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Nell’età più avanzata ancora una vita piena
DI EUGENIO LAMPACRESCIA gelica luterana con una piccola minoranza di ortodossi. Non ci sono edifici di culto cattolici e noi della Missio celebriamo l’Eucaristia o la liturgia della Parola di Dio in saloni affittati. In altre occasioni, con l’autorizzazione del vescovo, celebro l’Eucarestia presso le famiglie in casa, per sostenere la loro fede, come occasione di lode a Dio e per fortificare la comunione. Sono momenti belli ed intensi che aiutano tutti, anche me, e dove mi sembra di vivere l’esperienza della Chiesa apostolica delle origini. I finlandesi, anche se sono di indole riservata e vivono la fede in modo molto personale, restano attratti dallo stile di vita di queste famiglie e ne accolgono di buon grado e con timida curiosità la testimonianza. E questo avviene sia nella parrocchia, quan- do la Missio si trova all’interno del suo territorio, come ad esempio a Kuopio, sia nel dialogo con i rappresentanti della Chiesa luterana, laddove è possibile organizzare incontri e momenti di preghiera ecumenici. La Chiesa cattolica finlandese pur ridotta nei numeri – poco più di 11mila membri –, è molto attiva e vivace ed è in aumento grazie all’arrivo di cattolici stranieri; anch’essa si sta preparando a celebrare il Sinodo indetto da papa Francesco e lo fa nell’attesa del suo nuovo vescovo e con il suo apporto di Chiesa aperta all’accoglienza e alla testimonianza, aperta al confronto e all’integrazione, com’è d’altronde tipico della cultura finlandese. * presbitero della diocesi di Fermo, formato al Seminario “Redemptoris Mater” di Macerata
Un Centro di ascolto aperto a Santa Croce Sono
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trascorsi esattamente quattro mesi da quando nell’Unità pastorale ImmacolataSanta Croce è diventato operativo il Centro d’ascolto, attivato in collaborazione con la Caritas diocesana per cercare di dare risposte a situazioni di difficoltà sociali ed economiche, molte delle quali aggravatesi per il lungo periodo di pandemia. Aperto ufficialmente il 14 novembre, in concomitanza con la V Giornata mondiale dei poveri, il nuovo servizio «è stato subito accolto con grande favore dai parrocchiani», sottolinea Giovanni Gentili, che, insieme a Raffaela Fermani e Cristina Turini, fa parte dell’équipe di operatori del Centro.
La vita si è allungata per tutti. E così i tempi dell’età avanzata. I sessantenni non sono più considerati vecchi. Questo però non per tutti significa benessere pieno. Talvolta per gli acciacchi fisici che via via si affacciano. Altre volte per difficoltà causate dalla inattività e dal ritiro sociale.
Imparagonabile la qualità della vita rispetto a quella dei nostri genitori e nonni. In linea generale si sta meglio, tanto che si è resa necessaria anche una nuova classificazione proposta dalla Società italiana di gerontologia. Giovani anziani dai 64 ai 74 anni, anziani dai 75 agli 84, grandi vecchi dagli 85 ai 99 ed infine i centenari. La buona notizia è che non si è vecchi prima di un’ottantina e un po’.
Il counter aging, per dirla in italiano lo “svecchiamento” della società, è osservabile nella realtà aldilà dell’anagrafico invecchiamento della popolazione e nonostante il progressivo pesante calo della natalità. Insomma, si può essere giovani anche da anziani contribuendo ad attenuare la percezione di invecchiamento generale della società.
L’età è qualcosa di molto complesso. Essa è tempo cronologico, ma anche condizione fisica, psicologica e persino pedagogica, in quanto i bisogni educativi si sono ampliati fin verso l’età matura e oltre. È per questo che una persona di ottanta anni che ancora progetta e lavora o dedica il suo tempo libero agli altri, fa sport, ha uno sguardo di futuro, è attivo a livello sociale e porta il suo contributo a livello intergenerazionale, può considerarsi giovane e prepararsi meglio alla certa conclusione della vita. Così, come in un circolo virtuoso, migliorando le condizioni fisiche e intellettuali, si migliora complessivamente il capitale umano. In questo senso c’è tutto un lavoro pe-
(Foto Sir/Marco Calvarese)
dagogico e di strategia formativa da pensare e mettere in campo, con necessità di personale qualificato, non sanitario che si occupi non solo di assistenza e cura, ma di educazione alla cittadinanza attiva. Poi non può mancare l’impegno individuale. Personalmente ho superato da un po’ i sessanta anni. Non mi sento vecchio, anzi mi considero persino più forte e lucido di prima. Ringrazio per quello che ho avuto e fatto fin qui nella vita, specie in questi ultimi anni più maturi. Vado avanti convinto. Ho la fortuna di vivere il mio tempo occupato come tempo liberato. La mattina, al risveglio, ho voglia di ricominciare. Non saprei dire quando e se si diventa vecchi veramente. Ho visto però i miei genitori invecchiare. Mamma, sempre indomita, ha cominciato quando non è stata più in grado di mandare avanti il negozio che era anche un crocevia di incontri. Poi nel momento in cui è diventata un pericolo pubblico alla guida. E infine quando l’Alzheimer se l’è portata via a 91 anni. Mio padre ha cominciato a invecchiare quando, da imprenditore, ha lasciato l’azienda, rifugiandosi spesso da solo in campagna e non coltivando più relazioni sociali. Da allora non si è più ripreso. Fino al primo problema cardiaco che l’ha portato a chiudersi sempre più. Da ultimo, rotto un femore, non siamo più riusciti a farlo alzare dal letto, per il cattivo umore, non per la frattura. Ha concluso la sua vita terrena a
92 anni. Mi sa che, per entrambi, la vecchiaia vera sia cominciata con la solitudine. Spesso la solitudine dipende dalla “cultura dello scarto”, tanto spesso evocata da papa Francesco, di chi vede gli anziani come un peso e non una risorsa di memoria e saggezza. Altre volte perché a questa età ci si scarta da soli.Per questo voglio continuare a fare progetti, almeno finché avrò salute sufficiente. A rimanere curioso di viaggi in posti nuovi e anche dei viaggi della mente. Ad avere magari pochi, ma buoni amici con cui condividere questa fase della vita. In fondo come afferma acutamente Philippe Geluck «Essere vecchi non è che essere giovani da più tempo degli altri».
In questi mesi, nonostante difficoltà operative legate alle disposizioni anti Covid, sono stati affrontati diversi casi, per lo più segnalati da parrocchiani. Alcuni già risolti, altri tuttora “aperti”. La prima preoccupazione di chi opera nel Centro è di tutelare la riservatezza e far sì che le persone si avvicinino senza timore. Un aspetto, questo, che risulta assai problematico, soprattutto quando il problema è essenzialmente di carattere sociale. Situazioni di povertà se ne sono presentate al Centro meno di quanto ci si poteva aspettare. Secondo Gentili a contenere le esigenze di aiuto economico sono essenzialmente il Reddito di cittadinanza e – forse ancor di più – il nuovo Assegno unico per i figli, di cui possono godere anche coloro che non lavorano.
Questi due sostegni statali hanno altresì cambiato la percezione della mancanza di lavoro, che ora viene sentita molto di più sul piano sociale e psicologico, soprattutto da coloro che il lavoro lo perdono in età non giovanile.
Anche la “solitudine”, che in passato veniva considerata come una situazione tipica di molte persone anziane, è diventato un problema per persone in età lavorativa, anche giovani. L’esperienza di questi mesi ha dimostrato un aumento di condizioni di “autoisolamento”. Colpisce indistintamente uomini e donne, che per problematiche diverse si isolano in casa, allontanandosi senza apparenti ragioni da familiari e amici. Il Centro d’ascolto, organizzato nei locali della parrocchia di Santa Croce, è uno spazio di attenzione ai bisogni della gente. Chiunque si presenti viene accolto avendo a cuore il rispetto della sua dignità e della riservatezza. È necessario prendere appuntamento telefonico chiamando (tra le 15 e le 18) il numero 351-7525956. «Noi –tengono a sottolineare gli operatori del Centro – non ci sostituiamo alla persona, ma la vogliamo solo aiutare a camminare con le proprie gambe». (Ale.Fel.)
Lavandaie, tanta la fatica prima delle lavatrici
Una lavandaia all’opera nel fiume Potenza
Per lavare bene non bastavano i lavatoi, serviva l’acqua di un fiume. A Macerata bisognava scendere a Villa Potenza

DI UGO BELLESI L a prima lavabiancheria è “arrivata” in Italia nel 1945. Inventore era stato un teologo tedesco nel 1767 con centrifuga manuale. Nel 1797 un americano ottenne il primo brevetto. La prima, messa in commercio nel 1874, era ad energia elettrica. E prima della sua diffusione come si faceva? Ne abbiamo notizia attraverso le interviste fatte alle lavandaie della prima metà del 20° secolo dagli alunni delle elementari “Anna Frank” di Villa Potenza, pubblicate nel 1998 nel volume “Villa Potenza – il fiume la fatica”. Nelle case ovviamente l’acqua non arrivava. Macerata però ave- va alcuni lavatoi, come a fonte Pozzo di Mercato, a fonte Maggiore e sotto Porta San Giorgio all’imbocco della stradina per Santo Stefano. Ma per lavare bene occorreva l’acqua di un fiume e quello più vicino alla città era il Potenza. D’altra parte proprio dalle rovine di Helvia Recina era nata Macerata e quindi il legame con Villa Potenza era fortissimo. È da quella frazione che tutti i lunedì arrivavano in città frotte di lavandaie. Erano trenta, quaranta, forse più. Ritiravano i panni sporchi (tranne la biancheria intima) dalle famiglie dalle quali avevano avuto questo incarico e ritornavano a Villa Potenza recandosi al fiume solo al pomeriggio per insapo- nare tutti i panni sporchi che poi venivano portati a casa e tenuti sotto sapone. Se lo sporco non andava via si usava il sistema della liscivia, impiegando la cenere posta sopra un telo che copriva il bucato e gettandovi sopra acqua bollente. Se necessario si ricorreva anche a polvere di potassa. Infine il mercoledì si sciacquava tutto al fiume. Subito dopo i panni si stendevano ad asciugare sui fili stesi nei cortili attorno le loro case o sulle siepi. Quasi tutte preferivano il lunedì per consegnare i panni asciutti e ritirare quelli sporchi. Quale era il compenso? Nel 1930 una lira e 50 cent. per un paio di lenzuola matrimoniali, 4 soldi per un asciugamano, 2 soldi per un tovagliolo.
Molto impegnativo il lavoro della lavandaia che riceveva la biancheria sporca dalle monache dell’Istituto San Giuseppe che avevano un collegio con 70 studentesse. La stessa aveva l’incarico di lavare anche la biancheria del vescovo Ferretti. Un’altra lavandaia si occupava della biancheria dell’ospedale che allora si tr ovava in piazza Mazzini. Faticoso anche il lavoro di quella che aveva l’incarico di lavare i panni dei soldati dell’Aeronautica alle Casermette, che nel 1947 erano mille. Portavano a Villa Potenza duemila lenzuola con un camion. Anche le caserme di Falconara e di Potenza Picena portavano i panni da lavare a Villa Potenza. C’era invece chi doveva lavare asciugamani, tovaglie e tovaglioli della Società Filarmonica. Allora non c’erano le strade asfaltate ed era la breccia che rendeva più faticoso il trasporto della biancheria con i carretti tirati a mano da Villa Potenza a Macerata. Tra l’altro la polvere arrivava alle ginocchia. D’inverno quando c’era la neve bisognava prendere a noleggio un carrettiere che aveva il cavallo con cui si potevano trascinare fino in città anche quattro o cinque carretti legati uno dietro l’altro. Spesso le lavandaie si dovevano recare al fiume all’una di notte ed era buio. Portavano con sé un lume, che appendevano in cima da un palo. Restava acceso fino all’alba.
Sopra: l’Annunciazione del Beato Angelico

A fianco: una raffigurazione di san Giuseppe col Bambino Gesù
