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Giacomo Russo Spena Steven Forti

Ada Colau la cittĂ in comune Da occupante di case a sindaca di Barcellona

Con un’intervista a Luigi de Magistris

Tempi moderni

Ada Colau la cittĂ in comune Da occupante di case a sindaca di Barcellona di

Giacomo Russo Spena Steven Forti con un’intervista a

Luigi de Magistris

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Indice

Introduzione Intervista ad Ada Colau

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Capitolo uno Una vita nei movimenti

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Capitolo due Da Guanyem Barcelona a Barcelona en Comú Conquistiamo Barcellona!

La “confluenza” dei partiti La lista e il programma Il “run run” di Ada La vittoria del 24 maggio Gli undici eletti

43 48 54 63 66 68 71

Capitolo tre 75 I segreti del successo di Barcelona en Comú Barcellona, la Rosa de Foc 77 Da Pasqual Maragall a Xavier Trias 82 Ada, Alcaldesa 86 Capitolo quattro I primi mesi in Comune Obiettivo: lottare contro la disuguaglianza Barcellona, ciudad refugio Trasparenza e partecipazione E i movimenti sociali?

Critiche ed errori

95 97 103 106 108 113

Capitolo cinque L’Europa del neomunicipalismo

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Capitolo sei 135 Oltre il municipio Catalunya Sí Que Es Pot 136 En Comú Podem 140 Podemos, Plan B e Diem25 146 Conclusioni

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Postfazione Intervista a Luigi de Magistris

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Ringraziamenti 169

Ada Colau, la cittĂ in comune

Introduzione

Intervista ad Ada Colau

Diretta, schietta, immediata. Quando parla, ci guarda fisso negli occhi. Non abbassa mai lo sguardo, nemmeno alle domande più scomode. Non sembra conoscere il politichese né linguaggi intellettualoidi. Ada Colau, 42 anni, viene dal popolo: “Sono cresciuta in un quartiere povero e fin da piccola mia madre mi portava alle manifestazioni durante la Transizione.1 Ho sempre fatto politica in strada, mi sento un’attivista per i diritti sociali”. Dai movimenti di lotta per la casa alle istituzioni: sindaca di Barcellona dal giugno 2015. Il grande salto.

Ci accoglie nell’Ajuntament. Il Comune è un palazzo stile barocco. Lo sfarzo. Ci sediamo su un divano in una sala magnifica con affissi vari Mirò. La sua stanza. “Era già così, non c’è niente di mio”, quasi si giustifica Ada Colau mentre ci indica una foto sulla sua scrivania, “è l’unica cosa che ho scelto e voluto”. L’immagine ritrae l’anarchica antifranchista Federica Montseny. “Qualche giornalista mi chiede se è mia nonna, figuriamoci!”, sorride. Si stempera la tensione. Una capacità innata di creare empatia col prossimo. La pasionaria degli Indignados.

Nella conversazione ci impone di utilizzare il tu: “Ho sempre ammirato l’Italia”.

1 Col termine Transizione si intende la transizione dalla dittatura franchista alla democrazia, ossia il periodo compreso tra il 1975, anno della morte di Francisco Franco, e il 1978, anno dell’approvazione della Costituzione spagnola. Alcuni storici allargano questo periodo fino al 1982, anno della vittoria alle elezioni del Partito socialista guidato da Felipe González.

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Ada Colau, la città in comune

Partiamo proprio dalla tua storia personale. Come ti sei avvicinata alla militanza politica e qual è la tua formazione culturale?

L’inquietudine politica ce l’ho da quando sono adolescente, già dal liceo. Mentre all’università, dove mi sono iscritta alla facoltà di filosofia, ho militato nel collettivo studentesco. Poi una breve parentesi in Italia, a Milano, per l’Erasmus. Al mio ritorno, nel 2001, sono entrata in contatto con il movimento No Global: mi ricordo una protesta a Barcellona contro la Banca Mondiale, in quell’occasione ho conosciuto Pablo Iglesias.

Nel 2001 venne il G8 di Genova, non ci andai ma seguii tutto da qui. Ho sofferto vedendo quelle immagini brutali, ho pensato ai miei amici presenti, alla morte di Carlo Giuliani. In quel momento ho vissuto un processo di politicizzazione maggiore, ho assunto piena consapevolezza: un’intera generazione aveva il desiderio di attivarsi, in prima persona, andando oltre le forme classiche della politica.

Il premier greco Alexīs Tsipras ha sempre guardato con interesse all’Italia. Così il leader di Podemos, Pablo Iglesias, che è entrato in contatto coi “Disobbedienti” nostrani. Una sorta di generazione di Genova. Per te l’Italia cosa ha rappresentato?

Un punto di riferimento, non soltanto politico ma culturale. Durante la mia esperienza a Milano ero piccola e non sono andata oltre la frequentazione di qualche spazio sociale.

Successivamente, nella fase di espansione del movimento No Global – oltre a denunciare la globalizzazione come processo a-democratico – ho deciso di occuparmi del movimento per il diritto all’abitare. La precarietà era una delle conseguenze concrete delle politiche imposte dall’alto e l’Italia ha avuto un ruolo cardine, lanciando ad esempio la MayDay [la manifestazione dei precari del primo maggio a Milano, N.d.R.] o varie mobilitazioni sui cosiddetti “invisibili”. Visto il primo maggio a Milano, abbiamo ripetuto una MayDay a Barcellona 10

Introduzione

focalizzata sul tema della casa. Quello che più colpiva e precarizzava la mia generazione in Spagna era infatti proprio la questione abitativa.

Dalla Pah (Plataforma de Afectados por la Hipoteca), un movimento sociale apartitico, al grande salto come sindaca di Barcellona. I movimenti nella loro storia, quando hanno provato ad autorappresentarsi, hanno sempre ottenuto flop elettorali, ultimamente anche in Spagna con l’esperienza del Partido X. Come è stato possibile il modello di Barcelona en Comú?

Si è passati dall’indignazione di piazza ad una proposta politica: volevamo far parte della soluzione e attuare il cambiamento grazie al protagonismo cittadino, senza cadere nel tranello dell’“autorappresentanza”. Tra l’altro Barcelona en Comú non ha voluto rappresentare i movimenti sociali. La scelta è stata dettata dalla fase di eccezionalità che sta attraversando la Spagna: una crisi economica, politica e morale.

Un sistema sta collassando per la corruzione generalizzata e l’inadeguatezza dei partiti. C’è una distanza abissale, francamente pericolosa, tra le istituzioni e i cittadini, che oltre a causare la sofferenza della gente produce una sensazione di disintegrazione delle istituzioni democratiche che in altre parti d’Europa sta portando al risorgere di movimenti populisti di estrema destra. In tale contesto ci sono state grandi mobilitazioni sociali: la Pah, il 15M, le “maree” per l’educazione e la salute. Si è individuato uno spazio politico vuoto che il sistema partitico tradizionale non è riuscito a colmare: i partiti per troppi anni sono stati l’unica espressione della partecipazione democratica, ma con il cambiamento della società, ora molto più “liquida”, si dimostrano inadeguati, con una struttura insufficiente. Come minimo bisognerebbe rifondare l’idea di partito, rendendolo meno verticistico, opaco, burocratico ed elettoralistico. Così, come movimenti, abbiamo fatto dal basso una riflessione collettiva anche sulle istituzioni, sul desiderio di sanarle da dentro perché rispondessero agli interessi 11

Ada Colau, la città in comune

della maggioranza della popolazione. “Bisogna recuperarle per metterle al servizio della gente e per aggiornare il sistema democratico”, ci siamo detti ai primi incontri di Barcelona en Comú. È una riflessione collettiva e si produce a più livelli come dimostra il risultato nazionale di Podemos. E pensare che molti di noi, negli anni, non si erano mai interessati alla rappresentanza istituzionale, ai partiti, e avevano rifiutato di candidarsi anche come indipendenti.

Chi ti aveva proposto la candidatura?

Alle elezioni precedenti sia Iniciativa per Catalunya che la Candidatura d’Unitat Popular (Cup) mi avevano chiesto di presentarmi nelle loro liste. Avevo rifiutato perché non era il mio cammino. Il nuovo scenario, l’eccezionalità politica della Spagna, ci imponeva di costruire qualcosa di diverso.

Da subito avete avuto l’ambizione di governare? Fin dalla prima riunione?

Sì, bisognava vincere. Non volevamo fare un partito politico per ottenere una rappresentanza testimoniale col 6-7 per cento, per far questo potevamo aggregarci a una forza già esistente.

Era necessario compiere uno sforzo per mettere insieme gente diversa, con obiettivi concreti comuni. Ripartire dal protagonismo delle persone e realizzare una rivoluzione democratica con nuove forme del fare politica, più trasparenti, che impedissero la corruzione e mettessero al centro le priorità della cittadinanza, non quelle dei partiti. Da qui è nata Barcelona en Comú.

“Il governo del cambiamento”, così più volte hai definito il tuo mandato. Il cambiamento passa per la giustizia sociale e nuove forme di democrazia diretta?

Più che di democrazia diretta parliamo di “approfondimento della democrazia”, ovvero partecipazione ma anche 12

Introduzione

trasparenza, rendicontabilità delle cariche pubbliche e nuovi meccanismi per eliminare la corruzione, l’opacità, le “porte girevoli” tra consigli d’amministrazione e consigli dei ministri e altre cattive abitudini del sistema. I cittadini devono avere un controllo reale delle risorse pubbliche e per questo ci siamo presentati alle elezioni con un codice etico – che tutti noi rappresentanti abbiamo firmato – agende pubbliche, forme di rendicontabilità concrete, cariche revocabili, impossibilità di accumulare cariche. Il nostro secondo asse poi sono i diritti sociali e la tutela delle fasce più deboli. Veniamo da una bolla immobiliare che è stata disastrosa non solo per le ingiustizie e le diseguaglianze provocate ma anche in termini economici, una rovina per il paese. È mancata un’economia del bene comune. A Barcellona, ad esempio, c’era il rischio di passare dalla monocultura della speculazione immobiliare a quella del turismo fuori controllo. Così l’abbiamo regolamentato. Inoltre bisogna scommettere in settori come le energie rinnovabili, la rigenerazione urbana, l’innovazione tecnologica al servizio degli obiettivi della società.

Seguiamo un modello sostenibile abbandonando le politiche speculative degli ultimi anni.

Come portavoce della Pah più volte hai definitivo le banche “un potere criminale”. Il primo incontro da sindaca l’hai avuto proprio coi banchieri. Com’è andato, ce lo racconti?

Erano impauriti (ride). Da prima cittadina di Barcellona ho spiegato che la maggioranza della popolazione è esasperata dalle loro politiche che rovinano e condannano la gente alla miseria. Sono riuscita a negoziare che ci dessero centinaia di appartamenti vuoti per metterli a canone concordato e abbiamo inserito clausole sociali nei contratti: così abbiamo risparmiato denaro pubblico riducendo anche le commissioni. Insomma, ho fatto sì che la relazione e i rapporti di forza con le banche cambiassero. È finita l’era della politica sottomessa al potere bancario.

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Ada Colau, la città in comune

Vieni dal sociale e prometti, da sindaca, misure per contrastare privatizzazioni e diseguaglianze. Nel tuo programma c’è spazio per i diritti civili?

Diritti civili e sociali vanno di pari passo e hanno la medesima importanza per Barcelona en Comú. Una delle grandi battaglie che abbiamo di fronte è sulle donne perché dobbiamo estirpare dalla società la violenza maschilista. Le istituzioni hanno sempre considerato il tema residuale e marginale invece io, sin dall’inizio, l’ho collocato tra le questioni principali, insieme al tema dei diritti della comunità gay-lesbica-trans e dei migranti. Ci vuole coraggio per legiferare sul tema delle libertà fondamentali. E a noi non manca.

Qual è il giusto rapporto da instaurare tra movimenti ed istituzioni? Non temi di deludere le aspettative e in qualche modo di farti cooptare dal sistema?

Non ho nessuna paura del conflitto di piazza, al massimo avrei paura se non ci fosse più. Non c’è democrazia senza conflitto. Qui abbiamo un vantaggio: abbiamo imparato dagli errori del passato. Durante la Transizione si ebbe una visione lineare del progresso e pensammo che una volta ottenuta la democrazia non sarebbe servita la mobilitazione sociale perché ci avrebbero pensato i rappresentanti della sinistra eletti dal popolo. Fu un grande sbaglio. Lo stesso Movimiento Vecinal2 ha trasmesso alle nuove generazioni questa lezione e tutti abbiamo ben chiaro che la migliore Barcellona che sia mai esistita si è costruita grazie a quartieri organizzati e a una cittadinanza critica, attiva ed esigente e da lì sono uscite le migliori conquiste. Quindi abbiamo bisogno che la città continui a essere in 2 Il Movimiento Vecinal ebbe un ruolo chiave durante il tardo franchismo e la Transizione alla democrazia. Nato dal basso e organizzatosi in associazioni di quartiere, federate a livello cittadino e regionale, si diffuse in tutta la Spagna: fu il collante delle lotte sociali e politiche, quando i partiti erano ancora illegali. Con le elezioni comunali del 1979, le prime in democrazia, iniziò a perdere protagonismo.

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Introduzione

mobilitazione e non pacificata, perché il potere tende all’abuso e alla corruzione.

Sì, ma come pensi di risolvere il complesso rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, ossia come non correre il rischio che dovendo amministrare il Comune, i conflitti sociali diventino un problema invece che un’essenziale risorsa?

I movimenti sono la chiave del cambiamento e svolgono un ruolo cardine nel rinnovare le forme e le pratiche della politica.

E soprattutto devono sempre essere autonomi. Ci saranno sempre in una città come Barcellona le pressioni delle lobby e dei grandi interessi economici, abbiamo bisogno che la cittadinanza sia in mobilitazione per spingere verso l’interesse generale.

Ovviamente coi movimenti deve esserci un’interlocuzione permanente, è il momento di aggiornare le nostre istituzioni, renderle più trasparenti e aprire a nuove modalità di cogestione: dobbiamo esplorare oltre la dicotomia pubblico/privato, investendo su una terza gamba che è il “comunitario” nel quale ci si “corresponsabilizza”. Il comune. Le istituzioni sono in ritardo, lente, rigide e rimaste in un’altra fase mentre la cittadinanza è già molto più agile, lavora in rete, fa innovazione costante, con poche risorse fa grandi cose. A Barcellona le migliori esperienze di gestione culturale e civica, non a caso, si stanno producendo in quartieri socialmente attivi dove le organizzazioni sociali si sono inserite in progetti, penso a Can Batlló o storicamente all’Ateneu de Nou Barris. Dobbiamo imparare che non si tratta di rappresentare ma di mettere le risorse al servizio della gente che vuole essere protagonista, si tratta di co-decidere e di creare un dialogo, poi ciascuno svolge il proprio ruolo in autonomia. Ci vorrà anche tempo e sarà necessario un ulteriore empowerment personale e collettivo, ma ce la faremo.

Hai un programma molto ambizioso con Barcelona en Comú, non hai paura di tradirlo o che il Palazzo ti plasmi in qualche modo?

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Ada Colau, la città in comune

Sicuramente non temo di essere corrotta né di cedere ai privilegi della res publica ma ho paura che l’istituzione distragga. Quando arrivi qui, l’agenda del sindaco è già piena di atti e rappresentanze ed è facile perdere il contatto con la realtà quotidiana. È importante rimanere in allerta per modificare la routine dell’amministrazione e assicurarsi di stare nel luogo giusto, cioè fuori dall’istituzione. Bisogna essere ambiziosi e utopisti per realizzare il cambiamento. È pur vero che l’arte del governo è il mondo dell’imperfezione, però quanto più la cittadinanza è mobilitata tanto più siamo vicini a far bene, su questo non ho alcun dubbio.

Barcelona en Comú rappresenta un’esperienza di “neo-

municipalismo”?

Siamo un modello in costruzione, una scommessa per tutta la mia generazione che ancora non avevamo vissuto. Credo che il municipalismo sia la chiave per un cambiamento democratico in profondità dal basso verso l’alto. Con tutta l’umiltà e senza massimalismo abbiamo deciso di democratizzare un sistema e il miglior luogo per cominciare era questo: il luogo della vita quotidiana e della prossimità. Chiaro, i cambiamenti non avvengono in una o due elezioni ma si producono col tempo, intanto si stanno imponendo nuove forme di fare politica.

Ci sono state altre esperienze di “democrazia diretta e partecipativa”: Porto Alegre, gli zapatisti, i curdi del Rojava o le realtà di autogestione vissute durante la guerra civile spagnola o nella Comune di Parigi. Ti sei mai ispirata a uno di questi modelli?

Cominciare da zero sarebbe stato una grande fatica, per fortuna queste esperienze ci hanno preceduto e in qualche modo formato: dai movimenti sociali durante la Transizione alla democrazia al Movimiento Vecinal e le lotte operaie. Poi ovviamente gli zapatisti, i movimenti antiglobalizzazione nel senso 16

Introduzione

più ampio, e ora i curdi nel Rojava. Però è dall’America Latina che ho appreso maggiormente. Ho lavorato nell’osservatorio per i diritti umani, e ho visitato molti paesi dell’America del Sud che hanno movimenti popolari di diritto alla città molto interessanti. Noi di Barcelona en Comú siamo stati pionieri in Spagna però fortunatamente dopo ci sono stati altri casi simili a Valencia, Madrid, Saragozza e altre grandi città. È il segnale che effettivamente era necessario, che non siamo un incidente.

Un parallelismo con Podemos. Quando è nata, la creatura di Iglesias ha rotto con la vecchia politica affermando “la hora del cambio” e rifiutando accordi con la sinistra radicale di Izquierda Unida. Con un giudizio pessimo su tutto il sistema partitico. Barcelona en Comú, invece, pur essendo nata dai movimenti, ha successivamente accettato una convergenza con i partiti. Da questo punto di vista, ti senti meno rottamatrice?

Be’, c’è una combinazione delle due cose. Ci siamo concentrati sugli obiettivi e nelle maniere di far politica invitando tutti: gente non solo di Iniciativa per Catalunya o di Podemos ma anche del Partito Socialista, in cui militano persone che vengono dalla lotta contro la dittatura e non si sentono più rappresentate dall’attuale Psoe. Sicuramente non volevamo una coalizione di vecchi partiti, in questo siamo uguali a Podemos, infatti a Barcellona abbiamo inaugurato il concetto della confluencia che significa unire le persone, sia iscritti a partiti sia non, ponendo al centro il protagonismo della cittadinanza.

Abbiamo creato un nuovo spazio, orizzontale, abbandonando le logiche delle quote e delle mere sommatorie, e aperto anche alle forze politiche, le quali potevano parteciparvi senza egemonie o cappelli. Un concetto basilare. Io stessa non vengo da partiti e non mi sarei mai aggregata né sarei stata disposta a metterci la faccia se non fosse stato per uno spazio che sperimentava forme innovative di fare politica. Era una condicio sine qua non e sono sicura che è una delle ragioni principali che ha contribuito al nostro successo.

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Ada Colau, la città in comune

Ti sei mai posta il problema di “unire la sinistra” per poter attuare un reale cambiamento nella società?

A me interessa unire la gente. Questo è stato il nostro punto di partenza, appartiene alla mia storia personale. Provengo dalla Plataforma de Afectados por la Hipoteca che è stata sicuramente il movimento sociale più trasversale degli ultimi anni, o forse decadi, in questo paese e che ha dimostrato che con obiettivi e metodi comuni si possono intercettare molte persone, anche chi non si sente di sinistra.

Torniamo alla miracolosa vittoria delle elezioni del giugno 2015. Qual è stato il bacino elettorale di Barcelona en Comú?

Il nostro voto è stato trasversale, abbiamo “pescato” sia tra la gente che proveniva da formazioni classiche di sinistra sia tra gli astensionisti. Poi il dato generazionale: molti giovani, moltissimi.

Dall’analisi dei flussi elettorali si evince anche un forte consenso nei quartieri popolari...

Da questo punto di vista, il nostro si può considerare un “voto di classe”. Abbiamo ottenuto un alto tasso di gradimento soprattutto nelle zone più povere della città.

Quanto influisce la figura del leader o, meglio, quanto ha pesato il ruolo di Ada Colau nel successo di Barcelona en Comú?

Vengo dai movimenti sociali e, al nostro interno, si è sempre dibattuto dei personalismi e dei leaderismi in politica. Servono o sono da scongiurare? Onestamente penso che abbiamo imparato a distinguere, negli anni, tra le leadership nefaste e quelle positive ai percorsi collettivi. Ci sono personalità che bisogna imparare a valorizzare dando loro massima visibilità: se c’è qualcuno più abile nel comunicare e nell’esprimersi perché 18

Introduzione

non utilizzare la sua figura? Fa parte della mobilitazione collettiva e questo fattore deve risultare una risorsa.

Insistiamo. E la figura di Ada Colau quanto è servita? È innegabile che sia stata utile per articolare Barcelona en Comú perché ero una persona conosciuta, trasversale, estranea ai partiti e molto legata alle battaglie sociali. Dall’altra parte, Barcelona en Comú è un percorso collettivo più complesso che non si spiega solo con la mia leadership. È un miracolo, costruito in pochi mesi, senza risorse, con un nome sconosciuto... vincere le elezioni a Barcellona, avendo contro tutti i principali mezzi di informazione, è stato possibile perché ci sono state migliaia di persone che in maniera generosa e spassionata hanno dedicato vita e anima a tale progetto. Tutte queste persone che si sono mobilitate sono diventate un’agenzia di comunicazione potentissima che nessun partito pagando avrebbe mai potuto sognare. Una grafica potente, una capacità di fare politica sui social network incredibile... queste sono le cose che spiegano la nostra vittoria. La leadership è dei cittadini, la mia figura, al massimo, è stata un valore aggiunto.

Sarebbe stata possibile la vittoria di Barcelona en Comú senza gli Indignados?

Assolutamente no, senza la mobilitazione del 15M non ce l’avremmo mai fatta. Quel movimento ha politicizzato la crisi e ha portato nella società un cambiamento della coscienza e della mentalità della gente. Ciò ha permesso delle riflessioni che in alcuni casi hanno prodotto un ciclo elettorale.

La tua storia dimostra l’importanza delle pratiche di mutualismo, siete riusciti ad andare “oltre il noi” e ad aggregare non solo nei settori ristretti della sinistra radicale.

Il mutualismo e il radicamento sui territori sono l’unico modo per rispondere all’impoverimento generale e all’enorme 19

Ada Colau, la città in comune

disuguaglianza. Ed io vengo da lì. Ero stanca sia dei classici partiti di sinistra che dei movimenti sociali autoreferenziali e gruppettari, con i loro linguaggi incomprensibili. Quando abbiamo fondato la Pah il mio obiettivo era incidere nella società, cambiarla veramente, e per farlo sei obbligato a relazionarti con la massa, ovvero anche con persone che si definiscono né di destra né di sinistra, senza una forte ideologia o conoscenza del passato. Altrimenti è impossibile, a meno che non si voglia applicare una forma di dispotismo illuminato. A 42 anni posso dire di aver vissuto i processi di trasformazione più forti in contesti di cittadinanza assolutamente anonima, battaglie che il sistema dava per perse. Ma Davide, quando si organizza, può sconfiggere Golia.

Passiamo al tuo rapporto con Podemos. Alle ultime elezioni la lista che avete fatto insieme, En Comú Podem, è diventata il primo partito in Catalogna, in campagna elettorale ti abbiamo visto sul palco insieme a Pablo Iglesias. Pensi mai ad un tuo ruolo in chiave nazionale, magari in Podemos?

Sono di Barcelona en Comú, da poco faccio la sindaca e la mia dimensione resta Barcellona essendo convinta dell’importanza del neomunicipalismo. Detto questo, mi sto accorgendo che è necessario andare anche oltre il municipio, in alcuni ambiti, perché le decisioni vengono stabilite a livelli più alti. Su politica fiscale, infrastrutture, contrattazione i sindaci non hanno competenze e dipendono da normative superiori per cui abbiamo dovuto interessarci ad altri livelli. La battaglia è appena iniziata a Barcellona, noi governiamo ma non abbiamo l’effettivo potere. Il potere è altrove. Intanto siamo coinvolti in un processo di costruzione di uno spazio più grande di ambito catalano, dove va ricordato che la Catalogna ha sempre avuto una sua specificità con una società civile mobilitata, un forte tasso di pluralismo politico e, infine, la questione indipendentista. In tale processo ci è ben chiaro che Podemos è un nostro fedele alleato.

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Introduzione

Negli ultimi anni in Catalogna è cresciuta molto, soprattutto tra le nuove generazioni, la richiesta dell’indipendentismo. Qual è la vostra posizione?

Sono per la democrazia, ovvero dare la parola alla gente tramite un referendum. Il popolo ha il diritto di decidere. L’idea dell’unità della Spagna aveva senso per tranquillizzare l’esercito nell’uscita dalla dittatura, adesso non ne ha più. Sono passati quarant’anni e quel modello centralista dello Stato si è esaurito.

Bisogna aggiornarlo. Il centralismo che abbiamo vissuto con il Partido Popular è stato insopportabile e deve finire. Ora bisogna decidere se la formula del cambiamento passa per il federalismo o per l’indipendentismo. Dipende dalle proposte, è giusto che si faccia questo dibattito. Questa posizione fa sì che in Barcelona en Comú ci siano persone indipendentiste, altre federaliste, altre ancora che non considerano la cosa prioritaria, però siamo tutti d’accordo che l’ultima parola debba essere della gente tramite una consultazione popolare.

Barcelona en Comú ha ottenuto 11 consiglieri su 40, la

maggioranza è 21. Di fatto, il tuo è un governo di minoranza.

Quanto è complicato mediare, di volta in volta, con gli altri partiti?

Le maggioranze politiche le costruiamo in base agli obiettivi e in questi giorni stiamo negoziando per poter ampliare il governo e approvare i bilanci. Certo, non è facile. L’aspetto peggiore è dialogare con partiti che hanno decenni di esperienza nelle istituzioni e utilizzano “mezzucci” di ogni tipo: in pubblico affermano una cosa, in privato ne fanno un’altra. Fanno i propri interessi non quelli di Barcellona. In questo clima, non è facile resistere e siamo ancora lontani dalla costruzione di una nuova egemonia. Però Barcelona en Comú, facendo campagne sociali e ora dal governo, ha già cambiato l’ordine del giorno e la storia della città: il contrasto alle ingiustizie sociali e alle asimmetrie di potere si colloca come dorsale dell’agenda 21

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“Siamo un modello in costruzione, una scommessa per tutta la mia generazione che ancora non avevamo vissuto. Credo che il municipalismo sia la chiave per un cambiamento democratico in profondità dal basso verso l’alto. Con tutta l’umiltà e senza massimalismo abbiamo deciso di democratizzare un sistema e il miglior luogo per cominciare era questo: il luogo della vita quotidiana e della prossimità. Chiaro, i cambiamenti non avvengono in una o due elezioni ma si producono col tempo, intanto si stanno imponendo nuove forme di fare politica”.

Ada Colau

ISBN 978-88-98841-30-1

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