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La RAI di tutti di più

Storia dell’informazione

di Waimer Perinelli

LA RAI DI TUTTI DI PIÙ:

come il delta di un fiume

Per 25 anni ho salito le scale della sede Rai di Trento. Una ventina di gradini che non erano altrui e davano un pane che non sapeva di sale. Tutt’altro, quelle scale portavano ai programmi e alla redazione che, citando un fortunato messaggio promozionale dell’inizio del nuovo millennio recitava “Rai, di tutti, di più”. Ma non sempre è stato così. La sua bisnonna, che di nome faceva URI, unione radiofonica italiana, era stata formalizzata con regio decreto nel febbraio del 1923 e realizzata nell’agosto dell’anno successivo, in pieno regime fascista che notoriamente censurava ma che, purché sottomessa, la volle per tutti e a tale scopo rese possibile l’acquisto e distribuì gli apparecchi radio, Rurali e Balilla, in tutte le sedi del Fascio. Lo stesso fece qualche anno dopo, Adolf Hitler che volle la Volksradio, Radio popolare, e dotò il popolo germanico di un apparecchio con una sola valvola, una sola frequenza e una sola voce: la sua. L’URI nasceva ventidue anni dopo l’invio del primo messaggio radio transoceanico da parte di Guglielmo Marconi (12 dicembre 1901) al quale nel 1909 fu assegnato il Premio Nobel. Lo scienziato ebbe la fortuna di essere presente al parto URI e nel marzo del 1924 e trasmise da Centocelle in diretta il primo discorso di Mussolini. L’esperimento fallì, a causa, si disse, di “ profonde” interferenze elettriche interne. Ebbe miglior fortuna in ottobre quando dalla stazione trasmittente di San Filippo a Roma l’URI diffuse la prima trasmissione. Un concerto: “ A tutti coloro che sono in ascolto, annunciò la presentatrice Ines Viviani Donarelli, il nostro saluto e il nostro buonasera. Sono le ore 21 del 6 ottobre 1924 trasmettiamo il concerto di inaugurazione ....il Quartetto “Opera 7” di Haydn”. Marconi fu presente anche nel 1927 quando l’URI diventò l’EIAR, ente italiano per le audizioni radiofoniche, vissuta fino al 1944, della quale il mio amico Egon Brida, sudtirolese di Cornaiano, classe 1923, impiegato come tecnico, parlava sempre con orgoglio. Lo stesso sentimento che troviamo nel 1944 quando sulle macerie del Fascismo compare per la prima volta la sigla RAI, ovvero Radio audizioni italiane, una nuova società vissuta fino al 1953, capace di riorganizzare i centri di trasmissione e nel 1949 avviare le prime trasmissioni in campo televisivo la cui sperimentazione era iniziata dieci anni prima. I fortunati possessori di un apparecchio televisivo videro, il 5 febbraio 1950, la prima trasmissione che non fu un concerto bensì la partita di calcio Juventus Milan, vinta dai rossoneri per 7 a 1. Sono anni difficili ma di grande sviluppo e il 3 gennaio del 1954 Fulvia Colombo fece il primo annuncio televisivo. Sul minuscolo schermo andò in onda il primo programma della storia della televisione: Arrivi e Partenze condotto da Mike Bongiorno e Armando Pizzo. Il popolare Mike, italo americano, con Lascia o Raddoppia ed altre trasmissioni è

Storia dell’informazione

diventato “storia della televisione” un mezzo destinato a imporsi trasformando, per qualche tempo la radio in cugina povera. Il 10 aprile del 1955, proprio in omaggio alla comunicazione e intrattenimento per immagini, la Società mantenendo la sigla di RAI trasformò l’acronimo in Radiotelevisione italiana. La sera stessa debuttò “La Domenica Sportiva”, il programma più longevo della televisione. Innumerevoli i giornalisti, programmisti, registi che si sono affermati nei diversi programmi dallo sport all’intrattenimento agli sceneggiati, nominarne cento sarebbe fare un torto per altrettanti, perciò mi limito a citare gli attuali protagonisti come Corrado Augias e Bruno Vespa che in radiorai ha debuttato a 18 anni nel 1962. Entrambi sono oggi più noti come scrittori, autori di programmi televisivi. Ma torniamo al 1955 quando venne realizzata la prima telecronaca parlamentare con l’elezione di Giovanni Gronchi a Presidente della Repubblica. L’anno successivo la consacrazione del piccolo schermo con a VII edizione dei giochi olimpici invernali disputati in provincia di Belluno a Cortina D’Ampezzo. Furono i primi ad essere teletrasmessi in eurovisione. Il monopolio informativo della Rai sarebbe proseguito per altri vent’anni, con produzioni di grande successo come “Non è mai troppo tardi” trasmissione rivolta agli adulti analfabeti. Poi le prime crepe con la riforma del 1975 del sistema radiotelevisivo che fotografava una situazione frammentata dove, per iniziativa di imprenditori coraggiosi, erano nate radio e televisioni private. A Trento Radio Dolomiti, di cui sono stato direttore per cinque anni, e TVA, Televisione delle Alpi. In Veneto Radio e Telepadova, nel 1981 Tele Belluno, nel 1977 in Lombardia Antenna 3. La RAI ha già da qualche anno avviato redazioni radiofoniche locali e il 15 dicembre del 1979 avvia le trasmissioni regolari di Rete tre con il TG3 fratello minore delle corazzate TG1, la storica, e TG2 nata nel 1976. La

Guglielmo Marconi

terza rete sarà destinata ad ospitare i nascenti programmi regionali la cui massima espressione informativa viene rappresentata oggi dalla TGR, Testata giornalistica regionale, in pratica una quarta rete. A concorrere per l’informazione ci sono attualmente piccole e grandi reti private capaci di fornire programmi e telegiornali concorrenziali. La Rai è oggi come la foce Delta di un fiume che, con tantissimi rami da Rai Play a Rai Cultura, Movie...il Sito Web, si getta nell’oceano della comunicazione. Se un giorno si è temuto che l’informazione televisiva avrebbe distrutto il cinema oggi è comprensibile sospettare che i canali Web, Twitter, Instagram, Facebook possano ridimensionare se non annientare la radio e la televisione. Ma a fare la differenza però non è la quantità bensì la qualità e mentre i mezzi radio televisivi esistenti hanno già una grande ricchezza professionale le fonti informative nascenti si affidano troppo spesso all’improvvisazione, al dilettantismo e sono causa di false informazioni. Oggi la Rai, grazie a 1760 giornalisti professionisti, otto testate e 13 mila dipendenti, appare ancora come una grande portaerei capace di affrontare con successo ogni tempesta.

Ieri avvenne

di Maurizio Panizza

PERCHÈ NON TORNI L’«ANNO DELLA FAME»

Circa 200 anni fa un’enorme eruzione in Indonesia provocò un disastro ambientale nell’emisfero nord che provocò carestia e morte. Nel Tirolo Meridionale, l’attuale Trentino, quello restò nella memoria come “l’An de la fam”.

Il 2020 si è affacciato al mondo portando con sé un dramma planetario che nessuno avrebbe mai potuto preventivare. Purtroppo a distanza di tanti mesi la pandemia è ancora in atto e al momento non si sa quando l’umanità potrà dirsi al riparo. Per gli italiani questa del Covi19 è un’enorme preoccupazione che si aggiunge ad altre - meno imprevedibili - con i quali si sta confrontando in questo scorcio di inizio secolo. Da una decina di anni è la crisi economica assieme alla politica il tema costantemente in cima ai pensieri più “neri” degli italiani. Più recentemente, però, grazie anche all’impegno divenuto globale della giovane svedese Greta Thunberg, pare che una nuova consapevolezza abbia fatto sì che fra le preoccupazioni della gente siano entrati pure i cambiamenti climatici. Finalmente, verrebbe da dire, vista la situazione d’emergenza in cui versa purtroppo il pianeta ormai da troppo tempo. “Se non si interviene subito - avvertono gli esperti - il disastro è assicurato”. E un esempio di ciò che potrebbe accadere in un futuro non molto lontano ce lo fornisce direttamente la Storia, anche se spesso tali precedenti passano via e si dimenticano in fretta. Due secoli fa, proprio in questi anni, l’Europa e il Nord America ebbero la prima prova generale di cosa potrebbe accadere in presenza di fenomeni climatici anomali. Allora, però, non si trattò di surriscaldamento, bensì di raffreddamento del clima, ma i risultati, se qualcosa del genere dovesse succedere, sarebbero comunque gli stessi: fenomeni naturali disastrosi, carestia, incremento dei prezzi, miseria, malattie, conflitti sociali. Terrorismo ingiustificato? Vedete voi. Allora si trattò di un’eruzione vulcanica, oggi potrebbe essere l’inquinamento dei mari e il riscaldamento globale. La spaventosa eruzione del vulcano indonesiano Tambora si verificò il 10 e l’11 aprile 1815 (ma le conseguenze durarono ben oltre il 1819) e questo è un esempio del “castigo biblico” che potrebbe causare l’entrata di un elemento destabilizzante nella catena climatica globale. L’eruzione, causò la morte quasi immediata di oltre 60.000 persone e trasformò in poco tempo le estati in inverni su quasi tutto l’emisfero settentrionale causa l’enorme nube che offuscò il sole per mesi. Il vulcano emise gas sulfurei che

Ieri avvenne

nell’atmosfera generarono un aereosol tanto denso e spesso da bloccare la luce del sole, così che su gran parte dell’Europa e del Nord America si ebbe un “anno senza estate”, come viene ricordato. Già all’inizio di giugno si capì che dal punto di vista climatico qualcosa non stava andando per il verso giusto, perché erano tornate le temperature fredde come se stesse iniziando nuovamente l’inverno. Il cielo era quasi sempre nuvoloso, il sole si vedeva di rado. Di conseguenza i raccolti furono falcidiati dalla carenza di luce e dal freddo e la gente alla fine fu costretta addirittura a mangiare gatti e topi e tutto ciò che c’era di commestibile pur di sopravvivere alla carestia. Sulla Pennsylvania e sui rilievi del New England in America, e pure in Canada, caddero ben 20 centimetri di neve nel mese di giugno, seguiti da una prima sequenza di gelate. In piena estate si girava con cappotto e guanti e si arrivò a una pesante crisi alimentare. Fu un anno di carestia e i prezzi lievitarono alle stelle. Molti andarono in miseria e altri si tolsero la vita. I raccolti erano andati distrutti, il pane era introvabile. In Europa la situazione non era meno drammatica. Le tempeste improvvise di quei mesi, le piogge anomale e le inondazioni dei maggiori fiumi europei (incluso il Reno e compreso pure l’Adige) sono oggi attribuibili all’eruzione, così come l’arrivo del ghiaccio nell’agosto del 1816. Quell’anno gli alti livelli di cenere in atmosfera resero spettacolari i rossi tramonti celebrati nei dipinti di J.M.W. Turner. L’eruzione del Tambora fu anche la causa nell’Europa dell’Est di nevicate “sporche” e qualcosa di simile accadde anche in Italia, dove per quell’inverno e per quello successivo cadde della neve rossa dovuta alle ceneri presenti nell’atmosfera. L’Europa che stava ancora riprendendosi dalle guerre napoleoniche, soffrì per la mancanza di generi alimentari: in Gran Bretagna e in Francia vi furono rivolte per il cibo e i magazzini di grano vennero saccheggiati. Secondo un’ipotesi formulata recentemente il cambiamento climatico fu responsabile, in qualche modo, anche della prima pandemia colerica del mondo. Infatti, prima del 1816 il colera era in particolare circoscritto alla zona del pellegrinaggio sul Gange, mentre la carestia di quell’anno contribuì alla nascita di una epidemia nel Bengala che si diffuse poi in Afghanistan e nel Nepal. Dopo aver raggiunto il Mar Caspio, l’epidemia si trasferì in occidente toccando il mar Baltico e il Medio Oriente. La diffusione della malattia fu lenta, ma costante e raggiunse in seguito tutto il mondo. De “l’An de la fam” - come venne ricordato in Sud Tirolo-Trentino - anche

noi abbiamo delle testimonianze dirette. Scriveva, infatti, don Francesco Vinciguerra, cooperatore di Telve Valsugana nell’inverno del 1816: “L’anno 1816 sarà memorabile per le disgrazie, e giusti gastighi del cielo dati al popolo per i peccati. Fu quest’anno carestioso al sommo segno, imperocché la stagione d’inverno freddissima, e abbondante di nevi poiché solamente dopo i 2 di febbraio nevicò 16 volte qui in paese. La primavera e l’estate sempre L'estate del 1816 con le temperature in Europa piovosi, e così anche l’autunno hanno impedito il raccolto, abbondanza e maturazione d’ogni specie di frutto, sì di biade come d’uve, castagne e altre cose. Basta dire, che la canonica di Telve ha raccolto 7 emeri di decima in uva malmatura in guisa, che convenne pestarla in modo straordinario; il vino in conseguenza riuscì acido e disgustoso. Le biade furono a sommo prezzo dimodoché il sorgo giammai nel mese di dicembre si vendeva dieci undeci e anche più fiorini il moggio, in maggio fiorini 16, i faggioli undeci fiorini il moggio mentre per altro si pagavano due o tre, e quando la divina provvidenza non si movesse a pietà (della quale siamo indegni) non si può sperare altro che vedere una gran parte di persone perire da fame. I migliori possidenti del paese, tra i quali si distinse in modo speciale l’ottimo signor dottor Giobatta del fu signor Giuseppe Paolino D’Anna abitante in Telve per procurare ai poveri del paese un bene (cioè perché non abbiano da

L'eruzione del vulcano Tambora in un dipinto dell'epoca

Ieri avvenne

perir da fame) hanno provveduto circa 600 moggi di sorgo in Italia, dove pure è grande la carestia per venderlo in primavera al semplice costo, e anche con loro danno, perché diedero il capitale senza interesse, oltrecché hanno aggiunto altre opere senza rimunerazione.” Lasciando perdere i peccati e il conseguente castigo di Dio di cui parla don Vinciguerra, se in quegli anni risultò evidente ai più che la carestia era diretta conseguenza di un clima “impazzito”, sarebbe tuttavia passato più di un secolo prima che gli esperti si rendessero conto delle vere ragioni che avevano portato a quel tragico evento. E’ impossibile che oggi accada qualcosa del genere? Ne siamo sicuri? E si badi bene, non è che stiamo parlando di eruzioni vulcaniche, seppur importanti, ma di atmosfera “malata”, di gas serra, di surriscaldamento globale. Qui c’è di mezzo la responsabilità dell’uomo riguardo all’intero pianeta, l’unica Terra che abbiamo a disposizione. Pensiamoci tutti, seriamente, prima che sia troppo tardi e ricordiamoci de “l’An de la fam” come a qualcosa che non deve assolutamente ripetersi. Perlomeno non per colpa nostra.

COMUNICATO DI REDAZIONE

Inizia con questo numero una collaborazione con il dr. Maurizio Panizza. Giornalista dal 1992 ha lavorato con numerosi quotidiani. Avvicinatosi alla storia trentina, si è specializzato nell’indagare fatti e personaggi del passato riportando alla luce sui propri libri vicende sconosciute poi riproposte in Rai e anche in teatro nel ruolo di regista. Più recentemente si è dedicato alla documentaristica storica producendo due inchieste sulla Seconda Guerra Mondiale: “Come uccelli d’argento” e “Occhi di guerra”. E’ Vice Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige-Südtirol. Numerose le sue pubblicazioni tra le quali: “Eroe plebeo”, Edizioni Stella, Rovereto, 2003; “Missione compiuta”, Edizioni Osiride, Rovereto, 2009; “Antiche strade”, Edizioni Osiride, Rovereto, 2011, “Diario familiare”, Curcu Genovese, 2019, “Trentino da raccontare”, Curcu Genovese, 2020, “Alla ricerca del sole”, Curcu Genovese/Athesia, 2021.

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Tradizione e cultura

di Lorenza Corradini *

Il DOLCE SUONO della NINNA NANNA

Cosa c'è di più dolce di una ninna nanna? In realtà le ninne nanne della tradizione orale sembrano non essere talvolta così edulcorate. Questi e altri aspetti emergono dal libro pubblicato a novembre a cura dalla scrittrice e illustratrice valdostana Lorena Isabellon, “Le berceau. Ninne nanne della cultura alpina”. Obiettivo della curatrice era raccogliere ninne nanne e immagini di culle di tutto l’arco alpino, includendo anche territori al di qua e al di là delle Alpi: il Veneto, la Germania, la Francia e il Lichtenstein, con l’intento di creare un percorso emozionale grazie ai contenuti provenienti dai musei delle tradizioni popolari, di arte contemporanea, con esperti di cinema, storici, linguisti, ecc. Il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina ha messo a disposizione le immagini della nostra ricca e preziosa collezione di culle (a cura di Luca Fauro), mentre personalmente ho selezionato alcune ninne nanne conservate in APTO (Archivio Provinciale delle Tradizioni Orali) alle quali ho voluto associare una presentazione. La ninna nanna nella tradizione popolare trentina, anche nel contesto delle minoranze linguistiche, viene eseguita prevalentemente in forma di cantilena: lenta e monotona melodia che sfugge al canto e alla recita. Infatti ha la funzione di calmare, rilassare e addormentare il lattante e il bambino nei primi anni di età. Nella tradizione orale, le ninne nanne manifestano il gusto, dei tempi passati, per la metrica spontanea dei versi. Hanno un carattere narrativo in alcuni casi metaforico, in altri raffigurante scorci di vita, talvolta amaramente realistici nella descrizione della povertà contadina del passato. In altre occasioni la ninna nanna sembra assumere la struttura narrativa della fiaba, funzionale all’apprendimento da parte dei più piccoli dei potenziali pericoli della vita (riferimenti all’uomo nero, all’orco, al lupo, alla strega). Altri contenuti descrivono aspetti del mondo agro- silvo- pa-

Frontespizio raccolta di ninne nanne

Lettino della val di Fassa Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina

Lettino di Cavareno Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina

Culla n. inv. 8170 - Tesero

Culla n. inv. 694 - Valle del Fersina 1

Tradizione e cultura

storale legati al tema della pastorizia e dei lavori tradizionali nell’ambiente alpino. Un buon esempio lo troviamo nella melodia Gerlinde Heid, il cui testo è stato registrato a Fierozzo frazione San Francesco in Val dei Mocheni da Renato Morelli fra il 1985 ed il 1991.

Nina, nana, du schlôf,

Ninna nanna dormi tu,

Der Tåta isch pet de Schôf,/

Papà è con le pecore,

De Mama isch gången tsa nemen ‘s Hietl/

La mamma è andata a prendere il cappellino,

Nina, nana, du schlôf/

ninna nanna, dormi tu/

Bail du groes pischt, gean ber pet de Schôf./

quando sarai grande, andremo con le pecore.

Un altro esempio viene fornito, con gusto narrativo auto-ironico, dalla ninna nanna registrata nel minuscolo borgo di Faedo in Val di Cembra. La breve cantilena racconta che la pratica di cantarla al neonato è efficace per addormentarlo, quanto la legna verde è efficace per bruciare (brucia, ma non fa fiamma quindi arde e non fa calore). Nella cantilena viene ironicamente descritta quella frustrazione ben conosciuta a mamme e papà di ogni generazione, che si verifica quando il loro piccolo non vuol proprio saperne di addormentarsi, mentre loro sfiniti non riescono più a rimanere svegli.

Fàghe la ninna nanna, fàghela cantando così il mio bambino si va addormentando si va addormentando a poco a poco come la legna verde in mezzo al fuoco la legna in mezzo al fuoco la brucia e non fa fiamma così il mio bambino a far la ninna nanna

Il riferimento al lavoro di “fare la legna per riscaldare” si trova spesso nelle ninne nanne delle differenti località citate nel libro. Il problema di tenere al caldo il nascituro è un aspetto che vediamo espresso anche nel presepe dove la culla è una mangiatoia e Gesù bambino è tenuto al caldo non con il fuoco, ma con la presenza nella grotta ad uso di stalla del bue e dall’ asinello. Nei villaggi di montagna piemontesi, prima dell’affermarsi del turismo sciistico, i parti avvenivano in stalla in quanto luogo caldo della casa.

*Lorenza Corradini è Conservatrice presso il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina Le berceau. Ninne nanne della cultura alpina. è un prezioso volume multilingue illustrato edito a Mondovì dalla stessa Isabellon a tiratura limitata (1000 copie). Il libro è consultabile presso la Biblioteca Šebesta del Museo degli Usi e Costumi della Gente trentina.

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