1969 Rotta per l'Antartide

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a cura di Ferruccio Russo

1969

ROTTA PER L’ANTARTIDE

la prima spedizione di Giovanni Ajmone-Cat

Edizioni Scientifiche e Artistiche



a cura di Ferruccio Russo

1969 Rotta per l’Antartide la prima spedizione di Giovanni Ajmone-Cat

EDIZIONI SCIENTIFICHE E ARTISTICHE


Copertina: Una spettacolare immagine del San Giuseppe Due ormeggiato in uno dei canali del Neumayer, nel Gerlache in Antartide.

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ISBN 978-88-95430-15-7 E.S.A.

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Edizioni Scientifiche e Artistiche

Š 2009 Proprietà letteraria artistica e scientifica riservata www.edizioniesa.com info@edizioniesa.com


al Comandante Giovanni Ajmone-Cat



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uest’opera di Ferruccio Russo è una rielaborazione delle memorie di Giovanni Ajmone-Cat, mitico navigatore laziale che ha raggiunto, per ben due volte, l’Antartide con un’imbarcazione costruita da un prestigioso cantiere di Torre del Greco. Per di più la seconda spedizione ha visto la partenza dal nostro Circolo Nautico: diverse testimonianze di soci raccontano questi momenti esaltanti per tutti coloro che amano la navigazione e questo tipo di imprese. Il Circolo ha voluto ricordare questi avvenimenti, svoltisi tra la fine degli anni ‘60 e gli inizi dei ‘70, contribuendo a realizzare un’opera che si presenta ricca di interesse anche per le belle immagini che l’autore è riuscito a recuperare: ricordiamo con orgoglio e fierezza la storica fotografia che vede i nostri “eroi” piantare sulle nevi della Penisola Antartica il vessillo del nostro Circolo. Siamo quindi lieti di poter presentare questo volume che ha beneficiato del contributo finanziario di alcuni tra i più importanti operatori nel campo marittimo: gli armatori. Un ringraziamento alla Deiulemar Shipping S.p.A., alla Giuseppe Bottiglieri Shipping Company S.p.A., alla Fratelli D'Amato Armatori S.p.A., alla Rizzo-Bottiglieri-De Carlini Armatori S.p.A.; tutti hanno aderito senza indugio allorquando li abbiamo contattati per coinvolgerli nella realizzazione dell’opera. Infine un ringraziamento particolare alla ditta Cantieri Palomba, storico cantiere torrese, sia perché ha voluto contribuire al finanziamento del volume sia, soprattutto, perché costruì il “San Giuseppe Due”, il mitico motoveliero che tanto prestigio ha dato al comandante Ajmone-Cat ed alla città di Torre del Greco. Aldo Seminario Presidente del CNTG

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Il San Giuseppe Due, al rientro dalla prima spedizione antartica, ormeggiato presso la banchina del Circolo Nautico nel porto di Torre del Greco. La dedica della foto è all’ing. Busatti, allora dirigente del Circolo con delega allo sport velico.


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ono molto grato all’Autore dell’opera per avermi affidato un incarico che mi ha commosso ed altamente onorato. Forse un giornalista o uno scrittore vero sarebbe stato più adatto alla presentazione di un libro con un protagonista di così grande statura e complessità, e non un dilettante che pure ha vissuto una lunga esperienza di vicinanza ed amicizia sincera. Un libro è qualcosa di molto importante. In un’epoca di straordinarie evoluzioni mediatiche, nel convulso rincorrersi dei nuovi mezzi di comunicazione, esso appare avviato, secondo molti, ad una probabile progressiva scomparsa o, nella migliore delle ipotesi, ad una lenta inevitabile abdicazione. Le moderne forme di memoria, dalle capacità illimitate, sembrano destinate a relegarlo tra i futuri reperti filologici dell’umanità. Non sono di questo parere e comunque mi auguro che non sia così. Da millenni il libro costituisce il tramite più diretto tra l’uomo ed il sapere, tra l’uomo e la memoria, tra l’autore ed il lettore e dei lettori fra loro. Lasciamogli, per qualche millennio ancora, il compito di raccogliere e serbare i sentimenti, le emozioni ed i ricordi del genere umano, sempre che il genere umano che verrà sia capace di esprimerli ed interpretarli. Con questa speranza il mio pensiero corre a libri che ci hanno tramandato gesta incredibili di uomini altrettanto incredibili. Le loro storie sono state raccontate per secoli da viandanti, da pastori, da soldati o cavalieri, talvolta dagli stessi protagonisti. Finché non è comparso qualcuno che queste storie ha raccolto, con diligenza, caparbietà e fantasia, fissandole per sempre nella memoria dell’umanità. Non credo che tutte queste opere abbiano conquistato o meritato l’immortalità, né credo che tutte siano testimonianze di verità, tuttavia molte sono diventate veri e propri scrigni, destinati a preservare una cultura altrimenti condannata all’evanescenza, a custodire imprese il

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cui ricordo, insieme a quello dei loro protagonisti, si sarebbe inevitabilmente dissolto col passare delle generazioni. Fra le innumerevoli storie, quelle di mare sono forse le più antiche ed affascinanti. Questo da un millennio prima di Cristo, con i primi racconti scritti su papiro, le prime relazioni di viaggio, le prime scoperte geografiche. Oppure con le prime battaglie navali, le storie di pirati, le conquiste sanguinose e le immancabili, epiche storie d’amore. L’opera curata da Ferruccio Russo rientra nel modello tipico della narrativa di mare, dove gli ingredienti della letteratura marinara sono dosati e strutturati in modo da dare al libro una leggibilità insospettabile. Il lettore non si staccherà facilmente dalla lettura di queste pagine. Verrà preso dalla prosa scarna, fatta di documenti, diari, giornali di bordo, ma che diventa racconto puro, di una potenza narrativa straordinaria. Il personaggio di Giovanni Ajmone-Cat emerge in tutta la sua complessità e centralità. Tra gli innumerevoli attori dell’avventura, alla fine sarà lui solo il protagonista, lui solo ne esprimerà la continuità. Si capisce ben presto che uomini e fatti ruotano intorno a lui, comparendo e scomparendo sullo sfondo, come proiezioni di una lanterna magica, senza mai incidere sull’evento, strumenti quasi occasionali del suo disegno e della sua volontà. Ed infatti, al centro dello spettrale palcoscenico di ghiaccio, nel drammatico momento del suggello finale, in cui l’impresa diventa epica e si consacra alla storia antartica, il protagonista è solo, quasi angosciato, nel suo legno del quale ormai è parte indissolubile. Ho conosciuto Giovanni Ajmone-Cat soltanto al suo ritorno dalla prima spedizione antartica, quando, ormeggiato il San Giuseppe Due alla banchina del Circolo Nautico, a Torre del Greco, ebbe inizio una serie di incontri, molti dei quali confidenziali ed amichevoli, che mi permisero di capire il personaggio che avevo di fronte e dal quale mi sentivo, e non ero il solo, sovrastato. Il suo fascino era reso ancor più straordinario dai mille interrogativi che ci ponevamo sull’uomo e sui motivi che lo avevano spinto verso un’avventura dai risvolti durissimi e, a prima vista, fine a se stessa. Coglievamo la contraddizione tra la sua attività agraria e la passione marinara, ma non capivamo che esse, come ci diceva, conciliavano il suo grande amore per il creato, la natura, il lavoro dell’uomo, “quello duro, vero, sotto le stelle, fra le zolle o fra le onde”.

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Prefazione Capimmo presto però che egli non era né un temerario né un illuso. Aveva perseguito un suo preciso, originale programma scientifico, insieme all’ambizione di portare il tricolore tra i mari del Sud estremo, a fianco delle bandiere di grandi nazioni che laggiù avevano insediato basi di ricerca. Anche la barca non era stata concepita come stravagante replica di antichi vascelli, ma frutto di ricerche, studi e considerazioni sull’ambiente da raggiungere prima, ed affrontare poi. Non è un temerario o un illuso quando confessa al suo diario gli angoscianti dubbi di fronte ai continui imprevisti, o quando, percorrendo le coste di Almeria ha uno dei tanti momenti di sconforto: “mi domandavo se non fossi io stesso un moderno Don Chisciotte”. La stessa scelta di Torre del Greco non era stata casuale o romantica; lo dimostra il breve ed efficace ritratto di Girolamo Palomba: “Se io avevo l’istinto del mare egli possedeva quello delle costruzioni navali.” La “sensibilità di mestiere” fu il loro punto d’incontro. E del velaio Giovanni Ascione, che incarnava, ultimo esempio, “l’entusiasmo, la fierezza e l’orgoglio di un’arte in via di estinzione.” La nostra amicizia si consolidò presto perché egli trovò, nell’ambiente sportivo ed entusiasta del Circolo, quell’atmosfera che aveva contraddistinto la sua prima permanenza a Torre del Greco, dove il San Giuseppe Due era stato concepito, costruito e varato. Diventò presto uno di noi, mentre la sagoma agile della feluca era sempre più familiare per la gente del porto. Le visite a bordo, allietate sempre da un buon bicchiere in pozzetto, erano per noi momenti magici. Il Comandante coglieva nei nostri occhi ammirazione ed incredulità quando, con la semplicità che il lettore ritroverà intatta nel libro, ci raccontava del passaggio attraverso lo Stretto di Drake o l’eruzione di un vulcano antartico. Talvolta, generosamente, si concedeva alla narrazione di episodi ed aneddoti di cui non vi sarebbe mai stata traccia nei diari di bordo, così da farci sentire depositari esclusivi di preziosi frammenti di una magica avventura. Il Circolo Nautico di Torre del Greco, che per Giovanni Ajmone-Cat era stato un punto di approdo e rifugio nei giorni di studio e di preparazione -ci piace immaginarlo così- aveva avuto il suo momento di ricompensa e di gloria quando, nella base argentina Almirante Brown il nostro Comandante ne consegnò il guidone a quello della base. Un gesto di affetto e ri-

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conoscenza che è rimasto nel cuore dei Soci i quali, nel corso di una grande, corale manifestazione, lo vollero Socio Onorario. Era il Dicembre del 1971, l’entusiasmo aveva ormai contagiato anche coloro che avevano seguito il sogno del giovane esploratore con sufficienza e scetticismo. L’idea di un secondo viaggio, che partisse proprio da Torre del Greco, cominciò a prendere corpo. Le difficoltà affrontate, le amarezze, le lacerazioni, sbiadivano lentamente cedendo ai primi sintomi di quel “male antartico” che Giovanni Ajmone-Cat tanto temeva. Era dunque il momento di ricominciare! Ma questa è un’altra storia… Gianfranco Busatti*

* Ingegnere, toscano di origine e campano di adozione, è stato dirigente del Circolo Nautico di Torre del Greco dal 1970 al 2002, occupandosi dello sport velico. Ne è stato il Presidente per tredici anni. Tra il 1989 ed il 2008 ha rivestito la carica di Consigliere Nazionale della Federazione Italiana Vela di cui è stato, per dodici anni, il Vice Presidente Vicario. E’ stato insignito dell’onorificenza di Commendatore e della Stella al Merito del Lavoro dal Presidente della Repubblica. Si fregia della Stella d’Oro al Merito Sportivo del C.O.N.I. Ha guidato, come Team Leader, le Squadre Nazionali di Vela in molte manifestazioni mondiali tra cui le Olimpiadi di Sydney, Atene e Pechino.

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avigare neccesse est, vivere non necesse”, diceva Pompeo ai suoi marinai, accingendosi a salpare durante una tempesta per portare il grano a Roma. Giovanni Ajmone-Cat, che di tempeste ne aveva affrontate parecchie durante le sue navigazioni, da buon marinaio non ero certo solito “mollare” in mezzo ad un mal tempo. Tuttavia il celebre motto latino rappresenta la metafora della parte più ricca della sua esistenza, degli anni in cui egli aveva lottato con tenacia e sacrificio perché sentiva necessario dover privilegiare la sua vocazione e dare il meglio di se, rispetto all’inutilità di una vita comoda e vuota. Generosamente dotato dal Buon Dio, godeva di una salute di ferro e poteva contare su un fisico robusto e resistente alla fatica. L’animo sensibile ed il temperamento prevalentemente artistico, avevano potenziato il suo ingegno fantasioso, generando in lui una natura ricca e complessa che lo portava a sognare ed a compiere grandi cose, ma anche a fronteggiare il proprio non facile carattere. Educato in una famiglia a considerare i talenti ricevuti come un tesoro da non tenere esclusivamente per sé, ma da porre a frutto anche per il bene altrui e dell’Italia, egli dedicherà la sua gioventù alla realizzazione di una bonifica nell’Agro-Pontino poi, appena attuato il progetto, si volgerà definitivamente al mare. La maturità classica e la laurea in Scienze Agrarie gli forniscono una multiforme cultura che gli consentirà di trovarsi a proprio agio nei campi più diversi e nelle molteplici attività svolte. Fin da piccolo è attirato dal bello e dall’eroico e si incanta a contemplare le meraviglie del creato. Dalla personalità paterna, legatissima alla famiglia, ma non di rado assente per assolvere ardui comandi in guerra o intensa-

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mente occupata nell’adempiere incarichi impegnativi per l’amata Arma Azzurra, assorbe, già da bambino l’amore per la Patria, il forte senso del dovere, la rettitudine. Fiero di essere il figlio del Generale Mario Ajmone-Cat, ne ammira, oltre all’abilità del pilota, la formidabile capacità organizzativa, le copiose doti umane, l’attenzione e la disponibilità rivolte a quanti hanno bisogno di aiuto e la singolare arte del comando, che compendia tali attitudini; nobile figura di soldato, questo pioniere dell’Aviazione, sarà chiamato ad essere l’ultimo Capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica ed il primo dell’Italia Repubblicana e curerà la complessa ricostruzione dell’Arma dopo la guerra, all’incirca fino alla sua prematura scomparsa. La mamma Carlangela Durini di Monza, in gioventù, era stata una brillante amazzone ed un’abile cacciatrice ed aveva partecipato ad una Spedizione Trans-Africana, allestita ed attuata dalla sua famiglia negli anni 1929-30, che aveva tracciato una via dall’Angola alla Somalia e riportato vari dati scientifici. Al suo marmocchio, ancora quasi incapace di parlare, ella racconta di paesi lontani, di caravelle che solcano o mari, di navigatori che raggiungono terre inesplorate ed insegna a conoscere le stelle; appassionata sportiva delle vela, lo porta con sé nelle sue uscite sul Lago di Como e, appena egli raggiunge l’età della ragione, gli affida la “Serie Laghi”, la propria fedele compagna di tante regate e di tante vittorie, e lo lascia andare da solo. Due estati sono trascorse da quel giorno memorabile ed il marinaretto, ormai affrancato dalle incertezze degli inizi, veleggia lontano da casa, quando è sorpreso dal “ventasch”, come chiamano in dialetto questa sorta di maestralata Lariana di tutto rispetto, che sconvolge il tempo più idilliaco in pochi minuti. Raffiche e lago continuano a rinforzare ed il piccolo Giovanni, pericolosamente vicino alla riva rocciosa schiaffeggiata dalle onde, si trova in seria difficoltà. Da terra lo sentono gridare più volte: “Aiuto, povero me, sono morto!”, ma lo vedono continuare a combattere. Manovrando con rapidità e destrezza, egli riesce a governare barca e paura, a trovare un ridosso ed a rifugiarvisi, salvando la pelle e… soprattutto la sua amata “Serie Laghi”. Gli insegnamenti moderni e del carissimo amico Sandro Volpi Bassani hanno dato i primi frutti, rivelando in quel bimbo di nove anni un’innata attitudine a misurarsi con i due elementi che imparerà sempre più a rispettare e ad amare.

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Prefazione Il vecchio amico, che trascorreva l’estate nella sua villa sul lago di Como, aveva uno straordinario passato di vita di mare alle spalle, spesa in pace ed in guerra, e molte cose da raccontare, ma soprattutto amava insegnare. “In poppa tutte le zucche vanno” soleva ripetere, spronando i giovani ad affrontare le difficoltà non solo in mare, ma anche nella loro esistenza e sottolineava l’importanza della formazione ricevuta perché – diceva – tutto ci può essere tolto, anche la vita, ma non l’educazione. Varie generazioni di ragazzi avevano appreso da lui ad andare a vela, a conoscere i nodi, a lavorare i cordami eseguendo i vari tipi di impiombature, ecc., ma più di ogni altra cosa, ad essere gentiluomini del mare. L’aristocratico signore aveva preso parte alla Grande Guerra, come Ufficiale Volontario della Regia Marina, prestandosi con il proprio equipaggio e con il “Linda” un motoscafo d’altomare, da lui stesso appositamente progettato e costruito, chiamato con il nome della diletta consorte; con esso aveva compiuto anche un’importante azione nel porto di Ancona. Nella sua lunga vita egli aveva fabbricato automobili, motori marini, collaudato sommergibili, progettato gli ultimi e più moderni MAS, con la prua a dislocamento variabile. Negli anni ’20 aveva disegnato la “Serie Laghi”, piuttosto simile al “Dinghy”, ma armata alla portoghese, che era divenuta una delle barche preferite dagli amici e da molti che passavano le vacanze nelle proprie case sul lago, e ne organizzava le regate sotto l’egida del Regio Elice Club Italiano, uno tra i più antichi Circoli Nautici d’Italia, da lui fondato. Ai concorrenti che rimanevano indietro, spiegava di non preoccuparsi, perché arrivare ultimi è un atto di cortesia verso il penultimo! Il piccolo Giovanni, diviene uno dei suoi allievi più affezionati e trascorre molto tempo nell’attrezzato laboratorio che il Sandro Volpi ha organizzato in uno dei padiglioni di Villa Pizzo, la sua storica dimora; lì, tra una quantità di oggetti marini e di vario genere, tra modelli di navi e di motori, l’eclettico personaggio insegna, insegna e racconta. Il bambino ha tra le mani un’impiombatura appena iniziata e sta combattendo con un legnuolo ribelle quando… sente il vento fischiare sempre più forte tra le sartie del “Archelda”, che navigava con tutte le vele a riva in mezzo ad un fortunale nel Golfo di Guascogna, l’equipaggio della goletta si è rifugiato sottocoperta per la paura, sul ponte spazzato dalle onde sono rimasti una minuta signora

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al timone ed un gentiluomo alle manovre… ora è in guerra in Adriatico, su un mezzo d’assalto che viaggia a luci spente per non farsi intercettare dal nemico… intanto impara. Impara anche ad usare vari attrezzi, a lavorare il legno, a realizzare molte cose con le sue mani ed acquista un’abilità che gli sarà assai utile a bordo e che gli permetterà di eseguire riparazioni e modifiche a regola d’arte. Per affetto verso il singolare Maestro di vita e di marineria, egli compirà le Spedizioni Antartiche sotto i colori del R.E.C.I. il quale chiuderà in bellezza la sua attività di Circolo Nautico, ma continuerà a vivere nel Crest del “San Giuseppe Due”. Ad Anzio, nel dopo guerra, ferveva una vivace vita di mare ed il porto era zeppo di barche a vela latina piccole e grandi, usate per la pesca e per il trasporto di turisti o di vari materiali. Qui il giovane Ajmone-Cat trascorre le domeniche d’inverno e buona parte del periodo estivo dopo l’incontro con Paolino Martino, un pescatore locale che lo accoglie come mozzo sulle proprie tartane. Una vita dura ma affascinante quella del marinaio, che richiede impegno e sacrificio anche ad un ragazzino di dodici anni, al quale la passione riesce a far superare perfino l’innata pigrizia. Alla gioia di un bel vento teso, si alterna l’angoscia di un improvviso maltempo, da affrontare, magari con la barca carica di breccia fino all’orlo. Dopo tanta fatica per riempirla, bisogna buttare a mare il più rapidamente possibile, buona parte del materiale raccolto e “volare” alle manovre, cercando di non essere “il gatto di piombo” – epiteto dato al mozzo quando è poco veloce – poi, spesso, occorre anche mettere mano ai remi. Sentire il vento, osservare il cielo e l’aspetto delle nuvole, capire il mare da come cammina, dal suo colore può talvolta servire a prevedere l’arrivo di una burrasca, oppure, sotto costa, ad intuire un provvidenziale ridosso; indizi insignificanti per i più, ma non per l’uomo di mare abituato a prestare costante attenzione ad ogni cosa, anche alla più banale, che potrebbe ritenersi di vitale importanza in un’emergenza. Il ragazzino vigile e sveglio fa tesoro di tutto e acquisisce man mano un insostituibile patrimonio di conoscenza relativo alla navigazione costiera che contribuirà ad affinargli un innato sesto senso e che, negli anni a venire, sarà

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Prefazione uno dei bagagli più preziosi che Ajmone-Cat porterà con sé, insieme con la passione per la vela latina che ha imparato a praticare ed a prediligere. In seguito, la formativa esperienza vissuta in gioventù sarà arricchita e completata dalla navigazione astronomica, studiata ed approfondita con maestri di grande levatura quali l’amico Ercole Visca, capo navigatore dell’Alitalia, e gli stimati e cari Professori Antonino Sposito ed Aniello Russo dell’Istituto Universitario Navale di Napoli. Nei viaggi oceanici e polari egli renderà onore agli insegnamenti ricevuti da tali personalità, divenendo un formidabile navigatore. In una bella domenica estiva, una numerosa famiglia arriva sul lido laziale con l’intento di fare una gita e, noleggiata la tartana, si imbarca per Torre Astura. Al rientro, nel pomeriggio, il marinaio Paolino, in preda a forti dolori per una colica renale, si rannicchia sottocoperta e lascia timone e manovre al suo giovanissimo aiutante con grande spavento dei turisti; intanto il vento sta girando a libeccio. Il mare “monta” ed il vento “tesa”; il mozzo se la cava, ma è assai preoccupato per l’ingresso in porto, che è di difficile accesso sotto una libecciata. Ad Anzio, sono rientrati quasi tutti a causa del maltempo e stanno all’erta per quelli che ancora non sono tornati. Ad un certo momento gli occhi di tutti sono puntati con una certa apprensione su un gozzo invelato che si presenta all’imboccatura del porto e, infine, riesce ad entrare superando i frangenti un po’ fortunosamente: a bordo un ragazzino gesticola ed urla. “Sono solo, sono solo!”. Per la manovra gli aiuti non mancano ed i turisti, arrivati felicemente a destinazione dopo tanta paura, regalano una lauta mancia al piccolo mozzo che li ha portati in salvo. Ajmone-Cat soleva dire che erano i primi soldi che aveva guadagnato in vita sua! Purtroppo bisogna anche andare a scuola, cosa assai poco gradita a quel giovane un po’ ribelle, che viene messo in collegio a Como per gli ultimi anni di liceo, nella speranza che si impegni di più, avendo meno distrazioni marinare. Ogni autunno, prima di iniziare il tedioso inverno sui libri, gli viene concesso di partire per l’alto lago con il suo amato guscio di noce a vela a cui, nel tempo, ha fatto fare delle modifiche per poterci vivere e dormire. Le brevi crociere lo portano fino al lago di Mezzola, estrema appendice del Lario, che lo affascina per la sua natura alpina forte e selvaggia, che anni dopo ritroverà imponente nella penisola Antartica.

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Sulla via del ritorno, un attimo di distrazione, una raffica improvvisa e la barca si rovescia proprio nel punto più largo del lago di Como. Le sponde sono lontane e comincia ad imbrunire, l’acqua è fredda e col trascorrere delle ore sembra diventare sempre più fredda. Un battello di linea anima le acque deserte, ma prosegue senza accorgersi di nulla. Aggrappato alla chiglia, il giovane sente che le forze cominciano a mancare. Lontano si profila una gondola lariana, la sua rotta dovrebbe passare un po’ meno distante dal naufrago. Anche quella prosegue… poi si ferma, vira e dirige verso una parvenza di vela che di tanto in tanto si intravvede uscire dall’acqua… Premio sospirato della sofferta maturità, finalmente conquistata, è il “San Giuseppe” una delle tartane del suo marinaio, sulla quale da ragazzino aveva gioito, penato, imparato e soprattutto compreso quanto sia esigente il mestiere di uomo di mare. Il giovane con l’acqua salata nelle vene incomincia così a navigare “in proprio”. All’inizio sceglie il Circeo, Ponza, Ventotene, come mete più frequenti e in seguito, dopo aver pontato completamente lo scafo, si avventura fino alle Eolie. Nel 1967 raggiunge la Corsica e la Sardegna con lo scopo di prendere e portare via mare la bottiglia di Champagne che dovrà essere infranta sulla prua del “San Giuseppe Due”, il quale sarà poi battezzato dal carissimo amico Carmelitano Padre Benedetto. L’inverno seguente, ripetute uscite con il suo gozzo a vela latina, immortalato fotograficamente in tutte le andature, gli saranno utilissime per integrare lo studio del piano velico della nascente feluca, che porterà lo stesso nome della cara, fedele tartana. Arrivano gli anni dell’università a Perugia, ma anche dell’inizio di una bonifica che egli, ormai studente di Agraria, intraprende nell’Agro-Pontino in una proprietà di famiglia. Una memorabile impresa, da lui ideata, organizzata e diretta alla quale dedicherà con passione gli anni della gioventù, contento di poter dare il suo contributo all’Italia nella ricostruzione del dopoguerra e di creare una ragione di vita per molta gente della zona. Il lavoro è impegnativo e pesante e non mancano tribolazioni e problemi al giovane direttore dell’azienda, che sente acuto il peso della propria responsabilità verso le numerose famiglie che dipendono da lui. Trascorre buona parte delle sue giornate a cavallo per coordinare il lavoro e controllarlo da vicino nelle fasi di esecuzione; a volte gli capita di subentrare ai trattoristi laddove una forte pendenza può rappresentare un pericolo per

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Prefazione loro; talora si trova a fronteggiare imprevisti che sconvolgono il programma stabilito o maltempi che distruggono un’opera di canalizzazione tanto faticosamente raggiunta; poi ci sono i raccolti, i pascoli, le masserie dei pastori con un gregge di più di mille pecore e tante altre cose ancora da seguire e da organizzare. Nel frattempo, sta sorgendo il nuovo centro agricolo ed egli è impegnato parecchio per sorvegliare la costruzione di case rurali, magazzini, stalle, fienili, silos; da ultimo erigerà anche una chiesa, divenuta negli anni un fondamentale appoggio per le persone che abitano nei dintorni per la parrocchia che è assai lontana. È un’esistenza rude, impegnativa e vincolante, che assorbe molto del suo tempo, lasciandogli poco spazio per navigare, ma che lo ripaga, conferendogli una capacità di organizzazione e di comando e una consuetudine alla vita di sacrificio, che saranno basilari per i suoi viaggi Antartici. Realizzato il progetto che è stato una fonte di occupazione e di sviluppo per le tante persone che vi hanno lavorato, egli ritorna al mare, portandosi dietro il ricordo di un mondo semplice e schietto, ricco di entusiasmo e di solidarietà, ma non scevro di un certo romanticismo e di poesia. Il “Duca degli Abruzzi”, la “Stella Polare”, la marcia al Polo… nell’opposto emisfero, il tentativo dello sfortunato Giacomo Bove… perché non riprendere il testimone e far giungere per la prima volta nella storia, una nave Italiana in Antartide? Ajmone-Cat esprime il suo desiderio in famiglia e trova la mamma – che sarà la madrina del “San Giuseppe Due” – pronta ad assecondarlo, a sostenerlo economicamente ed a collaborare soprattutto per la parte logistica, forte della propria esperienza Africana; il suo appoggio sarà determinante per il felice successo della Spedizione. Durante tutto il viaggio lo seguirà puntuale in ogni sosta con la sua sollecita, efficiente assistenza, senza muoversi mai di casa nei giorni in cui si prevede che il “San Giuseppe Due” debba giungere nei vari porti, per non perdere la telefonata che dà notizia dell’arrivo e, immancabilmente, degli inconvenienti occorsi, che necessitano di un tempestivo intervento dell’Italia. Molti dei vari problemi saranno risolti anche dalla valida, affettuosa collaborazione dei fratelli Girolamo e Peppino Palomba, sempre assai di-

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sponibili e costantemente attenti allo svolgimento della spedizione ed allo stato di salute della prediletta “creatura” uscita dal loro cantiere navale. Orbene, la mamma gli farà arrivare i finanziamenti, personale di equipaggio, ricambi di ogni genere nei porti più lontani, che, a quell’epoca, non erano sempre facilmente raggiungibili e non solo per via aerea, ma anche per telefono! I numerosi contatti con le ditte italiane ed estere, l’organizzazione relativa all’invio in tempo utile – e naturalmente quando serviva un ricambio od un marinaio era sempre un’emergenza – rappresentano un’altra impresa, vissuta a terra è vero, ma talora non poco faticosa ed angosciante. Epica fu l’avventura per rimpiazzare l’equipaggio in Antartide e, in quel frangente, anche la figura paterna si rese presente per dare il suo rilevante sostegno. Il Comandante, rimasto solo sul “San Giuseppe Due” alla fonda in Baia Paradiso, lotta quotidianamente contro gli iceberg, scaricati dai ghiacciai circostanti, che gli insidiano lo scafo e si appoggia alla Base Argentina di Almirante Brown soltanto quando deve comunicare via radio l’increscioso evento alla famiglia e chiedere la sostituzione dell’equipaggio, possibilmente formato da militari, per riparare allo sbarco di uomini impauriti e scoraggiati e per tenere alto il prestigio dell’Italia, arrivata per la prima volta autonomamente tra i ghiacci del Sud. La notizia è drammatica e, peggio, questa volta è impensabile soddisfare l’appello. La mamma riflette un momento poi, senza indugio, va dal Generale Duilio Fanali, allora Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare e gli espone il problema. La gratitudine e l’affetto per il Generale Mario AjmoneCat, il ricordo dei propri figli perduti, uno per embolia durante un’immersione, l’altra in un incidente di sci, spronano l’Alto Ufficiale ad un intervento incisivo e immediato e, in presenza della consorte del suo amico Comandante, telefona subito all’amico Ammiraglio Giuseppe Roselli Lorenzini, Capo di Stato Maggiore della Marina Militare. Da quel momento scatta una gara di solidarietà tra Aeronautica e Marina per sostenere questa impresa poco nota, che suscita un’ondata di entusiasmo e di orgoglio nazionale. Ai due Nocchieri Volontari scelti dalla Marina Militare – Salvatore Di Mauro e Franco Zarattini, ragazzi preparati e fedeli che rimarranno nel tempo assai affezionati al loro Comandante antartico – si affianca il carissimo Dario Trentin. Quest’ultimo, essendo pilota civile, deve richiedere

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Prefazione un’aspettativa e, nel timore di non riuscire ad ottenerla, quando va dai suoi dirigenti, ha già pronta una lettera di licenziamento in tasca, per essere sicuro di poter raggiungere in ogni modo l’amico Giovanni in difficoltà. Inverosimile la febbrile attività di quei brevissimi giorni in cui anche un’altra cara persona, Rolando de Alexandris, allora Capitano di Fregata delle Capitanerie di Porto, dà il suo prezioso consiglio per tutto ciò che riguarda i complessi problemi giuridici correlati ad una situazione tanto anomala. Si corre contro il tempo per organizzare l’equipaggiamento e gli spostamenti aerei con delle coincidenze inaudite, che permettono ai tre partecipanti di raggiungere Ushuaia il più celermente possibile per giungere ad imbarcarsi sul rompighiaccio “General San Martin” della Marina Argentina, che si appresta ad effettuare l’ultimo viaggio della stagione, prima della stretta dei ghiacci del lungo inverno polare. La presenza della Marina Militare nel nuovo equipaggio e la rapidità dell’arrivo di quest’ultimo in Antartide, suscitano grande meraviglia nella Base di Almirante Brown ed accrescono non poco il prestigio della nostra bandiera. È proprio vero che il Buon Dio da un male trae sempre un maggior bene. L’impresa, conosciuta solo da alcuni, che sembrava dovesse tristemente fallire, divenne celebre e, ancora oggi, il suo ricordo rende onore all’Italia. Questo libro ne racconta la storia, attraverso il diario di bordo del “San Giuseppe Due” e le memorie del suo Comandante, che lo scrisse appena rientrato dalla Spedizione e, per varie vicissitudini, non lo prese più in mano fino al fortuito e fausto incontro con l’Editore di Torre del Greco, oltre trent’anni dopo. Il progetto di una eventuale pubblicazione ebbe inizio, ma in breve si interruppe perché Giovanni Ajmone-Cat venne chiamato nella Patria definitiva. Riconoscenza è una parola che non riesce a tradurre a pieno il mio stato d’animo colmo di grandi pensieri per Ferruccio Russo che ha voluto riprendere la stampa del libro, realizzato – come è consuetudine per le sue edizioni – in una veste curatissima e raffinata. Inoltre è riuscito ad interpretare il testo ed a mettere a fuoco perfettamente luoghi, avvenimenti, situazioni come se avesse vissuto il viaggio in prima persona. È venuto ad Anzio a prelevare il cospicuo materiale fotografico, che ha riversato su DVD poi lo ha puntualmente restituito… ma tutto perfettamente restaurato!

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Riguardo alla splendide riproduzione che illustrano il volume, ha compiuto un’opera sorprendente nel ritrovare paesaggi, nell’individuare l’ubicazione di panorami e di località, nell’identificare persone, navi, oggetti, riuscendo sempre ad abbinare al testo l’immagine specifica. Frutto di competenza e serietà, questa realizzazione ha dietro di sé giorni e giorni di ricerche pazienti e meticolose, di studi approfonditi, di intuizioni, di prove e soprattutto di un’enorme passione. Mi sono sentita in colpa per non aver potuto seguire questa fase complessa e delicata e dare un piccolo aiuto nell’integrare eventi o nel chiarire incertezze, ma il risultato mirabile mi assolve e mi fa pensare piuttosto che sarei stata di inciampo. Rinnovo dunque il mio grazie all’Editore Ferruccio Russo non solo per questo libro, ma specialmente per la grande – ed ultima – gioia che egli ha dato a mio fratello Giovanni Ajmone-Cat, proponendogli di pubblicare la storia dell’impresa che aveva rappresentato uno dei momenti più fecondi e nobili della sua vita. Impresa che valse la Medaglia d’Oro della Marina, a lui Capo Spedizione, e d’argento all’equipaggio che raggiunse la nave in Antartide. Alla cerimonia di consegna del prestigioso riconoscimento, il comandante del “San Giuseppe Due” si sentì dire dall’Ammiraglio Roselli Lorenzini: “lei ha riportato l’Italia all’epoca delle grandi spedizioni geografiche”. Il pensiero che quella pagina di storia, modesta, ma vissuta intensamente e ricolma di umani valori, non andasse perduta, lo avevano aiutato a riscoprire quanto l’uomo possa osare quando i supremi ideali ne sostengano l’esistenza. Un’idea che non lo aveva più abbandonato, che lo riportava alla fresca limpidezza della sua gioventù, a quanto di buono, di bello, di grande aveva saputo realizzare con i multiformi talenti che gli erano stati affidati. Un’idea che via via ha dissolto le nebbie dell’amarezza e dello sconforto, che lo ha preparato ad affrontare con audacia l’ultima navigazione ed a dirigere sicuro in porto, guidato dalla sua amata “Stella Maris”. Como, ottobre 2009

Rita Ajmone-Cat

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I

l mio primo approccio con le imprese del comandante Giovanni AjmoneCat, ebbe luogo in maniera del tutto casuale. Nella primavera del 2007 stavo completando la ricerca iconografica per un volume sulla storia del porto di Torre del Greco quando, tra i documenti dell’archivio del Circolo Nautico, trovai delle fotografie di grande formato che, a giudicare dai colori un po’ sbiaditi, risalivano ad alcuni decenni prima. In una di esse il vessillo del circolo, sotto forma di guidone, veniva consegnato ad un ufficiale della marina argentina. In altri scatti era possibile scorgere un piccolo veliero, dalla linea tipicamente mediterranea, ormeggiato tra gli iceberg nelle immediate adiacenze di una base antartica. Incuriosito dalla, per me, strana scoperta, chiesi il permesso di acquisire quel materiale e non appena ebbi qualche giorno di libertà, cercai di ottenere informazioni sulle vicende che testimoniava. Fui subito indirizzato ai cantieri Palomba, che quel motoveliero, il San Giuseppe Due, lo avevano costruito, come poi seppi, nel lontano 1968. Dai titolari, mastro Girolamo e mastro Giuseppe, ottenni delle prime delucidazioni sulle spedizioni cui aveva partecipato l’imbarcazione e sul suo comandante-proprietario. Anzi, seduta stante, fui messo in contatto con Giovanni Ajmone-Cat, che con la sua naturale simpatia e la buona disposizione d’animo verso chi si mostrava interessato alle sue imprese, mi invitò ad Anzio di modo da approfondire la nostra conoscenza e offrirmi così l’occasione di colmare la mia curiosità riguardo alle missioni. Poche settimane dopo ero nella sua villa-museo con annesso bacino di rimessaggio che ospitava, tristemente in secca, il glorioso motoveliero. Fu il nostro unico incontro. Discutemmo di tantissime questioni e rapidamente giungemmo alla conclusione di preparare la stampa di un memo-

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riale-documentario per ciascuna delle due spedizioni, iniziando dalla prima per la quale di lì a poco sarebbe occorso il 40° anniversario dalla partenza (1969-2009). Il comandante, inizialmente mi era sembrato scettico circa l’interesse che quest’opera avrebbe potuto incontrare nel pubblico. Nel corso di quattro decenni, le sue spedizioni erano passate da un iniziale notevole successo, manifestatosi in riconoscimenti ed attestazioni varie, ad un via via più deludente oblio. Alcuni miei illustri colleghi, interpellati da Ajmone-Cat circa la pubblicabilità dell’opera, si erano espressi in maniera ambigua, lasciando intendere la necessità di orpellare il netto resoconto delle vicende con qualche ‘colpo di scena’ che tenesse viva l’attenzione del lettore. Quella breve ma intensa frequentazione, soprattutto telefonica, che ho intrattenuto col comandante, mi ha poi dato modo di comprendere come a questi ‘consigli’ preferisse, appunto, l’oblio. Fu, quindi, grande il suo entusiasmo quando, di lì a poche settimane, ricevuta a mezzo posta copia del memoriale (che aveva redatto nei mesi successivi al rientro dalla prima spedizione, tra il 1971 ed il ’72, basandosi per una maggiore oggettività su diversi passi tratti dal diario di bordo) gli comunicai che lo ritenevo pressappoco perfetto ed idoneo alla stampa, e che mai mi sarei sognato di intervenire in alcun modo, trattandosi di una prosa lineare ed appassionante di per sé. In realtà fu lui, poi, a chiedermi di rivedere in parte alcuni passi ‘contaminati’ a suo dire, dal rancore nutrito nei primi tempi verso dei protagonisti della vicenda nonché dalle personali ‘convinzioni etiche e morali’ che, ormai, non avevano più motivo d’essere. Se condivisi immediatamente le titubanze circa le prime, mi dichiarai fermamente contrario alle seconde, ritenendole necessarie alla resa ‘cromatica’ del protagonista, che altrimenti sarebbe apparso stonato all’interno di una tanto incredibile impresa. Qualche mese dopo, purtroppo, Giovanni Ajmone-Cat venne a mancare. Nell’ultima nostra telefonata, mi espresse il suo timore di non vedere compiuta quest’opera. In effetti soltanto ora, dopo oltre due anni di lavoro e grazie al prezioso sostegno offertomi dal Circolo Nautico, ed in particolare dal suo Presidente, dott. Aldo Seminario, riesco a concretizzare questo suo desiderio. Ci tengo, inoltre, a precisare che le mie competenze marinare ed antartiche, erano e sono limitatissime. Per cui ho dovuto molto studiare e lavorare

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Premessa sul materiale fotografico, circa 1000 diapositive che, raccolte ad Anzio nell’archivio del comandante, sono state scansione e ricollocate in una possibile griglia geografica, dal momento che si trovavano in contenitori privi di indicazioni. Se i lettori dotati di competenze maggiori delle mie, troveranno errori ed imprecisioni, vogliano scusarli considerando che nella stesura di quest’opera, sebbene mi sia avvalso dell’aiuto di tante pregevolissime persone (prima fra tutte la sorella del comandante, la signora Rita Ajmone-Cat) mi è venuto a mancare il prezioso apporto che solo il protagonista delle vicende narrate avrebbe potuto garantirmi. A lui ho deciso di dedicare questo volume che ripercorre quello che ritenne il più bel periodo della sua vita, quello che va dalla costruzione del San Giuseppe Due, a Torre del Greco, sino al rientro felice della prima spedizione antartica, sopraggiunto al termine di una lunga odissea costellata di difficoltà morali ed avarie meccaniche brillantemente superate.

F. R.

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A

sette anni misi piede per la prima volta sui paglioli1 di una barca a vela. Era una Classe 1923, tipo di piccola imbarcazione concepita per il Lago di Como e simile al vecchio dinghy.2 Ebbi come maestro un personaggio d’eccezione, conoscitore completo di ogni mestiere e capace di trasmettere a chi gli era vicino l’entusiasmo per una vita animata dalla passione e distaccata dal successo. Lo rivedo sempre, il Signor Sandro, con il suo maglione bianco, estate e inverno, e con i pantaloni di tela blu, tenuti su a mò di cintura da una sagola3 accuratamente impiombata. Lo vedo come se fosse ieri, camminare elastico con le sue scarpette da tennis e arrampicarsi agilmente sugli alberi di fico, nonostante i suoi settantacinque anni suonati. Viveva in una delle più belle ville sul Lago di Como, tra l’altro luogo di origine della famiglia di mia madre, e quivi aveva allestito un laboratorio dove, in mezzo ai ricordi di una vita tra le più piene e varie che si possano immaginare, lavorava legno, ferro, bronzo per la costruzione di barche, di modellini, per le riparazioni di antichi orologi, e per quanto altro fosse necessario a sé ed agli amici. 1 Pavimentazione, generalmente amovibile, disposta su intelaiature in stive, locali, imbarcazioni, dove il fondo è reso irregolare e non praticabile dalla sua stessa forma o dalla sporgenza di membrature o altro. 2 Termine generico inglese per indicare una piccola imbarcazione di servizio (in francese pram o youyou, in italiano battellino). Quando è usato per designare imbarcazioni a vela, è sinonimo dell’italiano deriva. 3 Piccolo cavo vegetale utilizzato per legature, fasciature, rizze di bandiere, griselle, ecc. Generalmente composta da tre o quattro legnoli di canapa bianca o catramata. La più nota è quella formata da un lezzino intrecciato che, per la sua formazione non ritorta, non prende volte. Spesso la si utizza anche per lavori ornamentali.

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Disegnava barche e motori e, costruendo poi modelli in scala, ne provava la bontà o ne constatava i difetti, al solo scopo di creare, senza preoccuparsi degli sviluppi delle sue creature. In quelle due camere, dove si respirava l’odore di canapo catramato e di vernice ad olio, tipico dell’antica marineria, tra un quadro rappresentante un vecchio schooner4, un salvagente con uno strano nome e berretti da marinaio di foggia passata, appesi alle ferrature di un grosso timone dondolavano alcuni scafi sperimentali lunghi circa un metro. Pazientemente, il Signor Sandro mi insegnò a tenere in mano una lima, una sega, un martello, facendomi vedere il verso della venatura del legno e spiegandomi le caratteristiche dei vari metalli. Come pure mi mostrò quante cose si potessero fare con un semplice spezzone di cavo di canapa: dal nodo più elementare, alla più complessa coda di ratto.5 Nelle pause di questo insegnamento, il mio Maestro raccontava fatti della sua vita: la guerra del ‘15-‘18 cui aveva partecipato con un proprio motoscafo di alto mare, da lui stesso concepito e fatto costruire appositamente; collaudi di scafi di superficie e dei primi sommergibili; traversate con una goletta della coppa d’America; studi e prove di eliche, di motori e di attrezzature veliche. Alle mie domande curiose, rispondeva sempre con pazienza ed in maniera così interessante da rendere istintivo il mio senso di applicazione: imparai senza rendermene conto i fondamenti ed i principali sviluppi dell’arte navale, della manovra in mare e della motorizzazione marina. Circa il governo della barca a vela, dopo avermi spiegato il sistema, sulla piccola classe 1923, mi disse che avrei potuto seguitare ad imparare solo. Allo scopo, costruì ed armò per me il Gabbiano, un bello sloop6 lungo 40 cm. Vidi così dal di fuori le evoluzioni di uno scafo a vela da me manovrato e mi venne presto istintivo il concetto del comportamento del veliero. Seguivo la mia bella unità con una barca a remi, o nuotando, ed esercitavo quindi altre due attività che il mio Maestro riteneva indispensabili alla formazione di un marinaio. 4 Bastimento a vela armato con due alberi a vele auriche, in cui quello di maestra è generalmente il più alto. 5 Particolare tipo di intreccio che si pratica all’estremità di un cavo rendendola rastremata. Questo fa sì che il cavo non si sfilacci e, nello stesso tempo, sia facile inserirlo in un bozzello. 6 Anticamente piccolo veliero veloce portaordini: il nome è di origine nordamericana.

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Prologo Il Signor Sandro m’insegnò anche che, se nella vita mi fosse capitato di fare qualche regata velica, non sarebbe stato fondamentale vincere, ma molto importante correre bene. «Arrivare ultimo è una cortesia verso il penultimo» soleva dire. E fu alla fine della mia prima regata, in cui non arrivai né primo né ultimo, che mi considerò membro e mi diede il distintivo del R.E.C.I., il Regio Elice Club Italiano, da lui stesso fondato all’inizio del secolo, ed in seguito insignito del titolo di Regio per le benemerenze ottenute dal Signor Sandro nella guerra del ‘15-‘18. Negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale, fui ‘sbarcato’ di autorità da mia madre dal veliero Gabbiano. La mia famiglia si trovava infatti lontana dal mare e dal Lago, ed eventi gravi e di incerta conclusione aleggiavano minacciandoci da vicino. Non volevo saperne di scuola, e forse mi sarei adattato a fare gli studi nautici, se la mia famiglia, che invece desiderava per me una formazione classica, lo avesse permesso. Come ogni adolescente sognavo senza molti freni e mi vedevo mozzo a bordo di un galeone o di un grande veliero dell’800 ad imbrogliare le vele dei pennoni più alti. La guerra finì e, nel ‘45, tra case in rovina e strade dissestate, la mia famiglia si trasferì per alcuni mesi ad Anzio, dove una nostra casetta, appena fuori dal paese, era stata sì danneggiata, ma restava ancora abitabile. Naturalmente, non appena libero dagli studi estivi, correvo al porto ad ammirare affascinato gli uomini che, con la polvere di minerale appiccicata alla pelle dal sudore, tra cavi e manovre7, in un gran vociare, attendevano al carico e allo scarico dei motovelieri, mentre sullo sfondo della baia si muovevano leggiadre le vele latine8 delle barche locali, sfoggiando iscrizioni che reclamizzavano i primi prodotti del dopoguerra: in particolare caffè e lampadari. Ogni motoveliero che partiva, magari diretto a Gaeta o a Fiumicino, mi sembrava una nave destinata a chissà quale misterioso porto del mondo e, con le lacrime agli occhi per non essere anch’io a bordo, ne seguivo la sagoma sparire dietro l’orizzonte. 7

Tutti i dispositivi ed in particolare i cavi, di solito tessili, che servono a manovrare, cioè a muovere pennoni, vele ed altre parti dell’attrezzatura. 8 Vela di taglio triangolare con il lato prodiero inferito ad un’antenna.

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Mia madre, commossa da tanto trasporto e nello stesso tempo desiderosa di vedere fino a che punto arrivasse questa passione, volle assicurarsi che non si trattasse di un’infatuazione di ragazzo e permise che nelle ore e nei giorni franchi dallo studio, m’imbarcassi sulle piccole unità locali da pesca e da traffico. Si trattava di gozzi9, menaite10 o lance11 adibite le due prime alla pesca e le ultime al trasporto di sabbia o di passeggeri in gita, tutte attività allora fiorenti, data la pochissima disponibilità di mezzi nell’immediato dopoguerra. Ogni barca si muoveva a remi o spinta da una grande vela latina e solo raramente conteneva un ansimante motore di recupero, proveniente da automobili demolite. Il mio capobarca Paolino, un giovane pescatore i cui pronti riflessi e la figura snella dalle giunture sottili denunciavano una buona dose di sangue saraceno, si dedicava alla pesca, al carico ed al saltuario ed arrangiato trasporto di passeggeri. Lo coadiuvava il padre, il vecchio Romolo, che tra una tirata di sigaro, o una ciccata, e l’altra, raccontava volentieri la sua gioventù vissuta sulle paranze a vela12, prima come mozzo13 ed infine come padrone di sottovento.14 Il suo fisico, indurito dalle intemperie sopportate con l’assoluta mancanza di comodità della vecchia marineria, denunciata anche dalla pianta dei piedi divenuta larga per l’inutilizzo delle scarpe, corrispondeva alla tipica figura del lupo di mare mediterraneo che, a differenza del nordico, è più sobrio, più avvezzo a lavori pesanti e dimostra una maggiore capacità di adattamento. 9 Generalmente la più piccola delle barche da pesca: uno scafo in legno lungo anche sino a 6-7 m, prodotto da artigiani locali, con prua e poppa affilate, muniti un tempo di vela ed oggi di remi e motore. 10 Barca utilizzata, nel golfo di Gaeta, per la pesca della Menaide. Lunga circa 7 m, portava un equipaggio di quattro marinai più un ragazzo, che aveva il compito di asciugare l'acqua che le reti lasciavano colare all'interno della barca nonchè di procurare quella da bere. 11 Denominazione generica delle imbarcazioni a poppa quadra con otto o dodici remi e lunghe circa 10 m. Oltre alle scalmiere per i remi, le lance possono portare anche uno o due alberi con diversi tipi di velatura. 12 Natante per la pesca costiera in Mediterraneo. Scafo in legno dalla stazza di 30-40 t, pontato, albero unico a calcese e lunga antenna a vela latina. 13 Termine marinaro che indica un giovane marinaio addetto ai servizi secondari. 14 Denominazione dei capibarca (padrone di sopravento e padrone di sottovento) che navigavano, l'uno dalla parte del vento, l'altro sottovento. Di solito il primo era anche il proprietario delle tartane e dirigeva la pesca.

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Prologo La flotta, su cui imbarcai, consisteva in due gozzi piccoli, uno grosso ed una menaida; i nomi delle unità nell’ordine dalla più piccola alla maggiore erano Santa Teresa, San Giovanni della Croce, San Giuseppe, San Rocco. Divenni così uno scugnizzo, imparai a camminare scalzo e ad eseguire ogni elementare operazione necessaria alla manutenzione di una barca: esaurire l’acqua con la sassola15, riparare gli armamenti velici, che nel nostro caso erano sempre vecchi e logori, aiutare a tirare le imbarcazioni in secca sulle spiagge per pulirne la carena16 dalle erbe e poi trattarla nuovamente con lo stucco e la vernice che noi stessi confezionavamo. Era una vita piena di novità e l’entusiasmo con cui ne trascorrevo i giorni mi rendeva resistente al freddo, alla perdita di sonno e al mal di mare. Ormai avevo da anni girato il verricello17 delle telline, caricato breccia con i buglioli18 bucati e scaricato metri cubi e metri cubi con la pala, remato per miglia e miglia, tonneggiato19 barche per chilometri di costa; avevo visto più di una vela mangiata dal vento e spesso preso spiaggia con maltempo sui litorali allora deserti e ben lontani dal nostro porto. L’affezione di Paolino nei miei riguardi e la gioia con cui vivevo in quel mondo, stavano facendo di me un marinaio: avevo ormai superato i miei compagni, figli di pescatori, e mi fu data dal mio capobarca una fiducia sempre maggiore. Facevo da secondo durante le gite con molti passeggeri, mentre per le corte escursioni vicino al porto ero inviato addirittura solo: fu il periodo in cui sotto forma di mance guadagnai i primi, e per il momento unici, soldi della mia vita. Quando a quindici o sedici anni i miei studi divennero più impegnativi, per incoraggiamento mia madre pensò di regalarmi una barca, e comprò il

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Specie di grossa cucchiaia di legno scavato, con impugnatura a maniglia, usata per sgottare le sentine delle barche. 16 La carena o opera viva (quick-works in lingua inglese) è la parte immersa dello scafo che si trova, quindi, al di sotto della linea di galleggiamento. 17 Il verricello è una macchina che serve a movimentare pesi tramite l'utilizzo di fune o catena, esattamente come l'argano. Nella nautica da diporto viene comunemente chiamato winch, se di piccole dimensioni e installato a bordo di un'imbarcazione. 18 Termine con cui si indica, a bordo, il secchio di legno, di metallo o di tela. 19 Termine marinaro che indica l’azione mediante la quale si sposta una nave utilizzando cavi con un’estremità legata ad una boa, a un punto fermo o ad un’altra nave e l’altra estremità a poppa o a prora dell’imbarcazione interessata allo spostamento.

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Anzio → Buenos Aires

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l 27 Giugno del 1969 gli sforzi congiunti dei miei familiari, degli amici e miei, riuscirono ad avere la meglio su una serie di contrattempi ed intoppi e, così, alle 16.35 salpammo. Mentre doppiavamo la punta del Molo di Anzio, scortati dalla motovedetta C.P. 234 della Capitaneria, e mentre tutto il Porto echeggiava di sirene, l’oscura sensazione di un avvenire ricco di incognite e difficoltà si alternava nella mia mente ai ricordi immediati di quella giornata tanto piena di imprevisti e colpi di scena. All’ultimo momento, infatti, la barca era stata fermata da una ordinanza del Pretore di Anzio, su richiesta di alcuni giornalisti che intendevano vendicarsi per non essere stati imbarcati. Non erano, difatti, risultati idonei al viaggio, ed io avevo seguendo il consiglio di amici avevo deciso di non portarli con me. L’abilità del nostro avvocato di fiducia ebbe la meglio: potemmo ottenere dalla Capitaneria il permesso di partire, dal momento che la pratica fu annullata e gli avversari non ebbero il tempo di istruirla nuovamente presso il Tribunale di Velletri. Un pranzo con parenti ed amici, un abbraccio ai miei cari, un festoso agitarsi di mani, un saluto dalla punta del molo dell’amico Padre Benedetto, il carmelitano che aveva benedetto la barca al varo, queste le ultime immagini che avevo di un’Italia che non sapevo se e quando avrei rivista. 27.06.1969: la partenza

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Parte prima - Anzio → Buenos Aires

1.1 Anzio, Italia → Gibilterra, Regno Unito 27.06 - 10.07.1969 Il progressivo aumentare del beccheggio1 dovuto ad un po’ di mare di ponente e l’insistente sibilo della sirena della Motovedetta, che ci salutava prima di lasciarci, mi richiamarono alla realtà. Impartii i dati relativi alla rotta per Bonifacio in Corsica, dal momento che mi era stato sconsigliato di sostare in porti italiani per motivi giudiziari, e stabilii i turni di guardia: il sottoscritto con Gianni Gallia, uno sportivo milanese appassionato di vela, il nostromo Castagnino con il motorista Sferratore ed infine, fuori turno per sostituire i più stanchi e per ridurre un po’ la pesantezza delle nostre guardie, il mio amico Dario Trentin che, con la sua aria scanzonata e leggerona, tutto dava a pensare fuorché di avere in seguito l’importanza che ebbe in questo viaggio. Procedevamo a motore a circa 6 nodi con un sempre crescente vento di ponente che, venendo dritto di prua, contrastava il nostro avanzamento e sollevava un po’ di mare ma questo, non più di forza 42, la vinse ugualmente sugli stomaci di quasi tutti noi, non abituati da tanto tempo alla navigazione. Durante la notte, dovetti far chiudere la porta della cabina di prua dove le abbondanti e diffuse infiltrazioni di acqua dalla tuga avevano cacciato via Trentin ed il motorista. Prima dell’alba corressi la deviazione3 della bussola con la Polare4 e alle 11.30 del 28.6 fui costretto a dirottare per Porto Vecchio, un porto corso un po’ più a N di Bonifacio e più facile da raggiungere con il vento di W sia perché la parte meridionale della Corsica ripara chi vi si avvicina, sia perché, data la nostra posizione, la nuova rotta ci dava la possibilità di procedere a vela e a motore con mare non più di prua ma al mascone.5 1

Rotazione di un oggetto attorno all'asse trasversale. In un'imbarcazione, anche il movimento oscillatorio attorno a questo asse (le estremità dello scafo alternativamente si immergono ed escono dall'acqua). 2 Scala indicativa dello stato del mare: 0 calmo, 1 quasi calmo, 2 poco mosso, 3 mosso, 4 molto mosso, 5 agitato, 6 molto agitato, 7 grosso, 8 molto grosso, 9 tempestoso. 3 L’angolo compreso tra il nord magnetico ed il nord della bussola. 4 Tipo di bussola basata sul principio del giroscopio ed insensibile al magnetismo. 5 Parte dello scafo compresa tra il traverso e la prua. Esistono, quindi, un mascone di sinistra e uno di dritta.

Nella pagina a fianco le tappe di questa prima sezione del viaggio.

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Porto Vecchio Comune francese, situato all’estremo sud del dipartimento Corse-du-Sud. È la terza città corsa per popolazione. Oggi è una stazione balneare ed è particolarmente prestigiosa per le sue spiagge: Cala Rosa, Palombaggia, Santa Giulia. Possiede uno dei porti turistici più importanti dell'isola, dopo quello di Ajaccio, ed offre alle barche a vela una baia riparata e circondata da colline di querce da sughero. Ha anche la particolarità d'avere paludi saline di estensione fino a 10 ettari, che producono circa 1000 tonnellate di sale all'anno. Il porto attuale è sicuramente attribuibile ai Greci di Siracusa del VI sec. a.C. Fu ampliato in epoca romana mantenendo il toponimo di Portus Syracusanus. La regione, sebbene fertile, fu abbandonata nel medioevo a causa della malaria e delle razzie operate dai corsari barbareschi. Alla fine del XVI sec., dopo diversi tentativi di colonizzazione andati a vuoto, la Repubblica di Genova decise di favorire l’insediamento delle popolazioni autoctone della montagna. Tuttavia, la maggior parte degli abitanti rimase molto legata alle zone di origine facendovi sovente ritorno, fuggendo il paludismo ed impedendo di fatto il risanamento e lo sviluppo dell’area. Ciò determinò uno scollamento rispetto al progresso delle altre città dell’isola che fu superato soltanto dopo la bonifica seguita alla Seconda Guerra Mondiale. Dalla metà degli anni ’80 il sito ha cominciato ad essere una metà turistica sempre di maggior prestigio.

Carta della Corsica di Gerardo Mercatore, 1619.


Parte prima - Anzio → Buenos Aires Una fitta nebbia ci accolse all’entrata di Porto Vecchio, una pittoresca falaise6, con le sponde ricche di vegetazione. L’avvicinamento venne compiuto completamente a memoria, in quanto l’unico strumento in grado di guidarci, il radiogoniometro7, si rifiutò di darci la direzione dei segnali dei radiofari.8 Ero stato a Porto Vecchio col piccolo San Giuseppe e mi ricordavo benissimo molti particolari che furono utili anche per l’entrata nella falaise che avvenne nel buio più completo. Il bollettino meteorologico dava maltempo nel golfo Leone, io approfittai così della sosta forzata per calafatare la tuga9, aperta dal sole estivo durante i preparativi in Anzio, e Trentin rimise in funzione il radiogoniometro, ricollegandone alcuni fili dell’antenna. Seppi in seguito come la stampa aveva commentato la nostra partenza: ad eccezione di un quotidiano

Porto Vecchio: il San Giuseppe Due ormeggiato ed una foto scattata durante un momento di relax.

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Falesia, scogliera alta. Strumento per la rilevazione della direzione dei segnali emessi da apposite stazioni. 8 Un radiofaro o radio beacon è un trasmettitore radio omnidirezionale che trasmette continuamente un segnale su una specifica frequenza. Tuttora utilizzato, era indispensabile soprattutto prima dell'introduzione del GPS, del LORAN e del VOR, per determinare, grazie a dei radioricevitori direzionali, la posizione rispetto ad un punto di riferimento noto, il radiofaro stesso. Ciascun radiofaro è univocamente riconoscibile dal segnale emesso. 9 Sovrastruttura del ponte. Nelle navi le sovrastrutture si dividono in due categorie: casseri se si estendono per tutta la larghezza della nave, tughe quando sono di minore estensione. 7

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Buenos Aires → Deception

3.1 Buenos Aires → Montevideo 15 - 16.07.1970

I

mbruniva e già avevamo lasciato di poppa il pontone di Interseccion, meta delle varie prove durante le messe a punto di Buenos Aires, e la gialla acqua del Rio della Plata cominciava ad increspare la sua superficie abitualmente calma per un leggero vento da E. I fanali delle boe, che segnavano i chilometri del fiume, si allineavano lungo il canale che conduceva alla rada di Recalada e quindi a Montevideo, dove avevo deciso di far scalo per imbarcare franco dogana alcuni rifornimenti che mi sarebbero serviti per ospitare degnamente eventuali visitatori nei porti che avrei toccato successivamente. Con il riflettore di bordo cercavo di leggere, ogni tanto, mentre passavo rapido vicino alle boe, il numero del chilometro cui corrispondevano. Dovetti stare sveglio tutta la notte, sia per condurre la nave con la precisione richiesta in un fiume, sia per incrociare correttamente le grandi navi che, come castelli galleggianti e luminosi, passavano a pochi metri dalle basse murate del San Giuseppe Due. Battelli fluviali provenienti da Colonia in Uruguay, con le loro alte luminarie multicolori da fiera, si alternavano ad austeri carghi dal cassero1 quasi buio, ravvivati solo dai fanali di navigazione e dalla finestra di qualche cabina. Rimorchiatori piccoli e frettolosi si affannavano intorno alle grandi navi passeggeri che, simili a città in gran festa, si esibivano in un gioco fantasioso di miriadi di luci e talvolta lasciavano dietro di loro una scia di ballabili alla moda. Il fiume viveva intorno a noi che, pur intimoriti dal grande traffico in cui viaggiavamo, sentivamo crescere l’entusiasmo della navigazione: eravamo difatti nell’anticamera del mare. 1

Sovrastruttura al disopra del ponte di coperta, che si estende per tutta la larghezza della nave.

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Parte terza - Buenos Aires → Deception La notte tra il 15 ed il 16 luglio fu sofferta, anche perché il freddo umido e l’aumentare del vento da E, che alzava al mascone di sinistra una noiosa maretta, affaticò molto i nostri fisici non più abituati alle fatiche materiali; una scatoletta di tonno con qualche galletta fu la nostra cena. La maretta crescente ci avvertiva della vicinanza di uno specchio di acqua più ampio e profondo, mentre le prime luci dell’alba ci mostrarono la grande rada di Recalada: non che l’avessi riconosciuta per la forma delle sue coste, che in realtà erano fuori vista, o per altri segni molto palesi, ma l’orientamento della fila di boe, il colore già più verdognolo dell’acqua ed il periodo dell’onda, conferivano a questa zona di fiume-mare un aspetto inconfondibile, indipendentemente dai calcoli di navigazione. Erano ormai quasi le 7 di mattina quando, usciti di canale, dirigemmo, attraverso la grande rada dalla profondità costante, direttamente su Montevideo. Mentre il San Giuseppe Due filava a 7 nodi con il motore a regime di crociera, stringendo di bolina, con tutte le vele e con una fresca brezza, ormai fuori dal rischio di continui incroci, mi concessi tre o quattro ore di sonno per arrivare fresco al prossimo scalo. La sempre maggiore stabilità della mia cuccetta mi svegliò, avvertendomi che stavamo raggiungendo la bonaccia che tipicamente si ha a ridosso della costa. Salito in coperta, trovai il dott. Borzone e Gennaro che cercavano inutilmente di indovinare qualche profilo collinoso attraverso la fitta foschia. Mi aiutai con il radiofaro dell’aeroporto di Carrasco e, verso le 14.00, le colline ad anfiteatro intorno a Montevideo ci diedero il benvenuto. Alle 15.30, affiancati ad un vecchio peschereccio in riparazione, proprio nell’ultimo bacino del porto, ricevemmo la visita delle autorità portuali e di polizia che, sfoggiando variopinte divise pittoresche per la fantasia delle bande e degli alamari, ci diedero amabilmente il benvenuto e risolsero con facilità le varie pratiche. Dai finestrini della grande Cadillac dell’Agente Marittimo, dall’altisonante cognome Carlomagno, mentre assieme al dott. Borzone cercavo di radunare le infinite e voluminose carte necessarie all’imbarco di provviste in esenzione di dogana, vidi la città di Montevideo, allegra e fuori dal tempo, mostrarsi come un’artista di rivista di mezza età, che con la sua affinata grazia e le estemporanee, ma talvolta travolgenti, acconciature, comunicava quel fascino irreale e dannunziano di un’epoca passata, e forse per questo oggi desiderabile. Nella pagina a fianco le tappe di questa terza sezione del viaggio.

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Montevideo Montevideo è la capitale, il porto principale e la città più popolosa dell'Uruguay. Fu fondata dai colonizzatori portoghesi provenienti dal Brasile che, al fine di contestare la sovranità spagnola sulla regione, crearono lungo la costa del Rio de la Plata un insediamento chiamato Nova Colonia do Sacramento, attualmente Colonia de Sacramento. Del resto, gli spagnoli non fecero nulla per riaffermare il loro dominio sino al 1723, quando incominciarono a fortificare le alture che circondavano la baia di Montevideo costringendo i portoghesi alla ritirata. Fu così che una spedizione spagnola proveniente da Buenos Aires ed organizzata dal governatore Bruno Mauricio de Zabala fondò la città dandole il nome di "San Felipe y Santiago de Montevideo" (nome che sarebbe poi stato abbreviato in Montevideo). Il 3 febbraio 1807 la città venne assediata dall’esercito inglese, guidato all'Auchmuty. La stessa spedizione proseguì su Buenos Aires, dove venne fermata costringendo gli assedianti a negoziare la restituzione di tutte le piazzeforti occupate, inclusa Montevideo. Nel 1828, la città divenne la capitale della neonata Repubblica Orientale dell'Uruguay. Dall'inizio del XIX secolo fino all'inizio del XX la città, che rappresentava un buon punto dal quale controllare i commerci di Argentina e Brasile, subì pesantemente l'influenza britannica. Fu ripetutamente attaccata dal dittatore argentino Juan Manuel de Rosas tra il1838 e il 1851. Tra il 1860 e il 1911, i britannici costruirono una ferrovia per collegare la città alle campagne circostanti. In questo periodo ci fu una massiccia immigrazione di europei, al punto che nel 1908, il 30% della popolazione era composta da immigrati. Verso la metà del XX secolo, la dittatura militare e la crisi economica portarono la città ad un declino i cui effetti sono evidenti ancora oggi. Molti contadini ridotti in miseria affollarono l’area urbana, in modo particolare nella zona della Ciudad Vieja. Recentemente, la ripresa economica e legami commerciali più solidi con le altre città del paese ha permesso un rinnovato sviluppo agricolo e speranze in una maggiore prosperità economica per il futuro.

Montevideo, pianta della città nel XIX secolo.


Parte terza - Buenos Aires → Deception Tra le case liberty e floreali, tranquille strade alberate aprivano le loro braccia al passaggio di vecchie automobili da museo, che si annunciavano con il rauco suono di tromba che doveva animare i primi sereni momenti della motorizzazione. Gente tranquilla discorreva per le strade e nei caffè, dimostrando interesse al passaggio delle guardie armate di lunghe sciabole che, a piedi o a cavallo, richiamavano alla fantasia qualche allegra mazurka, più che una marcia militare. Possibile, ci chiedevamo con il dott. Borzone, che i tupamaros attuassero le loro rivoluzionarie imprese in tanta arcadia? Eppure ci rendemmo conto di come, al calare delle tenebre, un velo di terrore e di diffidenza si spandesse nei punti nevralgici della città: negozi chiusi spesso prima dell’orario, tassisti rari e pieni di dubbi, ed infine gli stessi militari pronti a sparare a vista su chiunque si fosse avvicinato troppo ad una loro installazione. Per poco, rientrando una sera a bordo e passando sul molo, vicino ad un ormeggio di motoscafi militari di cui ignoravamo l’esistenza, non fummo presi di mira dalla sentinella, nell’accento del cui Alt era ben palese, più che un’autoritaria intimazione, un oscuro terrore. La partenza, progettata per il 20 luglio, fu rinviata al giorno successivo perché il sottufficiale della Prefettura Navale, incaricato alla sorveglianza dei movimenti del porto mi annunciò, tra una succhiata e l’altra alla cannuccia del suo mate – una speciale erba il cui infuso, già largamente usato dagli indi, si diceva fosse tonico e digestivo – che a causa della nebbia era impedito il traffico in entrata ed in uscita. Approfittai della forzata sosta per accettare l’invito del comandante di una petroliera argentina in secca nel vicino bacino, ed apprendere dalla voce di quest’uomo, che aveva trascorso la sua vita nei mari tra lo stretto di Magellano e Buenos Aires, i segreti del meteo di quei mari, ed i rifugi più consigliabili per la mia piccola imbarcazione.

3.2 Montevideo → Mar del Plata 21 - 22.07.1970 La mattina del 21 luglio lasciammo infine Montevideo diretti a Mar del Plata, un porto argentino a sud della foce del Rio della Plata dove, mi avevano detto, vivevano numerosi italiani che traevano sostentamento soprattutto dalla pesca. Uscimmo dall’estuario in una fitta bruma invernale che, dopo averci

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reso difficile l’individuazione dell’ultima boa a W del Banco Ingles, ci precluse la vista della costa per tutto il pomeriggio: solo alle 5 di mattina del giorno successivo avvistammo il faro di Punta Medanos. Alle 18.00 circa, dopo un controllo di rotta eseguito rilevando l’altezza del fabbricato del faro di Querandì, ed in seguito ad una monotona navigazione a motore condotta in continua bonaccia, le luci dell’imboccatura del porto di Mar del Plata fecero capolino nella persistente foschia appena arrossata dalle luci del tramonto. Dopo mezz’ora, terminata la manovra per affiancare la nave alla banchina, scesi sul molo in cerca di informazioni; un rumore di passi marziali ruppe il silenzio di quel luogo isolato e sotto le incerte luci del molo un berretto kaki ed un pastrano blu mi fecero individuare il giovane ufficiale della Prefettura Navale, che mi si dirigeva incontro accompagnato da due marinai. Un saluto militare, una rapida e corretta presentazione, e capii come la locale Autorità di Prefettura desiderasse appianare ogni problema eventualmente presentatosi in quel porto. I giornalisti iniziarono a torturarci la sera stessa, cercando di conoscere i dettagli del nostro viaggio e dei nostri progetti futuri. Ne uscirono vari articoli simpatici ed entusiastici, ed un solo quotidiano ci trattò un po’ male, dandoci degli zingari del mare e designandoci come cinici in cerca di esperienze: di nemici che influiscono negativamente, pensai, ne hanno tutti, dappertutto. Incredibilmente, la stampa fu concorde nell’insistere su di un nostro probabile giro del mondo – impresa più appassionante, che allora era ancora, seppure in forma incerta, in programma – piuttosto che mettere l’accento sulla spedizione Antartica, molto più impegnativa per noi, ma forse meno accattivante per il grosso pubblico. La mattina seguente fui pilotato dai marinai del Club Nautico di Mar del Plata alla rada di fronte alla sede del sodalizio, dove ancorai in una pittoresca insenatura del porto il cui sfondo, occupato dai cantieri navali dei pescherecci, aveva un non so che di familiare. Un ricco hasado, durante il quale mi furono donate bandiere-ricordo, fu il benvenuto degli sportivi locali, che con animo generoso misero a disposizione di Borzone, Gennaro e me le comodità della loro sede. Il calore domestico di una partita a carte o a scacchi con un buon bicchierino a lato, mentre dietro i vetri appannati l’ululato delle sirene dei piroscafi

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Mar del Plata Mar del Plata è una città della provincia di Buenos Aires. Oggi ha una popolazione di oltre mezzo milione di abitanti. Il primo insediamento nell’area risale al 1857, quando Coelho de Meirelles, imprenditore portoghese, cercò di sfruttare la massiccia presenza di bestiame bovino selvatico impiantando una fattoria con annessa banchina. Il progetto fallì dopo pochi anni e nel 1874 Patricio Peralta Ramos acquisì la fattoria e gli annessi terreni e fondò la città. Nel 1886 la ferrovia argentina raggiunse Mar del Plata, innescando un processo di investimenti nel settore del turismo e di sviluppo economico. L’alta società di Buenos Aires fu attratta dal nuovo villaggio e figura tra i primi flussi turistici. Oggi è una città importante per la pesca e il turismo: la sua popolazione si triplica nell'alta stagione quando i turisti di tutto il paese vi confluiscono insieme ad una nutrita componente di stranieri.

Pianta attuale di Mar del Plata

nella nebbia e la insistente pioggia fina interpretavano l’inverno marino, lugubre ed affascinante ad un tempo, costituiva una sosta serena nel mio tormentato viaggio e mi donava quella distensione tanto desiderata dopo il difficile periodo vissuto nella capitale Sudamericana. Il 26 luglio il dott. Borzone, chiamato dalla sua professione a Buenos Aires, mi lasciò con la speranza che, intensificando il suo lavoro nel periodo di soggiorno del San Giuseppe Due in Mar del Plata, avrebbe disposto di maggior tempo per seguire il resto del viaggio. La necessità, presente già da prima seppure in maniera larvata, d’imbarcare un altro professionista, divenne attualissima. Avrei ancora dovuto affrontare

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Ora che il mare di Bransfield mi accoglieva sulle sue verdi acque, che, lontano a SW, davanti alla prua della mia nave, sfumavano in un bianco riflesso preannunciante un gelo più intenso, la natura mi sembrava improvvisamente amica, direi quasi rispettosa verso di noi ed il nostro duro lottare. Alle 18.30 la sagoma frastagliata e tormentata delle rocce Austin, tra le quali alcuni iceberg erano impigliati prigionieri, fu lasciata alla nostra sinistra e, rappresentando un riferimento caratteristico per la navigazione, mi permise con sicurezza di accostare per 193, la rotta che mi avrebbe condotto a E di Hoseason, l’isola più settentrionale dell’arcipelago di Palmer. Capo Barrow con la sua estremità N, era un altro riscontro per una felice entrata nel passaggio di Croker, a sua volta anticamera del Gerlache, lo stretto dove si trovava la base Argentina Almirante Brown. Quando alle 21.45 ne rilevai il traverso e corressi nuovamente la rotta, si parò dinanzi a noi uno scenario incredibile; tra una successione ininterrotta di ghiacciai si elevavano spuntoni di rocce grigie o nere e pareti a strapiombo brizzolate dallo spolverio delle recenti nevicate e adorne di stalattiti di gelo. Sul mare, le coste, quasi sempre formate da ghiaccio, si protendevano in fantasiosi balconi, sotto cui le onde giocavano in mille fantasie traendone magici riflessi. Isola di Intercurrence, Isola Smoll, Isola Liege e Punta Spallanzani sfilarono meravigliose, ma tremendamente uniformi ai miei occhi che ansiosamente cercavano riferimenti Il San Giuseppe Due ed il suo equipaggio in navigazione verso la Base Almirante Brown.

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Parte quarta - Antartide

La navigazione nel Gerlache, sempre pi첫 a Sud.

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per la navigazione: ovunque ghiaccio, ovunque scuri scogli vulcanici o grigi graniti, talvolta nuove isole o impreviste penisole, costituite da iceberg incagliati sulle scogliere delle coste. Il log girava allegramente, superando con facilità i rari frammenti di ghiaccio che sfioravano la sua sagola, ma per controllarne l’attendibilità sarebbe ugualmente servito un nuovo rilevamento perché ormai il traverso di Barrow era passato da un pezzo. Grazie a Dio, l’isola Two Mummok con i suoi picchi simili a due dita tese ad indicare il cielo, la cui inconfondibile sagoma figurava sul Pilot Britannico, nonché alcuni piccoli fari, che visibili da poche centinaia di metri, costituirono elementi importantissimi su cui fondare una navigazione stimata. Anche per la bussola fu necessario riferirsi a continui allineamenti di controllo, poiché spesso la rosa sembrava inchiodata e si adattava molto lentamente alle variazioni della nostra prua. Più scendevamo a S e più il mare diveniva calmo e dai riflessi quasi madreperlacei, o addirittura lattei nelle zone di maggiore ombra. Il ronzio amico del nostro motore riempiva il silenzio di quei fiordi; nessuno parlava, ci scambiavamo solo ogni tanto qualche comunicazione di servizio. La notte si faceva sempre più chiara ed il quasi insensibile tentativo di crepuscolo che avevamo notato a Deception, era sparito. Alle 8.00 di mattina del giorno 20, attraversammo il canale di Schollaert che divideva l’isola Brabant dall’Anvers, lungo le cui coste il numero degli iceberg aumentava continuamente. Ce n’erano tabulari, enormi altopiani sul mare, che si possono considerare non molto pericolosi per la navigazione, essendo privi di propaggini sottomarine, caratteristica tipica, invece, di quelli antichi, già rovesciati, sui in questa e nella pagina a fianco: scorci dei canali del Gerlache.

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quali una serie di solchi profondi, che riga la superficie emersa, indica l’erosione dell’acqua salata lentamente scorsa dalle pozze rimaste in cima; particolare attenzione, infine, richiedevano gli iceberg dalle forme fantasiose e dalle insidie imprevedibili: frane in mare di una parte di essi o il rovesciamento per lo spostarsi del baricentro.

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Se in un primo momento mi fu possibile tenerli ad una rispettosa distanza, manovrando negli specchi di acqua liberi e più vasti, in seguito, l’itintensificarsi del loro numero e la diminuzione della larghezza del fiordo, mi costrinsero a navigare al limite delle norme di sicurezza che mi erano state prescritte. Dove potevo, sceglievo il passaggio vicino ai ghiacci più minuti, pensando che le conseguenze di una eventuale collisione sarebbero potute essere meno gravi. All’altezza dell’isola di Lemaire però, il Gerlache era completamente chiuso: di fronte a noi, una diga di ghiaccio alta varie decine di metri e formata da un affollamento di grossi iceberg, sembrava impenetrabile. Feci salire Gennaro sulle griselle del trinchetto per indicare dall’alto i tratti meno ingombri e, un po’ spingendo il ghiaccio con la prua, un po’ allargandolo con pertiche di legno, penetrai col San Giuseppe Due in quel dedalo bianco. Alcune lastre più sottili scricchiolavano sotto il tagliamare di acciaio, ed i loro frammenti scrosciavano lungo le corazze dei masconi e lungo le murate, mentre blocchi più compatti rimbombavano sotto la carena. Sopra di noi, a pochi metri di distanza, enormi iceberg protendevano sporgenze pronte a precipitare, dall’incombere delle quali non mi potevo sottrarre con la rapidità che avrei desiderato, date le complesse manovre da eseguire con estrema attenzione, per il disimpegno tra gli ostacoli circostanti. Chiuso inoltre tra quelle alte pareti e dovendo cambiare continuamente prua, avevo del tutto perso ogni riferimento ed ogni orientamento: restava solo la bussola, per giunta impigrita dal magnetismo polare. Gennaro scruta eventuali varchi tra i ghiacci. Nella pagina a fianco: il sottile strato di ghiaccio rotto dal tagliamare.

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La fatica ed il rischio erano ripagati, però, dall’indescrivibile diafana bellezza di quanto ci circondava. Finalmente il canale cominciava ad allargarsi, i frammenti di acqua gelata diminuivano e, dietro lo spigolo di un grande iceberg, si aprì un mare relativamente sgombro dalle cui acque si ergevano le montagne dell’isola Wienke e dell’isola Brydes.

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I miei ringraziamenti sono rivolti a tutti coloro che, nel corso di questi anni, mi hanno sostenuto ascoltandomi e partecipando alla soluzione di tutti quei piccoli rebus che emergevano man mano che ricomponevo il memoriale e ad esso andavo abbinando le varie illustrazioni. In particolare sono grato a: - Rita Ajmone-Cat per avermi messo a disposizione oltre alla sua pazienza, tutti i documenti e le fotografie custodite nell’archivio del comandante ad Anzio, dimostrandomi grande fiducia e riservandomi del tempo in un momento molto difficile a causa dei notevoli impegni che gravano su di lei dalla scomparsa del fratello; - l’Ufficio Storico della Marina Militare per avermi consentito lo studio e l’acquisizione del materiale fotografico da loro già inventariato e pronto per essere trasferito in archivio; - Aldo Seminario per il sostegno fattivo che è riuscito a garantirmi come presidente del Circolo Nautico, nonché per la fiducia accordatami nel credere in quest’opera quando essa era ancora in fase di progetto; - Girolamo e Giuseppe Palomba per la miriade di informazioni tecniche che spesso caratterizzano la narrazione, per il materiale fornitomi (cartoline, articoli di giornale, ecc.) e per la passione per la marineria, in loro così viva, che hanno saputo trasmettermi; - Michele Di Luca per la capacità di indirizzarmi, da subito, verso le persone giuste per organizzare la mia raccolta di informazioni e contatti; - Gianfranco Busatti per avermi fornito molto materiale importante (articoli di giornale e dati tecnici) ed avermi indirizzato verso alcune persone chiave; - Salvatore Di Mauro per avermi fornito delle indicazioni sulle tappe del rientro della spedizione ed aver supervisionato tutta la parte del viaggio di cui fu protagonista in prima persona; - Bruno Marsico, che da geologo ed antartico per passione e per studio, mi ha fornito un validissimo supporto nella revisione del testo ed è, di recente, riuscito a far titolare ufficialmente, con il nome “Ajmone-Cat”, una baia di Deception. - Antonio Mussari con il quale oltre ad aver realizzato una mostra sulla spedizione ho avuto modo di discutere di molti aspetti ad essa legati, ricavandone preziose indicazioni; - tutti gli Sponsor che insieme al Circolo Nautico mi hanno messo nella condizione di dare alle stampe questo volume.

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PRESENTAZIONE di Aldo Seminario............................................................................ 5 PREFAZIONE di Gianfranco Busatti.............................................................................. 7 PREFAZIONE di Rita Ajmone-Cat................................................................................ 11 PREMESSA............................................................................................................. 21 PROLOGO.............................................................................................................. 25 PARTE PRIMA Anzio → Buenos Aires................................................................. 47 1.1 Anzio → Gibilterra......................................................................................... 49 1.2 Gibilterra → Isla do Sal................................................................................. 56 1.3 Isla do Sal → Recife...................................................................................... 74 1.4 Recife → Rio de Janeiro................................................................................ 92 1.5 Rio de Janeiro → Santos............................................................................... 105 1.6 Santos → Buenos Aires................................................................................. 112 PARTE SECONDA Sosta in Buenos Aires............................................................... 127 PARTE TERZA Buenos Aires → Deception........................................................... 151 3.1 Buenos Aires → Montevideo......................................................................... 151 3.2 Montevideo → Mar del Plata........................................................................ 155 3.3 Mar del Plata → Madryn............................................................................... 163 3.4 Madryn → Stanley......................................................................................... 167 3.5 Stanley → Ushuaia........................................................................................ 177 3.6 Ushuaia → Deception.................................................................................... 211 PARTE QUARTA Antartide..................................................................................... 235 4.1 Deception....................................................................................................... 235 4.2 Deception → Base Almirante Brown............................................................ 254 4.3 Base Almirante Brown → Base Palmer......................................................... 269 4.4 Base Palmer → Base Almirante Brown......................................................... 277 4.5 Preparativi per il rientro col nuovo equipaggio............................................. 288 PARTE QUINTA Base Almirante Brown → Anzio................................................. 295 5.1 Base Almirante Brown → Stanley................................................................. 295 5.2 Stanley → Anzio............................................................................................ 309

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...Il lettore non si staccherà facilmente dalla lettura di queste pagine. Verrà preso dalla prosa scarna, fatta di documenti, diari, giornali di bordo, ma che diventa racconto puro, di una potenza narrativa straordinaria. Il personaggio di Giovanni Ajmone-Cat emerge in tutta la sua complessità e centralità. Tra gli innumerevoli attori dell’avventura, alla fine sarà lui solo il protagonista, lui solo ne esprimerà la continuità. Si capisce ben presto che uomini e fatti ruotano intorno a lui, comparendo e scomparendo sullo sfondo, come proiezioni di una lanterna magica, senza mai incidere sull’evento, strumenti quasi occasionali del suo disegno e della sua volontà. Ed infatti, al centro dello spettrale palcoscenico di ghiaccio, nel drammatico momento del suggello finale, in cui l’impresa diventa epica e si consacra alla storia antartica, il protagonista è solo, quasi angosciato, nel suo legno del quale ormai è parte indissolubile... dalla Prefazione di Gianfranco Busatti


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