A tutto volume sample

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A TUTTO VOLUME

Prefazione di Vincenzo Schettini

Editoriale ELi
Francesca Bugiolacchi Gruppo

PROPOSTA DI INCONTRO CON LA CLASSE

La casa editrice offre l’opportunità di organizzare incontri con l’associazione Penso Positivo by Tommaso e con l’autrice.

Questo progetto rappresenta un’iniziativa volta a lasciare un’impronta duratura nei ragazzi e nelle ragazze, trasformando la lettura in un’esperienza indimenticabile e altamente formativa. Inoltre, per favorire la partecipazione di tutte le scuole che lo desiderino, sono disponibili anche incontri online in diretta. Il progetto si può svolgere durante tutto il corso dell’anno scolastico.

Per ulteriori dettagli e per richiedere un incontro, è possibile contattare direttamente l’Ufficio Formazione del Gruppo

Editoriale ELi all’indirizzo formazione@gruppoeli.it, o il concessionario di zona.

A TUTTO VOLUME

Prefazione di Vincenzo Schettini

Editoriale ELi
Gruppo Francesca Bugiolacchi

Francesca Bugiolacchi

A tutto volume

Responsabile editoriale: Beatrice Loreti

Art director: Marco Mercatali

Responsabile di produzione: Francesco Capitano

Correzione bozze: Micaela di Trani

Progetto grafico: Sergio Elisei

Impaginazione: Curvilinee

Illustrazioni: Carla Manea

© 2024 La Spiga Edizioni

Via Brecce, 100 – Loreto tel. 071 750 701 info@elilaspigaedizioni.it www.gruppoeli.it

Stampato in Italia presso

Tecnostampa - Pigini Group Printing Division - Loreto - Trevi 24.83.271.0

ISBN 978-88-468-4485-9

Le fotocopie non autorizzate sono illegali. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione totale o parziale così come la sua trasmissione sotto qualsiasi forma o con qualunque mezzo senza previa autorizzazione scritta da parte dell’editore.

PREFAZIONE

Ho incontrato i genitori di Tommaso, Catia e Sandro, in occasione di un evento organizzato a Foligno dalla loro associazione “Penso

Positivo by Tommaso” qualche tempo fa ed è stata subito sintonia; è per questo che con grande piacere ho accettato di scrivere la prefazione per questo libro volendo parlare di inclusione.

In un mondo in rapida evoluzione, l’educazione deve affrontare sfide sempre più complesse e, tra queste, l’inclusione scolastica emerge come un imperativo morale e sociale.

L’inclusione non è solo una questione di adattamento strutturale, ma piuttosto una filosofia che abbraccia la diversità e valorizza le potenzialità uniche di ogni individuo.

In un momento in cui le barriere dell’indifferenza e della discriminazione minacciano di oscurare il cammino dell’apprendimento, dobbiamo guardare a realtà come “Penso Positivo by Tommaso” come guide illuminanti: la dedizione a creare un ambiente educativo che accoglie, sostiene e celebra la diversità è un imperativo morale che tutti noi, educatori, genitori e studenti, dobbiamo abbracciare.

Questa prefazione è un mio personale omaggio a Tommaso e a tutti coloro che, attraverso il loro coraggio, ci insegnano che la vera forza risiede nella capacità di trasformare le avversità in un’opportunità per il cambiamento.

Che ogni parola qui scritta possa essere un invito a riflettere sul nostro ruolo nell’aprire porte e menti, affinché ogni studente possa sentirsi parte integrante della comunità educativa.

Tommaso, nel suo percorso, ci ha lasciato un’eredità importante, diventando un faro di speranza per gli studenti che, come lui, cercano di trovare il loro posto nel mondo.

Sono convinto che questo libro potrà rappresentare un importante contributo alla diffusione della consapevolezza e alla promozione di un mondo scolastico che abbracci il motto di “Penso Positivo” per ogni studente, in ogni aula, in ogni istituzione educativa.

Prefazione di Vincenzo Schettini 3 Intro 5 Capitolo 1 Estate 6 Capitolo 2 Autunno 33 Capitolo 3 Inverno 46 Capitolo 4 Primavera 65 Capitolo 5 Estate, ancora 71
INDICE

Non si cresce in una direzione sola. Diventare adulti non è un percorso già tracciato, in base al quale parti da un punto e arrivi a un altro in maniera lineare e senza ostacoli. Gli inconvenienti capitano: come dice Lorenzo Jovanotti, i buchi neri sono sempre dietro l’angolo.

Io, per esempio, a dieci anni ho cambiato rotta, proprio come il capitano di una nave che, di fronte a un iceberg, deve virare per evitare che la sua imbarcazione ci sbatta contro. Gli iceberg si incontrano, punto e basta, non lo decide nessuno. Sospinti dalle correnti oceaniche e dai venti, percorrono miglia e miglia, alla deriva in mare aperto. E quando ti capita di trovarne uno, devi stare attento perché non puoi sapere quanto quell’incredibile montagna di ghiaccio galleggiante sia davvero grande sotto la superficie del mare. Per aggirarlo, bisogna manovrare i comandi e direzionare le eliche così da cambiare direzione, perché le navi, come le nostre vite, non hanno i freni!

Non sai se ce la farai. Non sai quanto tempo impiegherai a riprendere la rotta di prima e nemmeno se il tragitto che imboccherai sarà esattamente lo stesso di quando eri partito. Però ci provi, consapevole che la tua impresa vale più del risultato e che ogni singolo giorno che ti sarà offerto per portarla avanti è un giorno da vivere a tutto volume.

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Intro

Estate

■ I. Il sogno

Cambiare direzione non è mica facile. L’Umiak I, per esempio, è la più grande e potente nave portarinfuse rompighiaccio del Nord America e a virare impiega ben quarantadue secondi. Un tempo immenso se uno ci pensa bene, perché, se trovi un ostacolo quando sei lanciato alla massima velocità, sei messo davvero male.

Queste cose le so perché in quarta elementare ero andato in fissa con un documentario sulle navi più grandi del mondo. Navi incredibili, dotate di tecnologie sofisticate e capaci di compiere imprese titaniche, come trasportare viveri o materiali da una parte all’altra degli oceani, sfidando venti impetuosi, flutti imponenti, acque ghiacciate e inevitabili problemi tecnici. Situazioni sempre al limite dell’impossibile.

Terminato il programma, mi rintanavo in camera e cominciavo a smontare e rimontare i miei modelli: l’esploratore artico, la nave di pattuglia della guardia costiera, quella dei vigili del fuoco e la nave da carico. Ne avevo anche altri, ma questi quattro erano in assoluto i miei preferiti e li tenevo bene in mostra sullo scaffale, pronti all’uso in qualsiasi momento. Li appoggiavo quindi sopra la scrivania, in fila l’uno accanto all’altro, e poi mi abbassavo fino a portare gli occhi alla stessa altezza del piccolo equipaggio di plastica, così da avere l’impressione di essere anch’io a bordo delle navi. Le studiavo in ogni minimo dettaglio: i comandi, il timone, le botole, gli alberi maestri, le scialuppe. Conoscevo a memoria il numero di mattoncini di plastica colorata che le componevano. Un giorno, mi ripetevo, sarei stato io a progettarle. Non le costruzioni di mattoncini, intendo le navi vere e proprie. Era il mio sogno più grande, diventare un ingegnere navale e realizzare il

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Capitolo

progetto dell’imbarcazione più tecnologica mai esistita, una cosa così complicata che nessuno l’aveva ancora concepita. Neanche io ovviamente, ma era proprio quello il bello. La cosa entusiasmante dei sogni è che hanno sempre qualcosa di ignoto, talmente misterioso che il solo pensiero ti mette adrenalina.

Quando parlavo del mio sogno a casa o a scuola, mi guardavano tutti un po’ sorpresi: per uno che abita a Foligno, in Umbria – che, per inciso, è l’unica regione dell’Italia peninsulare non bagnata dal mare – il desiderio di diventare un ingegnere navale può sembrare strano. Però, secondo me, è proprio perché in Umbria non c’è il mare che mi sono appassionato così tanto alle navi. È come se il limite geografico avesse fatto nascere questo amore. Ma, se ci pensi, che cos’è il limite se non un’opportunità? È l’occasione per diventare curiosi verso ciò che non si ha o non si conosce, per esplorare e comprendere nuove realtà.

E anche adesso che di anni ne ho ben sedici, quello di progettare navi è ancora il mio grande sogno. Un sogno, se è importante, se è quello della vita, non si butta via alla prima difficoltà. Anzi, è proprio quando il tuo progetto sembra in pericolo, come un castello di carte di fronte a una finestra spalancata, che capisci se è davvero lui il tuo obiettivo. E io non sono uno che si tira indietro, sia chiaro. Ho appena finito il secondo anno di liceo scientifico e a settembre andrò avanti. I prof sostengono che per uno come me quella scuola sia troppo complicata. Frasi del tipo: “In terzo superiore cambia tutto!” oppure “Scienze applicate è ancora più difficile rispetto al tradizionale liceo scientifico!” le ho sentite ripetere tante volte. Ma se è vero che mi chiamo Tommaso, con le parole ci faccio poco. Devo provare per crederci. E, al di là dei discorsi dei prof, il tempo di un nuovo cambio di rotta per me non è ancora arrivato.

■ II. Riccione

Ecco l’onda, arriva. Affondo i piedi nella sabbia bagnata fino a seppellirli, l’onda li libera dalla morsa della rena per poi coprirli di nuovo. Mi piace stare seduto a riva, avere la schiena asciutta

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che scotta sotto il sole di luglio e le gambe irrorate di fresco, è una bella sensazione. Così bella che non mi importa nemmeno se non posso fare il bagno come tutti gli altri.

I bambini fanno schiamazzi e si rincorrono con i costumi appesantiti dalla sabbia bagnata. Sperimentano la libertà di quel luogo incantato dove puoi urlare, rotolarti per terra, schizzare acqua addosso agli altri e cadere senza farti male. Una volta facevo come loro: appena vedevo l’acqua, impazzivo. Mollavo lo zainetto dove capitava, mi sfilavo maglietta e pantaloncini, ignoravo mamma che gridava “la crema!”, prendevo la rincorsa, correvo e, col cuore in gola, mi tuffavo, nuotando fino a dove non toccavo più. Restavo qualche secondo ad ascoltare le grida di chi stava sulla riva e che, sott’acqua, diventavano sussurri. Quando il sale cominciava a bruciare gli occhi, tornavo su. Allora trovavo mamma sul bagnasciuga, le mani aggrappate ai fianchi, che mi guardava con l’espressione finta arrabbiata che faceva sempre quando ne combinavo una delle mie. Tipo quella volta che, in vacanza sul Mar Rosso, dopo avermi cercato dappertutto, alla fine mi aveva trovato a ballare su un cubo alla festa in spiaggia organizzata dagli animatori del villaggio. Ancora me la ricordo la sua faccia furiosa e intenerita allo stesso tempo.

Mamma indugiava sempre un poco sulla riva. Avanzava di qualche passo, si bagnava con le mani le braccia, la pancia e alla fine si tuffava per venirmi a prendere. In realtà, era solo una scusa per fare il bagno insieme.

Adesso è seduta accanto a me. Si accorge che sto guardando i bambini giocare e forse pensa che la cosa possa rattristarmi: – Torniamo all’ombrellone?

– Ancora cinque minuti – la tranquillizzo io.

Ridiamo come matti a ogni risacca. L’acqua spumosa ci sale fino alle cosce e poi se ne scappa via, sballottandoci qua e là. Guardiamo l’orizzonte, di barche se ne vedono sempre poche nel mare Adriatico. In Liguria è diverso, passano continuamente imbarcazioni di ogni tipo: traghetti, yacht, motovedette, motoscafi, mercantili e navi da crociera. Dalla finestra della mia stanza al

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Gaslini, l’ospedale di Genova in cui sono stato ricoverato tante volte, mi divertivo a guardarle passare e a immaginare le loro rotte. A volte facevo questo gioco anche con i medici e gli infermieri di turno, ma soprattutto con zia Cristina, la sorella di papà. Ed è stata proprio lei a contattare Fincantieri dove, con i miei, abbiamo fatto una visita all’arsenale della Spezia. Chissà, magari un giorno progetterò proprio lì la mia nave.

Una volta andavo in vacanza in Liguria, e precisamente a Bonassola, insieme a mamma, al mio amico Simone e a sua madre. Dopo che proprio là è successo l’incidente, però, i miei preferiscono venire qui a Riccione e io sono contento lo stesso. Soprattutto perché mi piace quando arriva la sera e passeggiamo lungo viale Ceccarini, pieno di vita e di musica che esce da ogni locale.

– Torniamo su – dice mamma a un certo punto, interrompendo i miei pensieri. Mi dà una mano a rialzarmi e a infilare le ciabatte.

Nel risalire all’ombrellone, passiamo accanto a un gruppo di ragazze e ragazzi poco più grandi di me, seduti in tre o in quattro sopra i lettini ammucchiati sotto lo stesso ombrellone. Fingo di non notare le loro facce. Sono sempre stato bravo in questo genere di cose. Mamma, papà e le mie zie, invece, si irritavano parecchio quando succedeva che per strada, subito dopo avermi visto, la gente si girasse dall’altra parte a commentare. Che poi, quelli che voltano lo sguardo sono i migliori. Decisamente più melodrammatiche sono le reazioni dei bambini e degli anziani: i primi spalancano gli occhi, i vecchi li stringono in due fessure, come uno che si sforza per vederci meglio. Ormai i miei parenti hanno imparato a gestire le loro reazioni di fronte agli sguardi indiscreti delle persone, forse perché in primis loro stessi si sono abituati a me. All’inizio, infatti, ogni occhiata più insistente era come il trillo di una sveglia, fatta suonare apposta per risvegliare un trauma difficile da superare.

Arrivati all’ombrellone, recupero subito maglietta e bandana. Mamma si affretta a raggiungermi e, in silenzio, mi aiuta a infilarli. Non abbiamo più bisogno di dirci certe cose, ci capiamo al

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volo lei e io. E, come per magia, la tracheo e il “bottone” della PEG scompaiono.

■ III. Una tisana spaventosa

Lo ammetto, la tracheo è una roba tremenda: a parte il fatto che si vede, perché hai un’apertura all’altezza del collo, la cannula che ti inseriscono nella trachea ti impedisce di parlare bene e di farti capire dagli altri. Ci sono voluti mesi prima di abituarmi e ricominciare a parlare normalmente; all’inizio, mi facevo un sacco di problemi con la gente che non conoscevo per paura di non essere capito. Perché, spesso, quando uno non capisce quello che dici pensa che sei anche scemo.

Una volta, per esempio, stavo aspettando dentro un negozio che papà tornasse a prendermi e il proprietario aveva cominciato a lamentarsi della mia presenza lì, come se fossi stato un idiota incapace di capire il senso delle sue parole. In macchina, lo avevo raccontato a papà in lacrime. Lui si era fatto scuro in volto, non lo avevo mai visto tanto incavolato prima d’allora e sinceramente non ricordo di averlo visto così altre volte dopo quel giorno.

In un’altra occasione, invece, era andata meglio. Zia Cristina mi aveva praticamente costretto a entrare in erboristeria per comprarle una tisana, mentre lei faceva altre commissioni. Mi aveva proprio abbandonato davanti alla porta del negozio con qualche piccola rassicurazione alle mie lagnanze: – Scandisci bene le parole, parla con calma e ripeti finché non ti capiscono. Ma soprattutto, riportami il resto e non te lo intascare!

Ero scoppiato a ridere: – Ok, ci provo.

Avevo quindi varcato la porta d’ingresso con una certa sicurezza, ma subito, una volta di fronte alla commessa, mi si era raggelato il sangue. Mi sentivo come i protagonisti maghi dei miei film fantasy preferiti, quando improvvisamente si trovano di fronte al mostro mutaforma che assume l’aspetto di ciò che mette loro più paura. In quel preciso istante, il mio terrore più grande aveva le sembianze di una ragazza con i capelli ricci e lo sguardo curioso.

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– Ciao, ti posso aiutare? – aveva chiesto.

Avrei voluto lanciare un incantesimo per farle diventare i capelli verdi o trasformarla in un mostriciattolo buffo, così da sconfiggere la paura con le risate. Io, però, non ho mai avuto una bacchetta magica. Così, seguendo i consigli di zia, avevo fatto un respiro profondo per poi pronunciare con calma la richiesta:

– Ho bisogno di una tisana alla betulla.

– Alla betulla? – aveva ripetuto sorpresa la ragazza. Certo, era normale che fosse sorpresa; dubito che ci sia tanta gente in giro che compra tisane alla betulla.

– Sì, è per mia zia – mi ero giustificato io.

– Te la prendo subito.

Tornata, aveva fatto lo scontrino, preso i soldi che avevo messo sul bancone e, dopo avermi piazzato il resto su una mano e inforcato il manico della busta con la tisana sul mio polso, mi aveva salutato.

Ero uscito dal negozio con un sorriso radioso stampato in faccia. Ce l’avevo fatta anche senza una bacchetta magica. Il mostro era stato sconfitto.

■ IV. Il ritmo

La vacanza a Riccione è sempre troppo breve. Papà, però, deve tornare all’agriturismo, mamma al suo lavoro d’ufficio e quindi non si può fare altro che caricare le valigie e rimettersi in macchina, direzione Foligno. Io, però, non sono triste; l’estate, in fondo, è appena iniziata. Tra qualche giorno andrò dai nonni a Scheggia, poi ci saranno le vacanze sulle Dolomiti con papà e mamma e le giornate a casa con zia Cristina. Abbiamo un bel lavoro da fare, lei e io, per portare avanti tutti i nostri progetti: il frutteto, la fattoria, la tartufaia. Alle cose più noiose non ci voglio ancora pensare, come a certe visite mediche che dovrò fare e di cui discutono ora in macchina i miei. Allora mi metto le cuffie alle orecchie e aumento il volume della mia musica preferita.

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Mamma mi ha raccontato che durante i giorni del coma mi facevano ascoltare la playlist di Jova che avevo scaricato sul mio telefonino. Quell’anno era uscito l’album Lorenzo 2015 CC., con trenta brani nuovi di zecca che avevo cantato per tutta l’estate, prima dell’incidente. Quelle canzoni mi sono rimaste dentro, come se le loro parole si fossero incise nella mia memoria. Adesso la mente fa degli scherzi, a volte non mi ricordo delle cose. Alcune scene del passato sono come sprazzi, immagini frammentate e confuse. Però, delle canzoni di Jovanotti conosco tutte le parole. E anche quando non le ascolto e faccio le mie cose, mi vengono in mente certe frasi e con quelle trovo sempre le risposte che mi servono, anche se non le stavo cercando. Non mi sento mai solo, perché tutte le emozioni che provo sono anche dentro quelle canzoni, tutti i sentimenti che sperimento vengono raccontati.

Non sarò mai abbastanza grato alla musica per avermi salvato, portandomi sempre lontano. I suoni sono potenti, perché hanno l’abilità di farti viaggiare indietro nel tempo o nel futuro, in altri luoghi o dimensioni.

Quando, dopo il coma, non potevo ancora muovermi, parlare e nemmeno respirare da solo, avevo l’impressione che insieme a me anche il mondo si fosse fermato. A casa erano tutti preoccupati, spaventati, in attesa. Certo, si davano un sacco da fare, mamma, papà, le zie: forse hanno fatto più cose in quei momenti difficili che in tutta la loro vita. Quanti chilometri per venire a trovarmi ogni settimana, prima a Genova, poi a Bosisio Parini in Lombardia. Tuttavia, quando hai paura puoi fare tutto quello che vuoi o che devi, ma dentro di te è come se fossi paralizzato.

Poi, però, accendevano la musica e io venivo trasportato in un’altra dimensione, dove niente e nessuno era bloccato, dove anche io potevo muovermi come volevo dentro una realtà pulsante e dinamica.

È stato sempre così, anche da bambino: ogni volta che la musica arrivava alle mie orecchie era come se un’onda elettrica mi

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investisse. Il ritmo era come un formicolio che mi attraversava il corpo e mi costringeva a muovere ogni muscolo.

A otto anni avevo iniziato un corso di break dance, ballavo sempre, ballavo dappertutto. Non riuscivo a trattenermi: se ero felice avevo voglia di dimenarmi, se ero nervoso mi scaricavo ballando. Non mi sono mai vergognato, nemmeno quella volta che, in un palazzetto gremito, mi sono buttato a gareggiare contro gente che ballava da anni e io solo da un paio di mesi. Mamma non poteva credere ai suoi occhi, ma io l’ho fatto perché il ritmo vince su tutto, sulla paura, sul giudizio degli altri.

Anche adesso, nonostante io non sia più tanto coordinato nei movimenti, quando la musica parte, parto con lei. E più il volume è alto, più il ritmo mi entra nel sangue, percorre tutte le vene e mi fa scattare. Senza regole, senza schemi, nella più assoluta libertà.

Ogni tanto, la sera balliamo insieme a mamma. Papà no, però gli piace guardarci. Sono belli i nostri balletti improvvisati, spensierati, sgangherati. Non li vedrà mai nessuno: sono solo per noi e per noi rimarranno per sempre. La musica batte con i nostri cuori, esplode fuori dalla finestra della mia camera, supera l’agriturismo, i tetti della mia città e vola lontano, sopra le colline e le montagne: e con lei volano le nostre risate e i nostri sogni.

Scheggia è un borgo umbro immerso nei boschi del parco del monte Cucco. Ci abitano poco più di mille persone e ha un centro storico che è fatto di una via, una chiesa, due torri e due bar. Eppure a passare le vacanze qui non mi annoio mai e so già che vorrò trascorrerci tutte le estati della mia vita.

Anche stamattina, durante una chiacchierata al telefono con mamma, provo a convincerla a ristrutturare la casa che ora è dei nonni e che un giorno sarà mia. Lei mi ascolta, dice che è una bella idea, bellissima, ma un progetto del genere è impegnativo: seguire i lavori richiede tempo e attenzione, soprattutto conside-

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rando che viviamo a un’ora di distanza. Inoltre, non siamo sicuri di poter ottenere le agevolazioni fiscali di cui avremmo bisogno.

Appena chiudo la telefonata con lei, mando allora un messaggio a zia Federica, un’altra sorella di papà e commercialista di professione, chiedendole di informarsi a riguardo. Zia mi risponde subito: alla fine dell’estate, promette, mi farà sapere.

– Tommaso, hai finito col telefono? Maria, sei pronta? Andiamo!

Nonno Vittorio ci aspetta sulla porta, stamattina dobbiamo fare una grossa spesa in vista della cena di domani. Qui a Scheggia c’è la festa dei cappelletti fatti a mano e, come da tradizione, organizziamo una bella serata a casa dei nonni.

Nonno è in piedi da un pezzo, si alza presto per annaffiare l’orto. Una volta lo facevamo insieme, ma adesso la mattina io sono un po’ lento a prepararmi e non possiamo aspettare che faccia troppo caldo per dare l’acqua alle piante. Nel tardo pomeriggio, invece, ci torniamo tutt’e due così lo aiuto a raccogliere le verdure: i pomodori, le zucchine, le melanzane, l’insalata. Sempre insieme, poi, ci occupiamo anche delle arnie. Avevo solo quattro anni quando abbiamo iniziato a tenere le api e a prendercene cura: i miei compiti erano aiutare nonno a sostituire il fondo delle arnie quando era sporco e assicurarmi che le api avessero sempre da mangiare a sufficienza. Adesso riesco solo a fare quest’ultima cosa perché i movimenti delle mie mani non sono ancora molto precisi. Poi, però, a fine agosto lo aiuterò a raccogliere il miele.

L’anno scorso papà ha organizzato un evento in agriturismo per spiegare alle persone come si estrae il miele dalle celle degli alveari e per parlare del grande lavoro di questi piccoli insetti. Sarebbe bello, diciamo sempre nonno e io, se le persone cominciassero ad assaggiare il miele come fanno con il vino, a degustarlo per individuarne le mille sfumature di sapore che dipendono dai diversi fiori e piante da cui le api traggono il polline. Sembra assurdo, ma il miele di Scheggia è diverso da quello che facciamo a Foligno. Qualche anno fa, infatti, sono riuscito a convincere nonno Vittorio a portare le casette anche all’agriturismo e ora papà può vendere il mio miele!

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Mi piace occuparmi dell’orto e delle api, così come mi diverto ad accompagnare nonno nei suoi giretti. La mattina prende sempre il caffè al bar, compra il giornale e, una volta a settimana, anche un gratta e vinci. A volte facciamo una partita a biliardino al Bar Centrale. Altre volte rimaniamo seduti sulla panchina accanto alla fontana dei draghetti, come la chiamo io, a prendere il fresco e a guardare le macchine che passano sulla statale. La sera, invece, si gioca a carte con i vicini. I nonni mi hanno insegnato a giocare a scopa, a briscola, a rubamazzo. E, non lo dico per vantarmi, ma mi capita raramente di perdere. Sono così bravo che la gente pensa che io bari addirittura, ma non è vero. Cioè, un po’ vero è, nel senso che mi è capitato di farlo soprattutto quando giocavo con gli altri ricoverati al Gaslini. Perdere è una cosa che mi fa arrabbiare e allora, quando me la vedevo proprio tanto brutta, mi arrangiavo come potevo. Una volta ero stato scoperto e allora Paoletta, l’operatrice che ci seguiva nelle varie attività, mi aveva soprannominato il Barone. Ancora oggi, medici e infermieri mi chiamano così per prendermi in giro. Ma io non me la sono mai presa, anzi, quel soprannome mi piace parecchio.

Il ritmo della vita qui a Scheggia è strano, la giornata scorre via senza che uno si debba mai affannare. Alcune ore sembrano durare un’infinità, altre passano veloci al punto che neanche ti accorgi, ma non sei mai tu a deciderlo purtroppo. Adesso, per esempio, non vedo l’ora che arrivi domani, però vorrei anche che la giornata di domani e la festa durassero il più a lungo possibile. A cena si uniranno gli zii di mamma, che durante l’anno abitano in Abruzzo, ma che in estate stanno anche loro a Scheggia. Poi ci raggiungeranno tutti i parenti di Foligno: mamma e papà, zia Cristina, nonna Daria e nonno Aldo, zia Federica e la sua famiglia. Spero porteranno con loro anche Shaggy, il mio cane.

Finalmente, con nonno e nonna Maria, ci avviamo in auto verso il piccolo supermercato. Il tragitto è brevissimo, avremmo potuto farlo anche a piedi, ma al ritorno camminare con il peso delle sporte è troppo faticoso. Nonna ha scritto una lista lunghissima

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di cose da comprare, come se la sagra di paese si tenesse a casa nostra anziché al centro sportivo.

Arrivati al supermercato, proprio mentre stiamo per entrare, sentiamo la voce di un ragazzo che saluta il commesso. Uscendo di fretta, va a sbattere contro il nonno.

– Oddio, mi scusi tanto! – dice il ragazzo, e io lo riconosco subito.

– Fede! Ciao, come stai?

Lui allarga gli occhi come se lo avessi spaventato, ma poi sorride immediatamente: – Tommy, sei tu! Io bene, e voi? – chiede rivolgendosi anche ai nonni.

– Tutto a posto. Ti sei fatto bello alto, eh? – lo saluta nonna Maria, allungando la mano sulla sua guancia per fargli un buffetto. Federico sorride e abbassa lo sguardo.

– Se vuoi, resta pure qui a parlare col tuo amico, noi intanto cominciamo a fare la spesa – mi dice nonno entrando, seguito da nonna.

Fede continua a fissarsi i piedi, si vede che è un po’ in imbarazzo. Abbiamo la stessa età e da piccoli giocavamo sempre insieme. Condividevamo la passione per i modellini di veicoli e trascorrevamo i pomeriggi giocando con piccoli camion, trattori e ruspe. Con l’aiuto di nonno, avevamo persino costruito un vero e proprio cantiere, che avevamo transennato in modo che nessun altro oltre a noi potesse accedervi. Ci volevamo un gran bene. Quando mi ero risvegliato dal coma, mamma mi aveva fatto ascoltare tutti i messaggi vocali che lui aveva inviato sul mio cellulare durante quei due mesi. Piangeva e pregava affinché io potessi tornare presto da lui a Scheggia. Alla fine, io ci sono tornato davvero, ma ormai eravamo entrambi troppo grandi per giocare con i modellini e ci siamo persi di vista. O meglio, ci vediamo immancabilmente ogni estate, ma è un po’ come se la nostra amicizia di bambini non fosse mai esistita. Quando ci incrociamo al bar, lui è sempre con i suoi amici e amiche e spesso non si accorge della mia presenza lì. Però, per strada, quando capita che cammini per conto suo, magari per sbrigare qualche commissione, mi saluta sempre.

– Allora, che cosa mi racconti di bello? – gli chiedo io vedendolo esitare.

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– Mah, niente. Fa troppo caldo e in paese è una noia mortale. Faccio sempre le stesse cose.

– A me piace fare le stesse cose quando sono qui.

– Eh, ma tu sei in vacanza, è diverso! – obietta lui. Finalmente alza lo sguardo e sorride.

– Domani sei qua per la festa?

– Sì, certo, dove vuoi che vada? Diamo una mano a quelli della Pro Loco. Sai, le solite cose organizzative, preparare i tavoli, le panche, portare a tavola.

– Noi facciamo una festa a casa, c’è zio che suona la fisarmonica, poi io metto un po’ di musica per ballare. Ti piace Borgeous? David Guetta?

– No, ultimamente ascolto soprattutto i Måneskin. Però i gusti di TomDJ li conosco bene…– ammette con un tono vagamente canzonatorio, ma si vede che ha voglia di scherzare.

Da quando sono arrivato qui, infatti, mi sono esercitato tutti i pomeriggi con il mixer e con le casse per prepararmi alla festa di domani. E, visto che proprio non ce la faccio a tenere basso il volume, la mia musica arriva alle orecchie di tutti in paese.

– Prometto che se vieni ti dedico un pezzo rock.

Fede, però, abbassa di nuovo lo sguardo: – È che poi la sera ci vediamo tutti al Bar Centrale per…

Non finisce la frase, come uno che si rende conto che sta dicendo cose che non dovrebbe dire. A quel punto non riesce a spiccicare nient’altro, borbotta che ha fretta di tornare a casa per mettere la spesa in frigorifero. Non mi invita a raggiungerlo al bar domani sera, sebbene sappia che non lo avrei comunque fatto per via della festa. In fondo, però, lo capisco: lui e i suoi amici si vedono per bere qualcosa o mangiare il gelato e io starei lì senza poter fare quelle cose.

– Dai, magari il prossimo anno verrai. Tanto noi la festa la facciamo sempre e, anche se non mangio, possiamo comunque fare quattro chiacchiere – lo rassicuro.

Così ci salutiamo e io entro nel supermercato.

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■ VI. Un piccolo bottone

Dall’incidente sono cambiate tante cose. Una di queste è che mi piace stare concentrato sui piccoli gesti quotidiani, anche i più banali: infilarmi i calzini e sentire il tessuto che striscia sulle caviglie e mi fa una specie di solletico; lavarmi la faccia e accorgermi delle gocce d’acqua che mi scivolano lungo le guance e lungo il collo; la sensazione dei piedi nudi sulle mattonelle fredde; tenere la mia mano in quella di papà e percepire il calore della sua stretta. In qualche modo, ho smesso di fare le cose pensando a qualcos’altro mentre le faccio. Ho capito che vivere ogni momento con consapevolezza rende la vita più bella e ti fa essere grato di tutto ciò che fai ogni giorno.

Questa cosa, comunque, mi succede soprattutto con la roba da mangiare. Ho quella che i medici chiamano “disfagia”, cioè non posso più deglutire né cibo né liquidi. Siccome non si può stare senza mangiare e senza bere, mi nutro in modo artificiale tramite un dispositivo chiamato PEG, che è un tubicino che collega lo stomaco con l’esterno. Da fuori non si vede praticamente niente, se non un piccolo “bottone” all’altezza dello stomaco, che però copro facilmente con una maglietta.

Il meccanismo è semplice: viene messa una miscela nutritiva dentro un siringone; il siringone inietta la miscela all’interno di un tubicino che, ogni volta che devo mangiare, viene posizionato nel bottone. Da lì, il cibo entra nel mio stomaco. Facile, no?

L’unico problema è che se il cibo non passa dalla bocca non si possono sentire i sapori, tipo quello della pasta al forno o della “ciccia battuta” di nonna Maria (una sorta di hamburger fatto in casa), i miei due piatti preferiti. Ma neanche quello di tante altre prelibatezze: gli omini di zenzero che inforniamo a Natale con mamma o i panettoni che preparo insieme a Ledy, la chef dell’agriturismo di papà. Per fortuna, i medici ci hanno dato una soluzione fantastica: mettiamo dei pezzetti di cibo solido dentro una garza e con quella posso assaggiare tutto. Ed è a questo punto che accade qualcosa di davvero incredibile.

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Quando potevo ancora mangiare, mangiavo e basta, senza pensarci troppo. Anche le cose che mi piacevano molto non è che me le gustassi tanto. A volte ero così voglioso di mangiarle che le buttavo giù in velocità, come se avere a disposizione quei piatti fosse qualcosa di scontato, di talmente banale da non doverci prestare attenzione. Adesso, invece, ho imparato ad assaporare, a darmi il tempo di cogliere ogni nota di gusto di qualsiasi cibo. E mi sembra che i sapori durino di più nella mia bocca e che siano mille volte più gustosi ed esaltanti rispetto a prima. Ecco perché, da qualche anno, cucinare per gli altri è diventata una delle mie passioni più grandi. Anche da piccolo amavo la cucina: guardavo tutti i programmi culinari in televisione e durante i nostri viaggi all’estero volevo sempre assaggiare piatti nuovi. Mamma, poi, ha sempre assecondato la mia passione, permettendomi di sperimentare e creare nuove ricette ai fornelli. Oggi, però, questo è diventato un appuntamento fisso: ogni domenica mattina prepariamo insieme il dolce che lei e papà mangeranno a pranzo e che io assaggerò con le mie garze.

Sono così felice di trascorrere quella mattinata insieme che spesso, mentre cuciniamo, le chiedo: – Mamma, ti puoi fermare un attimo? Vorrei abbracciarti!

Lei allora si blocca, sorride e, anche se ha le mani tutte impiastricciate, allarga le braccia in modo che io possa stringerla forte. Rimaniamo fermi, in silenzio, e mi sembra che ogni volta quell’abbraccio duri un’eternità.

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■ VII. Il biacco

La voce di Jova esce dalla cassa sopra il tavolo in giardino. Intanto, con gli occhi chiusi, provo a ricordare le settimane con i nonni e la vacanza sulle Dolomiti con papà e mamma. Qualche immagine, alcuni suoni, certi colori, sono ancora nitidi nella mia mente, ma si confondono un poco: i tetti di Scheggia inondati di luce quando la mattina mi affacciavo dal balcone; il rumore del torrente Vigilio che correva lungo il sentiero fino alla spiaggetta Ciamaor; il gran trafficare di stoviglie e pentole nella cucina di nonna Maria; le lunghe chiacchierate con papà, seduti fianco a fianco di fronte ai massicci del gruppo di Fanes; il volume al massimo del televisore di un vicino che parlava del ritiro delle truppe americane da Kabul; il sorriso orgoglioso che mi rivolgeva nonno Vittorio quando la sera vincevo la partita a briscola; le grida di due bambine che sfrecciavano lungo la via con le loro biciclette: ma questo non so più se è successo a Scheggia o a San Vigilio.

Settembre è arrivato in fretta e domani ricomincerà la scuola. Non posso dire di non avere voglia di andare, perché non sarebbe vero. Ci sono cose che non vedo l’ora di fare, come rivedere Stella, la ragazza che mi piace. È che è un peccato che l’estate stia per finire e oggi mi sento un po’ malinconico. Shaggy, il mio cane, un flat-coated retriever dal pelo marrone e lucidissimo, lo sa che cosa provo. È con me da quando avevo sette anni e mi conosce bene: infatti, è da stamattina che mi sta appiccicato alle gambe. Non dico che normalmente non sia affettuoso, ma oggi non si è mai allontanato da me e adesso dorme con il dorso contro i miei stinchi.

Seduti accanto a me ci sono papà e zia Cristina; si riposano anche loro sotto l’ombra fresca del gelso. Fa ancora piuttosto caldo.

– Zia, domattina mi accompagni tu?

– Sì, Tommaso, ti porto io a scuola.

– Poi il pomeriggio, se non mi danno compiti, facciamo un giro al negozio di elettronica?

Papà alza gli occhi dal libro che sta leggendo: – Non mi sembra che ti serva niente…

22 A tutto volume

– No, no, è giusto per dare un’occhiata – lo tranquillizzo subito. – Allora zietta, mi ci porti?

Zia Cristina guarda prima papà, poi me. Alla fine fa sì con la testa: – Certo che sei proprio tanto fortunato ad avere una zia gentilissima, bellissima, simpaticissima, intelligentissima, modestissima. Così issima...

– Sì, infatti. Peccato solo che è quell’altra, cioè zia Federica!

Rido come un pazzo mentre lei, che adesso fa l’offesa, mi tira addosso un fazzoletto di carta appallottolato.

Stiamo ancora ridendo quando sentiamo un piccolo tonfo.

– Che è stato? – squittisce zia schizzando in piedi sopra la sedia.

Accanto a noi vediamo strisciare velocissimo un serpentello con la testa gialla e nera e il corpo verde oliva. Di sicuro è caduto dall’albero.

– Un biacco! – dico io, ma lo strillo che lancia zia è così forte che nessuno mi sente.

Lei sbianca e comincia a tremare. In una frazione di secondo scatta giù dalla sedia e sparisce dentro casa. Shaggy, da parte sua, alza appena la testa e poi si rimette a dormire.

Papà e io scoppiamo a ridere, ma poi cominciamo a perlustrare il terreno per capire dove si è nascosta la serpe.

Zia Cristina ha proprio la fobia dei serpenti e dei ragni, è capace di fare delle scenate incredibili quando ne vede uno anche a distanza di metri. Poveretta, per lei è un trauma, ma è fin troppo divertente vederla in preda al terrore e papà e io non riusciamo a non prenderla in giro.

Papà è il mio braccio destro nell’ideazione e nella preparazione degli scherzi più idioti e infami che si possano fare. O forse l’aiutante sono io, non so, i ruoli si invertono continuamente. Fatto sta che, insieme, siamo una coppia micidiale, non sbagliamo un colpo con zia. Qualche tempo fa, per esempio, l’abbiamo invitata a salire da noi a casa – lei abita al piano di sotto – con la scusa di doverle parlare di una questione molto importante. Davanti alla porta d’ingresso abbiamo quindi piazzato un grosso ragno di pla-

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stica, nero e peloso. Si capiva lontano un miglio che era finto, ma nonostante questo, non appena lo ha visto, zia ha cominciato a sbraitare come una pazza ed è corsa giù per le scale alla velocità della luce. Ogni tanto mi capita di riguardare il video che papà ha girato con il suo cellulare per riprendere la scena e sono ancora capace di ridere come quel giorno.

Il serpente comunque non si trova, chissà dove è scappato. Che peccato, avremmo potuto fare un bello scherzo a zia Cristina.

– Vai a recuperare tua zia, non vorrei fosse svenuta – scherza papà.

Mentre mi avvicino alla porta di casa, noto un tubo di plastica colorata, tipo quelli che si usano per far passare i cavi. Probabilmente lo ha lasciato lì l’elettricista che deve ultimare qualche lavoro, ma adesso che lo guardo con attenzione mi viene un’idea geniale. Mi volto verso papà e vedo che anche lui sta fissando il tubo. Ci scambiamo un’occhiata complice.

Entriamo in casa senza fare il minimo rumore. Al piano terra vive nonna Daria che il pomeriggio va sempre a riposare. Il trambusto che proviene dalla sua cucina è un chiaro indizio che zia Cristina sia andata a rintanarsi proprio lì. Quatti quatti, ci nascondiamo dietro lo stipite della porta e la vediamo di schiena davanti al lavandino mentre cerca di calmarsi bagnandosi la faccia e le braccia. Poi si riempie un bicchiere d’acqua. Io nel frattempo faccio scivolare il tubo dentro la cucina. Papà, dietro di me, sta riprendendo la scena col telefonino.

– Pssss – sussurro, facendo strisciare delicatamente il tubo lungo la gamba di zia.

L’urlo stavolta è fragoroso. Zia scatta come una cavalletta, lancia il bicchiere in aria, che cade rompendosi in mille pezzi, e contemporaneamente dà una ginocchiata bestiale contro il mobile del lavandino. Poi si gira e ci vede, me, papà e soprattutto il tubo di plastica. La sua espressione è prima terrorizzata, poi incredula, poi…

Stavolta temo che possa davvero saltarci addosso. Papà se la dà a gambe così rapidamente che sembra un personaggio dei cartoni

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animati di fronte a una mummia maledetta. Io scappo dietro di lui il più veloce che posso, ma vuoi il mio passo incerto, vuoi il ridere a crepapelle che quasi non mi fa respirare, alla fine mi abbandono sfinito su una sedia della sala da pranzo. Intanto zia continua a gridare inferocita cose che non oso ripetere.

■ VIII. Amori estivi

Stella alla fine dell’estate è ancora più bella. Il viso abbronzato, spruzzato di lentiggini. I capelli che hanno la sfumatura ambrata del miele di castagno. Gli occhi così celesti che ti viene voglia di farci un tuffo dentro. La sua presenza in classe è come una calamita per il mio sguardo, non riesco a guardare nient’altro, a concentrarmi su niente che non sia lei. Per fortuna è quasi l’ora della ricreazione e magari riuscirò a parlarle. Invece, non appena suona la campanella, lei si precipita nel corridoio per andare a comprarsi la merenda. Se c’è fila, rischia di rientrare quando la pausa è già finita.

Sono ancora al mio banco a mettere il tablet in stand-by, quando la professoressa di sostegno mi dice che la prossima ora ci sistemeremo fuori dalla classe per fare un ripasso di fisica. Spero parlerà lei, perché in questo momento nella mia testa c’è solo Stella e non penso che la Mancini sia interessata a questo genere di discorsi. Riguardo alle nozioni di fisica, potrei discutere solo di “vuoto assoluto”.

Mi alzo e raggiungo Giorgia ed Elisa, intente a chiacchierare fitto fitto al loro banco. Sono le compagne con cui di solito trascorro la pausa, ed è divertente parlarci. Mi raccontano delle loro avventure amorose strampalate, che consistono sempre in amori a senso unico. Ogni mese si prendono una cotta per un ragazzo diverso e chiedono consigli a me, che di fidanzate non ne ho mai avute. Ma visto che sono un maschio e penso da maschio, posso comunque aiutarle. Il più delle volte inizio a dire cose serie, ma poi mi scappa di prenderle in giro e allora fanno le offese.

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Ho scoperto che è bello avere qualcuno con cui trascorrere la ricreazione. Alle medie non parlavo mai con i miei compagni, a volte ci provavo, però capivo che loro si sentivano a disagio. Raggiungevo quindi zia Cristina, mamma o papà che mi aspettavano nel corridoio con un libro o una rivista, il siringone della PEG per la “merenda” e l’immancabile aspiratore, un aggeggio pesante e rumorosissimo che serviva per aspirare eventuali secrezioni dalla tracheo, così da consentirmi di respirare bene.

Capitava spesso che dovessi essere aspirato più volte durante la mattinata, per cui loro tre si alternavano davanti alla porta della classe, per cinque ore, tutte le mattine.

Per fortuna, l’aspiratore non mi serve più e forse è anche per questo che i miei compagni sono un po’ meno spaventati da un tipo strampalato come me: sempre traballante nel camminare, vagamente smemorato e con la voce strana.

– Tommy! Come stai? – mi accoglie Elisa, trascinando una sedia accanto alla sua dal banco vicino e invitandomi a sedermi.

– Tutto bene, e voi?

– Abbiamo un sacco di cose da raccontarti, è stata un’estate esplosiva per qualcuno qui... – sghignazza Giorgia facendo l’occhiolino alla nostra compagna che diventa tutta rossa.

– Giorgia mi prende in giro, non è successo niente di che! – fa Elisa vergognosa.

– Adesso sono curioso, voglio sapere tutto.

– Ti anticipo che Marco della D non c’entra niente! Quello ha fatto lo scemo tutta l’estate con un’altra, che poi conosci bene anche tu, visto che viene in classe con noi…

So chi è Marco della D, ma non ricordavo che piacesse a Elisa. Ora, però, spero che la ragazza a cui ha fatto il filo non sia Stella. Elisa non fa nomi e va avanti con la storia della sua nuova fiamma: un tipo del liceo artistico, davvero spaziale precisa, che quest’anno farà il quinto. Così dicendo, tira fuori dallo zaino un disegno che il tipo dice di aver fatto pensando a lei.

– Ti piace?

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– Non sono tanto bravo a capire l’arte – mi giustifico prima di ammettere che sembra una pozzanghera.

– Rappresenta la piscina dove si sono conosciuti – mi spiega Giorgia con un tono da professoressa di storia dell’arte.

– E quei puntini che cosa sono, le zanzare? – domando io scoppiando a ridere.

– Sono lucciole! – sbuffa Elisa, un poco risentita.

– Comunque quella festa è stata fighissima, una roba stratosferica. Siamo anche rimasti a dormire in tenda, accampati nel giardino di Luca.

– Luca chi? – domando io, pensando di non conoscerlo.

– Luca Bosi, il nostro compagno di classe. Ha fatto gli anni il 18 agosto e… – Giorgia vorrebbe continuare a parlare della festa, ma Elisa le lancia un’occhiataccia e interviene a cambiare discorso.

– E tu, Tommy, come hai passato le vacanze?

Inizio a raccontare, ma non faccio in tempo a dire tre parole che la Mancini si presenta al mio cospetto, pronta ad accompagnarmi fuori per la nostra lezione di ripasso. Esco senza incrociare Stella che non è ancora rientrata. Spero non abbia trascorso la ricreazione con quel Marco della D.

La Mancini mi chiede senza troppo interesse se le vacanze sono andate bene, io rispondo altrettanto distrattamente di sì, benissimo. Il discorso finisce lì, si passa subito alla fisica. Mentre la prof parla di forze d’attrito, equilibrio termico, passaggi di stato e calore latente, io continuo a pensare alla festa di compleanno di Luca Bosi a cui non sono stato invitato, mentre Stella sì. Chissà se c’era anche Marco della D.

■ IX. Un esperimento di fisica

Salgo in macchina e alzo il volume della radio al massimo. Zia Cristina si lamenta, dice che se da vecchia diventerà sorda sarà solo colpa mia. Ma poi mi lascia fare, come sempre.

L’ultimo singolo di David Guetta spacca. Il ritornello – quando

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dice “Mi innamoro ogni volta che ci incontriamo” – sembra essere stato scritto apposta per me quando penso a Stella.

A zia Cristina il pezzo piace e, infatti, lo canticchia lungo la strada per arrivare al centro commerciale.

Il mio piano per oggi è farle vedere lo smartwatch che ho adocchiato, così lei inizia a farci l’idea e magari, con nonna Daria e zia Federica, me lo regalano a Natale. Poi, per il mio compleanno a gennaio, chiederò il cellulare, ma voglio aspettare che esca il nuovo modello.

Entriamo e mi dirigo subito al bancone dove è esposto lo smartwatch, mentre zia mi segue in silenzio. Una volta lì davanti, comincio a spiegarle tutte le caratteristiche dell’orologio. Il commesso mi fa i complimenti per la mia conoscenza del prodotto e inizia anche lui a parlare, rispondendo a tutte le mie domande. Zia Cristina ascolta attentamente, ogni tanto mi guarda con un sorriso furbo. Forse ha intuito le mie intenzioni, forse no. Alla fine, mi dice che potrebbe essermi utile e che magari, alla prima occasione, ne terrà conto. Spera di ricordarsi. Per quello non c’è problema, ci penserà il sottoscritto. Con una scusa, la convincerò a tornarci, e ho già in mente alcune nuove domande per il commesso.

Giriamo per lo store e io passo in rassegna tutti i cellulari in esposizione. Le specifiche tecniche sono scritte in caratteri microscopici, non riesco bene a leggere. Dopo l’incidente, faccio fatica a mettere a fuoco, ma zia Cristina mi aiuta. Le chiedo se ha bisogno di un nuovo cellulare, ma dice sempre di no. Secondo me dovrebbe cambiarlo, ci penserei io a configurarlo e a scaricarci le app. Però niente da fare, non la convinco.

Uscendo, passiamo accanto allo scaffale con le custodie per i cellulari. Riconosco subito quella che avevo adocchiato la volta scorsa, blu, lucida, perfetta per il mio smartphone.

– Scusa zia, mi servirebbe questa custodia.

– Ma non dovevamo solo guardare?

– Sì, l’intenzione era quella – mento in modo spudorato. – Ma, ora che l’ho vista, ho realizzato che mi serve proprio. Però ho di-

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menticato i soldi, sono dentro il borsellino in camera, me li presti? Appena torniamo a casa te li ridò!

Zia Cristina scuote la testa: – Non ti preoccupare Tommaso, i soldi non li voglio subito. Tutti quelli che mi devi li sto mettendo in una lunga, lunghissima lista e poi me li ridarai tutti insieme!

– Va bene zia, tu ricordamelo che poi, quando è ora, ti faccio un bonifico! – dico ridendo.

Una volta in macchina, ancora prima di partire, mi faccio aiutare da zia a sostituire la vecchia custodia (che poi tanto malandata non era) con la nuova. Il telefono adesso è perfetto, peccato solo che non posso portarlo a scuola con me per farlo vedere ai compagni. Sorrido soddisfatto e zia Cristina mi dà una carezza sulla testa. È sempre contenta quando mi vede felice e la cosa mi mette ancora più di buonumore.

– Cosa preferisci che ti rubino, il cellulare o la zia? – mi chiede, sapendo già quale sarà la risposta.

– Niente. Ma senza offesa… se proprio devo scegliere, direi la zia!

Mi piace passare il tempo con zia Cristina perché riesce sempre a trovare il modo di spazzare via la noia, anche con robe pallosissime, tipo andare a fare la spesa. Una cosa che mi ricordo bene è la prima volta in cui siamo andati insieme al supermercato dopo l’incidente.

Eravamo tornati a casa dal centro di riabilitazione di Bosisio Parini e io non riuscivo ancora a camminare da solo perché l’equilibrio non era stabile. Doveva esserci sempre qualcuno a sorreggermi. Quel pomeriggio, stavamo a casa mia, ma io non avevo voglia di fare niente, nemmeno di guardare un film fantasy o di scendere in giardino con Shaggy.

– Tommaso, io devo andare a fare la spesa, accompagnami dai! – esclama a un certo punto zia, come se le fosse venuta l’idea del secolo.

La guardo esterrefatto. No, dico, ho una depressione a livelli cosmici e questa mi chiede di uscire per andare dove? Al supermercato. Alle tre del pomeriggio. Quando tra gli scaffali girano solo i pensionati.

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– Dai zia, ci vai più tardi, io non vengo, ti faccio solo perdere tempo – mi giustifico tirando fuori anche una bella scusa che mal cela una certa paura di affrontare una nuova situazione. Chi mi sorregge mentre lei fa la spesa? E se poi cado?

Ma niente, zia ormai è andata in fissa. Ha la testa più dura della mia certe volte.

Arrivati al parcheggio del supermercato, scende e torna alla macchina con il carrello. Me lo piazza di fronte e dice: – Ora questo lo porti tu, quello che rompi lo paghi. E con i tuoi soldi!

– Tu sei matta! – mi lamento, ma già pregusto la meravigliosa idea che ha avuto zia di mandarmi in giro reggendomi al carrello anziché a lei.

Inizio quindi a fare qualche passo, ma il carrello si trasforma immediatamente in una specie di marchingegno dotato di vita propria, va dove vuole lui. Procedo a ondate, a destra e a sinistra, sembro un maghetto alla sua prima lezione di volo sulla scopa.

Mi sento addosso gli occhi di tutti, ma non me ne frega niente. È troppo bella la sensazione di camminare da solo, senza dover sempre affidarmi a qualcun altro. Forse, allora, i medici hanno ragione. Forse hanno ragione anche papà e mamma, che non fanno altro che ripeterlo, anche se a volte non sono così sicuro di crederci. Tutta quella fiducia e tutte le aspettative sul mio recupero sembrano esagerate e pesano come un macigno sullo stomaco. Ma chissà, forse è vero che tornerò a camminare da solo. E magari anche a correre.

Adesso giro come una trottola, rido a ogni curva a gomito, mi immetto nelle corsie a tutta velocità. A un certo punto, vado a sbattere contro uno scaffale, così forte che faccio tremare tutti i barattoli di sottaceti.

La signora che stava tirando giù una bottiglia di passata di pomodoro mi lancia un’occhiataccia e si allontana in fretta, forse teme che possa investire anche lei.

– Tommaso, vogliamo distruggere il supermercato? – mi chiede zia con quel tono di rimprovero che preannuncia sempre una delle nostre risate più belle.

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– No, era solo un esperimento di fisica. Volevo vedere se i sottaceti si tenevano sullo scaffale!

Da quel giorno, al supermercato ci siamo tornati almeno tre volte a settimana. Anche se non serviva niente a nessuno, mi inventavo liste della spesa per nonna Daria, la quale si ritrovava col frigorifero pieno e doveva cacciar fuori un sacco di soldi. Eppure, quando arrivavamo con le sporte piene, diceva sempre e solo: – Grazie Tommaso, è proprio quello che mi serviva.

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■ Canzoni citate nel libro

• È La Scienza, Bellezza! (Jovanotti, 2015. Album: Lorenzo 2015 CC., Universal Music Group).

• If you really love me (how will I know) (David Guetta, John Newman, MistaJam, 2021. Album: Memories of Summer, Parlophone Records).

• Penso Positivo (Jovanotti, 1994. Album: Lorenzo 1994, Soleluna/Mercury).

• Mezzogiorno (Jovanotti, 2008. Album: Safari, Universal Music Group).

• A Natale puoi (Roberta Bonanno, 2010. Album: Roberta Bonanno Christmas Edition, Sing Sing).

• Prima che diventi giorno (Jovanotti, 2019. Album: Jova Beach Party, Universal Music Group).

• Ti porto via con me (Jovanotti, 2012. Album: Backup - Lorenzo 1987-2012, Universal Music Group).

• Il cielo immenso (Jovanotti, 2015. Album: Lorenzo 2015 CC., Universal Music Group).

Fatta eccezione per i familiari e gli amici più stretti, ogni riferimento a nomi o persone esistenti è puramente casuale.

Il testo del biglietto di auguri a pagina 48 è stato scritto da Tommaso.

La battuta tra virgolette di pagina 78 è la frase conclusiva del primo tema di Tommaso alla scuola media.

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RINGRAZIAMENTI

La casa editrice e la famiglia di Tommaso desiderano esprimere la loro profonda gratitudine a tutti coloro che hanno accompagnato Tommaso lungo il suo percorso di crescita e che hanno gentilmente accettato di partecipare come “comparse” in questo libro. Un ringraziamento speciale va a tutto lo staff dell’ospedale pediatrico Gaslini, compreso il team di “Radio Fra Le Note”, e al Centro di Riabilitazione “La Nostra Famiglia” di Bosisio Parini. Grazie di cuore a Vincenzo Schettini (professore di fisica e divulgatore), per la prefazione al libro e per la sua presenza costante a fianco della famiglia e dell’associazione “Penso Positivo by Tommaso”. Un caloroso grazie a Lorenzo Jovanotti per la sua incredibile capacità di esprimere gli stati d’animo con saggezza e poesia. Le sue canzoni, citate nel testo per amplificare e rendere più vividi i sentimenti di Tommaso, hanno aggiunto un grande valore alla narrazione.

Infine, grazie a Bernadetta (Babi) Baleani, Vania Caporaletti, Cristina Giacomucci, Lorena Marzoli e Francesca Salvucci, insegnanti di scuola secondaria di primo e secondo grado, per avere letto il testo in anteprima e per averci supportato e incoraggiato con i loro pareri e riflessioni.

A dicembre 2022 nasce l’associazione senza scopo di lucro “Penso Positivo by Tommaso” con l’obiettivo di aiutare studenti e studentesse con disabilità nelle attività scolastiche.

Grazie ai sostenitori, ai tanti eventi di raccolta fondi, alle donazioni e al lavoro di decine di volontari, l’associazione finanzia il supporto a scuola e a casa da parte di personale specializzato per ragazze e ragazzi bisognosi di assistenza. Ciò consente loro, insieme agli insegnanti e alle famiglie, di intraprendere un percorso scolastico più proficuo e rispettoso delle abilità e delle aspirazioni di ognuno.

L’impegno continuo dell’associazione è promuovere una maggiore consapevolezza sul tema della reale inclusione scolastica nell’opinione pubblica, negli addetti ai lavori e nelle istituzioni.

Penso Positivo by Tommaso aps - associazione di promozione sociale

Località Carpello, 37 - 06034 Foligno (PG)

info@pensopositivo.org

www.pensopositivo.org

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