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Ricordi 14 -

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II

serie 25

Montefino, 8 dicembre 1964. Sante e la moglie Antonietta Recchia nel giorno del loro matrimonio

Capri, 20 settembre 1959. Sante Mancini nell’isola campana in posa davanti al traghetto

Roseto, anni ‘60. Sante davanti la sua abitazione in via Scipione L’Africano, sede poi della sua falegnameria

ricordi

tutte quelle bocche. Mia madre, Anna Di Michele, pure lei di S. Margherita, crebbe cinque figli, nell’ordine: Guido, che in seguito morì, Eva, poi venivo io, Maria e Lucia. C’era stato anche un mio fratello, nato a Roseto ma morto a soli otto anni. Insomma una situazione difficile e si tirava avanti con sacrifici. La sua infanzia la passò con il coltellino sempre in tasca. Ho vissuto il periodo da piccolo come tantissimi bambini della mia età. Mi ricordo le corse in campagna con i miei amici di allora, oppure anche le varie puntate che facevamo al fiume Vomano. Ma il nostro pezzo forte, anche perché era una necessità, erano le incursioni in quei terreni dove c’erano gli alberi da frutta. Cercavamo di andare a prenderci qualcosa per poter mangiare, ma dovevamo stare attenti ai proprietari che ci correvano dietro. Mi ricordo che quando facevo qualche marachella o tornavo un po’ più tardi, mi nascondevo: avevo paura che mia madre mi desse le botte per quello che avevo combinato. Tornando al coltellino, è vero: me lo portavo dietro e quando potevo, prendevo un pezzo di legno e lo intarsiavo fino a realizzare una piccola Madonna. È stata una passione che avevo sin da piccolissimo. Ma mi piaceva giocare anche con la creta. Così modellavo oggetti che facevamo essiccare al sole. Insomma, quella vena un po’ artistica ce l’avevo fin quando ero un bambino che correva per i campi. Lei era piccolo, ma qualcosa della guerra ricorda ancora? Non ricordo molto, in verità, ma certamente i bombardamenti sì. Quei rumori e quegli spari ce li ho ancora presenti. Una volta, siamo nel 1943, passarono degli aerei e ne fui così attratto che andai sul balcone di casa, come se fosse uno spettacolo da ammirare. Mia madre mi venne a prendere e mi strattonò con forza dentro casa. Erano degli aerei militari che iniziarono a bombardare e credo proprio che una sventagliata di mitra passò vicino a noi e colpì proprio il balcone. Insomma, quello che per un bambino sembrava uno spettacolo da ammirare, portava dentro, invece, tutta l’atrocità di un conflitto che era orribile. Poi c’erano dei carri trainati dai buoi che vennero requisiti dai tedeschi, come ho ancora presente un camion germanico carico di conche in rame che vidi per strada e che evidentemente portarono via. Fu proprio in quel periodo, o meglio in quello appena precedente, che iniziai ad andare alla Scuola Elementare. Eravamo tutti insieme, cioè gli alunni delle classi diverse frequentavano la stessa aula. Mi ricordo che ci collocarono intorno a un tavolo e che la maestra ci

seguiva. Non eravamo molti, ma la scena del tavolo grande in cui i bambini sedevano attorno ce l’ho ancora presente. Poi la guerra ci fece sospendere le lezioni che ripresi in seguito, quando nella nostra famiglia ci fu un cambio epocale. Si riferisce al trasferimento a Roseto? Proprio così. Era il 1947 e mio padre, dal momento che lavorava a Roseto, decise di portarci tutta la famiglia. Una cosa la ricordo benissimo. Era dicembre e partimmo di notte, con nostra madre che ci svegliò alle prime ore. Ci mettemmo in cammino e dopo circa 16 km giungemmo a Roseto. Provenivo da un paesino in cui non esistevano vie asfaltate. Tutte quelle che avevo percorso erano bianche, e piene di buche. Insieme ai miei compagni di allora andavamo a prendere le more sui cigli delle strade e spesso questi frutti erano ricoperti da uno strato di polvere e se le vedevi belli colorati, era perché c’era stata un’abbondante pioggia. Quando di notte arrivammo in questo grande paese che era Roseto, vidi per la prima volta la strada asfaltata. Da bimbo ingenuo, mi chinai a toccare quella distesa così liscia. Mi sembrava cemento, perché non conoscevo cosa fosse minimamente il bitume. Ecco, per me quel passaggio fu così netto da farmi iniziare una nuova vita. Roseto mi offriva nuove opportunità, Era un paese disposto longitudinalmente e poi c’era il mare che non avevo mai visto, abituato a fare il bagno nel fiume Vomano. Intanto mio padre aveva tirato su una piccola casa in via Scipione l’Africano. Tutto intorno c’era la campagna. Al di là della ferrovia c’era una distesa acquitrinosa che portava al mare. La nostra abitazione era formata da soli due vani. Una cucina e una camera da letto, dove dormivamo in sette. Con due letti singoli ci stavano quattro figli, poi in quello matrimoniale i miei genitori e infine mia sorella più piccola dormiva ai loro piedi. Con il tempo i vani aumentarono e poi in quella casa aprii la mia falegnameria. Insomma, tanti sacrifici che si fa fatica a capire. E la scuola? Gli ultimi anni delle Elementari li feci a Roseto, ripetendo due volte la V classe. Frequentai la Milli, esattamente nel distaccamento di via Triboletti, con il maestro Pavone e tra i compagni di classe c’era Angelo Ruggieri. Nel 1950, a quindici anni, andai a imparare il falegname a Villa Ardente, nel laboratorio di Antonio D’Eugenio. Era in via Nazionale, vicino dove oggi c’è la farmacia Chicco. Ma ci rimasi solo per un giorno. Il seguente ci trasferimmo in via Lombardia, poiché il titolare ave-


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