Alegre derby bambino morto issuu 0

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Prima edizione: © 2005 Derive Approdi, Roma Premessa: © 2014 by Wu Ming 5 Published by arrangement with Agenzia Santachiara Aggiornamento: © 2014 by Claudio Dionesalvi © 2014 Edizioni Alegre Società cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma redazione@edizionialegre.it www.edizionialegre.it Quinto tipo è una collana diretta da Wu Ming 1 Grafica: Alessio Melandri Si consentono la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purchè non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta.

Analisi, notizie e commenti www.ilmegafonoquotidiano.it





Sommario

Premessa di Wu Ming 5 9 1. Derby a Roma

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2. 21 marzo, giornata storta

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3. Il bambino morto

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4. Il Complotto

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5. Battipaglia ’69

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6. La politica dei caroselli

89

7. I nuovi barbari

107

8. Intemperanze adulte

127

9. Nascita di una cultura

141

10. Piccola storia universale del teppismo

165

11. Quelli dell’obelisco

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Nota d’autore

197

Aggiornamento La strategia dell’ansia di Claudio Dionesalvi 203




PREMESSA di Wu Ming 5

Il Derby del bambino morto, ultimo lavoro di Valerio Marchi prima della scomparsa, è il momento più alto di una elaborazione storica, sociologica e semiologica lunga più di un decennio. L’esperienza culturale e politica di Valerio costituisce un esempio unico: era un intellettuale di strada, coinvolto in prima persona nei movimenti e negli stili che hanno innervato la storia recente del paese. L’attenzione per i tasselli che compongono e orchestrano il reale, il punto di vista angolato ed efficace hanno consentito a Valerio di elaborare un’incessante, documentata e avvincente critica del presente. Il suo lavoro, da Nazi Rock a Teppa, da SMV-Stile Maschio Violento a La sindrome di Andy Capp, ci appare oggi come una lunga riflessione sul conflitto, sulle figure giovanili che lo sintetizzano e lo esemplificano trasformando corpi e comportamenti in problematica merce spettacolare, e sulle dinamiche di moral panic che attraversano a ondate cicliche la società. Si tratta perciò di un lavoro che ha al centro il disciplinamento e la ribellione, l’omologazione nell’indistinto della definizione mediatica e il riscatto, i tentativi di occultamento e l’ambigua radianza del reale, la stessa che, indagata, può forse indirizzare verso discorsi di verità. 9


Pamphlet di denuncia e strumento analitico, Il Derby del Bambino Morto fornisce al lettore, anche a quello distante per indole e percorso dalle vicende trattate – dal mondo del calcio, degli ultras, delle politiche “di movimento” – il modo per porsi giuste domande sullo stato delle cose più generale. È un’indagine sulla natura di una dinamica repressiva che sembra accelerare di mese in mese il proprio momento d’inerzia, ma che ha le sue radici in decenni lontani e in una visione ideologica e intimamente classista dei problemi relativi al cosiddetto ordine pubblico. La legislazione emergenziale imposta al paese negli anni della lotta armata è tracimata investendo vasti settori della società, la sospensione temporanea del diritto si è prolungata nel tempo, la sua fondamentale natura di illegittimità si è perduta nella mentalità dei più, e l’eccezione è divenuta strumento di governance all’interno di politiche paradossalmente “legalitarie”. Il Derby del bambino morto fornisce dunque alcuni strumenti importanti per comprendere e indagare le cause dell’assetto repressivo che nella società corrisponde a una fase “finale” di ristrutturazione e rimodellamento della produzione, con le ricadute vicine che riguardano il disciplinamento diretto dei corpi e le ricadute appena più lontane che tale assetto, sempre più feroce e arbitrario, dagli spazi di vivibilità sempre più angusti, implica per ognuno di noi. Il libro vive dell’equilibrio tra la capacità di articolare una narrazione efficace, la puntualità delle testimonianze e la precisione degli strumenti critici che Valerio Marchi dispiega sulla pagina. Il risultato ha l’efficacia di un thriller dall’andamento progressivo e incalzante, in cui ogni elemento è tratto iperrealisticamente dal quotidiano gravemente distorto del paese, dal suo passato più o meno recente. Ma del romanzo di genere non ha gli stereotipi, le semplificazioni, lo schematismo. 10


La vicenda è nota, ma vale la pena ripercorrerla. Prima dell’incontro Roma-Lazio del 21 marzo 2004, attorno allo stadio si verificano gravi incidenti tra tifosi e forze dell’ordine. La violenza dell’azione poliziesca, che utilizza il consueto arsenale di cariche indiscriminate, caroselli con mezzi pesanti, lacrimogeni ad altezza d’uomo, è tale da rendere credibile per il pubblico dell’Olimpico la voce secondo cui un bambino, o un ragazzo, sarebbe rimasto ucciso sotto un automezzo delle forze dell’ordine, o colpito da un lacrimogeno. Mentre inizia la partita, fuori dallo stadio e all’entrata della curva Sud proseguono gli scontri, e la voce sul bambino morto si diffonde. I tifosi, nella persona di alcuni cosiddetti “capi” ultras della Sud, chiedono che la partita venga sospesa. All’inizio del secondo tempo, i romanisti tolgono gli striscioni. I laziali lo fanno immediatamente dopo, per solidarietà. I giocatori si fanno interpreti della volontà dell’Olimpico, la partita viene sospesa. Un gesto etico, una forma di risposta dal basso a una situazione insostenibile, la rottura della logica che vuole lo spettacolo prima di tutto? Tutt’altro, per le forze dell’ordine e per gli apparati dell’informazione pronti a lanciare l’ennesima ondata di moral panic. Per questi settori di società, deputati alla repressione e al velo ideologico che la ricopre, si tratterebbe di un piano premeditato che vede il confezionamento di una voce e la sua diffusione da parte di romanisti e laziali insieme. Lo scopo? Dimostrare, con la sospensione della partita, una posizione di forza all’interno degli equilibri che reggono la macchina del calcio. Un complesso plot che sarebbe servito a dimostrare potenza, una specie di avvertimento mafioso. L’episodio si inscriverebbe nella guerra che gli ultras avrebbero dichiarato alle forze dell’ordine. Per i rappresentanti delle tre polizie che controllano le strade del paese, gli incidenti del pre-partita sono stati, è bene saperlo, normali e tutto sommato limitati tafferugli. La 11


nube dei gas CS – un’arma da guerra – che stagna per decine di minuti su settori della Sud prossimi all’entrata sarebbe stata causata dal lancio di “un paio” di lacrimogeni, e via minimizzando. Valerio Marchi organizza un’inchiesta puntuale sui fatti di quel 21 marzo di dieci anni fa e lo fa adoperando i mezzi dello storico capace di interrogare le fonti e del critico capace di individuare nei fatti della cronaca una tendenza e un senso. Gli spunti di riflessione si succedono di pagina in pagina e toccano argomenti centrali per la comprensione di dinamiche e contesti resi confusi e difficilmente intelligibili dalla logica che guida le politiche del paese, sempre più indistinguibili da attività immediatamente poliziesche. Una tale logica si riflette pericolosamente nella vulgata che inonda il pubblico, tentativo di spiegarsi fatti e comportamenti per via di semplificazione, di generalizzazione, a costo di veri e propri abbagli. Preziosa l’analisi sulla valenza immediatamente antagonistica della voce, del boatos che si diffonde senza autorizzazione e, per l’appunto, senza controllo, e il puntuale gioco di rimandi con le varie fasi che la gestione della piazza attraversa a partire dalla fine degli anni Quaranta. Le forze di polizia sono una componente della società e il loro sapere, cioè la teoria e la prassi dell’azione preventiva e repressiva, è influenzato in maniera diretta dalle idee, dalle preoccupazioni e dalle aspettative che percorrono il discorso pubblico, e retroagiscono influenzandolo e modificandolo a propria volta. Se nell’epoca della guerra fredda la paranoia diffusa riguardava i sovversivi, cioè in larga misura i lavoratori, a partire dagli scontri di piazza Statuto a Torino nel 1962 una nuova figura entra in gioco, quella del giovane teppista, sfuggente e violento. La categoria del provocatore, del 12


mestatore, fino a quel momento una delle architravi della rappresentazione reazionaria del conflitto nella società, viene sussunta dai partiti della sinistra istituzionale, Pci in primis. Questo è uno dei punti cruciali della trattazione di Valerio, che si avvale della lunga consuetudine di studio e di strada con le sottoculture che hanno attraversato con la loro carica conflittuale, simbolica e dispiegata, gli anni a partire dal dopoguerra. La figura stereotipata e fondamentalmente irreale del teppista generazionale – mosso da motivazioni incomprensibili, soggetto a imprevedibili scoppi di violenza, in grado con la semplice presenza di perturbare un supposto ordine morale – va a ibridarsi con altre figure capaci di produrre allarme e ansia sociale. Dall’operaio e dal contadino comunista degli anni della guerra fredda e di Scelba si passa così al Teddy Boy, al ragazzo con la maglietta a strisce, allo studente capellone e drogato, all’autonomo, all’autoriduttore degli anni Settanta fino al “no global” e “black bloc” del recente passato. Per utilizzare un gruppo umano come capro espiatorio e come terreno di sperimentazione per strategie e tattiche applicabili in linea teorica, e all’atto pratico, a settori sempre più estesi della società, occorre stigmatizzarlo, semplificarlo, renderlo merce culturale facilmente fruibile, formula magica il cui solo suono è in grado di suscitare risposte emotive automatiche, pavloviane. E benché la violenza nel mondo del calcio, ancor prima che nel sistema calcio odierno, abbia radici profondissime e conosca fasi di conflittualità e repressione accesissima molto prima dell’avvento del tifo organizzato (vedi i fatti di Salernitana-Potenza del 28 aprile 1963, che porteranno all’uccisione del padre di famiglia quarantottenne Giuseppe Plaitano), la figura dell’Ultras – precipitato di violenza generazionale, classista, politica, addirittura presuntamente “eversiva” – si dimostra 13


perfetta per sostenere il ruolo del Folk Devil all’interno di un mercato mediatico ossessionato dalla spendibilità ciclica di merci culturali preoccupanti. Si può essere certi che, nel caso degli Ultras, ogni azione e provvedimento repressivo sarà giudicato generalmente adeguato, anzi “meritato”, e che nessuna voce, nella cacofonia dei commenti a caldo, sorgerà mai a prenderne le difese. Questo è il phylum repressivo che porta all’oggi. Un ricordo personale. Nei giorni di Genova, il livello di violenza indiscriminata espresso dalle forze dell’ordine apparve a molti inusitato. Quei molti avevano ragione, nel senso che si entrava in una fase nuova nella storia della repressione del conflitto sociale, ma avevano anche torto. Genova era stata preparata dal Global Forum di Napoli del marzo precedente, e quella brutalità che colpiva indiscriminatamente giovani e vecchi, suore laiche e “teppisti” era la stessa che era stata riservata per anni al popolo delle curve, non necessariamente ai soli ultras. Nell’aria acre di gas lacrimogeni e materiali combusti, nel clima di caccia all’uomo per lunghe ore gli unici a non sembrare sorpresi furono quei compagni che andavano allo stadio da anni, da sempre, come si suole dire. E nella stessa storia della repressione di piazza del conflitto, non si trattava di metodi davvero nuovi. Si era semplicemente balzati indietro di cinquanta anni.

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il derby del bambino morto

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capitolo 1

Derby a Roma

Innanzitutto è tensione. La città non parla d’altro, un esorcismo di massa per acquietare il senso di ansiosa attesa, di speranza e di timore, che il derby porta in sé. Nei giorni che precedono la partita lo avverti in chiunque, anche se per motivi differenti. Nel popolo dell’Olimpico come in quello di Sky Tv, in chi odia il calcio e sa che ne sarà subissato e in chi semplicemente teme il disordine, il traffico, la violenza. La stampa locale sforna pagine, la forza pubblica flette i muscoli. Il derby strappa l’anima alla città e la strizza per un lungo istante. Si dice che questo clima sia frutto della storica mediocrità delle due società, della supremazia cittadina vissuta come unico traguardo possibile in stagioni spesso fallimentari. Alla consueta tensione da derby si andrebbe a sommare l’ansia indotta dall’equivalente di una finale, un’andata-ritorno che può valere un intero campionato. Pur presentando elementi di verità – la possibilità di raggiungere traguardi extra-cittadini può mitigare in alcuni il tormento – questa lettura “provinciale” cozza però con la storia stessa del calcio romano e delle sue radicate faziosità. 17


Già dal primo incontro (campo della Rondinella, 8 dicembre 1929, Lazio-Roma 0-1) i dirigenti laziali dovettero infatti portare i loro giocatori in ritiro ai Castelli, «onde non farli condizionare dall’atmosfera caldissima che si respirava nella capitale»1. Inoltre le autorità, temendo incidenti, tennero il giorno prima della partita un vertice in cui si decise di schierare seicento uomini tra polizia, carabinieri e volontari della milizia2. A suscitare i timori dei gerarchi era di certo il temperamento sanguigno dei popolani romanisti, che tra parentesi tenne ben lontani dallo stadio i borghesi laziali3, ma soprattutto la possibilità che schiamazzi e turbolenze potessero turbare l’immagine – diremmo oggi – della città-vetrina del regime. Il clima cittadino, insomma, era già allora accesissimo. E già allora la rivalità sociale e culturale, oltre che calcistica, tra le due tifoserie – una radicata nelle enclave borghesi della zona nord e l’altra nei rioni ancora popolari del centro storico, in quelli operai del boom edilizio umbertino e nei ghetti delle estreme periferie – non restava limitata alle consuete forme dello sberleffo quotidiano o domenicale. Il 24 maggio del 1931, per esempio, in un LazioRoma disputato allo stadio Nazionale, la turbolenza del pubblico conquista l’attenzione della stampa: L’arbitro ha appena fischiato la fine che vediamo giocatori laziali e romanisti alle prese; accorrono dirigenti a separarli e accorre anche la folla che stazionava sulla pista; la confusione è grande e ad accrescerla sopravviene l’invasione di campo da parte del pubblico. La forza pubblica ha un

1  In M. Impiglia, Il campo Testaccio, Riccardo Viola editore, Roma 1996, p. 53. 2  S. Boldrini, In nome della Roma, Limina, Arezzo 1999, p. 53. 3  Il Littoriale riporta una percentuale di pubblico romanista del 90%. In M. Impiglia, cit. p. 53.

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gran da fare per sgomberare il terreno di gioco e vi riesce solo dopo molti stenti e senza aver potuto impedire molte colluttazioni non precisamente verbali4.

Per la cronaca, a entrambe le società viene squalificato il campo per una giornata: la Lazio perché gioca in casa e la Roma per «le gravi responsabilità della sua tifoseria»5. Che intorno al calcio, alle due squadre cittadine, al derby si avverta uno stato di tensione, traspare, sempre nel 1931, anche dalla denuncia di un avvocato sul «malvezzo che da qualche tempo va dilagando nell’ambiente sportivo della capitale: le telefonate anonime. Insulti triviali contro la Roma o contro la Lazio, spesso raccolti da donne e da bambini in assenza di genitori. Mascalzonate!»6. L’utilizzo del telefono, all’epoca ancora socialmente limitato7, si tinge nella denuncia del solerte avvocato di tinte teppistiche che cozzano con la conclamata asserzione di un “tifo”8 come malattia di matrice strettamente popolare. Un anonimo fondo della metà degli anni Trenta, che riporto – per dirla in termini calcistici – in ampia sintesi, sembra confermare l’ansia sociale che già in quei primi anni di dispute circonda il derby. Linguaggio arcaico a parte, potrebbe essere dei nostri giorni: Ci viene segnalato da più parti un caso increscioso, avvenuto domenica scorsa a campo Testaccio durante e in fine della partita tra i pulcini della Roma e della Lazio. Una parte

4  Gazzetta dello Sport, in Asromaultras.it. 5  M. Impiglia, cit., p. 56. 6  Ibidem. 7  I dati Censis indicano, per l’anno 1925, 125 mila telefoni privati tutta Italia, Cinque anni dopo salgono a 500 mila. 8  Sulla nascita del termine dispregiativo “tifoso” in contrasto con quello positivo di “supporter” vedi A. Papa, G. Panico, Storia sociale del calcio in Italia, vol.1, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 126-7.

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del pubblico ha inveito con le più basse e triviali espressioni contro i piccoli azzurri […] Quei ragazzini sarebbero stati fatti bersaglio anche di qualche […] proiettilino a portata di mano. Persino la gentile signora di uno dei più attivi dirigenti laziali è stata svillaneggiata e insultata […] Giunte le cose a un punto simile, è necessario parlare alto e ben chiaro. È notorio, senza tema di smentita, come nella grande, entusiasta, educata, sportivissima massa di tifosi che segue la Roma si sia da qualche tempo infiltrata una minoranza tumultuosa di mascalzoni, che macchiano con il loro contegno teppistico il buon nome della gloriosa società romana. Crediamo perciò di gettare un buon seme rivolgendoci ai dirigenti della Roma, invitandoli a intervenire con energia per un’eliminazione severa dalle scalee del Testaccio degli elementi indesiderabili. Essi sono pochi, sempre gli stessi, e con molta facilità individuabili […] una minoranza fuori della legge che sbava solo livori e provocazioni […] Testaccio deve essere ripulito presto. Non sarà difficile, volendo9.

La realtà del derby romano, oltre i ricordi un po’ bonari della tendenza “Il bel tempo che fu”, sono dunque le continue scazzottate sugli spalti, ma soprattutto il clima di tensione e attesa che coinvolge l’intera città, a cui i giornali contribuiscono da par loro “pompando” a dovere l’avvenimento. Nei derby del 24 maggio 1931 e del 21 febbraio 1937, ad esempio, ci si inizia a picchiare prima tra giocatori e quindi tra tifosi nel frattempo scesi in campo. La polizia stenta non poco in entrambe le occasioni a ristabilire il perturbato ordine. Da quei lontani anni d’anteguerra in tema di derby è cambiato quasi tutto, ovvero quasi niente. Sono scomparse le differenze socio-culturali tra le due tifoserie 9

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In M. Impiglia, cit., p. 79.


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Ming 1 u W a d diretta ollana diretta da Wu Ming 1 c collana

Lo spettro di Genova aleggia sempre più possente sull’Olimpico. La pacifica folla del settore distinti che si ammassa e si calpesta, che soffoca e vomita sotto l’effetto del gas ha le stesse sembianze terrorizzate e attonite delle anziane pacifiste sanguinanti riprese nella lunga diretta genovese di Rai 3, il terrore di chi oltre a non aver provocato alcuno scontro non è nemmeno attrezzato, fisicamente e psicologicamente, per sostenerlo. «Io che ho l’asma un altro po’ morivo […] Giuro, una cosa così non m’era mai capitata...».

ISBN 9788898841080

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