Omaggio a Jackson Pollock

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Jackson Pollock 1912 - 1956

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E lviro L angella ____________________________________________________________________

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Presentazione del Progetto

OMAGGIO A JACKSON POLLOCK

Riproporre a 60 anni dalla scomparsa di Jackson Pollock un estratto della pubblicazione del progetto didattico dedicato dell’artista, ideato d’intesa con i miei allievi del liceo di Giardini Naxos, credo possa offrire un contributo tuttora valido alla conoscenza della sua attività approfondendo le fonti di ispirazione del suo singolare linguaggio espressivo. È opportuno ribadire qui la finalità espressamente didattica del progetto triennale intrapreso dal nostro laboratorio creativo denominato “IL SOGNO DI POLIFILO” da me diretto al liceo. L’edizione della pubblicazione originaria che accompagnava il progetto fu appunto dedicata a Pollock e le performance ambientate sia a Venezia presso il Museo Correr e la Peggy Guggenheim Collection, sia nell’Auditorium “Angelo D’Arrigo” del nostro liceo, non ambivano certo a traguardi professionali nella realizzazione dei video documentativi. Tanto meno gli allievi nutrivano chissà quali velleità artistiche nelle loro performance recitative e nelle altre tecniche espressive sperimentate. Il nostro vero obiettivo coincideva invece, con la filosofia che ispirava l’intero progetto educativo. Ci proponevamo innanzitutto, di sperimentare una full immersion nei siti d’arte prescelti che vedesse diretti protagonisti gli allievi, inscenando laddove possibile, performance o piuttosto animazioni didattiche non di rado aperte anche ad un pubblico estraneo all’ambito strettamente scolastico. Il laboratorio creativo pur non rinunciando ad una doverosa trattazione preliminare in linea con le discipline tradizionali, era orientato a creare strette sinergie tra la teoria e la concreta attuazione di eventi e filmati nell’intento di familiarizzare con quelle forme di linguaggio multimediale congeniale ai giovani del nostro tempo, per applicarli con spirito critico propositivo, allo studio delle arti visive affinando al contempo, la sensibilità estetica. La performance “OMAGGIO A JACKSON POLLOCK” [https://vimeo.com/22027184] si è rivelata, com’era presumibile, di non facile approccio alla personalità così spigolosa, problematica e oltremodo irrequieta dell’artista informale. In ogni caso, come premessa inderogabile, i ragazzi dovevano essere lasciati liberi di ri-creare estemporaneamente l’action painting. Il problema consisteva nel rischio di banalizzare il rigore tecnico che Pollock rivendicava strenuamente alle stilettate al vetriolo dei critici che altro non scorgevano nelle sue tele che gratuite effusioni, quasi il compiaciuto caos in cui ama crogiolarsi una mente eversiva. La mia pretesa, nella funzione di coordinatore dell’attività, consisteva nel rendere i ragazzi partecipi dello spirito originario da cui prendeva le mosse quel discusso stravolgimento del linguaggio espressivo operato da Pollock al fine di prendere consapevolezza di quali insospettate implicazioni potevano mai accompagnare l’irruenta liberazione delle pulsioni inconsce nell’animo dell’artista. 4


Un’interessante riflessione del critico Giulio Carlo Argan sul rapporto tra l’artista e le energie sotterranee che alimentano il proprio daimon creativo, sottolineava come in fondo, non esistano nell’Inconscio pulsioni definibili a priori “buone” o “cattive”. Tutto dipende dalle capacità di ognuno di saper destinare e incanalare opportunamente le energie vitali, vere fonti imprescindibili della vita psichica, perché esse non deflagrino, compromettendo l’armonico sviluppo della personalità, e ingenerino quelle conflittualità insorgenti allorquando reprimiamo arbitrariamente la sfera istintiva quasi costituisse in sé stessa un’insidiosa minaccia. Che gli “scarabocchi” di Pollock risultassero controversi, addirittura risibili, agli occhi dei contemporanei, è palesemente attestato dal fatto che il suo genio rivoluzionario balenò esclusivamente agli occhi della sua mecenate Peggy Guggenheim, mentre riusciva del tutto indigesto ai suoi critici.1 D’altro canto, Peggy stessa conosceva bene quale magma ribollente si agitasse in Pollock, quali incontrollate pulsioni avrebbero potuto da un momento all’altro sovvertire l’inarrivabile talento di Pollock che ella non esitava a paragonare a Picasso. Il suo precario equilibrio avrebbe potuto gettarlo imprevedibilmente in un caos disastroso senza ritorno. «Un animale in trappola, che non avrebbe mai dovuto lasciare il Wyoming dove era nato». 2 Ecco cosa diceva Peggy del suo amato pittore. Già nel ‘43 all’Art of This Century di New York, il museo-galleria da lei aperto a New York Pollock espone opere che agli occhi della sua mecenate trasudavano il suo grande talento. “ Opere dai colori espressionisti, ancora figurative, di stile tardo cubista, con elementi ideografici surrealisti. Vi si scorgono dee minoiche della luna, simboli magici e sessuali influenzati dalle maschere e dai totem indiani come dai miti esoterici. Tutti questi simboli riguardano l’unione degli opposti, rappresentata dall’androgino alchemico, che per Pollock è l’artista. Quindi si tratta di una riflessione sul potere di guarigione dell’arte stessa”. (Chiara Vitali) Non diversamente da come i grandi quadri dipinti più tardi dal ’47, che l’hanno reso famoso come iniziatore dell’Action Painting, nascevano dall’ispirazione dei riti magici dei nativi americani. Il segno-gesto, della pittura come performance conservava un’ancestrale memoria dei riti di guarigione praticati dagli sciamanici Navajo. Il risveglio di esperienze ancestrali nella tecnica espressiva di Pollock risalenti alle suggestioni dei riti sciamanici Navajo, ha certo un’origine più profonde del ricordo delle visite alla mostra Indian Art and the United States risalenti al 1941, nelle quali ebbe modo di osservare con grande interesse le dimostrazioni pratiche compiute da stregoni. La fascinazione provata dinanzi ad essi mentre lavoravano con un distacco dalla realtà simile a un’esperienza di trance, pescava le sue radici nelle inaccessibili profondità del proprio inconscio, agitando lontane memorie archetipiche di una cultura primitiva magica sopravvissuta dentro di lui. E cioè in quell’inconscio collettivo risalente a quella che C.G. Jung chiama la fase preinfantile, contenente i residui della vita ancestrale.3 Questa regressione verso improbabili modalità di linguaggio arcaico capaci di dar forma alle più intime pulsioni del proprio carattere ribelle, non poteva che acuire fatalmente ancor più la pericolosa frattura tra l’individuo e il suo contesto relazionale. La spasmodica ricerca di forme significanti così personali e autoespressive può portare ad una fuga ancora più disastrosa dai rapporti sociali. Ripiegandosi autisticamente nel proprio guscio, lo stesso mezzo espressivo che dovrebbe gettare un ponte col mondo che ci circonda, rischia di trasformare gli uomini in ombre, in irrealtà. “Le parole vive vengono sostituite da parole vuote, e l’uomo si trova sì escluso dalla sofferenza provocata dai contrasti, ma piomba in un pallido mondo fantasmagorico bidimensionale, dove tutto ciò che è vitale e creativo appassisce e muore”. Sono le parole pronunciate da C. G. Jung riferite alla condizione dell’uomo del suo tempo lacerato dalle contraddizioni che esplodono in America 5


dopo la seconda guerra che determineranno un rifiuto forte e attivo degli stilemi dell'arte, dalla pittura al jazz, accettati e condivisi fino a quel momento. “Bisogna trovare il modo di gettare un ponte tra realtà conscia e realtà inconscia”. Così esortava Jung nell’appassionato tentativo di spingerci a guardare più profondamente dentro noi stessi, facendo tesoro della nuova consapevolezza offerta dalla nascente e ancora incompresa disciplina della Psicanalisi. «Perseguitato dai demoni» (Betty Parsons), Pollock non smise di cercar conforto nella terapia freudiana, junghiana, sullivaniana, interpersonale e di gruppo, nell’omeopatia, l’ipnosi e la biochimica, nei tranquillanti, le diete di minerali e proteine e i bagni in soluzione di sali di roccia. Valga per lui, come suggeriva Robert Motherwell, quanto Picasso diceva di Cézanne, ovvero che la sua grandezza non sta nella bellezza della sua pittura ma nella sua angoscia.

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In un numero di novembre 1950 Tempo, un critico italiano è stato citato che ha detto dell'opera di Pollock, "è facile individuare un’unica cosa in tutte le sue opere: il Chaos". "Non c’è caos maledizione !" replicò Pollock. “L'animale represso, quando arriva in superficie, irrompe nella sua forma più selvaggia e il suo processo di autodistruzione conduce al suicidio universale”. (Carl Gustav Jung, La psicologia dell'inconscio) 2

“Abbiamo detto che l’inconscio contiene in certo modo due strati: quello personale e quello collettivo. Lo strato personale raggiunge il suo limite nei primissimi ricordi infantili. L’inconscio collettivo invece contiene la fase preinfantile, cioè i residui della vita ancestrale. Mentre le immagini mnestiche dell’inconscio personale sono per così dire “piene”, colme in quanto “vissute”, gli archetipi dell’inconscio collettivo non lo sono, in quanto forme che l’individuo non ha vissuto personalmente”. (Carl Gustav Jung, La psicologia dell'inconscio) 3

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Jackson Pollock, Donna luna (1942) Collezione Peggy Guggenheim La trasfigurazione magica ed inquietante della figura femminile emerge da uno spazio astratto ma vitale, fantasma della natura e dell’inconscio, segno dell’origine psichica e panica della vita Dee minoiche della luna, simboli magici e sessuali influenzati dalle maschere e dai totem indiani come dai miti esoterici sembrano evocare dal profondo remoti archetipi allusivi alla riconciliazione delle opposte nature conviventi nell’uomo, cioè al modello mitico, unificante dell’androgino alchemico, nel quale Pollock identifica l’artista stesso. Sarebbe lecito osare finanche un confronto con la vendetta di Vulcano del Parmigianino.

Sotto Con la svolta verso l’action painting Pollock lascia qualsiasi riferimento figurativo e si getta sulla/nella tela che diventa un campo di forze grandioso, fatto di macchie, pezzi di vetro, sassolini, grumi di colore.

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I giovani e la multimedialità a Giardini Naxos di Santo Giovanni Torrisi Dirigente scolastico del Liceo “C. Caminiti” di Giardini Naxos

Estratto dall'incontro di studio curato dal Prof. Elviro Langella presso il Liceo inerente il "Progetto Arion", nato d’intesa con la preside, Marisa Sedita del liceo ginnasio «Ruggero Settimo» di Caltanissetta e condiviso con i docenti partecipanti da vari Paesi europei: Jadwiga Gilner (Polonia), Heinrich Hachmoller (Germania), Manninen Pekka (Finlandia), Hans Hellblom (Svezia), Antonio Maillo (Spagna), Ana Isabel Rua (Portogallo), Mehemet Emin Sen, Fatma Gulcy Colakodlu e Ali Karaisli (tutti dalla Turchia), Jan Enerstvedt (Norvegia). L’incontro è documentato in rete alla pagina https://vimeo.com/22025615

Siamo fermamente convinti che si debba sempre più rinsaldare la stretta intesa tra Scuola e Museo affinché gli spazi delle pinacoteche, delle gallerie, dei siti archeologici possano venire vissuti più intensamente di quanto può offrire una visita ordinaria, rendendosi disponibili ad ospitare incontri e animazioni didattico-multimediali. Analogamente, auspichiamo si tenda ad una sempre maggiore espansione dell’attività della Scuola nel tessuto sociale con mostre e manifestazioni che sappiano coinvolgere la cittadinanza in un ambizioso progetto di educazione permanente, nonché rassegne programmate organicamente nel palinsesto degli eventi culturali promossi nel contesto territoriale dagli enti preposti. Occorre, congiuntamente, sempre più valorizzare la sperimentazione dei linguaggi multimediali attraverso le nuove tecnologie di comunicazione, nello studio del patrimonio artistico del Paese. Nello specifico, il progetto dl prof. Langella intende tradurre proprio questo principio, in un inedito approccio con le testimonianze del passato, nel tentativo di riviverne l’originaria dimensione estetica, riattualizzandola in un’esperienza attiva e creativa, in un viaggio interiore nel tempo della Storia dell'arte. La fortunata occasione è stata offerta dalla grande mostra “Jackson Pollock a Venezia”, nelle due sezioni, al Museo Correr e contemporaneamente al Centro culturale Candiani di Mestre col titolo, “Gli Irascibili e la Scuola di New York”. È per noi una grande opportunità ambire a presentare il nostro progetto “Omaggio a Pollock”, ambientato alla Peggy Guggenheim Collection e al Museo Correr presso il Centro culturale Candiani che ha tenuto a battesimo la singolare mostra sul grande pittore informale. Condividiamo pienamente, i principi ispiratori della proposta culturale lanciata dal Centro Candiani, che lo proiettano su uno scenario di avanguardia, collegandolo ai più importanti autori-interpreti e a prestigiosi centri di ricerca. Lodiamo la sua forte progettualità, acquisita attraverso un attento lavoro di ricerca e di monitoraggio, e fondata sull’approfondimento del rapporto tra i linguaggi artistici e le nuove tecnologie. “L’incontro e la contaminazione tra essi ha infatti segnato una svolta fondamentale nell’operare artistico contemporaneo, tracciando percorsi e frontiere nuove, in continuo divenire.” Desidero esprimere, a questo punto, un vivissimo apprezzamento assieme alla mia personale riconoscenza, al prof. Elviro Langella per l’impareggiabile opera svolta in questi anni. Da sempre, essa è finalizzata a motivare profondamente i nostri giovani al conseguimento di risultati di innegabile ricaduta formativa sulla loro sensibilità culturale, orientandoli alla corretta applicazione all’area umanistica, delle tecnologie informatico-multimediali, osando inedite esperienze creative.

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il laboratorio multimediale il SOGNO di POLIFILO Il laboratorio multimediale propone la sperimentazione di un inedito modello didatticoeducativo, mirato a creare anche col corretto impiego delle nuove tecnologie, una continuità tra l’approccio culturale allo studio dell’Arte e parallele esperienze espressive che consentano di far spaziare la creatività degli studenti. L’analisi dell’opera studiata non va vissuta, come educazione a saper “vedere” e valutare criticamente, né può esaurirsi in una untuitiva, personale conoscenza contemplativa benché maturata dalle competenze e conoscenze progressivamente acquisite negli studi. Oltre a documentarsi sulla storia delle opere e sulle possibili interpretazioni, implicazioni multidisciplinari, l’allievo deve essere stimolato a cogliere quella peculiarità dell’opera che la rende viva nella piena fragranza dei valori estetici che riesce ancora ad esprimere allo sguardo contemporaneo. È comprensibile che l’educatore possa essere pervaso da un certo scetticismo e nutrire delle riserve, quando gli si chiede di scommettere fiduciosamente sul grado di partecipazione e di interesse dei giovani, dinanzi a tematiche di studio che impongono un indiscutibile impegno intellettuale e presuppongono una dedizione anche in termini di tempo. Né saprei trovare convincenti argomentazioni per negare l’evidenza che i giovani veramente dotati e motivati, predisposti ad attività creative sono di fatto, una minoranza. Ne discende, che i criteri per attuare la sperimentazione didattica che qui stiamo auspicando, non possono che essere necessariamente selettivi. Bisognerebbe tener presente, però, proprio come accade per le attività del laboratorio teatrale, che i binari guida della formazione della sfera intellettuale, della creatività e delle attitudini espressive, corrono paralleli nello sviluppo. Ciò rende indispensabile un’armoniosa intesa tra gli educatori e gli esperti esterni sugli obiettivi da raggiungere. Primo tra tutti, quello della crescita globale della personalità. In questo senso allora, un’attività formativa come il teatro non può che avere una ricaduta positiva sul piano psicologico – socializzazione, autoconoscenza, controllo dell’emotività, ecc. – anche a prescindere dal grado di perfezionamento della tecnica recitativa alla quale l’allievo aspira in forza di innate attitudini. Alla luce di queste considerazioni, la sperimentazione che si intende qui suggerire, non dovrà assumere un carattere di rigida selettività, ma piuttosto offrire strumenti e pretesti per snidare le sopite potenzialità di tutti, proposte di coinvolgimento quanto più allargato possibile aperte a recepire i contributi più diversificati, piccoli o grandi che siano. E ancora una volta, ci ritroviamo a constatare come la difficile arte di educare richieda la nostra capacità di rinnovarci duttilmente nei linguaggi e nelle competenze, di rigenerare la nostra 10


fantasia per rimetterci in gioco rincorrendo instancabilmente la vertiginosa rivoluzione della tecnologia. Non ci resta che raccogliere con spregiudicata incoscienza una sfida così temeraria e aprirci alla sperimentazione dei nuovi linguaggi e di sempre nuove strategie, che più di tutto, sottopongono a dura prova la nostra abilità di trasmettere ai giovani, l’entusiasmo di istituire un dialogo pur nell’odierna, scoraggiante Babele. Di aprirsi alla condivisione dei valori con atteggiamento propositivo e un impegno mirato a costruire la propria progettualità in un mondo così complesso qual è il nostro.

Gli allievi durante la loro performance all’Accademia di Musica di Giardini Naxos

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Nell’incontro con l’architetto Enzo Siviero* professore ordinario di Tecnica delle costruzioni all'Università IUAV di Venezia, rimasi colpito dal principio della "creativity in problem solving" che molto opportunamente, l’autore invocava entusiasticamente a modello per una metodologia didattica in linea coi tempi. Ancora oggi mi ritrovo in perfetta sintonia con tali riflessioni, laddove auspica una sorta di didattica dotata di maggiore vivacità dialettica e un più incisivo coinvolgimento tra docente e discente, finalizzato ad un apprendimento fondato sulla partecipazione emotiva. Commentando il suo libro “Il ponte umano”, gli esposi le finalità didattiche del mio viaggio a Venezia coi ragazzi del liceo e come stessi personalmente sperimentando un analogo approccio applicato all'insegnamento della “Storia dell'arte”, auspicando la loro fattiva collaborazione ad un progetto multimediale dal nome altisonante, "il Sogno di Polifilo", documentato dalla pubblicazione dei lavori curata di anno in anno dagli stessi allievi. Il laboratorio creativo seguito dai miei allievi era orientato a familiarizzare con l’oggetto di studio, un autore o piuttosto un sito d’arte, attraverso una progressiva full imersion dei giovani nelle varie tematiche trattate, prevedendo visite e gemellaggi con i loro coetanei in città di grande interesse storico. Ad esempio, Parma in occasione dell'anniversario del Parmigianino, le Cappelle Medicee a Firenze, la Peggy Guggenheim Collection di Venezia, la mostra in omaggio a Jackson Pollock al Correr, fino alle abbazie arabo normanne in Sicilia accanto ad altri siti d’Arte in Calabria. Alcuni meno noti e frequentati, al margine dei consueti itinerari segnalati dalle guide turistiche eppure meritevoli di una più scrupolosa attenzione.

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L’obiettivo del progetto “il Sogno di Polifilo” consisteva nella realizzazione di eventi e performance che privilegiassero allo studio libresco e alle forme espressive tradizionali, linguaggi congeniali alle nuove generazioni e in linea coi new media, dando spazio ad attività emotivamente coinvolgenti quali la drammatizzazione, la musica, al gesto liberatorio della danza, dell’action e della body painting ecc. Così, nel tentativo di sintonizzarmi alle modalità del loro sentire mutuato dai modelli estetici del nostro tempo, e di istituire un ponte generazionale, appassionandomi a questa forma di didattica creativa mai prima sperimentata, mi accorgevo di come io stesso mi sentissi chiamato a rincorrere un parallelo processo di perenne crescita culturale per tenere faticosamente il passo, sperimentando per gradi, nuove, insospettate prospettive di apprendimento. In tutta sincerità, sono convinto che a motivare noi tutti, docente e studenti, sia stata una sotterranea complicità mirata a sovvertire i mal sofferti schemi scolastici ritenuti oramai obsoleti. Insomma, un gioco liberatorio forse anche alquanto pretenzioso e irresponsabile. Tutti potevamo sentirci liberi di riappropriarci del ruolo di protagonisti di un nostro personale iter di formazione, di reinventarci una nostra personale rivisitazione di quei siti d’arte, di quegli autori, di quelle opere studiate, inscenando talvolta, vere performance multimediali ambientate nei contesti prescelti.

* Enzo Siviero (Vigodarzere, 19 gennaio 1945) è un ingegnere, architetto e docente italiano. Ha dedicato gran parte della sua carriera nella progettazione di ponti e nell'insegnamento delle strutture nella facoltà di architettura dell'Università di Venezia.

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Venezia 24 giugno Appuntamento con Caterina Marcantoni al Museo Correr La Dott.ssa Marcantoni ci invitò ad entrare con la sua consueta gentilezza, nel magico mondo di Pollock. L’intrico del dripping che si affacciava dalle tele, mi portò alla mente l’ingresso di quella cattedrale di luce dischiusa d’incanto, oltre il dedalo delle strettissime calli di Dorsoduro. Alla stessa maniera dei quadri di Pollock, coaguli di puro cristallo rilucevano nei nodi del ferro battuto dei cancelli di Claire Falkenstein, incastonati nel portale del Palazzo Venier dei Leoni. Claire si è presentata ai Cancelli del Paradiso e S. Pietro le ha chiesto: “Cosa fai qui, figlia mia? Non puoi entrare”. E Claire ha risposto: “Ma sono io l’artefice di questi cancelli”. … e S. Pietro “In questo caso accomodati pure”. (Peggy Guggenheim, Una vita per l’arte)

Intervista a Daniela Ferretti “La performance di Pollock potrebbe anche prestarsi ad essere interpretata come un rito inscenato mirato a coinvolgere il pubblico? Il tentativo di istituire una sotterranea complicità, quasi a voler socializzare il rito intimo della propria sofferta ispirazione?” Daniela Ferretti: “Non so. Ma un rito c’è; una danza rituale, anche se molto personale.” Ora è Laura a porgere la sua domanda: “Pollock ha una psicologia complessa. Ci è dato cogliere nelle dichiarazioni di Peggy, che gli era molto vicino, espressioni del tipo: “metà angelo, metà diavolo”. DOMANDA:

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Queste diatribe, le lacerazioni di una personalità così conflittuale, e il rapporto stesso con la terapia psicanalitica, lasciano tracce riscontrabili nella sua produzione artistica”. Daniela Ferretti: “Lui è quello che dipinge. Lo dichiara esplicitamente: “Io sono la natura”. Egli è ciò che dipinge. Come si fa a dire, metà angelo, metà diavolo? Ricordiamo che Peggy già per sua natura, possedeva un carattere predominante. Interpretando alla lettera le sue parole, si rischia di prendere per buone dichiarazioni rilasciate sull’onda dell’emotività. Magari, a causa di momentanei contrasti personali, o semplicemente perché in quel determinato momento, l’artista non vuol vendere una sua opera. È umanamente comprensibile, dopo tutto.”

Sbobinando il nastro dell’intervista qualche tempo più tardi, Laura si sarebbe soffermata sulle considerazioni di Daniela Ferretti a proposito della suggestione danza navajo e di una forma di misticismo nell’ispirazione espressiva di Pollock Laura: “La Ferretti qui fa un gesto della spirale avvolgente come a mimare la gestualità, anzi la vera danza inscenata dall’action painting letteralmente immerso nella creazione delle sue tele che gli si srotolano sotto i piedi”. Commenta la nuova dimensione orizzontale inaugurata dalla pittura di Pollock … Daniela Ferretti: “La nuova condizione nella quale il pittore decide di relazionarsi al piano della tela, nasce dalla necessità di rompere le regole, di abolire le distanze canoniche con l’opera, di coinvolgersi nella circolarità dello spazio della pittura. Riaffiora, l’idea antica di ritrovare la spirale cosmica, perdendo le ordinarie coordinate di riferimento, sulla via della propria personale ricerca interiore. L’artista smarrisce definitivamente qualsiasi affidabile memoria anteriore dei punti cardinali, nord, est, sud, ovest, all’interno dei quali l’avventura dell’uomo nel mondo, fino a un attimo prima, era obbligata a gravitare”. «C’era un critico qualche tempo fa che ha scritto che i miei quadri non avevano né inizio né fine. Non lo intendeva come un complimento, ma lo era. Era un bel complimento. Solo che lui non lo sapeva», disse Pollock al «New Yorker» nel 1950. Per questo resisteva a firmare le opere, che affermavano un senso di lettura per lui incerto fino all’ultimo.

… e la morte ? Daniela Ferretti: “Nella singolare esperienza interiore dell’artista, la morte non ha il significato comune che gli uomini le riconoscono non senza grande apprensione. La morte fisica, biologica, sembra non aver parte nel rito della pittura di Pollock. La morte non c’è. Non è oggetto di una particolare riflessione. Semplicemente, sembra che Pollock non si ponga alcuna domanda a riguardo.” Laura si sofferma su questa sequenza. Laura: … Eppure, lei elude la mia domanda sul senso della morte in questa concezione ciclica della vita come un’infinita spirale in cui sarebbe immersa l’esperienza inesauribile dell’artista. … Un discorso difficile, liquidato in una sola battuta: “La morte? La morte beh! Sì, c’è anche quella, chi può eluderla. Semplicemente, non è il problema.” 15


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Altra sala

Siamo davanti ad una targa che reca una riflessione di Pollock … Nel descrivere l’accumulazione dei segni pittorici, strato su strato, nel suo processo creativo Pollock commenta: “… non ho paura di distruggere l’immagine perché il quadro ha una sua propria vita…”. È un organismo vivente. Non è azzardato ipotizzare che il processo vitale del suo accrescimento potrebbe espandersi teoricamente all’infinito. Un’idea che parallelamente Paul Klee esprimeva in questi termini: “È come se la materia venisse fecondata e ottenesse, poi, in forza di questo imperio, una sorta di vita propria”.1 Così commentava Klee un noto esperimento esposto nel suo trattato sulla “Teoria della forma e della figurazione”: Conoscerete forse tutti, l’eccitante esperimento delle figure prodotte da un suono. Si cosparge di sabbia fine un foglio di legno o una lamina di metallo. Facendo scorrere un archetto di violino sul bordo del foglio o della lamina, questi entrano in vibrazione. Tale incentivo a vibrare è l’evento essenziale, giacché induce la materia (la sabbia) a disporsi secondo una certa ritmica articolazione oscillatoria. Si ha, dunque, prima un impulso alla vibrazione ovvero una volontà o bisogno di dinamismo. Indi, una conversione nell’accadimento materiale e da ultimo, la sua espressione visibile in una stratificazione nuova della materia… Noi siamo l’archetto, la volontà di estrinsecazione: mediatrice è la materia, le figure di sabbia sono il risultato formale. La connessione fondamentale è tra archetto (vibrazione) e materia. È come se la materia venisse fecondata e ottenesse, poi, in forza di questo imperio, una sorta di vita propria. Osando un piccolo slancio di immaginazione non si fa fatica, a mio avviso, a trovare il naturale corrispettivo dell’archetto di violino esemplarmente evocato da Klee, in quel bastoncino brandito dalla mano vibrante di Pollock nel suo dripping nell’atto di tessere nell’aria gli intricati, fluidi filamenti di colore colati sulla tela. Michael Fried ha così descritto la conquista formale di Pollock: “La sua linea totalizzante non dà origine a zone positive o negative ... Non c’è esterno o interno alla linea di Pollock, né spazio nel quale si muove. E questo è come asserire che la linea, nei quadri realizzati da Pollock completamente con la tecnica del dripping nel 1947-50, è finalmente libera dal compito di tracciare contorni e definire forme”. Questa inedita prospettiva induce a guardare l’opera di Pollock con uno sforzo mentale ai limiti dei più arditi, funambolici voli di astrazione. Eppure, l’obliquità interpretativa suggerita da Fried nell’arduo tentativo di teorizzare un codice formale ben strutturato, soggiacente agli apparenti “scarabocchi” dell’artista, può trovare autorevoli spunti e validi riscontri negli importanti risultati conseguiti dalle ricerche 16


contemporanee di neurofisiologia della visione a seguito degli studi condotti dagli statunitensi David Hubel e Torsten N. Wiesel premi Nobel per la Medicina nel 1981. Nella corteccia cerebrale ove risiedono le aree di elaborazione visiva proveniente dalla retina, ogni cellula nervosa non è che “una piccola finestra che vede solo quello che può vedere”. La percezione della forma che siamo abituati a vedere come un tutt’uno, è invece, il risultato di un complesso mosaico di funzioni preposte all’integrazione dell’informazione dapprima frammentata nei suoi compositi elementi costitutivi (contorno, orientamento, variazione di luminanza o contrasto ecc.) per essere riorganizzata poi, dalle aree corticali di associazione.

Possiamo ragionevolmente ipotizzare che la ricerca di Pollock che a noi appare caotica, sintomo dell’insita problematicità del proprio animo, sia orientata invece a strutturare un coerente linguaggio dell’arte informale attraverso l’esplorazione profonda della complessa elaborazione che presiede ai processi della percezione visiva. Diversamente dal sognatore che si affaccia sulle immagini oniriche riaffioranti dall’inconscio, il pittore prima ancora di abbandonarsi all’evocazione immaginativa, dà forma all’architettura sensibile della propria interiorità. Un’operazione tutt’altro che autistica, chiusa in una rassegnata incomunicabilità, bensì propedeutica a qualsiasi pretesa di riconciliare il proprio Io al mondo. Aperta a sintonizzare il proprio intimo bioritmo con la vita pulsante nelle forme intorno a lui.

__________________________________________________________________________ Giungono illuminanti le osservazioni espresse dal critico d’arte Giulio Carlo Argan a proposito di un acquerello di Klee del 1910, per tentare di penetrare la segreta vitalità del colore che anima autonomamente l’arte astratta e informale prescindendo da ogni rimando a riconoscibili forme figurative. Argan sembrerebbe addirittura osare qui un’autentica codificazione organica del segreto DNA del colore che struttura lo spazio della composizione: 1

“Il rosso è un colore caldo e tende a espandersi; l'azzurro è freddo e tende a contrarsi. Kandinskij non applica la legge dei contrasti simultanei, ma la verifica; si serve di due colori come di due forze controllabili che possono essere sommate o sottratte e, secondo i casi, cioè secondo gli impulsi che riceve, si avvale di entrambi affinché si limitino o si esaltino a vicenda. Ci sono anche segni lineari, filiformi; sono, in un certo modo, indicazioni di movimenti possibili, sono tratti che suggeriscono la direzione ed il ritmo delle macchie che vagano sulla carta. Danno movimento a tutto l'acquerello.

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_____________________________________________ Come un Navajo È un sito d’arte del nostro tempo a introdurre il racconto, il Palazzo Venier de’ Leoni che affaccia sul Canal Grande di Venezia, noto per ospitare l’importante galleria d’arte moderna, unica in Italia, custodita nelle sale della Peggy Guggenheym Collection. Il motivo che ci ha portato ad inscenare la nostra performance nella singolare cornice della laguna veneta, nasce dall’occasionale celebrazione di Jackson Pollock, l’artista informale scoperto appunto, dalla famosa mecenate americana, che lo considerò il più grande pittore del ventesimo secolo accanto a Picasso, consacrandogli uno spazio di tutto rispetto nella preziosa collezione. Nell’omaggio a Pollock – recante il titolo di un suo quadro, Suoni nell’erba – ambientato al Centro Culturale Candiani, alcuni studenti del locale liceo veneziano “G.B. Benedetti” si affiancano ad Angelika, la ragazza alla quale è affidata la performance di action painting esibita ad un pubblico eterogeneo. [ https://vimeo.com/22027184 ] Angela fa scorrere il pennello sulle palpebre di Angelika. Una sottile maschera del colore della biacca, adombra il suo sguardo. Il maquillage accende una luce nivea nei suoi occhi. Gioca forse, un simbolismo nascosto? L’allusione ad un’alchemica Albedo ? Un attimo dopo, Angelika fa scivolare una lama proprio lungo la cornice di un quadro di Pollock. Rimuove con piccoli strappi, la tela dal telaio, nella generale apprensione degli spettatori spiazzati da un tale riprovevole rito sacrificale che tradisce un’incomprensibile accanimento di triste memoria iconoclastica. In questo quadro, Occhi nel caldo del 1946, l’artista non applica più il colore con il pennello, ma lo spreme direttamente dal tubetto sulla tela, lo spinge e lo spande con arnesi smussati per creare una crosta spessa ed irregolare. Lo sguardo scorre su larghe strisce di colore che piombano, sbandano, ripiegano, si alzano e cadono ritmicamente su tutta la superficie. Qua e là appaiono “occhi” di creature nascoste, a imitazione, nel loro brulichio, dell’incessante movimento degli occhi stessi dell’osservatore. 18


Come era presumibile fin dall’inizio, la tela ora inchiodata al pavimento, si mostra nient’altro che una ben modesta riproduzione, fugando qualsiasi ulteriore fraintendimento. Eppure, la semplice simulazione dell’atto doloso perpetrato con compiaciuta leggerezza, vale da sola a sollevare nel pubblico, la più indignata stroncatura verso tale provocazione dissacratoria. Agli occhi di qualche critico meno tollerante, la performance appare altroché un “omaggio”, semmai un oltraggio all’artista americano. Più tardi, Angelika commenterà così le sue intenzioni: “La tecnica del dripping (lo sgocciolamento della pittura direttamente dal barattolo), mi fa assomigliare ad una stravagante Spider-Woman intenta a tessere nella curiosa danza zoppicante sulla tela grande trenta metri quadri, un’enorme ragnatela tessuta da guizzi e fluide trame pittoriche direttamente in mezzo al pubblico. L’accostamento al ragno che fila lo stame mi porta alla mente l’impressione provata da Chiara Vitali di trovarsi dinanzi ad una “pittura quasi come secrezione organica”. Ma forse, la mia performance allude, prima ancora che alla rete ordita dal ragno, 1 piuttosto ai disegni di sabbia di un indiano Navajo che perso nella trance, traccia le geometrie di un intricato mandala con la tecnica dei gesti rituali calcolatissimi ereditati dall’ancestrale sapienza sciamanica. Oserei rubare a Pollock quanto dice a proposito della sua impressione di sentirsi più vicino al quadro disteso sul pavimento. Diceva: “mi pare di farne parte, poiché in questo modo posso camminargli intorno, lavorare su tutti e quattro i lati e letteralmente esserci dentro”. È impossibile non cogliere nelle modalità del suo singolare processo creativo, l’analogia con Paul Klee di cui parlavamo: “Noi siamo l’archetto di un violino che vibra … mediatrice è la materia, le figure di sabbia sono il risultato formale … È come se la materia venisse fecondata e ottenesse, poi, una sorta di vita propria.” Le metafore che verrebbe naturale richiamare nella nostra fantasia sono inesauribili, a cominciare dalle evocazioni mitiche legate all’immagine simbolica del labirinto di universale memoria arcaica, con le tante connesse personificazioni partorite dai miti. Così, l’ignara Angelika imprigionandosi suo malgrado nel bozzolo della danza del dripping potrebbe anche abbandonarsi al sogno di rinascere nella prodigiosa metamorfosi di un “angelica farfalla”. O piuttosto, nell’attraversamento dei labirinti mentali ai quali dà forma col colore, ha modo di identificarsi scambievolmente nel doppio ruolo interpretato da Teseo e da Arianna – al contempo, dell’eroe chiamato a stanare il mostro, e della donna che elargendo il filo rosso orienterà verso una possibile via di scampo dall’isidiosa trappola del dedalo –. … il quadro di Pollock più che riassumersi in un’opera finita, stimola l’osservatore ad intessere empaticamente uno stretto dialogo con l’autore, volto niente affatto a dipanare l’enigma nascosto nell’intrico dei suoi “scarabocchi”. Tutt’altro! Bensì, ad accrescere ancor più, quasi per uno spasmodico processo imitativo, nuova energia creativa, prolungando l’action painting virtualmente dentro di sé in un’infinita accelerazione dell’entropia generata dal dinamismo dei pattern compositivi. La tela funge così da palinsesto nel quale sebbene il gioco si affidi ad improvvisazioni pittoriche, nondimeno conserva la complessa memoria stratificata della scrittura dei segni, al pari delle improvvisazioni orchestrate da un musicista jazz. Così, ritagliata dal telaio, “imbrattata” con le vernici, la tela reduce da tanto umiliante travaglio, aveva insinuato nello spettatore il sospetto di un’azione intenzionalmente irriverente perpetrata per mano di Angelika prima, e Alexandra poi, ai danni di Pollock. Ma tali sospetti non tardano ad essere dissolti nella scena seguente più rassicurante, del gioco della body painting intrattenuto, un attimo dopo, da Dario e Laura. Essi animano un nuovo momento della performance che riporta alla mente, certe analoghe immagini di Ives Klein al Museo Guggenheim di Bilbao sul modello 19


dell’Anthropométrie dipinta nel periodo blu, improntando direttamente col colore i corpi delle modelle sulla tela. Dalla tela gettata sul pavimento il colore ora tracima sui loro corpi, come irrorati di linfa vivificante, riprendendo a circolare e a pulsare lungo i rivoli gioiosi filati dal dripping. Chi può dire se le improvvisazioni di questi nostri giovani “indiani navajo” non sarebbero, poi, andate a genio allo stesso Jackson Pollock? Sciamani del nostro tempo, indugiando in questa performance magico-tribale di body painting, i ragazzi sembrano interrogarsi sui limiti di una forma di comunicazione affidata esclusivamente alla spontanea empatia, alla fortuita corrispondenza emotiva da parte del pubblico. Meditando così, un’ultima volta sul fraintendimento degli “scarabocchi” dell’arte informale, ancor oggi condannata dal giudizio del pubblico mediocre ad un’asfittica autorefenzialità, i nostri ragazzi si interrogano sulle scarse probabilità di successo del loro progetto iniziale mirato a coinvolgere lo spettatore nel gioco della loro messinscena. Un gioco incentrato esclusivamente sulla sfera dell’esperienza corporea, chiusa nell’essenzialità di gesti creativi che sembrano adempiere segretamente ad un rito arcaico quanto quello dei Navajo. La sfera dai confini labili, subliminali, assolutamente soggettiva e intimamente vissuta, inaccessibile al mondo esterno.

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Angelika fa riferimento al simbolismo del labirinto e delle personificazioni mitiche correlate. Ne è un esempio, Arianna. Ma “Arianna è una forma di airagne (ragno), per metatesi della i … La nostra anima non è forse il ragno che tesse il nostro corpo?” [Fulcanelli, Il Mistero delle Cattedrali] 20


pensieri di Alexandra Giorlandino l’allieva che ha curato la nostra coreografia

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pensieri di Alexandra Giorlandino l’allieva che ha curato la nostra coreografia

[ https://vimeo.com/22027184 ] Soggetto fuori dal tempo, proprio perché in tutti i tempi. Soggetto/oggetto sempre posseduto, eppure irreparabilmente smarrito dalla notte dei tempi. Il fluire della pittura, l’essenza dell’essere nella sua ricerca, il guardare oltre i punti cardinali del nostro orizzonte ordinario, oltre ogni riferimento antropomorfo per poi poter risalire alla spirale cosmica, attraverso la magia del gesto del dripping, in una sorta di esaltato ed esaltante balletto. Fare parte del quadro, quale unico pianeta abitabile concesso al pittore, atomo opaco di uno spazio dai confini sfuggenti e intricati come un labirinto. Simile all’arciere zen,1 al quale allude Henri Cartier Bresson, nelle sue lezioni di fotografia come nobile arte di penetrare l’intima anima del mondo, l’artista si trova a scandagliare con i calcolati gesti di una sapiente tecnica antica, le geometrie ottiche del complesso mondo che va prendendo corpo nella tela la tela sul pavimento, e centra, infine, il suo bersaglio, allineando nella perfetta traiettoria del segno, la mano e l’occhio, al cervello e al cuore. Nell’“omaggio a Jackson Pollock”, rito, body painting, ritmi tribali, innescano l’azione dinamica ambientata all’interno dell’installazione costituita da telai, luci, grandi quadri e tele riverse sul pavimento ancora bianche. Non una statica scenografia bensì un’installazione dinanzi alla quale l’osservatore stesso non può starsene passivamente, soffermandosi magari a contemplare i dipinti. Per coglierne il significato nel contesto della performance è costretto invece, ad esplorarla, a transitare dentro di essa e interagire in qualche modo. L’installazione implica una riflessione sulle modalità di ricezione dell’arte da parte del suo pubblico. L’esperienza derivante dall’impatto emotivo viene attivamente elaborata dal fruitore e la comunicazione che si istituisce non è niente affatto unilaterale. Tra pittura e spettatore c’è sempre una tacita complicità, la partecipazione ad un gioco paragonabile a quel dispositivo ottico, il caleidoscopio, nel quale l’occhio proietta immagini organizzate in inesauribili fantasiosi pattern. Quella che un’eloquente metafora Ernst H. Gombrich definisce il gioco della “culla di spago” nell’esposizione dei suoi interessantissimi studi sull’Arte. La curiosa definizione nasce in analogia ad un gioco un tempo diffuso tra i bambini, consistente nel dipanare una cordicella dalle mani di un giocatore all’altro con un abile gioco di intreccio delle dita, variando ad ogni passaggio lo schema dell’intreccio che si viene a creare. Accompagnando la performer lungo il tunnel dei quadri impietosamente squarciati d’infilata l’uno dietro l’altro, si resta disorientati. Non riuscendo ad intendere le ragioni di un tale accanimento iconoclasta, potremmo essere indotti a cogliere un’esasperata insofferenza verso i limiti stessi della pittura. Forse, per quanto discutibile e paradossale possa apparirci, quella lama che fende la tela, eco dei tagli di Lucio Fontana, intende liberare la pittura dai confini obbligati della cornice e della artificiosa, illusoria bidimensionalità del quadro per aprirlo al respiro della natura. O forse, dovremmo riuscire ad intuire dietro l’insulso gesto della performer una volontà di intimo dialogo con la tela sebbene espressa in modo quasi caricaturale, entrandoci dentro fisicamente! Non è pura astrazione ritenere che esperienze di tale impatto simbolico, arrivino a coinvolgere il pubblico in un vero rito del nostro tempo, legittimando in chi si addentri nel mondo remoto della conoscenza esoterica dell’Alchimia,2 una certa analogia con le vie dell’iniziazione da essa battute, sulle orme di un viaggio in cui si finisce per annullare il proprio io, ma solo per dare vita alla Vita. Un viaggio per andare alla riscoperta (più che scoperta) del mondo lungo inesplorati 22


sentieri, attraverso la sospensione della logica di una quotidianità troppo angusta, alla quale ci siamo assuefatti, pur vivendola, nostro malgrado, in maniera angosciosa, sospesi sul filo del rasoio. Disabituarci all’ovvietà dei luoghi comuni, e sperimentare i nuovi-antichi sentieri di iniziazione, per poter, poi, finalmente rinascere, andando incontro a verità sfuggenti alla coscienza vigile, forse, in virtù della loro stessa disarmante semplicità. E in che modo mai rinascere se non attraverso una metamorfosi, osata oltre l’area dei nostri sensi, anche se proprio da essi trae linfa. Il nostro corpo, manifestazione dell’anima, coinvolto nell’esperienza senza fine dei sensi in un gioco inebriante di suoni, colori, odori, gusti particolarmente pungenti, può infine scoprire nella nostra performance l’eccitazione della palingenesi di una nuova identità riaffiorando epidermicamente nelle correnti dell’arte contemporanea, sotto forma di body art, che amo però, rappresentare nell’accezione di un’autentica cosmesi rituale. La cosmesi rivela in questa chiave interpretativa, la sua funzione sacra, mai ingannando lo specchio con maschere mistificatorie, di una seduzione sviante, bensì rivelatrici dell’intimo “cristallo dell’anima”. Il brano di Aurelio Pes tratto dal “Secretum di Eleonora d’Aragona”, svela i “ritmi” ancestrali evocati dalla magia cosmetica del suo maquillage che come profumi, si espandono nell’Etere in fragrante sintonia con la sottile quintessenza della Natura. Il colore del bistro che adorna i suoi occhi, rubato alla fuliggine e ai gusci delle mandorle carbonizzati, al nero della stibina e alla galena o al verde delle resine delle conifere, è alchenicamente trasmutato in un’udibile armonia che si effonde nel cosmo intero. Colgo l’occasione per ringraziare Aurelio Pes3per aver prestato attenzione al nostro lavoro, suggerendo chiavi di lettura assolutamente inattese, per imparare a guardare meglio dentro noi stessi.

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La fotografia intesa come esperienza personale ed artistica esigente, non lascia margine di errore. La “noncuranza dell’occhio” non può in nessun caso, essere corretta dall’aggiustamento dell’inquadratura in fase di stampa, a meno di non voler arbitrariamente tradire il reale e l’emozione originaria. Nell’atto fotografico si tratta, come scriverà nel libro Flagrants délits, di “allineare nella mira la testa, l’occhio e il cuore”. “La foto consiste innanzitutto nello scatto: fare il vuoto e mirare con precisione, diventare lastra sensibile e impressionarsi completamente. Il segreto sta nella concentrazione. Bisogna dimenticare sé stessi”, dichiarerà ancora, rimandando i giovani fotografi in cerca di consigli, al libro di Heugen Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco , che considera un autentico “manuale di fotografia”. 2 Spesso si sono tentate interpretazioni dei segni del quadro alla Peggy Guggenheim Collection, basandosi sul titolo Alchimia, titolo che però non è stato dato da Pollock, bensì da Ralph Manheim a da sua moglie, vicini di Pollock a East Heampton. 3

In occasione della presentazione del progetto “Il sogno di Polifilo” a Giardini Naxos, in seno alla Rassegna di cultura classica “Extramoenia” 2002, tenuta al Liceo “Caminiti” di Giardini Naxos.

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Jackson Pollock aveva partecipato a un seminario tenuto dall’artista americano David Alfaro Siqueiros, specializzato nella produzione dei murale. In quel caso aveva notato quanto il muralismo si differenziasse dalla pittura sfumata e tonale della tradizione occidentale per puntare su una gamma limitata e violentissima di colori con l’uso preponderante dei primari. In quell’epoca, l’osservazione della violenza espressiva del colore, in grado di trasformarsi in un urlo cromatico, si unì ad un imprinting fondamentale per l’artista: il ricordo della pittura di sabbia, praticata, a livello di rappresentazione magica, da parte dei nativi americani che egli aveva visto, per la prima volta, accompagnando il padre, agrimensore, durante un sopralluogo nella regione. Nel 1941 egli visitò più volte la mostra Indian Art and the United States, partecipando, come osservatore, alle diverse dimostrazioni pratiche compiute da stregoni, che lavoravano con un distacco dalla realtà simile a un’esperienza di trance. I nativi americani, come avremo modo di vedere in due documentari,1 uno dei quali nel 1949 – e pertanto negli anni in cui Pollock già produce i propri lavori di action painting – si basa sull’uso di polveri e sabbie dai colori diversi. I pittori-sciamani creavano, come base effimera, una base di sabbia appiattita e resa liscia, trascinando su di essa un’asse. A questo punto attingevano a diverse polveri, sabbie e pigmenti, racchiudendo ogni polvere in un pugno e lasciando poi scivolare, per caduta simile a quella della sabbia in una clessidra, sul preparato di sabbia chiara. Ma se il gesto può apparire simile, gli indiani d’America, componevano, per cadute opere molto ordinate, nelle quali figure antropomorfe erano collegate ad elementi geometrici. Il disegno, a differenza della pittura di Pollock, è molto ordinato poiché riporta ad ordine le forze del caos che ostacolano l’umanità in un percorso di serenità esistenziale. Essi andavano cioè a comporre le forze del caos, costringendole all’ordine della divinità e degli spiriti, come avviene nei mandali, nei tappeti orientali o nei mosaici della tradizione occidentale. In Pollock, al contrario, il gesto diviene espressione dell’Es, ribellione, azione espressiva che infrange le regole dell’arte occidentale, in una geometria del caos che, si è detto, ha anticipato gli studi dei frattali e la non linearità delle tradizionali scienze di misurazione del mondo. http://www.stilearte.it/i-capolavori-degli-indiani-navajos-realizzati-con-la-sabbia-avrebbero-ispirato-pollock-eccoli/

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Questo dipinto presenta un momento della cerimonia navaho del Canto della Montagna, che dura ben nove giorni. Tra gli antichi cerimoniali di medicina primitiva e di pittura su sabbia che hanno luogo presso gli Indiani d'America, quelli dei Navaho sono tra i piÚ pittoreschi. In tali cerimonie si ritrovano tutti gli elementi della medicina primitiva: religione, magia, canti, interventi fisioterapici e psicoterapeutici, nonchÊ impiego di medicinali. Dopo che la pittura su sabbia è stata completata, il paziente ci si siede sopra. L'uomo di medicina, o 'cantore', canta, prega e utilizza manufatti magico-religiosi e polveri sacre. Al paziente vengono dati alcuni sorsi di decotti di varie erbe, condivisi anche dall'uomo di medicina e dagli astanti. In seguito, sul corpo del malato vengono applicati dei pezzetti di pigmenti colorati, mentre si inalano i fumi di erbe aromatiche sparse su dei carboni ardenti. La famiglia e gli amici fanno da testimoni e si uniscono alle cerimonie, le quali hanno luogo in una hoogan a uso medico. Antonio Molfese, Storia della Medicina per immagini http://torremolfese.altervista.org/medicina/page1.htm

NOTA 1 LINK

documentari sui riti Navajo Painting with Sand: Navajo medicine man, 1949 https://www.youtube.com/watch?v=M6qf7y-QOvg

Navajo Sand painter, silent footage of tribal ritual,1941 https://www.youtube.com/watch?v=fcYYj7Ye6_A

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Ringraziamento Alle persone già ricordate in premessa dal nostro Preside Santo Giovanni Torrisi, in rappresentanza di prestigiose istituzioni, desidero estendere il mio ringraziamento agli allievi del Liceo “C. Caminiti” che hanno, disinteressatamente condiviso lo spirito del progetto: Alexandra Giorlandino, Laura Puglisi, Dario Barbera, Valerio Sciacca, Marilena Leone, Dario Delfino, Rosario Alì, Maria Grazia Nicotra, Melania Raneri, Elisa Gambacorta, Elisa Messina, Edoardo Liotta, Marco Patti, Soraya Scuderi, Giuseppe Cunsolo, Sergio Del Popolo, Antonino Millimaci, Giovanna Costa. Analoga gratitudine va agli allievi del Laboratorio teatrale del Liceo “G.B. Benedetti” di Venezia: Auro Cavalcante, Elisa Pinelli, Marta Canino, Bruna Pietracci, Giulia Ramacciotti, Marco Bertoldi, Tobia Zaffalon, Jacopo Franceschet, Valenti Albazati, Marta Pescolderung. Ad Angela Belardo e Angelika Finocchiaro, Loredana Patti dell’IPSIA di Giarre (Catania). Salvatore Scandurra del DAMS di Bologna. L’impegno costante mirato a costruire una propria autonoma sensibilità culturale, imparando a socializzarla e tradurla in fattiva progettualità, ha richiesto certamente un’innata generosità d’animo. Ringrazio Daniela Ferretti, curatrice della Mostra “JACKSON POLLOCK a VENEZIA”, alla cui consolidata esperienza è stata affidata la responsabilità di allestire un evento espositivo di tale rilievo storico. Esprimo tutta la mia riconoscenza ai colleghi del Liceo “G.B. Benedetti” di Venezia coordinati dal Prof. Giovanni Florian e Renato Bertoldi, per l’ospitalità offerta ai nostri ragazzi, l’attenzione e la fiducia accordata al progetto. Desidero ricordare Aurelio Pes, direttore dell’Ufficio Speciale per la valorizzazione del Patrimonio Culturale e Turistico dell’Assessorato Beni Culturali ed Ambientali di Palermo, per l’incontro tenuto con i nostri allievi. Difficilmente dimenticheranno l’amorevole attenzione con la quale il nostro sensibile scrittore ha sviscerato alla moviola, momento per momento, l’esperienza messa in scena per l’Omaggio a Pollock. Un affettuoso grazie va al carissimo amico Giuseppe Pennisi, ex allievo del “Caminiti”, per l’ininterrotta, impagabile collaborazione offerta a tutt’oggi nell’editazione e diffusione in rete di ogni nostro progetto culturale. Non mi perdonerei mai la deplorevole omissione da questo elenco, del tecnico di laboratorio Bruno Chillemi per l’imprescindibile apporto e il sincero entusiasmo con cui ha condiviso le finalità del progetto, nonché dell’amico Stefano Famà per le riprese della performance e del maestro Orazio Barbagallo. Tengo a rappresentare la mia gratitudine per la generosa ospitalità nei prestigiosi siti d’arte a Venezia, il Dott. Philip Rylands, direttore del Solomon R. Guggenheim Foundation, assieme alla Dott.ssa Caterina Macantoni e a Cristina Stevanato, al Museo Correr e al Centro Culturale Candiani di Mestre. Un ringraziamento particolare al Prof. Antonio Balestra, Dirigente dei Licei Artistici “Renato Cottini” di Torino e “Felice Faccio” di Castellamonte per la generosa ospitalità alla futura presentazione del progetto in Piemonte, nonché al Prof. Giuseppe Labarbera, docente di Anatomia Artistica presso l’Accademia di Belle Arti di Catania. Desidero infine, ricordare il Prof. Nello Toscano per la preziosa consulenza sui rapporti tra la musica jazz e il contesto artistico contemporaneo a Pollock, nonché Valerio Sciacca e Marilena Leone, ex allievi del nostro liceo, protagonisti della performance, che collaborano quest’anno nella nuova veste di artisti professionisti, alla coreografia in omaggio a Pollock.

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OMAGGIO a JACKSON POLLOCK 20016 __________________________________________________________________________________

La presentazione del libro che illustra il progetto didattico sarà tenuta presso:

il Liceo Artistico “RENATO COTTINI” di Torino il Liceo Artistico “FELICE FACCIO” di Castellamonte l’ Accademia di BELLE ARTI di Catania Nella foto, VALERIO SCIACCA e MARILENA LEONE ex allievi del liceo protagonisti della performance, ora artisti professionisti, saranno autori della nuova coreografia in omaggio a Pollock

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Agli Ex 15enni del '63, inseparabili compagni del Liceo Artistico di Napoli ______________________________________________________________________________________________________________________________

Volendo osare un bilancio dell’attività che come molti miei inseparabili compagni di studi ho avuto il privilegio di svolgere nella mia vita in mezzo ai giovani, è motivo di orgoglio per noi ex 15enni del '63, aver tentato nel ruolo di educatori, di costruire un’intesa, una continuità intergenerazionale improntata al dialogo, in forza della passione per l’Arte impartitaci da ottimi maestri già negli anni per noi magici, del Liceo Artistico di Napoli. Altrettanto importante è aver incoraggiato i giovani a maturare, proprio sensibilizzandoli ad una costante ricerca della Bellezza, un atteggiamento di apertura, comprensione e interiorizzazione verso i valori dell’altro, nel desiderio di espandere i limiti del proprio universo e arricchire il patrimonio culturale individuale, senza esitare di mettere in discussione quelle certezze in cui rischiamo di rimanere arroccati incolpevolmente, talvolta per superficiale, abitudinaria indolenza. Che la nostra sia la professione più bella del mondo è attestato dalle finalità stessa alla quale è indirizzato l’impegno dell’educatore, quello di liberare nei giovani le sopite energie creative, quelle intime pulsioni alla base dell’innata disposizione a cogliere la Bellezza, ognuno attraverso mezzi espressivi congeniali al proprio temperamento e l’apprendimento critico dei linguaggi contemporanei dettati dalle nuove tecnologie multimediali. 95


L’educazione artistica dispiega le ali gioiose al proprio istinto creativo. Al contempo, impegna ad intraprendere un percorso di profonda conoscenza storicoumanistica della complessa anima dell’artista per capirne il mondo di valori al quale attinge il travaglio dell’ispirazione. Non meno impervia si rivela l’intima via per pervenire ad una lucida consapevolezza delle proprie autentiche vocazioni, incanalandole opportunamente laddove si rivelino insospettati talenti. Quanto abbiamo tentato di seminare nel corso dell’intera carriera, nella legittima aspettativa di contribuire alla costruzione di un mondo migliore non può né deve essere mai sminuito dal generalizzato, incombente pessimismo che sembra addensare nuvole sempre più cupe sugli inquietanti scenari del futuro della società. Pur consapevoli che tutto l’impegno profuso nella qualità di educatore verso gli studenti, nostri figli, non basterà da solo a proteggere la nuova generazione dalle insidie che si affacciano all’orizzonte, profilando crisi di proporzioni planetarie. Né è possibile a chicchessia tacere il fondato timore di una deriva delle aspirazioni di civiltà e di democrazia delle società mortificate oggi dal disastroso lascito di governi rivelatisi inidonei a prevenire l’incancrenirsi di contraddizioni e ingiustizie sociali divenute pericolose. Ad alimentare tale smarrimento concorre la sfiducia nelle istituzioni e lo sconcerto sia per l’inconcludente litigiosità che imperversa nel panorama politico sempre più autoreferenziale, sia per un diffuso, stagnate immobilismo indotto non di rado strumentalmente e che spiana il terreno al prosperare incontrollato degli interessi esclusivi di pochi. Mentre monta l’esasperazione per le aspettative tradite e il futuro negato alle nuove generazioni alle quali stiamo consegnando con un atto di irresponsabilità senza precedenti, l’eredità di un dissesto inestinguibile: le macerie di un Paese devastato impunemente dalla miopia dei nostri governi nonché da una patologica avidità che ha esteso oramai inestirpabili metastasi nel sistema. Proprio per l’impagabile fortuna di aver potuto in tempi più propizi, esercitare una professione così gratificante, non mi stancherò mai di esprimere la mia riconoscenza, felice di godere del rapporto umano mai interrotto con i miei ragazzi pur attraversando ben più di una generazione. Mentre essi a loro turno, rischiano invece, l’ingrato destino di ritrovarsi senza alcuna dignitosa collocazione nel mondo lavorativo, saggiando l’amara disillusione della propria assoluta impotenza ad incidere sul loro incerto futuro e tanto meno sugli orientamenti delle scelte politiche che sarebbero auspicabili. Tale dignità professionale offerta certo da un benevolo destino, ha costituito indubbiamente una rara opportunità per poter esprimere in modo propositivo il nostro proprio contributo sociale alla crescita delle future generazioni. Ed è fonte di inquietudine oggi il doloroso disincanto di veder naufragare il nostro progetto educativo; assistere da passivi spettatori alla condanna di questa generazione ad uno stato di perenne precarietà che porterà ognuno a rinserrarsi comprensibilmente in un sempre più rassegnato individualismo, a dar sfogo all’intollerabile insofferenza divisi in accese tifoserie rivali abilmente rinfocolate dai politici di turno.

Elviro Langella

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Finito di stampare nel mese di settembre 2003 presso la Tipografia-Litografia “ETNA” Fiumefreddo di Sicilia (Catania) __________________________________________

ISBN – 978-88-902110-6-5

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