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Ettore Bocchia: “Tutto parte dalla materia

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di Alberto P. Schieppati

Lo chef del Mistral di Villa Serbelloni a Bellagio segna un cambiamento di rotta nella ristorazione d’albergo

Chi si ricorda che cos’era la ristorazione d’albergo in Italia solo una trentina di anni fa? Un mezzo disastro, se guardato con gli occhi di oggi… Eppure, a modo loro, le strutture funzionavano, seppure sotto tono, con molti limiti e troppe inadeguatezze. I ristoranti d’hotel erano aperti solo per chi soggiornava nella struttura con la formula della pensione completa (già la “mezza” era una concessione dell’albergatore), le linee di cucina erano spesso banali e prevedibili, il servizio garibaldino (a dir poco) o, negli hotel cittadini, “alla francese”, come si diceva allora. Quante cose sono cambiate nel tempo! Oggi possiamo dire che pranzare o cenare in hotel sia, in alcuni casi, un’esperienza memorabile: l’’apertura dei ristoranti anche alla clientela esterna fu il primo passo verso l’evoluzione qualitativa dell’offerta, grazie anche a una gestione imprenditoriale del food e del beverage, slegato dall’occupazione camere e dalla scelta della struttura. Rivolgersi ad un mercato più ampio, più esigente e molto

diverso da quello tradizionale degli ospiti delle camere, vacanzieri o d’affari, segnò la prima, grande differenza con il passato. Le catene alberghiere per prime sentirono questo bisogno di modernità, con le scelte strategiche conseguenti: avere un executive chef di livello professionale elevato, investire su questa figura e sul personale di cucina, qualificando anche la sala nelle sue figure chiave. E poi: comprendere il valore economico della qualità (affrontando anche seriamente il food cost, ritenendolo finalmente una variabile fondamentale del business) e saperlo trasmettere alla clientela attraverso proposte e linee di cucina all’altezza della Casa. Ma non solo le catene intuirono questa necessità: anche le proprietà e le gestioni indipendenti, nel tempo, hanno sentito il bisogno di questa evoluzione qualitativa, E, grazie a intuizioni e a scelte oculatissime, sono arrivati a dotarsi di chef dallo stile e dal talento ineguagliabili. Uno di questi chef si chiama Ettore Bocchia, e il suo mentore imprenditoriale Giancarlo Bucher, rampollo di una grande famiglia svizzera di albergatori di prim’ordine. Bocchia, classe 1965, di San Secondo Parmense (tra Busseto e Fidenza, patria del

la Spalla cotta, mitica), è al Grand Hotel Villa Serbelloni, della Famiglia Bucher, da quasi trent’anni: “Ricordo perfettamente il giorno in cui incontrai per la prima volta Ettore Bocchia: si era presentato a Villa Serbelloni per iniziare la sua esperienza lavorativa insieme a noi”, ricorda Gianfranco Bucher, patron dell’hotel di famiglia, un cinque stelle lusso, ubicato a Bellagio, sul lago di Como. “Era il 1991 e Ettore allora aveva ventisette anni. Mi accorsi immediatamente che disponeva di tutte le qualità necessarie per fare una grande carriera: aveva, come peraltro oggi, quasi trent’anni dopo, una irrefrenabile passione per la disciplina, era infaticabile e propenso al sacrificio, curioso, innovativo e, dote molto importante, era ben educato e rispettoso verso chiunque lavorasse o soggiornasse in hotel”. In realtà, Bocchia era un rivoluzionario. Dietro l’apparente garbo, dietro l’approccio signorile e formale (non a caso viene chiamato il Signore della cucina) si nascondeva un coraggioso e audace anticonformista, che “ha rotto il muro del suono che fino a quel momento cullava la cucina italiana nelle sue certezze”, come ha scritto Luca Sommi. Dopo solo due anni, Bocchia occupa

Carlo Pierato, restaurant manager di alta professionalità, insieme alla squadra di sala

già la carica di sous chef e finalmente, nel 1999, conquista la posizione di executive, che si era “liberata” nel frattempo. Un ruolo di grande responsabilità, che ancora oggi Ettore detiene e amministra al meglio, arrivando a rappresentare un unicum nel suo genere. Nessuna velleità, zero esibizionismo, caparbia ostinazione nel trovare sempre il meglio, indipendentemente da costo, distanza, reperibilità. Non ci sono ostacoli se la posta in gioco è raggiungere l’obiettivo del meglio, senza se e senza ma. E con una sensibilità decisamente non comune da parte della proprietà, che si assume l’onere di un food cost complessivo decisamente superiore alla norma. Il miglior prosciutto di cinta senese? Si prende e si va: si scopre, si assaggia, si confronta. E si sceglie. Il migliore foie gras? Quello di Aleandro Sousa: l’animale non subisce alcun tipo di alimentazione forzata, ma si ciba naturalmente. Oggi Villa Serbelloni è l’unica struttura in Italia ad importare questo prodotto eccezionale dalla Spagna (regione dell’Estremadura).“Perché il cliente deve trovarsi di fronte al meglio oggettivamente possibile”, dice Ettore presentando al tavolo, orgoglioso, una pregiata sogliola di Dover, arrivata da poche ore, che si accinge a sfilettare. O come quando propone il suo Rombo assoluto cotto nello zucchero con spuma di patate. verdure al vapore, salsa ai porri. I suoi mantra: selezione e ricerca sul campo di materie prime e ingredienti, in Italia e all’estero; adozione di un linguaggio moderno per esprimere ruoli e funzioni; realizzazione di piatti mai banali e frutto di attente analisi della materia di cui sono composti; attenzione estrema agli aspetti chimici e scientifici delle materie; importanza della sala con

conseguente capacìtà di interagire con il cliente (non a caso in sala governa Carlo Pierato, numero uno nell’empatia con l’ospite. E il numero due in cucina è Andrea Arienti, un esempio di alta professionalità). Si deve a Ettore la scoperta della cucina cosiddetta molecolare, che altro non è che uno stile innovativo di fare cucina, monitorando le trasformazioni fisiche e chimiche degli alimenti durante la loro preparazione. Quella per la materia e per la ricerca è una vera ossessione per Bocchia: nel 2002 ebbe l’intuizione (che lo ha reso celebre fra gli addetti ai lavori) di creare il primo menu di cucina molecolare, grazie agli studi fatti in collaborazione con Davide Cassi, docente di Fisica della Materia all’Università di Parma. Tre anni dopo, nel 2005 il Mistral, il ristorante gourmet del Grand Hotel, dove opera con una brigata di quindici cuochi, Bocchia

ottiene la prima stella Michelin, che tuttora orgogliosamente detiene. Ma chi si limitasse a definire un’esperienza gastronomica al Mistral puramente “molecolare” si sbaglierebbe, e mi spiego meglio. La cucina di Ettore non è né cervellotica né incomprensibile, anzi: è chiarissima e va nella esatta direzione di far comprendere le materie in tutte le loro sfumature, nelle loro differenze e nelle loro caratteristiche più profonde. Diciamo che la cucina di Ettore è una cucina di profondità, senza essere astrusa. È evidente che per arrivare a questo risultato è fondamentale la conoscenza della materia, in ogni suo dettaglio. E la chimica è una chiave di lettura e di interpretazione delle molecole che compongono la materia stessa: per arrivare al nucleo dell’ingrediente, per sapere come trattarlo, come cucinarlo, come servirlo. Con un obiettivo, dichiarato dallo stesso Bocchia: realizzare la perfezione nel piatto, per regalare al cliente un’esperienza unica. Come si legge anche nell’ultimo libro dello stesso Ettore, L’essenza dell’invisibile, edito da Aliberti nella collana I Fiori del Male, in cui racconta la sua filosofia, di vita e di cucina, con una bella prefazione di Luca Sommi, che abbiamo citato sopra. Da leggere, innanzitutto per capire se è vera la frase di Bocchia che si legge in quarta di copertina: “Non so se ho cambiato la cucina italiana, però ci ho provato. E forse qualcosa è accaduto”. •

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