Alegre hevalen qt10 promo

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SSO A R G E D I AV D DAVIDE GRASSO

N E L A V E HEVALEN H ONO E ERCHÉ S PERCHÉ SONO P MBATTER O C A O T NDA ANDATO AIRCOMBATTERE A IA ’ISIS IN L L’ISIS IN S SIRIA

Necirvan si avvicinò, sotto il sole. «Heval Tirej, la guerra è dura...». Non capivo neanche quel che mi diceva: gran, “duro”, lo compresi come volesse dire “giusto”, per qualche oscuro motivo. «Na», risposi, «sher ne gran e...», la guerra non è giusta, volevo dire, ma dissi non è dura. Restò sorpreso. Non capiva. Pensò che delirassi. Non aveva torto. «Heval Tirej... è meglio se torni nelle retrovie. La guerra è dura...». «Tamam», dissi, voltandomi a guardarlo negli occhi. «Possiamo parlare di quel che è successo?», chiesi. «Tirej, ne parleremo in assemblea...». «Tamam».

ISBN 9788898841783

16,00 euro

HEVALEN

DAVIDE GRASSO ha pubblicato reportage indipendenti dagli Stati Uniti e dal Medio oriente e diversi articoli di filosofia dell’arte e teoria della realtà sociale. Nel 2013 ha pubblicato New York Regina Underground. Racconti dalla Grande Mela per Stilo Editrice. Dal 2015 è attivo tra Europa e Siria in sostegno alla Federazione democratica della Siria del nord. Nel 2016 si è unito alle Forze siriane democratiche per combattere l’Isis.

MING 1 U W A D A DIRETT OLLANA DIRETTA DA WU MING 1 C COLLANA

DAVIDE GRASSO

gere la Siria e partecipare alla rivoluzione, armi alla mano. Uno di loro era Davide Grasso, militante del centro sociale torinese Askatasuna e del movimento No Tav. A fargli prendere la decisione è stata la strage al Bataclan di Parigi, il 13 novembre del 2015. Hevalen, che in curdo significa “gli amici”, “i compagni”, è la storia – ibrida, ruvida, entusiasmante – del suo viaggio, della sua guerra, delle contraddizioni che ogni rivoluzione si porta dentro e deve affrontare.

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ojava. In curdo vuol dire “ovest”, ma per arrivarci dobbiamo andare verso est, giungere nelle terre che un tempo chiamavamo Asia minore. “Rojava” è il Kurdistan siriano, dove dal 2011 è in corso una rivoluzione, il grande esperimento delle comuni e del “confederalismo democratico”. Un movimento di liberazione egualitario, libertario e femminista, ispirato al pensiero di Abdullah Öcalan e cresciuto come un bosco in pieno deserto, nel più devastato – e strategico – teatro di guerra del pianeta. Un processo sociale accerchiato da forze reazionarie e sanguinarie: l’Isis, il regime di Assad a Damasco e il regime del caudillo turco, Erdogan, appena oltre il confine. Nel 2014 abbiamo trepidato per Kobane, città assediata dall’Isis e difesa da forze popolari chiamate Ypg e Ypj. Abbiamo visto le immagini di donne guerrigliere sorridenti scalzare dai media quelle dei tetri tagliagole di Daesh, e poi la riscossa: da Kobane, divenuta la “Stalingrado del Medio oriente”, è partita una controffensiva che ha meravigliato il mondo. Meno di tre anni dopo è stata liberata Raqqa, sedicente “capitale” dello Stato islamico. Come non accadeva dai tempi della guerra civile spagnola, uomini e donne da tanti paesi hanno deciso di raggiun-


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COLLANA DIRETTA DA WU MING 1

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© 2017 Edizioni Alegre Società cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma redazione@edizionialegre.it www.edizionialegre.it Quinto tipo collana diretta da Wu Ming 1 Art director: Alessio Melandri Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purché non a scopo commerciale.

Analisi, notizie e commenti www.ilmegafonoquotidiano.it

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SOMMARIO PREMESSA DELL’AUTORE

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LIMBO 15 Strade di Parigi 15 Fuochi a Istanbul 22 Il massacro di Shingal 27 Partigiani di Farqin 32 La scelta 38 DIO È IL PIÙ GRANDE? Città santa Al-Aqsa Monte di Abramo Discesa a Betlemme Patriarchi all’inferno

45 45 49 54 59 63

OLTRE IL GIORDANO Sceicchi e senza Dio Partigiani dell’islam Strade senza ritorno Fronte di Mosul La Siria è vicina

71 71 76 81 88 93

FRONTIERA 97 Bugie e Peshmerga 97 Caffè con Natascia 101 Notte a Shingal 107 Profezie dal fronte 112 Fuga sulle montagne 119 OLTRE IL TIGRI La rivoluzione confederale Donne e potere Aleppo, Ginevra Morti di Bruxelles Fronte di Deir El Zor

127 127 132 139 144 147

SAPERE DELLE ARMI Che fare? Battaglia a Qamishlo Accademia Ypg Armi del socialismo Pensieri di morte

155 155 159 165 169 175

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FRONTE DI RAQQA Odore del sangue Vita in guerra Rivoluzione mondiale Città bandita Visione

183 183 187 196 199 204

OLTRE L’EUFRATE Luci dell’assassinio Occhi del popolo Verso le tenebre Vita nuova Sul limite

211 211 216 219 224 231

GUERRA URBANA Aria ai feriti La febbre di Manbij Ricambiare un favore Camminiamo sulla morte Una bambina

237 237 241 248 253 258

LETTO DEL RETTILE Un guerriero di Dio Strage a Nizza Grande avanzata Arabi, europei Massacro

263 263 269 274 279 284

IL DESERTO DENTRO Critica e tradimento Volere morire Amicizia o comunismo? Kobane in rivolta L’islam – cos’è?

291 291 296 302 307 313

LIMBO NUOVO 319 Caffè con Assad 319 Martiri di domani 324 Soltanto la morte 329 What’s democracy? 334 Lungo la Senna 339 RINGRAZIAMENTI 347

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Ai feriti Agli affetti dei caduti

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PREMESSA DELL’AUTORE

Non è un racconto romanzato, ma è un racconto reticente. Di alcune cose non ho voluto scrivere. I nomi delle persone che compaiono in questo resoconto sono assegnati in modo tale che l’identità della maggior parte di esse possa restare anonima. Kobane, Federazione democratica della Siria del nord ottobre 2017

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Soli militanti sono i martiri, poichĂŠ non conoscono il tradimento Un combattente libanese delle Ypg Qamishlo, ottobre 2017

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AIN ISSA TEL ABYAD KOBANE AFRIN

MANBIJ

ALEPPO RAQQA

JENIN NABLUS

DAMASCO

RAMALLAH GERUSALEMME BETLEMME HEBRON

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LICE AYGUN AMED

FARQIN ELIH CIZRE

DUHOK SHINGAL MOSUL ERBIL SULEIMANIYA

QAMISHLO AMUDE

KIRKUK

HASAKAH SHADDADI

BAGHDAD

DEIR EL ZOR MAKHMUR

TELL TAMIR SEREKANIYE

FALLUJA

NAJAF

NASSIRIYA

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LIMBO

Strade di Parigi

Mi lasciai alle spalle place de la République e rue du Faubourg du Temple con tutti i ricordi personali che vi associavo – tanti. Attraversai rue Bichat con angoscia, ripensando a quello che doveva esser stato, da lì fino all’angolo, ciò che era accaduto un anno prima. Vidi per la prima volta il locale: Petit Camboge. Lo immaginavo diverso. Era un ristorantino dal design moderno ed essenziale. Entrai, ordinai un tè. C’erano due ragazze a lavorare nel locale vuoto, ridevano e scherzavano tra loro. Una aveva una maglietta colorata con un disegno in stile rockettaro. Guardai dal vetro l’incrocio con rue Alibert e cercai di isolare me stesso e i miei pensieri. Provai a immaginare. Provai a raffigurarmi la Seat nera, durante un venerdì sera affollato, rallentare e fermarsi. Le portiere spalancarsi e poi il grido «Allah akbar»: Dio è il più grande. L’avrei sentito anch’io, qualche mese dopo gli spari al Petit Camboge; ma la notte del massacro non ero a Parigi, né in Siria, e non immaginavo cosa mi sarebbe accaduto. Mi chiesi quanti avessero capito, nell’attimo, cosa stesse accadendo. Quanti lo avessero inteso prima che il rumore assordante dei kalashnikov iniziasse a fendere 15

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l’aria. Lo conoscevo bene ormai quel rumore. Era passato soltanto un anno da quella carneficina ma la mia vita era cambiata completamente. Avrei voluto dire qualcosa alle due ragazze. Avrei voluto che mi raccontassero, poter loro raccontare. In quel locale i morti erano stati dodici. Non dovevano esser state loro a lavorare lì, quella sera maledetta; se sopravvissute, credo, non avrebbero mai voluto rientrare in quel locale. Vorrò tornare, io, a Manbij? Perché ora ero lì? Mi sentivo nervoso. Pagai, attraversai la strada. Entrai al Carillon. Un vecchio bistrot dall’aspetto rustico, molto carino. Due signore bianche dall’aria mezza ubriaca, un paio di signori al bancone, clienti regolari; un giovane nero ben piantato, con un cappotto pregiato e il portamento sicuro, intento a chiedere un demi. Ordinai un brandy e mi misi di nuovo alla finestra. La strada era completamente deserta. Erano rade pure le automobili. Eppure dovevo provare a immaginare il dopocena affollato del venerdì, il vociare, le grida, le risate. Dovevo immaginare la serenità e il chiasso. Dovevo ancora immaginare l’automobile fermarsi e la portiera – opposta a quella che dava sul Petit Camboge – spalancarsi in faccia a quella finestra, poi il suono dei proiettili. Tre persone muoiono, altre gridano, la pelle squarciata. Immaginare è come raccontare: impossibile. Ora lo so. Un anno di Europa ha già turbato la mia nuova coscienza, ma il fossile ruvido di quella consapevolezza vivida è nel cuore. La voce e la scrittura incrementano la distanza con l’emozione, intraducibile. Ero partito per la Siria, da solo, otto mesi prima. Ero partito per cercare chi aveva ordinato quella strage. Eppure io, prima di quel momento, al Carillon e al Petit Camboge non ero mai stato. Aveva un senso? Guardai il bancone in legno, le bottiglie sugli scaffali, la spillatrice della birra; le signore trasandate, i signori che chiacchieravano, l’uomo dal cappotto elegante. Assolutamente sì.

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Uscii. Scesi la strada verso il canal Saint-Martin, fino alla Bonne Bière, su rue du Faubourg du Temple. Mi fecero sedere su un grazioso tavolino nell’interno decorato. Quel genere di caffè è la cifra estetica, squisitamente pop, della città di Parigi. Le lampade, il color oro, le sedie belle epoque, gli specchi. Non c’era molta gente. Non ricordo che giorno fosse, comunque non un week end. Una donna bionda e magra, sui trent’anni, sedeva all’esterno. Chi, con quindici morti già sulla coscienza, aveva arrestato l’auto anche di fronte a quel locale, pochi istanti dopo aver colpito su rue Alibert, avrebbe considerato quella ragazza una peccatrice – per il solo fatto di sostare la sera, sola, di fronte alla gente della sua città, a due passi da République. Il suo volto scoperto, i suoi capelli offerti allo sguardo degli uomini come delle altre donne, la sigaretta tra le labbra, il bicchiere colmo d’alcol. Tutto questo sarebbe stato abbastanza per una condanna a morte pronunciata nel nome di Dio. La guardai a lungo mentre i fanali delle auto investivano di una luce continua le vetrate del locale. Attraversato il Medio oriente, anche una sera fredda come quella mi sembrava calda. Il caffè che avevo ordinato era delizioso. La gentilezza dei camerieri squisita. Il tepore di quel luogo, il sorriso della ragazza al corteggiatore sconosciuto che la raggiunse dopo un po’, vagamente trafelato, scusandosi divertito, mi ricordarono il verso di Primo Levi di cui non avevo mai compreso fino in fondo la profondità: «Cibo caldo, visi amici». Ciò che sarebbe stato negato per sempre ai compagni che avevo lasciato in Siria, almeno secondo i miei criteri. Ciò che io, essendo sopravvissuto, tornavo ad assaporare in quelle ore, con una felicità che non potevo quasi vivere, tanto era grande e strana. Mi congedai dal personale e chiesi a quella ragazza una sigaretta. La accesi attraversando la strada verso il ristorante Casa Nostra, dirimpetto, su rue de la Fontaine du Roi. 17

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Ero convinto di trovare un ristorante italiano, ma gli italiani non c’erano. Semmai, a un tavolo, una combriccola di giovani cinesi. Proprio quella strada, in cui quel 13 novembre 2015 tra Casa Nostra e Bonne Bière erano morte cinque persone, segna l’ingresso, verso est, in quella parte viva, popolare e piena di differenze che nella città di Parigi lo Stato islamico aveva voluto attaccare. Le donne che fumano, gli uomini che bevono, i musulmani che parlano con gli ebrei, i buddisti, i cristiani o i senza Dio, i giovani che danzano senza distinzione musica araba, americana o inglese. Persone di ambo i sessi cercano un’avventura. Persone dello stesso sesso cercano amore romantico o piacere carnale. Ragazzi escono stonati da casa, inventano soluzioni artificiali per il relax. Quante discussioni sull’Africa nera e l’Algeria si possono sentire più su, verso Belleville, tra sconosciuti alticci o ubriachi? L’est parigino, piccola Babilonia. Uno dei cuori di Paname. Sorseggiavo lo spritz accompagnandolo con ottime olive. Per questa passeggiata avevo risparmiato i soldi fin da Suleimaniya, in Iraq. In verità avevo iniziato a risparmiare già in Siria. Volevo vederli tutti, i luoghi colpiti da quei trogloditi un anno prima, volevo sostare in ciascuno di essi, lasciarvi del denaro. Quei banconi e quelle vetrate erano la mia linea del fronte, quella più personale – quella che i miei compagni, laggiù, avrebbero faticato a comprendere, ma avrebbero accolto comunque come fosse la loro, come accolgono tutto ciò che diviene parte della rivoluzione. Che quella cucina potesse continuare a svilupparsi, quella musica essere diffusa nell’ambiente, quelle bevande sorseggiate e distribuite, era per me un’ottima ragione di guerra. Quei luoghi e quelle serate erano la mia vita, la mia identità. Giunsi su boulevard Voltaire. Non mi sono mai piaciuti i grandi viali di Parigi. Preferisco le vie piccole, come Alibert o Bichat. A dirla tutta, Parigi non mi è 18

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mai piaciuta: troppo gonfia e retorica, impacchettata come un regalo, mortificante come una cartolina. Il calore della folla la sera, però, il continuo passaggio, il traffico del rientro, sono belli ovunque; e anche una riflessione su cos’è una metropoli d’arte nel capitalismo contemporaneo non può avere come presupposto che la disseminazione del dubbio, anziché la prevalenza della fede. Il potere di pensare fuori da un dettato divino è presupposto della critica, anche di quella alle retoriche pompose, ai regali avvelenati dall’etichetta, alle cartoline che non riescono a far sorridere. Alla mia destra, dopo alcuni minuti, il Bataclan. Mazzi di fiori, fotografie e bigliettini sul selciato o sulle finestre, mentre un nastro separava il locale chiuso dal marciapiede, i lavori ancora in corso. Lessi qualche pensiero qua e là, qualche frase. Persone ignote arrivate da luoghi diversi del mondo avevano voluto lasciare qualcosa di scritto. Ottantanove morti. Chi resta indifferente a un massacro del genere? Colpire un concerto rock è un’offesa suprema alla possibilità della vita. Ovunque la vibrazione distorta delle corde di una chitarra elettrica sibili nell’aria, inizia la tensione e l’attesa del ritmo, quindi anche ciò cui il ritmo allude: ricerca, scoperta, desiderio, un certo genere di appetito. Non è importante quale band suonasse quella sera. Provavo amicizia incondizionata per il pubblico: chiunque paghi l’ingresso a un concerto, ovunque nel mondo, è mia sorella o mio fratello. Bianco o nero, donna o uomo, etero o gay, lei o lui – che amano la musica – sono come me. Quando la notte del 13 novembre seppi che avevano fatto fuoco su chi era di fronte a un palco, provai un desiderio: il desiderio di ucciderli tutti. Di uccidere gli assassini. Di uccidere i mandanti. Otto mesi dopo, a nord di Aleppo, durante gli scontri lo avremmo urlato ai miliziani dell’Isis, io e altri volontari internazionali: «Qui non siamo a Parigi, qui non siamo 19

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al Bataclan». Là, tra il Mediterraneo e l’Eufrate, incalzati dall’avanzata inarrestabile delle Forze siriane democratiche, i vigliacchi che avevano pianificato la strage non potevano più sparare sui volti della mia generazione senza ricevere piombo in cambio. Valeria Solesin era entrata al Bataclan, quella sera. Aveva sentito come tutti le esplosioni dei colpi di fucile automatico alle sue spalle, e come molti altri avrà pensato si trattasse di petardi, di un effetto scenico, o di uno scherzo. Poi deve aver visto le persone cadere o gettarsi a terra, deve aver fatto lo stesso. L’aggressione di un folle? Una rapina? Deve aver capito l’abisso sentendo urlare a pieni polmoni, nuovamente, che Dio è il più grande – Allah akbar – deve essersi sentita perduta, come un giorno sarebbe accaduto a me, sotto quel grido, altrove. Giaceva a terra, forse fingendosi morta, quando uno dei miliziani la colpì alla testa con un proiettile, mentre passava in rassegna i feriti, per assicurarsi che fossero tutti morti. Questa violenza fatale ripetuta meccanicamente, il semplice e disincarnato gesto di premere il grilletto, senza rabbia e senza emozioni – come in una catena di montaggio: così quegli individui erano riusciti a suscitare il disprezzo del mondo. Avevo pensato fin da allora a Primo Levi. Dopotutto in Europa abbiamo già ricevuto dolore con l’accusa di aver peccato, ma i massacri dei prigionieri, trapassati in fila indiana per risparmiare i proiettili, sono giunti più tardi. Esistono fruscii di pagine che vanno difesi con i mitra. Nei giorni successivi all’attacco accolsi il volto di Valeria in me. Dottoranda a Parigi come ero stato io, in giro con italiani per l’undicesimo arrondissement come ero stato io. Inerme e indifesa, come tutti noi siamo, nelle nostre città. Con lei, e con le altre vittime, avevo stabilito in segreto un canale personale. I giovani europei avevano pagato. Noi, la generazione Erasmus, precaria 20

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e in viaggio, emigrante e fuori sede. Eravamo stati scelti come bersaglio dai guerrieri di Allah perché espressione di un modo di vivere inaccettabile. Siamo quelli, in effetti, che cambiano paese, scuola o università, lingua e lavoro molte volte nella vita, e sanno perciò quanto lo scambio e il viaggio siano essenziali alla maturazione di un pensiero che può, certo, accogliere la fede, ma resta orientato alla contaminazione e per questo al dubbio. Mi incamminai di nuovo, lasciandomi il teatro chiuso e triste alle spalle. Dopo pochi giorni avrebbe riaperto, nel primo anniversario della strage. Non ci sarei stato. Stavo tornando in Italia, per abbracciare la mia famiglia incredula. Il fasto dell’imminente cerimonia di Stato, in ogni caso, non mi interessava. La violenza era necessaria; ma ero partito per non delegarla a quegli squali in giacca e cravatta, ai loro intrighi e ai loro segreti, che infiniti Bataclan avevano distrutto nel resto del mondo. Preferii una passeggiata, il silenzio, e il gusto pieno di significato che avevano quei drink: una cerimonia privata. Vidi sulla sinistra il Cafè Voltaire. Non mi fecero entrare perché non ero in lista. Uno dei tre uomini che avevano compiuto la strage su rue Alibert e rue de la Fontaine era entrato, verso le 21:40 di quel 13 novembre, mentre i suoi complici si dileguavano a Montreuil, e altri tre entravano al Bataclan. Si era seduto e aveva chiamato il cameriere. Mentre quest’ultimo scriveva l’ordinazione si era fatto esplodere con tutto il dehor. Incredibilmente il cameriere era sopravvissuto. Chissà con quali ferite. Morì soltanto l’attentatore. Entrai in rue Charonne. Prima di andarsene i due miliziani che avevano scaricato l’uomo con la cintura esplosiva al Cafè Voltaire erano passati di fronte alla Belle Équipe. Mi commossi. Era un locale bellissimo, esattamente il genere di luogo in cui amerei andare, se ancora abitassi a Parigi, per qualche pensiero solitario o per condividere una tazza di tè. Ordinai un altro spritz. 21

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Necirvan si avvicinò, sotto il sole. «Heval Tirej, la guerra è dura...». Non capivo neanche quel che mi diceva: gran, “duro”, lo compresi come volesse dire “giusto”, per qualche oscuro motivo. «Na», risposi, «sher ne gran e...», la guerra non è giusta, volevo dire, ma dissi non è dura. Restò sorpreso. Non capiva. Pensò che delirassi. Non aveva torto. «Heval Tirej... è meglio se torni nelle retrovie. La guerra è dura...». «Tamam», dissi, voltandomi a guardarlo negli occhi. «Possiamo parlare di quel che è successo?», chiesi. «Tirej, ne parleremo in assemblea...». «Tamam».

ISBN 9788898841783

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DAVIDE GRASSO ha pubblicato reportage indipendenti dagli Stati Uniti e dal Medio oriente e diversi articoli di filosofia dell’arte e teoria della realtà sociale. Nel 2013 ha pubblicato New York Regina Underground. Racconti dalla Grande Mela per Stilo Editrice. Dal 2015 è attivo tra Europa e Siria in sostegno alla Federazione democratica della Siria del nord. Nel 2016 si è unito alle Forze siriane democratiche per combattere l’Isis.

MING 1 U W A D A DIRETT OLLANA DIRETTA DA WU MING 1 C COLLANA

DAVIDE GRASSO

gere la Siria e partecipare alla rivoluzione, armi alla mano. Uno di loro era Davide Grasso, militante del centro sociale torinese Askatasuna e del movimento No Tav. A fargli prendere la decisione è stata la strage al Bataclan di Parigi, il 13 novembre del 2015. Hevalen, che in curdo significa “gli amici”, “i compagni”, è la storia – ibrida, ruvida, entusiasmante – del suo viaggio, della sua guerra, delle contraddizioni che ogni rivoluzione si porta dentro e deve affrontare.

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ojava. In curdo vuol dire “ovest”, ma per arrivarci dobbiamo andare verso est, giungere nelle terre che un tempo chiamavamo Asia minore. “Rojava” è il Kurdistan siriano, dove dal 2011 è in corso una rivoluzione, il grande esperimento delle comuni e del “confederalismo democratico”. Un movimento di liberazione egualitario, libertario e femminista, ispirato al pensiero di Abdullah Öcalan e cresciuto come un bosco in pieno deserto, nel più devastato – e strategico – teatro di guerra del pianeta. Un processo sociale accerchiato da forze reazionarie e sanguinarie: l’Isis, il regime di Assad a Damasco e il regime del caudillo turco, Erdogan, appena oltre il confine. Nel 2014 abbiamo trepidato per Kobane, città assediata dall’Isis e difesa da forze popolari chiamate Ypg e Ypj. Abbiamo visto le immagini di donne guerrigliere sorridenti scalzare dai media quelle dei tetri tagliagole di Daesh, e poi la riscossa: da Kobane, divenuta la “Stalingrado del Medio oriente”, è partita una controffensiva che ha meravigliato il mondo. Meno di tre anni dopo è stata liberata Raqqa, sedicente “capitale” dello Stato islamico. Come non accadeva dai tempi della guerra civile spagnola, uomini e donne da tanti paesi hanno deciso di raggiun-


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