04 2018 mutualismo promo

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Salvatore Cannavò

Ritorno al futuro per la sinistra



Futuro anteriore



Mutualismo Ritorno al futuro per la sinistra di

Salvatore Cannavò


Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purchÊ non a scopo commerciale. Š 2018 Edizioni Alegre - Soc. cooperativa giornalistica Circonvallazione Casilina, 72/74 - 00176 Roma e-mail: redazione@edizionialegre.it sito: www.edizionialegre.it


Indice

Ringraziamenti Prologo Non più e non ancora

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Capitolo uno 19 La fine del movimento operaio Una vita in mezzo al guado 21 Fine dei margini 23 Populismo come crisi 25 Postdemocrazia 30 Dal sindacato dei Consigli ai consigli di amministrazione 31 Riscoprire le origini 41 Capitolo due La precarietà permanente Non più trenta La finanziarizzazione del capitale Le api e l’alveare Manifattura allargata e trappola 4.0 Classe, la crescita a sua insaputa La riproduzione sociale Il neoliberismo è politico L’unità è un progetto Salario, reddito, orario

45 48 52 54 56 60 61 64 65 68


Capitolo tre Quando tutto ebbe inizio Le cooperative di Marx Filantropi e socialisti Il Partito operaio italiano Mutualismo e resistenza Il modello francese

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Capitolo quattro Mutualismo politico Solidarietà, la prima parola Far da sé pensando Il politico che si fa sociale Il sindacalismo a insediamento multiplo Una costituzione sociale Il mutualismo da evitare Il mutualismo conflittuale Lineamenti di un mutualismo politico

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Capitolo cinque Democrazia dell’autogoverno L’impasse post-democratica Autogestione e autogoverno Le risorse della storia Lineamenti di una democrazia dell’autogoverno

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Bibliografia

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Ringraziamenti

Questo libro ha avuto una lunga gestazione. Nato come tentativo di interrogarsi sulla crisi profonda della sinistra, sull’esaurimento della spinta del movimento operaio novecentesco, ha finito per incontrare sulla sua strada un mondo di esperienze in grado di offrire alcune risposte. Il mutualismo, tema centrale del libro, non è ancora una teoria compiuta e non è detto che lo sarà. Chi scrive non ha ancora le competenze per addentrarsi nei meccanismi di un lavoro teorico essendo semplicemente un giornalista e un appassionato della politica da oltre trent’anni. L’augurio è di aver offerto un contributo per individuare alcune soluzioni, magari parziali e provvisorie, e reagire così all’impotenza che oggi vive chi spera in un futuro di uguaglianza, libertà e solidarietà. Quanto qui riportato non sarebbe stato possibile, quindi, se quel mondo di esperienze diverse, e in parte citate nel libro stesso, non si fosse manifestato e non avesse compiuto un atto politico, una presa di parola che, al di là delle stesse intenzioni, ha avuto una valenza generale. Per tutti voglio ringraziare il lavoro incessante degli operai della RiMaflow di Trezzano sul Naviglio, ormai famosi ovunque, che con la loro creatività hanno permesso di far venire a galla i germi di un nuovo mutualismo. E tra loro la visionarietà di Gigi Malabarba da cui tutto ha preso le mosse. Grazie anche a chi è stato disponibile a leggere le bozze e a consigliare 9


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miglioramenti, alcuni davvvero importanti: Marco Bertorello, Danilo Corradi, Daniele D’Ambra. Grazie in particolare a Giulio Calella e Pietro De Vivo per una professionalità messa al servizio della passione, a Wu Ming 1 per l’idea della prima persona nel prologo, al mio giornale, Il Fatto quotidiano, per avermi consentito sempre di esprimermi in piena libertà. E grazie a Flavia per il contributo che dà anche quando non se ne accorge e a Mattia ed Elisa cui magari un giorno queste storie serviranno.

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Prologo

Non più e non ancora

Faccio parte della generazione politica del “non più” e del “non ancora”. Ho aspettato con nostalgia “la meglio gioventù”, gli anni della rivolta e della partecipazione, purtroppo archiviati come anni di piombo, dal bel film di Margarethe von Trotta1 che nel 1981 offriva, involontariamente, un titolo depressivo al decennio appena concluso. Anni di lotte e di gioia raccontati solo come se fossero violenza. Gli anni Settanta sono stati invece gli anni maturi della democrazia italiana, della sua società, della sua classe operaia e dei suoi studenti. Gli anni che iniziano a distribuire un dividendo fatto di riforme: le pensioni, lo Statuto dei lavoratori, la legge Basaglia, la legge sull’equo canone, la riforma sanitaria. Risultati politici e giuridici di un rapporto di forza conquistato sul campo e che ha visto gli studenti diventare protagonisti sociali, gli operai riscoprire i Consigli, le donne affermare la liberazione sessuale e il femminismo, disturbante nel suo restituire parola. Le feste giovanili, la musica rock e quella punk; l’irriverenza, l’immaginazione che, se non arriva al potere, tratteggia sui muri slogan strepitosi; le feste in piazza, il mito del Che,

1  Anni di piombo è il film della regista tedesca Margarethe von Trotta ispirato alla vicenda delle sorelle Esslin di cui una, Gudrun, la minore, fu una terrorista della banda Baader-Meinhof e morì in carcere. Il film è dedicato ai difficili, eppur affettuosi, rapporti fra le sorelle.

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gli indiani metropolitani, “i Lama stanno in Tibet”; la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza, il divorzio e l’aborto, la battaglia contro il nucleare, l’antipsichiatria e la lotta per la casa; il cattolicesimo impegnato, i cristiani per il socialismo e il socialismo per tutti i cristiani, le radio libere e la libertà in radio, lavorare con lentezza e Ma chi ha detto che non c’è.2 Io ne ho soltanto un ricordo da bambino, immerso nelle partite di pallone, tra il raro passaggio di un’automobile e un tuffo sull’asfalto incerto, ancora ricoperto di terra e sabbia. I ragazzi dei cortei e delle occupazioni li scrutavo da vicino in una sala giochi di periferia, tra il biliardo e i biliardini. Erano gli anni in cui la politica attraversava la vita e si mescolava al fumo delle sigarette e dei tavoli consumati dove vecchi pensionati, e giovani ribelli, si dividevano le parti: da un lato il Ramino e la Scala quaranta, dall’altra tutti a imitare “lo spaccone”3 Paul Newman. Io aiutavo di tanto in tanto mio nonno, vecchio comunista in pensione che con la sala giochi arrotondava le sue magre trecentomila lire al mese. Non so come, ma mi ero messo a vendere sigarette di contrabbando. Le compravo da un ragazzino più grande di me, non so dove le prendesse, e le rivendevo in “bisca” come fosse una tabaccheria. Ogni volta che aprivo il cassetto della scrivania accanto ai flipper un po’ mi vergognavo e un po’ avevo paura. Fuori dalla porta, o nel salone più grande, quelli del corteo discutevano di governi con il Pci, di sprangate con i fascisti o di Fidel Castro che mio padre, emigrato in Venezuela a diciotto anni, era andato a sentire in piazza negli anni della sua emigrazione. Immancabile, poi, Berlinguer, colui che doveva portare l’Italia su altri lidi e che invece la lasciò in mezzo al guado. 2  Ma chi ha detto che non c’è è la canzone simbolo della contestazione di quegli anni, cantata da Gianfranco Manfredi, dà anche il titolo al suo libro sul 1977 (Agenzia X, Milano 2017). 3  Lo spaccone è un film del 1961 in cui Paul Newman, nel film Eddy lo svelto, è un abile giocatore di biliardo.

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Non più e non ancora

Gli scontri all’università li ho visti di sfuggita alla tv, attraverso gli occhi preoccupati di mio padre, anche lui comunista, che non aveva mezzi né tempo per capirli e spiegarmeli. La tradizione di famiglia era basata su quel comunismo quotidiano che si trasmette senza teorie. Parole semplici fatte di bisogni, di stipendi troppo bassi, di padroni che si arricchiscono, di dirigenti da ammirare. Tradizione comunista fatta di lucciconi agli occhi la sera del 20 giugno 1976 quando, nella periferia romana dove d’estate passavamo le serate sull’uscio delle porte o sui balconi a prendere il fresco, sembrava davvero che il Pci potesse governare. Che amarezza il compromesso con la Dc, la politica delle astensioni, la brusca inversione di speranze. La fine delle illusioni sarebbe arrivata prima che il Pci ammettesse l’impraticabilità dei governi con la Dc e invertisse la rotta tornando all’opposizione. Aveva i colori grigi della marcia dei quarantamila alla Fiat che nel 1980 fa da spartiacque tra gli anni della mobilitazione e quelli del riflusso; il sapore amaro delle elezioni del 1979 e quelle del 1983, con l’ascesa del filibustiere Craxi e della sua corte. Ha i toni da tragedia della mattina del 16 marzo 1978, il nome di Moro che diventerà icona della Repubblica e che in quei giorni agita le notti dei ragazzini. Quella mattina si giocava sul serio, torneo di calcio nel campo della chiesa di San Damiano, in via della Pineta Sacchetti a due chilometri in linea d’aria da via Mario Fani. Facevo parte della generazione del boom demografico ed eravamo così tanti alla scuola media, e le scuole così poche, che ci toccava fare i doppi turni. Tre giorni a settimana di mattina e tre giorni di pomeriggio. A memoria potrei dire che quel giorno fosse un giovedì (e in effetti lo era), si andava a scuola il pomeriggio, e la mattina l’intera zona nord di Roma fu ricoperta dal suono delle sirene e dal grigiore del cielo di marzo. A casa si respirò aria di guerra civile e si capì subito che i giorni a venire sarebbero stati opprimenti. Ma più di tutto fu l’arrivo a scuola, subito dopo pranzo, a segnare la mia giovane coscienza: “Avete visto che avete combinato?”, fu l’accoglienza dei compagni più destrorsi, che nel ‘78 si era politicizzati anche in terza 13


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media. Non sapevo di essere comunista e ancora meno sapevo che quello che era successo mi riguardasse. Rendere conto del terrorismo “rosso” a tredici anni, rendere conto di colpe non mie. E così è stato a lungo, per chi voleva la rivolta e la ribellione negli ormai pacificati anni Ottanta. Quel decennio lo percorro, ormai ventenne, con la testa rivolta all’indietro, a cercare sprazzi di luce, speranze che non torneranno. Occorre accontentarsi della resistenza declinante del nuovo tempo, limitarsi a osservare la pletora di ex dirigenti e di politici navigati che si rendono proni agli yuppies imperanti e ai “nani e alle ballerine”4 del rampante Psi. Il Pci si avvita nella lunga crisi che lo porterà allo scioglimento-cambio di nome, i movimenti si fanno sporadici e si chiudono nelle stanze di un centro sociale, nelle aule di qualche università, nei gruppi femministi e in altre realtà, senza parlarsi. L’incontro con la politica militante avviene però lo stesso all’università, facoltà di Scienze politiche, aula del collettivo politico. Che siamo dentro un riflusso inarrestabile non è ancora chiaro, ci aspettiamo che “il movimento” riparta. E l’università diventa palestra di assemblee, scontri, iniziative e manifestazioni. I più simpatici sono i trotskisti. E quando mi sento accomunato a loro corro a leggere sul dizionario Tuminelli, l’unico che possiedo, chi fosse Trotsky. E scopro che a sinistra del Pci, dell’Urss, di Stalin e degli errori che allora mi sembrano chiari, c’era un’altra strada. Quella strada per circa trent’anni è anche la mia. Ma non succede nulla fino alla fine degli anni Novanta, quando lontano da occhi indiscreti a Seattle si apre uno squarcio nella rete grigia del neoliberismo. Finalmente si vede il colore. Ed è grazie a un’altra rete internazionale, quella dei “trotskisti”, di cui fanno parte Christophe Aguiton, Daniel Bensaïd, i dirigenti del Pt di Porto Alegre in Brasile, che mi accorgo che 4  L’espressione, famosa nel giornalismo politico, fu coniata dal socialista Rino Formica per indicare la pletora di persone dello spettacolo che il Partito socialista di Craxi immise nei suoi organismi dirigenti.

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Non più e non ancora

qualcosa sta per accadere.5 Ne scrivo in solitudine sull’allora quotidiano di Rifondazione comunista, Liberazione, in cui lavorerò per tredici anni fino all’abbandono di quel partito. Andrò a Porto Alegre, alla prima edizione nel gennaio 2001, unico giornalista insieme ai colleghi del manifesto. “Un altro mondo è possibile” corre veloce di bocca in bocca, in tutte le lingue del mondo, in ogni parte del mondo. Ma quegli anni sono gli stessi in cui la sinistra, non solo in Italia, comincia a organizzare la propria scomparsa. Invece di gettare le poche energie rimaste sulle ali di quella nuova speranza, la sinistra politica, allora Rifondazione comunista, dopo la svolta di Genova e del movimento contro la guerra, si arrocca e si fa moderata, sceglie l’alleanza con una versione improbabile di sinistra riformista, farfuglia di “alternanza propedeutica all’alternativa”,6 di scommessa storica per la sinistra, senza leggere i rapporti di forza, senza guardare al tessuto sociale, senza fare un’analisi rigorosa. Quella sinistra, nata agli inizi degli anni Novanta, sembrava davvero potesse rappresentare un’inversione di tendenza alla sconfitta. Ma invece di cogliere quell’ondata, e mettersi a disposizione di una nuova impresa politica – di una nuova “giraffa”7 fatta di partiti e associazioni, di culture diverse, di nuovi programmi – il Prc, che pure si impegna a fondo in quel movimento divenendone una colonna portante e, proprio per questo, suscitando molteplici attese, alla fine si accontenta di succhiarne il sangue elettorale, disponendosi a credere che alleandosi alle formazioni della sinistra moderata i movimenti e le chances di alternativa saranno più robuste.

5  Da quella vicenda ho tratto il mio primo libro, Porto Alegre. Capitale dei movimenti, manifestolibri, Roma 2002. 6  La formula è riferibile a Fausto Bertinotti, allora segretario del Prc, che la utilizzò per giustificare l’alleanza con l’Unione di Prodi nel 2006 come una fase di alternanza politica da cui sarebbe scaturita l’alternativa. 7  Alla giraffa, “uno strano e originale animale”, Togliatti paragonò il Pci per segnalarne l’estrema originalità nel secondo dopoguerra.

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Accade il contrario. Con il Governo Prodi del 2006-2008, a cui partecipo da parlamentare di maggioranza, i movimenti si liquefanno, la ritirata e l’ennesima disillusione saranno dirompenti. Noi che ci opponiamo a quella deriva, che votiamo contro il Governo sull’Afghanistan – in effetti fummo più di uno8 – pensiamo che grazie a quell’atteggiamento magari ci sarebbe stato uno scatto, una reazione. Che da quella esperienza si sarebbe potuti uscire con qualche alternativa. Invece non c’è rifugio per nessuno, nessun riparo. La sinistra “radicale” si perde nell’impossibilità di far conciliare lotta di piazza e governo delle società capitalistiche. La “sinistra della sinistra” radicale viene schiacciata inesorabilmente. Quella moderata, era già passata con tutte le sue forze al liberismo cercando, inutilmente, di correggerlo. Per quanto mi riguarda, la fase della politica partitica, con responsabilità formali – vicedirettore del quotidiano Liberazione, poi membro della Direzione del Prc, parlamentare, fondatore di Sinistra Critica – si chiude poco dopo le dimissioni da Liberazione. Nei due anni che seguono la fine del Governo Prodi assaggio la disoccupazione e mi metto a disposizione del “mercato” fino a incrociare l’avventura del Fatto quotidiano che riscalda il mio amore per il giornalismo. Nei dieci anni che seguono, la sinistra radicale diventa solo una suggestione, l’esperienza surreale legata alla candidatura Ingroia nel 2013 lo testimonia. Un po’ d’aria si respira con i movimenti: resiste la Val di Susa, si apre la stagione dei “beni comuni” e del “comune”, la vittoria al referendum sull’acqua nel 2011 apre qualche speranza, qualche sindaco ne beneficia, si affermano comitati territoriali contro le Grandi opere, nascono le prime esperienze di mutualismo. La strada del futuro viene tracciata in sordina, occorre iniziare a seguirla. 8  Il voto sull’Afghanistan fa riferimento, nella pubblicistica, a quello dell’allora senatore di Rifondazione comunista, Franco Turigliatto. In realtà a votare contro fummo in diversi, sia nell’estate del 2006 e poi ancora nel 2007 anche se il voto di chi, come il sottoscritto, era alla Camera dei deputati non fu mai drammatizzato per via della piena maggioranza che allora l’Unione aveva in quel ramo del parlamento.

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Non più e non ancora

Penso di aver avuto ragione negli anni in cui mi sono scontrato con le scelte maggioritarie, fossero del partito o del Governo, e che i fatti lo abbiano confermato ampiamente. Avevo, avevamo, ragione a dire che abbandonare il movimento no-global per allearsi con Clemente Mastella avrebbe condotto la sinistra alla disfatta; ragione nello spiegare ai governi di centrosinistra che a furia di fare le politiche di destra avrebbe vinto non solo la destra, ma quella più estrema. Ragione a sostenere che occorresse rifondare la politica, cogliendo i germi dell’autopolitica che la società presentava in bello stile, non solo con i “vaffa” del Movimento cinque stelle ma, ad esempio, anche con l’Onda studentesca del 2008.9 Aver avuto ragione, però, non consola. La sconfitta riguarda tutti, il disastro politico che abbiamo alle spalle non assolve nessuno. Nel momento in cui è tutta la sinistra a giocarsi la sopravvivenza, pensare oggi al solo campo della sinistra radicale può sembrare velleitario. Anche perché, dopo aver organizzato la propria scomparsa, questa sinistra si incrudelisce sui propri resti, saltellando, senza ali, da un’elezione all’altra. E invece è finito un tempo storico, il movimento operaio conosciuto nel Novecento non esiste più, i suoi strumenti fondamentali, il partito e il sindacato, o anche le cooperative, parlano un’altra lingua. Restano brandelli di certezze su cui costruire un futuro. Daniel Bensaïd, nella conclusione della sua autobiografia, ricorda all’inizio degli anni Zero che «il paesaggio politico è attualmente devastato dalle battaglie perse senza neanche averle fatte». Ciò non di meno, «le forze necessarie alla ricostruzione esistono e il rapporto tra capitale e lavoro resta un rapporto asimmetrico: il primo non potrà mai fare a meno del secondo, mentre il secondo può benissimo fare a meno del primo».10 È un buon punto di partenza per una rotta. 9  Aa. Vv., L’Onda anomala. Alla ricerca dell’autopolitica, Alegre, Roma 2009. 10  Daniel Bensaïd, Una lenta impazienza, Alegre, Roma 2012.

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Ribadisce poi, come André Breton nei Prolegomeni a un terzo manifesto del surrealismo o no, che «occorre che cessi lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo», che «cessi lo sfruttamento dell’uomo da parte del presunto Dio» e che «sia rivisto da cima a fondo, senza tracce di ipocrisia e in una maniera che non può più avere niente di dilatorio, il problema dei rapporti tra l’uomo e la donna».11 È un buon punto di partenza per un programma. Se una possibilità esiste non sarà data da mosse a effetto o da tristi rimpatriate di vecchi gruppi dirigenti, ma da idee ed energie nuove. Occorre ripensare le categorie che ci hanno guidati, oltre che fare impietosamente i conti con gli errori commessi. Guardare negli occhi i nuovi soggetti e i processi di politicizzazione. Mettere alla prova le vecchie certezze, mescolare le proprie convinzioni con altre intuizioni, miscelare le progettualità. Qualcosa di buono può venire da un rimescolamento delle carte. Siamo stati comunisti, trotskisti, anarchici e libertari, movimentisti ed ecologisti, femministe, socialisti di sinistra e riformisti radicali. Le soggettività del domani e le scelte politiche conseguenti dovranno far tesoro delle migliori tradizioni. Abbiamo vissuto al tempo in cui si costruivano sinistre a sinistra di un’altra sinistra. Oggi andrebbe bene se ce ne fosse una decente. Non siamo più dove eravamo e non ancora dove vorremmo essere. Ma dovremo farci trovare dove non ci cercheranno.

11  Ivi.

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Capitolo uno

La fine del movimento operaio

Con le elezioni del 2018 della “scomparsa della sinistra” si sono accorti i più. Il tema in realtà si era già posto nel 2008, quando la sinistra radicale rimase fuori dal Parlamento1 e aveva avuto già una sua evidenza nel 2013 quando alla “non vittoria” del Pd guidato da Pierluigi Bersani si associò un risultato disastroso per la solita sinistra radicale, stavolta riunita attorno all’improbabile candidatura di Antonio Ingroia nella lista Rivoluzione civile.2 Nel 2018, però, il dato è più clamoroso: il Pd scende sotto il 20% e, conteggiando tutta la coalizione, raggiunge 7,5 milioni di voti contro gli oltre 10 milioni del 2013 e i 12 milioni ottenuti da Walter Veltroni nel 2008. Gli scissionisti del Pd, insieme a Sinistra italiana nella lista Liberi e uguali, raccolgono appena il 3,3% e poco più di un milione e centomila voti (gli stessi che aveva preso Sinistra e libertà nel 2013), mentre l’altra lista della sinistra radicale, Potere al popolo, si ferma all’1,1% con sole 370mila preferenze. La scomparsa però non può stupire se si guarda con onestà agli ultimi dieci anni e, meglio, agli ultimi quaranta. Veltroni, nel 2008, pensa di essere maturo per l’alternativa bipolare e sceglie di sfidare Berlusconi – che alla fine del 2007 1  Alle elezioni del 2008 la Sinistra arcobaleno, cartello elettorale formatosi nel 2007 e guidato dal presidente della Camera, Fausto Bertinotti, che raggruppava Prc, Pdci, Verdi e la Sinistra democratica uscita dal Pd, non raggiunge la soglia di sbarramento del 4%, fermandosi al 3,1% con 1,1 milioni di voti. 2  Rivoluzione civile otterrà nel 2013 il 2,25% e 765mila voti.

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Mutualismo

F u t u r o

a n t e r i o r e

Il mutualismo conflittuale è dunque politico nel senso che mentre esiste rivendica già il nuovo. Esprime una solidarietà “contro” lo stato di cose presente, ma esige anche una solidarietà “per”, fatta di risposte immediate a bisogni immediati. Il mutualismo è politico perché valorizza di nuovo “l’agire in comune”, la cooperazione non solo produttiva, ma morale, intellettuale, solidale su cui si è fondato il movimento operaio nella storia. L’attuale fase di smarrimento richiede la stessa capacità di inventiva e innovazione di cui diedero prova gli operai e gli intellettuali della seconda metà dell’Ottocento. Se una sinistra vuole avere un futuro dovrebbe avere il coraggio di riscoprire le sue origini.

ISBN 97-88-898841-86-8

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