L olio

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le pietanze dei ricchi patrizi. Orazio riteneva migliore quello prodotto nella zona di Venafro; Virgilio apprezzava l’olio ricavato da tre delle principali varietà di olivi coltivati durante la sua epoca: l’orchite, il radio e la posia. Marco Gavio Apicio nel suo De re coquinaria indicò alcune modalità di conserva delle olive - tecniche ereditate con ogni probabilità dai greci - e raccomandava l’impiego di olio per la preparazione di zuppe di farro e di miglio; per cuocere il garum, famosa salsa ottenuta dalle interiora di pesce misto ad erbe aromatiche; per la cottura di verdure, pesce, carni, uova; perfino per realizzare alcuni dolci, come la famosa Patina de Piris, alias torta di pere. In età classica una qualità sempre fresca del famoso condimento vegetale veniva assicurata grazie alle olive acerbe tenute sott’olio e spremute all’occorrenza. L’olio d’oliva è sempre stato adoperato inoltre per condire insalate e per preparare salse grasse, rivelandosi altresì un ottimo elemento per conservare i cibi, alla stregua del sale e dell’aceto. La radicalità dell’olivo in Italia e il gusto pungente e fruttato dell’estratto dei suoi frutti, hanno reso l’olio il principale ingrediente della tradizione gastronomica del paese. Alcune regioni – come l’Umbria, la Toscana e la Liguria – sono da sempre devote ad una politica della qualità piuttosto che della quantità e conservano alcune varietà di olivi secolari, come il Moraiolo, il Frantoio e il Leccino. La cucina popolare del Mezzogiorno resta profondamente ancorata all’utilizzo dell’olio d’oliva a tavola. Il suo accostamento al pane resta tuttora un’imperdibile occasione per mangiare olio d’oliva, come nel caso della “bruschetta”, antipasto moderno che trae le proprie origini dal mondo contadino; o in quello della mitica fetta di pane bagnata con olio e condita con un pizzico di sale o da una manciata di zucchero, tipico spuntino pomeridiano amato dai bambini, consumato soprattutto nel corso degli anni Sessanta e Settanta. Un tempo per le famiglie contadine possedere delle bottiglie d’olio in dispensa e disporre di un maiale nel proprio cortile di casa, era simbolo di ricchezza. In alcune aree di campagna, fino ai primi anni del secondo dopoguerra, l’olio d’oliva costituiva un mezzo di pagamento: molte donne venivano retribuite con bottiglie d’olio in cambio di una giornata di lavoro nei campi. La qualità dell’olio extravergine, divenuta implicita nei ricettari contemporanei, veniva invece distinta dai cuochi vissuti nel corso del XVIII e XIX secolo: il gastronomo partenopeo Ippolito Cavalcanti, nella sua Cucina Teorico-Pratica, sottolineava l’impiego in cucina di “oglio perfettissimo”, ossia di categoria superiore. L’uso alimentare dell’olio nella storia non è prescindibile dal suo significato simbolico. Un tempo furono le stesse religioni a scandirne l’assunzione per i fedeli. Durante i secoli del Medioevo e del Rinascimento, il calendario liturgico cristiano ne disciplinava l’impiego nel periodo di Quaresima e nei giorni di magro in alternativa al lardo, allo strutto e al burro. Gli ebrei del Mediterraneo erano soliti usare abbondanti quantità di olio d’oliva, soprattutto per


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