Alegre tabloid inferno promo

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RELLA A C S A P E ELEN PASCARELLA S SELENE

D I O L B A TABLOID T O N R E F N IINFERNO IONI A ONFESSR CONFESSIONI C ONIST NA C DII U UNA CRONISTA D ERA D DII N NERA

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COLLANA DIRETTA DA WU MING 1


© 2016 Edizioni Alegre Società cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma redazione@edizionialegre.it www.edizionialegre.it Quinto tipo è una collana diretta da Wu Ming 1 Editing: Tommaso De Lorenzis Grafica: Alessio Melandri Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purché non a scopo commerciale.

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RELLA A C S A P E ELEN PASCARELLA S SELENE

D I O L B A TABLOID T O N R E F N IINFERNO

IONI CONFESSIONI CONFESS A DI NERA RONIST DI NERA NA C DII U UNA CRONISTA D


SOMMARIO PREMESSA

PARTE PRIMA

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«Che lavoro fai?» e altre domande che tolgono il sonno

Il giallo spiegato al popolo 13 Minaccia fantasma vs guerra dei cloni 14 L’inferno è lastricato di fiction-addicted 17 Il metodo della chiaroveggente 21 La prima regola della Rete è: “Non esiste la Rete” 26 Apocalisse ad altezza nonna 29 Misterioso, lacrimoso y final 31 La versione di Potito 37 L’interregno dello scantinato 41 I walked with a killer 44 Born to be Senpai 49 Basilicata Horror Story 51 Etica, tette e gelati 58

PARTE SECONDA

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Brutte storie di ordinario newsmaking

«Devi darmi le lacrime... Ma anche le poppe» 61 Bloody Fotoromanza 63 Cronaca negra 66 Le mie storie sbagliate 73 La difficile missione del raffinato erotismo 77 Ask to tv 82 I grandi classici della nera 89 Una lucertola con penna di donna 93


La morale è sempre quella 101 Fingo o non fingo? 106 Nel nome di Capi 111 Un curriculum per il Chronicle 114 Chi ha la granny non pianga 119 My own personal miracle 123 Vogliamo il pulp e le rose 132 Avetrana diabolica 136 Elena e il paradosso di Schrödinger 145 Testimone “usato sicuro” 149 Il segreto dell’acqua 153 Ca’ Raffaello Chainsaw Massacre 157 Gomblotto o Gomorra, il periglioso mondo della cosplayer 160 Delitto perfetto a modo mio 170

PARTE TERZA

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Orchi, streghe e mamme diaboliche. Il mio fantatrash alla sbarra

C’era una volta la nera 175 La verità delle meches 184 Non ho più angeli 192 Mum is my new black 202 What I don’t believe (Pensiero della sera della cronista in colpa) 209 Non è mai troppo tardi 217 Chi ha paura dell’asilo maledetto? 225 Quella volta che non ho intervistato Rudy 233 Stefania Noce, il femminicidio e le mie vergogne 240

RINGRAZIAMENTI

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TABLOID INFERNO



PREMESSA

Mi chiamo Selene. Per quattro anni ho scritto storie nerissime su testate popolari di infimo livello. Tabloid Inferno è il resoconto fedele di quell’esperienza. È servito a me, prima di tutto. Ho fatto i conti con un mestiere esercitato in apnea, tra la giusta riprovazione di chi mi voleva bene e l’ossessione per una vocazione seguita solo su strade secondarie, battendo codici segreti che nessun corrispettivo economico avrebbe mai reso accettabili. Spero che serva a voi, per capire i meccanismi che regolano l’universo dell’informazione nera, giudiziaria e scandalistica, fiutandone le trappole ed evitando di farvi avviluppare dalla sua narrazione tossica. Che vi sta già tra i piedi, anche se non avete mai posato gli occhi su un magazine a base di “sangue & sesso”, e finirà per conquistarvi. Solleticherà la vostra parte più curiosa, ravanando nelle paure che tenete faticosamente a bada, costruirà mostri all’ombra dei quali sentirvi esseri umani meno ignobili. Per raccontare cosa vuol dire far parte del sottoproletariato culturale al servizio del giallo ho dovuto 9


scomodare ricordi personali, cari amici e altri soldati di ventura nella guerra all’ultimo scoop. Alcuni hanno dato il loro consenso, altri – temo – mi toglieranno il saluto. In ogni caso, come si dice, è andata così. Ho cambiato i nomi delle persone, dei luoghi e dei prodotti editoriali, soltanto quelli. La prima parte del libro cerca di spiegare come sia possibile passare dal sogno della stampa watchdog1 alla militanza nell’informazione di serie Z nel volgere di pochi anni. Perlomeno come sia potuto accadere a me, che non faccio statistica ma sono un punto di osservazione generazionale buono come un altro. La seconda mette in fila le regole del gioco che ho imparato a conoscere un pezzo dopo l’altro, sudando, sgomitando e impegnandomi. Anche uno sporco lavoro può essere fatto molto male o molto bene. Pian piano sono arrivata alla seconda opzione, diventando bravissima a incarnare i luoghi comuni che si imputano ai pennivendoli. Un delitto che sembra senza vittime ma non lo è. Per studiarne la criminodinamica ho usato solo articoli scritti di mio pugno. Con tutti i limiti e le goffaggini dell’autoanalisi è stato inevitabile, poiché ero parte del problema. Mi auguro che sia bastato a stanare le ipocrisie e le furbizie messe in campo per non rispondere delle parole che mi davano da vivere. L’ultima sezione ripercorre il viaggio delle narrazioni tossiche dopo la pubblicazione, cerca di rintracciarle 1  Il watchdog journalism è una definizione anglossassone del giornalismo che svolge una funzione di sorveglianza verso il potere e l’illegalità, “come cane da guardia pubblico” a tutela della democrazia e del pluralismo delle opinioni [NdR].

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al di fuori dei luoghi di origine. Per esempio nelle aule giudiziarie, dove segnano il destino di persone in tutto e per tutto uguali a voi e a me, trasformate in mostri che i cronisti, quale ancora oggi sono io, hanno inventato a loro immagine e somiglianza.

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PRIMA PARTE

«CHE LAVORO FAI?» E ALTRE DOMANDE CHE TOLGONO IL SONNO

IL GIALLO SPIEGATO AL POPOLO

«Pensa, potresti essere la prima donna a scrivere su Cronaca Vera!». Bastano poche parole di stima per farti capire che piega ha preso la tua vita. C’è chi passa l’adolescenza sognando di scrivere il grande romanzo americano. Qualcuno affila, tra un esame universitario e uno sciagurato infortunio al ginocchio, il proprio curriculum vitae di giornalista bianciardiano. Nemmeno il figlio più reietto dell’informazione nell’era di Scienze della comunicazione vagheggia una carriera nel fior fiore dei tabloid scollacciati. Accorre in edicola ogni settimana, per gustare le alte bassezze della penny press nostrana con gli amici prediletti. Leva il cappello di fronte alla grandezza dell’opera nel suo genere, relegandola nello spazio residuale del trash. Materiale per imbastire una manciata di post di successo, non certo la solida base su cui costruire una vita adulta. Vorrei davvero poter dire lo stesso di me. 13


Affermare, senza punta di colpa, di essere vittima del fallimento di un sistema editoriale debole o del destino cinico e baro. La redattrice sbagliata al momento sbagliato. E invece, ben prima del mio debutto come collaboratrice per le peggiori testate della scena italiana, io e la nera di serie Z avevamo un passato

MINACCIA FANTASMA VS GUERRA DEI CLONI

«Bella sciatrice presa nella trappola degli orsi dal guardaboschi innamorato». «Panico in ospedale! Le infermiere del turno di notte aggredite dal misterioso maniaco della mano morta». Bisogna essere un genio, anche solo per riuscire a immaginare un titolo di questa portata. Questo ci dicevamo io e il mio best friend Emanuele, orripilati quanto ammirati, scorrendo l’archivio storico del settimanale «che dice la verità».2 Dall’alto di due carriere morte prima di decollare conoscevamo bene il potere salvifico del codice di genere. Professionalmente parlando entrambi siamo cresciuti in una “testata fantasma”. Un settimanale che per circa tre anni è arrivato in edicola solo bussando alla porta del dimenticatoio. Quel genere di rivista che il giornalaio tiene nella pila dei resi annunciati, per sostenere l’espositore delle carte dei Pokemon, in modo che siano sempre perfettamente ad altezza bambino. Quando ne chiedi una copia, dopo aver inutilmente cercato 2  È questo il claim della testata Cronaca Vera. Il settimanale che dice la verità. Dal 1969 in edicola...

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di dirottarti su qualcos’altro, il titolare si alza con teatrale disperata lentezza, misurando in euro ogni millimetro di disappunto. S’indirizza al mucchione dell’invenduto dove, scartabellando tra Cavalli e segugi e Amico spinterogeno, identifica l’oscuro oggetto richiesto. Scandisce ad alta voce il prezzo, per sottolineare che, davvero, dovrà pretendere una contropartita per liberarsi di quella monnezza, ma che, in ogni caso, sarà tutta colpa tua. A quel punto restano solo due opzioni: mentire, dicendo che l’acquisto non è per te («Mia nonna va pazza per questa robaccia») o ammettere che sei uno sfigato che scrive su quelle pagine, talmente sfigato da non avere diritto nemmeno a una copia omaggio da mostrare ai parenti. La mia edicolante di fiducia, per capirci, mi accoglie con frasi del tipo: «È uscita un’altra di quelle riviste assurde. L’hai scritta tu?». Ad appigliarmi a nonna non provo neanche più, tanto nove volte su dieci ha ragione lei, è farina del mio sacco. Esistono due categorie di ghost magazine: ci sono quelli politici, quotidiani in rari casi, ma soprattutto settimanali e mensili, che fanno capo a una vasta costellazione di formazioni partitiche, sindacati e associazioni. La loro presenza sul mercato dipende dai fondi per l’editoria o almeno così è stato per molto tempo. Poi vengono i cloni, la versione low budget di un prodotto editoriale di nicchia che ha un suo pubblico fedele, sufficiente a garantirgli sopravvivenza economica. Il loro obiettivo è succhiarne la notorietà, imitandone veste grafica e contenuto, al limite del plagio. Per sbarcare il lunario contano sul fattore “mr. Magoo” o su quello “mamma disperata”. Nel primo caso, dal momento che il lettore medio è over 65, si punta sulla mera confusione di chi è capace di scambiare una rivista per un’altra, per distrazione, problemi di vista o senilità, accorgendosene solo dopo l’acquisto. Ovviamente 15


c’è la speranza che l’acquirente casuale si trasformi in un lettore fidelizzato, ma alla fin fine questo è quasi un obiettivo secondario. Si vive alla giornata, un numero alla volta. Tanto l’investimento iniziale rasenta lo zero assoluto. Si lanciano pochi spiccioli ai peones dell’industria culturale e con un migliaio di euro si porta a casa un prodotto editoriale completo, da distribuire dove capita. Non c’è pubblicità, nessuna strategia di mercato. E se l’operazione vi pare antieconomica è perché state ragionando con le vetuste categorie della domanda e dell’offerta. Anche ammettendo che il prodotto in questione faccia schifo e non interessi a nessuno – cosa che, in effetti, non è un mistero, né un ostacolo, per chi l’ha pubblicato – la statistica gioca comunque a vantaggio dell’editore. «Sopra le duemila copie vendute» mi ha spiegato uno di questi giganti del settore, «è tutto guadagno». Un guadagno misero? Di sicuro, ma a qualcuno deve far gola a giudicare dalla sovrabbondanza di questi masterpiece nelle edicole di tutto il paese. Subito dopo entrano in campo i cloni per ragazzini: hanno titoli tutti uguali – parole chiave: “teen”, “star”, e “pop” – e sono ideati per bambine di otto anni che immaginano sé stesse come adolescenti. Mini dive che guardano Ariana Grande da pari a pari, insomma. E scusate se è poco. Quando una mamma riceve l’ingrato compito di acquistare un giornalino del genere, potrà passare ore a scandagliare gli scaffali e interrogare il venditore. Ha il settanta per cento di probabilità di portare alla prole il prodotto sbagliato. La giacenza degli epigoni di Cioè per donne-bambine è certa, tanto che gli edicolanti lasciano in vendita con grande serenità anche numeri vecchi, vecchissimi e decrepiti. La scorsa settimana mia suocera è tornata a casa con una rivista per mia figlia, che ha sei anni, sventolando una coloratissima cover con i protagonisti di High School Musical, ovvero il telefilm prepuberale di tre generazioni fa. Era 16


sullo scaffale dal 2008. Con ogni probabilità l’editore che l’ha lanciata non esiste più, ha cambiato nome, si è dedicato ad altro. O tutte e tre le opzioni insieme... Cosa c’entrano le riviste per ragazzine con i prodotti pulp? Presto detto: sono gli stessi gli editori, ma anche i grafici, i redattori e i collaboratori. Io per esempio ho scritto su ogni sottogenere di ghost magazine. In alcuni momenti, concentrata a produrre tre-quattro riviste contemporaneamente nell’arco di due settimane, ho temuto di incrociare i flussi, mettendo Violetta al centro di una torbida storiaccia di sesso, ricatti e omicidi e trasformando i membri del gruppo pop 5 Seconds of Summer in alieni venuti dallo spazio per distruggerci. E non è detto che nel prossimo futuro qualcuno (non io, si spera) sdogani il “baby pulp”. Tutto, però, ha avuto inizio con un settimanale di partito.

L’INFERNO È LASTRICATO DI FICTION-ADDICTED

Prestigiosa location in pieno centro a Roma, viavai di intellettuali di rilievo ed ex pezzi grossi targati Prima Repubblica, un manipolo di giovani preparati e privi di alternative. Un direttore editoriale passato da golden boy della sinistra di governo a vecchio trombone in un anticipo di tangentopoli. A capo della redazione un ex alcolista cresciuto nella fossa dei leoni della stampa locale, capace di trasformare anche un editoriale del New York Times in un pistolotto della serie “è tutto un magna magna”. C’erano le premesse per un prodotto editoriale se non di spessore perlomeno fuori dal comune. Del resto non potevamo pretendere di diventare una testata di successo con pochi mezzi e tanta creatività. Piuttosto – come ripeteva il nostro direttore – dovevamo «puntare 17


a essere un settimanale che pensa sé stesso come autorevole». Dissonanza cognitiva e immaginazione, le uniche risorse illimitate. Quando ho messo piede per la prima volta alla Gazzetta del Pentapartito, otto mesi a valle di questa spumeggiante fonte di speranze, gli intellettuali avevano smesso di rispondere alle telefonate e i collaboratori si erano dati alla macchia (come gli stipendi dei redattori). In compenso i politici, ex capicorrente senza più partito, ciclostilavano interventi fiume, che passavano direttamente dal dittafono alle pagine del magazine. Emanuele e io rubavamo su internet immagini evocative (le fotoagenzie, non pagate, avevano chiuso i nostri rubinetti di pixel), impilavamo titoli geniali e costruivamo architetture narrative d’emergenza: sommarietti, catenacci e occhielli, ponti tibetani sospesi su infinite lagune di politichese. Rendevamo leggibile l’illeggibile, notiziabile l’infinitamente autoreferenziale. Nel mezzo infilavamo un’agenda degna del miglior giornalismo anglosassone, contrabbandando idee e punti di vista che avremmo avuto difficoltà a far emergere in un qualsiasi settimanale mainstream. Per un po’ è stato anche divertente. Il direttore editoriale presenziava le riunioni di redazione, trasformandole in un amarcord sul primato della politica nei bei tempi andati. Noi ascoltavamo mirabolanti intrecci tra servizi deviati, terroristi e insospettabili campioni della Costituzione con l’ammirazione del mozzo volenteroso di fronte al corsaro ingobbito. Perdonavamo quasi tutto, dalla cialtroneria spicciola ai comportamenti di rilievo penale. Ci sembrava di scorgere, in questo, la marea montante del nostro cinismo. Col senno di poi mi rendo conto che era solo l’autoinganno dei fiction-addicted, la disarmante ingenuità di chi dà una chance al suo carnefice, a patto che abbia una bella storia da raccontare. 18


Parafrasando il romanzo Saga di Tonino Benacquista, facevamo il giornale più bello del mondo, ma solo una pagina su tre e perché eravamo certi che nessuno l’avrebbe letto. Settimana dopo settimana, numero dopo numero, perdendo autostima e mezzi. Le riunioni col direttore diventavano sempre meno frequenti e le postazioni in redazione sempre più vuote. Ci siamo ritrovati in tre a scrivere, editare e impaginare, esclusivamente per il macero. Per non impazzire abbiamo trasformato il timone della rivista nel nostro parco giochi dei sogni giornalistici infranti. C’era da ciclostilare il resoconto di un incontro tra vecchi plantigradi della partitocrazia? Lo trasfiguravamo in un capolavoro assoluto di parallelismo convergente. Il capo imponeva l’ennesima “inchiesta” ad altezza Gabibbo? Eravamo in grado di partorire un’intera pagina di luoghi comuni, avverbi e articoli determinativi inclusi. Dove veniva meno il minimo sindacale della libertà di espressione, noi intervenivamo a smascherare il codice di questa violenza, sbandierandolo a tutti. Ovvero a nessuno, dato che nemmeno i consanguinei riuscivano a comprarci più. Aderire completamente alla narrazione che ci veniva imposta era l’unica forma di guerriglia, l’ultima forma di onestà intellettuale in un lavoro ridotto a mestieranza grottesca. Se non fossimo passati per l’esperienza della Gazzetta non avremmo mai avuto l’idea. E anche il mio destino professionale, forse, sarebbe stato diverso. In una redazione mai uscita dal Novecento Emanuele e io eravamo gli unici sotto i venticinque anni, per di più ascrivibili al variegato mondo della sinistra antagonista. Tra il 2001 e il 2006 ciò equivaleva a dover portare addosso la croce della macchietta no global. Una specie di figura mitologica metà guerrigliero e metà punkabbestia, da far passare a seconda del bisogno come nemico pubblico numero uno o disadattato con una propensione alle strategie di comunicazione. Un intero movimento ridotto 19


U MING 1 W A D A T DIRET OLLANA DIRETTA DA WU MING 1 C COLLANA

«Vuoi un delitto tra squillo?». «Ti serve un marito evirato?». «Ci sta una storia di decapitazione che potrebbe andare...». «In quel buco di due pagine mettiamo la mamma che è andata al bar col neonato morto nella borsa, che dici?».

ISBN 9788898841516

20

15,00 euro


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