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I N I L L O L I G UI LOLLINI L LUIGI

LA LA O R T N O CONTRO C A R U G I FIGURA F


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© 2018 Edizioni Alegre Società cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma redazione@edizionialegre.it www.edizionialegre.it Quinto tipo collana diretta da Wu Ming 1 Art director: Alessio Melandri Foto di copertina di Mario Boccia Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purché non a scopo commerciale.

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LINI L O L I G I U L LUIGI LOLLINI

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SOMMARIO

Foto 9 I 13 II 21 III 33 IV 41 V 51 VI 63 VII 69 VIII 75 IX 83 X 95 XI 107 XII 111 XIII 125 XIV 137 XV 145 XVI 149 XVII 163 XVIII 167 XIX 175 XX 181 XXI 183

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XXII 187 XXIII 197 XXIV 209 XXV 215 XXVI 223 XXVII 233 XXVIII 245 XXIX 255 XXX 269 XXXI 277 XXXII 287 XXXIII 299 XXXIV 307 XXXV 319 XXXVI 325 XXXVII 329 XXXVIII 339 XXXIX 345 XL 359 XLI 373 Una lettera 379 Ringraziamenti 381

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LA CONTROFIGURA

A Giovanni

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FOTO

Vedo dei corpi nudi, sporchi di sangue, riversi sul pavimento. Per Eduardo non piango una sola lacrima. Ora che sono padre mi consola pensare che i suoi genitori sono morti prima di lui: non gli capiterà di leggere quello che si scrive di loro figlio. C’è l’imbarazzo della scelta, in Rete, si vede e si dice di tutto. Eduardo Rózsa Flores era un mercenario che voleva uccidere il presidente Evo Morales. Era un neofascista che intendeva promuovere l’insurrezione e la secessione del dipartimento di Santa Cruz, ricco di risorse, dal resto della Bolivia. Dunque, apro il taccuino, prendo nota: organizzazione di una milizia, repressione dell’esercito statale, intervento straniero, riconoscimento dell’indipendenza o qualcosa di simile. Prima di partire per l’America Latina, Eduardo ha rilasciato un’intervista a un giornalista ungherese: affermava di non aver nulla contro Morales, ma che presto sarebbe tornato nel paese natale per organizzare la difesa dall’imminente attacco dell’esercito boliviano. Su un periodico venezuelano si sostiene che chiunque dipinga Rózsa Flores come fascista è un diffamatore: 9

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lui era amico del rivoluzionario, prigioniero politico nelle carceri francesi, Ilich Ramírez Sánchez. Visto che Ramírez, detto Carlos lo Sciacallo, è un pen-friend del presidente Hugo Chávez, alleato fraterno di Evo Morales, allora Rózsa Flores non può che essere un combattente per la libertà e per la giustizia. Eduardo Rózsa Flores collaborava con la Cia. Faceva il doppio, magari il triplo gioco. È stato chiamato in Bolivia dalle forze di sicurezza governative per decapitare l’organizzazione dei secessionisti: era in possesso di esplosivo che può avergli dato solo l’esercito boliviano. Le forze speciali dell’esercito lo hanno ucciso perché non risultasse che era stato reclutato per colpire affaristi, faccendieri, uomini politici secessionisti. Era legato a fascistoidi croati, residenti in Bolivia nel dipartimento di Santa Cruz, loschi figuri che trafficano armi e droga. Collaborava con Jobbik, partito di estrema destra ungherese, che in passato pare non disdegnasse di essere finanziato da potenze straniere del Vicino e Medio Oriente e da gruppi dell’Islam radicale. Dai magiari più nazisti, che per qualche tempo forse lo hanno considerato un camerata o un possibile alleato, ora viene giudicato un ebreo, un falso eroe, un agente bisessuale del Mossad, infiltrato nella destra ungherese. Era uno psicopatico, uno Zelig nazionalista alla ricerca del pericolo per farsi di adrenalina e morire come un Che Guevara. No, era un uomo impulsivo, generoso, che si butta nella mischia senza riflettere: uno che ha tutti i pezzi del mosaico in tasca, ma li ricompone troppo in fretta e male. Era una creatura di laboratorio, fuggita dalle gabbie del socialismo autoritario, una chimera che cuciva insieme le membra del cane da guerra e del capro espiatorio. No, aveva un progetto chiaro. Era un musulmano vero, la cui memoria viene infangata: un combattente internazionalista dell’Islam politico, vittima di un complotto. 10

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Verosimile ma falso. Inverosimile ma vero. Ogni veritĂ sembra parte di una menzogna. Distolgo la mente dallo schermo. Esco di casa.

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I

Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino. C’ero anch’io. Una sera d’estate del 1988 giunsi in pullman alla fortezza di San Leo, dove il Magnifico Rettore aspettava la gioventù di quattro continenti. Mi ero imbucato. Ero uno studente di Lettere, non facevo ancora parte di associazioni o collettivi universitari. Avevo incontrato per strada una compagna di corso che contribuiva a organizzare il convegno. Una trafila di minimi eventi, un convergere di piccole scelte e casualità, mi portarono al cospetto del Rettore; ma dubito che sarei entrato nella sua fortezza, se poche ore prima non avessi conosciuto Eduardo. In quei giorni, per le vie della città, all’università, nello studentato che ospitava le delegazioni straniere, chiacchierai con molta gente. Gente perduta per sempre, mi viene da pensare a volte, come tanti altri, ragazze 13

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e ragazzi, conosciuti all’estero nelle vacanze studio o nei viaggi per l’Europa. Riesco a rintracciare solo certi nomi, alcune facce nella Rete, ma è come se fossero tutti consegnati all’aldilà. Ne ritrovo qualche appunto scolorito anche fra vecchie lettere, biglietti, agende macerate, pile di quaderni reclusi in un cassetto. Ecco il ghanese Alfred: «La politica degli Stati Uniti e quella dell’Unione Sovietica non sono uguali. Non credo che tu possa parlare di imperialismo allo stesso modo». Il bulgaro Ognian Zlatev: «Ci sono molti socialismi, diceva Olof Palme. A me piace il suo, il modello svedese». Un cileno, lavandosi le mani, in bagno: «Ora è meglio. Non ce ne siamo ancora liberati, ma...». Il portoghese Emídio Guerreiro, Partido social democrata, per i portici di via Indipendenza: «Hanno applaudito a lungo e mi hanno chiesto se volevo diventare un dirigente. Ho chiarito che ho idee di destra. Eccomi qui. E perché dovrei vergognarmi di dire che sono di destra?». Un tedesco: «Lo dico spesso. Non sono fiero di essere tedesco, sono fiero di vivere a Tubinga». Alcuni iugoslavi: «Croazia. Veniamo dalla Croazia». Altri iugoslavi: «Davvero ti hanno detto così?». All’assemblea plenaria, che si riuniva in una grande aula dell’ospedale universitario Sant’Orsola, nessun cartello mi aveva impedito di entrare. Gli interventi venivano tradotti all’auricolare da alcune voci di donna. Ricordo il delegato giapponese, che ci invitò a scegliere il suo paese per passare la vecchiaia, e tre ragazze, del collettivo di Lettere e Magistero, sedute dietro di me, che contestarono aspramente l’intervento di uno studente italiano. È curioso che di quei giorni non sia rimasta nella mia memoria nessuna ragazza, eccetto Lidia, Cira e Serena, che già conoscevo di vista, che avrei conosciuto meglio gli anni seguenti, dopo Tienanmen, dopo la caduta del Muro di Berlino, quando, 14

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come loro, cominciai a impegnarmi nei collettivi studenteschi, a intervenire alle assemblee, a occupare l’università... Ricordo molto bene l’irruenza, la passione, l’efficacia oratoria di Eduardo. Sapeva tenere la scena, era a proprio agio, si sentiva a casa. Aveva sorriso, si era presentato, aveva scherzato, aveva svelato qualcosa della sua complicata genealogia. Un comunista ungherese, uno studente quasi trentenne che ci parlava in spagnolo, risvegliava l’attenzione e poi gli applausi dell’assemblea attaccando il governo di un altro Stato del Patto di Varsavia. Ci spiegò che in Romania la minoranza ungherese era oppressa dal regime di Nicolae Ceaușescu: ai magiari si proibiva di parlare la lingua madre, con la scusa di modernizzare il paese erano stati demoliti alcuni loro antichi villaggi. Finita l’assemblea mi presentai. Quando gli risposi che ero lì per curiosità, che non rappresentavo nessuno, mi prese in simpatia. Non credo mi sospettasse un agente in borghese che recita la parte dello sprovveduto. Mi vedeva come uno sprovveduto autentico, come un giovanotto inesperto su cui esercitare il proprio fascino. Non avevo molto da dire, ma forse gli piacevo: ascoltavo, ascoltavo molto volentieri, e lui, che parlava bene la mia lingua, si confermava una fonte di sorprese, aneddoti, motti di spirito, notizie di prima mano. Eduardo era uno che sta dentro, che ha in tasca il tesserino per entrare ovunque, che sembra conoscere tutti quelli che contano; ma allo stesso tempo si mostrava affabile, gioviale, espansivo: gesticolava, raccontava barzellette, esibiva la mimica facciale di un caratterista. Usciti dall’aula, ci fermammo. Al saluto cordiale di Eduardo, la cervice taurina, l’intero corpo del delegato cubano si torse e ci puntò. Eduardo aveva lavato i panni sporchi davanti a una platea che comprendeva amici 15

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incerti, avversari, probabili nemici. Aveva rotto l’unità del fronte socialista e anti-imperialista, diceva il cubano. Tanto meglio, pensavo. Mi persuadevo di aver incontrato uno strano, nuovo esemplare di comunista che si ostinava a lottare all’interno della dolorosa parodia di un sogno millenario che si era affermata, consolidata, imbalsamata nei regimi del cosiddetto socialismo reale. Perciò lo seguii e mi fu consentito di salire in pullman. Lungo la strada che ci avrebbe portato a San Leo ascoltai le sue barzellette, scherzai, scambiai il mio indirizzo con lui e con altri. Eduardo se ne andò da Bologna prima della chiusura del convegno. Aveva molto da fare in patria e altrove. Di lui mi restò nel portafoglio un biglietto da visita color argento: RÓZSA GYÖRGY EDUARDO Budapest Ajtósi Dürer sor 5. II/1 H-1146 Telefon: ***

L’estate successiva, alla fine di luglio del 1989, viaggiavo con lo zaino in spalla per l’Europa insieme al mio amico Daniele. Da Vienna avevo telefonato a Eduardo Rózsa, per annunciare l’arrivo del nostro treno a Budapest. Ci accolse alla stazione assieme a un uomo che lo aiutò a porgere i calici e a stappare una bottiglia di champagne. «Manca solo il tappeto rosso», disse Daniele. Avrei preferito una doccia, un letto. Sotto i vestiti sgualciti e una patina di sudore il mio stomaco era vuoto, ma Eduardo ci convinse a cambiare le nostre priorità. Per sgravarci dello zaino ci accompagnò all’ostello, che per la maggior parte dell’anno era uno studentato, dove lui era ben conosciuto: «La doccia si può fare al bagno turco. Siete mai stati? Non è lontano. Mangiamo 16

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dopo. Vi porto al ristorante, poi tornate qui a riposarvi. Vi abbiamo trovato una stanza da due». Sempre più stanchi, accaldati, scendiamo dal tram, che ha percorso un tratto della riva sinistra del Danubio, attraversiamo un ponte e finalmente varchiamo la soglia dei Bagni Rudas, all’ombra delle rocce e dei boschi di una collina di Buda. Dopo una doccia scomoda, piuttosto fredda, sbrigativa, ci copriamo con una pezza di tessuto bianco che ricorda il gonnellino degli apache, un minuscolo grembiule legato in vita che lascia le natiche nude. Sono sicuro che Eduardo veda il mio imbarazzo: «Non so che parte coprire», dico. Sono cresciuto con la paura dei microbi: «Se mi siedo, lo devo girare?». Fin da bambino mi hanno insegnato che non si poggiano le chiappe sulla panca di uno spogliatoio. Entriamo e usciamo da piscine più o meno calde, tra uomini anziani e corpulenti. Restiamo noi tre sotto una cupola traforata, in una grande vasca ottagonale, dove Eduardo continua a raccontarci secoli di storia: le terme romane, i mongoli, Mattia Corvino, i turchi, i Bagni Rudas... «Qui hanno girato un film americano... Provate a indovinare. Dopo Conan il Barbaro e Terminator, il fusto era un poliziotto russo». Daniele discute con Eduardo, mentre mi estranio, capisco le battute in ritardo, calo in un torpore demente, amniotico, oltre la fame e la stanchezza. Mi azzardo a dire: «Sembra di stare in un film di Fellini». «È tranquillo, c’è silenzio. Una volta mi ero addormentato... E mi sveglio che c’era un grassone che mi toccava il cazzo», dice Eduardo. «E tu?». Ride con tutta la sua faccia larga: «Non mi aveva chiesto il permesso. Gli ho tirato un colpo sulla fronte, così...». 17

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Mi sfiora al rallentatore, sbatte la mano in acqua, schizzi in faccia, risate. Si parla di politica. «No, non credo che siamo pronti per la democrazia. Io sono per la monarchia costituzionale». Crede che sia giusto limitare i poteri del partito, del «moderno principe», o dai vapori delle vasche siamo riemersi nel secolo scorso? Il viaggio, il digiuno, l’acqua calda mi fiaccano, dalle gambe alla testa. Non reggo il ritmo. Usciti dalla stazione, Eduardo ci ha parlato degli ungheresi che presero parte alla spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi, di Emilio Salgari che si ispirava a Garibaldi per inventare i suoi eroi, del giovane Che Guevara che leggeva i romanzi di Salgari. Sono confuso. Ho sempre sentito dire che il regime ungherese è il meno autoritario tra quelli dell’Est, che le condizioni di vita sono migliori. C’è più libertà, si vive meglio. E a guardarsi intorno sembra vero. Non riesco a comprendere, però, quali siano i dissidi interni al partito. Non capisco come si collochi Eduardo. Di quello che sta succedendo in Ungheria capisco poco: un processo lento, graduale, condotto per lunghi decenni dal segretario János Kádár, un cambiamento che da qualche anno anticipa, o forse cerca di prevenire, quel crollo del socialismo reale di cui assai presto tutti parleranno. «Io sono per la monarchia costituzionale», dice sorridendo. Sono quasi convinto che Eduardo vada preso alla lettera: lo guardo con una faccia incredula, indignata, più che altro idiota. Usciamo dal bagno turco, camminiamo, ci sediamo in un ristorante di Pest, sull’altra riva del Danubio, all’aperto. La brezza che spirava sul ponte e lungo il corpo del fiume arriva ai nostri tavoli. Beviamo vino rosso, mangiamo carne cruda macinata, tuorlo d’uovo, salse, 18

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pepe, paprika. Eduardo tiene la scena che ha allestito; e tra una scena e l’altra non mancano i siparietti. Vuole essere tutto. È un laureando in Lettere, ha appena scritto un saggio sul romanzo Venerdì o il limbo del Pacifico di Michel Tournier e mi sembra di capire che potrebbe ricavarci una tesi, ma non gli basta. Un romanzo è la vita che ha vissuto e che vuole vivere ancora. Parla più lingue di un diplomatico, e nei fatti lo è già: è segretario della Gioventù comunista della Università Loránd Eötvös, ma senza avere l’aspetto e le posture del burocrate. Per noi è la migliore guida turistica possibile: un cicerone poliglotta, un viaggiatore dalla cultura multiforme. Penso che abbia la stoffa dell’animatore. Non nasconde, conosce le malizie dell’accompagnatore, ma sarebbe riduttivo, sarei ingiusto, perché lo vedo padrone di sé e mi sembra sincero anche quando recita. Dopo il bagno turco, ora che mangiamo carne alla tartara, decide di buttarla in farsa: indossa la maschera dell’Orco, dell’Ungaro medievale; gonfia il petto, tende i muscoli, arcua le braccia unendo quasi i pugni, altera la voce, imita un feroce urlo di battaglia, a metà tra «Hungary» e «hungry». Sappiamo che Eduardo non è un cavaliere leggendario, un nomade della steppa turanica; ha antenati ungheresi, ebrei, spagnoli, e forse, se ho ben capito, sudamericani. Malgrado la sua attitudine a recitare, nessuno potrebbe considerarlo un impostore: la storia della sua vita e della sua famiglia impongono rispetto. Daniele gli ha chiesto di raccontare ancora le sue avventure, che entrambi conosciamo solo in parte. Anche i suoi genitori, che ci ospiteranno a cena dopodomani, non potranno fare a meno di narrare il loro passato.

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U MING 1 W A D A T DIRET OLLANA DIRETTA DA WU MING 1 C COLLANA

«Eduardo sapeva manipolare il passato. Il busto di Stalin, che teneva in camera da letto, l’aveva trasferito nel giardino della nuova casa. Ci aveva scritto sotto: “Vomitate qui”. E quando c’era una festa, gli invitati sbronzi potevano vomitare in faccia a Stalin».

ISBN 9788898841806

16,00 euro


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