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Ieri avvenne: i battaglioni neri
Ieri avvenne
di Massimo Dalledonne
I SOLDATI DEI BATTAGLIONI NERI... ...DA AUSTRO-UNGARICI A ITALIANI
Erano volontari. Il colore delle loro mostrine era quello nero: rappresentava “l’oscurità del destino cui andavano incontro”. Sono i soldati dei cosiddetti “battaglioni neri”, esistiti oltre un secolo fa. Una storia che, a quel tempo, ha coinvolto diversi giovani valsuganotti e trentini. Inquadrati nell’esercito austro-ungarico durante la Grande Guerra, furono fatti prigionieri in Russia. Si parla di oltre 25.000 soldati di etnia italiana.
Era il 1915 quando il zar Nicola, considerandoli irredentisti italiani, prese accordi con l’Italia per rimpatriare i prigionieri presenti nel campo di concentramento di Kirsanoff. Seimila di loro ce la fecero, una volta qualificatisi come “italiani” e non più “austroungarici”. Un notevole contingente di questi militari, calcolato in circa 10.000, evitò la guerra civile russa, andando fino in Cina e raggiungendo la piccola colonia del Regno d’Italia detta “Concessione italiana di Tientsin”. Come scrive Antonio Zanetel nel volume “Dizionario biografico di uomini del Trentino Sud-Orientale” con il trattato tra Russia e Germania nel marzo del 1918 tutto cambia e le potenze alleate contro gli imperi centrali unirono le forze per dare una mano ai Russi Bianchi ed ottenere una riapertura del fronte russo. Anche l’Italia si unì all’impresa formando un corpo di spedizione che nell’agosto del 1918 partì da Torino per dare una mano a quelle truppe. A Tientsin arrivarono oltre 900 militari “irredenti” (principalmente dal Trentino e dalla Venezia Giulia-Dalmazia), provenienti dalla Russia europea usando la ferrovia transiberiana. Questi soldati, che raggiunsero poi il numero di circa 2.500, di cui 1.600 trentini, furono uniti ad alcuni battaglioni di alpini, venuti dall’Italia via mare, per costituire il corpo di spedizione italiano in Estremo Oriente. A Tientsin un corpo di volontari diedero vita ai battaglioni neri. “Tutti gli ex prigionieri


Logo dei battaglioni neri (Museo Alessandro Roccavilla)
irredenti – si legge nel sito del Museo Alessandro Roccavilla di Biella - che si trovano ancora in diverse località della Siberia, vengono trasferiti per ferrovia, attraverso Mudken, a Tientsin in Cina, dove a cura del nostro Consolato sono alloggiati nelle caserme inglesi dell’Indian Barraks, inquadrati da una ventina di ufficiali italiani in compagnie di circa 200 uomini nei distaccamenti irredenti, riequipaggiati con divise giapponesi (cappello alpino con coccarda tricolore) e poi distribuiti in tre sedi: Tiensin, Pechino e Shan-kai-kuan. Ha inizio l’addestramento con fucili prestati dagli inglesi. Questi uomini, inquadrati nei battaglioni rosso e nero dal colore delle mostrine, rappresentano il nucleo del costituendo Corpo Italiano di spedizione in Estremo Oriente (CSIEO), rinforzato poi con l’arrivo dall’Italia di
Ieri avvenne
un altro contingente di militari.” Questo corpo di spedizione combatté nell’estate 1919 per mantenere attiva la ferrovia transiberiana in Manciuria, che serviva agli Alleati per approvvigionare i “Bianchi” russi contro i sovietici. In Siberia ci furono diversi scontri cruenti dove persero la vita anche alcuni giovani valsuganotti. Uno di questi era Giorgio Zanei, classe 1891, di Vigalzano di Pergine che morì affogato nel fiume Manna il 10 giugno 1919. Un anno prima era deceduto il compaesano Anselmo Zanei. Francesco Peruzzi di Levico, classe 1884, invece si meritò invece la medaglia d’argento con il nastro di Sant’Anna e con il compaesano P. Lorenzini riuscì anche a salvare diverse donne e bambini durante una sommossa. Valorosi volontari che, assieme al corpo di spedizione dell’esercito italiano, il 9 agosto del 1919 rientrarono in patria. Oltre ai due giovani perginesi, da ricordare anche G. Sartori, sempre di Pergine, e E. Furlani di Ronchi, caduti nel 1919 in Siberia e sepolti nel cimitero di Krano Jark dove ancora oggi c’è un piccolo monumentino che li ricorda. Nel cimitero di Tientisn ve ne è ancora un secondo che ricorda “i fratelli sepolti in Cina, i soldati nei battaglioni neri”. Come detto tanti sono stati i giovani valsuganotti che, come volontari, hanno fatto parte dei battaglioni neri. Ecco i loro nomi, così come sono stati ripotati da Antonio Zanetel nel volume “Dizionario biografico di uomini del Trentino Sud-Orientale”: sottotenente Guido Moser (Pergine), sergenti Enrico Comper (Pergine), Vigilio Buffa e Umberto Ticcò (Roncegno), caporali maggiori Romano Gadotti (Civezzano), Rodolfo Nervo (Pieve Tesino), Rolando Oss (Pergine), Isacco Rinaldi (Samone) e Eustacchio Zentile (Strigno), caporale Francesco Pace (Cinte Tesino). Di seguito anche tutti nomi dei soldati, quelli pubblicati nel volume “Dizionario biografico di uomini del Trentino Sud-Orientale” edito dalla tipografia Alcione di Trento nel 1978: Giovanni Anderle (Pergine), Emilio Andreatta (Levico), Giacomo Andreatta (Civezzano), Costante Baldi (Ospedaletto), Giovanni Bonadiman (Barco di Levico). Fernando Bottega (Levico), Luigi Bridi (Vigolo Vattaro), Rodolfo Campana (Levico), Alino e Pietro Campestrini (Torcegno), Narciso Campregher (Calceranica), Ferdinando e Severino Ceccato (Cinte Tesino), Pietro Conci (Nogarè), Mario Dalla Piccola (Pergine), Santo Delvai (Levico), Lorenzo Debiasi (Civezzano), Gustavo Debortoli (Telve di Sopra), Arturo Delai (Pergine), Mario Della Piccola (Pergine), Luigi Dorigoni (Civezzano), Giuseppe Facchinelli (Pergine), Enrico Facchinelli (Civezzano), Domenico Fedrizzi (Roncogno), Severino Ferrai (Calceranica), Enrico Filippi (Pergine), Gioachino Foradori (Barco di Levico), Tullio Fronza (Civezzano), Abele Fruet (Roncogno), Angelo Fruet (Bosentino), Emilio Fruet (Pergine), Isidoro Furlani (Ospedaletto), Emilio Girardi (Pergine), Silvio Girardi (Levico), Gioachino Girardini (Pergine), Francesco Gozzer (Pergine), Angelo Iseppi (Caldonazzo), Eduino Laner (Pergine), Celeste Lazzeri (Vigalzano), Angelo e Guido Lenzi (Torcegno), Abramo Lorenzoni (Ivano), Quirino Marchesoni (Caldonazzo), Beniamino Mengarda (Samone), Francesco Minatti (Grigno), Beniamino Molinari (Civezzano), Giovanni Montagni (Grigno), Arcangelo Moschen (Selva di Levico), Domenico Moser (Vignola Falesina), Albino Motter (Tenna), Pietro Orsingher (Borgo Valsugana), Luigi Oss Emer (Pergine), Matteo Paoli (Levico), Emilio Plancher (Pergine), Giusto Postai (Roncegno), Camillo, Vittorio e Luigi Rodolfo Prati (Caldonazzo), Silvio Prighel (Levico), Mentore Renzi (Borgo), Cirillo Roat (Borgo), Giuseppe Sartori (Vigalzano di Pergine ), Ulderico Sassella (Grigno), Severino Sordo (Castello Tesino), Giacinto Stroppa (Telve di Sopra), Alfonso Toldo (Susà di Pergine), Giovanni Valandro (Spera), Guido Valduga (Borgo), Isidoro Voltolini (Grigno),Anselmo e Giorgio Zanei (Vigalzano di Pergine) e Giovanni Zotta (Castello Tesino).

Un plotone del battaglione nero a Krasnojarsk (Trentino Cultura)
Il clima e la nostra vita
di Waimer Perinelli
COM’ERA FREDDA LA MIA VALLE: INVERNI GELIDI A TRENTO E FELTRE
Recita un antico detto: Se
vuoi vivere all’inferno vivi a Trento d’estate e a Feltre
d’inverno. In realtà le due città, rivali per storia politica ed ecclesiastica, tradizioni ed economia, si contendono il primato del clima stagionale più per passione competitiva e campanilistica che per gradi centigradi. Le statistiche ci dicono che entrambe sono calde d’estate e freddine l’inverno, con qualche variazione determinata dal vento che in Trentino, grazie all’Ora del Garda, soffiava con forte intensità il primo pomeriggio. Ma le statistiche ci dicono anche che raramente ci ricordiamo estati caldissime, mentre per entrambe è rimasto il ricordo di inverni veramente rigidi: gli anni in cui ha soffiato forte il Burian o Buran, come lo chiamano i russi, nelle cui steppe il vento gelido è capace di fare scendere le temperature a meno 30-40 gradi, soffiando a oltre cento chilometri l’ora. Era Burian quello che nel 1930 spazzò il bellunese, a Campolongo in particolare, dove la temperatura scese a 37 gradi sotto lo zero. Un inverno terribile con scarse difese contro il freddo. I muri della casa riscaldati o da una stufa a legna o dal focolare, con un solo vetro alle finestre, una coperta, e il letto intiepidito da uno scaldaletto o prete. Questo era costituito da due semiarchi uniti ad una data distanza da due stecche triangolari; una specie di barchetta nella cui parte interna alta si appendeva con un gancio lo scaldino, in dialetto chiamato cecia e anche monaca, composta da un braciere di ferro o rame riempito con le braci prelevate dalla stufa o dal camino. Prima di coricarsi si toglieva l’accoppiata e si godeva il caldo delle coltri mentre alle finestre si formavano i ghiaccioli. Gli scrittori le descrivono spesso con toni romantici, ma chi ha vissuto questa realtà, che in certe vallate ancora è oggi presente, non ne ha grande nostalgia, se non forse, per la giovane età perduta. Mio padre Pietro, caporale dell’armata italiana, che nel 1942 aveva invaso la Russia, patria del Burian, della guerra combattuta parlava poco, ma sulla sofferenza qualche volta si lasciava andare e raccontava.”La sera di un giorno infernale di vento gelido e neve arrivammo in circa cinquanta ad un gruppo di sei case, basse e lunghe. Entrammo nella più grande, gli abitanti ci accolsero spaventati e rassegnati. La


stanza centrale aveva un un grande camino e sul fuoco appeso ad un gancio c’era un pentolone nel quale gettammo patate e cipolle salvate sul camion. Fuori c’erano almeno trenta gradi sotto lo zero, il focolare scaldava la pentola e poco più, sui vetri si formava la brina e il ghiaccio. Fuori non potevamo dormire perché il freddo ci avrebbe congelati, nella stanza ci riposammo un poco, ma le uniformi, i pastrani, lontano dal fuoco si ricoprivano di ghiaccioli.” Così dormivano i nostri nonni e bisnonni nelle gelide notti delle nostre vallate. Ad unire Feltrino e Trentino nel gelo ci aveva pensato la nevicata del 1929, detta del Secolo. Nevicò per più giorni e il manto nevoso, ad altitudini non elevatissime quali sono quelle di Feltre e Trento, raggiunse quasi i tre metri. Anche la Buriana non fece sconti alle due località e soffiò
Come eravamo

senza remore come accadrà nel 1956, quando in Italia nevicò per 10 giorni di fila e a Federavecchia nella zona di Misurina si toccarono i 33 gradi sotto lo zero. Il freddo si ripresentò anche alla fine del 1984, quando su tutta l’Italia, ma in modo particolare nelle nostre valli si parlò di nuova glaciazione. L’11 gennaio del 1985 la temperatura di Firenze raggiunse i 20 gradi sotto lo zero e sulla Pianura Padana i meno 23 gradi. Nevicò ininterrottamente per 72 ore e il manto bianco superò i due metri di altezza. La cronaca riporta un simile accadimento anche nel febbraio del 1986 quando sull’autostrada del Brennero venne sparso sale per un valore di 500 milioni di lire e la neve causò danni per oltre un miliardo di lire. Nell’inverno del 1985 e 1986 si ghiacciò il fiume Piave, cosa abbastanza
Il clima e la nostra vita
normale, ma i venti gradi sotto zero lo resero attraversabile con le slitte o liode cariche di legna. Lo stesso avvenne in Valsugana sul lago di Caldonazzo, completamente ghiacciato com’era stato solo nel 1930 e 1956, dove però ci fu un eccesso di fiducia e oltre ai pattinatori e sciatori della domenica, vi si avventurarono, in cerca di brividi, alcune autovetture fino a che il ghiaccio si ruppe e un’auto s’inabissò trascinando a fondo il conducente. Una cosa uguale accadde anche in valle di Non dove in un piccolo lago affondarono il motocarro carico di legna e il guidatore. Questo confronto tra Feltrino e Trentino si concluderebbe in perfetta parità se non dovessimo meditare su un detto proveniente dalla vicina città di Verona dove a proposito di stagioni si dice: Trentino pittoresco, nove mesi d’inverno e tre di fresco.

Il mondo dell’Arte antica e contemporanea
di Marco Nicolo’ Perinelli
CANOVA
e l’INNOCENTE PECCATO
Dopo Raffaello, Botticelli, Caravaggio, il Mart con l’esposizione “ Canova tra Innocenza e Peccato” riprende quel filone di mostre dedicato al dialogo tra antico e contemporaneo che il presidente Vittorio Sgarbi ha creato per il Museo di Trento e Rovereto al fine di generare cortocircuiti e aprire nuovi percorsi interpretativi. La prima domanda è: cosa lega il Comune di Possagno, paese natale di Antonio Canova in provincia di Treviso a Rovereto? La risposta, la più semplice, è Vittorio Sgarbi. Il Presidente del Mart di Rovereto e contemporaneamente della Gypsotheca di Possagno, il museo che raccoglie la più grande collezione di gessi del più grande scultore neoclassico, è l’ideatore della mostra che ha inaugurato le celebrazioni nazionali per il bicentenario della morte di Antonio Canova. Il secondo filo conduttore è il ‘700, il secolo che vide protagonista l’artista veneto, la riscoperta della statuaria classica, vide nascere Mozart e l’illuminismo, e che fu il secolo in cui Rovereto, grazie alla ricchezza proveniente dalla seta, fiorì e divenne una capitale della cultura grazie ai mecenati che, arricchiti dal commercio, volevano dimostrare la loro potenza abbellendo le proprie dimore con opere d’arte provenienti da tutta Europa. Ed oggi, a due secoli dalla scomparsa di Canova, è la sede di un Museo, il Mart, che rappresenta un punto di riferimento non solo per il Trentino, ma per l’intero panorama nazionale. Con oltre 200 opere, Canova tra innocenza e peccato indaga come la creatività di Canova abbia influenzato i linguaggi contemporanei. Ideata da Vittorio Sgarbi e curata da Beatrice Avanzi e Denis Isaia, la mostra muove da 14 capolavori provenienti dalla Gypsotheca di Possagno tra cui Amore e Psiche, Ninfa dormiente, Endimione dormiente, Le Grazie, Venere italica, Maddalena penitente, Creugante. Opere che ci parlano di una ricerca assoluta della bellezza, ispirata a quelle statue classiche che proprio nel “Secolo dei Lumi” avevano iniziato a emergere dagli scavi in tutto il Mediterraneo. Una bellezza algida, in quel bianco puro del marmo e del gesso figlio dell’errata interpretazione di un passato altrimenti molto colorato, eppure carnale, grazie alla mano di Canova che tracciò le linee sensuali delle sue figure. Ed è questo uno degli aspetti che più si respira nell’esposizione del Museo d’Arte Moderna di Rovereto, dove il passato e il moderno dialogano, rivelando il canone canoviano nell’opera di scultori e fotografi del XX e del XXI secolo. In mostra i grandi fotografi di nudo del ’900: Helmut Newton, Robert Mapplethorpe, Irving Penn; noti scultori contemporanei come Igor Mitoraj, Elena Mutinelli e Fabio Viale, i fotografi che hanno immortalato il corpo imperfetto o fragile come
Antonio Canova (da Biografie online)


Miroslav Tichý; Jan Saudek, Joel-Peter Witkin, Dino Pedriali e quelli che hanno mitizzato l’opera stessa di Canova, dagli Alinari a Luigi Spina, fino a Mustafa Sabbagh. In un allestimento nel quale predominano il bianco e il nero, il vero protagonista è il corpo. Se alcuni artisti scelgono di idealizzarlo o estetizzarlo, altri descrivono una bellezza anti-canonica e “anti-canoviana” che contempla e contiene il suo contrario. Ed ecco che ad accogliere il visitatore quella che è certamente l’opera emblema della poetica dell’arte di Canova, Amore e Psiche: nella Piazza sotto la cupola del Mart la versione contemporanea dello scultore Fabio Viale - nella quale la levigata superficie del corpo classico viene intaccata dalla bruciatura o dal tatuaggio - lascia il posto ad Amore e Psiche stanti, il gesso che Canova realizzò nel 1800 e che sorprende il visitatore dietro lo scenografico portale d’accesso alla mostra. Il cuore del percorso pulsa attraverso i suggestivi dialoghi tra Canova e i più grandi fotografi di nudo del Novecento, un’autentica indagine condotta in epoche e con mezzi diversi, sulla perfezione della tecnica e della forma, colta e sublimata attraverso il corpo umano. Ed ecco che anche il raffinato linguaggio di Canova diventa “pop” e apre la porta ai molti visitatori che sfruttando questa onda mediatica potranno apprezzare la splendida mostra che, sullo stesso piano, ci fa riscoprire uno straordinario Fortunato Depero. La mostra, un vero ponte fra Trentino e Veneto, si può visitare dal martedì alla domenica dalle 10 alle 18, venerdì dalle 10 alle 21

Come eravamo

Il mondo dell’Arte antica e contemporanea
Paolina Borghese - Antonio Canova
