Il Fatto n. 063

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Cultura & Spettacoli

giovedì 24 giugno 2010

Da Capo di Buona Speranza ad oggi Invia un sms sull’articolo al 3471136778 inserendo il codice 2091

Nelle parole del comandante molfettese Francesco Mastropierro. Basta osservare un planisfero per rendersi conto del percorso compiuto da un giovane comandante molfettese, Francesco G. Mastropierro, da La Spezia a Colombo, porto dello Sry Lanka, passando da Capo di Buona Speranza con una piccola nave da 500 tonnelate. Nel libro “Capo di Buona Speranza” lei racconta una parte delle esperienze trascorse in mare. Perché questo titolo? Il titolo del libro non ha nessun significato speciale, è del tutto casuale. Sta ad indicare come una piccola nave chiamata Punta Crena, battente bandiera americana, sia giunta a Colombo passando per il punto più a sud della Terra, Capo di Buona Speranza, per poi risalire verso nord e raggiungere il porto di destinazione. Correva l’anno 1945, siamo nell’immediato dopoguerra. Lei frequentava l’Istituto Magistrale di Molfetta, scuola che le avrebbe assicurato un lavoro statale con uno stipendio sicuro. Perché ha deciso di lasciare la carriera di insegnante per intraprendere la vita di mare? È stata una scelta spontanea, una spinta passionale per il mare; chissà forse l’avevo nel sangue, evidentemente ereditata da mio padre. Era capitano marittimo. Sta di fatto che avevo tanta volontà di cambiare scuola che in soli tre mesi mi preparai e superai gli esami di tutte le materie per essere ammesso a frequentare il terzo anno dell’Istituto Nautico. Mi diplomai a pieni voti nel 1948. Premetto che i miei genitori non accettavano l’idea che l’unico figlio dovesse intraprendere la vita del mare. Lei a soli 28 anni ebbe l’incarico dalla Esso, una società americana, di imbarcarsi in questa avventura. Un viaggio lunghissimo

che sarebbe costato una percorrenza di 13mila miglia sulle acque dell’oceano Atlantico e Indiano. In questa scelta ha agito con un po’ d’incoscienza oppure si sentiva talmente sicuro da accettare subito? Non era incoscienza, sapevo benissimo quello che mi aspettava fin dall’inizio, anche se ero molto giovane. Quando l’armatore mi propose questo viaggio accettai subito perché si trattava di attraversare il Canale di Suez e dopo qualche giorno di navigazione sarei arrivato a destinazione. Non fu così perché proprio in quei giorni scoppiò la crisi tra Egitto e Israele. Il canale di Suez divenne impraticabile, affondarono alcune navi. Il contesto cambiò. Da quel momento occorreva cambiare percorso: circumnavigare l’Africa, doppiare Capo di Buona Speranza e risalire l’oceano Indiano, si trattava di percorrere 13mila miglia. Un lungo viaggio è fatto di tanti piccoli viaggi, decisi di accettare. Presi tutte le dovute precauzioni: mi fornii di tutte le carte nautiche, portolani, fari e fanali, tutto quello che occorreva per affrontare la navigazione in sicurezza. Durante il viaggio accaddero tanti imprevisti ed emergenze che riuscii sempre a superare grazie all’esperienza acquisita negli imbarchi precedenti fatti da mozzo e da allievo ufficiale, sulla stessa nave su cui era imbarcato mio padre Atanasio da ufficiale. Da lui ho imparato che per dare ordini bisogna prima saperli eseguire. Ed eseguire gli ordini è più difficile che comandare. Se non si sa obbedire non si sa comandare. La notte di Capodanno del 1956 siete partiti da la Spezia per Livorno, avete navigato con cattivo tempo. Appena ormeggiati a Livorno non avete fatto in tempo a mettere la passerella che il mozzo terrorizzato dal

mal di mare è scappato via di corsa, senza prendere la paga e il libretto di mare. Se avesse avuto il tempo di fermarlo cosa gli avrebbe detto per farlo rimanere a bordo? Il mozzo era un ragazzo terrorizzato dal maltempo, scappò via senza darmi il tempo di spiegargli che la vita di mare è quella che è, però alla fine dà delle soddisfazioni, si gira il mondo, si guadagna. Ci si abitua anche ai cattivi tempi. Lei dopo 18 anni di navigazione ha lasciato la vita di mare. Il perché vuole raccontarcelo? La decisione l’ho presa per stare con la mia famiglia, vedere crescere i figli. Sono stato assunto presso una raffineria quale Responsabile del Terminale Marittimo, incarico che ho mantenuto fino alla pensione. Nel frattempo completai un corso di studi presso un college inglese, conseguendo la laurea in ingegneria. Oggi si sta assistendo ad una crisi irreversibile del settore marittimo. Molfetta pian piano sta perdendo la sua identità, per secoli è stata una città marinara. Tanti molfettesi vogliono che questa tradizione rimanga. Cosa sta succedendo? In passato ci sono stati genitori che invogliavano i figli a intraprendere la vita del mare perché assicurava un buon stipendio, una vita agiata. I ragazzi non sapevano incontro a cosa andavano una volta imbarcati. Sapevano che dovevano stare fuori almeno 12 mesi. La maggior parte delle volte bisognava prendere l’aereo per raggiungere la nave all’estero. A bordo spesso mancavano i confort. Oggi tutto è cambiato, i contratti prevedono una permanenza a bordo di 4-6 mesi, le navi sono comode e sicure. Nonostante tutto dei nostri ragazzi nessuno vuol più navigare. Andare a

imbarcarsi significa lasciare gli amici, gli affetti, non andare più in discoteca… In questi giorni i marittimi molfettesi e di altre zone d’Italia sono in agitazione, non riescono più a trovare lavoro a causa del doppio registro che permette agli armatori, attraverso la chiamata diretta, di arruolare gli extracomunitari anche sulle navi italiane. Cosa fare per vincere la concorrenza? Il cittadino molfettese fino a qualche tempo fa non si era accorto che le cose stavano cambiando, che la cultura del mare andava sempre più scemando. Ora siamo all’emergenza, gli extracomunitari avanzano, fanno mestieri che noi italiani non vogliamo più fare. Per noi è venuto meno lo spirito del lavoro sul mare e ne pagheremo le conseguenze perché nessuno dei nostri politici e gli stessi lavoratori non sono in grado di dare soluzioni. Un futuro senza speranze. La possibilità di vincere la concorrenza straniera è quella di puntare sulle professioni di qualità. Scuola e ricerca possono dare soluzioni. Se devo dare un parere, i nostri lavoratori, specialmente i capi servizio, spesso non si aggiornano, non frequentano corsi di formazione adeguati ai tempi, fanno leva solo sull’esperienza acquisita. Non credo che sia colpa dello Stato. Una parte di questa situazione l’abbiamo voluta noi e chi non ha saputo tutelare i marittimi. Negli ultimi anni dobbiamo ammettere che non abbiamo avuto una grande preparazione. La pratica senza teoria vale fino a un certo punto. Senza istruzione le capacità avranno dei limiti. Ma se una persona mette insieme teoria e pratica può arrivare ovunque. Questo vale per qualsiasi professione, dal mozzo al comandante. Pantaleo de Trizio

Con Ray Gelato lo swing è protagonista Invia un sms sull’articolo al 3471136778 inserendo il codice 2092

L’italo-americano a Molfetta il 9 luglio. Ray Gelato, cantante e sassofonista inglese di origine italo-americana, si esibirà nella consueta performance di musica swing il prossimo 9 luglio presso l’Anfiteatro di Ponente nell’ambito di “Luci e suoni a levante”. Formatosi musicalmente sulle orme dei grandi del rock’n’roll e dello swing, arriva attraverso diverse formazioni a quella attuale, sempre mantenendo vivo lo spirito dell’entertaining creato dai grandi crooners italo americani. Ray Gelato, infatti, viene influenzato fin da piccolo dai dischi del padre, che ascolta Sinatra e Sammy Davis. Più tardi incontra Louis Jordan e Louis Prima, due grandi intrattenitori americani che hanno un ruolo molto importante nella musica creata in futuro da Ray. Nel 1979 incomincia a studiare il sax e per i due anni successivi fa parte di una band professionista, The

Dynamite Band. Nel 1982 suona con i The Chevalier Brothers, con cui rimane fino al 1988, gruppo specializzato soprattutto in un repertorio swing degli anni Cinquanta e Sessanta. Con loro realizza anche tre album e diversi singoli. Nel 1988 Ray forma la sua band di sette elementi: Ray Gelato and the Giants of Jive. Il gruppo suona un po’ in tutta Europa in luoghi prestigiosi: ad esempio Carnegie Hall, il festival jazz di Nizza e il Lugano Jazz festival. La band realizza tre album prima di sciogliersi nel 1994. Nello stesso anno Ray, oltre a suonare nella colonna sonora del film per la BBC “No Bananas”, mette insieme un nuovo gruppo, The Ray Gelato Giants, con cui si esibisce ancora oggi con grande successo di pubblico e critica per i maggiori festival del mondo. Nel 2001 i The Ray Gelato Giants

aprono il concerto di Robbie Williams alla Royal Albert Hall, consolidando così il loro successo, testimoniato, un paio d’anni dopo, prima dall’accoglienza all’Umbria Jazz Festival e poi dalle decine di date dal vivo, che includono la possibilità di suonare al Ronnie Scotts club, prestigioso locale jazz di Londra. All’inizio del 2004 il gruppo firma un contratto con la True Blue e realizza “Ray Gelato”, un album ben accolto dalla critica, continuando nello stesso tempo anche l’attività dal vivo e l’esibizione in vari programmi televisivi inglesi. Nello stesso anno la band partecipa, di fronte ad un pubblico di quarantamila persone, al BBC Proms in the Park all’Hyde park di Londra. Nel 2005 Ray riceve una nomination al BBC Radio 2 Jazz Artist of the Year e continua assieme ai suoi compagni l’atti-

vità dal vivo, apparendo anche nello show di BBC 1 “Strictly dance fever”. Il 2006 prosegue con un lungo tour in Inghilterra nei teatri. Nel 2008 Ray riceve per la terza volta la nomination ai BBC Jazz Award. Ray Gelato ha partecipato a numerosissime trasmissioni televisive in Italia ed ovunque nel mondo; tra le altre Maurizio Costanzo Show, Buona Domenica, Il Boom, ed è stato ospite dei The Good Fellas per lo spettacolo dei comici Aldo, Giovanni e Giacomo “Tel chi el telun”. Trasferitosi in Florida ha eseguito concerti in tutti gli Stati Uniti. La notorietà di Ray è comunque legata ad una pubblicità per i Levis Dockers, in cui canta un brano molto famoso di Renato Carosone, “Tu vuo’ fa l’americano”, canzone poi inclusa nel disco “The men from uncle”. Marilena Farinola


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