e presente, inglobando nel suo lavoro elementi iconografici che vanno dalle antiche tradizioni popolari ai materiali sperimentali legati alla tecnologia odierna, utilizzati dall’artista per la produzione delle sue sculture. Esperienza individuale del mondo circostante, incubazione della per-


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cezione nella memoria e consapevolezza del sentire sono i temi cari alla ricerca di Pavla Sceranková in un dialogo costante con la ricerca scientifica che, tuttavia, non sottrae poesia ai suoi lavori, spesso creati e costituiti partendo da oggetti del quotidiano, talvolta proposti in modo interattivo con lo spettatore. Richard Wiesner si appropria di oggetti rinvenuti in un appartamento il cui anziano proprietario desidera non siano fatti perire con lui. Ecco allora che li incapsula, li cristallizza e li propone come lenti per uno sguardo sulla memoria di una vita individuale, trasformandoli al contempo in artefatti emblematici che guardano al futuro. Se fuori dalla galleria le opere sono inserite in luoghi desueti che richiedono, da parte del fruitore, una certa attitudine allo sguardo, in galleria il discorso appare diverso… Come avete pensato l’allestimento? Quello che abbiamo voluto sperimentare è un pensiero collettivo e la condivisione a tutto tondo di un percorso: dalla scelta dei lavori all’allestimento. Abbiamo concertato insieme il modo migliore per creare una mostra dal “core” fortemente strutturato, ma aperta e fluida nella fruizione, in cui il visitatore può cercare le assonanze e connessioni tra un lavoro e l’altro. Insomma non ci

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interessava un processo lineare di pensiero e di lettura: la mobilità in fondo rispetta il senso della mostra: la bellezza si offre agli occhi come un segreto da scoprire, no? Nel booklet che accompagna la mostra, si chiede ad ogni autore in che modo possa definire la sua ricerca in relazione al titolo della mostra (Hidden Beauty), che cosa sia la Bellezza, se la Bellezza sia necessaria e quale sia la responsabilità di un artista nel comunicare la Bellezza oggi. Quali sono gli esiti ultimi di queste riflessioni? Credo che l’idea forte che ne esce sia il carattere mortifero di stereotipia, cinismo e pigrizia emozionale nella ricerca della Bellezza nascosta. Tutti gli artisti sono concordi nel considerare questa Bellezza come un bene indispensabile per poter dare valore e senso alla nostra esistenza. Una delle opere di Krištof Kintera riporta la frase: “Am I what I am? Thinking about”. Siamo davvero quello che siamo? Abbiamo scelto questa immagine di un suo lavoro per presentare il progetto perché tutta la mostra parla della capacità di sapersi interrogare per riuscire a entrare in contatto con noi stessi e con il mondo che ci circonda.

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Anna Hulačová, Krištof Kintera, Pavla Sceranková, Richard Wiesner Hidden Beauty a cura di Marina Dacci e Krištof Kintera Booklet con interviste agli artisti e testo di Mauro Sargiani 24 marzo – 19 maggio 2018 Z2O Sara Zanin Gallery Via della Vetrina 21, Roma Orario: da martedì a sabato 13.00-19.00 o su appuntamento Ingresso libero. Mappa e orari degli ulteriori spazi espositivi disponibile in galleria Info: +39 06 70452261 info@z2ogalleria.it www.z2ogalleria.it

Hidden Beauty, 2017, installation view, z2o Sara Zanin Gallery, Roma


2018 · IV edizione

MOSTRA FINALE Fondazione Dino Zoli Viale Bologna, 288 • Forlì

12 maggio - 16 giugno 2018

www.arteam.eu www.fondazionedinozoli.com Organizzazione: Associazione Culturale Arteam via Traversa dei Ceramisti 8/bis - 17012 Albissola Marina (SV) | tel. +39 019 4500744 | info@arteam.eu


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ARTE

LONGEVITÀ E ARTE. IL MIRACOLO DI VILLA CROCE GENOVA | MUSEO D’ARTE CONTEMPORANEA VILLA CROCE | 22 FEBBRAIO – 1 MAGGIO 2018 Intervista a NUVOLA RAVERA di Valeria Barbera

Non è un mistero: il nuovo anno per Villa Croce non è iniziato sotto i migliori auspici e, nonostante la designazione del nuovo curatore Carlo Antonelli e l’assegnazione dei servizi museali a Open Your Art, una giovane società nata in seguito ad un master di gestione organizzato da Comune e Fondazione Garrone, la struttura si trova adesso in una fase di incertezza. Proprio

per questo l’inaugurazione di Vita, morte e miracoli. L’arte della longevità ha in sé qualcosa di miracoloso: una mostra che diventa così ancor più manifesto della città che fa da sfondo “alla narrazione della quarta e della quinta età” da parte di artisti (Renata Boero, Lisetta Carmi, Franco Mazzucchelli, Corrado Levi, Elisa Montessori, Anna Oberto, Rodolfo Vitone, ai quali

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si unisce la trentenne Nuvola Ravera e le partecipazioni speciali di Jean Dupuy e Marco Bruzzone) nati o cresciuti a Genova o in Liguria, città e regione tra le più anziane d’Italia e d’Europa. La tesi da cui si sviluppa la mostra deriva proprio da ricerche scientifiche sulla senilità in corso nel capoluogo ligure e seguendo l’intreccio di arte e scienza, la mostra presenta intervi-


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ste audio e interventi di numerosi scienziati ed esperti dell’argomento. L’artista più giovane in mostra, Nuvola Ravera, ha affrontato questo tema riflettendo sullo scorrere del tempo e sulla conservazione della memoria focalizzandosi sullo spazio del museo come luogo dove questi elementi si intrecciano. L’artista ha organizzato proprio per il primo weekend di primavera Una storia dentro una storia dentro una storia – Peeling un’azione collettiva e corale attraverso la quale un gruppo di performer non professionisti interverrà sulla pelle del tempo che riveste il museo, cancellandola. Un gesto liberatorio e di trasformazione a cui sono stati invitati a prendere parte anche numerosi addetti ai lavori e direttori di musei, l’artista ha inviato loro apposite buste contenenti gomme da cancellare. L’azione durerà tre giorni suddivisi in vari turni di cancellazione e, una volta terminata, si comporrà di un’ulteriore fase fondamentale a chiusura del ciclo: i residui ottenuti con la cancellazione verranno conservati come reperti

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e saranno utilizzati per la creazione di una nuova gomma – scultura. Il tuo intervento all’interno di Vita, morte e miracoli. L’arte della longevità si concentra principalmente attorno a due delle tematiche che questa mostra affronta: il tempo e la memoria. Il museo in particolare è al centro della tua riflessione: lo hai concepito come uno spazio di conservazione e trasmissione della storia e della cultura senza però tralasciarne alcuni aspetti critici. Come hai sviluppato queste tematiche nel tuo lavoro? Sono partita istintivamente da figure piuttosto remote della mia biografia: una memoria personale e infantile che ha molto a che fare con la conservazione, il reperto e la collezione. Accogliendo l’invito a prendere parte ad una mostra che ha come protagonisti artisti ultraottantenni e come tema proprio la longevità e l’età avanzata, è stato naturale trovarsi a pensare alla pratiche sottili e misteriose del bambino.

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Veduta della mostra, Vita, morte e miracoli, Particolare installazione di Nuvola Ravera, Villa Croce, Genova Nella pagina a fianco: Veduta della mostra, Vita, morte e miracoli, Villa Croce, Genova. Foto: Anna Positano


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appartengono più del tutto. Usare certi termini è come dover indossare un abito di una nonna in carne che, riadattato ad una figura esile, non si adagia in maniera armonica sul nostro corpo attuale, eppure lo indossiamo lo stesso. Se penso al lavoro per Villa Croce, mi viene in mente la nudità dell’architettura, la sua copertura esterna che riveste un vissuto: lo spazio mnemonico e il corpo in un rapporto di conflitto continuo. Si spella la superficie del museo, come un volto, nell’ipotesi abbia proprio bisogno di uno scrub più o meno profondo. Si leviga il viso, si tolgono le cellule morte facendo eco ai vari culti di purificazione, protezione e cura. Anche questo è il tempo, non lineare, atmosferico, interno, plurale, asincronico, incostante, puntiforme. È un film in cui la stessa scena si ripete: alcune persone giocano a Memory senza carte, si sfiniscono nell’azione di cancellare delle pareti bianche guidati, spero, dai propri daimon. Ciò da cui sono richiamata al momento è quindi la ricreazione di un tessuto connettivo non statico che trasfiguri alcuni linguaggi, cerchi di discuterli, per provare a liberare la possibilità di esplorare molteplici fattori altrimenti imbrigliati in verità pluri-esplorate e continenze protettive. Il ricordo di un tempo scandito da giochi solitari in cui ad esempio tenevo da parte in alcune matrioske residui di gomme da cancellare, mi ha stimolato a interrogarmi riguardo al significato del “contenitore Museo”. Le domande sono ricorrenti e semplici: che cosa questo luogo vorrebbe o dovrebbe essere e come si è trasformata la sua posizione nel tempo. Se la crisi di memoria nei confronti della storia e la sua continua riscrittura e interpretazione è sempre contemporanea, vi è anche la necessità di osservarne le strutture portanti per provare a discutere la stabilità, il significato, i personaggi e i destinatari. Alcuni “protocolli culturali” non sono più efficaci, ammesso che lo siano mai realmente stati, e comunque sono spesso monodirezionali. La storia è un soggetto fluido dalle verità opaline e forse dovremmo interrogare un passato incerto e fare i conti con svariati ingombri muti. Anche se tutto è mutevole e non ci sono antidoti senza termine, le possibilità di creare continuamente nuovi dialoghi, cambi di ruoli ed esercizi di memoria e amnesia collettiva con diversi gruppi di persone sono aperte. Sei la più giovane in mostra: quali tra gli artisti coinvolti ti hanno maggiormente colpito? E quali i lavori con cui il

tuo intervento potrebbe maggiormente dialogare? Premetto che non conoscevo a fondo le ricerche degli artisti in mostra e in alcuni casi non le conoscevo affatto. Ancora una volta però ho trovato grande interesse nell’incontro diretto con le persone, avere uno scambio e prendere contatto con le loro voci e fare sosta prolungata tra le opere. La forza vitale delle storie individuali è qualcosa che si aggancia al respiro e lo sorregge. Si creano alleanze invisibili e affinità al di là dei linguaggi e del lavoro. Se chiudo gli occhi però sento l’odore della curcuma e il rumore costante di una ventola che soffia per dare corpo con l’aria ad una plastica trasparente. In questo tuo intervento a Villa Croce ha un ruolo fondamentale ciò che avverrà nei prossimi giorni con l’invito all’azione che hai rivolto a molte persone e addetti ai lavori. Ultimamente la tua ricerca si sta sempre più avvalendo della performance… Quali elementi di questo linguaggio ti hanno fatto propendere verso questa scelta? Ho difficoltà con le categorie, i generi e alcune nomenclature perché ho spesso la sensazione che siano state pensate da qualcun altro per altri contesti che non ci

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Questa mostra suggerisce un nuovo sguardo, una nuova lettura della città di Genova, sovvertendo alcuni aspetti, di solito ritenuti critici, e proponendola come possibile modello di città futura dalla popolazione longeva e attiva, anche grazie alla cultura e alle arti. Come hanno stimolato la tua sensibilità queste riflessioni sulla tua città? La forza del tema della mostra sta proprio nell’isolare alcune delle caratteristiche più evidenti del territorio ligure che spesso sono considerate come dati inquietanti e problematici, per poi conferirgli lo statuto di possibilità costruttiva e campo fertile. Un luogo di anziani, al quale i più giovani sono in gran parte sfuggiti, in certi casi irrigidisce come l’idea di trovarsi in un ospizio a cielo aperto con servizi rivolti quasi solo ad un certo tipo di utenza. Ciò che dell’anzianità spesso non si vuole vedere si identifica con la fragilità, con le tenebre vicine: si combatte contro il naufragio del corpo e della giovinezza, si ha il terrore del decadimento. La vecchiaia è demonizzata, popolata di pericoli e incubi. Ma da quando la figura dell’anziano saggio è diventata quella del “vecchio di merda”? La vecchiaia è spesso considerata come


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un nemico da combattere nella fretta della produzione, della crescita, dei restauri perfetti di corpi e luoghi, make up dopo make up, infrastruttura su infrastruttura. Ma l’occhio che non vede e reprime, fa dolere comunque il cuore, non si eliminano le presenze grigie messe a lato. L’incertezza del prima di nascere e del dopo vissuti, rende le fasi vicine a nascita e morte molto delicate se non spaventose. Ma prendere le distanze da tutto ciò, triplica la paura nascondendola solamente. Quindi è forse meglio imparare a sostare anche laddove inizia il declino della vita. Così, Genova, ancora la riconfermo come un luogo in cui eclissarsi da un mondo che crede di essere al centro, per parlare con i miei bei saggi e con quelli degli altri, per giocare al gioco del tempo e rimbalzarci le età, umane e geologiche, tutte insieme in unico istante schematizzate nella complessità dei labirinti bui della città, contro la luce, per una volta. Quali sono i tuoi prossimi appuntamenti? Le primissime cose che mi vengono in mente sono: un bagno turco per sudare, dedicarmi ai libri trascurati, finire gli ultimi esami all’università a cui mi sono riscritta da un paio di anni e magari iniziare un nuovo corso di studio.

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Ma immagino che tu non voglia sapere questo genere di progetti. Sono sempre molto scaramantica per cui non parlo mai troppo dei programmi futuri per accogliere la possibilità che tutto cambi. Nel frattempo potrei trasformarmi in cactus, il mondo potrebbe diventare di gelatina o potrei fermamente convincermi che il ferro da stiro sia il mio unico mezzo d’elezione. Vita, morte e miracoli. L’arte della longevità a cura di Carlo Antonelli e Anna Daneri 22 febbraio – 1 maggio 2018 Una storia dentro una storia dentro una storia – Peeling. Nuvola Ravera 23/24/25 marzo 2018 Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce Via Jacopo Ruffini 3, Genova Info: +39 010580069 museo@villacroce.org staffmostre@comune.genova.it biglietteriavillacroce@comune.genova.it www.villacroce.org

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Veduta della mostra, Vita, morte e miracoli, Villa Croce, Genova. Foto: Anna Positano Nella pagina a fianco: Veduta della mostra, Vita, morte e miracoli, Particolare installazione di Nuvola Ravera, Villa Croce, Genova


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ARTE

MARCELLO CARRÀ: INTERPRETAZIONI FUTURISTE IN PUNTA DI BIC FERRARA | GALLERIA MLB MARIA LIVIA BRUNELLI | 2 MARZO – 10 GIUGNO 2018 Intervista a MARCELLO CARRÀ di Matteo Galbiati

Si presenta con un nuovo ciclo di lavori Marcello Carrà (1976) all’appuntamento della sua personale Accelerazioni dello spirito: la mostra, che inaugura domani alla galleria MLB Maria Livia Brunelli di Ferrara, offre, infatti, opere che, realizzate appositamente per l’occasione, si ispirano liberamente ai capolavori esposti a Palazzo dei Diamanti nella mostra Stati d’animo. Arte e Psiche tra Previati e Boccioni. Maestro del disegno composto esclusivamente a penna Bic, Carrà in questa intervista, ampia anteprima sui contenuti della mostra, ci racconta le sue opere che, di grande impatto e di notevole forza espressiva, riescono a dare libero sfogo ad una vasta e differenziata gamma di stati d’animo e di, parafrasando il titolo, “accelerazioni dello spirito”: La tua mostra nasce in stretta relazione con Stati d’animo. Arte e Psiche tra Previati e Boccioni in corso a Palazzo dei Diamanti, cosa la caratterizza? Su cosa hai lavorato? Quando Maria Livia Brunelli mi ha chiesto di sviluppare un progetto legato alla mostra Sta-

ti d’animo ho subito cercato di approfondire la mia conoscenza della pittura italiana in relazione agli artisti tra Simbolismo e Futurismo, concentrandomi in particolare sugli scritti di Umberto Boccioni e sui concetti di staticità e dinamismo in pittura. Credo che il titolo della mostra Accelerazioni dello spirito esprima bene i due temi su cui ho lavorato: “accelerazioni” in riferimento alla pittura “dinamica” che caratterizza il Futurismo, ma anche, e soprattutto, come metafora della vita frenetica dei nostri giorni, “spirito” inteso come il rapido flusso di pensieri che genera i nostri volubili stati d’animo. Quali sono le opere e i dialoghi che si instaurano tra le tue opere e quelle esposte a Palazzo Diamanti? Ho realizzato nelle nuove opere nere rotanti incapsulando tre disegni in speciali cornici e, tramite un vetrocamera, ho inserito una quantità ben precisa di acqua con un colorante nero. Le opere sono girevoli, perché fissate su parete tramite una apposita staffa.

Ognuna ha un doppio disegno che si svela solo capovolgendola, tramite lo spostamento dell’acqua inchiostrata, così lo spettatore sceglie una “versione”, anche a seconda dello stato d’animo: da una parte alcune caratteristiche della nostra epoca (fatuità, frenesia e dinamismo), dall’altra i loro rispettivi contrari (riflessione, calma e staticità). Ad esempio, l’opera di Segantini intitolata Ave Maria a trasbordo, i cui temi centrali sono la meditazione, il silenzio e la preghiera, incontra il suo opposto nell’improbabile Ave Maria in crociera, con una grande nave che invade lo spazio, sorta di città mobile in cui deve essere disponibile, a qualunque ora, ogni sorta di divertimento e capriccio. Auto statica/Auto dinamica riprende un tema caro a Boccioni, l’opposizione tra staticità e movimento. L’automobile 200HP, un modello di inizio ‘900 citato dallo stesso Boccioni in un suo testo, viene rappresentata nella versione classica “statica” tipica della pittura prefuturista e nella versione “dinamica” esaltata dal futurismo. Invece La danza delle ore di Gaetano Previati, dipinto dominato da un’armonia celestiale, trova il suo opposto ne La danza dei secondi, espressione dell’accelerazione dei tempi e dello stile di vita che domina i nostri giorni, per cui non si ragiona più in termini di ore, bensì di secondi. Un’opera lunga ben quattro metri diventa poi la trasposizione grafica del manifesto Pittura e scultura futuriste di Boccioni: il flusso di immagini ha origine dalle rovine di un castello e si sviluppa in una prima porzione di tipo “statico”, legata alla tradizione pittorica classica, da cui si leva “una corrente d’aria nuova” connessa alle nuove scoperte scientifiche e tecnologiche, simboleggiate dal dinamismo di una motocicletta e di un aereo. Come contraltare, un grande disegno di ispirazione fiamminga, realizzato con impressionante minuziosità e traboccante di elementi in declino, diventa allegoria di una “statica decadente” tipica dell’arte passatista. Cosa caratterizza questo corpus di lavori nel

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suo complesso? Che immaginario ci restituiscono? Quali concetti evidenziano? Ho lavorato a queste opere con molta dedizione nel corso dell’ultimo anno e credo che, oltre ai temi e ai concetti sviluppati in relazione alla mostra di Palazzo dei Diamanti, alla base del corpus ci sia un mio intimo lavoro di introspezione, maturato durante l’esecuzione paziente dei disegni. In questo senso il vero “stato d’animo” che emerge da queste opere è quello personale dello stesso artista, in certi momenti più ironico e in altri un po’ più inquieto, in cui lo spettatore si può ritrovare o meno. Sono presenti in mostra anche alcune metamorfosi uomo/animale, con cui ho cercato di raffigurare i nostri diversi modi di essere e di sentire: è un immaginario con cui ho cercato di scavare autenticamente nel mio “es”. Che connessioni hanno, invece, con il resto del tuo lavoro e della tua ricerca? Questo ciclo di opere si inserisce in modo naturale nel mio percorso, perché già nel 2016 avevo realizzato alcune opere che amalgamavano testo e figurazione, mentre i temi della metamorfosi e degli stati d’animo erano presenti in alcuni precedenti cicli ispirati a Bosch, Zurbarán e Vermeer. Nelle nuove

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opere compaiono inoltre riferimenti a soggetti animali a cui mi sono dedicato qualche anno fa, soprattutto insetti e pesci, che spesso emergono dal paesaggio o, in certi casi, tornano protagonisti, come il grosso pesce al centro di Statica decadente. Il raffinato disegno a penna Bic non esaurisce le sorprese, ci sono anche le opere nere rotanti che danno altre suggestioni percettive… Quali opere escono da una certa ordinarietà? Perché? Inizialmente studiati per “immergere” i disegni dei pesci nel loro elemento naturale, l’acqua, i vetrocamera hanno trovato un’evoluzione in queste nuove opere rotanti. Volevo, infatti, sviluppare un meccanismo che consentisse di visualizzare, all’interno di uno stesso lavoro, due disegni contrapposti nel tema. L’acqua torbida diventa simbolo di oblio e nascondimento, e allo stesso tempo anche parte sostanziale del disegno. Sono sicuramente opere non ordinarie, in cui cerco di corredare e fondere la figurazione a penna biro, già “fluida” per sua natura, con l’insolito elemento “acqua” che produce senza dubbio un “effetto sorpresa” nello spettatore.

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A quali altri progetti stai lavorando? Ho diversi idee in cantiere, ma una a cui tengo in particolare riguarda le cosiddette Macchine stupide, ovvero progetti di dispositivi che generano sul nostro pianeta effetti negativi comparabili a quelli umani. In generale poi sto sviluppando altre tematiche più legate alla mia immaginazione personale, con meno riferimenti ai grandi maestri del passato e maggiore presenza di elementi contemporanei, sempre mediati dal mio segno grafico. Marcello Carrà. Accelerazioni dello spirito 2 marzo – 10 giugno 2018 MLB Maria Livia Brunelli Corso Ercole d’Este 3, Ferrara Orari: aperto il sabato 15.00-19.00; gli altri giorni su appuntamento Info: +39 346 7953757 mlb@marialiviabrunelli.com www.mlbgallery.com

Marcello Carrà, Paura, 2018, penna su carta applicata su legno, cm 19x25 Nella pagina a fianco: Maria Livia Brunelli e Marcello Carrà


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e l a i c e p S

PARMA 360 FESTIVAL DELLA CREATIVITÀ CONTEMPORANEA direzione artistica e curatela di Camilla Mineo e Chiara Canali organizzazione associazioni 360° Creativity Events ed Art Company con il sostegno del Comune di Parma e di “Parma, io ci sto!” III edizione LA NATURA DELL’ARTE mostre, installazioni, eventi, concorsi, workshop 14 aprile - 3 giugno 2018 Parma, LE SEDI: Ospedale Vecchio | Chiesa di S. Tiburzio | Chiesa di S. Quirino | Area ex Scedep PAROLE CHIAVE: creatività, territorio, comunità, rigenerazione urbana, rifunzionalizzazione degli spazi, cittadinanza, rete, museo diffuso, ambiente, responsabilità

Nella città che è stata designata Capitale italiana della Cultura per il 2020, il Festival PARMA 360 – uno dei 32 progetti del dossier di candidatura – ha il duplice obiettivo di recuperare la naturale vocazione culturale e artistica di Parma facendone vivere in modo nuovo e sinergico gli spazi espositivi, e di sviluppare la comunità creativa del territorio attraverso l’arte, intesa come motore di crescita e trasformazione sociale. Alla base della progettualità di PARMA 360, ci sono inoltre i concetti di rigenerazione urbana e di rifunzionalizzazione degli spazi cittadini per un coinvolgimento attivo della cittadinanza. Attraverso l’arte contemporanea ri-vivono chiese sconsacrate, palazzi storici e spazi di archeologia industriale non sempre conosciuti dagli abitanti della città, come il gioiello storico dell’Ospedale Vecchio, le ex Chiese di San Quirino e San Tiburzio e l’area industriale dell’ex SCEDEP. TEMI: sostenibilità ambientale, rapporto tra uomo, natura e paesaggio 24


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Gli Artisti e le Mostre

CHIESA DI SAN QUIRINO Borgo Romagnosi 1a

FRANCO FONTANA | DAVIDE COLTRO. Terre Piane a cura di Chiara Canali A confronto le ricerca del maestro della fotografia di paesaggio Franco Fontana (Modena, 1933) e dell’inventore del quadro elettronico Davide Coltro (Verona, 1967). Nello spazio ottagonale della chiesa le fotografie di Fontana esaltano l’espressione astratta del colore e le strutture geometriche trasformando i paesaggi in quadri astratti. Il colore diventa rivelazione, linguaggio attraverso cui esprimere paesaggi puri, dell’anima. I System di Coltro sono quadri elettronici che propongono un flusso visivo di icone digitali catturate dal mondo e direttamente trasmesse dallo studio dell’artista al fruitore via etere. L’analisi del paesaggio

ripercorre luoghi e spazi della natura alla ricerca della “vertigine orizzontale” con immagini caratterizzate dal cosiddetto “colore medio”, risultante dalla media matematica di tutti gli elementi cromatici presenti all’interno di un’immagine. Elemento di continuità tra i due artisti, oltre all’utilizzo dell’elemento cromatico come valore primario e strutturale dell’immagine, è la costante presenza di una linea all’orizzonte, che rimane l’architettura fissa di una successione vorticosa di

colori e forme, a testimoniare la vertigine dell’infinito di queste “terre piane” che connotano il paesaggio visivo della Pianura Padana. Il laboratorio di Franco Fontana: 4-5-6 maggio 2018 area dell’ex SCEDEP Workshop fotografico che approfondirà i diversi aspetti che concorrono alla creazione dell’immagine fotografica, la percezione del colore, il controllo delle geometrie, il peso degli elementi nella struttura compositiva e stimolerà ciascun partecipante a esplorare in modo personale il rapporto tra fotografia e realtà.

Dall’alto: Davide Coltro, Res publica, 2011, installazione di quadri elettronici, misure variabili Franco Fontana, Lucania, 1977

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OSPEDALE VECCHIO Strada Massimo D’Azeglio 45

GIOVANNI FRANGI. Lotteria Farnese Giovanni Frangi (Milano, 1959) presenta per gli spazi della la crociera dell’Ospedale Vecchio venti teleri di grandi dimensioni con motivi paesaggistici disegnati su stoffa, che richiamano il famoso ciclo degli arazzi D’Avalos presenti nella Collezione Farnese al Museo di Capodimonte. Un paesaggio visto a volo d’uccello, una fila di alberi che si rispecchia in un fiume, una serie di ninfee nere sono i riferimenti naturali da cui Frangi trae motivo di ispirazione. I colori dei tessuti cuciti e il segno aspro ci portano invece in una dimensione artificiale in cui le immagini sembrano riflettersi tra loro.

Giovanni Frangi, Delta, 2014, pastelli su tela, cm 300x420

ERNESTO MORALES. La Forma e le Nuvole a cura di Chiara Canali In collaborazione con Area 35 Art Gallery, Milano Il progetto La Forma e le Nuvole, del pittore

Ernesto Morales, Clouds, 2017, olio su tela, cm 100x150 26

argentino Ernesto Morales (Montevideo, 1974) riflette sulla natura ambivalente delle nuvole, elemento insieme celeste e terrestre, materiale e simbolico, metaforico e reale. Emblema dell’impermanenza delle cose e dell’incessante divenire del tempo, le nuvole sono testimoni di una temporalità lenta, quasi immobile, dalla lunghissima durata. Ernesto Morales lavora per


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accumuli e sovrapposizioni di colate e al tempo stesso per sottrazioni e dispersioni di pennellate, in dialogo costante con i pittori del passato come Friedrich, Constable, Turner, Richter, Kiefer e con tutti gli altri disegnatori e contemplatori di nuvole e di cieli.

BARBARA NATI. Alla Deriva a cura di Camilla Mineo Le complesse composizioni digitali di Barbara Nati (Roma, 1980), pongono all’attenzione dell’osservatore la drammatica disparità tra le straripanti strutture realizzate dall’uomo con cemento, ferro e asfalto, e i malinconici ritagli di spazio dedicati alla natura. Immagini e paesaggi consueti sono alterati attraverso l’intervento digitale, fino a creare mondi nuovi, affascinanti e insieme inquietanti. Queste opere ci ammoniscono per le storture del presente e al contempo ci indicano una diversa prospettiva per il prossimo futuro. Il linguaggio è

Barbara Nati, Gabbie di tranquillit… #4, 2016 fotografia digitale, cm 100x80

sempre teso tra l’ironico e il poetico, senza dimenticare lo studio di temi di carattere sociale, soprattutto in relazione all’ambiente.

FRANCESCO DILUCA. Germina a cura di Davide Caroli

Francesco Diluca, Germina, 2017, installazione ambientale, misure variabili 27

Le misteriose figure scultoree di Francesco Diluca (Milano, 1979), poste sotto la volta centrale della crociera capeggiano sono rappresentazioni dell’uomo contemporaneo spogliato da ogni orpello e ridotto in estrema sintesi al sistema circolatorio. Figure solo abbozzate, la cui struttura fisica è caratterizza dal dettaglio degli organi interni che si stanno sviluppando, formati da un turbinio di farfalle dorate che vorticando vanno a creare ciò che giace all’interno.


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tipologie di materiale cartaceo. La continua indagine intorno alla materia e la sperimentazione di nuovi materiali naturali e di riciclo, affini alla carta, proposti per le loro potenzialità strutturali e tattili, lo portano a continue interconnessioni, dalla scultura al design, all’installazione, agli impianti scenografici. CHIESA DI SAN TIBURZIO Borgo Palmia 6/a

STUDIO MATTAVELLI Str. della Repubblica 66

PIETRO GERANZANI. L’Uovo Cosmico

CARLO MATTIOLI NELLE COLLEZIONI DI PARMA

In collaborazione con Area 35 Art Gallery, Milano L’esplosione dell’Uovo Cosmico di Pietro Geranzani (Londra, 1964) cambia la nostra percezione del soggetto. L’uovo è ed è stato in tutte le culture simbolo di perfezione e di vita. Nell’iconografia cristiana evoca la nascita e la rinascita ciclica, la vita nuova che Cristo ha portato. E la pittura che ne è portavoce è sinonimo della ri-creazione, del rimescolamento delle forme che ci porta a immaginare una nuova vita.

a cura di Alberto Mattia Martini e Anna Zaniboni In collaborazione con l’Archivio Carlo Mattioli

DANIELE PAPULI. Visioni Nella mostra Visioni di Daniele Papuli (Maglie, 1971) sperimenta la produzione di carte a mano e dà vita a una grande installazione site-specific con diverse

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Studio Mattavelli Dottori Commercialisti Associati diventa spazio espositivo. La mostra attraverso le opere di Carlo Mattioli, si propone di evidenziare il legame, a doppio filo, che l’artista ha sempre instaurato con la città di Parma e il conseguente rapporto privilegiato con i collezionisti parmigiani. Le opere


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selezionate appartengono ad alcuni dei più significativi collezionisti di Carlo Mattioli, descrivendone ed indagando le tematiche affrontate dallo stesso artista durante gli anni della sua produzione: le nature morte, i nudi, i paesaggi, gli alberi, le vedute di Parma ed i ritratti.

Il circuito off: Percorso artistico diffuso nel centro storico. All’appello tutti gli spazi creativi di Parma: gallerie, studi professionali, coworking, enolibrerie, negozi per una ricca e curiosa offerta espositiva. Il circuito off si concentra soprattutto nella zona dell’Oltretorrente, dove è presente anche la sede espositiva dell’Ospedale Vecchio, un quartiere che negli ultimi anni ha evidenziato azioni di riappropriazione e di partecipazione attiva da parte dei cittadini.

Call to Illustrators: “Parmalat e la sostenibilità ambientale”, destinata a creativi, illustratori, grafici, disegnatori e artisti chiamati a proporre un’immagine che interpreti l’attenzione di Parmalat nei confronti delle tematiche della sostenibilità ambientale. Al concorso è dedicato uno spazio espositivo privilegiato nel centro della città: la storica Edicola ottocentesca di Piazza della Steccata che verrà rivestita, nel periodo del Festival, con le grafiche delle tre opere decretate vincitrici da una giuria di esperti.

ORARI (per tutte le sedi espositive eccetto Studio Mattavelli che apre con i seguenti orari: lun - ven, h. 9 - 18.30): dal venerdì al lunedì, ore 11- 20 Aperture straordinarie: 25 aprile, 1 maggio, 2 giugno Ingresso libero Informazioni al pubblico e segreteria organizzativa:

Carlo Mattioli, Le ginestre, 1979, olio su tela, cm 100x74

info@parma360festival.it www.parma360festival.it

Nella pagina a fianco, dall’alto: Pietro Geranzani, L’esplosione dell’uovo cosmico, 2017, cm 300x200 Daniele Papuli, Cartoframma (det.), 2014, cartoncino, dimensioni variabili

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ALLORA & CALZADILLA AL MAXXI: CORTOCIRCUITI VISIVI (E SONORI) ROMA | MAXXI MUSEO NAZIONALE DELLE ARTI DEL XXI SECOLO | 16 FEBBRAIO – 30 MAGGIO 2018 di DAVIDE MARIANI

Fino al 30 maggio 2018 al MAXXI di Roma trovano spazio, all’interno della galleria più iconica del museo, ovvero la Galleria 5 al terzo piano, le opere provocatorie e a tratti spiazzanti di Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla, duo artistico tra i più innovatori del panorama dell’arte contemporanea internazionale. La mostra, dal titolo Blackout, presenta una serie di opere incentrate sul tema dell’energia in relazione al capitalismo, al potere e all’attualità politica. Ideato da Allora e Calzadilla appositamente per il MAXXI e curato da Hou Hanru e Anne Palopoli, il progetto prende come lente di

riferimento, attraverso cui analizzare questa tematica, il luogo dove gli artisti vivono e lavorano e che rappresenta allo stesso tempo oggetto critico della loro ricerca: Portorico. Partendo dalla realtà geopolitica dell’isola caraibica, “territorio non incorporato” degli Stati Uniti, il duo di artisti mette infatti in evidenza le implicazioni relative all’allarmante crisi energetica che ha investito Portorico di recente e al suo debito pubblico, ormai fuori controllo, fattori questi che andrebbero rintracciati in quella che gli artisti definiscono come un’eredità coloniale Statunitense e alla sua complicità con il capitalismo finanziario globale. E così che ad attendere il visi-

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tatore vi sono una serie di sculture, installazioni, video e performance poetiche ma allo stesso tempo graffianti, come ad esempio una pompa di benzina dismessa ormai pietrificata (Petrified Petrol Pump, 2012), oppure le immagini di una motocicletta con una trombata saldata al silenziatore (Returning a Sound, 2004) e di un tavolo rovesciato utilizzato come un imbarcazione a motore (Under Discussion, 2005), ma anche dei grandi quadri composti da frammenti di pannelli fotovoltaici (Solar Catastrophe, 2016). Le odierne tecnologie si trasformano quindi in reliquie, archeologia del futuro, tramite una serie di stratificazioni di significati e


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connessioni che rivelano il loro approccio critico e allo stesso tempo visionario, capace di rileggere il presente offrendo però anche differenti punti di vista. Ne è un esempio Blackout (2017), che dà il titolo alla mostra, opera realizzata con i resti del trasformatore elettrico esploso nel 2016 che causò un blackout a Portorico. La “living sculpture”, così come viene definita da Hanru e Palopoli nel testo di presentazione della mostra, è realizzata con frammenti di ceramica, bobine di trasformatori, rame caricato elettricamente, e simboleggia una sorta di mostruosa centrale elettrica, che produce un ronzio costante al quale si unisce la composizione sonora mains hum (2017), composta dal musicista americano David Lang che cita una riflessione di Benjamin Franklin sull’energia elettrica: «Nello svolgere questi Esperimenti, quanti bei sistemi creiamo per poi doverli distruggere! E se l’elettricità non dovesse risultare utile ad altri scopi, ciò sarà comunque importante, poiché avrà reso umile un Uomo che ha peccato di vanità». La performance vocale, eseguita dal vivo secondo un calendario ad hoc, è pensata in collaborazione con gli artisti come parte fondamentale della scultura ed è eseguita dal gruppo vocale romano Voxnova Italia, con l’intento di creare una “impronta sonora” che accompagna tutta la mostra. Impron-

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ta sì ma sostenibile, dato che la ricerca di energie alternative rappresenta per gli artisti un impegno reale che si traduce concretamente coniugando la dimensione economica, ideologica ed estetica: per la mostra, infatti, il duo ha previsto anche un sistema a energia solare che garantisce l’alimentazione delle tecnologie e l’illuminazione delle opere esposte. La mostra è affiancata inoltre da una rassegna video, ospitata nella video gallery del MAXXI, che comprende tutta la produzione dei due artisti, ulteriore testimonianza del loro impegno nell’analisi di concetti chiave della contemporaneità come l’identità nazionale, la democrazia, il potere, la libertà, la partecipazione e i cambiamenti sociali.

MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo Orario: 11.00 – 19.00 (mart, merc, giov, ven, dom) | 11.00 – 22.00 (sabato) | chiuso il lunedì Info: +39 06 324861 info@fondazionemaxxi.it www.maxxi.art

Allora & Calzadilla. BLACKOUT a cura di Hou Hanru e Anne Palopoli Appuntamenti: Performance mains hum: calendario La performance mains hum verrà eseguita dal vivo alle 11:30 e alle 16:00 di sabato 7 aprile; domenica 22 aprile; sabato 28 e domenica 29 aprile; sabato 12 e domenica 13 maggio; sabato 26 e domenica 27 maggio. 16 febbraio – 30 maggio 2018

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Allora & Calzadilla, Solar Catastrophe, 2016, broken solar cells on canvas, cm 213,36 x 365,76. Courtesy: the artist and kurimanzutto, Mexico City. Foto: Diego Pérez, 2016 Nella pagina a fianco: Allora & Calzadilla, Blackout, 2017, electrical transformer core coil, ceramic insulators, steel, iron, oscillator, speaker, vocal performance mains hum (2017) composition written by David Lang, cm 139x262x129. Courtesy: the artist and Lisson Gallery. Foto: Dave Morgan


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SOL LEWITT: ARTE&ARCHITETTURA, UN “PROGETTO” CONCETTUALE MILANO | FONDAZIONE CARRIERO | FINO AL 24 GIUGNO 2018 di MATTEO GALBIATI

Non basta solo la superlativa cornice della storica Casa Parravicini di Milano, sede della Fondazione Carriero, a qualificarne i progetti espositivi, ma concorre, in misura maggiore, la qualità scientifica delle mostre qui allestite che, integrandosi perfettamente con la suggestione dei suoi ambienti, fornisce al pubblico sempre importanti occasioni di lettura e ricognizione sui lavori e le ricerche dei grandi maestri del contemporaneo. Il protagonista di questa nuova analisi è Sol LeWit (1928-2007) che, a dieci anni della sua scomparsa, è oggetto di una rilettura della sua poetica, vista e analizzata attra-

verso i suoi momenti maggiormente significanti, con opere che, grazie alla preziosa collaborazione della Estate of Sol LeWitt, forniscono un dettagliato spaccato dei principali momenti del suo processo creativo e ideativo. Grazie alle intuizioni di Francesco Stocchi e al contributo di Rem Koolhaas, per la prima volta in veste di curatore, la monumentalità silenziosa dell’artista americano emerge in tutta la sua prorompente dinamicità, pur controllata da una logica rigorosa e attenta, caratteristica, rispettosa di quel dialogo con il luogo-ambiente dello spazio in cui i suoi

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Sol LeWitt, Between the Lines, veduta della mostra (Inverted Spiraling Tower, 1988 e Wall Drawing #1267: Scribbles, 2010), Fondazione Carriero, Milano. Foto: Agostino Osio Courtesy. Courtesy: Pace Gallery; Collezione Morra Greco, Napoli; Fondazione Carriero


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lavori si inseriscono. Le opere selezionate, che rispecchiano l’intero arco della sua ricerca, testimoniano proprio questa attitudine a caricare di nuovo senso non solo la propria essenza, ma anche a sollecitare il sodalizio con gli spazi della loro visone in una prospettiva che è capace di esorcizzare e rivisitare il concetto stesso di site-specific, tanto ridondante, quanto spesso pretestuoso e inefficace. Volumi e linee si propongono come testimonianza di un fare che, inglobando la dimensione architettonica nella piena contestualizzazione dell’arte, lascia affiorare il principio astratto, il significante remoto che le ha generate e suscitate. La loro presenza serve per spostare altrove il pensiero, rendendolo capace di identificare altre dimensioni più profonde di quella contingente e sensibile che le ha scaturite. Sala dopo sala, tra ambienti ricostruiti e la storia dei saloni del palazzo, si susseguono capolavori che fanno vibrare il pronunciamento di LeWit spingendo l’osservazione dello spettatore a muoversi continuamente tra la bidimensionalità e la tridimensionalità, tra opere scultoreo-ambientali e wall drowing e wall painting che invadono direttamente sulla parete. Tra monocromia e colorazioni minime il fare moltiplicatore, replicabile e commutabile dell’artista rivive attestando il prevalere iconico del principio primo dell’idea sul “saper fare” con cui si erano sempre valutati i meriti del genio degli artisti. Qui sta la radice “concettuale” di cui proprio LeWitt fu artefice e teorizzatore: la progettualità e la sua conseguente definizione spetta all’artista che, salvaguardando lo schema prefigurato, può demandarne l’esecuzione e la realizzazione effettive ad altri in un numero infinito di volte. La sua rivoluzione vale e vive ancora oggi e, proprio grazie ai suoi insegnamenti, diverse generazioni di artisti hanno potuto cogliere il senso di una libera espressione del dire e del fare. Nella mostra di Milano si vive la bellezza di questa decisa linea di pensiero dove libertà e osservanza alle regole convivono in spazi capaci di definire la precisione, senza sconfinare nella retorica di certa spettacolarizzazione, dell’animo di questo artista e delle sue affascinanti “invenzioni” che attraversano il tempo e gli spazi mantenendo integro il loro spirito (ancor oggi) rinnovabile.

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catalogo Koenig Books con testi di Francesco Stocchi, Rem Koolhaas e Adachiara Zevi 17 novembre 2017 – 24 giugno 2018 Fondazione Carriero Via Cino del Duca 4, Milano Orari: tutti i giorni ore 11.00-18.00; chiuso la domenica Ingresso libero Info: +39 02 36747039 info@fondazionecarriero.org www.fondazionecarriero.org

Sol LeWitt. Between the Lines a cura di Francesco Stocchi e Rem Koolhaas in stretta collaborazione con l’Estate of Sol LeWitt

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Sol LeWitt, Between the Lines, veduta della mostra (Wall Drawing #51: All architectural points connected by straight lines, 1970), Fondazione Carriero, Milano. Foto: Agostino Osio. Courtesy: Estate of Sol LeWitt e Fondazione Carriero


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MILTOS MANETAS AL MAXXI: INTERNET PAINTINGS ROMA | MAXXI – MUSEO NAZIONALE DELLE ARTI DEL XXI SECOLO | 16 MARZO – 20 MAGGIO 2018 di JACOPO RICCIARDI

La pelle della pittura è un’installazione se si assottiglia fino a tentare una propria immaterialità senza tradire la sua vocazione di racconto figurativo scenico. Miltos Manetas sembra voler forzare la pittura a congiungersi idealmente con l’immagine video, digitale, di Internet, che di per sé è una caverna, un luogo, uno spazio reale ma altro, e che non si trova altrove dal quotidiano ma ben inscritto in esso. La pittura è proprio l’elemento che può rappresentare questa assenza presente, che è luogo nel luogo, luogo virtuale che realmente e sovversivamente sovverte il nostro primigenio

reale quotidiano, passando da cose fisiche reali a cose non fisiche reali. La pittura ha costruito in secoli la sua realtà e ora, per questa forza, proprio come la realtà quotidiana, si sovverte nel suo contrario, si smaterializza rimanendo presente. Quindi Manetas, nella mostra Internet Paintings in corso al MAXXI di Roma, non opera un tentativo, ma fa agire una possibile inevitabile realtà del mezzo pittorico, moltiplicandolo, amplificandolo, ma non aumentando una storia, iniziandola e finendola come nella Cappella Sistina, ma in una bolla di spazio neutro che, non rac-

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contando, e, spezzando un racconto precedente, fa perdere le proprie tracce. In questa bolla, che si amplifica gonfiandosi, gli elementi descrittivi della pittura, ritratti, loghi, pezzi di paesaggi, sovrapposti o resi in un segno scheletrito, quasi anti pittorico o oltre pittorico, si svuotano come lacune pur mantenendo la radice prima della rappresentazione, pur giungendo a volte o spesso a rasentare l’indecifrabile e mai l’incompiuto. Qui Manetas ci mostra sulla tela dei riquadri di immagini che ritraggono una scena mettendo tra loro, orizzontalmente, il vuoto, un


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colore di fondo, e, profondamente, nella tela, tra le immagini che si sovrappongono, si crea o si mostra lo stesso vuoto; e anche si attiva tra le diverse tele appese nell’ambiente come se lo spazio reale fosse uno schedario, come se il vuoto reale tra le tele fosse lo stesso reale del vuoto del colore monocromo di fondo o del vuoto della trasparenza. Un’unica superficie è spesso composta da tre o quattro tele accostate a tradurre un altro senso del vuoto che esiste tra due bordi adiacenti, l’uno il prolungamento dell’altro, due dimensioni che sono una. Manetas va oltre il non finito dei prigioni di Michelangelo, egli trova il non ultimabile. Per lui, in questo spazio di vuoto reale, la cui vera immagine è il luogo di Internet da lui dipinto, non esiste né un orizzonte di partenza né un orizzonte di destinazione, ma un’amplificazione del vuoto che ci vede inscritti in esso. L’enorme quadro di più di sei metri per tre rappresenta uno spazio qualsiasi dove due persone convivono e interagiscono con una quantità di dispositivi digitali dispersi per i metri quadri della superfice del quadro così come nel luogo indecifrato della rappresentazione: un interno di stanza forse, pubblico o privato, dalle dimensioni tanto imprecise quanto dilatate, come anche un imprecisato luogo esterno che nel suo presentarsi nudo e spoglio richiama il vuoto dello spazio, fino a quello tra pianeta terra e universo. Manetas determina una pittura che non può esaurirsi e infine mostrarsi, ma che al contrario si fa ogni volta finita mentre continua a farsi: i quadri durante la mostra continuano a essere dipinti. Ecco una simula-

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zione della realtà che non è mai immobile mentre la si vive, e che, forse, questo sì, non si sposta mai dal vuoto reale e spaziale finché si vive. Ecco messo a fuoco l’aspetto della connessione digitale, connessione senza direzione tra individui, e così più reale di quella immaginata. Manetas fa di più per esplorare questa connessione tanto reale quanto nulla, significante proprio perché vuota, che dà la vita alla persona e all’intelletto svuotandosi: fa dipingere da un altro alcune parti dei dipinti, e addirittura interferendo in questa azione con dei video di immagini digitali provenienti da Internet, immagini immateriche che si intersecano alla non materialità pur materica dell’azione di un altro autore pittore, che segue le linee o i profili proiettati o che li ignora mentre loro agiscono sopra la pittura che si sta dipingendo o che già è stata dipinta in una trasparenza materica. Manetas trova il numero atomico dell’azione pittorica umana in una bolla che già chiamiamo vita ma che con lui si viviseziona concettualmente e praticamente. La pittura con Manetas è uno spettro che mostra quanto assente ci sia che forma la nostra realtà. Egli utilizza Internet non come luogo contemporaneo momentaneo ma come un luogo momentaneo eterno. L’uomo così ritratto da Manetas risulta isolato nella sua concreta immaterialità. I ritratti di Manetas sono talmente connessi al luogo vuoto che li circonda che per quella forza negativa trovano la loro espressione e tutta la loro vita, ma espressivamente e identitariamente già fuggita in un’altra connessione, connessione di altre connessioni,

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dall’indecifrabile e inultimabile percorso, ma realmente immutabile come il legame del linguaggio pittorico con l’uomo. Miltos Manetas. Internet Paintings 16 marzo – 20 maggio 2018 MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo Sala Claudia Gian Ferrari Via Guido Reni 4A, Roma Info: www.maxxi.art

Per entrambe: Miltos Manetas, The Italian Painting, 2000, olio su tela, cm 200x550. Courtesy: Fondazione MAXXI


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GIORGIO DE CHIRICO. VISIONI METAFISICHE DEL NULLA TORINO | CASTELLO DI RIVOLI | 6 MARZO – 27 MAGGIO 2018 di MICHELE BRAMANTE

Il prestito a lungo termine concesso dalla collezione Cerruti al Castello di Rivoli ha permesso la rara occasione di osservare alcuni capolavori metafisici di de Chirico, in una mostra che cerca il dialogo con le opere contemporanee della collezione permanente del Museo, per suggerire richiami e relazioni a distanza, sensazioni che dalla pittura divinatoria di De Chirico sono discese alle visioni stranianti sul mondo dell’arte più recente. Le opere esposte ricordano come la partita estetica della prima metà del Novecento non fosse dominata dalle sole tendenze di derivazione cubista e dalle poetiche dell’oggetto e del concetto di ascendenza duchampiana. De Chirico è la terza corona del secolo, e le suggestioni dei suoi dipinti rimangono un’esperienza imprescindibile per l’arte europea dagli Anni Dieci in avanti. Pur com-

prendendolo, i surrealisti vollero sciogliere i suoi enigmi trovando il senso delle apparizioni nel lavoro di un inconscio sorgivo, sentito come principio ordinatore delle atmosfere visionarie che preludevano a verità superiori. De Chirico, in quell’ora immota e fatale di piazza Santa Croce a Firenze, aveva invece percepito qualcosa di molto più terribile delle pulsioni soggiacenti alle alterazioni della realtà. L’enigma di quell’illuminazione fiorentina era già un destino compiuto, e a nient’altro rinviava se non allo stordimento del nulla urlato dallo spazio circostante, da cui era partito il suono più pungente che possa trafiggere lo spirito, sottile come il raggio dell’Annunciazione, ma dotato del micidiale potere di annullare il senso dell’esistenza. Nietzsche, spesso invocato dal pittore per quel sentimento melanconico dei pomeriggi d’autunno che solo lui dichia-

Giorgio de Chirico, Il saluto degli Argonauti partenti, 1920, tempera su tela, Collezione Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte Deposito a lungo termine. Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, RivoliTorino © Giorgio de Chirico, by SIAE 2018

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rava d’aver compreso, non rappresenta la scoperta del dionisiaco, ma l’infatuazione per l’apollineo, per il nitore delle forme che giungono alla massima intensità di apparizione nello stesso momento in cui fanno vibrare il vuoto di senso nelle apparenze. De Chirico aveva sviluppato quell’attitudine allo sguardo teatrale suggerita dal filosofo tedesco per intuire la finzione che attraversa il reale da parte a parte. La facciata di Santa Croce, l’ampio spazio della piazza, la statua di Dante, tutto gli era sembrato una grande scenografia per comparse dalle ombre lunghe, lente, maestosamente prive d’ogni scopo percepibile pur nell’aria cristallina che amplifica anche i suoni più lontani, come nel silenzio del teatro. Anche gli argonauti posano nudi, come tutti i miti, su una scena allestita per l’atto della loro partenza. Il fondale luminoso con il tempio classico, le ombre portate da luci calde e radenti provenienti dai fari puntati sul proscenio, le prospettive fittizie come nel Teatro Olimpico del Palladio, le citazioni mitologiche di un dio fluviale e le pose dei personaggi mutuate dal classicheggiante Max Klinger, concorrono a trasfigurare un mondo illusorio e ambiguo, non vero e nemmeno apparente, come nell’aforisma nicciano del mondo trasformato in favola. Il cosmo dechirichiano è un teatro senza creatore. Da questo universo spettrale, sospeso tra il nulla e l’apparenza, attraversato dagli echi del non senso della vita, guardano verso di noi delle figure antropomorfiche, quasi umane. La suggestione dei manichini proviene dal fratello Savinio, che ne I canti della mezza morte fece comparire i suoi personaggi senza voce, senza occhi, senza volto. Nei dipinti di De Chirico, essi non si lasciano solamente rivelare da quello sguardo chiaroveggente che scopre l’irrealtà delle cose. Tenuti in piedi come impalcature sceniche, abitanti ideali di quelle visioni, hanno teste dolcemente reclinate dalle quali rivolgono, al di quà della tela, un’attenzione curiosa,


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ma vuota e priva di psicologia. Gli interni metafisici nascono nella congiuntura perfetta di inizio Novecento tra scetticismo filosofico e indagine sulla pittura e sullo statuto ontologico dell’immagine. Per tutto il secolo precedente la filosofia aveva dubitato della possibilità di cogliere nel suo fondamento la verità. In pittura, il cubismo metteva in crisi lo spazio illusorio della prospettiva portandolo in tensione con la bidimensionalità oggettiva della tela. De Chirico, quindi, confondeva la rappresentazione con linee inclinate, regoli, cornici sghembe e ombre che, nell’accumulazione, non ordinavano uno spazio coerente, ma lo scomponevano secondo prospettive dai punti di fuga moltiplicati e disseminati, attraverso la convergenza di linee che disegnavano vaghe profondità subito deviate da altre rette oblique. Il gioco illusionistico del quadro nel quadro, gli accostamenti illogici di oggetti ordinari strappati all’ovvietà quotidiana, il rapporto irrisolto tra interno ed esterno concorrevano a falsare l’orientamento nell’immagine.

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Pur congestionate e in precario equilibrio, le prospettive delle piazze e degli interni metafisici non sono totalmente aliene. Si frammentano, piuttosto, in volumi parzialmente coerenti, ancorché spostati rispetto all’organicità dello spazio cartesiano. Gli sbilanciamenti delle geometrie creano delle interferenze nella familiarità degli ambienti fino a provocare un’esperienza di straniamento che segna una trasformazione nella percezione ordinaria. In virtù della nuova finezza di intuito, il soggetto, l’artista, pur trovandosi in un luogo perfettamente conosciuto, comincia ad avvertirne l’estraneità, a scorgere un mistero nella logica soprannaturale dei rapporti tra le cose. È nello stato emotivo di questo dissesto che si apre la rivelazione della vacuità dei fenomeni. Un altro filosofo, che non si può annoverare tra le fonti delle illuminazioni dechirichiane, descrive perfettamente questo sentimento metafisico di trasfigurazione della realtà. È la meraviglia di tutte le meraviglie, il quieto incanto che per Heidegger solo l’uomo, unico fra gli enti, può esperire non di fronte

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al modo d’essere del mondo, ma per il fatto miracoloso che esso, per intero, esista: che il mondo sia piuttosto che il nulla. Giorgio de Chirico. Capolavori dalla Collezione di Francesco Federico Cerruti a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria 6 marzo – 27 maggio 2018 Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea Piazza Mafalda di Savoia, Rivoli – Torino Info: +39 011 9565222 info@castellodirivoli.org www.castellodirivoli.org

Giorgio de Chirico, Muse metafisiche, 1918 olio su tela, Collezione Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte Deposito a lungo termine, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino. © Giorgio de Chirico, by SIAE 2018


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LE FUTURISTE IN MOSTRA AL MAN DI NUORO NUORO | MUSEO MAN | 9 MARZO – 10 GIUGNO 2018 di DAVIDE MARIANI

L’elica e la luce. Le futuriste 1912-1944 è il titolo della mostra, a cura di Chiara Gatti e Raffaella Resch, attualmente in coso al MAN di Nuoro. L’esposizione, inaugurata lo scorso 9 marzo, a poche ore dalla nomina di Luigi Fassi a nuovo direttore del museo nuorese, nasce con l’intento di indagare “l’altra metà” del futurismo, ovvero il ruolo delle donne all’interno di un movimento programmaticamente misogino: «Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna», si legge nel Manifesto del futurismo del 1909.

Sebbene queste dichiarazioni siano da intendersi non in termini di rifiuto della «donna quale è veramente ma quale prodotto della passionalità egoistica del maschio e della letteratura romantica», come giustamente ricorda in catalogo Enrico Crispolti, riportando la precisazione di Marinetti nel libro del 1917 “Come si seducono le donne”, le presenze femminili all’interno del movimento (così come in generale nell’arte) hanno goduto di limitata considerazione fino alla fine degli anni Settanta. Una mostra chiave in tal senso è stata nel 1980 “L’altra metà dell’avanguardia 19101940”, curata al Palazzo Reale di Milano

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Benedetta, Ritmi di rocce e mare, 1929 c., olio su tela, cm 80x125. Collezione privata, Roma


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da Lea Vergine, di cui la rassegna al MAN vuole raccogliere, affermano le curatrici, l’eredità culturale, focalizzandosi però esclusivamente su un capitolo di quel lungo racconto. La quasi totale assenza, fino a quel momento, di studi sull’arte delle donne portò Lea Vergine a strutturare la sua ricognizione per gruppi, classificando le artiste secondo la loro appartenenza ai vari movimenti di avanguardia, individuando, non senza azzardi, affinità ideali e tematiche con l’operato dei colleghi “maschi”, al fine di evitare il «rischio del regesto alfabetico, del censimento miserabile», come sostiene la stessa Vergine nell’intervista a Chiara Gatti in catalogo. E così, a trentanni da quell’episodio, quel «lazzaretto di regine» – o meglio in questa occasione «regine del futurismo» – trasmigra nel museo nuorese. Ci sarebbe tuttavia da chiedersi, e c’è chi l’ha fatto, come Linda Nochlin con il saggio del 1971 “Why Have There Been No Great Women Artists?” e Griselda Pollock, con “Vision and Difference” nel 1988, quanto senso possa avere inserire a posteriori le donne in una storia dell’arte concepita secondo metodi e categorie fatti da e per gli uomini e nella quale le donne ricoprivano, il più delle volte, solo il ruolo di soggetto delle rappresentazioni. Servirebbe soprattutto per chia-

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rire che in passato non è che non vi siano state donne artisticamente dotate, ma semplicemente, la cultura e la società dell’epoca non permettevano loro di praticare allo stesso livello la professione artistica. La mostra al MAN, al di là dei risultati spesso altalenanti delle singole artiste, ha comunque il merito di riunire oltre 100 opere fra dipinti, sculture, carte, tessuti, maquette teatrali e oggetti d’arte applicata, accompagnate da un ampio apparato documentario di prime edizioni di testi, fotografie d’epoca, manifesti originali, studi e bozzetti che testimoniano il lavoro e gli sforzi di queste donne che, a partire dagli anni dieci e fino agli anni quaranta, hanno dato il loro contributo al movimento futurista firmandone i manifesti teorici, partecipando alle mostre, sperimentando innovazioni di stile e di materiali in diversi ambiti, come le arti decorative, la scenografia, la fotografia e il cinema, ma anche la danza, la letteratura e il teatro. Suddiviso in sezioni tematiche quali “il corpo e la danza”, “il volo e la velocità”, “il paesaggio e l’astrazione” e “le forme e le parole”, Il percorso espositivo restituisce un panorama quanto mai variegato, che vede le artiste futuriste dedite alle arti applicate, al tessuto, alla scultura in metallo. Sullo sfondo vi sono poi le biografie delle artiste che s’intrecciano con la vita culturale di un

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Paese allo stesso tempo eccitato dal progresso e ferito dal conflitto. Quello delle donne nel futurismo è sicuramente un tema affascinante e ricco di episodi e risvolti interessanti; la mostra al MAN ne offre uno spaccato significativo, non foss’altro che per la cospicua presenza di opere e materiali d’archivio difficilmente visibili in un’unica occasione. L’elica e la luce. Le futuriste 1912-1944 a cura di Chiara Gatti e Raffaella Resch Fino al 10 giugno 2018 MAN_Museo d’Arte della Provincia di Nuoro Via Sebastiano Satta 27, Nuoro Info: +39 0784 252110 info@museoman.it www.museoman.it

Veduta dell’allestimento della mostra “L’elica e la luce. Le futuriste 1912-1944”


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FRIDA KAHLO. OLTRE IL MITO MILANO | MUDEC – MUSEO DELLE CULTURE | 1 FEBBRAIO – 3 GIUGNO 2018 di FRANCESCA CAPUTO

Inquadrare il percorso artistico di Frida Kahlo, travalicando il cliché di artista tormentata, che ha fagocitato la sua figura sino a trasformarla in icona pop, non è cosa facile. Ci prova la mostra Oltre il mito al Mudec di Milano, fino al 3 giugno 2018, senza negare la sua vicenda biografica ma ponendola in una prospettiva diversa, tesa a restituire centralità al ruolo di Frida Kahlo nell’arte latino-americana, tra anni Trenta e Cinquanta, e nell’arte del XX secolo. Nelle sue opere si riflettono, infatti, le trasformazioni sociali, culturali e lo spirito del Messico postrivoluzionario e si intersecano le traiettorie dei principali movimenti internazionali del suo tempo: dal Modernismo al Surrealismo, dalla Nuova Oggettività sino al Realismo Magico. Interloquendo, a pieno titolo, con le coeve Avanguardie europee. L’approccio, meno facile e immediato, affonda le radici in sei anni di studi del curatore Diego Sileo e nelle migliaia di documenti, riemersi da importanti archivi, come quello di Casa Azul (abitazione messicana di Frida e Diego Rivera, ora sede del Museo Frida

Kahlo), sigillato per più di cinquant’anni e riemerso nel 2007. Oltre a scritti, lettere e un cospicuo numero di fotografie e disegni, sono esposti cinquanta capolavori provenienti dal Museo Dolores Olmedo e dalla Gelman Collection – le due più importanti raccolte di opere dell’artista – assieme ad altri prestiti internazionali, anche inediti. Seguendo un andamento tematico – Donna, Terra, Politica, Dolore – dalle sezioni espositive emergono gli elementi fondanti della poetica e del linguaggio pittorico della Kahlo, che rendono unico il suo lavoro. Attraverso il suo personalissimo immaginario fantastico, nutrito di precisi riferimenti alla civiltà azteca e precolombiana, come patrimonio di forme, simbologie e significati, rivendicò, con fierezza, un legame viscerale con il Messico e le proprie radici indigene. Atto politico e identitario, presente nei dipinti – dagli autoritratti alle potenti nature morte, al legame indissolubile tra figura umana ed elementi naturali – e nell’uso di abiti e gioielli etnici, nelle acconciature flo-

reali con cui adornava il suo corpo. La passione per la politica, preponderante nella sua arte, sempre letta come riflesso dell’attività politica di Rivera, è ora riportata nella sua autonoma prospettiva, di coinvolgimento molto più attivo e impegnato di quanto fin ora era emerso. Intrecciando personale e sociale, svelò con crudezza disarmante e insieme inesauribile energia vitale, l’esperienza della sofferenza come forma di resistenza. La Kahlo fece del suo corpo, in pittura come nella vita, un manifesto artistico e uno strumento di protesta, capace di eludere con tenacia le condizioni di minoranza sociale cui erano costrette le donne del suo Paese, imponendo un ruolo di donna artista, di indipendenza e forza, nella ricerca cosciente dell’Io. È il potere evocativo della sua arte ad essere finalmente al centro. FRIDA KAHLO. OLTRE IL MITO a cura di Diego Sileo 1 febbraio – 3 giugno 2018 MUDEC – Museo delle Culture Via Tortona 56, Milano Info: +39 02 54917 www.mudec.it

Veduta della mostra Frida Kahlo. Oltre il mito al Mudec di Milano. Foto: Carlotta Coppo

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WALLINGER, MARK. L’IO COME MISURA DI TUTTE LE COSE PRATO | CENTRO PER L’ARTE CONTEMPORANEA LUIGI PECCI | 24 FEBBRAIO – 3 GIUGNO 2018 di ALESSANDRA FROSINI

Come sono cresciuti gli YBAs, gli Young British artists che hanno dominato e rinnovato la scena artistica britannica (e non solo) negli anni ‘90 con il sostegno di Charles Saatchi? I più noti, Damien Hirst e Tracy Emin, rappresentano tutt’oggi riferimenti influenti nel panorama artistico. Alcuni sono morti, altri – anche se meno noti da noi – hanno continuato con successo la carriera, diversi hanno vinto o sono stati finalisti del Turner Prize. Fra questi c’è Mark Wallinger. Nato a Chingwell, Essex, nel 1959, ha esposto nel 1993 nella mostra alla Saatchi gallery di Londra “Young British Artists II”, nel 1997 in “Sensation” alla Royal Academy e ha vinto nel 2007 il Turner Prize (come i suoi compagni Damien Hirst nel 1995 e Gillian Wearing nel 1997). La prima personale italiana dell’artista inglese è stata da poco inaugurata al Centro Pecci di Prato, una mostra itinerante già ospitata in Finlandia e Scozia, che presenta una panoramica sui suoi lavori dalla fine degli anni ‘80 ad oggi.

Tema ricorrente del lavoro di Wallinger è la messa in scena o messa in atto della propria identità, fatta declinando l’”I”, l’Io, in 143 dipinti e in sculture che riproducono la lettera tipografica a grandezza umana (quella dell’artista), o condotta nella Id Painting Series (2015-2016), monumentali macchie di Rorschach, che si presentano come tracce della gestualità istintuale (ma in realtà guidata nel disegno simmetrico) dell’artista, realizzate con la vernice stesa direttamente con le mani. Oppure espressa nei Passport Control (1988) in cui Wallinger “gioca” con le sue fototessere ingrandite, ritoccandole con un pennarello per trasformare la sua immagine in stereotipi etnici, così da porre l’attenzione, questa volta, sul fraintendimento e sui condizionamenti legati ai pregiudizi. Un gioco di specchi sull’identità, un incontro con il nostro doppio che ritroviamo anche nella scultura che ci accoglie all’inizio dell’esposizione, Ecce homo (1999-2000), un Cristo coronato di spine (originariamente collocata sul quarto piedistallo di Trafalgar

Square) umanissimo – tant’è che si tratta del calco di una persona reale – e classicissimo al tempo stesso. La selezione di opere in mostra permette di avere uno sguardo ampio sull’artista, anche se sarebbe stato interessante poter vedere anche la sua “trilogia della glossolalia”, la serie di video realizzati alla fine degli anni ‘90 in cui l’artista impersonava Blind Faith, l’incarnazione letterale della “fede cieca”. Lontane le “tattiche shock” degli YBAs, viene da guardare tutta la mostra come un test proiettivo per cogliere i processi spontanei degli osservatori, per capire “come qualcosa produca attivamente un significato rispetto a cosa significhi in sé”, in un equilibrio fra opacità e trasparenza siglato “MARK”. MARK WALLINGER MARK 24 febbraio – 3 giugno 2018 Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci Viale della Repubblica 277, Prato Info: +39 0574 5317 info@centropecci.it www.centropecci.it

Mark Wallinger, Id Paintings, 2015. Foto: OKNOstudio

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DOPO ZANG TUMB TUUUM: TUTTA L’ARTE DI UNA NAZIONE MILANO | FONDAZIONE PRADA | 18 FEBBRAIO – 25 GIUGNO 2018 di LUCA BOCHICCHIO

Tappa obbligata dell’anno, bulimica e filologica, Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943 sembra davvero lo scavo in sezione dell’Italia fra le due guerre. Ma al contrario di un carotaggio, dal quale si otterrebbe la precisa e limitata successione storica degli strati, questa mostra è impostata piuttosto come una perlustrazione speleologica, battendo cunicoli sotterranei che capillarmente divergono e si riuniscono in laghi o secche sotterranei e improvvisi. Tappa obbligata, dicevo, in quanto dovrebbe essere obbligatorio vederla (“prima gli italiani”, nel senso di tutti quanti vivono in Italia!) per rendersi conto di ciò che siamo stati (e siamo), di ciò che è accaduto, di

quanto si è speso in termini di energie intellettuali, risorse economiche, investimenti personali, politici e sociali nel nostro Paese in una ben delimitata epoca storica: quella compresa tra un tragico e sospirato ultimo anno di guerra mondiale e l’inizio di altre battaglie, vitali, per la liberazione dal nazifascismo. In quel trentennio, a tappe forzate, si compie la metamorfosi: ci si distacca dal XIX secolo per varcare la soglia dell’età contemporanea post-atomica, post-fascista, post-monarchica; un’Italia che, inglobando tutto quello che si credeva appunto posticcio, veleggia verso la tumultuosa fine di millennio. Mostra bulimica, in quanto negli spazi in cui

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di solito la Fondazione Prada distribuisce tre o quattro esposizioni, qui si dispiega con forza imperialista l’intera produzione artistica del paese fra le due guerre, periodo che, tendenzialmente, viene affrontato da storici e curatori per “correnti”, “decadi”, “temi”, ecc… Germano Celant questa volta ha optato per “arte, vita, politica”, quindi, molto semplicemente e modestamente: tutto. Tutto e tanto, a tratti ridondante, ma superbo, da godere come un viaggio nel tempo, passando da una sala all’altra, da un’esposizione storica all’altra, ricordando, collegando, scoprendo, senza fine apparente, per continui passaggi, cambi di zone geografiche e culturali, capolavori miliari e opere


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meno note (oltre seicento pezzi, circa ottocento documenti). Stessa esagerazione bulimica anche nel metodo filologico che ne regola il percorso e l’allestimento, volto a restituire le opere nel contesto sociale, culturale e in molti casi espositivo del tempo. Documenti e ricostruzioni ambientali delle mostre storiche servono infatti a contrastare un certo “idealismo espositivo, dove le opere d’arte, nei musei e nelle istituzioni, sono messe in scena in una situazione anonima e monocroma, generalmente su una superficie bianca” (cit.). Riproposte in relazione alle mostre e alle fotografie che le documentano, le opere consentono di essere guardate attraverso un istintivo confronto tra il pubblico di oggi e quello dell’epoca, innescando così una riflessione sul valore, sul gusto, sulle gerarchie estetiche, sugli scarti linguistici ed espressivi. Il “tutto”, di cui sopra, si esprime infatti, soprattutto e positivamente, nelle molteplici testimonianze messe in campo: grafica, pittura, architettura, design,

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scultura, incisione, letteratura, editoria, fotografia, ambienti. Su tutto questo, percorrendo un ventennio di storia, i simboli e i riferimenti al fascismo a tratti dominano l’immaginario collettivo; la mostra non rinuncia a riportare la fiera apologia del “fascio”, la fiducia e la fede in quel regime, così come documenta, entrando negli anni Quaranta, i risultati di quella folle esperienza, attraverso lo sguardo delle nuove generazioni di artisti, che denunciano o documentano i campi di sterminio, la guerriglia, lo sterminio di civili. Nascita e morte di un sogno e di un inganno, morte e rinascita di una Nazione, anche questo è Post Zang Tumb Tuuum: Art Politics Life: Italia 1918-1943, Milano, Fondazione Prada, fino al 25 giugno. Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943 a cura di Germano Celant 18 febbraio – 25 giugno 2018

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Fondazione Prada Largo Isarco 2, Milano Info: +39 02 5666 2611 info@fondazioneprada.org www.fondazioneprada.org

In queste pagine: Vedute della mostra Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, 18 febbraio – 25 giugno 2018, Fondazione Prada, Milano. Courtesy: Fondazione Prada. Foto: Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti


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RAFFAELLO: A BERGAMO UNA BELLEZZA SENZA TEMPO BERGAMO | GAMEC | FINO AL 6 MAGGIO 2018 di MATTEO GALBIATI

Pochi artisti meritano di essere considerati un mito e, tra questi, certamente va annoverato Raffaello Sanzio (1483-1520), le cui opere hanno descritto uno stile, una bellezza, una grazia e un’intensità profondi e unici, capaci di attraversare indenni i secoli e di rendersi modello per generazioni differenti di artisti di ogni epoca. Un lascito il suo che appartiene universalmente al genio umano e ammalia e incanta lo sguardo di qualsiasi spettatore. Se tra due anni si celebrerà la ricorrenza del quinto centenario della morte, la GAMeC di Bergamo, in collaborazione con la

Fondazione Accademia Carrara, giocando d’anticipo, propone Raffaello e l’eco del mito, una mostra che, supportata da un comitato scientifico di tutto rispetto, mette in dialogo 14 capolavori del maestro urbinate con oltre 50 altre opere di artisti che, dal QuattroCinquecento, arrivano ai giorni nostri e che, proprio in Raffaello e la sua pittura, hanno visto un modello, un punto di riferimento o un motivo di ispirazione e citazione. Il solido percorso espositivo, che vanta prestiti d’eccezione provenienti dai principali musei e collezioni, nazionali e internazionali, segno dalla qualità del progetto

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e dell’ottima reputazione dell’istituzione bergamasca, attraversa cinque sezioni (Raffaello, giovane magister; Raffaello, la formazione; Attorno al San Sebastiano. Genealogia di un’immagine; La fortuna nel primo Ottocento: un mito che rinasce; L’eco nella contemporaneità) che sanno focalizzarsi sui diversi aspetti della pittura raffaellesca mettendola a confronto con altre opere che toccano e condividono una medesima reciprocità stilistica, temporale, di contenuto o di ispirazione. Tela dopo tela la visita rende efficace l’apporto determinante dato dagli studiosi che


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hanno preso parte a questo progetto, impostato con un rigore e una puntualità scientifica davvero esemplare per una mostra di questo tipo. Se da una parte sa accontentare e appagare un pubblico ampio e diversificato, l’impegno resta, infatti, anche quello di non tradire le aspettative di esperti e di addetti ai lavori che non restano delusi (o non dovrebbero esserlo) rispetto le scelte attuate. Evidente è la conoscenza precisa di chi lo ha voluto, promosso e sostenuto, ma anche limpida è quella che suscita in chi qui arriva, spinto a trovare ragioni e consapevolezze nuove nell’intreccio abilmente tessuto dagli spunti dati dal confronto delle varie opere. Qui sono riassunti i maggiori interpreti dell’arte italiana (e non) lungo cinque secoli di arte (i cui nomi, non facendo anticipazioni, lasceremo alla scoperta di chi andrà a visitare la mostra) in un’avvincente narrazione che si attiva partendo proprio dal patrimonio del luogo, della città stessa di Bergamo

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(non a caso la mostra si origina dal superbo San Sebastiano di Raffaello conservato alla Carrara, lascito ottocentesco del mecenate e collezionista, il conte Guglielmo Lochis). L’arte “diviana” di Raffaello definisce il suo stile, la sua espressività matura e penetrante, la cui delicata bellezza nobile tocca le corde di un Mistero imperscrutabile e inafferrabile. Il processo di universalizzazione della grazia raffaellesca coincide forse con la sua raffinata capacità di rendere vivo, architettonico, concreto il pensiero, il divino, la magnificenza dell’Uomo e della sua ragione. Le sale della GAMeC, quindi, non celebrano solo un artista di capitale importanza per la cultura italiana e mondiale, ma raccolgono l’idea, forse ambiziosa, di come l’Arte (vera) possa essere senza tempo. Qui la testimonianza degli studi e degli approfondimenti, delle letture e delle analisi degli esperti oltrepassano la circostanza della celebrazione e, con l’esattezza del loro impegno

e della loro passione, regalano qualcosa di solenne: nulla si esaurisce mai davanti ad un genio come quello di Raffaello e delle eredità da lui gettate nel tempo, le cui iconografie avviano la genesi di infinite ed inesauribili nuove indagini. Questa mostra ci appaga perché, senza eccessi, riesce ad essere un contributo alla storia dell’arte (notevole il catalogo con i suoi molti saggi critici) che, senza costrizioni o argini temporali, sa promuovere la cultura e l’incanto di una storia che non deve mai concludersi come definita e definitiva, ma che, rinnovandosi nel presente, continua a scrivere i suoi nuovi capitoli e a far risuonare la proprio eco, sfiorando il mito. Raffaello e l’eco del mito a cura di Maria Cristina Rodeschini, Emanuela Daffra, Giacinto di Pietrantonio un progetto di Fondazione Accademia Carrara in collaborazione con GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo coproduzione Marsilio Electa comitato scientifico Emanuela Daffra, Vincenzo Farinella, Fernando Mazzocca, Giacinto di Pietrantonio, Cristina Quattrini, Maria Cristina Rodeschini, Maria Rita Silvestrelli, Giovanni Valagussa medaglia del Presidente della Repubblica Italiana catalogo Marsilio Electa 27 gennaio – 6 maggio 2018 GAMeC Via San Tomaso 53, Bergamo Orari: tutti i giorni ore 9.30-19.00; chiuso il martedì; la biglietteria chiude un’ora prima Ingresso intero €12.00; ridotto e gruppi €10.00; scuole €5.00; mostra + Accademia Carrara €18.00 (€15.00 il lunedì); orari Accademia Carrara tutti i giorni ore 10.00-18.00; chiuso il martedì Info: +39 035 220033 info@raffaellesco.it www.raffaellesco.it www.lacarrara.it www.gamec.it

Raffaello, San Sebastiano, 1502-1503 circa, Accademia Carrara, Bergamo Credits: Fondazione Accademia Carrara, Bergamo Nella pagina a fianco: Raffaello e l’eco del mito, veduta della mostra, GAMeC, Bergamo. Foto: Gianfranco Rota

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REVOLUTIJA: DA CHAGALL A MALEVICH DA REPIN A KANDINSKY BOLOGNA | MAMBO – MUSEO D’ARTE MODERNA | 12 DICEMBRE 2017 – 13 MAGGIO 2018 di ISABELLA FALBO

Dal Museo di Stato Russo di San Pietroburgo al MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna: fino al 13 maggio 2018 in mostra settantadue capolavori dell’arte Russa, a cura di Evgenia Petrova e Joseph Kiblitsky. La mostra, intende mettere in luce quali, quante e così diverse tra loro, arti nacquero in Russia tra i primi del Novecento e la fine degli anni ’30 ma anche, come dichiara Evgenia Petrova, vicedirettore del Museo di Stato Russo di San Pietroburgo: «Riportare all’attenzione non tanto della critica o degli addetti ai lavori, quanto del pubblico, artisti tipo Repin come anche Petrov-Vodkin o Kustodiev, rimasti un

po’ nell’ombra a causa dell’enorme successo avuto da altri quali Chagall, Malevich o Kandinsky che pure sono presenti in mostra». L’impatto è forte, emozionante, l’allestimento mette in scena gli artisti che hanno vissuto, rappresentato e incarnato la Rivoluzione d’Ottobre attraverso un fitto tessuto di rapporti, rimandi e relazioni spesso poco conosciute. Scorci, sottolineature, accenti rendono l’ambiente greve, come quegli anni che sconvolsero il mondo, e labirintico, come la moltitudine dei movimenti culturali della Russia d’inizio Novecento – dal Realismo alle Avanguardie: Primitivismo, Cubo-Futurismo, Raggismo,

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Suprematismo Costruttivismo – costruendo contemporaneamente un parallelo cronologico tra l’Espressionismo figurativo e il puro Astrattismo fino al concetto di opera d’arte totale. Testimoniano in mostra della rivoluzione democratico-borghese del 1905 e della tradizione culturale del realismo i bellissimi Che vastità! del 1903 e 17 ottobre 1905, del 1907, di Il’ja Repin, realizzati su quella linea ottocentesca che da qui in avanti si spezza a favore delle nuove sperimentazioni occidentali, in particolare della pittura francese, dei Fauves e Cubisti, svolta dagli artisti russi ulteriormen-


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te e originalmente, come ad esempio fece Nathan Alt’man, debitore del cubismo francese nel ritrarre la poetessa Anna Achmatova, 1915 e Valentin Serov, nel ritrarre la ballerina Ida Rubinštein, 1910. Tatlin, era stato a Parigi e aveva potuto vedere le sculture di Picasso, al ritorno dipinse opere come Modella, 1913. Michail Larionov e sua moglie Natal’ja Gončarova aprirono il primo capitolo delle Avanguardie russe. Tra il 1912 e 1913, Larionov attingendo al Futurismo italiano e al Cubismo francese, creò il Raggismo. Come Kandinsky – di cui in mostra sono presenti Su Bianco (I) del 1920 e Crepuscolare del 1917 – Larionov apriva un altro spiraglio all’arte non oggettiva. Gončarova, cominciò con temi popolari in uno stile neo primitivo, caratterizzato dal recupero di motivi del folclore e dell’artigianato popolare, come testimoniato in mostra da Lavandaie, 1911. Al contrario del marito, Gončarova fu altezzosa verso il futurismo che definì “un impressionismo emozionale”, ma a chi, se non a Boccioni, si deve il forte impatto dinamico del suo Ciclista, 1913. Del Primitivismo, a volte perfino brutale, fece parte anche Aleksandr Drevin di cui si espone La cena, 1915. Meno di due anni prima dell’ottobre ’17 Kazimir Malevich, il più drastico degli innovatori, aveva proclamato la supremazia della pura sensibilità su ogni realismo. Il Quadrato nero, il Quadrato rosso (Realismo pittorico di contadina in due dimensioni), la Croce Nera, il Cerchio nero – tutte opere presenti in mostra – erano le nuove icone che sbandierava in volto al pubblico sconcertato. La filosofia del maestro dell’astrattismo, i suoi metodi di insegnamento e i rigidi precetti del nascente suprematismo entrano prestissimo in rotta di collisione con il lirismo di Marc Chagall, testimoniato in mostra dal magnifico e ormai iconico La passeggiata del 1917. Attivissima nel promuovere le ragioni della rivoluzione Sof’ja Dymšits-Tolstaja, della quale sono visibili in mostra tre sue opere fondamentali, Vetro di propaganda “Il fondamento della RSFSR è il lavoro”, Vetro di propaganda “La pace alle capanne, la guerra ai palazzi” e Vetro di propaganda “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, tutte e tre eseguite tra il 1919 e il 1921. La rivoluzione aveva generato due opposte fazioni, da un lato artisti come Rodčenko che seguirono i due capofila Malevich e Tatlin. L’altra fazione, emersa dopo la rivoluzione, comprese gli artisti del ritorno all’ordine e all’accessibile linguaggio figurativo come quello di Petrov-Vodkin di cui in mostra Sulla linea del fuoco, 1916, Operai, 1926 e Fantasia, 1925. Con queste opere iniziava il cammino all’indietro dell’avanguardia, prima dimenticata, poi perseguitata. Era ormai alle porte il realismo socialista. Tra i suoi maggiori rappre-

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sentanti ricordiamo Isaak Brodskij, presente in mostra con Consegna della bandiera dei comunardi parigini agli operai moscoviti sul campo Chodynka a Mosca del 1932 e Vasilij Kuptsov con ANT-20 “Maksim Gor’kij”, del 1934, utilizzato per la propaganda stalinista, è diventata nel tempo un’icona, così come divenne altrettanto iconica la scultura di Vera Muchina L’operaio e la kolchoziana, del 1936, che non solo fece furore all’Esposizione Universale di Parigi, ma divenne uno dei simboli più riconosciuti dell’URSS. Eventi sconvolgenti si erano susseguiti da quando nel 1930 era stata chiusa a Mosca la mostra di Malevich, così come tutte le altre mostre d’avanguardia. Lenin era morto, Stalin avanzava come testimoniato in mostra dal suo ritratto del 1936 di Pavel Filonov. Il trionfo del neo-verismo sovietico spalancava le porte a un’arte paternalistica, in cui al netto rifiuto di ogni ricerca moderna intesa a innovare il linguaggio delle arti, corrispondeva la supina accettazione dell’illustrazionismo. N.B.: In parallelo dell’esposizione, in tutta la città si svolge Intorno a Revolutija, un ricco programma collaterale cui partecipe le principali istituzioni culturali cittadine. La grande mostra rappresenta infatti l’occasione per accendere i riflettori su una città che si presenta come un grande laboratorio in grado di lavo-

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rare sul tema comune dei cento anni della Rivoluzione d’Ottobre e affrontarlo da molteplici punti di vista. REVOLUTIJA da Chagall a Malevich da Repin a Kandinsky a cura di Evgenia Petrova e Joseph Kiblitsky collaborazione in esclusiva con il Museo di Stato Russo di San Pietroburgo prodotta e organizzata da CMS.Cultura in partnership con il Comune di Bologna | Istituzione Bologna Musei MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna 12 dicembre 2017 – 13 maggio 2018 Info: +39 051 7168808 info@mostrarevolutija.it www.mostrarevolutija.it

Marc Chagall, La passeggiata. Promenade, olio su tela, 1917 © Chagall ® By SIAE 2017 Nella pagina a fianco: Veduta della mostra Revolutija: da Chagall a Malevich da Repin a Kandinsky. Capolavori dal Museo di Stato Russo. © State Russian Museum, St. Petersburg


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LA NUOVA TOSIO MARTINENGO NON DELUDE LA LUNGA ATTESA BRESCIA | PINACOTECA TOSIO MARTINENGO | DAL 17 MARZO 2018 di MARIACRISTINA MACCARINELLI

Il 17 marzo si è svolta l’inaugurazione della nuova Pinacoteca Tosio Martinengo che, dopo nove lunghi anni, ha aperto i battenti al pubblico con una festa di tre giorni nei quali la cittadinanza ha potuto visitare gratuitamente gli spazi. La riapertura è stata fortemente voluta dal Comune di Brescia e da Fondazione Brescia Musei, con l’importante contributo di Fondazione Cariplo. Oltre alla ristrutturazione architettonica del Palazzo Martinengo da Barco, si è pensato ad un nuovo moderno e tecnologico allestimento che ospita alcuni capolavori restaurati grazie anche ai contributi di donatori privati.

Alla base c’è un importante progetto scientifico, iniziato alcuni anni fa, che ha visto, da una parte, la pubblicazione dei due volumi del Catalogo Generale ed è stato dedicato all’indagine sistematica sulle singole opere, con particolare attenzione alla definizione e verifica della provenienza, dall’altro si è concentrato sulla ricostruzione della storia del Museo, intesa come storia delle collezioni e storia degli allestimenti. Il percorso non è quindi solamente cronologico bensì una lettura della storia delle collezioni. Gli elementi che lo caratterizzano sono la selezione e l’ordinamento dei dipinti alla luce

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delle acquisizioni del Catalogo Generale, l’integrazione tra pittura bresciana e pittura italiana, l’integrazione delle arti decorative all’interno del percorso e l’allargamento del quadro cronologico esteso fino alla prima metà dell’Ottocento, con le grandi commissioni di Tosio e Brozzoni. Il catalogo è costituito da due volumi, a cura di Marco Bona Castellotti ed Elena Lucchesi Ragni, uno dedicato alle opere comprese tra il XII e il XVI secolo, l’altro a quelle del Seicento e Settecento. La Pinacoteca è stata riorganizzata attraverso un nuovo elegante percorso espositivo


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che si sviluppa su 21 sale e che inizia dallo scalone monumentale dove sono stati collocati i ritratti dei due donatori dai quali prende il nome la pinacoteca stessa: Paolo Tosio di Luigi Basiletti e Leopoldo Martinengo da Barco di Modesto Faustini. La prima sala è dedicata alla pittura del XII –XIV secolo con una sezione che comprende opere di oreficeria, nella seguente possiamo ammirare i capolavori del ‘400 e del ‘500 bresciano con le opere di Vincenzo Foppa, Gerolamo Romanino, Floriano Ferramola e le vetrine che ospitano pregiati esempi di arti decorative con smalti, vetri e ulteriori pezzi di oreficeria. Nelle successive due sale troviamo la pittura del Rinascimento nella Collezione Tosio, in particolare i due preziosi dipinti giovanili di Raffaello l’Angelo e il Redentore Benedicente e i due del Moretto Ritratto di Gentildonna nelle vesti di Salomè e l’Annunciazione. Dalla quinta all’ottava sala è possibile ammirare ancora significativi esempi di pittura bresciana rinascimentale con le opere di Moretto, Savoldo, Lorenzo Lotto e Romanino. Dopo aver attraversato gli spazi dedicati al Manierismo che ospitano gli affreschi di Lattanzio Gambara e quelli dedicati al Ritratto Lombardo del ‘500, giungiamo nella sala dedicata a Giacomo Ceruti det-

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to il Pitocchetto con la sua pittura di figura. Seguono i vetri veneziani dell’importante collezione Camillo Brozzoni, e la sezione di opere Rococò. Infine le ultime due sale accolgono opere neoclassiche tra le quali è importante ricordare i due grandi quadri di Francesco Hayez I profughi di Praga e Incontro di Giacobbe ed Esaù, la preziosa scultura di Antonio Canova Eleonora D’Este e il Laocoonte di Luigi Ferrari. Brescia torna finalmente ad essere una meta importante e significativa per coloro che amano la pittura.

Riapertura Nuova Pinacoteca Tosio Martinengo dal 17 marzo 2018 Pinacoteca Tosio Martinengo Piazza Moretto 4, Brescia Orari: da martedì a domenica ore 9.0018.00; giovedì ore 9.00-22.00; chiuso il lunedì Info: +39 030 2977833 www.pinacotecatosiomartinengo.com www.bresciamusei.com

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In queste pagine: Pinacoteca Tosio Martinengo, veduta delle sale rinnovate, Brescia. Foto: Christian Penocchio


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MOSTRE

LA MANIFATTURA LENCI IN MOSTRA AL MIC DI FAENZA FAENZA | MIC FAENZA | 4 MARZO – 3 GIUGNO 2018 di IRENE BIOLCHINI

La mostra che Alfred Barr inaugurò nel 1936 al MOMA di New York ha segnato il nostro modo di intendere l’arte contemporanea, rafforzando una certa convinzione che la sua genesi coincida con le grandi Avanguardie di inizio secolo. Una rivoluzione, che nella visione di Barr era un rinnovamento di forme prima ancora che di contenuti. Ecco dunque il cubismo, i fauve e l’astrattismo nascere all’aprirsi del secolo come movimenti di pura rottura, con qualche radice formale nelle soluzioni di un certo postimpressionismo. Entrando al MIC di Faenza lo spettatore è dunque chiamato a confrontarsi con una produzione artistica che non condivide nulla delle idee rivoluzionarie e dello stile anticonformista dei grandi movimenti enucleati da Barr. Non cubi, linee e colori puri, ma oggetti d’uso, piccole sculture d’arredo domestico dai colori tenui, dai volti sereni e graziosi. E ancora non ready made che negano la loro funzione originaria tramite il geniale intervento dell’artista (come l’ormai celeberrimo Fontana di Duchamp) ma oggetti nati con la sola intenzione del decoro, della piacevolezza. Oggetti la cui funzione non doveva essere discussa (nel caso delle statuine), né in alcun modo celata: la produzione Lenci, piuttosto, attingeva in maniera dichiarata dalla cultura visiva borghese dell’epoca, dando corpo all’immagine della nuova donna e famiglia moderni, o meglio alla rappresentazione delle stesse nelle coeve riviste di moda. I corpi e i temi della vita borghese che li aveva concepiti, erano prodotti ed acquistati dalla stessa classe sociale, in una perfetta osmosi tra produzione e richiesta. La storia della casa produttrice Lenci non si inserisce dunque all’interno della roboante stagione delle avanguardie, ma nella ricca provincia italiana negli anni compresi tra il 1928 e il 1933 a seguito dell’allargamento della già florida azienda di giocattoli, corredi e del celebre “pannolenci” (attiva dal 1919). È quindi all’interno di questo preciso arco

cronologico che si registra la produzione di Enrico Scavini e di sua moglie, Elena König Scavini, oggetto della imponente collezione di Gabriella e Giuseppe Ferrero ed oggi in

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mostra al MIC. Entrando nella stanza espositiva del MIC lo spettatore si può confrontare con un ‘esercito’ di dame, ma anche con scenette ispira-


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te ai temi rurali, favole, corpi di bambini che molto rimandano alla tradizione dei Bamboccianti. All’interno di questa molteplicità si possono riconoscere le mani dei diversi artisti torinesi che hanno collaborato con la manifattura in questo estremamente prolifico quinquennio: Sandro Vacchetti, Gigi Chessa, Mario Sturani, Abele Jacopi, Ines e Giovanni Grande, Felice Tosalli e la stessa Elena König Scavini. Come fanno notare i curatori della mostra, Claudia Casali e Valerio Terraroli, è proprio ripartendo dalle specificità dei singoli artisti che si può meglio comprendere l’orizzonte culturale a cui si ispiravano i decori e le cromie della manifattura. Se, infatti, le Avanguardie erano agli antipodi da una certa produzione, è altresì vero che lo spirito della manifattura si inserisce pienamente

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in quell’attento recupero delle arti decorative che veniva in gran parte promosso da Ojetti con le Biennali Internazionali di Monza, dove fonderà anche l’I.S.I.A. (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche). Ed è all’interno di questo ripensamento delle arti ‘minori’ in favore di un aperto dialogo con la produzione di ricerca e l’architettura che si muoverà anche Gio Ponti. Non è dunque un caso che il 1929, anno di inizio produzione della serie, nascano anche due riviste che sono il pilastro di questa cultura “Domus”e “Casabella”. «Il mondo Lenci fu, ed è tranquillizzante», scrive Valerio Terraroli nel suo saggio in catalogo, «poiché se da un lato non si spinse lungo l’impervia strada del gusto déco, dalla cifra algida e intellettualistica, preziosa e

artistocratica, dall’altro non cavalcò le proposte provocatorie del secondo Futurismo […] ma sperimentò una morbida fusione di temi giocosi e ironici». Ed è proprio ripartendo da questi oggetti rassicuranti che, come nota Claudia Casali (direttrice del Museo e curatrice della mostra), si è deciso di dedicare un’ulteriore riflessione al periodo tra le due guerre, la cui analisi era appunto partita lo scorso anno con la mostra dedicata al gusto déco. La mostra Lenci, collezione Gabriella e Giuseppe Ferrero ci invita dunque a confrontarci con il lato domestico e borghese della storia privata e quotidiana di chi ha abitato il Ventennio, proponendoci una nuova angolazione dalla quale poter osservare un periodo così complesso per la Storia nazionale. LENCI, collezione Giuseppe e Gabriella Ferrero a cura di Valerio Terraroli e Claudia Casali 4 marzo – 3 giugno 2018 MIC – Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza Viale Baccarini 19, Faenza Orari: Fino al 31/03 dal martedì al venerdì 10-16 e sabato, domenica e festivi 10 – 17.30. Chiuso il lunedì. Dal 1/04 dal martedì alla domenica e festivi 10-19. Chiuso il lunedì Info: +39 (0)546 697311 +39 (0)546 27141 info@micfaenza.org www.micfaenza.org

Elena König Scavini, Me ne infischio – La studentessa, 1935, terraglia, modello 424 (dal 1934), cm 39,4x15x11,4 Nella pagina a fianco: Sandro Vacchetti, Abissina, terraglia, 1931, cm 54x37x19

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MOSTRE

BOETTI #1: AD ASTI L’ARTE “SENZA GERARCHIE” DI ALIGHIERO ASTI | MUSEO CIVICO PALAZZO MAZZETTI | FINO AL 15 LUGLIO 2018 di MATTEO GALBIATI

Al Museo Civico Palazzo Mazzetti di Asti la Fondazione Palazzo Mazzetti e la Fondazione Cassa di Risparmio di Asti propongono un sensibile progetto espositivo interamente dedicato ad Alighiero Boetti (1940-1994), o meglio Alighiero e Boetti, come l’artista decide di firmarsi dal 1971. Curata con grande attenzione e precisa conoscenza da Laura Cherubini, coadiuvata da Maria Federica Chiola, questa mostra costituisce l’occasione sia per poter ammirare un nucleo significativo di opere del maestro piemontese, per lo più provenienti da collezioni private e, quindi, di non scontata accessibilità, che ne coprono un ampio arco temporale, sia per poter ammirare i suoi differenti codici espressivi e i diversi esiti delle sue affascinanti composizioni e creazioni. Se un ruolo di prim’ordine lo riveste indubbiamente l’eccezionalità della sede esposi-

tiva – interessante e rilevante, preciso come in questo caso, è il dialogo tra opere e spazio, come se le une appartenessero all’altro in un normale e accertato flusso storicotemporale – dove antico e contemporaneo sanno influenzarsi reciprocamente, visitando la mostra si percepisce soprattutto come l’essenza stessa che la anima risieda proprio nella passione viva e sentita di chi l’ha pensata e l’ha voluta, che non rinnega, ma rivendica e indaga, partendo da questo, il sottile (spesso inesplorato) legame tra l’artista e il territorio che gli ha dato i natali. La narrazione di Boetti, sala dopo sala, seguendo il filo rosso di un’attenta regia critico-curatoriale, ci offre 65 opere (anche con alcuni considerevoli capolavori) tra arazzi, mappe, arazzetti, cartoni, carte e tele con cui si vuole riflettere precisamente su un doppio registro interpretativo e indagativo

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Alighiero Boetti. Perfiloepersegno, veduta della mostra (Alternando da uno a cento e viceversa, 1993, kilim in lana e cotone, cm 284.5x272), Museo Civico Palazzo Mazzetti, Asti. Foto: Enzo Bruno


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che, entro l’alveo di una ricchissima e ampiamente variegata ricerca, individua due temi centrali nell’espressione di Boetti che sono il ricamo (nota la sua passione per gli artigiani afgani) e l’inchiostro da penna biro. Questi due punti fermi permettono di estendere la sua concezione artistico-estetica ad una disamina più estesa che coinvolge l’arte Occidentale e l’arte Orientale, l’arte che vede l’assoluto primato dell’identità dell’artista con quella, più conciliante, che sa coinvolgere anche l’altro nel processo di definizione dell’opera, teorizzando, concettualmente, la coincidenza tra il primato dell’idea dell’artista e l’eccezionalità di qualunque esecutore capace di restituirla con la propria perizia del fare. Ecco allora colmarsi il divario estetico tra gli inchiostri e gli arazzi in cui, salvaguardando l’idea di tempo come memoria esecutiva, storica e rappresentativa, accoglie tanto la manualità di studenti di accademie, di merlettaie quanto di tessitori e tessitrici mediorientali: tutti, dietro l’input iniziale offerto dalla pianificazione dell’artista, muovono autonomamente la propria sapienza, la propria tradizionalità, la propria esperienza, che si riuniscono poi nella globale e condivisa memoria collettiva esercitata dalla e nell’opera finale. In questo senso l’artista dirige, attende,

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ma soprattutto delega rinviando ad altri l’intenzione della sua energia mentale, a quelli stessi cui spetta il compito di definire e chiarire i contorni di quell’idea suggerita, principio primo per farsi e comporsi in un’opera che appartiene, fin dalla sua origine, al mondo, all’umanità intera. Questi due percorsi, che condividono una paritaria genesi temporale, identificano e specificano quell’aspetto multiculturale di cui si permea la ricerca di Boetti che, con queste sue “azioni”, sa demolire e sradicare il concetto stesso di “autorialità”. Si respirano i suoi viaggi, i suoi contatti umani, le esperienze vissute; si tocca il nobile desiderio di rompere con tutte gerarchie e tutti i confini, per dare all’arte il respiro vero e autentico dell’originalità della sua espressione che, potendo provenire da tutti, a tutti si può rivolgere e da tutti può essere “sentita” oltre ogni restrittivo e limitante localismo individualista. Alighiero Boetti. Perfiloepersegno a cura di Laura Cherubini in collaborazione con Maria Federica Chiola con il sostegno di Fondazione Palazzo Mazzetti e Fondazione Cassa di Risparmio di Asti catalogo Sagep Editori con saggi critici di

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Laura Cherubini e Maria Federica Chiola 16 marzo – 15 luglio 2018 Museo Civico Palazzo Mazzetti Corso Vittorio Alfieri 357, Asti Orari: dal martedì al domenica ore 10.0019.00 (ultimo ingresso ore 18.00); chiuso il lunedì Info: +39 0141 530403 info@palazzomazzetti.it www.palazzomazzetti.it

Alighiero Boetti. Perfiloepersegno, veduta della mostra (a sinistra Aerei, 1978, biro blu su carta, cm 141 x 303; a destra Senza titolo, 1964, matita su carta, cm 50 x 63), Museo Civico Palazzo Mazzetti, Asti. Foto: Enzo Bruno


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MOSTRE

BOETTI #2: A MILANO IL “BESTIARIO” DI ALIGHIERO MILANO | DEP ART | FINO AL 26 MAGGIO 2018 di MATTEO GALBIATI

La galleria Dep Art di Milano resta fedele alla qualità delle sue proposte e dei suoi progetti confermando, con la mostra Alighiero Boetti. Il mondo fantastico, scientificamente curata da Federico Sardella (autore anche del saggio critico in catalogo), la particolarità originale delle sue ricercate scelte espositive. Anche in questo caso il protagonista torna ad essere uno dei maggiori maestri italiani contemporanei di cui, attraverso la specificità di un allestimento che sfrutta sempre al meglio le potenzialità offerte dagli spazi della galleria con una trentina di opere at-

tentamente selezionate, si offre al pubblico una lettura inusuale e non scontata rispetto all’immaginario ritualizzato con il quale si suole leggere e identificare il suo carattere, il suo pensiero e il suo temperamento artistico ed estetico. Se di Boetti si ha l’abitudine consolidata di interpretarne il pensiero attraverso il codificato stereotipo dell’artista che ha abbattuto l’autorialità dell’opera, demandando ad altri l’esecuzione di proprie idee, in questa mostra si presentano opere su carta che, dal 1965 in poi, sono state realizzate integralmente dall’artista.

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In un onirico mondo fantastico tutto risolto ricorrendo all’iconografia legata al mondo animale, Boetti in queste opere, senza perdere mai lo spunto originale del suo linguaggio ormai definito, mette ancor più in luce la forza della sua immaginazione visionaria che, stratificando nel disegno, nella pittura e nella stampa una multicolore riproposizione moltiplicatrice di forme, scritture e segni, elevano i contenuti espressi al rango di opere autonome e indipendenti. A ragion veduta, infatti, non si vuole parlare in questo caso di carte come “opere secondarie” o di “progetti”, ma di veri e propri


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lavori con una specifica identità e attitudine: ognuna di esse ha una sua autonoma e logica strutturazione formale con un’anima vivace, inattesa nei modi e nei termini esecutivi rispetto all’abitudine visiva di certi altri lavori del maestro. Anche il tema della natura e del mondo animale rivela un interesse preciso di Boetti che, forse meno conosciuto di altre serie, aumenta la riflessione e la considerazione per il suo sguardo visionario. Tra gli anni Sessanta e Ottanta l’attenzione dell’artista si è (anche) rivolta a questo approfondimento tematico particolare con cui è riuscito a estrapolare nuovi motivi con cui moltiplicare, colonizzandola, la fertile sua immaginazione. Le forme degli esseri viventi si susseguono in una logica-illogica sequenzialità che si rinnova sempre ripetendosi in una ricca differenza. Il segno autografo della mano boettiana qui sa esaudire perfettamente la coerenza del suo sguardo e della sua idea di arte, unendosi, in una variegata fertilità, alle altre sue espressioni. Punto d’attenzione della mostra è la superba ricostruzione dello Zoo che l’artista predispose, nel 1979, nel suo studio romano avvalendosi, per diversi mesi, della collaborazione dei figli Agata e Matteo. Questa grande ricostruzione – tutti gli animali sono gli originali presi dall’artista e conservati

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con cura negli anni dalla figlia – è stata riprodotta in immagini di frequente nel corso del tempo (celebri le foto d’epoca di Giorgio Colombo che la documentano) ma mai realmente riprodotta integralmente e fedelmente (qui solo minimo l’adattamento per conformarsi allo spazio del seminterrato della galleria) prima d’ora. Il microcosmo pulsante qui presente riassume ogni biotipo terrestre, riunendo animali in gruppi eterogenei per specie: questo risponde alla logica boettiana che, tra ordine e caos, tra caso e logica, riafferma, in altro modo e con altra “scala”, il tema del fluire atavico di un tempo non antropico. Il bestiario di Boetti ci ri-consegna una certa esperta sequenzialità che connota il linguaggio e l’espressione dell’artista, che in questa circostanza sa offrirsi in un’accesa vitalità e una vivace spontaneità che evidenziano qui, più che in altre serie, tutta la libertà della sua poesia.

Alighiero Boetti. Il mondo fantastico a cura di Federico Sardella catalogo Dep Art Edizioni con saggio critico di Federico Sardella 28 febbraio – 26 maggio 2018

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Dep Art Via Comelico 40, Milano Orari: dal martedì a sabato ore 10.30-19.00; lunedì e domenica su appuntamento Info: +39 02 36535620 art@depart.it www.depart.it

Alighiero Boetti. Il mondo fantastico, veduta della mostra (particolare di Zoo, 1979), Dep Art, Milano. Foto: Bruno Bani. Courtesy: Dep Art, Milano Nella pagina a fianco: Alighiero Boetti. Il mondo fantastico, veduta della mostra, Dep Art, Milano. Foto: Bruno Bani. Courtesy: Dep Art, Milano


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EDITORIA

DORFLES “AMERICANO”: L’ULTIMA RACCOLTA DI SCRITTI PER 60 ANNI DI REPORT DAGLI U.S.A. LA MIA AMERICA | SKIRA Intervista a LUIGI SANSONE di Matteo Galbiati

Gli Stati Uniti sono certamente l’epicentro propulsivo per lo sviluppo dell’arte contemporanea nel secondo dopoguerra, proprio verso gli States Gillo Dorfles (1910-2018) inizia una serie di viaggi che, fin dai primi anni Cinquanta, lo porteranno ad incontrare le maggiori personalità della cultura artistica (e non solo) d’oltreoceano tra artisti e critici, filosofi ed architetti. Thomas Munro, Clement Greenberg, James Sweeney, Alfred Barr, Rudolf Arnheim, György Kepes, ma anche Frank Lloyd Wright, Mies van der Rohe, Louis Kahn e Frederick Kiesler sono solo alcuni dei nomi rappresentativi di quegli stimolanti incontri attraverso i quali ha avuto modo di trovare gli spunti e le suggestioni per gli innumerevoli articoli e saggi, pubblicati in Italia su riviste e giornali, in merito alle identità diverse della cultura e dell’estetica americana, dove società, pittura, architettura e design si intrecciano e si fondono. Il volume La mia America raccoglie in maniera ordinata tutti questi materiali preziosi (con molti inediti), a testimoniare, riordinare e conservare la lunga e infaticabile attività condotta negli anni da Dorfles sul panorama america-

no; uscito postumo, questo volume è l’ultima opera dell’indimenticato professore. Ne abbiamo parlato con Luigi Sansone, che, lavorando intensamente con lo stesso Dorfles, ha curato la pubblicazione del volume: Questo saggio esce postumo dopo la scomparsa recente del professore, possiamo considerarlo come una sua ultima importante eredità? Nel volume La mia America, Dorfles ha voluto raccogliere molti dei suoi scritti sull’arte, l’estetica, l’architettura e la società americana, articoli che erano apparsi fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso in numerose riviste e libri. Questo libro, a cui Dorfles teneva molto, insieme a tanti altri testi da lui pubblicati, è e rimarrà fondamentale per meglio comprendere l’arte, l’estetica e la società del XX secolo di cui Dorfles è stato un acuto osservatore e di cui ci ha reso partecipi con i suoi studi. Purtroppo il volume è uscito postumo, ma Dorfles, prima della sua scomparsa, era riuscito a vedere con soddisfazione tutto l’impaginato e le bozze definitive.

Quanto si è speso in questa ultima fatica editoriale? L’idea di raccogliere i saggi per la pubblicazione del libro La mia America è nata circa due anni fa, e a Dorfles è piaciuto molto andare a ritroso nel tempo e ripercorrere le tappe dei suoi viaggi negli Stati Uniti. Insieme abbiamo selezionato i testi da pubblicare e di comune accordo abbiamo estrapolato alcuni pezzi dalle lettere inviate alla moglie Lalla Gallignani dagli Stati Uniti. Anche se negli ultimi mesi era un po’ affaticato, per lui è stato un piacere partecipare, con consigli e ricordi, alla realizzazione del volume a cui ha collaborato fino alla correzione delle prime bozze. Quale struttura avete dato al volume? Come avete organizzato il lavoro e come si suddividono i contenuti? Il volume è diviso in due parti: nella prima parte che comprende la mia prefazione, sono stati ricordati i luoghi e i molti personaggi conosciuti da Dorfles negli Stati Uniti durante i suoi numerosi viaggi; nella seconda parte sono stati ripubblicati, in ordine cronologico, le conferenze e gli articoli di Dorfles sulla cultura statunitense apparsi a suo tempo in riviste e libri in Italia e negli Stati Uniti. Per volontà di Dorfles i testi, di cui sono riportate le fonti, sono riproposti nella lingua originale così come sono apparsi la prima volta. Quale particolarità ha? Quale è la sua caratteristica principale? Il volume ha la particolarità di concentrarsi su un singolo aspetto dei molteplici interessi di Dorfles: la cultura americana. Dorfles mi ha permesso di leggere le lettere inviate alla moglie e i suoi taccuini personali, per questo motivo molti pezzi nella mia prefazione sono inediti e raccontano alcuni episodi da lui appuntati all’epoca, quindi sono carichi di emozioni e giudizi “a caldo”. Inoltre sono riportati anche alcuni brani inediti tratti da lettere inviate a Dorfles da famosi personaggi come Margaret Naumburg, Rudolf Arnheim, Frederick Kiesler, Gyorgy Kepes e Thomas

Gillo Dorfles nella sua casa di Milano con Luigi Sansone nel 2017. Foto: Matteo Zarbo

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Munro che, senza la pubblicazione di questo libro, sarebbero rimasti sconosciuti. Dorfles è stato tra i primi critici a recarsi negli Stati Uniti nell’immediato secondo dopoguerra: cosa trova, cosa ha rappresentato per lui quell’esperienza? Nel 1953 Dorfles fu assegnatario di una borsa speciale (travel grant) del governo Americano dedicata a un particolare programma di scambi di personalità della cultura, del mondo accademico e della politica. Nel suo primo viaggio del 1953, Dorfles trova un’America alle prese con il maccartismo e in pieno clima di “caccia alle streghe” in cui si consuma anche il dramma di Julius e Ethel Rosenberg, condannati alla pena di morte per aver fornito segreti militari all’Unione Sovietica. In quello stesso periodo Dorfles assiste alla nascita e all’affermazione dell’Action Painting (Espressionismo Astratto), movimento artistico tipico statunitense di cui fanno parte Jackson Pollock, Willem de Kooning, Philip Guston, Franz Kline e molti altri pittori e scultori. Inoltre a New York, nello storico locale Cedar Tavern, luogo d’incontro degli artisti della Scuola di New York e degli scrittori della beat generation, a volte in compagnia di Leo Castelli, si intrattiene con gli artisti che ne sono assidui frequentatori: Guston, Rothko, MarcaRelli, Kline, de Kooning, Baziotes. Dorfles rimase affascinato dal mondo culturale americano e quell’esperienza gli permise di allacciare rapporti di proficua collaborazione con studiosi come Munro, Kepes e Arnheim che durarono nei decenni. Quale è, parafrasando il titolo, l’America incontrata a quel tempo da Dorfles? La mia America ci presenta una nazione carica di energia, un’America proiettata verso nuove tecnologie, ricca di fermenti culturali nel campo dell’arte, dell’architettura e della letteratura. Dorfles, attento osservatore dei costumi e delle mode, ne ha colto gli aspetti positivi più significativi, ma anche alcune contraddizioni che erano allora presenti nella società americana come la discrimazione e la segregazione razziale su cui egli si sofferma varie volte nel libro. Cosa ha rappresentato per le sue ricerche e le sue visioni la conoscenza di quel clima culturale, di quegli artisti e di quelle nuove estetiche? Come ne sono state influenzate? Dorfles apprezza l’espressionismo astratto americano e ne scriverà a lungo nei suoi saggi. A Mark Rothko, del quale aveva visitato lo studio a New York, ha dedicato diversi saggi considerandolo tra i più importanti artisti dello

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scorso secolo. Un interesse particolare Dorfles lo ha avuto per il design americano proveniente dalla scuola di Chicago, dove insegnavano note personalità legate alla scuola tedesca del Bauhaus. L’incontro a New York nel 1955 con Rudolf Arnheim, psicologo e storico dell’arte, è stato proficuo per entrambi, dai loro incontri e scambi di idee è nata l’edizione italiana del noto libro di Arnheim Art and Visual Perception, con prefazione e traduzione di Dorfles. Dagli stretti rapporti di amicizia e collaborazione con lo storico dell’arte americano Thomas Munro, nasce l’idea di organizzare a Venezia il terzo Congresso Internazionale di Estetica che si tenne nella città lagunare nel settembre del 1956. Come le ha testimoniate poi in Italia? Dorfles ha sempre amato relazionare con saggi e conferenze il patrimonio di esperienze e conoscenze di cui si è arricchito nei suoi viaggi negli Stati Uniti. Subito dopo il rientro in Italia dal primo viaggio negli States, egli riassume in alcuni saggi le sue impressioni sui molteplici aspetti della società americana, dai legami familiari, alla religione, dalla storia delle antiche popolazioni americane precolombiane, alla segregazione allora esistente negli Stati del Sud, dalla vita nelle grandi città a quella della provincia, soffermandosi poi in particolare sull’architettura e la pittura.

to ancor di più del valore delle sue scelte di allora. Quale ruolo ha avuto lei? Come ha lavorato con Dorfles, ricordiamo anche l’altro poderoso Gli artisti che ho incontrato editato da Skira nel 2015 e sempre curato da lei? La proposta di riunire nel volume Gli artisti che ho incontrato tutte le presentazioni sugli artisti e le recensioni scritte da Dorfles è nata da me quando mi sono reso conto che molti di questi scritti, pubblicati nei passati decenni in pieghevoli, riviste, cataloghi, erano diventati difficilmente reperibili anche presso le biblioteche. Dopo un lungo lavoro di ricerca nell’archivio di Dorfles e presso le biblioteche e le gallerie, con il fondamentale aiuto dello stesso Dorfles che mi segnalava i suoi vecchi scritti, è venuto alla luce questo poderoso volume, uno strumento utile da consultare da studenti e studiosi d’arte. Lo stesso discorso si può fare per La mia America, ma in questo caso la ricerca si è allargata anche in America presso il Cleveland Museum of Art, in Ohio, la Biblioteca Pubblica di New York e quella della Columbia University, dove per mio conto sono state fatte delle ricerche bibliografiche dal professore Frederick Lang e da sua moglie Maria, ai quali va la mia gratitudine.

Ci sono curiosità o aspetti inediti che si possono evincere da questo saggio? Tra le curiosità del libro c’è il racconto dell’incontro che avviene a Denver (Colorado) con Mary Parker Converse “l’unica capitana marittima degli S.U.” che “quando aveva 60 anni e la guerra era imminente ha voluto fare il corso completo, con relativi viaggi oceanici, per avere il diploma di capitano”. Altre curiosità descritte nel volume sono la visita sulle Montagne Rocciose alla tomba di Buffalo Bill o quella a Central City “The Golden Queen of the Rockies”, una antica e abbandonata cittadina del periodo della febbre dell’oro. A distanza di tempo il professore ha rivisto o corretto certe posizioni vissute allora? La prospettiva storica ha modificato in lui il senso e il valore di quelle esperienze? Si è ricreduto in qualcosa? Non credo che ci siano stati suoi ripensamenti su quel periodo storico-culturale, l’ammirazione e l’interesse per la pittura di Rothko, per l’architettura di Lloyd Wright, Mies van der Rohe e Louis Kahn, e per l’estetica di Arnheim e Kepes sono rimasti invariati, anzi credo che a distanza di alcuni decenni egli si sia convin-

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Titolo: La mia America Autore: Gillo Dorfles A cura di: Luigi Sansone Anno: 2018 Pagine: 304 Prezzo: Euro 25.00 ISBN: 9788857238074 Collana: Saggi Editore: Skira Info: www.skira.net


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PUNCTUM FLUENS: TRA CINEMA SPERIMENTALE E ARTI VISIVE EDITORIA | MELTEMI EDITORE Intervista ad ANTONIO BISACCIA di Davide Mariani

Punctum fluens. Comunicazione estetica e movimento tra cinema e arte d’avanguardia è il titolo del saggio di Antonio Bisaccia uscito per la prima volta nel 2002 e ripubblicato oggi, all’interno della collana “I pescatori di perle”, da Meltemi editore. Di questa nuova edizione ne parliamo con l’autore, direttore dell’Accademia di Belle Arti “Mario Sironi” di Sassari e della storica rivista “Parol-Quaderni d’arte e di epistemologia” fondata dal dipartimento di Filosofia del DAMS di Bologna nel 1985. Com’è nata l’idea di una nuova edizione di Punctum fluens? E quali sono le novità rispetto alla prima versione? Il volumetto ha avuto un discreto successo tra addetti ai lavori e studiosi. L’idea di ripubblicarlo è dato dal fatto che in alcune Università e Accademie viene usato anche oggi come testo per alcuni corsi. La struttura è rimasta immutata, ma sono intervenuto su alcune parti che non avevo avuto tempo di sviluppare meglio e ho lavorato molto sul linguaggio, inteso come correlativo oggettivo delle poetiche che mi hanno affascinato. Il libro è, inoltre, arricchito da una preziosa prefazione di Patrick Rumble e da una postfazione – che è in realtà un capitolo aggiunto – del canadese R. Bruce Elder: forse il più grande teorico del cinema sperimentale. Il saggio affronta il dibattito critico relativo al cinema sperimentale e alle arti visive delle avanguardie europee secondo un originale punto di vista “trasversale”. Potresti spiegarci meglio la natura con la quale ti sei accostato al cinema d’avanguardia? In realtà ho utilizzato una sorta di sguardo “ad interim”, pronto per essere sostituito da un altro sguardo che – come materia

di una stratificazione – scopre altre visioni, altri mondi da attraversare, altri racconti da indicare. E questo nel segno di un regime intercodice, in cui le diverse discipline diventano cellule di uno stesso corpo. I linguaggi artistici, dopo la riconosciuta e storicizzata deflagrazione sottolineata dalle avanguardie, possono essere visti in una prospettiva che non li rappresenti in modo sedentario. La struttura adiposa, che spesso costituisce l’ossatura non declinata dei testi sulle avanguardie, mi ha fatto scattare una voglia di approccio non codificato, non mediato, non cristallizzato. Non so se ci sono riuscito, ma di certo mi ha fatto capire meglio come frequentare – con giovamento – il “senso ottuso” barthesiano. Guardando invece al contesto contemporaneo, pensi che gli artisti di oggi abbiano metabolizzato la grande stagione di sperimentazione cinematografica delle avanguardie europee? Credo che tutti abbiano avuto il sentore che la deflagrazione di cui parlavo sia atterrata, con forza, tra gli interstizi del nostro quotidiano: a tutti i livelli. In tal senso, la metabolizzazione di cui parli costituisce ormai il dna di ogni nostro atto artistico. La risposta alla tua domanda è allora sì, ma la metabolizzazione, purtroppo e spesso, è accompagnata dal saccheggio degli epigoni. Ci sono comunque delle eccezioni alte che mi fanno sperare. Il territorio affollato dell’immaginazione dovrebbe trattenere solo visualità irrituali, linguaggi senza gerarchie e potenzialità risolte. E la parola non dovrebbe, su questo principio, piegarsi alla pura descrizione o alla terapia formulaica del racconto: essa ha il compito di fuggire dal teatro dell’auto-referenzialità, per approdare alle sabbie mobili delle sue auspicabili metamorfosi.

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Punctum fluens. Comunicazione estetica e movimento tra cinema e arte nelle avanguardie storiche Antonio Bisaccia Editore: Meltemi Collana: I pescatori di perle Anno edizione: 2017 Pagine: 240 p., ill. , Brossura www.meltemieditore.it


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ROBERTO FLOREANI: BOCCIONI UNA LETTURA COMPLETA UMBERTO BOCCIONI. ARTE – VITA | MONDADORI-ELECTA Intervista a ROBERTO FLOREANI di Matteo Galbiati

La storia di Umberto Boccioni. Arte – Vita, il recente saggio critico-biografico edito da Mondadori-Electa e scritto da Roberto Floreani, è la storia di una grande passione che l’autore (e artista) ha coltivato per il maestro futurista fin dagli anni dell’adolescenza. Nel tempo il suo interesse è a tal punto cresciuto da portarlo, in modo quasi ossessivo (ma solo così si coltivano le sincere passioni che sottendono una vera e disinteressata sete di conoscenza), a raccogliere tutti i materiali, documenti, pubblicazioni disponibili. Floreani, con questo saggio riesce a ri-leggere in modo completo, vivo e profondo, anche con preziosi spunti e intuizioni, scoperte e rivelazioni, l’immagine del grande artista che fu, più di ogni altro, promotore dell’innovazione artistica del suo tempo, i cui riflessi si sarebbero poi estesi alle successive generazioni. Emerge il profilo di un genio cui questa ricognizione, esperta e mai lasciata al caso, riccamente argomentata e intensamente proposta, restituisce quel credito storico che, forse, nessun critico o storico dell’arte ha, ad oggi, eseguito. Con grande piacere abbiamo incontrato Floreani per questa vivace intervista in cui ci racconta, con meritato e giusto orgoglio, i retroscena e contenuti di questo importante volume: Prima di farti qualche domanda sul tuo saggio, vorrei chiederti – domanda che ti sarà stata rivolta innumerevoli volte – come e quando nasce la tua passione per il Futurismo e per Boccioni in particolare? Nasce l’anno della maturità, nel 1975, per una curiosità dispettosa verso la contraddizione contenuta nei testi, che da un lato riportano la straordinaria novità del Futurismo dedicando, dall’altro, solo poche righe all’argomento. Boccioni irrompe prepotentemente sulla scena nel dicembre del 1982, quando visito a Palazzo Reale l’insuperata mostra Boccioni a Milano.

Cosa ti ha spinto in questa impresa editoriale, complessa, ricca, approfondita e sicuramente impegnativa? Perché Boccioni? Già all’inizio del 2016 La Lettura avvertiva di un “Boccioni dimenticato”. Ho deciso di scrivere il saggio non solo dopo la deludente mostra di Palazzo Reale, ma per il silenzio assoluto sugli aspetti più duraturi legati alla sua lezione: quello del critico, del curatore, del militante anticonformista. L’ennesimo, reiterato tentativo di lasciare Boccioni nel cono d’ombra già denunciato da Maurizio Calvesi, oltre trent’anni prima, quando nessuno aveva avuto la decenza di approfondire seriamente il suo rilievo plastico, teorico, letterario, sociale. In cosa è stato tanto innovatore rispetto agli altri Futuristi? Non è confrontable con gli altri futuristi: senza Boccioni, il Futurismo così come lo conosciamo nelle arti, non sarebbe semplicemente esistito. Già nel 1910, Marinetti delega a Boccioni la stesura del programma tecnico-artistico, come naturale sèguito alla sua grande intuizione letteraria e sociale del Manifesto fondativo del 1909. Boccioni stila quindi due Manifesti per la pittura (1910), uno per la scultura (1912) e uno per l’architettura (1913, scoperto in un baule solo nel 1971), nonché il testo basilare Pittura e scultura futuriste. Non solo, Boccioni organizza la prima mostra dei futuristi nel 1911, che avrà la genialità anticipatoria di ubicare nel capannone industriale della Ricordi, prendendosi, con l’avallo di Marinetti, dall’inizio (1910) fino alla sua morte (1916), un controllo dogmatico sugli altri artisti, decidendone ruoli, presenze alle mostre, inserimento o meno nel Movimento. Come riassumeresti, brevemente ai nostri lettori, le linee generali di questo volume?

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Titolo: Umberto Boccioni. Arte – Vita Autore: Roberto Floreani Anno: 2017 Pagine: 268 Prezzo: Euro 22.90 ISBN: 9788891816412 Collana: BibliotecaElecta Editore: Mondadori-Electa Info: www.electa.it


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Quali contenuti, quali finalità? Al saggio, da più versanti e dalla stessa dirigenza della Mondadori, è già stato riconosciuto un rilievo universitario per la molteplicità degli argomenti trattati. Oltre ad una biografia ragionata che descrive l’uomo Boccioni, c’è anche una ricerca sugli intellettuali in Europa in quel periodo, viene dato rilievo ad aspetti meno noti, quali la presenza dell’Esoterismo nei testi futuristi, al rapporto di Boccioni con gli altri artisti, alla sua vicenda esaltante nel Futurismo e all’epilogo fatale nel 1916, anno di arte, amore (con la nobildonna sposata Vittoria Colonna) e morte, per la fatidica caduta da cavallo, il 16 agosto (e non il 17, come riportato nei testi), nella periferia di Verona. Leggendolo credo che uno dei punti centrali sia far scoprire tutto anche quello che di lui è stato distrutto e si è perso, opere utili a ricostruirne l’esatto profilo della sua ricerca. Penso per esempio alle sculture… Accentuare la notizia della distruzione di quasi tutta la sua produzione scultorea, a martellate, dall’artista passatista Piero da Verona (nel 1927), pressochè sconosciuta ai più e verificarne sulle foto di studio (realizzate dallo stesso Boccioni) la straordinarietà innovativa, significa privilegiare la sua grandezza plastica rispetto a quella pittorica e, finalmente, considerarlo come uno dei più grandi scultori italiani del ‘900.

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controcopertina. Rivendico il ruolo centrale dell’artista anche dal versante teorico, riscoprendo una sensibilità già affermata storicamente dalle vicende critiche di Manzoni e Castellani (con la rivista Azimuth e la galleria Azimut), ma anche di Piero Dorazio, con la stessa dinamica editoriale-espositiva, fino a Damien Hirst, che, ancora studente, organizzerà un trittico di mostre invitando una ristretta selezione dei suoi compagni di studi, inventando di fatto la Young British Artists, prima che fosse così battezzata dal collezionista-mèntore Charles Saatchi. Il rigore di cui parli, probabilmente, nasce dalla padronanza dell’argomento, elaborato in oltre trent’anni di studio. Con una puntualità assoluta sei partito fin dall’infanzia dell’artista per arrivare alle eredità contemporanee in un volume destinato a diventare un punto fermo, una pietra miliare, sugli studi del Futurismo e di Boccioni. Cosa dai di nuovo?

Un artista che parla di un artista producendo un saggio di grande spessore scientifico: come sei riuscito a leggere in modo tanto “lucido” la figura di Boccioni, senza cedere alle lusinghe della passione e di una interpretazione “artistica”? Leggendo si percepisce proprio il rigore e il dovere della conoscenza, storica, artistica e critica… La notizia dell’artista che scrive dell’artista è la prima che Mondadori ha riportato in

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Dall’alto: Umberto Boccioni nel suo studio. Alle spalle, il modello in gesso (distrutto) per “Espansione spiralica di muscoli in velocità”, 1913, Collezione privata, Archivio Mondadori Electa. Foto: Studio Saporiti Roberto Floreani durante una declamazione su Boccioni. Courtesy: Fondazione Gulbenkian Lisbona, 2017


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Credo che l’aspetto decisivo sia il punto di vista da cui vengono esaminati gli eventi, con un’ottica da artista ad artista, più operativa che critica. Si scopre così un insolito Marinetti remissivo, quando affida totalmente il Futurismo delle arti nelle mani di Boccioni, si definisce la giusta data della sua morte, privilegiando la notizia data dai futuristi, si capovolge la priorità di lettura delle sue opere, anteponendo la scultura alla pittura, si esaltano le sue capacità critiche, teoriche, curatoriali, organizzative, si analizzano forse con più chiarezza, viste dall’interno, le sue influenze – più teoriche che tecniche – sulle generazioni a venire, coinvolgendo artisti come Warhol, Fontana, Schifano, Carmelo Bene. Questo saggio è in distribuzione da qualche mese, che reazioni hai registrato ne-

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gli ambienti accademici? Come è stato accolto? Dal taglio delle domande, molto gratificanti, ho già una prima, positiva risposta dal Matteo Galbiati critico smaliziato, ma poi ce ne sono state molte, da Guido Curto, direttore di Palazzo Madama ed ex direttore dell’Accademia Albertina, che mi ha presentato al Circolo dei lettori di Torino, poi quelle delle Università di Padova e Lisbona che mi hanno invitato come relatore ai Congressi Internazionali sul Futurismo nelle rispettive città, dell’Università Cattolica e dello IED di Milano dove ho tenuto delle lectio agli studenti. La Fondazione Calouste Gulbenkian di Lisbona mi ha poi gratificato della produzione della clip-video registrata relativa alla mia lectio presso di loro, cosa che i docenti portoghesi mi riferiscono come assolutamente insolita.

Studiando e scrivendo come è cambiato il tuo rapporto con questo tuo maestro lontano? Non è molto cambiato il mio rapporto con Boccioni, si è arricchito in conoscenza e in padronanza. Il saggio ha invece contribuito ad accrescere la mia consapevolezza professionale, essendo stato Boccioni, a più riprese, limitrofo all’Astrazione, nonché l’aver scoperto il punto di contatto tra le due tendenze, con la saldatura teorica negli Astrattisti Primordiali di Franco Ciliberti, dal 1941, dove la compenetrazione e il dinamismo boccioniani vengono superati dall’interiorità teosofica e spirituale, in continuità con Lo Spirituale nell’arte di Kandinskij, aspetti centrali anche nella mia ricerca. Sei artista e non posso non chiederti se e come ti ha influenzato nella tua ricerca pittorica… Penso che la ricerca pittorica di Boccioni e la mia non abbiano alcun punto di contatto. Ci sono molte analogie invece da un punto di vista multidisciplinare e teorico, sulla stretta complementarietà della pratica pittorica con la teoria, sulla predisposizione naturale all’azione, anche teatrale, sull’attitudine a coagulare sensibilità differenti anche dal versante curatoriale. Ad ultima istanza penso che il vero Boccioni, non quello resoci dai testi di scuola o dal silenzio sulla sua multidisciplinarietà, non possa che essere un punto di riferimento per ogni artista che operi nel contemporaneo. Quali progetti ti attendono ora? Per il 2019, sto delineando i contorni di un ampio progetto pubblico, probabilmente iterato in città differenti, supportato da un rilevante contributo teorico sull’Astrazione che sto elaborando da almeno 5 anni e, forse, anche da un’azione teatrale, sul modello di quelli che ho già realizzato al Palazzo della Gran Guardia a Verona (La Città ideale, 2014) e ai Musei Civici di Padova (Ricordare Boccioni, 2016)

Umberto Boccioni, alcune sculture distrutte

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