Le stanze di Mogador

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zito, «un grande artista, ma solo adesso puoi sostenerlo. Quando lo spiavano a strascicare gli scarponi per le strade, quando sentivano i suoi urli e assistevano alle sue stranezze, in paese gli davano del matto, non sapevano vedere». Fa una pausa e si terge la fronte. «Saper vedere è una qualità che si allena, non è un dato di fatto», dice. Ulivi, mandorli, carrubi, fichi d’india e facce. Quelli sono un padre e un figlio, innegabile: il figlio spunta dalla bocca del padre e cerca di conquistare la vita, cerca di liberarsi dalle fauci del genitore; oppure è il padre che lotta per non farsi divorare dal figlio, per non lasciare questo declivio di pietre – vorrebbe rimanere per vedere che cosa succede. Ora succede che Terzito inviti Elena e Damir ad accodarsi. «Arriviamo lassù», sbuffa. Damir si ferma spesso, Elena con lui. Terzito, che è corpulento e diabetico, li aspetta con pazienza. Ogni tanto parla di mangiare, dice che non si tiene, perché potrebbe sempre essere l’ultimo pasto, e l’ultimo pasto della vita non vuole che sia una vergogna o una miseria. Mentre cammina, è un ansimo continuo, le parole gli escono a fischi. Quando riposa, l’eloquio recupera sostanza e la voce si abbassa. 16


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