Alegre uccidi paul breitner qt12 promo

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IA P A S I P A UC PISAPIA L LUCA

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I RAMMESNCTORSO F FRAMMENTI I ND D DII U UN DISCORSO L A LONE UL P S SUL PALLONE


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COLLANA DIRETTA DA WU MING 1

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© 2018 Edizioni Alegre Società cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma redazione@edizionialegre.it www.edizionialegre.it Quinto tipo collana diretta da Wu Ming 1 Editing: Adriano Masci Art director: Alessio Melandri Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purché non a scopo commerciale.

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PIA A S I P A C U L LUCA PISAPIA

I D I C C UCCIDI U PAUL PAULTNER BREITNER BREI NTI FRAMMENTI FRAMME CORSO IS ND DI UN DISCORSO DI U ALLONE SUL PALLONE SUL P

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SOMMARIO

PRIMA PARTE - ARGENTINA 1978 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13

11 17 25 31 37 41 49 55 61 65 73 77 85

SECONDA PARTE - BRASILE 2014 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 14 13 14

93 99 107 115 119 125 131 137 145 149 159 167 171 179

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TERZA PARTE - USA 1994 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14

187 193 197 203 211 217 229 233 239 247 255 261 265 273

QUARTO TEMPO

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RINGRAZIAMENTI

285

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UCCIDI PAUL BREITNER

A Viola con amore infinito

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PRIMA PARTE

ARGENTINA 1978 It’s time to demythologise an era and build a new myth from the gutter to the stars. It’s time to embrace bad men and the price they paid to secretly define their time. James Ellroy, American Tabloid, 1995

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Nella cartella medica è scritto: il paziente confessa di sentire voci. Arcadio Lopez ricorda, fin da piccolo nella sua testa si è abituato ad ascoltare molteplici conversazioni, discussioni, dibattiti e diatribe, sermoni e salmodie, dialoghi e monologhi interpretati da diverse persone, ognuna con il suo timbro vocale, la sua intensità, il suo accento. Tutte nella sua testa. Di recente non ha un attimo di pace. Il numero delle voci si è moltiplicato, accresciuto in maniera drammatica. Arcadio Lopez si gratta la testa, un ciuffo solitario di capelli bianchi è tutto ciò che resta di una fluente capigliatura appiattita all’indietro con la brillantina, sebbene già vittima di incipiente calvizie, come si può vedere nelle istantanee della sua vita precedente. Un viso smunto e lentigginoso è quel che rimane di un faccione placido e tranquillo, a tratti superbo, di un naso inclinato sulla destra e due occhi fieri, quasi arroganti. Ma le immagini che lo riguardano s’interrompono brusche nel quarto decennio della sua vita, quindi non sapremo mai se la caduta è stata precipitosa o si è trattato di un docile arrendersi alla vecchiaia, che restituisce l’umanità alla sua dignità di polvere. 11

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In questo momento Arcadio Lopez è solo nel bunker. L’odore avariato dell’umidità copre solo in parte lezzi e miasmi dei corpi che transitano veloci, prima di oltrepassare l’orrenda porta in ferro battuto incastonata nella parete opposta al suo tavolino, e scomparire alla vista del custode. Il luogo è scarsamente illuminato da una nuda lampadina che dondola esanime, impiccata al centro della stanza. Fuori dal bunker, una Buenos Aires vista dall’alto brulica di vita e di indifferenza nel suo placido caos quotidiano radiante di sole. Milioni di persone si muovono seguendo ogni giorno gli stessi sentieri, come mossi da necessità primordiale: chi c’è, c’è; chi non c’è, è scomparso nel disinteresse generale. A un certo punto della sua vita, in quel quarto decennio da cui cominciano a non trovarsi più foto che lo ritraggono, è sparito anche Arcadio Lopez. All’inizio lo hanno cercato in molti, per svariati motivi. Adesso nessuno lo cerca più. Oggi sembrano Buenos Aires e l’Argentina tutta a essere scomparse, ma nessuno nel resto del mondo ha voglia di cercarle. Arcadio Lopez è seduto, o per meglio dire deposto alla stregua di un cencio, su una traballante sedia di legno corroso dalle tarme. Di fronte a lui un incavo nel muro si apre su un cavedio malmostoso, la cui luce è negata dagli alti muri dell’edificio e da una spessa serranda posta in cima alle scale di pietra. Ogni contatto con l’esterno è interdetto, a meno di non avere la chiave del lucchetto con cui la saracinesca è serrata. Ma Arcadio Lopez le chiavi non le ha. La fioca luce della lampadina disegna un’ombra diagonale a incrociare e tagliare in due l’ipotenusa delle scale. Sul tavolo giace un piccolo televisore portatile. È un apparecchio Brionvega Algol da undici pollici. 12

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Il cinescopio, con deflessione a novanta gradi, è inclinato per consentire una visione facilitata. La scocca è arrotondata e con bordi smussati. Nella parte superiore si trovano i comandi d’uso per l’accensione, la regolazione di volume, luminosità e contrasto, la selezione dei canali Vhf e Uhf preselezionati. È in dotazione anche una maniglia estraibile in metallo. Sul retro dell’apparecchio si hanno le prese per il collegamento alla rete elettrica, alla batteria interna ricaricabile, per un altoparlante esterno, il selettore per antenna incorporata o dislocata altrove, da trecento Ohm. Il circuito interno di funzionamento comprende venti diodi a cristallo, trenta transistor, tre raddrizzatori al selenio. I principali componenti del circuito sono sistemati nella parte bassa, per facilitare le riparazioni e la manutenzione. Sono le tre del pomeriggio. È domenica 25 luglio del 1978. E mentre fuori una Buenos Aires vista dall’alto brulica di vita e di indifferenza nel suo placido caos quotidiano radiante di sole, dentro il bunker scarsamente illuminato la televisione sta trasmettendo le prime immagini di Argentina-Olanda: finale della Coppa del mondo 1978. Il terreno di gioco è in condizioni pessime. L’inizio della partita furioso, interrotto da continui contrasti di una violenza ben superiore a quella consentita dal regolamento di gioco del pallone, sotto gli occhi poco attenti dell’arbitro italiano Patrizio Gonnella, che pare mostrare verso i giocatori in tenuta biancoazzurra un’indifferenza pari a quella che il resto del mondo dedica alla scomparsa dell’Argentina. Una punizione del capitano argentino Daniel Passarella s’infrange sulla barriera. Ora però l’Olanda comincia a giocare, e lo fa a modo suo: allargando il campo a due tocchi, disegnando ripetute triangolazioni e sovrapposizioni che le permettono di avanzare con dieci uomini nella metà campo avversaria. 13

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Sullo schermo del Brionvega Algol da undici pollici, a tratti percorso da scariche di elettricità statica, i movimenti continui con e senza palla dei giocatori in maglia arancione s’intersecano in maniera ripetuta e quasi ossessiva sulla superficie del prato verde. È un’allucinazione visiva. È la mistica della meccanica, che ruba l’occhio e imprigiona. Arcadio Lopez osserva rapito i movimenti incessanti e ricorrenti. Non è un grande appassionato di calcio. Non è un grande appassionato di nulla in realtà, è difficile che qualcosa riesca a interessarlo per più di tre minuti consecutivi. Non riesce a focalizzare la sua attenzione, prova a tenere a mente ciò che sta guardando, cerca di concentrarsi, ma lo sforzo è vano, un attimo dopo la sua mente viaggia altrove. Tutto scompare. E nessuno sembra intenzionato a cercarlo. Mentre una voce somigliante a un lamento, proveniente da oltre la porta in ferro battuto, gli procura un brivido freddo lungo la schiena e il suo sudore si confonde con l’umidità del muro che lo circonda e lo assorbe, una voce interiore lo rassicura ricordandogli che ha già visto qualcosa di simile, di altrettanto bello e formalmente ineccepibile: i primi istanti della finale della Coppa del mondo del 1974. L’altra finale, quella precedente. In campo Germania Ovest e Olanda. Dal calcio d’inizio i giocatori in maglia arancione toccano la palla quattordici volte di seguito, con quattordici giocatori in continuo movimento e in perenne interscambio di posizioni tra loro, fino a quando il quindicesimo giocatore, che poi indossa il numero quattordici e risponde al nome solenne di Johan Cruijff, al termine di un’improvvisa progressione individuale entra in area ed è atterrato dal difensore tedesco Uli Hoeneß. L’arbitro fischia il rigore. 14

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È passato meno di un minuto. La Germania Ovest non ha ancora toccato la palla. È il momento più alto e sublime del “calcio totale”. Anni dopo Sandro Modeo scrive: «Il calcio totale è uno stile di gioco fondato sulla cooperazione e sul pensiero collettivo, uno stile la cui cadenza basata sull’attenzione al tempo e allo spazio orienta la squadra a prescindere dall’avversario». L’avversario, in questo caso, è stato aprioristicamente prescisso: non ha ancora toccato palla.

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In panchina nell’Olanda del 1974 c’è un signore in giacca e cravatta il cui sguardo corrugato profuma di sarcasmo. La fronte è ampia e maestosa, la mascella volitiva. Il suo nome è Rinus Michels. Nasce alla fine degli anni Venti, quando la Grande guerra è appena finita e il patto Briand-Kellogg impone la rinuncia definitiva alle ostilità in nome della pace perpetua, e le Olimpiadi diventano spettacolo di massa per permettere alla borghesia europea di sublimare le sue pulsioni belligeranti nello sport: la violenza di corpi sempre in bilico, tesi al dominio sugli altri e schiacciati dalla società di massa, si sfoga nell’estenuante sforzo dell’attività fisica. Nei giochi di Anversa 1920, Parigi 1924 e Amsterdam 1928, i nomi degli atleti vittoriosi si sostituiscono nell’immaginario collettivo delle nuove generazioni a quelli dei condottieri e dei generali. La pace impone totem sociali differenti dalla guerra. Lo sport è la prosecuzione dell’economia di guerra con altri mezzi. Rinus Michels nasce ad Amsterdam, a pochi passi dall’Olympisch Stadion, e comincia a giocare a calcio fin da bambino nelle strade cittadine. Qui, per evitare che il pallone finisca nei canali concentrici che espandendosi 17

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a raggiera dal porto verso il meridione disegnano un sole che si specchia nel mezzogiorno artico, è necessario apprendere la razionalità del dribbling stretto e del passaggio corto. Il lancio lungo significa la perdita della sfera, destinata a finire in acqua, nei canali dove sarebbe costretto a ripercorrere il viaggio per mare in cui si sono imbarcati per secoli gli olandesi. Senza mai fare ritorno. Il modo in cui si gioca a pallone è un problema di spazio. Rinus Michels è bravo con la palla tra i piedi, e negli anni Quaranta comincia a giocare come professionista nella locale squadra dell’Ajax. Lì apprende dal tecnico britannico Jack Reynolds i segreti del gioco, le tattiche e le strategie, le innovative metodologie di allenamento e alimentazione, prima che la sua carriera di calciatore sia interrotta dall’invasione nazista e infine stroncata da un infortunio. Poi, negli anni Cinquanta, studia educazione fisica, si diploma e comincia ad allenare. Se «il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita», scrive Karl Marx, questo avviene anche per quanto riguarda il calcio, che della vita degli uomini e dei loro costumi è fedele specchio nella storia: a volte seguendo, a volte anticipando. Nel 1965 l’Ajax allenato da Rinus Michels non fa altro che riprodurre in campo il contemporaneo ontzuiling sociale, la depilastrizzazione che negli anni Sessanta dà il via all’abbattimento dei sacri pilastri in cui era divisa verticalmente la società olandese in nome di una più dinamica e funzionale coesione sociale. L’Olanda è un paese disegnato dalle geometriche coltivazioni razionaliste. E Amsterdam è una città in cui gli edifici espressionisti dai tetti spioventi e dalle facciate stravaganti dialogano con l’urbanistica funzionale dell’alveare, contribuendo a costruire unità polivalenti in cui ogni singola componente è completa solo in 18

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relazione agli elementi che la circondano. Nei precetti della Scuola di Amsterdam, che disegna la città e realizza anche l’Olympisch Stadion alla cui ombra cresce Rinus Michels, l’interazione tra elementi è più della loro semplice somma. Rinus Michels lo sa. Rinus Michels con l’Ajax progetta un edificio calcistico di rara perfezione architettonica in cui si esalta la peculiare conformazione urbanistica della città: la necessità, quando hai imparato a giocare per strada, di trattenere il pallone negli spazi stretti per non farselo strappare dalle acque dei canali. Il passaggio corto come conservazione. La sovrapposizione come sopravvivenza. Si assiste nel calcio a una rivoluzione scientifica simile a quella introdotta nel cinema da Sergej Michajlovič Ėjzenštejn: attraverso il montaggio dialettico dall’incontro di due immagini si produce un significato che va oltre la mera somma. Il calcio però non è figlio solo della storia e della geografia. Le nazioni sono pur sempre “artefatti culturali” in continuo mutamento. La seconda Scuola di Amsterdam di cui Rinus Michels è allievo è la prassi del passing game britannico importata nei Paesi Bassi dal suo vecchio allenatore Jack Reynolds: una strategia che privilegia il gioco di squadra alle iniziative individuali. Una volta che Rinus Michels siede sulla panchina dell’Ajax, alla peculiare conformazione geografica del paese e alla tecnica del passing game sovrappone l’educazione ricevuta alla rigida disciplina protestante. La libertà diviene forma di responsabilità personale e collettiva. L’azione individuale è pedagogia sociale, per il funzionamento del meccanismo collettivo che è fondamento del sistema economico capitalista e che Max Weber ravvisa nella transustanziazione omeopatica del corpo di Cristo predicata da Calvino. Dall’urbanistica e dall’architettura, dall’arte e dal commercio, dagli insegnamenti di un allenatore di calcio inglese 19

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U MING 1 W A D A T DIRET OLLANA DIRETTA DA WU MING 1 C COLLANA

«Richard, non ti preoccupare, è tutto a posto. Lascia perdere slogan idioti come Against Modern Football! La mercificazione della nostalgia ci propina un passato che non è mai esistito. Invece che rimpiangere bei tempi mai esistiti, l’unica resistenza possibile è offrire una lettura non pacificata del pallone. Se vuoi raccontare il calcio in maniera rivoluzionaria, non guardare a una presunta età dell’oro del passato, fai esplodere le sue contraddizioni». Luca Pisapia compie un miracolo narrativo, realizzando il libro sul calcio che non c’era mai stato e ora c’è. Giuseppe Genna

ISBN 9788898841905

16,00 euro


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