Novella Gazich Manuela Lori con la collaborazione di
Filippo La Porta
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Edizione azzurra
L’amorosa a inchiesta Dalle origini al Trecento
EDUCAZIONE CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida equilibri
PARITÀ DI GENERE #PROGETTOPARITÀ
ORIENTAMENTO
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Gruppo Editoriale ELi
Il piacere di apprendere
Novella Gazich Manuela Lori
L’amorosa inchiesta 1a con la collaborazione di
Filippo La Porta
Edizione azzurra
Gruppo Editoriale ELi
Il piacere di apprendere
Dalle origini al Trecento
secondo le NUOVE Linee guida
L’insegnamento dell’Educazione civica attraverso le nuove Linee guida e la valorizzazione delle soft skills
Le nuove Linee guida per l’insegnamento dell’Educazione civica introducono significativi cambiamenti e importanti integrazioni: i nuclei tematici attorno ai quali si articolano le competenze e gli obiettivi di apprendimento, Costituzione, Sviluppo economico e sostenibilità e Cittadinanza digitale, sono stati aggiornati e ampliati. Le Linee guida sono ispirate ai diritti, doveri e valori costituenti il patrimonio democratico della Costituzione italiana, considerata il riferimento assoluto per promuovere la crescita individuale e la partecipazione politica, economica e sociale di ciascuno, all’interno del nostro Paese e dell’Unione europea. Il Gruppo Editoriale ELi promuove nei suoi volumi, attraverso testi, attività, video, immagini, l’educazione e il rispetto dei diritti fondamentali che devono essere garantiti a ogni persona, valorizzando solidarietà, responsabilità individuale, uguaglianza, libertà, lavoro, lotta alla mafia e all’illegalità e consapevolezza dell’appartenenza a una comunità. L’attenzione alle competenze, cognitive e non cognitive (soft skills), completa l’impegno dell’Editore nella formazione di cittadine e cittadini consapevoli e responsabili.
equilibri #PROGETTOPARITÀ
Il nostro impegno per l’inclusione, le diversità e la parità di genere
La parità di genere è il quinto dei diciassette obiettivi dell’Agenda 2030 e mira a ottenere la parità di opportunità tra donne e uomini nello sviluppo economico, l’eliminazione di tutte le forme di violenza nei confronti di donne e ragazze e l’uguaglianza di diritti a tutti i livelli di partecipazione. Il Gruppo Editoriale ELi in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata ha creato un programma di ricerca costante mirato all’eliminazione degli stereotipi di genere all’interno delle proprie pubblicazioni. L’obiettivo è di ispirare e ampliare gli scenari delle studentesse e degli studenti, del corpo docente e delle famiglie fornendo esempi aderenti ai valori di giustizia sociale e rispetto delle differenze, favorendo una cultura dell’inclusione. Ci impegniamo a operare per una sempre più puntuale qualificazione dei libri attraverso: CONTENUTI
attenzione ai contenuti al fine di promuovere una maggiore consapevolezza verso uno scenario più equilibrato da un punto di vista sociale e culturale;
IMMAGINI
valutazione iconografica ragionata per sensibilizzare a una cultura di parità attraverso il linguaggio visivo;
LINGUAGGIO utilizzo di un linguaggio testuale inclusivo, puntuale e idoneo a qualificare i generi oltre ogni stereotipo.
L’amorosa inchiesta Dentro la letteratura Il significato di un titolo Nessuno sa creare affascinanti metafore come Ludovico Ariosto. Per questa letteratura abbiamo così scelto come titolo proprio un’espressione ariostesca, densa di possibili significati metaforici: “l’amorosa inchiesta”. Nell’Orlando furioso l’”amorosa inchiesta” è la ricerca della perduta Angelica da parte del paladino Orlando, motivata dall’amore che prova per lei. Ma forse anche noi oggi (chi opera nella scuola, chi scrive libri per la scuola) abbiamo perduto qualcosa di importante e vogliamo tentare, come Orlando, di ritrovarlo: il senso della letteratura o meglio il senso della letteratura a scuola, spesso marginalizzata da una visione pragmatica della formazione scolastica, che privilegia saperi immediatamente fruibili nella vita pratica e professionale, sminuendo tutto ciò che è passato. L’ ”amorosa inchiesta” è allora per noi innanzitutto allusivo alla ricerca appassionata che la letteratura da sempre ha compiuto, attraverso le tante voci che la popolano, per trovare un senso alla vita, per rispondere agli interrogativi che l’umanità di ogni tempo si pone. L’ ”amorosa inchiesta” vuole riferirsi anche all’atteggiamento che vorremmo che le ragazze e i ragazzi, come moderni “cavalieri erranti”, assumessero, entrando nell’universo labirintico della grande letteratura: non la passiva assunzione di dati, ma un atteggiamento interrogativo, curioso, esigente, per scoprire, insieme ai loro insegnanti, attraverso i testi letterari, piste da percorrere in un cammino che non è solo culturale, ma può e deve essere anche esistenziale e di orientamento per elaborare un progetto di vita e sostenere le relative scelte. L’ ”amorosa inchiesta”, infine, è la prospettiva che ha ispirato la progettazione di questa opera e ne ha motivato le scelte: il tentativo, forse utopistico, di suscitare curiosità, emozioni, interesse verso un patrimonio culturale, quello della secolare storia della letteratura, che ha ancora tanto da dire, così da ridare un senso centrale nella scuola di oggi alla lettura e interpretazione dei testi letterari.
La letteratura come “atlante delle emozioni” Recentemente è emerso nella riflessione didattica un volto della letteratura a lungo misconosciuto e a cui abbiamo cercato di dare spazio: quello di strumento chiave per attivare la conoscenza di sé e per sviluppare nella classe l’ “intelligenza emotiva”, cioè la capacità di riconoscere e descrivere in modo appropriato le emozioni proprie e altrui, così da saperle poi gestire e da assumere verso gli altri un atteggiamento di empatia.
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Senza la competenza emotiva si è facilmente vittime delle pulsioni, mentre saper identificare la paura, l’ansia, la frustrazione porta a ottimizzare le proprie risorse interiori, porta a saper gestire le situazioni problematiche che di certo non mancano nella fase adolescenziale. Ma la letteratura cosa ha a che fare con ciò? Attraverso i testi, i personaggi dei romanzi e le biografie stesse delle autrici e degli autori, la letteratura si presenta come la più straordinaria galleria delle emozioni che esista, a cominciare da Orlando che, da ingessato eroe al servizio della “guerra santa”, in nome di un amore malato, sperimenta via via nella sua “inchiesta” la delusione, l’autoinganno, la disperazione, la rabbia incontrollata e infine la degradazione della follia. Nelle emozioni rappresentate dalla letteratura di ogni tempo la classe, attraverso processi di identificazione, può riconoscere le proprie, può vivere altre vite da un osservatorio privilegiato e protetto e acquisire così gradualmente una competenza emotiva oggi riconosciuta sempre più importante. Perché questo avvenga, occorre però favorire l’incontro tra giovani lettori e testi letterari, respingendo una visione della letteratura come immutabile museo delle cere, interrogando i testi, come abbiamo cercato di fare, anche sotto il profilo emozionale e presentando le biografie delle autrici e degli autori, grandi e meno grandi, non come freddo insieme di nozioni da imparare, ma come racconti di vite vissute, con gioie, dolori, passioni, ma anche limiti e debolezze, come è la vita per ogni essere umano.
La letteratura come lettura del mondo Accanto alla competenza emotiva, alla conoscenza di sé, non è certo meno importante la capacità che gli studenti devono acquisire di interpretare il proprio tempo, i miti e i modelli di comportamento che lo governano. Anche in questo ambito la letteratura può e deve avere un ruolo fondamentale. La letteratura vive infatti nel mondo e il mondo rappresenta attraverso i testi e la personale interpretazione, il personale sguardo, di chi scirve. Perché la letteratura possa diventare strumento chiave di interpretazione critica del presente va costantemente ricercata e proposta, come abbiamo cercato di fare, l’interazione tra tendenze letterarie e visione del mondo, modelli comportamentali, nuclei dell’immaginario presenti nelle varie epoche. Questa visione coesa del sapere oltre tutto risulta, a nostro parere, molto più motivante per gli studenti e le studentesse di oggi che non lo studio asettico di autori e correnti a se stanti.
La letteratura come educazione ai valori civili I grandi temi socio-politici, le dinamiche del potere, la disuguaglianza, i rapporti tra le generazioni, la condizione femminile, l’ambiente, il valore dell’istruzione, non sono certo estranei alla letteratura e sono ben presenti sia nelle scelte testuali, sia nelle parti esercitative di questa opera: essa non si propone di formare specialisti in campo letterario, ma cittadini e cittadine consapevoli, sensibili ai valori civili e ai diritti dell’umanità. Gli autori
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Attraverso il libro
L’amorosa inchiesta
Struttura del testo Questa nuova storia e antologia della letteratura italiana prevede una struttura composta da Scenari socio-culturali e Capitoli. Gli Scenari analizzano l’interazione della letteratura con la cultura, con la società e con i grandi temi e sono suddivisi in quattro sezioni: 1. La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2. I modelli del sapere e le tendenze filosofico-scientifiche 3. I caratteri e le forme della letteratura (nelle diverse epoche); il dibattito culturale 4. L’evoluzione della lingua La trattazione degli Scenari è anticipata da una sezione, Sguardo sulla storia, dedicata a ricostruire il contesto storico con immagini e cronologia interattiva. Gli Scenari si chiudono con un percorso intitolato Libri, lettori, lettura ed uno spazio rivolto all’Arte, presentato con schede informative di inquadramento del periodo e letture iconologiche di opere esemplari per i vari periodi cronologici. I capitoli sono dedicati a generi, autori o temi ed i materiali sono organizzati in modo da creare una forte interazione tra profilo e testi. Sono presenti sia testi (T) sia documenti (D), entrambi con numerazione progressiva indipendente. I testi sono commentati mediante l’Analisi del testo, mentre per i documenti sono messi in evidenza solo i Concetti chiave. • Nei testi o nei documenti che presentino tematiche riconducibili a temi
di EDUCAZIONE CIVICA questo aspetto è messo in evidenza. Nella parte degli esercizi relativi al brano c’è almeno un’attività finale che chiede di lavorare su quest’aspetto.
Le rubriche Il testo è corredato da numerose rubriche: • Parola chiave : definisce in sintesi le idee guida, i motivi di un’epoca, di un genere o
dell’universo tematico di un autore. • PER APPROFONDIRE : schede che consentono al docente o allo studente di
approfondire maggiormente un aspetto della trattazione, senza creare eccessive digressioni nel profilo. Gli approfondimenti sono sempre posizionati vicino alla parte del profilo da cui scaturiscono. • VERSO IL NOVECENTO : ai testi del passato si accostano testi del Novecento e oltre, scelti
per l’affinità dei temi trattati o a volte anche per contrasto, per evidenziare come certe esperienze o sensazioni ritornino nel tempo o si trasformino, assumendo nuovi significati in un’ottica di intertestualità;
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ATTRAVERSO IL LIBRO
• EDUCAZIONE CIVICA secondo le Nuove Linee Guida / PARITÀ DI GENERE : l’attenzione a quest’aspetto
è stata tradotta in due direzioni. Tutti i testi antologizzati che presentino tematiche riconducibili ai tre nuclei: Costituzione, Sviluppo economico e Sostenibilità e Cittadinanza digitale e le relative competenze contenute nelle Nuove Linee Guida per l’insegnamento dell’educazione civica o ai Global Goals (17 obiettivi) dell’Agenda 2030, sono segnalati con evidenza. Questa indicazione è completata nella parte degli esercizi relativi al brano con almeno un’attività finale che chieda di lavorare su questi aspetti. Inoltre sono state realizzate schede di educazione civica su temi di interesse collettivo come la diversità, la parità di genere, la guerra, seguite da spunti di riflessione o attività didattiche; • LEGGERE LE EMOZIONI / EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI : questa rubrica intende stimolare nei
giovani la competenza emozionale e relazionale, in modo che la riflessione su loro stessi, sul loro vissuto personale e sulla realtà che li circonda li aiuti a crescere con maggiore consapevolezza; • Sguardo su… : è fondamentale comunicare l’idea che il sapere non sia isolato, ma
che dialoghi in continuazione anche con ambiti diversi. Nel manuale vengono dunque istituite numerose connessioni tra la letteratura e altre discipline come Storia, Filosofia, Arte, Letterature straniere, Musica, Teatro e Cinema; • Testi in dialogo : a numerosi testi vengono accostati brani di altri autori; questo
perché si ritiene che il confronto sia prezioso, per sviluppare capacità critiche e riflessive che servono per orientarsi meglio nelle scelte di vita; • INTERPRETAZIONI CRITICHE/INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO : il testo propone
numerosi passi critici legati alla trattazione o ai testi, scelti in base a una reale accessibilità di lettura e comprensione per gli studenti. I passi scelti vengono presentati sotto due forme: o un passo di un solo critico (Interpretazioni critiche) o passi di due critici messi a confronto sul medesimo tema (Interpretazioni critiche a confronto); la parte esercitativa di entrambe è stata concepita come tipologia B dell’esame di Stato, per far esercitare sull’analisi e la produzione di un testo argomentativo; • I LUOGHI DELLA CULTURA : mette in evidenza i luoghi-simbolo del periodo di
riferimento a seconda dei secoli analizzati sia attraverso la descrizione dei luoghi (monastero, castello, corte ecc.) sia attraverso le immagini.
Apparato didattico • Esercitare le competenze : i testi antologizzati sono corredati da un apparato
suddiviso in due parti: “Comprendere e analizzare” e “Interpretare”. Nel “Comprendere e analizzare” sono stati inseriti esercizi di parafrasi, sintesi, comprensione, tecnica narrativa, analisi, lessico e stile; nell’”Interpretare” esercizi di scrittura, scrittura creativa, scrittura argomentativa, esposizione orale, testi a confronto e competenza digitale. Le attività proposte sono volte al consolidamento delle competenze di lettura, di scrittura e di analisi testuale. • Verso l’esame di Stato : vengono proposte, sia in itinere sia in alcune zone di ciascun
volume, prove simili a quelle previste per la prima prova dell’esame di Stato secondo le tre tipologie A, B e C; • Zona competenze : al termine degli Scenari e di ciascun capitolo sono proposte attività
che attivano competenze trasversali, disciplinari e interdisciplinari in situazione nuove e per compiti svolti in autonomia, in forma individuale o di gruppo. ATTRAVERSO IL LIBRO
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Nell’opera è offerta inoltre una serie di supporti allo studio per favorire un apprendimento consapevole e duraturo. • Fissare i concetti : al termine di parti significative di profilo negli Scenari e nei
capitoli di genere/tema e al termine di ciascun autore vengono proposte domande che servono allo studente per individuare i punti chiave della trattazione, per ripassare i passaggi più significativi e per esercitarsi nell’esposizione orale. • Analisi passo dopo passo : annotazioni esplicativo-critiche, a lato del testo, che ne
accompagnano la lettura e aiutano a visualizzarne i principali elementi tematicostilistici. • Collabora all’analisi : consiste in un coinvolgimento diretto del giovane lettore nel
processo interpretativo: l’analisi, che segue le tradizionali partizioni (Comprendere e analizzare e Interpretare), “dialoga” attraverso specifiche richieste con lo studente, in modo tale che lo stesso studente dia il proprio contributo attivo al lavoro sul testo. • Lessico : sono stati inseriti nel corso della trattazione dei riquadri laterali di
definizioni in cui si spiegano i concetti più complessi o si definiscono termini specialistici o disciplinari. • Sintesi : alla fine di ogni capitolo sono state poste le sintesi, anche in formato audio,
che riassumono i contenuti principali della trattazione. Esse rappresentano un utile contributo per lo studio, la memorizzazione e il ripasso. • Studiare con l’immagine : pitture, sculture, fotografie corredate di didascalie ricche
e interessanti consentono la percezione immediata, visiva, di alcuni aspetti della letteratura e del suo contesto storico: attraverso l’immagine si riflette per comprendere meglio l’autore, l’opera o il contesto storico-sociale di riferimento. • Schemi: sistematica presenza di schemi e visualizzazioni che semplificano
l’apprendimento.
La didattica orientativa La didattica orientativa è un approccio educativo e formativo che ha come finalità quella di aiutare gli studenti a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, delle proprie attitudini e delle proprie capacità; può essere svolta in classe grazie all’aiuto della rubrica Leggere le emozioni e a tutti i numerosi spunti, come ad esempio le attività contemplate nell’Interpretare e nella Zona Competenze, e grazie ai testi segnalati, utili per svolgere attività di orientamento. Esse risultano disseminate in tutto il manuale al fine di sviluppare competenze di auto-orientamento e supportare l’assunzione di decisioni consapevoli riguardo a sé e alle proprie scelte professionali future. Aiutare lo studente a conoscere meglio se stesso, le sue inclinazioni, le sue attitudini, i suoi interessi e le sue aspirazioni farà sì che con più facilità sia orientato a una comunicazione efficace, a realizzare relazioni rispettose, a prendere decisioni e a sviluppare pensiero critico, pensiero creativo, empatia. Ogni volta che insieme a obiettivi di natura disciplinare si perseguono anche obiettivi di tipo orientativo si può parlare di didattica orientativa.
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ATTRAVERSO IL LIBRO
La didattica multimediale Nelle pagine sono inserite icone che indicano la presenza e il tipo di contenuti digitali disponibili sul libro. I contenuti digitali sono fruibili sul sito www.gruppoeli.it , sull’eBook+ e con l’App librARsi.
Contenuti digitali integrativi • Testi aggiuntivi integrati alla scelta su carta • Per approfondire
• Interpretazioni critiche
• Contributi Audio e Video
• Verso il Novecento
• Verso l’esame di Stato
• Sguardo su…
• Gallery gallerie di immagini
Attivazioni operative • Videolezioni mirano al racconto della biografia degli autori maggiori, ripercorrendone in maniera dinamica i momenti salienti e a fornire un quadro esaustivo delle opere principali dei medesimi autori, attraverso una narrazione accattivante. • Lezioni in PowerPoint percorsi didattici semplici e intuitivi che coincidono con l’accesso a dei Power Point modificabili e relativi ai principali contesti culturali in cui vengono concepite le opere della nostra letteratura e anche ai loro principali autori, di cui si riassumono i tratti biografici, la produzione e le opere maggiori. • Immagini interattive • Audioletture di alcuni testi scelti • Carte dei luoghi interattive consentono una lettura interattiva e agile della biografia dei classici della nostra letteratura. In particolare, le carte geografiche permettono di percorrere diacronicamente e collocare visivamente gli autori nei luoghi che ne hanno scandito la vita, dalla formazione alla nascita delle opere di maggior rilievo, dando accesso a dei contenuti multimediali come link, immagini, audio e video. • Mappe interattive e interdisciplinari incentrate sui temi più rilevanti, individuati all’interno delle opere e dei periodi letterari di maggior spessore consentono di svolgere un percorso interattivo e un’analisi trasversale di tematiche che dal passato affiorano fino ai giorni nostri, per mezzo di collegamenti para-testuali, garantiti dalla presenza di contenuti multimediali di vario tipo. • Cronologie interattive • Analisi interattive • Classe capovolta Sistema Digitale Accessibile
Il Sistema Digitale Accessibile soddisfa pienamente le esigenze della didattica inclusiva con queste funzionalità di base:
• carattere specifico ad alta leggibilità e alto contrasto • sintesi vocale dei contenuti testuali (audiolibro) • pagine “liquide” con possibilità d’ingrandimento
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Indice Duecento e Trecento Scenari socio-culturali Il Medioevo
33
Sguardo sulla storia
34
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura
38
1 I cardini della visione medievale
38
Medioevo. Significato di un termine Il principio gerarchico
38 39
TESTI IN DIALOGO • Pro e contro la teocrazia
Innocenzo III
online D1a Il papa è il sole, l’imperatore è la luna
Dante Alighieri
online D1b «È giunta la spada col pasturale» Purgatorio XVI, 106-112
La visione simbolico-religiosa
40
online D2 Il Fisiologo
VERSO IL NOVECENTO Bestiari novecenteschi
41
Ugo di San Vittore secondo le NUOVE CIVICA D3 Il mondo naturale è manifestazione della sapienza divina EDUCAZIONE Linee guida
42
2 Il tempo e lo spazio
43
La concezione della storia e del tempo Una geografia favolosa cristianocentrica
43 43
online D4 Lettera del prete Gianni
L’immagine dell’universo nel Medioevo
44
3 I valori e i modelli di comportamento
44
Il modello clericale
44
Anonimo attribuito a Tommaso da Celano
online D5 Dies irae
PER APPROFONDIRE La fede nei miracoli e il culto delle reliquie
46
I LUOGHI DELLA CULTURA Il monastero
47
TESTI IN DIALOGO • Due visioni opposte del corpo umano
Lotario da Segni D6a Miseria della condizione umana Carmina Burana D6b Elogio del corpo femminile Il modello cavalleresco-cortese
10
INDICE
LEGGERE LE EMOZIONI
48 48 49
I LUOGHI DELLA CULTURA Il castello
50
Raimondo Lullo D7 Identità e doveri del cavaliere
52
I valori della società urbana e mercantile
53
Paolo da Certaldo
online D8 La morale mercantile Libro dei buoni costumi
TESTI IN DIALOGO • Lodi (e critiche) della città
Bonvesin de la Riva
online T9a L’orgoglio di un cittadino Le meraviglie di Milano, IV, XVII-XVIII
Giovanni Villani
online T9b Elogio di Firenze Nuova Cronica, XII, XCIV
Dante Alighieri
online T9c Contro la città moderna: «Fiorenza dentro de la cerchia antica» Paradiso XV, 97-120
Francesco Petrarca
online T9d La vita cittadina non è fatta per gli spiriti eletti De vita solitaria, II, XV
I LUOGHI DELLA CULTURA La città
55
EDUCAZIONE CIVICA EDUCAZIONE
L'emarginazione dei diversi nel Medioevo CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida
56
2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche
57
1 Il complesso confronto tra la cultura cristiana e la cultura pagana
57
Sant’Agostino D10 I cristiani devono appropriarsi secondo le NUOVE CIVICA del sapere ingiustamente posseduto dai pagani EDUCAZIONE Linee guida
58
De doctrina christiana
2 Culto della tradizione ed enciclopedismo
59
Francesco Petrarca
online D11 Sull’ignoranza sua e di molti
3 Il modello dell’istruzione nel Medioevo
60
Nascita delle scuole L’università e la Scolastica
60 62
TESTI IN DIALOGO • Fede e ragione: attualità e storicità di un rapporto problematico
San Tommaso d’Aquino
online D12a Le verità di fede sono necessariamente conciliabili con le verità di ragione Summa contra gentiles I, 7
San Bonaventura
online D12b La via per giungere a Dio non passa attraverso gli strumenti razionali Itinerarium mentis in Deum
Giovanni Paolo II
online D12c Fede e ragione Enciclica Fides et ratio
I LUOGHI DELLA CULTURA L' università
63
PER APPROFONDIRE I protagonisti della vita universitaria: il magister e gli studenti
64
INDICE
11
3 Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo
65
1 La funzione della letteratura 65 La poesia come “competenza tecnica” e la codificazione retorica della prosa 65 Brunetto Latini
online D13 Cos’è la retorica Rettorica
2 Il concetto medievale di stile 66 Cassiodoro
online D14 I tre stili Variae
Dante Alighieri
online D15 Esempi di “contaminazione” degli stili Commedia, Purgatorio XVII, 76-78 e Paradiso XVII, 124-129
Sant’Agostino
online D16 Lo stile semplice delle Sacre Scritture Epistole
PER APPROFONDIRE La retorica e l'arte di comunicare ieri e oggi
68
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Erich Auerbach La lezione del Vangelo e lo stile umile 69
3 Il metodo allegorico 70 4 Forme e generi della letteratura nell’Alto e nel Basso Medioevo 72
4 L’evoluzione della lingua
75
1 Dal latino al volgare 75 PER APPROFONDIRE L'apporto linguistico dei conquistatori al volgare italiano
76
Primi documenti del volgare in Italia D17a L’indovinello veronese 78 D17b Il Placito di Capua 78
2 Da un panorama variegato alla preminenza del toscano 79 3 La sorte del latino dopo l’affermazione dei volgari 79 PER APPROFONDIRE Il ruolo dei tre grandi trecentisti nella storia della lingua italiana
81
LIBRI, LETTORI, LETTURA
Il libro prima dell’invenzione della stampa 82 Come e perché si legge nel Medioevo 83 Il pubblico 84 ARTE NEL TEMPO
86
Il romanico Continuità con la tradizione romana 86 1 La decorazione scultorea del duomo di Modena 86 Il gotico Una nuova spazialità 88 2 Le storie di san Francesco 88 3 Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo 89 Sintesi con audiolettura 90 Zona Competenze 94
12
INDICE
online
Lezione in Power Point Per approfondire La “buona morte” nel Medioevo Lo scriptorium I maestri fondatori del sapere medievale Il vocabolario dell’università “Italia”, “italiani”: un mito linguistico-letterario
Documento critico Jacques Le Goff Il simbolismo medievale. Uno dei maggiori studiosi della cultura medievale spiega le caratteristiche del simbolismo Gallery I bestiari medievali Simbolismo nell’architettura, scultura, pittura
1 La letteratura cortese nella Francia feudale
95
1 L’epica cristiana e le chansons de geste
96
1 Le chansons de geste
96
PER APPROFONDIRE Il genere epico
98
2 La Chanson de Roland e la mitizzazione dell’eroe cristiano
98
La vicenda e la struttura della Chanson de Roland
99
T1 «Orlando è prode ed Oliviero è saggio»
EDUCAZIONE CIVICA
Chanson de Roland, lasse LXXX-LXXXVIII
secondo le NUOVE Linee guida
100
Bernardo di Clairvaux online T2 Il martire guerriero e l’ideologia della guerra santa Lode della nuova milizia
Anonimo
online T3 La presa di Saragozza e la conversione forzata degli infedeli Chanson de Roland, lasse CCLXIII-CCLXV
2 Il romanzo cortese-cavalleresco
106
1 Un nuovo genere destinato alla corte feudale
106
2 I romanzi di Chrétien de Troyes
107
PER APPROFONDIRE La leggenda di re Artù e la sua fortuna
3 I temi: avventure e amori
108 108
VERSO IL NOVECENTO La fortuna del mito di Tristano e Isotta
111
Chrétien de Troyes T4 Lancillotto affronta la prova del ponte della spada
112
Lancillotto o Il Cavaliere della Carretta
T5 L’apparizione del sacro Graal
114
Perceval
Tristano Riccardiano
online T6 Il fatale innamoramento di Tristano e Isotta
Thomas T7 La morte di Tristano e Isotta
117
Tristan
INDICE
13
VERSO IL NOVECENTO La rivisitazione novecentesca della materia epico-cavalleresca John R.R. Tolkien La riproposta dell’epica medievale per una società prosaica Italo Calvino Sotto l’armatura niente
121 121 122
INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
Erich Auerbach L’antirealismo dell’ideale cavalleresco 124 Franco Cardini L’avventura cavalleresca come metafora di esigenze/esperienze reali 125 SGUARDO SUL CINEMA I cavalieri erranti: dall’epica hollywoodiana all’Armata Brancaleone 126
3 La lirica provenzale
127
1 Una poesia “da ascoltare”: la lirica trobadorica 127 Andrea Cappellano T8 La codificazione dell’amore cortese 131 De amore
Guglielmo d’Aquitania T9 Con la dolce stagione rinnovata 133 Jaufre Rudel T10 Allor che i giorni sono lunghi in maggio
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
VERSO IL NOVECENTO Echi trobadorici nella poesia novecentesca Ezra Pound Alba Giovani Giudici Raggio che da fessura
135 138 138 139
2 Le trobairitz: le trovatrici occitaniche 140 Contessa di Dia
online T11 Mi appago di gioia e giovinezza
Azalais de Porcairagues T12 Or siam giunti al tempo freddo
141
VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Morte eroica di Orlando paladino
143
Chanson de Roland, lasse CLXX-CLXXV
online
Sintesi con audiolettura 147 Zona Competenze 148
14
INDICE
Per approfondire Il romanzo cavalleresco medievale e il “romanzesco” Un’interpretazione sociologica dell’ideologia cortese L’enigma della fin’amor Documento critico Michail Bachtin Il passato assoluto come tempo dell’epica
Audio Preludio dal Tristano e Isotta di Wagner: Morte di Isotta dal Tristano e Isotta, S 447 nella trascrizione per pianoforte di Franz Liszt (1867) dall’opera di Richard Wagner Tristan und Isolde, WWV 90 Sguardo sul cinema. Approfondimento I cavalieri erranti: dall’epica hollywoodiana all’Armata Brancaleone
2 La letteratura religiosa nell'età comunale
149
1 Il dissenso nei confronti
della mondanizzazione della Chiesa
150
1 Una letteratura critica verso la Chiesa
150
online T1 Un eretico condotto al rogo risponde alla folla
Contro la corruzione della Chiesa Dante Alighieri online T2a Invettiva contro l’avidità dei papi Inferno XIX, 100-117
Jacopone da Todi
online T2b O papa Bonifazio, vv. 1-54
VERSO IL NOVECENTO Umberto Eco Il nome della rosa Frate Guglielmo incontra il mistico dissidente Ubertino da Casale
151
2 Francesco d’Assisi: una figura leggendaria per la collettività cristiana
153
Il Cantico di frate Sole Francesco d’Assisi secondo le EDUCAZIONE NUOVE T3 Cantico di frate Sole CIVICA Linee guida
155 156
SGUARDO SUL CINEMA I volti di Francesco
160
3 Le laude e Jacopone da Todi
161
Jacopone: una fede intransigente
161
PER APPROFONDIRE La ballata
161
Salimbene
online T4 Nascita della lauda e movimenti penitenziali Cronica
Jacopone da Todi T5 Quando t’aliegre, omo d’altura T6 O iubelo del core T7 Donna de Paradiso
LEGGERE LE EMOZIONI
165 169 172
2 La produzione didattico-edificante
179
1 Le prediche, le Vite dei santi, i trattati morali
179
Domenico Cavalca online T8 Un esempio eloquente dell’ottica agiografica Vita di Sant’Elpidio
Jacopo Passavanti T9 Angeli e demoni si contendono il possesso di un’anima
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
180
Lo specchio di vera penitenza
2 Rappresentare l’aldilà: la “letteratura dell’oltremondo”
182
PER APPROFONDIRE La raffigurazione del mondo ultraterreno Anonimo online T10 La nave di san Brandano avvista l’isola dell’Inferno
183
Navigazione di san Brandano
INDICE
15
Anonimo online T11 Il viaggio ultraterreno come ponte tra cultura araba ed europea Libro della Scala
Giacomino da Verona T12 Una raffigurazione terrifica dell’inferno: un monito per i fedeli
184
Babilonia, città infernale
PER APPROFONDIRE La figurazione del diavolo nella cultura medievale
187
online
Sintesi con audiolettura Zona Competenze Per approfondire Immagini dell’aldilà nel mondo antico Verso il Novecento Oltranza mistica ed espressionismo linguistico Il dramma di Maria alla croce nell’interpretazione di Dario Fo
188 190 Percorso interdisciplinare Immagini di San Francesco tra arte, letteratura e teatro Cinema Dal film Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud (1986) Sguardo sul cinema. Approfondimento I volti di Francesco
3 Forme del narrare nella società comunale
191
1 Raccontare il viaggio nel Medioevo
192
1 L’affermazione della prosa in volgare
192
2 L’emergere del gusto del narrare per un nuovo pubblico
192
3 I racconti di viaggio
193
Rodolfo il Glabro D1 La vicenda di un pellegrino a Gerusalemme
195
Cronache dell’anno mille INTERPRETAZIONI CRITICHE
Franco Cardini Il significato del termine pellegrino
196
4 Marco Polo e Il Milione Marco Polo T1 Il pubblico e il metodo della narrazione Il Milione, Prologo
197 EDUCAZIONE CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida
LEGGERE LE EMOZIONI
T2 I favolosi unicorni di Sumatra
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
199 201
Il Milione, 147 online T3 La pericolosa setta dei fumatori di hashish Il Milione, 35
VERSO IL NOVECENTO Il Marco Polo di Calvino: dal progetto cinematografico alle Città invisibili Italo Calvino Le città invisibili
203 204
PER APPROFONDIRE La letteratura di viaggio oggi, fra Kerouac, Chatwin, Terzani, Pessoa e Laura Imai Messina
205
VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Bruce Chatwin Questo nomade nomade mondo
16
INDICE
206 206
2 Narrare per il gusto di narrare: la novella
208
1 Un genere dalla vita secolare 208 2 Le prime forme di narrazione breve: gli exempla e i fabliaux 208 Jacopo Passavanti
online T4 Le tentazioni di un asceta Lo specchio della vera penitenza, XVI
Anonimo
online T5 Il fabliaux del mugnaio e dei due studenti
3 Verso la definizione del genere: il Novellino
210
PER APPROFONDIRE Il titolo Novellino Anonimo T6 Raccontare per un nuovo pubblico
211 212
Novellino, Prologo
Anonimo
online T7 Pronta risposta di un frate al Vescovo Aldobrandino Novellino, XXXIX
TESTI IN DIALOGO • Il culto della parola
Anonimo T8a Il medico di Tolosa 214 Novellino, XLIX
Anonimo T8b Una “metanovella”: elogio della brevità 215 Novellino, LXXXIX
4 Una pietra miliare nella storia del genere “novella” 216 5 Dopo Boccaccio 216 Franco Sacchetti T9 Una burla: l’orsa e le campane 217 Trecentonovelle
PER APPROFONDIRE “Le mille e una burla”: la Toscana e la tradizione comica, da Boccaccio... a Benigni
3 Le cronache cittadine
220
221
1 Una storiografia militante 221 Giovanni Villani T10 Il ruolo di Brunetto Latini nella società comunale 223 Nuova Cronica, IX, x
Sintesi con audiolettura 224 LEGGERE Zona Competenze 226 LE EMOZIONI online
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Interpretazioni critiche Umberto Eco Un “inviato speciale” deluso dagli unicorni
INDICE
17
4 “Ragionar d’Amore”
227
1 La scuola siciliana
228
1 Il trapianto della lirica amorosa in Italia
228
Jacopo da Lentini T1 Amor è uno desio che ven da core T2 Io m’aggio posto in core a Dio servire
232 234
Pier della Vigna
online T3 Però ch’amore non si po’ vedere
PER APPROFONDIRE Il sonetto
236
VERSO IL NOVECENTO Il sonetto viaggia nel tempo… Umberto Saba Autobiografia – Ed amai nuovamente
237 237
Guido delle Colonne T4 Gioiosamente canto
238
T5a Tenzone di donna (forse Nina) e un anonimo Anonimo (forse Nina Siciliana) T5a Tapina ahimè, ch’amava uno sparvero Anonimo T5b Vis’ amoros’, angelico e clero Rinaldo d’Aquino T6 Giamäi non mi conforto
243
PER APPROFONDIRE La canzone e la canzonetta
246
Cielo d’Alcamo secondo le NUOVE T7 Rosa fresca aulentissima EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
241 241 242
247
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
2 I poeti siculo-toscani
251
1 La poesia nella Toscana comunale
251
Guittone d’Arezzo secondo le EDUCAZIONE NUOVE T8 Ahi lasso, or è stagion de doler tanto CIVICA Linee guida online T9 Ora parrà s’eo saverò cantare
253
Compiuta Donzella T10 A la stagion che ’l mondo foglia e fiora
EDUCAZIONE CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
258
#PROGETTOPARITÀ
3 Il dolce stil novo
260
1 Che cos’è lo stilnovismo
260
2 La lezione di Guido Guinizzelli e le caratteristiche del nuovo modo di poetare
260
Guido Guinizzelli T11 Al cor gentil rempaira sempre amore T12 Io voglio del ver la mia donna laudare
18
INDICE
263 267
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Mario Marti L’immagine della donna nei poeti nuovi
269
3 «Per altezza d’ingegno»: Guido Cavalcanti
270
PER APPROFONDIRE L’averroismo
271
PER APPROFONDIRE La concezione medievale dell’amore come malattia La malattia d’amore come topos letterario Guido Cavalcanti LEGGERE T13 Voi che per li occhi mi passaste ’l core LE EMOZIONI
272 272 273
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Maria Corti L’iteratività come “cifra” della poesia cavalcantiana
275
Guido Cavalcanti T14 Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira COLLABORA ALL’ANALISI VERSO IL NOVECENTO Epifanie femminili novecentesche: due esempi Ezra Pound Apparuit Arturo Onofri Dea in forma di donna Guido Cavalcanti T15 Perch’i’ no spero di tornar giammai online T16 Deh, spiriti miei, quando mi vedete
276 278 278 279 279
EDUCAZIONE CIVICA secondo le
NUOVE Donne sommerse: le rimatrici trecentesche EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
282
#PROGETTOPARITÀ
VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Guido Cavalcanti L’anima mia vilment’è sbigotita
online
Sintesi con audiolettura Zona Competenze Mappa interattiva La poesia delle origini
284 285 286
Audio e video Dario Fo, Mistero Buffo. Interpretazione di Cielo d’Alcamo
5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
287
1 Il comico
288
1 Una nebulosa che sfugge alle categorizzazioni
288
2 I temi principali del comico nel Medioevo
289
3 I portavoce del comico nella società medievale: goliardi e giullari
289
PER APPROFONDIRE Comico e “carnevalesco”
4 I Carmina Burana e il “mondo alla rovescia”
289 290
VERSO IL NOVECENTO Il pericolo del riso e Il nome della rosa
290
T1 Un manifesto della poesia goliardica
291
INDICE
19
2 I poeti comico-realisti
294
I principali esponenti: Rustico Filippi e Cecco Angiolieri 295 PER APPROFONDIRE Un guazzabuglio di definizioni: poeti “comico-realisti”, “burleschi”, “giocosi” 295 Rustico Filippi T2 Oi dolce mio marito Aldobrandino 298 Cecco Angiolieri LEGGERE LE EMOZIONI T3 Tre cose solamente m’ènno in grado 300 LEGGERE T4 La mia malinconia è tanta e tale 302 LE EMOZIONI online T5 Accorri accorri accorri uom, a la strada! 304 T6 S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SGUARDO SULLA MUSICA Fabrizio De André S’i’ fosse foco
305
online
Sintesi con audiolettura 306 Zona Competenze 307 Per approfondire La “buona morte” nel Medioevo
Sguardo sulla musica. Audio Fabrizio De Andrè S’i’ fosse foco
6 Dante Alighieri 308 1 Ritratto d’autore
310
1 La nascita, la giovinezza, la prima formazione 310 PER APPROFONDIRE Un padre rifiutato, dei padri ideali
312
2 La “donna della salute” e l’esperienza stilnovista 313 Giovanni Boccaccio
online D1 Il primo incontro tra Dante e Beatrice Vita di Dante
3 La consolazione della filosofia. La «selva oscura» e il mistero del traviamento 314 PER APPROFONDIRE Dante e Guido Cavalcanti: un’amicizia interrotta
314
4 La passione (e la delusione) della politica 315 5 Gli anni dell’esilio. La morte: Dante entra nella leggenda 316 SGUARDO SULLA STORIA La Firenze di Dante
316
D2 M’insegnavate come l’uom s’etterna 318 Inferno XV, 79-87 online Guido Cavalcanti
D3 Io vegno ’l giorno a te TESTI IN DIALOGO • Il dramma dell’esilio D4a Tu lascerai ogne cosa diletta 319 Paradiso XVII, 55-69
D4b Legno sanza vela 320 Convivio I, III, 4-5
20
INDICE
2 La Vita nuova
La rilettura simbolica di un’eccezionale esperienza d’amore
321
1 La struttura, la finalità, i destinatari 2 La vicenda
321
3 Un itinerario spirituale e poetico nel nome di Beatrice 4 Le interpretazioni della Vita nuova
323
T1 Il libro della memoria e la presentazione dell’opera
327
322 325
Vita nuova, I
T2 Il primo saluto di Beatrice. Un sogno inquietante
328
Vita nuova, III
T3 Il gioco degli sguardi. Schermaglie cortesi
333
Vita nuova, V
T4 Donne ch’avete intelletto d’amore
335
Vita nuova, XIX
T5 Tanto gentile e tanto onesta pare
340
Vita nuova, XXVI online T6 La morte di Beatrice: tra fantasia e realtà Vita nuova, XXIII e XXVIII passim online T7 Un nuovo sogno sconfigge la tentazione della “donna gentile” Vita nuova, XXXIX INTERPRETAZIONI CRITICHE
Gianfranco Contini Una celebre lettura di Tanto gentile e tanto onesta pare
343
VERSO IL NOVECENTO Lo stilnovismo montaliano e la figura femminile dell’«angelo visitante» Eugenio Montale Ti libero la fronte dai ghiaccioli T8 Oltre la spera che più alta gira
345 346
Vita nuova, XLI-XLII
3 La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali
del suo tempo
349
1 Le Rime T9 Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io T10 Chi udisse tossir la malfatata T11 Così nel mio parlar voglio esser aspro
349 LEGGERE LE EMOZIONI
352 354 355
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
2 Un intellettuale al servizio del suo tempo: il progetto del Convivio
359
I caratteri dell’opera I contenuti Le fonti, i modelli e lo stile secondo le EDUCAZIONE NUOVE T12 L’obiettivo e i destinatari dell’opera CIVICA Linee guida
359 359 361 362
Convivio I, I secondo le
NUOVE T13 Perché è giusto impiegare il volgare EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
Convivio I, IX, 2-5
PARITÀ DI GENERE equilibri
366
#PROGETTOPARITÀ
online T14 Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete Convivio II, II, Canzone I online T15 Significato letterale e “sovrasensi” Convivio II, IX, 1-19; 11; 15 online T16 L’enigma della donna gentile - Filosofia Convivio II, XII, 1-8
INDICE
21
3 Dante teorico della lingua volgare: il De vulgari eloquentia
368
PER APPROFONDIRE La questione della lingua 370 T17 Caratteristiche del volgare illustre 371 De vulgari eloquentia I, XVI-XVIII
T18 Lo stile tragico
374
De vulgari eloquentia II, IV, 7-11
4 La riflessione politica: la Monarchia 376 T19 I due diversi fini dell’uomo e le due guide COLLABORA ALL’ANALISI 379 Monarchia, III, XV, 7-18
5 Epistole 382 online T20 A un amico fiorentino Epistole, XII
T21 Una introduzione “d’autore” alla lettura della Commedia 382 Epistole, XIII, 7-8; 10
4 Il poema sacro
385
1 Le caratteristiche generali 385 2 Il viaggio ultraterreno 386 PER APPROFONDIRE La configurazione dell’aldilà dantesco
388
3 La missione didattica e profetica di Dante 393 4 La Commedia come summa della cultura medievale 394 5 Le tecniche narrative 395 Lo statuto del narratore e l’immagine del lettore 395 Il colloquio con gli spiriti: la costante narrativa del poema 397 La concezione figurale 399 Le forme della rappresentazione: realismo e simbolismo 401
6 Lo stile, la lingua, la metrica 403 PER APPROFONDIRE Perché si parla di Dante come “padre” della lingua italiana?
405
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Mario Fubini Pensar per terzine 406 T22 Il viaggio provvidenziale di Dante vs il viaggio proibito 407 T22a Il prologo del poema 407 Inferno I online T22b Io non Enëa, io non Paulo sono… Inferno II, 1-36 VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità
415
T22c L’inizio del viaggio 415 Inferno III, 1-30
T22d Il viaggio proibito: Ulisse “doppio” di Dante? Inferno XXVI, 85-142
418
T23 Una visione negativa del presente: Firenze, l’Italia, il papato 423
22
INDICE
T23a La città partita 423 Inferno VI, 58-75
T23b Ahi serva Italia... 425 Purgatorio VI, 76-90
T23c Fatto v’avete dio d’oro e d’argento 427 Purgatorio XIX, 88-96; 100-117
T24 Dante nuovo “auctor” e profeta 430 T24a La consacrazione della missione profetica di Dante COLLABORA ALL’ANALISI 430 Paradiso XVII, 106-142
T24b Io fui sesto tra cotanto senno 432 Inferno IV, 79-102 online T24c Un’immagine del lettore Paradiso II, 1-18
T25 La visione culturale di Dante 434 T25a Gli spiriti magni 434 Inferno IV, 106-144 online T25b La concezione dantesca di sapienza: pluralismo e unità Paradiso X, 94-138; XII, 127-141
T26 Il personaggio dantesco: esemplarità e sintesi 438 T26a Francesca o dei pericoli dell’amor cortese 438 Inferno V, 82-142 online T26b L’ingiusta giustizia del suicida Pier della Vigna Inferno XIII, 22-78
T27 La dimensione figurale 443 T27a Il ritorno di Beatrice: dalla Vita nuova alla Commedia 443 1 ... e donna mi chiamò beata e bella 443 Inferno II, 52-75
2 ... donna m’apparve, sotto verde manto 445 Purgatorio XXX, 22-48; 55-75; 109-145 online T27b Il personaggio di Catone Purgatorio I, 19-93
T28 Il pluristilismo della Commedia 449 T28a Il registro comico-realistico 449 1 Gli adulatori 449 Inferno XVIII, 100-136
2 L’invettiva di san Pietro 452 Paradiso XXVII, 16-30
T28b Il registro tragico. Un esempio: il proemio del Paradiso
454
Paradiso I, 1-36
7 La Commedia nel tempo 456 Le sorti alterne del classico per eccellenza della letteratura italiana 456 Tra pregiudizi linguistici e preconcetti ideologici: la lunga eclissi della fortuna di Dante 457 PER APPROFONDIRE Le letture dantesche di Sermonti e Benigni, eventi di massa
457
Fuori d’Italia 459 In Italia: omaggio formale ma scarsa influenza 460 SGUARDO SUL CINEMA Dante e il cinema
462
Sintesi con audiolettura 464 Zona Competenze 469 INDICE
23
VERSO L'ESAME DI STATO
T ipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Dante Alighieri Vede perfettamente onne salute
470
Vita nuova, XXVI
online
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Giuliano Procacci Storia degli italiani Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità R. Davidsohn, storia di Firenze Flipped Classroom Lezione in Power Point Carta interattiva dei luoghi Videolezioni La vita Vita nuova Commedia Per approfondire Sogni e visioni nella cultura medievale Ricostruire il testo originale della Commedia: un problema filologico ancora aperto Una poesia metamorfica Le lecturae Dantis
471 473
Pier Paolo Pasolini La Divina Mimesis Verso il Novecento Testimonianze dall’aldilà: l’Antologia di Spoon River Primo Levi Il canto di Ulisse, antidoto alla barbarie Gallery Immagini dell’aldilà nel mondo antico Paolo e Francesca nell’interpretazione di vari artisti Video e Audio Benigni e Sermonti leggono un canto della Commedia: due letture a confronto Sguardo sul cinema. Approfondimento Dante e il cinema
7 Francesco Petrarca
474
1 Ritratto d’autore
476
1 Una vita come ricerca 476 Petrarca e la solitudine
481
D1a Ideale di vita 482 De vita solitaria, I, VI
D1b La solitudine nel locus amoenus di Valchiusa
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
483
Lettere familiari, VI, 3 online D1c La vita cittadina non è fatta per gli spiriti eletti De vita solitaria, II, XV online D1d Come leggeva Petrarca De vita solitaria, II, XIV INTERPRETAZIONI CRITICHE
Ugo Dotti Il significato della solitudine per Petrarca
485
2 Un nuovo modello di intellettuale e una nuova visione culturale: verso l’Umanesimo
486
La concezione filosofica e letteraria 486 PER APPROFONDIRE La crisi della Scolastica 486 T1 Petrarca e i classici 489 online T1a La lettura dei classici come occasione di meditazione Lettere familiari, XXIV, 1
T1b I classici come interlocutori viventi
489
Lettere familiari, I, 1
Due testi polemici 490 T2 La lettura di Aristotele serve forse a renderci più colti, ma non migliori 490 Sull’ignoranza sua e di molti
24
INDICE
online T3 Contro la cultura enciclopedica Sull’ignoranza sua e di molti
2 Dalla mancanza di un “centro” al progetto autobiografico 1 L’itinerario di Petrarca alla ricerca della propria identità di scrittore 2 Una multiforme produzione: il Petrarca latino
492 492 493
Opere di ispirazione storico-erudita 493 Opere di ispirazione morale-religiosa 494
3 Il Secretum, il libro dei conflitti T4 L’accidia, il male dell’uomo moderno
494 LEGGERE LE EMOZIONI
497
Secretum II, 13
T5 I due ostacoli al perfezionamento morale di Francesco 500 T5a L’amore per Laura 500 Secretum III, 5 online T5b L’ambizione e l’eccessiva attrazione per la gloria Secretum III, 14
4 L’epistolario: un ritratto di sé da consegnare ai posteri
502
PER APPROFONDIRE Il metodo di allestimento dell’epistolario
503
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Vinicio Pacca «Gestire la propria immagine in prima persona»: la funzione dell’Epistolario
T6 Un itinerario simbolico: l’ascesa al monte Ventoso
LEGGERE LE EMOZIONI
505
506
Lettere familiari, IV, 1
5 Il tentativo di un poema allegorico: i Trionfi
512
3 Il Canzoniere
513
1 L’elaborazione dell’opera, i modelli, la struttura 513 PER APPROFONDIRE Cos’è un macrotesto?
514
2 La modernità del Canzoniere: la scoperta di un io diviso 516 PER APPROFONDIRE I volti di Laura
3 I temi del Canzoniere
517 518
Il paesaggio, riflesso dell’interiorità 518 La memoria 518 La fuga del tempo e la caducità delle cose umane 519 La visione politica 519 PER APPROFONDIRE Le parole chiave del Canzoniere Il tema religioso del pentimento e gli ultimi testi del Canzoniere
520 521
4 Le scelte stilistiche del Canzoniere e l’unilinguismo 521 PER APPROFONDIRE Come si legge la grafia di Petrarca 523 T7 Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono 524 T8 Il dissidio interiore 528 T8a Era il giorno ch’al sol si scoloraro 528 T8b Movesi il vecchierel canuto et biancho 530 T9 L’ambivalenza dell’amore 533 INDICE
25
T9a Benedetto sia ’l giorno, et ’l mese, et l’anno T9b Padre del ciel, dopo i perduti giorni
533 534
T10 Lo spazio dell’io T10a Passa la nave mia colma d’oblio T10b O cameretta che già fosti un porto
536 536 539
LEGGERE LE EMOZIONI
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Marco Santagata Il nuovo spazio dell’io nella poesia petrarchesca
541
T11 Il paesaggio della natura come proiezione dell’io e come confidente T11a Solo et pensoso T11b Di pensier in pensier, di monte in monte
543 543 546
T12 Il tema della «memoria innamorata» T12a Erano i capei d’oro a l’aura sparsi T12b Chiare, fresche et dolci acque
550 550 553
PER APPROFONDIRE Un nome “segno”: Laura-l’aura-lauro
552
T13 Il tema della fuga del tempo e della caducità della vita T13a Quanto piú m’avicino al giorno extremo T13b La vita fugge et non s’arresta una hora online T13c Vago augelletto che cantando vai TESTI IN DIALOGO • Il sentimento del tempo: un tema transepocale Una testimonianza antica
Seneca D2 Ogni giorno si muore
558 558 559
562 562
Lettere a Lucilio, III, 24, 19-20
Due esempi novecenteschi
Gabriele D’Annunzio D3a La sabbia del Tempo
562 562
Alcyone
Eugenio Montale D3b Quartetto
563
Altri versi
T14 Il tema della morte di Laura T14a Se lamentar augelli, o verdi fronde T14b Gli occhi di ch’io parlai sí caldamente COLLABORA ALL’ANALISI T14c Levommi il mio penser in parte ov’era T14d Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena VERSO IL NOVECENTO Due interpretazioni psicanalitiche del personaggio di Laura Pier Paolo Pasolini Laura non è una donna reale Umberto Saba Laura è una percezione della figura materna
565 565 567 569 571
T15 Il tema politico secondo le EDUCAZIONE NUOVE T15a Italia mia, benché ’l parlar sia indarno ANALISI PASSO DOPO PASSO CIVICA Linee guida T15b Fiamma dal ciel su le tue treccie piova
575 575 581
T16 Verso la chiusura del cerchio? T16a I’ vo piangendo i miei passati tempi T16b Vergine bella
583 583 585
5 Il Canzoniere nel tempo Pierre de Ronsard
online T17a Quando sarai ben vecchia... Sonnets pour Hélène
26
INDICE
573 573 574
591
William Shakespeare
online T17b Il Tempo divoratore Sonetti
Paolo Rolli
online T18 Solitario bosco ombroso Ode d'argomenti amorevoli
VERSO IL NOVECENTO Andrea Zanzotto Notificazione di presenza sui Colli Euganei
597
VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Francesco Petrarca S’amor non è, che dunque è quel ch'io sento?
598
Canzoniere, 132
online
Sintesi con audiolettura Zona Competenze Flipped Classroom Lezione in Power Point Carta interattiva dei luoghi Videolezioni La vita Canzoniere Per approfondire Ma Laura è veramente esistita?
600 605 I libri come amici? Una data simbolica per una svolta paradigmatica Work in progress: la composizione del Canzoniere L’ombra di Dante, un modello “rimosso” “Italia”, “italiani”: un mito linguistico-letterario Interpretazioni critiche Karlheinz Stierle Il mondo gerarchico e verticale di Dante e il mondo orizzontale e molteplice di Petrarca Marco Santagata L’errore del sonetto proemiale
8 Giovanni Boccaccio
606
1 Ritratto d’autore
608
1 Un mercante mancato D1 Una ritrattazione del Decameron EDUCAZIONE CIVICA
608 secondo le NUOVE Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
Epistola XXI a Mainardo Cavalcanti
612
#PROGETTOPARITÀ
PER APPROFONDIRE Boccaccio e Petrarca: un’amicizia con qualche punto di domanda
613
2 La produzione minore: all’insegna dello sperimentalismo
614
Le opere del periodo napoletano Le opere del periodo fiorentino Dopo il Decameron T1 Un libro galeotto: l’innamoramento di Florio e Biancifiore
615 617 619 621
Filocolo, II, 4
T2 Una confessione autobiografica: la tristezza del ritorno a Firenze
623
Commedia delle Ninfe fiorentine, XLIX, 64-84
T3 Una richiesta di solidarietà femminile
625
Elegia di Madonna Fiammetta, Prologo
2 Il Decameron
627
1 La composizione del Decameron. I modelli di riferimento
627
2 La struttura e la poetica
628
PER APPROFONDIRE Il manoscritto autografo del Decameron: la volontà editoriale dell’autore
628
3 La cornice, il gioco delle “voci narranti” e la dialettica delle interpretazioni
632
PER APPROFONDIRE Una comunicazione paritaria: il simbolo del “cerchio”
633
INDICE
27
4 L’ideologia di Boccaccio: fra innovazione e tradizione
634
5 I temi
635
L’amore… le donne L’intelligenza: l’industria La fortuna
635 636 637
6 La fondazione del realismo: i personaggi, il modello spaziale
638
7 Il Decameron come laboratorio narratologico
639
8 Lo stile e la lingua
642
T4 Dichiarazioni di poetica T4a Il Proemio e la dedica alle donne
644 644
Decameron, Proemio online T4b Introduzione alla quarta giornata: la naturalità dell’istinto amoroso e l’apologo delle
papere
Decameron, IV, Introduzione
T4c La Conclusione: l’autodifesa dall’accusa di immoralità
648
Decameron, Conclusione dell'autore online T4d Una novella sull’arte di raccontare: Madonna Oretta Decameron, VI, 1
T5 La cornice T5a Il divampare della peste in Firenze
650 650
Decameron, I, Introduzione
T5b Il giardino del piacere online Decameron, III giornata, Introduzione
SGUARDO SULL' ARTE In polemica con la cultura della penitenza T6 La riscrittura ironizzante e parodica dei modelli T6a La confessione di ser Ciappelletto
654 655 655
Decameron, I, 1 online T6b La “miracolosa” guarigione di Martellino Decameron, II, 1
T6c La strana storia di Nastagio degli Onesti
667
Decameron, V, 8
SGUARDO SULL' ARTE La novella di Nastagio degli Onesti illustrata da Sandro Botticelli T6d La predica magistrale di frate Cipolla
674 675
Decameron, VI, 10
T7 Amore e morte secondo le NUOVE T7a Tancredi e Ghismonda: una tragedia feudale EDUCAZIONE CIVICA Linee guida Decameron, IV, 1
PARITÀ DI GENERE equilibri
684 684
#PROGETTOPARITÀ
secondo le
NUOVE T7b Lisabetta da Messina: una tragedia borghese EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
Decameron, IV, 5
PARITÀ DI GENERE equilibri
695
#PROGETTOPARITÀ
online T7c Simona e Pasquino: una tragedia popolana Decameron, IV, 7
T8 Eros e comicità T8a La badessa e le brache
701 701
Decameron, IX, 2 online T8b La notte degli equivoci Decameron, IX, 6
PER APPROFONDIRE Boccaccio, la materia erotica e il “boccaccesco”
705
VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Giovanni Boccaccio Peronella Decameron, VII, 2
28
INDICE
706
T9 Mondo borghese-mercantile e mondo cavalleresco 710 T9a Il ritmo della fortuna/il ritmo del mare: Landolfo Rufolo 710 Decameron, II, 4 INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
Esaltazione o visione critica del mondo mercantile?
Vittore Branca L’epopea dei mercanti 717 Giorgio Padoan Una visione critica del mondo mercantile 718 T9b La formazione di un mercante: Andreuccio da Perugia ANALISI PASSO DOPO PASSO
LEGGERE LE EMOZIONI
719
Decameron, II, 5
T9c Come il nobile Federigo degli Alberighi divenne miglior massaio COLLABORA ALL’ANALISI 732 Decameron, V, 9
T10 La beffa e la dimensione comica 740 T10a Calandrino e l’elitropia 740 Decameron, VIII, 3
TESTI IN DIALOGO • Le due versioni di una scena: Calandrino lapidato
Piero Chiara
online T10b Il Decameron raccontato in 10 novelle
Aldo Busi
online T10c Decamerone da un italiano all’altro online T10d Calandrino aspetta un figlio Decameron, IX, 3
3 Il Decameron nel tempo
748
1 La ricezione del Decameron 748 Geoffrey Chaucer D2 Il ritratto del venditore di indulgenze 750 I racconti di Canterbury online D3 Il racconto delle comari di Bath I racconti di Canterbury
SGUARDO SULLA LETTERATURA Uno sguardo all’Europa: Chaucer e i Canterbury Tales
751
2 La “sfortuna” del Decameron: da libro censurato a libro incompreso 752 PER APPROFONDIRE L e tre edizioni del Decameron «rassettate» dai censori controriformistici
752
Esempi di censura sul Decameron nell'età della Controriforma
online T11a Monache, preti e monasteri online T11b La rivisitazione della conclusione
SGUARDO SUL CINEMA Boccaccio e il cinema. Il Decameron di Pasolini
754
Sintesi con audiolettura 755 Zona Competenze 760 VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Giovanni Boccaccio Madonna Filippa, Decameron, VI, 7 761 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Armando Sapori Lezioni di storia economica 763 764 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Le epidemie
INDICE
29
online
Flipped Classroom Lezione in Power Point Carta interattiva dei luoghi Videolezioni La vita Decameron Mappa interattiva La presenza femminile nel Decameron Per approfondire Boccaccio bibliofilo, filologo e copista La peste tra realtà e letteratura
Un “disegno ascensionale” o piuttosto un mondo “orizzontale”? Il concetto di realismo Interpretazioni critiche Francesco Petrarca I confini del realismo decameroniano Luigi Surdich La novella di Federigo come documento sociologico Verso il Novecento Libri “galeotti” Sguardo sul cinema. Approfondimento Pasolini e il Decameron
9 La presenza femminile nell’universo culturale medievale
765
1 Parole sulle donne/parole alle donne
766
1 «Tu sei la porta del demonio»
766
Stefano di Borbone
online D1 Contro gli ornamenti sontuosi delle donne: un esempio misogino
2 Le prediche alle donne e la pedagogia “al femminile”
767
TESTI IN DIALOGO • Sull’educazione delle ragazze
Umberto da Romans D2a Un modello di predica per le adolescenti
768
De eruditione predicatorum
Paolo da Certaldo secondo le NUOVE D2b Come si devono educare le ragazze EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
Libro di buoni costumi
769
#PROGETTOPARITÀ
3 La letteratura laica delle origini e le donne
770
2 Parole delle donne
772
1 Le voci delle mistiche 2 «Una donna in lotta con la sua voce»: Caterina da Siena
772
T1 Le parole del discorso mistico femminile Angela da Foligno online T1a La mia anima fu rapita in estasi
775
774
Memoriale di frate Arnaldo, cap. VII
Caterina da Siena T1b «Annegatevi nel sangue di Cristo»
775
Epistolario
3 La voce di Eloisa
776
Pietro Abelardo secondo le NUOVE D3 Eloisa scrive ad Abelardo EDUCAZIONE CIVICA Linee guida Storia delle mie disgrazie
PARITÀ DI GENERE equilibri
778
#PROGETTOPARITÀ
VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Il motivo letterario dell’evasione della realtà
Sintesi con audiolettura secondo le NUOVE Zona Competenze EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
780 781 781
#PROGETTOPARITÀ
INDICE DEI NOMI GLOSSARIO INDICE DELLE RUBRICHE
30
INDICE
782 785 795
Duecento e Trecento
Duecento e Trecento
Scenari socio-culturali Il Medioevo
LEZIONE IN POWERPOINT
La cultura medievale è permeata da una visione cristiana della vita di cui si fanno portavoce i chierici. Sono esponenti della Chiesa anche i docenti delle università, che trasmettono una concezione enciclopedica del sapere. Diverso è il modello cavalleresco cortese, che ruota intorno alla figura del cavaliere ed esalta la fedeltà al signore e alla fede, la cortesia e la gentilezza nobilitate dall’amore per la donna amata. La cultura cittadina valorizza invece l’intraprendenza e la spregiudicatezza. Ne sono interpreti gli intellettuali laici. Nel Basso Medioevo si compie il secolare processo linguistico che porta la lingua volgare in Italia ad affrancarsi dal latino da cui deriva. Tra i vari idiomi presenti in Italia si impone il toscano grazie all’eccellenza artistica dei tre capolavori del Trecento: la Commedia, il Canzoniere, il Decameron. Mentre nei primi secoli del Medioevo la letteratura è subordinata all’educazione morale e religiosa dei credenti, nel Basso Medioevo essa si svincola dalle finalità didattiche e ammette scopi di puro intrattenimento. Per tutto il Medioevo (e anche oltre) il testo letterario è vincolato a precise norme retoriche ereditate dall’antichità classica. Due sono i registri stilistici principali: alto-tragico e basso-comico realistico.
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 3 Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 4 L’evoluzione della lingua 3333
Duecento e Trecento Sguardo sulla storia Il Medioevo Un lunghissimo periodo storico Con il termine Medioevo si fa riferimento a un periodo storico di oltre mille anni, identificato per convenzione da due eventi simbolici: la caduta dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.) che in qualche modo chiude l’epoca antica, e la scoperta dell’America (1492) che inaugura l’era moderna. In una più ristretta periodizzazione (di fatto più usata) il Medioevo si divide in due grandi fasi storiche: Alto Medioevo (V-X secolo) e Basso Medioevo (XI-XIV secolo). È in questo secondo periodo che nascono le letterature europee, compresa quella italiana.
La crisi del secoli V-VIII La decadenza socio-politico-economica Il periodo compreso tra la caduta dell’Impero romano d’Occidente e l’VIII secolo vede la massima decadenza: le ripetute invasioni barbariche provocano il crollo delle istituzioni che assicuravano l’unità e garantivano la vita politico-amministrativa dell’Impero. Con l’interruzione delle vie di comunicazione gli scambi commerciali decadono rapidamente, le città si spopolano, si spegne ogni forma di vita sociale e culturale, la campagna prende il sopravvento. L’economia, esclusivamente agricola, si riduce a forme di sussistenza. Le frequenti epidemie e la dilagante povertà determinano una grave crisi demografica.
Cronologia interattiva 711
Gli Arabi conquistano la penisola iberica 569-774
Dominio dei Longobardi in Italia
500
600 540 ca
San Benedetto compone la sua Regola e getta le basi del monachesimo occidentale
34 DueCenTo e TreCenTo Scenari socio-culturali
700
Il ruolo primario della Chiesa Nel vuoto di potere e nella crisi generale, la Chiesa diventa punto di riferimento quasi esclusivo: il papato gestisce, come unico potere centrale rimasto a Roma, i rapporti con i sovrani delle popolazioni barbariche; alle abbazie e ai monasteri, che iniziano a svilupparsi nel VI secolo, sull’esempio di san Benedetto da Norcia, ricorrono per aiuto le popolazioni indifese delle campagne, nei monasteri si conserva ciò che resta del patrimonio librario dell’antichità che i monaci copiano a mano su codici.
Dal Sacro romano Impero alla società feudale Instabilità politica e immobilismo sociale Tra l’VIII e il IX secolo il re dei Franchi Carlo Magno (742-814), crea il Sacro Romano Impero, nell’ambizione di ricostruire l’unità e la grandezza dell’Impero romano, proponendosi al contempo come difensore della cristianità. Le tre aree europee riunite (Francia, Germania, Italia) già verso la metà del IX secolo tornano però a separarsi (nel corso del tempo sarà la parte germanica a rappresentare l’Impero). Inoltre l’autorità del potere centrale dell’imperatore è contrastata dal crescente potere dei feudatari, spesso in lotta tra di loro. Ai guerrieri che lo sostenevano Carlo Magno aveva concesso dei territori (feudi) in cambio della loro fedeltà, ma nel tempo i feudatari erano diventati sempre più autonomi dall’imperatore. I feudi maggiori (ereditari dagli ultimi decenni del IX secolo) diventano sempre più simili a regni, con vere e proprie corti, soprattutto in Francia, riservandosi il diritto di amministrare in proprio la giustizia, di riscuotere imposte, di armare un proprio esercito. La società feudale, che in alcune zone perdura ben oltre l’anno Mille, prevedeva al suo interno una struttura statica e gerarchica: i confini tra le diverse categorie sociali (aristocrazia feudale, clero e contadini) sono considerati invalicabili, in quanto la struttura sociale è ritenuta il riflesso della volontà divina.
800
Carlo Magno è incoronato imperatore del Sacro romano impero da papa Leone III
800
1037
La Constitutio de feudis sancisce l’ereditarietà dei feudi minori
1000
900
962
Ottone I dà vita al Sacro romano impero germanico
1096-1099
Prima crociata; assedio di Gerusalemme
Sguardo sulla storia 35
Verso una nuova civiltà
Lessico inurbamento Flusso di movimento degli abitanti che si spostano dalle campagne verso le città.
Rinascita economica e trasformazioni sociali Intorno al Mille in Italia e nel resto dell’Europa si verifica un profondo cambiamento, che investe innanzitutto l’agricoltura: l’impiego di nuove tecniche produce un aumento delle terre coltivate. Dopo secoli di crisi demografica, la popolazione torna a crescere e a inurbarsi , nelle città riprendono le attività produttive, gli scambi commerciali, l’uso della moneta. Mentre il potere dell’aristocrazia feudale inizia a indebolirsi, emerge un nuovo ceto, la borghesia, legato al dinamico universo cittadino. Protagonista della rinascita economica è la figura del mercante. Dai comuni alle Signorie In Italia il processo di trasformazione economica e sociale è particolarmente evidente nel Centro e nel Nord, dove fiorisce la civiltà comunale; invece nell’Italia meridionale si affermano forme monarchiche legate alla persistenza di strutture socio-economiche feudali. I comuni si reggono su ordinamenti e organismi di tipo repubblicano e ricercano l’autonomia sia dal modello feudale sia, e soprattutto, dal governo imperiale, che alla fine, dopo aspre lotte, è costretto ad accettarla. Ma ben presto i comuni, in particolare in Toscana, sono dilaniati da sanguinose lotte interne. Proprio il persistere di questi continui contrasti crea le basi per l’affermarsi nel XIV secolo delle signorie.
Impero e Papato La crisi dell’Impero e la corruzione della Chiesa Il ruolo dell’Impero nel tempo si fa sempre più limitato, anche il tentativo di Arrigo VII intenzionato a restaurare l’autorità imperiale con la sua discesa in Italia non produce risultati a causa della morte dell’imperatore. Nel frattempo in Francia e in Inghilterra si affermano le grandi monarchie nazionali che entrano ben presto in conflitto fra loro.
Cronologia interattiva 1223
Onorio III approva la regola francescana
metà XII secolo
Diffusione dei movimenti pauperistici
1163
Fondazione dell’università di Oxford
1100
1200 1122
Il concordato di Worms pone fine alla lotta per le investiture 1222 1158-1183
Lotta fra Federico I il Barbarossa e i comuni italiani
36 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
1220
Federico II nominato imperatore
Fondazione dell’università di Padova
Lessico mondanizzazione Progressivo aderire della Chiesa alle logiche del potere e della ricchezza entrando come parte attiva nelle vicende dei popoli e dei governi e condizionandone le sorti.
Ma anche l’altra grande istituzione universalistica del Medioevo, il Papato, attraversa una crisi profonda. Il suo ruolo morale-religioso è compromesso agli occhi del popolo cristiano dalla mondanizzazione della Chiesa e dalla contaminazione con il potere politico, che induce la Chiesa a lottare a lungo con l’Impero per affermare la propria supremazia. Nel XIII secolo Innocenzo III e Bonifacio VIII si faranno portavoce di una vera e propria concezione teocratica: secondo tale concezione, essendo il Papa il rappresentante di Dio sulla Terra, al Papato spetta la preminenza politica. Alla Chiesa ufficiale si oppongono i movimenti pauperistici e varie sette ereticali, che esprimono l’esigenza di un ritorno agli ideali evangelici, esigenza manifestata anche dagli ordini mendicanti: francescani e domenicani, fondati rispettivamente da san Francesco e san Domenico, che pure rimangono dentro la Chiesa. Le crociate Tra il 1096 e il 1270 si susseguono varie crociate in Terrasanta, con cui la Chiesa, anche per accrescere il proprio prestigio, mobilita la cristianità contro i musulmani, organizzando spedizioni militari per la liberazione del Santo Sepolcro a Gerusalemme e la riconquista della penisola iberica. La crisi del Trecento All’inizio del Trecento la sede del Papato, succube degli interessi della monarchia francese, si trasferisce da Roma ad Avignone, in Provenza, dove rimarrà per quasi settant’anni (1309-1377), periodo conosciuto come “cattività avignonese”. La società è caratterizzata da una grave crisi economica. L’ascesa della borghesia mercantile è minata da fallimenti bancari e da guerre che rallentano il traffico commerciale e la produzione di merci. Carestie ed epidemie si susseguono fino alla “peste nera” (1348) che riduce quasi di un terzo la popolazione europea.
1300 Bonifacio VIII proclama il primo giubileo 1348 1309-1377
Clemente V trasferisce la sede papale ad Avignone
Epidemia di peste nera
Cattività avignonese 1310
Discesa di Arrigo VII in Italia
1300
1400 1287
I Visconti a Milano 1250
Muore Federico II 1343-45
Fallimento dei banchieri Bardi e Peruzzi
Sguardo sulla storia 37
1
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 I cardini della visione medievale Medioevo. Significato di un termine “Età intermedia, età di mezzo” Il termine Medioevo significa letteralmente “età intermedia, età di mezzo” ed è nato nell’età umanistica (XV secolo). Gli umanisti si consideravano eredi della cultura classica e della sua grandezza. Con il termine Medioevo gli umanisti intendono, con implicita valutazione limitativo-negativa, un periodo intermedio, una sorta di intervallo, tra la grande età classica e la nuova età umanistica, enfatizzando la distanza rispetto al modello culturale precedente: l’età classica.
Lessico oscurantismo Si intende qui il giudizio degli illuministi sull’epoca medievale in cui non ci sarebbe stato alcun pensiero libero e autonomo rispetto all’ auctoritas, cioè gli autori classici, le Scritture, i Padri della Chiesa.
Un’età “buia”? Gli umanisti, e ancor più gli illuministi (XVIII secolo), ci hanno quindi trasmesso un’immagine del Medioevo che si è profondamente radicata nell’immaginario: un periodo “buio”, di decadenza, barbarie e violenza nei rapporti sociali, di irrazionalità, oscurantismo e regressione culturale. In realtà ciò può in parte essere vero per i primi secoli (in particolare V-VII secolo) e soltanto per la parte occidentale dell’ex Impero romano e soprattutto per l’Italia, sconvolta a più riprese dalle invasioni barbariche, iniziate già da due secoli prima della caduta dell’Impero e colpita da una gravissima crisi, economica, demografica, culturale. Ma è certo errato parlare di “secoli bui” dopo il Mille. In Francia, nei castelli dell’aristocrazia feudale, si sviluppa una civiltà raffinata; in Italia, nell’ambito della dinamica vita dei comuni, nasce, a partire dal XIII secolo, una ricca produzione letteraria che ha il suo epicentro in Toscana. Nel XIV secolo si darà vita a tre capolavori che dominano nel canone occidentale: La Divina Commedia di Dante, il Canzoniere di Petrarca, il Decameron di Boccaccio.
Miniatura medievale che rappresenta i tre ordini della società medievale. Intorno al 1025 Adalberone, vescovo di Laon, in un testo che ebbe larga fortuna, ritrae la società come rigidamente divisa in tre categorie, ognuna con compiti specifici, in nessun modo intercambiabili: oratores, coloro che pregano, cioè gli uomini di Chiesa, bellatores, coloro che combattono e laboratores, coloro che lavorano, i contadini (categoria quest’ultima inferiore alle altre due).
38 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
Il principio gerarchico L’ordine gerarchico nella società e nel cosmo Nella mentalità dell’Alto Medioevo (V-X secolo) era radicata la convinzione che esistesse nella società una rigida gerarchia, per cui ogni uomo occupava una posizione fissa nella scala sociale. Una visione che inizialmente rifletteva la struttura feudale della società, ma che si può trovare ben oltre l’età feudale. A lungo anche solo pensare di poter cambiare la propria posizione sociale per elevarla era considerato dalla mentalità medievale quasi un peccato: si pensava infatti che l’ordine sociale fosse voluto da Dio e fosse specchio dell’ordine celeste, a sua volta strutturato, nell’immaginario medievale, in modo gerarchico. La società medievale era divisa in tre categorie, ognuna con compiti specifici: gli uomini di Chiesa (oratores), il cui compito era quello di pregare e lodare Dio; la classe guerriera (bellatores), incaricata di difendere con le armi la Chiesa e i cristiani; i lavoratori (laboratores), ovvero i contadini, a cui spettava solo il compito di lavorare.
Lessico istituzioni universalistiche Si ritiene che la Chiesa e l’Impero derivino la loro autorità da Dio e quindi siano universali, ovvero che il loro potere si estenda a tutti gli uomini.
Le due istituzioni “guida” dell’umanità: Papato e Impero Emanazione diretta dell’“ordine” voluto da Dio nell’universo e nel mondo sono i due massimi poteri della società medievale: l’Impero e il Papato, preposti da Dio stesso, con diversi compiti, a governare su tutta l’umanità. Proprio perché considerata di derivazione divina, la loro autorità (per lo meno sul piano teorico) è vista come indiscutibile. Ma proprio per la rilevanza del principio gerarchico, stabilire a quale delle due istituzioni spetti il primato sull’altra sarà motivo di aspre lotte. Il contrasto tra le due istituzioni universalistiche attraversa la storia medievale e si riflette anche nella letteratura: in particolare il tema riveste grande importanza nella Commedia di Dante. Il rispetto dell’autorità Nella mentalità medievale è radicata per secoli l’idea che si debba sempre rispettare l’autorità, sia in ambito politico-sociale (si deve obbedire al re, all’imperatore, al papa e alla gerarchia ecclesiastica), sia in ambito culturale e spirituale (si venera l’autorità della Bibbia, dei Padri della Chiesa, dei grandi autori dell’antichità). Il concetto di auctoritas è molto importante nel Medioevo, ciò che proveniva dalle auctoritates non poteva essere messo in discussione; non era quindi pensabile poter scoprire nuove cose: la verità è data una volta per tutte e quindi immutabile.
Nuove tendenze nel Basso Medioevo Solo tra il Duecento e il Trecento, all’interno della più generale evoluzione delle strutture sociali, del costume e della mentalità Testi in dialogo che caratterizza il consolidarsi della civiltà comunale, si fa strada Pro e contro la teocrazia I due testi evidenziano due posizioni la possibilità della ribellione sociale, della discussione e della opposte sul tema del rapporto gerarchico contestazione ideologica. Inoltre nei comuni dell’Italia centrotra il papa e l’imperatore settentrionale si creano le condizioni per una maggiore mobilità D1a Innocenzo III sociale e per l’affermazione della classe borghese: di conseguenIl papa è il sole, l’imperatore è la luna za entra definitivamente in crisi l’immagine statica dei tre ordini D1b Dante Alighieri «È giunta la spada col pasturale» feudali a cui sopra si è fatto riferimento e si fa strada una visione Pg XVI, 106-112 più articolata e dinamica della società e delle categorie sociali. online
La società medievale oratores uomini di Chiesa coloro che pregano La società alto-medievale era divisa in 3 categorie gerarchicamente ordinate
bellatores soldati coloro che combattono laboratores contadini coloro che lavorano
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 39
La visione simbolico-religiosa La fede cristiana come “mentalità” e come parametro assoluto di giudizio e il teocentrismo Nel Medioevo la fede cristiana non è, come per noi oggi, una scelta soggettiva di vita, ma è la visione dominante del mondo. Essa permea il modo di concepire la vita, la storia, il mondo stesso della natura: è insomma una “mentalità”. Si tratta di una visione chiusa ai valori culturali e religiosi degli “altri”, per nulla disposta a dialogare con chi considera “diverso”. Nel cristianesimo medievale una rigida frontiera divide i cristiani sia dai pagani sia dagli appartenenti ad altra fede, in particolare quella musulmana: i seguaci di Maometto sono infatti assimilati ai pagani, sono identificati come “infedeli” e considerati i nemici per definizione dei cristiani. Nel Medioevo domina infatti una visione della realtà secondo la quale tutto discende da Dio: la società, l’economia, il tempo. Questa visione prende il nome di teocentrismo. online
La realtà come universo di simboli Proprio per la forte influenza della fede cristiana sul pensiero medievale, la vita terJacques Le Goff, Il simbolismo medievale Uno dei maggiori studiosi della cultura medievale rena è considerata solo un transitorio passaggio verso la vera spiega le caratteristiche del simbolismo. vita, quella ultraterrena. La natura stessa è considerata non di per sé, ma in quanto specchio della grandezza e potenza di Dio; da qui l’idea che la realtà vera non sia quella che appare ed è percepita attraverso i sensi. Nella natura si nasconde un universo di simboli (simbolismo) che vanno decifrati per scoprirvi un significato religioso e cristiano: secondo la suggestiva definizione di Ugo di San Vittore (➜ D3 ), la natura è un «libro scritto dal dito di Dio», in cui leggere la presenza divina (e sono in grado di farlo soprattutto i rappresentanti della Chiesa). Documento critico
Una mentalità pre-scientifica Le pietre, le piante, gli animali non sono quindi visti e studiati secondo un’ottica naturalistica, scientifica, ma sono catalogati attraverso I bestiari una visione simbolica che ne individua presunte qualità positive o negative. Particomedievali larmente importanti nel Medioevo erano i bestiari, un genere sviluppatosi a partire dal XII secolo, nel quale le qualità di animali sia reali sia leggendario-fantastici (già nel mondo antico, nella mitologia classica trovavano posto animali favolosi come l’araba online fenice, le sirene o gli unicorni) venivano considerati simbolo di vizi D2 Il Fisiologo e virtù. Ai bestiari si ispirarono anche le arti figurative: sui portali Una lettura simbolica del mondo animale e sui capitelli delle chiese romaniche e gotiche sono raffigurate online
Parola chiave
Gallery
simbolo/simbolismo Il termine simbolo deriva dal greco sýmbolon, che indicava un segno di riconoscimento «rappresentato dalle due metà di un oggetto diviso tra due persone» (Le Goff): nella sua prima etimologia il termine rimanda perciò a un’unità che deve ricomporsi. Nel Medioevo realtà sensibile e realtà ultraterrena appaiono così intimamente legate da rappresentare appunto quasi due facce di una stessa medaglia, o meglio: in ogni fenomeno, evento, figura della realtà umana o naturale, si rispecchia, anche se in modo enigmatico, la dimensione del soprannaturale. Attraverso molteplici segni
simbolici la realtà sensibile rimanda sempre a quella soprannaturale e solo dal rapporto con quest’ultima riceve il suo pieno significato, di cui il simbolo è in un certo senso il “tramite”.
Miniatura in un bestiario francese del 1450 ca. (L’Aia, Museum Meermanno-Westreenianum). Nel Medioevo il pellicano era considerato simbolo di Cristo. Si riteneva infatti che questo uccello si ferisse il petto per nutrire i propri piccoli con il suo sangue. Il sacrificio del pellicano rappresenta la morte di Cristo sulla croce e quindi il suo sacrificio per la redenzione dell’umanità.
40 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
figure zoomorfe, spesso fantastiche e mostruose (draghi, grifoni), investite di un significato simbolico che intende trasmettere un insegnamento morale. Il simbolismo dei numeri e dei nomi Nella visione medievale hanno significato simbolico anche i nomi e i numeri, in particolar modo il tre e il dieci. Il primo (con i suoi multipli) è il simbolo della Trinità ed è il numero perfetto per definizione; il dieci è dato dal tre moltiplicato per se stesso più uno: allude quindi al mistero di Dio uno e trino. Nella Commedia, capolavoro dantesco e vera sintesi del sapere medievale, ricorrono costantemente entrambi i numeri: le cantiche sono tre, ognuna divisa in 33 canti, più un canto che funge da proemio. Ciascuno dei tre regni dell’aldilà è composto da dieci zone, ma più in generale la simbologia numerica ricorre in tutta l’opera. Il dieci è presente già nella Bibbia (dieci furono i Patriarchi, dieci sono i comandamenti). Quanto ai nomi, si credeva che fossero “segni” allusivi a qualità intrinseche delle cose (o delle persone): da qui la presenza ricorrente di etimologie spesso del tutto fantasiose per ricondurre a tutti i costi un nome a un preciso significato (ad es. il termine homo, “uomo”, viene ricondotto a humus, “terra”). Non a caso Dante attribuisce alla donna salvifica della Vita nuova, la sua opera giovanile, il nome di Beatrice, un nome non reale ma appunto simbolico: significa infatti “colei che rende beati”, il cui saluto produce salvezza spirituale. online
Gallery Simbolismo nell’architettura, scultura, pittura
Simbolismo nell’arte Il simbolismo interessa anche l’arte: la struttura architettonica della chiesa corrisponde a precisi significati simbolici di carattere religioso; le figure che la ornano sono spesso personificazioni delle virtù o dei vizi e costituiscono una sorta di “libro” per educare i fedeli attraverso l’immagine.
Fissare i concetti I cardini della visione medievale
VERSO IL NOVECENTO
1. Che cosa intendono gli umanisti con il termine Medioevo? 2. Il Medioevo può essere definito un’età “buia”? 3. Quale concezione della società domina nel Medioevo? 4. In quante e quali categorie e con quali compiti era divisa la società medievale? 5. Che cosa rappresentano l’Impero ed il Papato? 6. Che cosa vuol dire nel Medioevo rispettare l’auctoritas? 7. Quali sono le nuove tendenze che caratterizzano il Basso Medioevo? 8. Che cosa si intende con teocentrismo? 9. Che cosa vuol dire che la realtà è vista come un universo di simboli? 10. Qual è il significato simbolico di nomi e numeri?
Bestiari novecenteschi Alcuni autori moderni si sono espressamente richiamati alla tradizione dei “bestiari” medievali, ovviamente rivisitandola con moderna, sofisticata, consapevolezza letteraria. Pensiamo ad esempio alla “zoologia fantastica” dello scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), in cui egli riproduce, attingendo alla sua erudita memoria letteraria, lo spirito classificatorio degli antichi bestiari e ospita nel suo raffinato giardino zoologico animali inesistenti (come gli «animali degli specchi») o leggendari (come la chimera). Raramente negli scrittori moderni l’animale è una presenza amica e familiare; per lo più la sua figura si lega a un’inquietante valenza simbolica: «Spesse volte l’animale» ebbe a scrivere lo scrittore-giornalista Dino Buzzati (1906-1972) «si presta a incarnare il mistero». Da qui la presenza nei racconti di Buzzati di animali-mostro come il favoloso colombre (nel racconto omonimo Il colombre), investiti di un’arcana
significazione. In questo senso una raccolta assai suggestiva è Bestie (1917) dello scrittore toscano Federigo Tozzi (18831920): 67 brevissime prose in cui, di solito verso la fine, compare inaspettatamente un animale, nel quale Tozzi proietta, quasi simbolicamente, il suo mondo interiore angosciato e angoscioso e nel quale talvolta sembra quasi identificarsi. Anche lo sconcertante bestiario di Tommaso Landolfi (1908-1979) sembra legarsi a ossessioni inconsce (si pensi alle labrene [specie di geco] dell’omonimo racconto, agli scarafaggi del Mar delle Blatte, al gigantesco ragno con il volto umano de Il babbo di Kafka). Riferimenti bibliografici: J.L. Borges, Manuale di zoologia fantastica [1957], Einaudi, Torino 1962; D. Buzzati, Bestiario, Mondadori, Milano 1991; F. Tozzi, Bestie, Theoria, Roma-Napoli 1987; T. Landolfi, Le più belle pagine scelte da Italo Calvino, Adelphi, Milano 1989.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 41
Ugo di San Vittore
Il mondo naturale è manifestazione della sapienza divina
D3 De tribus diebus, trad. di S. Vanni Rovighi, in Grande antologia filosofica Marzorati, vol. IV, Marzorati, Milano 1973
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5, 6
In questo passo assai indicativo del modo in cui il Medioevo vedeva la realtà naturale, Ugo di San Vittore (1096-1141 ca), teologo francese, rappresenta con una suggestiva immagine il mondo naturale come «libro scritto dal dito di Dio».
Questo mondo sensibile, infatti, è quasi un libro scritto dal dito di Dio, cioè creato dalla virtù1 divina, e le singole creature sono come figure2, non inventate dall’arbitrio dell’uomo, ma istituite dalla volontà divina per manifestare la sapienza invisibile3 di Dio. Ma come un analfabeta, quando vede un libro aperto, 5 scorge i segni, ma non capisce il senso, così lo stolto e l’uomo animale4, che non capisce le cose divine [...] in queste creature visibili vede l’aspetto esteriore, ma non ne capisce l’interiore significato. Colui che è spirituale5, invece, ed è capace di valutare tutte le cose, mentre considera di fuori la bellezza dell’opera, vi legge dentro quanto mirabile sia la sapienza del Creatore. Pure, non vi è nessuno a cui 10 le opere di Dio non appaiano mirabili, anche se l’insipiente6 mira in esse soltanto l’aspetto esteriore, mentre il sapiente da ciò che vede fuori scorge il pensiero della divina sapienza, così come se di una ed identica scrittura uno lodasse il valore o la forma dei segni, l’altro il senso e il significato.
1 virtù: potenza, capacità di creare. 2 creature… figure: il mondo è come un libro le cui figure sono disegnate da Dio stesso.
3 per manifestare… invisibile: le cose visibili sono simbolo di quelle invisibili. 4 l’uomo animale: l’uomo che, come gli animali, non va oltre le sensazioni, incapace di una visione razionale e spirituale.
5 spirituale: l’uomo che si è elevato alla sfera spirituale della fede e della trascendenza. 6 l’insipiente: l’uomo stolto e ignorante.
Concetti chiave Il libro della natura
In questo testo Ugo di San Vittore traccia una netta differenza tra il vedere la superficie delle cose sensibili e il cogliere in esse l’impronta di Dio. E lo fa con un’allegoria: di fronte a un testo, c’è chi afferra solo i segni con cui si presentano le parole e chi, invece, sa cogliere, delle parole, il senso profondo. Così, l’uomo limitato e incapace di elevarsi alla sfera spirituale coglie della realtà sensibile esclusivamente l’apparenza, la dimensione contingente e materiale; il sapiente invece riesce a individuare nei segni il rimando alla presenza di Dio che si manifesta nel creato.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Chi sono i destinatari del «libro scritto dal dito di Dio»? 2. Quali elementi della natura costituiscono, secondo te, le parole del “libro”? ANALISI 3. A proposito del “libro” della natura il testo propone un’antitesi tra insipienti e sapienti. Spiega in che cosa consiste la differenza. LESSICO 4. Spiega la differenza semantica fra il verbo “vedere” e il verbo “scorgere” (r. 4 e 5).
Interpretare
SCRITTURA 5. Rifletti sul rapporto esistente tra “il valore o la forma dei segni” e “il senso e il significato” (max 5 righe).
EDUCAZIONE CIVICA
6. Confronta la visione medievale del mondo come «libro scritto dal dito di Dio» con la visione attuale della natura. Perché quest’ultima è più favorevole allo sviluppo della scienza?
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità
competenza 5, 6
42 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
2 Il tempo e lo spazio La concezione della storia e del tempo L’assenza di prospettiva storica e la visione provvidenziale Nel Medioevo, e in particolare nell’Alto Medioevo, non si fa alcuna distinzione tra passato e presente e non si ha assolutamente il senso della prospettiva storica. Nella concezione medievale il corso della storia è tutto già scritto nella mente di Dio, per cui i singoli eventi sono come tasselli collegati tra di loro attraverso un disegno provvidenziale. Esempi della concezione provvidenziale della storia si ritrovano anche nella Commedia, in particolare nel VI canto del Paradiso, in cui Dante, per bocca dell’imperatore Giustiniano, traccia una grandiosa sintesi della storia romana, concepita come progressiva realizzazione, voluta da Dio, dell’idea imperiale e preparazione alla nascita e morte di Cristo. Dal tempo della Chiesa al tempo dei mercanti Rispetto all’antichità, nell’Alto Medioevo la misurazione del tempo viene “cristianizzata”, per cui le scansioni temporali corrispondono ai momenti fondamentali della preghiera: le laudi (all’alba), i vespri (le 18), la compieta (le 21 circa). L’inizio dell’anno è fatto coincidere con la redenzione cristiana (inizialmente la Pasqua, in un secondo tempo, la Natività e in seguito il primo gennaio, la circoncisione di Gesù). Per secoli è esclusivamente la Chiesa a controllare e gestire la scansione del tempo: le ore del giorno sono infatti segnate dalle campane della chiesa. Nel corso del XIII secolo, con la ripresa della vita cittadina e dei traffici commerciali, i mercanti non vivono più nel tempo lento dell’agricoltura e della Chiesa: le molteplici attività della società urbana rendono necessaria la misurazione precisa. Già alla fine del XIII secolo appaiono così i primi orologi meccanici capaci di misurare l’ora in modo moderno, facendone la ventiquattresima parte della giornata (come oggi). Inoltre sono le torri comunali e non più le campane della chiesa a scandire la partizione del tempo, ormai un tempo “laico”, potenzialmente alternativo a quello della Chiesa.
Una geografia favolosa cristianocentrica Orizzonti simbolici Fin verso la fine dell’età medievale, cioè fino al XV secolo, le conoscenze geografiche sono scarsissime e l’immagine del mondo conosciuto è alquanto approssimativa. Le carte geografiche medievali non rappresentano realisticamente dei luoghi ma sono piuttosto delle figurazioni simbolico-religiose: ad esempio in tutte campeggia Gerusalemme, la città santa, collocata al centro del mondo esclusivamente sulla base di un passo della Bibbia in cui si dice che Dio ha posto Gerusalemme «in mezzo alle nazioni». La visione dominante si potrebbe quindi definire cristianocentrica, perché è fondata sull’esaltazione della cristianità rispetto al resto del mondo. Mappa del mondo (part.): Gerusalemme è al centro, circolare e perfetta (sec. XIII. British Library, Londra).
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 43
La geografia dell’immaginario Sulle carte medievali figurano anche luoghi del tutto immaginari, come la favolosa Isola dei beati, che sarebbe stata raggiunta dal monaco irlandese san Brandano. Ancora nel Cinquecento, quando le scoperte geografiche svelano sempre più la reale fisionomia della terra, figura sulle carte “il paese del prete Gianni”, un personaggio leggendario che regnava su una regione favolosa, un vero e proprio paese delle meraviglie, collocato nelle lontane Indie. Inonline sieme all’Asia e all’Oriente le Indie sono i luoghi prediletti dalla geografia fantastica D4 Lettera del prete Gianni medievale, in cui vivono mostri e creature strane.
Il paese delle meraviglie
L’immagine dell’universo nel Medioevo
Lessico Scolastica Scuola filosofica nata tra il XII e il XIII secolo, il suo massimo esponente fu Tommaso d’Aquino (1225-1274), che riprende il pensiero di Aristotele.
Il modello geocentrico Nel Medioevo (e fino al Cinquecento) la visione dell’universo era fondata sul modello aristotelico-tolemaico, frutto del pensiero del filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.), poi completato dall’astronomo Tolomeo. Secondo tale concezione (geocentrica) la terra si trova, immobile, al centro dell’universo e attorno a essa ruotano, con movimento perfettamente circolare e uniforme, le sfere celesti e i pianeti (tra cui la luna e il sole). Mentre il mondo sublunare è caratterizzato dall’imperfezione e dalla corruttibilità, il mondo celeste è perfetto e incorruttibile. La Scolastica , la cultura medievale delle università (➜ PAG. 62), soprattutto attraverso il pensiero di Tommaso d’Aquino e Alberto Magno, arricchisce tale concezione, integrandola nella più generale visione religiosa del mondo: l’universo è concepito, in modo speculare all’immagine della società, come un organismo gerarchicamente ordinato dalla provvidenza, in cui il movimento delle sfere celesti è armonicamente ordinato da Dio, attraverso le intelligenze angeliche che presiedono ai vari cieli. È la concezione presente anche nella Divina Commedia.
3 I valori e i modelli di comportamento Il modello clericale
Parola chiave
Gli intellettuali della Chiesa Nei primi secoli del Medioevo gli intellettuali sono quasi esclusivamente uomini della Chiesa, gli unici a conoscere il latino, a lungo l’unica lingua della cultura: chierico (clericus) e intellettuale di fatto coincidono.
intellettuale Il moderno significato del termine “intellettuale” nasce in Francia verso la fine dell’Ottocento, quando un gruppo di scrittori firmò un manifesto degli intellettuali per esprimere solidarietà allo scrittore Émile Zola che si era apertamente schierato in difesa dell’ufficiale ebreo Dreyfus, ingiustamente accusato di tradimento. Da allora il termine è entrato larga-
mente nell’uso per identificare una categoria specifica della società, in qualche modo separata e considerata “superiore”: intellettuali sono in senso generico i filosofi, gli scrittori, gli artisti, tutti coloro che in qualche modo accrescono con il loro personale contributo il patrimonio culturale e, in senso più specifico, coloro che, animando con qualificati interventi il dibattito culturale su
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temi importanti, esercitano in un certo senso il ruolo di “coscienza critica” nella società. Se ci riferiamo ai secoli medievali l’intellettuale può essere specificamente considerato colui che «lavorava con la parola e con la mente, non viveva di rendita della terra né era costretto a lavorare con le mani e, in misura variabile, era consapevole di questa sua “diversità” dalle altre categorie umane».
La svalutazione della dimensione terrena e il terrore dell’aldilà La mentalità medievale è condizionata per secoli dalla visione della Chiesa: ne deriva, soprattutto nell’Alto Medioevo, un incombere del soprannaturale che comporta la svalutazione o addirittura il disprezzo per la dimensione terrena: nel trattato De contemptu mundi, noto anche con il titolo De miseria humanae conditionis [Il disprezzo del mondo o La miseria dell’esistenza umana], uno dei testi che ebbero maggiore fortuna nel Medioevo (ci è pervenuto in ben 700 manoscritti), Lotario da Segni, il futuro papa Innocenzo III (1198-1216), descrive l’uomo come una creatura misera e spregevole, destinata inesorabilmente al peccato (➜ TeSTI In DIALoGo D6a ). online L’uomo medievale ha il terrore del giudizio implacabile di D5 Anonimo attribuito a Tommaso da Dio, ben espresso nel celebre inno Dies irae: l’autore (sicuraCelano Dies irae mente un chierico) rappresenta con evidenza drammatica il giorno del giudizio universale, il “giorno dell’ira”, appunto, di un Dio immaginato come terrifico giustiziere. Il filo rosso del terrore della morte online Per approfondire e del giudizio di Dio collega nella cultura medievale documenti artistici anche La “buona morte” molto distanti nel tempo. nel Medioevo Predisporsi a una “buona morte” era pensiero di ogni cristiano e si temeva in particolare una morte improvvisa, che non consentisse di pentirsi dei propri peccati. La sorte dell’anima nell’aldilà poteva infatti essere terribile: la pene dell’inferno, descritte a forti tinte dai predicatori e della letteratura didattica (➜ C2 PAG. 182 SS.) erano una delle paure più radicate nell’uomo medievale. Per conquistare la salvezza nella vita eterna erano diffusi riti penitenziali collettivi, come gli estenuanti pellegrinaggi, che conducevano masse di fedeli in Terrasanta o a Santiago di Compostela, nella speranza di cancellare i propri peccati.
Lessico misogino Il termine, dal greco miséo, “odiare” e guné, “donna”, indica un atteggiamento di avversione e devalorizzazione delle donne.
Il disprezzo del corpo e la repressione della sessualità La civiltà greco-latina aveva valorizzato il corpo, nella scultura ne aveva rappresentato l’armoniosa bellezza e non aveva assolutamente represso, ma anzi esaltato il piacere dei sensi. Nell’Alto Medioevo invece subentra una diffusa condanna della sessualità (persino nell’ambito del matrimonio) e più in generale una svalutazione del corpo, «abominevole veste dell’anima», secondo la definizione di Gregorio Magno (ca 540-604). Alla rigida contrapposizione fra corpo e spirito, alla sostanziale identificazione tra sessualità e lussuria (uno dei peccati capitali condannati dalla Chiesa), si collega il diffuso atteggiamento misogino (➜ C9) che impronta la cultura dei chierici: esso caratterizza in particolare l’Alto Medioevo, ma di fatto rimane a lungo radicato nella mentalità e nel costume.
I confratelli flagellanti della Fraternità di Santa Maria della Carità di Venezia (da un Graduale del 1365).
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 45
online
Per approfondire Lo scriptorium
La vita ascetica dei santi e dei monaci: modello per il cristiano Nei secoli dell’Alto Medioevo, i modelli cui il cristiano deve ispirarsi sono soprattutto i santi e i monaci, che vivono isolati dalla società e mortificano la carne attraverso l’autoimposizione di privazioni e addirittura di vere e proprie sofferenze fisiche. Una scelta che nella società medievale non era assolutamente considerata come un comportamento eccentrico, quasi folle, ma anzi come il modo più autentico di vivere il messaggio cristiano. I monaci infatti conducono una vita isolata nei monasteri, dedicata alla preghiera, allo studio, ma anche all’attività manuale. La celebre Regola di san Benedetto, sintetizzata nella locuzione Ora et labora (“Prega e lavora”), adottata dalle comunità monastiche in Occidente, attribuiva pari importanza alla preghiera e al lavoro manuale. Ogni monaco dunque aveva specifici compiti manuali; tra questi particolarmente importante era l’attività di trascrizione dei testi, grazie alla quale poté essere conservato il patrimonio culturale dell’antichità. Con la ripresa della vita urbana gli ecclesiastici vivono in conventi situati nelle città e svolgono un importante ruolo nel predicare i valori cristiani alla comunità dei fedeli. Anche in piena età comunale, dopo il tramonto del monachesimo, questo modello ascetico di vita viene riproposto e persino accentuato dai francescani spirituali, come dimostrano, in particolare, le laudi e la vita stessa di Jacopone da Todi (➜ C2)
Parola chiave
ascetismo
PER APPROFONDIRE
Un “antimodello”: la cultura popolare, giovanile e goliardica A quest’ottica dominante si contrappone una cultura parallela, certo marginale e subalterna, ma non trascurabile, proprio perché costituisce un “antimodello” attivo, di cui tenere conto per una visione non unilaterale della cultura medievale: è la cultura giovanile, quella degli studenti universitari o quella popolare, che si esprime, come ha dimostrato Michail Bachtin, nella festa (➜ C5), trasgressione tollerata dalla Chiesa solo perché transitoria. Ribaltando la cupa visione dei chierici, la cultura dei goliardi e quella popolare celebrano il sesso, il cibo, il vino (➜ D6b ), insistono nel rappresentare gioiosamente gli aspetti materiali e fisiologici e parodizzano in modo spesso irriverente le autorità religiose e culturali.
La fede nei miracoli e il culto delle reliquie
L’ascetismo è una scelta di vita che mira a realizzare l’ascesi (dal greco áskesis, “esercizio”, “addestramento” e dal latino tardo ascesis, “ascesi”) a Dio. L’asceta (chi pratica l’ascetismo) cerca di affinare le proprie qualità spirituali
Le paure derivate dalla precarietà della vita (carestie, pestilenze, guerre) e dall’incombere costante della morte, favorivano la fede nei miracoli e nella protezione dei santi, a cui l’uomo medievale è particolarmente devoto. I miracoli sono espressione dell’intervento diretto di Dio, che si serve di quegli intermediari privilegiati che sono i santi: le vite dei santi, assai popolari nel Medioevo, sono ricchissime di miracoli, la cui tipologia per lo più si ripete, come la capacità di addomesticare animali selvaggi, la cacciata dei demoni da persone ritenute possedute, ma soprattutto la guarigione delle malattie. Assai diffuso era poi il culto delle reliquie, la ricerca frenetica e l’appropriazione a fini devozionali di parti del corpo
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attraverso il distacco dal mondo e pratiche penitenziali come la mortificazione del corpo, la scelta di una alimentazione molto parca o spesso addirittura del digiuno. In senso lato si usa l’aggettivo ascetico come sinonimo di vita austera, fondata sulla rinuncia.
dei santi: un culto inizialmente alimentato dalla Chiesa, che si diffonde soprattutto durante le crociate in Terrasanta e che presto degenera da un lato, producendo un redditizio commercio di pseudo-reliquie, dall’altro alimentando fino a situazioni paradossali la credulità popolare. L’ingenua fede nelle reliquie viene gustosamente stigmatizzata da Boccaccio nella celeberrima novella di frate Cipolla (➜ C8 T6d ).
Riferimenti bibliografici: J. Le Goff, Il meraviglioso nell’Occidente medievale, in Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Laterza, Roma-Bari 2000; H. Fuhrmann, Guida al Medioevo, Laterza, Bari 2009.
I LUOGHI DELLA CULTURA
Il monastero Il monastero è uno dei luoghi-simbolo della civiltà dell’Alto Medioevo. Soprattutto dal VI al IX secolo i monasteri conoscono una diffusione capillare ed esercitano un ruolo fondamentale nella cultura europea. La struttura-tipo del monastero Il monastero, il luogo dove i monaci risiedevano stabilmente, sorgeva per lo più in posti isolati e spesso arroccati. Il centro del monastero era il chiostro, attorno al quale si trovavano i luoghi deputati alla vita e alla spiritualità monastica: la chiesa, la sala di riunione, il refettorio, lo scriptorium e il dormitorio. Non mancavano poi locali destinati a ospitare i pellegrini e chiunque avesse bisogno di rifugio in caso di necessità (in tempi di guerre e di carestie il monastero rappresentava un provvidenziale centro di accoglienza soprattutto per i più poveri e indifesi). I maggiori monasteri erano realtà perfettamente autosufficienti: da qui la presenza di stalle, porcili, pollai, mulini, forni
e frantoi. C’erano inoltre officine e laboratori, dove grazie ai monaci si mantennero vive e poterono essere trasmesse le tecniche artigianali dell’antichità. Lo scriptorium Lo scriptorium poteva essere la cella stessa dove alloggiava il singolo monaco, ma più comunemente era un locale abbastanza ampio dove si svolgeva il lavoro collettivo della trascrizione dei codici da parte dei monaci. Grazie a questa attività di trascrizione poté essere conservato il patrimonio culturale dell’antichità classica. Attraverso l’iconografia del tempo possiamo ricostruire l’attività del monaco e immaginarlo mentre scrive su un leggìo inclinato di legno. Gli “strumenti del mestiere” basilari dell’amanuense (chi trascriveva a mano i testi antichi) erano una penna d’oca, un raschietto per cancellare, inchiostri di diversi colori, un coltello per temperare.
Veduta aerea della Certosa di Pavia, fondata nel 1396. Sono ben riconoscibili le varie parti della struttura del monastero: la chiesa, il grande chiostro con le celle dei monaci, i locali di servizio, le stalle.
Il chiostro medievale del monastero cistercense di Heiligenkreuz, in Austria.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 47
Testi in dialogo
Due visioni opposte del corpo umano
LEGGERE LE EMOZIONI
Lotario da Segni
D6a Miseria della condizione umana, in Mistici del Duecento e del Trecento, a c. di A. Levasti, I, 1, Rizzoli, MilanoRoma 1935
Miseria della condizione umana Uno dei testi più celebri e indicativi della cultura clericale del Medioevo è Il disprezzo del mondo di Lotario da Segni (1160-1216), divenuto papa con il nome di Innocenzo III. Il testo è permeato da una concezione cupamente pessimistica dell’uomo, considerato un essere spregevole, disgustoso, concepito nella colpa (tale è considerato il congiungimento sessuale nell’ottica più rigoristica della cultura clericale), inevitabilmente portato al peccato e destinato alla putrefazione dopo la morte. Ispira le parole di Lotario una profonda avversione, quasi un orrore, per il corpo.
Dirollo io apertamente, dichiarerollo1 io apertamente: «L’uomo è formato di polvere, di loto2, di cenere, e d’una cosa ancor più vile: di spurcissimo seme umano; è stato concetto in pizzicore di carne3, in calore di libidine, in puzzo di lussuria e in macchia di peccato, che è il peggio; nato alla fatica4, al dolore, e alla paura, e, quello che è 5 più misero, alla morte. Fa le cose prave5 colle quali offende Iddio, offende il prossimo, offende se medesimo; fa le cose brutte colle quali macchia la fama6, la persona, la conscienzia7; fa le cose vane per le quali sprezza le cose d’importanzia, disprezza le cose utili, disprezza le cose necessarie. Diventerà cibo di fuoco, che sempre arderà, e arderà che non si potrà ispegnere8; esca di vermini9, che sempre rode e mangia; 10 massa immortale di bruttura, che sempre puzza, che è brutta e spaventevole». 1 Dirollo… dichiarerollo: lo dirò... lo dichiarerò. 2 loto: fango. 3 concetto... carne: concepito negli stimoli della carne.
4 nato alla fatica: nato per soffrire. 5 prave: malvagie. 6 la fama: l’onorabilità. 7 conscienzia: coscienza.
8 Diventerà… ispegnere: Lotario allude al fuoco infernale dal quale i peccatori sono destinati a essere arsi. 9 vermini: vermi.
Carmina Burana
D6b Carmina Burana (83), a c. di P. Rossi, Bompiani, Milano 1989
Elogio del corpo femminile Con questo testo mettiamo a confronto uno stralcio da uno dei Carmina Burana che, al contrario, esalta la bellezza del corpo femminile, la gioia di vivere, il piacere dei sensi. I Carmina Burana sono una raccolta di testi destinati a essere cantati, composti in latino tra il XII secolo e i primi trent’anni del XIII (➜ C5).
[…] 2 Non mi lamento di averla a lungo corteggiata: ne sono ben ricompensato e godo dei dolci premi che mi offre. Quando Flora mi saluta con i suoi occhi loquaci, provo una gioia che quasi non riesco a contenere, e sono felice di avere speso per lei tanta fatica. Rit.: Quale dolcezza, quale gioia e felicità provo nelle ore che passo con la mia Flora! 3 La sorte non mi è contraria: quando giochiamo nel segreto della camera, Venere mi sorride e mi protegge. Flora si scalda nuda nel letto, la sua pelle delicata è bianca come il latte e risplende il suo petto da fanciulla, sul quale si solleva il suo piccolo seno. Rit.: Quale dolcezza, quale gioia e felicità provo nelle ore che passo con la mia Flora! 4 Mi sembra di essere più che uomo e gioisco come fossi innalzato fra gli dèi, quando la mia mano tocca beata il suo morbido seno e scende poi leggera ad accarezzarle il grembo. Rit.: Quale dolcezza, quale gioia e felicità provo nelle ore che passo con la mia Flora!
48 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Nel testo 6a quali sentimenti secondo te vuole suscitare l’autore? Per quali ragioni? ANALISI 2. Sottolinea nei due testi le espressioni che con maggior forza ribadiscono rispettivamente un’idea negativa e positiva della natura umana.
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 3. Metti a confronto la rappresentazione del corpo che emerge dai due testi. 4. In questi due testi si confrontano due posizioni diverse rispetto al corpo: il disprezzo nel primo, l’esaltazione nell’altro. Rifletti sul rapporto che tu hai con il tuo corpo: ti accetti per come sei? Vorresti cambiare qualcosa? Lo consideri un impedimento o una forza per il raggiungimento dei tuoi obiettivi?
Il modello cavalleresco-cortese I primi intellettuali laici Nel Basso Medioevo (in particolare dal 1230 alla metà del Trecento) emergono progressivamente figure di intellettuali laici, che non appartengono alla Chiesa (è questo il primo significato del termine “laico”, che nel tempo si è arricchito di varie connotazioni ideologiche). I primi scrittori laici sono i poeti (trovatori) delle corti feudali del sud della Francia (➜ C1). Essi operano nella corte, nell’ambiente raffinato dei castelli. Un secolo dopo, in Italia, sono laici e non più chierici i poeti della cosiddetta “scuola siciliana”, una raffinata esperienza poetica nata alla corte dell’imperatore Federico II a opera di dignitari di corte, notai, giuristi collaboratori del sovrano (➜ C4). Un modello dalla fortuna secolare Anche la classe feudale dei cavalieri elabora una propria concezione del mondo e propri modelli di comportamento, che in parte rimangono autonomi, in parte si sovrappongono a quelli della cultura clericale, in parte coesistono con essi. Modelli che non solo influenzarono profondamente la società e la cultura medievale, ma arrivarono a estendere l’influenza ben oltre tale età, almeno fino al Rinascimento. Le virtù basilari del cavaliere Essendo legato all’esercizio delle armi, tale modello inizialmente prevede soprattutto l’esaltazione della forza fisica e del coraggio, qualità assolutamente necessarie a chi deve combattere. Al contempo, riflettendo i rapporti feudali, il modello cavalleresco implica l’esaltazione della lealtà e il culto dell’onore. Al di là di ogni trasformazione storico-politico-sociale, questi valori rimarranno comunque una costante del comportamento cavalleresco.
Miniatura francese di fine Duecento che raffigura episodi del ciclo arturiano.
Il cavaliere cristiano Tra il X e l’XI secolo, la Chiesa cerca di contrastare la violenza dei cavalieri dirottandola verso nobili obiettivi (come quello di aiutare i più deboli), ma soprattutto impegnandoli a difendere la causa della fede cristiana contro gli infedeli: una trasformazione, questa, strettamente collegata alla controffensiva cristiana nei confronti dell’islam. Il prototipo del cavaliere al servizio della fede cristiana è Roland (Orlando), protagonista della Chanson de Roland (➜ C1). La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 49
I LUOGHI DELLA CULTURA
Il castello L’epicentro del feudo Il castello, epicentro del feudo, è lo spazio sociale e culturale che caratterizza in particolare i secoli IX-XII. È la dimora, situata nelle campagne, di un grande feudatario e della sua corte, nella quale vive un’aristocrazia di cavalieri che ricava dalla proprietà terriera i mezzi economici per potersi dedicare esclusivamente all’attività militare. I castelli sono sempre circondati da mura con alte torri, dalla cui sommità può essere costantemente controllato a vista il territorio circostante. Le corti feudali di Francia A partire dall’XI secolo, i centri più importanti per la produzione letteraria sono le corti feudali di Francia: in esse i singoli feudatari gareggiano non più soltanto nell’esercizio della forza fisica e delle armi, ma anche nelle scelte di una vita elegante e raffinata. La superiorità di un signore e della sua corte si manifesta visibilmente nei sontuosi arredi del castello, nella magnificenza con cui sono organizzate le feste e i tornei cavallereschi.
Il centro della vita del castello è il grande salone con le pareti coperte da arazzi preziosi, dove hanno luogo innanzitutto i banchetti, ma dove si tengono anche le performances di giocolieri e giullari, e vengono recitate composizioni letterarie di vario genere: dalle poesie amorose dei trovatori, accompagnate dalla musica, ai romanzi cavallereschi letti di fronte al pubblico ristretto della corte. Le donne: una presenza fondamentale nel castello Nel castello è preminente il ruolo della donna: spesso dotate di buona cultura, le dame sono il vero centro della vita della corte, dato che le spedizioni militari tenevano assai spesso il signore lontano dal castello. Nelle corti feudali di Francia è proprio la forte presenza femminile che stimola e ispira una produzione lirica e narrativa incentrata sul tema dell’amore cortese. In parte diverso da quello qui tratteggiato sarà il modello della corte signorile che si sviluppa in Italia già ai primi del Trecento, poiché nasce all’interno della società urbana e come evoluzione delle strutture comunali.
Il castello medievale di Beynac a Beynac-et-Cazenac nel dipartimento francese della Dordogna.
Il mese di settembre miniato nel codice Le magnifiche ore del duca di Berry, 1410 (Museé Condé, Chantilly): sullo sfondo, il castello di Saumur, uno dei castelli della Loira.
50 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
Il castello-fortezza di Carcassonne, nel sud della Francia.
Il cavaliere cortese e i valori della liberalità e della cortesia Con la diffusione nei castelli feudali di modi di vita più lussuosi e raffinati, si verifica un’ulteriore trasformazione dei modelli di comportamento collegati alla figura del cavaliere: all’immagine del cavaliere perfetto si associa il possesso della “gentilezza”, della “cortesia” , un insieme di valori grazie ai quali il cavaliere testimonia la sua superiorità rispetto agli altri esseri umani. Anche la “liberalità” si associa al modello comportamentale del cavaliere: un ideale che spinge a donare generosamente a chi ha bisogno, ma che comporta anche la tendenza allo sperpero, alla dissipazione. La “villania” Alla “cortesia” si contrappone la “villanìa”, che denota la bassezza morale, la grettezza, ma anche la rozzezza. È significativo che le qualità negative per eccellenza prendano nome dal villano, cioè il contadino: nella società medievale rimane costante nei secoli il disprezzo per la categoria sociale dei contadini, che alimenta una specifica tipologia testuale, la “satira del villano”, nella quale vengono crudelmente ridicolizzate la povertà e l’ignoranza dei contadini. Il mito dell’amore cortese: una visione opposta alla visione clericale Fondamentale componente del modello cortese-cavalleresco è inoltre l’esaltazione dell’amore. Mentre la cultura clericale è fondata sul disprezzo del corpo, sulla misoginia, sull’ossessione del peccato, l’ideale cortese fa dell’amore addirittura il centro dell’esistenza e la sintesi di un processo di affinamento, di elevazione. Si tratta di una concezione del tutto nuova, che alimenta una ricca produzione letteraria, romanzesca e lirica (➜ C3 e C4). La donna di cui si celebra la bellezza e la perfezione è decisamente agli antipodi dall’essere disgustoso e abominevole esecrato nei testi della cultura clericale: essa è sentita come superiore, distante, irraggiungibile, a lei si deve la stessa assoluta dedizione (il “servizio d’amore”) che, nei rapporti feudali, lega il vassallo al suo signore. Spesso i cavalieri gareggiano per conquistare i favori della dama in quelle battaglie simulate che erano i tornei, che si diffondono nel XII secolo e ai quali si associa nell’immaginario la figura del cavaliere (➜ D7).
Parola chiave
I luoghi della cultura medievale
monastero
Alto Medioevo
• centro di spiritualità e di accoglienza • sede di attività agricole, artigianali, culturali (scriptorium)
castello
secoli IX-XII
• dimora dell’aristocrazia terriera • attività militari e aggregazione sociale • motore economico-agricolo
cortesia Tra il XII e il XIII secolo in Francia viene elaborato l’ideale della “cortesia” che influenza la poesia trobadorica e il romanzo cavalleresco: un insieme di valori etico-intellettuali e di modelli di comportamento ispirati alla raffinatezza, alla gentilezza dei costumi, alla liberalità e al culto idealizzante della donna
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 51
Raimondo Lullo
Identità e doveri del cavaliere
D7
Nel 1276 fu pubblicato un manuale destinato alla formazione del cavaliere cristiano, a opera di Raimondo Lullo, nome italianizzato di Ramón Llull (1232-1316), teologo e filosofo catalano.
Il libro dell’ordine della cavalleria, in F. Cardini, L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari 1988
Il compito del cavaliere è di mantenere e difendere la santa fede cattolica, per la quale Dio padre inviò suo figlio nel mondo ad assumere la carne umana nella gloriosa vergine nostra signora Santa Maria. [...].
5
Il compito di un cavaliere è di difendere e sostenere il suo signore mondano o terreno1, perché né un re né un altro barone ha il potere di mantenere la giustizia fra i suoi uomini senza aiuto e assistenza2. [...].
I cavalieri devono mantenere destrieri per giostrare e frequentare i tornei, tener tavola imbandita3, e andare a caccia di cervi, orsi e altri animali selvatici, perché ciò facendo i cavalieri si tengono in esercizio nelle armi al fine di sostenere l’ordine della cavalleria. 10 Disdegnare e abbandonare quel costume per cui il cavaliere risulta più preparato a compiere il suo dovere, significa solo disprezzare l’ordine [...]. Il compito di cavaliere è di tenere la terra4, poiché in conseguenza della paura che la gente comune ha dei cavalieri, essa lavora e coltiva la terra, per il terrore di essere annientata. E per paura dei cavalieri essi rispettano i re, i principi e i signori da cui 15 i cavalieri ricevono il proprio potere. Il compito di cavaliere è di sostenere e difendere le donne, le vedove, gli orfani, e gli uomini afflitti e non potenti o forti. Perché come per abito e ragione5 il più grande e il più potente aiuta il debole e l’afflitto, che fanno ricorso al grande, così agisce l’ordine di cavalleria, poiché esso è grande, onorevole e potente. Il cavaliere 20 deve soccorrere e aiutare coloro che sono sotto di lui e sono meno potenti e meno onorati di quanto egli sia. Pertanto il far torto o violenza alle donne, alle vedove che hanno bisogno di aiuto, e agli orfani che hanno bisogno di guida, o derubare e mandare in rovina il debole che ha bisogno di sostegno, e togliere loro ciò che loro è dato, queste cose non si accordano con l’ordine di cavalleria [...]. 1 signore… terreno: il signore terreno è contrapposto a quello divino. 2 né un re… assistenza: sono valori fondamentali per il cavaliere la lealtà e la fedeltà verso il proprio signore, con cui egli deve collaborare per mantenere la giustizia.
3 tener tavola imbandita: essere sempre pronti a ospitare a pranzo e a cena. 4 tenere la terra: assicurare la disciplina dei contadini sottoposti. 5 per abito e ragione: per consuetudine e mentalità.
Concetti chiave Il codice del cavaliere
L’immagine di cavaliere proposta da Lullo è l’esito di una secolare evoluzione (dal IX al XIII secolo) di questa importante figura sociale e dei suoi ruoli. Nel testo proposto Lullo evidenzia quali sono i principi e le attività fondamentali che concorrono alla definizione della natura propria del cavaliere. Il cavaliere è innanzitutto difensore della fede cattolica, è colui che sostiene e difende il suo signore terreno e svolge tutta una serie di attività, anche di svago, al fine di mantenersi sempre pronto, efficiente e capace di sostenere l’ordine cavalleresco e i suoi impegni. Egli deve poi farsi rispettare dai contadini (perché questi continuino a lavorare la terra e per incutere in loro il rispetto dovuto ai potenti), protegge i più deboli e difende le donne.
52 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quali precetti sono finalizzati a conciliare l’originario ruolo del cavaliere con i valori cristiani? 2. Quali precetti rientrano nella funzione del cavaliere nel mantenimento dell’ordine sociale proprio del feudalesimo? LESSICO 3. Nella frase «Perché come per abito e ragione» il termine abito vuol dire consuetudine, abitudine. Cerca sul vocabolario l’origine latina di tale termine e confrontala con il significato che nella società odierna attribuiamo al termine.
Interpretare
SCRITTURA 4. Quale valore proprio del cavaliere si esprime nel precetto di «tener tavola imbandita»?
I valori della società urbana e mercantile Gli intellettuali nella società comunale Nella vivace realtà dei comuni italiani gli intellettuali provengono non più soltanto dalla Chiesa, ma anche dalla nobiltà, e soprattutto dal mondo delle professioni: sono giudici, notai, maestri di retorica, impegnati nella vita politica, come Brunetto Latini, il “maestro” di Dante. Non mancano i mercanti, come Giovanni Villani (1280-1348), autore di una cronaca (Nuova cronica) di Firenze, che ne testimonia lo straordinario sviluppo, e anche la complessa dinamica della lotta tra le fazioni. Verso la condizione cortigiana Verso la fine del Trecento il modello politico comunale entra in crisi e iniziano ad affermarsi le signorie. Anche la fisionomia dell’intellettuale, di conseguenza, tende a trasformarsi: in varie zone d’Italia comincia a delinearsi quella figura di intellettuale “cortigiano” che dominerà per quasi tutta l’età moderna e di cui è un primo esempio Petrarca. Un intellettuale che, vivendo alle dipendenze di un signore, può dedicarsi esclusivamente all’attività letteraria, che tende a diventare così una vera e propria professione. L’emergere della figura del mercante Gli schemi mentali e i modi di comportamento si modificano, come è logico pensare, in rapporto all’affermarsi della società urbana. Si tratta di un’evoluzione lenta, i cui risultati saranno evidenti in ambito online D8 Paolo da Certaldo La morale mercantile
Nella miniatura medievale sono raffigurati mercanti che noleggiano caravelle per il commercio delle spezie.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 53
online
Testi in dialogo Lodi (e critiche) della città Il percorso presenta testi che esaltano la città (in particolare Milano e Firenze) e testi che invece condannano lo sviluppo della civiltà urbana.
T9a Bonvesin de la Riva L’orgoglio di un cittadino T9b Giovanni Villani Elogio di Firenze T9c Dante Contro la città moderna: «Fiorenza dentro de la cerchia antica»
letterario solo verso la metà del XIV secolo quando Giovanni Boccaccio scrive il Decameron, che rispecchia i modelli culturali ed etici di una società in transizione. Nel Basso Medioevo la figura sociale emergente è quella del mercante: il XIII e XIV secolo vedono un forte incremento dell’attività commerciale e soprattutto nell’Italia settentrionale e nei comuni della Toscana, i più grandi mercanti arrivano a detenere il potere politico, gareggiando con le antiche famiglie nobiliari in uno stile di vita sfarzoso.
Una mentalità alternativa ai valori della cultura sia clericale sia aristocratica La mentalità, i valori, i modelli T9d Francesco Petrarca di comportamento della borghesia mercantile si contrapLa vita cittadina non è fatta pongono sia alla rigida visione clericale sia a quella aristoper gli spiriti eletti cratico-cavalleresca. La visione della Chiesa tende infatti a svalutare l’intraprendenza, a condannare il progresso economico e a giudicare come peccato ogni attività che produca guadagno. L’etica cavalleresca, dal canto suo, considera un segno distintivo della nobiltà spendere oltre misura un patrimonio ereditato dagli avi. L’etica del mercante è fondata invece proprio sulla saggia amministrazione dei capitali e sul loro incremento: è un’“etica dell’accumulazione”, che esalta chi con le sue sole forze sa costruirsi e mantenere un patrimonio. Documento significativo dell’etica mercantile è il libro di consigli composto a metà del Trecento dal mercante Paolo da Certaldo. Il fascino degli ideali cortesi D’altra parte la classe mercantile è affascinata dagli ideali cavallereschi e aspira anch’essa a nobilitarsi: i valori della “cortesia” e della “gentilezza” vengono così assimilati anche dal mondo borghese-mercantile.
Modelli e valori sociali modello clericale
modello cortesecavalleresco
•c ondanna la ricerca di guadagno • svaluta l’intraprendenza
• è prodigo nello spendere • ha fra i suoi valori “gentilezza” e “cortesia”
modello urbanomercantile
• amministra con oculatezza e ha spirito di intraprendenza • subisce il fascino degli ideali cavallereschi
Fissare i concetti Tempo, spazio, valori e modelli di comportamento 1. Qual è la concezione medievale della storia, del tempo e dello spazio? 2. Come cambia la misurazione del tempo a partire dal XIII secolo? 3. Quale immagine dell’universo ha il Medioevo? 4. Come cambia il ruolo dell’intellettuale dall’Alto al Basso Medioevo? 5. Come vengono visti la dimensione terrena e il corpo nel periodo medievale? 6. Che cos’è lo scriptorium? 7. Da che cosa è caratterizzato il modello cavalleresco-cortese? 8. Quale visione dell’amore caratterizza il modello cortese-cavalleresco? 9. Quale mentalità appartiene al mercante?
54 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
I LUOGHI DELLA CULTURA
La città La città, luogo dell’apertura e degli scambi Dopo il Mille la città torna ad essere centro della vita sociale, economica e culturale. Questo processo non comporta automaticamente la scomparsa del mondo del monastero e della civiltà feudale; per lo più intorno alla città continuano a esistere un paesaggio e un mondo ancora feudali, con castelli e monasteri. La città si differenzia dal castello e dal monastero, nei quali domina un unico modello culturale “forte”, perché è una realtà dinamica e tendenzialmente aperta. Grazie ai traffici mercantili, è presente nella città la dimensione dello scambio culturale, il confronto con altre mentalità, costumi, conoscenze. Il cuore della città comunale è la piazza, su cui si affacciano gli edifici in cui si gestisce la politica e dove si svolge il mercato, simbolo della vita aperta della città; vi si contrattano e scambiano merci ogni giorno, vi si svolgono periodicamente fiere, a cui partecipano mercanti di altre città; dal mercato si diramano le vie con le botteghe artigiane.
Uno scenario multiforme e vivace, ritratto realisticamente in una celebre novella di Boccaccio, che ha per protagonista il giovane mercante di cavalli Andreuccio (➜ C8 T9B ). Ritratti della città medievale Della variegata realtà economica e sociale della città in Italia ci forniscono un ritratto eloquente, frutto di un’ottica elogiativa, Bonvesin de la Riva, milanese (1240-1315 ca), che tesse le lodi di Milano; e Giovanni Villani, fiorentino (1280-1348), che esalta lo sviluppo di Firenze in ogni campo. Al contrario Dante in più passi della Commedia si mostra polemico verso la società fiorentina (e non solo fiorentina) del suo tempo ed evoca nostalgicamente l’immagine della Firenze dei tempi passati, in cui la brama della ricchezza non aveva ancora offuscato i valori morali e religiosi. Al tramonto del Medioevo Petrarca, intellettuale ormai itinerante, rifiuta la materialistica e frenetica vita della città.
Veduta della cittadina di San Gimignano, in Toscana.
Miniatura medievale che raffigura un mercato all’interno delle mura cittadine.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 55
EDUCAZIONE CIVICA
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1
L’emarginazione dei “diversi” nel Medioevo Una società che emargina i “diversi” La società medievale ha paura di chi avverte come “diverso”, ed è quindi una società che per sua natura favorisce massicciamente la tendenza all’emarginazione di ampi strati di popolazione, anche perché domina a lungo un sistema ideologico che non ammette sfumature e ha timore di ogni possibile contaminazione, anche e forse in primo luogo di quella ideologica. La diffidenza verso gli stranieri e i vagabondi Sono esclusi quindi da questa società tendenzialmente chiusa gli stranieri, poiché il Medioevo considera un potenziale pericolo tutto ciò che viene da “fuori”. Verso gli stranieri c’è la stessa diffidenza che esiste verso gli istrioni e i giullari, assimilati di fatto molto spesso ai vagabondi: l’ideologia medievale diffida infatti di chi non ha una dimora fissa e non appartiene stabilmente a un gruppo, a una comunità che lo identifichi e lo protegga. La persecuzione degli ebrei Più propriamente emarginati sono gli ebrei. Dopo la diaspora seguita alla distruzione romana del tempio di Gerusalemme (70 d.C.), comunità ebraiche erano presenti in varie zone dell’Europa e anche in Egitto. Nelle regioni cristiane, già verso il III secolo d.C., essi sono accusati di deicidio, dell’uccisione di Cristo e guardati con crescente diffidenza se non aperta ostilità. Per lo più gli ebrei sono mercanti, artigiani e commerciano in stoffe pregiate, spezie, pietre preziose e, non di rado, poiché accumulano notevoli ricchezze con la loro attività, prestano denaro a interesse, suscitando così inevitabilmente l’invidia di una società in cui regna la povertà e la riprovazione morale di una cultura, quella clericale, che guarda negativamente al profitto. La persecuzione cristiana vera e propria degli ebrei comincia al tempo delle crociate (tra la fine dell’XI e la metà del XIII secolo). È un’età caratterizzata dalla chiusura ideologica verso le fedi degli altri ed è anche un’età in cui la frequenza delle guerre, delle pestilenze, di ricorrenti carestie ha bisogno di capri espiatori: si fa strada così nell’immaginario popolare l’immagine dell’ebreo come avido, astuto, maligno, e inizia quasi ovunque una persecuzione sistematica che spingerà gli ebrei a continue migrazioni o a conversioni forzate al cristianesimo. Nel 1215 gli ebrei vengono obbligati da una precisa disposi-
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
zione papale a portare un segno distintivo che li renda immediatamente identificabili: ad esempio un pezzo di stoffa colorata cucita sull’abito (un obbligo che ricorda anche troppo la stella gialla imposta dai nazisti). L’emarginazione dei malati e dei lebbrosi La società medievale emargina anche i folli, i malati poveri e soprattutto i deformi, gli storpi, i lebbrosi: nella malattia vede infatti un indicatore sicuro, un marchio a tutti visibile del peccato. Verso i lebbrosi (la lebbra è una terribile malattia deformante che si diffonde tra il XII e il XIII secolo) la società cristiana medievale, come osserva Le Goff, ha un atteggiamento ambiguo: da un lato li emargina e li allontana, confinandoli nei lebbrosari, mondi chiusi da cui essi possono uscire solo annunciando la propria indesiderata presenza con il suono di una campanella. Ma al tempo stesso i lebbrosari non distano molto dalla città, affinché chi lo desidera possa esercitare nei loro confronti la carità. Non di rado lebbrosi ed ebrei sono accomunati da uno stesso tragico destino: durante le carestie e le pestilenze assumono il ruolo di capri espiatori. Sono allora processati sommariamente e giustiziati. La scelta “scandalosa” di Francesco di Assisi In una società che costituzionalmente emarginava le categorie più deboli com’era quella medievale, era inevitabile che un comportamento come quello di Francesco di Assisi suscitasse sconcerto e addirittura scandalo: alter Christus, “nuovo Cristo”, egli usava accompagnarsi proprio con i poveri, i vagabondi, i malati e si autodefiniva provocatoriamente “giullare di Dio”, nella volontà di contrapporsi ai parametri di giudizio diffusi nella società del suo tempo.
Rogo di lebbrosi, miniatura del Maestro di Virgilio in Chroniques de France ou de SaintDenis, 1380 ca (London, British Library).
COMPRENSIONE 1. In che senso la società medievale è una società che emargina chi è diverso? 2. Quali categorie di persone vengono emarginate? ANALISI 3. Spiega la seguente affermazione: «Verso gli stranieri c’è la stessa diffidenza che esiste verso gli istrioni e i giullari». LESSICO 4. Cerca sul vocabolario la definizione e l’origine della parola “straniero”.
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 1
SCRITTURA 5. Confronta in un testo di massimo 50 righe l’atteggiamento della società medievale nei confronti del diverso con la società attuale in cui vivi. Ti sembra che sia venuta meno la diffidenza verso lo straniero? Ritieni di vivere in una società inclusiva? DISCUSSIONE IN CLASSE 6. Dopo aver redatto il confronto discuti in classe del tema proposto con il docente e con i compagni, confrontandovi sui diversi punti di vista emersi.
56 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
2
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 Il complesso confronto tra la cultura cristiana e la cultura pagana Dal rifiuto all’accettazione problematica Agli albori della civiltà medievale la cultura cristiana si trovò a confrontarsi con l’eredità della cultura pagana e il rapporto che ne derivò fu inizialmente difficile. I primi intellettuali cristiani, noti come “apologisti” per la loro appassionata difesa della nuova fede (apologia significa appunto “esaltazione, difesa” di qualcosa o qualcuno), rifiutano del tutto la cultura classica e la civiltà di Roma proprio perché pagane. In seguito, i padri della Chiesa (cioè Agostino, Girolamo, Ambrogio) assumono un atteggiamento più disponibile, ma anche inevitabilmente conflittuale: da un lato infatti essi erano consapevoli del grande valore del patrimonio culturale ereditato dalla civiltà antica; d’altra parte gli autori antichi erano pagani e in quanto tali avrebbero dovuto essere rifiutati.
Lessico concezione provvidenzialistica È una concezione secondo la quale Dio provvede a intervenire direttamente nelle vicende umane e nella storia.
La posizione di Agostino Agostino (354-430), grande filosofo (Confessioni, opera autobiografica di riflessioni sulla propria interiorità, sul tempo e la memoria) e teologo (De civitate Dei, sulla concezione cristiana e provvidenzialistica della storia) riconosce la radicale diversità della cultura pagana rispetto a quella cristiana, ma considera utile e doveroso appropriarsi di alcuni valori e del sapere retorico ereditato dai grandi autori della cultura pagana, purché vengano riportati attraverso la lettura allegorica al loro vero significato, che è sempre comunque conforme alle verità cristiane, anche se i pagani non ne erano consapevoli (➜ D10 ). La cultura pagana inglobata nell’universo etico-culturale cristiano Il Medioevo seguirà proprio la strada indicata da Agostino, integrando nella cultura e nella visione cristiano-medievale i testi dell’antichità sganciati però dal loro contesto originario. Al testo antico viene spesso sovrapposta l’interpretazione allegorico-cristiana: la lettera del testo viene considerata quasi come una veste che nasconde verità e valori che vanno portati alla luce attraverso una lettura di secondo grado, più profonda – la lettura allegorica appunto – che attribuisce al testo ciò che è considerato il suo vero significato, che è morale-religioso. Inoltre si verifica la tendenza a estrapolare dai testi antichi singole citazioni, passi scelti, che vengono poi liberamente assemblati e utilizzati dagli scrittori cristiani prescindendo del tutto dal contesto originario. Procedimenti che verranno aspramente criticati dagli umanisti, ma che il Medioevo considerava del tutto legittimi.
Platone, Seneca e Aristotele in una miniatura di inizio XIV secolo tratta da una raccolta di vari testi filosofici.
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 57
Sant’Agostino
I cristiani devono appropriarsi del sapere ingiustamente posseduto dai pagani
D10 De doctrina cristiana, trad. di M.T. Beonio Brocchieri Fumagalli, in Le enciclopedie dell’occidente medievale, a c. di M.L. Picascia, Zanichelli, Bologna 1980
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1
In questo passo sant’Agostino si contrappone ad altri pensatori del primo cristianesimo che respingevano la cultura pagana, sostenendo la necessità per i cristiani di appropriarsi del sapere dei pagani, come se ne fossero i legittimi proprietari.
Non solo non dobbiamo temere1 ciò che hanno detto i filosofi antichi, soprattutto i platonici, quando i loro detti2 sono veri e congeniali alla nostra fede ma dobbiamo rivendicarli3 da loro come da ingiusti possessori. Gli Egizi non solo avevano idoli4 che il popolo di Israele detestava ma anche molte cose preziose, d’oro e d’argento, 5 e stoffe di pregio5 che Israele fuggendo dall’Egitto rivendicò a sé per un uso migliore e ciò fece non per autorità propria ma su comando di Dio6, poiché gli stessi egiziani erano inconsapevoli e non usavano bene ciò che avevano. Così se è vero che le dottrine dei pagani contengono elementi falsi e superstiziosi o inutili che ciascuno di noi, secondo le parole del Cristo, uscendo dalla società pagana, deve odiare ed 10 evitare, è anche vero che le discipline liberali7 sono adattabili all’uso della verità8 e esistono, sempre fra i pagani, utilissimi precetti morali e persino riferimenti al culto di un unico Dio. Non dimentichiamo le vesti e gli abiti preziosi che raffigurano le istituzioni umane congeniali e buone per la società degli uomini9, delle quali non possiamo fare a meno in questa vita, e che è lecito dunque ricevere e mantenere 15 purché le si converta a un uso cristiano.
1 temere: come contrario alla fede cristiana. 2 i loro detti: le loro parole. 3 rivendicarli: nel linguaggio del diritto, significa pretendere la restituzione di un possesso illegalmente detenuto da altri. 4 idoli: statue di dei pagani. 5 ma anche... stoffe di pregio: attraverso l’allegoria, sant’Agostino sottolinea il valore prezioso della cultura antica, invitando i cristiani a non respingerla, ma a raccoglierne l’eredità.
6 che Israele... su comando di Dio: nella Bibbia si racconta che quando gli Ebrei lasciarono la schiavitù d’Egitto «gli Israeliti eseguirono l’ordine di Mosè e si fecero dare dagli Egiziani oggetti d’argento e d’oro e vesti» (Esodo 12, 35). 7 discipline liberali: studi degni di un uomo libero, in questo caso, la letteratura e la filosofia. 8 sono adattabili all’uso della verità: Agostino intende dire che i testi classici devono essere decontestualizzati e riletti
alla luce della verità cristiana; l’affermazione è importantissima, perché suggerisce l’idea di una lettura allegorica, prima riservata soltanto alla Bibbia, anche per i testi classici. 9 Non dimentichiamo... uomini: sempre attraverso l’allegoria (le vesti e gli abiti preziosi), Agostino sottolinea come l’eredità degli antichi sia fondamentale anche nel campo del diritto e delle istituzioni politiche.
Concetti chiave La lettura allegorica dei chierici
Con le affermazioni contenute in questo testo, Agostino intende dire che i testi classici pagani devono essere decontestualizzati e rivisti secondo la verità cristiana. La tesi è anche più estrema e consiste nel ritenere che il senso più vero di quanto è proposto dai classici sia già connotato dalle verità cristiane, cosa di cui i pagani sono inconsapevoli, e che i cristiani possono ritenersi per questo già “proprietari” legittimi di questi scritti.
Esercitare le competenze COMPRENSIONE 1. Indica quali elementi della cultura pagana, secondo Agostino, sono ancora validi per i cristiani. 2. Con quale esempio di origine biblica Agostino sostiene la propria tesi?
58 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
ANALISI 3. Che cosa vuol dire l’espressione «Purché le si converta a un uso cristiano»? SINTESI 4. Riassumi in un breve paragrafo (max 4 righe) la tesi dello scritto di Agostino.
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 1
5. Rifletti su quanto sostenuto da sant’Agostino nei confronti della cultura pagana così diversa da quella cristiana. Secondo te è giusto approcciarsi allo studio di una cultura diversa dalla nostra cercando di interpretarla con le categorie a noi contemporanee o avevano ragione gli umanisti a criticare questo metodo e a spingere allo studio di un periodo storico/letterario senza l’assimilazione proposta da sant’Agostino?
2 Culto della tradizione ed enciclopedismo Auctoritas/auctores: un’ottica tradizionalista, contraria al progresso intellettuale Nell’ottica medievale anche in ambito culturale, come in quello sociale, domina un rigido ossequio alle gerarchie e alle autorità, a cominciare naturalmente dalla venerazione dovuta al libro per eccellenza, cioè la Bibbia. Il Medioevo eredita dalla civiltà latina il concetto e il termine auctoritas (da cui “autorità”) e vi associa quello di auctores, che designa innanzitutto i padri della Chiesa che hanno interpretato, appunto, “autorevolmente”, le Sacre Scritture. Il Medioevo inserisce presto tra gli autori anche le figure della cultura antica considerate più importanti in ambito poetico-retorico e filosofico-morale: Orazio, Ovidio, Lucano, Cicerone e Seneca. Il “mito” di Virgilio e l’interpretazione allegorica dei testi virgiliani Tra gli autori più venerati dell’antichità spicca il poeta latino Virgilio, maestro indiscusso non solo di stile ma anche di sapienza. Già nel V secolo d.C. comincia a diffondersi un’interpretazione allegorica di alcuni suoi testi: grazie a tale interpretazione (che ne forza di fatto il reale significato sovrapponendovi la visione cristiana), i testi di Virgilio sono integrati nella cultura cristiana, divenendo fonti di insegnamenti morali e religiosi. In particolare l’Eneide è interpretata come allegoria della vita umana e la IV ecloga, in cui Virgilio profetizzava la nascita di un misterioso fanciullo che avrebbe riportato sulla terra la felice condizione dell’età dell’oro, una nuova età di pace e di giustizia, è letta nel Medioevo come profezia della nascita di Cristo. Non stupisce allora che nel viaggio della Commedia Dante scelga come guida proprio l’antico poeta latino a cui, con commosse parole, attribuisce il ruolo di suo “maestro” e “autore”, appunto nell’accezione sopra indicata del termine.
Il filosofo Aristotele, affresco nella sala a lui dedicata di palazzo Corboli, Asciano.
Aristotele, «maestro di color che sanno» In campo filosofico per secoli l’autorità per eccellenza, il filosofo per definizione, sarà Aristotele, il «maestro di color che sanno» nella celebre definizione dantesca (If IV), riscoperto grazie alla mediazione della cultura araba ed entrato nella circolazione culturale nel XIIXIII secolo, quando le sue opere vengono tradotte in latino e possono quindi essere conosciute anche da quegli intellettuali (ed erano la maggior parte nel Medioevo) che ignoravano la lingua greca. Il commento alle opere di Aristotele è al centro dell’insegnamento universitario. Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 59
online
Per approfondire I maestri fondatori del sapere medievale
La visione enciclopedica del sapere Un altro aspetto importante della cultura medievale è l’enciclopedismo, cioè la predilezione per una conoscenza onnicomprensiva del reale. L’intellettuale deve possedere tutto lo scibile umano, non può approfondire solo un campo d’indagine. Il sapere inoltre si configura non come ricerca ma come conservazione di testi tramandati, come accumulo di nozioni più che selezione critica di esse: da qui la secolare fortuna delle summae, monumentali manuali in cui l’uomo colto medievale poteva ritrovare tutto lo scibile, diviso per grandi categorie. La Divina Commedia stessa non è solo un’opera di altissimo valore letterario, ma costituisce anche una grandiosa sintesi di tutto il sapere del tempo (letterario, filosofico-teologico, scientifico-astronomico).
Ma già Petrarca contesta la cultura enciclopedica Questa visione del sapere (che oggi, in tempo di estrema specializzazione dei saperi, ci riesce difficile anche solo immaginare) viene contestata, nell’autunno del Medioevo (seconda metà del Trecento), già da Francesco Petrarca: la cultura enciclopedica non soddisfa più i bisogni dell’uomo perché non sa offrire adeguate risposte ai suoi online interrogativi interiori (➜ D11 ). L’uomo colto non è più chi D11 Francesco Petrarca padroneggia tutto lo scibile, ma chi sa scegliere ciò che lo Sull’ignoranza sua e di molti arricchisca spiritualmente.
I cardini della visione medievale
La concezione del mondo e della cultura nel Medioevo
TEOCENTRISMO
Concezione secondo la quale tutto deriva da Dio e a Dio si riconduce
ALLEGORISMO
Lettura allegorica dei testi antichi: i concetti sono rappresentati attraverso oggetti, animali o persone dotati di un significato più ampio
ENCICLOPEDISMO
L’uomo colto non è specializzato in un solo campo, ma deve possedere tutto il sapere
SIMBOLISMO
La realtà viene interpretata in modo simbolico: ogni aspetto del mondo rimanda a un significato nascosto
si traduce in
3 Il modello dell’istruzione nel Medioevo Nascita delle scuole Lo studio delle arti liberali: Trivio e Quadrivio Le prime scuole sorgono nei monasteri e sono rivolte alla formazione dei monaci. Successivamente nascono scuole cittadine laiche, in funzione dei bisogni formativi della civiltà dei Comuni. Dopo l’istruzione di base, che consisteva nell’imparare a leggere e a scrivere, la scuola medievale prevedeva lo studio delle arti liberali, che costituiva un apprendimento di livello medio, considerato propedeutico ai gradi più alti del sapere. Il termine liberale (che significa letteralmente “degno di un uomo libero”, non obbligato al lavoro) rimanda a un’idea aristocratica del sapere, ereditata dal mondo
60 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
classico, concepito come un complesso di discipline privo di finalità pratiche e del tutto separato dal mondo del lavoro e dall’impiego della manualità. Le arti liberali erano articolate nel Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e nel Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica). All’interno delle arti liberali il posto principale fu a lungo occupato dalla grammatica, che di fatto consisteva nello studio della lingua latina: il latino era appreso sempre attraverso i testi dei medesimi autori (i padri della Chiesa e inoltre Seneca, Cicerone, Virgilio, Orazio, Ovidio) che in un certo modo costituivano per il Medioevo quello che oggi chiameremmo “canone ”. La lingua impiegata per l’insegnamento non è quella usata comunemente, cioè il volgare, ma il latino; i fondamenti dell’istruzione sono soprattutto precetti morali, i metodi aridamente nozionistici e mnemonici. Ne derivava un sapere astratto e lontano dalla dinamica e multiforme realtà della vita cittadina. “Scuola del fare” contro “scuola dell’ascoltare”: la formazione dei mercanti Il divario tra bisogni reali e l’astrattezza del sapere scolastico spiega perché i ceti mercantili, dopo qualche anno di istruzione scolastica, preferissero per i loro figli l’apprendimento pratico nelle botteghe degli artigiani e nei fondachi, dove i giovani destinati all’attività artigianale o mercantile imparavano direttamente sul campo, attraverso un lungo apprendistato, i segreti del mestiere.
Le arti liberali
Parola chiave
Trivio
• grammatica • retorica • dialettica
Quadrivio
• aritmetica • geometria • musica • astronomia
canone Il termine canone, dal significato originario di “regola, unità di misura”, passa poi a indicare un elenco stilato secondo determinati criteri o parametri. Nel senso di “elenco di opere”, il termine è dapprima utilizzato in ambito religioso (i libri della Bibbia) e poi esteso anche al di fuori dell’ambito religioso, in particolare per liste di autori basilari da studiare nelle scuole. Quello di canone è dunque un concetto ancorato all’idea di una tradizione di testi nei quali una comunità riconosce la propria identità culturale e che perciò considera degni di essere tramandati. In ambito letterario, per secoli, il canone si è fondato sull’eccellenza stilistica degli autori prescelti e ha avuto anche valore normativo: chi voleva raggiungere la grandezza doveva imitare i grandi autori, considerati modelli di perfezione (Petrarca e Boccaccio nel Cinquecento). In altre epoche invece, nel costituirsi del canone, ha contato maggiormente la validità indiscussa (almeno in relazione
a un certo tempo) dei contenuti, la rilevanza della dimensione etico-valoriale e la statura umana degli autori riflessa nelle loro opere maggiori. Soprattutto in rapporto a questa seconda prospettiva di giudizio, il canone è destinato inevitabilmente a cambiare nel tempo (anche se alcuni autori, considerati grandi “classici”, mantengono stabilmente il loro posto): variando le coordinate culturali si ridefiniscono le gerarchie tra gli autori che contano. Può allora accadere che autori marginalizzati siano rivalutati ed entrino a far parte del canone, o, al contrario, che autori considerati fondamentali in un certo tempo escano dal canone degli autori maggiori (è il caso ad esempio di Carducci). Un ruolo primario e autorevole nella stabilizzazione – ma anche nella ridefinizione – del canone è tuttora esercitato dalla scuola soprattutto attraverso i manuali di storia letteraria. Dalla seconda metà del Novecento la definizione del canone letterario si è fatta comunque sempre più problema-
tica, anche per la continua immissione sul mercato da parte dell’industria editoriale di novità non sempre autorevoli per contenuti e validità estetica. Inoltre, verso gli anni Novanta del secolo scorso, a partire dagli Stati Uniti, è nato un vivace dibattito che ha messo in discussione sempre più l’oggettività, e quindi la legittimità stessa del concetto di canone, accusato di fondarsi sulla negazione di soggetti e aree culturali diversi da quelli della cultura egemone. A questa critica ha risposto polemicamente lo studioso americano Harold Bloom (1930-2019) che con Il canone occidentale ha proposto (con criteri di scelta da più parti discussi) una rosa di 26 autori che, sulla base del primato di valori estetici eterni, rappresenterebbero l’eccellenza della cultura occidentale. Riferimenti bibliografici: R. Ceserani, Guida allo studio della letteratura, Laterza, RomaBari 1999; H. Bloom, Il canone occidentale [1994], Bompiani, Milano 1996; M. Onofri, Il canone letterario, Laterza, Roma-Bari 2001.
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L’università e la Scolastica online
Per approfondire Il vocabolario dell’università
Tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo in Europa si diffondono le università (l’università più antica è quella di Bologna che risale al 1088) come centri istituzionali di gestione e trasmissione della cultura. La tipologia, i metodi e i contenuti del sapere trasmessi per circa tre secoli dalle università vengono globalmente denominati con il termine di “Scolastica”, anche se poi successivamente il termine passerà a indicare il nuovo pensiero filosofico-teologico che si impone nel XIII secolo, basato sulla filosofia di Aristotele, il cui massimo esponente è Tommaso d’Aquino.
Il trionfo dell’aristotelismo Le basi istituzionali del sapere universitario hanno al centro la filosofia, intesa innanzitutto come esercizio del metodo razionale d’indagine: in particolare, la filosofia aristotelica, la cui influenza finisce per estendersi a tutti i campi del sapere, dalla medicina all’astronomia e alla stessa teologia, soprattutto dopo la conciliazione e la poderosa sintesi tra pensiero aristotelico e dottrina cristiana, operate dal domenicano Tommaso d’Aquino (1224-1274). Una conciliazione seguita online da aspri conflitti fra le diverse tendenze ideologiche e teologiche presenti nel mondo Testi in dialogo universitario e che contrappongono francescani e domenicani – Fede e ragione: attualità e storicità di un soprattutto riguardo al grande nodo problematico del rapporto tra rapporto problematico Tommaso d’Aquino fonda il suo fede e ragione – e anche diversi modi di intendere l’aristotelismo, pensiero sulla filosofia di Aristotele, alcuni dei quali sono ufficialmente condannati dalla Chiesa. adattandola cristianamente; incontra però l’opposizione di Bonaventura da Bagnoregio, il quale sostiene che la fede non ha nulla a che vedere con la ragione. San Tommaso rappresenta la tendenza razionalistica del pensiero medievale, san Bonaventura rappresenta invece l’altra tendenza, definita mistica. Il testo di Giovanni Paolo II è tratto dall’enciclica dedicata al rapporto tra fede e ragione.
D12a San Tommaso d’Aquino Le verità di fede sono necessariamente conciliabili con le verità di ragione D12b San Bonaventura La via per giungere a Dio non passa attraverso gli strumenti razionali D12c Giovanni Paolo II Fede e ragione
Un sapere “chiuso” fondato sull’autorità del testo e del magister Il sapere trasmesso dalle università rimane comunque un sapere “chiuso”, ancora fondato sul principio di autorità di cui si è parlato: è infatti il corpo dei docenti universitari che decide in modo programmatico gli auctores che devono essere letti e commentati dai magistri (i docenti universitari) e che si arroga il diritto di proibire ufficialmente di leggere alcuni testi. Fulcro dell’insegnamento universitario, sostenuto in un latino specialistico, è la lectio, cioè la lettura e il commento di un testo autorevole, condotti dal magister. La cultura universitaria non prevede dibattito, è sempre elargita dall’alto dal magister, interprete ufficiale della verità, agli studenti.
Città e università Città
Università
secoli XIII-XIV
secoli XII-XIII
• centro della vita sociale, economica e culturale • realtà aperta e dinamica e luogo di scambi
• centro di gestione e trasmissione della cultura • il sapere trasmesso è fondato sul principio di autorità
L’apporto della cultura araba In seguito all’espansione degli Arabi in Europa, la loro cultura si diffonde in particolare in Spagna e in Sicilia, svolgendo un ruolo culturale importantissimo, soprattutto in ambito filosofico-scientifico. L’islam viene fortemente attaccato in campo religioso dall’Occidente medievale, che vede nei musulmani i nemici per eccellenza della fede cristiana, ma la contrapposizione
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a livello ideologico-religioso non impedisce all’Occidente cristiano l’assimilazione di elementi rilevanti sul piano culturale. L’islam raccolse l’eredità del sapere filosofico-scientifico greco. Vennero tradotte in arabo e commentate le opere di Aristotele, ma anche i testi di medicina di Ippocrate, di matematica di Euclide e di astronomia di Tolomeo.
Fissare i concetti Modelli del sapere e tendenze filosofico–scientifiche
I LUOGHI DELLA CULTURA
1. Come si rapportano gli intellettuali cristiani con la cultura pagana? Qual è in merito la posizione di Agostino? 2. Che cosa si intende con auctoritas e auctores? 3. Che cos’è l’enciclopedismo? 4. Come si configura il sapere in ambito medievale? 5. Che cosa vuol dire l’espressione “arti liberali”? Come erano articolate? 6. Che cosa vuol dire il termine “università”? 7. Come è organizzato il sapere universitario?
L’università Il termine “università” In origine il termine “università” indica semplicemente l’insieme, la totalità (è questo il significato del termine latino universitas) dei docenti e degli studenti di una stessa città; in un secondo tempo identifica una vera e propria organizzazione corporativa stabile, integrata nel tessuto sociale della città che la ospita, ma al tempo stesso autonoma e indipendente da ogni forma di potere locale. Tra le prime prestigiose università si possono ricordare quella di Parigi (per la teologia), quella di Bologna (per il diritto), quella di Salerno (per la medicina) e inoltre quelle di Oxford, Tolosa e Coimbra.
L’organizzazione degli studi universitari Ogni università era organizzata in facoltà a seconda dell’indirizzo di studi: Parigi, ad esempio, aveva quattro facoltà di cui tre superiori (diritto canonico, medicina e teologia: quest’ultima durava circa quindici anni e richiedeva come età minima per la laurea i trentacinque anni) e una inferiore (la facoltà di arti liberali, a cui accedevano gli studenti più giovani, che aveva valore propedeutico agli studi superiori e quindi di carattere non specialistico). Il corso di studi prevedeva come oggi lezioni, esami, fino al conseguimento del titolo di studio finale, che consentiva ai neolaureati di insegnare ovunque. Le più importanti università del Medioevo in Europa (fra parentesi la data della fondazione).
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PER APPROFONDIRE
I protagonisti della vita universitaria: il magister e gli studenti Il maestro universitario, un intellettuale itinerante e internazionale Con il termine maestro (dal lat. magister) noi oggi intendiamo esclusivamente il maestro elementare, oppure usiamo il termine nell’accezione di “figura autorevole”, che si è distinta in modo particolare nel proprio campo. Nel Medioevo il termine designa invece il docente universitario (assai spesso un chierico), una figura che emerge sulla scena della società medievale solo a partire dal XII secolo. I maestri allora si spostavano da un’università a un’altra, potendo contare sulla omogeneità del sapere allora trasmesso e sull’unità linguistica dell’intero mondo universitario: le lezioni si svolgevano infatti unicamente in latino. Gli studenti universitari Le maggiori università, come Parigi o Bologna, arrivavano ad accogliere parecchie migliaia di studenti. Gli studenti medievali, provenienti da varie zone dell’Europa, si spostavano di sede in sede alla ricerca di docenti qualificati: da qui anche la denominazione di clerici vagantes (“chierici vaganti”) e usavano come lingua comune il latino. Molti (ma non tutti) erano chierici, appunto, e la loro estrazione sociale era per lo più agiata. Gli studenti costituivano un gruppo sociale per certi aspetti privilegiato: ad esempio, non erano soggetti alle leggi vigenti nella città e godevano di esenzioni fiscali. Per la città che li ospitava rappresentavano indubbiamente una fonte di guadagno (spendevano notevoli somme per nutrirsi, per i libri, il vestiario, i divertimenti), ma la loro
Studiare con l’immagine SCRITTURA Dopo aver osservato attentamente la miniatura trecentesca di Lorenzo di Volterra che rappresenta una lectio universitaria, rintraccia nell’immagine gli elementi che hai studiato in relazione alla tipologia e al metodo dell’insegnamento universitario.
Un momento di vita universitaria: nello studium bolognese l’erudito Enrico di Alemagna tiene la lectio dall’alta cattedra (miniatura trecentesca di Lorenzo di Volterra).
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presenza comportava anche non pochi oneri per l’amministrazione cittadina, che doveva creare strutture adeguate per rispondere alle loro richieste. Uno dei problemi più gravi era quello degli alloggi (come del resto anche oggi): talvolta gli studenti si sistemavano in camere private, più spesso vivevano in gruppo, così da dividere le spese, in case d’affitto. Le intemperanze degli studenti. I goliardi Le amministrazioni cittadine si trovavano spesso ad affrontare problemi di ordine pubblico creati da una categoria sociale costituita quasi esclusivamente di giovani esuberanti, che assumevano molto spesso atteggiamenti volutamente anarchici e irrispettosi nei confronti delle autorità. Proprio a questi atteggiamenti sembra possa essere ricondotto il termine stesso di goliardi (tuttora in uso) con cui gli studenti universitari sono stati spesso definiti: si tratta di un termine di origine incerta, forse derivato da Golia (il gigante biblico simbolo della voracità e della sensualità); in ogni caso, il termine sembra alludere a forme di comportamento trasgressive della rigida morale ascetica predicata dalla Chiesa. La letteratura goliardica Legata all’ambiente goliardico ed esclusivamente in latino è una particolare produzione letteraria, fondata essenzialmente sulla parodia e sull’irrisione dei potenti e della Chiesa: inni, giuramenti, testi comici, parodie sacre (come la celebre “messa dei bevitori”) e i versi dei cosiddetti Carmina Burana (➜ C5). Di questa particolare letteratura resta traccia nei riti ancora praticati dalla goliardia in alcune sedi universitarie, come Padova o Pavia.
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Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 1 La funzione della letteratura La visione moralistico-pedagogica dell’arte nell’Alto Medioevo Nell’Alto Medioevo la cultura è gestita unicamente dai chierici e perciò l’espressione artistica deve presentare contenuti utili all’educazione morale e religiosa del cristiano. Si tratta di una visione ancora centrale nel capolavoro assoluto della letteratura medievale: la Commedia di Dante. Verso l’affermazione di nuove funzioni della letteratura Nel corso del Basso Medioevo però gli intellettuali non sono più soltanto chierici: la visione del mondo diventa più sfaccettata rispetto al rigorismo etico dei primi secoli. All’arte e alla letteratura non vengono più attribuiti soltanto scopi educativi: ricompare allora il tema dell’amore, emarginato dalla cultura dei chierici, che diventa centrale nella poesia provenzale e, nel corso del Duecento, anche in Italia nella poesia stilnovistica. Si affermano inoltre generi letterari nuovi, come la novella, il cui successo testimonia l’emergere di un’idea di letteratura concepita come intrattenimento piacevole del lettore. Una funzione a cui Boccaccio, con il suo Decameron (metà del Trecento), conferirà altissimo valore letterario.
La poesia come “competenza tecnica” e la codificazione retorica della prosa La poesia è “arte” La poesia è concepita dal Medioevo non come creazione spontanea, ma come utilizzazione consapevole delle tecniche retoriche elaborate dalla cultura classica e poi trasmesse a quella cristiano-medievale.
Parole4 chiave
I manuali di retorica Proprio in rapporto all’idea di poesia come tecnica, tra il XII e il XIII secolo si intensifica la riflessione teorica sulle modalità di far poesia e si diffondono veri e propri manuali di poetica .
arte Il termine arte (dal latino ars “tecnica”) aveva un significato molto diverso dall’accezione odierna. Per tutto il Medioevo l’attività artistica era pensata essenzialmente come una particolare competenza tecnica: nel caso della poesia tale competenza riguardava l’uso accorto degli artifici retorici, nel caso della pittura quello dell’immagine e così via. Nell’ottica medievale il poeta era dunque una sorta di “tecnico della parola”, anche se gli scrittori non facevano poi parte di aggregazioni professionali come gli artigiani, organizzati nelle arti minori, o come gli uomini di legge, i medici e speziali (i farmacisti di quel tempo), a loro volta organizzati nelle arti maggiori sulla base della specifica competenza
tecnica. Il termine arti riguardava persino le attività intellettuali: i campi del sapere erano infatti distinti nelle arti del Trivio e del Quadrivio.
poetica
Il termine poetica indica nell’età classica (e medievale) un trattato che riguardi la letteratura e più specificamente la poesia. Ne sono celebri esempi la Poetica di Aristotele (all’incirca 334 a.C.) e l’Ars [Arte] poetica di Orazio (post 13 a.C.), che eserciteranno una vastissima influenza nei secoli. Oggi con il termine poetica si intende la concezione della letteratura propria di un singolo scrittore, o di un movimento letterario, l’insieme di riflessioni che motivano uno specifico modo di fare poesia.
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La prosa Anche per quanto riguarda la prosa, nella cultura medievale era inconcepibile che si potesse scrivere prescindendo dai modelli della tradizione e senza utilizzare adeguatamente regole e convenzioni della retorica. Per comporre testi in prosa gli scrittori attingevano alle artes dictandi (dal latino dictare, che significa “comporre, redigere un testo”), compendi di norme derivate dalla retorica classica, inizialmente in latino e relative solo a testi in latino. A partire dal XIII secolo le artes dictandi vengono stese in volgare e fanno riferimento anche a testi in volgare. Se persino i letterati ricorrevano alle artes dictandi, tanto più vi attingevano i funzionari delle corti e dei comuni: la vivace attività politica e amministrativa dei comuni richiedeva infatti persone capaci di parlare in modo persuasivo ed elegante e in grado di stendere documenti e lettere che dovevano rappresentare ufficialmente il comune. Il ruolo di Brunetto Latini A Firenze svolge un ruolo assai importante nel diffondere le competenze retoriche Brunetto Latini, che Dante ricorda con riconoscente affetto come suo maestro nel XV canto dell’Inferno. Brunetto Latini (post 12201294), notaio di professione, partecipa attivamente alla vita politica del comune; esiliato per motivi politici, vive in Francia per alcuni anni. Nel periodo dell’esilio scrive in francese un’opera enciclopedica, il Trésor, poi rielaborata e riscritta in versi italiani col titolo di Tesoretto. Ispira la composizione di questa opera una volontà didattico-divulgativa del sapere, online finalizzato alla buona gestione della cosa pubblica. Alla divulD13 Brunetto Latini gazione del sapere retorico sono rivolti il trattato Rettorica e Cos’è la retorica la traduzione in volgare di varie opere retoriche di Cicerone.
2 Il concetto medievale di stile
online D14 Cassiodoro I tre stili
Il principio della congruenza tra stile e materia e i tre stili Il Medioevo eredita dall’antichità classica (Cicerone, Orazio) un principio fondamentale: il registro stilistico e di conseguenza le scelte linguistiche dovevano essere rigorosamente adattate alla materia trattata, cioè ai temi, alla tipologia dei personaggi e all’ambientazione scelti dallo scrittore. Il Medioevo deriva dal mondo classico anche l’idea che tre erano gli stili fondamentali: alto (denominato anche tragico o grave), medio e basso (denominato anche umile o comico). Di fatto però lungo tutto il corso del Medioevo vige soprattutto la contrapposizione tra i due stili estremi. Una visione gerarchica degli argomenti e del modo di esprimerli La distinzione rigorosa degli stili presuppone una gerarchia tra gli argomenti stessi che rispecchia la visione della realtà e la concezione culturale proprie del Medioevo: nell’ottica del tempo, tutto ciò che riguarda la realtà quotidiana e le classi sociali più basse ha una dignità inferiore rispetto a quanto coinvolge la sfera intellettuale o riguarda le classi sociali elevate; dunque anche lo stile deve rispettare questa più generale gerarchia socio-culturale. Gli scrittori sperimentano diversi stili È importante precisare che la scelta dell’uno o dell’altro stile non implica di per sé una presa di posizione ideologica da parte dell’autore. L’adozione dello stile “comico”, ad esempio, non significa affatto che l’autore aderisca al mondo popolare e ai suoi valori, ma indica l’intenzione consapevole di sperimentare un “codice” letterario, magari per competere polemicamente con il
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codice alto (è il caso ad esempio di Cecco Angiolieri ➜ C5). Inoltre alcuni scrittori, pur dedicandosi in prevalenza allo stile alto e tragico, sperimentano saltuariamente anche lo stile basso, comico (Guinizzelli, Cavalcanti). Lo stesso Dante compone una serie di sonetti in stile comico rivolti all’amico Forese Donati (➜ C6 PAG. 354).
Lessico pluristilismo e plurilinguismo Il pluristilismo e il plurilinguismo si definiscono rispettivamente come l’uso di diversi registri stilistici e linguisticoespressivi all’interno di un unico testo.
La contaminazione degli stili nella Commedia Nella Commedia Dante attua una contaminazione dei tre stili. Già le tre cantiche implicano di per sé differenti scelte di fondo: l’Inferno è prevalentemente “comico”; il Paradiso, per l’altezza della materia trattata è prevalentemente “tragico”. Ma anche all’interno di una stessa cantica Dante adotta di fatto il pluristilismo e plurilinguismo , così che non mancano parti in stile tragico nell’Inferno, come non mancano al contrario nel Paradiso vistosi abbassamenti comico-realistici (➜ D15 OL).
Parola chiave
Le verità cristiane e lo stile “umile” Nel corso dell’Alto Medioevo, il principio tradizionale della congruenza tra stile e materia viene sistematicamente violato dagli scrittori cristiani nell’ambito della produzione di carattere religioso. I primi scrittori cristiani si trovarono nella pressante necessità di far comprendere a tutti il messaggio religioso anche nelle sue più complesse implicazioni teologiche, che avrebbero di per sé richiesto, secondo le norme retoriche della tradizione classica, uno stile elevato. Sant’Agostino, uno dei maestri della cultura cristianomedievale, ebbe significativamente a dichiarare: «È meglio che ci rimproverino i grammatici piuttosto che la gente non ci comprenda» (De doctrina crhistiana, XV, 10). Gli scrittori cristiani scelsero dunque di infrangere il principio della congruenza tra materia e stile e adottarono in ogni caso lo stile “basso”: una scelta densa di significato perché metteva in pratica nelle scelte comunicative i principi di uguaglianza predicati dal Vangelo (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE PAG. 69). online Una tendenza, questa, che continua anche nel Basso MedioeD15 Dante Alighieri vo, nell’ambito delle letterature volgari: allo stile alto e raffinato Esempi di “contaminazione” degli stili della lirica (dai provenzali agli stilnovisti) si contrappone infatti Commedia, Purgatorio, XVII, 76-78 e Paradiso, XVII, 124-129 la limpida semplicità del Cantico di frate Sole o, ancor più, lo stile volutamente basso e addirittura plebeo, di straordinaria D16 Sant’Agostino forza espressiva, utilizzato da Jacopone da Todi per la sua apLo stile semplice delle Sacre Scritture passionata testimonianza di fede (➜ C2).
stile Il termine stile deriva dal latino stilus, che indica lo strumento appuntito con cui si scriveva sulle tavolette di cera; ben presto, però, passò a designare metaforicamente il modo di scrivere. Nel Medioevo (e prima ancora nell’antichità classica) il termine “stile” non aveva nulla a che fare con l’accezione moderna, la quale implica, in ambito letterario, l’idea di un modo personale e originale di creare che sia proprio di uno scrittore, seppur all’interno delle tendenze letterarie di una determinata epoca. Nel Medioevo esso comportava, al contrario, l’obbligo per gli scrittori (e in particolare per i poeti) di conformarsi
alle codificazioni retoriche, che riguardavano in particolare i tre “stili”. Il termine viene usato oggi anche per quanto riguarda modi e soluzioni formali che si affermano in determinati momenti storici in ambito architettonico, pittorico, nell’arredamento (ad es. lo “stile impero”) o più recentemente anche nel design e nella moda, con un campo di applicazione amplissimo. Stile è poi parola assai diffusa anche nel linguaggio comune, dove designa un comportamento individuale elegante, raffinato, distinto dal gusto di massa, contrario alla volgarità (ad es. di una persona si può dire che “ha stile”).
Affresco pompeiano (I secolo d.C.) in cui Calliope, la musa della poesia epica, regge in una mano lo stilus e nell’altra una tavoletta di cera.
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PER APPROFONDIRE
La retorica e l’arte di comunicare ieri e oggi La retorica nasce in Grecia La retorica (dal greco rhetoriké téchne, “arte del discorso”, e poi dal latino rhetorica) è l’arte di parlare e scrivere in modo persuasivo. Essa nasce e trova ampio sviluppo e una codificazione nel mondo greco: nel V secolo a.C. ad Atene il vivace dibattito politico, la frequenza dei processi giudiziari, la riflessione filosofica (che implicava la contrapposizione di differenti punti di vista) favoriscono la nascita e lo sviluppo di un’“arte” che insegni a sostenere in modo efficace una tesi, a servirsi con abilità delle parole e del discorso per vincere l’avversario in un processo giudiziario, in uno scontro politico, in un dibattito intellettuale. La retorica nel mondo latino L’“arte del parlare bene” viene in seguito coltivata anche nel mondo latino, dove l’oratoria (specie quella giudiziaria) ha grande peso e ci è stata tramandata soprattutto da Cicerone (I secolo a.C.) in alcuni trattati (Orator, De oratore ecc.) e da Quintiliano (I secolo d.C.); quest’ultimo, nei 10 libri delle sue Institutiones oratoriae, esamina i fondamenti della materia, sintetizzando tutto il dibattito precedente e fissando la distinzione fra tre fondamentali tipologie stilistiche (stile umile, medio, sublime). Insieme alla Rhetorica ad Herennium (un trattatello erroneamente attribuito a Cicerone), l’opera di Quintiliano costituirà un fondamentale punto di riferimento fino al Rinascimento. Le cinque fasi del discorso Nell’elaborazione di un discorso i trattati di retorica distinguevano cinque fasi: l’inventio, la dispositio, l’elocutio, la memoria e l’actio. • L’inventio (letteralmente “rinvenimento”) corrisponde alla ricerca degli argomenti da utilizzare nel discorso. • La dispositio (“disposizione”) è la fase in cui gli argomenti scelti vengono organizzati in una successione che abbia una particolare efficacia persuasiva. • L’elocutio (“eloquio”) è la fase in cui l’oratore dà forma linguistica ai concetti precedentemente scelti e ordinati e li “orna” – come dicevano gli antichi – ovvero li arricchisce stilisticamente mediante il ricorso alle figure retoriche: ciò non solo per rendere più personale e originale il discorso ma anche per produrre particolari effetti sull’ascoltatore o il lettore, inducendolo a commuoversi, o a indignarsi e così via. • La memoria è la fase in cui l’oratore utilizza tecniche specifiche per memorizzare il discorso (è quella che ancora oggi viene chiamata “mnemotecnica”). • Infine l’actio (“azione”) è la fase della presentazione in pubblico del discorso, nella quale l’oratore deve saper accortamente utilizzare il tono della voce, la gestualità con cui sottolineare il suo discorso e gli altri elementi connessi all’esecuzione orale di composizioni scritte. È ancora attuale la retorica? Al di là delle classificazioni teoriche, l’impiego degli strumenti retorici è ancora oggi vitale in vari ambiti. Innanzitutto si può constatare che il dibattito forense (gli interventi dell’accusa e della difesa in qualsiasi processo) ricalca ancora le orme dell’oratoria ciceroniana; inoltre la necessità di parlare in pubblico, nelle più varie occasioni della vita politica e democratica, e
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soprattutto in rapporto alla diffusione e amplificazione mediatica del confronto politico, rendono sempre più attuali le vecchie regole che insegnano come essere persuasivi. Persino un genere come quello epidittico (che nella retorica classica riguardava la lode di personaggi potenti e che sembrerebbe totalmente caduto in disuso) ha trovato un nuovo rigoglio in una versione piuttosto particolare, cioè nel discorso pubblicitario, rivolto a tessere le lodi di un certo prodotto, col fine di persuadere circa la sua bontà. In tal caso, fondamentale deve essere la brevità dei mezzi impiegati, dato che il discorso pubblicitario non è richiesto dal pubblico, ma si insinua nei tempi e negli spazi morti, relegato a zone quasi subliminali. Retorica e comunicazione Nelle recenti fortune della retorica anche l’actio (la parte della retorica che insegnava come presentare un discorso in pubblico) ha un peso non irrilevante; l’importanza della gestualità e della mimica facciale ai fini della ricezione positiva di un messaggio trasmesso è oggi ben nota e coinvolge innanzitutto i personaggi con responsabilità pubbliche: grazie ai moderni mezzi di comunicazione, infatti, l’audience di un discorso orale può raggiungere in tempo reale milioni di ascoltatori. Non c’è azienda medio-grande, ormai, che non organizzi per il suo personale corsi mirati a ottimizzare – attraverso la conoscenza di opportune strategie retoriche – il modo di comunicare in pubblico: questa attività è sempre più concepita come una sorta di performance globale, che dunque necessita di essere curata anche negli aspetti non verbali (come attraverso lo studio della cinesica, disciplina che approfondisce lo studio dei movimenti del corpo, o della prossemica, che invece si interessa agli spazi e alle distanze che si interpongono tra gli interlocutori). In connessione all’actio, è tornata recentemente di moda anche la memoria (parte della retorica che si occupava delle tecniche per memorizzare il discorso prima di pronunciarlo) e si diffondono i manuali dedicati alla mnemotecnica: moltiplicandosi le occasioni di dover parlare in pubblico – anche solo di fronte a un’assemblea aziendale – si cerca di riapprendere l’arte, coltivata dagli antichi oratori, di ricordare la “scaletta” degli argomenti, l’ordine con cui li intendiamo esporre, ma in primo luogo le informazioni da trasmettere, la cui dimenticanza provocherebbe inevitabilmente una rovinosa perdita d’immagine.
Sant’Agostino in un affresco del VII secolo in San Giovanni in Laterano a Roma. Un lungo periodo della vita di Agostino fu dedicato alla retorica: la studiò a Cartagine e la insegnò a Cartagine, Roma e Milano.
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Erich Auerbach La lezione del Vangelo e lo stile umile Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale [1956], vol. I, Einaudi, Torino 1969, pp. 81-82
Nella sua opera più celebre, Mimesis (1946) – una vasta indagine, condotta attraverso una lettura eminentemente stilistica, sul realismo nella letteratura occidentale dalla Bibbia all’età contemporanea – il critico tedesco Erich Auerbach (1892-1957) si sofferma sulla diffusa tendenza degli scrittori cristiani a infrangere il principio retorico classico della separazione degli stili e ad adottare lo stile basso (sermo humilis). Le radici di questa scelta, appassionatamente difesa e fatta propria da sant’Agostino (➜ D16 OL), stanno nello “scandalo” stesso del cristianesimo, nella predicazione di Cristo rivolta prima di tutto agli umili e ai diseredati e nel mistero della Passione di Cristo, Dio e uomo, sulla croce.
Il vero fulcro della dottrina cristiana, l’Incarnazione e la Passione, fu del tutto inconciliabile col principio della separazione degli stili. Cristo era tutt’altro che un eroe o un re, era invece un uomo uscito dall’infimo gradino sociale, i suoi primi discepoli erano stati pescatori e artigiani, egli si muoveva entro la vita ordinaria 5 del popolino palestinese, parlava con pubblicani e con prostitute, con poveri, con ammalati, con fanciulli, e tuttavia ogni suo atto e ogni sua parola erano di somma dignità e più importanti di qualsiasi altra cosa che mai accadesse; nello stile in cui tutto ciò veniva raccontato non entrava la pur minima sapienza oratoria nel senso antico, esso era sermo piscatorius [linguaggio dei pescatori] e ciò nonostante oltre10 modo commovente e più efficace che la più sublime opera d’arte retorico-tragica; e più di tutto commovente era in quei racconti la Passione. Il re dei re, beffeggiato, sputacchiato, flagellato e inchiodato sulla croce come un volgare delinquente; oh, il racconto di queste cose, non appena penetra nel cuore degli uomini, annienta completamente l’estetica della separazione degli stili, pro15 duce un nuovo stile sublime, che non disdegna affatto il quotidiano e accoglie in sé il realismo sensibile, la bruttezza, l’indecenza, la miseria fisica; oppure, se si preferisce esprimersi inversamente, nasce un nuovo sermo humilis, uno stile basso, quale propriamente potrebbe usarsi soltanto nella commedia e nella satira, ma però ora conquista il sublime e l’eterno molto al di là dei suoi limiti originari [...]. 20 Sant’Agostino era dentro al mondo classico-retorico non meno che a quello giudaico-cristiano e forse per primo si è reso consapevole del problema dell’opposizione stilistica dei due mondi e l’ha formulato in modo efficacissimo nello scritto De doctrina christiana (4, 18).
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione
1. Perché secondo Auerbach il racconto evangelico della Passione contrasta con la dottrina classica della separazione degli stili? 2. Quali sono, secondo Auerbach, gli elementi che caratterizzano il «nuovo sermo humilis»? 3. Prova ora a formulare, con parole tue, la tesi sostenuta da Auerbach.
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3 Il metodo allegorico L’interpretazione allegorica: dalle Sacre Scritture ai testi letterari pagani Fin dai primi tempi della civiltà cristiana ci si era resi conto che il linguaggio e le immagini usati nella Bibbia avevano carattere allegorico: non andavano cioè presi alla lettera (il termine allegoría viene dal greco, da állon “altro” + agoréuo “parlo, dico”, letteralmente “dire altro”, “parlare d’altro”), ma dovevano essere decifrati, per comprenderne il reale significato, attraverso una particolare esegesi, ovvero un’interpretazione del testo. Il metodo di lettura allegorico delle Sacre Scritture fu presto esteso e venne impiegato per leggere in una prospettiva morale e religiosa le parole dei poeti antichi. In questo modo i testi della cultura pagana, reinterpretati in chiave cristiana, poterono essere immessi nel patrimonio culturale medievale (➜ PAG. 57).
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L’allegorismo: un’ottica centrale nella cultura medievale L’allegoria non è però solo un metodo per interpretare i testi antichi, ma riguarda anche la composizione di testi nuovi: si tratta di un metodo così praticato all’epoca che l’allegorismo si può considerare una delle componenti fondamentali della cultura medievale. L’allegoria costituiva l’applicazione, nell’ambito artistico-letterario, di una più generale visione del mondo di tipo simbolico, per cui tutto ciò che esiste in natura, nel mondo sensibile, reca i “segni” del divino e rimanda alla realtà soprannaturale (➜ PAG. 40).
allegoria Interpretazione allegorica e dimensione simbolica convivono nel Medioevo, pertanto distinguere tra simbolismo e allegoria non è sempre facile. Mentre la lettura simbolica è una più generale visione del mondo, l’allegoria (dal greco állon “altro” + agoréuo “parlo, dico”, letteralmente “dire altro”) appartiene all’ambito delle figure retoriche. Il significato di una allegoria non coincide con quello letterale e richiama un significato più nascosto, allusivo e profondo. Di conseguenza chi legge dovrà scoprire nel testo tale significato. Proprio in quanto procedimento razionale l’allegoria spesso non riguarda una sola immagine, ma può articolarsi in un’intera sequenza (come l’incontro di Dante pellegrino con le tre fiere all’inizio del viaggio ultraterreno) o addirittura in un’intera narrazione: il viaggio di Dante nella Commedia è appunto allegoria dell’itinerario dell’anima dalla perdizione alla salvezza.
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1 Giotto ritrae una figura femminile dalla cui bocca esce un serpente, simbolo di malignità, che le si ritorce contro colpendola agli occhi. 2 Nella mano stringe un sacchetto,
simbolo di avarizia. Le fiamme che la avvolgono simboleggiano sia l’inferno (cui gli invidiosi sono destinati) sia il bruciante desiderio delle cose altrui.
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L’Allegoria dell’invidia, dipinta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova (1306 circa).
Il simbolismo e l’allegoria Nel Medioevo la dimensione simbolica coesiste con la scrittura e l’interpretazione allegorica e non sempre è facile distinguere simbolismo e allegoria. Il termine allegoria appartiene all’ambito dei procedimenti retorici: un’allegoria è un discorso il cui significato non coincide con quello letterale. La principale differenza tra simbolo e allegoria è che, mentre la lettura simbolica (per lo meno nel Medioevo) è parte di una più generale visione del mondo, l’allegoria è sempre frutto di un procedimento intenzionale e razionale, che comporta la volontà in chi scrive di alludere a una verità (morale e religiosa nel caso del Medioevo) diversa dal semplice piano letterale (di conseguenza, analogamente, chi legge dovrà applicarsi a scoprire nel testo tale verità). I quattro sensi delle scritture Fin dall’Alto Medioevo si diffonde l’abitudine di rintracciare quattro livelli di senso nelle scritture, sia letterarie sia appartenenti al mondo cristiano. Come afferma Dante nell’opera intitolata Convivio ogni testo si può interpretare secondo quattro livelli o sensi di lettura:
Livello letterale
Riguarda il significato immediatamente comprensibile: letterale, appunto.
Livello allegorico
Riguarda il senso nascosto dietro quello letterale, ma a cui il letterale rimanda.
Livello morale
Dai fatti narrati si intende ricavare un modello di comportamento.
Livello anagogico
I significati del testo fanno riferimento alle verità divine.
L’interpretazione figurale: un particolare tipo di lettura allegorica Una particolare interpretazione allegorica è quella che viene chiamata figurale, che ha anch’essa il suo primo campo di applicazione nell’interpretazione delle Sacre Scritture. Secondo tale lettura, le profezie (nel senso etimologico greco del termine, che significa “annunciare in anticipo, parlare prima”) del Vecchio Testamento sono realizzate dal Nuovo Testamento, che porta a compimento ciò che è prefigurato nel Vecchio Testamento. In altre parole Cristo “adempie” ciò che eventi e personaggi biblici, come Mosè o Isacco, avevano prefigurato. Guidando Israele fuori dall’Egitto verso la Terra Promessa e liberandolo dalla schiavitù, Mosè prefigura Cristo che libera l’umanità dal peccato. Allo stesso modo Isacco, promesso in sacrificio da Abramo, prefigura il sacrificio di Cristo per la salvezza dell’umanità. Nella visione cristiano-medievale la storia dell’umanità è guidata in ogni sua manifestazione dal progetto di Dio e, proprio per questo, eventi anche lontanissimi tra di loro sono collegati da un disegno provvidenziale che l’uomo può solo tentare di spiegare. «Allegoria dei teologi»/«allegoria dei poeti» Nell’allegoria figurale (definita da Dante «allegoria dei teologi») i due termini cui si fa riferimento sono entrambi già di per sé veri, anche se gli eventi narrati sono comunque portatori di un superiore significato. Solo le Sacre Scritture, dunque, sono completamente vere. Al contrario, in quella che Dante definisce «allegoria dei poeti» il senso letterale è fittizio, una veste esteriore che rimanda di necessità al significato allegorico, il quale costituisce l’unico piano di verità. Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 3 71
4 Forme e generi della letteratura nell’Alto e nel Basso Medioevo La produzione didattico-edificante Nell’Alto Medioevo i testi, opera di figure della Chiesa, sono permeati dalla dimensione religiosa e si propongono un fine di educazione morale più che intenti letterari. In alcune tipologie testuali, anche appartenenti al Basso Medioevo, questi due aspetti sono preminenti. • L’agiografia ovvero il racconto delle vite dei santi: narrazioni biografiche molto
conosciute anche a livello popolare attraverso le prediche, in cui domina il clima leggendario. • L’exemplum: un racconto di vicende esemplari da cui ricavare insegnamenti morali. I predicatori attingevano a questi esempi durante le prediche per renderle più efficaci. • Le “visioni” dell’aldilà: illustravano con vivaci particolari la terribile realtà dell’inferno che attende i peccatori e le delizie del paradiso con lo scopo di indurre i credenti a una vita virtuosa. Nel genere del viaggio oltremondano si iscrive anche la Commedia di Dante. • I bestiari e i lapidari: trattati illustrati in cui si attribuivano significati simbolici e morali agli animali, a volte del tutto fantastici e alle pietre. Queste opere sono espressione di una visione simbolica del mondo e della natura. • I trattati enciclopedici: testi filosofici e teologici in latino, destinati ai dotti. Sono spesso strutturati nella forma delle summae, grandiose sintesi enciclopediche del sapere. L’esempio più importante è la Summa Theologiae del filosofo Tommaso d’Aquino. I generi della cultura cortese In Francia e Provenza, nell’ambito di una società di tipo feudale, fiorisce la cultura cortese, i cui ideali e temi sono trasmessi alle letterature europee (compresa quella italiana) attraverso tre forme letterarie. • L’epica delle chansons de geste: poemi in lingua d’oïl, che trasfigurano epica-
mente le imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini. La più celebre è la Chanson de Roland (sec. XII), incentrata sulla figura del paladino Orlando e sulla sua morte eroica per difendere la cristianità.
I sette peccati capitali in una miniatura del 1380 ca. tratta da un manoscritto del Roman de la Rose (British Library, Londra). Da sinistra: Superbia, Accidia, Lussuria, Invidia, Avarizia, Ira, Gola.
72 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
• Il romanzo cortese-cavalleresco: in lingua d’oïl, ha come soggetto principale
la formazione dei cavalieri della corte bretone del leggendario re Artù attraverso l’avventura e l’esperienza nobilitante dell’amore (seconda metà del secolo XII). • La poesia provenzale: in lingua d’oc, getta le basi di una raffinata tradizione lirica. Centro tematico è l’amore cortese verso una donna irraggiungibile, a cui il poeta (il trovatore, autore anche delle musiche che accompagnavano i testi) rivolge una sorta di omaggio feudale (secoli XII-XIII). La letteratura religiosa Nel XIII secolo emerge in Italia, in particolar modo nella zona umbra, una letteratura che ha al centro il tema religioso. È in questo ambito che nascono: • le laude testi religiosi cantati dai fedeli durante le processioni, sono legate alla devozione popolare e allo sviluppo delle confraternite religiose, in particolare in Umbria; • Il Cantico di frate Sole di san Francesco (1181-1226) un testo in volgare umbro concepito come una lode a Dio per tutto ciò che ha creato; • le laude di Jacopone da Todi. Il suo testo più celebre è la lauda “drammatica” Donna de Paradiso. La prosa in volgare La prosa in volgare nasce e si sviluppa dopo la poesia in volgare. Una vera produzione in prosa nasce soltanto nella seconda metà del Duecento. Le prime opere in prosa volgare sono di tre tipi: • le narrazioni storiche che raccontano le vicende politiche dei Comuni: i principali autori sono Dino Compagni e Giovanni Villani; • i libri di viaggio scritti dai mercanti che tracciano nuove rotte per i commerci ed esplorano terre lontane. Ha rilievo un celebre libro, Il Milione di Marco Polo, un mercante veneziano, che racconta il viaggio compiuto verso l’Estremo Oriente. Il suo interesse è offrire informazioni di carattere cultural-antropologico; • le novelle collegate alla vivace realtà dei comuni italiani, al diffondersi di una visione laica della vita e di un’idea della letteratura svincolata da funzioni educative e indirizzata invece al divertimento, si tratta di un genere narrativo; che avrà larga fortuna tra Duecento e Cinquecento. Primo esempio è la raccolta nota come Novellino. Giovanni Boccaccio con l’autorevolezza del suo Decameron, una La Grammatica insegna a leggere a un giovane scolaro, part. da un affresco di Gentile da Fabriano (Palazzo Trinci a Foligno, 1411-1412).
Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 3 73
raccolta di 100 novelle organizzata in 10 giornate, conferisce al genere novellistico grande valore artistico e una precisa identità, che rimarrà stabile per lungo tempo. La lirica in Italia I modi e i temi della poesia provenzale si diffondono in Europa e anche in Italia: è in particolare in Sicilia che si afferma l’eredità della poesia trobadorica. Da qui il testimone poetico passa alla Toscana dove, fra Due e Trecento, si hanno gli esiti più alti della lirica in volgare italiano. La scuola siciliana L’eredità della lirica provenzale è raccolta in Italia dalla cosiddetta scuola siciliana (prima metà del sec. XIII) sviluppatasi alla corte di Federico II a opera di funzionari della corte, che idealizzano ancor più la figura femminile e danno spazio all’indagine sulla natura dell’amore. I poeti siculo-toscani Riprendono il tema dell’amore affiancandolo a temi morali e politici ispirati alla realtà dei comuni toscani, come nella poesia di Guittone d’Arezzo, intellettuale politicamente impegnato nella sua città. Lo Stilnovo Capostipite del gruppo di poeti toscani denominato “stilnovo” (Guido Cavalcanti, Dante, Cino da Pistoia) è il bolognese Guido Guinizzelli. Con lo Stilnovo (ultimi due decenni del Duecento) la lirica italiana raggiunge un alto livello di perfezione formale. Tema esclusivo è l’amore, considerato dai più strumento di elevazione morale che può essere provato solo da chi è dotato di vera nobiltà d’animo. Il vertice di questa esperienza è rappresentato dalla produzione lirica di Dante, parzialmente raccolta nella giovanile operetta Vita nuova. Il Canzoniere di Petrarca Il capolavoro della lirica medievale e uno dei testi chiave nel canone dei classici italiani è il Canzoniere di Francesco Petrarca. La poesia comico-realista La poesia comico-realista si contrappone all’esperienza raffinata e stilisticamente alta della linea siciliano-stilnovista richiamandosi ai modi della poesia goliardica. Alla visione sublimante dell’amore e alle astrazioni intellettualistiche della lirica stilnovista alcuni poeti dell’area toscana (il più noto è Cecco Angiolieri) oppongono temi e modi poetici che si richiamano alla quotidianità e materialità e utilizzano un linguaggio espressivo, ricco di termini dialettali.
Fissare i concetti Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 1. Quale funzione ha la letteratura nell’Alto Medioevo? Come cambia la sua funzione nel Basso Medioevo? 2. Come è concepita la poesia nel Medioevo? E la prosa? 3. Quanti sono e quali sono gli stili? 4. Perché sin dall’antichità si sviluppa una distinzione tra livelli stilistici? 5. Per quali motivi il cristianesimo sovverte l’idea di gerarchia stilistica? 6. Che cos’è il metodo di lettura allegorico? 7. Qual è la differenza tra simbolo e allegoria? 8. Che cosa si intende con interpretazione figurale? 9. Quali sono le tre forme letterarie della cultura cortese? 10. Quali sono i generi trattati nella prosa in volgare del Duecento?
74 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
4
L’evoluzione della lingua 1 Dal latino al volgare Una trasformazione lunga e complessa I primi testi letterari in volgare (cioè non in latino) si collocano nella prima metà del XIII secolo: in questo periodo vengono prodotti il Cantico di frate Sole di san Francesco d’Assisi, scritto nel 1224 circa, e soprattutto la poesia amorosa che fiorisce alla corte di Federico II entro il 1250. Questi testi sono l’esito finale di un lungo e complesso processo di trasformazione che dura per tutto l’Alto Medioevo e in cui si verifica la graduale emancipazione del volgare italiano dalla matrice latina: innanzitutto come lingua parlata, successivamente come lingua scritta d’uso pratico e infine come lingua letteraria. Oltre ai vari idiomi presenti nella penisola italiana, questo processo riguarda anche le altre lingue neolatine, cioè le lingue derivate dal latino, la lingua di Roma che si era imposta in tutta l’Italia e nel resto dell’Impero. Dall’unità linguistica alla differenziazione dei volgari Finché la struttura dell’Impero romano rimase salda e si mantenne l’unità politica, le sue diverse province, collegate dagli scambi commerciali e da un capillare apparato burocratico, comunicavano grazie al latino scritto (che rimase abbastanza stabile nel tempo) e, nella comunicazione quotidiana, attraverso il latino parlato: la base latina comune ai vari idiomi era infatti abbastanza riconoscibile, nonostante le differenze locali, così da consentire la comunicazione in quasi tutto il territorio. A partire però dal III secolo d.C., in seguito alla grave crisi politica ed economica che investe l’Impero romano, la forza accentratrice di Roma imperiale comincia a venir meno e gli elementi linguistici locali (a livello fonetico, morfosintattico e lessicale) finiscono per prevalere sul comune ceppo latino. L’ondata delle invasioni barbariche del V secolo dà il colpo di grazia all’unità linguistica: la vita culturale nelle città si spegne e si fanno sempre più rare le occasioni di usare la lingua scritta.
Le lingue neolatine Lingue neolatine tutte le lingue che derivano dal latino e in qualche modo lo rinnovano (da qui il prefisso neo-)
• italiano • francese • provenzale • castigliano (spagnolo) • catalano
• rumeno • sardo • ladino • portoghese • dalmatico (ora estinto)
Lingue romanze sinonimo di lingue “neolatine”
L’aggettivo romanze fa riferimento alla Romània, l’area geografica dell’Impero romano in cui si usava la lingua di Roma e in cui si verifica il passaggio dal latino alle lingue da esso derivate.
Lingue volgari o volgari altro sinonimo di lingue neolatine
Si parla di lingue volgari o di volgari quando emergono lingue romanze in cui è evidente la loro derivazione dal latino volgare (sermo vulgaris), quello cioè parlato dal popolo (vulgus).
L’evoluzione della lingua 4 75
I vari volgari si differenziano quindi sempre più non solo dal latino scritto ma anche tra di loro e assumono quelle specifiche caratteristiche che rendono l’italiano una lingua diversa, ad esempio, dal francese, pur essendo entrambe lingue derivate dal medesimo idioma. La consapevolezza dell’esistenza dei volgari Ma quando nasce la consapevolezza che il volgare è una lingua “diversa” dal latino? Gli storici della lingua considerano al proposito significativi due eventi, entrambi della prima metà del IX secolo. • Il concilio di Tours (813). Promosso da Carlo Magno, il concilio stabilisce che i
vescovi debbano “tradurre” (è significativo che il documento usi proprio questo verbo, il latino transferre) le prediche in volgare (in rusticam Romanam linguam) o in tedesco, perché tutti i fedeli possano capirle. Il documento testimonia la consapevolezza di una frattura ormai irrecuperabile fra il latino, avviato a diventare la lingua della Chiesa (incomprensibile ai più), e la lingua volgare parlata. Testimonia inoltre la consapevolezza che esistevano ormai lingue diverse anche in territori tra loro vicini (il tedesco e la rustica Romana lingua) e la necessità che i religiosi adattassero le prediche a tale realtà linguistica. • Il giuramento di Strasburgo (842). I successori di Carlo Magno – Carlo il Calvo,
sovrano della parte occidentale dell’impero, e Ludovico il Germanico, sovrano della parte orientale – alla presenza dei loro soldati, formulano un giuramento che sancisce un’alleanza politica tra i due sovrani. Carlo giura in francese e Ludovico in tedesco, per farsi capire dai rispettivi eserciti, ma poi giurano anche scambiandosi la lingua (per testimoniare espressamente ai soldati il loro reciproco impegno). Il giuramento testimonia con chiarezza che il latino è ormai diventato una lingua lontana e incomprensibile e si ritiene di non impiegarlo nemmeno in una cerimonia ufficiale importante come questa, affidata invece alle lingue volgari.
PER APPROFONDIRE
Le prime testimonianze del volgare scritto in Italia In Italia il riconoscimento dell’autosufficienza del volgare rispetto al latino si verifica molto più tardi rispetto agli altri paesi della Romània. Queste testimonianze in particolare lo documentano.
L’apporto linguistico dei conquistatori al volgare italiano Nella trasformazione del latino nelle lingue romanze hanno notevole importanza, in particolare a livello lessicale, anche gli influssi apportati dalle lingue dei conquistatori, cioè dei popoli che si succedettero nei territori di quello che era stato l’Impero romano; questi influssi vengono definiti dai linguisti superstrato. Particolarmente rilevante per il volgare italiano di questi secoli fu l’influenza di due ceppi linguistici: quello germanico e quello arabo. L’influsso germanico ha inizio ai tempi del tardo impero, con l’entrata dei primi gruppi di barbari nell’esercito romano e si accentuerà con l’invasione dei goti di Teodorico e più tardi con il regno dei longobardi. Dall’area linguistica germanica l’italiano trae molteplici termini, in particolare afferenti all’area semantica della guerra (come appunto proprio il termine guerra, dal germanico
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werra, oppure elmo o strale), termini come panca, stamberga, o il termine geografico Lombardia (da Longobardia). Dai franchi, che estesero a parte dell’Italia il sistema feudale, l’italiano deriva parole che hanno appunto a che fare con tale struttura, come feudo, barone, vassallo, marca, ma anche termini militari (schiera, dardo, gonfalone). L’influsso arabo inizia molto più tardi, nell’VIII secolo, sia in seguito alla conquista della Sicilia e della Sardegna da parte degli Arabi, sia attraverso i rapporti commerciali che le repubbliche marinare attivarono con gli Arabi. A livello linguistico l’influenza araba è particolarmente evidente nelle aree semantiche afferenti al commercio (dogana, tariffa, magazzino, arsenale), ai campi della matematica (algebra, zero, cifra), o dell’astronomia (zenith, nadir, astrolabio), ma non pochi apporti arabi interessano anche il campo dell’agricoltura (da arancio a carciofo a zucchero).
• L’indovinello veronese. Il celebre indovinello (➜ D17a) rappresenta la più antica
testimonianza scritta in volgare in Italia: è databile tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, e da qui deriva la sua importanza storica. Fu scoperto in un codice della Biblioteca Capitolare di Verona contenente testi liturgici. Inserito a margine di una pagina del codice, il testo consiste in un indovinello riguardante l’attività dell’amanuense. È opera sicuramente di un autore colto, probabilmente un copista che si è divertito a rappresentare la sua stessa attività sotto forma, appunto, di un indovinello basato sull’analogia tra il lavoro dell’amanuense e quello dell’aratore. • Il Placito di Capua (960 ca). L’uso scritto del volgare è testimoniato anche nell’am-
bito giuridico-notarile: è il caso del Placito di Capua (➜ D17b), un documento giuridico successivo di circa un cinquantennio rispetto all’indovinello veronese e che fa riferimento a una causa relativa alla contestazione del possesso di una proprietà terriera. Il documento è in latino, ma include la citazione delle parole di un testimone che si esprime in volgare. È significativo che il giudice abbia ritenuto legittimo e importante inserire in un documento legale una testimonianza diretta in lingua volgare, riconoscendone implicitamente l’autonomia rispetto al latino. • L’iscrizione di San Clemente. Un altro testo interessante riguarda un’iscrizione
presente nella basilica di San Clemente a Roma databile intorno alla fine dell’XI secolo. È bilingue, parte in volgare e parte in latino, e visualizza un episodio della vita del santo: immagini e parole infatti si trovano affiancate come avviene nei moderni fumetti. Un pagano, Sisinnio, convinto che Clemente gli abbia fatto un grave affronto, ordina ai suoi servi di condurlo al martirio. Ma il santo (le cui parole sono nell’iscrizione in latino) compie un miracolo: anziché lui, i servi trasportano una colonna di marmo. Ciò scatena la colorita protesta di Sisinnio, espressa in volgare popolare: «Fili de le pute, traite» (“Figli di puttana, tirate”). Nel passaggio dal latino al volgare italiano si verificano trasformazioni a diversi livelli Il passaggio dal latino al volgare italiano comporta molte trasformazioni, sul piano morfosintattico e lessicale. Ne ricordiamo alcune tra le più importanti. • La scomparsa delle declinazioni e la sostituzione delle preposizioni di e a per esprimere le funzioni logiche corrispondenti al genitivo e dativo latini. • La scomparsa del genere neutro, assorbito nel maschile. • L’introduzione degli articoli. • La scomparsa dei verbi deponenti. • La sostituzione della coniugazione passiva con l’uso dell’ausiliare essere. • Nel lessico, proprio per l’influenza del parlato, prevale una maggiore concretezza, irrompono numerosi neologismi e molti termini subiscono un mutamento di significato, anche in rapporto all’influenza della predicazione cristiana, e assumono una specifica valenza morale. Può servire d’esempio il cambiamento di significato che si verifica dal latino fides (“fedeltà alla parola data”) al volgare fede (credenza in Dio).
Affresco con iscrizioni della fine del secolo XI nella basilica sotterranea di San Clemente a Roma.
L’evoluzione della lingua 4 77
Primi documenti del volgare in Italia D17a L’indovinello veronese S. Gensini, Elementi di storia linguistica italiana, Minerva Italica, Bergamo 1983
Il celebre indovinello (risale probabilmente alla fine dell’VIII secolo o all’inizio del IX) è un testo che contamina latino e volgare.
Se pareba boves, alba pratalia araba, (et) albo versorio teneba; (et) negro semen seminaba.
Spingeva avanti i buoi (le dita dello scrivano) arava bianchi prati (i fogli di pergamena) teneva un bianco aratro (una penna d’oca) seminava un nero seme (l’inchiostro).
ratias tibi agimus omnipotens G sempiterne Deus.
Ti rendiamo grazie, o Dio onnipotente ed eterno.
Concetti chiave Tra latino e volgare
Il breve testo rappresenta l’atto della scrittura e gli elementi materiali che consentono di realizzarla: i fogli di pergamena, la penna d’oca, l’inchiostro. Sotto il profilo linguistico si può notare la presenza di termini latini (i sostantivi boves, semen, l’aggettivo neutro plurale alba) accanto a forme che testimoniano la trasformazione in atto verso i volgari: in particolare si nota la caduta della desinenza -t nei verbi all’imperfetto (pareba, araba, teneba, seminaba; ma d’altra parte si mantiene la -b- dell’imperfetto latino, non ancora passata alla -v- dell’imperfetto volgare), la trasformazione da nigrum a negro, forma intermedia tra il latino e l’attuale nero, con caduta della desinenza del caso accusativo e passaggio vocalico da -i- a -e-. Un volgarismo lessicale è il termine femminile pratalia “campo, prato” al posto del latino agrum “campo”, da ager (Prataglia – o Praglia e forme analoghe – sono toponimi ancora esistenti). Rimane in latino e non fa del resto parte dell’indovinello la formula di ringraziamento a Dio che chiude il breve testo.
D17b S. Gensini, Elementi di storia linguistica italiana, Minerva Italica, Bergamo 1983
Il Placito di Capua Il termine medievale placito deriva dal latino e significa “sentenza”. Il testo che segue fa parte di un antichissimo testo giuridico, il Placito di Capua, che risale al 960.
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.
So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trenta anni li ha avuti in possesso il monastero di san Benedetto.
Concetti chiave Un uso pratico del volgare
Questo testo in volgare è parte integrante di un documento in latino e ha uno scopo pratico di natura giuridica. Colui che parla si esprime nella propria lingua e il notaio decide di riportarne la testimonianza nella lingua originale. L’occasione della sentenza è una controversia che oppone un certo Rodelgrimo di Aquino e l’abate del monastero benedettino di Montecassino a proposito di terreni, che Rodelgrimo sostiene di aver ereditato. L’abate del monastero produce però tre testimoni a suo favore. Il giudice emette la sentenza, includendo nel testo latino una formula in volgare pronunciata ad alta voce da tutti e tre i testimoni. Nel testo resta qualche latinismo come il genitivo latino Sancti Benedicti e la costruzione con pars (“parte”).
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Qual è la finalità dell’autore dell’indovinello? STILE 2. Dal punto di vista linguistico che cosa risulta evidente nell’indovinello? 3. Quali differenze nell’analisi della lingua utilizzata si possono rilevare tra l’indovinello e il Placito?
Interpretare
SCRITTURA 4. Spiega perché in un atto giuridico (che è un documento redatto esclusivamente in latino), compaia una testimonianza in volgare (max 5 righe).
2 Da un panorama variegato alla preminenza del toscano Un universo linguistico sfaccettato Nel corso del XII secolo in varie zone d’Italia comincia a diffondersi l’uso del volgare scritto, innanzitutto in ambito notarile; occorrerà però molto tempo perché il volgare sia usato come lingua letteraria (prima metà del sec. XIII). Anche allora però non si può parlare veramente di “volgare italiano”: la frammentazione politica della penisola non consente infatti in Italia l’esistenza di un unico volgare, ma una pluralità di volgari. All’inizio del Trecento Dante identifica nella penisola la presenza di ben quattordici varietà linguistiche. online
Per approfondire “Italia”, “italiani”: un mito linguisticoletterario
L’affermazione del toscano e la marginalizzazione culturale degli altri idiomi in Italia Una lingua unitaria nascerà in Italia non come lingua della comunicazione ma soltanto nell’ambito letterario: questa lingua coinciderà di fatto con il toscano, specie dell’area fiorentina, che si afferma sugli altri volgari grazie al prestigio di tre grandissimi autori del Trecento: Dante, Petrarca e Boccaccio, che scrivono appunto in toscano.La supremazia del toscano fu favorita anche dalla centralità della Toscana nel territorio italiano e soprattutto dal primato economico di Firenze sugli altri comuni italiani. Le conseguenze dell’egemonia del toscano come lingua letteraria e più in generale come lingua scritta comportò conseguenze storiche molto rilevanti: innanzitutto si verificò una frattura tra lingua parlata nelle varie zone d’Italia e lingua scritta, ma anche la separazione tra una produzione culturale egemone e le multiformi culture regionali, di fatto condannate a una sostanziale subalternità. Nel corso del tempo esse si faranno portavoce di aree tematiche e di registri espressivi ignorati dalla letteratura ufficiale. La superiorità del toscano letterario verrà sancita ufficialmente nel 1525 dalle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo: è solo da questa data che si può in un certo senso parlare di “italiano”, ma bisogna sempre ricordare che l’“italiano” è nato dalla letteratura, dal mondo degli intellettuali, non dalla viva realtà di una nazione.La
3 La sorte del latino dopo l’affermazione dei volgari La lingua della Chiesa, del diritto, della politica e dell’università Mentre i volgari romanzi si affermano lentamente anche come lingue scritte, il latino continua la sua vita secolare. Il latino è innanzitutto la lingua della Chiesa; del resto, fino all’affermarsi della società comunale – cioè fino alla fine del Duecento – coloro che usano la lingua scritta, gli intellettuali, sono esclusivamente chierici, cioè ec-
L’evoluzione della lingua 4 79
clesiastici. Ma anche ben oltre questi limiti cronologici la lingua del diritto, dell’alta politica, della diplomazia ma soprattutto della cultura universitaria resta il latino. Il latino rimane inoltre per secoli la lingua ufficiale della scienza e della filosofia: scrivono in latino ancora nel Cinquecento l’astronomo Copernico, nel Seicento il filosofo Spinoza, nel Settecento Leibniz e Kant.
Lessico encicliche Le encicliche sono lettere, indirizzate dal papa a tutti i vescovi o a una parte di essi, che riguardano argomenti dottrinali oppure teologici, sociali, economici o filosofici.
La scelta del latino corrisponde a una visione elitaria della cultura È evidente che a questa scelta linguistica corrisponde una visione elitaria della cultura, che intende mantenere scienza e filosofia confinate nell’ambito ristretto dei dotti, degli addetti ai lavori. A questa tendenza si oppongono coloro che lottano, al contrario, per divulgare il sapere: innanzitutto Dante che decide di scrivere in volgare il suo Convivio (➜ C6 PAG. 359). Significative poi sono le scelte di filosofi-scienziati fra Cinque e Seicento come Bruno, Campanella e soprattutto Galileo che, contro la tradizione filosofico-scientifica, userà il volgare per le sue opere di maggiore importanza (Il Saggiatore e Il Dialogo sui due massimi sistemi). La Chiesa tutela per secoli l’uso del latino A tutelare l’uso del latino nel tempo è però soprattutto la Chiesa (e ancora oggi le encicliche sono in latino). L’autorità ecclesiastica contrasta per secoli l’inserimento del volgare nella liturgia, concedendone l’utilizzo gradualmente solo alle prediche e ai testi religiosi divulgativi. Nel Cinquecento la Chiesa di Roma si opporrà (ma senza successo) all’uso dei volgari nel rito, rivendicato da Lutero e dai riformatori. La svolta del concilio Vaticano II Il cambiamento arriverà soltanto secoli dopo: nel 1963, sotto la spinta innovativa del concilio Vaticano II, si comincerà ad ammettere cautamente l’uso delle lingue nazionali. Una volta avviato, il processo risulterà inarrestabile e nel giro di pochi anni nella liturgia il latino lascerà il posto alle lingue nazionali.
Pagina tratta da una Bibbia dei poveri tedesca (seconda metà del secolo XV). Il testo è scritto in modo alterno sia in latino sia in tedesco.
Fissare i concetti L’evoluzione della lingua 1. In quale periodo si collocano i primi testi letterari in volgare? 2. Quali sono le lingue neolatine? 3. Come avviene la trasformazione linguistica dal latino alle lingue volgari? 4. Quando si ha la consapevolezza che il volgare è diverso dal latino? 5. Quali sono le prime testimonianze del volgare scritto in Italia? 6. Quali sono le differenze linguistiche tra l’indovinello veronese e il Placito di Capua? 7. Quale tipo di lingua nasce in Italia? 8. Qual è la sorte del latino dopo l’affermazione dei volgari?
80 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
PER APPROFONDIRE
Il ruolo dei tre grandi trecentisti nella storia della lingua italiana Il ruolo chiave della Commedia nella storia della lingua Con la Divina Commedia, il neonato volgare si libera di ogni inferiorità e si rivela lingua capace non solo di alta poesia, ma anche di trattazione scientifica e filosofico-teologica. Dante “padre della lingua italiana” La scelta del plurilinguismo e delle possibilità espressive del volgare realizzati nella Commedia hanno giustamente fatto parlare di Dante come del “padre della lingua italiana”. Il vocabolario trasmesso dalla Commedia infatti è straordinariamente vario, adatto a esprimere un’incredibile varietà di argomenti, situazioni, idee. Nel lessico dantesco, sono compresenti forme più antiche accanto ad altre più recenti, termini dotti accanto ad altri popolari o, addirittura, gergali-triviali. Di fatto, questo linguaggio attinge pochissimo alle altre parlate d’Italia ed è, nella sostanza, fiorentino nei fondamenti grammaticali e nel lessico; ma è appunto Dante a fondare con autorevolezza la possibilità che questa lingua parli non solo ai fiorentini ma al pubblico di tutta Italia. L’unilinguismo di Petrarca: un modello per la lingua della poesia In contrapposizione al plurilinguismo dantesco, Petrarca si ispira invece all’unilinguismo, a una scelta cioè monocromatica. Petrarca compie un lavoro di selezione stilistico-linguistica, restringe i confini della lingua, rifiuta l’espressività a favore dell’eleganza e dell’armonia, fondando in questa specifica direzione il lessico della tradizione lirica. Sebbene sia meno “moderno” di Dante, l’intervento di Petrarca nella storia della lingua eserciterà un influsso più rilevante: forse perché più facilmente riproducibile, sarà il modello del Canzoniere, ben più che lo sperimentalismo ardito della Commedia, a far scuola, influenzando per secoli il lessico e le forme della poesia.
La lezione di Boccaccio: un modello per la prosa italiana Rispetto alla poesia, la prosa volgare è più lenta a maturare una propria originalità: le sue prime applicazioni dovevano infatti vincere la forte concorrenza del latino. Fondamentale, nell’ambito della prosa, fu la lezione di Boccaccio, capace di elevarla da forme pedestri e sostanzialmente mediocri: con il suo Decameron egli offre alla prosa italiana un modello non inferiore alla Divina Commedia per varietà di forme e registri, anche se si mantiene lontano dall’espressionismo e dal plurilinguismo dantesco, evitando in particolare le forme troppo “basse”. L’influenza di Boccaccio sull’evoluzione della lingua si fa sentire sul piano non tanto del lessico quanto della sintassi: fa scuola soprattutto il periodare ampio e complesso del Decameron, la generale prevalenza di strutture ipotattiche su quelle paratattiche, l’uso latineggiante, estremamente diffuso, del verbo alla fine della proposizione. Dante, Petrarca, Boccaccio “nuovi classici” Già nel corso del Trecento i tre grandi scrittori sono accomunati nella ammirazione del pubblico, che ne fa i “nuovi classici”, i modelli stilistici da imitare, creando le basi per l’affermazione del toscano sugli altri dialetti, quel toscano letterario che costituirà la base della lingua nazionale. L’“italiano”: una lingua colta per una minoranza In generale si può dunque dire che il linguaggio d’Italia ha basi letterarie molto forti e si indirizza per molto tempo alla cerchia chiusa degli uomini di lettere. Come ha sottolineato il linguista Giacomo Devoto, la lingua italiana – a differenza del francese, dell’inglese e del tedesco – nasce come lingua di una minoranza e tale rimarrà per secoli.
Da destra: Cavalcanti, Dante, Boccaccio e Petrarca; dietro: Cino da Pistoia e Guittone d’Arezzo (part. di una tela di Giorgio Vasari, 1544, Institute of Arts, Minneapolis).
L’evoluzione della lingua 4 81
Libri, lettori, lettura
Il libro prima dell’invenzione della stampa
Lessico miniature Inizialmente il termine indicava l’illustrazione posta a decoro della lettera iniziale di un manoscritto, normalmente di colore rosso (minium è il minerale da cui si ricava il colore rosso). Successivamente, indica ogni pittura messa a ornamento di un libro antico.
Nel Medioevo i libri sono manoscritti Per tutto il Medioevo i libri sono dei manoscritti, sono cioè stesi a mano da singoli copisti detti amanuensi. I primi libri a stampa compariranno solo nel XV secolo. Nell’Alto Medioevo i pochi libri sono prodotti negli scriptoria dei monasteri e i copisti sono esclusivamente monaci. Essi trascrivono i testi sacri, ma anche i testi dell’antichità classica sopravvissuti alla dispersione e distruzione del patrimonio librario dell’Impero romano e li conservano poi nelle biblioteche dei monasteri. Come erano fatti i codici più antichi I libri manoscritti (definiti codici per distinguerli dal libro a rotolo, in uso nell’antichità) erano costituiti da fogli ripiegati e riuniti in fascicoli, poi cuciti e rilegati. Nell’Alto Medioevo come materiale scrittorio si usava esclusivamente la pergamena e il libro era massiccio, alto oltre 35-40 cm: è il cosiddetto libro da banco che, data la sua mole, doveva essere appoggiato per poter essere letto. È la situazione di lettura evocata da Dante in un passo del Paradiso (Pd X,22: «Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco»): un libro autorevole (come appunto la Commedia) non poteva essere che di grande mole e così fu per lungo tempo. Il testo era steso in “scrittura continua” (ovvero senza la separazione tra le parole) ed era disposto su due colonne, con il commento a lato in caratteri più piccoli e impreziosito da iniziali molto elaborate e da miniature , che ne accentuano il prestigio. La trasformazione della produzione di libri nella società urbana Verso il XII secolo lo sviluppo delle scuole cittadine e soprattutto delle università richiede sempre più manoscritti, per esigenze di studio e insegnamento.
Un monaco amanuense scrive su un rotolo. Davanti a lui, sull’armadietto, gli strumenti del copista. Tommaso da Modena, Ciclo dei domenicani illustri, affresco nel convento di San Nicolò a Treviso, 1352, particolare: un cardinale appartenente all’ordine dei domenicani studia e scrive (con ausilio di occhiali).
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Come e perché si legge nel Medioevo Leggere per meditare Nell’Alto Medioevo leggere non è certo una pratica comune: a leggere (e a scrivere) sono quasi esclusivamente i monaci nel chiuso delle loro celle, oppure nei refettori, nelle scuole, in chiesa. La stragrande maggioranza della popolazione è infatti analfabeta. Nelle occasioni della vita comunitaria si leggeva ad alta voce, mentre nella solitudine delle celle i monaci usano una lettura appena mormorata a voce bassa, compiuta con ritmo lento, così da favorire la memorizzazione del testo. Nel monastero si legge per avvicinarsi a Dio, per salvarsi l’anima: il testo va lentamente meditato e possibilmente imparato a memoria, perché possa diventare un patrimonio spirituale duraturo.
Le fasi di lavorazione di una pergamena In questa sequenza di quattro capolettera miniati di un codice medievale sono rappresentate le fasi di lavorazione di una pergamena. 1. il monaco compra la pergamena dal produttore
2. traccia le righe per la scrittura
3. taglia le pagine
4. inizia la sua opera di copista e miniatore
Due amanuensi al lavoro nello scriptorium del loro monastero (miniatura dai Vangeli di Echternach, secolo VIII).
Libri, lettori, lettura 4 83
Libri, lettori, lettura
Leggere per sapere Tra l’XI e il XIV secolo con lo sviluppo delle scuole cittadine e delle università si affermano funzioni diverse del libro e della lettura: si legge non più per raggiungere la saggezza ma per conquistare il sapere; la dimensione spirituale passa in secondo piano rispetto all’utilità dello studio. Da qui la necessità di una lettura rapida e selettiva, opposta alla lettura lenta e regolare propria del metodo monastico. Per rendere il testo più facilmente leggibile vengono introdotte varie innovazioni nelle tecniche di scrittura e composizione del testo (la divisione delle parole, la segnalazione dei paragrafi). Ma qualcuno legge anche “per diletto” Un modello di lettura sicuramente diverso per finalità, modi e luoghi è quello cortese, proprio delle aristocrazie europee istruite. Fino a tutto il XIV secolo i nobili francesi leggevano raramente da soli, ma preferivano ascoltare chi leggeva e recitava per loro: testi di devozione, ma per lo più chansons de geste, poesie di trovatori, romanzi (➜ C1). A partire dal XIV secolo tra i nobili si diffuse però la pratica della lettura silenziosa individuale e il genere prediletto, espressamente nato per la lettura individuale, è il romanzo.
Il pubblico L’Alto Medioevo: un mondo di analfabeti Durante l’Alto Medioevo non si può ancora parlare di pubblico: pochissime persone in Occidente sapevano leggere e scrivere, gli stessi signori feudali e persino i re erano analfabeti e avevano perciò appositamente al loro servizio chi redigeva (in genere chierici) i documenti scritti. L’analfabetismo era talmente diffuso che anche il messaggio cristiano era trasmesso dai chierici essenzialmente in forma orale.
Gruppo di studenti alla lezione del magister: miniatura da Grandes Chroniques de France, secolo XIV (Castres, Biblioteca comunale).
Pagina di un codice manoscritto dell’Inferno di Dante con glosse ovvero annotazioni esplicative o commenti apposti nel margine del manoscritto (metà secolo XIV).
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Il pubblico raffinato (e femminile) della letteratura cortese-cavalleresca È nelle corti feudali di Francia che si può iniziare a parlare di pubblico, nel senso di destinatari a cui gli autori deliberatamente si rivolgono. In questo caso si tratta del pubblico raffinato della corte: il signore, le dame e i cavalieri, che condividono con gli autori della lirica e della narrativa cortese un modello culturale e valoriale incentrato sull’ideale della cortesia. All’interno del pubblico cortese hanno un posto rilevante le donne, così rilevante che la civiltà cortese medievale si distingue da ogni altra «soprattutto per il suo carattere spiccatamente femminile» (Hauser). Il pubblico stratificato del comune In Italia è nell’età comunale, e specialmente nel corso del XIII secolo, che si forma un pubblico in grado di leggere e apprezzare testi letterari; si tratta di un pubblico stratificato, che ha differenti esigenze e competenze di lettura: giudici, notai, medici sono in grado di leggere opere sia in volgare sia in latino, mentre i mercanti leggono esclusivamente opere in volgare (soprattutto novelle, romanzi, ma anche vite dei santi). Un pubblico emergente è quello delle donne: non è certo un caso che Boccaccio dedichi il suo Decameron proprio a loro. Il popolo e i contadini: “spettatori-ascoltatori” Per il popolo l’unica possibilità di accedere ai testi letterari e ai temi culturali è l’immagine (potente strumento, nel Medioevo, di acculturazione delle masse) o la forma orale: oltre ad ascoltare i sermoni dei predicatori (➜ C2), il popolo segue con passione le performances dei giullari (dal lat. ioculares o ioculatores, “buffoni”). I giullari erano “professionisti del divertimento” che vagavano di borgo in borgo guadagnandosi da vivere attraverso spettacoli allestiti dovunque si potesse radunare della gente: per lo più nelle piazze o lungo le strade dei pellegrinaggi. Assai importante era il loro ruolo come mediatori dei temi della cultura alta per un pubblico popolare: dalle vite dei santi alle affascinanti avventure dei paladini di Carlo Magno.
Francesco Petrarca nel suo studio (affresco attribuito ad Altichiero, Sala dei Giganti nel Liviano di Padova, 1368 ca.). Petrarca ha tra le mani un libro che appoggia su un piano inclinato. A fianco si trova un leggìo a ruota che diventerà comune negli studioli degli umanisti in cui si possono trovare molti volumi di piccolo e medio formato.
Libri, lettori, lettura 4 85
Arte nel tempo
Il romanico
Continuità con la tradizione romana
L’architettura e l’arte figurativa che caratterizzano l’Italia dopo l’anno 1000 sono testimonianza della rinascita economica e dell’espansione delle città. Le caratteristiche strutturali degli edifici e i canoni delle rappresentazioni cambiano rispetto ai secoli dell’Alto Medioevo: le architetture diventano più complesse e la figurazione recupera il realismo e il fine narrativo che aveva nel mondo antico. Nell’Ottocento si inizia a usare il termine romanico per identificare questo periodo, sottolineandone la continuità con la tradizione romana. Importanti esempi di questo nuovo modo di costruire sono le basiliche cristiane edificate all’interno delle cinta murarie delle città e le rappresentazioni (bassorilievi, affreschi, mosaici) che decorano l’interno e l’esterno di questi luoghi di culto. Si avviano colossali cantieri urbani in cui lavorano diverse maestranze (lavoratori della pietra e del legno, costruttori...) coordinate da un magister (una sorta di architetto). La costruzione di questi grandiosi edifici era un processo di lavoro collettivo e coinvolgeva tutta la cittadinanza. Queste chiese non erano solo il centro della religiosità, ma anche luoghi importanti per la vita civile. La loro struttura era caratterizzata dall’impiego dell’arco a tutto sesto di derivazione romana e della volta a crociera, da imponenti masse murarie e dall’equilibrio razionale delle strutture. Pittura e scultura erano impiegate come decorazioni dell’architettura, materialmente e concettualmente legate ad essa.
La 1 La decorazione scultorea del duomo di Modena La cattedrale di San Geminiano di Modena, consacrata nel 1099, è un esempio compiuto di stile romanico. Di questo importante cantiere, durato per oltre un secolo, conosciamo il nome del magister, Lanfranco, e ciò testimonia che si cominciasse a considerare il progettista degno di memoria. Sulla facciata della cattedrale (sopra i due portali laterali e nello spazio tra questi e quello centrale) sono inserite quattro lastre istoriate a bassorilievo (1099-1106) che raccontano le storie della Genesi dalla creazione di Adamo 1 al diluvio universale 4 , realizzate da Wiligelmo, il cui nome è inciso nell’epigrafe commemorativa collocata in facciata.
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Nella seconda lastra 2 Wiligelmo rappresenta la cacciata dal paradiso di Adamo ed Eva e la loro condanna al lavoro. Gli episodi seguono un senso orizzontale da sinistra a destra. I personaggi si muovono in uno spazio scandito da una serie di colonnine e arcatelle a tutto sesto, e delimitato dal piano orizzontale sul quale sono poste le figure, messe leggermente di profilo. Il piano di appoggio e la coerenza dei gesti aumentano l’effetto di realismo: nella prima scena a , Eva e Adamo, con una mano al volto e l’altra a coprire le parti intime, sono rivolti verso Dio, la cui natura divina è indicata dalla presenza dell’aureola; nella seconda b l’arcangelo, reso riconoscibile dalle ali e dalla spada, è alle spalle di Adamo ed Eva mentre accennano un passo (stanno camminando mentre vengono cacciati) e hanno il volto significativamente rivolto
verso il basso; nell’ultimo episodio c li vediamo uno di fronte all’altra, vestiti, mentre zappano la terra: a dividerli una pianta, simmetricamente posta al centro, frutto della loro fatica. Il lavoro a cui l’uomo e la donna sono condannati è quello agricolo, così familiare all’uomo medievale. La rappresentazione di profilo, oltre a non rispettare la frontalità tipica dei canoni bizantini, permette di creare interazione tra i personaggi. L’appoggio saldo dei piedi conferisce peso alle figure. La chiarezza dei gesti e l’essenzialità degli elementi scelti per la rappresentazione donano concretezza alle scene, trasformandole in un vero e proprio racconto per immagini. La facciata dell’edificio di culto è il confine tra lo spazio umano della città e quello divino della cattedrale, ed è su questa soglia che le parole bibliche diventano corpi, movimenti, emozioni ed azioni.
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Il duomo di Modena presenta un altro importante ciclo scultoreo: otto bassorilievi, chiamati metope che rappresentano figure fantastiche e mostruose tra le quali ci sono gli Antipodi 5 , luogo che nell’immaginario antico e medievale era popolato da esseri mostruosi e si trovava ai confini della terra. Le metope di Modena sono una delle massime espressioni della sopravvivenza del fantastico nella figurazione medievale e la collocazione alle estremità esterne della cattedrale richiamerebbe la posizione degli antipodi nelle mappe medievali, trasformando il duomo di Modena in una mappa mundi di pietra.
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Arte nel tempo
Il gotico
Una nuova spazialità
Con il termine gotico si nomina lo stile architettonico che nasce in Francia alla fine del XII secolo e si afferma in Europa lungo il Duecento e il Trecento. Vissuti fra XIII e XIV secolo e dunque contemporanei di Dante, Petrarca e Boccaccio, gli artisti Nicola e Giovanni Pisano, Cimabue, Giotto, Lorenzetti furono i grandi narratori visivi che trasformarono il linguaggio dell’arte figurativa italiana. Il lavoro di recupero della lingua e della letteratura latina classica operato da Petrarca può essere considerato in parallelo alla ripresa dei canoni scultorei grecoromani nella statuaria dei Pisano, con i quali assistiamo al progressivo ritorno della scultura “a tutto tondo”, cioè autonoma dalla struttura architettonica. Per quanto riguarda l’architettura religiosa, il gotico europeo si distingue per le forme slanciate delle cattedrali, sostenute da archi a sesto acuto e da longilinei ma solidi pilastri a fascio che permettono di costruire strutture in cui le mura non sono portanti: questo offre la possibilità di aprire grandi finestre caratterizzate da vetrate colorate che raccontano le storie sacre, materializzando la presenza di Dio attraverso i raggi di luce che le attraversano. La basilica di San Francesco ad Assisi è un esempio di come in Italia la tradizione costruttiva del Duecento, pur subendo l’influenza del gotico europeo, resta fortemente legata alle strutture basse e piene del romanico italico. La facciata a capanna è divisa in fasce orizzontali come nel gotico francese e vede la presenza di un rosone e del portale a doppio fornice. Nella navata centrale della basilica superiore Giotto dal 1292 dipinge le Storie di san Francesco, un ciclo di affreschi che racconta per episodi la vita del santo. Nella Rinuncia agli averi è raccontato il momento in cui san Francesco sceglie la povertà della vita religiosa e viene ripudiato dal padre.
La 2 Le storie di san Francesco
Per rappresentare visivamente il conflitto tra san Francesco e il padre, sottolineando l’inconciliabilità delle rispettive concezioni della vita, Giotto compone la scena dividendola verticalmente in due parti che si oppongono.
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A sinistra il padre è in piedi davanti a un gruppo di borghesi cittadini, a destra Francesco è coperto solo da un tessuto tenuto dal vescovo, seguito da una coppia di religiosi. La scena giottesca è un racconto visivo costruito attraverso azioni che parlano, inserita nello spazio concreto dell’architettura. I gesti creano delle corrispondenze che rafforzano il significato morale: la mano del padre verso il basso si contrappone al gesto di preghiera di Francesco rivolto verso l’alto direttamente indirizzato alla mano di Dio che appare concretamente nel cielo. I volti dei personaggi sono differenziati nei lineamenti e guardano in diverse direzioni, come a imitare la naturale varietà delle forme del reale. La resa anatomica del torace di san Francesco e le pieghe dei panneggi, sotto i quali sono percepibili i corpi, mostrano la conoscenza delle proporzioni e del chiaroscuro, tecnica che crea il senso di profondità attraverso l’accostamento di luci e ombre. A fare da sfondo ai due gruppi di
personaggi si stagliano due architetture utili a rendere visivamente l’ambiente urbano in cui si svolge la scena (secondo le fonti, Piazza del Vescovado ad Assisi). Le architetture sono rese attraverso l’uso di una prospettiva che, pur non essendo regolata da leggi matematiche come quella del primo Quattrocento, riesce a rendere la profondità dello spazio in cui i corpi dei personaggi stanno. È una spazialità concreta, caratterizzata da un cielo blu e non da uno sfondo oro come era uso nei Crocifissi, nelle Maestà e nei polittici ancorati alla tradizione bizantina. Il cielo di Giotto non è più un piano astratto di luce divina ma un cielo visto dal punto di vista dell’uomo. I protagonisti delle sue rappresentazioni non sono più presenze frontali, ieratiche e distanti ma esseri umani che agiscono come protagonisti della storia, rappresentati in spazi sempre più realistici (fai il confronto con la tavola San Francesco e storie della sua vita di Bonaventura Berlinghieri, del 1235 ➜ C2, PAG. 155).
La 3 Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo
La città, che nella pittura di Giotto è spesso contesto dell’azione, è uno dei soggetti del ciclo di affreschi Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo realizzato da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena tra il 1338 e il 1339. In questo ciclo l’allegoria del Bene comune è accostata a un complesso ambiente urbano, si sviluppa in senso orizzontale, creando diversi piani di profondità attraverso l’impiego di una prospettiva in cui si ravvisa la lezione di Giotto. Questa imponente rappresentazione di significato laico e civile mostra non solo l’importanza della
vita urbana nella società del Trecento, ma anche il suo essere luogo in cui prendono forma nuove abitudini e valori, dove si strutturano diversi ruoli sociali e funzioni. L’affresco lega in un rapporto di causa-conseguenza lo stato di benessere di una città, e quindi dei suoi cittadini, al modo in cui essa è governata: la bellezza e la solidità dei palazzi sono resi vivi dai cittadini che li abitano in armonia e ricchezza. Il vivere civile trova in questa rappresentazione urbana una testimonianza della ricerca di razionalità, concretezza e verosimiglianza.
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Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
Sintesi con audiolettura
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura
Significato del termine Medioevo Il termine Medioevo è nato nell’età umanistica e indica il periodo intermedio tra l’età classica e l’età moderna. Gli umanisti ci hanno trasmesso l’immagine di un periodo “buio”: in realtà è un errore parlare del Medioevo in questi termini. In questo periodo si è sviluppata anche una civiltà raffinata e nasce una ricchissima produzione letteraria: nel XIV secolo prendono forma i capolavori di Dante, Petrarca e Boccaccio che sono l’apice del canone letterario occidentale. Il principio gerarchico Nel Medioevo vige l’idea che ci sia nella società una rigida gerarchia, per cui enti o categorie di persone sono distinti secondo un ordine di importanza, a lungo considerato immutabile: è un principio che permea sia l’immagine della società sia la visione dell’universo, concepito come un organismo ordinato da Dio attraverso le intelligenze angeliche, ma configura anche l’idea stessa della cultura e i modelli di comportamento che hanno nel concetto di auctoritas il principale punto di riferimento ordinatore. Il principio gerarchico è alla base anche del conflitto tra le due massime autorità medievali, il papato e l’impero: entrambe volute da Dio, secondo la concezione del tempo, rivendicano ognuna la propria superiorità sull’altra. La visione simbolico-religiosa Ispirata ai valori del cristianesimo, la visione simbolico-religiosa domina la mentalità medievale: essa non rimane limitata alla sfera del comportamento individuale, ma condiziona la visione della storia e persino l’immagine dello spazio. Il Medioevo non ha l’idea della prospettiva storica, della distinzione tra presente e passato, perché il tempo si iscrive nell’eterno, la storia è fatta non dall’uomo ma da Dio, che in essa realizza un disegno provvidenziale. L’interpretazione simbolica è strettamente connessa alla visione religiosa della vita, che permea il modo di vedere la natura, la storia, di interpretare gli eventi individuali e collettivi. La realtà vera non è quella che appare: nella natura stessa si cela un universo di simboli che rimandano sempre al trascendente. Persino i gesti (e soprattutto quelli della liturgia cristiana), i nomi, i numeri, i colori hanno significati simbolici. Il modello clericale Di una concezione rigorosamente religiosa e addirittura ascetica della vita si fa portatrice la cultura dei chierici, che orienta i modelli di comportamento soprattutto (ma non solo) nell’Alto Medioevo. Attraverso le prediche ai fedeli e generi popolari come le vite dei santi e la letteratura del viaggio nell’aldilà, i chierici impongono una visione cupa della vita umana, incline al peccato e passibile della punizione di Dio, immaginato e rappresentato soprattutto come giudice implacabile. La paura delle pene infernali induce alla mortificazione del corpo e dei piaceri terreni i credenti, che cercano di conquistare la salvezza dell’anima attraverso dure pratiche penitenziali, estenuanti pellegrinaggi ai luoghi consacrati e ai sepolcri dei santi, modelli di riferimento, insieme ai monaci, nella cultura clericale. All’esaltazione della
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vita ascetica e alla condanna di tutto ciò che è corporeo, l’irriverente letteratura goliardica, nata negli ambienti universitari, contrappone la gioia di vivere, il piacere del cibo e del sesso. Il modello cavalleresco-cortese Ben diverso è il modello umano e di comportamento cortese-cavalleresco, che viene elaborato nell’universo del castello feudale e che avrà enorme influenza ben oltre l’epoca e il contesto in cui nasce. La figura del cavaliere, il guerriero a cavallo, è soggetta dalla prima età feudale in poi a notevoli trasformazioni, che ne arricchiscono via via l’immagine: inizialmente prevalgono nel suo profilo qualità guerresche; verso l’XI secolo queste qualità sono subordinate alla difesa della fede: il cavaliere, come Roland della omonima chanson, diventa il paladino della cristianità nella lotta contro gli infedeli. Successivamente, nell’ambiente raffinato delle corti feudali di Francia, il cavaliere si ingentilisce e la sua figura diventa portatrice di nuovi valori: la liberalità, la gentilezza, la cortesia. Qualità esaltate soprattutto dal “servizio” nei confronti della donna, verso cui il cavaliere mostra assoluta dedizione, come il vassallo verso il suo signore. I valori della società urbana e mercantile Tra il XIII e il XIV secolo, nella civiltà urbana, nell’ambiente aperto e dinamico della città, si affermano modelli di comportamento e valori potenzialmente alternativi sia a quelli clericali sia a quelli cavallereschi. L’incremento degli scambi commerciali, soprattutto nei comuni dell’Italia centro-settentrionale, l’emergere nella società della figura del mercante valorizzano l’intraprendenza, la spregiudicatezza, l’abilità nel cogliere l’occasione per sviluppare i propri interessi.
2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche
Il sapere medievale si struttura in continuità con il sapere antico Nei primi secoli del Medioevo, i monaci salvano quanto rimaneva di quel prezioso patrimonio, ricopiando i testi antichi su codici manoscritti e conservandoli nelle biblioteche dei monasteri. Quindi il sapere appartenente alla civiltà pagana viene inglobato in quella cristianomedievale attraverso un’opera di selezione di ciò che appare importante e utile (soprattutto nozioni filosofiche e retoriche), di sintesi, ma anche di reinterpretazione dei testi pagani alla luce delle verità cristiane. L’allegoria Fondamentale in quest’ultima operazione è l’applicazione della lettura allegorica dei testi: è proprio la lettura allegorica di alcune opere di Virgilio che ne fa una delle “autorità” del Medioevo. Il Medioevo applica anche al campo conoscitivo e letterario il principio gerarchico: esso induce ad appoggiarsi sempre a fonti autorevoli come la Bibbia, ma anche poeti e filosofi antichi a cui è riconosciuta particolare autorevolezza e che sono dunque auctores: da Virgilio a Orazio a Cicerone e, in ambito filosofico, Aristotele. La visione enciclopedica del sapere Il sapere è immaginato dal Medioevo come accumulo di nozioni di campi disparati, che vengono condensati in monumentali opere enciclopediche. Sapiente è chi conosce tutto lo scibile e non solo una parte di esso (ne è esempio Dante stesso nella Commedia, vera sintesi dell’intero sapere medievale). Una visione enciclopedica che Petrarca, nel tardo Trecento, già contesta in nome di un sapere selettivo, di tipo morale, più utile all’uomo perché lo aiuta a diventare migliore. Sintesi L’evoluzione Duecentodella e Trecento lingua 4 91
L’università e la Scolastica Depositarie della visione ufficiale del sapere saranno per circa tre secoli le università, che iniziano a svilupparsi tra XII e XIII secolo. Il sapere della Scolastica (il termine definisce metodi e contenuti del sapere universitario) è fondato sul principio di autorità: autorità indiscussa (e indiscutibile) dei testi da studiare, autorità del maestro universitario che legge e commenta il testo (la lectio), autorità di Aristotele, il “filosofo” per antonomasia, il cui pensiero influenza per secoli tutti i campi dello scibile, dalla medicina all’astronomia, dalla filosofia alla stessa teologia. Propedeutico ai gradi più alti del sapere è lo studio delle arti liberali, ereditato dalla scuola dell’età classica, così come la partizione in Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e Quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia).
3 Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo
La funzione della letteratura Nell’Alto Medioevo la produzione letteraria è finalizzata all’educazione morale del cristiano. A una prospettiva morale e religiosa sono ricondotti anche i testi pagani, grazie alla lettura allegorica. Ma nel Basso Medioevo, poiché gli intellettuali non sono più solo chierici, la letteratura e l’arte si aprono a fini diversi, di piacevole intrattenimento, che vengono veicolati da nuovi generi letterari: ciò assumerà il massimo valore letterario con il Decameron di Giovanni Boccaccio. Gli stili Nel Medioevo la poesia non è mai concepita come produzione spontanea e personale: non può prescindere dalla competenza tecnica né dal possesso delle norme retoriche ereditate dalla cultura classica. Questo vale anche per la prosa, su cui esercitano grande influenza le artes dictandi, trattati di retorica che fissavano regole molto precise sul modo di scrivere. Il principio della congruenza Nello stile da usare il Medioevo accoglie un principio basilare ereditato dal sapere retorico antico: la coerenza tra stile e materia e la conseguente codificazione di tre stili: rigidamente contrapposti sono in particolare lo stile “alto” (o tragico) e il “basso” (o comico). Nella Commedia – così denominata in rapporto alla teoria degli stili – Dante utilizza tutti gli stili e li contamina fra loro a fini di espressività. Violazione del principio da parte degli scrittori cristiani Nel corso dell’Alto Medioevo il principio della congruenza è sistematicamente violato dagli scrittori cristiani nella loro produzione di testi a carattere religioso. Al fine di far comprendere a tutti il messaggio cristiano, tali scrittori lo veicolano con lo stile “basso”: questa scelta, già teorizzata da sant’Agostino, è evidente negli scritti di Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi. Allegoria e simbolismo Espressione della più generale visione simbolica propria del Medioevo, per cui tutto ciò che esiste in natura reca i “segni” del divino e rimanda alla realtà soprannaturale, il metodo di lettura allegorico si applica innanzitutto alle Sacre Scritture: il linguaggio e le immagini bibliche non vanno presi alla lettera ma sono da decifrare per comprenderne il reale significato, attraverso una particolare esegesi, ovvero un’interpretazione del testo. Lo stesso metodo viene presto esteso e impiegato per leggere – in una prospettiva morale e religiosa – anche le parole dei poeti antichi che in tal modo vengono integrati nel patrimonio della cultura medievale. Fin dall’Alto Medioevo si diffonde l’abitudine di rintracciare quattro livelli di senso nelle scritture, sia letterarie sia appartenenti al mondo cristiano. Ogni testo si può interpretare quindi secondo questi quattro livelli, o sensi, di lettura: livello letterale, allegorico, morale, anagogico.
92 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
L’interpretazione figurale Una particolare interpretazione allegorica è l’interpretazione figurale. Secondo tale lettura, le profezie del Vecchio Testamento trovano piena realizzazione nel Nuovo Testamento. Eventi della storia anche lontanissimi tra di loro sono collegati da un disegno provvidenziale (per cui alcuni eventi non sono da comprendere solamente in se stessi ma anche come figure, prefigurazioni, di altri che ne costituiscono il compimento) che l’uomo può solo tentare di spiegare.
4 L’evoluzione della lingua
Dal latino alla nascita delle lingue volgari La disgregazione politica ed economica dell’Impero romano determina anche la crisi del latino come lingua unitaria: da una parte si usa meno la lingua scritta (che rimane il latino), dall’altro gli idiomi parlati (i volgari) nelle varie zone dell’Impero vedono prevalere le componenti linguistiche locali sulla componente latina. Due documenti del IX secolo (Il concilio di Tours e Il giuramento di Strasburgo) testimoniano l’esistenza di lingue nuove, dette “neolatine”, autonome dal latino. In Italia la presenza del volgare è documentata dall’indovinello veronese (fine dell’VIII secolo), da un testo legale (il Placito di Capua, 960 ca.) e dall’iscrizione di San Clemente a Roma (fine dell’XI secolo). La preminenza del toscano Nel Trecento, in Italia, tre capolavori – la Commedia di Dante, il Canzoniere di Petrarca e il Decameron di Boccaccio – affermano la dignità letteraria della lingua volgare e in particolare del toscano: questo sarà destinato ad affermarsi su tutti gli altri dialetti come lingua letteraria comune degli scrittori e, più in generale, come lingua scritta in un paese come l’Italia in cui permarrà per secoli una situazione di estrema frammentazione linguistica. Come già Dante intuisce nel De vulgari eloquentia, una lingua unitaria potrà nascere solo come lingua letteraria, comune agli scrittori, ma non agli abitanti, con le conseguenze che ciò inevitabilmente comporta e ha effettivamente comportato. Il latino dopo il volgare Il latino rimane la lingua della Chiesa, del diritto, dell’alta politica, della diplomazia, della scienza e della filosofia. Questa scelta, è evidente, corrisponde a una visione elitaria della cultura, che intende confinare il sapere nell’ambito delle persone di cultura.
Libri, lettori, lettura Lo sviluppo delle università ha risvolti importantissimi nella promozione del libro manoscritto: la necessità di avere molti testi a disposizione degli studenti incrementa la produzione libraria: agli scriptoria dei monasteri si affiancano gli scriptoria cittadini per poter far fronte ai nuovi bisogni e si usa la carta al posto della pergamena perché meno costosa e di più facile lavorazione. Alla lettura dei monaci, finalizzata all’edificazione spirituale, oltre alla lettura per piacere, si sostituisce la lettura a fini di studio, spesso effettuata nelle biblioteche dei conventi cittadini, aperte al pubblico degli studiosi. Per agevolare questa lettura si attuano trasformazioni delle tecniche di scrittura (come la separazione tra le parole e i segni di paragrafo) e della disposizione del testo nella pagina. Nell’Alto Medioevo non si può parlare di pubblico, perché era molto diffuso l’analfabetismo. Solo nelle corti feudali di Francia si può parlare di pubblico: un pubblico raffinato di corte, composto anche da donne. Nel XIII secolo si forma in Italia un pubblico (giudici, notai, medici) in grado di leggere e apprezzare i testi letterari. Il popolo accede alla cultura attraverso le immagini o la trasmissione orale dei giullari.
Sintesi L’evoluzione DueCenTodella e TreCenTo lingua 4 93
Zona Competenze Sintesi
1. Attraverso un disegno o uno schema grafico, sintetizza la concezione gerarchica della società propria dell’età medievale. Puoi utilizzare questi documenti integrativi.
«E dimostrava questo [si parla di Gerardo, vescovo di Cambrai, vissuto nel sec. XI]: che dall’origine stessa era stata imposta all’umanità una divisione in tre: uomini che devono volgersi alla preghiera; uomini che devono piegarsi al lavoro dei campi; infine, uomini che devono dedicarsi alla guerra. Non solo: dimostrava poi con molta chiarezza che ogni categoria ha il preciso dovere di fornire sostegno alle altre due» (da Monumenta Germaniae Historica, vol. IX, trad. it. di M.L. Picascia, Hannover 1846).
«La casa di Dio, che si crede una, è dunque divisa in tre: gli uni pregano, gli altri combattono, gli altri infine lavorano. Queste tre parti coesistono e non sopportano di essere disgiunte; i servizi resi dall’una sono la condizione delle opere delle altre due; e ciascuna a sua volta s’incarica di soccorrere l’insieme. Perciò questo legame triplice è nondimeno uno; così la legge ha potuto trionfare, e il mondo godere della pace» (Adalberone di Laon [vescovo, vissuto tra il X e l’XI secolo], Carmen ad Rodbertum regem, in G. Duby, L’anno Mille, Einaudi, Torino 1976).
Scrittura creativa
2. Immagina e scrivi una discussione tra un chierico, un cavaliere e un mercante, in cui ciascuno difenda il suo sistema di valori e contesti quelli degli altri.
Lavoro di gruppo
3. La classe si divida in piccoli gruppi di lavoro, ognuno dei quali prenda in esame uno degli aspetti della mentalità e dei modelli di comportamento propri dei secoli in esame, sulla base del profilo, dei testi letti e di eventuali contributi e approfondimenti reperiti su libri e in rete. • Il principio gerarchico • I valori della società urbana e mercantile • La visione simbolico-religiosa • Il confronto tra cultura cristiana • La concezione del tempo e della storia e cultura pagana • Il modello clericale • La concezione del sapere • Il modello cavalleresco-cortese (fra tradizione ed enciclopedismo) Ogni gruppo di lavoro sceglierà il modo più efficace per illustrare agli altri gli aspetti salienti della tematica analizzata, utilizzando: a. un ipertesto (Word/Power Point/html) da presentare con l’ausilio della LIM b. una relazione scritta a più mani che sintetizzi i risultati del lavoro di gruppo c. una scaletta per una conferenza
Discussione orale
4. Scegliete una o più tematiche di studio presenti nell’attività 3. Avviate una discussione in classe sugli elementi più caratterizzanti e/o su aspetti divergenti rispetto alla realtà contemporanea e stendete una dettagliata scaletta degli interventi che includa anche l’elenco dei documenti utilizzati (testi antologizzati, immagini, siti web ecc.).
Scrittura
5. In un breve testo espositivo-argomentativo distingui simbolo e allegoria; poi spiega come fu impiegata soprattutto l’allegoria nella cultura medievale.
94 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
Duecento e trecento CAPITOLO
1 La letteratura cortese nella Francia feudale
Le prime testimonianze di un uso letterario delle lingue romanze si ritrovano nel Nord della Francia dove si sviluppano l’epica delle chansons de geste (fine dell’XI secolo) e il romanzo cavalleresco (XI-XIII secolo), entrambi in lingua d’oïl, l’antico francese. Nella zona della Provenza, si afferma la lirica trobadorica in lingua d’oc, la lingua usata nella Francia meridionale. In questi generi, in vario modo, viene idealizzata la figura del cavaliere e sono celebrati gli ideali cortesi. Nelle chansons, e in particolare nella celebre Chanson de Roland, il cavaliere è il prode guerriero che difende la cristianità contro gli infedeli; nei romanzi è modello di virtù e coraggio, pronto ad affrontare mille avventure e pericoli per il proprio perfezionamento e per amore. Infine, nella lirica provenzale, l’ideale cortese-cavalleresco si lega strettamente alla devozione verso una figura femminile inaccessibile.
cristiana 1 L’epica e le chansons de geste romanzo 2 Ilcortese-cavalleresco lirica 3 Laprovenzale 95
1
L’epica cristiana e le chansons de geste La narrativa epico-cavalleresca in Francia Tra l’XI e il XIII secolo in Francia si sviluppano tre generi che eserciteranno grande influenza in particolare sulla letteratura italiana: l’epica delle chansons de geste e il romanzo cortese-cavalleresco entrambi in lingua d’oïl (il volgare usato nella Francia settentrionale) e la lirica provenzale in lingua d’oc (il volgare usato nella Francia meridionale). Mentre le chansons de geste sono incentrate sui temi dell’eroismo, della guerra e della fede, il romanzo cavalleresco introduce nelle letterature in volgare il tema dell’amore associato a quello dell’avventura cavalleresca.
La nascita della letteratura in Francia Dopo l’anno 1000 in Europa dalle lingue romanze o neolatine
nascono
le letterature romanze (la letteratura italiana è una di queste)
le chansons de geste
tra le prime a svilupparsi c’è la letteratura francese con tre generi diversi
il romanzo cortese cavalleresco
la lirica provenzale
1 Le chansons de geste Le chansons de geste, le “canzoni di gesta” (dal latino res gestae, “imprese compiute”), sono poemi epici organizzati in “cicli”, scritti in lingua d’oïl. Sono composti di lasse (strofe con un numero variabile di versi) assonanzate (cioè in versi caratterizzati dall’assonanza finale). Il verso utilizzato è il decasillabo (più o meno equivalente all’endecasillabo italiano). Le chansons de geste si ispirano a fatti realmente accaduti, trasfigurati in forma epica e celebrano le imprese delle grandi famiglie della nobiltà feudale.
Un episodio della Chanson de Roland in un rilievo del XII secolo della cattedrale SaintPierre d’Angoulême.
96 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Una produzione colta legata alla trasmissione orale Si ritiene oggi che le chansons siano opera di singoli autori, sicuramente colti, e che vennero poi diffuse oralmente per opera dei giullari in ambiti sociali diversi, sia aristocratici sia popolari, ad esempio lungo le vie dei pellegrinaggi, nelle piazze e nei mercati. A una destinazione orale allude il termine stesso chanson (da cui il nostro canzone), che indica una composizione recitata e accompagnata dalla musica. Inoltre in queste composizioni le ripetute allocuzioni al pubblico («udite!»), oltre che la ripetizione di versi similari, fanno pensare a espedienti con cui si cercava di stimolare l’attenzione di un pubblico di ascoltatori più che di lettori. La datazione Secondo gli studiosi le chansons vennero composte relativamente tardi (secoli XI-XII), in rapporto alla diffusione dello “spirito di crociata”; infatti in esse sono esaltati non solo l’eroismo individuale, ma soprattutto il suo impiego a difesa della cristianità in lotta contro gli “infedeli” (tali al tempo erano considerati gli arabi e più in generale i musulmani), un tema particolarmente sentito proprio ai tempi delle crociate. Il ciclo più celebre, che ebbe larga risonanza anche fuori di Francia, è il cosiddetto “ciclo carolingio”, dedicato alle imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini contro i saraceni e inaugurato dalla Chanson de Roland (1080 circa), la più antica e famosa delle chansons de geste a noi pervenute.
I generi letterari dell’età cortese LE CHANSONS DE GESTE GENERE
poemi epici
LUOGO
Nord della Francia
TEMPO
XI secolo
LINGUA
d’oïl (antico francese diffuso nel Nord della Francia)
STILE
ripetitivo: concetti, frasi che ritornano a breve distanza
CONTENUTO
imprese di Carlo Magno, re dei Franchi e dei suoi cavalieri
DIFFUSIONE
orale per mezzo dei giullari
OPERE/AUTORI
la più nota è la Chanson de Roland
TEMI
guerra, fedeltà verso il re, fede in Dio
per aiutare il giullare che ripeteva a memoria per imprimere il messaggio nella mente degli ascoltatori
L’epica cristiana e le chansons de geste 1 97
PER APPROFONDIRE
Il genere epico L’epica (dal greco epos, “parola, canto”), insieme alla lirica e al dramma, è uno dei generi ereditati dall’antichità classica ed è considerato il più “alto”. I poemi epici attribuiti a Omero, l’Iliade e l’Odissea (secoli IX-VIII a.C.), sono i modelli assoluti del genere epico, che avrà una lunga vita nei secoli, assumendo nelle diverse epoche una diversa fisionomia, ma mantenendo al contempo alcune caratteristiche basilari, che di seguito sintetizziamo. L’epica celebra le imprese e i valori di un popolo, incarnati da un eroe protagonista Scopo principale dell’epica è la celebrazione di eventi passati (guerre e imprese di eroi), sentiti in qualche modo capaci di fondare l’identità di un popolo. Nei poemi epici non a caso è ricorrente l’organizzarsi delle azioni intorno a uno scontro tra parti contrapposte, presentato come decisivo per le sorti della comunità e per i suoi valori e ideali, nazionali e religiosi: è il caso della guerra tra Achei e Troiani nell’Iliade o dello scontro tra “pagani-infedeli” e i Franchi di Carlo Magno nella Chanson de Roland. Costante è la presenza di un eroe principale in cui la collettività si identifica, che si batte per essa e che per essa può anche morire, come Roland nella Chanson de Roland. Anche il Cantare del Cid [Cantar de mio Cid], poema epico in lingua castigliana, composto in Spagna agli inizi del XIII secolo, celebra la figura di un eroe, El Cid (o El Campeador) sullo sfondo delle guerre per la reconquista cristiana della Spagna in mano ai musulmani. L’autore come voce della collettività L’epica è poesia eminentemente collettiva. Soprattutto alle origini della produzione epica, autore e primi destinatari appartengono a una stessa comunità e non si distinguono da essa: la voce dell’autore è “voce” della comunità stessa, della quale condivide totalmente i valori e l’ideologia, rinunciando a esprimere valutazioni soggettive e tantomeno critiche.
L’oralità dell’epica Il testo epico è per secoli destinato alla recitazione pubblica a opera di un “professionista” (aedo, come nei poemi omerici; giullare, come nelle chansons medievali ecc.) che lo memorizza e lo recita con intonazione melodica accompagnandosi con uno strumento musicale durante i banchetti o in luoghi aperti dove può convenire un vasto pubblico. Il fatto che la parola epica sia destinata eminentemente all’ascolto comporta la forte presenza di un’immaginazione figurativa: i contenuti dell’epica non sono mai idee, entità astratte, ma sono azioni, eventi, rappresentabili per immagini, che si dispiegano ai nostri occhi come le sequenze di un film. Il passato assoluto Proprio dell’epica è quello che il critico letterario Michail Bachtin (1895-1975) ha definito il «passato assoluto», uno degli elementi che, a suo parere, differenziano l’epos dal romanzo. «Il mondo dell’epopea», egli scrive, «è il passato eroico nazionale, [...] il mondo dei padri e dei progenitori, il mondo dei “primi” e dei “migliori”». La vicenda dell’epica si colloca sempre nel passato, un passato che non è semplicemente una dimensione temporale, ma che assume anche una dimensione di valore assoluto, di indiscutibile modello positivo. Il “codice” epico Da qui anche le caratteristiche formali del genere: la parola epica non può essere che solenne e cristallizzata in formule potenzialmente immutabili e si affida perciò al cosiddetto “stile formulare”, ovvero l’uso di espressioni ricorrenti per designare situazioni, eventi e soprattutto personaggi identificati da specifici epiteti: ad esempio uno degli epiteti ricorrenti per Carlo Magno è “Carlo che ha la barba canuta”. Caratterizzano inoltre il “codice” epico l’uso del verso, il frequente impiego di similitudini, la presenza di un ricorrente repertorio di situazioni, come la descrizione di duelli, e infine, in molti casi, stereotipi come la protasi (la presentazione dell’argomento) e l’invocazione alle muse.
2 La Chanson de Roland e la mitizzazione dell’eroe cristiano La Chanson de Roland (➜ T1 ) è un lungo poema di 4000 versi circa, il cui autore è rimasto anonimo. Nel manoscritto più antico che ci ha trasmesso il testo, quello di Oxford, compare il nome di Turoldo, ma non è possibile stabilire se tale nome corrisponda all’autore oppure semplicemente al copista che stese il manoscritto. Il poema fa riferimento a un fatto storico realmente accaduto: la spedizione di Carlo Magno, re dei Franchi, in Spagna contro alcuni prìncipi musulmani e in particolare lo sterminio della retroguardia dell’esercito franco compiuto sui Pirenei, a Roncisvalle (778) da predoni baschi. Tra i morti, secondo un’autorevole fonte del tempo, vi fu anche il nobile paladino Orlando (Roland, in francese). La datazione Non esistono elementi per datare con sicurezza la composizione della Chanson de Roland, ma si pensa che sia stata scritta verso il 1080, circa tre secoli dopo gli avvenimenti narrati, che l’autore avrebbe epicamente trasfigurato in nome degli ideali della “guerra santa” propri del suo tempo (la prima crociata in Terrasanta si svolge proprio nel 1097-1099). I valori e i modelli di comportamento
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presenti nel poema non appartengono infatti all’epoca in cui si svolgono gli eventi narrati (VIII secolo), ma sono evidente espressione della società feudale (il termine stesso vassallage, che allude al rapporto di vassallaggio, ricorre più volte). online
Interpretazioni critiche Michail Bachtin, Il passato assoluto come tempo dell’epica
La trasfigurazione mitica L’autore della Chanson sottopone un episodio secondario della guerra (➜ D1 ) a un processo di mitizzazione che lo trasforma in una battaglia epica. La celebrazione epica che ispira la Chanson induce l’autore a non attribuire la strage di Roncisvalle, come realmente accadde, ai predoni baschi (che erano cristiani), ma alle forze saracene: degli infedeli viene enfatizzata la schiacciante superiorità numerica contro la quale nulla può l’eroica resistenza dei guerrieri franchi, capitanati dal paladino Orlando. Carlo Magno diventa il “campione” di tutta la cristianità in lotta contro gli infedeli e a sua volta Orlando, caduto da eroe per difendere il suo re, la sua patria, ma anche la fede cristiana, assume tratti leggendari che nel tempo faranno di lui il prototipo dell’eroe-martire.
La vicenda e la struttura della Chanson de Roland La Chanson de Roland si articola intorno a tre episodi fondamentali: a. il tradimento di Gano; b. la morte di Orlando; c. la vendetta di Carlo Magno. Il fulcro narrativo è contenuto nella parte centrale del testo. a. L’antefatto. Nella prima parte si racconta che Carlo Magno, da sette anni in Spagna, dove combatte contro i saraceni, pone l’assedio alla città di Saragozza di cui è re Marsilio. Questi propone ai cristiani di trattare la pace. Dovendo il re franco scegliere gli ambasciatori da inviare al re saraceno, Orlando propone il suo patrigno, Gano di Maganza. Gano pensa però, data la pericolosità della missione, che Orlando voglia sbarazzarsi di lui e medita la vendetta e il tradimento (diventerà nel tempo appunto il prototipo della figura del traditore). Giunto da Marsilio, si allea con lui e insieme progettano un inganno ai danni dei franchi: Marsilio finge di sottomettersi a Carlo, promettendo di convertirsi al cristianesimo se il sovrano franco lascerà la Spagna. Accettato il patto, l’imperatore organizza il ritorno del suo esercito in Francia e affida a Orlando, per suggerimento di Gano, il comando della retroguardia. b. Il fulcro narrativo: la morte di Orlando. Nella sezione centrale della Chanson domina la rappresentazione della battaglia di Roncisvalle: nella località dei Pirenei l’esercito saraceno attacca a tradimento le truppe della retroguardia capitanata da Orlando. Orlando combatte con eroismo, nonostante sappia che l’esercito franco è destinato alla sconfitta, data la sproporzione schiacciante delle forze in campo. Orlando potrebbe, suonando il suo corno, chiamare in soccorso Carlo, come lo supplica di fare l’amico Oliviero, ma il rispetto del codice cavalleresco gli impedisce di chiedere aiuto anche a costo di sacrificare la sua stessa vita e quella dei suoi soldati. Solo alla fine, ormai vicino alla morte, si decide a richiamare Carlo, suonando l’olifante. c. La vendetta di Carlo Magno. Nell’ultima parte della Chanson viene narrato il precipitoso ritorno di Carlo a Roncisvalle e la sua vittoria sulle forze saracene. Il traditore Gano viene giustiziato in modo atroce. Rolando suona l’olifante a Roncisvalle (miniatura da un manoscritto della Chanson de Roland del XIII secolo).
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T1 La canzone di Rolando, a c. di M. Bensi, Rizzoli, Milano 1985
«Orlando è prode ed Oliviero è saggio»
EDUCAZIONE CIVICA
Chanson de Roland, lasse LXXX-LXXXVIII
nucleo Costituzione competenza 2
L’esercito dei “pagani”, mosso da Saragozza per attaccare a sorpresa la retroguardia dei franchi capitanata da Orlando, appare improvvisamente alla vista di Orlando e del suo compagno Oliviero. I pagani sono in condizione di schiacciante superiorità numerica e quindi il destino dell’esercito cristiano è segnato in partenza, a meno che Orlando non chiami in soccorso, suonando il suo corno, l’imperatore Carlo Magno, come Oliviero gli suggerisce. Ma il senso feudale dell’onore impedisce a Orlando di farlo, nonostante le insistenti esortazioni del compagno.
LXXX Monta Oliviero or sopra un alto poggio: a destra guarda, dov’è una valle erbosa, vede la gente pagana che s’accosta. 1020 Al suo compagno Orlando egli si volge: «Vien dalla Spagna un così gran fragore: quanti elmi e usberghi1 luccicanti si scorgono! Sui nostri Franchi verranno con furore. Gano doveva saperlo, il traditore, 1025 che fece il nostro nome all’imperatore2». «Taci, Oliviero» Orlando gli risponde; «è mio padrigno: non farne più parola.» LXXXI È sopra un poggio Oliviero montato: bene di qui scopre il regno di Spagna, 1030 e dei pagani le schiere sterminate. Splendono gli elmi d’oro e di gemme ornati; e scudi e spiedi3 e usberghi ricamati; e i gonfaloni attaccati alle lance. Ma le colonne non potrebbe contare: 1035 ce ne son tante che il numero non sa; dentro se stesso ne resta assai turbato. Com’egli può, cala dal poggio al basso, vien dai Francesi ed ogni cosa narra. LXXXII Disse Oliviero: «I pagani ho veduti: 1040 nessuno in terra ne vide mai di più. Ne abbiam davanti centomila con scudi, elmi allacciati e bianchi usberghi chiusi, lance diritte, lucenti spiedi bruni. Battaglia avrete, quale mai non ci fu. 1 usberghi: corazze. 2 Gano... all’imperatore: Gano di Maganza, patrigno di Orlando, qui nominato con l’epiteto che farà di lui “il traditore” per
antonomasia, aveva convinto l’imperatore Carlo Magno a designare Orlando a capo della retroguardia. Si era accordato con il re Marsilio, tradendo la sua patria e con-
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sentendo ai saraceni l’attacco a sorpresa che sterminerà la retroguardia franca. 3 spiedi: un’arma costituita da un ferro lungo e acuminato.
1045
Da Dio, signori, vi venga ogni virtù! Restate in campo, perché non siam battuti!» Dicono i Franchi: «Maledetto chi fugge! Anche a morire, non mancherà nessuno».
LXXXIII Disse Oliviero: «I pagani han gran forza, 1050 e i nostri Franchi mi pare che sian pochi! Compagno Orlando, suonate il vostro corno. Carlo l’udrà: coi suoi farà ritorno». Risponde Orlando: «Sarebbe agir da folle! Nella mia Francia io perderei il mio nome. 1055 Di Durendala4 or darò grandi colpi: l’arrosserò fino nell’elsa d’oro. Son giunti ai valichi con lor danno i felloni5: giuro che tutti sono dannati a morte». LXXXIV «Compagno Orlando, l’olifante6 suonate: 1060 Carlo l’udrà, farà i Franchi tornare: coi suoi baroni il re ci aiuterà». Risponde Orlando: «Al Signore non piaccia che i miei parenti sian per me biasimati, e disonore ne abbia la dolce Francia! 1065 Prima gran colpi darò con Durendala, la buona spada che tengo cinta al fianco: tutto vedrete il brando insanguinato. Si son con danno qui i pagani adunati: giuro che a morte son tutti destinati». LXXXV 1070 «Compagno Orlando, suonate l’olifante. Carlo l’udrà, che sta passando i valichi. Io ve lo giuro che torneranno i Franchi». «A Dio non piaccia» così risponde Orlando «che mai si dica che per un uom mortale, 1075 per un pagano, il corno abbia suonato! I miei parenti mai non ne avranno biasimo. Quando nel mezzo sarò della battaglia, ben più di mille volte trarrò la spada: rosso di sangue ne vedrete l’acciaio. 1080 Son prodi i Franchi, e colpiran da bravi: quelli di Spagna non avran chi li salvi». 4 Durendala: è il nome della spada donata a Orlando da Carlo Magno.
5 felloni: traditori.
6 l’olifante: è il nome del corno da caccia (ricavato da una zanna di elefante) del paladino Orlando.
L’epica cristiana e le chansons de geste 1 101
LXXXVI Disse Oliviero: «Non ci può esser biasimo. Io li ho veduti i pagani di Spagna: ne son coperte le valli e le montagne, 1085 gli scabri picchi e tutte le campagne. Grandi gli eserciti sono qui dei pagani, e noi ben piccola compagnia vi teniamo». Risponde Orlando: «E cresce la mia brama. Non piaccia a Dio, ai suoi angeli, ai santi, 1090 che per me perda il suo valor la Francia! Meglio morire che restar nell’infamia! Se Carlo ci ama, è perché ben colpiamo». LXXXVII Orlando è prode ed Oliviero è saggio. Hanno bravura meravigliosa entrambi. 1095 Poiché a cavallo si trovano ed in armi, anche a morire7, non schiveran battaglia. Son prodi i conti, le parole son alte8. Ora i pagani con gran furor cavalcano. Disse Oliviero: «Orlando, un po’ guardate! 1100 Son qui vicini, e troppo lungi è Carlo! Voi l’olifante non voleste suonare: se il re qui fosse, noi non avremmo danno. Guardate a monte verso i valichi d’Aspra9: vedete come triste è la retroguardia! 1105 Chi questa fa, non ne farà più un’altra». Risponde Orlando: «Non dite enormità! Sia maledetto il cuore che s’abbatte! Al nostro posto noi rimarremo in campo: da noi verranno i colpi e il battagliare!» LXXXVIII Vedendo Orlando che vi sarà battaglia, si fa più fiero che leone o leopardo. Grida ai Francesi ed Oliviero chiama: «Signor compagno, amico, non parlare! L’imperatore, che ci affidò i suoi Franchi, 1115 qui ventimila ne ha radunati tali che a suo vedere nessuno vi è codardo. Or per il proprio signore grandi mali giusto è soffrire, e gran freddo e gran caldo: e deve perdersi anche sangue, anche carne. 1120 Tu con la lancia colpisci, io con la spada, con Durendala, che mi donò il sovrano! 7 anche a morire: anche a costo di morire. 8 alte: nobili. Se muoio, certo potrà dir chi l’avrà 9 i valichi d’Aspra: un passaggio attraverch’essa fu in mano a un nobile vassallo». so i Pirenei. 1110
102 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Analisi del testo Orlando e il codice cavalleresco La scena che abbiamo presentato, tra le più note e celebrate del poema, chiama in gioco la diversa identità cavalleresca dei due amici fraterni Orlando e Oliviero. La saggezza di Oliviero non è complementare bensì decisamente contrapposta alla prodezza di Orlando, che si assume la piena responsabilità di una scelta (cioè non chiamare in aiuto Carlo Magno con il suo corno) che condanna a morte certa i suoi uomini. Secondo parametri di giudizio normali, il comportamento di Orlando è espressione di un orgoglio smisurato o addirittura di una forma di follia, ma acquista un significato diverso all’interno del “codice cavalleresco”: Orlando esprime infatti in questo modo assoluta fedeltà alla propria missione, consacrata dall’investitura cavalleresca. È Orlando stesso a rovesciare la valutazione comune, quando definisce “pazzia” la possibilità di suonare il corno e richiamare Carlo Magno (lassa LXXXIII).
La vocazione al martirio In realtà il comportamento di Orlando è soprattutto espressione di una vocazione alla morte eroica, già scritta per lui nel disegno di Dio. In questa prospettiva egli assume i tratti di una sorta di santo laico e la sua morte in battaglia costituisce una fine esemplare, come quelle appunto dei santi e dei martiri cristiani, narrate con fini edificanti dai testi agiografici, molto diffusi nella letteratura religiosa medievale.
Il tema della guerra Oltre al confronto tra Orlando e Oliviero, nei versi compare anche il tema della guerra che contrappone l’esercito dei franchi alle armate saracene del re Marsilio. Nella Chanson la guerra è presentata secondo un punto di vista totalmente interno alla cultura cristiana ed è quindi sentita come necessaria e “santa” perché diretta contro gli infedeli, indentificati con assoluta sicurezza nella causa sbagliata ed empia. La Chanson de Roland è una delle prime testimonianze letterarie, se non la prima, del contrasto tra cristiani e musulmani: è significativo che in essa i guerrieri musulmani siano definiti “pagani”, il che implica il pregiudiziale disconoscimento dei contenuti religiosi dell’islam. La guerra è presentata nel passo proposto come “spettacolo” grandioso e suggestivo attraverso il punto di vista di Oliviero, che dall’alto vede avanzare le schiere dei nemici: armi sfavillanti, insegne decorate splendidamente, cimieri variopinti e adorni. La prevalenza di aspetti coloristici e di elementi ornamentali nella descrizione dell’esercito nemico ha a che fare con la destinazione orale del poema: recitato nelle fiere, durante i pellegrinaggi, esso doveva avvincere un pubblico multiforme, ma prevalentemente popolare, e colpirne la fantasia, l’immaginazione.
La tecnica narrativa e lo stile Come sempre nella Chanson de Roland, la narrazione si articola in una serie di quadri a loro modo autonomi, corrispondenti alla misura di una lassa. Ogni lassa però per lo più riprende qualche elemento (tematico o espressivo) della precedente, aggiungendovi variazioni minime, così da tenere fissa l’attenzione di un pubblico in ascolto. Allo stesso obiettivo è finalizzata la struttura delle frasi, semplice, quasi elementare (spesso il concetto si esaurisce nella misura di un verso) e l’uso dominante della paratassi. Le tecniche narrative e le scelte espressive presenti nella Chanson sono soprattutto riconducibili alla semplificazione idealizzante propria del discorso epico: l’enunciazione di verità indiscutibili non richiede infatti la presenza di nessi subordinanti complessi. Come ha osservato il critico tedesco Erich Auerbach, manca totalmente nella Chanson una dimensione problematica: la complessità del reale è ridotta a pochi, forti valori (la fede in Dio, la devozione alla patria, l’onore) e a un giudizio valutativo fortemente marcato, che distingue senza esitazioni e senza sfumature il positivo dal negativo, la causa giusta da quella sbagliata.
L’epica cristiana e le chansons de geste 1 103
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza in circa 120 parole il contenuto del dialogo che si svolge tra Oliviero e Rolando nelle diverse lasse. COMPRENSIONE 2. Perché secondo Orlando suonare il corno significherebbe «agir da folle» (v. 1053)? 3. Che cosa contrappone Orlando e Oliviero? LESSICO 4. Analizza il brano dal punto di vista lessicale e indica i termini che appartengono al campo semantico della fedeltà. Quale rapporto lega il fedele Orlando all’imperatore? STILE 5. Individua nel testo gli aspetti formali che rimandano alla destinazione orale del poema. 6. Quale effetto produce l’uso insistito del tempo presente?
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 2
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 7. Nell’antichità classica l’eroe era in primo luogo un guerriero coraggioso che combatteva per la gloria, anche nel Medioevo l’eroe cavalleresco partecipa alla guerra e disprezza la propria vita pur di meritare la gloria con gesti eccezionali. Nel tempo questo modello è cambiato, l’eroe guerriero classico sembra scomparso dall’immaginario collettivo; ciò però non significa che non sia possibile ancora oggi identificare alcune forme di eroismo. Se non viene celebrato l’individuo straordinario per valore militare, si può riconoscere la qualità di eroe a chi manifesta il proprio valore in un altro modo: molto spesso l’eroe oggi è un uomo comune che lotta quotidianamente per difendere i valori della vita, della dignità, della solidarietà umana. Secondo te esistono ancora gli eroi oggi? A tuo parere può ancora essere usata questa parola nella società attuale? Chi secondo te meriterebbe un appellativo del genere? Chi è un eroe per te? SCRITTURA 8. Rintraccia nel testo (LXXX-LXXXII) le descrizioni dell’esercito dei saraceni: quale effetto producono le scelte lessicali e stilistiche? Secondo quali modalità è presentata la guerra tra franchi e saraceni? Argomenta la tua risposta.
Interpretare
CONFRONTO TRA TESTI 9. Confronta il passo di Eginardo, che presenta la realtà storica della battaglia di Roncisvalle, con i versi proposti dalla Chanson (➜ T1 ). Soffermati in particolare su: – l’identità del nemico dei Franchi; – le caratteristiche dell’esercito nemico; – le modalità dello scontro; – il ruolo dei personaggi. Illustra quindi come l’episodio storico viene mitizzato nel poema e con quali finalità.
Mentre si conducevano guerre assidue e quasi continue contro i Sassoni, Carlo, distribuiti convenienti presìdi nelle regioni di confine, assalì la Spagna con tutte le forze di cui poteva disporre. Valicati i Pirenei, ricevette la resa di tutte le città e di tutti i castelli che raggiunse e ricondusse in patria l’esercito sano e salvo, a parte il fatto che, proprio sul passaggio dei Pirenei, sulla via del ritorno, dovette fare esperienza della perfidia basca. Poiché l’esercito, a causa della strettezza delle gole, procedeva in lunga fila, i Baschi tesero un’imboscata – la regione vi si prestava perfettamente per la grande abbondanza di selve – e, piombando giù dall’alto, cacciarono verso il fondo della vallata l’ultima parte delle salmerie1 e i soldati della retroguardia, che coprivano la marcia del grosso. Poi, impegnato con questi il combattimento, li uccisero tutti fino all’ultimo uomo e, dopo aver saccheggiato le salmerie, protetti dalla notte sopraggiungente, si dispersero velocemente in ogni direzione. I Baschi furono favoriti in questa impresa dalla leggerezza del loro armamento e dalla configurazione del terreno, mentre la pesantezza delle armi e la posizione sfavorevole determinarono 1 salmerie: armi, munizioni, viveri.
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l’inferiorità dei Franchi. Nel combattimento caddero, insieme con moltissimi altri, il siniscalco2 Eggiardo, il conte palatino3 Anselmo e Rolando, governatore della marca4 di Bretagna. La sconfitta non poté essere vendicata subito, perché i nemici, compiuta l’azione, si dispersero in modo tale che non si riusciva a sapere dove mai li si dovesse cercare.
2 siniscalco: alto grado militare e amministrativo dell’età carolingia.
3 il conte palatino: il conte del “sacro” palazzo imperiale, massima carica giudiziaria al tempo dei franchi.
4 marca: termine geopolitico di età carolingia che designa una regione di confine.
A. Giardina e B. Gregori, Scenari di storia antica e medievale, Laterza, Roma-Bari 2000
online T2 Bernardo di Clairvaux Il martire guerriero e l’ideologia della guerra santa Lode della nuova milizia T3 Anonimo La presa di Saragozza e la conversione forzata degli infedeli Chanson de Roland, lasse CCLXIII-CCLXV
Scena di battaglia tra cavalieri in una miniatura del XIII secolo.
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Il romanzo cortese-cavalleresco 1 Un nuovo genere destinato alla corte feudale
Lessico cavalieri erranti Figure tipiche della letteratura cavalleresca medievale, erano cavalieri che girovagavano in cerca di ingaggi e avventure presso nobili e signori per dimostrare il loro valore.
online
Per approfondire Il romanzo cavalleresco medievale e il “romanzesco”
online
Per approfondire Un’interpretazione sociologica dell’ideologia cortese
Un genere nato per la lettura In lingua d’oïl sono composti anche i romanzi cavallereschi, incentrati su amori e avventure di cavalieri erranti , una delle più significative testimonianze della letteratura medievale. I romanzi cavallereschi inizialmente erano in versi, successivamente vengono stesi in prosa, avvicinandosi così all’idea che abbiamo oggi di “romanzo” come affascinante narrazione in prosa: nel Medioevo invece, per lungo tempo, il termine roman (“romanzo”) aveva significato semplicemente componimento in lingua “romanza”, cioè neolatina. I romanzi cavallereschi sono opera di autori colti, che vivono e operano nelle corti feudali del Nord della Francia. Sono concepiti per intrattenere un pubblico raffinato di dame e cavalieri, del quale rispecchiano i valori e di cui ritraggono le abitudini e le occasioni della vita comunitaria, come il banchetto, la festa, il torneo. Mentre le chansons de geste sono destinate a una trasmissione orale, queste opere sono invece composte per la lettura, sia quella collettiva (pur sempre però all’interno dell’ambiente ristretto della corte) sia, più propriamente, quella individuale e silenziosa, magari nelle stanze private di qualche dama del castello. L’ideale cortese: un’immagine idealizzata del cavaliere e della figura femminile Attraverso i romanzi cavallereschi (e anche grazie alla lirica trobadorica) la cultura francese elabora un prestigioso modello culturale, quello “cortese”, sul quale si formerà l’“educazione sentimentale” delle classi colte in Europa e che rimarrà dominante per secoli anche in contesti del tutto diversi da quello delle corti feudali dove nacque (➜ SCENARI, PAG. 49). In origine l’ideale cortese è strettamente legato al mondo della cavalleria feudale ed è incentrato da una parte sull’esaltazione del coraggio, della lealtà, della liberalità (generosità nel dare) e dall’altra su un omaggio galante verso la donna, che riproduce sostanzialmente la dinamica dei rapporti di vassallaggio interni alla corte feudale. La “materia antica” Alcuni romanzi cavallereschi rielaborano temi e personaggi della storia e della letteratura antiche (la cosiddetta “materia antica” o “classica”), trasformandoli sulla base delle attese dei lettori e adattandoli alla mentalità e al gusto medievale per il “meraviglioso”: ne sono esempi il Romanzo di Troia, il Romanzo di Enea e il Romanzo di Tebe (composti tra il 1155 e il 1165).
n cavaliere giura fedeltà alla donna amata (miniature dal Codice di Manesse, U Biblioteca universitaria di Heidelberg).
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La “materia di Bretagna” I romanzi cavallereschi più noti attingono però non all’antichità classica ma alla cosiddetta “materia bretone” o “arturiana”. La fonte principale a cui fanno riferimento le varie narrazioni è La storia dei re di Britannia [Historia regum Britanniae] di Goffredo di Monmouth (tradotta in francese nel 1155): essa narra in modo romanzesco le imprese del leggendario re Artù e dei cavalieri della Tavola rotonda, cavalieri erranti in cerca di onore, gloria, avventure, tra i quali spiccano personaggi famosi come Lancillotto e Perceval. Sempre di origine bretone, ma non legata alla corte di re Artù, è la leggenda di un altro famosissimo cavaliere, Tristano.
2 I romanzi di Chrétien de Troyes Il più importante interprete della materia bretone Chrétien de Troyes, attivo tra il 1160 e il 1190, è considerato il più grande scrittore medievale prima di Dante. Originario della Champagne, probabilmente un chierico, svolse la maggior parte della sua attività alla corte di Maria di Champagne. Non si sa quale ruolo vi ricoprisse. Di lui ci sono rimasti cinque romanzi cavallereschi in versi, incentrati sulla “materia bretone”: nell’ordine, Erec et Enide (Erec e Enide), Cligès, Lancelot ou Le chevalier à la charrette (Lancillotto o Il cavaliere della carretta), incompiuto e completato da altri, Yvain ou Le chevalier au lion (Ivano o Il cavaliere del leone), Perceval ou Le conte du Graal (Perceval o Il racconto del Graal), rimasto incompiuto per la morte dell’autore e continuato da altri (➜ T5 ). Il codice cortese dell’amore Largo spazio ha nei romanzi di Chrétien il tema amoroso, indagato con grande finezza psicologica e con una visione sfaccettata e problematica: l’amore è comunque sempre concepito, secondo il codice “cortese”, come dedizione assoluta, “servizio”, anche se si tratta dell’amore coniugale (Erec e Enide, Cligès). Il romanzo che più di tutti traduce gli imperativi dell’amore cortese riguarda però un amore adultero, quello di Lancillotto per la regina Ginevra, moglie di re Artù, che induce l’eroe a rinunciare per lei persino al suo onore di cavaliere. La scena del bacio tra Ginevra e Lancillotto ispirerà a Dante il celebre episodio di Paolo e Francesca nel quinto canto dell’Inferno. L’opera forse più nota di Chrétien, Perceval, non è incentrata sul tema amoroso ma su un cammino di iniziazione e perfezionamento morale-religioso, in cui ha un ruolo rivelatore la misteriosa immagine del Graal. La trama Nel romanzo il giovane Perceval viene allevato nella foresta dalla madre, che intende così impedire che possa morire in battaglia come il padre e i fratelli. Ma Perceval, affascinato dall’incontro con alcuni cavalieri, decide di abbandonare la madre (che morirà di dolore) per recarsi alla corte di re Artù e diventare cavaliere. Nella sua educazione cavalleresca conosce l’amore e sperimenta l’arte delle armi, ma gli manca ancora l’iniziazione alla fede. In un punto chiave del romanzo Perceval, dopo varie avventure e peregrinazioni, giunge al castello del re Pescatore, che lo ospita. Nella sala del castello assiste a una sorta di misteriosa processione, in cui compare una preziosa coppa, il Graal, il cui significato non gli viene svelato. La sua apparizione comunque ha un ruolo centrale nella vicenda e allude al processo di perfezionamento di Perceval, all’assunzione, che egli dovrà compiere, di una elevata coscienza morale per riscattare i suoi errori. Il romanzo cortese-cavalleresco 2 107
PER APPROFONDIRE
La leggenda di re Artù e la sua fortuna l mito di Artù, re cristiano La letteratura arturiana (incentrata cioè sulla figura di re Artù), che nasce nel XII secolo, ha come fonte principale La storia dei re di Britannia (Historia regum Britanniae), scritta verso il 1136 dal chierico Goffredo di Monmouth. Ma Artù è veramente esistito? È opinione generale che dietro la leggenda si nasconda un personaggio storico, vissuto fra la fine del V e l’inizio del VI secolo, ma di esso nulla si sa di certo. La sua figura ha comunque alimentato una ricca tradizione orale che fa di Artù un grande re, cristiano, leale, coraggioso e capace di restaurare l’ordine e la pace in un mondo degradato e selvaggio, preda di conflitti sanguinosi. I cavalieri della Tavola rotonda Il testo di Goffredo fu trasposto in versi nel 1155 dal poeta normanno Wace nel Roman de Brut. È Wace a introdurre nella materia arturiana il motivo, poi celeberrimo, della Tavola rotonda, istituita perché ciascun nobile della corte di Artù avesse la stessa dignità e fossero così prevenute le pretese di supremazia degli uni sugli altri. Nel XII secolo comincia a fiorire un’imponente tradizione narrativa che interpreta in chiave fantastica le avventure dei cavalieri di Artù. In particolare, è nota la vicenda di Lancillotto e del suo amore per Ginevra, moglie del sovrano, narrata da Chrétien de Troyes.
Il tema del Graal e il motivo della “spada nella roccia” Attorno al 1200 in Francia si manifesta un nuovo indirizzo narrativo, che collega il materiale arturiano con la storia del Graal (come nel Perceval di Chrétien de Troyes). Nello stesso periodo Robert de Boron nel suo romanzo Merlino introduce la figura del mago Merlino e il motivo della “spada nella roccia”: solo chi riuscirà a estrarre la spada conficcata in un’incudine poggiata su una pietra sarà il legittimo re di Britannia. Artù riesce a farlo e viene incoronato re. I motivi arturiani nel genere fantasy Molti romanzi arturiani dagli anni Settanta in poi possono essere ascritti al genere fantasy, molto popolare anche in Italia sull’onda della fortuna straordinaria del Signore degli Anelli di Tolkien (195455). Nel genere fantasy ricorrono moltissime componenti delle storie arturiane: dal tema della ricerca, alla figura di un eroe eletto, alla presenza della magia e del soprannaturale. Non è certo rimasta immune dal fascino della figura di Artù e del suo mondo la cinematografia: da Knights of the Round Table (1953) a Lancelot and Guinevere (1962) al Perceval (1978) di Rohmer allo spettacolare Excalibur (1981) e a Il primo cavaliere (1995). Persino alcuni cartoni giapponesi e videogiochi ne sono stati ispirati.
Sul mito di Artù: W. Gerritsen e A.G. van Melle, Miti e personaggi del Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 1998. Un tentativo di dare consistenza storica alla leggenda di Artù si può trovare in N. Lorre Goodrich, Il mito della Tavola rotonda [1986], Bompiani, Milano 2003.
3 I temi: avventure e amori L’avventura del cavaliere cortese: un cammino di formazione Anche nei romanzi cavallereschi si ritrovano i valori che caratterizzano l’epica carolingia (l’esaltazione del valore e della lealtà), ma qui non sono finalizzati a un ideale collettivo, bensì sono espressione dello spirito d’avventura del singolo cavaliere, della sua volontà di mettersi alla prova per conquistare un’ideale perfezione. Per comprendere il senso dell’avventura cavalleresca è significativa questa definizione che di sé e della sua “ricerca” dà il cavaliere Calogrenant a un contadino nell’Ivano di Chrétien de Troyes: «Io sono, lo vedi, un cavaliere che cerca ciò che non può trovare: molto ho cercato e nulla trovo». «E che vorresti trovare?» «Avventura, per esercitare la mia prodezza e il mio ardimento». L’“avventura” dei romanzi cavallereschi ha quindi ben poco a che vedere con l’accezione moderna del termine (presente già nell’Orlando furioso), cioè l’irrompere casuale dell’imprevisto e dell’eccezionale nella vita dei personaggi. Per i personaggi dei romanzi cavallereschi l’avventura è invece la “norma” della loro esistenza, l’elemento fondante la loro stessa natura di cavalieri cortesi. Fondamentale ingrediente dei romanzi cavallereschi è il tema della quête, della “ricerca”: è infatti per cercare qualcuno o qualcosa che l’eroe affronta l’avventura, varcando la frontiera dell’ignoto e avventurandosi persino entro i confini della “terra proibita” (come il reame di Gorre nel Lancelot di Chrétien).
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Come accade nelle fiabe, nel suo peregrinare l’eroe attraversa luoghi-emblema – la selva labirintica, il castello, la fonte magica e altri ancora – e affronta ostacoli e prove “iniziatiche” che prevedono spesso l’incontro con esseri mostruosi o magici; i luoghi e gli spazi sono irreali e fiabeschi e la stessa dimensione temporale è indeterminata. La centralità del tema amoroso A differenza dell’epica carolingia, nei romanzi cavallereschi è centrale l’esperienza d’amore che rimanda, come nella lirica trobadorica, al modello dell’“amore cortese”, vero e proprio codice di comportamento di una società elitaria e raffinata: l’amore (per lo più extraconiugale) è concepito come attrazione fisica e al tempo stesso sentimento profondo, dedizione assoluta all’amata, che stimola nel cavaliere un processo di ingentilimento e perfezionamento interiore (➜ C4). Celebri sono gli amori “extraconiugali” (sul cui significato si veda De amore di Andrea Cappellano, (➜ T8 ) di Lancillotto per la regina Ginevra, moglie di Artù, e soprattutto di Tristano per Isotta, moglie di re Marco. Le tecniche narrative La struttura narrativa del romanzo cortese è tendenzialmente “aperta”: le avventure si moltiplicano, creando per germinazione nuove narrazioni e storie parallele, che potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Viene comunque sempre sottolineata la continuità tra le vicende, la loro concatenazione in una “serie” dominata dal principio della causalità, a differenza del discorso epico, in cui la vicenda si dispiega in quadri in un certo senso autonomi tra di loro e caso mai collegati da ripetizioni e parallelismi. Inoltre nei romanzi cortesi l’intreccio tende a organizzarsi attorno a un protagonista, della cui storia focalizza i momenti salienti, le tappe di una progressiva formazione. La leggenda di Tristano e Isotta e il tema della passione fatale La vicenda dell’amore di Tristano e Isotta è ispirata a leggende celtiche. Della leggenda circolarono diverse versioni, alcune delle quali ci sono pervenute frammentarie: le due più importanti, in versi, sono il Tristan di Béroul e il Tristan di Thomas, e altre sono andate perdute (come quella di Chrétien de Troyes). L’enorme successo che la storia di Tristano ebbe nel Medioevo è legato a un’anonima versione in prosa, compilata intorno al 1230 e tradotta in molte lingue europee. La fortuna della leggenda in Italia è testimoniata in particolare dal Tristano Riccardiano, sostanzialmente una traduzione della prima parte del Roman de Tristan e dalla Tavola rotonda, che attinge episodi da Thomas. Una ricostruzione della complessa vicenda Dopo mirabili prodezze l’orfano Tristano, nipote del re di Cornovaglia Marco, ha conquistato Isotta, la bionda principessa irlandese, perché lo zio possa sposarla. Sulla nave che li riconduce in Cornovaglia i due giovani bevono per errore il filtro che avrebbe dovuto legare re Marco e Isotta di un amore profondo. Ormai Tristano e Isotta si ameranno. Re Marco sposa Isotta, ma un giorno, nonostante le precauzioni dei due amanti, li sorprende e li condanna. Tristano e Isotta riescono però a fuggire e a rifugiarsi nella foresta di Morrois. Qui vengono scoperti dal re che, commosso dal loro casto atteggiamento (riposano fianco a fianco ma separati dalla spada di Tristano) lascia la propria spada e l’anello di nozze e se ne va senza svegliarli. Colpiti da tanta clemenza i due giovani decidono di separarsi: Isotta ritorna a corte e Tristano si esilia in Armorica, dove sposa Isotta dalle bianche mani. Non dimentica tuttavia la regina e, travestito da lebbroso, da mendicante, da pazzo, torna ogni tanto in Cornovaglia per brevi incontri con l’amata. Il romanzo cortese-cavalleresco 2 109
Nel corso di un combattimento Tristano è ferito a morte. Solo la regina Isotta potrebbe guarirlo. Il messaggero che la va a cercare concorda con Tristano un segnale: se Isotta avrà accettato di venire, la nave, al ritorno, isserà la vela bianca; isserà la vela nera se Isotta avrà rifiutato. Ma Isotta arriva troppo tardi. Tristano è morto, ingannato dalla moglie che gli ha annunciato che la vela era nera. La bionda regina muore di dolore sul corpo dell’amato. La tragica vicenda di Tristano e Isotta ha esercitato una grande suggestione nella letteratura occidentale. Il mito della passione fatale e l’associazione Amore-Morte affascinerà particolarmente la cultura romantica. Il personaggio di Tristano figura già nella Commedia: nel canto di Paolo e Francesca (If V) Dante inserisce i due amanti adulteri in un gruppo di spiriti in cui l’esperienza d’amore si è coniugata con la morte. Tra di essi spiccano celebri personaggi della letteratura, da quella classica (la Didone virgiliana) a quella romanza (Tristano appunto).
I generi letterari dell’età cortese IL ROMANZO CORTESE-CAVALLERESCO
GENERE
romanzo cavalleresco in versi o in prosa
LUOGO
Nord della Francia
TEMPO
XII secolo
LINGUA
d’oïl
STILE
raffinato
CONTENUTO
• “materia classica”
• “materia di Bretagna”
DIFFUSIONE
destinato a essere letto
OPERE/AUTORI
Lancillotto e Perceval di Chrétien de Troyes
TEMI
lealtà verso il signore, coraggio, generosità e amor cortese
Fissare i concetti L’epica cristiana, le chansons de geste e il romanzo cortese–cavalleresco 1. Quali sono le caratteristiche tematiche e formali delle chansons de geste? 2. Di che cosa tratta la Chanson de Roland? 3. Che cosa significa in origine la parola “romanzo”? 4. Che cosa si intende per “materia bretone”? 5. A quale pubblico si rivolgono i romanzi cavallereschi? E quale tipologia di lettore richiedono? 6. Quale ruolo e quali caratteri assume l’avventura nei romanzi cavallereschi?
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VERSO IL NOVECENTO
La fortuna del mito di Tristano e Isotta Tristano-Leopardi Giacomo Leopardi recupera la figura di Tristano in relazione non al tema amoroso ma a quello – costante in tutta la sua opera – dell’infelicità esistenziale, simboleggiata dal nome stesso del personaggio. In una delle Operette morali, il Dialogo di Tristano e di un amico (composto nel 1832, nello stesso anno del celebre Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere), Leopardi sceglie come suo portavoce e addirittura alter ego Tristano, eroe «malinconico» come si dice in apertura del dialogo: nella finzione letteraria è lui l’autore delle Operette morali, libro definito anch’esso «malinconico, sconsolato, disperato». Il Tristano e Isotta di Wagner Fra Ottocento e Novecento il mito di Tristano e Isotta viene ripreso da Richard Wagner in un dramma musicale (il compositore tedesco è autore anche del libretto) destinato a esercitare grandissima influenza sulla cultura del primo Novecento. Il Tristano e Isotta (Tristan und Isolde), rappresentato per la prima volta a Monaco il 10 giugno 1865, è il frutto di un’interpretazione originale da parte di Wagner del testo lasciato incompiuto dal poeta tedesco Goffredo di Strasburgo (1210 ca). La filosofia di Arthur Schopenhauer (1788-1860) e lo spirito del romanticismo tedesco fanno certamente da sfondo all’interpretazione wagneriana del mito dei due amanti. Nel dramma wagneriano i due amanti aspirano oscuramente alla morte perché è la conseguenza necessaria dell’amore: solo la morte infatti, in quanto eterno superamento della finitezza dell’io, dissoluzione nel Tutto, potrà rendere assoluta e definitiva la loro unione. Il Tristano di Thomas Mann Tristano (1903) di Thomas Mann, è un racconto lungo incentrato sul contrasto tra rapimento artistico e banalità dell’esistenza. Il tema dell’amore assoluto, insito nel mito di Tristano e Isotta, si coniuga nel racconto con le tematiche care al grande scrittore tedesco: il conflitto tra Arte, Bellezza e solidità borghese.
In un sanatorio (una clinica dove si curava soprattutto il “male del secolo”, cioè la tubercolosi) è ambientata una “vicenda a tre” che rimanda alla lontana al mito di Tristano: antagonisti un ricco commerciante, amante dei piaceri materiali della vita, un borghese saldamente ancorato alla realtà, e il signor Spinell, uno scrittore frigido e ironico, che si anima solo di fronte a oggetti, persone e spettacoli che stimolino il suo senso estetico, il suo culto del bello. Protagonista femminile è la fragile moglie del commerciante, la cui salute è minata. Spinell è attratto dalla bellezza “malata” della donna e si sente da essa trasportare, la idealizza, come gli amanti della letteratura cortese, ne fa una regina: «Io conosco un volto solo, di cui sarebbe peccato voler correggere la nobile realtà con la mia immaginazione, un volto che io vorrei guardare, su cui vorrei indugiare, non per minuti, non per ore, ma per tutta la mia vita, perdermi in esso completamente e dimenticare tutto ciò che è terreno». A sua volta la donna si lascia inebriare dalle rapite parole dello scrittore. Mediatrice tra i due è la musica (e, in particolare, il preludio del Tristano e Isotta di Wagner, che la donna suona al pianoforte), che li porta, esattamente come il “libro galeotto” di Paolo e Francesca, a riconoscersi come anime affini, inesorabilmente destinate a incontrarsi per completarsi vicendevolmente: «Che cosa accadeva? Due forze, due esseri rapiti anelavano l’uno verso l’altro soffrendo ed esultando e si abbracciavano nell’estatica e folle aspirazione all’eterno e all’assoluto...». La tumultuosa conclusione del racconto fa intuire un epilogo tragico: così Mann ripropone ancora una volta, in chiave però prettamente decadente, l’antico binomio Amore/Morte proprio del mito di Tristano e Isotta. (Le citazioni sono tratte da T. Mann, Tristan-Tristano, a c. di A.M. Giachino, Einaudi, Torino 2000).
online Audio
Preludio dal Tristano e Isotta di Wagner: Morte di Isotta dal Tristano e Isotta, S 447 nella trascrizione per pianoforte di Franz Liszt (1867) dall’opera di Richard Wagner Tristan und Isolde, WWV 90.
Tristano e Isotta bevono il filtro d’amore (da un codice del Romanzo di Tristano del secolo XV).
Il romanzo cortese-cavalleresco 2 111
Chrétien de Troyes
T4
Lancillotto affronta la prova del ponte della spada Lancillotto o Il Cavaliere della Carretta
A. Roncaglia, Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oïl, Nuova Accademia, Milano 1961
Del Lancelot, che Chrétien lasciò incompiuto (fu terminato da altri), è nota la storia dell’amore adultero del cavaliere Lancillotto per la regina Ginevra, moglie di re Artù, ricordato anche da Dante in un celebre passo dell’Inferno. Nel romanzo in realtà il tema centrale è quello della quête (o queste), ovvero della ricerca di Ginevra, rapita dal malvagio Meleagant, che porta Lancillotto ad affrontare nella terra proibita, il reame di Gorre, la prova del “ponte della spada”.
In capo al ponte ch’è perigliosissimo, sono smontati1 dai loro cavalli, e vedono giù l’acqua minacciosa, rapinosa e crosciante, oscura e gonfia, 5 orrida e spaventevole così come se fosse il fiume del demonio2, e tanto piena d’insidie e profonda che non v’è in tutto il mondo creatura, se vi cadesse, non fosse spacciata 10 non altrimenti che nel salso mare. Ed il ponte ch’è posto a traversarla era da tutti gli altri sì diverso che mai non fu, né mai sarà altrettale3. Giammai non fu, chi me ne chiede il vero, 15 ponte sì periglioso, o passerella: d’una spada forbita e rilucente fatto era il ponte sopra l’acqua gelida; ma forte e resistente era la spada e aveva la lunghezza di due lance. 20 A ciascuno dei capi stava un ceppo nel quale conficcata era la spada. Non tema alcuno che mai vi precipiti perché l’acciaio si spezzi o si pieghi, giacché era tanta la sua robustezza 25 che poteva gran pesi sopportare. Ma questo ancora molto disconforta entrambi i cavalieri che là stavano insieme al terzo: che loro pareva che due leoni, ovvero due leopardi, 30 in capo al ponte, sopra l’altra sponda, fossero incatenati ad un pilastro. 1 sono smontati: Lancillotto e altri due cavalieri. 2 il fiume del demonio: il fiume turbinoso è paragonato alle acque dell’Acheron-
[I due cavalieri rivolgono a Lancillotto un discorso ispirato a prudenza, con il quale tentano di dissuaderlo dall’impresa di attraversare il ponte.] «Signori, molte grazie, che per me tanto vi preoccupate: ciò nasce in voi da sincera amicizia. 35 Sono ben certo che per nessun modo vorreste la mia perdita. Ma io tal fede e tal fiducia ho in Dio ch’egli mi scamperà d’ogni periglio. Questo ponte non temo né quest’acqua 40 più ch’io non tema questa terra solida; anzi voglio tentare l’avventura d’attraversarlo e di venirne a capo. Preferisco morire che ritrarmene4». Essi non sanno più che cosa dirgli, 45 ma l’uno e l’altro di pietà sospira e piange assai. A traversare l’acque vorticose quegli come sa meglio s’apparecchia, e fa cosa stranissima e mirabile: 50 i suoi piedi disarma e le sue mani. Non sarà certo sano e senza piaga, quando sarà arrivato all’altra sponda; ma sulla spada avrà potuto reggersi, che ancor più d’una falce era tagliente, 55 a piedi scalzi e con le mani ignude, ché non aveva conservato al piede scarpa né calza né benda alle dita.
te, il fiume infernale. 3 altrettale: uguale. 4 anzi... ritrarmene: viene qui esplicitamente enunciata l’etica del cavaliere, lo
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sprezzo del pericolo e l’indomito spirito d’avventura che lo spinge a cimentarsi con le prove più difficili.
Non si turbava punto egli del fatto di doversi piagare mani e piedi; 60 ma preferiva coprirsi di piaghe piuttosto che cadere giù dal ponte nell’acqua, che non gli darebbe scampo. Con grande pena, come gli riuscì, traversa il ponte, e con molta destrezza. 65 Mani e ginocchi e piedi si ferisce, ma lo conforta e gli dà vigorìa amore che lo guida e lo conduce, sì ch’ogni cosa a soffrire gli è dolce5. Con le mani, coi piedi e coi ginocchi, 70 tanto fa che raggiunge l’altra sponda. Si risovviene allora e si ricorda dei due leoni che gli era sembrato
vedere quando stava dall’altra parte, e si guarda d’attorno, 75 e non vede nemmeno una lucertola, nulla insomma che possa fargli male6. Porta allora la mano innanzi al viso ed osserva il suo anello ed ha la prova, non trovando nessuno dei leoni 80 che già gli era sembrato di vedere, ch’era stato ingannato da incantesimo, ché là non c’era creatura viva. Quei ch’erano rimasti all’altra riva nel veder come è riuscito a passare 85 fanno tal gioia com’era ben giusto7.
5 amore... dolce: è appunto l’amore per la
6 Si risovviene... male: come nelle fiabe, il
regina Ginevra, che rende dolce persino la sofferenza.
pericolo dei due animali svanisce di fronte al risoluto coraggio dell’eroe.
7 fanno... ben giusto: si rallegrano come era giusto che fosse.
Analisi del testo L’avventura come strumento di affermazione delle virtù cavalleresche Nei romanzi cortesi l’avventura non è un elemento narrativo introdotto per avvincere i lettori, ma è una dimensione costitutiva dello stesso ideale cortese. Le virtù cortesi che contraddistinguono il cavaliere non sono infatti qualità innate, ma vengono affermate proprio per mezzo delle prove in cui il cavaliere esercita ed affina la sua volontà, il suo coraggio. Già nelle narrazioni antiche esistevano descrizioni di situazioni pericolose, di forze magiche che minacciavano l’uomo, e non mancavano eroi capaci di sfidare il pericolo e vincere su avversari temibili grazie alla loro forza o alla loro astuzia: ma certo è un fatto nuovo, come ha sottolineato Auerbach, che la perfezione del cavaliere si affermi proprio per mezzo dell’avventura. Da qui la presenza ricorrente degli incontri rischiosi che mettono alla prova il cavaliere.
Il carattere iniziatico della prova L’episodio riprodotto è fondato su ingredienti tradizionali della materia epica: il ponte da attraversare custodito da una creatura mostruosa e temibile costituisce una situazione topica, ma qui viene particolarmente enfatizzato il carattere iniziatico della prova, in cui si dimostra il valore e il coraggio dell’eroe. La descrizione dell’acqua e del ponte è realizzata con parole che alludono al freddo, alla profondità e al pericolo.
Rolando e Lancillotto L’ostinazione di Lancillotto nel voler attraversare il ponte nonostante i pericoli, non ascoltando i suoi compagni, ricorda la “follia” di Orlando a Roncisvalle, quando incurante del pericolo decide di non chiamare in aiuto Carlo Magno. Rolando non vuole assolutamente rinunciare a svolgere il proprio compito di cavaliere fedele; Lancillotto è spinto dall’amore per la propria dama tanto da non sentire dolore quando approda dall’altra parte del ponte ferito.
Il romanzo cortese-cavalleresco 2 113
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
TECNICA NARRATIVA 1. Suddividi il testo in sequenze, dai a esse un titolo e sintetizzane il contenuto. COMPRENSIONE 2. In che modo Lancillotto risponde ai suoi compagni che cercano di dissuaderlo dall’impresa? 3. Quale immagine spaventa di più i compagni di Lancillotto? ANALISI 4. Quale funzione ha l’anello? Ti sembra che Lancillotto abbia fatto affidamento sul suo aiuto? LESSICO 5. Con quali aggettivi è definita l’acqua? Quale effetto vuole procurare il narratore con l’uso di questi aggettivi?
Interpretare
SCRITTURA 6. Quali sono le qualità del perfetto cavaliere cortese attribuite a Lancillotto e che puoi ricavare dal testo? Ci sono differenze tra i cavalieri delle chansons de geste e quelli del romanzo cortese-cavalleresco?
Chrétien de Troyes
T5
L’apparizione del sacro Graal Perceval
Romanzi medioevali d’amore e di avventura, a. c. di A. Bianchini, Garzanti, Milano 1994
Perceval è ospite al castello del Re Pescatore, a cui è arrivato durante le sue peregrinazioni. Mentre si svolge un banchetto in suo onore, Perceval assiste a una misteriosa processione, in cui campeggia il Graal, di cui il giovane ignora il significato ma su cui non osa fare domande al re, pur sapendo dentro di sé che avrebbe dovuto farlo. Al suo risveglio all’alba troverà un inquietante silenzio: tutti gli abitanti del castello sembrano spariti...
Vi erano fiaccole che illuminavano la sala con un chiarore tale che al momento non sarebbe stato possibile trovare magione1 rischiarata più brillantemente. Mentre discorrevano di una cosa e dell’altra, da una camera apparve un valletto, che impugnava a metà una lancia splendente di biancore2. Passò accanto al fuoco e a 5 coloro che là sedevano e tutti quelli della sala videro la lancia e il ferro in tutto il loro biancore. Una goccia di sangue usciva dalla punta del ferro della lancia e colava fino alla mano del valletto, questa goccia vermiglia. Il nuovo arrivato vede questa meraviglia e si fa forza per non chiedere ciò che significa. Gli sovvengono infatti gli insegnamenti del suo maestro di cavalleria, che gli apprese che bisognava guardarsi 10 dal parlar troppo3. Se fa una domanda, teme che ciò gli sia imputato a villania4. E perciò non chiede nulla.
1 magione: dimora, casa. 2 splendente di biancore: risplendente di luce.
3 Gli sovvengono... parlar troppo: Perceval era stato addestrato ai valori cavallereschi da un nobile signore.
114 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
4 villania: è una parola chiave, contrapposta a “cortesia”, del codice di comportamento cortese.
Vennero allora due altri valletti, due bellissimi uomini, che tenevano in mano dei candelabri d’oro fino lavorato a niello5: erano bellissimi i valletti che portavano i candelabri: in ciascuno dei candelabri brillavano almeno dieci candele. Un graal 15 teneva una damigella nelle mani, e seguiva i valletti bella, gentile e nobilmente adornata. E quand’essa fu entrata, da tutto il graal che essa teneva s’irradiò per tutta la sala un chiarore sì grande che le candele impallidirono come le stelle o la luna quando si leva il sole. Dopo questa damigella ne veniva un’altra, che portava un piatto d’argento. Il graal che veniva avanti era fatto dell’oro più puro; vi erano 20 inserite pietre preziose delle più ricche e delle più varie che esistano per mare e per terra; nessuna gemma potrebbe paragonarsi a quelle del graal. Così come passò la lancia davanti al letto, passarono le damigelle per sparire in un’altra stanza. Il garzone6 lo vide passare e non osò chiedere a chi servissero questo graal, perché aveva sempre nel cuore l’ammonimento del valentuomo saggio. [...] 25 Il signore7 ordina di servire l’acqua e di mettere le tovaglie. I servitori obbediscono. Mentre il signore e il garzone si lavano le mani nell’acqua tiepida, due valletti portano una larga tavola d’avorio. Così come ci dice la storia, questa tavola era tutta d’un pezzo. Essi la tengono per un momento davanti al signore e all’ospite suo, mentre altri due valletti portano due trespoli il cui legno aveva due meriti: essendo 30 d’ebano, durava per sempre, ed invano ci si sarebbe sforzati di bruciarlo o di farlo marcire: son questi due rischi da cui è salvo. Su questi trespoli vien posata la tavola e sulla tavola vien messa la tovaglia. Che dire della tovaglia? Né legato8, né cardinale, né papa mangiarono mai su tovaglia più bianca. La prima portata è un’anca di cervo condito al pepe e cotto nel suo grasso. Non manca loro né vino bianco né 35 vino nuovo che bevono in una coppa d’oro. Un valletto taglia l’anca del cervo su un tagliere d’argento e pone i pezzi su un gran vassoio. E davanti ad essi un’altra volta ripassa il graal e il garzone non chiede a chi lo servano. Pensa al valentuomo che così cortesemente lo mise in guardia contro il parlar troppo e sempre gli rimane l’ammonimento nella memoria. Ma tace più di quanto 40 non gli convenga. Ad ogni nuova portata di cui vien servito vede passare davanti a sé il graal tutto scoperto e non sa a chi lo servano. Eppure vorrebbe saperlo. Ma ci sarà tempo di chiederlo a uno dei valletti della corte, egli pensa, quando al mattino prenderà commiato dal signore e da tutte le genti. Così la domanda è rimandata ed egli frattanto fa onore al pasto. 45 La tavola è servita a profusione di tutte quelle che sono le vivande ordinarie dei re, dei conti e degli imperatori, e i vini sono fra i più scelti e i più gradevoli. Dopo il pasto ambedue passano la veglia a discorrere, mentre i valletti apprestano i letti e recano datteri, fichi e noci moscate, garofani e melograni, elettuario9 per la fine, e ancora pasta allo zenzero d’Alessandria e gelatina aromatica. Dopo di che bevvero 50 molte bevande e vino al pimento10 in cui non vi era né miele né pepe, e buon vino di more e sciroppo chiaro.
5 lavorato a niello: si tratta di una particolare tecnica di lavorazione. 6 Il garzone: il ragazzo, Perceval.
7 Il signore: si tratta del Re Pescatore, il signore del castello dove è giunto Perceval. 8 legato: ambasciatore.
9 elettuario: sciroppo dolce. 10 pimento: spezia piccante.
Il romanzo cortese-cavalleresco 2 115
Analisi del testo Un’atmosfera fiabesca e onirica
Scena del Perceval in un manoscritto del 1330 (Parigi, Bibliothèque nationale de France).
Come spesso si verifica nei romanzi cavallereschi, la vicenda rappresentata si iscrive in un clima irreale. L’atmosfera sospesa, quasi onirica in cui si svolge la processione misteriosa affascina, irretisce il lettore, che abdica volentieri alla sua coscienza razionale per immedesimarsi nell’attonito stupore del protagonista. Il “meraviglioso” (il chiarore emanato dalla lancia e quello abbagliante del Graal) non entra nel racconto in modo dissonante, creando sconcerto o sorpresa, come avviene a volte nei racconti fantastici, ma si iscrive con naturalezza in un contesto già fiabesco. Ogni elemento del banchetto è infatti prezioso oltre ogni verosimiglianza, non a caso nella descrizione domina l’uso dell’iperbole. Così come Perceval, anche il lettore non ha elementi per comprendere il senso della processione e il significato degli elementi che la compongono, a cominciare dal Graal e nulla aggiunge al possibile svelamento di un qualche senso il ripetersi della processione più volte. Ma è proprio l’indeterminatezza, lo scarto da ogni logica a creare il senso di mistero che l’autore vuole evocare.
L’enigma del sacro Graal Quella del Graal è una storia infinita: sulla decifrazione di questo misterioso oggetto (simbolo o reliquia?) si sono cimentati storici, antropologi, teologi, filologi, e anche studiosi dell’occulto. Il mito del Graal è nato proprio con Perceval o il racconto del Graal, romanzo iniziatico composto da Chrétien de Troyes nella seconda metà del XII secolo. Nel racconto di Chrétien è ancora vago il significato religioso del Graal, che compare come una misteriosa coppa. Nei racconti successivi che trattano il tema del Graal, e in particolare nel romanzo La quête du Graal (La ricerca del Graal), il significato simbolico si esplicita, definendosi in senso espressamente cristiano. Parallelamente il Graal tende a diventare una reliquia, ovvero il calice nel quale Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo crocifisso. All’indomani della prima crociata (1096-1099) diverse chiese rivendicarono il possesso della preziosissima reliquia: in particolare fu identificato con il Graal il grande calice in pietra di calcedonio conservato nella cattedrale di Valencia in Spagna o, ancora, un largo piatto di pasta vitrea (il Santo catino di Cesarea) conservato nel tesoro della cattedrale genovese di San Lorenzo. Coppa, piatto, o altro, la ricerca del Graal assume sempre un significato salvifico e proprio per questo richiede particolari doti interiori.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Per quale motivo Perceval vede una goccia di sangue vermiglia che usciva dalla punta del ferro della lancia e colava fino alla mano del valletto e si fa forza per non chiedere ciò che significa? ANALISI 2. Individua nel testo gli elementi che conferiscono alla narrazione un senso di mistero. 3. Spiega la similitudine presente nella seguente frase del testo “un chiarore sì grande che le candele impallidirono come le stelle o la luna quando si leva il sole”.
Interpretare
COMPETENZA DIGITALE 4. Come puoi leggere anche nell’analisi del testo, il significato del Graal rimane indeterminato e questo mistero è uno degli elementi che hanno contribuito al fascino che la leggenda ha mantenuto nel tempo. Fai una ricerca in internet per ritracciarne le più recenti rivisitazioni nella letteratura e/o nel cinema, poi stendi una breve relazione da presentare alla classe. CONFRONTO TRA TESTI 5. Confronta il testo che hai appena letto con T4 “Lancillotto affronta la prova del ponte della spada” di Chrétien de Troyes tratto da Lancillotto o Il Cavaliere della Carretta e rintraccia analogie e/o differenze.
online T6 Tristano Riccardiano Il fatale innamoramento di Tristano e Isotta
116 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Thomas
T7
La morte di Tristano e Isotta Tristan
La poesia dell’età cortese, a c. di A. Roncaglia, SansoniAccademia, Milano 1961
Della tragica fine dei due celebri amanti esistono diverse versioni: proponiamo quella di Thomas, poeta anglo-normanno, autore del Tristan (1170 circa), un poema di cui ci è pervenuta solo una parte limitata.
La vela bianca hanno issato. E a gran forza veleggiano, finché Caerdino avvista la Bretagna. Allora son gioiosi, allegri e lieti, 5 e issano la vela bene in alto che da lungi si possa riconoscere quale essa sia, la bianca o la nera: da lontano vuol mostrarne il colore perché s’era all’ultimo giorno 10 che Tristano aveva fissato come termine quando partirono dal paese. Mentre essi navigano felicemente, si leva la bonaccia e cade il vento sì che non possono più veleggiare. 15 Il mare è tranquillissimo e liscio: la nave non va né in qua né in là, se non quanto l’onda la sposta, né hanno scialuppa. Ora è grande l’angoscia. 20 Dinanzi a loro, vicina vedono la terra e non hanno vento con cui possano raggiungerla. Su e giù vanno dondolando, ora indietro e poi avanti. Non possono proseguire il loro cammino, 25 Vengono a trovarsi in grandissimo impaccio. Isotta n’è molto addolorata: vede la terra che ha tanto desiderata e non vi può approdare; per poco non muore dal desiderio. 30 Terra desiderano sulla nave, ma il vento spira troppo lene1. Spesso Isotta si chiama sventurata. La nave desiderano sulla riva: ancora non l’avevano avvistata.
1 lene: lieve, leggero.
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Tristano n’è dolente e infelice, sovente si lagna, sovente sospira per Isotta che tanto desidera, piange dagli occhi e si tormenta, per poco non muore dal desiderio. 40 In quell’angoscia, in quel cruccio, viene dinanzi a lui sua moglie Isotta2. Intesa al3 grande inganno che ha meditato, gli dice: «Amico, arriva Caerdino. Ho visto in mare la sua nave, 45 a fatica l’ho veduta navigare, tuttavia l’ho veduta sì che per sua l’ho riconosciuta. Dio conceda che porti tal novella4 di cui nel cuore abbiate conforto!». 50 All’annuncio Tristano ha un soprassalto, dice a Isotta: «Cara amica, siete sicura che è proprio la sua nave? Or ditemi: quale è la vela?». Così dice Isotta: «Sono sicura; 55 sappiate che la vela è tutta nera: l’hanno issata e levata su in alto, perché manca loro il vento». Allora Tristano ha sì gran dolore, che più grande non ebbe mai né avrà, 60 e si volta verso la parete, e dice: «Dio salvi Isotta e me! Poiché a me non volete venire, per vostro amore debbo morire. Io non posso più durare la vita5, 65 per voi muoio, Isotta, cara amica. Non avete pietà del mio languire, ma della mia morte avrete dolore. Questo m’è, amica, gran conforto, Che avrete pietà della mia morte». 70 «Amica Isotta!» tre volte ha esclamato, alla quarta rende lo spirito6. Allora piangono per la casa i cavalieri, i compagni. Il clamore è alto, il pianto grande. 75 Accorrono cavalieri e serventi e lo traggon fuori dal suo letto [...] 35
2 sua moglie Isotta: Isotta “dalle bianche mani” era la sposa di Tristano.
3 Intesa al: decisa a portare avanti il. 4 novella: notizia.
5 durare la vita: continuare a vivere (senza di lei).
6 rende lo spirito: muore.
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[Nel frattempo il vento si leva e la nave approda. Isotta la Bionda sente suonare le campane, un vecchio le annuncia la morte del prode Tristano. Annientata dalla tragica notizia, Isotta corre ad abbracciare l’amato.] Isotta corre là dove scorge la salma, si volge verso oriente, Prega piamente per lui: «Amico Tristano, dal momento che morto vi vedo, è ben ragione ch’io non debba più vivere! Siete morto per il mio amore, 115 E io muoio, amico, di tenerezza, Poiché a tempo non potei giungere voi e il vostro male a guarire. Amico, amico, per la vostra morte non avrò mai di nulla conforto, 120 gioia, letizia, né piacere alcuno. Quel maltempo7 sia maledetto, che tanto mi fece, amico, in mare tardare, sì ch’io non potei giungere. Se io fossi a tempo arrivata, 125 la vita v’avrei ridata, e dolcemente parlato con voi dell’amore ch’è stato tra noi; rimpianta avrei la nostra sorte, la nostra gioia, il nostro piacere, 130 e la pena e il gran dolore ch’è stato nel nostro amore, tutto ciò avrei ricordato e baciato v’avrei e abbracciato. Ma se io non v’ho potuto guarire, 135 che insieme dunque possiamo morire! Dal momento che non potei giungere in tempo e non seppi quel ch’era accaduto, e son giunta alla vostra morte, dello stesso filtro avrò conforto8. 140 Per me avete perduto la vita, ed io farò come verace amica: per voi del pari voglio morire». Lo abbraccia e s’abbandona distesa, gli bacia la bocca ed il viso 145 e strettamente a sé lo stringe, corpo a corpo, bocca a bocca, s’abbandona, 110
7 Quel maltempo: allude all’assenza di vento (bonaccia) che ha rallentato la nave.
8 dello stesso filtro avrò conforto: Isotta allude al filtro che li ha fatti innamorare
(➜ T6 OL ) ora però diventato strumento di morte.
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il suo spirito allora rende, e muore così al suo fianco Per il dolore del suo amico. 150 Tristano è morto per il suo desiderio, Isotta perché in tempo non poté giungere; Tristano è morto per suo amore e la bella Isotta di tenerezza.
Analisi del testo La morte dei due amanti Tristano, ferito a morte da un’arma avvelenata, attende Isotta, che sola potrebbe guarirlo perché esperta di erbe capaci di guarire. Il fedele Caerdino, che è stato inviato da Tristano a prendere Isotta nel suo paese lontano, ha convenuto con Tristano di innalzare la vela bianca come segno che Isotta è stata ritrovata e sta giungendo con la nave. Quando la nave è ormai prossima all’approdo, il vento cade e il corso della nave è inevitabilmente rallentato. Si crea così un’atmosfera di angosciosa attesa sia sulla nave sia a terra, dove Tristano attende spasmodicamente l’arrivo di Isotta. Finalmente la nave è in vista, ma Isotta dalle bianche mani, la moglie di Tristano, ingannando lo sposo per gelosia, gli annuncia che la nave issa una vela nera. A questa notizia, disperando ormai di rivedere l’amata Isotta, Tristano si abbandona volutamente alla morte. Giunta troppo tardi, anche Isotta muore di dolore, unita a Tristano in un supremo abbraccio d’amore.
Il mito letterario dell’amore infelice In un suo celebre saggio (L’amore e l’Occidente, del 1939) Denis de Rougemont (1906-1985) sviluppa una personale interpretazione del mito di Tristano e Isotta e sottolinea il ruolo fondamentale (secondo lui essenzialmente negativo) da esso esercitato nella letteratura occidentale. Capostipite di tutta la letteratura d’amore dell’Occidente, il romanzo di Tristano e Isotta è uno dei principali responsabili della costruzione dell’«amore su base negativa», dove ciò che conta (ciò che “fa amore”) è la tensione, l’ostacolo e l’irraggiungibilità, l’“assenza” della creatura amata. È una forma d’amore per certi aspetti patologica, commista di sofferenza e votata oscuramente alla morte. Scrive De Rougemont a proposito dell’amore di Tristano e Isotta: «Ciò che essi [Tristano e Isotta] amano è l’amore, è il fatto stesso d’amare. Ed agiscono come se avessero capito che tutto ciò che s’oppone all’amore lo garantisce e lo consacra nel loro cuore, per esaltarlo all’infinito nell’istante dell’abbattimento dell’ostacolo, che è la morte. Tristano ama di sentirsi amato, ben più che non ami Isotta la bionda. E Isotta non fa nulla per trattenere Tristano presso di sé: le basta un sogno appassionato. Hanno bisogno l’uno dell’altro per bruciare, ma non dell’altro come realtà; e non della presenza dell’altro, ma piuttosto della sua assenza!».
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Dividi il brano in sequenze, indica un titolo appropriato e sintetizza il contenuto di ciascuna sequenza. COMPRENSIONE 2. Qual è il ruolo della moglie di Tristano nella tragica vicenda narrata? ANALISI 3. La morte dei due amanti è preceduta da due monologhi (due dialoghi con l’amata/amato), più breve quello di Tristano, più lungo quello di Isotta. Analizzali evidenziando come in entrambi i casi l’amore, proprio perché irrealizzabile, si associ alla morte, rappresentata come scelta obbligata.
Interpretare
SCRITTURA 4. Immagina di essere stato testimone della morte dei due innamorati e scrivi un breve testo narrativo (max 20 righe) che fornisca una cronaca dell’episodio.
120 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
VERSO IL NOVECENTO
La rivisitazione novecentesca della materia epico-cavalleresca
John R.R. Tolkien La riproposta dell’epica medievale per una società prosaica J.R.R. Tolkien, Il Signore degli anelli, trad. di V. Alliata di Villafranca, Rusconi, Milano 1977, cit. da P. Zanotti, Il modo romanzesco, Laterza, Roma-Bari 1998
5
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Nel suo best seller Il Signore degli anelli (1954-55), John R.R. Tolkien (1892-1973), un professore di Oxford studioso di fiabe e racconti mitologici, ha tentato di far rivivere il fascino delle storie medievali. Sulla scia del successo del suo libro è nato il genere fantasy, in cui si muovono esseri umani e non umani, in mondi paralleli di dimensioni meravigliose, s’incontrano oggetti magici e i personaggi seguono percorsi che li portano, attraverso avventure e prove, a una personale maturazione, proprio come gli eroi del romanzo medievale. Tolkien era un appassionato cultore della mitologia celtica e uno studioso delle lingue e letterature medievali anglosassoni. Il suo obiettivo, scrivendo Il Signore degli anelli, era quello di riportare in vita per sé e per i suoi amici una narrativa epico-fantastica come quella appunto medievale, un genere ormai scomparso. Come egli stesso ebbe a dire, cercava di «modernizzare i miti e renderli credibili», di proporre un’epica moderna in una società prosaica che aveva ormai smarrito il contatto con la dimensione epico-fantastica. Come i romances medievali, anche Il Signore degli anelli è un’opera complessa: in essa s’intrecciano motivi fiabeschi con trame di poemi cavallereschi, rivivono ambienti magici e personaggi mitologico-fantastici (hobbit, elfi, stregoni, nani, draghi ecc.) e ricorre il tipico motivo della quête (in due diverse versioni, quella di Frodo e quella di Aragorn). I vari episodi ruotano attorno all’eterno tema della lotta tra bene e male all’interno di un sistema di valori prettamente cavalleresco-religiosi. Tolkien non si limita a proporre la dimensione epico-cavalleresca a livello tematico, ma tenta anche di ricreare il fascino di una lingua “epica”, che egli costruisce attraverso le sue conoscenze filologiche di gran parte delle lingue romanze. Ecco un brevissimo esempio del “clima” epico-fantastico presente nel romanzo.
Su tutte le colline circostanti infuriavano gli eserciti di Mordor. I Capitani dell’Ovest venivano sommersi da flutti sempre più impetuosi. Il sole ardeva rosso, e sotto le ali dei Nazgûl le ombre della morte si proiettavano nere sulla terra. Aragorn si ergeva accanto al suo vessillo, silenzioso e severo, come perduto nel ricordo di cose remote o distanti; ma i suoi occhi brillavano come stelle che sfavillano con maggiore intensità a mano a mano che la notte s’infittisce. In cima al colle era Gandalf, bianco e freddo e nessun’ombra cadeva su di lui. L’assalto di Mordor irruppe come un’immensa ondata sulle colline assediate, e le voci ruggivano come una marea che sale fra boati e fragore. Come se ai suoi occhi fosse improvvisamente apparsa una visione, Gandalf trasalì: si voltò a guardare verso nord, dove i cieli erano limpidi e pallidi. Poi alzò le mani e gridò con voce possente che sovrastava ogni altro rumore: Arrivano le Aquile! Il successo de Il Signore degli anelli fu incredibile, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, quando il libro fu pubblicato negli Stati Uniti in edizione economica. Lo stesso Tolkien non riusciva a capacitarsi di come un’operazione nata quasi per sfida in un gruppo ristretto di amici avesse potuto suscitare tanto interesse. Di certo disapprovava le colorazioni politiche che gli venivano attribuite: da un lato la sua opera fu considerata un’operazione regressiva, di stampo reazionario, dall’altro divenne una lettura di culto per gli studenti che protestavano contro la società del benessere e per gli hippies che cercavano modi di vita alternativi. Essi videro in Tolkien una sorta di profeta e nel popolo degli hobbit la testimonianza di una scelta di vita arcaica, semplice e vicina alla natura.
Il romanzo cortese-cavalleresco 2 121
VERSO IL NOVECENTO
Italo Calvino Sotto l’armatura niente I. Calvino, Il cavaliere inesistente, Mondadori, Milano 2011
1 arma: insegna.
Sicuramente ispirata a un’ottica diversa o addirittura di segno opposto è la rivisitazione dell’epica cavalleresca compiuta da Calvino nel romanzo Il cavaliere inesistente (1959), che appartiene – insieme a Il visconte dimezzato (1952) e a Il barone rampante (1957) – alla trilogia I nostri antenati: non c’è in Calvino alcuna fiducia nella possibilità di riproporre valori e tematiche epiche, ma il codice cavalleresco è usato con consapevole distanza ironica. Quelle che seguono sono le pagine iniziali del primo capitolo del romanzo di Calvino. L’autore immagina che Carlo Magno al solito passi in rassegna i paladini che guidano le sue armate e lo servono fedelmente da anni. Tutto si ripete secondo uno stanco rituale, ma l’ultimo cavaliere della fila non risponde al solito cliché: dentro l’armatura di Agilulfo, il “cavaliere inesistente”, non c’è nessuno. È evidente la prospettiva ironica del testo.
Finalmente ecco, lo scorsero che avanzava laggiù in fondo, Carlomagno, su un cavallo che pareva più grande del naturale, con la barba sul petto, le mani sul pomo della sella. Regna e guerreggia, guerreggia e regna, dài e dài, pareva un po’ invecchiato, dall’ultima volta che l’avevano visto quei guerrieri. 5 Fermava il cavallo a ogni ufficiale e si voltava a guardarlo dal su in giù. – E chi siete voi, paladino di Francia? – Salomon di Bretagna, sire! – rispondeva quello a tutta voce, alzando la celata e scoprendo il viso accalorato; e aggiungeva qualche notizia pratica, come sarebbe: – Cinquemila cavalieri, tremilacinquecento fanti, milleottocento i servizi, cinque anni 10 di campagna. – Sotto coi brètoni, paladino! – diceva Carlo, e toc-toc, toc-toc, se ne arrivava a un altro capo di squadrone. – Ecchisietevòi, paladino di Francia? – riattaccava. – Ulivieri di Vienna, sire! – scandivano le labbra appena la griglia dell’elmo s’era 15 sollevata. E lì: – Tremila cavalieri scelti, settemila la truppa, venti macchine da assedio. Vincitore del pagano Fierabraccia, per grazia di Dio e gloria di Carlo re dei Franchi! – Ben fatto, bravo il viennese, – diceva Carlomagno, e agli ufficiali del seguito: – Magrolini quei cavalli, aumentategli la biada. – E andava avanti: – Ecchisietevòi, 20 paladino di Francia? – ripeteva, sempre con la stessa cadenza: «Tàtta-tatatài-tàtatàta-tatàta...» – Bernardo di Montpellier, sire! Vincitore di Brunamonte e Galiferno. – Bella città Montpellier! Città delle belle donne! – e al seguito: – Vedi se lo passiamo di grado – . Tutte cose che dette dal re fanno piacere, ma erano sempre le 25 stesse battute, da tanti anni. – Ecchisietevòi, con quello stemma che conosco? – Conosceva tutti dall’arma1 che portavano sullo scudo, senza bisogno che dicessero niente, ma così era l’usanza che fossero loro a palesare il nome e il viso. Forse perché altrimenti qualcuno, avendo di meglio da fare che prender parte alla rivista, avrebbe potuto mandar lì la sua 30 armatura con un altro dentro. – Alardo di Dordona, del duca Amone... – In gamba Alardo, cosa dice il papà, – e così via. «Tàtta-tatatài-tàta-tàta-tatàta...» – Gualfré di Mongioja! Cavalieri ottomila tranne i morti!
122 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Ondeggiavano i cimieri. – Uggeri Danese! Namo di Baviera! Palmerino d’lnghilterra! 35 Veniva sera. I visi, di tra la ventaglia e la bavaglia2, non si distinguevano neanche più tanto bene. Ogni parola, ogni gesto era prevedibile ormai, e così tutto in quella guerra durata da tanti anni, ogni scontro, ogni duello, condotto sempre secondo quelle regole, cosicché si sapeva già oggi per domani chi avrebbe vinto, chi perso, chi sarebbe stato eroe, chi vigliacco, a chi toccava di restare sbudellato e chi se la 40 sarebbe cavata con un disarcionamento e una culata in terra. Sulle corazze, la sera al lume delle torce i fabbri martellavano sempre le stesse ammaccature. – E voi? – Il re era giunto di fronte a un cavaliere dall’armatura tutta bianca; solo una righina nera correva torno torno ai bordi; per il resto era candida, ben tenuta, senza un graffio, ben rifinita in ogni giunto, sormontata sull’elmo da un pennac45 chio di chissà che razza orientale di gallo, cangiante d’ogni colore dell’iride. Sullo scudo c’era disegnato uno stemma tra due lembi d’un ampio manto drappeggiato, e dentro lo stemma s’aprivano altri due lembi di manto con in mezzo uno stemma più piccolo, che conteneva un altro stemma ammantato3 più piccolo ancora. Con disegno sempre più sottile era raffigurato un seguito di manti che si schiudevano 50 uno dentro l’altro, e in mezzo ci doveva essere chissà che cosa, ma non si riusciva a scorgere, tanto il disegno diventava minuto. – E voi lì, messo su così in pulito... – disse Carlomagno che, più la guerra durava, meno rispetto della pulizia nei paladini gli capitava di vedere. – Io sono, – la voce giungeva metallica da dentro l’elmo chiuso, come fosse non 55 una gola ma la stessa lamiera dell’armatura a vibrare, e con un lieve rimbombo d’eco, – Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez! – Aaah... – fece Carlomagno e dal labbro di sotto, sporto avanti, gli uscì anche un piccolo strombettio, come a dire: «Dovessi ricordarmi il nome di tutti, starei fre60 sco!» Ma subito aggrottò le ciglia. – E perché non alzate la celata e non mostrate il vostro viso? Il cavaliere non fece nessun gesto; la sua destra inguantata d’una ferrea e ben connessa manopola si serrò più forte all’arcione, mentre l’altro braccio, che reggeva lo scudo, parve scosso come da un brivido. 2 la ventaglia e la bavaglia: sono due 65 – Dico a voi, ehi, paladino! – insisté Carlomagno. – Com’è che non mostrate la parti dell’elmo: la prifaccia al vostro re? ma, che era mobile, proteggeva il viso, La voce uscì netta dal barbazzale4. – Perché io non esisto, sire. la seconda è la parte – O questa poi! – esclamò l’imperatore. – Adesso ci abbiamo in forza anche un inferiore che copriva la bocca, con fessure cavaliere che non esiste! Fate un po’ vedere. e piccoli fori per consentire al cavaliere di 70 Agilulfo parve ancora esitare un momento, poi con mano ferma ma lenta sollevò respirare. la celata. L’elmo era vuoto. Nell’armatura bianca dall’iridescente cimiero non c’era 3 ammantato: fornidentro nessuno. to di manto. Il manto era attributo araldico – Mah, mah! Quante se ne vedono! – fece Carlomagno. – E com’è che fate a prestar di duchi e principi. servizio, se non ci siete? 4 barbazzale: parte inferiore dell’elmo 75 – Con la forza di volontà, – disse Agilulfo, – e la fede nella nostra santa causa! a visiera mobile (a – E già, e già, ben detto, è così che si fa il proprio dovere. Be’, per essere uno che protezione di mento e collo). non esiste, siete in gamba! 5 il serrafila: l’ultimo Agilulfo era il serrafila5. L’imperatore ormai aveva passato la rivista a tutti; voltò il dei paladini passati in rassegna. cavallo e s’allontanò verso le tende reali.
Il romanzo cortese-cavalleresco 2 123
INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
Erich Auerbach L’antirealismo dell’ideale cavalleresco E. Auerbach, Mimesis, Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956
All’interno di una sua celebre opera, Mimesis, che segue in un percorso secolare le tracce del realismo (e dell’antirealismo) nella letteratura occidentale, Erich Auerbach dedica un capitolo (La partenza del cavaliere cortese) alla letteratura cavalleresca, mettendone a fuoco soprattutto la tendenza idealizzante (e appunto antirealistica), che eserciterà un’influenza profonda anche in contesti socio-culturali del tutto differenti (come la società comunale in Italia), contribuendo in modo determinante alla diffusione di un modello etico-culturale costituzionalmente elitario.
Il mondo dell’affermazione cavalleresca è un mondo di avventure, non solo nel senso che troviamo in esso una serie quasi ininterrotta di avventure, ma anche nel senso che in esso non ci s’imbatte in nulla che non sia il palcoscenico o la preparazione dell’avventura; è un mondo fatto apposta per l’affermazione del cavaliere. 5 La scena della partenza di Calogrenant1 lo dimostra chiaramente. Egli cavalca tutto il giorno e incontra soltanto il castello destinato alla sua accoglienza; nulla è detto delle condizioni pratiche che rendono possibile l’esistenza d’un simile castello in piena solitudine, conciliandola con l’esperienza comune. Un’idealizzazione simile porta molto lontano dall’imitazione della realtà; nel romanzo cavalleresco è taciuto 10 il carattere funzionale, storicamente reale del ceto2. Questo genere poetico3 è ricco di notizie storiche sul costume e in genere sulla vita esteriore, ma non approfondisce la realtà del proprio tempo, nemmeno quella del ceto cavalleresco. Della realtà ritrae soltanto la superficie variopinta, e quando non è superficiale, ha altri argomenti e altri intenti che non la realtà contemporanea. Tuttavia esso contiene 15 un’etica sociale che come tale riuscí a imporsi al mondo reale perché possiede un grande fascino che si basa soprattutto su due qualità che lo distinguono: è assoluto, al di sopra di ogni contingenza terrena, e a colui che gli è soggetto conferisce il senso di appartenere a una comunità di eletti – a una cerchia di solidarietà [...] distanziata dalla gran massa degli uomini. Di conseguenza l’etica feudale, la con20 cezione ideale del cavaliere perfetto, durò a lungo e fu di grandissima efficacia. Le concezioni da lui inseparabili del valore militare, dell’onore, della fedeltà, del rispetto reciproco, dei costumi gentili e del culto della donna, esercitarono il loro fascino ancora su uomini di epoche completamente diverse; strati sociali sorti piú tardi, di origine cittadina e borghese accolsero quest’ideale, sebbene sia non 25 soltanto esclusivo ma anche completamente vuoto di realtà; non appena cerca di spingersi oltre la pura convenzione dei rapporti, di avvicinare gli affari pratici del mondo, diventa insufficiente e ha bisogno di un completamento col quale spesso si trova in urto. Ma proprio perché era tanto lontano dalla realtà, si adattò come ideale a qualsiasi situazione, per lo meno finché esistevano ceti dominanti.
1 Calogrenant: uno dei cavalieri della Tavola rotonda. Il riferimento è a una delle avventure narrate
nell’Ivano di Chrétien de Troyes.
2 ceto: si intende il ceto dei cavalieri.
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3 Questo genere poetico: il romanzo cavalleresco era originariamente in versi.
Franco Cardini L’avventura cavalleresca come metafora di esigenze/esperienze reali F. Cardini, il guerriero e il cavaliere, in J. Le Goff (a cura di), L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari 1993
Nel passo critico che proponiamo, lo storico Franco Cardini sostiene che la situazione dell’“avventura”, vero e proprio topos della narrativa cavalleresca, sia originata da bisogni del tutto reali e concreti, comuni al ceto dei giovani cavalieri, e che trasformi in tema letterario concrete esperienze di vita, diffuse tra l’XI e il XIII secolo.
[Il] «cavaliere errante» è stato troppo a lungo considerato una figura del tutto letteraria, atemporale, improbabile anche come modello e assolutamente improponibile come specchio di una qualunque realtà vissuta. Non era così. Nuove tecniche d’interpretazione dei testi letterari e di interroga5 zione del passato ci hanno posto, anche in quest’ordine di problemi, dinanzi a una differente realtà. Psicanalisi, semiologia e antropologia culturale, congiunte, ci hanno invitato a leggere con altra ottica quegli «improbabili» testi arturiani. Un sociologo della letteratura come Eric Köhler e uno storico come Georges Duby ci hanno insegnato a cogliere, al di là dei sogni e delle finzioni letterarie [...], quelle 10 che potremmo definire le forme concrete dell’avventura. Certo, l’avventura cavalleresca è costellata di fate e di draghi, di mostri e di castelli o giardini incantati, di nani e di giganti. Ma si tratta, più che di fantasie, di metafore. L’avventura si correva sul serio. Georges Duby ha dimostrato come fra XI e XIII se15 colo l’elemento attivo della piccola aristocrazia europea – soprattutto francese; ma, seguendo il modello francese, anche di quella anglo-normanna, tedesca, spagnola e italica – sia costituito dagli iuvenes: vale a dire dai cavalieri «addobbati» da poco, che cioè hanno appena ricevuto le armi durante la cerimonia di vestizione e che sciamano raggruppati in più o meno numerose comitive fuori dal loro ambiente 20 abituale inseguendo forse anche sogni, ma certamente soprattutto ben concreti anche se non sempre raggiunti ideali di sicurezza e di prestigio sociale.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Produzione
1. Che cosa si afferma nel testo di Auerbach a proposito della letteratura cavalleresca? Quali argomenti vengono addotti per sostenere la tesi principale? 2. Che cosa si afferma nel testo di Cardini in relazione all’avventura cavalleresca? Qual è la sua tesi? 3. Cardini sostiene che le fiabesche avventure dei cavalieri erranti più che fantasie sono metafore: sai spiegare la differenza tra fantasia e metafora? 4. Condividi le considerazioni di Auerbach in relazione alla letteratura cavalleresca o pensi che abbia ragione Cardini? Argomenta i tuoi giudizi con riferimento a ciò che hai studiato e scrivi un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
Il romanzo cortese-cavalleresco 2 125
Sguardo sul cinema I cavalieri erranti: dall’epica hollywoodiana all’Armata Brancaleone Nella storia del cinema la figura del cavaliere, personaggio al contempo storico ed eroico, a partire dalla metà del secolo scorso, è stata utilizzata con l’intento di coniugare raffigurazione storica e intrattenimento. L’immagine che il cinema americano ha fornito dei cavalieri e del Medioevo è caratterizzata dalla predominanza dell’immaginazione e della fantasia sulle fonti storiche utilizzate con molta libertà. Elizabeth Taylor e Robert Taylor in Ivanhoe (1952).
Nel 1966 in Italia esce il film di Mario Monicelli L’armata Brancaleone, uno dei ritratti cinematografici più efficaci della storia del cinema sull’epoca cavalleresca. Si configura come una parodia di tutto il cinema precedente sul Medioevo e sui cavalieri. Brancaleone, il protagonista, con il suo linguaggio e i suoi gesti costituisce una figura demitizzata, una sorta di cavaliere “di provincia”. Il Medioevo di questa pellicola è in fondo molto più realistico di quello idealizzato del cinema degli anni Cinquanta, la cui rievocazione appariva sempre stravolta e poco credibile. online
Approfondimento I cavalieri erranti: dall’epica hollywoodiana all’Armata Brancaleone
Vittorio Gassman nei panni di Brancaleone da Norcia in due scene da L’armata Brancaleone (1966) di Mario Monicelli.
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3
La lirica provenzale 1 Una poesia “da ascoltare”: la lirica trobadorica L’emergere della lirica nel tardo Medioevo Il termine “lirica” ha origine in Grecia, dove identificava un tipo di poesia accompagnata dal suono di uno strumento musicale a corde, la lira (la lirica denominata “monodica” era recitata da un solo cantore, quella “corale” coinvolgeva più cantori). È nel tardo Medioevo che la lirica emerge nel panorama delle forme letterarie, quando alla funzione di insegnamento di norme morali e religiose, che contraddistingue in particolare la cultura altomedievale, si affianca una concezione diversa della letteratura: la lirica implica infatti un’idea della letteratura come espressione di stati d’animo, di impressioni soggettive, in particolare in rapporto all’amore, che si impone nella produzione in lingua romanza come esperienza centrale del vissuto individuale.
Lessico trovatori Il termine indica il poeta della poesia provenzale e deriva da trobar.
Una poesia “d’autore” Tra la fine dell’XI secolo e la metà del XIII, nella zona meridionale della Francia denominata Occitania (dalla lingua d’oc lì utilizzata) si sviluppa la lirica trobadorica (dal provenzale trobar “trovare, inventare”, con allusione all’attività poetica del “comporre versi”) a opera dei trovatori . È significativo che i trovatori firmino per la prima volta le loro composizioni (ce ne sono pervenute ben 2542, con i nomi di circa 450 poeti) e si presentino talvolta al pubblico nel congedo delle canzoni, interrompendo quindi l’anonimato caratteristico dei primi secoli del Medioevo. Non è un caso che ci siano pervenute numerose biografie di trovatori (vidas), redatte nel XIII secolo, che accompagnano i testi insieme alle razos, note esplicative sulle occasioni che hanno originato i componimenti. Alcuni trovatori – come Guglielmo d’Aquitania, conte di Poitiers (1071-1126), Jaufre Rudel, principe di Blaye presso Bordeaux o Bertran de Born – appartenevano a famiglie di alta nobiltà; altri provenivano dalle più diverse estrazioni sociali, anche umili (come Marcabru e Bernart de Ventadorn) ed erano al servizio delle corti feudali, dove intrattenevano un pubblico di dame, cavalieri, nobili, ecclesiastici. Guglielmo d’Aquitania è il più antico dei trovatori provenzali. Potente feudatario, partecipò a due crociate (in Terrasanta e in Spagna). Presso i contemporanei aveva fama di uomo dissoluto, amante dei piaceri (per comportamenti illeciti fu anche scomunicato); anche la vida che ci è pervenuta conferma questo dato biografico. Ha lasciato 11 composizioni. Del trovatore Jaufre Rudel ben poco sappiamo (morì forse in Terrasanta durante la seconda crociata, 1147-1148). Ci sono pervenute di lui solo sei liriche, in cui domina il tema dell’“amore di lontano”. Forse proprio la ricorrenza di questo tema nella sua poesia ha ispirato la sua vida che favoleggia di un amore lontano che il poeta avrebbe realmente vissuto. Una poesia musicata e cantata La poesia trobadorica era scritta, musicata e recitata, con l’accompagnamento di uno strumento a corde, dai trovatori stessi (simili in questo ai moderni cantautori). Le composizioni scritte e musicate dai trovatori erano anche affidate ai giullari per l’esecuzione. Ci sono pervenute le notazioni muLa lirica provenzale 3 127
Lessico canto gregoriano È il canto liturgico della Chiesa cattolica latina, cantato da un coro o da un cantore senza accompagnamento musicale. Il nome deriva da Gregorio, papa dal 590 al 604 che raccolse in volume i canti liturgici.
sicali di 260 poesie soltanto: su questa base ristretta di testimonianze è impossibile ricostruire un modello musicale comune. Gli studiosi concordano però nel ritenere che la tecnica musicale dei trovatori fosse raffinata e complessa e che si distaccasse comunque dalla tradizione del canto gregoriano proprio della cultura della Chiesa. Un passatempo raffinato per pochi eletti La poesia provenzale inaugura una produzione letteraria svincolata da una visione pedagogico-morale della letteratura, in competizione con i temi e i valori della cultura clericale: quella trobadorica è infatti una poesia per la maggior parte amorosa e concepita come raffinato passatempo all’interno della vita di corte. All’interno della lirica trobadorica sono presenti due diverse tendenze di stile: il trobar clus cioè “il cantar chiuso, difficile”, volutamente oscuro, caratterizzato da un’insistita presenza di figure retoriche e da un lessico raro e prezioso, come nell’opera di Arnaut Daniel, ricordato da Dante per la sua eccellenza di poeta (Pg XXVI); e il trobar leu (“il cantar dolce, piano”), una poesia più leggera e comprensibile, il cui esponente principale è Bernart de Ventadorn. Il mito dell’amore cortese: un tema chiave della cultura occidentale Anche se nella lirica trobadorica non manca la componente satirico-politica, come nei cosiddetti sirventesi, il tema centrale è l’amore, che per la prima volta viene rappresentato come un’esperienza fondamentale della vita umana. La visione dell’amore prospettata dalla poesia provenzale (in lingua d’oc la fin’amor) è totalmente nuova: l’amore è concepito come passione struggente, non priva di tratti sensuali, il poeta prova un desiderio frustrato per la donna posta su un piedestallo irraggiungibile e adorata da chi affina il proprio animo pur nella sofferenza e nella rinuncia (o forse proprio grazie a esse). Amore cortese e modello feudale di comportamento L’identità della donna cantata dai trovatori è spesso nascosta da uno pseudonimo, il senhal (“segno” in provenzale), poiché si tratta di un amore che deve essere tenuto segreto per evitare la maldicenza e la calunnia degli invidiosi e perché la donna spesso è già sposata. Il “servizio d’amore” che lega l’innamorato alla donna, la fedeltà assoluta a lei ricorda da vicino il rapporto feudale di vassallaggio, che richiedeva al vassallo la fedeltà e l’omaggio devoto al signore: non a caso la donna è chiamata midons, “mio signore”. Nei testi trobadorici del resto vi sono così tanti parallelismi con i rituali feudali e così tanti termini giuridici di ascendenza feudale che si è arrivati a definire l’intera
Caratteristiche dell’amor cortese L’amor cortese
concepito come passione struggente
caratterizzato da: • lode della donna amata • segretezza del nome della donna indicata con uno pseudonimo (senhal), perché il più delle volte già sposata • sottomissione del poeta-amante, che promette assoluta fedeltà alla donna • insoddisfazione da parte del poeta per non essere ricambiato dalla donna • consapevolezza del poeta della funzione nobilitante dell’amore
indirizzato a una donna posta su un piedistallo irraggiungibile
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lirica trobadorica come una “metafora feudale” (Mancini), come se la devozione verso la donna, esaltata dai trovatori, fosse la trasposizione simbolica della sottomissione del cavaliere feudale al suo signore. L’enigma della fin’amor Nonostante i molteplici studi critici che si sono succeduti nel tempo, la fin’amor rimane un enigma. Il fatto che l’amore cortese sia un amore adultero, anche se destinato a non realizzarsi, potrebbe spiegarsi con la realtà sociale delle corti feudali, in cui i giovani cavalieri contemplavano le grandi dame o la moglie addirittura del loro signore, ma di certo non potevano pensare di conquistarle veramente. Ma sono diverse le ipotesi in campo.
online
Per approfondire L’enigma della fin’amor
Il trattato sull’amore di Andrea Cappellano L’amore cortese ha il suo teorico in Andrea Cappellano, un misterioso personaggio che visse forse alla corte di Maria di Champagne, autore del De amore, un trattato in latino che ebbe enorme diffusione e che offre una minuziosa casistica dei riti e delle regole della fin’amor (➜ T8 ). Il trattato, diviso in tre libri e scritto alla fine del XII secolo, svolse un ruolo fondamentale nella codificazione dell’amore cortese. L’autore si propone, attraverso una minuziosa casistica, di illustrare la natura dell’amore e di fissare le regole di comportamento da seguire in campo amoroso secondo una concezione dell’amore essenzialmente laica e svincolata dai principi religiosi. L’uso del latino e la struttura didattica del testo, che ricalca i trattati filosofici, conferisce autorevolezza a un tema, quello dell’amore, che poteva porsi in conflitto con la cultura e l’ottica della Chiesa. In alcune pagine fondamentali vengono gettate le basi teoriche dell’amore cortese, celebrato nel romanzo cavalleresco e nella lirica trobadorica: una passione esclusiva, che nasce in individui nobili di spirito, che affina l’animo e che, per sua natura, non può sorgere all’interno del legame matrimoniale. La poesia come tecnica e come insieme di convenzioni Quella trobadorica è in ogni caso una poesia caratterizzata da un alto grado di elaborazione tecnico-formale: i trovatori non concepivano assolutamente la poesia come spontanea espressione di sentimenti personali, né avevano come obiettivo l’originalità: nella poesia trobadorica circolano quindi motivi ricorrenti e situazioni convenzionali che danno vita a veri e propri sottogeneri, come le aubes (composizioni in cui due amanti si lamentano di doversi separare all’alba), le nuegs (composizioni in cui si elencano situazioni spiacevoli), i plazers (composizioni in cui si elencano situazioni piacevoli).
Incontro d’amore (miniatura francese, inizio secolo XV, British Library, Londra).
La lirica provenzale 3 129
L’influenza della poesia trobadorica L’influenza della concezione cortese dell’amore sulla letteratura occidentale sarà grandissima: attraverso gli stilnovisti e soprattutto Petrarca, giungerà fino al Romanticismo, a Goethe, a Novalis; ma la sua suggestione si espanderà ancora in pieno Novecento. Oltre al tema dell’amore cortese, i trovatori trasmettono alla poesia occidentale una tecnica della versificazione fondata sulla misura sillabica, sulla successione organizzata degli accenti e sul raggruppamento dei versi in strofe caratterizzate dalla presenza della rima. La forma metrica principale inventata dai trovatori è la canzone (canso in provenzale, con allusione allo stretto legame fra testo e musica), un genere metrico che avrà una fortuna secolare (➜ PER APPROFONDIRE, La canzone e la canzonetta, C4). La fine della cultura provenzale e la diaspora dei trovatori La civiltà provenzale conosce una fine traumatica in seguito alla crociata contro gli Albigesi (12091229), una delle più cruente della storia della cristianità. La crociata fu indetta da papa Innocenzo III per colpire l’eresia catara, che aveva uno dei suoi centri più importanti nella città di Albi, ma che era estesa in tutta la Linguadoca. Lo sterminio di migliaia di persone determinò la fine della civiltà occitanica e il rapido tramonto della stessa lingua d’oc. Queste drammatiche circostanze storiche disperdono i trovatori, che cercano rifugio e protezione in Spagna, in Germania, dove si creò il movimento poetico dei Minnesanger (da Minne “amore” e Sang “canto”) e anche in Italia.
I generi letterari dell’età cortese LA LIRICA PROVENZALE GENERE
lirica con accompagnamento musicale
LUOGO
Sud della Francia
TEMPO
XII secolo
LINGUA
d’oc (provenzale diffuso nella Francia meridionale)
STILE
• trobar clus “cantare diffcile”
• trobar leu “cantare dolce”
CONTENUTO
• lode della donna
• servizio d’amore
DIFFUSIONE
OPERE/AUTORI
orale da parte dei giullari
• Guglielmo d’Aquitania
TEMI
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amore cortese
• Jaufre Rudel
Andrea Cappellano
T8
La codificazione dell’amore cortese De amore
Andrea Cappellano, De amore, trad. di J. Insana, SE, Milano 1996
Il De amore è un trattato in latino della fine del XII secolo, che ebbe vastissima circolazione anche in Italia e che svolse un ruolo fondamentale nell’elaborazione dell’ideale cortese dell’amore. Proponiamo alcuni passi dal trattato che trovano precisi riscontri nella letteratura franco-provenzale (e in seguito anche nella lirica italiana), a testimonianza della sua influenza sul codice amoroso medievale.
Quale effetto produce l’amore Questo è l’effetto d’amore: poiché il vero amante non può peccare di avidità1, l’amore dà bellezza2 all’uomo incolto e rozzo, dà nobiltà anche ai più umili, rende umili3 anche i superbi, e l’innamorato generalmente è molto compiacente con tutti. 5 Che cosa meravigliosa è l’amore che fa splendere l’uomo di tante virtù e gli insegna ad avere tanti buoni costumi! C’è nell’amore un altro merito, degno di lunga lode: l’amore rende l’amante quasi casto perché chi è illuminato dal raggio di un solo amore, difficilmente pensa di fare l’amore con un’altra anche se bella. Finché pensa esclusivamente al suo amore, 10 orrida e brutta gli appare alla mente qualsiasi altra donna. L’amore non è compatibile con il matrimonio Perciò, avendo attentamente considerato l’affermazione di ciascuno di voi due e ricercato la verità, voglio subito in questo modo comporre la contesa4: con certezza 15 dico che amore non può affermare il suo potere tra due coniugi, perché gli amanti si scambiano gratis5 ogni piacere senza nessun tipo di costrizione, mentre i coniugi sono per legge tenuti a obbedire l’uno alla volontà dell’altro senza potersi rifiutare. E come può accrescersi l’onore della coppia se fanno l’amore come gli amanti, dal momento che non cresce la gentilezza né della moglie né del marito6 e non hanno 20 niente di più di quanto per diritto avevano prima? E dico questo anche per un’altra ragione, perché il precetto d’amore insegna che neppure la moglie del re può meritare la corona d’amore se non è legata alla cavalleria d’amore7 fuori del vincolo matrimoniale, mentre un’altra regola d’amore insegna che nessuno dei due può essere ferito da amore. Giustamente dunque amore non può accampare diritti tra 25 coniugi. Ma un’altra ragione ancora contrasta l’amore tra coniugi, perché non può esserci tra loro vera gelosia senza la quale non c’è vero amore, secondo la regola d’amore che dice: Chi non è geloso non può amare8.
1 il vero... di avidità: il vero amante non è mai avaro, ma diviene generoso e disinteressato. 2 bellezza: dote che è fatta di eleganza, gusto e raffinatezza. 3 umili: miti, cortesi. 4 comporre la contesa: decidere la questione. Chi parla è qui, in una lettera, Maria di Champagne, una delle quattro nobildonne a cui si rivolge nel trattato Gualtiero, un maestro d’amore dietro cui
si cela l’autore. La contesa è una questione relativa all’amore che era stata posta alla contessa. 5 gratis: disinteressatamente e liberamente. 6 non cresce... marito: per meritare l’amata e ottenerne l’amore, l’amante deve sempre migliorare; ma nel matrimonio l’amore è un dovere, perciò nei coniugi non si innesca alcun processo di perfezionamento.
7 se non è... d’amore: la donna, oltre al marito, deve avere un cavaliere innamorato che la serve e la onora; tra gli esempi più famosi nella tradizione cortese si possono citare Lancillotto, amante di Ginevra, moglie di re Artù, e Tristano, amante di Isotta, moglie di re Marco. 8 Chi ... amare: la gelosia è legata all’incertezza se l’amore sia ricambiato; perciò non dovrebbe esistere tra coniugi.
La lirica provenzale 3 131
È necessario tenere segreto l’amore Poiché dunque ho trattato sufficientemente della conquista di amore, giustamente ora devo considerare e aggiungere in che modo si deve conservare l’amore conquistato. Chi desidera tenere vivo a lungo il proprio amore, deve soprattutto fare in modo che l’amore non sia svelato a nessuno oltre i propri confini e resti nascosto a tutti9. Quando l’amore arriva a conoscenza di tutti, subito perde il naturale incentivo e viene a mancare. [...] Ognuno deve lodare poco l’amante tra la gente e non gli conviene parlare di lei troppo a lungo o riparlare, e raramente deve frequentare la sua contrada; anzi, se vede la sua amante in compagnia di altre persone, non deve fare nessun cenno col corpo e deve considerarla come un’estranea, affinché nessuno trami contro il suo amore e trovi il pretesto per parlarne male, perché gli amanti non devono scambiarsi cenni se non sono sicuri d’essere al sicuro da ogni inganno. [...] 9 deve... a tutti: poiché l’amore cortese è adultero, essendo fuori dal matrimonio, non è bene sia rivelato, perché susciterebbe
critiche e pettegolezzi; perciò i poeti usavano chiamare le donne amate con un senhal, cioè con un nome fittizio.
Analisi del testo Gli effetti dell’amore Il primo passo è incentrato sulle trasformazioni positive che l’amore, inteso come amore cortese, attiva in chi lo prova, modificandone in modo sensibile i comportamenti. Il riferimento agli “effetti d’amore” diventerà un vero e proprio topos, in particolare nella lirica stilnovistica, da Guinizzelli a Cavalcanti, allo stesso Dante della Vita nuova, dimostrando così la forte influenza esercitata dal trattato di Cappellano sulla nascente lirica italiana.
Amore e matrimonio Il secondo passo è dedicato a illustrare, attraverso una serrata argomentazione, l’incompatibilità tra amore cortese e legame matrimoniale. Tra chi è vincolato dal patto matrimoniale non può esistere vera passione: essa per sua natura sfugge infatti a ogni obbligo, è inappagata e implica inevitabilmente la gelosia verso chi si ama. La teorizzazione del carattere extramatrimoniale del vero amore costituiva una vera e propria sfida ai valori della cultura clericale.
Celare l’amore Il terzo testo teorizza la necessità della segretezza per gli amanti: una volta svelato ad altri l’amore perde la propria eccezionalità ed espone inoltre gli innamorati alla maldicenza altrui. Anche questo precetto diventa in ambito letterario motivo ricorrente: la necessità di “ben celare” l’amore induce il poeta provenzale a usare uno pseudonimo (senhal) per alludere alla donna amata.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto di ciascun paragrafo. COMPRENSIONE 2. Spiega perché, secondo Andrea Cappellano, il vero amore è incompatibile con il matrimonio.
Interpretare
SCRITTURA 3. La concezione cortese dell’amore ha lasciato qualche traccia ancor oggi, per esempio nell’espressione “fare la corte”. Quali abitudini, gesti, o espressioni riflettono tuttora, a tuo parere, un legame con il modello di comportamento cortese?
132 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Guglielmo d’Aquitania
T9 La poesia dell’antica Provenza, a c. di G.E. Sansone, Guanda, Parma 1984
Con la dolce stagione rinnovata La lirica che proponiamo è la più celebre delle composizioni dell’autore ed è considerata una sorta di manifesto della fin’amor e dei caratteri della lirica occitanica.
Con la dolce stagione rinnovata1 i boschi rinverdiscono e gli uccelli nella sua lingua ognuno va cantando con l’armonia del canto novello2: 5 è giusto allor che ognuno si procuri quello di cui ha brama più grande. Dal luogo in cui è tutto il mio piacere missiva o messaggero non mi viene, sicché non dorme né ride il mio cuore3, 10 e io non oso spingermi più avanti, finché non sappia che la conclusione sarà ben quale vado domandando4. Si porta il nostro amore alla maniera in cui si porta il ramo di biancospino5, 15 che avvinto all’albero tutta la notte tremando resta nella pioggia e al gelo fino al domani quando il sol s’effonde sul ramoscello tra il verde fogliame. Io mi ricordo ancora d’un mattino, quando mettemmo fine al nostro scontro e lei mi dette un dono così grande: l’amore pieno insieme con l’anello6. Iddio mi lasci vivere tanto ch’abbia le mani sotto il suo mantello7! 25 Non mi curo d’estranea diceria che mi separi dal mio Buon Vicino8. 20
La metrica Il testo originale in lingua d’oc è composto di cinque coblas, stanze di versi ottonari con schema AABCBC 1 Con la dolce... rinnovata: allusione alla stagione primaverile. 2 novello: primaverile. 3 Dal luogo... il mio cuore: il poeta si riferisce per estensione alla donna (il mio piacere), dalla quale non gli arriva alcun messaggio (né una lettera né un messaggero), cosicché non riesce ad aver pace né gioia (lett. “il mio cuore non dorme né ride”).
4 quale vado domandando: quella che desidero (cioè che la donna ricambi l’amore). 5 si porta... il ramo di biancospino: il nostro amore si comporta come il ramo (è simile al ramo) del biancospino. La fragilità, l’ansia connessa a un rapporto amoroso non sicuro giustifica il delicato e suggestivo paragone naturale di questa terza stanza. 6 insieme con l’anello: la cessione dell’anello è un gesto connesso al rituale feudale.
7 ch’abbia... mantello: anche questa immagine, senza che si possa escludere un velato richiamo erotico, si spiega innanzitutto attraverso il rimando al cerimoniale simbolico dell’investitura: il signore copriva con il suo mantello il vassallo a simboleggiare la protezione a lui accordata. 8 Non mi curo... Buon Vicino: non bado alle insinuazioni degli altri (estranea diceria) che mi allontanano dal mio Buon Vicino (in conformità con le regole del “ben celare”, il poeta allude alla donna amata attraverso un senhal, cioè uno pseudonimo volutamente criptico).
La lirica provenzale 3 133
Che cosa accade nel parlare so bene che si sparge da breve maldicenza9: che altri dell’amor menino vanto10, 30 ne abbiamo noi la stoffa col coltello11. 9 si sparge... maldicenza: deriva da una (in sé) insignificante (breve) maldicenza. 10 che altri... vanto: altri si vantino (menino vanto) dell’amore (che provano). 11 ne abbiamo... la stoffa col coltello: l’enigmatica espressione «la stoffa col
coltello» potrebbe indicare il possesso completo di qualcosa, oppure ciò che serve (in questo caso, in rapporto all’amore, di cui i maldicenti si limitano a chiacchierare). Altre traduzioni interpretano il termine provenzale pessa con “pezzo di
pane” o “pezzo di terra” pensando a un riferimento ancora una volta feudale. Il significato sostanziale però non cambia (“godiamo di un amore pienamente realizzato”).
Analisi del testo Il topos dell’esordio La lirica si apre con un’immagine naturale: il poeta guarda il rifiorire della natura in primavera e vi associa il rifiorire del suo animo grazie all’amore, la naturale attrazione per ciò che il cuore brama. Questo tipo di incipit, di inizio, è così ricorrente nella poesia occitanica da costituire un topos, cioè un’immagine convenzionale. In un’altra composizione di Guglielmo d’Aquitania si trova ad esempio questa apertura: «Poiché vediamo di nuovo fiorire / prati e rinvenire giardini / illimpidirsi fiumi e sorgenti / aure e venti / ben deve ciascuno gioire della gioia / di cui è gioioso». Il paesaggio evocato corrisponde all’immagine classica del locus amoenus, cioè un paesaggio bello e sereno, che a seconda dei casi può essere posto in un rapporto di somiglianza o di contrasto con lo stato d’animo del poeta.
La struttura e i temi La canzone è divisa in cinque stanze. Prima stanza: è evocata la stagione della primavera, il risveglio della natura come tempo favorevole all’amore. Seconda e terza stanza: l’attenzione si sposta sulla condizione interiore del poeta che manifesta il suo turbamento per il silenzio, l’“assenza” della donna amata ed esprime una condizione psicologica caratterizzata dall’incertezza e dal dubbio, anche se non si esclude la possibilità di una svolta positiva, come dimostra il suggestivo paragone con il ramo del biancospino: tremante in una gelida notte di pioggia, poi è rinvigorito dalla luce e dal calore del sole mattutino. Quarta stanza: è incentrata sul ricordo di un momento felice, in cui la donna aveva stretto un patto con il cavaliere, donandogli come pegno il suo anello: un momento che egli spera possa nuovamente ripetersi. Quinta stanza: è costruita su una rigida, aristocratica distinzione tra il poeta e la donna, da un lato, e le volgari maldicenze che vorrebbero allontanarlo da lei, dall’altro.
Le metafore feudali Nella canzone compaiono diverse immagini ed espressioni metaforiche, riconducibili al mondo feudale. L’amore è assimilato a un rapporto feudale: il poeta si rivolge alla donna come un vassallo al signore, e ha nei suoi confronti un atteggiamento di sottomissione e di timore, al punto che non osa prendere l’iniziativa (v. 10). Feudale è anche il riferimento all’anello (v. 22) che effettivamente il signore donava al vassallo nel corso della cerimonia di investitura. E anche l’immagine delle mani sotto il mantello dell’amata (v. 24), in cui non manca un’allusione erotica, rimanda ancora ai rituali feudali: all’atto dell’investitura il signore copriva con il lembo del suo mantello, in segno di protezione, il vassallo inginocchiato a mani giunte.
L’uso dello pseudonimo I trovatori spesso nascondono il nome della donna amata sotto uno pseudonimo (in questo caso «Buon Vicino», v. 26). L’amore cortese deve essere celato, tenuto nascosto da chi potrebbe nuocere ai due amanti e rovinarne la reputazione con la maldicenza. Bisogna ricordare che il tema della segretezza, del celar, del “ben celare”, teorizzato anche nel trattato di Andrea Cappellano, non è solo un motivo letterario, ma è anche suggerito da un obbligo di riservatezza: la donna è una dama di alto rango, spesso la sposa del signore del castello.
134 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della lirica in un breve testo (max 20 righe). ANALISI 2. Nel testo è presente un senhal: dopo averlo rintracciato, contestualizzane l’impiego in rapporto al contesto. LESSICO 3. Analizza il lessico e rintraccia nel testo i termini che appartengono al campo semantico del “servizio d’amore” (inteso come vassallaggio). Rifletti poi sui risultati della ricerca e scrivi una breve trattazione (max 10 righe). STILE 4. Quale figura retorica è presente ai vv. 13-18? Spiegala con parole tue.
Interpretare
SCRITTURA 5. La donna evocata nella lirica appare come una figura rarefatta, non delineata, distante. Pensi che questa rappresentazione sia casuale oppure possa essere ricondotta alla concezione cortese propria della poesia trobadorica? (max 20 righe). TESTI E TEMI A CONFRONTO 6. Sulla base dell’analisi svolta, delle tue conoscenze e dei documenti iconografici che ti forniamo, sviluppa il tema del rapporto tra l’amante e la donna, espresso attraverso la metafora medievale del vassallaggio inteso come “servizio d’amore” (max 20 righe).
LEGGERE LE EMOZIONI
Jaufre Rudel
T10 La poesia dell’antica Provenza. Testi e storia dei Trovatori, a c. di G. E. Sansone, Guanda, Milano-Napoli 1999
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Allor che i giorni sono lunghi in maggio Proponiamo di seguito il testo di Jaufre Rudel nel quale il motivo topico è la lontananza della donna amata. Notiamo che lontano è la parola chiave, ricorrente in tutto il testo.
I Allor che i giorni sono lunghi in maggio amo d’uccelli il dolce canto, lontano, e quando poi di là io me ne vado mi risovvengo d’un amor lontano. 5 Di desiderio vado curvo e mesto, tanto che canto o fior di biancospino non m’è più grato del gelato inverno1.
1 Di desiderio... inverno: sono vittima infelice del desiderio, così che un canto o il fiore del biancospino non mi piacciono più di quanto mi piaccia l’inverno gelato. 2 perché non so... o lontano: perché non
II Già dell’amore non sarò più lieto se non godrò di questo amor lontano, 10 perché non so più eletta e più gentile in nessun luogo, prossimo o lontano2. Tanto è squisito e vero il pregio suo che fossi là, nel regno saraceno, a causa sua ridotto prigioniero3!
conosco in alcun luogo, vicino (prossimo) o lontano una donna più nobile (eletta) e gentile. 3 Tanto è squisito... prigioniero!: il poeta si augura di divenire schiavo della donna
in un reame lontano, abitato dai saraceni (il riferimento geografico rimane indeterminato), tanto sono preziose le sue qualità (pregio, provenzale pretz, è termine ricorrente nel lessico della poesia occitanica).
La lirica provenzale 3 135
III Felice e triste, mi allontanerò pur di vedere questo amor lontano, ma non so quando la potrò vedere: le nostre terre stan troppo lontano! Son tanti i valichi e tanti i cammini! 20 Ed è per questo che non so predirlo... Ma che sia tutto come piace a Dio!
VI Iddio che fece quel che viene e va assecondando questo amor lontano, mi dia potere, che l’animo6 ne ho, che veda presto questo amor lontano, 40 ma per davvero, in luogo che s’addice7, per cui la camera come il giardino a me appaiano sempre palazzo!
IV Sarò felice quando potrò chiederle, pregando Iddio, l’amor nato lontano; a lei piacendo, prenderò dimora presso di lei, 25 benché sia di lontano. Sarà perfetto il nostro incontro allora quando sarò, lontano amante, vicino4, esultando del nostro bel parlare.
VII Afferma il vero chi mi dice ingordo e pur bramoso dell’amor lontano, 45 ché non c’è gioia a me così gradita come il piacere dell’amor lontano. Ma m’è proibito tutto ciò che voglio, ché mi stregò così il mio padrino da farmi amare non essendo amato8.
15
V Nostro Signor son certo che non mente, 30 per cui vedrò l’amore lontano; ma per un bene che mi può venire due mali n’ho, ché tanto m’è lontano... Ahi! così fossi là da pellegrino sì che il mio saio con il mio bastone5 35 dai suoi begli occhi fosse rimirato!
4 quando sarò... vicino: quando io, che sono stato un amante lontano, sarò vicino a lei. 5 il mio saio con il mio bastone: il bastone e la cappa sono elementi tipici della condizione del pellegrino.
50
VIII Maledizione ne venga al mio padrino che mi stregò perché non fossi amato.
6 l’animo: la volontà. 7 in luogo che s’addice: in un luogo adatto. 8 ché mi stregò... amato: riferimento
conseguenza la condizione di amare senza essere riamati.
enigmatico: il poeta pensa che il suo padrino di battesimo gli abbia gettato addosso una specie di malocchio, che ha come
Analisi del testo Una biografia romanzata e una romantica storia d’amore Nonostante il numero esiguo di testi che ha lasciato, Jaufre Rudel è forse il più celebre dei trovatori: un personaggio mitizzato al punto da aver principalmente alimentato l’immagine stereotipata del trovatore che si diffuse in età romantica. Il successo della sua poesia si deve certo anche all’apparente semplicità e musicalità dei suoi versi, ma è stato soprattutto originato dalla suggestione esercitata dalle notizie biografiche contenute nella vida. Notizie a cui a lungo fu attribuita veridicità e che ci parlano del suo innamoramento, senza averla mai vista, per una dama bellissima, la contessa di Tripoli (gli studiosi del tardo Ottocento, tra cui lo stesso Carducci, cercarono persino di dare alla misteriosa dama un’identità precisa). In realtà «la vida non fa che sviluppare in forma narrativa, prendendolo alla lettera, il motivo dell’amore lontano cripticamente contenuto nelle canzoni del principe» (Di Girolamo).
136 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Riproduciamo la vida di Jaufre per il suo interesse documentario e per la sua piacevole brevità narrativa. Jaufre Rudel di Blaia fu persona assai nobile, principe di Blaia. E si innamorò della contessa di Tripoli, senza averla mai vista, per il bene che ne udì dire dai pellegrini che venivano da Antiochia. E scrisse su di lei parecchie poesie con bella musica e semplici parole. E per il desiderio di vederla si fece crociato prendendo il mare, e sulla nave fu colto da malattia e condotto in un albergo a Tripoli come morto. E lo si fece sapere alla contessa, ed ella si recò da lui, al suo capezzale, e lo strinse fra le braccia. E quando egli seppe che era la contessa, recuperò subito l’udito e il respiro, lodando Iddio per averlo tenuto in vita finché l’avesse vista; e così morì fra le braccia di lei. Ed ella lo fece seppellire con grande onore nella casa del Tempio; e poi, in quello stesso giorno, si fece monaca a causa del dolore che ebbe dalla morte di lui. La poesia dell’antica Provenza. Testi e storia dei Trovatori, a c. di G.E. Sansone, Guanda, Milano-Napoli 1999
Come interpretare il motivo dell’“amore di lontano”? Se è ormai assodato che la vida di Jaufre costituisce un’invenzione a partire dai testi poetici del trovatore, per contro c’è chi ha forse ecceduto nella direzione opposta, dando all’“amore di lontano” di Jaufre Rudel un significato totalmente allegorico: l’“amore di lontano” avrebbe per oggetto la Vergine o addirittura simboleggerebbe la Terrasanta da riconquistare, sottraendola ai musulmani. Altre interpretazioni, forse più vicine alla realtà, fanno della lontananza geografica cui allude la poesia la metafora della distanza incolmabile che separa l’amante dalla donna nella poesia trobadorica, e in particolare nelle liriche di Jaufre, in cui il motivo ha una ricorrenza quasi ossessiva. La lontananza, l’assenza, l’impossibilità («Ma m’è proibito tutto ciò che voglio») è condizione imprescindibile nella poesia dei trovatori, che danno sfogo al loro desiderio amoroso quasi sempre in uno spazio onirico, nella fantasticheria più che nella realtà. Ma proprio la irrealizzabilità del desiderio amoroso, la sua costante frustrazione fa dell’esperienza amorosa un esercizio di affinamento delle qualità interiori.
Lo stile La ripetizione insistita dei termini “amore” e soprattutto “lontano” conferisce alla lirica un ritmo musicale. L’andamento piano della sintassi, il lessico semplice, lontano da ogni complicazione intellettualistica, fanno della lirica un esempio del poetare leggero (trobar leu).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Come spesso capita nella lirica trobadorica, ogni strofa costituisce una variazione sul tema: rintraccia tale caratteristica strofa per strofa e sintetizzala con un breve titolo. LESSICO 2. Rintraccia nel testo le occorrenze e le varianti (avverbi, aggettivi, preposizioni ecc.) della parola chiave lontano. STILE 3. Nella lirica si alternano riferimenti al presente e quelli al futuro con i relativi tempi verbali: rintracciali e spiega quali connotazioni vi si associano.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA 4. In mezza pagina di foglio protocollo presenta la lirica evidenziandone il significato complessivo, la tematica principale e lo stile. 5. Nella lirica il poeta afferma: «Ma m’è proibito tutto ciò che voglio, ché mi stregò così il mio padrino da farmi amare non essendo amato». Ti è mai capitato di vivere direttamente o attraverso la vicinanza a un tuo amico l’esperienza raccontata dal poeta ovvero di amare senza essere riamato? Quali sensazioni hai provato?
La lirica provenzale 3 137
VERSO IL NOVECENTO
Echi trobadorici nella poesia novecentesca
Ezra Pound Alba E. Pound, I Cantos, a c. di M. de Rachewiltz, Mondadori, Milano 1985
Il poeta americano Ezra Pound (1885-1972), che è stato definito, per i suoi Cantos, «il Dante dei tempi moderni» fu, come il suo discepolo Thomas Eliot (1888-1965), un grande ammiratore della cultura e della letteratura europee, soprattutto dei primi secoli. Nell’idea che «la tradizione è una bellezza che noi conserviamo e non una serie di catene che ci legano», Pound studiò appassionatamente e tradusse la poesia provenzale e stilnovistica, la cui frequentazione lascia tracce evidenti in molte sue poesie. Alla tradizione lirica, dai provenzali a Petrarca, dedicò anche un saggio critico: Lo spirito romanzo (1910) e lavorò all’adattamento musicale di poesie trobadoriche, tentando di ricostruire l’originaria fusione tra poesia e musica che le caratterizzava. Il breve testo che presentiamo (del 1919) è quasi una scrittura “alla maniera di”: imita infatti in modo diretto il genere provenzale dell’aube, ovvero “alba”, una tipologia testuale ricorrente nella poesia trobadorica, nella quale è rappresentata la condizione di due amanti che, dopo aver trascorso la notte insieme, sono costretti a separarsi al sopraggiungere dell’alba.
Alba Alba When the nightingale to his mate Quando l’usignolo canta Sings day-long and night late alla sua compagna, My love and I keep state notte e dì, In bower, sto col mio amore In flower, sotto la pergola Till the watchman on the tower in fiore, Cry: finché la scolta1 sulla torre «Up! Thou rascal, Rise, grida: I see the white «Su, furfante, via! Light Vedo l’alba, la notte And the night fugge via». Flies». 1 la scolta: la sentinella.
F.E.Church, Sunrise, 1847 (Olana State Historic site)
138 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Giovanni Giudici Raggio che da fessura G. Giudici, Salutz, in Poesie, vol. II, Garzanti, Milano 1991
Con Salutz, la raccolta da cui è tratto il testo proposto, il poeta contemporaneo Giovanni Giudici (1924-2011) costruisce una sorta di mini-canzoniere composto di settanta liriche. La raccolta ha il suo elemento unificante nell’analisi del tema amoroso, esplorato da Giudici, per sua esplicita dichiarazione, attraverso una rivisitazione della lirica provenzale e dei motivi topici dell’amore cortese (ma anche dei miti femminili dello stilnovo). Nelle poesie di Salutz Giudici usa il repertorio “situazionale”, figurativo e lessicale proprio della tradizione cortese: come un cantore medievale l’io lirico si assoggetta alla donna nel “servizio d’amore”; la donna amata è evocata con l’appellativo trobadorico midons, “mio signore”, cui è associato spessissimo il termine minne “amore”, usato dai Minnesänger tedeschi. Ma l’occhio ironico del poeta moderno sottopone a smorzamenti dissacranti le immagini trobadoriche, definendo ad esempio il poeta che si scalda al fuoco d’amore che lo fa morire un bel ghiacciolo, o il vassallo d’amore nient’altro che uno zimbello della donna (II, 2). Come per i trovatori (ma anche gli stilnovisti) la donna in Salutz è lontana, astratta e perfetta nella sua inattingibilità, ma al contempo una serie di metafore ne ribadisce il ruolo centrale nella vita del poeta: zattera, maris stella (attributo della Vergine Maria) che guida in un mare buio, giroscopio assoluto. Gli effetti del suo potere sono contradditori: gli occhi di lei, in cui tradizionalmente risiede il potere fascinatore, possono trasformare chi ama in angelo o rospo (ironica evocazione di una nota favola?).
Raggio che da fessura spira nella stanza oscura nei trepidi colori ma capovolto a nude mura 5 specchia il vario mondo fuori1 io attraverso voi, Midons2, viaggio a verità per stella d’impostura3 a voi mi capovolgo in vostro omaggio – reo quanto più fedele 10 matto quanto più saggio: così siete il dolcissimo mio fiele4 la volatile chiave del passaggio un’altra un’altra ancora diventate voi che di me il contrario di me fate5
1 Raggio... fuori: il raggio di sole che da
3 a verità... impostura: l’amore per la
una fessura penetra nella stanza buia (la illumina) con la sua luce tremolante ma rispecchia capovolto sulle nude mura la varietà del mondo esterno. 2 Midons: è il termine con cui nella poesia provenzale veniva indicata la castellana, “signora” del poeta e oggetto del suo amore.
donna diventa un viaggio verso la verità ma guidato da una «stella d’impostura», cioè di tutte le falsità che contraddistinguono il sentimento amoroso. 4 così... fiele: forte ossimoro. La donna suscita sentimenti opposti, è fonte di dolcezza ma anche di odio e rancore.
5 la volatile... fate: le immagini riferite all’amata suggeriscono la natura continuamente metamorfica e sfuggente della donna, che ha sull’“io” lirico il potere di trasformarlo in un essere diverso, il contrario dalla sua natura, presumibilmente non migliore.
La lirica provenzale 3 139
2 Le trobairitz: le trovatrici occitaniche La lirica delle donne Il corpus dei poemi provenzali scritti da donne si attesta intorno a poco più di venti testi tra canzoni e testi dialogici – anche se sul numero vi è ancora incertezza – e copre un arco di più di un secolo. Tutti i critici sono d’accordo sul fatto che le trovatrici hanno cantato sentimenti veri, i loro testi ci mettono di fronte a una “poesia vissuta”, non si può non ammirare la semplicità e la naturalezza dei loro versi. Il tratto più importante è sicuramente la sensualità e l’abbandono al desiderio, ovvero la autenticità emotiva di una donna che dà candidamente voce ai propri desideri (Dronke). Oltre questi elementi c’è un altro filo rosso che caratterizza queste produzioni poetiche: l’inversione dei ruoli che fa di una donna adorata, oggetto dell’amore di un uomo, una adoratrice perché soggetto del canto d’amore. Preso atto di questi elementi, essi non possono però condurci a pensare al corpus delle trovatrici come a un insieme omogeneo, il nostro compito è quello di ricostruire un territorio complesso solo in apparenza uniforme. L’amore L’amore di cui le trovatrici cantano non è un astratto principio ideale, non è un’entità personificata, ma un valore relazionale che vincola due individui, è sempre l’amore di qualcuno per qualcun altro. Le storie d’amore che percorrono i loro testi sono storie interrotte per allontanamento o tradimento. L’uomo, dotato di tutte le virtù sociali, risulta manchevole dal punto di vista amoroso, mentre la donna possiede sia le virtù cortesi sia la capacità di amare. Aspetti metrici e formali Nelle loro liriche le trovatrici utilizzano il trobar léu, scrivono testi la cui comprensione è abbastanza immediata, con un linguaggio semplice, privo di artifici retorici. Le poetesse I testi più interessanti appaiono quelli della Contessa di Dia, di Azalais de Porcairagues e di Castelloza. La poetessa Azalais de Porcairagues è la più antica fra le poetesse di Provenza attiva sul finire del XII secolo. Nella sua breve biografia (Vida) si dice che proveniva dal territorio di Montpellier, era donna raffinata e colta e che sapeva comporre canzoni. Si può supporre che fosse di nobile famiglia, ma oltre non è possibile andare. Azalais fu attiva nel periodo classico, in cui la lirica trobadorica arriva al culmine della sua popolarità e diffusione. Di lei ci è stato tramandato un unico testo di 52 versi Ar em al freg temps vengut (Or siamo giunti al tempo freddo). online T11 Contessa di Dia Mi appago di gioia e giovinezza
Fissare i concetti La lirica provenzale 1. 2. 3. 4. 5.
Perché la lirica provenzale può essere definita una poesia “d’autore”? Qual è il tema principale della lirica provenzale e quali caratteristiche presenta? In che senso la lirica provenzale ha influenzato la produzione poetica successiva? Quando e come terminò la lirica provenzale? Quali caratteristiche presenta l'amore cantato dalle trobairitz?
140 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Azalais de Porcairagues
T12 La poesia dell’antica Provenza. Testi e storia dei Trovatori. Volume primo, a c. di Giuseppe E. Sansone, Guanda, Milano 1984.
Or siam giunti al tempo freddo La canzone è stata scritta nel 1171, eccezione fatta per la sesta strofa composta dopo il 1173 ovvero dopo la morte di Raimbaut d’Aurenga, nobile trovatore cui è diretto il componimento.
Or siamo giunti al tempo freddo, alla neve, al fango, al gelo, e stanno muti gli uccellini, ché uno non si volge al canto; 5 sulle siepi sono secchi i rami, ché foglia o fiore non vi spunta e non gorgheggia l’usignolo, che là nel maggio mi risveglia.
Bell’amico, con il mio piacere son con voi in pegno per sempre 35 col mio aspetto bello e cortese, sol che onta non mi chiediate. Alla prova presto verremo, ché mi darò alla vostra mercé: voi m’avete fede giurato 40 di non richiedermi peccato.
Ho sì tanto il cuore deluso da restare estranea a tutti e ben so che l’uomo ha perduto di più di quello che guadagna. Se il vero dicendo mi sbaglio, il timore mi venne da Orange, 15 per cui sorpresa ne rimango e lo svago smarrisco in parte.
Bellosguardo affido a Dio e così la città d’Orange, il castello e la Glorietta, il signore di Provenza 45 e chi là vuole il mio bene, l’arco dove sono le gesta4. Persi chi ha la vita mia e ne sarò smarrita per sempre.
Dà la donna male l’amore se alterca con chi è potente, con più nobile di valvassore, 20 ché è da folle agire così1. Si dice perciò nel Velay che con ricchezza amor non va2 e la donna che n’è attirata io considero disonorata.
Giullare dal lieto cuore, 50 il mio canto con la chiusa portate a lei, verso Narbona, che guidan gioia e gioventù5.
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Ho amico di merito grande che predomina sopra chiunque e non m’è di cuore mendace, perché mi dà il proprio amore. Che gli do l’amor mio sostengo, 30 e che Dio porti mal sorte a chi dice ch’io non lo faccio, per cui mi tengo bene a salvo3. 25
La metrica Sei coblas doblas di otto versi ciascuna e una strofetta conclusiva di quattro versi.
1 ché è da folle agire così: è il senso del testo originale e s’il o fai, il folleia, letteralmente “se ella lo fa, ella folleggia”.
2 Si dice… non va: il fatto che l’amore non si coniughi con la ricchezza è un concetto ricorrente nei trovatori. 3 a chi dice… salvo: la poetessa si ritiene immune dalle maldicenze di chi sostiene che non ama il suo uomo.
4 l’arco dove sono le gesta: da identificare con l’arco romano di Orange, che presenta bassorilievi con imprese belliche. 5 Giullare… gioventù: nel congedo (tornada) la poetessa si riferisce a una dama di Narbona, identificata con Ermengarda, viscontessa di Narbona.
La lirica provenzale 3 141
Analisi del testo L’esordio Solitamente le poetesse nei loro testi non utilizzano la tecnica dell’esordio, ma entrano senza mediazioni nel vivo della poesia. L’unica eccezione è Azalais che inizia descrivendo la stagione invernale, tecnica molto cara al trovatore Raimbaut d’Aurenga con cui la poetessa ha intrattenuto una relazione poetica. La poesia infatti inizia con la descrizione dell’inverno: neve, fango e gelo, rami secchi, il silenzio degli uccelli, nessuna foglia, nessun fiore, premonizione di una situazione sentimentale dolorosa e sofferente.
La terza strofa Nella terza strofa la poetessa esprime il suo parere in merito a una questione molto importante nel mondo cortese del XII secolo ovvero se sia meglio per una donna innamorarsi di un uomo ricco e potente o di un uomo pregevole. Azalais non ha dubbi: l’amore non si sposa con la ricchezza e la donna che ne è attirata viene vista dalla poetessa come disonorata (envilanida).
La prova amorosa Nella quinta strofa la poetessa probabilmente allude alla prova amorosa (assai) ovvero giacere nudi insieme all’amato senza consumare l’unione; consisterebbe nella prova che le dame richiederebbero agli amanti per saggiare l’amore del loro amico, saggiarne l’autenticità, capire quindi il livello di cortesia da loro raggiunto. La poetessa chiede dunque al suo amante di non superare un limite oltre il quale commetterebbe un errore (faillida).
La sesta strofa Secondo Sakari questa strofa non era presente nella versione primitiva della trovatrice, ma è stata aggiunta in seguito alla morte di Raimbaut d’Aurenga (10 maggio 1173). I luoghi citati sono il castello di Belesgar vicino a dove visse e morì Raimbaut; Glorietta è l’antico palazzo dei principi d’Orange. I rapporti tra i due poeti sono certi anche per le analogie tra questo testo e il componimento Non chant per auzel ni per flor di Raimbaut sia dal punto di vista metrico sia per l’incipit in cui il poeta descrive una natura invernale.
Azalais de Porcairagues raffigurata in una miniatura di un codice che riporta il testo della sua canzone, conservato alla Bibliothèque nationale de France (Parigi).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della quarta e della quinta strofa. ANALISI 2. In che modo viene descritto l’inverno dalla poetessa nella prima strofa? LESSICO 3. Analizza il lessico presente nella strofetta conclusiva. A quale campo semantico rimanda?
Interpretare
LETTERATURA E NOI 4. Nella terza strofa si afferma che l’amore non si coniuga con la ricchezza e si considera come folle la donna che fa convivere amore e ricchezza. Il messaggio che la poetessa vuole inviare è che non bisogna scegliere i propri amanti in base a ricchezza e potere. Tu che cosa pensi in merito? La società di oggi è caratterizzata dallo stesso pensiero espresso nel testo?
142 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Morte eroica di Orlando paladino Chanson de Roland CLXX-CLXXV Chanson de Roland, in A. Roncaglia, Poesia dell’età cortese, SansoniAccademia, MilanoFirenze 1961
Nella Chanson de Roland la morte di Orlando non è solo la conclusione della vicenda terrena del paladino, ma il momento fondamentale della sua esistenza, quello su cui si costruisce la sua leggenda, grazie al quale Orlando diventa un mito letterario: l’eroe trova nella morte la rivelazione del suo destino immortale, diventa eterno; è grazie alla morte eroica e santa, in cui si ricapitolano fedeltà feudale al suo signore, devozione alla “dolce Francia” e fede cristiana che Orlando sarà ricordato e cantato presso i posteri.
CLXX Sente Rolando che la vista ha perduto. 40 Si leva in piedi; quanto più può si sforza. In viso ha perduto il colore. Davanti a lui c’è una pietra bruna: dieci colpi v’assesta con dolore e furore. Stride l’acciaio; non si spezza né s’intacca1. 45 «Ah!» disse il conte, «Santa Maria, aiuto! Oh, Durindarda, sì buona e sì in mal punto2! Ora ch’io perdo la vita, di voi più non posso aver cura. Tante battaglie con voi ho vinto in campo, e tante vaste terre sottomesse, 50 cui Carlo regge, che la barba ha canuta3! Non v’ottenga uomo che innanzi ad altro fugga! Un valoroso, invero, v’ha lungo tempo tenuta; Mai vi sarà l’eguale in Francia, la terra benedetta». CLXXI Rolando percosse sulla roccia di sardagna4: 55 stride l’acciaio, non si spezza né s’intacca. Quand’egli vide che non può spezzarla, con se medesimo comincia a piangerla: «Oh, Durindarda, come sei chiara e tersa! Sì riluci e fiammeggi contro al sole! 60 Carlo si stava nelle valli di Moriana quando Dio dal cielo gli comandò per mezzo del suo angelo che ti desse a un conte capitano.
1 dieci colpi... s’intacca: Orlando tenta di spezzare la sua spada per impedire che dopo la sua morte cada in mano ai nemici. 2 Oh, Durindarda... in mal punto: Orlando si rivolge alla sua spada,
simbolo della sua dignità di cavaliere, che si trova ora in estremo pericolo («in mal punto»). 3 che la barba ha canuta: la ricorrenza di epiteti (in un altro caso si dice «che la barba ha fiorita») è
caratteristica dello stile formulare (costituito da ripetizioni, patronimici, topoi), che contribuisce a dare solennità al narrare epico. 4 sardagna: pietra dura di colore rossiccio.
La lirica provenzale 3 143
Allora me la cinse il nobile re, il grande. Io con essa gli conquistai e Angiò e Bretagna, 65 e con essa gli conquistai e Poitou e il Maine; io con essa gli conquistai la franca Normandia, e con essa gli conquistai Provenza ed Aquitania, e Lombardia e tutta quanta Romagna; io con essa gli conquistai Baviera e tutta Fiandra, 70 e Bulgaria, e tutta quanta Puglia; Costantinopoli, di cui ebbe l’omaggio, e in Sassonia fa ciò che vuole; io con essa gli conquistai e Scozia e Irlanda e Inghilterra, ch’egli teneva come dominio privato5; 75 e con essa ho conquistato paesi e terre tante, cui6 Carlo regge, che ha la barba bianca. Per questa spada ho dolore e tristezza. Piuttosto voglio morire, che tra i pagani essa rimanga. Dio padre, non lasciare che Francia ne abbia scorno7!». CLXXII Rolando percosse su una roccia grigia, più ne dispicca ch’io non vi so dire8; la spada stride, non si rompe né si spezza: verso il cielo su è rimbalzata. Quando vede il conte che non riuscirà a spezzarla, 85 molto dolcemente la pianse con se medesimo: «Oh, Durindarda, come sei bella e santa! Nell’aureo pomo assai v’hanno reliquie9: un dente di San Pietro e del sangue di San Basilio, e dei capelli di monsignor San Dionigi, 90 un lembo v’ha della veste di Santa Maria: non è giusto che pagani t’abbiano in balìa: da cristiani dovete essere servita. Non vi possegga uomo che commetta codardia! Vastissime terre con voi ho conquistato, 95 cui Carlo regge, che la barba ha fiorita: l’imperatore n’è grande e potente». 80
5 io con essa... privato: le conquiste elencate da Orlando hanno tratti iperbolici e favolosi: riguardano infatti anche terre che non appartenevano all’impero carolingio. 6 cui: che.
7 non lasciare... scorno: non permettere che la Francia sia umiliata. 8 più ne dispicca... dire: spezza la roccia più di quanto io possa raccontare.
144 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
9 Nell’aureo... reliquie: l’enumerazione delle preziose reliquie contenute nel pomo della spada di Orlando la rendono un oggetto sacro, che sarebbe sacrilegio profanare.
CLXXIII Sente Rolando che la morte lo sopraffà, giù dalla testa sul cuore gli discende. Sotto un pino è andato di corsa, 100 sull’erba verde là s’è disteso prono, sotto di sé mette la sua spada e l’olifante10, girò la testa verso la gente pagana: per ciò l’ha fatto, perché egli vuole in verità che Carlo dica e tutta la sua gente, 105 il nobile conte, ch’egli morì vincitore11. Ripete il mea culpa spesso e sovente, per i suoi peccati a Dio offrì il guanto12. CLXXIV Sente Rolando che la sua vita è alla fine. Volto alla Spagna, sta su un’erta cima. 110 Con l’una mano il suo petto ha battuto: «Dio, mea culpa, dinanzi alla tua potenza, dei miei peccati, dei grandi e dei piccoli, che ho commesso dall’ora in cui nacqui, fino a questo giorno, che qui son colto!». 115 Il guanto destro ha teso verso Dio. Angeli del cielo là discendono a lui. CLXXV Il conte Rolando giaceva sotto un pino, verso la Spagna ha rivolto il viso. Di molte cose il sovvenire13 l’assale, 120 di tante terre, quante il valoroso conquistò, della dolce Francia, degli uomini di sua schiatta14, di Carlomagno, il suo signore, che lo allevò; non può tenersi che non15 ne pianga e sospiri. Ma se medesimo non volle dimenticare: 125 ripete il mea culpa, prega da Dio misericordia: «Verace Padre, che mai non mentisti, san Lazzaro da morte risuscitasti e Daniele dai leoni scampasti, scampa l’anima mia da ogni periglio
10 l’olifante: il corno. 11 morì vincitore: ovvero in terra nemica e con il volto rivolto al nemico. 12 per i suoi peccati… il guanto:
l’offerta del guanto appartiene al codice simbolico feudale; il gesto di Orlando indica il riconoscimento del potere divino e la completa sottomissione; così ai vv. 115 e 131.
13 il sovvenire: il ricordo. 14 schiatta: stirpe. 15 non può tenersi che non: non può trattenersi da.
La lirica provenzale 3 145
per i peccati che in vita mia commisi!». Il guanto destro a Dio per essi offrì: san Gabriele di sua mano l’ha preso. Sopra il braccio ha reclinato il capo: giunte le mani è arrivato alla fine. 135 Dio gl’inviò il suo angelo cherubino e san Michele del Mare del Periglio16; insieme ad essi san Gabriele vi scese: l’anima del conte portano in Paradiso. 130
16 san Michele… Periglio: l’arcangelo guerriero, protettore dei combattenti per la fede, qui è nominato soccorritore dei naviganti a rischio di naufragi.
Comprensione e analisi
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte alle domande proposte. 1. Suddividi l’episodio in sequenze e fai la sintesi di ciascuna sequenza. 2. La Chanson de Roland, in particolare nell’episodio della morte di Orlando, è il primo testo che celebra le gesta del paladino e fa di lui un archetipo dell’eroe epico, un mito umano dell’immaginario occidentale: quali elementi ne caratterizzano la figura? Individuali nel testo. 3. Quale significato riveste il dialogo struggente e commosso di Orlando in punto di morte con la propria spada? Quali esperienze e valori Orlando associa alla propria spada? 4. L’epica carolingia è un’epica connotata da valori cristiani oltre che guerreschi. Individua i punti del testo che riguardano la sfera religiosa. 5. La struttura sintattica predilige la paratassi o l’ipotassi? Quali effetti comporta la scelta dell’autore in rapporto alla trasmissione orale che era tipica delle chansons de geste?
Interpretazione
Quale interpretazione della guerra emerge dall’analisi di questo testo?
146 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Duecento e Trecento La letteratura cortese nella Francia feudale
Sintesi con audiolettura
1 L’epica cristiana e le chansons de geste
La narrativa epico-cavalleresca in Francia, specchio della società In seguito alla disgregazione dell’Impero carolingio, a partire dal IX secolo si afferma il sistema feudale. È appunto nelle corti feudali, a cominciare dalla Francia, che si sviluppa la letteratura cortese nelle due lingue romanze d’oc (la lirica trobadorica) e d’oïl (l’epica cristiana e il romanzo cortese-cavalleresco). Le chansons de geste Intorno alla figura del cavaliere in Francia si sviluppa dapprima l’epica cristiana delle chansons de geste, destinate a essere recitate dai giullari. Composte tra l’XI e il XII secolo, le chansons sono poemi epici che celebrano le imprese di nobili famiglie e dei re di Francia: il ciclo più celebre è quello carolingio, incentrato sulle imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini. La più famosa chanson è la Chanson de Roland, un poema di 4000 versi che trasfigura in forma epica un episodio particolare: lo sterminio della retroguardia dell’esercito di Carlo Magno, avvenuto nel 778 a Roncisvalle a opera di predoni baschi. Lo spirito di crociata, l’ideologia della “guerra santa”, inducono l’autore a trasformare la battaglia in uno scontro epico di “civiltà”. Nella lotta tra forze della cristianità e “infedeli” (i saraceni) emerge il paladino Orlando, che muore eroicamente, diventando il prototipo del cavaliere cristiano che sacrifica la vita per difendere insieme la sua nazione e la fede.
2 Il romanzo cortese-cavalleresco
Il romanzo cortese-cavalleresco In lingua d’oïl sono composti anche i romanzi cavallereschi, concepiti per essere letti negli ambienti raffinati delle corti feudali. I romanzi più noti, appartenenti alla cosiddetta materia bretone, sono ispirati alla leggendaria figura di re Artù e alle avventure dei cavalieri della Tavola rotonda. Il più importante autore di romanzi arturiani è Chrétien de Troyes (Erec et Enide, Lancelot, Ivano, Cligés, Perceval). I romanzi cavallereschi sono incentrati sulla esaltazione delle virtù
Sintesi
Duecento e Trecento 147
cortesi del cavaliere (coraggio, lealtà, magnanimità). Sono virtù che il cavaliere conquista in un processo di perfezionamento attraverso l’avventura, la “ricerca” (quête), in un cammino costellato di prove e difficoltà, all’interno di scenari come foreste e castelli, in cui spesso intervengono elementi magici e fantastici. Fondamentale, oltre a quello dell’avventura, e spesso intrecciato a esso, è il tema dell’amore cortese (la fin’amor): è un amore concepito come strumento di perfezionamento, dedizione assoluta, indipendente e anzi alternativo all’unione coniugale. Celeberrimi gli amori di Lancillotto e Ginevra e di Tristano e Isotta.
3 La lirica provenzale
La poesia trobadorica Tra il XII e l’inizio del XIII secolo, nel Sud della Francia, si sviluppa la prima forma della lirica romanza: la lirica occitanica (dalla lingua d’oc in cui si espresse) o trobadorica. Autori e spesso esecutori dei testi, che erano musicati e cantati (il termine canzone allude appunto al canto), sono i trovatori, poeti di estrazione sociale diversa, che con le loro composizioni comunque si rivolgono al pubblico colto e raffinato delle corti feudali. Dalle composizioni trobadoriche traspare l’ottica feudale, in particolare il rapporto di vassallaggio: tema principale di esse (anche se non mancano composizioni sulla guerra o a soggetto politico-morale) è infatti l’amore cortese, in cui l’innamorato si pone in una condizione di “servizio” nei confronti della donna, che è sempre vista come superiore, oggetto di venerazione e di desiderio inappagato. L’esperienza trobadorica si esaurisce bruscamente all’inizio del XIII secolo in seguito a un grave evento: la crociata contro l’eresia catara promossa dalla Chiesa investe le corti feudali di Provenza e determina la diaspora dei trovatori.
Zona Competenze Esposizione orale
1 Prepara la scaletta di un intervento orale di circa 5 minuti sul confronto tra le chansons de geste e i romanzi cavallereschi.
Scrittura creativa
2. Scrivi il dialogo immaginario fra un paladino di Carlo Magno e un cavaliere di re Artù, in cui ciascuno dei due interlocutori sostiene la superiorità dei propri valori e codici di comportamento.
Passato presente
3. Discussione in classe La concezione cortese dell’amore ha lasciato qualche traccia ancor oggi, per esempio, nell’espressione “fare la corte”. Quali abitudini, gesti, termini di oggi secondo te riflettono un legame con il modello di comportamento cortese? Dopo aver risposto, confrontati in classe con il docente e con i compagni.
148 Duecento e Trecento La letteratura cortesenella Francia feudale
Duecento e trecento CAPITOLO
2 La letteratura religiosa nell'età comunale
Nel Medioevo le prime testimonianze letterarie sono spesso concepite per promuovere nei cristiani atteggiamenti di vita virtuosi, come ad esempio il racconto delle vite esemplari dei santi o la narrazione dei viaggi ultraterreni, volti a rivelare a fini d’insegnamento morale il destino che attende le anime nell’aldilà. Nella letteratura propriamente religiosa si iscrive uno dei testi più celebri dell’intera letteratura italiana: il Cantico di frate Sole, in cui Francesco d’Assisi rivolge al creato un poetico inno d’amore, ispirato a una visione mistica. La fondazione dell’ordine francescano da parte di Francesco si colloca nell’area del dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa, che aveva smarrito gli ideali evangelici. Un dissenso che si acuisce con la figura di Jacopone da Todi, autore di laude ispirate a una visione intransigente della fede.
dissenso nei confronti 1 Ildella mondanizzazione della chiesa
produzione 2 Ladidattico-edificante 149
1
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 Una letteratura critica verso la Chiesa
Nel XIII secolo emerge in Italia, in particolare nella zona umbra, una produzione letteraria, che ha al centro il tema religioso. Molto spesso gli autori si fanno portavoLessico ordini ce di una posizione di dissenso nei confronti dell’istituzione ecclesiastica, accusata mendicanti di essersi allontanata dagli ideali della povertà evangelica. Ideali che intendono Sono gli ordini religiosi sorti riproporre i vari movimenti pauperistici (dal lat. pauper, “povero”), che polemizzano all’interno della contro una Chiesa sempre più compromessa con il potere. Chiesa tra il XII e il XIII secolo la cui È in questo ambito che nasce il movimento francescano fondato da Francesco regola imponeva un voto di povertà d’Assisi (1188-1226). A differenza però dei patarini o dei valdesi, condannati dalla sia individuale sia Chiesa come eretici, il movimento francescano viene riconosciuto ufficialmente collettivo. I frati si sostenevano con dal papa, come anche l’altro ordine mendicante dei domenicani fondato da Dole elemosine e il menico di Guzmán (1170-1221). lavoro. La polemica contro la corruzione della Chiesa si accentua dopo la morte di san Francesco: lo stesso Jacopone da Todi (1236-1306 ca), non esita ad attaccare duramente il pontefice stesso (➜ T2b OL). Vicino alle posizioni del dissenso è anche Dante, che in moltissimi passi della Commedia introduce aspre critiche contro le online colpe della Chiesa di Roma (➜ T2a OL). T1 Un eretico condotto al rogo Alcune frange del movimento francescano (come i seguaci risponde alla folla Il supplizio di fra Michele minorita di fra’ Dolcino e i “fraticelli”) sono condannate come eretiche, ma ogni forma di religiosità estremistica viene comunque online perseguitata dalla Chiesa, come accade persino a un famoso Contro la corruzione della Chiesa teologo dissidente, il francescano Ubertino da Casale, autore T2a Dante Invettiva contro l’avidità dei papi del trattato mistico Arbor vitae crucifixae Jesu (L’albero della Inferno XIX, 100-117 vita crocifissa di Gesù). Ispirandosi alla visione profetica di T2b Jacopone da Todi Gioacchino da Fiore (1130-1202), egli suddivide la storia della O papa Bonifazio, vv. 1-54 Chiesa in vari stadi. Nell’ultimo, considerato imminente, la spiritualità evangelica sarebbe stata riportata nel mondo.
Movimenti ereticali e pauperistici
movimenti ereticali
• opposizione alla secolarizzazione della vita ecclesiastica • devianza teologica
Il dissenso verso la Chiesa
movimenti pauperistici
150 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
• recupero della povertà evangelica • critica alla mondanità
Parola chiave
misticismo e ascetismo Il misticismo è una componente fondamentale della religiosità e della cultura medievale che si contrappone al filone razionalistico del pensiero filosofico-teologico: il maggior rappresentante del misticismo in ambito filosofico è il francescano Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274). Per il mistico la verità, che coincide con la conquista di Dio, si può raggiungere non con gli strumenti della ragione, ma solo attraverso uno slancio dell’anima. L’adesione al misticismo si lega alla valorizzazione dell’ideale ascetico. L’ascetismo è una scelta di vita che mira a realizzare l’ascesa a Dio attraverso il distacco dal mondo e pratiche come la mortificazione del corpo o il digiuno.
VERSO IL NOVECENTO
F. de Zurbarán, San Bonaventura in preghiera, 1629 (Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister).
Umberto Eco Il nome della rosa Frate Guglielmo incontra il mistico dissidente Ubertino da Casale Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980
Nel best seller Il nome della rosa (1980) Umberto Eco (1932-2016), profondo conoscitore della cultura medievale, ricostruisce il clima storico-culturale e alcuni tra i principali temi che animarono il dibattito ideologico del Medioevo, attraverso la finzione narrativa che vede il francescano Guglielmo di Baskerville e il suo giovane discepolo Adso (la voce narrante del romanzo) indagare sui misteri di un’abbazia nella quale avvengono strani delitti. Nel romanzo si affiancano personaggi immaginari, come gli stessi Guglielmo e Adso, e personaggi storici, seppur reinterpretati in chiave romanzesca: è il caso di Ubertino da Casale, mistico e teologo francescano, che fu uno dei protagonisti del dissenso che investì la Chiesa nel corso del Duecento e nei primi anni del Trecento. Nella scena proposta Eco immagina che i due protagonisti del romanzo incontrino Ubertino in preghiera.
Ai piedi della Vergine, in preghiera, quasi prostrato, stava un uomo, vestito con gli abiti dell’ordine cluniacense1. Ci appressammo. L’uomo, udendo il rumore dei nostri passi, alzò il volto. Era un vegliardo, col volto glabro2, il cranio senza capelli, i grandi occhi celesti, una bocca 5 sottile e rossa, la pelle candida, il teschio ossuto a cui la pelle aderiva come fosse una mummia conservata nel latte. Le mani erano bianche, dalle dita lunghe e sottili. Sembrava una fanciulla avvizzita da una morte precoce. Posò su di noi uno sguardo dapprima smarrito, come lo avessimo disturbato in una visione estatica, poi il volto gli si illuminò di gioia. 10 “Guglielmo!” esclamò. “Fratello mio carissimo!” Si alzò a fatica e si fece incontro al mio maestro, abbracciandolo e baciandolo sulla bocca. “Guglielmo!” ripeté, e 1 cluniacense: qui vale “benedettino”; l’ordine cluniacense, basato sulla regola di san Benedetto, fu fondato a Cluny, in Borgogna. Ubertino fu accolto nell’ordine
benedettino quando, per sfuggire alle persecuzioni, dovette abbandonare i francescani spirituali. 2 glabro: liscio, senza peli e privo di barba.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 151
VERSO IL NOVECENTO
gli occhi gli si inumidirono di pianto. “Quanto tempo! Ma ti riconosco ancora! Quanto tempo, quante vicende! Quante prove che il Signore ci ha imposto!” Pianse. Guglielmo gli rese l’abbraccio, evidentemente commosso. Ci trovavamo davanti a 15 Ubertino da Casale. Di lui avevo già sentito parlare e a lungo, anche prima di venire in Italia3, e ancor più frequentando i francescani della corte imperiale. Qualcuno mi aveva persino detto che il più grande poeta di quei tempi, Dante Alighieri da Firenze, morto da pochi anni, aveva composto un poema (che io non potei leggere perché era scritto 20 nel volgare toscano) a cui avevano posto mano e cielo e terra4, e di cui molti versi altro non erano che una parafrasi di brani scritti da Ubertino nel suo Arbor vitae crucifixae5. […] “O Signore, in quali mani è caduta la tua chiesa!” Volse il capo verso l’altare. “Trasformata in meretrice, ammollita nel lusso, si av25 voltola nella lussuria come una serpe in calore! Dalla purezza nuda della stalla di Bethlehem, legno come fu legno il lignum vitae6 della croce, ai baccanali d’oro e di pietra, guarda, anche qui, hai visto il portale, non ci si sottrae all’orgoglio delle immagini7! Sono infine prossimi i giorni dell’Anticristo e io ho paura, Guglielmo!” Si guardò intorno, fissando lo sguardo sbarrato entro le navate oscure, come se 30 l’Anticristo dovesse apparire da un momento all’altro, e io invero mi attendevo di scorgerlo. “I suoi luogotenenti sono già qui, mandati come Cristo mandò gli apostoli per il mondo! Stanno conculcando la Città di Dio, seducono con l’inganno, l’ipocrisia e la violenza. Sarà allora che Dio dovrà mandare i suoi servi, Elia ed Enoch8, che egli ha conservato ancora in vita nel paradiso terrestre perché un gior35 no confondano l’Anticristo, e verranno a profetare vestiti di sacco, e predicheranno la penitenza con l’esempio e con la parola…” “Sono già venuti, Ubertino,” disse Guglielmo, mostrando il suo saio di francescano. “Ma non hanno ancora vinto, è il momento che l’Anticristo, pieno di furore, comanderà di uccidere Enoch ed Elia e i loro corpi perché ognuno possa vederli e 40 tema di volerli imitare. Così come volevano uccidere me…” In quel momento, atterrito, pensavo che Ubertino fosse in preda a una sorta di online divina mania, e temetti per la sua ragione. Ora a distanza di tempo, sapendo quel Cinema che so, e cioè che qualche anno dopo fu misteriosamente ucciso in una città teDal film Il nome della rosa desca, e mai non si seppe da chi, sono più atterrito ancora, perché evidentemente di Jean-Jacques Annaud (1986) 45 quella sera Ubertino profetava.
3 anche prima di venire in Italia: nella finzione del romanzo Adso, il narratore, viene dalla Germania. 4 a cui... e cielo e terra: «’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Paradiso XXV 1-2). 5 molti versi... crucifixae: l’Arbor vitae del francescano Ubertino da Casale (ca 1305) è un voluminoso trattato sulla vita e la passione di Cristo. Alla base c’è l’immagine dell’albero della storia, le cui radici affondano nelle origini del mondo e arrivano fino all’Incarnazione divina; i
suoi rami sono le opere di Cristo, i fiori e i frutti le azioni dei credenti. Ubertino è tra le fonti del Paradiso dantesco, in particolare per il canto XI, dedicato a san Francesco. Alcuni temi della Divina Commedia, come la denuncia della corruzione degli ecclesiastici e del Papato e la profezia di un rinnovamento della Chiesa, indicano una vicinanza alle posizioni di Ubertino, di cui Dante dichiara però di non condividere l’estremismo. 6 lignum vitae: in lat. “il legno (cioè l’albero) della vita”, in riferimento all’antico
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tema dell’albero della vita e poi alla croce di Cristo; titolo (Lignum Vitae) di un libro di meditazioni del filosofo e generale dell’ordine francescano Bonaventura da Bagnoregio. 7 hai visto... immagini: Ubertino allude alla ricca decorazione del portale della chiesa, che gli sembra contrastare con gli ideali di povertà evangelica. 8 Elia ed Enoch: personaggi biblici, accomunati dal fatto di non essere mai morti, ma di essere ascesi in cielo.
d’Assisi: 2 Francesco una figura leggendaria per la collettività cristiana Una vita speciale All’inizio del XIII secolo, in un momento storico in cui la Chiesa di Roma con Innocenzo III affermava il principio della teocrazia (cioè del potere politico esercitato da un’autorità religiosa) e combatteva il dissenso e le eresie, Francesco d’Assisi (1181-1226) impone con forza il valore della pace, gli ideali evangelici della povertà, della solidarietà con gli umili e i sofferenti. Lo fa in modo provocatorio, con lo “scandalo” della sua vita, che diventa leggenda subito dopo la sua morte, anche per il processo di canonizzazione insolitamente rapido (1228), che lo rese santo a soli due anni dalla morte. La figura di Francesco continua, dopo secoli, ad affascinare, a costituire un modello, non solo per i credenti, e a essere fonte di ispirazione. La giovinezza e la “scoperta” del messaggio evangelico Figlio del mercante Pietro Bernardone, Francesco nasce ad Assisi nel 1181. Dopo una giovinezza trascorsa nella vita mondana, il suo orizzonte esistenziale cambia improvvisamente. Secondo quanto scrive nel Testamento, dettato in latino poco prima della morte (1226), l’esperienza determinante nell’orientare la sua vita verso l’ascesi fu la frequentazione dei lebbrosi: l’improvviso contatto con un mondo di estrema sofferenza ed emarginazione lo portò a interrogarsi sui valori fondamentali della vita.
San Francesco predica agli uccelli (part.) del Maestro di San Francesco (1255 ca) nella Basilica di Assisi.
Il “gran rifiuto” e i primi discepoli Destinato, nelle intenzioni della sua famiglia, a diventare un rappresentante della ricca borghesia di Assisi, educato dalla madre nella cultura cavalleresco-cortese, Francesco abbandona la vita mondana per seguire l’insegnamento di Cristo, rinunciando pubblicamente ai beni della famiglia e alla propria identità sociale attraverso il gesto simbolico e clamoroso della spogliazione degli abiti che indossava. Presto vengono a lui numerosi discepoli, attratti dal suo messaggio d’amore (nel Testamento Francesco li chiama semplicemente frati, cioè fratelli, a lui accomunati dalla scelta radicale della povertà). La crescita del movimento francescano Nel 1210 il gruppo dei seguaci di Francesco si reca a Roma dal papa e ottiene una prima, non formalizzata, approvazione: da quel momento è sancito il principio dell’obbedienza del movimento francescano al papa e alle gerarchie ecclesiastiche, ribadito anche nel Testamento. L’adesione al movimento denominato dei “frati minori” cresce e coinvolge progressivamente anche gli intellettuali della Chiesa che presto ne prendono le redini. Mentre Francesco intende continuare a seguire il modello di Cristo e chiede ai suoi frati di fare lo stesso, i frati “letterati” puntano a normalizzare l’ordine e in qualche modo “intellettualizzarlo”. Da qui probabilmente la decisione di Francesco di lasciare il governo dell’ordine a frate Elia (1220) e di ritirarsi per riflettere, dopo il fallimento della missione in Terra Santa per convertire il Sultano (1219). Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 153
La definizione ufficiale della Regola francescana Mentre i contrasti esplodono, Francesco contribuisce ugualmente nel 1223 alla definizione della Regola dell’ordine francescano, frutto di una mediazione “diplomatica” tra lo stesso Francesco, la nuova dirigenza dell’ordine e il papato (nella persona di papa Onorio III che la approvò con un documento ufficiale). Il Testamento di Francesco Nel 1226, anno della morte, Francesco detta il Testamento, che esprime le sue ultime volontà. Definito da lui stesso come «ricordo, ammonizione, esortazione», il Testamento contiene una sintesi della vita e delle scelte fondamentali di Francesco e l’indicazione per i futuri francescani dei valori che caratterizzano l’ordine: la scelta della povertà secondo la lezione del Vangelo ma anche l’obbedienza alla Chiesa. Un’eredità difficile: spirituali e conventuali Scomparsa la figura carismatica di Francesco, ben presto l’ordine francescano sarà dilaniato dal contrasto tra spirituali e conventuali. I primi volevano mantenersi fedeli al messaggio espresso da Francesco nel suo Testamento (soprattutto alla scelta della povertà assoluta), i conventuali davano invece un’interpretazione meno rigoristica del francescanesimo ed erano pienamente integrati nella vita cittadina, vivendo nei conventi, con gli inevitabili compromessi che ne derivavano. L’ascesa al pontificato di un eremita, Pietro da Morrone, papa Celestino V, nel 1294 suscitò negli spirituali la speranza che la loro linea potesse prevalere. La sua rinuncia aprì invece la strada al pontificato di Bonifacio VIII che si mostrò subito avverso agli spirituali, emarginandoli e addirittura perseguitandoli.
online
Percorso interdisciplinare Immagini di san Francesco tra arte, letteratura e teatro
Il Francesco dei Fioretti Alla mitizzazione di Francesco contribuirono in modo rilevante anche i Fioretti, un’antologia di aneddoti della vita del santo, popolarissima fino all’Ottocento. I Fioretti constano di 53 capitoli (fioretti come “antologia”, in quanto sono serie di aneddoti ed episodi) che un ignoto toscano ricavò, negli ultimi decenni del Trecento, traducendoli in volgare, dagli Actus beati Francisci et sociorum eius (Opere del beato Francesco e dei suoi compagni), composti probabilmente tra il 1327 e il 1340. La volgarizzazione del testo latino era evidentemente motivata dal desiderio dell’ordine francescano di diffondere i temi più suggestivi della spiritualità francescana fra un pubblico più ampio. Nei Fioretti – forse nati nell’ambiente della corrente francescana degli spirituali – i gesti, le parole di Francesco sono evocati senza un inquadramento e un preciso ordine cronologico, il che colloca gli eventi in una sorta di atmosfera atemporale propria della fiaba. Nel ricostruire la figura e l’opera di Francesco l’ignoto compilatore attinge anche alla tradizione orale, a racconti e testimonianze spontanee, che avevano costruito attorno al santo un’aura leggendaria. Del santo di Assisi i Fioretti mettono in rilievo soprattutto la semplicità, il candore ingenuo che si esprime in particolar modo nell’umile rapporto con tutte le creature, secondo il modello altissimo del Cantico. Un santo da guardare Nel Medioevo nessun’altra figura colpì l’immaginazione dei contemporanei e fu così popolare come Francesco: grazie anche alla sua rapidissima canonizzazione (1228), avvenuta a solo due anni dalla morte, il poverello di Assisi oscurò ben presto il prestigio di tutti i santi del primo cristianesimo. La popolarità di Francesco è attestata dalle numerosissime rappresentazioni pittoriche che lo ritraggono (tavole lignee, affreschi, miniature) eseguite nel corso del Duecento: la diffusione dell’immagine del santo è inferiore numericamente soltanto alle immagini di Cristo e di Maria. Il genere più caratteristico dell’iconografia francescana sono le tavole “istoriate”, utilizzate per la prima volta in Occidente
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Bonaventura Berlinghieri, San Francesco e le storie della sua vita, 1235 (Pescia, Chiesa di san Francesco).
proprio per ritrarre Francesco e prodotte in Italia esclusivamente nel XIII secolo. Le tavole lignee di soggetto francescano hanno la forma di un rettangolo cuspidato. Al centro di uno sfondo dorato campeggia ieratica la figura del santo, raffigurato costantemente con il volto scavato dalla pratica ascetica, il saio, i piedi nudi, il Vangelo in una mano, a sottolineare la sua fedeltà ai valori predicati da Cristo. La figura di san Francesco è contornata da un ciclo di piccole immagini che rappresentano episodi della sua vita (da qui il termine “istoriate” per definire questo tipo di tavole pittoriche). La funzione delle tavole istoriate non era diversa da quella delle numerosissime biografie e agiografie che furono prodotte dopo la morte di Francesco. Anche le tavole, come in seguito i cicli di affreschi, possono infatti essere considerate delle legendae (in latino “cose degne di essere lette”): servendosi della grande forza evocativa dell’immagine pittorica, esse illustrano episodi atti a documentare la santa vita e l’eccezionalità di Francesco.
Il Cantico di frate Sole Il testo poetico che inaugura la letteratura italiana Il Cantico di frate Sole (➜ t3 ), considerato per consolidata tradizione critica il testo che inaugura la letteratura italiana, è una preghiera in forma di lode a Dio, destinata al canto dei confratelli (la musica che doveva accompagnarlo però non ci è pervenuta). Fu composto probabilmente a San Damiano (presso Assisi) tra la fine del 1224 e l’inizio del 1225. Mentre gli altri testi di Francesco sono in latino, il Cantico è scritto in volgare umbro, impreziosito da molteplici latinismi che indicano la volontà dell’autore di elevare letterariamente il linguaggio. Il Cantico come testimonianza di misticismo Alla base della visione religiosa espressa nel Cantico sta la filosofia stessa del misticismo, «la persuasione […] di poter attingere l’essere divino attraverso il creato, non per via speculativa, ma per procedimento contemplativo» (Giovanni Pozzi). Una testimonianza, quella del Cantico, tanto più significativa in quanto viene scritto in un momento particolarmente doloroso della vita di Francesco: ormai quasi cieco, gravemente sofferente nel corpo e nello spirito, preoccupato per la crisi che serpeggiava nell’ordine da lui fondato, Francesco rivolge nonostante tutto questa lode gioiosa a Dio e a tutte le sue creature. In essa si manifesta la netta distanza di Francesco sia dalle forme più cupe dell’ascetismo medievale – basta confrontare il Cantico con le laude di Jacopone (➜ t5 e t7 ) – sia dalle correnti ereticali che, come i càtari, consideravano la vita terrena una maledizione e la bellezza del mondo una trappola capace di allettare gli spiriti deboli per indurli a peccare. Al contrario, Francesco ammira nella bellezza del creato, che dà gioia non solo allo spirito ma anche ai sensi, la grandezza e l’amore del creatore e si sente partecipe di questa bellezza, affratellato al sole, alla luna, alle stelle, all’acqua (era certamente inusuale nella letteratura religiosa del tempo chiamare “fratelli” e “sorelle” gli elementi della natura). Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 155
Francesco d’Assisi
T3 G. Contini, Poeti del Duecento, 2 voll., Ricciardi, MilanoNapoli 1960
AUDIOLETTURA
EDUCAZIONE CIVICA
Cantico di frate Sole
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5, 6
Il Cantico di frate Sole (designato anche come Laudes creaturarum o Cantico delle creature) fu composto negli ultimi anni della vita di san Francesco, probabilmente tra il 1224 e il 1225. Si tratta di uno dei primi testi (forse il primo) della letteratura italiana. Altissimu, onnipotente, bon Signore1, tue so’2 le laude, la gloria e l’honore et onne3 benedictione. Ad te solo, Altissimo, se konfano4, et nullu homo ène dignu te mentovare5.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte6 le tue creature, spetialmente messor lo frate sole7, lo qual’ è iorno, et allumini noi per lui8. Et ellu è bellu e radiante9 cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione10. 5
Laudato si’, mi’ Signore, per11 sora12 luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite13 et pretiose et belle. 10
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno14 et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento. 15
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile et humile15 et pretiosa et casta16. Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini17 la nocte: ed ello è bello et iocundo et robustoso18 et forte.
La metrica Versi di disuguale lunghezza, vicini alle sequenze liturgiche dei salmi, legati a due, tre, cinque, da assonanze e a volte rime irregolari. La scansione strofica è sottolineata dalla ripetizione della formula della lode. 1 Altissimu… Signore: la -u finale è tipica del dialetto umbro; bon corrisponde all’aggettivo latino bonus “eccellente, fonte del bene”, ha un valore più intenso rispetto al corrispettivo italiano. 2 tue so’: sono tue, a te appartengono. 3 onne: ogni; la forma, come molte altre del Cantico, è vicina al latino (omnis). 4 se konfano: si addicono. 5 et nullu... mentovare: e nessun uomo è degno di nominarti. Si ricorda qui il secondo precetto del Decalogo («Non pronuncerai invano il nome del Signore,
tuo Dio»). Il verso associa latinismi (Nullu homo, dignu), forme proprie del dialetto umbro (ène) e francesismi (mentovare). 6 cum tucte: così come tutte (o insieme a tutte). 7 messor lo frate sole: messor (forma umbra per messer) ha il valore del lat. dominus “signore”. L’appellativo sottolinea che il sole, “il fratello sole”, che illumina il mondo, è più di ogni altro elemento della natura immagine della grandezza di Dio. 8 è iorno... per lui: (il sole) è la luce diurna e tu (il Signore) ci illumini per mezzo suo (per lui). 9 radiante: raggiante, splendente. 10 de te... significatione: il sole è simbolo di Dio, come ricorderà Dante nel Convivio (III, xii, 7), affermando che «Nullo sensibile [Nulla che sia percepibile coi
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sensi] in tutto il mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che ’l sole». 11 per: di questo e dei successivi per è discussa l’interpretazione. Tradizionalmente si propende per un valore causale, ma altri suggeriscono un valore medialestrumentale (= mediante, per mezzo di) o d’agente (= da parte di). 12 sora: sorella. 13 l’ài formate clarite: le hai create luminose, chiare, risplendenti. 14 nubilo et sereno: le nuvole e il sereno. 15 utile et humile: l’assonanza sottolinea il legame tra i due aggettivi, apparentemente in contrasto, e ne evidenzia la valenza etica. 16 casta: pura. 17 ennallumini: illumini. 18 robustoso: il suffisso in -oso rende espressivamente la forza del fuoco.
20
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa19, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba. Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione20.
Beati quelli ke ’l sosterrano in pace21, ka da te, Altissimo, sirano incoronati22. 25
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale23, da la quale nullu homo vivente pò skappare24: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda25 no ’l farrà male26. 30
Laudate27 e benedicete mi’ Signore et rengratiate e serviateli28 cum grande humilitate.
19 sustenta et governa: mantiene e alimenta. 20 sostengo... tribulatione: sopportano malattia e sofferenza. 21 Beati... in pace: beati quelli che sosterranno ciò (’l = lo) con fede, umiltà e rassegnazione. 22 ka… incoronati: poiché (ka è un elemento linguistico del dialetto umbro) riceveranno la ricompensa della beatitudine del Paradiso. San Francesco assume le Beatitudini evangeliche come modello per questa sequenza del testo, riferita al
premio ultraterreno per gli uomini giusti e benevoli; la ripresa è sottolineata dal ricalco della struttura sintattica del passo evangelico («Beati quelli che… perché...» Cfr. Matteo 5, 3-12). 23 sora... corporale: anche la morte del corpo è stata creata dalla volontà di Dio e perciò è nostra sorella. 24 skappare: scampare, sfuggire. 25 la morte secunda: è la dannazione, la morte dell’anima.
26 no ’l farrà male: a loro non farà male, non li colpirà; forma dialettale, con consonante doppia. 27 Laudate: mentre in tutta la parte precedente del testo il destinatario è il Signore, a cui è rivolta la lode, nella conclusione il santo si rivolge, con la seconda persona plurale, a un destinatario indeterminato, da identificare forse con la comunità dei fedeli. 28 serviateli: servitelo (congiuntivo esortativo; il verbo è costruito alla latina: -li vale gli, “a lui”).
Analisi del testo Il Cantico: un testo stratificato o unitario?
Secondo un’interpretazione già diffusa nel Medioevo, il testo sarebbe stato scritto da san Francesco in momenti successivi. L’ipotesi di una scrittura in diverse fasi è stata probabilmente originata dall’apparente contrasto tra la serenità dei primi versi e l’intonazione più cupa degli ultimi: i versetti sul perdono (vv. 23-24) sarebbero stati aggiunti in seguito a una controversia avvenuta tra il vescovo e il podestà d’Assisi, riconciliati per merito di san Francesco, mentre quelli finali sulla morte risalirebbero a un altro momento successivo, quello in cui al santo fu annunciata prossima la fine. Questa ipotesi non è in genere più accolta dagli studiosi, che tendono oggi a riconoscere nel Cantico un’unitaria ispirazione religiosa, fondata sulla piena accettazione della volontà di Dio, non solo quando si manifesta nella bellezza del creato, ma anche quando impone le prove della sofferenza, della malattia e della morte. Contribuisce in modo rilevante a unificare il componimento il tema della lode, che si dispiega secondo un ordine preciso, discendendo dalla contemplazione del cielo alla terra e ai diversi elementi della natura, e quindi all’uomo. Dell’uomo è sottolineata la particolare condizione determinata dal libero arbitrio, con la possibilità di commettere il peccato e perciò di incorrere nella condanna alla dannazione eterna («la morte secunda», v. 31), oppure di meritare la beatitudine del Paradiso («ka da te, Altissimo, sirano incoronati», v. 26).
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Costituisce un ulteriore indizio dell’unità del testo anche la sua precisa struttura circolare: il tema dell’umiltà apre e chiude il Cantico, sviluppandosi inizialmente come riferimento al comandamento biblico («nullu homo ène dignu te mentovare», v. 4) e, nella conclusione, come invito a servire il Signore «cum grande humilitate».
Un altro problema interpretativo: il significato della preposizione per La lingua arcaica del Cantico, che testimonia la fase di passaggio tra il latino e il volgare, pone alcuni problemi di ordine grammaticale, che hanno un rilievo anche per l’interpretazione contenutistica e teologica del testo. Il problema più discusso è quello relativo al significato da attribuire alla preposizione per. In alcuni casi il significato è indubbio: per esempio, nel v. 7 è evidente il valore strumentale della preposizione, secondo l’uso latino, con il significato di “per mezzo di”. In altri passi, invece, il testo, apparentemente semplice e chiaro, può in realtà ammettere differenti interpretazioni. Al v. 10, quando si dice che il Signore deve essere lodato «per sora luna e le stelle» si può intendere il per in diversi modi; ciò vale anche per i casi analoghi nei versi seguenti. Tra le molteplici interpretazioni proposte dagli studiosi e tutte sostenute da valide motivazioni, si possono ricordare le seguenti: alla preposizione per può essere attribuito un valore causale (Dio è lodato perché ha creato la luna e le stelle, ossia a causa dei suoi doni e benefici), oppure un valore mediale-strumentale (l’uomo loda Dio tramite le lodi alle sue creature, che portano il riflesso della sua sapienza e bontà). La questione riveste un particolare interesse perché una diversa interpretazione letterale del testo si riflette in una visione teologica che assume connotazioni differenti.
La docta simplicitas di san Francesco Il testo, rivolto a tutta la comunità dei fedeli, è solo apparentemente semplice e “ingenuo”. Vi si riconoscono infatti molti richiami alle Scritture e ai salmi in lode di Dio (soprattutto il Salmo 148) e al passo evangelico delle Beatitudini (Matteo 5, 1-12). Il Cantico è ispirato inoltre a una precisa concezione mistica, la “teologia della lode”: l’uomo percepisce nel creato l’essere divino e partecipa alla gloria di Dio attraverso la lode, espressa sia in modo diretto sia indirettamente attraverso le qualità di bellezza e utilità attribuite alle cose. L’operare di Dio, tuttavia, è sempre messo in primo piano: è Dio che forma le stelle, illumina per mezzo del sole, sostiene le sue creature attraverso le variazioni del tempo atmosferico, rischiara l’oscurità della notte attraverso il fuoco. La cultura teologica che ispira il Cantico si evidenzia anche nella rappresentazione dell’ordine del creato: la contemplazione muove dal mondo celeste, specchio del divino, e in particolare dal sole, immagine di Dio; segue quindi il mondo sublunare con gli elementi descritti dalla filosofia naturale, aria, acqua, fuoco, terra; si giunge infine all’umanità tormentata dal peccato e sofferente, invitata dal santo ad affidarsi umilmente a Dio, lodandolo e ringraziandolo. Il carattere al contempo semplice e dotto del testo è sottolineato anche dal linguaggio, che, su una base costituita dal volgare umbro, si innalza grazie a numerosi termini mutuati dal latino (direttamente o con lievi modificazioni fonetiche). Anche le consuetudini grafiche risentono del modello latino (ad es. la h iniziale di honore e di humile).
In questa miniatura del XIII secolo san Francesco riceve le stimmate ed è circondato dalle sue amate “creature”.
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Un rapporto armonico con la natura Francesco non accoglie l’antitesi tra materia e spirito e tra mondo terreno e ultraterreno, che induce al disprezzo del mondo e che è presente in altri autori medievali, ma sottolinea la positività di tutta la realtà creata. Secondo alcuni studiosi sarebbe evidente, a questo proposito, l’intenzione, da parte di Francesco, di contrapporsi all’eresia dei càtari, che considerava il mondo come fonte di peccato e corruzione e imponeva di purificarsi dal contatto con le cose materiali. D’altra parte, quella di Francesco non è l’orgogliosa concezione, che sarà propria del Rinascimento, dell’uomo come signore e dominatore della natura, ma un messaggio di umiltà e di rispetto, che può risultare ancor oggi molto attuale: come ha affermato padre Ernesto Balducci (1922-1992), esponente di spicco del cattolicesimo ecumenista e pacifista, la «povertà di Francesco era anche una forma d’amore per le generazioni future».
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
coMPrenSIone 1. Qual è il tema principale nel testo? tecnIcA nArrAtIVA 2. Suddividi in sequenze il testo. AnALISI 3. Secondo il critico Leo Spitzer, il Cantico evidenzierebbe l’importanza dell’uomo nella visione religiosa francescana: esso è al centro del creato, e ogni creatura nominata è vista in sé (caratteristiche proprie) e in rapporto all’uomo (per l’utilità e il significato che hanno per lui). Alla luce di questa interpretazione, completa la tabella (l’esercizio è avviato). creature
in sé
in rapporto all’uomo
luna e stelle
clarite et belle
pretiose
sole
bellu radiante cum grande splendore
allumini noi per lui de te… porta significatione
acqua aere fuoco LeSSIco 4. La cura formale del Cantico ne attesta il valore letterario. Il testo tende a un volgare illustre, testimoniato anche dalla massiccia presenza del modello latino, che lascia tracce anche nella grafia, nel lessico e nella sintassi. Con l’aiuto delle note rintraccia i latinismi presenti e inseriscili in una tabella simile a questa (l’esercizio è avviato). modello latino
versi
esempi
forma corrente
grafia
v. 2
honore
onore
lessico sintassi
Interpretare
ScrItturA 5. Il Cantico di frate Sole può essere considerato un testo “colto” o “popolare”? Argomenta la tua opinione in 10-15 righe.
EDUCAZIONE CIVICA
6. Nel Cantico san Francesco loda ogni elemento della natura per bellezza e per utilità all’uomo: il sole, la luna, le stelle, il vento,l’acqua, il fuoco, la terra, dandone una rappresentazione positiva. Ti sembra che l’uomo in generale ma anche le politiche governative dei vari paesi al mondo mostrino rispetto verso la natura? Ti sembra che il benessere della nostra Terra sia posto in primo piano? Noti già degli squilibri ambientali?
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità
competenza 5, 6
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 159
Sguardo sul cinema I volti di Francesco San Francesco d’Assisi è stato oggetto di grande interesse per i cineasti in vari momenti della storia del cinema. L’aspetto più sorprendente è che questa figura sia stata presentata in modi molto diversi sul piano sia formale sia ideologico, rispecchiando i momenti storici e i contesti delle varie epoche che hanno parlato di lui senza però perdere una sostanziale identità. Già all’epoca del muto erano state realizzate tre pellicole sul santo di Assisi: Il poverello di Assisi (di Enrico Guazzino, 1911); Fratello Sole (di Ugo Falena, 1918) e Frate Francesco (di Giulio Antamoro, 1927). Persino lo scrittore Guido Gozzano aveva scritto una lunga e articolata sceneggiatura su san Francesco all’inizio del 1916, che tuttavia non vide mai la luce a causa della sua morte nello stesso anno.
Bisogna attendere il secondo dopoguerra per l’incontro più rilevante del nostro cinema con la figura di Francesco. Nel 1950, infatti, esce Francesco giullare di Dio di Roberto Rossellini (1906-1977). Ventidue anni dopo esce la celebre pellicola di Franco Zeffirelli, Fratello sole, sorella luna (1972), una versione della vicenda di Francesco che riflette un approccio diametralmente opposto all’opera di Rossellini. La regista Liliana Cavani si confronterà ben tre volte con la figura del santo di Assisi. Nel primo dei suoi film, Francesco d’Assisi (1966), la Cavani sceglie di parlare dell’uomo Francesco: è un Francesco “terreno”, rivoluzionario e anticonformista, interpretato dall’attore Lou Castel. La pellicola a distanza di anni mantiene ancora una notevole forza espressiva.
La regista Liliana Cavani dà istruzioni all’operatore di macchina.
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Per approfondire I volti di Francesco
Lou Castel in Francesco d’Assisi (1966).
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3 Le laude e Jacopone da Todi Una testimonianza di religiosità collettiva Nel corso del Duecento la profonda esigenza di un rinnovamento religioso si manifesta anche nella formazione spontanea di gruppi che mobilitano grandi masse di fedeli e che sono accomunati da una devozione quasi fanatica. Si tratta di gruppi del tutto autonomi dalla Chiesa (e da essa mal tollerati perché poco controllabili). In questo ambito, soprattutto nell’Italia centrale, e in particolare nell’area umbra, si sviluppa la lauda religiosa (dal lat. laus, laudis “lode”) che inizialmente non doveva essere diversa dai salmi di lode recitati nella prima funzione religiosa giornaliera (abbastanza vicino a questa prima forma di lauda arcaica è il Cantico di frate Sole, il cui titolo in latino è appunto Laudes creaturarum). Verso il 1260 la lauda adottò stabilmente lo schema metrico della ballata, un metro usato per la poesia laica. La ripresa-ritornello, tipica delle ballate, nelle laude era affidata al canto corale dei fedeli che accompagnava la voce solista nelle litanie della tradizione liturgica. La lauda religiosa, spesso incentrata sul tema della Passione di Cristo, seguiva online le processioni dei fedeli nelle città e nelle campagne ed era T4 Salimbene accompagnata dalla musica, dal canto e spesso da rituali peNascita della lauda e movimenti penitenziali Cronica nitenziali come la flagellazione con sferze. Il testo da solo (ce ne sono pervenuti molti, raggruppati in circa 200 laudari) non rende quindi l’idea di queste che potremmo definire “sceneggiature collettive della fede” e che dovevano esercitare una fortissima suggestione sulle masse. Qualche analogia, a livello spettacolare, si può forse ritrovare nelle processioni che in varie località dell’Italia del Sud ancora mettono in scena la Passione nel periodo pasquale. Si deve forse a Jacopone da Todi l’invenzione della lauda drammatica, con personaggi che interpretano diverse parti, una forma embrionale di rappresentazione teatrale; di certo la sua Donna de Paradiso ne è l’esempio più noto e antico (➜ T7 ).
Jacopone: una fede intransigente
PER APPROFONDIRE
Di Jacopone da Todi (Jacopo de Benedetti), il maggiore scrittore religioso medievale dopo Dante, sono incerte le date stesse di nascita e morte (1236?-1306?). Le notizie tramandate sulla sua vita sono quasi certamente leggendarie, soprattutto per quanto riguarda l’improvvisa conversione, dopo anni di vita agiata e gaudente (di ricca e nobile famiglia, esercitava la professione di notaio), a una dura penitenza in seguito alla morte improvvisa della giovane moglie. Divenuto frate francescano, Jacopone aderisce alla corrente rigoristica degli spirituali.
La ballata Questa forma di componimento poetico, presente già nella tradizione provenzale, deve il nome al fatto che era destinata a essere cantata e ballata. Proprio per questo è caratterizzata (e ciò è l’unico elemento costante in un genere poetico che ammette numerose varietà) da un numero variabile di stanze e da un ritornello di introduzione, detto ripresa, cantato all’inizio del componimento e alla fine di ogni stanza; è tradizione che almeno l’ultimo verso di ciascuna di
queste rimi con l’ultimo verso della ripresa, ma frequentemente la seconda parte di ogni stanza riprende lo schema dell’intera parte introduttiva. In Italia compare verso la metà del XIII secolo come forma metrica popolare, legata in particolare alle laude religiose, cantate e recitate dagli adepti delle diverse confraternite. Con gli stilnovisti entra anche nel repertorio della lirica d’arte: scrisse ballate soprattutto Cavalcanti.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 161
Lessico potere temporale e potere spirituale Riferito al potere del pontefice della Chiesa cattolica, si intende per “temporale” il governo politico degli uomini, distinto dal potere “spirituale” che si riferisce all’attività di cura delle anime dei credenti.
La polemica nei confronti della mondanizzazione della Chiesa La sua fede intransigente lo porta naturalmente alla polemica verso una Chiesa ormai mondanizzata e più attenta al potere che alla spiritualità; aderisce così al gruppo variegato degli oppositori di papa Bonifacio VIII (➜ T2b OL), a cui si associò la potente famiglia romana dei Colonna che osteggiava la politica temporalistica del pontefice. La durissima repressione della rivolta antipapale comportò per Jacopone la scomunica e una lunga prigionia. Liberato nel 1303 dal nuovo papa Benedetto XI, trascorse gli ultimi anni della vita in un convento presso Todi. Le laude incentrate sulla polemica etico-politica e il richiamo ai valori ascetici Le laude jacoponiche (circa 90 testi) non sono pensate per un uso devozionale collettivo e riguardano diverse tematiche. Nella prima parte del laudario emergono la polemica etico-politica nei confronti del Papato (➜ T2a OL) e del clero, e l’esaltazione della vita ascetica, secondo un’ottica religiosa radicale che estremizza le posizioni già rigoristiche degli spirituali. Jacopone condivide gli obiettivi polemici dell’ascetismo medievale: la vuota arroganza della cultura universitaria che fornisce un falso sapere e il vano attaccamento ai beni terreni e alle ambizioni. L’originalità di Jacopone sta nell’accanimento quasi ossessivo e nell’impietoso sarcasmo con cui rappresenta l’infinita miseria dell’uomo, a cui ricorda la sua mortalità: in Quando t’aliegre, omo d’altura (➜ T5 ) non può non sgomentare l’insistita descrizione, affidata a particolari macabri e ripugnanti, di ciò che ci attende dopo il trapasso. Un sarcasmo che Jacopone non risparmia neppure a se stesso, dimostrando una volontà autodegradante e autolesiva (ad es. nella lauda O segnor per cortesia invoca per sé ogni tipo di ripugnante malattia, arrivando a immaginarsi «sterco di lupo» dopo la sua morte). La violenza polemica e il pessimismo delle laude ascetiche di Jacopone si spiegano in una società che cominciava a valorizzare gli aspetti piacevoli della vita e si mostrava sempre meno disponibile ad accogliere un messaggio incentrato sul rigorismo morale e sul rifiuto dei beni terreni. Si moltiplicavano di conseguenza, in ambienti che oggi diremmo di un cristianesimo integralista, gli sforzi per richiamare gli uomini a severi princìpi di vita attraverso il riferimento ossessivo al memento mori (“ricordati che devi morire”), che trova particolare forza rappresentativa nei cicli pittorici incentrati sul “Trionfo della morte”, assai diffusi nel tardo Medioevo.
Miniatura dal Laudario della Compagnia di Sant’Agnese, di Pacino di Buonaguida, 1320.
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Verso il Novecento Oltranza mistica ed espressionismo linguistico
Le laude mistiche Alla volontà accusatoria e polemica della maggior parte del laudario, si contrappone il gruppo di laude – concentrate soprattutto nella seconda parte del laudario – che esprimono poeticamente il contatto mistico con il divino; si tratta di testi più propriamente iscrivibili nel genere lirico perché privi, almeno tendenzialmente, di componenti didascalico-narrative. In queste laude l’estasi mistica è cantata come una sorta di “naufragio”, un’abdicazione totale della razionalità di fronte al contatto violento, annichilente, con il divino (➜ T6 ). L’esito espressivo che ne consegue è una sorta di antilingua che si traduce nel grido, nel balbettìo disarticolato («la lengua barbaglia» dice Jacopone), ed è un tratto comune ad altri mistici (e mistiche) (➜ C9, PAG. 772). Uno stile espressionistico Se il linguaggio delle laude propriamente mistiche è caratterizzato dalla tensione lirica, la disposizione ascetico-polemica, predominante nel laudario, porta Jacopone alla scelta di un registro espressivo per il quale si è spesso parlato di espressionismo come per altri mistici moderni come Clemente Rebora (1885-1957) e padre David Maria Turoldo (1916-1992). In essi, come già in Jacopone, la fede è vissuta in modo forte, polemico verso un mondo sordo ai valori. Da qui la scelta di una lingua che “rovesci” la comunicazione banale. Jacopone ricorre in modo intensivo agli artifici retorici (come le martellanti anafore, le allitterazioni), utilizza una struttura sintattica disarmonica e franta, con prevalente paratassi e frequentissime interrogazioni, apostrofi che mimano l’oralità e la gestualità.
Parola chiave
Il plurilinguismo di Jacopone Sotto il profilo lessicale, la lingua di Jacopone è composita: ha come base il dialetto umbro popolare (scelto per contrapporsi alla lingua dei filosofi) con espressioni corpose e popolari, ma contaminato, con effetti stridenti, con forme linguistiche alte, desunte dal linguaggio della lirica amorosa (provenzalismi), del diritto e della Chiesa.
espressionismo Il concetto e il termine di “espressionismo” appartengono al Novecento e designano una delle più importanti avanguardie storiche che, nata in Germania originariamente nell’ambito pittorico, interessò poi la letteratura, il teatro, la musica e il cinema. I caratteri propri dell’espressionismo furono il sovvertimento di ogni regola da parte dell’artista, la volontà di esprimere intense emozioni, la critica radicale di un mondo in disfacimento. Ma il termine “espressionismo” è usato anche in senso metastorico e metaforico. Per quanto riguarda la letteratura italiana, in un suo celebre saggio Gianfranco Contini ha individuato una “linea espressionistica”, appunto, che si sviluppa nel corso del tempo, a partire proprio dal Medioevo, e che accomuna autori di per sé diversi, da Jacopone ai novecenteschi Pirandello, Gadda, Fenoglio (e altri ancora). Quando parla di “espressionismo” per questi scrittori, Contini fa riferimento in particolare alle scelte stilistico-linguistiche degli autori citati (e di altri), che comportano il sovvertimento dei modi consueti della rappresentazione e la violazione delle tradizionali norme linguistiche, la tendenza a esasperare, forzare la lingua. Le forme in cui si esprime tale atteggiamento sono varie: immagini accentuate e deformate, lessico inusuale, passaggi bruschi da un registro elevato a un registro basso, realistico e grottesco, contaminazioni lingui-
stiche inattese, ad esempio tra lingua e dialetto, forzature sintattiche, esasperazione degli effetti fonici. La polemica linguistica si associa in genere, negli autori definibili in senso lato come “espressionistici”, con un atteggiamento ideologico critico verso la società, il costume, il mondo rappresentato. Non è casuale che una linea espressionistica unisca anche autori che hanno dato voce in tempi diversi alla tematica religiosa, come Jacopone, Rebora, Testori, padre Turoldo: per tutti questi scrittori si tratta infatti di una fede vissuta in modo impegnato e polemico, come un’apertura all’assoluto contro i limiti di un mondo comunemente acquietato nella sua mancanza di senso; a tale intento polemico corrisponde la scelta di una lingua che “aggredisca” la realtà e rovesci l’insignificanza di una comunicazione banale. Del resto anche l’espressionismo tedesco delle origini si ispirava spesso a temi religiosi e, in ambito figurativo, prendeva spunto dai soggetti cristiani delle antiche xilografie del tardo gotico germanico. Testo di riferimento: G. Contini, Espressionismo letterario, in Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-1987), Einaudi, Torino 1988 (apparso per la prima volta come voce dell’Enciclopedia del Novecento, 1977).
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 163
La lauda “drammatica” e Donna de Paradiso Il testo forse più celebre di Jacopone è Donna de Paradiso, una lauda “drammatica”, cioè articolata in forma teatrale. Durante l’Alto Medioevo gli spettacoli teatrali erano completamente spariti, sia per la distruzione fisica dei luoghi in cui si svolgevano le rappresentazioni teatrali sia per la decadenza della vita cittadina. Agli inizi del X secolo inizia a svilupparsi una forma embrionale di teatro a soggetto religioso, in latino, che ha la funzione di supportare la liturgia della messa (sono i cosiddetti “drammi liturgici”) e che viene rappresentato nella chiesa stessa. Successivamente, il teatro, pur riguardando sempre contenuti religiosi, si riversa nelle piazze antistanti la chiesa. I testi iniziano a essere in volgare e sono prodotti e gestiti dalle confraternite laiche di fedeli, che ricercavano una religiosità più autentica e partecipata. Il contesto da cui nasce la lauda drammatica è quello delle laude di cui si è parlato e il testo di Jacopone ne è forse il primo esempio, probabilmente destinato alla recitazione di una confraternita.
La religiosità di san Francesco a confronto con la fede intransigente di Jacopone da Todi San Francesco
Jacopone
• ha una visione in cui domina la gioia
• ha una visione cupa della vita, dominata dal senso della morte
• celebra la bellezza del Creato: il Cantico
• esalta la vita ascetica e il misticismo: le Laude
• usa il volgare umbro illustre
• usa un audace plurilinguismo
S. Botticelli, Compianto sul Cristo morto con santi, tempera su tavola, 1495 ca. (Alte Pinakothek, Monaco di Baviera)
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Jacopone da Todi
T5
LEGGERE LE EMOZIONI
Quando t’aliegre, omo d’altura vv. 1-46; 79-82
Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Questa lauda, strutturata in forma di “contrasto” ovvero di un dialogo tra un vivo e un morto, si potrebbe considerare una sorta di memento mori, affine al motivo pittorico della “danza macabra”. Al vivo che lo interroga, chiedendogli dove sono gli abiti eleganti che sfoggiava quand’era vivo, i bei capelli biondi, gli occhi, le membra forti, il morto descrive il disfacimento del corpo dopo la sepoltura. Le immagini suscitano un crescente orrore e portano chi legge a meditare sul fatto che tutto quanto è legato alla sfera mondana si annulla con la morte.
Quando t’aliegre, omo d’altura, va’ poni mente a la sepoltura1; e loco pone lo tuo contemplare2, e pensa bene che tu dii3 tornare 5 en quella forma che tu vide stare l’omo che iace en la fossa scura. «Or me respondi, tu, om seppellito, che così ratto d’esto monno èi ’scito4: o’ so’ i bei panni, de ch’eri vestito5? 10 Ornato te veggio de molta bruttura6». «O frate mio, non me rampognare7, ché ’l fatto mio a te pò iovare8! Puoi che i parenti me fiero spogliare, de vil ciliccio me dier copretura9». 15
«Or ov’è ’l capo cusì pettenato? Con cui t’aragnasti10, che ’l t’ha sì pelato?
La metrica Lauda-ballata: composta da versi doppi quinari che in molti casi diventano senari o settenari; lo schema delle rime (miste ad assonanze) è XX nella ripresa/ritornello, AAAX nelle strofe (l’ultimo verso di ogni strofa usa sempre la rima della ripresa).
1 Quando… sepoltura: quando ti rallegri, uomo superbo, pensa a quando sarai morto e sepolto. La ripresa evidenzia il tema della ballata: l’uomo orgoglioso, superbo dei suoi fasti mondani, deve riflettere sulla morte, vincendo la tendenza al peccato che deriva dall’eccessivo attaccamento ai beni terreni.
2 loco... contemplare: poni, fissa là (loco) la tua contemplazione. L’invito è quello a immaginare il disfacimento del corpo dopo la morte, per comprendere quanto siano vani i beni mondani. 3 dii: devi. 4 così ratto... scito: sei uscito così in fretta da questo mondo. Il tono sarcastico del vivo che interroga il defunto sottolinea quanto la morte giunga inaspettata e sempre troppo in fretta (così ratto). 5 o’ so’ i bei panni... vestito?: dove sono i begli abiti di cui eri vestito? 6 Ornato... bruttura: (perché) ti vedo coperto di molto squallore.
7 frate... rampognare: fratello mio, non mi rimproverare.
8 ’l fatto mio a te pò iovare: ciò che è accaduto a me, a te può essere utile (come esempio). Emerge uno dei temi del contrasto: ciò che è accaduto all’uomo morto potrà essere d’esempio a chi è ancora in tempo per convertirsi e rinunciare ai beni mondani. L’appellativo frate sottolinea che anche il vivo presto sarà nella condizione del morto, una condizione comune a tutta l’umanità. 9 Puoi... copretura: dopo che i miei parenti mi spogliarono, mi coprirono con un panno di stoffa grossolana, ispida e pungente (vil); ciliccio vale “cilicio”. 10 Con cui t’aragnasti: con chi ti azzuffasti.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 165
Fo acqua bollita, che ’l t’ha sì calvato? Non te c’è opporto più spicciatura!11» «Questo mio capo, ch’abbi12 sì biondo, 20 cadut’ è la carne e la danza dentorno13: nol me pensava, quann’era nel mondo, cantando a rota facea portadura14». «Or ove so’ l’occhi così depurati? For de lor loco sì so’ iettati15. 25 Credo che i vermi li s’ho manecati16, del tuo regoglio non àver paura17». «Perduti m’ho gli occhi con che gia peccando18, aguardando a la gente, con issi accennando19. Ohimè dolente, or so’ nel malanno, 30 ché ’l corpo è vorato e l’alma en ardura20». «Or ov’è ’l naso, c’avì’ pro21 odorare? Quigna ’nfertade22 el n’ha fatto cascare? Non t’èi poduto dai vermi adiutare, molt’ è abbassata ’sta tua grossura23». 35
40
«Questo mio naso, c’abbi pro odore, caduto n’è con molto fetore: nol me pensava quann’ era ’n amore del mondo falso, pien di bruttura24». «Or ov’è la lengua cotanto tagliente? Apri la bocca, si tu n’hai nïente. Fone troncata, oi forsa fo ’l dente, che te n’ha fatta cotal rodetura?25»
11 Fo... spicciatura!: l’acqua bollente ti ha reso calvo? Non ti serve più la scriminatura! Insomma, i capelli ben pettinati del morto non ci sono più. Il tono di chi lo interroga è sarcastico, come in tutta la composizione. 12 ch’abbi: che avevo. 13 la danza dentorno: i capelli che danzano intorno al viso (scossi a ogni movimento del capo). 14 cantando... portadura: mi mettevo in mostra nella danza in tondo della canzone a ballo. Jacopone pone abilmente in contrasto le immagini di una gaudente vita mondana, con il giovane bello e ben pettinato, dai capelli biondi, elegantemente vestito, e la visione macabra del disfacimento del suo corpo dopo la morte.
15 ove so’… iettati: dove sono gli occhi così luminosi? Sono caduti fuori dalla loro sede (cioè dalle orbite). 16 i vermi li s’ho manecati: se li sono (riflessivo costruito con avere) mangiati i vermi. 17 del tuo regoglio non àver paura: non hanno avuto paura della tua alterigia. 18 con che gia peccando: con i quali andavo (gia da gire “andare”) peccando. 19 aguardando... accennando: guardando la gente, manifestando (la mia indole) con lo sguardo (come “ammiccando” con issi, cioè con gli occhi). 20 ché ’l corpo... en ardura: perché il corpo è divorato e l’anima arde nelle fiamme dell’inferno. In questa strofa si evidenzia un passaggio significativo dell’argomentazione sottesa al testo: il corpo, un tempo strumento di peccato, è ora distrutto, ma
166 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
ha provocato l’eterna dannazione dell’anima, che è ormai anch’essa irreparabilmente perduta e brucia nelle fiamme dell’inferno. Il vero contrasto è perciò quello fra corpo e anima. Nelle strofe successive, con l’accumulazione di altri particolari macabri e grotteschi e con lo stile espressionistico tipico di Jacopone, questo tema sarà accentuato fino all’esasperazione. 21 c’avì’ pro: che avevi per. 22 Quigna ’nfertade: quale infermità. 23 grossura: la prominenza del naso, di chi guarda altezzosamente “dall’alto in basso”; simboleggia perciò la superbia. 24 bruttura: la malvagità del mondo. È un concetto tipico della letteratura ascetica. 25 Fone... rodetura?: fu tagliata o forse furono i denti a roderla in tal modo? (Fone ha la ne enclitica.)
«Perdut’ho la lengua, co la qual parlava, molta descordia con essa ordenava26: 45 nol me pensava, quann’io manecava27 28 el cibo e ’l poto oltra mesura». […] «Or me contempla, oi omo mundano: 80 mentr’èi nel mondo, non esser pur vano; pènsate, folle, che a mano a mano tu serai messo en grande strettura»29. 26 ordenava: ordiva, tramava. 27 manecava: mangiavo. 28 ’l poto: le bevande (latinismo). 29 «Or me... grande strettura»: ora guardami, uomo dedito alla vita mondana, mentre sei (èi) al mondo, non continuare a
essere (non esser pur) vano, inconsistente. Pensa, pazzo, che ben presto (a mano a mano) ti troverai nello stretto spazio (strettura) della fossa (ma strettura significa anche “angustia, sofferenza)”. Nella strofa conclusiva il morto si rivolge, con un “tu”
fortemente espressivo, direttamente al destinatario dell’exemplum, l’omo mundano evocato all’inizio della lauda, a cui viene ricordata la sorte che attende tutti.
Analisi del testo La lauda di Jacopone e il motivo del “trionfo della morte” Il testo di Jacopone può essere collegato a diffusi motivi iconografici, finalizzati a presentare alle masse «un’immagine estremamente primitiva, popolaresca e lapidaria della morte» (Huizinga) che potesse risultare di forte impatto: il “trionfo della morte”, la “danza macabra”, il “paragone dei tre morti e dei tre vivi” (tre giovani nobili, sfarzosamente vestiti, si trovano improvvisamente di fronte tre orridi morti che descrivono loro la prossima fine che li attende (➜ STUDIARE CON L’IMMAGINE, p. 168).
Una struttura teatrale Nella lauda proposta Jacopone non introduce astratte considerazioni morali, ma affida il suo duro messaggio a una struttura teatrale di grande effetto, costruita sull’alternarsi di diverse voci. Apre in modo suggestivo il testo una voce “fuori campo”, ammonitrice e misteriosa, che si rivolge, con il “tu”, a un ascoltatore altezzoso e superbo, invitandolo a rispecchiarsi nella forma dell’uomo morto e a farne oggetto di meditazione. Nella seconda strofa è introdotto, a colloquio con il morto, un interlocutore vivente. Questo personaggio si rivolge al giovane morto con una serie di domande incalzanti e provocatorie, finalizzate a ricordare crudelmente al defunto il tempo nel quale anch’egli era in vita e si mostrava gaudente, orgoglioso e superbo. In contrasto con l’aggressività del suo interlocutore, nelle sue risposte il giovane morto assume toni avviliti e dimessi, ora di scusa e lamentosi, ora di amara sorpresa e di rimpianto per la passata inconsapevolezza (scanditi dalla ripetizione di nol me pensava), ora di fraterno ammonimento per il silenzioso spettatore evocato all’inizio, denominato omo mundano: raddoppiando le esortazioni della voce “fuori campo”, il morto lo invita ad abbandonare la folle vanità mondana e a non seguire il suo esempio.
Uno stile “espressionistico” Contribuisce all’efficacia del testo lo stile “espressionistico” di Jacopone, che traduce una sua visione del reale aggressiva e deformante. Essa si esprime nell’intensificazione e nello stravolgimento dei particolari: capelli, occhi, naso, lingua, labbra, devastati dalla decomposizione del corpo, sono rappresentati in “primo piano” e “in dettaglio”. Espressionistica è anche la lingua poetica, che conferisce concretezza alla rappresentazione, con un ampio utilizzo di espressioni popolaresche. I versi brevi della composizione, il rincorrersi delle rime frequenti e martellanti, le insistite iterazioni e le anafore contribuiscono ulteriormente all’incalzante svolgersi del contrasto drammatico.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 167
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
coMPrenSIone 1. Qual è la tematica principale di questa lauda? 2. A chi rivolge Jacopone il suo messaggio pedagogico? AnALISI 3. Evidenzia la struttura circolare che caratterizza la lauda. LeSSIco 4. Rintraccia nel testo le espressioni che servono a giustificare la tua risposta nell’esercizio 1 e trascrivile. 5. Il testo è caratterizzato dall’uso di un lessico popolareggiante e dall’insistenza su immagini macabre e iperrealistiche. Inserisci nella tabella almeno cinque esempi per ciascuna di queste caratteristiche stilistiche. lessico
immagini
StILe 6. Quale figura retorica ricorre insistentemente? Quale effetto produce?
Interpretare
teStI A conFronto 7. Confronta la visione della morte che ha san Francesco presente nel Cantico con quella descritta in questa lauda da Jacopone da Todi (max 30 righe).
Studiare con l'immagine ScrItturA 8. Il gusto del macabro si manifesta anche nell’iconografia. La sua più precoce espressione, già agli inizi del sec. XII, è rappresentata dal “tema dei tre vivi e dei tre morti”, successivamente ripreso con fortuna nella letteratura di molti paesi d’Europa. Ricollega la fonte iconografica proposta qui sotto al testo appena analizzato ed evidenzia le caratteristiche che testimoniano la visione morale e religiosa dell’autore. (max 20 righe). Su un affresco nella chiesa di St. Jodok (a Überlingen, sulla riva nord del lago di Costanza in Germania, fine ’400) è raffigurato l’incontro dei tre morti e dei tre vivi, un fortunato soggetto iconografico legato all’immagine della morte: tre giovani cavalieri incontrano tre “morti viventi”, che così li ammoniscono: «Ciò che sarete voi, noi siamo adesso. Chi si scorda di noi, scorda se stesso».
LEGGERE LE EMOZIONI
9. La lauda attraverso il dialogo tra un vivo e un morto medita sul disfacimento del corpo e sulla vanità delle cose terrene per indurre il lettore al disprezzo del mondo e al pentimento. Quali sensazioni, emozioni suscita in te la lettura di questo testo? Sgomento, orrore, disgusto?
168 Duecento e trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
Jacopone da Todi
T6 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
O iubelo del core In questa celebre lauda Jacopone evoca l’emozione travolgente del contatto mistico con Dio e ne descrive gli effetti: il cuore ennamorato di chi è preso dall’amore divino prorompe in manifestazioni caratterizzate dalla “dismisura” e dall’eccesso, estranee alla normale condotta soggetta al controllo razionale; agli occhi della gente il mistico può apparire perciò come un folle, suscitando lo scherno e la derisione di chi non ha mai provato tale intensa esperienza.
O iubelo del core, che fai cantar d’amore1!
AUDIOLETTURA
Quanno iubel se scalda, sì fa l’omo cantare2, 5 e la lengua barbaglia3, non sa que se parlare4: dentro non pò celare, tant’è granne ’l dolzore5.
10
Quanno iubel è acceso, sì fa l’omo clamare; lo cor d’amor è appreso, che nol pò comportare: stridenno el fa gridare, e non virgogna allore6.
Quanno iubelo ha preso lo core ennamorato, la gente l’ha ’n deriso7, pensanno el suo parlato8, parlanno esmesurato 20 de che sente calore9. 15
La metrica Lauda in forma di ballata di
2 Quanno… cantare: quando il giubilo
versi settenari, con ripresa (o ritornello) xx e schema strofico ababbx, perciò con ripresa della rima del ritornello alla fine di ciascuna strofa, secondo uno schema tipico della ballata jacoponica. In alcuni casi la rima è sostituita da una semplice assonanza: vv. 3 e 5; vv. 21-23. È presente (vv. 15 e 17) la rima siciliana preso/ deriso.
diviene più intenso e più caldo (si scalda) fa cantare chi lo prova. Al crescere della pienezza dell’amore divino non basta più la parola: solo il canto può esprimere l’intensità della lode. Quanno è forma del dialetto umbro in cui il suono nd si assimila in nn, come nei successivi granne (= grande), stridenno (= stridendo), pensanno (= pensando), e simili. L’anafora (Quanno iubel[o]) collega le prime tre strofe e sottolinea la parola chiave iubelo, con un effetto di progressiva intensificazione. 3 la lengua barbaglia: la lingua balbetta. Il vocabolo onomatopeico barbaglia riproduce fonicamente l’inceppamento della lingua e l’impossibilità di una comunicazione con gli altri uomini. Tale difficoltà è sottolineata dal fatto che barbaglia non è in rima con scalda, ma solo in assonanza.
1 O iubelo… amore: il ritornello, in cui compare la parola chiave iubelo, evidenzia il tema del testo, la gioia immensa dell’amore mistico, non commisurabile a nessuna esperienza umana. Nel linguaggio biblico e ascetico giubilo (latino jubilum, “grido di gioia, di esultanza”) indica un sentimento di gioia così vivo e profondo che traspare dai gesti, dallo sguardo, dal tono della voce.
4 que se parlare: quel che si dica (oppure “che cosa dire”). 5 dentro… dolzore: la dolcezza che si prova è così intensa che non può rimanere celata e nascosta nell’interiorità. 6 Quanno... allore: quando il giubilo si accende fa gridare (clamare); il cuore è infiammato (appreso) dall’amore, tanto da non poterlo sopportare in silenzio; tale amore fa gridare chi lo prova, in modo violento e dissonante (stridenno, lett. stridendo) e in quel momento non se ne vergogna. 7 la gente l’ha ’n deriso: la gente lo deride (deriso = derisione). 8 parlato: modo di parlare. 9 parlanno… calore: poiché parla smisuratamente dell’ardore che sente.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 169
O iubel, dolce gaudio ched entri ne la mente10, lo cor deventa savio celar suo convenente: 25 non pò esser soffrente che non faccia clamore11. Chi non à costumanza12 te reputa ’mpazzito, vedenno esvalïanza13 30 com’om ch’è desvanito;14 dentr’ha lo cor ferito, non se sente da fore15. 10 O iubel…mente: O gioia, dolce piacere, che sei nella mente. 11 lo cor... clamore: il cuore sarebbe saggio nel nascondere (celar) il proprio stato (suo convenente): (ma) non può fare a meno (non pò esser soffrente) di gridare. All’atteggiamento razionale (che implicherebbe il celare la propria condizione) si contrappone l’impeto incontenibile dell’amore mistico. È omessa la congiunzione avversativa che contrappone i due atteggiamenti, secondo una sintassi ellittica propria di Jacopone.
12 costumanza: pratica, esperienza. L’ultima strofa è l’unica che non presenta, in apertura, la parola chiave iubelo. Tale differenza sottolinea il carattere riassuntivo e gnomico della strofa, slegata dalla progressione di quelle precedenti. 13 esvalïanza: stranezza, comportamento fuor di norma. 14 desvanito: vaneggiante. I termini esvalïanza e desvanito, legati dall’allitterazione, sottolineano l’atteggiamento apparentemente delirante di chi è preso dal gaudio mistico.
15 non se sente da fore: da fuori non si può percepire quello che il mistico vive dentro il suo cuore. I termini dentr’ e fore, che aprono e chiudono i due versi finali, mettono in rilievo il contrasto fra la dimensione esteriore e quella più profonda e interiore, propria della comunione mistica con Dio. Nuovamente è sottolineato un motivo fondamentale nel testo.
Flagellanti o Fratelli della croce nella città olandese di Doornik in una miniatura trecentesca.
170 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
Analisi del testo L’annullamento del mondo esterno e l’etica della “dismisura” L’amore mistico di cui parla Jacopone è rappresentato come un completo distacco dalla dimensione umana e terrena, fino all’annullamento della realtà esterna. Chi prova l’ardore mistico è afferrato da una sorta di rapimento e di estasi. In tale stato non solo il mondo esterno è totalmente indifferente, ma si crea una netta frattura con esso: le manifestazioni di gioia eccessive (esmesurate), che si traducono nel canto, nel grido, sono del tutto incomprensibili se valutate con il metro della logica comune. Jacopone rovescia i normali parametri valutativi del comportamento umano: all’etica della “misura” propria dell’ideale cortese nel Medioevo, Jacopone contrappone l’esmesuranza, propria di chi ha afferrato il messaggio cristiano in tutta la sua sconvolgente e rivoluzionaria portata.
Il linguaggio dell’amore mistico In questo testo, uno dei più intensi e significativi della poesia religiosa medievale, Jacopone sperimenta in modo ardito il linguaggio dell’amore mistico. Per rappresentare il sentimento che lo invade Jacopone attinge in parte alla poesia cortese e alla lirica amorosa italiana: ne sono spia presenze lessicali come dolzore, ma anche immagini come quella del fuoco ardente d’amore che consuma, o della ferita aperta nel cuore dell’innamorato. Mentre però l’amore cortese e profano si iscrive in precise norme e convenzioni, l’unica “norma” a cui risponde l’amore di Dio provato da Jacopone (e da altri mistici) è quella della follia, del deragliamento e dell’eccesso, come evidenziano, nel testo jacoponico, parole chiave come ’mpazzito, esvalïanza, desvanito. Prettamente jacoponica è l’iterazione di costrutti e termini e di anafore (a cominciare dalla ricorrenza in tutte le strofe, tranne l’ultima, del termine chiave iubelo), finalizzate in altri casi a enfatizzare quanto a Jacopone sta a cuore trasmettere al lettore. A questa esigenza comunicativa (e in altri casi didattica) si contrappone qui il tema dell’ineffabilità: l’esperienza mistica di fatto non può essere trasmessa, è inevitabilmente vissuta nella solitudine del proprio io e la parola comune non può in alcun modo descriverla perché essa trascende i limiti dell’umano: la sostituiscono un disarticolato balbettare (la lengua barbaglia) o addirittura il grido.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Qual è il tema principale di questa lauda? ANALISI 2. Quali aspetti riconducono il testo all’esperienza mistica? Si tratta di un’esperienza che può essere condivisa con gli altri? Perché? 3. Quali reazioni e comportamenti induce l’esperienza mistica nell’io lirico? Come vengono giudicati dagli altri tali comportamenti? LESSICO 4. Analizza il lessico e individua i termini che appartengono al campo semantico del dire e del tacere e inseriscili in uno schema simile a questo. campo semantico del dire
campo semantico del tacere
5. Individua nel testo termini che alludono all’assenza di controllo, all’eccesso e alla vera e propria follia. STILE 6. Individua le ripetizioni di termini chiave e le anafore.
Interpretare
SCRITTURA 7. In che cosa consiste il tema dell’ineffabilità che è al centro della lauda? Spiegalo in un breve testo. TESTI A CONFRONTO 8. Confronta situazione e temi della lauda di Jacopone con la lode di ringraziamento e il messaggio profondo evocati da Francesco nel Cantico. Evidenzia analogie e differenze fra i due testi.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 171
Jacopone da Todi
Donna de Paradiso
T7 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Il testo è generalmente considerato il primo esempio di lauda drammatica; la sua struttura induce infatti a pensare che fosse destinato alla recitazione (forse da parte di una confraternita): la drammatica vicenda della Passione di Cristo è presentata attraverso le voci di diversi personaggi, che dialogano tra loro. Il primo è un nunzio, che alcuni identificano con san Giovanni, che descrive alla Madonna i vari momenti della Passione; si alternano quindi la voce tenera, dolente e accorata della Madonna, i toni crudeli e violenti della folla che chiede la crocifissione, e infine le parole di Gesù stesso che si rivolge alla madre e a san Giovanni.
[Nunzio] «Donna de Paradiso1, lo tuo figliolo è preso2, Iesù Cristo beato. Accurre, donna, e vide che la gente l’allide3: credo che lo s’occide4, tanto l’ho5 flagellato».
5
[Maria] 10
«Com’essere porria, che non fece follia, Cristo, la spene mia, om l’avesse pigliato?6»
[Nunzio] «Madonna, ell’ è traduto7: Iuda8 sì l’ha venduto; trenta denar n’ha avuto, 15 fatto n’ha gran mercato9». [Maria]
«Soccurri, Maddalena! Ionta m’è adosso piena10: Cristo figlio se mena11, com’ è annunzïato12».
La metrica Ballata di settenari, di cui alcuni irregolari ed eccedenti la misura. Lo schema delle rime nelle strofe è aaax, quello della ripresa mmx.
1 de Paradiso: celeste. 2 è preso: è stato catturato. 3 Accurre... allide: accorri, donna e vedi (accurre e vide sono imperativi) che la gente lo percuote (l’allide).
4 lo s’occide: lo uccidano. 5 l’ho: lo hanno. 6 «Com’essere... pigliato?»: come potrebbe (porria) essere (come è possibile) che lo abbiano catturato (om l’avesse pigliato; om ha valore impersonale, come on francese), dato che non commise colpa (follia), Cristo, la mia speranza (spene, latinismo da spes). 7 è traduto: è stato tradito. 8 Iuda: Giuda.
172 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
9 fatto... mercato: l’ha venduto a vilissimo prezzo. È detto in modo antifrastico e ironico. 10 Ionta... piena: mi è venuto addosso un dolore improvviso e irreparabile (come la piena di un fiume). 11 se mena: viene portato via (con valore passivo, come i seguenti se sputa e se prende). 12 com’ è annunzïato: come è stato profetizzato.
20
[Nunzio] «Soccurre, donna, adiuta13, ca ’l tuo figlio se sputa14 e la gente lo muta15 hòlo16 dato a Pilato». [Maria]
«O Pilato, non fare el figlio mio tormentare, ch’io te pozzo mustrare17 como a torto è accusato».
[Folla]
«Crucifige, crucifige! Omo che se fa rege, secondo nostra lege contradice al senato18».
[Maria]
«Prego che me ’ntennate19, nel mio dolor pensate20: forsa mo vo mutate de che avete pensato21».
[Folla]
«Traàm for22 li ladruni, che sian suoi compagnuni23: de spine se coroni, ché rege s’è chiamato!»
[Maria]
«O figlio, figlio, figlio, figlio, amoroso giglio! figlio, chi dà consiglio24 al cor mio angustïato?
25
30
35
40
45
Figlio occhi iocundi25, figlio, co’26 non respundi? Figlio, perché t’ascundi al petto o’ si’ lattato27?»
13 adiuta: aiuta(lo). 14 ca ‘l tuo figlio se sputa: perché viene coperto di sputi. 15 lo muta: seguendo il racconto dei Vangeli, si può interpretare sia come “lo trasferisce” (dal sinedrio al tribunale di Pilato), sia “lo cambia di abito”, perché, come è narrato nel Vangelo secondo Matteo (27, 28) «spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto». 16 hòlo: lo hanno. 17 ch’io… mustrare: perché io ti posso dimostrare. 18 Crucifige... al senato: dal Vangelo secondo Giovanni (19, 7-12) è tratto il riferimento alla legge («Noi abbiamo una Legge
e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio») e all’Impero romano («Chiunque infatti si fa re si mette contro Cesare»). L’inserimento dell’espressione in latino Crucifige, ripresa alla lettera dai Vangeli, sottolinea efficacemente la distanza culturale e spirituale, rispetto alla figura di Cristo, del popolo degli ebrei, allora soggetto all’Impero romano, ed evidenzia l’orizzonte storico in cui esso si situa, che è ancora quello antico della legge, ebraica (come legge divina) e romana (come legge del senato). 19 me ’ntennate: comprendiate quello che provo. 20 nel... pensate: pensate al mio dolore.
21 forsa mo... pensato: forse (latino forsan) allora (mo è voce centro-meridionale) voi mutereste la vostra precedente opinione. 22 Traàm for: tiriamo fuori (dal carcere). 23 compagnuni: compagni. Nel termine si avverte una sfumatura spregiativa. 24 dà consiglio: consolerà. 25 occhi iocundi: dai begli occhi (apposizione al posto di un complemento di qualità). 26 co’: come. 27 al petto o’ si’ lattato: petto, in funzione metonimica per indicare la madre, sottolinea il legame viscerale fra la madre e suo figlio.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 173
[Nunzio] «Madonna, ecco la croce, che la gente l’aduce28, 50 ove la vera luce dèi essere levato29». [Maria]
55
«O croce30, e che farai? El figlio mio torrai31? Como tu ponirai32 chi non ha en sé peccato?»
[Nunzio] «Soccurri33, piena de doglia34, ca’l tuo figlio se spoglia35: la gente par che voglia che sia martirizzato!» 60 [Maria]
«Se i tollete el vestire36, lassatelme vedere, como el crudel ferire tutto l’ha ensanguenato!»
[Nunzio] «Donna, la man li è presa37, 65 ennella croce è stesa38; con un bollon l’ho fesa tanto lo ci ho ficcato39. L’altra mano se prende, ennella croce se stende e lo dolor s’accende, ch’è più moltiplicato.
70
Donna, li pè se prenno e chiavellanse al lenno: onne iontur’ aprenno, tutto l’ho sdenodato40».
75
[Maria]
«E io comenzo el corrotto41: figlio, lo mio deporto42,
28 l’aduce: la porta. 29 ove... levato: dove Cristo, vera luce, deve essere sollevato, posto. 30 O croce: la Madonna si rivolge alla croce con un’apostrofe, quasi personificandola, come se fosse un personaggio da aggiungere a quelli che agiscono nel dramma. 31 torrai: riceverai.
32 ponirai: accuserai. 33 Soccurri: soccorrilo. 34 doglia: dolore. 35 ca’… spoglia: perché stanno spogliando tuo figlio.
36 Se i … vestire: se gli togliete gli indumenti.
37 la man…presa: gli si prende la mano. 38 ennella…è stesa: e la si stende sulla croce.
174 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
39 con un bollon... ficcato: con un chiodo l’hanno trapassata (fesa), tanto (profondamente) ce lo hanno conficcato. 40 li pé... sdenodato: si prendono i piedi e si inchiodano al legno; aprendo ogni giuntura l’hanno tutto slogato. 41 io... corrotto: io comincio il lamento funebre. 42 deporto: gioia. Il termine è proprio della tradizione cortese.
figlio, chi me t’ha morto43, figlio mio dilicato? Meglio averiano fatto che ’l cor m’avesser tratto, che ne la croce è tratto stace descilïato44!»
80
[Cristo]
«Mamma, ove si’ venuta? Mortal me dài feruta, ca ’l tuo planger me stuta45, che ’l veio sì afferrato46».
[Maria]
«Figlio, che m’aio anvito47, figlio, pate e marito48! Figlio, chi t’ha ferito? Figlio, chi t’ha spogliato?»
[Cristo]
«Mamma49, perché te lagni? Voglio che tu remagni, che serve ei mei50 compagni, ch’al mondo aio acquistato51».
[Maria]
«Figlio, questo non dire: voglio teco morire; non me voglio partire fin che mo m’esce ’l fiato52.
85
90
95
100
[Cristo] 105
C’una aiam sepoltura53, figlio de mamma scura54: trovarse en afrantura mate e figlio affocato55!» «Mamma col core afflitto, entro le man te metto de Ioanne, mio eletto56: sia tuo figlio appellato57.
43 chi me t’ha morto: chi ti ha ucciso. Ma si noti la connotazione affettiva struggente del me (a me, mi). 44 Meglio... stace descilïato: avrebbero fatto meglio a strapparmi il cuore, che è trascinato sulla croce e ci sta straziato (stace descilïato). 45 Mortal… me stuta: mi dai una ferita mortale perché il tuo pianto mi spegne (stuta dal latino tutare “smorzar”, detto della cenere sul fuoco). 46 che ’l veio... afferrato: perché lo vedo così angoscioso. 47 che... anvito: ne ho ben motivo.
48 figlio, pate e marito: l’espressione richiama la dottrina teologica trinitaria. Gesù è figlio, ma anche padre (pate), perché Dio, e marito, perché Spirito Santo, per virtù di cui Maria concepì il proprio figlio. Allo stesso modo Dante definirà Maria «Vergine Madre, figlia del tuo figlio» (Pd XXXIII 1). 49 Mamma: il termine usato da Gesù è proprio del registro familiare e colloquiale. Il fatto che sia posto in bocca a Gesù sottolinea il registro “umile” scelto dall’autore. 50 ei mei: i miei. 51 ch’al mondo... acquistato: che ho acquistato per il mondo (per la salvezza del mondo).
52 fin che...’l fiato: finché avrò fiato, finché vivrò. 53 C’una... sepoltura: che possiamo avere (forma desiderativa) una sola sepoltura. 54 scura: infelice. 55 trovarse... affocato: trovarsi madre e figlio soffocato in una stessa sofferenza angosciosa (afrantura). 56 eletto: prediletto. I vv. 104-109 della lauda riecheggiano ancora il Vangelo secondo Giovanni (19, 26-27): «Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”». 57 appellato: chiamato.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 175
Ioanni, èsto58 mia mate: tollela en caritate59, aggine pïetate, ca’l cor sì ha furato60».
110
[Maria]
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«Figlio, l’alma t’è ’scita61, figlio de la smarrita, figlio de la sparita62, figlio attossecato63! Figlio bianco e vermiglio64, figlio senza simiglio65, figlio, a chi m’apiglio66? Figlio, pur m’hai lassato!
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Figlio bianco e biondo, figlio volto iocondo67, figlio, per che t’ha ’l mondo, figlio, così sprezzato? Figlio dolze e placente, figlio de la dolente, figlio, hatte68 la gente malamente trattato! Ioanni, figlio novello, mort’è lo tuo fratello: ora sento ’l coltello che fo profitizzato69. Che moga70 figlio e mate d’una morte afferrate: trovarse abraccecate71 mate e figlio impiccato72».
58 èsto: ecco (forma dialettale umbra). 59 tollela en caritate: ricevila con amore. 60 ca’ l… furato: perché ha il cuore forato, trafitto.
61 t’è ’scita: ti è uscita (dal corpo). 62 sparita: distrutta, ridotta a niente. 63 attossecato: avvelenato.
64 bianco e vermiglio: bianco e rosso, candido e rubicondo (espressione del Cantico dei Cantici). 65 senza simiglio: senza somiglianza, senza pari. 66 apiglio: stringo, appoggio. 67 volto iocondo: dal volto lieto. 68 hatte: ti ha.
176 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
69 ora sento... profitizzato: Maria si riferisce a una profezia di Simeone, riportata nel Vangelo secondo Luca (2, 34-35), che le aveva preannunciato: «a te una spada trafiggerà l’anima». 70 moga: muoiano. 71 abraccecate: abbracciati (tratto umbro). 72 impiccato: appeso alla croce.
Analisi del testo La figura di Maria e l’“umanizzazione” del racconto evangelico della Passione Nel racconto dei Vangeli, durante la Passione, Maria non ha un ruolo centrale, anche se Giovanni ricorda che la madre stava presso la croce di Gesù. È nei Vangeli apocrifi che la Madonna comincia ad assumere un ruolo più rilevante anche negli ultimi momenti della vita di Cristo. Nel testo di Jacopone non soltanto Maria assume una parte molto più estesa e attiva che nei Vangeli, ma tutto il dramma è narrato secondo la sua prospettiva: è a lei, infatti, che si rivolge il nunzio all’inizio della narrazione, ed è a lei che sono descritti gli avvenimenti della Passione di Cristo. Nella lauda drammatica di Jacopone Maria è rappresentata non come la madre del figlio di Dio ma come una madre straziata dal martirio del figlio.
Il livello linguistico Il processo di umanizzazione e di “abbassamento” del racconto evangelico si riflette nel linguaggio della lauda, in cui, accanto a latinismi (ad esempio: allide, vide, torrai), si inseriscono termini propri di un registro “umile” e popolare (Ionta m’è adosso piena, mo, èsto, ensanguenato, lagni, furato). Anche il termine mamma (ma è presente anche il latineggiante mate, v. 103 e v. 108) posto in bocca a Gesù appartiene al registro “basso”. L’accorato lamento della Madonna ricorda inoltre i pianti funebri rituali, diffusi nella cultura popolare: l’iterazione esasperata di figlio, con la lunga anafora che percorre i vv. 112-126 – ulteriormente messa in rilievo dalle rime dei vv. 116-118 (vermiglio, simiglio, apiglio) – sottolinea il legame tutto umano e terreno tra il figlio e la madre e ne imprime il compianto nella memoria del lettore.
La teatralità di Donna de Paradiso Il testo di Jacopone può essere considerato, pur in forma ancora embrionale, il primo dei molti drammi che anche in seguito saranno dedicati alla Passione, in quanto presenta già vari elementi teatrali: nella lauda dialogano infatti diversi personaggi, mentre altri non parlano, ma sono citati come se fossero presenti sulla scena (Maddalena, Pilato, san Giovanni). Altri elementi che determinano l’effetto teatrale della lauda sono da una parte il contrasto fra i personaggi (in particolare la ferocia della folla contrapposta alla tenera dolcezza di Maria) e dall’altra parte la tensione drammatica assunta dalla vicenda, che viene rappresentata nel suo svolgersi, come se essa potesse ancora essere impedita per le preghiere e le suppliche di Maria. A potenziare l’effetto drammatico, si alternano inoltre nella lauda tempi molto rapidi e concitati e tempi rallentati, come quelli in cui è descritto quasi “al rallentatore”, tutto il dolore di Cristo nella crocifissione (vv. 68-71: «L’altra mano se prende, / ennella croce se stende / e lo dolor s’accende, / ch’è più moltiplicato»).
online
Verso il Novecento Il dramma di Maria alla croce nell’interpretazione di Dario Fo.
La Crocifissione nel pannello centrale del polittico dell’Altare di Isenheim (1512-1515) del pittore tedesco Mathias Grünewald.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 177
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza i contenuti della lauda in non meno di 10 righe. COMPRENSIONE 2. Qual è la tematica principale di questa lauda? ANALISI 3. In quali punti del testo è enunciata la posizione del popolo? Riassumi l’intervento del popolo. 4. Indica, motivando la tua scelta, i passi in cui è più evidente l’aspetto umano messo in luce da Jacopone nell’interpretazione della vicenda evangelica. LESSICO 5. Quale significato ha la ripetizione, quasi ossessiva, della parola figlio da parte di Maria?
Interpretare
SCRITTURA 6. Attraverso le voci che intervengono nel testo è “sceneggiata” la Passione di Cristo: ricostruiscine le fasi e stendi un copione della lauda, indicando: le sequenze fondamentali della lauda, le voci narranti, le scene, i dialoghi. COMPETENZA DIGITALE 7. Svolgi una ricerca anche in internet sul motivo della “madre addolorata”. Dopo esserti documentato, proponi esempi, anche attuali, di rappresentazione in altre forme d’arte (cinema, pittura, musica ecc.).
L’interprezione del videoartista statunitense Bill Viola (n. 1951), in Emergence 2002 (per il Paul Getty Museum, Los Angeles).
Capolettera da un codice medievale, con la crocifissione e il compianto della Vergine.
Una scena tratta dal film Il Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini. Il personaggio della Mater dolorosa fu interpretato dalla madre stessa del regista, Susanna Colussi.
178 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
2
La produzione didattico-edificante 1 Le prediche, le Vite dei santi, i trattati morali La predica: una forma particolare di comunicazione Nel XIII secolo la Chiesa aveva compreso l’importanza strategica della predicazione, soprattutto per le masse popolari, sempre più attratte dal dissenso religioso. Le prediche ai fedeli, raccolte da alcuni ascoltatori, ci sono in parte pervenute e testimoniano lo sforzo di divulgare a un pubblico eterogeneo, per larga parte analfabeta, i contenuti della fede cristiana (non è un caso che, in quello stesso periodo, si iniziasse a predicare in lingua volgare e non più in latino). Per realizzare questo scopo persuasivo i predicatori ricorrevano a vari espedienti: innanzitutto l’inserimento nelle omelie di brevi racconti a carattere “esemplare” (➜ C3, PAG. 208) di forte impatto sugli ascoltatori; poi l’utilizzazione di soluzioni “teatrali” per catturare l’attenzione: in alcuni casi l’enfatizzazione della gestualità accomunava le prediche addirittura alle performances dei giullari.
Storie incredibili per gente comune: le Vite dei santi Una tipologia di testi assai diffusa nel Medioevo, che esercitava un ruolo didattico affine alla predicazione, era la letteratura agiografica (dal greco hághios “santo” e grapho “scrivo”), cioè i racconti delle vite dei santi, proposte come modello di perfetta vita cristiana che i fedeli devono e possono imitare. Ne è un esempio illuminante un testo che appartiene alla raccolta agiografica Vite dei santi Padri del predicatore domenicano Domenico Cavalca (1270-1340), tratta da una raccolta in latino. L’autore si rivolge ad online un pubblico di illetterati, e divulga il sapere teologico attraverso T8 Domenico Cavalca efficaci “esempi”, inseriti in un clima fiabesco e meraviglioso, e Un esempio eloquente dell’ottica agiografica Vita di Sant’Elpidio ricorrendo a un toscano semplice ed efficace. I trattati di morale Il termine spesso usato nel Medioevo per i trattati che si proponevano l’educazione morale e religiosa dei fedeli era specchio (in latino medievale speculum): questa espressione metaforica suggeriva al lettore la possibilità di vedere, riflesso nel libro, come in uno specchio, il modello morale da imitare per vivere una vita secondo i valori cristiani. La “pedagogia del terrore” e Lo specchio di vera penitenza di Passavanti Uno dei più noti trattati di morale fu Lo specchio di vera penitenza del domenicano Jacopo Passavanti (1302-1357), raccolta dei suoi sermoni, resi più efficaci dalle narrazioni di molti esempi per l’edificazione dei fedeli. L’opera fu scritta nel momento storico in cui la terribile pestilenza del 1348 aveva posto i fedeli di fronte a quotidiani spettacoli di morte e il monito severo dei predicatori poteva perciò trovare più largo seguito: la peste veniva da essi interpretata come castigo di Dio per la corruzione dell’umanità. Interprete delle tendenze più tipiche della cultura ascetico-penitenziale del tardo Medioevo, Passavanti rivela una visione totalmente pessimista della natura umana. La produzione didattico-edificante 2 179
Jacopo Passavanti
T9
Angeli e demoni si contendono il possesso di un’anima
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Lo specchio di vera penitenza J. Passavanti, Lo specchio di vera penitenza, Società Tipografica de’ Classici Italiani, Milano 1808
In questa narrazione, che si iscrive nel genere “esemplare”, una tipologia testuale assai diffusa nella cultura clericale e finalizzata all’edificazione morale dei lettori, il predicatore Jacopo Passavanti utilizza lo strumento del terrore per convincere chi legge della necessità di pentirsi prima che, come in questo caso, sia troppo tardi. Il tema della “contesa tra angeli e demoni” per il possesso dell’anima di chi sta per morire è diffusissimo non solo nella letteratura, ma anche nella pittura medievale. Dante stesso nella Commedia (Pg. V, 85-129) costruirà un celebre episodio su questo topos. Al testo originale segue la versione in italiano corrente.
Or te ne guarda: credimi, che chi non fa quando puote, quando vorrà, non potrà; o meriterà di mai non volere quello che sia di sua salute. Leggesi (e ’l venerabile dottore Beda1 lo scrive) ch’e’ fu uno cavaliere in Inghilterra, prode dell’arme, ma de’ costumi vizioso, il quale, gravemente infermato, fu 5 visitato dal Re, ch’era un santo uomo; e indotto, che dovesse acconciarsi dell’anima confessandosi come buono Cristiano, rispose, e disse: Che non era bisogno, e che non volea mostrare d’avere paura, né esser tenuto codardo o vile. Crescendo la infermità, e ’l Re un’altra volta venne a lui; e confortandolo, e come avea fatto in prima, inducendolo a penitenzia, e a confessare i suoi peccati, rispose: Tardi è 10 oggimai, messer lo Re; perocch’io sono già giudicato e condennato, che male a mio uopo non vi credetti l’altro giorno, quando mi visitaste, e consigliastemi della mia salute, che, misero a me! ancora era tempo di trovare misericordia. Ora, che mai non foss’io nato! m’è tolta ogni speranza; che poco dinanzi, che voi entraste a me, vennono due bellissimi giovani, e puosonsi l’uno da capo del letto, e l’altro da piè, e 15 dissono: Costui dee tosto morire, veggiamo se noi abbiamo veruna ragione in lui. E l’uno si trasse di seno uno picciolo libro, scritto di lettere d’oro, dove, avvegnaché in prima non sapessi leggere, lessi certi piccioli beni, e pochi, ch’io avea fatti nella mia giovinezza, innanzichè mortalmente peccassi: nè non me ne ricordava. E avendone grande letizia, sopravvennoro due grandissimi, nerissimi e crudelissimi Demonj, e 20 puosono davanti a’ miei occhi un grande libro aperto, ove erano scritti tutti i miei peccati, e tutt’i mali, ch’io avea mai fatti, e dissono a quelli due giovani, che erano gli Angeli di Dio: Che fate voi qui? conciossiacosachè in costui nulla ragione abbiate, e ’l vostro libro, già è molti anni, non sia valuto neente. E sguardando l’uno l’altro, gli Angeli dissono: E’ dicono vero. E così partendosi, mi lasciaro nelle mani de’ De25 monj: i quali con due coltella taglienti mi segano, l’uno dal capo, e l’altro da’ piedi. Ecco quelli da capo mi taglia ora gli occhi, e già ho perduto il vedere; e l’altro ha già segato insino al cuore, e non posso più vivere. E dicendo queste parole si morì.
1 ’l venerabile dottore Beda: Beda il Venerabile, monaco anglosassone, santo (ca 672-735), autore di una
180 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
Storia ecclesiastica del popolo inglese; ebbe grande influenza sulla cultura della Scolastica.
VERSIONE IN ITALIANO attuale
Ora stai attento: credimi, che chi non fa quando può, quando vorrà, non potrà; o meriterà di non ottenere mai quello che gli giovi. Si legge (in uno scritto del Dottore della chiesa, Beda il Venerabile) che viveva in Inghilterra un cavaliere, valoroso nelle armi, ma licenzioso nei costumi, il quale, ammalatosi gravemente fu visitato dal re, ch’era un sant’uomo; e convinto che dovesse purgarsi l’anima, confessandosi come un buono cristiano, rispose dicendo che non c’era bisogno, e che non voleva mostrare d’avere paura, né esser tenuto codardo o vile. Aggravandosi sempre più, il re gli fece visita un’altra volta, lo confortò, cercando di convincerlo, come aveva fatto la prima volta, a fare penitenza e confessare i suoi peccati, al che il cavaliere rispose: «È ormai tardi, o mio re, sono già stato giudicato e condannato, io che a mio danno non vi credetti l’altro giorno, quando mi visitaste, e mi consigliaste per la mia salvezza, quando, me misero, era ancora tempo di trovare misericordia. Ora, che mai fossi nato! sono senza speranza, perché poco prima che voi entraste da me, vennero due bellissimi giovani, e si posero l’uno a capo del letto, e l’altro ai piedi, e dissero: «Costui presto morirà, vediamo se noi abbiamo qualche ragione su di lui. E uno estrasse un libriccino, scritto di lettere d’oro, dove, benché prima non sapessi leggere, lessi certe piccole buone azioni, e poche, che io avevo fatto nella mia giovinezza, prima che peccassi mortalmente, e di cui mi ero scordato. Ed essendone lieto, sopraggiunsero due grandissimi, nerissimi e crudelissimi demoni, e posero davanti ai miei occhi un grande libro aperto, ove erano scritti tutti i miei peccati e tutte le cattive azioni che io avevo fatto, e dissero a quegli altri due giovani, che erano angeli di Dio: “Che fate voi qui, che non potete avere nessuna pretesa nei confronti di costui e che il vostro libro, già da molti anni, non vale più niente. E guardandosi l’un l’altro, gli angeli dissero: “Questi affermano il vero”. E così allontanandosi, mi lasciarono nelle mani dei demoni, i quali con due coltellacci mi aprirono l’uno dal capo, e l’altro dai piedi. Ecco, quello mi taglia dalla testa ora gli occhi, e già ho perso la vista; e l’altro ha già segato fino al cuore, e non posso più vivere». E dicendo queste parole morì.
Analisi del testo Un racconto terrifico Il racconto (scritto per essere inserito come exemplum in una predica ecclesiastica) è breve e apparentemente molto semplice, ma molto significativo e rivelatore della cultura dell’epoca. Di questo genere di narrazioni era alimentato il ricchissimo immaginario medievale, dominato dal senso del divino e privo di una netta distinzione fra il visibile e l’invisibile. Appariva allora radicata la credenza che forze soprannaturali (angeli e demoni) vigilassero costantemente su ogni uomo. Il racconto trapassa perciò con estrema naturalezza e senza soluzione di continuità dal piano visibile a quello invisibile, passando dal racconto realistico dell’incontro tra il cavaliere superbo e il re saggio che tenta di indurlo al pentimento, alla visione del peccatore, che, ormai prossimo alla morte, ha un anticipo del giudizio divino e dei tormenti infernali. In questa seconda parte del racconto, non solo gli elementi soprannaturali non appaiono sfumati né evanescenti, ma anzi sembrano stagliarsi con contorni più netti e colori più vividi di quelli del mondo visibile. Nell’intento di indurre i fedeli al pentimento, il predicatore sa evocare nella fantasia degli ascoltatori immagini di grande impatto visivo, adatte a tenerne sospesa l’attenzione e a impressionarli vivamente fino alla terribile scena finale.
La produzione didattico-edificante 2 181
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo in max 15 righe. ANALISI 2. Completa la tabella, indicando gli elementi di contrasto tra angeli e demoni, analizzandone l’aspetto, l’atteggiamento, i discorsi, le azioni. aspetto
atteggiamento
discorsi
azioni
angeli demoni
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA 3. Pur nella sua semplicità, il racconto traccia un compiuto ritratto morale del peccatore. Indica gli elementi che concorrono a delinearlo. 4. Il predicatore Jacopo Passavanti, come già detto, utilizza lo strumento del terrore del giudizio di Dio per convincere chi legge della necessità di pentirsi prima che, come in questo caso, sia troppo tardi. Il tema della paura è presente in vari testi del Medioevo, ma in particolare nelle rappresentazioni terrifiche del trionfo della morte e dell’aldilà. Quali sono le paure che caratterizzano il Medioevo? Di che cosa, invece, si ha paura oggi e tu di che cosa hai paura?
2 Rappresentare l’aldilà: la “letteratura dell’oltremondo” Un genere di grande fortuna Uno dei generi più interessanti della letteratura religiosa medievale è la cosiddetta “letteratura dell’oltremondo”, incentrata sulle rappresentazioni dell’aldilà, che si diffonde tra il XII e il XIII secolo: ne è esempio la stessa Commedia. Il poema dantesco si distacca però nettamente dalle testimonianze coeve per l’eccezionale altezza poetica. Questo filone letterario si propone di suscitare nei fedeli l’orrore verso una vita peccaminosa e spingere a scelte di vita giuste e morali, mostrando con evidenza realistica le orribili pene dell’inferno e le delizie riservate ai giusti nel paradiso. Lo schema narrativo del viaggio Nella letteratura medievale il contatto di un vivente con l’oltretomba può avvenire attraverso una “visione” o un vero e proprio “viaggio”, inscritto entro riferimenti spazio-temporali che scandiscono le tappe di un itinerario: è il caso della Commedia, in particolare nelle prime due cantiche. Uno dei testi che ebbero maggiore diffusione in tutta Europa è la Navigazione di san Brandano, un testo anonimo redatto in latino nell’ambiente monastico irlandese non oltre il X secolo (➜ T10 OL). Nel tardo Medioevo il testo latino fu volgarizzato in vari dialetti, tra cui il veneto e il toscano. Il testo prende spunto dalla figura di un monaco irlandese realmente vissuto (sec. VI) che fondò numerosi conventi e viaggiò per l’opera di evangelizzazione. Nella Navigazione di san Brandano i viaggi del monaco-santo vengono trasfigurati e inscritti in un orizzonte fantastico: il viaggio del santo con pochi compagni lo conduce oltre i confini del mondo abitato, dove troverà le più incredibili meraviglie prima di giungere al paradiso terrestre, nei pressi del quale incontra l’inferno. I poemetti didattici di Giacomino da Verona e Bonvesin de la Riva Le più significative opere didattiche sull’aldilà nella cultura medievale (a parte ovviamente la Commedia) sono i poemetti di Bonvesin de la Riva (il Libro delle tre scritture: De scriptura nigra, De scriptura rubra, De scriptura aurea), e soprattutto di Giacomino
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online
Per approfondire Immagini dell’al di là nel mondo antico
da Verona, frate francescano: il De Babilonia civitate infernali (Babilonia città infernale) e il De Jerusalem celesti (La Gerusalemme celeste). Composti tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, i due poemetti di Giacomino raffigurano l’aldilà in modo ingenuo e pittoresco, utilizzando un volgare dell’area veneta volutamente “basso”, adatto a raffigurare in modo iperespressivo un mondo ultraterreno che deve colpire l’immaginazione più che lo spirito e l’intelletto del lettore (➜ T12 ).
I precedenti musulmani Il tema del viaggio nell’aldilà non riguarda solo la cultura cristiana, ma è presente anche in quella musulmana, nel Libro della Scala (➜ T11 OL). Il testo originale (del sec. VIII) in lingua araba è andato perduto, ma alla metà del XIII secolo, presso la corte di Alfonso di Spagna, se ne fecero tre traduzioni (spagnolo, francese, latino), che hanno permesso di conoscere questo importante documento della online spiritualità islamica. Il titolo allude alla lunga scala che conduce T10 Anonimo dalla terra al cielo e attraverso la quale il profeta Maometto, guiLa nave di san Brandano avvista l’isola dell’Inferno dato dall’angelo Gabriele, può intraprendere un viaggio nell’aldilà, Navigazione di san Brandano nell’inferno e nel paradiso. Il Libro della Scala ha suscitato l’inT11 Il viaggio ultraterreno come ponte tra cultura araba ed europea teresse degli studiosi per le analogie di temi e immagini ripresi Libro della Scala nella Commedia dantesca. Scopo dei testi edificanti
insegnare ai fedeli il giusto comportamento mediante
PER APPROFONDIRE
• vite dei santi • racconti ricchi di miracoli e fatti straordinari
• viaggi nell’aldilà • rappresentazioni di inferno e paradiso
La raffigurazione del mondo ultraterreno Il riferimento obbligato al mondo terreno Nel modo di raffigurare il mondo ultraterreno confluiscono ovviamente gli archetipi, i modelli culturali propri delle diverse culture, ma in quasi tutte le rappresentazioni, dall’antichità (➜ PER APPROFONDIRE OL Immagini dell’al di là nel mondo antico) al Medioevo, l’altro mondo è concepito e figurato a partire dal mondo terreno. Le immagini dell’aldilà di fatto sono abbastanza simili nelle diverse civiltà, innanzitutto nell’idea di un luogo fisico dove i morti convergono, con tratti di paesaggio che richiamano quelli terreni, un luogo in cui le anime conservano tratti umani, possono godere e soffrire: quando vengono descritti i dolori e le pene sono sempre accentuati e terribili, come accentuati sono i piaceri, seppur di tipo diverso a seconda delle diverse ottiche culturali. Un modello spaziale simbolico: l’opposizione “alto/basso” Uno degli archetipi fondamentali della rappresentazione ol-
tremondana, caratterizzante in particolare l’aldilà cristiano, è l’opposizione alto/basso, mutuata da quella cielo/terra, opposizione in cui ad “alto” si associa il polo della positività, dell’elevazione spirituale, al “basso” (destinato alle anime dannate) il polo negativo, i disvalori della malvagità e della corruzione. Nella Divina Commedia la “verticalità” del viaggio è fortemente sottolineata: dopo la discesa del protagonista-narratore negli abissi infernali e l’esperienza della disperazione e dell’orrore del peccato, il viaggio si configura, nella seconda e terza cantica, espressamente come ascesa. In altre culture il passaggio vitamorte è invece concepito in senso soprattutto “orizzontale”, in particolare nei popoli marinai come i Greci e i Celti, presso i quali la morte era immaginata come una lunga navigazione. Greci e Celti pongono la dimora dei morti in particolare su isole, come le Isole Fortunate. Ancora nella cristianità celtica sopravvive l’immagine dell’“isola dei morti” (➜ T10 OL).
Fissare i concetti La letteratura religiosa nell’età comunale 1. Che cosa si intende con mondanizzazione della Chiesa? 2. Che cosa accade all’interno dell’ordine francescano dopo la morte di Francesco? 3. In che senso il Cantico di frate Sole può essere considerato una testimonianza di misticismo? 4. Quali tematiche sono presenti nelle laude di Jacopone? 5. Quali sono le caratteristiche dello stile utilizzato da Jacopone nelle laude? 6. Da quali generi è caratterizzata la produzione didattico-edificante ?
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Giacomino da Verona
T12
Una raffigurazione terrifica dell’inferno: un monito per i fedeli Babilonia, città infernale
Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Il passo è tratto dal poemetto del frate francescano Giacomino da Verona De Babilonia civitate infernali, dedicato al viaggio ultraterreno nell’inferno, mentre al paradiso è dedicato il De Jerusalem celesti. Se per il genere e l’argomento i poemetti in volgare di Giacomino da Verona precorrono il grande poema dantesco, essi hanno tuttavia ancora un carattere ingenuo e primitivo; le descrizioni sono ricche di particolari concreti e realistici e, come si può notare dal passo proposto, alcune immagini di grossolana corposità generano un effetto involontariamente comico.
Mai no fo veçù logo né altra consa ké millo meia e plu 4 la puça e lo fetor
unca1 per nexun tempo cotanto puçolento, da la longa se sento ke d’entro quel poço enxo.
Asai g’è là çó bisse, vipere e basalischi agui plui ke rasuri 8 e tuto ’l tempo manja
liguri, roschi e serpenti, e dragoni mordenti: taia l’ong[l]e e li denti, e sempr’ è famolenti2.
Lì è li demonii ke ge speça li ossi, li quali è cento tanto 12 s’el no mento li diti
cun li grandi bastoni, le spalle e li galoni, plu nigri de carboni, de li sancti sermoni.
VERSIONE IN ITALIANO attuale
Mai non fu visto, proprio mai, in nessun tempo, luogo o altra cosa tanto puzzolente, che a mille miglia e più di distanza si sentono il tanfo e il fetore, che da dentro quel pozzo (infernale) escono. In gran numero laggiù ci sono bisce, ramarri, rospi e serpenti, vipere e basilischi e draghi che mordono; acuti più che rasoi tagliano le (loro) unghie e i denti, e tutto il tempo mangiano e sono sempre affamati. Lì ci sono i demoni con i grandi bastoni, che a loro spezzano le ossa, le spalle e i femori, i quali sono cento (volte) tanto più neri dei carboni, se non mentono i detti delle sante scritture.
La metrica Quartine di alessandrini (doppi settenari) monorimi; la rima può essere sostituita da una semplice assonanza. 1 unca: mai (dal lat. unquam).
2 Asai g’è là… è famolenti: nella voragine infernale si raccolgono spaventosi rettili di ogni sorta, alcuni reali, altri tratti dalle figure favolose dei bestiari, come i grandi draghi e il basilisco, un serpente caratterizzato, se-
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condo la leggenda, da uno sguardo capace di uccidere.
Tant à orribel volto k’el n’ave plu plaser esro scovai de spine 16 enanço k’encontrarne
quella crudel compagna, per valle e per montagna da Roma enfin en Spagna un sol en la campagna3.
Ked i çeta tutore, fora per mei’ la boca la testa igi à cornua 20 et urla como luvi
la sera e la doman, crudel fogo çamban, e pelose le man, e baia como can.
Ma poi ke l’omo è lì en un’aqua lo meto ke un dì ge par un anno, 24 enanço k’eli el meta
e igi l’à en soa cura, k’è de sì gran fredura segundo la scriptura, en logo de calura.
E quand ell’ è al caldo, tanto ge pare ’l dur, dond el non è mai livro 28 de planto e de grameça
al fredo el voravo esro, fer, forto et agresto, per nexun tempo adeso ede gran pena apresso.
Staganto en quel tormento, çoè Balçabù, ke lo meto a rostir, 32 en un gran spe’ de fer
sovra ge ven un cogo, de li peçor del logo, com’un bel porco, al fogo, per farlo tosto cosro.
Quella crudele compagnia ha un volto tanto orribile che si ha più piacere (a) essere colpiti, per valli e per montagne, con fasci di spine da Roma fino alla Spagna, piuttosto che incontrarne uno solo nella campagna. Ché essi, e la sera e la mattina, ininterrottamente, attraverso la bocca, gettano crudele fuoco diabolico, la testa hanno cornuta e pelose le mani, e urlano come lupi, e abbaiano come cani. Ma poiché l’uomo è lì ed essi l’hanno in loro cura, lo mettono in un’acqua talmente gelida che un giorno a loro pare un anno, secondo la scrittura, finché essi li mettono in un luogo di gran calura. E quando essi sono al caldo, essi vorrebbero essere al freddo, tanto a loro pare duro, feroce, forte e aspro (il calore), dove lui (il peccatore) non è mai libero, per nessun tempo ormai, da pianto e da tristezza e insieme da gran pena. Stando in quel tormento, gli viene addosso un cuoco, cioè Belzebù, dei peggiori del luogo, che lo mette ad arrostire, come un bel porco, al fuoco, su un grande spiedo di ferro, per farlo rosolare subito.
3 Tant’à orribel… en la campagna: l’immagine iperbolica sottolinea l’orrore suscitato dalla vista spaventosa dei diavoli.
La produzione didattico-edificante 2 185
4 E po’ prendo... divin: la miscela infernale è costituita principalmente da ingredienti velenosi, misti ad acqua e vino; l’autore osserva con ironia che è tanto buona e raffinata che Dio dovrebbe preservarne ogni cristiano.
E po’ prendo aqua e sal e fel e fort aseo e sì ne faso un solso 36 ca ognunca cristïan
e caluçen e vin e tosego e venin ke tant e bon e fin sì ’n guardo el Re divin4.
A lo re de l’inferno et el lo guarda dentro «E’ no ge ne daria 40 ké la carno è crua
per gran don lo trameto, e molto cria al messo: – ço diso – un figo seco, e ’l sango è bel e fresco.
Mo tornagel endreo e dige a quel fel cogo e k’el lo debia metro 44 entro quel fogo ch’ardo
vïaçament e tosto, k’el no me par ben coto, col cavo en çó stravolto sempromai çorno e noito.
E stretament ancor k’el no me’l mando plui, né no sia negligento 48 k’el sì è ben degno
dige da la mia parto mo sempro lì lo lasso, né pegro en questo fato, d’aver quel mal et altro».
E poi prende acqua e sale e fuliggine e vino e fiele e forte aceto e tossico e veleno, e così ne fa una salsa che è tanto buona e fine che il Re divino ne preservi ogni cristiano. Al re dell’inferno come grande dono lo manda ed egli lo guarda dentro e molto grida al messo (che lo ha portato): «Io non gliene darei (in cambio) – così dice – un fico secco, perché la carne è cruda e il sangue è bello fresco. Adesso riportaglielo indietro in fretta e subito, e di’ a quel cuoco incapace che non mi pare ben cotto, e che egli lo dovrebbe mettere col capo in giù, volto dall’alto in basso, dentro a quel fuoco che arde continuamente giorno e notte. E in modo perentorio digli ancora da parte mia che non me lo mandi più, ma sempre lì lo lasci, né sia negligente o pigro (in questo fatto), che il dannato è ben degno di subire quel male e altro».
Analisi del testo La raffigurazione dei demoni e delle pene infernali La rappresentazione del mondo infernale è ingenua e tutta fondata su impressioni sensoriali, che conferiscono al testo una concretezza quasi realistica. La prima percezione sensoriale è olfattiva e caratterizzata dall’iperbole: la puzza è tale che si avverte a distanza di mille miglia. L’impressione visiva della figura dei diavoli risulta altrettanto terrificante e viene anch’essa sottolineata da un’iperbole: piuttosto che vedere uno dei demoni si preferirebbe correre da Roma alla Spagna sotto i colpi di fasci spinosi. Viene poi evocata un’altra dimensione sensoriale, quella tattile: l’acqua ghiacciata si alterna alla crudeltà del fuoco «fer, forto et agresto». C’è anche la dimensione gustativa, nella descrizione dell’orrida miscela infernale utilizzata dai demoni per cucinare il dannato come un «bel porco».
Lo scopo della narrazione L’insistito riferimento alle impressioni sensoriali è da collegare con l’intento predicatorio dell’autore, che mira all’efficacia didattica della sua opera: suscitando raccapriccio e spavento per le pene infernali, essa si propone di distogliere i fedeli dal peccato. Il carattere popolare del testo è evidenziato dalla presenza di elementi comici e farseschi, fra i quali spicca la scena del dannato cucinato da Belzebù e respinto dal re dell’inferno perché non abbastanza cotto.
186 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi in max 20 righe il contenuto del testo. COMPRENSIONE 2. Qual è lo scopo dell’autore?
PER APPROFONDIRE
Interpretare
SCRITTURA 3. Indica gli aspetti del mondo infernale che potevano apparire più terrificanti per l’ascoltatore o il lettore del poemetto di Giacomino da Verona e che perciò potevano risultare più persuasivi, dato l’intento didattico ed edificante del testo.
La figurazione del diavolo nella cultura medievale Alle radici della demonologia cristiano-medievale In tutte le manifestazioni della cultura medievale sono presenti il senso del peccato e la paura del diavolo (dal lat. diabolus, “calunniatore”), designato con vari nomi, come Satana, Belzebù, Lucifero. Nella concezione cristiano-medievale del diavolo confluirono elementi folclorici provenienti dal paganesimo (ad es. l’assimilazione tra il diavolo e il dio Pan) e dalle religioni dei celti, germani e slavi; ma i fondamentali cardini teologici della demonologia si devono a papa Gregorio Magno nel VI secolo: Lucifero, il maggiore fra gli angeli, a causa del suo orgoglio e della sua sfida a Dio, fu scaraventato nel profondo degli abissi, dove diventa il Principe dei demoni. Sotto le spoglie del serpente tentatore, spinge Adamo ed Eva a sfidare i limiti loro imposti da Dio e la sua opera seduttiva e malefica continua poi nei secoli, facendo leva sulla tendenza al peccato insita in ogni uomo. Di questa concezione di Satana come costante presenza, minacciosa e insieme tentatrice per ogni essere che viene al mondo, è improntato il rito stesso del battesimo, in cui sopravvivono tracce di una sorta di esorcismo nei confronti di Satana.
L’iconografia del diavolo Prima del VI secolo non esiste ancora nessuna raffigurazione pittorica o d’altro genere del diavolo (la prima sua comparsa è in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, verso il 520), ma dall’XI secolo le rappresentazioni del Maligno si diffondono e diventano comuni. Nel tempo il diavolo tende ad assumere aspetti sempre più bestiali. Se figurato in animale è un drago o un serpente, talora con volto umano. Anche quando il diavolo e i demoni suoi ministri hanno tratti umani, c’è sempre nel loro aspetto qualcosa di mostruoso e ripugnante, che li assimila agli animali: piedi caprini, coda, pelo, orecchie allungate, addirittura le corna o le ali di pipistrello, attributi fisici che sottolineano l’abiezione, la mancanza di armonia e bellezza e che contrappongono vistosamente il diavolo alle creature angeliche. A partire dall’XI-XII secolo alla figura del diavolo e dei demoni, assistenti del Maligno, sono associati spesso il nero (colore delle tenebre infernali) e il rosso (del sangue e delle fiamme). Infine il diavolo è quasi sempre nudo, perché legato all’oscenità e alla lussuria, come è ovvio in una cultura come quella medievale che demonizzava la sessualità. La più celebre raffigurazione del diavolo si trova nella prima cantica della Commedia. Con potente fantasia visionaria Dante immagina Satana conficcato al centro della Terra dopo la caduta dal cielo: è un mostro enorme, con ali di pipistrello, tre teste, coperto di pelo, immobile, immortalato nel gesto perenne di azzannare i traditori per eccellenza, Bruto, Cassio, Giuda. Gli “emissari di Satana” Sono coloro che sostengono tra gli uomini l’opera del Maligno, come le streghe o persino, in un’ottica evidentemente distorta, anche gli appartenenti ad altre fedi religiose: nella cultura medievale vennero “demonizzati”, considerati adepti di Satana anche ebrei e musulmani. Si diffuse anche l’idea che singoli esseri viventi potessero contrarre un patto con il diavolo. Si tratta di una leggenda trasmessa attraverso le prediche verso il XIII secolo, che ebbe grande diffusione in Europa (si pensi al mito di Faust) e che produsse funeste conseguenze, sostenendo la persecuzione agli eretici e in seguito la caccia alle streghe. Saggio di riferimento: B. Russell, Il diavolo nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1987.
Lucifero nel ghiaccio del Cocito (If XXXIV) dal Codex Altonensis della Commedia (metà secolo XIV).
La produzione didattico-edificante 2 187
Duecento e Trecento La letteratura religiosa nell’età comunale
Sintesi con audiolettura
1 Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa
Una letteratura critica verso la Chiesa La predominanza nel Medioevo di una concezione del mondo ispirata ai valori cristiani è diretta conseguenza del ruolo centrale esercitato per secoli dalla Chiesa nella società e nella cultura. Ma già a cavallo dei secoli XI e XII sorgono nella cristianità (italiana, in particolare) movimenti spontanei (detti pauperistici) che cercano di riproporre i valori evangelici e l’ideale della povertà, a fronte di un potere ecclesiastico verticistico e gerarchico ritenuto sempre più lontano da tali ideali originari. Il potere ecclesiastico reagisce contro ogni forma di dissenso alla parola ufficiale: promuove sanguinose crociate contro i movimenti ereticali veri e propri (in particolare verso quello dei càtari) e guarda con sospetto, spesso accomunandoli agli eretici, anche persone e gruppi che promuovono semplicemente un ritorno alla purezza del Vangelo. In questo contesto nasce il movimento francescano che scaturisce dalla vicenda di Francesco d’Assisi e che riesce a essere ufficialmente riconosciuto e approvato dalla Chiesa come ordine mendicante (insieme ai domenicani, fondati da Domenico di Guzmán). Dopo la morte di Francesco il dissenso non si placa e viene veicolato anche da una produzione letteraria che nel XIII secolo ha esponenti rilevanti in Jacopone da Todi e nello stesso Dante Alighieri.
188 Duecento e Trecento La letteratura religiosa nell'età comunale
Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi Figure di spicco dell’area del dissenso e al contempo principali rappresentanti della poesia religiosa medievale sono Francesco d’Assisi (1181-1226) e, in seguito, Jacopone da Todi (1236?-1306?). Mentre Francesco rimane però fino alla morte rispettoso dell’autorità del papa, che approva ufficialmente nel 1223 l’ordine mendicante francescano da lui fondato, Jacopone, strenuo oppositore del papa Bonifacio VIII, subisce la scomunica e il carcere. In entrambi si manifesta una visione mistica del rapporto con Dio, che si contrappone nettamente al filone razionalistico del pensiero medievale (rappresentato soprattutto da san Tommaso d’Aquino) e che trova in Bonaventura da Bagnoregio, francescano e biografo ufficiale di Francesco, il maggiore rappresentante a livello filosofico. Alla ricerca razionale il misticismo contrappone, come strumento per raggiungere Dio, la fede e una scelta di vita ascetica. Una scelta già testimoniata pienamente dalla vita controcorrente e dalla predicazione di Francesco, figura presto leggendaria per la comunità cristiana. Francesco è autore del celeberrimo Cantico di frate Sole, considerato il testo che inaugura la letteratura italiana: una preghiera in volgare umbro illustre che celebra la bellezza del creato e l’unità mistica di tutte le creature in Dio. Alla letizia di Francesco si contrappone la cupa visione presente nelle laude di Jacopone, rappresentante della corrente francescana degli spirituali, che interpreta in modo rigoristico il messaggio di Francesco. Nelle sue laude esalta in modo ossessivo la vita ascetica, che contrappone all’attrazione per i beni mondani e alla cultura delle università. Un altro filone delle sue laude celebra l’estasi mistica e l’amore esaltante per Dio. Tipica di Jacopone è la scelta di uno stile espressionistico che ricorre spesso a un ardito plurilinguismo.
2 La produzione didattico-edificante
Generi letterari per la conversione del peccatore Nella letteratura medievale alcuni generi sono espressamente concepiti per la diffusione efficace del messaggio cristiano e l’edificazione dei fedeli: ricordiamo le Vite dei santi, narrazioni scritte costellate di miracoli, visioni, episodi palesemente inverosimili, ma a cui nel Medioevo si prestava fede assoluta; a esse i predicatori attingevano ampiamente inserendo nelle loro omelie esempi (exempla) utili al convincimento morale dei fedeli. Altrettanto importanti sono gli specula, cioè i trattati per l’educazione morale dei fedeli, tra cui emerge lo Specchio della vera penitenza di Jacopo Passavanti, improntato a una “pedagogia del terrore” per cui il fedele è messo di fronte alle tremende ed eterne conseguenze dello stato di peccato.
Sintesi
Duecento e Trecento 189
La rappresentazione dell’aldilà Nel Medioevo hanno grande fortuna testi incentrati sui viaggi nell’aldilà già presenti nelle letterature classiche (Odissea, Eneide). Il resoconto di questi viaggi e le raffigurazioni “realistiche” dell’aldilà hanno una precisa finalità didattica: indurre il lettore a un comportamento morale, raffigurando le delizie del paradiso e le orribili pene che lo attendono nell’inferno. È il caso dei poemetti, stesi nella seconda metà del XIII secolo, di Bonvesin de la Riva (Libro delle tre scritture) e di Giacomino da Verona (De Babilonia civitate infernali e De Jerusalem celesti). Anche la Commedia di Dante si iscrive in questa tipologia, ma con risultati artistici del tutto incomparabili.
Zona Competenze Scrittura
1. Il misticismo è una caratteristica comune a tutta la religiosità medievale che però si esprime e si manifesta in forme e atteggiamenti diversi. Dopo aver fatto le opportune ricerche scrivi una relazione di massimo 30 righe.
Competenza 2. Dopo aver letto l’approfondimento OL Immagini dell’aldilà nel mondo antico scrivi un digitale resoconto sulle visioni dell’oltremondo a partire dall’Odissea e sul significato che esse assumono in rapporto al variare del contesto culturale e sociale. Realizza poi il tuo lavoro sotto forma di presentazione multimediale, corredata da immagini e didascalie.
190 Duecento e Trecento La letteratura religiosa nell'età comunale
Duecento e trecento CAPITOLO
3 Forme del narrare nella società comunale
Nel corso del Duecento, in relazione al nascere di una nuova realtà comunale, si assiste all’affermazione della prosa in volgare e all’emergere del gusto del narrare per un nuovo pubblico. Tre sono i generi in cui si manifesta questo piacere di narrare: la letteratura di viaggio, la novella e le cronache cittadine. Nel primo spicca Il Milione, il celebre libro di Marco Polo; nel genere della novella emergerà in particolar modo il Decameron di Boccaccio e nelle cronache i cittadini ritroveranno il ritratto delle città comunali.
il viaggio 1 raccontare nel Medioevo per il gusto 2 narrare di narrare: la novella cronache 3 Lecittadine 191
1
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 L’affermazione della prosa in volgare
L’accoglienza del pellegrino, che impugna il bordone (part. della vetrata del rosone, duomo di Friburgo, Svizzera 1250 ca.).
I volgarizzamenti Nel corso del Duecento, in rapporto alle esigenze della vivace realtà comunale, conosce un forte incremento l’uso della prosa in volgare (o meglio nei vari volgari): molti testi sono in realtà traduzioni, adattamenti e riscritture di opere soprattutto latine, ma anche francesi. Per questa ricca produzione si parla di volgarizzamenti per precisare che non si tratta, appunto, di opere originali, anche se svolsero un ruolo indubbiamente importante nella formazione culturale dei ceti dirigenti nei comuni italiani. Si tratta di opere di diverso argomento e tipologia testuale, come ad esempio i trattati di retorica: il fiorentino Brunetto Latini, uno dei più importanti intellettuali del tempo, traduce nella sua Rettorica il De inventione di Cicerone (oltre a varie orazioni del grande scrittore latino). L’affermazione del ceto borghese-mercantile e le esigenze di un pubblico inserito nelle multiformi attività dei comuni alimenta però anche una produzione in prosa originale, finalizzata soprattutto alla divulgazione secondo l’ottica enciclopedica propria del tempo, come la Composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo, o alla trasmissione di norme di comportamento morale secondo un’ottica laica, come il Libro de’ Vizi e delle Virtudi di Bono Giamboni.
2 L’emergere del gusto del narrare per un nuovo pubblico I tre generi della narrazione Più significative e interessanti per noi oggi sono le forme della prosa originate dal gusto del narrare, che incontra particolarmente il favore del nuovo pubblico cittadino. Tre sono principalmente i generi in cui si manifesta il gusto del narrare, con diverse modalità e funzioni: la letteratura di viaggio, la novella e le cronache cittadine. Nel primo filone spicca un libro celebre, già al tempo un vero bestseller, Il Milione del mercante veneziano Marco Polo. Nel genere della novella, particolarmente gradito ai lettori appartenenti al mondo mercantile, si iscriverà uno dei capolavori assoluti della letteratura italiana, il Decameron di Giovanni Boccaccio, che è appunto una raccolta di cento novelle. Nelle cronache cittadine infine i lettori del tempo potevano ritrovare il ritratto della società comunale, con particolare riferimento alle passioni politiche che ne caratterizzarono la vita.
192 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
3 I racconti di viaggio Un mondo in cammino Nel Medioevo l’esperienza del viaggiare era tutt’altro che rara (basti pensare ai clerici vagantes ➜ SCENARI, PAG. 64), nonostante le grandi difficoltà che comportava: si viaggiava in tempi lunghi, su strade dissestate, usando carretti e muli e non pochi erano i pericoli e le incognite, anche per la scarsità di conoscenze geografiche. Ancora più rischiosi, anche se più rapidi, erano i viaggi per mare, a causa delle tempeste e dei continui attacchi dei pirati (come dimostra la celebre novella di Landolfo Rufolo nel Decameron di Boccaccio ➜ C8 T9a ). Pellegrini e missionari Ma chi viaggiava? Innanzitutto i pellegrini. Fin dai primi secoli del Medioevo iniziano i pellegrinaggi verso le mete religiose più importanti della cristianità, concepiti dalla religiosità medievale come occasioni penitenziali e devozionali, veri e propri itinerari salvifici. Col tempo, emersero fra tutte tre mete di pellegrinaggio: Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela. Roma è il centro della cristianità, sede del martirio di Pietro e Paolo; Gerusalemme, la terra dove visse e morì Cristo, nei testi sacri è anche simbolo del paradiso (la Gerusalemme celeste); Compostela, secondo una pia tradizione, accoglie il corpo di san Giacomo. Uno degli itinerari più frequentati dalla massa di pellegrini è la via Francigena che dalla Francia, dalle regioni del bacino renano e dalle isole britanniche portava a Roma attraversando buona parte dell’Italia settentrionale e centrale. I due oggetti che accompagnavano il pellegrino (e che ne permettevano l’immediato riconoscimento) erano la bisaccia (una piccola borsa di pelle sempre aperta, con allusione ai princìpi di carità e povertà) e il bordone (un alto bastone dalla punta metallica che simboleggiava la difesa dal male e dalle tentazioni del viaggio). Dalla metà del XIII secolo iniziano anche i viaggi di alcune figure della Chiesa, in particolare appartenenti all’ordine francescano, verso l’Estremo Oriente, con l’obiettivo, già proprio di Francesco d’Assisi, di convertire al cristianesimo i popoli di quelle zone. I missionari lasciarono ampia testimonianza dei loro viaggi in relazioni dettagliate riguardanti anche le abitudini e le credenze dei popoli che avevano incontrato.
Pellegrini in viaggio (miniatura, secolo XII).
Intellettuali in viaggio La nascita delle università, prestigiose istituzioni che, nel corso del XII secolo, diventarono il centro dell’insegnamento superiore e dell’elaborazione del sapere, determinò una notevole mobilità degli intellettuali. Le università erano aperte a studenti di qualsiasi provenienza, che si spostavano nelle varie sedi (non per nulla erano comunemente chiamati clerici vagantes) per seguire i docenti più famosi, a loro volta in movimento, perché chiamati a insegnare da questa o quella sede. Nel corso del XIV secolo gli intellettuali iniziano a viaggiare anche in rapporto alle esigenze della nascente società signorile: i signori, sia laici sia ecclesiastici, cercano di aggregare alla loro corte gli intellettuali più noti. Oltre a muoversi tra le diverse corti, gli intellettuali svolgevano attività di mediazione fra diversi potentati e quindi compivano missioni e ambascerie diplomatiche. Esemplare in questo senso la vita di Francesco Petrarca (1304-1374), dominata dall’esperienza costante del viaggio, come ci testimoniano molte sue lettere. Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 193
I mercanti, viaggiatori per eccellenza Ma sono soprattutto i mercanti a viaggiare: il loro errare in aree geografiche lontane e spesso ignote è motivato da un interesse prevalentemente economico ed è espressione dell’intraprendenza propria del ceto borghese nella civiltà urbana del Basso Medioevo. Oltre a mete quali l’Europa settentrionale intorno al mar Baltico, le isole dell’Atlantico e l’Africa settentrionale, sicuramente la zona più attraente per i mercanti, anche per i rilevanti interessi economici coinvolti, è costituita dall’Estremo Oriente, soprattutto verso la metà del Duecento, quando vi si costituì il grande impero mongolo, che non si mostrava del tutto chiuso all’incontro con il mondo occidentale. Numerosi mercanti, come il veneziano Marco Polo, si avviarono verso quelle terre circondate da un’atmosfera di mistero, nelle quali si favoleggiava di immense ricchezze di personaggi spesso immaginari, come il prete Gianni (➜ SCENARI, D4 OL). Le relazioni di viaggio dei mercanti I mercanti erano consapevoli dell’utilità di divulgare la conoscenza di nuovi orizzonti geografici, nuovi costumi, lingue, religioni e nuove concezioni del mondo: da qui la preoccupazione di lasciare memoria scritta dei viaggi compiuti. È giunta fino a noi una grande quantità di documenti, di varia natura: dai portolani, guide per individuare porti, approdi, punti favorevoli delle coste, ai cataloghi di luoghi importanti per lo scambio commerciale, ai tariffari con indicazioni di costi e pratiche di mercatura, agli zibaldoni, diari di bordo utilizzati abitualmente dai membri delle corporazioni mercantili per le loro annotazioni di viaggio.
Viaggiatori nel Medioevo CHI VIAGGIA E PERCHÉ
Pellegrini
per penitenza o devozione verso Roma, Gerusalemme o Santiago de Compostela
Studenti
per seguire le lezioni di docenti famosi
Mercanti
per espandere i propri commerci
Pellegrini romei (cioè diretti a Roma) in un altorilievo della cattedrale di Fidenza (1180 ca.).
194 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
Rodolfo il Glabro
La vicenda di un pellegrino a Gerusalemme
D1
Cronache dell’anno mille Rodolfo il Glabro, Cronache dell’anno mille, a c. di G. Cavallo e G. Orlandi, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1989
1 Autun: cittadina della Borgogna, regione del centro della Francia. 2 vanagloria: vano orgoglio di chi, per il gusto di essere lodato dagli altri, si vanta di qualità e meriti inesistenti. 3 Bèze: abbazia benedettina francese, non lontana da Digione.
Il cronista medievale Rodolfo il Glabro descrive le folle di pellegrini di ogni ceto sociale che dopo il Mille si mossero verso Gerusalemme.
Nello stesso periodo da tutto il mondo cominciò a dirigersi verso il Sepolcro del Salvatore, a Gerusalemme, una folla immensa come mai nessuno prima d’allora aveva osato sperare. Vi andarono rappresentanti della bassa plebe, poi delle classi medie, in seguito tutti i grandi, re conti marchesi vescovi, e infine, come non era mai accaduto, 5 molte donne della nobiltà insieme con altre più povere. In molti di quei cuori v’era la speranza di morire prima di far ritorno in patria. Ecco la storia di un certo Letbaldo, d’origine borgognona, proveniente dalla zona di Autun1, che viaggiando con gli altri giunse a destinazione. Al cospetto di quei luoghi santissimi, arrivato che fu al punto del monte Oliveto dal quale il Salvatore, davanti a tanti autorevoli testimoni, 10 era asceso al cielo – e di là, secondo la promessa, verrà a giudicare i vivi e i morti –, quell’uomo, gettandosi disteso a terra con tutto il corpo nella posizione di chi è in croce e piangendo per la gioia inesprimibile del suo cuore, esultava nel Signore. Più volte, rialzatosi, con le mani aperte tese al cielo cercava con tutte le sue forze di librarsi verso l’alto, rivelando l’aspirazione della propria mente con parole simili 15 a queste: «Signore Gesù, che ti sei degnato di scendere in terra dal trono della tua maestà per salvare il genere umano, e che da questo luogo, che ora osservo coi miei occhi, rivestito di carne sei tornato al cielo da cui eri venuto, supplico la tua bontà onnipotente di far sì che, se la mia anima deve quest’anno separarsi dal corpo, io non mi allontani di qui, e il trapasso avvenga in vista del luogo della tua ascensione. 20 Come ti ho seguito col corpo fino a giungere in questo luogo, così penso che la mia anima, seguendoti, stia per entrare sana e salva nella gioia del paradiso». Dopo questa preghiera rientrò con i compagni al suo alloggio. Era già l’ora di desinare; mentre gli altri sedevano a tavola, egli se ne andò lieto in volto verso il letto, come se, preso da grave spossatezza, volesse riposare un poco; e subito si addormentò. Che cosa 25 vedesse nel sonno non si sa; ma d’un tratto mentre dormiva esclamò: «Gloria a te, Dio! gloria a te, Dio!». Udendolo, i compagni lo invitarono ad alzarsi e a venire a mangiare. Egli rifiutò, e girandosi sull’altro fianco disse di non sentirsi tanto bene. Restò sdraiato fino a sera, quando, chiamati a sé i compagni di pellegrinaggio, chiese e ottenne il viatico vivificante dell’eucarestia; e dopo averli dolcemente salutati, spi30 rò. Un uomo come lui, certamente libero dalla vanagloria2 che induce tanta gente a questo viaggio con l’unico fine di farsi belli come pellegrini a Gerusalemme, invocò il Padre con fede in nome del Signore Gesù e ottenne ciò che desiderava. Al loro ritorno i compagni ci riferirono, nel monastero di Bèze3 dove allora stavamo, i fatti come li abbiamo raccontati.
Concetti chiave Il pellegrinaggio come purificazione Dall’anno Mille, visto come momento di rinascita spirituale, inizia un’ondata di pellegrinaggi. Rodolfo il Glabro ritrae le folle in cammino verso il Santo Sepolcro di Gerusalemme con un entusiasmo anticipatore delle crociate e narra un episodio leggendario che rivela il significato di questi viaggi.
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 195
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Chi sono coloro che si dirigono in pellegrinaggio verso il Santo Sepolcro? 2. Qual era la speranza dei pellegrini? ANALISI 3. Che cosa vuol dire la frase «Come non era mai accaduto, molte donne della nobiltà insieme con altre più povere»? 4. L’episodio di un certo Letbaldo può esser definito leggendario. Per quale motivo?
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Interpretare
SCRITTURA 5. In tempi recenti ha ripreso grande vigore il costume del pellegrinaggio (ad esempio proprio a Santiago di Compostela): come spieghi questo fenomeno? (max 20 righe)
Franco Cardini Il significato del termine pellegrino F. Cardini, Gerusalemme d’oro, di rame, di luce. Pellegrini, crociati, sognatori d’Oriente fra XI e XV secolo, Il Saggiatore, Milano 1991
Partendo dal significato del termine “pellegrino”, lo storico medievista Franco Cardini ci fornisce un’importante chiave di lettura del fenomeno dei pellegrinaggi medievali verso la Terra Santa.
A ben intendere il fenomeno cristiano del pellegrinaggio, è necessario anzitutto riflettere sull’avventura semantica della parola peregrinus. Essa, in origine, non ha niente che rinvii all’idea di un viaggio dal quale si torna, ma significa bensì “straniero”, “estraneo”. È peregrinus pertanto ogni cristiano, in quanto straniero su questa terra; in essa, il fedele del Cristo è d’altro canto peregrinus in quanto “esule”: cittadino dei cieli, confinato temporaneamente in questa valle di lacrime dove è costretto a scontare i peccati suoi e di tutto il genere umano, egli anela di continuo alla liberazione e al ritorno alla patria celeste. A Gerusalemme, nei primi secoli del cristianesimo, si giunge portati non solo dal desiderio di vedere i luoghi fisici della vita e della passione di Gesù Cristo; se è questo, la Città santa è anche il luogo della Fine dei Tempi, lo scenario del Giudizio. A Gerusalemme si viene per morire: e quindi per risorgere il più possibile prossimi al Cristo della Seconda Venuta. Il pellegrinaggio equivale al senso più definitivo e profondo della metànoia1, della conversio: una volta giunto in Gerusalemme il pellegrino è come morto al mondo, e tutto quello che gli resta da attendere è la fine e quindi la resurrezione. 1 metànoia: nella teologia cristiana, è il pentimento profondo che implica la rinuncia al peccato e il rivolgersi a Dio.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
1. Quale significato attribuisce al termine peregrinus lo storico Franco Cardini?
Produzione
3. Prova a formulare, con parole tue, la tesi sostenuta da Cardini (max 20 righe).
2. Perché il pellegrinaggio, secondo Cardini, corrisponde alla conversio?
196 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
4 Marco Polo e Il Milione
Lessico bestseller Il termine è moderno e indica un’opera, spesso un libro, ma non esclusivamente, che ha una vendita e dunque una diffusione particolarmente ampia.
La vita avventurosa di Marco Polo, emblema del viaggiatore Il veneziano Marco Polo (1254-1324), figlio e nipote di mercanti viaggiatori, accompagnò il padre Niccolò e lo zio Matteo nel loro secondo viaggio verso l’Estremo Oriente, rimanendovi per ben venticinque anni. Dopo un avventuroso viaggio attraverso l’Armenia, l’altipiano dell’Iran, il deserto del Gobi, i Polo giunsero a Cumbao (oggi Pechino), ben accolti alla corte di Qubilai, Gran Khan di tutti i Tartari. Il giovane Marco si guadagnò la stima del Gran Khan, che gli assegnò importanti incarichi politici e diplomatici (a ciò non fu estraneo il fatto che i tre veneziani conoscessero discretamente le lingue tartara, cinese e persiana). In qualità di governatore, Marco poté visitare la Cina meridionale, la Cocincina e forse l’India inferiore. Il ritorno in patria nel 1295 segnò un cambiamento radicale nella sua vita: preso prigioniero dai genovesi durante un conflitto tra le due repubbliche di Venezia e Genova, trascorse quattro anni in carcere prima di essere liberato e tornare alla mercatura, in forma però, pare, sedentaria. Nella sua prigionia il mercante si trovò ad avere come compagno di cella Rustichello da Pisa, autore in particolare del Meliadus, poema cavalleresco di un’ormai trita materia arturiana, non privo all’epoca di una certa fama. A Rustichello Marco Polo dettò le memorie dei suoi straordinari viaggi: ne nacque Il Milione, un vero e proprio bestseller . Il Milione: un doppio narratore Il Milione nasce così dalla felice cooperazione di due attitudini diverse: il racconto orale di Marco, basato essenzialmente sulla memoria, e la scrittura di Rustichello, che dovette fissare e dar veste letteraria a quei ricordi, divenendone corresponsabile. Tuttavia quest’ultimo definisce con chiarezza la propria posizione di narratore di “secondo livello”, poiché parla di Marco Polo in terza persona, raccontandone la figura, la biografia e le avventure senza mai uscire dall’ombra di un puro servizio di “trascrittore” delle sue memorie. La struttura e i contenuti Il libro si compone di due parti di diversa estensione. Nella prima, assai breve, definita dall’autore prologue (prologo), si narra in maniera concisa il succedersi delle vicende vere e proprie dei Polo, dal primo viaggio di Niccolò e Matteo al secondo, cui partecipò anche Marco, fino al loro rientro a Venezia dopo un soggiorno di diciassette anni in Cina. La seconda, considerata dall’autore stesso il libro vero e proprio, è un “trattato” etno-geografico composto sul modello delle sezioni tematicamente analoghe delle “pratiche della mercatura”. Seguendo l’itinerario compiuto da Marco, la trattazione è organizzata per località: di ogni zona viene descritto con abbondanza di particolari il paesaggio, il clima, la vegetazione, la fauna, i minerali ecc. senza escludere le strutture architettoniche delle varie città.
Struttura narrativa de Il Milione Rustichello scrive narratore di 1° grado ciò che Marco ha visto e udito narratore di 2° grado da testimoni degni di fede narratore di 3° grado
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 197
Delle diverse popolazioni incontrate personalmente o di cui ha avuto informazioni Marco Polo illustra le abitudini di vita, le attività economiche e commerciali, la moneta impiegata. Non mancano narrazioni mitologiche, aneddoti di tradizioni locali e simili. L’intento e la prospettiva della narrazione La narrazione de Il Milione è dominata da un intento eminentemente informativo e formativo (non a caso l’autore utilizza spesso la funzione conativa del linguaggio: “sappiate che”, e forme simili). L’interesse di Marco Polo nel comunicare la sua straordinaria esperienza non è però meramente commerciale e utilitaristico (offrire ai mercanti informazioni utili a sviluppare commerci futuri), ma essenzialmente cultural-antropologico. Lo testimonia il fatto che le informazioni relative a merci, prezzi, prodotti e materie prime sono sporadiche e la loro presenza nel testo è decisamente meno significativa delle osservazioni dedicate alla natura, agli animali e soprattutto agli aspetti antropologici (usi, costumi, leggende, credenze religiose diverse), che Marco Polo osserva con animo curioso e disponibile nei confronti dell’“altro”. Anche se talvolta Marco Polo indulge ancora a credenze medievali, che accettano l’esistenza del mostruoso e del fantastico, comincia a emergere ne Il Milione un’ottica critica e razionale, rivolta al nuovo, tipica della società mercantile.
Marco Polo salpa da Venezia in una miniatura dell’inizio del XV secolo (da un codice della Bodleian Library di Oxford).
Il titolo, la lingua e la trasmissione del testo L’opera diventò presto famosa col titolo di Il Milione, derivato presumibilmente dal soprannome che i Polo avevano ereditato da un loro antenato, Emilio o Emilione. Il titolo originale è ignoto; nel manoscritto più accreditato che ci ha trasmesso il testo compare il titolo Divisament du monde (“Descrizione del mondo”), che potrebbe essere quello del libro (o comunque vicino a esso) perché ne rispecchia la natura di trattato geografico-etnografico. Il Milione fu scritto in lingua d’oïl, la prestigiosa lingua romanza di cui si serviva abitualmente Rustichello; il manoscritto originale andò però perduto, mentre restano i volgarizzamenti, il più antico dei quali risale a prima del 1309. Il gran numero di volgarizzamenti, soprattutto in toscano, testimonia l’immediata e vasta fortuna dell’opera, che andava incontro alle attese e al gusto di un pubblico borghese e urbano, a vario titolo coinvolto nel mondo della mercatura.
Il Milione Racconto orale di Marco Polo
Scritto in lingua d’oïl da Rustichello da Pisa
198 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
Prima parte: resoconto di viaggio
Seconda parte: trattato etnogeografico
Marco Polo
EDUCAZIONE CIVICA
Il pubblico e il metodo della narrazione
T1
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo Costituzione competenza 3 LEGGERE LE EMOZIONI
Il Milione, Prologo
#PROGETTOPARITÀ
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Il Prologo, conciso ma fornito dei dati essenziali per comprendere le caratteristiche e le finalità dell’opera, si rivolge ai potenziali lettori. Viene sottolineata la novità dell’opera ed enunciato il metodo della narrazione.
M. Polo, Il Milione, a cura di Ruggero M. Ruggieri, Olschki, Firenze 1986
Signori imperadori, re e duci1 e tutte altre genti che volete sapere le diverse generazioni2 delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverete tutte le grandissime maraviglie e gran diversitadi delle genti d’Erminia3, di Persia e di Tarteria4, d’India e di molte altre provincie. E questo vi conterà5 il libro 5 ordinatamente siccome messere Marco Polo, savio e nobile cittadino di Vinegia, le conta in questo libro e egli medesimo le vide. Ma ancora v’ha6 di quelle cose le quali elli7 non vide, ma udille da persone degne di fede, e però8 le cose vedute dirà di veduta e l’altre per udita9, acciò che ’l nostro libro sia veritieri e sanza niuna menzogna. Ma io voglio che voi sappiate che poi che Iddio fece Adamo nosto primo padre 10 insino al dì d’oggi10, né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno uomo di niuna generazione non vide né cercò tante maravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo: però disse infra sé medesimo che troppo sarebbe grande male s’egli non mettesse in iscritto tutte le maraviglie ch’egli ha vedute, perché chi non le sa l’appari11 per12 questo libro. 15 E sí vi dico ched egli dimorò in que’ paesi bene trentasei anni13, lo quale poi, stando nella prigione di Genova, fece mettere in iscritto tutte queste cose a messere Rustico da Pisa, lo quale era preso14 in quelle medesime carcere ne gli anni di Cristo 1298. 1 duci: comandanti. 2 generazioni: razze. 3 d’Erminia: Armenia. 4 Tarteria: Mongolia. 5 conterà: racconterà. 6 v’ha: ci sono.
7 elli: egli. 8 e però: perciò. 9 di veduta… per udita: per averle viste…
11 l’appari: le apprenda. 12 per: attraverso. 13 trentasei anni: errore del copista per
per averle udite.
“ventisei”.
10 poi che… d’oggi: dalla creazione fino
14 preso: imprigionato.
ad oggi.
Analisi del testo Un pubblico variegato Nel Prologo si nota innanzitutto la volontà di rivolgersi a un vasto pubblico, di lettori nobili e di «tutte le altre genti» che abbiano la stessa caratteristica di Marco Polo, ossia la curiosità di conoscere le «diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo». Il Milione non è dunque soltanto la relazione di un mercante per altri mercanti, ma il racconto di un viaggiatore che vuole comunicare la sua straordinaria esperienza a un pubblico variegato, composto di borghesi, nobili, e persino imperatori e re: affermazione non azzardata perché il primo “pubblico” di Marco Polo era stato lo stesso Gran Khan, che preferiva inviare in missione Marco Polo nei luoghi più lontani perché sapeva riferire cose molto più interessanti dei comuni ambasciatori.
Le circostanze della composizione e le indicazioni sul metodo Il narratore, Rustichello da Pisa, informa il lettore sulle qualità di Marco Polo «savio e nobile cittadino», per avvalorare indirettamente l’attendibilità del suo racconto. Indica poi le circostanze della composizione del libro, scritto in prigione, dove Marco e Rustichello si trovavano, dopo essere stati catturati in una guerra contro i genovesi. È poi presente una precisa indicazione di metodo: il libro racconterà «ordinatamente» le notizie sui paesi e sulle genti
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 199
dell’Estremo Oriente così come Marco le vide. La voce narrante del Prologo, in sostanza quella di Rustichello, sottolinea che quanto viene raccontato è frutto dell’esperienza diretta di Marco Polo; vi saranno anche cose che egli non vide di persona, «ma udì raccontare da persone degne di fede» e di questa differente modalità di acquisizione dei dati si darà chiara notizia, per amore di verità storica: «e però le cose vedute dirà di veduta e l’altre per udita, acciò che ’l nostro libro sia veritieri e sanza niuna menzogna». Significativa è l’espressione “nostro” attribuita al libro: con l’aggettivo Rustichello sottolinea la narrazione “a due mani” che presiede alla stesura de Il Milione.
La maraviglia e la diversità Nel Prologo emerge chiaramente la consapevolezza dell’eccezionalità dell’esperienza vissuta da Marco Polo, che ha potuto vedere cose straordinarie: lo testimonia la frequenza del lessema della maraviglia, riferito a luoghi, animali, persone incontrate («grandissime maraviglie», «tante maravigliose cose del mondo», «tutte le maraviglie ch’egli à vedute», rr. 3, 12, 14). Il termine maraviglia potrebbe però trarre in inganno: nel Medioevo il meraviglioso era in genere incredibile e fantastico, per lo più del tutto inverosimile. Per questa ragione veniva spesso associato ai luoghi ignoti dell’Oriente, dove si immaginava vivesse ogni sorta di esseri mostruosi e prodigiosi. Nulla di tutto questo ne Il Milione, in cui si afferma il nuovo orizzonte mentale dei mercanti: le cose descritte possono essere straordinarie, mai però inventate. Per la prima volta Marco Polo, testimone oculare, nel suo viaggio va alla ricerca della “verità”: «acciò che ’l nostro libro sia veritieri e sanza niuna menzogna». “Meraviglioso” per Marco Polo non è l’esotico e lo stravagante, ma ciò che colpisce la sua sempre vigile attenzione: luoghi, monumenti, fenomeni naturali, ma anche dati economici. Ne è un esempio un passo de Il Milione in cui, con la precisione caratteristica del mercante, Marco Polo riferisce il profitto ricavato dal sale nella contrada di Quisai: «il sale di questa contrada rende l’anno al Grande Kane 80 tomain d’oro: ciascuno tomain è 80.000 saggi d’oro, che monta per tutto 6400 di saggi d’oro – e ciascuno saggio d’oro vale piúe d’un fiorino d’oro –, e questo è maravigliosa cosa».
Un uomo moderno La maraviglia si associa ne Il Milione alla scoperta della diversità. Se la cultura medievale tende a prestar fede a tutto ciò che ha valore simbolico ed è confermato dalle auctoritates, Marco Polo è già un uomo moderno: non solo vuole verificare ogni cosa di persona, con notevole spirito critico, ma, come un viaggiatore di oggi, lo interessa ciò che è “diverso”, particolare, nuovo, peculiare di un’altra regione del mondo e di un’altra cultura e perciò degno di essere osservato e ricordato. Marco Polo indaga e investiga i costumi altrui con incredibile disponibilità conoscitiva: non giudica, non disprezza.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Rintraccia nel testo del Prologo il narratore, il destinatario, il contenuto del libro, lo scopo e il metodo della narrazione utilizzato. Poi sintetizza le informazioni raccolte in un testo espositivo di almeno 15 righe. COMPRENSIONE 2. Per quali aspetti il libro di Marco Polo si differenzia dai precedenti racconti di viaggio? ANALISI 3. Lo scrupolo di verità che anima tutta l’opera è riconoscibile anche nelle informazioni che il Prologo fornisce circa l’autore e le circostanze della composizione dell’opera. Rintracciale nel testo.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA 4. A quale valore si riferisce la parola chiave diversità del testo originale di Marco Polo? (max 5 righe) 5. A Marco Polo, come viaggiatore, interessa ciò che è “diverso”, particolare, nuovo, peculiare di un’altra regione del mondo e di un’altra cultura e perciò degno di essere osservato e ricordato. C’è ancora la diversità nel mondo omologato e nell’industria del viaggio organizzato? La diversità ti fa paura, ti inquieta oppure ti attrae?
200 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Costituzione
competenza 3
6. La disponibilità a conoscere chi è diverso da noi non porta necessariamente con sé la rinuncia alla propria identità; al contrario il contatto con la diversità può arricchirci, può farci riflettere, apre la nostra mente e ci fa comprendere che esistono varie sfaccettature della realtà in cui viviamo. Ti sembra che nella società in cui vivi ci sia il rispetto delle diversità, l’apertura al confronto, la rivalutazione delle proprie convinzioni oppure ti sembra di vivere a contatto con chi ha paura del diverso, con chi non è disponibile a conoscere diversi usi o costumi nella convinzione che il proprio modo di vivere sia giusto? ScrItturA e cIneMA 7. Fai una ricerca su film che trattano il tema del viaggio, i più noti e quelli meno conosciuti, quelli che raccontano esplorazioni, imprese e storie di vita. Scegli quello che più ti attrae, guarda il film e scrivi una recensione in non più di 20 righe.
Marco Polo
t2
I favolosi unicorni di Sumatra Il Milione, 147
M. Polo, Il Milione, a cura di Ruggero M. Ruggieri, Olschki, Firenze 1986
Il passo costituisce un esempio delle descrizioni de Il Milione: condotte con ordine, concise e ricche di dati derivanti dall’osservazione diretta.
Quando l’uomo si parte dell’isola di Petam [...]trova l’isola di Iava la minore1: ma ella non è sì piccola ch’ella non giri duemilia miglia. E di questa isola vi conterò tutto il vero. Sappiate che in su questa isola hae otto re coronati, e sono tutti idoli, e ciascuno di questi reami ha lingua per sé. Qui ha grande ab2 3 5 bondanza di tesoro e di tutte care ispezierie. Or vi conterò la maniera di tutti questi reami, di ciascuno per sé. E dirovvi una cosa che parrà maraviglia ad ogni uomo: che questa isola è tanto verso mezzodì4, che la tramontana5 non si vede né poco né assai. Or torneremo alla maniera degli uomeni, e dirovvi de’ reame di Ferbet. Sappiate, 10 perché i mercatanti saracini usano in questo reame con lor navi6, e’ hanno convertita questa gente alla legge di Malcometto; e questi sono soli quelli della città. Quegli delle montagne sono come bestie, ch’egli mangiano carne d’uomo e d’ogni altra bestia e buona e rea7. Egli adorano molte cose8, ché la prima cosa ch’egliono veggiono la mattina sì la adorano. 15 Ora v’ho contato di Ferbet: ora vi conterò de’ reame di Basma. Lo reame di Basma, ch’è all’uscita di Ferbet è reame per sé, e loro linguaggio propio; e non hanno niuna legge se no come bestie. Egliono si richiamano per lo Gran Cane9, ma no gli fanno niuno trebuto, perché sono sìe alla lunga che la gente del Gran Cane non vi potrebbe andare10; ma alcuna volta lo presentono11 d’alcuna cara
1. Iava la minore: Sumatra, chiamata da-
6. usano… navi: frequentano questo rea-
gli Arabi “piccola Iava” o “Iava la minore”. 2. abbondanza di tesoro: le risorse del sottosuolo. 3. la maniera: le caratteristiche. 4. mezzodì: a sud. 5. la tramontana: è la stella polare che indica il Nord. Marco Polo vuole dire che Sumatra per la sua posizione non può mai vedere la stella polare.
me con le loro navi. 7. rea: cattiva. 8. Egli adorano molte cose: sono politeisti. 9. si richiamano… Gran Cane: si dichiarano sudditi del Gran Khan. Il titolo significa “gran signore” e identifica per antonomasia Kublai, signore dei Mongoli dal 1260 al 1294.
10. perché… non vi potrebbe andare: sono così distanti che gli emissari del Gran Khan non vi potrebbero andare. 11. presentono: gli fanno dono.
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 201
cosa. Egli hanno leonfanti12 assai salvatichi, e unicorni che non sono guari minori che leonfanti13. E sono di pelo di bufali, e piedi come leonfanti. Nel mezzo della fronte hanno un corno nero e grosso: e dicovi che non fanno male co quel corno, ma co la lingua, ché l’hanno ispinosa tutta quanta di spine molte grandi. Lo capo hanno come di cinghiaro, la testa porta tuttavia inchinata verso la terra; 25 ed istà molto volentieri tra li buoi14: ella è molto laida bestia a vedere. Non è, come si dice di qua, ch’ella si lasci prendere alla pulcella15, ma è il contradio16. Egli hanno iscimmie assai e di diverse fatte; egli hanno falconi neri buoni da uccellare. [...] Or lasciamo questo reame, ché non ci ha altro da ricordare; e dirovvi dell’altro c’ha 30 nome Samarca. 20
12. leonfanti: elefanti. 13. non sono… leonfanti: non sono per
nulla più piccoli degli elefanti. 14. tra li buoi: con i buoi.
15. alla pulcella: dalla fanciulla. 16. contradio: contrario.
Analisi del testo Uno sguardo da “testimone oculare” Il passo dedicato all’isola di Sumatra è esemplare per cogliere in tutta la sua portata il mutamento di prospettiva culturale rappresentato dall’esperienza di Marco Polo. Prima di tutto, il viaggiatore veneziano sa che cosa osservare: il suo sguardo, per nulla condizionato dal simbolismo medievale, è quello di un mercante, e insieme di un antropologo e di un naturalista. Nuovo e moderno è poi l’atteggiamento razionale e critico, da “testimone oculare”, con cui Marco Polo confronta la propria “enciclopedia mentale” con i dati offerti dalla realtà. Oltre ai luoghi, agli aspetti politici, economici e alle abitudini di vita degli abitanti, Polo si sofferma, come in questo passo, sulla descrizione degli elementi naturali, dei minerali, delle piante e degli animali. L’osservazione di questi ultimi, per un uomo medievale che si è formato sui bestiari e sulle fantasiose enciclopedie del tempo, riserva alcune sorprese. Un caso esemplare è quello degli unicorni: colpisce qui l’atteggiamento razionale e critico con cui Marco Polo mette a confronto i dati osservati con la tradizione medievale, di cui mostra gli errori e le ingenuità.
Il caso esemplare dell’unicorno Bestiari ed enciclopedie medievali concordavano nella rappresentazione di un animale di pura fantasia: bianco, aggraziato e simile a un capretto, con un corno solo, che si lasciava amabilmente catturare da una fanciulla vergine. A Sumatra Marco Polo credette di avere finalmente avvistato il favoloso e rarissimo animale, che nessuno aveva ancora mai visto, ma che delusione! Era una bestia laida e sgraziata, con un corno, ma con il pelo tutto nero e sporco (si trattava infatti di un rinoceronte). Tra le righe, il viaggiatore veneziano suggerisce di non avvicinare nessuna vergine a quel bestione grosso e feroce: «non è vero, come si dice in Occidente, che si lasci catturare da una fanciulla vergine, ma è il contrario». Marco Polo descrive dunque la realtà attraverso la sua cultura (nella quale esistevano gli unicorni), ma anche pronto a smentire ciò che non regge alla prova dei fatti. Tale atteggiamento mentale lo porta a sfatare diverse leggende medievali (ad esempio, in un altro passo osserva che la salamandra non vive nel fuoco come raccontavano i bestiari). Di contro, in Oriente, terra leggendaria di mostri e di prodigi, il suo occhio vigile di mercante sa scorgere cose di cui non si sospettava neppure l’esistenza, come il carbon fossile e il petrolio, che l’Occidente imparerà a conoscere e sfruttare soltanto secoli dopo.
Lo stile L’apertura mentale del viaggiatore e mercante veneziano si riflette anche nello stile comunicativo dialogico: si rivolge continuamente al lettore per rassicurarlo che non racconterà nulla di inventato, ma soltanto cose vere, seppure talvolta apparentemente inverosimili («vi conterò tutto ’l vero», «diròvi una cosa che parrà meraviglia a ogn’uomo», «non è, come si dice di qua»).
202 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Presenta in sintesi il testo (non più di 10 righe), privilegiando la descrizione oggettiva del racconto di Marco Polo. ANALISI 2. Spiega quale atteggiamento assume l’autore nei confronti dei dati osservati. Motiva la tua risposta facendo riferimento al testo (max 10 righe). LESSICO 3. Rintraccia nel testo le espressioni che indicano l’apertura mentale del viaggiatore e mercante veneziano.
Interpretare
SCRITTURA 4. Nel Medioevo il viaggiatore non conosceva i limiti del suo viaggiare, poteva soltanto immaginarli; il viaggio, qualsiasi viaggio, era pervaso da un’aura di avventura e di magia che spesso prevaleva sullo stesso intento del viaggio. Descrivi come tali aspetti si riflettano nei testi antologizzati.
online
Interpretazioni critiche Umberto Eco Un “inviato speciale” deluso dagli unicorni
online T3 Marco Polo La pericolosa setta dei fumatori di hashish Il Milione, 35
VERSO IL NOVECENTO
Kublai Khan offre il suo sigillo d’oro a Marco Polo e al padre Niccolò (miniatura da un manoscritto francese del XV secolo).
Il Marco Polo di Calvino: dal progetto cinematografico alle Città invisibili Nel 1960, appena conclusa la Trilogia degli antenati (Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato), Italo Calvino (1923-1985) scrive un testo su Marco Polo come base per un film. Il film non fu mai realizzato e lo scritto di Calvino rimase allora inedito, ed è ora pubblicato in un volume dei Meridiani Mondadori dedicato alle opere dello scrittore. Calvino dedica particolare attenzione alla costruzione del personaggio di Marco Polo: lo presenta come un giovane curioso, a volte ancora ingenuo, ma accorto e desideroso di sapere cosa c’è dietro alle cose, e lo immagina mentre osserva l’Oriente «a occhi sgranati», col naso all’insù, pronto a immergersi nella realtà con tutti i sensi. («Nei banchi delle spezie, ci ficca il naso dentro»; a Baghdad lo prende il desiderio di «toccar tutto, assaggiare tutto»). All’imperatore Kublai Khan il Marco Polo immaginato da Calvino per il film si sarebbe presentato così: «Sono figlio di mercanti, nipote di mercanti; la mia vocazione quale volete che sia? Mercante anch’io. O meglio, cercatore: quello che mi piacerebbe di più è andare per i paesi, le terre sconosciute, e vedere tutte le qualità di cose che ci sono, bestie, pietre, merci, e rendermi conto di come sono fatte». Dieci anni dopo, nel 1970, Calvino inizia a elaborare il progetto delle Città invisibili: all’interno di una cornice, costituita dal dialogo, denso di riflessioni antropologiche e filosofiche tra Marco Polo e Kublai Khan, sono descritte 55 città che Marco ha visitato, come ambasciatore e consigliere del potente signore.
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 203
VERSO IL NOVECENTO
Lo stesso Calvino per la sua opera parla espressamente di un “rifacimento” de Il Milione, di cui è evidente la suggestione; ma le città descritte dall’autore moderno sono immaginarie, proiezioni di temi conoscitivi e filosofici cari all’autore.
Italo Calvino Le città invisibili Rispetto al progetto cinematografico di dieci anni prima, nelle Città invisibili il personaggio di Marco Polo rivela un fondo di malinconia e di nostalgia: il suo pensiero torna continuamente a Venezia e, in uno dei dialoghi della cornice, Marco spiega che in fondo lui parla sempre di Venezia, perché quando descrive ogni città la confronta con quella che per lui è la città, Venezia, il luogo dove è nato. Ciò significa che ogni viaggio, attraverso il confronto con un mondo altro, è alla fine una messa a fuoco della propria identità.
VI. Dopo il tramonto, sulle terrazze della reggia, Marco Polo esponeva al sovrano le risultanze delle sue ambascerie. D’abitudine il Gran Kan terminava le sue sere assaporando a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo sbadiglio non dava il segnale al corteo dei paggi 5 d’accendere le fiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell’Augusto Sonno. Ma stavolta Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchezza. – Dimmi ancora un’altra città, – insisteva. – [...] Di là l’uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante... – riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e costumi e commerci d’un gran numero 10 di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d’arrendersi. Era l’alba quando disse: – Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco. – Ne resta una di cui non parli mai. Marco Polo chinò il capo. – Venezia, – disse il Kan. 15 Marco sorrise. – E di che altro credevi che ti parlassi? L’imperatore non batté ciglio. – Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome. E Polo: – Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. – Quando ti chiedo d’altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia. 20 – Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia. – Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia così com’è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei. L’acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame dell’antica reggia dei 25 Sung si frantumava in riverberi scintillanti come foglie che galleggiano. – Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano, – disse Polo. – Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d’altre città, l’ho già perduta a poco a poco.
Testo di riferimento: B. Falcetto, Le cose e le ombre. “Marco Polo”: Calvino scrittore per il cinema, in La visione dell’invisibile. Saggi e materiali su Le città invisibili di Italo Calvino, a c. di M. Barenghi, G. Canova, B. Falcetto, Mondadori, Milano 2002. La citazione è da I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972.
204 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
PER APPROFONDIRE
La letteratura di viaggio oggi, fra Kerouac, Chatwin, Terzani, Pessoa e Laura Imai Messina Il tema del viaggio è così connaturato all’esistenza umana che, in fondo, ogni libro parla di viaggi, effettivi o metaforici, mentali o reali. Come osserva Bruce Chatwin in Le vie dei canti «Ci sono critici francesi pronti ad acclamare in Proust, l’eremita della stanza foderata di sughero, il più grande viaggiatore della letteratura». Molti libri, tuttavia, sono rivolti in modo più specifico a comunicare esperienze ed emozioni di viaggi compiuti realmente. Un genere novecentesco di letteratura di viaggio è quello della narrazione (e del film) on the road, inaugurato dal famoso romanzo di Jack Kerouac Sulla strada (1957), in cui del viaggio interessa soprattutto la dimensione trasgressiva, il rifiuto di integrarsi in alienanti meccanismi sociali alla ricerca di una forse impossibile libertà. Ma vi è anche una letteratura di viaggio in cui, come ne Il Milione, l’attenzione è posta soprattutto su mondi diversi e lontani, e su ciò che di essi il viaggiatore ha visto, udito, compreso. In questo genere di letteratura l’autore, attraverso le proprie emozioni e riflessioni, apre lo sguardo del lettore su un “mondo altro”, rendendolo partecipe delle proprie esperienze. Così, analogamente a quanto Marco Polo sottolinea nel prologo a Il Milione, chi non ha potuto scoprire le straordinarie cose che ci sono sulla terra, può almeno apprezzarle per mezzo del racconto di altri viaggiatori. Il più famoso autore di tale genere di libri di viaggi è oggi probabilmente Bruce Chatwin (1940-1989), divenuto un vero e proprio mito e quasi il simbolo del viaggiatore per la sua vita breve e irrequieta, i suoi molteplici interessi (esperto d’arte e di architettura, archeologo, giornalista, viaggiatore, scrittore), il suo modo di viaggiare (con zaino in spalla, penna e quaderni Moleskine per annotare impressioni di viaggio, riflessioni, citazioni di libri, aneddoti), il rifiuto di ogni sistemazione stabile, l’irrequietezza. «Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?», scrive, ed è famoso il racconto di quando, vista una carta della Patagonia disegnata da un’anziana architetto, le confessa il suo desiderio di andarci. La vecchia signora lo incoraggia a realizzare il suo desiderio e Chatwin parte immediatamente, senza neppure il tempo di dare le dimissioni al giornale per cui lavorava, che avverte con un telegramma: «Sono andato in Patagonia». Ne nascerà uno dei suoi libri più famosi, In Patagonia (1982). Tra i libri di viaggio più significativi scritti da Chatwin sono Le vie dei canti (1988), sulla misteriosa cultura degli aborigeni australiani e la loro idea del sacro, e Anatomia dell’irrequietezza (1996, postumo), in cui l’autore inglese espone le sue idee sul nomadismo, spiegando perché secondo lui gli uomini sono fatti per viaggiare. Come Il Milione è stato l’archetipo della letteratura di viaggio e ha insegnato un nuovo modo di guardare il mondo, così, sulle orme di Chatwin, molti hanno esplorato i luoghi da lui amati, alla periferia della civiltà: in tal senso si può citare come esempio Patagonia Express (1999) dello scrittore cileno Luis Sepúlveda.
Un altro genere di letteratura di viaggio che ha grande sviluppo nel Novecento, ma il cui archetipo si può ancora una volta ricondurre a Marco Polo, è il reportage giornalistico: anche Marco Polo era stato incaricato da Kublai Khan di raccontare ciò che aveva visto negli sterminati territori dell’impero. Oggi, purtroppo, la letteratura di questo genere è per lo più letteratura di guerra; tra i libri italiani più interessanti del genere reportage sono quelli di Tiziano Terzani (19382004), giornalista che nella sua carriera ha sempre cercato di trovarsi nei “luoghi caldi” del pianeta, e che, con il suo stile chiaro e incisivo, ha testimoniato la guerra del Vietnam, i genocidi in Cambogia, il crollo del regime sovietico, la drammatica realtà dell’Afghanistan. Tra i suoi libri, In Asia (1998) ripercorre le vicende della storia asiatica e analizza le molteplici realtà di quel continente, dall’India, al Giappone, alla Cina, al Vietnam, unendo il reportage all’autobiografia; per le realtà descritte è interessante anche Lettere contro la guerra (2002), che mostra l’evoluzione di Terzani, nell’ultimo periodo della sua vita, da giornalista di guerra a giornalista contro la guerra, e presenta un’interessante testimonianza sulla realtà afghana e, più in generale, sul mondo dopo l’11 settembre. Un genere di letteratura di viaggio originale è rappresentato dai libri di Claudio Magris (nato nel 1939), dedicati in particolare alla Mitteleuropa, in cui al racconto di viaggio e alle descrizioni dei luoghi, dei popoli e delle persone, si intrecciano riflessioni sulla letteratura, la cultura, gli eventi, i personaggi che in quei luoghi hanno vissuto, alla ricerca delle più profonde radici storiche e culturali di ciò che si è visto durante il viaggio: ne è un esempio Danubio (1990), in cui il corso del fiume, dalle sorgenti al Mar Nero, simboleggia il cammino della storia e della cultura mitteleuropea. Dello stesso Claudio Magris è il libro L’infinito viaggiare (2006), in cui alle riflessioni sul viaggio si accompagnano brevi racconti sui tanti incontri dell’autore con libri, luoghi e persone. Grazie alla casa editrice Einaudi, nel 2016 viene pubblicato un testo, una piccola guida, Lisbona Quello che il turista deve vedere, scritta da Fernando Pessoa in inglese nel 1925, molto utile ancora oggi e arricchita da un’appendice Lisbona oggi, con suggerimenti utili anche al visitatore degli anni Duemila. All’interno del testo il lettore può percorrere con Pessoa le vie di Lisbona dal Bairro Alto all’Alfama, dal castello de Sâo Jorge al monastero dos Jerónimos, scoprendo le bellezze della città. Un grande scrittore portoghese guida quindi il lettore alla scoperta di una straordinaria capitale europea, dando modo di vedere monumenti, palazzi, piazze con gli occhi di chi è nato in quella città. Nel 2020 per Einaudi esce Tokyo tutto l’anno della scrittrice Laura Imai Messina. In questo libro l’autrice definisce Tokyo, una città «in uno stato di infanzia perenne», una delle grandi metropoli globali, ricchissima di storie, tradizioni e segni, una città dove usanze secolari convivono con gli appassionati di manga e videogame. Tokyo viene descritta come una città in cui i ritmi frenetici della vita odierna si alternano con quelli ritmati delle festività. Si tratta di un viaggio sentimentale all’interno di una grande metropoli.
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 205
Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da B. Chatwin, Questo nomade nomade mondo in Anatomia dell’irrequietezza, Adelphi, Milano 1996
Diversivo. Distrazione. Fantasia. Cambiamento di moda, di cibo, amore e paesaggio. Ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo. Senza cambiamento, corpo e cervello marciscono. L’uomo che se ne sta quieto in una stanza chiusa rischia di impazzire, di essere tormentato da allucinazioni e introspezione. 5 Neurologi americani hanno fatto l’encefalografia a non pochi viaggiatori. È risultato che cambiare ambiente e avvertire il passaggio delle stagioni nel corso dell’anno stimola i ritmi cerebrali e contribuisce a un senso di benessere, di iniziativa e di motivazione vitale. Monotonia di situazioni e tediosa regolarità di impegni tessono una trama che produce fatica, disturbi nervosi, apatia, disgu10 sto di sé e reazioni violente. Nessuna meraviglia, dunque, se una generazione protetta dal freddo grazie al riscaldamento centrale e dal caldo grazie all’aria condizionata, trasportata su veicoli asettici da un’identica casa o albergo a un altro, sente il bisogno di viaggi mentali o fisici, di pillole stimolanti o sedative, o dei viaggi catartici del sesso, della musica e della danza. Passiamo troppo 15 tempo in stanze chiuse. Io preferisco lo scetticismo cosmopolita di Montaigne1. Per lui il viaggio era «un utile esercizio; la mente è stimolata di continuo dall’osservazione di cose nuove e sconosciute... Nessuna proposizione mi stupisce, nessuna credenza mi offende, per quanto contraria alle mie... I selvaggi che arrostiscono e mangiano 20 i corpi dei loro morti mi scandalizzano meno di coloro che perseguitano i vivi». L’abitudine, egli dice, e la fissità degli atteggiamenti mentali ottundono i sensi e nascondono la vera natura delle cose. L’uomo è naturalmente curioso. «Chi non viaggia non conosce il valore degli uomini» dice Ibn Battuta2, l’infaticabile girovago arabo che andò da Tangeri alla Cina e ritorno per il gusto di 25 viaggiare. Ma il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma. [...] I bambini hanno bisogno di sentieri da esplorare, di orientarsi sulla terra in cui vivono, come un navigatore si orienta in base a noti punti di riferimento. Se scaviamo nelle memorie dell’infanzia, ricordiamo dapprima i sentieri, poi cose e persone – sentieri nel giardino, la strada per la scuola, la strada intorno a 30 casa, corridoi attraverso le felci o l’erba alta. Rintracciare i sentieri degli animali era il primo e principale elemento nell’educazione dell’uomo primitivo. [...] I giochi agonistici sono anch’essi pellegrinaggi. In sanscrito una stessa parola designa il giocatore di scacchi e il pellegrino, «colui che raggiunge la sponda opposta». I calciatori non sanno di essere anch’essi dei pellegrini. La palla che 35 calciano simboleggia un uccello migratore. Tutte le nostre attività sono legate all’idea del viaggio. E a me piace pensare che il nostro cervello abbia un sistema informativo che ci dà ordini per il cammino, e che qui stia la molla della nostra irrequietezza. 1 Montaigne: Michel E. de Montaigne (1533-1592), scrittore moralista francese, autore di un Viaggio in Italia e soprattutto dei Saggi, un libro di colloqui interiori, in cui si rivela acuto e scettico indagatore dell’uomo.
2 Ibn Battuta: esploratore di origine berbera, visse nella prima metà del sec. XIV; è noto come il Marco Polo arabo.
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Comprensione e analisi
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Come considera Chatwin il viaggio e perché? 2. Che cosa succede secondo Chatwin al corpo e al cervello senza il cambiamento? 3. Quali risultati hanno raggiunto alcuni neurologi americani? 4. Che cosa produce una vita ripetitiva? 5. Che cosa intende Chatwin con l’affermazione «identica casa o albergo»? 6. Dov’è, secondo Chatwin, la radice dell’irrequietezza umana?
Produzione
Chatwin fa affermazioni importanti sul viaggio: «Ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo»; «Senza cambiamento, corpo e cervello marciscono». Condividi le considerazioni di Chatwin sul viaggio contenute nel testo? Argomenta i tuoi giudizi con riferimenti alla tua esperienza e alle tue conoscenze e scrivi un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
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Narrare per il gusto di narrare: la novella 1 Un genere dalla vita secolare Un nuovo genere La novella è una narrazione in prosa, in genere breve, di contenuto vario, che si afferma in Italia tra la fine del Duecento e il Trecento, in rapporto con la dinamica vita dei comuni e le esigenze di un pubblico nuovo, interessato alla lettura di opere letterarie finalizzate non tanto all’edificazione morale-religiosa ma piuttosto all’evasione e al divertimento. Si tratta di un pubblico che cerca un testo facilmente fruibile, in cui rispecchiarsi. Il centro di produzione elettivo è la Toscana, dove verso la metà del Trecento sarà composto il capolavoro del genere e una delle opere più importanti della letteratura italiana, il Decameron di Giovanni Boccaccio. Il termine La parola novella ha un primo significato di “novità”: allude a una storia che vale la pena di raccontare perché insolita, capace di rivelare aspetti nuovi della realtà e dell’esperienza umana. Il testo narrativo breve è definito “novella” fino al Settecento, quando diventa prevalente la denominazione “racconto”. È però interessante ricordare che alcuni autori otto-novecenteschi come Verga, D’Annunzio, Pirandello preferirono ancora servirsi del termine tradizionale continuando a chiamare “novelle” i loro racconti. Un genere polimorfico e metamorfico La novella è il genere più mobile e polimorfico della letteratura. Sotto la denominazione di novella sono infatti comprese forme narrative molto varie, sia riguardo ai contenuti e ai temi, sia riguardo alle scelte del registro stilistico (comico, tragico, patetico), sia riguardo al fine, in quanto non si può certo dire, ad esempio, che le novelle di Verga o di Pirandello mantengano il fine di “piacevole intrattenimento” che caratterizza per lo più il genere narrativo breve nei primi secoli della sua lunga storia.
2 Le prime forme di narrazione breve: gli exempla e i fabliaux La narrazione “esemplare” Le prime forme di narrazione breve che si incontrano nella cultura medievale, e che hanno influenzato la novella, subordinano in genere il racconto a un fine morale ed educativo, conferendogli carattere esemplare: negli exempla (“esempi”, in latino), spesso usati dai predicatori per convincere i fedeli, le vicende non sono realistiche, ma sono spesso inverosimili e si iscrivono in una dimensione spazio-temporale indeterminata; particolarmente importante diventa la conclusione in cui viene spiegato il valore emblematico del racconto; lo stile è semplice e facilmente comprensibile da tutti. Spunti didattici esistevano già nella novellistica indiana e orientale, che aveva elaborato un materiale narrativo molto ricco, poi trasmesso attraverso la mediazione araba anzitutto in Spagna e di qui in tutta Europa, grazie agli scambi tra le popolazioni di Oriente e Occidente, alle crociate e ai pellegrinaggi religiosi.
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Col tempo tali spunti vennero cristianizzati e, fondendosi con materiali narrativi di altra provenienza (leggende classiche, imprese cavalleresche del ciclo bretone ecc.), contribuirono a formare un vastissimo repertorio tematico che poi confluirà anche nella novella. Nel XIII secolo progressivamente il racconto va liberandosi della prevalente finalità moralistica: l’emergere della novella andrà di pari passo con la graduale affermazione della componente del “piacere” del narrare e con la consapevolezza che ci siano aspetti della realtà “nuovi”, che non possono essere inquadrati e spiegati ricorrendo ad astratti schemi morali. La permanenza nel tempo della narrazione esemplare Anche quando il racconto avrà assunto caratteri laici e prevalenti scopi di divertimento, l’“esempio” non scomparirà, proprio perché costituisce una forma di rappresentazione del mondo propria della mentalità medievale, come dimostra la stessa Divina Commedia. Gli episodi del capolavoro dantesco sono infatti ancora strutturati in forma “esemplare”: delle vicende narrate, delle biografie dei persoonline naggi chiamati alla ribalta del poema, Dante compie infatti T4 Jacopo Passavanti Le tentazioni di un asceta una selezione di dati strettamente funzionale al tema morale Specchio della vera penitenza, XVI che vuole illuminare attraverso di essi. I fabliaux e la tradizione del comico Tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo nella Francia settentrionale si sviluppa un genere narrativo contrapposto agli exempla e che a sua volta ha inciso sulla storia del genere novellistico: alludiamo ai fabliaux, racconti in versi, in genere anonimi, piuttosto brevi e caratterizzati da un tono crudamente realistico, spesso apertamente osceno. Vi circolano motivi appartenenti al folklore, legati alla tradizione orale; e del resto, prima di venire scritti i fabliaux erano recitati nelle piazze dai giullari. Mentre gli exempla propongono insegnamenti morali-religiosi, i fabliaux valorizzano al contrario la fisicità, la sensualità; abbondano in questi testi i riferimenti al corporeo, alla sessualità: l’umanità rappresentata, deformata e soggetta al procedimento della parodia e del rovesciamento, risponde al modello carnevalesco del “mondo alla rovescia” (➜ C5). online Da questo repertorio la novella (anche quella di Boccaccio) T5 Anonimo attingerà a piene mani temi, personaggi e situazioni legati alla Il fabliaux del mugnaio e dei due studenti componente licenziosa e comica.
L’exemplum e la novella exemplum
novella
messaggio morale – religioso
piacevole intrattenimento
personaggi emblemi di vizi e di virtù
personaggi caratterizzati
eventi non verosimili
contenuti verosimili anche se immaginari
Narrare per il gusto di narrare: la novella 2 209
3 Verso la definizione del genere: il Novellino La prima raccolta organica di racconti non solo italiana ma di tutta l’area romanza è nota con il titolo di Novellino ed è stata allestita a Firenze probabilmente nell’ultimo ventennio del XIII secolo da un autore rimasto sconosciuto. Il prologo: l’emergere dell’“autore” e di un nuovo pubblico Tutti i commentatori attribuiscono grande importanza al prologo del Novellino (➜ T6 ), perché segnala per la prima volta, nonostante l’opera sia anonima, la fisionomia di un autore, con una sua identità e sue proprie scelte (distinto dal semplice raccoglitore di testi); e al tempo stesso identifica un nuovo pubblico e, seppur ancora embrionalmente, una nuova forma di narrazione: la novella, appunto, tendenzialmente autonoma rispetto al fine esemplare-morale. Nel prologo l’autore si propone di fare «memoria d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie, di belli donari e di belli amori». L’insistenza sul termine “bello” riveste particolare importanza: sembra infatti valorizzare la godibilità dei racconti, a prescindere dalla loro utilità didattico-morale. L’autore della raccolta assume inoltre espressamente un ruolo di mediatore tra i “nobili e gentili” del passato, e un nuovo pubblico («chi avrà cuore nobile e intelligenza sottile»). L’espressione citata identifica sul piano sociologico i ceti borghesimercantili, emergenti nella dinamica società comunale, che erano interessati, più che alle verità immutabili e trascendenti proposte dagli exempla, a quelle “novità” che appunto la novella desiderava narrare, e al contempo ambivano a far propri i raffinati modelli di comportamento e i valori della tramontante civiltà feudale. Il prologo del Novellino sembra perciò evocare come pubblico ideale proprio quell’“aristocrazia dell’intelligenza” a cui si indirizzava nel medesimo periodo anche la lirica stilnovista. La struttura Secondo alcuni interpreti, nella struttura organizzativa della materia si può forse individuare una progressione dall’exemplum morale alla novella: infatti, all’inizio del libro sono presenti soprattutto racconti che ricordano gli exempla, o che richiamano elevati ideali cortesi, mentre verso la fine i racconti sono più vicini alla dimensione della realtà quotidiana, e vi compaiono battute di spirito (anche oscene), scherzi, beffe, insomma quel “nuovo” da cui il nuovo pubblico era particolarmente attirato. Allo stesso modo, nella parte iniziale della raccolta, i personaggi appartengono soprattutto alle categorie sociali più elevate (re, cavalieri, nobili), mentre nella parte conclusiva sono esponenti della classe mercantile e popolare.
Scena di gioco fra giovani in un affresco della Stanza del Torneo di Castel Roncolo presso Bolzano (metà XIII secolo ca.).
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Il culto della parola Nel Novellino acquista un ruolo primario l’uso intelligente e divertente della parola (➜ T8a,b ). È significativo che la maggior parte dei racconti riguardi proprio motti, risposte argute e battute pronte, in accordo con l’importanza che andava assumendo nella società comunale l’“arte del dire”. La capacità di fare discorsi in pubblico, di stendere lettere diplomatiche, insomma, di saper parlare e scrivere con proprietà ed efficacia in rapporto a precisi fini e situazioni stava diventando una competenza sempre più necessaria alle classi dirigenti cittadine. Proprio in quegli stessi anni si collocava infatti il magistero di Brunetto Latini, il “maestro” di Dante in ambito retorico. Una tecnica narrativa minimalista Il Novellino incarna a livello estremo la brevità connaturale al genere novellistico: la raccolta infatti è per lo più costituita da raccontini molto stringati, fondati su intrecci assai semplici, quasi dei canovacci e spesso su una chiusa lapidaria. Lo stile, conciso, addirittura laconico, fa uso prevalentemente della paratassi e ricorre sovente all’asindeto. Una narrazione minimalista dunque, che rimanda indirettamente a situazioni comunicative legate all’oralità, quando gli spontanei commenti e gli interventi di chi ascoltava i racconti concorrevano a integrare liberamente i testi narrati. Il Novellino predilige la narrazione “breve” e valorizza in particolare la battuta pronta, icastica, pungente, che dimostra prontezza di spirito e intelligenza, preparando la strada al Decameron che dedicherà un’intera giornata, la VI, proprio ai motti arguti.
PER APPROFONDIRE
Il Novellino AUTORE
anonimo
EPOCA
fine Duecento
AREA
fiorentina
FONTI
classiche: exempla, fabliaux, romanzi cortesi
FINE
diletto
Il titolo Novellino Il titolo Novellino, usato per la prima volta nel 1525 in una lettera da Giovanni della Casa, autore del celebre Galateo, è entrato nell’uso, ma ben più rispondente alla natura e allo spirito della raccolta è il titolo presente nel codice più antico che ci ha trasmesso l’opera: Libro di novelle et di bel parlar gentile. Infatti pone in primo piano il termine “novella”, la componente fondamentale del “bello” e, attraverso il termine “libro”, suggerisce l’idea non di un aggregato casuale di testi, ma di un insieme a suo modo organico, pur nella grande varietà delle forme narrative presenti nella raccolta.
Il numero delle novelle e il loro ordinamento nella raccolta presentano numerose incertezze nella tradizione manoscritta: gli editori moderni ne riproducono cento, compreso l’importante prologo, distribuite secondo l’ordine della prima edizione a stampa cinquecentesca. Nell’opera confluiscono diverse tradizioni narrative (gli exempla, i fabliaux, i romanzi cavallereschi, le fonti classiche ecc.), filtrate dalla cultura letteraria dell’autore, che le rivisita, sceglie gli spunti, seleziona stralci narrativi indirizzandoli a nuove funzioni in rapporto a un nuovo pubblico.
Narrare per il gusto di narrare: la novella 2 211
T6
Raccontare per un nuovo pubblico Novellino, Prologo
Prosa del Duecento, a c. di C. Segre e M. Marti, Ricciardi, Milano-Napoli 1959
Il prologo del Novellino non è solo la necessaria premessa alla raccolta di racconti, ma costituisce una pagina di grande interesse sociologico. Dopo un doveroso omaggio alla tradizione religiosa, l’autore definisce infatti un nuovo pubblico e una nuova dimensione della scrittura: il piacere si contrappone alle finalità edificanti proprie della letteratura didattico-religiosa.
IL «NOVELLINO» QUESTO LIBRO TRATTA D’ALQUANTI FIORI DI PARLARE1, DI BELLE CORTESIE2 E DI BE’ RISPOSI3 E DI BELLE VALENTIE E DONI4, SECONDO CHE5 PER LO TEMPO PASSATO HANNO FATTI MOLTI VALENTI UOMINI Quando lo Nostro Signore Gesù Cristo parlava umanamente6 con noi, infra7 l’altre sue parole, ne disse che dell’abondanza del cuore parla la lingua8. Voi ch’avete i cuori gentili e nobili infra li altri9, acconciate10 le vostre menti e le vostre parole nel piacere11 di Dio, parlando, onorando e temendo e laudando quel Signore nostro che n’amò prima 12 5 che elli ne criasse , e prima che noi medesimi ce amassimo. E [se] in alcuna parte, non dispiacendo a lui, si può parlare, per rallegrare il corpo e sovenire e sostentare, facciasi con più onestade e [con] più cortesia che fare si puote13. E acciò che14 li nobili e gentili sono nel parlare e ne l’opere quasi com’uno specchio appo i minori15, acciò che il loro parlare è più gradito, però ch’esce di più dilicato stormento16, facciamo 17 10 qui memoria d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie, di belli donari18 e di belli amori, secondo che per lo tempo passato hanno fatto già molti. E chi avrà cuore nobile e intelligenzia sottile sì l[i] potrà simigliare per lo tempo che verrà per innanzi19, e argomentare e dire e raccontare in quelle parti dove avranno luogo20, a prode21 e a piacere di coloro che non sanno e disiderano di 22 15 sapere. E se i fiori che proporremo fossero misciati intra molte altre parole, non vi dispiaccia; ché ’l nero è ornamento dell’oro, e per un frutto nobile e dilicato piace talora tutto un orto, e per pochi belli fiori tutto un giardino23. Non gravi a’ leggitori24: ché sono stati molti, che sono vivuti grande lunghezza di tempo, e in vita loro hanno appena tratto uno bel parlare, od alcuna cosa da mettere in conto fra i buoni25.
1 fiori di parlare: esempi scelti di detti. 2 belle cortesie: gesti, atti ispirati all’ideale della cortesia.
3 be’ risposi: argute risposte. 4 valentie e doni: atti di valore e generosità.
5 secondo che: come. 6 umanamente: come un uomo, durante la sua vita terrena. 7 infra: tra. 8 ne disse... la lingua: ci disse che le parole sono testimonianza di ciò che è contenuto nel cuore. 9 Voi ch’avete... li altri: con queste parole l’autore designa con chiarezza il pubblico a cui si rivolge. 10 acconciate: preparate, adattate. 11 nel piacere: secondo la volontà. 12 n’amò... criasse: ci amò prima ancora di crearci.
13 E [se]... si puote: e se in alcune circostanze, in alcuni ambiti, senza dispiacere a Dio, si può parlare per rallegrare il corpo, aiutarlo (sovenire: latinismo) e sostenerlo, lo si faccia con più decoro e cortesia che si può. 14 acciò che: dato che. 15 quasi... minori: quasi un modello presso chi è socialmente inferiore (minori). 16 il loro parlare... stormento: le loro parole escono da uno strumento più raffinato. 17 facciamo qui memoria: ricordiamo qui. 18 donari: atti di liberalità (secondo il codice cortese). 19 l[i] potrà... per innanzi: li potrà imitare nel futuro. 20 in quelle... luogo: in quelle circostanze e ambiti in cui sarà opportuno (fare riferimento a essi).
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21 a prode: a vantaggio (latinismo). 22 misciati: mescolati. 23 ché ’l nero... un giardino: attraverso un linguaggio metaforico l’autore intende dire che nella raccolta non ci saranno solo racconti elevati di argomento cortese, ma anche di altro tipo, più “basso” e di tono diverso. Ma questa varietà è positiva e farà apprezzare di più l’intera opera. 24 Non gravi a’ leggitori: non dispiaccia ai lettori. 25 ché sono stati... fra i buoni: perché vi sono state molte persone vissute molti anni e che in tutta la loro vita hanno appena saputo pronunciare una bella frase o hanno compiuto una sola azione degna di iscriverli nel numero delle persone di qualità.
Analisi del testo Una letteratura piacevole... La didascalia che presenta sinteticamente la raccolta è dominata dalla sottolineatura della bellezza («belle cortesie e di be’ risposi e di belle valentie») dei testi che saranno presentati e sembra ispirata a una nostalgica rievocazione di ideali cortesi inequivocabilmente appartenenti al passato. Il Prologo vero e proprio evidenzia la coesistenza di diversi modelli culturali e ideologici: si apre con un doveroso omaggio all’ottica religiosa e un richiamo obbligato al rispetto dei valori trascendenti; in questa dichiarazione di principio però si insinua significativamente un riferimento, seppur con cautela, al piacere che la narrazione può produrre («rallegrare il corpo»), come se l’autore volesse distinguere la raccolta che presenta dalla narrazione esemplare di ambito religioso che si rivolgeva unicamente all’edificazione dell’anima.
... per un pubblico nuovo Anche a livello sociologico il testo si presenta come emblema di una transizione di valori e di punti di vista: da un lato, l’autore sembra iscrivere la sua raccolta entro orizzonti legati alla nobiltà di sangue e ai valori cortesi di cui è considerata assoluta depositaria, dall’altro il pubblico a cui si rivolge non è nobile di schiatta ma di cuore ed è dotato di altezza intellettuale. Un criterio essenzialmente estetico ispira l’allestimento dell’opera: salvaguardare e trasmettere la bellezza e la cortesia, in modo che possano essere assimilate e imitate dalla nuova aristocrazia dell’intelligenza che emergeva nella società comunale, desiderosa di impadronirsi dei più elevati modelli culturali. È infine significativo il riferimento alle «molte altre parole» che nella raccolta andranno mescolate ai fiori, cioè ai racconti nobili e cortesi; una scelta di cui l’autore sente quasi di doversi giustificare presso i suoi lettori («non vi dispiaccia») e che potrebbe alludere, in modo ancora indistinto, alla varietà tematica (non esclusi riferimenti alla quotidianità) che contraddistinguerà il genere della novella nella sua storia. Una varietà che il Decameron esemplificherà in modo mirabile.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza in max 10 righe il contenuto del testo. ANALISI 2. Chi sono i destinatari del Novellino? Sottolinea la risposta sul testo. 3. In quale punto del testo l’autore definisce l’obiettivo dell’opera? LESSICO 4. Nel testo, a cominciare dalla didascalia, ricorre il termine fiori. Spiega la specifica accezione del termine qui presente e ricerca sul vocabolario accezioni del termine che siano vicine all’uso che ne fa l’autore.
Interpretare
SCRITTURA 5. L’autore nel testo afferma che le parole sono testimonianza di ciò che è contenuto nel cuore. Secondo te è sempre così? Davvero le parole che pronunciamo sono espressione di quello che è riposto nel nostro cuore?
online T7 Anonimo Pronta risposta di un frate al Vescovo Aldobrandino Novellino, XXXIX
Affresco (part.) della sala baronale del Castello della Manta, presso Saluzzo, attribuito a un pittore noto come Maestro del Castello della Manta (XV secolo).
Narrare per il gusto di narrare: la novella 2 213
Testi in dialogo
T8a
ll culto della parola Il medico di Tolosa Novellino, XLIX
Prosa del Duecento, a c. di C. Segre e M. Marti, Ricciardi, Milano-Napoli 1959
È considerata una delle novelle più indicative dello spirito del Novellino. Il protagonista è un medico “nobile” e “gentile”. Oltraggiato dal comportamento della giovane moglie, nipote dell’arcivescovo, e minacciato arrogantemente da questi, contrappone alla prepotenza del potente ecclesiastico la finezza della parola meditata e ironica.
XLIX QUI CONTA D’UNO MEDICO DI TOLOSA, COME TOLSE PER MOGLIE UNA NEPOTE DE L’ARCIVESCOVO DI TOLOSA.
La visita medica, da un manoscritto ebraico del XV secolo del Canone della medicina di Avicenna.
Uno medico di Tolosa tolse per moglie una gentile donna di Tolosa, nepote de l’arcivescovo. Menolla1. In due mesi fece una fanciulla2. Il medico non ne mostrò nullo cruccio3, anzi consolava la donna, e mostravale ragioni secondo fisica che ben poteva essere sua di ragione4. E con quelle parole e con belli sembianti5 fece sì 5 che la donna no la poté traviare6. Molto onoroe7 la donna nel parto. Dopo il parto sì le disse: – Madonna, io v’ho onorata quant’i’ ho potuto. Priegovi, per amore di me, che voi ritorniate omai a casa di vostro padre. E la vostra figliuola io terrò a grande onore. Tanto andaro le cose innanzi, che l’arcivescovo sentì che ’l medico avea dato 10 commiato a la nepote. Mandò per lui8. E acciò ch’era grande uomo, parlò sopra a lui molto grandi parole, mischiate con superbia e con minacce9. Quand’ebbe assai parlato, el medico rispuose e disse così: – Messere, io tolsi vostra nepote per moglie, credendomi della mia ricchezza potere fornire e pascere la mia famiglia10. E fu mia intenzione d’avere uno figliuolo l’anno, e non più. Onde11 la donna ha 15 cominciato a fare figliuoli in due mesi; per la qual cosa io non sono sì agiato, se ’l fatto dee così andare, ch’io li potesse notricare12, e voi, non sarebbe onore che vostro lignaggio andasse a povertade13. Perch’io vi chieggio mercede14 che voi la diate a un più ricco omo ch’io non sono [che possa notricare li suoi figlioli], sì che a voi non sia disinore. 1 Menolla: la condusse sposa (in casa sua). 2 In due mesi... fanciulla: dopo due mesi generò una bambina (che non poteva evidentemente essere frutto del matrimonio con il medico). 3 non ne mostrò nullo cruccio: non mostrò affatto di esserne turbato. 4 mostravale... di ragione: le mostrava i princìpi scientifici che consentivano che fosse sua figlia. 5 belli sembianti: modi gentili. 6 traviare: abortire. 7 onoroe: onorò. 8 Mandò per lui: lo mandò a chiamare.
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9 E acciò... minacce: e dato che era un uomo potente, gli si rivolse con parole arroganti e minacciose. 10 credendomi... la mia famiglia: credendo di poter mantenere con i miei beni la mia famiglia. 11 Onde: invece. 12 notricare: nutrire. 13 e voi... povertade: quanto a voi, non sarebbe onorevole che la vostra stirpe (la nipote e i figli nati da lei) si riducessero in povertà. 14 Perch’io... mercede: perciò vi chiedo il favore.
T8b
Una “metanovella”: elogio della brevità Novellino, LXXXIX
Prosa del Duecento, a c. di C. Segre e M. Marti, Ricciardi, Milano-Napoli 1959
La maggior parte delle novelle del Novellino sono brevi ed evidentemente questa prerogativa è considerata un pregio da chi ha allestito la raccolta. Lo dimostra anche questa novelletta, fondata, come molto spesso si verifica nell’opera, su una battuta pronta e icastica. Il racconto si può considerare una dichiarazione di poetica.
LXXXIX QUI CONTA D’UN UOMO DI CORTE CHE COMINCIÒ UNA NOVELLA CHE NON VENIA MENO Brigata1 di cavalieri cenavano una sera in una gran casa2 fiorentina, e aveavi3 uno uomo di corte, il quale era grandissimo favellatore4. Quando ebbero cenato, cominciò una novella che non venìa meno5. Uno donzello6 della casa che servia, e forse non era troppo satollo7, lo chiamò per nome, e disse: – Quelli che t’insegnò cotesta 5 novella, non la t’insegnò tutta. – Ed elli rispuose: – Perché no? – Ed elli rispuose: – Perché non t’insegnò la restata8. – Onde quelli si vergognò, e ristette9. 1 Brigata: un gruppo. 2 gran casa: casa di persone ragguardevoli.
3 avevi: vi si trovava. 4 favellatore: narratore di storie.
5 non venìa meno: non finiva mai. 6 donzello: garzone, servitore. 7 non era troppo satollo: aveva fame.
8 la restata: il modo di terminarla. 9 ristette: si fermò.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza la vicenda narrata in ➜ T8a in 10 righe. ANALISI 2. La vicenda narrata in ➜ T8a ha evidentemente un antefatto che mette in moto la storia. Quale? 3. Pur nella brevità della novella, la personalità del medico è ben delineata: tratteggiane un ritratto utilizzando tutte le possibili informazioni che ritrovi nel testo e individua l’atteggiamento dell’autore nei confronti del personaggio. LESSICO 4. Le nozze fra il medico e la ragazza sono rese sinteticamente dall’espressione Menolla (“la menò”). Fai una ricerca lessicale (su un vocabolario meglio se storico o in rete) e poi trascrivi le tue annotazioni sul verbo menare e sulle sue accezioni dal tempo del Novellino a oggi.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 5. Quali caratteristiche del genere novellistico ritrovi in ➜ T8a (rileggi l’introduzione)? Quali tratti tipici del Novellino? SCRITTURA 6. La novelletta➜ T8b può avere un carattere metaletterario, quasi fosse un suggerimento su come si devono comporre delle novelle. Per quale ragione? Argomenta in un breve testo di 15 righe.
Franceschino Zavattari (e bottega), Banchetto delle nozze di Teodolinda (1444), dal ciclo Storie di Teodolinda, affresco, Cappella di Teodolinda, duomo di Monza.
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4 Una pietra miliare nella storia del genere “novella” Il modello perfetto di Boccaccio Quando pensiamo alla novella come a un genere con caratteristiche proprie che lo rendono riconoscibile è obbligatorio fare riferimento al modello consacrato da Boccaccio nel suo Decameron, una raccolta di cento novelle composta probabilmente tra il 1349 e il 1351: il capolavoro di Boccaccio occupa infatti una posizione di primo piano nella definizione del genere novellistico. Attingendo alla tradizione narrativa precedente e rielaborandola attraverso una raffinata coscienza letteraria e una profonda conoscenza del mondo, Boccaccio riuscì a creare un modello perfetto, a cui per secoli chi intendesse scrivere novelle non potrà non riferirsi. Con il Decameron di Boccaccio (➜ C8, PAG. 627) la novella raggiunge il più alto grado di elaborazione letteraria.
5 Dopo Boccaccio Trecentonovelle di Franco Sacchetti Nel corso del Trecento la novella consolida ulteriormente il suo successo, già avviato dalla grande fortuna del Decameron presso i ceti mercantili; successo che, pur con alterne vicende, legate al variare delle coordinate culturali e letterarie, durerà fino alla fine del Cinquecento. Dopo il Decameron, la novellistica tende in genere alla dipendenza anche a livello tematico dal modello illustre di Boccaccio, ma la visione del mondo risulta ben lontana dalla ricchezza culturale e ideologica del Decameron e testimonia piuttosto una dimensione angusta e municipale. Lo scrittore di novelle più significativo, capace di un vivace realismo rappresentativo, è il fiorentino Franco Sacchetti (1330 circa-1400) mercante-scrittore e uomo politico, autore del Trecentonovelle, una raccolta novellistica composta verso la fine del Trecento. La raccolta, che ci è giunta incompleta, non evidenzia un disegno unitario a cui i testi siano subordinati; i testi infatti non sono inseriti in una cornice. I contenuti si fondano su temi legati alla vita dei comuni toscani, con il gusto, proprio di quella regione, per gli scherzi, le battute di spirito e le beffe. La rappresentazione di Sacchetti predilige un’umanità comune (borghesi, paesani, popolani), protagonista di eventi di piccolo conto, riprodotti con vivace realismo. Lo stile è volto a rendere per lo più l’immediatezza del parlato. Geoffrey Chaucer Il più importante autore di novelle dopo Boccaccio è Geoffrey Chaucer (1343-1400) che scrive i The Canterbury Tales (“Racconti di Canterbury”), una raccolta incompiuta di racconti in versi che presenta analogie con il Decameron (➜ C8 D2 , D3 OL). In queste novelle Chaucer fornisce uno spaccato molto realistico della società inglese del tempo. L’effetto di realismo è ottenuto sia attraverso le situazioni (raccontate utilizzando generi diversi) e i temi coinvolti, sia mediante i profili dei narratori-pellegrini, estremamente precisi sul piano psico-sociologico. Si tratta della prima grande opera della letteratura britannica.
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Franco Sacchetti
T9
Una burla: l’orsa e le campane Trecentonovelle
F. Sacchetti, Il Trecentonovelle, a c. di V. Marucci, Salerno, Roma 1996
Questa novella è incentrata su una beffa che dei buontemponi organizzano ai danni di un prete, del suo sacrestano e di tutta la comunità del quartiere. Ambientata a Firenze, la beffa si comprende in rapporto al microcosmo della vita del quartiere, che ha al suo centro la chiesa parrocchiale.
[...] Certi Fiorentini erano a cena in una casa di Firenze, la quale era non molto a lungi dal palagio del Podestà; ed essendo tra loro in quel luogo entrata una orsa, la quale era del Podestà ed era molto domestica, andando questa piú volte sotto la mensa a loro, disse uno di loro: 5 – Vogliàn noi fare un bel fatto? Quando noi abbiamo cenato, conduciamo quest’orsa a Santa Maria in Campo1, dove il vescovo di Fiesole tien ragione2 (ché sapete che non vi s’incatenaccia mai la porta3) e leghiànli le zampe dinanzi l’una a una campana e l’altra a un’altra, e poi ce ne vegniamo4; e vedrete barili andare5 –. Dicono gli altri: 10 – Deh, facciànlo –. Era del mese di novembre, che si cena di notte6; essendo in concordia, danno di mano a l’orsa7 e per forza la conducono nel detto luogo; ed entrati nella chiesa si aviano verso le funi delle campane, e preso l’uno di loro l’una zampa e l’altro l’altra, le legorono alle dette campane e subito danno volta, andandosene ratti quanto 15 poterono8. L’orsa sentendosi cosí legata, tirando e tempestando9 per sciogliersi, le campane cominciano a sonare sanza niuna misura. Il prete e ’l cherico si destano; cominciano a smemorare10: – Che vuol dir questo? Chi suona quelle campane? – Di fuori si comincia a gridare: 20 – Al fuoco, al fuoco –. La Badía11 comincia a sonare, perché l’Arte della lana12 è presso a quel luogo. I lanaiuoli e ogni altra gente si levano e cominciano a trarre13: – Dov’è, dov’è? – In questo il prete ha mandato il cherico con una candela benedetta accesa, per 25 paura che non fosse la mala cosa, a sapere chi suona14. Il cherico ne va là con un passo inanzi e due a drieto e co’ capelli tutti arricciati per la paura; e accostandosi al fatto, si fa il segno della santa croce; e credendo che sia il demonio, il volgersi e ’l fuggire e ’l gridare: – In manus tuas, Domine15 –, è tutt’uno. Giugnendo con questo romore al prete, che non sapea dove si fosse, dice:
1 Santa Maria in Campo: antica chiesa
7 in concordia… a l’orsa: di comune ac-
12 l’Arte della lana: una delle corpora-
di Firenze amministrata dal vescovo di Fiesole. 2 tien ragione: amministra la giustizia. 3 non... la porta: la porta non è mai chiusa con il catenaccio. 4 ce ne vegniamo: ci allontaniamo. 5 vedrete barili andare: vedrete cose assurde (“come se i barili camminassero”). Espressione idiomatica. 6 di notte: quando è già buio.
cordo, catturano l’orsa. 8 le legorono… poterono: le (le zampe) legarono alle suddette campane e all’istante se ne vanno via il più velocemente possibile. 9 tempestando: infuriandosi. 10 smemorare: allarmarsi. 11 La Badía: chiesa vicina a Santa Maria in Campo.
zioni che aveva il deposito delle merci in quella zona. 13 trarre: accorrere. 14 per paura che… suona: temendo che fosse il diavolo (la mala cosa), per appurare chi suonasse. 15 In manus tuas, Domine: nelle tue mani, Signore (latino). Sono le parole di Cristo poco prima di morire.
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30 – Oimé, padre mio, che ’l diavolo è nella chiesa e suona quelle campane –.
Dice il prete: – Come, il diavolo? Truova de l’acqua benedetta –. Truova e ritruova, non ebbe ardire d’entrare nella chiesa, ma d’un buon galoppo per la porta del chiostro se n’uscí fuori, e ’l cherico drietogli16. E giugnendo, molta 35 gente trovò che cominciava a chiamare il prete, dicendo: – Dov’è il fuoco17? – E giugnendo fuori, essendo domandato18: – Dov’è questo fuoco, prete? –, appena potea rispondere, perché avea il battito della morte19. Pur con una boce affinita e affiocata20, dice: 40 – Io non so di fuoco alcuna cosa, né chi suona queste campane; costui v’è ito21 – e dice del cherico – a sapere chi le suona; par che dica che gli pare la mala cosa. – Come la mala cosa? – rispondono molti. – Reca qua i lumi; abbiàn noi paura di mali visi? Chi ha paura si fugga –. E aviandosi in là cosí al barlume e veggendo la bestia, non scorgendo bene quello 45 che si fosse, la maggior parte si tornano in drieto, gridando: – Alle guagnele22, che dice il vero! – Altri piú sicuri s’accostano e, veggendo quello ch’è, gridano: – Venite qua, brigata, ch’ell’è un’orsa –. Corrono là molti, e ’l prete e ’l cherico ancora; e veggendo questa orsa cosí legata 50 e tirare e inabissarsi con la boce23, ciascuno comincia a ridere: – Che vuol dir questo? E non era però niuno che ardisse di scioglierla, e tuttavia le campane sonavono, e tutto il mondo era tratto24. In fine certi che conosceano l’orsa del Podestà essere mansueta s’accostorono a lei 55 e sciolsonla25; avisandosi i piú che qualche nuovi pesci26 avessono fatto questo per far trarre tutti e’ Fiorentini. E tornatisi a casa, piú dí ragionorono di questo caso e ciascuno dicea chi serebbe stato. I piú rispondeano: – Dillo a me e io il dirò a te –. Alcuni diceano: 60 – Chiunque fu, fece molto bene; ché sempre sta quella porta aperta, che non ispenderebbe né ’l vescovo né il prete un picciolo27 per mettervi uno chiavistello –. E cosí terminò questa novella; e quelli che l’aveano fatto28, erano in un letto e scoppiavono delle risa, essendosi fatti piú volte alle finestre con gridare con le piú alte voci che aveano: 65 – Al fuoco, al fuoco! – E quanta piú gente traea29 piú ne godevano; domandando piú che gli altri in quelli dí che volle dir quello, per avere diletto di chi rispondea loro30. [...]. 16 drietogli: dietro a lui. 17 Dov’è il fuoco?: la domanda è motivata
21 ito: andato. 22 Alle guagnele: per i Vangeli, specie
dal fatto che ogni pericolo per la comunità (ad esempio, un incendio) era segnalato dal suono a distesa delle campane. 18 essendo domandato: essendogli chiesto. 19 avea il battito della morte: il cuore gli batteva da morire. 20 con una boce… affiocata: con un filo di voce, con voce flebile, fioca.
di giuramento popolare assai diffuso al tempo. 23 inabissarsi con la boce: urlare disperata. 24 tuttavia... era tratto: le campane continuavano a suonare e tutta la contrada era attirata là. 25 sciolsonla: la liberarono. 26 avisandosi... nuovi pesci: accorgendosi i più che qualche burlone avesse or-
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ganizzato lo scherzo per far accorrere tutti i fiorentini. 27 picciolo: soldino (il quarto di un quattrino). 28 quelli che l’aveno fatto: i responsabili della burla. 29 traea: accorreva. 30 domandando... loro: facendo domande più degli altri in quei giorni che cosa fosse successo per burlarsi di chi rispondeva loro.
Analisi del testo La particolare vena narrativa di Sacchetti La rappresentazione di Sacchetti predilige un’umanità anonima, socialmente insignificante e affida la narrazione al racconto di eventi di poca importanza. L’umanità e la vita che egli vede non hanno nulla di eccezionale. Gli ambienti e i personaggi sono comuni. Il suo è il mondo della piccola gente. Le reazioni nascono da fatti minuti e questa burla ne è un esempio: dei giovani fiorentini, di notte, legano le zampe di un’orsa alla fune delle campane della chiesa, così le campane suonano a distesa e la gente accorre, credendo che sia scoppiato un incendio. La critica ha notato nel Trecentonovelle di Sacchetti la particolare abilità nel rendere scene di confusione, di movimento concitato, come appunto in questa novella, dove l’obiettivo del narratore focalizza efficacemente, producendo quasi una scena teatrale, lo scompiglio creato nel quartiere dal suono inconsulto delle campane. La narrazione è caratterizzata, come in altri testi di Sacchetti, da un vivace ritmo narrativo.
Uno stile “immediato” A questa vena narrativa corrisponde l’immediatezza dello stile, che riproduce con vivace realismo i tratti del parlato. In proposito Cesare Segre ha osservato: «La sintassi partecipa anch’essa della felicità dell’invenzione: non tenta di ordinare intellettualmente la situazione, ma si lascia trarre nel vortice delle mosse e delle azioni. È una sintassi smaterializzata, giocosa come un gioco di bimbi, una sintassi che non si pone al di là dei fatti, descrivendoli, ma nasce insieme con essi, col loro tono e misura».
L’orso addomesticato da Saint Amand (miniatura francese, sec. XI). Valenciennes, Bibliothèque municipale.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare Interpretare
SINTESI 1. Riassumi il contenuto della novella in un testo di 10 righe. SCRITTURA 2. Ti sarai reso conto che il contenuto è ben poca cosa (e forse la beffa stessa ad alcuni non è sembrata nemmeno troppo divertente) e che, in realtà, il pregio della novella è proprio nel ritmo indiavolato impresso dall’autore all’azione narrativa. Cerca di individuare nel testo i passaggi in cui il ritmo è molto sostenuto e utilizzando questi esempi scrivi un testo argomentativo di 20 righe, in cui sostieni che il pregio della novella è proprio la modalità di racconto.
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PER APPROFONDIRE
“Le mille e una burla”: la Toscana e la tradizione comica, da Boccaccio... a Benigni Il comico, il burlesco, il parodistico, in particolare legati alla scrittura novellistica, appartengono quasi costituzionalmente alla civiltà toscana, e particolarmente fiorentina, e si sono espressi soprattutto in due sottogeneri: la facezia (o battuta di spirito) e la beffa. In uno dei capitoli del Cortegiano, il Castiglione, che era lombardo, scrive: «le facezie e i motti sono più presto dono de grazia di natura che d’arte; ma bene in questo si trovano alcune nazioni pronte più l’una che l’altra, come i Toscani, che sono in vero acutissimi» (II, XLII). A proposito della “beffa”: «Ma i lochi [luoghi] donde cavar si possono le burle sono quasi i medesimi delle facezie», alludendo evidentemente alla Toscana. Parlando delle celebri Facezie del piovano Arlotto, il critico Giancarlo Mazzacurati le considera la testimonianza più eclatante di un costume tipicamente toscano-fiorentino. In esso vige «una vasta e complice abitudine all’affabulazione giocosa e ammiccante, che assume a lungo andare la forma di un abito popolare, di un sostrato ininterrotto dell’antropologia culturale fiorentina, nel piccolo dedalo di strade, laboratori e mercati in cui la comunità municipale si richiudeva, alla sera. Entro il circuito protettivo delle sue mura, delle sue genealogie riconosciute, delle sue figure caratteristiche, dei suoi linguaggi spontanei, l’eco di una vicenda o anche di una sola schermaglia, di una battuta salace e del suo autore, doveva rapidamente entrare a far parte di un patrimonio collettivo, ripetuto, a lungo andare automatico, come i proverbi. In questo stesso clima [...] il racconto della “beffa” si era formalizzato, fin da Boccaccio, come un altro “sotto-genere”, destinato a rimanere legato alla civilizzazione fiorentina e al suo costume [...] anche se, ovviamente, storie di beffe si diffonderanno ovunque, Firenze sembra assumersi il ruolo di un teatro specializzato, per l’attuazione e per la recitazione di questo gran gioco collettivo». In un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera», parlando della fortuna cinematografica dei comici di origine toscana, tra cui il celebratissimo Benigni, lo scrittore versiliese Giovanni
Mariotti (nato nel 1936) osserva: «A seconda delle epoche le categorie fondamentali dell’antropologia toscana hanno ricevuto nomi diversi, ma la sostanza è rimasta la stessa: da una parte i “bischeri” eterni e dall’altra parte i “ganzi”, coeterni; su questo, e sul turpiloquio si basa il background della comicità toscana». Incarnazione monumentale del “bischero” è il povero Calandrino immortalato dal Boccaccio, “uomo semplice” e “di pasta grossa”, oggetto costante di scherzi crudeli. Dopo il Boccaccio le burle continuano: dal Sacchetti al Grazzini, dal Firenzuola al Machiavelli della Mandragola. «Da lì, con un salto lungo ma agevole, si può arrivare fino ad Amici miei del toscano Monicelli, però immaginato e scritto da un non toscano (Pietro Germi) che seppe cogliere il fondo di malinconia e di horror vacui [paura del vuoto], la cupezza di certi scherzi e di certe zingarate». L’antecedente remoto degli atteggiamenti irriverenti e dissacranti dei toscani è Cecco Angiolieri (1260-1310) con i suoi “improperi” e “vituperi”, quasi un archetipo di certe sindromi che Mariotti considera tipiche dei toscani: «no alle languidezze a favore dell’espressione diretta; no alla circonlocuzione e all’eufemismo, sì alla bestemmia e al turpiloquio [...]. Per molti anni la loro tradizione e il loro dialetto hanno fatto figura di residui del “Dugento”: mentre il romanesco e il napoletano dilagavano in tv e al cinema, il toscano sopravviveva solo nelle sue contrade, nelle sue “corti”, nelle sue osterie [...]. Finché apparve Benigni. [...] L’interprete di Berlinguer ti voglio bene [film del 1977] correggeva con la sua grazia ballerina e la sua eleganza nativa quello che c’era di désagreable [sgradevole] nella tradizione toscana. Sulla sua bocca, l’antico turpiloquio suonava non edulcorato, ma genialmente alleggerito, così da non offendere nessuno». Da G. Mazzacurati, All’ombra di Dioneo. Tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, La Nuova Italia, Firenze 1996, G. Mariotti, Comici toscani tra ganzi e bischeri, in «Corriere della Sera», 8 marzo 1999.
L’attore e regista toscano Roberto Benigni.
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Le cronache cittadine 1 Una storiografia militante Nel secondo Duecento, all’interno della prosa volgare si affermano, in particolare nei comuni della Toscana, le cronache cittadine. L’interesse di autori e pubblico per questo genere si spiega nel contesto della civiltà comunale, in cui i comuni cercano di affermare la propria specifica identità. Precedentemente non mancavano cronache di eventi locali, ma erano opera di monaci o comunque chierici ed erano commissionate dalle curie vescovili per fini documentari. La prospettiva di queste cronache, redatte in latino, in cui i singoli eventi erano narrati secondo un criterio annalistico, era sostanzialmente religiosa: negli eventi, seppur minuziosamente elencati, il cronista medievale cercava comunque di individuare e proporre un piano provvidenziale, un disegno divino. Le cronache in volgare sono invece opera di autori inseriti a vario titolo nella vita attiva del comune, di cui riflettono le passioni politiche e gli schieramenti ideologici. L’impostazione data alla lettura dei fatti è in genere laica; si presta attenzione, almeno in alcuni casi, agli aspetti economici e sociali e ci si focalizza soprattutto su vicende politiche di cui gli autori sono stati testimoni diretti. La modalità della narrazione è molto lontana dal distacco critico-razionale e dalla ricerca dell’imparzialità dei giudizi che oggi consideriamo necessari quando si affronta un discorso storico: anzi, si lascia spazio a prese di posizione “di parte”. Insomma, si tratta di una storiografia militante. Facciamo qui riferimento in particolare a due cronisti fiorentini: Dino Compagni e Giovanni Villani, ma altrove (➜ SCENARI, PAG. 55) abbiamo nominato anche la cronaca in latino di Bonvesin da la Riva (Le meraviglie di Milano). La Cronica di Dino Compagni Fiorentino, guelfo di parte bianca come Dante, Dino Compagni (metà del XIII secolo-1324) rivestì varie cariche politiche: in particolare quella di priore. In questo ruolo, promosse l’iniziativa di bandire i capi delle due fazioni, i Bianchi e i Neri (Guido Cavalcanti fu tra quelli colpiti dal provvedimento). La Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, composta tra il 1310 e il 1312, riguarda gli eventi avvenuti in Firenze e in Toscana negli anni tra il 1280 e il 1312, dei quali Compagni fu non solo testimone ma anche a volte protagonista. La passione politica, lo sdegno per la decadenza della sua città, il coinvolgimento anche emotivo, rende incisiva e vibrante la sua testimonianza, ma ne limita al contempo la credibilità storica. Del resto a Compagni interessa illuminare quelli che furono gli avvenimenti cruciali della sua città e della sua stessa vita e non tanto offrire un quadro esauriente dei fatti storici. La Nuova Cronica di Giovanni Villani Giovanni Villani (1280-1348), fiorentino, guelfo di parte nera, appartiene a una generazione successiva a quella di Compagni. Visse cinque anni nelle Fiandre, come socio della compagnia dei Peruzzi. Tornato a Firenze, rivestì importanti cariche politiche, tra cui quella di priore e ambasciatore del Comune. Lavorò alla sua Cronica dal 1308 alla morte, che ne interruppe la stesura al XII libro. L’impostazione della sua opera, che segue un Le cronache cittadine 3 221
criterio rigorosamente annalistico, è più arcaica della Cronica di Compagni, risale alle origini mitiche di Firenze e manifesta la persistenza di una visione religiosa nel valutare gli eventi storici, ma al contempo riflette anche l’interesse del mercante, quale lui stesso era, per le dinamiche economiche e la soddisfazione per la prosperità del comune di Firenze. Agli eventi più recenti del Comune fiorentino sono dedicati gli ultimi sei libri, che presentano l’ascesa economica della città con abbondanza di dati statistici. Lo stile dell’opera non indulge mai all’enfasi, ma è sempre referenziale e chiaro (si può leggere l’Elogio di Firenze di Villani in SCENARI, ➜ T9b OL).
Le cronache cittadine Le cronache cittadine
nuova concezione della storia non più provvidenzialistica ma laica
attenzione agli aspetti economici e sociali
storiografia militante
autori: Dino Compagni e Giovanni Villani
Fissare i concetti Forme del narrare nella società comunale 1. Che cosa sono i volgarizzamenti? 2. Di che cosa parla Il Milione di Marco Polo? Qual è la sua struttura? 3. Perché Il Milione ha un doppio narratore? 4. Qual è lo scopo della narrazione di Marco Polo? 5. Quali sono le caratteristiche della novella? 6. Che cos’è l’exemplum? 7. Che cosa sono i fabliaux? 8. Quali caratteristiche presenta il Novellino? 9. Quali sono le differenze tra il Trecentonovelle di Sacchetti e il Decameron? 10. Quali caratteristiche presentano le cronache cittadine rispetto alle cronache ecclesiastiche?
Scena popolare al mercato di frutta e verdura, in un affresco del castello di Issogne (XV secolo) in Valle d’Aosta.
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Giovanni Villani
T10
Il ruolo di Brunetto Latini nella società comunale Nuova Cronica, IX, x Nel sommario di eventi relativi all’anno 1294 Giovanni Villani, registra la morte di Brunetto Latini, figura di spicco a Firenze. Può essere interessante confrontare questo profilo con le informazioni che ci dà Dante nel celebre canto XV dell’Inferno (➜ C6 D9 ).
Nel detto anno MCCLXXXXIIII1 morì in Firenze uno valente cittadino il quale ebbe nome ser Brunetto Latini, il quale fu gran filosafo2, e fue3 sommo maestro in rettorica, tanto in bene sapere dire come in bene dittare4. E fu quegli che spuose la Rettorica di Tulio5, e fece il buono e utile libro detto Tesoro, e il Tesoretto6, e la Chiave del Tesoro, e più altri libri in filosofia, e de’ vizi e di virtù, e fu dittatore del nostro Comune. Fu mondano7 uomo, ma di lui avemo fatta menzione però ch’egli8 fue cominciatore e maestro in digrossare9 i Fiorentini, e farli scorti10 in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la Politica. 1 MCCLXXXXIIII: è il 1294 in numeri romani. 2 filosafo: filosofo. 3 fue: “fu” con epitesi (aggiunta finale) della -e; è un tratto dell’italiano antico. 4 dittare: scrivere lettere e documenti, secondo le arti della retorica; più sotto, ditta-
tore vale “scrittore di trattati di retorica”, o anche “notaio”. 5 quegli... Tulio: colui che nella Rettorica commentò il De inventione di Cicerone. 6 Tesoro... Tesoretto: Li livres dou Trésor è un’opera enciclopedica scientifica, filosofica e politica, composta da Brunetto Latini in Francia, dove si trovava in esilio. Tor-
nato a Firenze, Brunetto rielaborò l’opera e la riscrisse in versi italiani, intitolandola Tesoretto. 7 mondano: brillante e conosciuto. 8 però ch’egli: per il fatto che egli. 9 cominciatore... digrossare: iniziatore e maestro nel rendere più colti e raffinati. 10 scorti: abili.
Analisi del testo Il profilo dell’intellettuale comunale Il ritratto che Villani elabora di Brunetto Latini è assai emblematico, soprattutto se messo in relazione al celebre profilo che ne fa Dante nel canto XV dell’Inferno; questo perché esso mette in evidenza il ruolo e quindi i meriti civili e politici del filosofo nella società comunale nuova che si sta disegnando a cavallo fra XIII e XIV secolo in Italia. In particolare Villani, con uno stile preciso ed essenziale, sottolinea il valore di Brunetto Latini come «sommo maestro in rettorica» e l’utilità dei suoi libri. Villani, allo stesso modo di Dante e altri pensatori del tempo, riserva alla filosofia un valore decisivo per la costruzione della personalità dell’uomo e per il governo dello stato.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza la situazione descritta nel testo in due righe. ANALISI 2. Villani riesce a mettere in evidenza il rapporto tra Brunetto Latini, tipico intellettuale comunale, e i suoi concittadini. Che cosa insegna Brunetto ai fiorentini? 3. In che senso l’operato di Brunetto Latini fa progredire sul piano culturale e politico i fiorentini? LESSICO 4. Sottolinea le espressioni che delineano il ritratto di Brunetto e indica il registro stilistico utilizzato. TESTI A CONFRONTO 5. Confronta il passo di Villani con il XV canto dell’Inferno dantesco (➜ C6 D2 ), indicando le coincidenze tra i due testi nel delineare il ritratto di Brunetto Latini e il suo ruolo nella città di Firenze.
Interpretare
SCRITTURA 6. Il testo si può intendere anche come un suggerimento che Villani fornisce su come si dovrebbe comportare un retto e saggio filosofo. Per quale ragione? Argomenta in un breve testo di 5 righe.
Le cronache cittadine 3 223
Duecento e Trecento Forme del narrare nella società comunale
Sintesi con audiolettura
1 Raccontare il viaggio nel Medioevo
L’affermazione della prosa in volgare Nel XIII secolo conoscono grande successo i volgarizzamenti, ossia i rimaneggiamenti in volgare di opere latine o francesi oppure l’elaborazione di originali di diverso argomento e tipologia; tutto ciò in rapporto allo sviluppo della civiltà comunale e alla necessità di acculturamento dei ceti emergenti e delle sue classi dirigenti. L’emergere del gusto del narrare per un nuovo pubblico Il favore del nuovo pubblico cittadino si indirizza verso tre generi letterari: la letteratura di viaggio (in cui emerge Il Milione di Marco Polo), la novella (il cui esempio più famoso è il Decameron di Giovanni Boccaccio) e le cronache cittadine. I racconti di viaggio Nel Medioevo il viaggio è un’esperienza non rara ma lunga e difficile a causa dei numerosi pericoli e della scarsità di conoscenze geografiche. La affrontano soprattutto i pellegrini – che si dirigono per motivi devozionali e penitenziali a Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela oppure lungo la via Francigena – e i missionari, che partono per l’Estremo Oriente a convertirne le popolazioni, lasciando dettagliate relazioni sui propri incontri. Dal XII secolo, con la nascita delle prime università, anche intellettuali e studenti si spostano per l’Europa allo scopo di insegnare nelle sedi più prestigiose o di seguire i docenti più famosi; dal XIV secolo le personalità più note e capaci sono chiamate nelle corti signorili e a svolgere missioni diplomatiche. Ma a viaggiare sono soprattutto i mercanti, spinti dall’interesse economico: le loro mete vanno dall’estremo Nord all’Africa settentrionale, senza trascurare nemmeno le estreme propaggini orientali del misterioso impero mongolo; per diffondere utilitaristicamente ad altri la conoscenza di lingue, ambienti e tradizioni, essi lasciano memorie scritte delle proprie multiformi esperienze. Marco Polo e Il Milione Emblema del mercante è il veneziano Marco Polo (1254-1324) che attraversa l’Asia e rimane per molti anni in Cina. Le sue memorie, inizialmente stese in lingua d’oïl da Rustichello da Pisa, vengono ben presto volgarizzate e Il Milione (titolo con cui l’opera è nota) diventa un grande successo, soprattutto presso il pubblico borghese-mercantile. La prima parte dell’opera è un resoconto sintetico dei viaggi in Oriente; la seconda un vero e proprio trattato su usi, abitudini, flora e fauna di ciascun luogo visitato. L’obiettivo è certamente quello di fornire dati utili ai mercanti, ma si ritrova anche un genuino interesse etno-antropologico per mondi così diversi dall’Occidente. Nel modo di raccontare le sue esperienze di viaggiatore Marco Polo affianca alle credenze medievali, in parte accettate, una nuova mentalità razionale che lo induce a una valutazione critica di ciò che vede.
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2 Narrare per il gusto di narrare: la novella
Un genere dalla vita secolare La novella è una narrazione in prosa, facilmente fruibile, che fiorisce nella realtà comunale ed è caratterizzata da ampia varietà nei temi, nei contenuti, nello stile e nei fini. Essa rappresenta un genere di grande fortuna nella letteratura italiana (soprattutto dal Trecento al Cinquecento, quando è prodotta per evasione e divertimento, e fino al XX secolo), anche grazie all’eccellenza artistica del Decameron, una raccolta di cento novelle composta verso la metà del XIV secolo. Le prime forme di narrazione breve: gli exempla e i fabliaux Nella sua varietà, la novella si differenzia dagli exempla: questi ultimi, infatti, sono brevi narrazioni di remota origine orientale, mediata dall’influsso arabo e poi cristianizzata; schematici, inverosimili, indeterminati sotto il profilo spazio-temporale e popolati da personaggi emblematici, essi sono finalizzati alla trasmissione di un messaggio educativo di tipo morale-religioso. La loro fortuna inizia lentamente a declinare dal XII-XIII secolo in parallelo allo sviluppo, in Francia, dei fabliaux, che sul genere novellistico hanno grande influsso: racconti in versi di origine giullaresca, realistici e spesso osceni, senza fini didascalici ma, al contrario, comicoparodistici. Verso la definizione del genere: il Novellino La prima importante raccolta di novelle in area romanza è il Novellino, allestita in ambiente fiorentino probabilmente negli ultimi due decenni del Duecento da un autore sconosciuto. Nell’opera, costituita da racconti per lo più brevi, confluisce una ricca e multiforme tradizione narrativa: fonti classiche, romanzi cortesi, fabliaux ed exempla rivisitati. Obiettivo dell’opera, come dichiarato nel Prologo, è il diletto che deriva al lettore dalla bellezza delle storie raccontate, dall’arguzia e dall’intelligenza della parola, dal motto. Una pietra miliare nella storia del genere “novella” Tra il 1349 e il 1351 Boccaccio scrive uno dei capolavori della letteratura italiana: il Decameron, che occupa un posto centrale nella storia del genere novellistico. Boccaccio consacra il ruolo della novella come strumento realistico di lettura del mondo e della società contemporanea, e al contempo come genere di piacevole intrattenimento per un pubblico nuovo. Dopo Boccaccio Un significativo scrittore di novelle è anche Franco Sacchetti, autore di una raccolta, il Trecentonovelle, sul finire del XIV secolo. L’opera ci è giunta incompleta e non vi si ritrova un disegno organizzativo unitario. I personaggi appartengono a un mondo umile e lo stile è volto a ritrarre l’immediatezza del parlato. Gli episodi raccontati traggono spunto dal contesto dei comuni toscani e sono arricchiti dalla presenza di scherzi e beffe. Dopo Boccaccio, la raccolta novellistica più interessante viene dall’Inghilterra: si tratta di The Canterbury Tales (I racconti di Canterbury) di Geoffrey Chaucer, scritti verso la fine del Trecento, che offrono un ritratto realistico della società inglese del tempo non solo attraverso i testi narrati, ma anche attraverso i profili, estremamente individuati sul piano psico-sociologico, dei narratori di secondo livello.
Sintesi
Duecento e Trecento 225
3 Le cronache cittadine
Una storiografia militante Dalla seconda metà del Duecento si affermano, in particolare in ambito toscano, le cronache cittadine. Esse hanno precedenti negli annali locali che i monaci redigevano in latino con prospettiva religiosa. Le nuove cronache, laiche e redatte in volgare, sono invece opera di autori inseriti nella vita comunale e quindi testimonianze partigiane e militanti; vi si presta attenzione non solo agli avvenimenti politici, ma anche all’illustrazione di aspetti economici e sociali. I due cronisti più importanti sono i fiorentini Dino Compagni (metà del XIII secolo-1324) e Giovanni Villani (1280-1348). Il primo, guelfo bianco ed ex-Priore, è autore della Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, che narra gli avvenimenti toscani tra il 1280 e il 1312 in modo assai emotivo e coinvolto, a scapito della credibilità storica. Il secondo, guelfo di parte nera, anch’egli Priore, è autore della Nuova cronica, opera che racconta Firenze dalle sue origini mitiche con impostazione annalistica e visione ancora religiosa, ma con stile piano e chiaro e con un particolare focus sugli aspetti economici della vita comunale.
Zona Competenze Riflessione critica
1 Ai nostri giorni la percezione dell’Oriente e della Cina in Occidente è profondamente mutata ma, nonostante sia passato molto tempo dal resoconto di Marco Polo, non mancano i pregiudizi. Quali sono secondo voi quelli più ricorrenti?
Esposizione orale
2 Nel libro di Marco Polo il viaggio e il soggiorno nei paesi lontani rappresentano anche un’occasione per aprirsi al nuovo, alle diversità, per sfatare false credenze e pregiudizi. Prepara un intervento orale di circa 5 minuti per esprimere la tua opinione sull’attualità di questo modo di intendere il viaggio proprio del ventunesimo secolo.
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
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Duecento e trecento CAPITOLO
4 “Ragionar d’Amore”
La lirica trobadorica influenza in Italia la scuola siciliana, nata alla corte di Federico II. È una poesia concepita come raffinato passatempo a opera dei funzionari della corte, in cui tema esclusivo è l’amore, cantato in un siciliano letterario, lontano dalla lingua parlata. È la Toscana la sede delle successive esperienze liriche duecentesche: prima con un gruppo di poeti, tra cui spicca Guittone d’Arezzo, che associano al tema amoroso i temi civili e politici; poi con lo stilnovo. Precursore e maestro degli stilnovisti è il bolognese Guido Guinizzelli; i rappresentanti più importanti sono Guido Cavalcanti e Dante Alighieri. Con lo stilnovo la letteratura italiana crea un modello di raffinata poesia, che in uno stile piano e musicale celebra il mito di un amore “totalizzante”, in cui la donna, evanescente apparizione, è davvero capace di cambiare la vita, ora come tramite verso il divino (in Guinizzelli e Dante), ora come potenza distruttiva (in Cavalcanti).
1 La scuola siciliana 2 I poeti siculo-toscani 3 Il dolce stilnovo 227
1 La scuola siciliana 1 Il trapianto della lirica amorosa in Italia Lirica siciliana e politica culturale di Federico II I modi e i temi della lirica provenzale si diffondono in varie zone dell’Europa e anche in Italia. Oltre ad alcune regioni del Nord Italia, dove sono attivi poeti che utilizzano la lingua provenzale, l’eredità della poesia trobadorica si radica in particolare in Sicilia. L’isola era entrata in possesso degli Svevi verso la fine del XII secolo e costituiva, insieme all’Italia meridionale, il Regno di Sicilia. Divenuto imperatore, Federico II vi si stabilisce. All’interno della sua corte (la Magna Curia), per circa vent’anni, dal 1230 al 1250 circa, si afferma una raffinata esperienza poetica che inaugura in Italia un’alta tradizione lirica in volgare. La lirica siciliana va vista come un importante tassello di una più generale politica culturale: poeta egli stesso, come i figli Manfredi ed Enzo, Federico II cerca di mettere in atto una serie di misure volte a fondare una cultura laica di alto livello, in contrapposizione all’egemonia della Chiesa. Egli incentiva la formazione di intellettuali laici attraverso la scuola di retorica di Capua, la scuola di medicina di Salerno, l’università di Napoli e la promozione dello studio del diritto romano, finalizzata a legittimare la supremazia imperiale sul papato. I molteplici interessi culturali di Federico II – figura carismatica, poeta, conoscitore di molte lingue, appassionato di cultura filosofica, scientifica e astrologica, autore di un trattato di falconeria intitolato De arte venandi cum avibus (“L’arte di cacciare con i falconi”) – fanno della Magna Curia un ambiente di grande fervore intellettuale, aperto anche agli influssi della cultura araba. I funzionari di corte provengono da luoghi molto diversi tra loro, e questo aspetto rende la Magna Curia un ambiente multiculturale. In tale prospettiva di grande respiro culturale si inserisce anche l’impulso dato dal sovrano alla produzione lirica. Una stagione, tuttavia, di breve durata: lo stretto rapporto esistente fra la figura di Federico II e la lirica siciliana è evidenziato dal fatto che con la morte del monarca (1250) l’esperienza va esaurendosi. Modalità di produzione-ricezione diverse rispetto alla lirica trobadorica La lirica siciliana deriva temi e modi dalla poesia trobadorica ma, rispetto a essa, presenta anche delle diversità. Innanzitutto la prima è destinata alla lettura e non all’ascolto: di conseguenza mancano il canto e la musica; inoltre, non è opera di professionisti del poetare, come i trovatori, ma di funzionari della corte di Federico, che nella vita quotidiana ricoprono ruoli sociali specifici: Jacopo da Lentini è notaio, Pier della Vigna (ricordato in un celebre canto dell’Inferno dantesco) è cancelliere, Guido delle Colonne giudice e così via. Per essi la poesia è uno svago raffinato, a cui dedicarsi nel tempo libero dagli impegni. I siciliani, proprio per la loro condizione di poeti-cortigiani, non danno alcuno spazio al genere politico-satirico del sirventese, ma si concentrano esclusivamente sul tema dell’amore cortese, rendendolo ancora più astratto attraverso l’eliminazione di ogni riferimento contingente o autobiografico e idealizzando ancor più la figura femminile, che rappresentano in modo volutamente antirealistico e stereotipato: la donna «c’ha blonda testa e claro viso» di cui si parla in un sonetto di Jacopo da Lentini (➜ T2 ) corrisponde evidentemente a un modello di bellezza fissato dalla lirica trobadorica. Cambiando il contesto, vengono meno anche i riferimenti più
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specifici al codice feudale e al galateo cortese. Da parte loro i siciliani si mostrano soprattutto interessati a esplorare la fenomenologia dell’amore. La loro poesia evidenzia un accentuato intellettualismo, nello sforzo di chiarire l’essenza e le dinamiche psicologiche dell’esperienza amorosa; tendenza che sarà ripresa e ulteriormente accentuata dai poeti stilnovisti, soprattutto da Cavalcanti.
Lessico tenzone Discussione su un determinato tema che si svolgeva attraverso lo scambio di testi fra vari poeti.
I poeti Come già detto, i poeti della scuola siciliana sono funzionari della corte di Federico, che nella vita quotidiana ricoprono ruoli sociali specifici. La figura più rilevante è sicuramente quella di Jacopo (o Giacomo) da Lentini (1210 ca.-1260), ricordato da Dante come «’l Notaro» (Pg XXIV, 56) e considerato l’“inventore” del sonetto. Ha lasciato una quarantina di componimenti, tra cui sedici tra canzoni e canzonette e ventiquattro sonetti, dei quali tre in tenzone . È identificato come il caposcuola perché di lui ci rimane il corpus di testi più cospicuo tra quelli dei rimatori siciliani e per il fatto che le sue poesie sono sempre in apertura nei manoscritti che contengono la produzione poetica della scuola siciliana. Oltre a lui vanno annoverati, tra i poeti della scuola, lo stesso Federico II, suo figlio Enzo, Pier della Vigna, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Stefano Protonotaro, Jacopo Mostacci, Giacomino Pugliese. Guido delle Colonne, giudice messinese, di cui ci restano solo cinque canzoni, è considerato una delle figure di spicco della scuola siciliana. Dante cita in modo lusinghiero due sue canzoni nel De vulgari eloquentia. Rinaldo d’Aquino ci ha lasciato una dozzina di componimenti ascrivibili al movimento poetico della Magna Curia. Del personaggio non si hanno notizie certe: per alcuni ascrivibile alla nobile famiglia degli Aquino (e fratello di san Tommaso), per altri era un Rinaldo, falconiere alla corte di Federico II. All’interno di questa esperienza poetica si fa rientrare anche Cielo d’Alcamo, forse un giullare isolano di cui sappiamo pochissimo. A lui è attribuita una celebre composizione poetica, in forma di contrasto. Il manoscritto che conserva il contrasto, Rosa fresca aulentissima, lo tramanda anonimo; poi un erudito del ’500, Angelo Colocci, copiando il testo aggiunge il nome ricavandolo da una fonte a noi sconosciuta. “Cielo” è la forma toscanizzata del siciliano “Celi” (Michele) e il cognome risulta attestato a Palermo nel ’200. Rosa fresca aulentissima mette in scena un dialogo tra il poeta e una donna del popolo, inizialmente infastidita dal corteggiamento del poeta, ma poi disposta a concedersi. Da alcuni studiosi il testo è stato interpretato come una parodia dell’amore cantato dai poeti conterranei. Non conosciamo con precisione la data di composizione del testo, ma alcuni riferimenti storici presenti nel contrasto ci portano a pensare che sia stato composto dopo il 1231 e comunque prima della morte di Federico II (1250). Nina Siciliana Va ricordata inoltre Nina Siciliana, la cui figura è avvolta nel mistero come anche la sua appartenenza alla scuola siciliana. Poetessa della fine del XIII secolo, di lei non conosciamo con certezza né il nome completo né il luogo di nascita. A collocarla in Sicilia non è che una supposizione basata sulla distribuzione del nome Nina nel XIII secolo. La sua importanza consisterebbe nel fatto che è stata la prima donna, di cui si abbia notizia, a poetare in volgare. Su di lei continuano ad alternarsi i giudizi degli studiosi sulla sua effettiva storicità. Di lei abbiamo un sonetto, concepito come risposta al sonetto del poeta toscano Dante da Maiano, contenuto nella raccolta Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani edita da Filippo di Giunta nel 1527 a Firenze e detta anche “Giuntina di rime antiche” e le si attribuisce (Trucchi) anche un sonetto Tapina me presente nel codice Vaticano 3793 in forma anonima. L’ascrizione La scuola siciliana 1 229
ottocentesca alla mitica Nina siciliana è in particolare nel critico De Sanctis che ne elogia il volgare raffinatissimo. Un siciliano “illustre” La lingua usata è il volgare siciliano, ben lontano però da quella parlata: si tratta infatti di una lingua selezionata e aulica, con tratti latineggianti e qualche influsso del provenzale, una lingua che non a caso Dante propone come modello di volgare “illustre” nel De vulgari eloquentia. Occorre però precisare che i testi, tranne pochissime eccezioni, non ci sono pervenuti nell’idioma originale, bensì nelle trascrizioni effettuate dai copisti toscani, che sovrapposero all’originaria fisionomia linguistica una forte patina regionale. Possediamo una sola lirica completa in volgare siciliano: la canzone Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro, di cui riproduciamo qui la prima stanza, per dare almeno un’idea della lingua poetica siciliana in cui le liriche erano state composte e, di conseguenza, la distanza tra la veste originaria e la veste linguistica toscana in cui i testi ci sono stati trasmessi. Nella canzone sono presenti francesismi, provenzalismi e latinismi ed è grazie a questi elementi che il volgare siciliano acquista dignità letteraria. Alla base della canzone però troviamo voci della lingua siciliana, caratterizzata dalla presenza di molte parole che terminano in -u e -i (meu, cori), dal ricorso al condizionale in -ia (turniria) e dal “ca” causale. Pir meu cori1 alligrari, chi multu longiamenti senza alligranza e joi d’amuri2 è statu, mi ritornu3 in cantari, 5 sca forsi levimenti da dimuranza turniria in usatu di lu truppu taciri; e quandu l’omu ha rasuni di diri, ben di’ cantari e mustrari allegranza, 10 ca senza dimustranza joi siria sempri di pocu valuri: dunca ben di’ cantar onni amaduri. 1 meu cori: possessivo senza articolo per influenza del provenzale.
Per rallegrare il mio cuore, che molto a lungo è stato senza allegria e gioia d’amore, riprendo a poetare, perché forse facilmente muterei in abitudine la tendenza a indugiare troppo a lungo nel silenzio; e quando si ha ragione di poetare, si deve davvero cantare e mostrare allegria, perché senza una manifestazione esteriore la gioia sarebbe sempre poco valorizzata: dunque ogni persona che ama deve scrivere canzoni.
2 joi d’amuri: termine tecnico del linguaggio cortese.
3 mi ritornu: costrutto provenzale.
La rima siciliana Si è già ricordato che le liriche dei poeti della corte federiciana ci sono pervenute, per la quasi totalità, attraverso l’opera di copisti toscani, che toscanizzarono i testi privandoli così dell’originale veste linguistica siciliana. La toscanizzazione consistette essenzialmente in un adattamento a livello fonetico. Le variazioni fonetiche, e in particolare quelle dei gruppi vocalici (specie la e e la o toniche, che rimano rispettivamente con la i e la u toniche), influirono sulle parolerima, dando luogo a imperfezioni metriche, a rime “imperfette”, che però nell’originale evidentemente non esistevano. Ad esempio (citiamo da Ancor che l’aigua di Guido delle Colonne, vv. 3-5) natura è posto in rima con dimora: nell’originale natura rimava con il siciliano dimura, che poi è stato toscanizzato in dimora. I poeti del Due-Trecento che leggevano le liriche siciliane nella versione toscanizzata dei copisti pensarono che queste rime imperfette, queste anomalie (che tali in origine
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non erano) fossero delle ricercatezze volute o delle forme arcaiche e perciò una prerogativa stilistica dei siciliani: da qui il termine “rima siciliana”, rimasto in uso per moltissimo tempo. La stabilizzazione della canzone e la nascita del sonetto Le forme metriche usate dai siciliani sono la canzone (genere alto, poi immortalato da Dante e da Petrarca), la canzonetta (più adatta ad argomenti meno elevati), e il sonetto. Il sonetto, ideato quasi sicuramente da Jacopo da Lentini (1210 ca-1260) e la cui fortuna travalica i secoli per pervenire addirittura al Novecento, può essere definito il genere metrico “principe” della poesia italiana, sia per la sua fortuna nei secoli, sia per la varietà tematica che è stato capace di accogliere. Dai siciliani il sonetto non viene impiegato come spazio lirico della soggettività, ma quasi sempre come strumento di dibattito concettuale, per disquisizioni sulla natura dell’amore, come ben si può vedere nel primo testo proposto, di Jacopo da Lentini (➜ T1 ).
La scuola siciliana GENERE
lirica
TEMPO
1230-1250
LUOGO
corte di Federico II (Magna Curia)
LINGUA
volgare siciliano illustre
TEMI
amore cortese, idealizzazione della figura femminile
DESTINAZIONE
lettura, non ascolto
MODELLO
lirica provenzale
DIFFUSIONE
attraverso i copisti toscani
AUTORI
funzionari di corte: Jacopo da Lentini (notaio), Pier della Vigna, Guido delle Colonne
Fissare i concetti La scuola siciliana 1. Quali sono le caratteristiche della lirica siciliana rispetto alla lirica provenzale? 2. Chi sono i poeti della lirica siciliana e quale ruolo rivestono a corte? 3. Quale lingua utilizzano i poeti siciliani? Come ci sono pervenuti i loro testi? 4. Di che cosa tratta il contrasto di Cielo d’Alcamo Rosa fresca aulentissima?
La scuola siciliana 1 231
Jacopo da Lentini
T1 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Amor è uno desio che ven da core Il sonetto fa parte di una “tenzone” incentrata sulla definizione della natura dell’amore. La tenzone vede coinvolti tre poeti della scuola siciliana: Jacopo Mostacci apre il dibattito; gli rispondono Pier della Vigna con il sonetto Però ch’amore non si po’ vedere, qui proposto online, e appunto Jacopo da Lentini. Quest’ultimo sostiene il ruolo primario esercitato nell’innamoramento dalla vista dell’amata. Il cuore dà alimento a un sentimento-impulso che è attivato dalla bellezza della persona amata, la cui immagine è trasmessa appunto dalla vista.
Amor è uno desio1 che ven da core per abondanza di gran piacimento2; e li occhi in prima3 generan l’amore 4 e lo core li dà nutricamento4. Ben è alcuna fiata om amatore senza vedere so ’namoramento5, ma quell’amor che stringe con furore 8 da la vista de li occhi ha nascimento: ché li occhi rapresentan a lo core d’onni cosa che veden bono e rio, 11 com’è formata naturalemente6; e lo cor, che di zo è concepitore7, imagina, e li piace quel desio: 14 e questo amore regna fra la gente.
Scena cortese: il cavaliere offre alla dama il proprio cuore particolare di un arazzo del secolo XV. La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB ACD ACD.
1 desio: desiderio. 2 per abondanza di gran piacimento: per eccesso di piacere. 3 in prima: prima di tutto, in un primo tempo.
4 li dà nutricamento: gli dà nutrimento. 5 Ben è… ’namoramento: è pur vero che qualche volta (alcuna fiata) l’uomo ama senza vedere l’oggetto del proprio amore. Probabilmente Jacopo allude al trovatore Jaufre Rudel e al tema provenzale dell’“amore di lontano” (➜ C1 T10 ).
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6 ché li occhi… naturalemente: di ogni cosa che vedono, gli occhi rappresentano nella realtà (com’è... naturalemente) il positivo e il negativo. 7 che di zo è concepitore: che accoglie ciò (che gli occhi gli trasmettono).
Analisi del testo La struttura argomentativa Nella prima quartina l’autore sostiene che l’amore è una passione (disìo) che proviene dal cuore, ma è la vista (della donna) che la attiva, mentre il core poi la alimenta. Nella seconda quartina Jacopo sembra correggere l’assolutezza dell’asserzione presente nella prima strofa: vi è effettivamente qualche caso in cui ci si innamora a prescindere dalla visione della donna; aggiunge però che la forte passione amorosa (quell’amor che stringe con furore) deriva sempre dalla vista. Jacopo pare qui alludere al motivo convenzionale dell’“amore di lontano”, proprio in particolare del trovatore Jaufre Rudel (➜ C1), che di fatto Jacopo da Lentini ridimensiona. Le due terzine non presentano un’ulteriore progressione argomentativa, ma si limitano a richiamare la funzione, nel processo dell’innamoramento, esercitata rispettivamente dalla vista (prima terzina), considerata fonte di una fedele riproduzione della realtà, e dal cuore (seconda terzina), valutato quale fonte del processo immaginativo ed emotivo che genera l’amore.
Una definizione in poesia Anche un lettore sprovveduto si rende conto che questo sonetto non è un testo spontaneo sull’amore, l’effusione lirica di un sentimento individuale. Vi si oppone l’evidente uso di una struttura argomentativa e la frequenza di nessi logici finalizzati a evidenziare il rapporto tra i concetti. Il sonetto è espressione di un atteggiamento fortemente intellettualistico, del desiderio di chiarire la natura e il significato di un’esperienza chiave come quella d’amore; inoltre ha una precisa fonte, l’inizio del celebre trattato sull’argomento di Andrea Cappellano, di cui riprende sinteticamente alcuni punti. L’amore è una passione innata che procede per visione e per incessante pensiero di persona d’altro sesso [...]. La passione, a ben guardare la verità, non nasce da nessuna azione, ma la passione nasce dal solo pensiero che l’animo concepisce davanti alla visione. Quando, infatti, uno vede una donna che corrisponde al suo amore e che è bella secondo il suo gusto, subito in cuor suo comincia a desiderarla, e quanto più la pensa, tanto più arde d’amore [...]. Dunque la passione innata nasce da visione e da pensiero». Andrea Cappellano, De Amore, trad. di J. Insana, SE, Milano 1996
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del sonetto in almeno 10 righe. COMPRENSIONE 2. Da che cosa nasce l’amore secondo il poeta? LESSICO 3. Nel sonetto sono presenti termini che appartengono al campo semantico dell’amore. Rintracciali e trascrivili. 4. I protagonisti dell’azione rappresentata sono gli occhi e il cuore: indica i termini che appartengono all’area semantica del “vedere” ed evidenzia le ricorrenze del termine core-cor. STILE 5. Quale figura retorica è utilizzata al v. 4? Rintracciala.
Interpretare
TESTI IN DIALOGO 6. Metti in evidenza il rapporto fra il testo di Andrea Cappellano e il sonetto, facendo un elenco dei punti di contatto e descrivendo l’elemento di novità introdotto da Jacopo da Lentini (max 15 righe).
La scuola siciliana 1 233
Jacopo da Lentini
T2 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Io m’aggio posto in core a Dio servire L’interesse primario di questo sonetto, al di là delle capacità retoriche e metriche che la critica riconosce proprie di Jacopo da Lentini, riguarda il contenuto: il poeta prospetta il difficile rapporto fra amore profano e dimensione religiosa, che tenta di conciliare. In un paradiso molto “terreno”, assai simile a una corte, egli immagina che, a rendere più completa la sua gioia, gli sia vicina la sua donna e possa continuare così a contemplarne la bellezza e ad ammirarne le virtù.
Io m’ag[g]io posto in core a Dio servire1, com’io potesse gire in paradiso2, al santo loco ch’ag[g]io audito dire3, 4 u’ si manten sollazzo, gioco e riso4. Sanza mia donna non vi vorria gire5, quella c’ha blonda testa e claro viso6, ché sanza lei non poteria gaudere, 8 estando da la mia donna diviso7. Ma non lo dico a tale intendimento8, perch’io pec[c]ato ci volesse fare; 11 se non veder lo suo bel portamento9 e lo bel viso e ’l morbido sguardare10: ché lo mi teria in gran consolamento11, 14 veg[g]endo la mia donna in ghiora12 stare.
La metrica Sonetto con schema delle rime ABAB ABAB CDC DCD.
1 Io m’ag[g]io… servire: io mi sono riproposto di servire Dio. L’uso dell’ausiliare avere per rendere riflessivo il verbo appartiene ai dialetti meridionali. 2 com’io… in paradiso: così che io possa andare in paradiso. Anche l’uso del congiuntivo imperfetto per il presente è un meridionalismo. 3 ch’ag[g]io audito dire: di cui ho sentito parlare; audito è un latinismo. 4 u’ si manten… riso: dove (lat. ubi) dura ininterrottamente la gioia, il divertimento e l’allegria. I termini sollazzo, gioco e riso
ricorrono nella tradizione provenzale e rimandano alla raffinata e piacevole vita della corte (anche ➜ T4 , v. 59). 5 non... gire: non vorrei andarci. 6 quella… viso: la bellezza della donna è sintetizzata nel particolare dei capelli biondi e del viso luminoso secondo un’immagine topica derivata dalla tradizione cortese. 7 non poteria… diviso: non potrei essere felice stando separato dalla mia signora. donna dal lat. domina “signora”. 8 a tale intendimento: allo scopo di. Ha valore prolettico rispetto al successivo perch’io.
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9 se non veder… portamento: ma soltanto (se non) per vedere (anche in paradiso) il suo nobile modo di comportarsi. Nella poesia cortese il termine portamento ha un’accezione ben diversa da quella odierna. 10 ’l morbido sguardare: il dolce modo di guardare. 11 ché… consolamento: perché riterrei ciò per me (lo mi teria) una grande consolazione. 12 in ghiora: nella gloria (del paradiso). La forma popolare ghiora forse è dovuta al copista toscano.
Analisi del testo Il paradiso come immagine della corte Nella prima quartina il poeta enuncia il proponimento di una condotta morale tale da assicurargli il paradiso, un luogo che nessuno ha visto e che egli riesce a immaginare solo come “doppio” di una corte terrena, dove regnano la gioia e il divertimento (un paradiso dunque ben poco spirituale). Nella seconda quartina entra in scena la donna, che il poeta vorrebbe accanto a sé in paradiso, quasi come se gli riuscisse impossibile staccarsi dall’amore terreno per essa (dice espressamente che non potrebbe gaudere stando diviso da lei). Nella dimensione ultraterrena, che dovrebbe essere esclusivamente spirituale, viene dunque inserito l’elemento profano dell’amore per la donna. Le due terzine, introdotte dall’avversativa ma, contengono una giustificazione che il poeta ritiene di addurre per spiegare il suo desiderio: non intende certo commettere peccato quando sarà in paradiso con la sua donna, ma la vuole accanto a sé solo per poterla (castamente) contemplare (ricorre due volte un riferimento alla vista: veder [v. 11] e veggendo [v. 14]). In realtà, domina nelle due terzine la fascinosa immagine della bellezza femminile, enfatizzata dalla ripetizione dell’aggettivo bel, dall’enjambement e dal polisindeto (e... e..) che collegano le due terzine, oltre che dall’allitterazione (e ’l morbido sguardare).
L’embrionale conflittualità tra amore per la donna e amore per Dio Nel complesso il sonetto può testimoniare il difficile rapporto fra dimensione morale-religiosa e attrazione per la bellezza femminile e i piaceri terreni. Il sonetto ha suscitato diverse interpretazioni, fra cui quella di chi lo ritiene un’anticipazione della divinizzazione della donna e della spiritualizzazione del sentimento amoroso, poi sviluppati dagli stilnovisti.
Lo stile e la lingua Il sonetto evidenzia la scelta di Jacopo di utilizzare un siciliano “illustre”, lontano da forme del parlato e dialettali. La patina siciliana originale, al di là degli adattamenti fonetici toscani, si può ancora riscontrare in un verbo come aggio o nelle forme al condizionale voria (vorrei), poteria (potrei), teria (terrei). Ma evidente è d’altra parte l’apporto di latinismi (come claro, dal lat. clarus, cioè “chiaro” o audito e gaudere) e di provenzalismi (come il termine sollazzo, dal provenzale sollatz, a sua volta derivato dal latino solatium) o di vari termini con suffisso -mento. Da notare, come in altri testi della scuola siciliana, la presenza della cosidetta rima siciliana: in particolare, nella versione originaria, il v. 5 rimava correttamente con il v. 7 (giri/gaudiri), mentre nella versione dei copisti toscani si crea una anomalia: una parola come gire rima con gaudere.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del sonetto e indica il tema principale. ANALISI 2. Rintraccia e sottolinea nel testo le espressioni che il poeta utilizza per descrivere la sua amata. 3. Come è rappresentato il paradiso nella lirica? Rintraccia nel testo i termini della descrizione. LESSICO 4. Nel sonetto sono più volte utilizzati termini e immagini tratti dalla poesia provenzale. In quali versi e a che proposito? STILE 5. Quale figura retorica è utilizzata nel primo verso?
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 6. Il sonetto analizza il difficile rapporto tra “amor sacro” e “amor profano”. Prepara un intervento orale di circa 3 minuti per illustrare brevemente quest’aspetto.
online T3 Pier della Vigna
Però ch’amore non si po’ vedere
La scuola siciliana 1 235
PER APPROFONDIRE
Il sonetto Il termine sonetto deriva dal provenzale sonet e in origine indicava un testo destinato a essere cantato. Mentre l’ideazione della canzone si deve ai provenzali, il sonetto è stato “inventato” in Italia intorno alla metà del XIII secolo: quasi certamente il suo ideatore è il siciliano Jacopo da Lentini. La sua presenza si rileva fin dalle origini della tradizione lirica italiana e la sua presenza persiste fino al Novecento; in questo lungo periodo di tempo è stato imitato nelle principali letterature europee. Il sonetto è costituito da 14 versi endecasillabi, suddivisi in due quartine e due terzine, ognuna portatrice, almeno potenzialmente, di un’unità sul piano del senso: esiste quindi spesso, almeno alle origini del genere metrico, un rapporto tra struttura strofica e piano semantico. In realtà anche il sonetto, come la canzone, si presta a duttili funzioni poetiche: si può così andare dalla struttura chiusa e fortemente pausata del sonetto petrarchesco al vero e proprio
«gorgo ritmico» (Getto) del Foscolo, realizzato soprattutto attraverso l’uso degli enjambements. Lo schema delle rime prevede poche varianti per le quartine rispetto allo schema più antico: ABAB ABAB (rime alternate), oppure ABBA ABBA (rime incrociate), mentre le terzine presentano fin dalle origini molteplici combinazioni. Il sonetto nasce per ospitare la riflessione sulla natura d’amore, ma nella sua lunga storia fu anche impiegato nel registro comico (ad esempio da Cecco Angiolieri, Burchiello o Berni) o satirico (come nei poeti dialettali del primo Ottocento, Porta e Belli). Non viene abbandonato neppure nel Novecento (lo si ritrova in Saba, Zanzotto e altri). Riportiamo a titolo di esempio il sonetto [C]hi non avesse mai veduto foco di Jacopo da Lentini. La successione delle rime è ABAB, ABAB, CDE, CDE: rime alternate nelle quartine e ripetute nelle terzine.
[C]hi non avesse mai veduto foco
A
no crederia che cocere potesse,
B
anti li sembraria solazzo e gioco
A
4 lo so isprendor[e], quando lo vedesse.
B
Ma s’ello lo tocasse in alcun loco,
A
be·lli se[m]brara che forte cocesse:
B
quello d’Amore m’à tocato un poco,
A
8 molto me coce – Deo, che s’aprendesse!
B
prima quartina
seconda quartina
Che s’aprendesse in voi, [ma]donna mia, C che mi mostrate dar solazzo amando,
D
11 e voi mi date pur pen’e tormento.
E
Certo l’Amor[e] fa gran vilania,
C
che no distringe te che vai gabando,
D
14 a me che servo non dà isbaldimento
E
Scena di danza, particolare degli affreschi della Maison de la Reine Jeanne a Sorgues, secolo XIV (Musée du Petit Palais, Avignone).
236 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
prima terzina
seconda terzina
VERSO IL NOVECENTO
Il sonetto viaggia nel tempo… Il sonetto è il genere metrico più vitale nel tempo: se da una parte è il più costante nella struttura, dall’altra è il più eclettico e metamorfico per funzioni e temi; esso rappresenta una sorta di “contenitore” disponibile a ospitare le più eterogenee tematiche, tanto da essere stato definito la «metafora stessa del far poesia» (G. Gorni). Non è un caso che vari poeti abbiano scritto sonetti per elogiare il sonetto, come Giosue Carducci o, in tempi più recenti, Guido Gozzano (in un sonetto intitolato appunto Elogio del sonetto). Verso la fine dell’Ottocento si mostra ancora fautore del sonetto un grande innovatore delle forme liriche, il poeta francese Stéphane Mallarmé. Così ne parla scrivendo a un amico: «un gran poema, in piccolo: le quartine e le terzine mi paiono dei canti completi e certe volte impiego tre giorni a equilibrarne preliminarmente le parti, perché il tutto risulti armonioso e si approssimi al Bello». Anche l’esempio che qui presentiamo, del primo Novecento, se messo a confronto con le prime testimonianze del sonetto, mostra chiaramente le straordinarie capacità di trasformazione del genere più “chiuso” della tradizione lirica.
Umberto Saba Autobiografia – Ed amai nuovamente U. Saba, Il Canzoniere, Einaudi, Torino 1948
Nel primo Novecento, quando anche in Italia si afferma la poesia moderna in forme arditamente sperimentali, il poeta triestino Umberto Saba (1883-1957) rilancia invece forme e linguaggi della tradizione, riproponendo addirittura – nel suo Canzoniere – il sonetto. Si tratta di una scelta polemica contro la voluta oscurità della linea ermetica, per una poesia apparentemente “facile” nel suo rassicurante tradizionalismo, comunicativa sul piano formale, ma che per contro scenda davvero nel cuore delle cose, andando alla ricerca di una verità nel profondo. Nella sua Storia e cronistoria del “Canzoniere”, pubblicata nel 1948, Saba dichiara: «A quei vecchi metri, a quelle trite parole occorreva solo imprimere il suggello di una personalità nuova e ben definita, piegare gli uni e le altre a dire, col massimo di esattezza e di aderenza alla verità interiore, quel tanto di nuovo che ognuno porta in sé nascendo». Questo sonetto è dedicato alla moglie Lina ed è tratto da una sorta di mini-raccolta intitolata Autobiografia (1922 o 1924).
Ed amai nuovamente; e fu di Lina dal rosso scialle il più della mia vita1. Quella che cresce accanto a noi, bambina 4 dagli occhi azzurri, è dal suo grembo uscita2. Trieste è la città, la donna è Lina3, per cui scrissi il mio libro di più ardita sincerità; né dalla sua fu fin’ 8 ad oggi mai l’anima mia partita4. Ogni altro conobbi umano amore; ma per Lina torrei di nuovo un’altra 11 vita5, di nuovo vorrei cominciare. Per l’altezze6 l’amai del suo dolore; perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra, 14 e tutto seppe, e non sé stessa, amare7.
1 Ed amai... vita: dopo amori precedenti, quello per Lina – la moglie – prevale nella vita del poeta, che sente di appartenerle. Il rosso scialle è un riferimento all’abbigliamento di Lina durante il loro primo incontro, come rievocato in Storia e cronistoria del Canzoniere. 2 Quella... uscita: è la figlia Linuccia. 3 Trieste... Lina: la struttura a chiasmo del verso, con i due termini in posizione “forte” evoca il titolo della raccolta Trieste e una donna, indicato subito dopo come «il mio libro di più ardita sincerità», in cui i temi principali sono la città natale e la moglie. 4 né dalla sua... mia partita: l’espressione l’anima mia rivela la profondità del legame che perdura nel tempo; partita sta per “separata”. 5 torrei... vita: comincerei un’altra vita, da condividere con lei. 6 Per l’altezze: per l’intensità. 7 tutto... amare: nel carattere della moglie il poeta esalta l’assenza di calcolo (non mai scaltra) e lo slancio affettuoso che le ha fatto amare tutto tranne sé stessa.
La scuola siciliana 1 237
Guido delle Colonne
T4 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Gioiosamente canto In questa canzone il poeta dà espressione alla sua gioia per un amore ricambiato e loda la bellezza della donna. Gioiosamente canto e vivo in allegranza1, ca per la vostr’amanza2, madonna, gran gioi sento.
S’eo travagliai cotanto3, or aggio riposanza4: ben aia disïanza che vene a compimento5; ca tutto mal talento – torna in gioi, 10 quandunqua l’allegranza ven dipoi6; und’eo m’allegro di grande ardimento7: un giorno vene8, che val più di cento. 5
Ben passa rose e fiore9 la vostra fresca cera,
lucente più che spera10; e la bocca aulitosa11 più rende aulente aulore che non fa d’una fera c’ha nome la pantera, 20 che ’n India nasce ed usa12. Sovr’ogn’agua, amorosa – donna, sete fontana che m’ha tolta ognunqua sete, per ch’eo son vostro più leale e fino che non è al suo signore l’assessino13. 15
La metrica Canzone di cinque stanze, ciascuna di 12 versi, costituite da una fronte di due piedi di quattro settenari e da una sirma di quattro endecasillabi, collegata alla fronte da una rima interna. Lo schema metrico è ABBC ABBC-(C) DDEE. 1 allegranza: gioia, felicità. 2 ca per la vostr’ amanza: perché (ca è forma tipica del siciliano per introdurre la causale) per il vostro amore (in questo caso l’amore della donna per il poeta). La rima in -anza è un provenzalismo. 3 S’eo travagliai cotanto: se ho sofferto tanto. 4 aggio riposanza: ho pace (poiché ora il suo amore è ricambiato). 5 ben aia... compimento: abbia bene (sia benedetto) il desiderio che si realizza.
6 ca tutto... ven dipoi: perché ogni malumore si trasforma (torna è un francesismo) in gioia ogni volta che (quandunqua) è seguito dalla felicità. 7 und’eo… ardimento: per cui io gioisco della mia ardente passione (ardimento deriva dal provenzale ardemen, “fuoco amoroso”). 8 vene: viene. 9 Ben passa rose e fiore: davvero oltrepassa le rose e i fiori. Il soggetto è la vostra fresca cera (“volto”). 10 lucente più che spera: più luminoso della sfera (del sole). 11 aulitosa: profumata. Il termine è posto in rima con usa al v. 20 e con la “rima al mezzo” amorosa del v. 21. Per il concetto di “rima siciliana” ➜ pag. 230.
238 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
12 più rende… usa: il poeta paragona il profumo della bocca dell’amata a quello della pantera che vive (usa) in India. Secondo i bestiari medievali la pantera era capace di attrarre le prede con il proprio profumo. Si noti anche la raffinata figura etimologica aulente-aulore. 13 Sovr’ogn’agua… l’assessino: più di ogni acqua, o donna, siete un’amorosa fontana che mi ha tolto ogni sete, per cui io sono più leale e fedele a voi di quanto non sia al suo signore l’assassino. Come è narrato in una celebre pagina del Milione di Marco Polo (➜ C3 T3 OL), gli assassini (così chiamati dall’abitudine al consumo di hashish) erano una setta che obbediva ciecamente agli ordini di un sanguinario signore, il Veglio della Montagna.
25
Come fontana piena,
che spande14 tutta quanta, così lo meo cor canta, sì fortemente abonda de la gran gioi che mena15,
per voi, madonna, spanta16, che certamente è tanta, non ha dove s’asconda17. E più c’augello in fronda – so’ gioioso, e bene posso cantar più amoroso18 35 che non canta già mai null’altro amante, uso di bene amare otrapassante19. 30
Ben mi deggio20 allegrare d’Amor che ’mprimamente ristrinse la mia mente
d’amar voi, donna fina21; ma più deggio laudare voi, donna caunoscente22, donde lo meo cor sente la gioi che mai non fina23. 45 Ca se tutta Messina24 – fusse mia, senza voi, donna, nente mi saria25: quando con voi a sol mi sto, avenente26, ogn’altra gioi mi pare che sia nente. 40
La vostra gran bieltate27
m’ha fatto, donna, amare, e lo vostro ben fare m’ha fatto cantadore28: ca, s’eo canto la state, quando la fiore apare, 55 non poria ubrïare di cantar la fred[d]ore29. Così mi tene Amore – corgaudente30, ché voi siete la mia donna valente. Solazzo e gioco mai non vene mino31: 60 così v’adoro como servo e ’nchino32. 50
14 spande: si diffonde. 15 mena: prova (lett. “porta in sé”). 16 spanta: dilagata (riferito a gioi). 17 non ha dove s’asconda: non ha luogo [nel cuore] dove possa essere contenuta.
18 amoroso: pieno d’amore. 19 uso di bene amare otrapassante: abituato ad amare al grado più elevato. L’espressione non è del tutto chiara. 20 deggio: devo. 21 d’Amor… donna fina: del fatto che Amore ha indotto la mia mente per prima cosa (’mprimamente) ad amare voi, donna
nobile. Questo è un richiamo alla fin’amor della poesia trobadorica. 22 caunoscente: saggia. 23 fina: finisce. 24 Messina: è la città d’origine del poeta e qui è considerata emblema di una città ricca e importante. 25 nente mi saria: per me sarebbe niente. 26 avenente: bella. 27 bieltate: bellezza. 28 lo vostro ... cantadore: il vostro nobile comportamento mi ha fatto diventare poeta d’amore.
29 ca, s’eo… la fred[d]ore: perché se io canto d’estate quando appare il fiore (la fiore è un francesismo, come la freddore al v. 56), non potrei dimenticare (ubrïare “obliare”) di cantare d’inverno. Nella poesia trobadorica il cantar d’amore è associato spesso alla stagione bella, primaverile. Il poeta invece asserisce di voler cantare in tutte le stagioni, tanto grande è la gioia che prova. 30 corgaudente: con il cuore gioioso. 31 Sollazzo… mino: non viene mai meno per me il piacere. 32 ’nchino: vi porgo omaggio in ginocchio.
La scuola siciliana 1 239
Analisi del testo Il tema e la struttura La poesia celebra la gioia di un amore che, dopo l’attesa tormentosa, trova risposta e corresponsione da parte della donna amata. Il componimento è articolato in cinque stanze. La prima è dominata dall’espressione della gioia del poeta amante, il cui desiderio amoroso finalmente è accolto dalla donna: l’avverbio gioiosamente apre in modo suggestivo la composizione; il termine gioi torna altre due volte, intensificato dalla ripetizione del termine allegranza, ripreso dal verbo m’allegro. La seconda stanza è dedicata alla lode entusiastica della donna, attraverso riferimenti alla natura (le rose, i fiori, la luce del sole), ma anche alle leggendarie qualità degli animali, celebrate nei bestiari medievali (in questo caso alla leggenda riguardante la pantera, secondo la quale la bocca dell’animale emanava un particolare profumo). Alla sua donna il poeta si dichiara fedele (secondo la tradizione provenzale) più di quanto lo fossero al loro signore (il Veglio della Montagna) i fumatori di hashish, che, per ubbidirgli, arrivavano a commettere anche dei delitti (come ricorda un celebre passo de Il Milione di Marco Polo). (➜ C3 T3 OL) Con la terza stanza si torna al poeta e al tema della gioia d’amore, che si traduce in pienezza inusitata dell’ispirazione poetica. Un’ispirazione travolgente, che non trova eguali negli altri poeti che hanno provato l’intensità dell’amore. La quarta stanza introduce in forma embrionale un motivo poi ricorrente negli stilnovisti, ovvero il perfezionamento che l’amore per la donna (qui celebrata anche per le sue qualità interiori, per la sua nobiltà e saggezza) attiva nel poeta. La quinta e ultima stanza riprende l’omaggio alla donna associandolo strettamente al motivo della gioia, vero e proprio filo rosso dell’intera canzone, e del canto poetico che ne deriva.
I legami con la poesia trobadorica La canzone evidenzia uno stretto legame con il modello provenzale; in particolare, il rapporto fra il poeta amante e la donna è rappresentato come un rapporto di vassallaggio: lo dimostrano i vv. 23-24, in cui il poeta, con un paragone iperbolico, si dichiara più fedele alla donna di quanto non fossero gli assassini al loro signore e, soprattutto, il verso finale della canzone, nel quale è riprodotto l’omaggio feudale del cavaliere al suo signore: così v’adoro como servo e ’nchino. Anche la raffigurazione della donna risponde al modello della fin’amor, come evidenziano gli aggettivi che ad essa si riferiscono (fina, v. 40; caunoscente, v. 42; avenente, v. 47; valente, v. 58): la donna è evocata sia nelle sue qualità fisiche sia in quelle morali, in un modo che prefigura la “lode” stilnovistica. Infine l’immagine della gioia che si trova ai vv. 57-59 si concretizza con i termini canonici del lessico poetico cortese, che rimandano alla vita della corte (solazzo/gioco).
Una ricca strumentazione retorico-stilistica La canzone è una prova di grande sapienza retorica. Si susseguono molte immagini comparative, tratte soprattutto dalla realtà naturale (ma non solo): antitesi, come ai vv. 5-6; figure etimologiche, come ai vv. 16-17 (aulitosa... aulente, aulore); iperboli, adynaton (l’espressione Ca se tutta Messina fusse mia). Non mancano rime equivoche: ai vv. 21-22 il verbo sete (“siete”) rima con il sostantivo sete; ai vv. 40-44 l’aggettivo fina riferito alla donna è posto in rima con il verbo fina (“finisce”).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza in una frase il contenuto di ogni stanza. I stanza II stanza III stanza IV stanza V stanza
240 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
LESSICO 2. Analizza il lessico e rintraccia le espressioni e i termini che rimandano alla tradizione provenzale. STILE 3. Motivo centrale della canzone è la felicità; per questo motivo alla parola chiave gioi (v. 4) si riconnettono molti termini appartenenti allo stesso campo semantico: rintracciali. 4. Individua le similitudini e spiegane il senso in rapporto al contesto. 5. Indica a quale campo semantico fanno riferimento i termini solazzo e gioco (v. 59).
Interpretare
T5
CONFRONTO TRA TESTI 6. Ricollega la canzone ai caratteri propri della lirica siciliana e indicane i debiti rispetto alla poesia provenzale.
Tenzone di donna (forse Nina) e un anonimo Si tratta di una tenzone (duello verbale) molto in uso nella lirica del periodo medievale ovvero sonetti di botta e risposta concepiti spesso come esercizio poetico.
T5a
Anonimo (forse Nina Siciliana)
Tapina ahimè, ch’amava uno sparvero Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960
La poetessa è consapevole di aver dato il suo amore a un uomo inaffidabile, che come uno sparviero se ne è andato via.
Tapina ahimè1, ch’amava uno sparvero: amaval tanto ch’io me ne moria; a lo richiamo ben m’era manero2, e dunque pascer troppo nol dovia. 5
Or è montato e salito sì altero3, as[s]ai più alto che far non solia ed è asiso dentro a uno verzero4: un’altra donna lo tene in balìa5.
Isparvero mio, ch’io t’avea nodrito6, 10 sonaglio d’oro ti facea portare perché dell’uc[c]ellar fosse7 più ardito: or se’ salito sì come lo mare, ed ha’ rotti li geti8 e se’ fug[g]ito, quando eri fermo nel tuo uc[c]ellare.
La metrica Sonetto con schema di rime ABAB ABAB CDC DCD. 1 Tapina ahimè: Povera me. 2 manero: docile, domestico.
3 Or… altero: ora è volato e salito tanto in alto. 4 ed è… verzero: e si è stabilito dentro un giardino. 5 in balìa: in suo potere.
6 nodrito: allevato. 7 fosse: fossi. 8 geti: le pastoie applicate alle zampe dei rapaci. Qui è metafora della servitù d’amore, rotta dall’uomo amato.
La scuola siciliana 1 241
Anonimo
T5b Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960
Vis’ amoros’, angelico e clero L’uomo accusato di aver lasciato la sua amata per un’altra donna, rifiuta le accuse e nega tutto.
Vis’ amoros’1, angelico e clero, in cui regna savere e cortesia, non v’apellate di tapin mestero2 per creder cosa ch’es[s]er non poria. 5
Ch’io partisse da voi core e penzero? 3 Inanti foss’io morto quella dia4: ch’io altra gioia non voglio né spero se no la vostra gaia segnoria5.
E ben confesso, sono alti salito, 10 pensando che cangiato6 son d’amare da voi, cui sono fedele e gechito7. Chi altro vi fa credere o pensare è disleale, larone e traìto8, che vuol la nostra gioia disturbare.
La metrica Sonetto con schema di rime AB AB AB AB CDC DCD
1 Vis’ amoros’: viso che fa innamorare. 2 di tapin mestero: disgraziata. 3 Ch’io…penzero?: [Credeste] che io allontanassi da voi il mio cuore e la mia mente? 4 dia: dal latino die, giorno. 5 segnoria: signoria. 6 cangiato: ricambiato. 7 gechito: sottomesso (gallicismo). 8 larone e traìto: mascalzone e traditore.
Analisi del testo La metafora dello sparviero La poetessa si definisce infelice in quanto ha mal riposto il suo amore in un uomo che si è rivelato essere uno sparviero, un uomo inaffidabile che è volato via dalla sua donna per vivere ora in potere di un’altra. A nulla è servito il fatto che lei lo amasse da morire. Nella descrizione dell’evento emerge lo stupore della donna in quanto il suo amato appariva docile al suo richiamo e si rammarica di averlo amato troppo. Di derivazione provenzale è sicuramente il servizio d’amore dell’uomo nei confronti della donna.
La netta smentita Nel sonetto di risposta l’uomo respinge tutte le accuse mossegli dalla sua amata, dichiarando di non aver mai commesso il fatto e di non desiderare altro che il gioioso servizio d’amore. Nell’incipit della risposta si colloca una sorta di captatio benevolentiae in quanto alle accuse l’uomo risponde con una lode, definendo il viso della sua amata angelico e luminoso, luogo in cui regnano saggezza e cortesia. Il sonetto in chiusura fa riferimento ai malparlieri, ovvero gli invidiosi che gelosi della felicità degli amanti cercano di separarli con bugie e invenzioni. Questi elementi di ascendenza provenzale confermano gli stretti contatti tra i primi poeti di lirica in volgare in Italia e la poesia provenzale.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto delle due poesie in non più di 10 righe. ANALISI 2. Perché l’uomo amato viene paragonato a uno sparviero? STILE 3. Quale figura retorica riconosci al v. 12?
Interpretare
SCRITTURA 4. Rintraccia i motivi tipici della lirica provenzale e siciliana, e scrivi un testo di max 20 righe per ripercorrere gli elementi più importanti delle due manifestazioni poetiche.
242 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
Rinaldo d’Aquino
T6 I poeti della scuola siciliana, a c. di C. Di Girolamo, Mondadori, Milano 2008
Giamäi non mi conforto In questa canzonetta, conosciuta anche come Lamento per la partenza del crociato, una voce femminile esprime in forma di monologo il suo dolore per la partenza dell’amato, arruolatosi per una crociata in Terrasanta (forse la sesta, a cui partecipò anche Federico II). I 5 II 10 15 III 20
Giamäi non mi conforto né mi voglio ralegrare1, le navi so’ giute al porto2 e vogliono collare3, vassene lo più gente4 in terra d’oltramare5: oimè, lassa dolente6, como deggio fare? Vassene in altra contrata7 e no lo mi manda a dire8 ed io rimagno ingannata: tanti sono li sospire che mi fanno gran guerra la notte co la dia9, né ’n cielo ned in terra non mi par ch’io sia. Santus, santus, santus Deo che ’n la Vergine venisti10, salva e guarda11 l’amor meo, poi da me lo dipartisti12. Oit alta potestade temuta e dotata, la mia dolze amistade ti sia acomandata13!
La metrica Canzonetta di otto strofe di otto versi ciascuna. 1 né mi voglio ralegrare: non ho motivo di gioire. 2 so’ giute al porto: sono andate in porto. L’indicazione sembra collegare la donna e la sua storia a una città di mare. 3 vogliono collare: stanno per salpare. collare indica più esattamente “issare le vele” (cfr. anche v. 49 e nota). 4 vassene lo più gente: il più gentile (cioè di animo nobile, secondo la terminologia cortese) se ne va (vassene).
5 in terra d’oltramare: in Terrasanta. 6 lassa dolente: infelice e prostrata dal
12 poi da me lo dipartisti: poiché da me
dolore. 7 in altra contrata: in un paese lontano. 8 e no lo... dire: e non me lo fa sapere. 9 tanti... dia: tanti sono i sospiri, cioè le sofferenze (indicare l’effetto per la causa rappresenta una metonimia), che mi tormentano notte e giorno (dia, femminile). 10 venisti: ti incarnasti. 11 guarda: proteggi.
13 Oit alta... acomandata: o alta potenza
lo allontanasti. (di Dio) oggetto di timore (da parte degli uomini), il mio dolce amore (dolze amistade) ti sia raccomandato; dotata (“temuta”) è un francesismo che ribadisce l’idea della venerazione unita al timore della dittologia sinonimica temuta e dotata. Oit, da Oi, equivale a “ohimè”, con la -t finale per evitare l’accumulo cacofonico di vocali.
La scuola siciliana 1 243
25
IV
30 V 35 40 VI 45 VII 50 55 VIII 60
La croce salva la gente e me face disvïare, la croce mi fa dolente e non mi val Dio pregare14. Oi croce pellegrina15, perché m’ài sì distrutta? Oimè, lassa tapina16, ch’i’ ardo e ’ncendo tuta17! Lo ’mperadore con pace tuto lo mondo mantene ed a meve guerra face18, che m’à tolta la mia spene19. Oit alta potestate temuta e dottata, la mia dolze amistate20 vi sia acomandata! Quando la croce pigliao, certo no lo mi pensai, quelli che tanto m’amao ed i’·llui tanto amai, ch’i’ ne fui batuta e messa in pregionia e in celata tenuta per la vita mia21. Le navi sono a le còlle22, in bonor23 possan andare, e lo mio amore colle e la gente che v’à andare24. Oi Padre Crïatore, a porto le conduce, ché vanno a servidore de la santa croce25. Però ti priego, dolcetto26, tu che·ssai la pena mia, che me ne face un sonetto e mandilo in Soria27, ch’io non posso abentare28 la notte né la dia: in terra d’oltremare sta la vita mia!
14 La croce... pregare: la croce salva i popoli e per me è causa di smarrimento; la croce è causa del mio dolore e non mi giova pregare Dio.
15 croce pellegrina: la croce portata dai crociati come loro emblema nel pellegrinaggio verso la conquista della Terrasanta. 16 lassa tapina: infelice misera.
244 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
17 ardo e ’ncendo tuta: i due sinonimi accoppiati indicano l’intensità della sofferenza. 18 Lo ’mperadore... face: l’imperatore Federico II governa con la pace tutto il mondo e (invece) a me fa guerra. 19 la mia spene: la mia speranza. Indica l’amato in cui riponeva, appunto, tutte le sue speranze. 20 amistate: amicizia, sinonimo di “amore”. Cfr. anche nota 13. 21 Quando... mia: quando il mio amato prese la croce (cioè si fece crociato), non immaginai di essere abbandonata, lui che tanto mi amò e io lui tanto amai, al punto che io fui battuta, imprigionata e segregata per tutta la mia vita. Le percosse dei familiari ostili o del marito geloso sono motivi topici della poesia popolareggiante. 22 sono a le còlle: hanno alzato le vele per partire. 23 in bonor: con buon vento. Quindi con buona sorte ed esito favorevole: è un’espressione augurale. 24 lo mio... andare: il mio amore (a sua volta possa andare col vento favorevole) con quelle (colle, per co’ lle, cioè le navi) e con la gente che deve andare. Altri spiegano colle con “raccolgono” (soggetto plurale Le navi al v. 49 con verbo sing.). 25 a servidore... croce: a servire la santa croce. 26 dolcetto: è il poeta, indicato con un vezzeggiativo del nome, a cui la donna chiede di comporre una poesia accompagnata dalla musica (sonetto) da inviare all’amato. 27 Soria: Siria; qui indica genericamente i luoghi delle crociate. 28 abentare: aver pace (meridionalismo).
Analisi del testo L’intreccio di generi Il componimento sembra riferirsi a un evento storico preciso, la sesta crociata (1227-1228), a cui partecipò con un contingente navale Federico II, lo ’mperadore invocato dalla donna nella quinta strofa. Per la corretta interpretazione del testo occorre però tener presente che la poesia d’Oltralpe, assunta a modello da parte dei compositori siciliani, aveva codificato il genere delle “canzoni di crociata”: la “canzonetta” di Rinaldo potrebbe ispirarsi ad esso, senza necessariamente un’occasione specifica. Il “canto di crociata” in questo caso si presenta, tuttavia, come una variante della canzone d’amore, sempre tipica della tradizione romanza: sviluppa infatti come motivo dominante il legame amoroso della donna con il crociato, la cui partenza diventa ostacolo insormontabile per il loro rapporto e causa di sofferenza. La prospettiva lirica, continuamente ribadita dalle espressioni di lamento, si rivela anche nel giudizio espresso sulla politica di Federico II (vv. 33-34): mentre per tutto il mondo rappresenta un’occasione di pace, per la donna è causa di guerra, cioè è causa d’infelicità personale. Il rilievo dato al motivo della sofferenza collega il “lamento” a un altro genere, quello della chanson de femme, la canzone sulla donna, tipologia più popolare e contraddistinta dal motivo conduttore dell’amore contrastato. Ad esso sembra riferirsi l’accenno all’opposizione e addirittura ai maltrattamenti dei parenti (vv. 45-48); anche la semplicità delle espressioni d’amore e il lamento nei confronti della croce, ritenuta dalla donna responsabile della sua sventura, rimandano a un repertorio tematico popolare.
Lo stile realistico-popolare: una scelta letteraria Il componimento di Rinaldo d’Aquino era stato esaltato dalla critica romantica come espressione di una poesia spontanea e popolare. In realtà già l’intreccio di generi a cui si è appena fatto riferimento testimonia la natura colta del testo, che attinge a ben precisi precedenti letterari nella tradizione romanza. Lo stesso si può dire delle scelte stilistiche operate nel testo (e consentite dal genere metrico meno impegnativo della canzonetta, qui scelto dall’autore). Rinaldo utilizza consapevolmente un registro popolareggiante: l’alternanza del lamento e dell’invocazione è propria delle formule devozionali diffuse anche nella cultura popolare, le rime sono semplici, la sintassi piana e caratterizzata da un andamento colloquiale, il lessico semplice, vicino al parlato. Conferisce, infine, un ritmo facile al testo la ripetizione di versi e gruppi di versi. Ne risulta in apparenza un’appassionata e immediata “confessione”, ma si tratta invece di una sapiente operazione letteraria.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della canzone in almeno 10 righe. COMPRENSIONE 2. Qual è il tema del componimento? 3. Nel testo, ai lamenti si alternano le invocazioni: a chi si rivolge la donna e che cosa chiede? ANALISI 4. Perché la donna si sente ingannata dall’amato (v. 11)? 5. Spiega il v. 26 (e me face disvïare): quale responsabilità è attribuita dalla donna alla croce e perché?
Interpretare
LESSICO 6. Rintraccia nel testo (indicando i versi) le espressioni di stile popolaresco o proprie di un registro colloquiale.
Studiare con l’immagine Commenta l’immagine a partire dalla didascalia e da alcune suggestioni del testo letto.
La partenza dell’amato, miniatura tratta dal Salterio di Luttrel (1320-1345, British Library, Londra)
La scuola siciliana 1 245
PER APPROFONDIRE
La canzone e la canzonetta La forma metrica principale introdotta dai provenzali è la canzone (canso in provenzale): nel nome essa testimonia la fusione fra testo lirico e musica tipica della poesia trobadorica e destinata a perdersi in Italia già con i siciliani. Nella nostra tradizione lirica è sicuramente il genere metrico più nobile: già Dante, nel De vulgari eloquentia, colloca la canzone al primo posto, per lo stile alto e i contenuti elevati che tratta. La canzone è caratterizzata dalla presenza di più strofe dette stanze (da cinque a sette) e da una forte simmetria: queste (dette coblas in provenzale) si ripetono infatti con lo stesso numero di versi (per lo più endecasillabi e settenari) e con lo stesso schema di rime. Le stanze di una canzone possono essere indivisibili, cioè prive di articolazione interna oppure divisibili, come è normale nella canzone italiana. I nomi usati sono fronte per la prima parte della stanza e sirma per la seconda. La fronte può essere ulteriormente divisibile in due piedi e la sirma, prima di Petrarca, in due volte. Le combinazioni possibili per la stanza divisibile sono quattro: stanza di fronte e sirma (non contemplata da Dante); stanza di piedi e sirma (Petrarca); stanza di fronte e volte; stanza di piedi e volte. Tra la fronte e la sirma ci può essere un verso di collegamento, detto chiave. Talvolta (spesso in Dante e sempre in Petrarca) si verificano legami tra le strofe: l’ultima rima della fronte si ripete nel primo verso della sirma, istituendo una concatenazione tra le due parti della canzone; ma fin dai tempi della lirica provenzale
esistono diversi altri artifici finalizzati a creare un legame tra le strofe e, dunque, a rafforzare l’armonia e la simmetria della canzone: l’ultima rima di una stanza viene ripresa nel primo verso della successiva (coblas copcaudadas) oppure all’inizio di ogni stanza viene ripresa, magari modificata, l’ultima parola della strofa precedente (coblas capfinidas), come nella celebre canzone di Guido Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre amore. La canzone si può chiudere con una strofa più breve, detta congedo, con cui il poeta si rivolge a un destinatario o alla canzone stessa. La regolare successione delle parti e la simmetria architettonica proprie della canzone, consacrate dal Canzoniere di Petrarca, vengono rispettate per secoli nella tradizione lirica. Sarà Leopardi nel primo Ottocento, durante la sua ricerca di una poesia che sia “canto” e libera espressione dei moti dell’animo, a infrangere lo schema costrittivo della canzone per dare vita alla cosiddetta canzone libera, che abbandona lo schema delle strofe tutte uguali e alterna liberamente endecasillabi e settenari, con rime che ricorrono senza vincoli. Se una canzone è composta di soli settenari viene detta canzonetta. Riportiamo un esempio di canzone in stanze di piedi e volte; in questo caso è divisibile sia la prima sia la seconda parte. A questo tipo appartiene la stanza della canzone di Jacopo da Lentini Madonna dir vo voglio.
Madonna, dir vo voglio como l’amor m’à priso,
I PIEDE
inver’ lo grande orgoglio che voi bella mostrate, e no m’aita.
FRONTE 5O i lasso, lo meo core, che ‘n tante pene è miso che vive quando more
II PIEDE
per bene amare, e teneselo a vita. Dunque mor’e viv’eo? 10 No, ma lo core meo more più spesso e forte
I VOLTA
Che no faria di morte naturale, SIRMA per voi, donna, cui ama, più che se stesso brama, 15 e voi pur lo sdegnate: amor, vostra ’mistate vidi male. (Pietro G. Beltrami, La metrica italiana, Il Mulino 1991)
246 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
II VOLTA
Cielo d’Alcamo
T7 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
online
audio e video Dario Fo, Mistero Buffo Interpretazione di Cielo d’Alcamo
EDUCAZIONE CIVICA
Rosa fresca aulentissima
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo Costituzione competenza 3
#PROGETTOPARITÀ
Si tratta di un vivace dialogo di 32 strofe (in tutto 160 versi): un “botta e risposta” tra un cavaliere e una donna del popolo che egli vorrebbe far sua, ma che lo rifiuta con motivazioni sempre più deboli, fino alla resa finale (lo schema e il contenuto richiamano direttamente il genere trobadorico della pastorella). «Rosa fresca aulentis[s]ima
ch’apari inver’ la state, pulzell’ e maritate: tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate; per te non ajo abento notte e dia, 5 penzando pur di voi, madonna mia.» le donne ti disiano,
«Se di meve trabàgliti,
follia lo ti fa fare. a venti asemenare, l’abere d’esto secolo tut[t]o quanto asembrare: avere me non pòteri a esto monno; 10 avanti li cavelli m’aritonno.» Lo mar potresti arompere,
«Se li cavelli artón[n]iti,
avanti foss’io morto, lo solacc[i]o e’l diporto. Quando ci passo e véjoti, rosa fresca de l’orto, bono conforto dónimi tut[t]ore: 15 poniamo che s’ajunga il nostro amore.» ca’n is[s]i [sì] mi pèrdera
«Ke ’l nostro amore ajùngasi,
non boglio m’atalenti cogli altri miei parenti, guarda non t’ar[i]golgano questi forti cor[r]enti. Como ti seppe bona la venuta, 20 consiglio che ti guardi a la partuta.» se ci ti trova pàremo
La metrica Contrasto di trentadue strofe totali, ciascuna di cinque versi, costituite da tre versi alessandrini con primo emistichio sdrucciolo e secondo emistichio piano, seguiti da un distico di endecasillabi a rima baciata. Lo schema metrico è AAA BB.
1-5 «Rosa… madonna mia»: nella prima strofa è il cavaliere che prende la parola per lodare la fanciulla e confessarle il suo tormento amoroso. «O rosa fresca profumatissima (aulentissima) che appari al sopraggiungere dell’estate, ti desiderano le donne, sia fanciulle (pulzell’) sia maritate: traimi da questi fuochi (focora) d’amore, se lo vuoi (se t’este a bolontate); a causa tua (per te) non ho pace (abento) né di notte né di giorno, continuando a pensare (penzando pur) a voi, madonna mia». 6-10 «Se di meve… m’aritonno»: la seconda strofa, con il rifiuto netto della donna, imposta la situazione del contra-
sto. «Se per me ti tormenti (se di meve trabàgliti), sei folle. Potresti arare (arompere) il mare, seminare ai venti, mettere insieme (asembrare) tutti i beni di questa terra, non potresti (pòteri) avermi in questo mondo; piuttosto mi taglio i capelli (la donna minaccia dunque di farsi monaca)». “Arare il mare”, “seminare al vento”, “assommare le ricchezze del mondo” sono immagini rispondenti alla figura retorica dell’adynaton, ovvero l’indicazione di condizioni per definizione impossibili a realizzarsi (in greco adynaton significa appunto “impossibile”). 11-15 «Se li cavelli artón[n]iti… il nostro amore»: «Se tu ti tagli i capelli (e quindi se ti fai monaca) prima possa io essere ucciso, perché (ca) in essi (i capelli dell’amata) perderei la mia gioia e il mio diletto (la coppia sinonimica è di derivazione provenzale: solatz et deport). Quando passo qui (ci) e ti vedo, rosa fresca dell’or-
to, mi doni sempre (tuttore) gioia: facciamo in modo che si congiunga il nostro amore». L’espressione, che allude spregiudicatamente all’unione fisica, contrasta con le lodi della donna, ispirate al codice amoroso cortese. 16-20 «Ke ’l nostro amore… a la partuta»: la donna, ribadendo il proprio diniego, prospetta al cavaliere i pericoli che potrebbero derivare dalla sua insistenza. «Non voglio che mi piaccia (atalenti: gallicismo) il realizzarsi del nostro amore: se mio padre, (pàremo: la posposizione del possessivo in posizione enclitica è ancora presente nei dialetti meridionali) con gli altri miei parenti, ti trova qui (ci), bada che essi, che corrono forte (questi forti correnti) non ti sorprendano. Ti è andata bene la venuta: ti consiglio di fare attenzione alla partenza».
La scuola siciliana 1 247
«Se i tuoi parenti trova[n]mi,
e che mi pozzon fare? di dumili’ agostari: non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha ’n Bari. Viva lo ’mperadore, graz[i’] a Deo! 25 Intendi, bella, quel che ti dico eo?» Una difensa mèt[t]oci
«Tu me no lasci vivere
né sera né maitino d’auro massamotino. Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino, e per ajunta quant’ha lo soldano, 30 toc[c]are me non pòteri a la mano.» Donna mi so’ di pèrperi,
«Molte sono le femine
c’hanno dura la testa, l’adimina e amonesta: tanto intorno procàzzala fin che.ll’ ha in sua podesta. Femina d’omo non si può tenere: 35 guàrdati, bella, pur de ripentere.» e l’omo con parabole
«K’eo ne [pur ri]pentésseme?
davanti foss’io aucisa per me fosse ripresa! [A]ersera passàstici, cor[r]enno a la distesa. Aquìstati riposa, canzoneri: 40 le tue parole a me non piac[c]ion gueri.» ca nulla bona femina
«Quante sono le schiantora
che m’ha’ mise a lo core, la dia quanno vo fore! Femina d’esto secolo tanto non amai ancore quant’amo teve, rosa invidïata: 45 ben credo che mi fosti distinata.» e solo purpenzànnome
21-25 «Se i tuoi parenti… dico eo?»: il
26-30 «Tu me no… a la mano»: «Tu non
36-40 «K’eo ne… gueri»: la donna, ri-
cavaliere, di fronte alla larvata minaccia della donna, prospetta come difesa una legge, emanata da Federico II nel 1231, che imponeva una forte multa agli aggressori. «Se i tuoi parenti mi trovano, che cosa mi possono fare? Io metto avanti una multa di duemila augustali (monete che Federico aveva fatto coniare nel 1231: il componimento non può dunque essere precedente a questa data): non mi toccherà tuo padre (pàdreto) per quante ricchezze sono in Bari (qui sinonimo di città molto ricca). Viva l’imperatore, grazie a Dio!» L’esclamazione implica che Federico sia ancora vivo: il componimento non può quindi essere posteriore al 1250, data della morte dell’imperatore. Si allude a una disposizione in base alla quale un aggredito, appellandosi all’imperatore, poteva indicare la multa da comminare agli aggressori.
mi lasci vivere né di sera né di mattina. Io sono una donna preziosa (i pèrperi erano monete d’oro bizantine; il massamotino era una moneta d’oro in uso in Africa settentrionale e Andalusia). Se mi facessi dono dei tesori del Saladino e in più (per ajunta) del soldano (il sultano d’Egitto) non mi potresti (comunque) toccare». 31-35 «Molte sono le femine… pur de ripentere»: «Sono molte le donne dalla testa dura, e l’uomo con le parole le domina e le convince: tanto la incalza (procàzzala), che la riduce in suo potere (si passa dal plurale al singolare). La donna non può fare a meno dell’uomo: bella, sta’ attenta di non doverti pentire».
sentita («Pentirmi io?»), riprende le ultime parole del cavaliere e, per giustificare la sua resistenza, avanza ragioni morali: vorrebbe essere uccisa piuttosto che un’altra donna per bene (nulla bona femina) fosse a causa sua rimproverata. E aggiunge ironicamente: «Ieri sera sei passato di qua, correndo a perdifiato (a la distesa). Riposati, canterino (canzoneri): le tue parole a me non piacciono affatto (gueri)». 41-45 «Quante sono… distinata»: «Quanti sono gli affanni (schiantora, plurale della forma di focora, al v. 3) che mi hai posto nel cuore, anche solo al pensiero di te (e solo purpenzànnome) il giorno (la dia) quando esco! Io non ho ancora mai amato una donna quanto amo te, rosa desiderata (invidïata): davvero credo che tu mi sia stata destinata».
248 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
«Se distinata fósseti,
caderia de l’altezze, in teve mie bellezze. Se tut[t]o adivenìssemi, tagliàrami le trezze, e consore m’arenno a una magione, 50 avanti che m’artoc[c]hi ’n la persone.» ché male messe fòrano
«Se tu consore arènneti,
donna col viso cleri, e rènnomi confleri: per tanta prova vencerti fàralo volonteri. Conteco stao la sera e lo maitino: 55 besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino.» [...] a lo mostero vènoci
[A questo punto la donna chiede al cavaliere di presentarsi a suo padre e a sua madre per chiedere la sua mano. Se acconsentiranno, vuole essere condotta in chiesa e sposata: solo allora cederà alle richieste amorose del cavaliere. Però, dopo una nuova serie di schermaglie, la donna viene a più miti consigli: il cavaliere giuri almeno fedeltà eterna sui Vangeli. Con le due strofe che seguono si chiude la composizione.] «Le Vangel[ï]e, càrama?
ch’io le porto in seno: (non ci era lo patrino). Sovr’esto libro jùroti mai non ti vegno meno. Arcompli mi’ talento in caritate, 155 ché l’arma me ne sta in sut[t]ilitate.» a lo mostero présile
«Meo sire, poi juràstimi,
eo tut[t]a quanta incenno. da voi non mi difenno. S’eo minespreso àjoti, merzé, a voi m’arenno. A lo letto ne gimo a la bon’ora, 160 ché chissa cosa n’è data in ventura.» Sono a la tua presenz[ï]a,
46-50 «Se distinata… ’n la persone»: la donna reagisce indignata alle ultime parole del cavaliere: cadrebbe proprio in basso (caderia de l’altezze) se fosse stata destinata al cavaliere, la sua bellezza sarebbe proprio sprecata per uno come lui. E aggiunge: «Se mi capitasse tutto ciò (se tut[t]o addivenìssemi), mi taglierò le trecce e mi ritirerò come suora in un convento (magione) prima che tu possa mettere le tue mani su di me». 51-55 «Se tu consore… al meo dimino»: pronta la risposta del cavaliere: se la don-
na dal luminoso viso (viso cleri) si farà suora, lui è pronto ad andare allo stesso monastero e a farsi frate (confleri); per vincerla in una gara così importante (tanta prova) lo farà volentieri. Almeno starà con lei sera e mattina: assolutamente deve averla in suo potere (al meo dimino). 151-155 «Le Vangel[ï]e, càrama?… sut[t] ilitate»: «I Vangeli, mia cara? Io li porto sul petto; li ho presi al monastero (non c’era il prete). Ti giuro su questo libro che non verrò mai meno al mio amore. Esaudisci ora il mio desiderio (Arcompli mi’
talento) in modo benigno, perché l’anima mi si sta consumando (l’arma me ne sta in sut[t]ilitate)». 156-160 «Meo sire… in ventura»: a questo punto la donna non può che arrendersi: «Mio signore, dato che hai giurato, io mi accendo tutta quanta (d’amore). Sono davanti a te, da voi non mi difendo. Se ti ho disprezzato (minespreso àjoti), perdono, a voi mi arrendo. Andiamo a letto subito (a la bon’ora), perché chissà che cosa ci riserva la sorte».
Analisi del testo Il genere del “contrasto” Rosa fresca aulentissima è una composizione strutturata in forma di contrasto: una tipologia testuale che implica il confronto tra due personaggi che rappresentano posizioni diverse, se non opposte. Un celebre esempio di contrasto riferito all’ambito della poesia religiosa è Quando t’aliegre, omo d’altura di Jacopone da Todi (➜ C2 T5 ) in cui si confrontano un vivo e un morto. Anche in questo testo, come in Rosa fresca aulentissima, la forma del contrasto implica un “botta e risposta” tra i due interlocutori-contendenti; in molte strofe c’è una ripresa diretta e precisa di un’espressione contenuta nella strofa precedente: ad es. li cavelli m’aritonno // Se li cavelli artón[n] iti (vv. 10-11), poniamo che s’ajunga il nostro amore // Ke ’l nostro amore ajùngasi (vv. 15-16).
La scuola siciliana 1 249
Chi era l’autore del contrasto? L’autore di questo componimento, che ci è stato tramandato nello stesso codice assieme ai testi dei poeti della corte di Federico II, è stato identificato da un erudito del Cinquecento in un certo Cielo (probabilmente toscanizzazione del copista per Celi, diminutivo di Miceli, ovvero Michele) d’Alcamo (cittadina della Sicilia nord-occidentale). Si tratta forse di un giullare, che dimostra però piena padronanza dei modi della poesia cortese e un’abilità metrico-retorica non consueta nella produzione giullaresca.
Un esercizio letterario a scopo probabilmente parodico Non si deve immaginare, dietro la composizione, una situazione reale: si tratta di un esercizio letterario, polemico verso la letteratura d’amore “alta”. I due contendenti appartengono, così sembra, più o meno alla stessa classe sociale e la donna, dopo aver avuto un’assicurazione puramente formale, alla fine cede all’insistenza dell’uomo e lo fa da consenziente. Lo scopo della composizione è probabilmente parodico nei confronti della tradizione cortese: l’obiettivo stesso dell’uomo che dialoga con la donna – la conquista sessuale – appare volutamente contrapposto all’idealizzazione dell’amore presente nei poeti della Magna Curia, che in seguito caratterizzerà ancor più, gli stilnovisti. Inoltre lo scrittore contamina consapevolmente modi e termini della poesia aulica con quelli popolareschi. Di conseguenza, anche il pubblico a cui presumibilmente l’autore si rivolge non è di persone incolte, incapaci di apprezzare la scaltrita parodizzazione delle modalità cortesi.
Un intarsio linguistico-stilistico multiforme Il contrasto utilizza un linguaggio e un registro stilistico compositi: la lingua di fondo è il siciliano medio – dunque non illustre (come invece è la lingua usata dai poeti della scuola siciliana) – arricchito da francesismi (come asembrare, atalenti, confleri, mosteri) e provenzalismi. A volte la contaminazione delle forme dialettali con i gallicismi suscita un effetto quasi comico. L’autore mostra piena padronanza delle formule cortesi, a cominciare dall’associazione donnarosa, intensificata dal raffinato aggettivo superlativo aulentissima, che apre il contrasto. Un altro esempio è il binomio sinonimico solacc[i]o-diporto al v. 12, ricorrente nella poesia trobadorica o ancora l’attributo viso cleri, che allude alla luminosa bellezza della donna (cfr. ad esempio Jacopo da Lentini «quella ch’ha blonda testa e claro viso»). D’altra parte queste formule cortesi sono associate – con stridente contrasto, appunto – a richieste di una corresponsione molto concreta da parte del cavaliere (poniamo che s’ajunga il nostro amore al v. 15) e da bruschi abbassamenti di tono (Molte sono le femine c’hanno dura la testa al v. 31). Anche da questi pochi esempi si può dunque comprendere che il contrasto non è certo frutto di un’ispirazione popolaresca e ingenua, ma al contrario nasce da una sofisticata operazione letteraria.
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
SInteSI 1. Sintetizza il componimento in 10 righe. coMPrenSIone 2. Chi sono i due contendenti del contrasto? Quale è l’oggetto della contesa? AnALISI 3. I due protagonisti sono contrassegnati da una forte personalità; rintraccia nel testo i termini e le espressioni che descrivono l’uomo e la donna. 4. Quali riferimenti del testo ci permettono di stabilirne la datazione? 5. L’uomo attua una vera e propria “strategia di seduzione” nei confronti della donna. Mettine in luce le principali modalità. LeSSIco 6. Fai una scheda con le espressioni popolaresche e quelle cortesi.
Interpretare
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
ScrItturA 7. In che senso questo testo può rappresentare una parodia della letteratura e in particolare della lirica cortese?
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
8. Nel testo il cavaliere afferma che «molte sono le femine c’hanno dura la testa, e l’omo con parabole l’adimina e amonesta». Secondo te, tenendo conto di quest’affermazione, quale immagine della donna emerge? È possibile parlare di parità di genere? Perché?
250 Duecento e trecento 4 “Ragionard’Amore”
2
I poeti siculo-toscani 1 La poesia nella Toscana comunale Dalla Sicilia alla Toscana Dopo la morte di Federico e il rapido declino della potenza sveva, il “testimone” della poesia lirica passa alla Toscana: una regione emergente, caratterizzata da un grande dinamismo culturale, che ha le sue basi nella prosperità economica di questa zona dell’Italia, creata soprattutto dalla fiorente attività delle banche di Firenze e di Siena e dal traffico commerciale del porto di Pisa. Nei vari comuni toscani fiorisce una produzione lirica i cui autori vengono in genere denominati “siculo-toscani” perché da un lato ereditano l’interesse al tema amoroso e le forme metriche dei siciliani, mentre dall’altro si aprono a tematiche nuove: ad esempio quella della riflessione morale e politica, a volte con toni polemici e satirici, ispirate dalla vivace realtà comunale nella quale vivono e scrivono. Nel complesso si può dire che l’universo poetico compatto della lirica siciliana, privo di un centro anche politico unificante, si sfaldi per dar vita a un policentrismo culturale; vengono contemporaneamente alla ribalta Lucca (nella quale vive e opera Bonagiunta Orbicciani), Pistoia, Pisa, Arezzo e infine Firenze, dove il gusto lirico, grazie alle personalità di Monte Andrea e di Chiaro Davanzati, inizia a orientarsi verso modalità relativamente autonome rispetto alla scuola siciliana. Guittone d’Arezzo Il maggiore dei poeti siculo-toscani è considerato Guittone d’Arezzo (1235 ca.-1294?), che, esempio paradigmatico di intellettuale comunale, segue con passione e partecipazione gli eventi politici del Comune di Arezzo e ne lamenta la decadenza e la lotta tra le fazioni. La sua ampia produzione (50 canzoni e ben 251 sonetti, oltre a numerose lettere) è divisa in due fasi: nella prima, accanto al tema amoroso, emerge significativamente il tema politico, trattato con una passione che riflette la diretta partecipazione del poeta alle lotte tra guelfi e ghibellini che agitavano il panorama politico dei comuni toscani (Guittone apparteneva al partito guelfo); nella seconda, successiva alla sua decisione di lasciare la sua città e la sua stessa famiglia per entrare in una confraternita religiosa, dominano testi di argomento religioso e morale. La forte personalità poetica di Guittone si manifesta nella predilezione per uno stile aspro – vicino, soprattutto nelle prime composizioni, ai modi del provenzale trobar clus – e nella propensione per un uso virtuosistico degli strumenti retorici, che rende i suoi testi ardui a comprendersi. Uno stile che suggestionò molti poeti, ma suscitò la forte critica di Dante, sebbene proprio quest’ultimo fosse stato influenzato dal poeta toscano, come si ricava da vari riferimenti del De vulgari eloquentia. Tumulti ad Arezzo, in una miniatura toscana del XIV secolo.
I poeti siculo-toscani 2 251
Nella Commedia il poeta fiorentino prende nettamente le distanze da Guittone (Pg XXIV, 55-57; XXVI 24-126) e in genere dai poeti siculo-toscani, mettendo in bocca a uno di essi, Bonagiunta Orbicciani, che immagina di incontrare nel Purgatorio, una celebre definizione del “dolce stil novo” che ne sancisce la netta distanza rispetto alle esperienze liriche immediatamente precedenti. Compiuta Donzella Come per Nina Siciliana i critici nel corso del tempo si sono divisi tra chi l’ha considerata tra le prime poetesse della letteratura italiana e chi invece ha pensato che dietro di lei si nascondesse una mano maschile, negandone l’esistenza. Nuove ipotesi confermano l’esistenza della poetessa e la collocano addirittura in un panorama europeo. L’ipotesi è che “compiuta” fosse il nome di battesimo, nome abbastanza diffuso a Firenze tra XIII e XIV secolo. Si ritiene invece che “Donzella” non potesse essere il cognome, anche se era diffuso già in epoca medioevale e tutt’oggi presente in Sicilia e in Toscana. Alla poetessa fanno riferimento un gran numero di testi di autori del 1200; tra questi segnaliamo: la lettera V dell’epistolario di Guittone d’Arezzo; i sonetti di Mastro Rinuccino, i sonetti attribuiti a Maestro Torrigiano. È possibile che lei fosse in contatto con altri poeti del Duecento fiorentino e fosse stata introdotta in qualche circolo letterario della città. A lei si attribuiscono tre sonetti contenuti nel codice Vaticano 3793: A la stagion che ’l mondo foglia e fiora; Lasciar vor[r]ia lo mondo e Dio servire e Ornato di gran pregio e valenza, ma è possibile che i testi a lei riconducibili possano essere superiori. Nei primi due sonetti compare il motivo del matrimonio forzato e la figura del padre-padrone che vuole obbligare la figlia ad adempiere al suo volere.
La lirica siculo-toscana GENERE
lirica
TEMPO
seconda metà del XIII secolo
LUOGO
comuni toscani (Arezzo, Lucca, Firenze)
LINGUA
volgare toscano
STILE
ricercato, complesso, arduo
TEMI
amoroso, morale e religioso
MODELLO
scuola siciliana e lirica provenzale
AUTORI
Guittone d’Arezzo, Chiaro Davanzati e Bonagiunta Orbicciani
Fissare i concetti I poeti siculo-toscani 1. Quali caratteristiche presenta la poesia dei siculo-toscani rispetto alla lirica siciliana? 2. In quante fasi si può dividere la produzione di Guittone d’Arezzo e quali temi tratta? 3. Quale stile utilizza Guittone nelle sue poesie? 4. Come risulta composto il corpus delle poesie di Compiuta Donzella?
252 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
Guittone d’Arezzo
T8 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960
Ahi lasso, or è stagion de doler tanto
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 2
La canzone qui riprodotta è la più nota tra quelle di argomento etico-politico di Guittone. Ahi lasso, or è stagion de doler tanto1 a ciascun om che ben ama Ragione2, ch’eo meraviglio u’3 trova guerigione4, ca morto no l’ha già corrotto e pianto5,
l’alta Fior sempre granata6 e l’onorato antico uso romano ch’a certo pèr7, crudel forte villano8, s’avaccio ella no è ricoverata9: ché l’onorata sua ricca grandezza 10 e ’l pregio quasi è già tutto perito e lo valor e ’l poder si desvia10. Oh lasso, or quale dia fu mai tanto crudel dannaggio audito?11 Deo, com’hailo sofrito, 15 deritto pèra e torto entri ’n altezza?12 5
Altezza tanta êlla sfiorata Fiore fo, mentre ver’ se stessa era leale13, che ritenëa modo imperïale, acquistando per suo alto valore
provinci’ e terre, press’o lunge, mante14; e sembrava che far volesse impero sì como Roma già fece, e leggero li era, c’alcun no i potea star avante15. E ciò li stava ben certo a ragione, 20
La metrica Canzone di sei stanze in versi endecasillabi e settenari, costituite da una fronte di due piedi simmetrici e da una sirma indivisa secondo lo schema ABBA CDDC EFGgFfE, seguite da un congedo metricamente identico alla sirma.
1 Ahi lasso… doler tanto: Ahimè, ora è tempo di provare un dolore così intenso. 2 a ciascun… Ragione: da parte di chiunque che (a ciascun om che) ami veramente la Giustizia (Ragione). Ragione, nel senso di “Giustizia”, è una personificazione. 3 u’: dove. 4 trova guerigione: egli possa trovare salvezza (guerigione). 5 ca morto… pianto: [e mi stupisco] che il lutto (corrotto) e il pianto non l’abbiano ancora ucciso (morto). Corrotto sta per lamentazione funebre e forma una coppia sinonimica con pianto. 6 l’alta… granata: in quanto constata che la nobile Firenze (l’alta Fior), un tempo
ricca sempre di frutti (granata). Fior è il giglio (in realtà l’iris o giaggiolo), simbolo di Firenze: per metonimia indica la città; granata è participio passato del verbo granare, “riempirsi di grani o semi”, in senso generico “fruttificare”. 7 e l’onorato… certo pèr: e l’onorevole, antica tradizione romana di certo periscono (ch’a certo pèr). L’espressione antico uso romano richiama la tradizione, ripresa anche da Dante, secondo cui Firenze era stata fondata dai Romani. 8. crudel… villano: crudeltà assai (forte) vergognosa (villano). 9. s’avaccio… ricoverata: se al più presto (s’avaccio) esse non vengono salvate, ripristinate. 10. e lo valor… si desvia: e il valore e la potenza mutano direzione. 11. Oh lasso… audito?: Ahimè, ora in qual giorno (dia) si sentì mai notizia di una tal sciagura (dannaggio)?
12. Deo… ’n altezza?: Dio, come hai potuto (hailo) permettere (sofrito, “sofferto”, cioè sopportato) che il diritto perisca (pèra) e l’ingiustizia (torto) trionfi (entri ’n altezza)? 13 Altezza tanta… leale: Nella sfiorita Firenze vi fu (fo) tanta grandezza (altezza), mentre era leale verso sé stessa. L’aggettivo leale descrive l’unità comunale del passato, contrapposta a un presente caratterizzato dalle lotte intestine tra guelfi e ghibellini. 14 che ritenëa… mante: che essa agiva come la Roma imperiale (modo imperïale) conquistando, grazie al proprio valore, molti (mante) territori e città, vicino e lontano (press’o lunge). 15 e leggero… avante: e sarebbe stato facile (leggero) perché nessuna città poteva superarla (star avante).
I poeti siculo-toscani 2 253
25
ché non se ne penava per pro tanto,
como per ritener giustizi’ e poso16; e poi folli amoroso de fare ciò, si trasse avante tanto17, ch’al mondo no ha canto 30
u’ non sonasse il pregio del Leone18.
Leone, lasso, or no è, ch’eo li veo tratto l’onghie e li denti e lo valore19, e ’l gran lignaggio suo mort’a dolore, ed en crudel pregio[n] mis’ a gran reo20.
E ciò li ha fatto chi? Quelli che sono de la schiatta gentil sua stratti e nati21, che fun per lui cresciuti e avanzati sovra tutti altri, e collocati a bono22; e per la grande altezza ove li mise 40 ennantîr sì, che ’l piagâr quasi a morte23; ma Deo di guerigion feceli dono, ed el fe’ lor perdono24; e anche el refedier poi, ma fu forte e perdonò lor morte25: 45 or hanno lui e soie membre conquise26. 35
Conquis’è l’alto Comun fiorentino, e col senese in tal modo ha cangiato27, che tutta l’onta e ’l danno che dato
16 E ciò… e poso: E ciò le spettava per un giusto motivo (ben certo a ragione): perché in questo non si preoccupava (penava) solo (tanto) del vantaggio che le derivava (per pro), ma anche di mantenere (ritener) la giustizia e la pace (poso). 17 e poi folli… avante tanto: e poiché (poi) divenne desiderosa (folli amoroso, dove folli sta per le fu) di dedicarsi a ciò, divenì così potente (si trasse avante tanto). 18 ch’al mondo… del Leone: che al mondo non esisteva luogo (canto) dove non si celebrasse il valore (pregio) del Leone. Il leone, chiamato Marzocco, è il simbolo del Comune di Firenze: è tradizionalmente rappresentato mentre tiene uno scudo, raffigurante il giglio, con la zampa destra alzata. 19 Leone… lo valore: Ahimè, ora il Leone non c’è più, perché io (ch’eo) vedo che gli (li) hanno portato via (tratto) le unghie, i denti e la forza (valore). 20 e ’l gran lignaggio… a gran reo: e (vedo) la sua nobile stirpe (lignaggio) uccisa con dolore e messa in una crudele prigione con grande ingiustizia (a gran reo). Con lignaggio ci si riferisce alle famiglie guelfe fiorentine, perseguitate in città dopo essere state sconfitte dai ghibellini di
diversi comuni toscani – compresi quelli fuoriusciti da Firenze – nel 1260 nella battaglia di Montaperti. 21 E ciò… stratti e nati: E chi gli [al Leone, ossia a Firenze] ha fatto questo? Quelli che discendono (stratti) e sono nati dalla sua nobile stirpe (schiatta). 22 che fun… a bono: che furono (fun) da lui cresciuti e resi grandi (avanzati sovra) più di tutti gli altri e collocati in una posizione di vantaggio (a bono). Guittone utilizza qui una perifrasi per indicare i cittadini fiorentini di parte ghibellina. 23 e per… a morte: e per la posizione privilegiata (la grande altezza) alla quale li collocò, salirono tanto (ennantîr sì) che lo ferirono (piagâr) quasi a morte. Il riferimento è alla “ferita” all’unità di Firenze causata dalla cacciata dei guelfi da parte dei ghibellini nel 1248; in questo episodio ebbe un ruolo di rilievo Farinata degli Uberti, che compare nel canto X dell’Inferno dantesco. 24 ma Deo… perdono: ma Dio gli fece il dono della guarigione, ed egli (il Leone) li perdonò. Si ricorda, in questo caso, la pace tra le due fazioni nel 1251.
254 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
25 e anche… lor morte: e poi lo ferirono nuovamente (el refedier), ma egli riuscì a resistere e rinunciò a condannarli a morte (perdonò lor morte). Il poeta richiama la congiura (fallita) organizzata da alcune casate ghibelline nel 1258. 26 or hanno… conquise: ora hanno conquistato (hanno… conquise) lui e le sue (soie) membra. Or richiama il presente guittoniano, nel quale i ghibellini, espulsi da Firenze dopo il fallimento del complotto, rientrano da vincitori dopo lo scontro di Montaperti e si spartiscono cariche e ricchezze; anche in questo caso, come nei versi precedenti, il Comune e le sue articolazioni amministrative e politiche sono metaforicamente paragonate al leone e alle sue parti del corpo. 27 Conquis’è… ha cangiato: Il nobile (alto) Comune di Firenze è stato conquistato, e così ha fatto a cambio (cangiato) delle parti con Siena. L’autore descrive il cambiamento degli equilibri in Toscana dopo il 1260: Montaperti è anche la vittoria di Siena, città ghibellina rivale della guelfa Firenze; essa ora può avanzare in territorio avversario e sperare di condizionarne la politica.
li ha sempre, como sa ciascun latino,
li rende28, e i tolle il pro e l’onor tutto29: ché Montalcino av’abattuto a forza, Montepulciano miso en sua forza, e de Maremma ha la cervia e ’l frutto; Sangimignan, Pog[g]iboniz’ e Colle 55 e Volterra e ’l paiese a suo tene30; e la campana, le ’nsegne e li arnesi e li onor tutti presi ave con ciò che seco avea di bene31. E tutto ciò li avene 60 per quella schiatta che più ch’altra è folle32. 50
Foll’è chi fugge il suo prode e cher danno, e l’onor suo fa che vergogna i torna33, e di bona libertà, ove soggiorna a gran piacer, s’aduce a suo gran danno
sotto signoria fella e malvagia, e suo signor fa suo grand’ enemico34. A voi che siete ora in Fiorenza dico, che ciò ch’è divenuto, par, v’adagia35; e poi che li Alamanni in casa avete, 70 servite·i bene, e faitevo mostrare le spade lor, con che v’han fesso i visi, padri e figliuoli aucisi36; e piacemi che lor dobiate dare, perch’ebber en ciò fare 65
28 che tutta l’onta… li rende: così che tutta la vergogna (onta) e il danno che (Firenze) le ha sempre causato, come tutti gli italiani (ciascun latino) sanno, (Siena) ora li restituisce. 29 e i tolle… tutto: e le (a Firenze) sottrae (i tolle) tutto il guadagno (pro) e l’onore. 30 ché Montalcino… a suo tene: perché (Siena) ha abbattuto con la forza Montalcino, ha ridotto in proprio potere Montepulciano, riscuote (ha) la cerva e la rendita (frutto) della Maremma; tiene, come fosse cosa sua (a suo), Sangimignano, Poggibonsi e Colle Val d’Elsa, e anche Volterra e il suo contado (paiese). Ecco un elenco delle conquiste di Siena dopo la battaglia: oltre a quelle geografiche viene citata anche la cervia, cioè un tributo simbolico, consistente in una cerva, che i conti Aldobrandeschi di Santa Fiora dovevano versare a Firenze, e il frutto, ovverosia una somma di denaro da pagare anch’essa regolarmente al Comune un tempo dominante.
31 e la campana… avea di bene: (Siena) ha conquistato (presi ave) la campana di guerra, gli stendardi, le armi (arnesi) e tutti gli arredi (onor), insieme con ciò che presso di sé (Firenze) aveva di valore (di bene). La campana, detta Martinella, era uno strumento montato sul Carroccio, simbolo del Comune, insieme agli stendardi; utilizzata in guerra per trasmettere gli ordini dai comandanti alle truppe in mezzo alla confusione dei combattimenti, la sua perdita era considerata un grande disonore. 32 E tutto ciò… è folle: E tutto ciò gli (a Firenze) succede (avene) per colpa di quella gente che è più folle di qualunque altra. Si parla ancora, ovviamente, dei ghibellini. 33 Foll’è chi fugge… i torna: È folle chi evita il proprio tornaconto (prode) e cerca (cher) il danno e fa in modo che quello che era onorevole diventi per lui (i torna) causa di vergogna. 34 e di bona libertà… grand’ enemico: e da una buona libertà, nella quale vive (soggiorna) con grande soddisfazione, si riduce, con propria grande sventura, alla mercè di un potere (signoria) traditore (fella) e mal-
vagio, e innalza (fa) a padrone il proprio peggior nemico. Emerge una volta in più il contrasto tra la Firenze libera e guelfa di un tempo e quella del presente di Guittone, controllata dai filoimperiali ghibellini. 35 A voi… v’adagia: A voi (ghibellini) che ora siete a Firenze dico che sembra (par) che vi piaccia (v’adagia) ciò che è accaduto. 36 e poi che… figliuoli aucisi: e poiché avete in casa i Tedeschi (li Alamanni) serviteli bene, e fatevi mostrare le loro spade, con le quali vi hanno ferito la faccia (fesso i visi) e ucciso genitori e figli. Il poeta, guelfo e originario della guelfa Arezzo, si serve di un evidente sarcasmo per esprimere sdegno e dolore: gli Alamanni, gruppo di antiche tribù stanziate nel sud dell’odierna Germania, vengono citati per indicare i loro stessi discendenti, cioè i cavalieri tedeschi inviati a Montaperti in aiuto di ghibellini e Senesi dal sovrano Manfredi di Svevia, della casata degli Hohenstaufen, originaria anch’essa della Germania meridionale.
I poeti siculo-toscani 2 255
fatica assai, de vostre gran monete37. Monete mante e gran gioi’ presentate ai Conti e a li Uberti e alli altri tutti38 ch’a tanto grande onor v’hano condutti, che miso v’hano Sena in podestate39; 80 Pistoia e Colle e Volterra fanno ora guardar vostre castella a loro spese40; e ’l Conte Rosso ha Maremma e ’l paiese, Montalcin sta sigur senza le mura41; de Ripafratta temor ha ’l pisano, 85 e ’l perogin che ’l lago no i tolliate, e Roma vol con voi far compagnia42. Onor e segnoria adunque par e che ben tutto abbiate43: ciò che desïavate 90 potete far, cioè re del toscano44. 75
Baron lombardi e romani e pugliesi e toschi e romagnuoli e marchigiani45, Fiorenza, fior che sempre rinovella, a sua corte v’apella46,
che fare vol de sé rei dei Toscani47, dapoi che li Alamani ave conquisi per forza e i Senesi48. 95
37 e piacemi che… gran monete: e sono contento (piacemi) che dobbiate dare loro – perché fecero grande fatica a portare a termine un tal compito (en ciò fare) – una grande quantità delle vostre ricchezze. 38 Monete mante… altri tutti: Donate (presentate) molte monete e gran quantità di gioielli (gran gioi’) ai Conti, agli Uberti e a tutti gli altri. I conti Guidi e gli Uberti erano due potenti famiglie ghibelline; della seconda faceva parte anche il già ricordato Farinata. 39 ch’a tanto grande… in podestate: che vi hanno portato a un così grande onore, che hanno ridotto (miso v’hano) Siena in vostro potere. L’affermazione è chiaramente ironica, come tutte quelle che seguono. 40 Pistoia e Colle… a loro spese: Pistoia, Colle Val d’Elsa e Volterra fanno ora sorvegliare (guardar) le vostre fortezze (castella) a proprie spese.
41 e ’l Conte Rosso… le mura: e il Conte Rosso domina la Maremma e il contado (paiese) e Montalcino è al sicuro senza le mura. Il Conte Rosso era Ildebrandino degli Aldobrandeschi, detto appunto “il Rosso”: personalità guelfa di spicco, alleato di Firenze e nemico di Siena, contro la quale combattè nel 1260, non poteva certo avere più il potere che i versi (non a caso sarcastici) gli attribuiscono. 42 de Ripafratta… far compagnia: i pisani hanno paura (temor ha) di Ripafratta, e i perugini che sottraiate loro (i tolliate) il lago e Roma vuole allearsi (far compagnia) con voi. Ripafratta era un castello, posto vicino a Pisa, conquistato dai fiorentini e donato ai lucchesi; il lago è il Trasimeno. 43 Onor e segnoria… tutto abbiate: Sembra dunque che abbiate onore, potere e tutti i vantaggi (ben tutto).
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44 ciò che desïavate… del toscano: ora potete diventare quello che desideravate (ciò che desïavate), cioè i signori indiscussi (re) della Toscana. 45 Baron lombardi… e marchigiani: Potenti del Settentrione, romani, pugliesi, toscani e marchigiani. Lombardi non indica solo gli abitanti dell’odierna Lombardia ma in generale quelli del Nord Italia. 46 Fiorenza… v’apella: Firenze, fiore che sempre rifiorisce (rinovella), vi chiama (v’apella) alla sua corte. 47 che fare… dei Toscani: (lei) che vuole diventare (fare vol de sé) regina della Toscana. 48 dapoi che… i Senesi: dal momento che ha sconfitto (ave conquisi) con la forza i tedeschi e i senesi.
Analisi del testo La decadenza di Firenze La canzone è stata composta dal poeta in seguito alla sconfitta subita dai guelfi fiorentini a Montaperti nel 1260 ad opera delle forze ghibelline appoggiate da re Manfredi. Nella canzone Guittone, guelfo aretino, esprime il suo dolore di uomo di parte per la perduta supremazia di Firenze. Il poeta vede nella sconfitta della sua fazione una drammatica testimonianza della rovina del Comune un tempo potente. Con questo componimento egli inaugura nella letteratura italiana la poesia civile: la scuola siciliana aveva infatti evitato di trattare temi diversi da quello d’amore. Nella prima strofa Guittone concentra l’attenzione al presente e alla sconfitta di Firenze e alla caduta del suo potere; nelle strofe successive la grandezza di Firenze viene paragonata a quella di Roma; è poi introdotta la polemica contro i ghibellini, colpevoli di una rovina così grande. Gli eventi vengono narrati dal punto di vista soggettivo; non mancano sarcasmo e ironia, che rendono più pungente la passione del poeta ferito per quanto accaduto.
Lo stile Lo stile, adattandosi al tema, risulta di registro elevato; la lingua toscana viene impreziosita dall’uso di provenzalismi e di termini del volgare siciliano illustre. Le parole chiave partecipano dei due temi principali della canzone: la grandezza passata di Firenze e la sua caduta. La sintassi è ipotattica; frequente è l’iperbato, ovvero l’inversione di parole rispetto all’ordine naturale. Ampio è l’uso delle figure retoriche come le personificazioni (Ragione), le metonimie (Fior), le interrogative retoriche (vv. 12-15).
La battaglia di Montaperti, illustrazione dalla Cronica nuova di Giovanni Villani, manoscritto Chigiano (XIII secolo), f. 85r. (Biblioteca apostolica vaticana, Città del Vaticano).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della prima strofa in 5 righe. ANALISI 2. La prospettiva attraverso la quale sono narrati i fatti è chiaramente soggettiva. Da che cosa lo puoi dedurre? LESSICO 3. La canzone si basa sulla contrapposizione tra la passata grandezza di Firenze e la sua caduta: cerca i termini che rimandano alle due sfere.
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 2
SCRITTURA 4. In Ahi lasso Guittone presenta gli eventi da uomo attivo nella vita politica della propria città. Ti sembra che oggi da parte dei giovani sia ancora forte l’interesse verso la politica? Oppure anche tra loro sembra predominare il disinteresse e la sfiducia? (max 25 righe).
online T9 Guittone d’Arezzo Ora parrà s’eo saverò cantare I stanza
I poeti siculo-toscani 2 257
Compiuta Donzella
T10 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
A la stagion che ’l mondo foglia e fiora La poetessa a causa della sua sofferenza, derivante dal matrimonio forzato, si sente esclusa dalla gioia primaverile che si riflette su tutti gli altri.
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
A1 la stagion che ’l mondo foglia e fiora2 acresce3 gioia a tut[t]i fin’ amanti: vanno insieme a li giardini alora che4 gli auscelletti fanno dolzi canti; 5
la franca5 gente tutta s’inamora, e di servir ciascun trag[g]es’ inanti6, ed ogni damigella in gioia dimora; e me, n’abondan mar[r]imenti7 e pianti.
Ca lo mio padre m’ha messa ’n er[r]ore8, 10 e tenemi sovente in forte doglia: donar mi vole a mia forza segnore9, ed io di ciò non ho disio né voglia, e ’n gran tormento vivo a tutte l’ore; però non mi ralegra fior né foglia10. La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDC DCD 1 Il verso è affine alle poesie trobadoriche, ma soprattutto siciliane (Rinaldo d’Aquino). 2 foglia e fiora: mette foglie e fiori. Fiora: sta per fiore, cambiamento dovuto alla rima. 3 acresce: con prostesi di -a. 4 alora che: nell’ora in cui.
5 franca: moralmente nobile. 6 e di servir…inanti: e ognuno si predispone al servizio d’amore. 7 mar[r]imenti: tristezze, provenzalismo. 8 m’ha…er[r]ore: mi ha messa in una situazione dolorosa. 9 donar… segnore: mi vuole far sposare contro la mia volontà. 10 fior né foglia: ripresa in chiusura, ma in forma negativa, della formula dell’incipit “foglia e fiore”.
Analisi del testo Incipit La protagonista manifesta il suo dolore e il suo smarrimento in contrasto con il mondo che la circonda, che appare felice. Esprime inoltre tutto il suo dissenso verso la volontà paterna di volerla dare forzatamente in sposa a un uomo che non ama. I sonetti di Compiuta Donzella si possono analizzare alla luce della situazione sociale della Firenze del Duecento, dove i matrimoni forzati erano molto diffusi. Lauriello fa notare che pur avvertendosi l’influenza della poesia provenzale, nei sonetti di Compiuta Donzella emerge spontaneità, freschezza di sentimenti e immagini del tutto personali. Compiuta può essere ritenuta un’abile versificatrice, esperta di retorica e non priva di ironia nel momento in cui rovescia il canone delle chansons de toile, cioè quelle composizioni in lingua d’oil, di carattere lirico narrativo, in cui si finge che donne intente a tessere o cucire raccontino la storia di una donna che soffre per la lontananza del suo amante. Quasi tutte si concludono felicemente.
La struttura bipartita Il sonetto risulta bipartito: alla lode della gioia universale per l’arrivo della primavera si contrappone a partire dal v. 8 la sofferenza dell’autrice. Nella prima metà del sonetto è sottolineata l’universalità: tutti (v. 2), insieme (v. 3), tutta (v. 5), ciascun (v. 6), ogni (v. 7); nella seconda metà del sonetto l’autobiografismo è estremamente marcato: me (v. 8), mio; m’ (v. 9), -mi (v. 10), mi e mia (v. 11), io (v. 12), mi (v. 14).
La chiusura ad anello La chiusura del sonetto, come sottolineato nelle note, è circolare da foglia e fiora (v. 1) si giunge a fior né foglia (v. 14); da acresce gioia a tut[t]i fin’amanti, si giunge a non mi ralegra (v. 14).
258 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
PArAFrASI 1. Fai la parafrasi delle due quartine. AnALISI 2. Scrivi il verso in cui la poetessa inizia a descrivere il suo stato d’animo. StILe 3. Il sonetto è ricco di variazioni ovvero la poetessa esprime lo stesso concetto variando i termini. Rintraccia nel testo due esempi. 4. La poesia è caratterizzata dall’utilizzo di termini a coppia (binomi). Rintracciali nel testo e soffermati a spiegarne un binomio.
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
coMPetenZA DIGItALe
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
5. In questo sonetto la poetessa descrive una situazione non molto lontana nel tempo e che ancora oggi caratterizza alcuni paesi: il diritto di decidere della vita di una donna da parte della componente maschile della famiglia (padre-fratello-marito). Fai una ricerca che ti porti a capire in quali paesi ancora la donna non ha diritto di scegliere per la sua vita chi sposare, quale lavoro praticare ecc. e condividi i risultati della tua ricerca con i compagni di classe attraverso un file con testo e immagini.
I luoghi della poesia Il dolce stilnovo (1280-1300 circa) Luogo: Bologna, Firenze Autori: Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Dante (anni giovanili), Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Gianni Alfani Lingua: volgare toscano Temi: identificazione di amore e gentilezza, donna angelo, amore spiritualizzato
Milano
Verona Venezia Ferrara Bologna
Genova
Pisa
I poeti comico-realisti (1260-1320 circa) Luogo: Toscana Autori: Rustico Filippi, Cecco Angiolieri Lingua: volgare toscano Temi: sessualità, «basso-corporeità», blasfemia
Firenze
Ancona
Arezzo Siena
I poeti siculo-toscani (seconda metà del XIII secolo) Luogo: comuni toscani Autori: Guittone d’Arezzo, Chiaro Davanzati e Bonagiunta Orbicciani Lingua: volgare toscano Temi: amoroso, morale e religioso
Corsica Roma Benevento
Bari
Napoli
La scuola siciliana (1230-1250) Luogo: corte di Federico II (Magna Curia) Autori: funzionari di corte: Jacopo da Lentini (notaio), Pier della Vigna (cancelliere), Guido delle Colonne (giudice) Lingua: volgare siciliano illustre Temi: amore cortese, idealizzazione della figura femminile
Sardegna
Palermo
Sicilia
I poeti siculo-toscani 2 259
3 MAPPA INTERATTIVA. LA POESIA DELLE ORIGINI
Il dolce stilnovo 1 Che cos’è lo stilnovo Il ruolo di Dante nella fondazione del concetto di “stilnovo” Il “dolce stil novo”, dopo la scuola siciliana e il suo passaggio in Toscana, rappresenta un altro importante momento nella formazione della lirica italiana: ed è a Firenze che si sviluppa. Con il termine “stilnovo” si indica quindi l’esperienza poetica di alcuni autori fiorentini nella seconda metà del Duecento. La denominazione di «dolce stil novo» si ricava dalle parole che Dante fa pronunciare a Bonagiunta Orbicciani, da Lucca, un poeta siculo-toscano, nel XXIV canto del Purgatorio. Bonagiunta chiede a Dante se si trova di fronte all’iniziatore del nuovo stile con Donne ch’avete intelletto d’amore (nella Vita nova) e Dante chiarisce di essere un poeta che trae ispirazione dall’amore «I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e' ditta dentro vo significando». Questa dichiarazione di Dante sottolinea a Bonagiunta la lontananza dei poeti della scuola siciliana, di Guittone e di lui stesso, dall’esperienza dei nuovi poeti: «“O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!”». Dal dialogo con Bonagiunta comprendiamo che la novità di questa poesia è la fedeltà assoluta all’ispirazione che proviene da Amore; grazie alla risposta di Dante, Bonagiunta comprende qual è il «nodo», l’impedimento che separa lui e gli altri poeti da questa nuova esperienza poetica, ovvero la assoluta adesione all’illuminazione provocata da Amore. Le caratteristiche dello stilnovo È necessario chiarire che cos’è il nodo di cui parla Dante nel colloquio con Bonagiunta e analizzarlo sia sul piano formale che su quello dei contenuti. Dal primo punto di vista ciò che distingue questi poeti è la scelta di uno stile raffinato e selettivo, la cui “dolcezza” si contrappone alle asprezze e alle oscurità dello stile guittoniano. Sul piano dei contenuti, all’omaggio rivolto alla dama, caratteristico dell’amore cortese, si sostituisce una visione più spiritualizzata della donna, che viene lodata come angelo in terra e come tramite per la salvezza. Si può con certezza affermare che la concezione dell’amore degli stilnovisti si riconnette ai trovatori della letteratura provenzale dell’ultimo periodo e a quella di Chiaro Davanzati, poeta siculo-toscano. Uno dei concetti più importanti che possiamo osservare nella canzone Al cor gentil rempaira sempre amore di Guido Guinizzelli (➜ T11 ) è l’identificazione dell’amore con la gentilezza, solo chi è dotato di nobiltà d’animo è in grado di provare amore. In questa affermazione è tutta la novità dello stilnovo: la nobiltà di cui si parla non è più quella di sangue ma quella di animo, come già affermato nel trattato De Amore di Andrea Cappellano (➜ C1 PAG. 129, T8 ).
lezione di Guido Guinizzelli 2 La e le caratteristiche del nuovo modo di poetare L’iniziatore dello stilnovismo L’iniziatore del gruppo è da considerare il bolognese Guido Guinizzelli, autore di quello che è ritenuto il manifesto della nuova scuola, ossia la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore e che Dante definisce «il padre mio e de li altri miei» nel XXVI canto del Purgatorio.
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Non c’è da stupirsi se l’iniziatore dello stilnovismo è stato un bolognese, in quanto la città emiliana era all’avanguardia dal punto di vista culturale per la presenza di una famosa università. Della vita del bolognese Guido Guinizzelli, di una generazione precedente a quella di Dante (sulla base di recenti documenti la sua nascita è oggi collocata intorno al 1218, ma altri la spostano molto più avanti), si sa pochissimo: se è corretta l’identificazione in Guido, figlio del giudice bolognese Guinizzello di Magnano, egli fu uomo di legge, attivo come giudice a Bologna tra il 1268 e il 1274; di parte ghibellina, fu esiliato nel 1274 a Monselice, presso Padova, in seguito alla sconfitta, nella sua città, della fazione ghibellina. Morì prima del novembre del 1276. La sua produzione (cinque canzoni e quindici sonetti) si muove tra ascendenze siciliane e guittoniane e intuizioni stilnovistiche. Gli stilnovisti e le caratteristiche dello stilnovo I principali esponenti del gruppo degli “stilnovisti”, come è consuetudine definirli, sono Guido Cavalcanti, Dante (ma solo negli anni giovanili), Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Gianni Alfani: se in passato è prevalsa, proprio per suggestione dei versi danteschi, l’idea della “scuola”, in tempi più recenti si tende piuttosto a sottolineare e valorizzare la diversità delle singole personalità poetiche tradizionalmente raggruppate sotto l’etichetta di “poeti stilnovisti”. Gli aspetti comuni Anche senza ammettere, appunto, l’esistenza di una vera e propria “scuola”, che implicherebbe l’adesione consapevole a una poetica da tutti condivisa, è possibile evidenziare aspetti che accomunano i cosiddetti “stilnovisti”. • Le loro liriche danno l’impressione di una vera e propria vocazione all’esercizio poetico, non più passatempo raffinato come per i siciliani, ma esperienza centrale di vita, fulcro della quale è l’amore. • Il tema amoroso occupa un posto di assoluta centralità: sebbene tutti i poeti partecipino alle lotte politiche del tempo, in poesia, come già i siciliani, trattano esclusivamente d’amore. La concezione d’amore si distacca ormai dal galateo cortese e dal codice feudale per diventare esperienza assoluta, percorso iniziatico, in alcuni casi (soprattutto Dante) proiettato verso una dimensione religiosa; ma comunque esperienza totalizzante, tale da isolare il soggetto dalla realtà comune. Per gli stilnovisti l’amore ha in ogni caso un valore conoscitivo, è lo strumento privilegiato per interpretare sé stessi. • La figura femminile è presentata non con particolari realistici ma come luminosa, sconvolgente apparizione: il suo manifestarsi agli occhi del poeta e il suo saluto acquistano quasi il valore di una rivelazione (➜ T12 ). La donna rimane lontana, irraggiungibile ma, mentre nella lirica provenzale la distanza aveva motivazioni soprattutto sociali, radicate nel costume dei rapporti feudali, ora essa diventa una lontananza metafisica, la percezione di una distanza che niente e nessuno potrà mai colmare. • Guinizzelli e (soprattutto) Dante attribuiscono virtù salvifiche alla donna, considerata sede di ogni valore spirituale e morale (➜ T12 ) e, associando tema amoroso e religioso, la concepiscono come un tramite per l’assoluto. Cavalcanti tende invece nella sua poesia a rappresentare l’amore come esperienza angosciosa e distruttiva. • Nelle liriche degli stilnovisti viene esaltato il valore della “gentilezza” , una riproposizione aggiornata della cortesia, che accomuna il poeta che ama, la donna amata e il pubblico ideale cui la loro poesia si rivolge. La gentilezza prescinde dalla nobiltà di sangue e si lega piuttosto alle qualità interiori, come precisa con forza Guinizzelli nella celebre canzone Al cor gentil. Il dolce stilnovo 3 261
• Sul piano linguistico i nuovi poeti si caratterizzano per una raffinata selezione
lessicale (prediligono, almeno nei momenti più propriamente lirici, termini piani, musicali) e per l’uso ricorrente della terminologia filosofica, che contrappone la loro poesia allo stile di Guittone, fondato soprattutto su un uso virtuosistico ed esibito degli artifici retorici (➜ T8 ). Proprio questa dimensione filosofica sarà rimproverata a Guinizzelli da Bonagiunta nel sonetto Voi ch’avete mutata la mainera. Il vertice dello stilnovo si trova nella poesia di Dante L’esperienza dei nuovi poeti toscani culmina nella produzione lirica di Dante, il maggiore poeta del suo tempo che, intorno al 1295, allestisce nella Vita nuova un’antologia delle sue poesie, caratterizzate dalla focalizzazione su un mito femminile – quello di Beatrice – centrale in tutta la sua esperienza umana e poetica.
Parola chiave
Lo stilnovo GENERE
lirica
TEMPO
1280-1300 ca.
LUOGO
Bologna e Firenze
LINGUA
volgare toscano
STILE
dolcezza espressiva
TEMI
identificazione di amore e gentilezza, donna angelo, amore spiritualizzato
AUTORI
Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Dante (solo negli anni giovanili), Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Gianni Alfani
gentilezza/gentile Il termine gentile è per noi oggi sinonimo di persona dai modi cortesi, garbati e soprattutto attenta a rispettare il prossimo. In origine la parola non aveva affatto questa accezione: deriva infatti dal lat. gentilis, che significa semplicemente “appartenente alla gens”, cioè alla stirpe; in età feudale gentile diventa sinonimo di “persona di stirpe nobile”, cioè designa la classe sociale dei nobili. È in età comunale che il termine gentile subisce una profonda variazione di significato, in rapporto alla sempre maggiore importanza (non solo a livello economico ma anche di rappresentatività politica) della classe borghese nelle città del centro e nord d’Italia. Questi ceti si impegnano, attraverso gli intellettuali più importanti, a definire un quadro di valori e di prerogative atte a nobilitare
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la propria classe: rilievo particolare in questo processo ha proprio il concetto di gentilezza come sinonimo di nobiltà. Gentile non è più per definizione il nobile, la gentilezza non è più un privilegio di casta, ma un insieme di qualità morali e intellettuali che tutti possono possedere. Nelle liriche stilnovistiche, a cominciare dalla celebre canzone di Guinizzelli, alle liriche di Cavalcanti e di Dante, gentile e gentilezza nella nuova accezione sono vere e proprie parole chiave. Ma anche Brunetto Latini, uomo politico e intellettuale di spicco del comune di Firenze, nel suo Tesoretto (un’opera didattico-allegorica), sostiene con forza che gentile non è chi è altolocato ma chi «oltre suo lignaggio [il suo privilegio di nascita] / fa cose d’avantaggio [compie azioni nobilitanti] / e vive orratamente [in modo onorevole], / sì che piace a la gente».
Guido Guinizzelli
T11 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
AUDIOLETTURA
Al cor gentil rempaira sempre amore Questa celebre canzone di Guido Guinizzelli è tradizionalmente considerata il “manifesto” della poetica stilnovistica. Indubbiamente il carattere prettamente teorico della composizione testimonia la consapevole volontà dell’autore di esporre e chiarire, con stringente logica argomentativa, i nodi fondamentali della concezione d’amore che fu propria dei poeti comunemente definiti “stilnovisti”: in particolare l’associazione gentilezza-amore. È importante, però, anche precisare che il carattere programmatico e l’importanza stessa della canzone all’interno della poesia stilnovistica sono sanciti soprattutto dall’autorevole intervento di Dante, che la elogia come esempio di perfezione linguistico-stilistica e la richiama espressamente in un sonetto della Vita nuova (XX, 3) e soprattutto in un celeberrimo passo della Commedia (If V, 100). Al cor gentil rempaira sempre amore come l’ausello in selva a la verdura; né fe’ amor anti che gentil core, né gentil core anti ch’amor, natura: 5
ch’adesso con’ fu ’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente, né fu davanti ’l sole; e prende amore in gentilezza loco così propïamente 10
come calore in clarità di foco.
Foco d’amore in gentil cor s’aprende come vertute in petra prezïosa, che da la stella valor no i discende anti che ’l sol la faccia gentil cosa;
poi che n’ha tratto fòre per sua forza lo sol ciò che li è vile, stella li dà valore: così lo cor ch’è fatto da natura asletto, pur, gentile, 20 donna a guisa di stella lo ’nnamora. 15
La metrica Canzone di sei stanze di dieci
1-10 Al cor gentil… di foco: L’amore
versi ciascuna secondo lo schema ABAB (fronte) cDcEdE (sirma). Nella fronte i versi sono tutti endecasillabi, nella sirma si alternano endecasillabi e settenari. Il primo termine della II, III, IV, V stanza riprende l’ultimo della strofa precedente secondo la tecnica, propria della poesia trobadorica, della coblas capfinidas (I-II foco-foco; IIIII ’nnamora-Amor; III-IV ferro-fere; IV-V splendore-splende).
tende sempre a ritornare (rempaira, francesismo) al cuore nobile (gentil), come l’uccello ritorna fra le verdi foglie nel bosco; e la natura non ha creato l’amore prima (anti che) del cuore nobile, né il cuore nobile prima dell’amore (quindi la natura ha creato contemporaneamente l’amore e gli animi nobili): non appena (adesso con’) fu creato il sole, immediatamente (sì tosto) si manifestò lo splendore della sua luce; e non risplendette prima della creazione del sole. L’amore trova collocazione (prende… loco) nella gentilezza con la stessa naturalezza del (così propïamente / come) calore nello splendore del fuoco.
11-20 Foco d’amore… lo ‘nnamora: Il fuoco d’amore si accende nel cuore nobile come le proprietà (vertute) nella pietra preziosa, nella quale non giunge l’influenza della stella prima che (anti che) il sole l’abbia purificata; dopo che il sole, per il suo potere (forza), ha tolto da essa ogni impurità (ciò che li è vile), la stella le conferisce le sue proprietà (valore): allo stesso modo la donna, come la stella, fa innamorare il cuore creato dalla natura eletto (asletto, francesismo), puro, nobile.
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Amor per tal ragion sta ’n cor gentile per qual lo foco in cima del doplero: splendeli al su’ diletto, clar, sottile; no li stari’ altra guisa, tant’è fero. 25
Così prava natura
recontra amor come fa l’aigua il foco caldo, per la freddura. Amore in gentil cor prende rivera per suo consimel loco 30
com’adamàs del ferro in la minera.
Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno: vile reman, né ’l sol perde calore; dis’ omo alter: «Gentil per sclatta torno»; lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fé che gentilezza sia fòr di coraggio in degnità d’ere’ sed a vertute non ha gentil core, com’aigua porta raggio 40 e ’l ciel riten le stelle e lo splendore. 35
Splende ’n la ’ntelligenzia del cielo Deo creator più che [’n] nostr’occhi ’l sole: ella intende suo fattor oltra ’l cielo, e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole; 45
e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento, così dar dovria, al vero, la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende del suo gentil, talento 50
che mai di lei obedir non si disprende.
21-30 Amor per tal ragion… in la minera: L’amore risiede nel cuore nobile per la stessa ragione per la quale il fuoco arde in cima al candelabro (doplero): lì splende (splendeli) a suo piacere (al su’ diletto), luminoso, leggero; non potrebbe starci in modo diverso (non li stari’ altra guisa), tanto è indomabile (fero). Così una natura vile (prava) respinge (recontra) l’amore come l’acqua fa con il fuoco caldo, perché essa è fredda (per la freddura). L’amore prende dimora nel cuore gentile come luogo congeniale, come il diamante (adamàs) nel minerale (in la minera) del ferro. Anche questa immagine, come quella precedente della pietra preziosa, è tratta dai lapidari: si pensava che il diamante venisse prodotto da una modificazione del ferro.
31-40 Fere lo sol… lo splendore: Il sole colpisce (Fere) il fango tutto il giorno, ma questo rimane cosa vile e il sole non perde il suo calore (per il fatto di riscaldare il fango); l’uomo superbo (omo alter) dice: «Io sono nobile per stirpe (sclatta)»; io lo paragono (semblo) al fango, (mentre) al sole paragono la nobiltà d’animo: perché l’uomo non deve credere (non dé dar om fé) che la gentilezza sia fuori dal cuore (fòr di coraggio), nella dignità ereditaria (in degnità d’ere’), se una persona non possiede un cuore nobile predisposto alla virtù, proprio come l’acqua si lascia trapassare dalla luce e il cielo trattiene le stelle e il loro splendore. Il paragone intende sottolineare che l’uomo non può ricevere da altre fonti (come appunto la stirpe illustre) la nobiltà se non la possiede autonomamente.
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41-50 Splende… non si disprende: Dio creatore, più di quanto risplenda il sole nei nostri occhi, rifulge nelle intelligenze celesti (gli angeli): essi comprendono la volontà del loro creatore immediatamente, oltre il singolo cielo (al cui movimento sono preposte) e, imprimendo al cielo la rotazione (’l ciel volgiando), prendono (tole) a ubbidirgli; e come (con’) istantaneamente (al primero) segue la felice realizzazione (beato compimento) (della volontà) del giusto Dio, allo stesso modo, in verità, la bella donna dovrebbe imprimere (dar dovria), una volta che splende negli occhi del suo nobile innamorato, il desiderio (talento) di non allontanarsi mai (mai… non si disprende) dall’ubbidirle.
Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?», siando l’alma mia a lui davanti. «Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti e desti in vano amor Me per semblanti: 55
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno, per cui cessa onne fraude». Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza che fosse del Tuo regno; 60
non me fu fallo, s’in lei posi amanza».
51-60 Donna, Deo mi dirà… posi amanza»: O donna, Dio mi dirà: «Che presunzione hai avuto?» quando la mia anima sarà (siando) davanti a lui. «Attraversasti il cielo e giungesti fino a Me e prendesti Me come termine di paragone (semblanti) per
un amore vano (un amore cioè terreno): (solo) a Me convengono le lodi (laude) e alla Madonna, regina del paradiso (la reina del regname degno), per i cui meriti è dissolto ogni peccato (fraude sta propr. per “inganno”). Gli potrò rispondere: «(La
donna che amo) ebbe l’aspetto (sembianza) di un angelo che appartenesse al tuo regno (cioè al paradiso); non ho commesso una colpa (fallo) se ho rivolto a lei il mio amore».
Analisi del testo Un testo argomentativo sul tema dell’amore In questo celebre testo Guinizzelli non vuole trasmettere al lettore sentimenti o impressioni legati alla sua personale esperienza amorosa, ma formula con autorevolezza una precisa concezione dell’amore: da questa ambizione teorica deriva la struttura della canzone, in cui le varie stanze si agganciano l’una all’altra, costruendo i nodi fondamentali dell’argomentazione in una rigorosa progressione logica. Il concetto chiave – cioè l’identità di gentilezza e amore – è asserito con forza nel primo verso della canzone e viene poi sviluppato attraverso una lunga serie di paragoni tratti dal mondo naturale e appartenenti alla comune “enciclopedia” di un uomo colto medievale, al suo bagaglio di conoscenze. Nella prima stanza la scelta dei paragoni è guidata dall’assoluta e indiscutibile evidenza dei referenti scelti per il confronto: si può immaginare il sole senza la presenza della luce? Si può pensare il fuoco luminoso senza il calore? Allo stesso modo, si può immaginare l’amore senza un animo nobile che possa accoglierlo, e viceversa? Il lettore è indotto a una conclusione presentata come necessaria. Resta invece implicito il fondamentale concetto che l’amore di cui si parla nel testo non è un amore comune, volgare, ma un’esperienza elevata destinata a pochi animi eletti. Il ruolo della seconda e terza stanza non è quello di far procedere ulteriormente l’argomentazione, ma di amplificare attraverso nuovi paragoni il concetto già enunciato nella prima. La quarta stanza, che si colloca idealmente e strutturalmente al centro della canzone, produce invece un importante avanzamento dell’argomentazione, proponendo un nucleo concettuale chiave di grande forza, anche ideologica: la stanza è focalizzata infatti sulla definizione di che cosa sia veramente la gentilezza, più volte nominata nelle parti precedenti. All’autore preme mettere in chiaro che essa nulla ha a che fare con i privilegi di una casta, quella nobiliare, ma è essenzialmente una qualità interiore, un privilegio di spiriti elevati. Per sostenere questa tesi l’autore ricorre, come fa in tutto il componimento, allo strumento del paragone, in questo caso esplicitando la funzione autoriale: lui semblo al fango. La quinta e la sesta stanza sono legate tra di loro. L’argomentazione conosce un ulteriore avanzamento: viene infatti definita la natura quasi ultraterrena della donna, che induce il poeta a elevare la sua riflessione con un ardito collegamento tra l’azione di Dio sulle intelligenze celesti e il potere salvifico esercitato sull’uomo dalla donna. L’angelica sembianza femminile è evocata alla fine della canzone come giustificazione dell’amore che il poeta ha riposto in lei.
La revisione del concetto di gentilezza Tranne l’ultima stanza, le altre cinque sono caratterizzate dalla presenza di termini ricorrenti in riferimento alla gentilezza (➜ PAROLA CHIAVE, PAG. 262): tre occorrenze nella prima stanza (vv.
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1, 3), tre nella seconda (vv. 11, 14, 19), due nella terza (21, 28), quattro nella quarta (vv. 33, 34, 36, 38), una nella quinta (v. 49). Più ancora che una teoria dell’amore, la canzone di Guinizzelli si configura come una decisiva valorizzazione dei valori spirituali e culturali del singolo individuo, nella prospettiva di una nuova aristocrazia, non più strettamente legata alla nobiltà di sangue, anche in relazione alle diverse condizioni socio-culturali in cui fiorisce la poesia degli stilnovisti.
La donna-angelo e la possibile risoluzione di un conflitto di coscienza e di poetica I poeti del tardo Duecento colsero nell’affermazione di Guinizzelli (Tenne d’angel sembianza) una grande portata innovativa. Esisteva indubbiamente un conflitto tra l’esaltazione dell’amore cortese (che implicava anche l’idea dell’adulterio) e la visione religiosa propria della cultura medievale. L’angelicazione della donna comportava la possibilità di fare del sentimento amoroso un tramite verso il divino, di conciliare la visione religiosa e le forme poetiche incentrate sull’esaltazione dell’amore. Come ha sottolineato il critico Mario Marti, il parallelismo donna-intelligenze celesti non è solo un’immagine ardita, ma ha un significato profondo. Anche il ruolo femminile, così come quello degli angeli che traducono in armonia cosmica il disegno di Dio, ha carattere provvidenziale: volgendo, grazie all’amore, l’animo dell’uomo verso il bene e alla fin fine verso Dio, la donna appare a sua volta mediatrice del disegno divino. Quella della donna-angelo non è dunque un’ennesima metafora galante, ma una vera e propria reimpostazione, più rigorosamente spirituale, del sentimento amoroso. Chi interpreterà nel modo più coerente la lezione guinizzelliana sarà Dante: non solo nell’itinerario poetico ed esistenziale tracciato nella Vita nuova, ma ancor più nel cammino della Commedia.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza con una breve frase il contenuto di ogni stanza. COMPRENSIONE 2. Su quale fondamentale concetto si fonda l’analogia fra le prime tre stanze? 3. Che cosa rimprovera Dio al poeta nell’immaginario colloquio dell’ultima strofa? Come si difende il poeta dall’accusa mossagli? 4. Nella quarta stanza, alla dichiarazione dell’uomo superbo si contrappone la posizione del poeta. Su quale aspetto verte la contrapposizione? ANALISI 5. Perché secondo te Guinizzelli ha tratto la maggior parte dei termini di paragone dalla realtà naturale? LESSICO 6. Analizza il lessico e rintraccia nel testo i termini che appartengono al campo semantico della luce. 7. Questi termini hanno un significato diverso da quello odierno: indicane il senso nel contesto della canzone. gentil / gentilezza ................................................................................................................................................................. verdura (v. 2) ........................................................................................................................................................................... vertute (v. 12) .......................................................................................................................................................................... valor (v. 13) .............................................................................................................................................................................. vile (v. 16) ................................................................................................................................................................................. freddura (v. 27) ....................................................................................................................................................................... intelligenzia (v. 41) ............................................................................................................................................................... talento (v. 49) .......................................................................................................................................................................... STILE 8. Nel testo è presente una rima siciliana: sai identificarla?
Interpretare
SCRITTURA 9. Delinea sinteticamente l’immagine della donna che si ricava dalla canzone (max 20 righe, facendo riferimento al testo).
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Guido Guinizzelli
T12 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Io voglio del ver la mia donna laudare Dei quindici sonetti presenti nel corpus delle poesie guinizzelliane, molti sono ancora legati alla tradizione cortese e presentano quindi elementi sicilianeggianti e provenzaleggianti. Alcuni, però, introducono motivi che saranno in vario modo ripresi dagli stilnovisti, e in particolare da Dante, che appunto guarderà a Guinizzelli come a un maestro. È il caso del sonetto che presentiamo, incentrato sulla lode della donna e sugli effetti miracolosi che il suo solo saluto produce in chi la incontra. Io voglio del ver1 la mia donna laudare2 ed asembrarli3 la rosa e lo giglio: più che stella dïana4 splende e pare5, 4
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio6.
Verde river’ a lei rasembro e l’âre7, tutti color di fior’, giano8 e vermiglio, oro ed azzurro9 e ricche gioi per dare10: 8
medesmo Amor per lei rafina meglio11.
Passa per via adorna12, e sì gentile ch’abassa orgoglio a cui dona salute13, 11
e fa ’l de nostra fé se non la crede14;
e no·lle pò apressare om che sia vile15; ancor ve dirò c’ha maggior vertute16: 14
null’om pò mal pensar fin che la vede.
La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDE CDE. 1 del ver: secondo verità. 2 la mia donna laudare: lodare (latinismo) la mia signora (lat. domina), la signora del mio cuore. 3 asembrarli: paragonarle. 4 stella dïana: Lucifero, la stella del mattino. 5 pare: appare, si manifesta. Allo stesso modo Dante in Tanto gentile e tanto onesta pare ➜ C6 T5 .
6 somiglio: paragono. 7 Verde… âre: paragono (cfr. v. 2) a lei una verde campagna e l’aria. âre è forma contratta per aere. 8 giano: giallo (francesismo). 9 azzurro: è il colore della pietra preziosa del lapislazzuli. 10 ricche… dare: gemme preziose degne di essere donate. 11 medesmo… meglio: persino l’Amore si perfeziona grazie a lei. 12 adorna: ornata della sua stessa bellezza.
13 ch’abassa... salute: che diminuisce l’orgoglio a colui a cui dona il suo saluto. Il termine salute allude anche alla salvezza (salus in latino) spirituale che la donna può dare già con l’atto del salutare. Il concetto ritornerà nella Vita nuova di Dante. 14 fa ’l… crede: lo converte alla nostra fede se ancora non è credente. 15 no·lle… vile: non si può avvicinare a lei una persona d’animo non nobile. 16 ch’a maggior vertute: che ha un potere ancor più straordinario.
Analisi del testo Una struttura bipartita Il sonetto è incentrato sul tema della lode della donna, come viene programmaticamente enunciato nel primo verso. La lode si articola in due momenti nettamente distinti, corrispondenti rispettivamente alle due quartine e alle due terzine: nelle quartine l’autore ne loda la bellezza, mentre nelle due terzine si sofferma sulle sue doti spirituali e sugli straordinari “effetti” della sua apparizione (qui esclusivamente positivi; in altri poeti, come Cavalcanti, tali effetti sono invece soprattutto angosciosi e distruttivi).
La rivisitazione del plazer La lode della bellezza è affidata al paragone con la bellezza della natura e con le pietre preziose e resa, tramite effetti soprattutto visivi, attraverso vivaci particolari coloristici (il verde, l’azzurro, il giallo, l’oro). Caro a Guinizzelli è il paragone donna-stella, che ricorre anche in un altro sonetto (Vedut’ho la lucente stella diana).
Il dolce stilnovo 3 267
L’elenco delle cose belle a cui la donna viene paragonata richiama il modello del plazer provenzale (un tipo di componimento in cui si elencano cose e situazioni considerate piacevoli).
L’archetipo dell’“angelo visitante” Nelle due terzine è proposta l’immagine di una donna non solo genericamente stilizzata, come nella poesia dei siciliani, ma addirittura non appartenente alla dimensione dell’umano, considerati gli straordinari effetti morali che il suo solo passare per la via e il saluto producono su chi la guarda. Effetti volutamente enfatizzati dal poeta, così da essere quasi delle iperboli: la donna è capace di convertire chi non crede, e addirittura di controllare, per il tempo in cui dura la “visione”, i pensieri delle persone (infatti nessuno può nutrire, in quel frammento di tempo, pensieri malvagi). Guinizzelli fornisce con questo sonetto il modello dell’apparizione quasi soprannaturale della donna: un’apparizione che può essere annichilente e addirittura terrifica (in Cavalcanti) o beatificante, come nel caso della Beatrice dantesca.
L’idealizzazione amorosa: tra dinamiche psicologiche e schemi culturali Nella letteratura medievale di argomento amoroso la donna è costantemente soggetta a un processo di idealizzazione: essa è posta su un piedestallo di perfezione assoluta, e l’uomo che la ama si trova abissalmente distante da lei senza riuscire a trovare nel linguaggio adeguati strumenti per cantare la sua sublime bellezza. Come interpretare questa costante propensione idealizzante? Da un lato, essa può rimandare ad alcuni processi tipici della dinamica amorosa, indagati dalle scienze psicologiche: secondo la psicanalisi, l’idealizzazione dell’oggetto amato gratifica il nostro narcisismo. D’altro canto, però, l’idealizzazione amorosa – cioè il riconoscimento dell’unicità dell’oggetto d’amore e l’assoluta dedizione ad esso – ricorre in determinate culture con maggior frequenza che in altre: la forma specifica assunta dall’idealizzazione della donna nella letteratura amorosa medievale è il frutto di un’elaborazione culturale specifica della cultura occidentale, inaugurata nell’XI secolo in Provenza, che ha prodotto determinati schemi attraverso i quali il singolo poeta è indotto a “leggere” la propria esperienza amorosa e che, in qualche modo, lo influenzano.
Le scelte stilistiche Dante considera Guinizzelli un maestro per chi compone «rime d’amor… dolci e leggiadre» (Pg XXVI, 99). Il sonetto Io voglio del ver costituisce un esempio particolarmente significativo di quello che Dante definirà “il dolce stile”, contrapponendolo in particolare allo stile difficile, denso di artifici retorici, di Guittone d’Arezzo. La composizione ha un andamento fluido e musicale, creato dai richiami fonici tra verso e verso e dalla scelta di una sintassi piana e lineare, in cui prevalgono le frasi coordinate. Il lessico predilige termini semplici, seppur eleganti.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del sonetto (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Quale significato riveste l’associazione attraverso la rima dei termini-chiave gentile : vile? LESSICO 3. Nel sonetto sono presenti alcuni termini che nel linguaggio del tempo, e all’interno della poetica del “dolce stile”, hanno un significato lontano da quello odierno; spiega in rapporto al contesto i seguenti termini: pare, adorna, gentile, salute, vertute. STILE 4. Spiega perché Amor è scritto con la lettera maiuscola. 5. Individua le similitudini presenti nel sonetto, trascrivile e per ciascuna indica: ambito da cui è tratto il paragone – significato letterale – significato figurato
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 6. Confronta il contenuto delle terzine con le due stanze conclusive della canzone Al cor gentil (➜ T11 ) e spiega se e per quali motivi il sonetto rappresenta un’esemplificazione di quanto sostenuto a livello teorico nella canzone.
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INTERPRETAZIONI CRITICHE
Mario Marti L’immagine della donna nei poeti nuovi P. Canettieri, Laude di Jacopone da Todi, in LIE, Le Opere, I, Einaudi, Torino 1992
Il critico Mario Marti (1914 – 2015), nella sua introduzione a un’importante raccolta poetica da lui stesso curata, prospetta le differenze fondamentali che distinguono la figura della donna nella poesia pre-stilnovistica e in quella stilnovistica.
[...] La donna gentile dei poeti nuovi era davvero altra cosa dalla analoga immagine dei Toscani, dei Siciliani, dei Provenzali [...] poiché, se da una parte la nuova donna gentile – lo si è visto – è identificata in un angelo, in una Intelligenza Motrice che opera beneficamente sul cuore gentile dell’uomo, provocando, in 5 un continuo processo di perfettibilità morale, il passaggio dalla potenza all’atto1 [...]; dall’altra quella stessa immagine femminile viene trasposta da termine di un rapporto ideologicamente feudale e cavalleresco a termine di un rapporto ideologicamente borghese e comunale, storicamente impossibile ai poeti delle generazioni spente2. Insomma, mentre la donna dei poeti tradizionali, fantasti10 camente astratta o concreta, biograficamente identificabile o meno, socialmente più o meno qualificata, viene sempre inserita in un rapporto cortese di carattere feudale e cavalleresco e proiettata in un’altezza tendenzialmente politico-sociale [...], la donna degli stilnovisti è la donna della nuova borghesia comunale (vogliam dire della nuova nobiltà dei ricchi?), rivale su altro piano [...] delle reine 15 Ginevre e delle madonne Isotte3, sul piano cioè di una elezione letteraria che ha profonde e schiette motivazioni etiche; e viene inserita invece in un rapporto socialmente democratico, ma ugualmente proiettata verso altezze sublimi solo in grazia della funzione eticamente eudemonistica che il poeta le attribuisce4 e le riconosce [...]. 20 Beatrice, Giovanna, Mandetta, Selvaggia5 sono donne di una nuova realtà storicosociale, non espressioni di “cortesia”, perché a loro mancherebbe proprio la “corte” (e ripensiamo alle regine, alle contesse, alle duchesse ecc.); vivono e operano nelle loro città, sono visibili alle finestre delle loro case; passeggiano nelle strade, incontrano i loro poeti, li salutano, e muoiono infine suscitando pianto e 25 cordoglio nel cuore dei loro innamorati. Eppure queste democratiche e comunali vicende assumono, per via delle idee-forza sopra indicate, valori emblematici e paradigmatici di poesia e di civiltà, anche perché sono pronte a caricarsi di un simbolismo fresco ed ingenuo, percepibile subito, a occhio nudo, che ci riporta ad una sovra-realtà di carattere metafisico.
1 il passaggio... all’atto: la terminologia filosofica aristotelica allude alla canzone di Guinizzelli Al cor gentil, in particolare alla quinta stanza, nella quale il poeta bolognese assimila la donna alle intelligenze angeliche preposte, secondo la cosmologia medievale, al movimento dei cieli (da qui il termine usato di «Intelligenza Motrice»).
2 spente: passate. 3 reine Ginevre... madonne Isotte: riferimento a due personaggi di romanzi cavallereschi, cioè Ginevra, moglie di re Artù, amata da Lancillotto e Isotta, amata da Tristano. 4 in grazia... le attribuisce: grazie alla funzione, che il poeta le attribuisce, di strumento capace di dare la felicità (all’uomo).
5 Beatrice... Selvaggia: Marti nomina qui le donne cantate dai poeti stilnovisti: dalla Beatrice dantesca a Giovanna e Mandetta, cui fa riferimento Cavalcanti, a Selvaggia, la donna amata da Cino da Pistoia.
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Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione
1. Riassumi per punti in sequenza le osservazioni di Marti. 2. Sai spiegare perché il critico usa il plurale parlando della regina Ginevra e di madonna Isotta? 3. Scrivi una definizione dell’espressione «Intelligenza Motrice». 4. Cerca sul dizionario il significato dell’aggettivo eudemonistico e poi spiegalo con parole tue (puoi prendere spunto dalla nota 4 per cogliere il senso dell’espressione usata da Marti «funzione eticamente eudemonistica» in relazione al suo contesto).
3 «Per altezza d’ingegno»: Guido Cavalcanti Una vita all’insegna della passione filosofica, poetica, politica Guido Cavalcanti (1259 ca.-1300), fiorentino, appartenente a una ricca famiglia di recente nobiltà, è ritratto dai contemporanei come uomo dotato di grande intelligenza, dal carattere sdegnoso e aristocratico, dedito alla poesia ma al contempo «ottimo loico [logico, ragionatore] e buon filosofo» (Boccaccio). Fu legato per alcuni anni da amicizia con Dante, che a lui fu accomunato per l’«altezza d’ingegno» e che nella Vita nuova lo definisce «primo de li miei amici». La separazione tra i due fu probabilmente dovuta a differenti interessi culturali, cui alludono in modo alquanto enigmatico alcuni celebri versi della Commedia (If X). Come dimostra la sua opera, Cavalcanti fu vicino alle tesi dell’aristotelismo radicale, l’averroismo (➜ PER APPROFONDIRE, L’averroismo, PAG. 271), diffuso soprattutto negli ambienti universitari bolognesi da lui frequentati. Schierato, come l’amico Dante, tra i guelfi di parte bianca, nel 1284 Cavalcanti fece parte del Consiglio generale del comune di Firenze. Partecipò in prima persona alle lotte tra Bianchi e Neri. In seguito all’intensificarsi di episodi di violenza, il 24 giugno del 1300 fu esiliato, insieme ad altri capi delle due fazioni, per decisione dei Priori (tra di essi vi era anche Dante). A Sarzana, dove si trovava in esilio, contrasse la malaria. Rientrato a Firenze, vi morì in quello stesso anno. L’opera poetica Cavalcanti ha lasciato un canzoniere di circa cinquanta testi (sonetti, ballate, canzoni), non tutti di sicura attribuzione. Nella sua attività poetica prende sicuramente spunto dalla lezione di Guinizzelli; mentre però quest’ultimo è aperto a diverse suggestioni (dai siciliani ai provenzali, a Guittone), la poesia di Cavalcanti si mostra omogenea nei modi e nei temi, marcatamente personale nelle immagini scelte e globalmente innovativa. È perciò forse più giusto, come oggi si tende a fare, considerare Cavalcanti anziché Guinizzelli il vero maestro della nuova poesia. La concezione cavalcantiana dell’amore Proprio per suggestione del tardo averroismo, Cavalcanti concepisce l’amore non come strumento di elevazione spirituale ma, al contrario, come una passione irrazionale e incontrollabile che si origina nella parte sensitiva, il cuore (nelle sue poesie il «core» è contrapposto all’anima, centro delle funzioni vitali, ma soprattutto alla mente, facoltà intellettuale che osserva e analizza). Per Cavalcanti l’amore è sostanzialmente “malattia” (➜ PER APPROFONDIRE, La concezione medievale dell’amore come malattia, PAG. 272): di conseguenza la donna, nella sua poesia, non esercita, come per Guinizzelli e soprattutto
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Dante, il ruolo salvifico di mediatrice verso il bene e Dio; l’apparizione della donna provoca nel poeta un paralizzante smarrimento: la sua sublime bellezza non può essere interpretata con il filtro della ragione né essere pienamente rappresentata con le parole. Questa impotenza a capire e a dire insieme origina l’angoscia che domina nei testi cavalcantiani. È sicuramente fuori luogo vedere nella poesia di Guido (come spesso in passato si è fatto sulla scia di un pregiudizio romantico) la spontanea confessione di un’infelice passione amorosa; in realtà, al poeta interessa esplorare, in modo lucido e distaccato, la passione amorosa e gli effetti psicologici e fisiologici che produce su di lui; egli conduce quest’analisi attraverso i metodi e la terminologia della medicina araba ormai noti in Italia.
PER APPROFONDIRE
L’immaginario poetico cavalcantiano Protagonista della poesia di Cavalcanti, più che la donna, è dunque l’interiorità del poeta, esplorata attraverso una profonda autoanalisi che ha effetti destabilizzanti. Domina nella sua poesia un clima drammatico, reso stilisticamente da frequentissime personificazioni, interrogazioni, apostrofi, esclamazioni. Si ripetono inoltre vere e proprie “scene” (la critica ha parlato di “teatralizzazione”) che alludono alla vittoria della distruttiva passione amorosa su un io debole e franto; nel tessuto linguistico ricorrono ossessivamente espressioni che alludono a paura, dolore, distruzione, morte. Maria Corti ha sottolineato la particolare iteratività delle scelte lessicali del poeta fiorentino. (➜INTERPRETAZIONI CRITICHE, PAG. 275)
L’averroismo Il termine averroismo indica il pensiero filosofico e scientifico del filosofo di origine araba Averroè (Ibn Rušd, 1126-1198) – autore di un importante Commento ai testi aristotelici – e di quanti ne seguirono l’insegnamento: in particolare la scuola filosofica fiorita attorno al 1270 nello Studium di Parigi, che ebbe i suoi maggiori esponenti in Sigieri di Brabante e nel suo discepolo Boezio di Dacia. L’insegnamento averroista si basa su una interpretazione di Aristotele diversa da quella sostenuta dalla Chiesa (e concordante con gli insegnamenti della Scrittura) e che per questo motivo sarà condannata come dottrina eretica dall’arcivescovo di Parigi, Stefano Tempier, nel 1277. L’interpretazione fornita da Averroè della filosofia aristotelica metteva in discussione alcuni dogmi della dottrina cristiana: anzitutto, affermando la necessità ed eternità della materia e del mondo, metteva in dubbio il concetto di creazione divina dell’universo; in secondo luogo, indicando nella ragione l’unico strumento valido per acquisire delle conoscenze scientifiche, apriva un pericoloso campo di autonomia per la ricerca umana rispetto alle verità ritenute tali per fede. Fu, però, soprattutto il cosiddetto “monopsichismo” (gr. mònos, “solo” e psyché, “anima”) a essere maggiormente attaccato dalle autorità religiose: l’averroismo sosteneva l’esistenza di una sola anima sovraindividuale, della quale le singole anime sarebbero manifestazioni imperfette. Solo la prima esisteva eternamente, mentre l’anima degli uomini era da considerarsi mortale, con i problemi che derivavano per la giustificazione del sistema di premi e punizioni prospettato dalla dottrina cristiana. A titolo di esempio, ecco alcune delle tesi condannate nel 1277 dall’autorità ecclesiastica.
Aristotele e Averroè (miniatura di Girolamo da Cremona, 1483, The Morgan Library and Museum, New York).
Tesi 18: La resurrezione futura non deve essere ammessa dal filosofo, perché è impossibile esaminare razionalmente il problema. Tesi 40: Non vi è stato migliore di quello del filosofo. Tesi 144: Quanto di buono è possibile all’uomo risiede nelle virtù intellettuali. Tesi 154: Soltanto i filosofi sono i saggi di questo mondo. Tesi 175: La legge cristiana è di ostacolo alla conoscenza. Tesi 211: Il nostro intelletto può, per sua natura, giungere alla conoscenza della causa prima. Per un primo orientamento: G. Vasoli, La filosofia medievale, Feltrinelli, Milano 1982.
Il dolce stilnovo 3 271
Gli spiritelli Tipico della poesia cavalcantiana è il contrasto fra entità psichiche personalizzate (gli spiritelli) in cui viene in un certo senso “sceneggiata” la drammatica condizione della frantumazione dell’io in seguito alla vittoria delle pulsioni irrazionali e sensuali sulla ragione, che in altri poeti presiede all’idealizzazione della figura femminile. Modernità di Cavalcanti Nonostante la difficoltà di lettura dei suoi testi poetici, legata anche ai codici rappresentativi di un tempo ormai lontanissimo da noi, la poesia di Cavalcanti presenta indubbi elementi di suggestione anche per noi moderni: l’amore cavalcantiano rappresenta infatti il manifestarsi dei fantasmi interiori, l’emergere di forze oscure e irrazionali che provengono dagli abissi dell’io, da quello che dopo Freud sarà chiamato “inconscio”. Amore sta per scoccare la sua freccia (miniatura, secolo XIV).
Fissare i concetti Il dolce stilnovo
PER APPROFONDIRE
1. Che cosa si indica con il termine “stilnovo”? 2. Chi è l’iniziatore del nuovo stile? 3. Quali caratteristiche formali e contenutistiche presenta lo stilnovo? 4. Chi sono gli esponenti dello stilnovo? 5. Qual è la concezione dell’amore di Guido Cavalcanti?
La concezione medievale dell’amore come malattia Nella cultura medievale era assai diffusa la concezione che considerava la passione amorosa una vera e propria malattia. È una visione che sconcerta non poco noi moderni e che aveva le sue radici in fonti classiche: letterarie (Lucrezio, il grande poeta latino del I sec. a.C., nel De rerum natura dedica ampio spazio a un’analisi molto negativa dell’innamoramento); filosofiche (Aristotele); ma soprattutto mediche (da Ippocrate a Galeno, alla medicina araba). Le scuole mediche di Salerno, Montpellier e Bologna arrivarono a definire stabilmente cause, sintomatologia e possibili rimedi della malattia d’amore: la malattia d’amore è fatta derivare da un continuo pensare all’oggetto amato, la cui immagine, percepita come piacevole dai sensi, e soprattutto dalla vista, rimane così saldamente impressa nell’organo dell’immaginazione da diventare un’idea ossessiva che ottenebra la ragione; il che provoca gravi conseguenze per l’intero organismo.
La malattia d’amore come topos letterario Le cognizioni mediche e filosofiche sull’amore sono riprese in modo quasi stereotipato dalla letteratura medievale e la malattia d’amore diviene un vero e proprio topos: nel Roman de Tristan in prosa, ad esempio, Tristano impazzisce in seguito alla forzata separazione da Isotta. Le convenzioni della malattia d’amore passano ai poeti provenzali e poi alla lirica italiana del Duecento (da Cavalcanti a Dante), pervasa da continui riferimenti ai sospiri, al pallore, al tremore, agli svenimenti e così via. Anche nel Decameron trova posto questo topos. La novella del Decameron che meglio esprime la malattia d’amore come una forza rovinosa capace di diventare addirittura letale è certamente quella che ha per protagonista la giovane Lisabetta da Messina (IV, 5), forse la più celebre vittima letteraria della malattia amorosa: in lei la privazione dell’oggetto del desiderio assume i caratteri autodistruttivi di una vera e propria “psicosi delirante”, come la definirebbe la moderna scienza psichiatrica. Saggio di riferimento: M. Ciavolella, La “malattia d’amore” dall’antichità al Medioevo, Bulzoni, Roma 1976.
272 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
Guido Cavalcanti
T13 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
AUDIOLETTURA ANALISI INTERATTIVA
LEGGERE LE EMOZIONI
Voi che per li occhi mi passaste ’l core
È questo uno dei più noti ed esemplificativi fra i trentasette sonetti composti da Cavalcanti. In esso il poeta si rivolge alla donna (Voi che…) e la invita a contemplare l’effetto distruttivo provocato dall’amore nel poeta (guardate a l’angosciosa vita mia): tutte le sue facoltà vitali sono annientate, tranne l’uso della parola, che però può essere impiegata solo per esprimere dolore.
Voi che per li occhi mi passaste ’l core1 e destaste la mente che dormia2, guardate a l’angosciosa vita mia, 4
che sospirando la distrugge Amore3.
E’ vèn tagliando di sì gran valore4, che’ deboletti spiriti5 van via: riman figura sol en segnoria 8
e voce alquanta, che parla dolore6.
Questa vertù d’amor che m’ha disfatto da’ vostr’occhi gentil’ presta7 si mosse: 11
un dardo mi gittò dentro dal fianco.
Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto8, che l’anima tremando si riscosse9 14
veggendo morto ’l cor nel lato manco10.
La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDE CDE. 1 Voi… core: «Voi che, servendovi degli sguardi, mi trafiggeste il cuore» (Contini). L’interlocutore è la donna amata.
2 destaste… dormia: risvegliaste la mente assopita. 3 che… Amore: che Amore distrugge (la è pleonastico) a forza di sospiri (sospirando è riferito a vita). 4 E’ vèn... valore: egli [l’Amore] va colpen-
do di taglio con tale forza (di sì gran valore). 5 deboletti spiriti: gli spiriti sono una presenza costante nella poesia cavalcantiana e derivano dalla filosofia naturale del tempo: indicano le facoltà sensoriali (la vista, il tatto...) e psichiche. La dispersione, la fuga degli spiriti (deboletti... van via) indica un indebolimento dell’energia vitale. 6 riman… dolore: restano in potere dell’Amore (en segnoria) solo l’aspetto esterno e la voce che esprime dolore (uso transitivo di parlare). 7 presta: veloce (latinismo). 8 Sì giunse… tratto: giunse (sogg. ’l colpo) così preciso (ritto, con una traiettoria diretta) al primo lancio (tratto). 9 si riscosse: si risvegliò. 10 lato manco: fianco sinistro.
Analisi del testo L’analisi “scientifica” degli effetti distruttivi dell’amore Ciò che il lettore percepisce immediatamente è il fatto che l’esperienza d’amore per Cavalcanti è angosciosa e distruttiva: da qui la frequenza, nel sonetto, di termini “negativi” associati all’amore: angosciosa vita mia, distrugge (vv. 3-4), dolore (v. 8), disfatto (v. 9), morto (v. 14) e di un lessico che rimanda alla battaglia (tagliando... dardo... colpo). Ogni strofa è aperta da un’immagine che allude al “colpire”, al “ferire”. Questa drammatica condizione non è però trasmessa al lettore attraverso il filtro della soggettività, dell’emotività. A Cavalcanti interessa costruire una rappresentazione analitica, oggettiva, quasi scientifica, di ciò che accade dentro di lui in rapporto all’esperienza d’amore. In questa, come in altre sue poesie, non sono in primo piano né l’io lirico né la donna, ma l’analisi lucida degli “effetti d’amore”. Assistiamo in questa e in altre poesie cavalcantiane a una sorta di “dissezione anatomica” che interessa il corpo e lo spirito, in una prospettiva strettamente organicistica che deriva certamente dall’adesione di Cavalcanti all’averroismo.
Core-anima-mente: una terminologia “tecnica” per una scena teatrale Il lettore moderno legge istintivamente la parola core come sede dei sentimenti o anche come sinonimo di animo, mentre Guido Cavalcanti, in rapporto alle proprie conoscenze filosofiche, usa questo termine in modo tecnico, con una precisa accezione così come, del resto, i termini anima e mente, a cui corrispondono entità ben distinte: la mente è la sede del pensiero, l’atti-
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vità razionale che contempla e analizza (ma non riesce a comprendere); il core è il luogo della sensibilità cui afferiscono gli spiriti vitali; l’anima è il centro unificatore delle funzioni vitali e ha comunque a che fare con l’ambito sensibile, con il piano fisiologico. Il riferimento a queste tre entità è costante: «in Guido la mente, l’anima e il cuore si spartiscono i ruoli sul palcoscenico poetico della vicenda amorosa» (M. Corti). Nell’animazione teatrale degli stati d’animo si manifesta il bisogno di Cavalcanti di oggettivare la trattazione del tema amoroso, ma si esprime al tempo stesso anche il tema della dissociazione prodotta dall’amore all’interno del soggetto.
Guido e gli “spiriti” Nella poesia di Guido Cavalcanti è molto frequente la presenza degli spiriti o spiritelli (il termine ricorre più di 40 volte nel corpus). Cavalcanti rielabora e utilizza in modo del tutto personale un concetto che ha la sua radice nella medicina araba, e in particolare nel pensiero del medico e filosofo musulmano Avicenna (980-1037): gli spiriti si formano nel cuore, sono composti di materia sottile e presiedono alle funzioni vitali dell’organismo attraverso i nervi, le vene e le arterie. Cavalcanti va però oltre il piano fisiologico, per fare degli spiriti delle entità vive, funzionali alla sua drammatica e pessimistica visione: gli spiritelli agiscono su una specie di “scena” – che corrisponde all’io turbato del poeta – in cui avvengono continuamente battaglie, scontri, messe in fuga di queste entità da parte del nemico, identificato nella distruttiva passione amorosa. La presenza degli spiriti tornerà nella prima parte della Vita nuova di Dante, in cui più marcata è l’influenza di Cavalcanti, in particolare in rapporto alla descrizione degli effetti sconvolgenti prodotti nel poeta dalla prima comparsa di Beatrice (II, 4-7).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo. ANALISI 2. La struttura del componimento prevede una progressione nelle due terzine oppure si può definire circolare? Motiva la tua risposta. 3. Osserva la scelta delle parole collocate in rima, in particolare: core : Amore : dolore e vita mia : en signoria. Quale significato si può attribuire a questi gruppi? LESSICO 4. Rintraccia nel testo i termini e le immagini che appartengono al campo semantico della guerra (riprendendo il tópos dell’“amore come guerra”) suddividendoli in sostantivi, aggettivi, verbi.
Interpretare
SCRITTURA DOCUMENTATA 5. Sulla base dei ➜ T12 - T13 sviluppa il tema della seduzione dello sguardo in amore (max 15-20 righe). Gli spunti di partenza forniti sono: una celeberrima tela (dipinta in un secolo lontano dal tempo in esame) D1 e la riflessione di un noto psicoanalista contemporaneo riferita al ➜ D1 .
D1 Jan Vermeer, La ragazza con l’orecchino di perla o col turbante (1660-65, L’Aja, Museo Mauritshuis). «L’occhio è uno specchio sul quale resta impressa l’immagine dell’amata, e dal quale
D2 essa giunge al “core”, e si imprime nell’anima. La percezione visiva dell’amata non
è sufficiente perché l’attrazione estetica diventi attrazione erotica. È necessaria una visione interna, interiorizzata, della donna e ciò può avvenire solo lasciando decantare l’immagine reale grazie all’assenza, alla lontananza nel tempo e nello spazio. […] L’immagine della donna amata perde così le sue reali connotazioni e si trasfigura in un’immagine psichica, contemplata non attraverso i sensi esterni ma attraverso un occhio interiore, l’occhio del poeta. Ciò che questa vista interna decifra e rivela sono le operazioni psicologiche più sottili, più segrete e più complesse dell’esperienza della seduzione amorosa, che, tradotte in parola, danno vita ad una tra le più alte pagine della letteratura occidentale». A. Carotenuto, Riti e miti della seduzione, Bompiani, Milano 1994 LEGGERE LE EMOZIONI
6. Attingendo a tue esperienze e convinzioni, spiega se e per quali motivi la concezione cavalcantiana dell’amore presenta aspetti di modernità.
274 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Maria Corti L’iteratività come “cifra” della poesia cavalcantiana M. Corti, L’iteratività come “cifra” della poesia cavalcantiana, prefaz. a G. Cavalcanti, Rime, a c. di M. Ciccuto, Rizzoli, Milano 1987
Nel saggio introduttivo alle Rime di Cavalcanti, Maria Corti sottolinea il carattere sostanzialmente statico della “scena” poetica cavalcantiana, che riproduce, secondo diverse angolazioni, una stessa tematica che al poeta sta a cuore indagare: l’effetto sconvolgente e addirittura distruttivo dell’amore. Da qui la presenza di situazioni ripetute e di segnali linguistici che alludono costantemente al dolore, alla distruzione, alla morte.
[Al] livello della animazione teatrale degli stati d’animo, la situazione ripetitiva si costruisce su alcuni precisi motivi: la battaglia, la sconfitta, la morte. Ciascuno di tali motivi è un centro focale, da cui parte il processo di espansione stilistica e di iteratività1; ciascuno di essi ha il suo corteggio2 di aggettivi e di sintagmi che rimbalzano da un testo all’altro: pochi, dunque, e ripetuti (dolente, pauroso, angoscioso, tristo, sbigottito, dispietato, disfatto, distrutto, dispento, morto): (la mente) piena di dolor, (l’anima) piena di sospir, (il cuore) pieno d’angoscia, (novelle) piene di doglia e di molta paura; e ancora nato di pianto, bagnato di pianto, adornato di pianto, ecc. [...] L’iteratività è elemento strutturale non soltanto a livello di intertestualità, cioè come struttura di riferimento, ma come repetitio [ripetizione] di un vocabolo a rendere all’interno di un solo testo l’immagine della progressiva e fatale sconfitta: XXXIV, I
5
La forte e nova mia disaventura m’ha desfatto nel core ogni dolce penser, ch’i’ avea, d’amore. Disfatta m’ha già tanto de la vita, che la gentil, piacevol donna mia dall’anima destrutta s’è partita, sì ch’i’ non veggio là dov’ella sia.
Disaventura, desfatto, disfatta, destrutta: qualcosa che è climax3, ma anche sinonimia amplificante e ancor più […] drammatizzazione di una stessa idea attraverso la ripetizione; e si aggiunga, nel caso, l’alternanza prefissale dis-/des- a incremento connotativo4. […] Si assiste a un continuo processo di ridistribuzione degli elementi di pochissimi campi semantici, a una ristrutturazione del materiale tematico e lessicale prestilnovistico e stilnovistico, notevolmente ridotto, ma utilizzato attraverso una nuova elaborazione concettuale: l’irreparabile contrasto fra la figura ideale della donna, che prende vita nella mente, e l’amore sensibile, cioè l’apporto passionale dell’anima sensitiva, del cuore e degli spiriti vitali all’interiore vicenda amorosa; tale contrasto e scontro è liricamente sublimato in una continua riscrittura, raffinatissimo gioco combinatorio di unità semantiche, di volta in volta sinonimi o antonimi, che lentamente creano nel lettore l’appropriato orizzonte d’attesa, donde lo straordinario fascino di questa altissima poesia. 1 iteratività: ripetizione. 2 corteggio: gruppo di elementi intorno a qualche cosa. 3 climax: vedi "climax" in glossario. 4 connotativo: vedi “connotazione” in glossario.
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Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Produzione
Collabora all’analisi
T14 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
1. Che cosa intende la Corti con l’espressione «animazione teatrale degli stati d’animo»? 2. Secondo la Corti, la poesia cavalcantiana è fondata sull’«iteratività» e sulla «ristrutturazione del materiale tematico e lessicale prestilnovistico e stilnovistico», che Cavalcanti riduce notevolmente. Prova a spiegare i due concetti. 3. Nell’ultima parte del passo si parla di un «irreparabile contrasto»: che cosa riguarda? 4. Cerca il significato del termine antonimo (contrapposto a sinonimo) e spiegalo con parole tue. 5. Alla fine del passo si parla di un «orizzonte d’attesa» creato nel lettore da Cavalcanti. Sai spiegare questo concetto? Come Cavalcanti crea un «appropriato orizzonte d’attesa»?
Guido Cavalcanti
Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira È, questo, uno dei più celebri sonetti cavalcantiani. Incentrato sulla lode della donna, il sonetto guarda espressamente al modello guinizzelliano; ma si avverte un clima poetico diverso, prettamente cavalcantiano: la lode sfocia nell’ammissione dell’ineffabilità, il tentativo di conoscere razionalmente l’essenza della bellezza femminile (e, alla fine, dell’Amore) naufraga di fronte a un’apparizione soprannaturale, più che terrena. Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira1, che fa tremar di chiaritate l’âre2 e mena seco3 Amor, sì che parlare 4
null’omo pote, ma ciascun sospira?
O Deo, che sembra quando li occhi gira, dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare4: cotanto d’umiltà donna mi pare, 8
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira5.
Non si poria contar la sua piagenza, ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute, 11
e la beltate per sua dea la mostra6.
Non fu sì alta già la mente nostra e non si pose ’n noi tanta salute, 14
che propiamente n’aviàn canoscenza7.
La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE EDC. 1 Chi è… la mira: il sonetto si apre con una domanda, che si conclude al quarto verso. Si tratta in realtà di una domandaesclamazione di fronte alla straordinaria apparizione della donna, che attira su di sé gli sguardi ammirati di tutti. L’incipit del sonetto riecheggia passi biblici (in particolare «Chi è costei che avanza…» dal Cantico dei Cantici 6, 9) e traspone su un piano laico espressioni proprie del culto mariano.
2 che fa… l’âre: che trasmette un fremito
6 Non si poria… la mostra: non sarebbe
di luce all’aria, che fa palpitare di luminosità l’aria. Il tema della luce che la donna emana è probabilmente memore della cosiddetta “metafisica della luce”, elaborata dai francescani e dal filosofo domenicano Alberto Magno. 3 mena seco: conduce con sé. 4 dical’… contare: lo dica Amore in persona, perché io non lo saprei esprimere. 5 cotanto… ira: mi sembra una donna dotata di tanta umiltà che ogni altra, a paragone con lei, la chiamerei ira (ovvero “superba”, “sdegnosa”).
possibile descrivere la sua bellezza, perché davanti a lei si inchina ogni nobile virtù e la bellezza (personificazione) la indica come sua dea. 7 Non fu… canoscenza: la nostra capacità di conoscere (mente) non fu così elevata e non è stata posta in noi tanta perfezione (salute) che possiamo adeguatamente conoscere (un essere così perfetto).
276 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
Collabora all’analisi Comprendere e analizzare
Il sonetto si apre con una domanda relativa alla figura femminile, la cui folgorante apparizione domina l’intera composizione. 1. Il poeta si interroga sull’identità di una figura sconosciuta oppure il senso della sua domanda è un altro? È data, in seguito, risposta alla domanda? 2. Fai la parafrasi della prima quartina. La seconda quartina contiene la prima di tre dichiarazioni in successione che fanno riferimento all’inadeguatezza del poeta a rappresentare la donna, dichiarazioni sottolineate dalla ripetizione di formule negative. 3. Individua e trascrivi le tre formule negative presenti nel testo. 4. A che cosa si riferiscono le dichiarazioni di inadeguatezza del poeta e da che cosa è motivata la sua impotenza? La situazione rappresentata dal sonetto richiama esplicitamente il testo guinizzelliano Io voglio del ver la mia donna laudare (➜ T12 ) con il quale, probabilmente, Cavalcanti intende entrare in competizione: l’avanzare della donna tra gli sguardi stupefatti, la sua bellezza e gentilezza riprendono temi e anche singole espressioni del testo di Guinizzelli. 5. Individua nel sonetto le analogie tematiche e i termini che ricorrono anche nel testo guinizzelliano: hanno la stessa accezione? Con forte scarto rispetto alla lode di Guinizzelli, Cavalcanti rinuncia completamente ai parallelismi tra la bellezza della donna e gli elementi della natura e, qui come in altre composizioni, colloca la figura femminile in un orizzonte astratto: l’uomo può solo contemplare, in uno stato di sostanziale passività, quasi di estasi, il manifestarsi sconvolgente di un’apparizione sovrumana. 6. Può avere un significato l’assenza di ogni similitudine nel sonetto cavalcantiano? 7. La lirica è dominata dall’allusione al silenzio attonito di fronte all’apparizione della donna: in quali punti del testo vi si fa riferimento? Quale significato si può attribuire a questo silenzio? 8. Quali effetti produce l’apparizione della donna? Riguardano solo il poeta o un’intera collettività? Il sonetto cavalcantiano esemplifica in modo chiaro le più generali scelte stilistiche degli stilnovisti: la sintassi piana, con una tendenza alla ripetizione dei costrutti, e l’elegante medietà del lessico. Il risultato di questo insieme di scelte è una composizione armonica che si contrappone nettamente al trobar clus di Guittone. 9. La struttura sintattica del testo poggia sulla ricorrenza di una stessa proposizione subordinata, cosa che crea un effetto armonico: di quale proposizione si tratta? Individuane e trascrivine le occorrenze nel testo.
Interpretare
10. In un breve testo (15 righe circa) fai un confronto tra il sonetto di Guinizzelli Io voglio del ver e questo sonetto cavalcantiano, mettendo in luce le analogie, ascrivibili a un comune contesto, e le differenze.
Il dolce stilnovo 3 277
VERSO IL NOVECENTO
Epifanie femminili novecentesche: due esempi
Ezra Pound Apparuit E. Pound, Ripostes (1912), in Le poesie scelte, con un saggio di T.S. Eliot, trad. di A. Rizzardi, Mondadori, Milano 1960
Nel 1912 il poeta americano Ezra Pound (1885-1972) pubblicò una sua traduzione delle poesie di Guido Cavalcanti premettendovi un’ampia introduzione che, come sempre negli interventi critici di Pound, chiamava anche in causa la natura della poesia, la sua capacità di suscitare emozioni. Nella sua opera di traduttore egli cercò, per sua esplicita dichiarazione, di riprodurre il potere magico della parola, il valore esoterico della poesia, ponendosi in intima sintonia con i ritmi poetici propri della lirica cavalcantiana. Il testo lirico qui proposto è un indubbio frutto dell’appassionata frequentazione della poesia stilnovistica da parte di Pound. Forse, in particolare, vi si può vedere un’eco del celebre sonetto cavalcantiano Chi è questa che vèn (➜ T14 ). Nella lirica di Pound domina infatti la stessa stupefatta ammirazione dell’io lirico di fronte all’epifania (il titolo latino Apparuit significa appunto “apparve”) della donna, immagine abbagliante di luce, creatura a metà tra la terra e il cielo. La messaggera dell’“oltre” dilegua rapidamente e rimane la frustrazione della poesia che per un attimo l’ha percepita, ma che non può realmente possederla: un tema, quello dell’impotenza della parola a “dire” la sublime bellezza della donna, assai diffuso nello stilnovismo, soprattutto cavalcantiano e dantesco. Riproduciamo la seconda parte della poesia. Svelta al coraggio tu nella conchiglia d’oro, disciolta la forma del corpo, venivi risplendette allora il tuo verone e la meravigliosa luce impallidiva intorno a te1.
Metà dell’omero inciso2, la gola un bagliore di fili di luce che l’avvolgevano, vaghissima3 più d’ogni altra cosa, lieve alabastro, ahimè! rapida nell’allontanarsi. 5
Vestita di trame dorate, delicata e perfetta,
fuggita come un vento! La tela delle magiche mani!4 Tu5 cosa da nulla, tu nell’eccesso dell’artificio hai osato fingerti questo? 10
1 Svelta... intorno a te: la figura della donna (la cui identità rimane del tutto indeterminata) è connotata, come nelle poesie stilnoviste, dalla luce abbagliante che emana e che si trasfonde al balcone (verone). La conchiglia d’oro, associata alla donna, è probabilmente memore della Nascita di Venere di Botticelli. 2 Metà... inciso: immagine ermetica, di difficile decifrazione: allude forse ai capelli che ombreggia-
278 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
no per metà il collo e la spalla della donna (ancora come nella Venere di Botticelli). 3 vaghissima: bellissima. 4 La tela... mani!: allusione agli effetti miracolosi prodotti (come nello stilnovo) dalla donna. 5 Tu: Pound si riferisce probabilmente a sé stesso e, per estensione, a ogni altro poeta che ha preteso di rappresentare (fingerti) lo straordinario prodigio dell’apparizione della donna.
Arturo Onofri Dea in forma di donna A. Onofri, Terrestrità del sole, Edizioni La Finestra, Trento 1998
Ancora più evidente è il riferimento al testo cavalcantiano (in particolare nell’incipit, qui riprodotto) in questa lirica (1927) di un poeta primo-novecentesco, Arturo Onofri (1885-1928), collaboratore della rivista La Voce. All’apparizione della figura femminile sono conferiti, in questa poesia, tratti più espressamente religiosi e salvifici, che ne fanno una figura capace di attivare intorno a sé prodigiose metamorfosi. Chi è questa improvvisa dea che appare?1 Occhi diafani stellano di luna2 sotto il manto ondeggiante delle chiome. Da quella bocca, che sui denti abonda
nelle labbra imbronciate come un fiore, la voce non la intende altri che il mare3. Perché venne fra noi come una donna?4 [...] 5
1 Chi è... appare?: chi è questa dea che appare all’improvviso? 2 Occhi... di luna: immagine analogica: i suoi occhi chiari emanano una luce simile al chiarore lunare.
3 Da quella bocca... il mare: solo il mare può comprendere le parole che escono da quella bocca, le cui labbra imbronciate sembrano un fiore.
4 Perché... una donna?: il poeta si chiede perché l’essere soprannaturale ha assunto le sembianze di una donna terrena.
Guido Cavalcanti
T15 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Perch’i’ no spero di tornar giammai La ballata (➜ C2 PAG. 161) è certamente uno dei testi più conosciuti di Guido Cavalcanti. Questa notorietà si deve anche alla tradizionale interpretazione (oggi messa in discussione) che faceva del testo un doloroso messaggio alla donna amata composto quando Guido si trovava esiliato a Sarzana e gravemente malato. In realtà non esistono elementi per ascrivere la composizione a un preciso momento biografico. Più probabile è la radice letteraria del testo: la ballata ripropone il topos, comune nella poesia cortese, della “lontananza” associata all’amore. Nella ballata il poeta si rivolge alla sua stessa composizione attraverso un’espressione vezzeggiativa (ballatetta), invitandola a raggiungere la donna amata. Perch’i’ no spero di tornar giammai1, ballatetta, in Toscana, va’ tu, leggera e piana2, dritt’ a la donna mia,
che per sua cortesia3 ti farà molto onore. 5
Tu porterai novelle4 di sospiri piene di dogli’5 e di molta paura; ma guarda che persona non ti miri6 La metrica Ballata con schema ABAB (fron-
1 Perch’i’... giammai: dato che non spero
te) Bccddx (sirma). Le stanze sono di 10 versi ciascuna (5 endecasillabi e 5 settenari). La ripresa (vv. 1-6) riprende la sirma delle stanze.
di tornare più. 2 leggera e piana: veloce e lieve. 3 per sua cortesia: per la sua gentilezza.
4 novelle: notizie. 5 dogli’: dolore. 6 miri: scorga.
Il dolce stilnovo 3 279
che sia nemica di gentil natura: ché certo per la mia disaventura7 tu saresti contesa8, tanto da lei ripresa9 che mi sarebbe angoscia; 15 dopo la morte, poscia, pianto e novel dolore. 10
Tu senti, ballatetta, che la morte mi stringe sì, che vita m’abbandona; e senti come ’l cor si sbatte forte
per quel che ciascun spirito ragiona10. Tanto è distrutta già la mia persona, ch’i’ non posso soffrire11: se tu mi vuoi servire, mena l’anima teco12 25 (molto di ciò ti preco) quando uscirà del core. 20
Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate13 quest’anima che trema raccomando: menala teco, nella sua pietate14,
a quella bella donna a cu’ ti mando. Deh, ballatetta, dille sospirando, quando le se’presente: «Questa vostra servente vien per istar con voi, 35 partita da colui che fu servo d’Amore». 30
Tu, voce sbigottita e deboletta ch’esci piangendo de lo cor dolente, coll’anima e con questa ballatetta
va’ ragionando della strutta15 mente. Voi troverete una donna piacente16, di sì dolce intelletto che vi sarà diletto starle davanti ognora17. 45 Anim’, e tu l’adora sempre, nel su’ valore18. 40
7 per la mia disaventura: per mia sventura. 8 contesa: osteggiata. 9 ripresa: rimproverata. 10 per quel... ragiona: a causa di ciò di cui parlano tutti gli spiriti (l’imminenza della morte).
11 soffrire: resistere. 12 mena l’anima teco: conduci l’anima con te.
15 strutta: distrutta. 16 piacente: adorna di bellezza. 17 che vi... ognora: che vi darà piacere
13 amistate: amicizia. 14 nella sua pietate: nella sua pietosa
18 Anim’… valore: e tu, anima, adorala
condizione.
sempre per le sue virtù (valore).
280 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
starle sempre (ognora) davanti.
Analisi del testo Il codice cavalcantiano La ballata ripropone la visione pessimistica che caratterizza la poesia cavalcantiana, con il corollario abituale di termini che alludono all’angoscia, al dolore (sospiri, distrutta, piangendo, dolente ecc.). Qui, però, più che all’azione distruttiva e destabilizzante dell’amore-passione, Guido allude alla triste percezione dell’imminenza della morte (comunque si intenda questo riferimento, come reale o come immaginario). Il tono è più malinconico e pacato che drammatico.
Un’immagine femminile rassicurante La composizione inoltre non ruota, come di solito, intorno all’autoanalisi tormentosa del poeta, ma alla presenza della donna, che, contrariamente ad altri testi, è un’immagine rassicurante: la figura femminile non è presentata come sconvolgente apparizione capace di annichilire il poeta e metterne in fuga gli spiriti vitali, ma come immagine dolce e gentile, che saprà accogliere benevolmente la messaggera del poeta, ovvero la sua piccola ballata.
La piccola ballata Quest’ultima è il terzo personaggio della composizione, accanto all’io lirico e alla donna gentile: il poeta le si rivolge affettuosamente attraverso il vezzeggiativo ballatetta e le affida il suo messaggio, che ribadisce l’eterna “servitù d’amore” del poeta. Traspare dal testo, indirettamente, attraverso la personalizzazione della ballata, la fedeltà del poeta alla poesia amorosa nei modi del “dolce stile”, mentre il riferimento al timore che spiriti volgari possano intercettare la sua poesia («guarda che persona non ti miri / che sia nemica di gentil natura») ribadisce l’idea di una destinazione-circolazione limitata a un pubblico elitario e raffinato. Sarà questa “chiusura” programmatica che finirà per dividere Guido dall’amico Dante, proiettato invece verso un’idea di poesia come “missione” che lo condurrà oltre i ristretti confini dei “fedeli d’Amore”.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Completa la tabella sintetizzando il contenuto di ogni strofa e individuando tematiche e parole chiave. Infine, organizza i dati raccolti in un testo chiaro e completo (max 15 righe). sintesi
tema centrale
parola chiave
Ripresa vv. 1.6 I vv. 7-16 II vv. 17-26 III vv. 27-36 IV vv. 37-46 COMPRENSIONE 2. Chi è servente (v. 33)? 3. Quale funzione esercita nel testo la ballata, a cui il poeta si rivolge? LESSICO 4. Individua nel testo i termini e le espressioni che Cavalcanti utilizza per descrivere la ballatetta, a partire dall’uso del diminutivo affettivo. 5. Individua e trascrivi le espressioni che alludono al dolore. Quale visione traspare?
Il dolce stilnovo 3 281
StILe 6. Con quale procedimento stilistico si apre la ballata? 7. Riesci a individuare la sola rima siciliana presente nella ballata? (È nella penultima stanza).
Interpretare
conFronto trA teStI 8. In questo componimento è riproposto il topos della “lontananza” associata all’amore, motivo caro alla poesia cortese, ma affrontato da Cavalcanti con originalità. Argomenta in un breve testo (max 20 righe) e prova a mettere in evidenza le possibili differenze e analogie. Per la tua trattazione, possono esserti utili queste domande. a. La lontananza in Cavalcanti rende l’amore più sognato o reale? b. Come vive il poeta la separazione dall’amata? c. La solitudine provata dal poeta è angosciosamente reale? Perché? d. La dolorosa lontananza dalla donna amata è pretesto per un intimo colloquio del poeta con sé stesso? e. Il poeta intende raccontare un fatto o una dolorosa condizione di vita?
online t16 Guido cavalcanti Deh, spiriti miei, quando mi vedete
EDUCAZIONE CIVICA
EDUCAZIONE CIVICA
Donne sommerse: le rimatrici trecentesche Un attivo cenacolo poetico Fin dai primordi della letteratura italiana la donna è sostanzialmente destinataria silenziosa della parola poetica dell’uomo che la celebra come oggetto del desiderio nei differenti registri della dedizione cavalleresca, dell’elogio del corpo, della lirica che analizza la complessa natura dell’amore. A dispetto di quella che appare come una generalizzata “passività” della donna in questo iniziale ambito letterario, abbiamo, in epoca trecentesca e nello spazio geografico delle Marche, la testimonianza di un’attività letteraria femminile. Si tratta di un cenacolo poetico, tra i primi in epoca medievale, in cui alcune scrittrici affrontano, con netto anticipo sulla querelle des femmes rinascimentale, il tema della condizione di subordinazione al dominio maschile. La scoperta dei filologi Mercedes Arriaga Flórez e Daniele Cerrato, due studiosi rispettivamente dell’Università di Siviglia in Spagna e dell’Università Ateneum Gdansk in Polonia, hanno il merito di avere riscoperto, nel trattato Topica poetica (1580) dell’erudito Andrea Gilio da Fabriano, questa “generazione
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo Costituzione competenza 3
#PROGETTOPARITÀ
cancellata” e di aver pubblicato un corpus di dieci sonetti nel libretto «Tacete, o maschi». Le poetesse marchigiane del ’300 accompagnate dai versi di Antonella Anedda, Mariangela Gualtieri e Franca Mancinelli, a cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini (Argolibri, Ancona 2020). Le poetesse di questo cenacolo propongono nei loro sonetti diversi temi; tra i più interessanti spicca la consapevolezza del femminile che rifiuta di essere considerata mero oggetto del desiderio maschile e si afferma come soggetto capace di autodeterminazione. Uno di questi componimenti viene attribuito a Leonora della Genga, appartenente a una nobile famiglia di Fabriano, vissuta intorno il 1360. Il testo Nel sonetto Tacete, o maschi, a dir, che la Natura, l’autrice si spinge ben oltre una semplice protesta: rivendica pari diritti per uomo e donna, partoriti allo stesso modo dalla natura. (Il testo, nella versione a stampa cinquecentesca è tratto da Topica poetica di M. Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, 1580)
Tacete o maschi a dir, che la Natura In far il maschio solamente intenda, E per formar la femina non prenda, 4 Se non contra sua voglia alcuna cura.
State zitti, o maschi, e non dite che la natura sia intenta solo a creare il maschio e per creare la femmina non usi alcuna attenzione e lo faccia controvoglia.
Qual invidia fatal, qual nube oscura Fà, che la mente vostra non comprenda, Com’ella in farle ogni sua forza spenda, 8 Onde la gloria lor la vostra oscura?
Quale invidia fatale, quale forza oscura impedisce a voi uomini di comprendere che la Natura spende ogni sua forza per creare la donna, tanto che la vostra gloria è oscurata?
282 Duecento e trecento 4 “Ragionard’Amore”
Sanno le donne maneggiar le spade, Sanno regger gli Imperi, e sanno ancora 11 Trovar il camin dritto d’Elicona.
Le donne sanno combattere Sanno governare, e sanno anche poetare1.
In ogni cosa il valor vostro cade Huomini appresso loro, c’huomo non fora 14 Mai per torne di man pregio, ò corona.
Sotto ogni profilo il vostro valore cade uomini, a confronto con le donne. L’uomo non si attiva mai se non per ricavare gloria o potere.
1 È il senso del v. 11 cioè “camminare dritta sul monte residenza delle Muse”.
Comprensione del sonetto L’esordio è potente: «Tacete», state zitti, maschi; si rivolge al sesso (e non al genere) perché l’ambito dal quale la poetessa parte è quello della creazione: presenta la Natura intenta, attenta e desiderosa di realizzare il femminile, contrariamente a quanto affermato dalla sponda opposta. Per sottolineare l’opera utilizza il verbo formare, sottintendendo forse un medesimo materiale di partenza, possibile allusione alla costola di Adamo secondo il racconto biblico. Nella seconda quartina l’autrice lancia una sorta di sfida attraverso delle interrogative retoriche, tese a svelare la meschinità invidiosa e l’incapacità maschile di comprendere quante risorse abbia speso la Madre nel partorire l’essere femminile. La rivendicazione della prima terzina vede Leonora chiamare in causa il genere, perché l’ambito è cambiato, ora è quello sociale: le donne sanno muoversi in campo militare, politico e infine culturale, se addirittura trovano la strada “diritta” (senza troppa difficoltà?) verso il monte residenza delle Muse. Nell’ultima terzina l’uomo non regge il confronto con la donna; segue un verso controverso, che potrebbe essere sciolto così: perché l’uomo non si attiva mai se non per ricavare gloria o potere. L’autrice affermerebbe che l’universo maschile si muove solo per tornaconto personale, al contrario di quello
femminile, per cui il primo esce malconcio dal confronto. Quella di Leonora insomma si configurerebbe come una risposta ironica alla misoginia e alla misconoscenza del genere muliebre, genere ridotto al silenzio e al nascondimento dalla cultura maschile dominante.
Interrogarsi sulla disparità di genere La scelta di Leonora della Genga di interpretare il suo tempo, di affrontare tematiche civili e di confrontarsi con gli uomini la rende interlocutrice valida anche per noi oggi. La sua capacità di interrogarsi, la sua fierezza e la sua fermezza nell’affermare i diritti, almeno sulla carta, ce la rende vicina e ci aiuta a riflettere su temi importanti della nostra epoca, come quello della parità di genere. Tale diritto è inserito nell’Agenda 2030 ed è l’obiettivo n. 5: «non è solo un diritto umano fondamentale, ma la condizione necessaria per un mondo prospero, sostenibile e in pace. Garantire alle donne e alle ragazze parità di accesso all’istruzione, alle cure mediche, a un lavoro dignitoso, così come la rappresentanza nei processi decisionali, politici ed economici, promuoverà economie sostenibili, di cui potranno beneficiare le società e l’umanità intera». Proviamo a confrontarci.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Rileggete con attenzione il testo con l’aiuto dell’insegnante, analizzate le parole chiave (maschio, femina, Natura, donna, huomo, maneggiar le spade, regger gli Imperi, trovar il camin dritto d’Elicona) e cercate di attribuire loro il significato. ANALISI E DISCUSSIONE 2. Partendo dal lavoro precedente, individuate su quale base si fonda la parità tra sessi che la poetessa rivendica e discutetene in classe.
Interpretare
RICERCA DI DOCUMENTAZIONE 3. Ricercate documentazione riguardo i campi della vita quotidiana in cui la disparità di genere è ancora molto pronunciata: politica, economia, cultura, sport (classe divisa in gruppi). CONDIVISIONE 4. Successivamente condividete i dati reperiti.
Il dolce stilnovo 3 283
Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Guido Cavalcanti
L’anima mia vilment’ è sbigotita Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
L’anima mia vilment’ è sbigotita1 de la battaglia ch’e[l]l’ave dal core2: che s’ella sente pur un poco Amore 4 più presso a lui che non sòle, ella more3. Sta come quella che non ha valore, ch’è per temenza da lo cor partita4; e chi vedesse com’ ell’è fuggita 8 diria per certo5: «Questi non ha vita». Per li occhi venne la battaglia in pria6, che ruppe ogni valore immantenente7, 11 sì che del colpo fu strutta8 la mente. Qualunqu’è9 quei che più allegrezza sente, se vedesse li spirti fuggir via, 14 di grande sua pietate10 piangeria. 1 vilment’è sbigotita: ignobilmente sconfitta, vinta. 2 ch’e[l]l’ave dal core: che essa [l’anima] riceve dal cuore. 3 che s’ella… more: poiché, se essa avverte la presenza dell’Amore più vicino a lui [il cuore] di quanto di solito non accada, morirà. L’amore è presentato come un temibile nemico, come spesso nei versi di Cavalcanti.
Comprensione e analisi
Interpretazione
4 Sta… partita: la condizione
6 Per li occhi… in pria: gli occhi
dell’anima è quella di chi non ha più energia, forza vitale (valore), che si è allontanata per viltà dal cuore. 5 diria per certo: direbbe sicuramente. La desinenza del condizionale è siciliana; più sotto anche piangeria.
sono stati la prima sede della battaglia sferrata da amore. 7 immantenente: subito. 8 strutta: distrutta. 9 Qualunqu’è: chiunque. 10 di grande sua pietate: per la grande pietà che proverebbe.
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprende le risposte alle domande proposte. 1. Dopo aver individuato le parole chiave, presenta il contenuto della lirica, mettendone in rilievo il tema fondamentale. 2. Indica lo schema metrico: è lo schema consueto delle rime nel sonetto? 3. Quali sono gli “attori” del dramma cui si fa riferimento nel testo? 4. Anima, core, mente sono usati nell’accezione comune di oggi? Motiva la tua risposta. 5. Li spirti cui fa riferimento il v. 13 sono frequentemente nominati da Cavalcanti: a che cosa si riferiscono? Qual è la loro funzione nella concezione amorosa di Cavalcanti e quale ruolo esercitano nello scenario poetico di questa e altre liriche cavalcantiane? 6. A quale campo semantico appartiene il lessico con cui il poeta esprime la forza distruttiva dell’amore? Metti in luce la concezione dell’amore che il sonetto esprime e fai adeguati collegamenti tematici e stilistici con altri testi.
284 Duecento e Trecento “Ragionard’Amore”
Duecento e Trecento “Ragionar d’amore”
Sintesi con audiolettura
1 La scuola siciliana
Il trapianto della lirica amorosa in Italia L’eredità della poesia trobadorica è alla base della cosiddetta “scuola siciliana” (circa 1230-1250): con il termine si designa la lirica che si sviluppa all’interno della multiculturale Magna Curia, la corte di Federico II di Svevia (in Sicilia e altri centri del Meridione). La sua fioritura si inscrive in un progetto culturale più ampio, volto a creare una cultura laica, aperta e avanzata. I poeti siciliani (tra di essi Jacopo da Lentini, considerato l’inventore del sonetto, Pier della Vigna e Guido delle Colonne) sono funzionari di corte e per lo più uomini di legge. La poesia è da essi concepita come oggetto raffinato di lettura che favorisca un’evasione intellettuale, destinata a un pubblico circoscritto; la lingua usata è il volgare siciliano illustre – ricco cioè di provenzalismi, francesismi e latinismi – e il tema è esclusivamente l’amore cortese, che i siciliani sottopongono a un’ulteriore astrazione e stilizzazione, così come accade alla figura femminile, fortemente idealizzata. Le liriche ci sono giunte grazie a copisti toscani coevi, che tuttavia ne “toscanizzano” foneticamente il testo (e dunque anche la componente vocalica delle parole-rima) creando così rime “imperfette”, dette anche “siciliane”.
2 I poeti siculo-toscani
La poesia nella Toscana comunale Caduto il regno svevo (1266), l’esperienza poetica dei siciliani passa in Toscana. In rapporto al diverso contesto (quello dei comuni), l’unità dell’universo poetico siciliano si sfalda e alla tematica amorosa si affiancano, nei lavori dei poeti toscani, temi morali e politici. La personalità di maggiore spicco è quella di Guittone d’Arezzo, autore di testi d’argomento amoroso e politico, mentre in un secondo tempo in lui prevale il tema religioso-morale. Il suo stile arduo e spesso oscuro fu criticato da Dante.
3 Il dolce stilnovo
Che cos’è lo stilnovo Nell’ultimo ventennio del Duecento e nei primi anni del Trecento si afferma a Firenze il cosiddetto “dolce stil novo”. È Dante, che ne fece parte e ne fu il principale esponente, a coniare la formula in un celebre verso della Commedia (Pg XXIV, 57) in cui è sottolineata la novità, introdotta da un gruppo di giovani poeti (Dante stesso, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia). Oltre alla dolcezza dello stile (armonia e limpidezza, sintassi piana) contrapposta alle astruserie di Guittone, l’originalità consiste in una totale fedeltà al tema amoroso, approfondito in senso filosofico e maggiormente spiritualizzato.
Sintesi
Duecento e Trecento 285
La lezione di Guido Guinizzelli e le caratteristiche del nuovo modo di poetare Questa visione è anticipata dal bolognese Guido Guinizzelli, considerato da Dante il maestro degli stilnovisti, in particolare per la celebre canzone Al cor gentil rempaira sempre amore. In questo stesso componimento è sostenuto con forza il rapporto tra nobiltà d’animo e amore, e l’idea della gentilezza come valore della persona e non come privilegio di nascita. Ma in generale nuove, oltre alle caratteristiche già ricordate, sono anche la concezione della poesia come esperienza totalizzante e l’interpretazione (tipica soprattutto di Dante) della figura femminile, che da tutti i poeti è posta su un piedestallo per la sua perfezione morale e la sua bellezza, oltre che come tramite verso il divino. «Per altezza d’ingegno»: Guido Cavalcanti Nel gruppo degli stilnovisti spicca l’originale personalità di Guido Cavalcanti, amico di Dante: nella sua poesia, autoanalitica e personale, il concetto di amore attinge alla filosofia averroistica. Ne deriva una visione dell’amore come passione irrazionale originata nella sfera sensitiva, un sentimento capace di distruggere l’uomo poiché in conflitto con la sfera razionale. La donna, nella sua assoluta perfezione, rimane irraggiungibile ed è causa, per il poeta, di smarrimento e angoscia.
Zona Competenze Testi a confronto
1. Confronta il sonetto di Jacopo da Lentini Io m’aggio posto in core (➜ T2 ) e le due stanze conclusive della canzone di Guinizzelli, Al cor gentil (➜ T11 ). In un testo argomentativo di max 20 righe discuti il diverso approccio dei due autori al problema della conciliazione fra amore terreno e dimensione religiosa.
Esposizione orale
2. Prepara un intervento riepilogativo destinato alla classe sulle differenze tra il concetto di “cortesia” e quello di “gentilezza”. Dopo averle individuate e brevemente illustrate, ricostruisci le condizioni storico-sociali che hanno motivato tale evoluzione, aiutandoti – se lo ritieni utile – con uno schema grafico. Hai a disposizione 10 minuti.
286 Duecento e Trecento “Ragionard’Amore”
Duecento e trecento CAPITOLO
5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
Nel Medioevo la comicità originariamente ha a che fare con la dimensione liberatoria e trasgressiva della festa. Portavoce dei diritti del comico nella cultura medievale sono i giullari, professionisti del divertimento, e i goliardi: in particolare la poesia goliardica, nata negli ambienti universitari, esalta il divertimento, il gioco d’azzardo, il sesso e i piaceri della tavola. Non manca la satira contro i potenti, compresi gli ecclesiastici. La raccolta più celebre è quella dei Carmina Burana, scritta per la maggior parte in latino. Si ricollegano all’area della comicità anche i fabliaux, racconti licenziosi in versi, nati nel Nord della Francia. Alle tematiche presenti nei fabliaux e soprattutto nella poesia goliardica e allo spirito irriverente che le anima si ispirano alcuni poeti toscani, attivi tra la seconda metà del Duecento e l’inizio del Trecento, noti come poeti comico-realisti o giocosi: essi si contrappongono consapevolmente, attraverso la parodia e la scelta di uno stile "basso", alla coeva lirica stilnovistica. Il rappresentante più noto è il senese Cecco Angiolieri.
1 Il comico 2 I poeti comico-realisti 287
1 Il comico 1 Una nebulosa che sfugge alle categorizzazioni La dimensione del comico nel Medioevo La comicità è una dimensione che attraversa popoli e culture, secoli e generazioni, e cambia forme (e significato) nel corso della storia e delle vicende sociali, interessando non solo i testi letterari, ma più in generale il piano antropologico. Non si ride sempre alla stessa maniera, in ogni luogo e in ogni tempo: ad esempio, il comico medievale si manifesta in forme diverse rispetto al comico degli antichi greci e romani o a quello del Novecento. Sul piano letterario il comico si collega elettivamente a generi come la novella e la commedia, si insinua anche in generi “alti” come la lirica o l’epica e comporta scelte specifiche relative alla tipologia dei personaggi, ai contenuti (con il riferimento a una realtà materiale o addirittura sordida, a personaggi comuni e così via) e ai temi ricorrenti (come la beffa, molto presente nella novella). Fin dall’antichità classica il comico, come si può notare nelle commedie di Plauto, si è anche legato a espedienti retorici e, più in generale, linguistici, impiegati per suscitare il riso: dall’iperbole alla ripetizione, dall’errore volontario di grammatica o di ortografia, all’impiego di un linguaggio serio per una situazione con esso incongrua. Frequente è l’uso del doppio senso o addirittura del nonsense (come nella celebre novella di frate Cipolla di Boccaccio ➜ C8 T6d ). Spesso la dimensione del comico nei testi letterari si lega a procedimenti come la satira, che mette alla berlina comportamenti individuali o di un’intera categoria sociale, o la parodia, che rovescia in modo dissacrante i modelli letterari ‘alti’ ed egemoni in una data epoca: è appunto quello che fanno i poeti comico-realisti a cui si fa riferimento in questo capitolo. Due musici e un acrobata, part. di una miniatura da un manoscritto delle Decretali di Gregorio IX (1300-1340, British Library, Londra). Una festa in maschera, part. di una miniatura tratta dal Roman de Fauvel, poema francese allegorico-satirico, musicato (inizi XIV secolo, Bibliothèque nationale de France, Parigi).
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2 I temi principali del comico nel Medioevo Un diverso significato Nel Medioevo il termine “comico” non era usato nella nostra accezione, ma esclusivamente in rapporto alla dottrina degli stili (➜ SCENARI, PAG. 66): corrispondeva alla scelta di uno stile basso, adatto ad argomenti umili e quotidiani. All’area del comico si collegano soprattutto tre temi: il tema sessuale, quello che il critico russo Bachtin ha chiamato il «basso-corporeo» e il blasfemo. Il più importante è certamente il primo: l’oscenità è infatti per secoli una costante risorsa della comicità, ricorrente nel Medioevo soprattutto dalla novella e poi consegnata in eredità alla commedia cinquecentesca. La presenza di questo tema (ma anche di quello basso-corporeo) nella comicità medievale può essere spiegata come una forma di contrapposizione all’ascetismo del periodo: una sorta di rivincita dei diritti del corpo, che trae origine non dai luoghi della cultura ufficiale ma dalla “piazza”, e che nasce all’interno della dimensione popolare. La severa visione religiosa del Medioevo considerava con sospetto il riso e il comico e li ammetteva soltanto in occasioni di festa e in particolari momenti dell’anno, come il Carnevale. In ambito letterario il riso ha diritto di cittadinanza a patto che rimanga confinato nelle sfere inferiori della cultura, come nel caso dei fabliaux, racconti in versi diffusi in Francia, di contenuto basso e quotidiano, che hanno come tema centrale il sesso (➜ C3, PAG. 209).Una “minorità” che il Decameron metterà in discussione assicurando all’esperienza del ridere, anche in rapporto ad argomenti scabrosi, un posto elevato nella gerarchia delle forme letterarie.
3 I portavoce del comico nella società medievale: goliardi e giullari
PER APPROFONDIRE
I principali interpreti del comico nel Medioevo I giullari sono professionisti dello spettacolo, i goliardi hanno una cultura elevata e scrivono componimenti raffinati in latino. Sono accomunati entrambi dal nomadismo, dalla costante minaccia della povertà, dall’irriverenza nei confronti della rigida gerarchia sociale del tempo e delle regole che governano la vita sociale. Per i loro atteggiamenti dissacranti incorrono entrambi nella condanna della Chiesa.
Comico e “carnevalesco” Per secoli il comico si è manifestato soprattutto nella situazione della festa e nella cosiddetta “cultura del Carnevale”: una dimensione di grande rilevanza antropologica, sulla quale il critico russo Michail Bachtin (1895-1975), grazie alle sue indagini sul folklore e sulla cultura popolare, ha fornito indicazioni fondamentali. Bachtin ha evidenziato come nella dimensione della festa e del Carnevale, in un periodo transitorio e circoscritto nel tempo e in cui si interrompe la produzione, il popolo diventi protagonista. Costretto dalle strutture economico-politiche e culturali a un ruolo subalterno, il popolo si fa promotore di rappresentazioni comiche irriverenti e trasgressive, fondate sul rovesciamento delle gerarchie sociali, dei valori e dei modelli di comportamento prescritti (o addirittura imposti) dalla cultura ufficiale. Con la sua sregolatezza trasgressiva e liberatoria, la festa porta
in primo piano il sesso, la corporalità e le sue funzioni elementari (il «basso-corporeo»), rovesciando il disprezzo del mondo, caro agli asceti e ai chierici in genere (➜ SCENARI, PAG. 45). Veicolo e interprete del riso popolare è il buffone, il giullare, spirito allegro e beffardo, che si attribuisce, proprio per il suo status di professionista del divertimento, grande libertà d’espressione. Per estensione, il termine di “carnevalesco” (insieme alla categoria concettuale) ha trovato applicazione comune in ambito critico per alludere ad autori e tendenze letterarie, non solo medievali, caratterizzati da rovesciamenti parodici di temi e di convenzioni letterarie, da accostamenti dissacranti, contaminazioni, anche stilistico-linguistiche, tra ‘basso’ e ‘alto’, con effetti di comicità, e anche di iper-espressività. Nella letteratura medievale emblematica testimonianza del “carnevalesco” è la beffarda poesia goliardica.
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I goliardi I goliardi, sinonimo di studenti universitari e chierici vaganti, sono particolarmente attivi nel XII secolo, quando sorgono le prime università (➜ SCENARI, PAG. 62). Il termine goliardi (tuttora in uso) è di origine incerta; in ogni caso, esso sembra alludere a forme di comportamento trasgressive della rigida morale ascetica predicata dalla Chiesa. Oltre al piacere del cibo, i goliardi esaltano l’amore per le donne, il vino, il gioco, conducendo una vita scioperata e ribelle nei confronti dell’autorità ecclesiastica e dei poteri costituiti, che attaccano con il loro riso beffardo in una particolare produzione letteraria fondata essenzialmente sulla parodia e sull’irrisione: la più celebre testimonianza è costituita dai cosiddetti Carmina Burana. Di questa particolare letteratura è rimasta traccia nei riti ancora praticati dalla goliardia nelle più antiche sedi universitarie, come Padova o Pavia. I giullari Il giullare (dal lat. joculator) è un professionista dell’intrattenimento, con competenze e funzioni diverse in rapporto al luogo, al tempo e al pubblico della sua performance. Egli è, contemporaneamente, mimo, cantastorie, musico, danzatore, acrobata, saltimbanco, addestratore di animali; si esibisce nello spazio che trova, con preferenza per mercati, piazze, luoghi di pellegrinaggio, ma anche corti. Il giullare vive di elemosina, spostandosi di luogo in luogo alla ricerca di un uditorio generoso e questa condizione di sradicamento lo porta a sfuggire alle regole della convivenza civile. Si avvale, in genere, di una gestualità esagerata e buffonesca e utilizza abiti di scena dai colori sgargianti, senza trascurare piume, pellicce, campanelli e maschere mostruose.
4 I Carmina Burana e il “mondo alla rovescia”
VERSO IL NOVECENTO
Una produzione colta, nata all’ombra delle università I Carmina Burana sono una raccolta di 228 canti anonimi in latino e in tedesco, composti tra il XII e il XIII secolo. Un tempo si pensavano frutto di un’elaborazione collettiva popolare, essendo privi del nome degli autori; al contrario, i Carmina Burana sono opera di autori colti, goliardi e chierici vaganti, e nascono all’interno delle scuole cattedrali e delle università europee. Il termine Carmina Burana richiama il nome del codice latino che li ha trasmessi, noto, appunto, come codex Buranus, perché proviene dall’abbazia di Benediktbeuern (Bura Sancti Benedicti) sulle Alpi bavaresi, in Germania.
Il pericolo del riso e Il nome della rosa La potenziale trasgressività e la pericolosità sociale connesse al riso e alla comicità costituiscono lo spunto fondamentale del best seller Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco (➜ C2 PAG. 151). L’autore, attento studioso della cultura e dell’estetica medievale, immagina che il secondo libro della Poetica di Aristotele, dedicato alla trattazione e teorizzazione del “comico”, sia stato volutamente tenuto nascosto in un’abbazia dal monaco Jorge, preoccupato del pericolo che avrebbe comportato la diffusione tra le persone colte di un’“estetica del comico” legittimata da Aristotele, massima autorità di pensiero nel Medioevo. Da questo spunto trae origine l’intreccio poliziesco dell’opera, che prevede una serie di terribili delitti. Così Jorge
spiega la sua posizione a Guglielmo di Baskerville, che sta appunto indagando sui misteriosi delitti commessi nell’abbazia: «Quando ride, mentre il vino gli gorgoglia in gola, il villano si sente padrone perché ha capovolto i rapporti di signoria: ma questo libro potrebbe insegnare ai dotti gli artifici arguti, e da quel momento illustri, con cui legittimare il capovolgimento. Allora si trasformerebbe in operazione dell’intelletto quello che nel gesto irriflesso del villano è ancora e fortunatamente operazione del ventre». Il riscatto del “comico” da una posizione bassa a un piano di raffinata letterarietà paventato da Jorge si verificherà realmente con il Decameron di Boccaccio, opera trasgressiva e al contempo di altissimo livello letterario.
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I temi: la satira anticuriale La prima parte dei Carmina Burana (➜ T1 ) ha carattere satirico: vi domina il tema della corruzione del clero e della decadenza della Chiesa. La denuncia di questi problemi dell’istituzione ecclesiastica corrisponde alla realtà storica: cioè a un periodo (secoli XI-XII) in cui la Chiesa è effettivamente esposta agli scismi e alla corruzione, e non ha più un ruolo propulsivo nella società.
Maestro di Jean Mansel, illustrazione a una novella del Decameron (IX, 4): Fortarrigo perde tutti i suoi averi al gioco; Fortarrigo accusa Angiolieri di averlo derubato, tempera e foglia d’oro su pergamena, 1430-1450 (Bibliothèque de l'Arsenal, Parigi).
L’amore: il rovesciamento dei canoni cortesi Il tema amoroso occupa il posto principale nei Carmina Burana. In contrapposizione alla morale ascetica della cultura clericale, in questi testi l’amore si identifica esclusivamente con il piacere e il desiderio; è una forza vitale, naturalmente gioiosa e libera. L’amore cantato dai goliardi non ha alcun tratto spirituale, non favorisce alcuna elevazione morale dell’amante, non si esaurisce certo nella contemplazione dell’amata e nella struggente nostalgia per una donna “assente” e lontana. La rappresentazione dell’amore presente nei Carmina Burana si configura dunque come un evidente rovesciamento della fin’amor dei poeti cortesi (➜ C1 PAG. 128). Il vino, il gioco, il cibo, la taverna: fenomenologia del “mondo alla rovescia” Secondo i principi del carnevalesco, domina nei canti goliardici la dimensione corporea, che rappresenta l’altra faccia della vita, quella comica e capovolta, quella dei disvalori opposti ai valori dominanti. Il tema del vino occupa un posto di rilievo all’interno della terza sezione della raccolta, intrecciandosi strettamente al gioco d’azzardo, che è spesso mezzo per procurarsi da bere quando la fortuna è favorevole al giocatore. Completa il quadro dei piaceri materiali – tanto più desiderabili in un tempo, come quello medievale, dominato dalle carestie – il riferimento al cibo. L’osteria, o taverna, è immagine funzionale a tale concezione del mondo, perché è associata al mito del paese di cuccagna: nella taverna si beve, si gioca e si gode collettivamente; essa protegge e separa i suoi frequentatori dalla realtà esterna dominata dalla miseria, da una rigida gerarchia sociale, da regole codificate.
T1 Carmina Burana, a c. di P. V. Rossi, Bompiani, Milano 1989
Un manifesto della poesia goliardica Il testo documenta in modo esemplare i tratti della poesia goliardica: l’anonimo autore rappresenta, attraverso una serie di immagini e metafore, la vita libera e scanzonata dei goliardi, il loro trasgressivo atteggiamento mentale e il rifiuto polemico di ogni convenzione.
Poiché provo nel mio animo un forte turbamento, al colmo dell’amarezza mi lamento di me stesso. Formato, come sono, di materia assai leggera, mi sento simile ad una foglia, con la quale gioca il vento. Mentre è proprio del saggio porre sulla roccia salde fondamenta, io, stolto mi para5 gono ad un fiume sempre in corsa che non si ferma mai sotto lo stesso cielo. Vado alla deriva come una nave priva del nocchiero, come un uccello che vaga per Il comico 1 291
le vie del cielo; non c’è catena che mi trattenga né chiave che mi rinchiuda, cerco chi mi è simile e mi unisco così ai malvagi. Condurre una vita austera è per me quasi impossibile; io amo infatti il gioco, che 10 mi piace più del miele. Qualunque impresa chieda Venere, che non risiede mai negli animi meschini, è una piacevole fatica. Percorro la via più facile com’è proprio dei giovani, e mi irretisco nei vizi1, scordando la virtù; più avido del piacere che della vita eterna, sono ormai morto nell’anima e curo solo il corpo. 15 O nobile vescovo2, imploro il tuo perdono, affronto una buona morte e mi consuma una dolcissima ferita: la bellezza delle fanciulle mi trafigge il cuore, e quelle che non riesco a possedere, le godo almeno col pensiero. È impresa ben difficile vincere la natura e non nutrire pensieri impuri vedendo una fanciulla; per noi giovani è impossibile seguire il rigido precetto che ci impone di 20 trascurare i loro corpi tanto belli. Chi mai, posto nel fuoco, non ne verrà bruciato? Chi mai, stando a Pavia3, può definirsi casto, dove Venere cattura i giovani con un cenno, li affascina con gli occhi e li conquista con il viso? Se si ponesse Ippolito oggi a Pavia, non sarebbe più Ippolito domani4. Ogni strada qui 25 conduce al talamo di Venere5 e non vi è fra tante torri la torre di Aletìa6. La seconda colpa che confesso è la mia passione per il gioco; ma quando esso mi lascia nudo e all’esterno infreddolito, mi sento l’animo infiammato e compongo proprio allora i miei canti migliori7. Il mio terzo peccato è di frequentare l’osteria: non l’ho mai disprezzata e non lo 30 farò mai, finché vedrò discendere i santi cori angelici che per i morti intonano: “Riposino in eterno”. È mia intenzione morire all’osteria, perché il vino mi sia accanto nel momento del trapasso; allora con più gioia canteranno i cori angelici: “Dio sia propizio a questo bevitore!”
1 mi irretisco nei vizi: mi faccio sedurre dai vizi. 2 O nobile vescovo: apostrofe ardita al vescovo, con sfumatura ironica, affinché comprenda le ragioni del clericus e accolga i suoi poco nobili desideri carnali. 3 Pavia: sede di una celebre università, era frequentata dai clerici vagantes, che si permettevano ogni forma di licenza. 4 Se si ponesse… domani: secondo il racconto mitologico, Ippolito, figlio di Teseo e di Ippolita, rifiutò le profferte della matrigna Fedra, che per vendetta lo accusò
di incesto; maledetto dal padre, fu ucciso dai suoi stessi cavalli spaventati. Il clericus vuole far capire che a Pavia anche un proverbiale modello di virtù come lui avrebbe cambiato stile di vita repentinamente, nel giro di una giornata, adeguandosi ai piaceri della gola, del corpo e dell’eros. 5 talamo di Venere: letti di piacere, dove si consuma l’amore carnale. Dietro l’espressione aulica (con la metonimia di Venere) si allude al sesso venale o facile da ottenere. 6 la torre di Aletìa: cioè la torre di Artemide (Diana), la dea della caccia, notoriamente restìa ad amare. L’espressione
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ironica, con il ricorso a una figura mitologica opposta a quella di Venere, vuole indicare l’assenza, nella città delle torri, di un luogo visibile di castità e di virtù femminile. 7 quando… migliori: la nudità a cui si allude è una reale conseguenza del gioco d’azzardo: il giocatore arrivava a impegnare anche i vestiti, affidandosi alla fortuna, la cui ruota inarrestabile girava spesso in senso contrario ai desideri dell’incauto scommettitore di turno.
Analisi del testo Un testo esemplare della poesia goliardica
online
Per approfondire La “buona morte” nel Medioevo
Il testo proposto costituisce una sorta di manifesto dei temi e, più in generale, dello spirito della poesia goliardica. Sotto l’apparenza di un’autoaccusa in forma di confessione dei propri peccati (è evocata anche la figura del vescovo a cui si chiede perdono), l’io lirico enuncia in realtà, in modo quasi programmatico, il “credo” irriverente dei goliardi, categoria cui lui stesso appartiene. La prima parte del testo è caratterizzata da una serie di similitudini che alludono tutte, in vario modo, all’incostanza che rende sregolata la vita dei goliardi, priva com’è di princìpi morali e di saldi punti di riferimento. Vengono poi enunciate le viziose abitudini praticate dal poeta, il riferimento alle quali ricorre costantemente nella poesia goliardica: la propensione ai piaceri amorosi, il vizio del gioco, la frequentazione dell’osteria; abitudini che l’autore quasi giustifica, presentandole come riti di passaggio, tappe obbligate della giovinezza («com’è proprio dei giovani»; «per noi giovani è impossibile seguire il rigido precetto»; «Venere cattura i giovani...»). La donna, la taverna e il gioco (che ricorrono in modo pressoché identico in un celebre sonetto di Cecco Angiolieri ➜ T3 ) costituiscono una sorta di Interno di una taverna (miniatura da un codice “trinità terrena”, che rovescia in modo dissacrante genovese del XIII secolo, British Library, Londra). la Trinità celeste. Netta appare la contrapposizione ai valori ascetici della cultura clericale: dall’aperta ammissione del poeta di curare il corpo a scapito dell’anima alla dissacrante immagine finale, in cui viene rovesciato il tema medievale della “buona morte” (➜ PER APPROFONDIRE La “buona morte” nel Medioevo): la “buona morte” immaginata per sé stesso dal poeta-goliardo è all’osteria, bevendo vino fino al trapasso, con i cori angelici che esaltano gioiosamente presso Dio la sua “virtù” di bevitore!
Pavia, la città del peccato Nel testo la vita viziosa e scapestrata dei goliardi viene collegata a un luogo preciso: si tratta di Pavia, città del Nord Italia, sede di una delle più importanti e antiche università italiane, nella cui area urbana spiccano le molte torri d’epoca medievale. Nella testimonianza del poeta goliardo si fa riferimento non all’eccellenza dell’insegnamento universitario, che richiamava studenti da varie parti d’Europa, ma alle attrazioni erotiche presenti nella cittadina («Venere cattura i giovani con un cenno»), a cui difficilmente si poteva resistere.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale ritratto fornisce di sé l’autore dei carmi? ANALISI 2. Indica i comportamenti negativi enunciati dal poeta e spiega perché erano contrari ai modelli raccomandati. STILE 3. Individua e trascrivi le similitudini, particolarmente numerose nella prima parte del testo. Che cosa le accomuna? Quale concetto intende sottolineare il poeta attraverso questi paragoni?
Interpretare
SCRITTURA 4. Descrivi in max 20 righe il modo in cui viene descritto l’amore.
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2 I poeti comico-realisti I tempi e i luoghi Tra il 1260 circa e i primi vent’anni del Trecento si colloca anche in Italia un’esperienza poetica in cui la rappresentazione del quotidiano e l’attenzione a una realtà “bassa” sono enfatizzate dall’uso di un linguaggio vicino al parlato, con elementi popolari e gergali. I poeti comico-realisti si rivolgono a un pubblico ampio, di borghesi e artigiani, e operano nella vivace realtà comunale della Toscana: Firenze (da cui proviene Rustico Filippi, l’iniziatore del genere), Siena (patria di Cecco Angiolieri, il poeta più rappresentativo del gruppo), Lucca, Arezzo e San Gimignano. La contrapposizione alla lirica “alta” e i modelli La poesia comico-realistica si sviluppa negli stessi anni in cui si afferma lo stilnovo, a cui si contrappone volutamente sia nei temi sia nelle scelte linguistico-stilistiche. Ma non se ne deve dedurre che questa sia una poesia ingenua e primitiva: l’abbassamento dei motivi e del linguaggio della lirica d’amore è voluto per fini comico-parodistici, non è frutto di improvvisazione o di imperizia; al contrario, esso richiede una grande competenza e consapevolezza letteraria. E, infatti, i poeti comico-realisti si richiamano a fonti precise: in particolare ai fabliaux (➜ C3 PAG. 209) e alla poesia goliardica, oltre che alla poesia giullaresca in volgare (dalla quale deriva il “contrasto”, un tipo di composizione dialogica tra due amanti di bassa estrazione sociale). L’area tematica della poesia comico-realista I temi caratteristici della poesia comico-realista non sono originali, ma derivano dalle fonti letterarie sopra indicate. Il più noto dei poeti comico-realisti, Cecco Angiolieri, in un celebre sonetto (➜ T3 ), prospetta una triade dei desideri insoddisfatti a causa della povertà (la donna, la taverna, il dado) che ha certamente origini goliardiche. Illustrazione del Roman de la Rose (XIV secolo).
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In particolare il rapporto amore-denaro (riassumibile con: senza denaro non si può avere l’amore) costituisce un binomio inscindibile per i poeti giocosi, essendo le donne presentate come avide e venali, amanti del danaro e del lusso, secondo una concezione misogina risalente al mondo classico e poi continuata appunto nei Carmina Burana e nei fabliaux. L’amore, anche per i poeti giocosi toscani, è passione carnale, piacere dei sensi, possesso fisico; la donna ha un volto e soprattutto un corpo: è sensuale e per lo più capace di improperi e battute volgari all’indirizzo dell’amante. Siamo, com’è evidente, agli antipodi della concezione dell’amore e della donna stilnovistici: non c’è posto, nella poesia burlesca, per donne-angelo o per sentimenti spirituali, che portano alla perfezione interiore dell’amante. Lo stile Lo stile usato si adegua perfettamente ai contenuti dimessi e quotidiani scelti dai poeti giocosi nelle loro composizioni (con una netta prevalenza dell’utilizzo del sonetto), sia nel lessico, sia nella sintassi e nell’impiego di alcune figure retoriche appartenenti al registro del comico. • Il lessico si alimenta di espressioni popolari, gergali, plebee, da cui scaturiscono
doppi sensi ed equivoci a sfondo spesso osceno. • La sintassi è semplice, a volte spezzata da esclamazioni, domande, battute, che
riproducono la vivacità della lingua parlata. • La ricorrenza di alcune figure retoriche contribuisce a rinforzare l’effetto comico: frequente è l’uso dell’apostrofe, soprattutto nelle invettive, della similitudine, di iperboli e antitesi, per accentuare gli aspetti caricaturali e grotteschi di un personaggio o di una situazione. • A volte, infine, sono utilizzati termini ed espressioni dei poeti stilnovisti, con
accostamenti impropri o collocazioni inadatte e ridicole che mutano il contesto di partenza, il significato originario e lo scopo finale dei testi da cui sono tratti: la parodia è procedimento abitualmente usato dai poeti comico-realisti per rovesciare senso e funzioni della produzione poetica cortese e stilnovistica.
I principali esponenti: Rustico Filippi e Cecco Angiolieri
PER APPROFONDIRE
Una doppia produzione Di origine fiorentina, appartenente alla fazione dei ghibellini, Rustico Filippi nasce tra gli anni ’30 e ’40 del Duecento e muore sul finire del secolo. Ci sono stati tramandati con il suo nome cinquantotto sonetti, alcuni dei quali riconducibili all’ambito cortese-amoroso e altri a quello comico-realistico.
Un guazzabuglio di definizioni: poeti “comico-realisti”, “burleschi”, “giocosi” Ai poeti comunemente detti comico-realisti sono associate nella saggistica e nella manualistica scolastica anche altre denominazioni (“burleschi”, “giocosi”), ognuna delle quali valorizza e sottolinea un aspetto tipico del loro modo di far poesia. “Comico” si oppone, in questo caso, a “tragico”, secondo i trattati di retorica medievale, e “realista” a “idealista”, con riferimento alla scelta degli argomenti operata da tali poeti in contrasto parodico con i coevi esponenti del “dolce stil novo”,
attratti invece da realtà sublimi e spirituali, con corredo di donne angelicate, amori rarefatti e linguaggio aulico. Gli aggettivi “burlesco” e “giocoso”, che a volte sostituiscono e a volte affiancano la coppia “comico-realista”, criticamente più fortunata, sottolineano invece l’atteggiamento scanzonato (“burlesco”) e irriverente rispetto alla vita e alla società comunale, di cui questi poeti ritraggono gli aspetti più sordidi e quotidiani, ricorrendo alla satira, alla caricatura, alla parodia, a fini di divertimento letterario (“giocoso”).
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Lessico parodia La parodia è l’imitazione volontaria e caricaturale dello stile di un artista o di una corrente artistica all’interno di una nuova opera.
Nelle liriche amorose riprende come modello i poeti siciliani. Sul versante comicorealistico usa perlopiù una lingua scurrile e aspra e se fa ricorso al linguaggio aulico lo scopo è parodistico . Una vita ‘irregolare’: realtà o trasfigurazione letteraria? Cecco Angiolieri, il più noto fra i poeti comico-realisti, nasce a Siena nel 1260 da una ricca e importante famiglia di parte guelfa che milita nelle truppe comunali. Forse in occasione della battaglia di Campaldino conosce Dante, anch’egli schierato fra i guelfi bianchi contro Arezzo (del rapporto fra i due testimoniano tre sonetti di Cecco rivolti all’Alighieri). Muore prima del 1313, data di un documento in cui i figli rinunciano all’eredità paterna gravata da debiti e ipoteche; altri documenti riguardano una rissa e una multa. Tutto sembra rimandare a una condotta di vita non proprio irreprensibile. Su questa base, ma soprattutto grazie ai contenuti delle sue poesie, interpretate come sincere confessioni autobiografiche, la critica romantico-positivista ha costruito una biografia romanzesca di Cecco come poeta ribelle, dalla vita dissoluta e sregolata, perseguitato dalla povertà, amaramente malinconico. In realtà la poesia di Cecco, pur con spunti originali, riprende motivi già presenti nella poesia satirica latina e soprattutto nella tradizione goliardica. Il corpus dei suoi sonetti consta di più di cento componimenti. Vi si possono riscontrare due filoni tematici principali: le rime amorose, la maggior parte delle quali in stile comico, ispirate da una figura femminile, Becchina, antitetica alle donne stilnovistiche (volgare, infedele, avida) e le altre rime, che continuano la tradizione goliardica nell’esaltazione di piaceri terreni come il vino e il gioco, ma anche nel lamento per la povertà e per sfortune simili.
Fissare i concetti La dimensione del comico e i poeti comico-realisti 1. In che senso era usato il termine “comico” nel Medioevo? 2. Chi sono i goliardi e i giullari? 3. Che cosa sono i Carmina Burana? 4. Quali sono le caratteristiche tematiche e stilistiche della poesia comico-realistica? 5. Chi sono i maggiori esponenti della poesia comico-realistica? 6. Qual è il rapporto della poesia comico-realistica con la poesia “alta”?
296 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
Il comico STILE
Basso, per argomenti umili e quotidiani
TEMI
• sessualità • «basso-corporeità» • blasfemia
MEZZI
• espedienti retorici e linguistici • satira • parodia
INTERPRETI
• goliardi • giullari • poeti comico-realisti
OCCASIONI DI ESPRESSIONE
LA POESIA COMICOREALISTA
• feste e Carnevale • spettacoli di giullari • Carmina Burana
• fabliaux • poesia comico-realista (sonetti) • novelle e commedie
• 1260-1320 circa • Toscana • principali esponenti: Rustico Filippi e Cecco Angiolieri
Scena di taverna, in un affresco del castello di Issogne (fine XV secolo), in Valle d’Aosta.
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Rustico Filippi
T2 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Oi dolce mio marito Aldobrandino Il sonetto del fiorentino Rustico Filippi (ca 1230-1300), iniziatore della poesia comicorealistica, è un esempio significativo del modo in cui questa esperienza poetica tratta il tema tradizionale – e per certi aspetti convenzionale – dell’amore: una donna palesemente adultera si difende di fronte al marito tradito negando con spudoratezza la propria colpa. Oi dolce1 mio marito Aldobrandino, rimanda ormai il farso2 suo a Pilletto, ch’egli è tanto cortese fante e fino3, 4 che creder non déi ciò che te n’è detto4. E non star tra la gente a capo chino, ché non se’ bozza5, e fòtine disdetto6; ma, sì come amorevole vicino, 8 con noi venne a dormir nel nostro letto7. Rimanda il farso ormai, più no il tenere, ché mai non ci verà oltre tua voglia8, 11 poi che n’ha conosciuto il tuo volere. Nel nostro letto già mai non si spoglia9. Tu non dovéi gridare, anzi10 tacere: 14 ch’a me non fece cosa ond’io mi doglia11.
La metrica Sonetto con schema metrico: ABAB ABAB CDC DCD. 1 dolce: aggettivo ironico, alla luce di quello che la donna sta per rivelare.
2 farso: farsetto (una specie di gilet del tempo, che si indossava sopra la camicia; anche al v. 9), abbandonato in casa dell’amante nella fuga frettolosa. Il motivo dell’indumento dimenticato è presente già nei fabliaux francesi. 3 Pilletto... fino: il giovane (fante) Pilletto è definito beneducato (cortese) e raffinato (fino) per la donna, ma nel contesto i due aggettivi assumono una voluta ambiguità semantica, ammiccante e divertita. Per alcuni, poi, Pilletto è comicamente derivato da pillo, “pestello”, con allusione erotica e, forse, velatamente oscena. 4 creder… detto: non devi (déi) credere ciò che ti è stato detto di lui.
5 ché non se’ bozza: perché non sei becco. Con riferimento al maschio della capra, ovvero alle corna. 6 fòtine disdetto: lo nego davanti a te (“ti dico di no”, con doppia enclitica: “te ne fo”). Ma è evidente che la negazione della donna si basa solo su una fiducia a senso unico, prendere o lasciare, senz’altra controprova. 7 venne a dormir nel nostro letto: è una confessione aperta della moglie fedifraga, attenuata (in realtà di fatto rafforzata), dal sintagma amorevole vicino. La “vicinanza” è stata di tipo amoroso, erotico, non amicale o fraterno; ma l’ambiguità del linguaggio viene spinta ai suoi limiti estremi, come accade anche nel v. 12. 8 ché… tua voglia: poiché non verrà più (mai) contro la tua volontà. Beffarda precisazione della donna: quasi che finora il povero Aldobrandino avesse voluto ricevere nel talamo nuziale un terzo incomodo e non si fosse dato pensiero di nulla!
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9 Nel nostro letto... spoglia: non si spoglierà più. La situazione è chiara: di fronte al mutato comportamento di Aldobrandino, Pilletto terrà conto della volontà dei suoi compagni di letto… 10 dovéi… anzi: dovevi… ma. 11 a me non... mi doglia: a me non ha fatto nulla di cui mi debba lamentare. Il verso chiude circolarmente il testo, richiamando l’equivoco che compare al v. 3 della prima quartina. La donna dichiara di non aver ricevuto alcun danno o dolore dalla vicinanza di Pilletto: di qui la necessità di una sorta di tacita gratitudine da parte di Aldobrandino nei confronti di quel fante «cortese… e fino», oltre che altruista.
Analisi del testo Una situazione paradossale Il sonetto propone, fin dall’inizio, una situazione paradossale, contraria a ogni verosimiglianza. La donna, regolarmente maritata, cerca di negare l’evidenza dell’adulterio da lei consumato, ma non può nasconderne al marito la prova tangibile: il giovane con cui si è unita sessualmente ha dimenticato infatti un suo indumento in camera. La donna gioca d’astuzia e, simulando un’assoluta innocenza sua e del giovane amante, invita il marito a restituirgli l’indumento, poiché non è avvenuto alcun tradimento. Nella sfrontata autodifesa della donna, il giovane amante diviene un uomo cortese e nobile, un «amorevole vicino» che solo per riposarsi è entrato nel letto della coppia.
Un testo “doppio”: livello letterale e livello metaforico La protagonista femminile rappresenta l’opposto della donna stilnovista, caratterizzata da sublime bellezza e perfezione morale (la donna che qui parla ben conosce le seduzioni del piacere); ma al contempo non si presenta rozza e aggressiva come Becchina, la donna evocata nei sonetti di Cecco Angiolieri: la sua autodifesa si fonda infatti su un lessico conciliante, con echi raffinati della tradizione aulica, a cominciare dall’aggettivo dolce con cui si rivolge al marito e alla coppia di aggettivi cortese e fino riferiti all’amante. L’intero discorso della donna è però fondato sull’ambiguità (alla quale è affidato l’effetto comico), perché implica un doppio livello di lettura: uno letterale (indirizzato al marito, presumibilmente sciocco e credulone) e l’altro metaforico, con evidente allusività erotica. L’esempio più chiaro è l’ultimo verso del sonetto («a me non fece cosa ond’io mi doglia»): la donna invita il marito a tranquillizzarsi perché Pilletto non le ha fatto nulla di cui si debba lamentare; letteralmente l’espressione significa che il comportamento di Pilletto è stato corretto, ma in realtà allude al fatto che la donna è stata consenziente al rapporto con il suo amante, che ne ha soddisfatto le aspettative erotiche.
Donne e maschere zoomorfe (miniatura da Li romans du boin roi Alixandre di Lambert Litors, prima metà del XIV secolo, Bodleian Library, Oxford).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Con l’aiuto delle note fai la parafrasi del sonetto. LESSICO 2. Analizza il sonetto dal punto di vista lessicale e rintraccia: a. i vocaboli che fanno riferimento alla vita quotidiana; b. i termini appartenenti alla lirica d’amore. STILE 3. Individua le espressioni ambigue, sulle quali si fonda l’efficacia comica del testo. 4. Nel sonetto il poeta fa ricorso all’imperativo: individua i versi dove è presente e valutane la funzione.
Interpretare
SCRITTURA 5. Ricostruisci in un breve testo la strategia difensiva della donna.
I poeti comico-realisti 2 299
Cecco Angiolieri
T3 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960
AUDIOLETTURA
Tre cose solamente m’ènno in grado
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EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Questo celebre sonetto sintetizza in modo esemplare i caratteri della poesia comicorealista: in esso Cecco enuncia il suo “credo” secondo modi assai vicini alla poesia goliardica (➜ T1 ), alla quale rimanda espressamente anche la lamentela sulla povertà, che non va quindi intesa come una realistica confessione autobiografica.
Tre cose solamente m’ènno in grado1, le quali posso non ben ben fornire2, cioè la donna, la taverna e ’l dado3: 4 queste mi fanno ’l cuor lieto sentire. Ma sì·mme le convene usar4 di rado, ché la mie borsa mi mett’al mentire5; e quando mi sovien, tutto mi sbrado6, 8 ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire. E dico: «Dato li sia d’una lancia!7» ciò a mi’ padre, che·mmi tien sì magro8, 11 che tornare’ senza logro di Francia9. Ché fora a tôrli un dinar[o] più agro10, la man di Pasqua che·ssi dà la mancia11, 14 che far pigliar la gru ad un bozzagro12!
La metrica Sonetto con schema metrico: ABAB ABAB CDC DCD.
1 m’ènno in grado: mi sono gradite. 2 le quali… fornire: che non riesco ad appagare, a procurarmi quanto vorrei (ben ben “pienamente”). 3 la donna, la taverna e ’l dado: gli amori, il vino e il gioco d’azzardo (la taverna e il dado sono metonimie). 4 sì.. usar: pure sono costretto a usufruirne. 5 ché… mentire: perché la mia (mie) borsa (cioè le mie sostanze) mi smentisce cioè non mi permette (impedendomi di accedere a questi piaceri). 6 quando... tutto mi sbrado: mi metto a imprecare, sbraito, quando mi ricordo (mi sovien, francesismo) della mia condizione di indigente, di povero.
7 Dato li sia d’una lancia!: che sia trafitto con una lancia! 8 ciò… magro: questo (la maledizione) a mio padre che mi tiene così a stecchetto. 9 che tornare’… Francia: che tornerei senza dimagrire (logro: dimagrimento) dalla Francia (cioè non si vedrebbero gli effetti del lungo viaggio). Cecco vuole dire che l’avarizia di suo padre lo mantiene già così magro, che non potrebbe dimagrire ulteriormente nemmeno dopo aver affrontato un lungo viaggio. Altri spiegano “senza richiamo”, perché il logro era un uccello finto usato per l’addestramento dei falchi nella caccia. Cecco, che maledice suo padre per la sua avarizia, sarebbe disposto a ritornare per fame a piedi dalla Francia, senza essere sollecitato da alcun richiamo.
300 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
10 Ché fora… più agro: perché sarebbe (fora) più difficile, malagevole (agro) spillargli (tôrli) un soldo. 11 la man di Pasqua... mancia: (anche) la mattina di festa, quando si dà la mancia; il termine Pasqua indica genericamente una qualsiasi festività. 12 pigliar… bozzagro: che far catturare una gru (che è agile e veloce) da una poiana (lenta e impacciata, inadatta alla caccia).
Analisi del testo La struttura e i contenuti Le due quartine del sonetto sono dedicate all’enunciazione dei piaceri della vita e al disappunto per l’impossibilità di ottenerli. Le due terzine sono invece dominate dall’invettiva contro il padre, a cui Cecco rimprovera la grettezza, l’avarizia nei suoi confronti e a cui augura addirittura la morte.
Il credo di Cecco: un topos letterario La passione per le donne, la taverna e il gioco d’azzardo, “professione di fede” del poeta, rimandano alla poesia goliardica, in cui già questi elementi sono presenti come dissacrante immagine parodica della Trinità. Di ascendente goliardico è anche il rapporto fra le tre cose a Cecco gradite sopra ogni cosa e il denaro che le rende accessibili: il piacere, connotato in termini rigorosamente materialistici, è presentato nel sonetto come figlio della borsa e cioè della disponibilità di danaro. (“Ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire”) Ricorrente nella poesia goliardica è anche l’invettiva, ma propria di Cecco è la specifica invettiva contro il padre avaro, che impedisce al figlio di essere pienamente felice a causa delle limitazioni imposte dalla sua spilorceria.
Le scelte stilistiche In antitesi alla poesia “alta”, le immagini impiegate da Cecco – e di conseguenza il lessico – appartengono alla vita quotidiana, anche se l’uso sapiente dell’iperbole (v. 11) e dell’adynaton (ultima terzina) ne esaspera il senso. I suoni e le rime sono aspri (“mi sbrado”; “magro/agro/bozzagro”), in antitesi al “dolce stile” degli stilnovisti.
Festa campestre con contadini che ballano la ronda, miniatura dalle Heures de Charles d’Angoulême, tardo XIV secolo (Bibliothèque nationale de France, Parigi).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del sonetto in non più di 10 righe. COMPRENSIONE 2. Il sonetto è una sorta di plazer (rassegna di desideri e cose piacevoli), in questo caso però impossibile. Indica i desideri del poeta e spiega perché non riesce a realizzarli. LESSICO 3. Individua le scelte lessicali che ribadiscono il tema del denaro come condizione indispensabile per poter godere dei piaceri della vita. STILE 4. Illustra le caratteristiche che Cecco attribuisce al padre e le espressioni iperboliche relative.
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EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA 5. Confronta il sonetto con il testo dei Carmina Burana, evidenziando contiguità tematiche e differenze. 6. La ribellione nei confronti del proprio padre e dell’autorità è un elemento caratterizzante le persone giovani. Hai mai avuto un contrasto con un adulto? Se sì, prova a raccontare i motivi che lo hanno generato e il tuo stato d’animo.
I poeti comico-realisti 2 301
Cecco Angiolieri
T4 Poeti giocosi del tempo di Dante, a c. di M. Marti, Rizzoli, Milano 1956
La mia malinconia è tanta e tale
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EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Il sonetto è incentrato sul tema dell’amore non corrisposto e sulla conseguente sofferenza del poeta. La “malattia d’amore” è tema prettamente stilnovistico, in particolare frequentato da Guido Cavalcanti: secondo i modi tipici della poesia comicorealista, il tema viene qui “abbassato”, soprattutto attraverso le vivaci risposte della donna alle proposte amorose del poeta.
La mia malinconia1 è tanta e tale, ch’i’ non discredo2 che, s’egli3 ’l sapesse un che mi fosse nemico mortale, 4 che di me di pietade non piangesse. Quella4, per cu’ m’avvèn5, poco ne cale6, ché mi potrebbe, sed ella volesse, guarir ’n un punto di tutto ’l mie male, 8 sed ella pur: – I’ t’odio – mi dicesse7. Ma quest’è la risposta c’ho da lei: ched ella non mi vòl né mal né bene8 11 e ched i’ vad’a far li fatti mei9: ch’ella non cura s’i’ ho gioi’ e pene, men ch’una paglia che le va tra’ piei10; 14 mal grado n’abbi’ Amor, ch’a le’ mi diène11.
Il gioco della mosca cieca, pagina miniata di un fabliau in Le Chansonnier de Paris, 1280-1315 (Museo Atger, Montpellier). La metrica Sonetto con rime ABAB ABAB
5 per…m’avvèn: a causa della quale mi
CDC DCD.
accade questo. 6 poco… cale: poco se ne cura. 7 sed… dicesse: se (-d eufonico; come più sotto ched “che”) soltanto mi dicesse: “Io ti odio”. 8 Ma quest’è…bene: l’unica risposta offerta dalla protagonista femminile è di una indifferenza disarmante. 9 e ched…fatti mei: e che io vada a farmi i fatti miei.
1 La mia malinconia: è da intendersi in senso etimologico e medico, come “umor nero”. Tutta la costruzione è un’iperbole. 2 ch’i’… discredo: che io penso che. 3 egli: prolettico del soggetto (cioè lo anticipa). 4 Quella: è Becchina, la donna presente anche in altri sonetti di Cecco.
302 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
10 ella non cura… tra’ piei: la totale estraneità affettiva della donna è ribadita: le è indifferente che l’innamorato gioisca o che soffra (gioi’ e pene sono termini del linguaggio cortese, adattati al contesto plebeo del sonetto). 11 mal… diène: sia maledetto Amore che mi diede a lei. L’Amore, personificato, viene maledetto per aver abbandonato Cecco nelle mani di una donna dispotica, ostile, arida di cuore. Siamo agli antipodi dell’amore stilnovistico, qui, come altrove, scopertamente parodiato. Diène = diè con epitesi finale -ne.
Analisi del testo La malinconia come malattia d’amore L’umor nero di Cecco non deriva dal “male di vivere” (come spesso in passato si è scritto, facendo di Cecco una sorta di “poeta maledetto”), ma più concretamente dall’indifferenza di Becchina, amante distratta e crudele. Ella potrebbe guarirlo dalla malattia d’amore, ma non mostra alcun sentimento verso di lui – neppure l’odio – limitandosi a ribadire la sua posizione di assoluta indifferenza nei confronti di un uomo che vale, per lei, meno di “una pagliuzza”. Di qui la maledizione finale del poeta contro Amore che lo ha legato alla donna.
La crudele Becchina La donna impersona, per molti aspetti, caratteristiche e comportamenti non estranei alla tradizione stilnovistica, poi riproposti anche nella Laura petrarchesca: la crudeltà, la superbia, il “disdegno” (o disprezzo) appartengono anche ad altre figure femminili della tradizione lirica. Ma ciò che differenzia la figura femminile evocata da Cecco rispetto ai modelli femminili stilnovistico-cortesi è il linguaggio plebeo e popolaresco con cui la donna risponde alle richieste d’aiuto dell’amante, che sarebbe inimmaginabile nelle creature angelicate dello stilnovo.
Il comico del discorso Il contrasto “alto-basso”, evidente nella mescolanza di termini e motivi della produzione stilnovistica con temi e linguaggio di livello popolare, è uno dei meccanismi del comico cui Cecco ricorre in più di un sonetto. La prima quartina ha una delicata musicalità e utilizza un registro elevato. La seconda quartina introduce un elemento dissonante e inatteso al v. 8, con l’inserzione del discorso diretto e un verbo (odiare), che non si addice alle donne “gentili”. Le due terzine finali accolgono espressioni popolaresche (vv. 10-11) e immagini realistiche basse (v. 13), inframmezzate a termini della tradizione cortese (v. 12). Il verso conclusivo fa convivere la tradizionale personificazione di Amore e il tema cortese del “servizio amoroso” con il cliché della maledizione (vituperium), anch’esso letterario.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del sonetto. COMPRENSIONE 2. Individua le principali caratteristiche della figura femminile ritratta nel sonetto. LESSICO 3. Indica i termini della tradizione lirica d’amore che sono ripresi, parodizzati o capovolti. ANALISI 4. Quale immagine è utilizzata dal poeta nella seconda terzina per descrivere l’indifferenza di Becchina? A quale registro appartiene questa immagine?
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EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA 5. Spiega come il ritratto della donna presente in questo sonetto si differenzi dalle figure femminili rappresentate nelle loro poesie dai poeti stilnovisti. 6. Becchina non respinge Cecco, ma lo ignora. La sua risposta lo obbliga non solo a non avere il suo amore ma neanche il suo odio. La vera sofferenza per il poeta è la sua indifferenza. Ti è mai capitato di provare indifferenza per qualcuno o di subire l’indifferenza di una persona a te cara? Se sì, quando?
online T5 Cecco Angiolieri Accorri accorri accorri, uom, a la strada!
I poeti comico-realisti 2 303
Cecco Angiolieri
T6 Poeti giocosi del tempo di Dante, a c. di M. Marti, Rizzoli, Milano 1956
S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo Si tratta del sonetto più famoso di Cecco Angiolieri, nel quale il poeta espone una serie di desideri impossibili che lo portano a inveire contro tutto e tutti.
4
S’i’ fosse foco, ardereï ’l mondo; s’i’ fosse vento, lo tempestarei1; s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo2;
8
s’i’ fosse papa, allor serei giocondo3, ché tutti cristïani imbrigarei4; s’i’ fosse ’mperator, ben lo farei; a tutti tagliarei lo capo a tondo5.
11
S’i’ fosse morte, andarei a mi’ padre; s’i’ fosse vita, non starei con lui: similemente 6 farìa da mi’ madre.
14
S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui, torrei7 le donne giovani e leggiadre8: le zop[p]e e vecchie lasserei altrui9.
La metrica Sonetto con rime ABBA ABBA CDC DCD
1 tempestarei: lo tormenterei con tempeste; ar per er è un uso senese. 2 mandereil’ en profondo: lo farei sprofondare.
3 serei giocondo: sarei felice. 4 ché tutti cristïani imbrigarei: metterei in grossi guai tutti i cristiani. 5 a tondo: completamente; oppure, se lo riferiamo a tutti intorno: a tutti quelli che mi stanno intorno. 6 similemente: allo stesso modo.
7 torrei: prenderei. 8 leggiadre: belle. 9 altrui: ad altri.
Giocatori di dadi in taverna, miniatura da Codex Buranus, 1230 (Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera).
304 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
Analisi del testo Desideri irrealizzabili Con i periodi ipotetici dell’irrealtà (otto) che introducono piaceri irrealizzabili, Cecco gioca a parodiare il genere del plazer provenzale (un elenco di cose piacevoli) trasformandolo nel suo contrario, cioè l’enueg (un elenco di cose spiacevoli): il poeta vorrebbe bruciare il mondo, scuoterlo, annegarlo, sprofondarlo, mettere nei guai cristiani, decapitare tutti, andare dal padre e dalla madre nella veste della morte.
Parodia e gioco letterario Ciò che scrive il poeta nel sonetto non va quindi inteso come uno sfogo sincero: non bisogna infatti interpretare questo testo come una testimonianza reale, ma come un gioco letterario che si comprende solo alla fine del sonetto, quando il poeta afferma di essere Cecco e di esserlo sempre stato e sostituisce l’atteggiamento distruttivo alla enunciazione della sua filosofia di vita ispirata al godimento dei piaceri materiali. È chiaro quindi che, se nella poesia del poeta può ravvisarsi qualche elemento di verità autobiografica, essa è frutto di una elaborazione formale, ossia di un gioco letterario.
Lo stile Il fatto che si tratti di un gioco letterario è confermato dallo stile elaborato utilizzato dal poeta. Si può notare l’uso dell’anafora «S’i’ fosse», a cui fa da riscontro il condizionale in chiusura di verso in ben quattro casi (vv. 2-3-6-7), dando vita a una struttura simmetrica.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Fai il riassunto del sonetto. COMPRENSIONE 2. Fai un elenco dei desideri che Cecco esprime in questo sonetto. ANALISI 3. Come nel precedente sonetto Tre cose solamente m’enno in grado (➜ T3 ) è presente la figura paterna. In che modo viene descritta dal poeta?
Interpretare
STILE 4. Nei versi 13-14 è presente la figura retorica del chiasmo. Individuala. SCRITTURA CREATIVA 5. Immagina di scrivere un tuo sonetto intitolato S’i’ fosse foco. Su quali aspetti ti soffermeresti?
Sguardo sulla musica Fabrizio De André S’i’ fosse foco Nel 1968 Fabrizio de André mette in musica nell’album Volume III il componimento più famoso di Cecco Angiolieri senza alterarlo. Il periodo in cui incide è quello della “rivolta studentesca”: vengono occupate le università, i ragazzi girano con capelli e barba lunghi, si oppongono ai padri, alle madri e ai valori delle generazioni che li hanno preceduti. In questo clima diventa di grande attualità il sonetto del poeta Cecco Angiolieri. Cerca in rete la canzone di De André e dopo averla ascoltata esprimi le tue impressioni. Secondo te il ritmo scelto dal cantautore crea un clima drammatico o accentua gli aspetti comici?
online Audio
Fabrizio De Andrè S’i’ fosse foco
La copertina dell'album di Fabrizio De Andre' Volume III, del 1968, su cui è incisa la traccia di S'i' fosse foco.
I poeti comico-realisti 2 305
Duecento e Trecento La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
Sintesi con audiolettura
1 Il comico
Una nebulosa che sfugge alle categorizzazioni La comicità è una dimensione che attraversa epoche e culture diverse, collegandosi a generi sia popolari sia alti e utilizzando temi ricorrenti (come la beffa). Fin dall’antichità essa si lega a espedienti retorici e linguistici: dall’iperbole alla ripetizione, dall’errore volontario all’impiego di un linguaggio serio per una situazione con esso incongrua, dal doppio senso al nonsense, dalla satira alla parodia. Questi sono anche gli strumenti dei poeti comico-realisti medievali. I temi del comico nel Medioevo Nel Medioevo il “comico” era uno stile: quello della cultura bassa. Il suo utilizzo era focalizzato su tre temi: quello sessuale (contrapposto all’ascetismo), il «basso-corporeo» e quello blasfemo.
I portavoce del comico nella società medievale: goliardi e giullari La comicità nel Medioevo rappresenta innanzitutto una forma di trasgressione collegata alla dimensione della festa e del Carnevale, occasione per il popolo in cui contestare liberamente le gerarchie sociali e i modelli di comportamento. Al di fuori della festa, il comico è soprattutto presente negli spettacoli itineranti dei giullari, professionisti itineranti del divertimento buffonesco, e nella produzione dei goliardi: le composizioni dei goliardi (la più celebre raccolta è quella dei Carmina Burana), nate negli ambienti universitari e condannate dalla Chiesa, irridono le autorità e danno spazio al rifiuto dei principi proposti dalla cultura dominante. I Carmina Burana e il “mondo alla rovescia” Carmina Burana è appunto il titolo di una raccolta di canti anonimi in latino e in tedesco composti tra il XII e il XIII secolo da colti goliardi nell’ambito delle università tedesche ed europee. La prima parte ha carattere satirico verso la corruzione e la decadenza della Chiesa; centrale è poi il tema amoroso, elaborato mediante il rovesciamento dei canoni cortesi; i temi del bere, del cibo e del gioco d’azzardo, da vivere nella cornice dell’osteria, occupano la terza sezione della raccolta. Regnano, insomma, la dimensione corporea e il carnevalesco, in polemica con i valori cardine della società coeva.
306 Duecento e Trecento La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
2 I poeti comico-realisti
Parallelamente all’esperienza della lirica stilnovistica, si afferma in Toscana una linea poetica che afferisce all’area della comicità (pur non identificandosi del tutto con essa): si tratta dei poeti “comico-realisti”, definiti anche “giocosi” o “burleschi”, i cui maggiori rappresentanti sono il fiorentino Rustico Filippi, i cui sonetti comici sono caratterizzati da una lingua aspra e scurrile, e il senese Cecco Angiolieri (1260-1313 ca). Un tempo considerata frutto di spontaneo realismo, ma anche di una sorta di “maledettismo” (anticipatorio degli atteggiamenti dei poeti francesi di fine Ottocento), in realtà la poesia di Cecco e di altri poeti del gruppo ha un carattere tutto letterario: infatti, nelle scelte tematiche, si richiama consapevolmente ai modelli europei del comico (dai fabliaux alla poesia goliardica). Temi come l’esaltazione dell’amore sensuale e dell’osteria, dove si gioca e si beve, hanno in questi ultimi precisi riscontri; anche la maledizione del padre per la sua avarizia, ricorrente in Cecco, ha ascendenze letterarie. L’adozione di tematiche del quotidiano e persino volgari si deve ricollegare alla voluta contrapposizione con i modelli stilnovistici.
Zona Competenze Scrittura
1. In un testo espositivo di circa 15 righe indica, facendo gli opportuni riferimenti ai testi analizzati, le scelte stilistiche che rivelano la competenza tecnico-letteraria dei poeti comico-realisti.
Scrittura argomentativa
2. Riflettendo sui contenuti appresi in PER APPROFONDIRE e VERSO IL NOVECENTO proposti alle pp. 289 e 290, spiega in che cosa consisteva la potenziale carica eversiva del comico nella civiltà medievale.
Sintesi
Duecento e Trecento 307
Duecento e Trecento CAPITOLO
6 Dante Alighieri LEZIONE IN POWERPOINT
L'uomo Dante Nell’appassionata biografia del poeta fiorentino che Giovanni Boccaccio, uno dei suoi primi estimatori, scrisse in tre redazioni (dal 1350 al 1370) si ritrova un vivace ritratto di Dante che ne delinea l’aspetto fisico e i tratti più caratterizzanti della personalità.
Fu dunque questo nostro poeta di media statura. Quando giunse in età matura prese a muoversi un po’ incurvato, conservando peraltro un incedere solenne e composto. Era sempre abbigliato nei modi confacenti perfettamente alla dignità dell’uomo maturo che egli era. Aveva viso affilato e naso aquilino, occhi più sul grande che sul piccolo, mascella squadrata e labbro inferiore prominente; carnagione scura, capelli (come i peli della barba) neri, spessi e crespi, volto sempre malinconico e pensoso...[...] Nessuno più di lui fu così preso dagli studi e da qualsiasi altro interesse da cui fosse stimolato, tanto che la moglie e la famiglia in genere se ne ebbero a lamentare, almeno fino a quando, per l’abitudine, non ci fecero più caso. Se non veniva richiesto parlava di rado, ma allora lo faceva con ponderatezza e con toni adeguati all’argomento trattato; quando invece le circostanze lo richiedevano, era facondo [eloquente] e brillante oratore. [...] Fu inoltre, il nostro poeta, meravigliosamente dotato di ferrea memoria oltre che di penetrante intelletto, tanto da darne ampia dimostrazione, quando si trovava a Parigi, discutendo un quesito in una disputa scolastica d’ambito teologico, come allora usava. Egli, infatti, in quella circostanza fu in grado di ricostruire senza la minima difficoltà, quattordici tesi presentate su svariati argomenti da diversi studiosi di valore, e di riproporle tali e quali, in rigorosa successione, complete delle loro argomentazioni pro e contro. [...] Dell’elevatissimo livello intellettuale e della raffinata originalità della sua arte, che parimenti lo caratterizzavano, rendono molto più ampia testimonianza le sue opere di quanto possano qui le mie parole. Boccaccio, Vita di Dante (1a versione), a c. di P. Baldan, Moretti & Vitali, Bergamo 1991
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Dante è il primo e il più grande dei nostri classici, e anche uno dei pilastri della letteratura occidentale d’ogni tempo. L’indiscussa fama mondiale di Dante è legata alla Commedia. Sintesi possente dell’eredità della cultura classica e della cultura cristiano-medievale, la Commedia è l’opera che meglio ci può far comprendere il Medioevo. Con il suo capolavoro Dante consacra la supremazia del volgare e assurge a padre della lingua italiana. La restante produzione del poeta fiorentino è legata ai generi e alle tendenze proprie della cultura medievale, a cominciare dalla Vita nuova, in cui ha un ruolo centrale la figura di Beatrice, che Dante trasfigura, attribuendole una funzione salvifica. Nelle successive opere Dante sintetizza i grandi temi culturali dell'epoca: dal Convivio, sintesi della filosofia del tempo, al De vulgari eloquentia, celebrazione delle potenzialità della lingua volgare, alla Monarchia, riflessione sul rapporto fra impero e papato.
1 ritratto d'autore 2 La Vita nuova parola di Dante nei 3 Lageneri e nei grandi temi culturali del suo tempo
4 Il poema sacro 309 309
1 Ritratto d’autore nascita, la giovinezza, 1 La la prima formazione VIDEOLEZIONE
CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI
Una storia (ancora) avvolta nel mistero La vita del nostro maggior poeta rimane per molti aspetti oscura, nonostante secoli di indagini. Non ci è pervenuto alcuno scritto autografo e interi periodi della vita di Dante restano misteriosi. Le principali notizie provengono proprio dalla Commedia, in quanto disseminata Ritratto di Dante in un dipinto di riferimenti autobiografici che, per quanto preziosi, di Sandro Botticelli (1495 ca., collezione priv., Ginevra). tuttavia non riescono a colmare molte lacune. Dante (diminutivo di Durante) Alighieri nacque a Firenze tra il maggio e il giugno del 1265, in un’epoca in cui la città conosceva una grande espansione economica (nel 1252 era stato coniato il fiorino, prima moneta internazionale) sia come centro tessile sia come sede di floride attività bancarie (➜ SGUARDO SULLA STORIA La Firenze di Dante, PAG. 316). D’altra parte erano molto radicati nella città i conflitti tra le avverse fazioni dei guelfi (sostenitori del papa) e dei ghibellini (sostenitori dell’imperatore), destinate nel tempo a complicarsi ulteriormente per la divisione dei guelfi in Bianchi e Neri.
Cronologia interattiva
1294
Inizia il pontificato di Bonifacio VIII. 1293
Gli Ordinamenti di Giano della Bella escludono i nobili dalle cariche politiche.
1266
La battaglia di Benevento pone fine alla potenza sveva in Italia.
1250
1260
1270 1265
Nasce a Firenze da una famiglia della piccola nobiltà guelfa.
1280
1290
1283 ca
Segue gli insegnamenti di retorica di Brunetto Latini. Inizia il suo apprendistato poetico e frequenta Guido Cavalcanti, con cui stringe un rapporto di intensa amicizia.
1289
Partecipa alla battaglia di Campaldino nelle fila della lega guelfa contro i ghibellini di Arezzo. 1290
Muore Bice Portinari, sposa di Simone de’ Bardi, celebrata da Dante con il nome di Beatrice.
1293-95
Si dedica agli studi filosofici e teologici e compone la Vita nuova.
310 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
La famiglia di Dante apparteneva alla piccola nobiltà di parte guelfa. Anche se il poeta si mostra spesso fortemente critico verso la decadenza di valori che colpiva la classe nobiliare, manterrà comunque alcuni atteggiamenti propri della sua classe sociale: in particolare lo sdegnoso disprezzo per i nuovi ricchi, la gente nova, che animava la dinamica vita sociale del comune. Il padre di Dante, date le non elevate possibilità economiche della famiglia, esercitava un mestiere non molto onorevole: quello di cambiavalute (e forse anche di usuraio). Di lui Dante non parla mai, preferendo scegliersi nella Commedia una serie di “padri ideali”, a cominciare dal trisavolo Cacciaguida, cui affida nel Paradiso un ruolo assai rilevante (➜ PER APPROFONDIRE Un padre rifiutato, dei padri ideali, PAG. 312). Quanto alla madre Bella, essa muore quando il poeta ha solo dieci anni. Anche di lei nella Giotto, ritratto di Dante, particolare del Giudizio Commedia non resta traccia. universale, 1334-1337, affresco nella Cappella del podestà Sulla prima formazione di Dante possiamo fare solo (Palazzo del Bargello, Firenze). delle congetture: sarà stata certo conforme all’educazione che ricevevano i ceti superiori in quel tempo, che prevedeva il percorso del trivio e del quadrivio, ovvero lo studio delle sette arti liberali (grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, musica e astronomia).
1300
1309
Bonifacio VIII indice il solenne giubileo. 1301
Carlo di Valois viene inviato dal papa a Firenze con lo scopo di pacificare la città, in realtà per favorire la presa di potere dei Neri. I priori in carica vengono deposti ed è avviata un’inchiesta sul loro operato.
1300
Clemente V, succeduto a Bonifacio VIII, trasferisce la sede papale ad Avignone.
1310
1310-1313
Arrigo VII scende in Italia per restaurare l’autorità imperiale. Incoronato a Roma, morirà improvvisamente nel 1313.
1330
1340
1320 1316
1300
Viene eletto priore.
1306-1307
1301
Probabile inizio della composizione della Commedia: l’Inferno (per alcuni 1304-1308).
È a Roma per un’ambasceria a Bonifacio VIII.
1315 1303-1304
Iniziano le peregrinazioni per l’Italia. Compone: il Convivio e il De vulgari eloquentia.
1295
Inizia la carriera politica, avvicinandosi alla linea dei guelfi bianchi.
1302
Rifiuta l’offerta del governo fiorentino di rientrare in Firenze a condizioni che considera umilianti.
Viene accusato di corruzione. È esiliato e condannato a morte in contumacia.
Comincia a scrivere il Paradiso.
1312-1313
1321
Dante è ospite di Cangrande della Scala a Verona (dove rimarrà, con qualche interruzione, fino al 1319 ca.). Con ogni probabilità, termina il Purgatorio (iniziato forse nel 1309). In questi anni compone anche la Monarchia.
Durante un’ambasceria a Venezia si ammala. Muore a Ravenna fra il 13 e il 14 settembre.
1319-20
È a Ravenna, ospite di Guido Novello da Polenta.
Ritratto d’autore 1 311
PER APPROFONDIRE
Forse già nella prima giovinezza Dante frequentò Brunetto Latini, maestro di retorica e intellettuale di spicco nel comune di Firenze (➜ SCENARI, PAG. 53), una delle figure guida della sua formazione, ricordato con commosse parole nella Commedia (➜ D2 ). Appena ventenne, Dante sposa Gemma Donati, appartenente a una delle famiglie guelfe più in vista in Firenze: da lei avrà i figli Jacopo e Pietro, poi letterati e primi commentatori della Commedia, Antonia (divenuta in seguito suor Beatrice) e forse un quarto figlio, Giovanni. Anche della moglie non esiste alcun cenno nella Commedia, ma occorre ricordare che i matrimoni erano al tempo di Dante esclusivamente patti economico-politici che le famiglie stringevano tra di loro e non erano certo fondati sul sentimento amoroso dei due coniugi.
Un padre rifiutato, dei padri ideali Alighiero II, il padre di Dante Dante non nomina mai, né nella Commedia, né in alcun altro suo scritto la figura di suo padre, Alighiero II, sebbene questi sia vissuto abbastanza a lungo (a differenza della madre Bella, morta prestissimo) per incidere sulla vita e sulla formazione di Dante. La figura di Alighiero II viene chiamata in causa (in modo volutamente offensivo per Dante) nella tenzone con Forese Donati, senza che Dante peraltro risponda in alcun modo alle provocazioni dell’amico. I pochi documenti di cui disponiamo ci parlano del padre del poeta come di un uomo d’affari piuttosto gretto; forse Dante non lo riteneva degno dell’alta immagine di sé che intendeva trasmettere ai lettori della Commedia. Il sostanziale rifiuto del proprio vero padre viene compensato nel poema dalla forte presenza di personaggi che ben possono essere definiti “padri ideali”: degni, essi sì, di figurare nel poema sacro come genitori elettivi di Dante.
di cui Dante rievoca con note nostalgiche «la cara e buona immagine paterna» e che a sua volta definisce Dante «figliol mio». In relazione alla fiorentinità del personaggio, Brunetto è utilizzato nella Commedia per costruire – con l’autorevolezza del “padre” appunto – l’antitesi netta tra Dante e gli ingrati fiorentini che l’hanno ingiustamente emarginato dalla vita attiva. Guinizzelli Ma altrettanto importante nella Commedia è la “paternità” in ambito culturale e letterario, come nel caso di Guido Guinizzelli, che Dante immagina di incontrare tra i lussuriosi nel Purgatorio e che definisce con suggestiva perifrasi «il padre mio e de li altri mei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre» (Pg XXVI), riconoscendo così esplicitamente al poeta bolognese il ruolo di caposcuola nella poesia amorosa.
Brunetto Latini Un ruolo importante e una funzione “paterna” sono inoltre affidati a Brunetto Latini (➜ SCENARI, PAG. 53)
Virgilio Tra i padri ideali spicca ovviamente la figura di Virgilio, indiscutibile auctoritas per il Medioevo («tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore»), ma che Dante ritrae, soprattutto nel Purgatorio, essenzialmente come guida sollecita e affettuosa, come sostegno nei momenti di dubbio e difficoltà, proprio come dovrebbe essere un padre. Assai spesso del resto Dante usa per Virgilio espressamente il termine padre (addirittura «lo più che padre» in Pg XXIII, 4), ma particolarmente intenso (e commovente), è l’appellativo dolcissimo patre che Dante rivolge al suo maestro nel momento doloroso e smarrito del congedo definitivo da lui: «Ma Virgilio n’avea lasciati scemi / di sé [ci aveva abbandonato], Virgilio dolcissimo patre, / Virgilio a cui per mia salute die’mi [a cui mi ero affidato per la mia salvezza]» (Pg XXX, 49-51).
Dante e Virgilio incontrano Brunetto Latini, illustrazione di Gustave Doré per il canto XV dell’Inferno.
Mosaico del III secolo che raffigura il poeta Virgilio tra le muse Clio e Melpomene (Museo del Bardo, Tunisi).
Cacciaguida Il più importante di questi “padri ideali” è Cacciaguida, il trisavolo di Dante cui viene affidata l’importantissima funzione di svelare al poeta il suo destino di esule e di consacrarne la missione poetica. Cacciaguida è chiamato espressamente “padre” due volte (Pd XVI, 16 e XVII, 106), ma già l’incontro solenne tra Dante e il suo antenato (Pd XV), attraverso l’esplicito rimando all’incontro tra Enea e il padre Anchise nell’Ade, introduce il tema della paternità ideale.
312 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
2 La “donna della salute” e l’esperienza stilnovista Il mito di una donna Secondo quanto Dante narra nella Vita nuova (➜ PAG. 321), a soli nove anni incontrò per la prima volta Beatrice, la figura femminile che non solo ispirerà tante liriche di Dante, poi inserite nella Vita nuova, ma che costituisce il vero centro dell’itinerario poetico e umano del poeta fiorentino. La donna amata da Dante fu Bice Portinari, sposa di Simone de’ Bardi, morta nel 1290 a ventisei anni; ma non ha particolare importanza conoscere la reale identità storica di colei che Dante chiama, con nome allusivo e simbolico, Beatrice (“colei che beatifica”), dato che il poeta sottopone la sua figura a un processo di trasfigurazione sublimante, che ne fa un mito umano e insieme poetico. La devozione alla “donna della salute” (come Dante la definisce nella Vita nuova) è cantata in forme letterarie riconducibili alla linea poetica che si suole definire “dolce stil novo”, prendendo spunto dall’espressione usata da Dante nell’episodio dell’incontro con il poeta Bonagiunta da Lucca (Pg XXIV). Le prime esperienze poetiche Dante aveva iniziato a comporre poesie a partire dagli anni Ottanta del XIII secolo in modi poetici riconducibili alla linea dominante della poesia cortese, nata in Provenza e poi radicata anche in Italia attraverso l’esperienza della lirica siciliana e quindi siculo-toscana. Verso la fine del secolo (probabilmente tra il 1286 e il 1287) Dante si reca a Bologna, prestigioso centro della dotta cultura universitaria, dove operava il poeta Guido Guinizzelli. Gli anni dello stilnovismo Dante entra poi in contatto con il gruppo di poeti toscani (tra cui Lapo Gianni, Gianni Alfani, Guido Cavalcanti), i “fedeli d’Amore” secondo la definizione di Dante, che danno vita a un nuovo indirizzo poetico incentrato sulla celebrazione del tema amoroso (lo stilnovo, appunto): Dante stesso Dante e Beatrice nel vi contribuisce in modo rilevante con le sue liriche amorose. A distanza di anni, cielo della Luna quando compone il XXIV canto del Purgatorio, Dante tende a enfatizzare il proprio da un codice trecentesco contributo, attribuendosi un ruolo centrale nella poetica stilnovistica e assegnando della Divina un significato chiave alle “rime della loda”, inaugurate dalla canzone Donne ch’avete Commedia della Biblioteca intelletto d’amore e collocate al centro della Vita nuova (➜ PAG. 321). nazionale D’altra parte non manca nella Commedia (If XXVI) il riconoscimento dei meriti del Marciana di Venezia. bolognese Guido Guinizzelli, esaltato come il maestro che diede inizio alle “rime d’amor dolci e leggiadre”; appare invece strano che nella Commedia venga fatto passare sotto silenzio il magistero dell’amico Guido Cavalcanti, nonostante l’evidente influenza dei modi cavalcantiani presente soprattutto nella prima parte della Vita nuova. Ma questo silenzio ha forse a che fare con la storia di un’amicizia, quella appunto tra Dante e Guido, probabilmente interrotta per sopraggiunte divergenze ideologiche (➜ PER APPROFONDIRE Dante e Guido Cavalcanti: un’amicizia interrotta, pag. 314 ➜ D3 OL). La morte prematura di Beatrice (giugno 1290) pone fine a una fase della vita e insieme dell’esperienza poetica di Dante e provoca in lui grave sconforto. Scrive al proposito Boccaccio: «Questa perdita gettò Dante in un tale doloroso stato di prostrazione e di pianto, che i suoi più stretti familiari e amici online temettero a tutto ciò potesse porre fine solo con la morte; che D1 Giovanni Boccaccio Il primo incontro tra Dante e Beatrice ritennero anche imminente vistolo sordo a qualsiasi parola di Vita di Dante conforto, impenetrabile a ogni consolazione». Ritratto d’autore 1 313
consolazione della filosofia. 3 La La «selva oscura» e il mistero del traviamento La frequentazione del sapere filosofico Come scrive in un passo del Convivio (II, XII 1-7), dalla prostrazione seguita alla morte di Beatrice Dante cominciò a risollevarsi leggendo le opere di Boezio (soprattutto il De consolatione philosophiae) e di Cicerone (in particolare il De amicitia) e dedicandosi intensivamente allo studio della filosofia: «Cominciai ad andare là dov’ella [la filosofia] si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti». Con “scuole de li religiosi” Dante si riferisce allo studium domenicano di Santa Maria Novella a Firenze (in cui dovette approfondire gli insegnamenti dei principali esponenti della filosofia scolastica, ovvero Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, e conoscere il pensiero di Aristotele) e al convento francescano di Santa Croce (dove entrò in contatto con il pensiero mistico-ascetico di Bonaventura da Bagnoregio e presumibilmente accostò il filone platonico-agostiniano del pensiero medievale). Negli anni tra il 1290 e il 1295 Dante acquisisce dunque un rigoroso sapere filosofico-teologico che confluirà in parte nel progetto enciclopedico del Convivio, nelle rime dottrinali e quindi nel poderoso edificio della Commedia. Oltre lo stilnovo: la sperimentazione della materia comico-realistica Al tempo stesso Dante sperimenta forme letterarie diverse, riconducibili allo stile “comicorealistico”, dietro le quali, come scrive Giorgio Petrocchi, sta un pubblico che apprezzava «le piacevolezze del parlar scurrile, le risate sguaiate […], i sottintesi maliziosi e le simbologie erotiche». All’interno della sperimentazione di questo ambito stilistico-tematico (in cui si colloca anche Il Fiore, da alcuni critici attribuito a Dante) riveste particolare importanza la tenzone con Forese Donati (➜ T10 ), collocabile tra il 1293 e il 1296, anno della morte di Forese: si tratta di uno scambio di sonetti ingiuriosi (alla maniera dei poeti giocosi toscani) con un amico fiorentino, poi ricordato affettuosamente nel canto XXIII del Purgatorio.
PER APPROFONDIRE
Il traviamento La forte coesione tra scelte poetiche e itinerario interiore che sempre caratterizza la figura intellettuale di Dante e il turbamento con cui il poeta
Dante e Guido Cavalcanti: un’amicizia interrotta L’amicizia con Guido Cavalcanti: un sodalizio poetico e intellettuale Come egli stesso ricorda nella Vita nuova, negli anni della sua giovinezza Dante stringe amicizia con Guido Cavalcanti, poeta fiorentino (ca. 1250-1300), definito «quelli che io chiamo primo de li miei amici» (Vita Nuova III). Un’amicizia fondata sull’appartenenza alla stessa raffinata élite dei poeti d’amore stilnovisti a cui allude metaforicamente il celebre sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io. Negli anni della loro amicizia Dante e Guido devono aver condiviso anche una posizione filosofica: l’adesione all’aristotelismo radicale (o averroismo), una linea di pensiero presente all’Università di Parigi nella seconda metà del Duecento e che circolò anche in Italia, soprattutto a Bologna. Dell’averroismo restano tracce nel Convivio e nel De vulgari eloquentia, mentre nella Commedia Dante mostra di averne ormai preso le distanze. Il ripensamento di Dante e il distacco da Guido Se questa posizione filosofica all’inizio deve aver unito Dante e Guido,
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in seguito deve aver costituito la ragione principale del loro distacco. Come scrive Maria Corti (che ha dedicato uno studio fondamentale alla presenza dell’aristotelismo radicale in Dante e ai suoi rapporti con Guido Cavalcanti), a un certo punto, non sappiamo bene quando, Guido dovette «apparire a Dante su un’altra sponda». Mentre il poeta della Commedia si allontana dal fascino dell’aristotelismo radicale e la sua posizione filosofica si fonda sull’aristotelismo “ortodosso”, cioè tomistico, con aperture al misticismo francescano, Guido deve essere rimasto legato ad esso: del resto la figura di sé che Guido trasmette ai posteri, come ci testimonia una celebre novella di Boccaccio, è quella di «loico e filosofo naturale», ovvero colui che non ammette nulla che non abbia a che fare con cause naturali. Non c’è quindi da stupirsi se i due amici si dovettero allontanare l’uno dall’altro. Anche se in modo criptico, Dante allude alla frattura tra lui e l’amico nel celebre canto X dell’Inferno.
rievoca nella Commedia i tempi dell’amicizia con Forese inducono a pensare che l’esperienza della tenzone abbia in qualche modo a che fare con il misterioso “traviamento” di Dante. Esso, come si deduce dai rimproveri di Beatrice nel canto XXX del Purgatorio, iniziò dopo la morte della donna amata, quando il poeta, secondo le accuse della donna, cominciò a volgere «i passi suoi per via non vera, / imagini di ben seguendo false». Un traviamento che, in assenza di più precisi elementi, deve collocarsi dopo il 1290 (anno appunto della morte di Beatrice) e prima del 1300 (per la verità lo smarrimento nella selva oscura del peccato è collocato nella Commedia in questa data, ma esclusivamente secondo una logica simbolico-narrativa che esclude un preciso rimando realistico). Come deve essere interpretato il traviamento di Dante? È da intendersi in senso morale, letterario, dottrinale o, più probabilmente, tutte queste cose insieme? Negli anni del lutto, approfondendo le sue conoscenze filosofiche, Dante conobbe forse la seduzione dell’aristotelismo radicale e quindi del razionalismo estremo, che fu condiviso dall’amico Guido. Quello che è certo è che Dante vive una crisi che rischia di disperdere le sue energie anche come poeta e di introdurre nella sua storia intellettuale pericolosi elementi devianti rispetto al rigore morale e insieme stilistico delle “rime della loda”, che lo avevano consacrato raffinato cantore di un purissimo sentimento amoroso. Il “ritorno a Beatrice” A distanza di anni, ponendo mano al poema sacro, Dante sa che occorreva “ricominciare da Beatrice”, la donna dell’amore virtuoso e salvifico, tramite verso l’amore di Dio, per completare degnamente la sua carriera poetica e la sua stessa storia personale.
4 La passione (e la delusione) della politica Lessico priori A Firenze i priori erano dapprima i rappresentanti delle Arti più importanti; poi, dalla fine del XIII secolo, i capi del governo della città.
Gli esordi Nel 1295 fa il suo ingresso nella vita politica dopo essersi iscritto all’Arte dei medici e degli speziali: per i nobili era necessario, infatti, iscriversi a una delle Arti qualora volessero ricoprire una carica pubblica. Dante priore Nel 1300, dopo essere stato ambasciatore a San Gimignano, Dante diventa uno dei priori di Firenze. In quello stesso anno, con l’obiettivo di porre un freno agli scontri sanguinosi tra Bianchi e Neri che funestavano quotidianamente la vita della città, i priori decidono di esiliare i capi delle due fazioni (otto di parte nera e sette di parte bianca): tra questi ultimi figura anche Guido Cavalcanti, amico di Dante e appartenente, come il poeta, ai Bianchi. L’ambasceria a Roma Nel 1301 Dante è a Roma alla guida di un’ambasceria presso il papa, volta a sondarne le reali intenzioni. Intanto Carlo di Valois, chiamato dal pontefice per far da paciere (ma in realtà per sostenere la politica ecclesiastica e favorire l’affermazione del partito dei Neri), entra in Firenze: i Neri ne approfittano per abbandonarsi a rappresaglie e violenze nei confronti dei capi bianchi, che lasciano precipitosamente la città, e per istituire nei loro confronti processi sommari. Battaglia di Montaperti tra ghibellini e guelfi, in una miniatura dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani (XIV secolo, Biblioteca Apostolica Vaticana).
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La condanna A Dante – che, dice il Boccaccio, «fu trattato non come un avversario minore bensì alla stregua di uno dei massimi caporioni» – viene rivolta l’accusa di baratteria, cioè di corruzione nell’amministrazione pubblica. Invitato a discolparsi di persona, il poeta, come del resto la maggior parte dei capi bianchi, non si presenta e viene allora condannato alla confisca permanente dei beni e alla morte sul rogo, nel caso fosse stato catturato (l’atto di condanna è uno dei rari documenti che possediamo relativi alla biografia dantesca). Inizia così il doloroso periodo dell’esilio: a Firenze Dante lascia la moglie, Gemma Donati, e tre figli.
5 Gli anni dell’esilio. La morte: Dante entra nella leggenda L’esilio: un’esperienza drammatica ma ricca di frutti L’esilio fu prima di tutto un’esperienza dolorosa e umiliante per il poeta («per le parti tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato», scrive nel Convivio (➜ D4b ). D’altra parte, se non fosse stato bandito da Firenze, forse Dante sarebbe
Sguardo sulla storia La Firenze di Dante Firenze emerge abbastanza tardi nel panorama dei comuni italiani, ma in compenso raggiunge una posizione preminente già nella seconda metà del Duecento, distinguendosi nell’attività commerciale e bancaria. Firenze si specializza nel settore della lana (e successivamente della seta): quando Dante nasce (1265) quasi un terzo della popolazione di Firenze è occupata in questo ambito lavorativo. Man mano che la produzione si intensifica e cresce il giro d’affari, all’azienda familiare o comunque di tipo artigianale (la “bottega”), si affiancano fabbriche di grandi dimensioni, in cui operano concentrazioni di lavoratori salariati. L’incremento della ricchezza e la presenza in Firenze di forti concentrazioni di capitali alimentano ben presto la nascita di compagnie bancarie in mano a potenti famiglie (come i Peruzzi, gli Adimari, i Portinari, i Rucellai), che gestiscono il traffico di capitali e prestano denaro a chiunque (compresi re e papi) ne faccia richiesta. Si crea così a Firenze una ricca classe di mercanti, imprenditori, banchieri che non ha eguali in Europa. La potenza economica di Firenze trova la testimonianza più evidente e insieme il suo strumento più valido nella coniazione del fiorino d’oro (1252), destinato a diventare nel giro di pochi anni la moneta più accreditata nel commercio internazionale. La presenza di una ricca borghesia mercantile e finanziaria spiega anche l’evoluzione istituzionale del comune di Firenze: questa classe, organizzata corporativamente nelle Arti maggiori, che già detiene il potere economico nella città, rivendica per sé la direzione degli affari cittadini, giungendo ben presto a conquistarla. Queste le tappe essenziali della conquista. Nel 1282 sono conferiti i maggiori poteri politici a una nuova magistratura (i sei priori), che era espressione delle Arti maggiori e mediane. Nel 1293 gli Ordinamenti di Giano della Bella riservano l’esercizio delle cariche pubbliche solo a chi è iscritto alle Arti
316 DuecenTo e TrecenTo 6 Dante Alighieri
(maggiori, mediane e minori), aprendole quindi anche al popolo minuto e negandole invece alle famiglie che appartenevano all’aristocrazia feudale. Gli Ordinamenti furono effettivamente applicati solo per due anni; nel 1295 alcune famiglie nobiliari riprendono l’egemonia, dando luogo a un breve e precario equilibrio. Lo scenario politico fiorentino, negli anni immediatamente successivi, è dominato dagli aspri contrasti tra la fazione dei Bianchi e quella dei Neri. I Bianchi, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi, venuta dal contado e arricchitasi in poche generazioni, erano disponibili nell’ambito della vita del comune alla collaborazione con il popolo grasso (ovvero i ceti artigiani e mercantili) e nell’ambito politico più generale erano gelosi custodi dell’autonomia comunale. La fazione dei Neri (capeggiati dalla famiglia dei Donati), rappresentava la classe magnatizia ed era disposta a sacrificare l’autonomia del comune con concessioni alla politica del papato nel momento in cui essa appare coincidere con i loro interessi economici.
1° maggio 1300: gli scontri tra le brigate dei giovani Cerchi e Donati (miniatura di un manoscritto della Biblioteca Vaticana).
rimasto legato a un’ottica municipale, non avrebbe superato l’ambito della poetica stilnovistica, e probabilmente non sarebbe arrivato a immaginare un’opera di ambizioni universalistiche come la Commedia. In esilio, oltre a realizzare il grandioso progetto della Commedia, Dante compone tutte le opere di più vasto impegno culturale, come il Convivio, il De vulgari eloquentia, il Monarchia, nelle quali si pronuncia autorevolmente sulle più importanti problematiche del suo tempo. Al periodo dell’esilio appartengono anche le tredici epistole in latino, nelle più significative delle quali campeggia la figura fiera e risentita, l’alta statura morale e civile dell’exul immeritus, che assume quel ruolo di severo moralista e profeta del proprio tempo che si ritrova anche nella Commedia. Le peregrinazioni per l’Italia Dopo qualche iniziale contatto con gli altri esuli di parte bianca (poi definiti «compagnia malvagia e scempia», Pd XVII), Dante si isola e inizia una solitaria peregrinazione in varie zone e corti d’Italia, dove riesce a trovare ospitalità e protezione (➜ D4a ). Il primo refugio è Verona, presso la corte degli Scaligeri, dove soggiorna tra il 1303 e il 1304 e dove ritornerà forse già nel 1312; quindi forse nella Marca Trevigiana, in Lunigiana nel 1306, a Lucca forse nel 1308. Secondo la testimonianza di Boccaccio (ma anche di altri contemporanei, tra cui il cronista Villani), si reca addirittura a Parigi; non abbiamo, però, alcuna conferma di un soggiorno parigino del poeta. L’elezione di Arrigo VII alimenta le speranze di Dante L’elezione di Arrigo VII al soglio imperiale nel 1308 anima le speranze di Dante in una restaurazione dell’autorità imperiale e in una renovatio dell’Europa cristiana. Nell’attesa che l’imperatore scenda in Italia («il giardino dell’impero») per l’incoronazione, stabilita per il 2 febbraio 1312, Dante decide di esporsi personalmente scrivendo una lettera ai re e signori d’Italia in cui, con tono biblico-profetico, annuncia la venuta del “messo di Dio” che avrebbe riportato la giustizia in Italia e stroncato ogni ribellione all’autorità dell’imperatore, preposto dalla volontà di Dio al governo del mondo. La delusione La spedizione si rivela però ben presto inconcludente e Firenze rimane ribelle all’autorità imperiale. Nel 1313 Arrigo VII muore improvvisamente infrangendo crudelmente la generosa utopia dantesca e troncando definitivamente ogni speranza del poeta di poter rientrare in patria. Non riuscì più a rivedere Firenze, abbandonata vent’anni prima. Aveva rifiutato con indignazione un compromesso umiliante (riconoscere le proprie colpe) che gli avrebbe consentito di ritornare in città. Il comune rinnova la condanna a morte nel 1315, estendendola anche ai figli. L’ultimo soggiorno. La morte Dopo aver soggiornato a lungo a Verona alla corte di Cangrande della Scala (esaltato nel canto XVII del Paradiso), Dante è infine ospite di Guido da Polenta, a Ravenna. Sarà l’ultima tappa dell’esilio e del suo itinerario su questa terra: colpito da malaria, muore nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321, all’età di 56 anni. Guido da Polenta gli fa porre sul capo quella corona d’alloro che invano aveva desiderato di ricevere dalla sua città per i suoi altissimi meriti poetici. Pur essendone ormai da tempo diffusa la conoscenza, il poema sacro non era infatti riuscito a infrangere la dura condanna delle autorità fiorentine nei confronti del poeta. Le esequie, a quanto ci testimonia Boccaccio, furono particolarmente solenni; manifestazioni di costernazione per la scomparsa del grande poeta vennero da più parti (ma non dalla sua Firenze) e iniziò a crearsi nell’immaginario popolare quella trasfigurazione di Dante che nel giro di pochi anni ne avrebbe fatto una figura leggendaria. Ritratto d’autore 1 317
Dante Alighieri
D2
M’insegnavate come l’uom s’etterna Inferno XV, 79-87
D. Alighieri Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
Dante rivolge a Brunetto commosse parole, rievocando il suo alto magistero (sono i versi qui presentati).
«Se fosse tutto pieno il mio dimando1», rispuos’io lui, «voi non sareste ancora 81 de l’umana natura posto in bando2; ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, la cara e buona imagine paterna 84 di voi quando nel mondo ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna3: e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo 87 convien che ne la mia lingua si scerna4.
1 Se fosse… il mio dimando: se potesse essere esaudito il mio desiderio (dimando). 2 voi… in bando: voi non sareste ancora morto. 3 ché… s’etterna: perché mi è impressa nella memoria (mente) e ora mi addolora la cara e buona immagine paterna di voi quando in terra (nel mondo) m’insegnava-
te come l’uomo possa rendersi immortale (attraverso le opere meritorie che gli assicurino una fama imperitura). La vaghezza dell’espressione usata da Dante, poeticamente molto suggestiva e giustamente celebre, non ci consente di definire in cosa consistette l’insegnamento di Brunetto: probabilmente una lezione insieme di retorica e di princìpi etico-politici. Anche nella
Cronica di Villani (VIII, 10) peraltro Brunetto è celebrato come autorevole maestro. 4 e quant’io… si scerna: e finché sarò vivo occorrerà (convien) che nelle mie parole (ne la mia lingua) si veda (si scerna) quanto io vi sia grato di tale insegnamento (quant’io l’abbia in grado).
Concetti chiave L'autorevole maestro
Brunetto Latini (1220-1294) fu un personaggio di grande rilievo nella Firenze dei tempi di Dante. Nell’Inferno Dante immagina di incontrarlo tra gli omosessuali (condannati a quel tempo come peccatori) e di avere con lui un vivace dialogo, volto indirettamente a celebrare Dante stesso isolandolo dai suoi concittadini, per i quali Brunetto ha aspre parole di condanna. È probabile che proprio da Brunetto Dante abbia appreso il legame fra sapere retorico e politica necessario al tempo per distinguersi nella società comunale.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi dei versi proposti. COMPRENSIONE 2. Da quali espressioni puoi dedurre che, per Dante, Brunetto rappresentò un padre ideale (➜ PER APPROFONDIRE, Un padre rifiutato, dei padri ideali, PAG. 312)? ANALISI 3. Tra le parole in rima quali sono quelle che hanno valore chiave per intendere il senso profondo del passo?
Interpretare
SCRITTURA 4. In che modo, secondo Dante, l’uom s’etterna (v. 85)? Perché il poeta sembra insistere su questo punto? (max 20 righe)
online D3 Guido Cavalcanti
Io vegno ’l giorno a te Rime
318 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Testi In dialogo
D4a
Il dramma dell’esilio Dante Alighieri
Tu lascerai ogne cosa diletta Paradiso XVII, 55-69 D. Alighieri Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
Nel corso del viaggio nel paradiso, Dante immagina di incontrare lo spirito di Cacciaguida, suo antenato, spirito nobile vissuto nella Firenze antica e morto in una crociata in Terrasanta, che gli profetizza la dolorosa esperienza dell’esilio. Mentre compone questi versi, Dante si trova già da molti anni in esilio (il viaggio ultraterreno, nella finzione narrativa, è ambientato nel 1300), e quindi queste parole fatte pronunciare da Cacciaguida sono il frutto dell’amara esperienza che il poeta stava da tempo effettivamente vivendo.
Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale 57 che l’arco de lo essilio pria saetta1. Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle 60 lo scendere e ’l salir per l’altrui scale2. E quel che più ti graverà le spalle, sarà la compagnia malvagia e scempia 63 con la qual tu cadrai in questa valle3; che tutta ingrata, tutta matta ed empia si farà contr’a te; ma, poco appresso, 66 ella, non tu, n’avrà rossa la tempia4. Di sua bestialitate il suo processo farà la prova; sì ch’a te fia bello 69 averti fatta parte per te stesso5.
L’esilio di Dante in due particolari di una miniatura dal codice Yates Thompson 36 illustrato da Giovanni di Paolo (1445 ca., British Library, Londra). 1 Tu lascerai… pria saetta: tu lascerai tutto ciò che ti è più caro; e questa è la prima dolorosa conseguenza dell’esilio. 2 Tu proverai… l’altrui scale: attraverso le metafore impiegate si allude al disagio che Dante proverà per essere costretto a chiede-
re ospitalità; duro calle significa “strada difficile”. 3 E quel… valle: e ciò che più ti opprimerà saranno i compagni malvagi e stolti con i quali ti ritroverai in questa difficile condizione (ovvero l’esilio). 4 ella... la tempia: allusione agli
inutili tentativi dei fuoriusciti bianchi per rientrare in Firenze. 5 Di sua bestialitate… per te stesso: gli eventi mostreranno l’insipienza (bestialitate) dei compagni d’esilio di Dante, per il quale sarà onorevole essere rimasto al di sopra delle parti.
Ritratto d’autore 1 319
D4b
Dante Alighieri
Legno sanza vela Convivio I, III, 4-5 D. Alighieri Convivio, a c. di F. Brambilla Ageno, 2 voll., Casa Editrice Le Lettere, Firenze 1995 (Edizione nazionale delle Opere di Dante Alighieri a cura della Società Dantesca Italiana)
Nel primo trattato del Convivio Dante chiama in causa la durezza dell’esilio per giustificare le difficoltà contenutistiche e stilistiche della sua opera. Il passo costituisce un documento prezioso poiché è il poeta stesso, senza intermediari (come è invece il caso delle terzine di Cacciaguida) a parlarci dell’esilio, e lo fa con grande pathos, per sensibilizzare il lettore nei riguardi di quella che Dante considera una grave ingiustizia. Si ricordi che lo scrittore concepisce un’opera ardua come il trattato enciclopedico denominato Convivio anche per riscattare la propria immagine, gravemente compromessa dalle infamanti accuse che gli erano state rivolte e alle quali non poté replicare, non essendosi presentato al processo.
Poi che fu piacere delli cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma1, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo della vita mia2, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo core di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’