Georges Bataille: dépense e comunita

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI «CARLO BO» – URBINO FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA

TESI DI LAUREA

GEORGES BATAILLE: DÉPENSE E COMUNITÀ

RELATRICE:

CANDIDATO:

Prof.ssa. Laura Piccioni

Roberto Ciavatta

Anno accademico 2003 - 2004


INDICE : Prefazione

pag. 4

CAPITOLO 1;

ASSIEME AD HEGEL, AL DI LÀ DELL’HEGELISMO 1.1: La Sovranità 1.1.2: La Sovranità nella storia

pag. 8 pag. 15

1.2: Il sacrificio e l’intimità perduta

pag. 22

1.3: Un ultra-Hegelismo 1.3.2: Hegel e la scrittura sovrana

pag. 29 pag. 38

CAPITOLO 2;

DA DOCUMENTS AL COLLÈGE: UN PENSIERO ALL’AZIONE 2.1: “Documents”

pag. 43

2.2: “Cercle communiste démocratique” e “Critique sociale” 2.2.2 : “La notion de dépense” 2.2.3 : “La structure psychologique du fascisme”

pag. 48 pag. 50 pag. 55

2.3: “Masses”, la minaccia fascista e “Contre-attaques”

pag. 60

2.4: “Acéphale” e il “Collège de sociologie” 2.4.2: L’«amicizia» con Nietszche 2.4.3: La rivista 2.4.4: “Collège de sociologie” 2.4.5: La società segreta: un abisso tra azione ed a-politicità

pag. 69 pag. 72 pag. 77 pag. 81 pag. 89

CAPITOLO 3; LA COMUNITÀ DELL’UOMO INTEGRALE 3.1: La comunità intuita 3.2: Un modo di conoscenza altro 3.3: Al di là del contrattualismo 3.4: L’essere composto 3.5: L’uomo integro (o del male) 3.6: La comunità degli amanti 3.7: L’equilibrio instabile fra l’«uno» e il «due»: il passaggio 3.8: Quale comunità? 3.9: Al di là dell’impolitico, verso l’impolitico

pag. 97 pag. 101 pag. 105 pag. 107 pag. 109 pag. 112 pag. 115 pag. 119 pag. 124

Bibliografia

pag. 128

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PREFAZIONE1 “Mi è parso che il pensiero umano avesse due termini: Dio e il sentimento dell’assenza di Dio; ma Dio non essendo altro che la confusione del sacro (del religioso) e della ragione (dell’utilitario), trova posto solo in un mondo in cui la confusione dell’utilitario e del sacro diventa la base di un comportamento rassicurante… Se i due termini non coincidono, mi trovo dinanzi all’assenza di Dio (…) [Ma poiché] questa assenza (…) non [ha] (…) niente a che vedere con ricompense o castighi futuri, alla fine si pone ancora la domanda: - …la paura… sì la paura, cui soltanto giunge il pensiero senza limiti… la paura, sì, ma la paura di cosa? La risposta riempie l’universo, riempie l’universo in me: -

… evidentemente la paura di NIENTE”2.

Per quanto si tratti di una scrittura frammentaria, e per quanto le opere stesse siano spesso e volentieri incomplete (più o meno volutamente) e a-sistematiche, non posso non riscontrare all’interno delle opere batailleane un’univocità di movimento ed una straordinaria coesione.3 Ciò che indubbiamente determina e spiega questa coerenza in ogni suo libro, articolo, singolo frammento, è l’espressione di quell’univocità di moto che lo stesso Bataille riscontra nell’intero universo: la Dépense; la totalità dell’esistente, l’insieme di ciò che è, che non può mai essere una somma ma solo un ‘insieme’, un’amalgama, una con-fusione ed interfusione di esseri ed esistenze immanenti, non può che esprimere un inesprimibile spreco senza contropartita di sé. Se qualcosa è, e perciò non è una cosa, allora il suo intimo, spontaneo movimento è quello del dispendio infinito e senza senso alcuno, culminante nello spreco totale dell’annientamento e della morte, della scomparsa. Questo movimento intimo, l’unico possibile (o meglio sarebbe dire impossibile, impensabile) è quello delle stelle, del loro fuoco che divampa dall’interno senza nessuno scopo se non lo stesso ardere, consumare dal di dentro, fino all’implosione. Inscritto in questo movimento ineluttabile della natura, l’uomo, essere espresso in seno ad essa, non può sfuggire. Non lo può il soggetto, perduto nell’indistinzione dell’immanenza, non lo possono le comunità di uomini, le loro economie: disconoscere questo movimento 1

Le citazioni delle opere verranno riportate (dove non espressamente dichiarato altrimenti) in nota, secondo la seguente disposizione: autore, opera, numero di pagina. Per le edizioni utilizzate rimando alla bibliografia. 2 G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 16. 3 idem, 146: “Nei miei scritti mi colpisce un ordine così rigoroso che, dopo un intervallo di parecchi anni, il piccone torna a battere sullo stesso punto. (…) Un sistema della precisione d’un orologio ordina i miei pensieri”.

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fatale equivarrebbe a negare la natura, fingere di non appartenerle, cercare di uscirne in ogni modo pur di trovare un SENSO, un motivo per l’esistenza, un appiglio, una via d’uscita per non guardare in faccia quella morte disastrosa cui velocemente e risolutamente siamo destinati. Ma che cos’è la storia, ovvero il mondo dell’uomo, se non proprio la storia di (e da) questa negazione? L’uomo non è proprio l’animale che si distingue fra gli altri per via del riconoscimento in coscienza di questo movimento insensato e catastrofico? Non è proprio colui che, in preda all’angoscia, gli volge le spalle, lo nega per il terrore provato, per il terrore di non essere altro che un esistenza votata al fallimento? L’uomo non ha sopportato il sentimento angoscioso di essere NIENTE (rien), non ha sopportato di non avere senso, ha voluto darsene uno, uno scopo, un’utilità, una missione, attraverso ogni sua impresa; sia essa religiosa, filosofica, scientifica, politica: “Non c’è in questo mondo nessuna immensa impresa che abbia un fine diverso da una perdita definitiva del futile istante… [ma] la massa degli sforzi non è nulla a confronto della futilità di un solo istante”4. È questo il motivo per cui Bataille, in buona parte dei suoi scritti, tenta di ripercorrere le tappe dell’umanizzazione per mondarne gli errori, le sviste, ma soprattutto le debolezze: un immenso e glorioso tentativo di gridare l’errore della conoscenza, il vile deragliamento da una situazione violenta, insensata, certo, ma ineludibile. Ma se le cose stanno così, allora si rende necessaria una differente visione antropologica (o una visione antropologica della differenza), che confuti la menzogna dell’essere isolato fisso nella propria identità: l’uomo vuole negare a sé stesso la parte naturale, corporea, elevarsi al di sopra di essa, trovare una scappatoia dal labirinto, ma questo non è possibile. Il corpo, la natura in noi, ciò che ci viene trasmesso attraverso esso, non è eliminabile né negabile dalla ragione. L’eccesso di trascendenza operato per sfuggire al suo destino porta l’uomo a sviluppare l’idea di sé come di un essere spirituale, non corporeo, ma dotato delle caratteristiche della cosa immutabile: un soggetto-oggetto. Ma il culmine di questa cosificazione ne rivela la fallacia: “Lo sviluppo ultimo della conoscenza è quello della messa in questione. Non potevamo sempre dare il passo alla risposta… al sapere…: il sapere all’ultimo grado ci lascia davanti al vuoto. Al culmine del sapere, non so più niente, soccombo e ho le vertigini”.5 E allora sì, il mondo violento del nostro necessario annientamento insensato, ma anche l’unico che ci è dato, la terra promessa, l’unica dimensione comunicativa, la salvezza e unico vero fine. Del resto ogni tentativo di uscire da questa spirale di insensatezza è destinata a compiersi auto-negandosi, riconoscendo la sua illusorietà, riconoscendosi come inefficace, e questo lo si riscontrerà in ognuno dei temi che affronterò in questa mia tesi. La Sovranità, il sentimento del sacro, il sapere, non seguono altro che un movimento di progressivo allontanamento (negazione) dell’inutile insensatezza originaria dell’essere, di progressiva cosificazione, ipostatizzazione di un’essenza immutabile, ineliminabile, sensata, per completarsi infine, al culmine, nel riconoscimento della loro impotenza. È il senso della conoscenza che, al culmine, nel momento del suo compimento, può solo 4

G. Bataille, Teoria della religione, 93. Quasi una parafrasi di questa citazione la si ritrova in G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 155:“Sulla terra o in cielo nessuna possibilità di rifugio. Dio ha quest’unico senso: la finzione di un rifugio. Ma il rifugio non è nulla se paragonato all’assenza di rifugio”. 5 G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 120

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riconoscere di nulla potere di fronte alla dura realtà dell’inconsistenza del castello che ha edificato con tanta difficoltà, messa in questione e annullata nella sua efficacia da ciò che eccede il conoscibile: l’essere, il soggetto stesso, l’impossibilità delle sue emozioni, passioni, sentimenti. Il cristianesimo compie la trascendenza religiosa, è l’estremo tentativo di ritrovare un senso, seppur nell’aldilà, cui appigliarsi. È in tutto una riduzione dell’uomo alla cosa, che inscrive l’esistenza nel tempo della durata e nello spazio del lavoro. Ad esso risponde l’annuncio della morte di Dio ad opera di Nietszche e ciò che Bataille chiama ateologico, “In quanto vedo nel sacro e negli dei, e insieme nel principio di sovranità, la negazione di un Dio perfetto, che abbia gli attributi della cosa e della ragione”6. Il sistema dialettico Hegeliano compie la filosofia e il sapere, includendo in esso anche la morte e riportando sulla terra lo spirito. Ma il compimento del suo sistema rivela solo l’incapacità di conoscere ciò che concerne l’essere non cosificato razionalmente: “La conoscenza non è distinta in nulla da me: io la sono, è l’esistenza che io sono. Ma l’esistenza non le è riducibile” 7. Il comunismo compie, sul piano politico, anch’esso la cosificazione, e lo fa proprio per liberare l’uomo dalla stessa reificazione operata dall’economia borghese dell’accumulo di mezzi di produzione in vista del futuro. Per questo “L’uomo [che] non può essere ritenuto una cosa (…) è comunista (ma bisogna aggiungere: il comunismo in prima battuta può solo portare a compimento e generalizzare la riduzione a cosa; anche per questo l’uomo combatte il comunismo a morte)”8. Oggi rimangono le macerie di quanto ordito in progetti millenari di liberazione dalla morte, che si sono invece dimostrati essere una negazione della vita stessa. Rimane solo da scegliere se accettare finalmente, coraggiosamente, il nostro ineluttabile destino ponendoci con “gioia davanti alla morte”, oppure cercare nuove scappatoie, ancor più vilmente nel momento in cui si è da principio coscienti della loro illusorietà. Bataille guarda la morte in faccia e ne ride, perché vede in essa il suo destino, l’unico tramite per un ritorno all’intimità del movimento dell’universo nel quale perdersi indistintamente, convinto del fatto che “il diritto fondamentale dell’uomo è di non significare nulla”9. Comprende in essa, nel nulla che rappresenta (con un coraggio carico di accenti tragici: “chi può farsi carico di questi compiti se non siamo noi a farlo?”10), il varco verso l’esperienza di un sentimento comuniale, comunitario, con-fusionale che cercherò di descrivere in questa mia tesi.

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G. Bataille, La sovranità, 199 G. Bataille, L’esperienza interiore, 165 8 G. Bataille, La menzogna politica, in (a cura di) Felice Ciro Papparo, L’aldilà del serio, 494 9 G. Bataille, Oeuvres complètes, vol. VI, 428 (Traduzione mia) 10 G. Bataille, Lettera a Pierre Kaan datata gennaio 1936, pubblicata in (a cura di) Marina Galletti, Contre-attaques: gli anni della militanza antifascista 1932-1939, 159 7

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Mi ha personalmente avvicinato a questo pensatore, conosciuto fortuitamente, un sentimento di prossimità con la sua esperienza e la sua riflessione, un’affinità che deve di certo andare al di là della stima che doverosamente si deve tributare a chi come lui è riuscito ad esprimere con tanta precisione non tanto il pensiero, ma il sentimento di disorientamento di un’intera stagione storica che, al di là delle contingenze più o meno contestuali, non penso sia terminata. Non ho potuto fare a meno di riconoscere in lui il pensatore che s’è spinto più in là: al di là della sicurezza sempre cercata da chiunque, sul culmine dell’abisso. Non voglio ribadire ancora una volta l’attualità che il pensiero batailleano ed alcune sue analisi di previsione dei movimenti politico-economici ancora conservano; dopo anni di disprezzo da parte della comunità filosofica ora il suo riconoscimento (sic!), è pressoché unanime. Ma di essere disconosciuto Bataille doveva immaginarlo, di certo ne era sicuro, non avrebbe potuto che essere così: lui stava parlando di ciò che si agita nel rimosso sociale, e la rimozione operata verso il movimento che riconosceva, esperiva e professava, sarebbe dovuta toccare anche al pensatore che ne stava, frammentariamente, parlando. Bataille confessò: “Quando nel 1922 lessi Al di là del bene e del male (…) ho creduto di leggere ciò che io stesso avrei potuto dire (…) Non avevo altra aspirazione: pensai semplicemente di non aver più ragione per scrivere”11. Non sappiamo che cosa lo decise, nonostante ciò, a farlo. Personalmente penso sia stata la necessità interiore di gridare la sua verità, la mancanza di ogni “verità”, di trovare orecchie amiche in cui disfarsi, nella certezza che per quanto inutile sia, «L’inadeguatezza di ogni parola (…) deve quantomeno essere detta»”12. Sappiamo però che nonostante ciò scrisse, e sappiamo anche che è stata una fortuna il fatto che nonostante ciò abbia scritto. Oggi, a mio avviso, di fronte ai suoi scritti, non si può che provare un sentimento altrettanto spiazzante di quello provato da lui all’incontro con Nietszche.

“Così non siamo nulla, né tu né io, accanto a parole brucianti che potrebbero andare da me a te, stampate su un foglietto: poiché io avrò vissuto soltanto per scriverle e tu, se è vero che si rivolgono a te, vivrai per aver avuto la forza di capirle”13.

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citazione reperita in R. Esposito, La comunità della perdita: l’impolitico di Bataille, introduzione a G. Bataille, La congiura sacra, XXIX 12 G. Bataille, L’insegnamento della morte, conferenza del 8 maggio 1952, pubblicata in (a cura di) Carlo Grassi, Conferenze sul non-sapere (e altri saggi), 19 13 G. Bataille, L’esperienza interiore, 146

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Capitolo 1 ASSIEME AD HEGEL, AL DI LÀ DELL’HEGELISMO 1.1: LA SOVRANITÀ Nel vocabolario batailleano il termine ‘sovrano’ è utilizzato per designare il “soggetto” liberato dallo statuto di “cosa”. È una ‘cosa’ qualunque oggetto di conoscenza posto, perciò, nel tempo della durata, pensato in funzione di altro, inserito in una dinamica di acquisizione in vista del futuro derivante dalla sottomissione ad una visione economica ristretta. Il soggetto si esprime attraverso un dono di sé; è sempre soggetto conoscente, inteso però non come oggetto di una conoscenza chiara e distinta (il soggetto universale), quanto come esperienza interiore. La sovranità si manifesta in forma tragica, attraverso “sintomi” quali il riso, il pianto, la poesia…; eccede quindi le categorie stesse del sapere, in quanto ogni sapere non è altro che l’attesa di un risultato, quindi una pratica saldamente ancorata al tempo della durata. La sovranità è per questo al di là del possibile che le categorie del pensiero e del linguaggio determinano, è l’impossibile: in fondo, non è niente (rien). Evidentemente si rendono necessari alcuni approfondimenti per definire questo termine, scendere nelle particolari interpretazioni batailleane di alcuni concetti chiave, non dimenticando però che in fondo: “«Io non sono niente»: questa parodia dell’affermazione è l’ultima parola della soggettività sovrana liberata dal dominio che essa volle – o dovette – esercitare sulle cose”1. L’uomo asservito è una merce, una “cosa”. Il sovrano è il soggetto. L’uomo libero, colui che può disporre pienamente di sé, è l’essere Sovrano2. Ciò chiarisce che ogni tipo di asservimento ne determina la non sovranità, la servitù. L’asservimento tuttavia non è sempre determinato da un’imposizione esterna; può essere liberamente scelto: “Il Signore ha preferito la morte alla servitù. Lo Schiavo ha preferito non morire. Al pari della Signoria del Signore, la servitù dello Schiavo è dunque il risultato di una scelta veramente libera”3 . Vedremo nel paragrafo su Hegel quale dialettica si instauri fra Servo e Signore (e quale sia la differenza fra Signoria hegeliana e sovranità batailleana); per ora basti dire che è servile tutto ciò che impedisce all’uomo di godere immediatamente di sé.

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G. Bataille, La sovranità, 259. D’ora in poi segnalerò il numero di pagina di questa edizione fra parentesi direttamente nel testo. 2 Tuttavia non si deve confondere la sovranità batailleana con la signoria hegeliana (si veda il paragrafo su Hegel). 3 G. Bataille, Hegel, l’uomo e la storia, in (a cura di) Felice Ciro Papparo,L’aldilà del serio, 174

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La sovranità non risiede nel tempo della durata ma nell’istante Essere-sovranamente significa “Godere il tempo presente”(43). Bataille ravvede nell’azione utile determinata da un progetto, e di conseguenza in tutto ciò che contribuisce a formulare quel progetto (il pensiero intellettivo-razionale), il fenomeno che sintetizza ogni forma di servilismo. Ogni azione, ogni progetto teleologico che la giustifichi (sia esso la sopravvivenza, la rivoluzione, o anche la sovranità stessa), escludono infatti per chi si attarda in essi la chance di cogliere in sé stessi la sovranità, in quanto essa è godimento immediato dei propri impulsi e desideri, delle proprie passioni, dei quali si può avere solo esperienza (emotiva, o meglio ancora “comuniale”) e mai una coscienza chiara: “la libertà significa un atteggiamento sovrano sul piano dei valori sensibili (posso agire per essere libero, ma l’azione mi toglie immediatamente la libertà di rispondere alla passione)”(245). Ogni lavoro è uno spostamento delle proprie aspettative nel tempo futuro. Attraverso il progetto e il lavoro l’uomo entra nel tempo della durata ed investe il proprio presente in vista di un’immagine di sé nel futuro, rendendosi in tal modo funzione del suo stesso progetto. Essere sovranamente si delinea perciò come un ritorno all’istante presente, come una situazione privilegiata nella quale cogliere, attraverso una coscienza vaga4, questo inter-tempo immanente negato; il soggetto sovrano non sarà quindi asservito ad azioni o progetti che, lungi dal procurare dei vantaggi nel futuro per chi li intraprende, proprio per ciò negano ad essi l’accesso all’intimità soggettiva dell’istante5. Escludendo il progetto, la Sovranità esclude pensiero, sapere e discorso.6 Essendo solo nell’istante la sovranità non può essere accessibile alla conoscenza né al linguaggio (il discorso): “La coscienza dell’istante (…) è veramente tale [solo] nel non-sapere”(47). Il sapere, anche nel momento in cui se ne ipotizzasse il compimento (la proprietà di ogni risposta), non potrebbe ugualmente esprimere il sacro7 che, per definizione, è ciò che ne rimane al di fuori. Per questo, nel momento in cui giungessi ad un sapere completo, potrei solo constatare la mia incapacità di sapere qualcosa che non sia l’oggetto: rimarrei all’oscuro del soggetto8. Al culmine della conoscenza dovrei quindi constatare di non sapere nulla di esso – di me – e quindi nulla in assoluto. 4

Si veda a tal proposito F.C. Papparo, Incanto e misura, e la sua nozione di coscienza-senza. Esporrò di seguito come non essere sottomessi ad attività utili non significa non agire in assoluto, rimanere inerti, quanto invece compiere non più azioni ma atti, inutili e privi di scopo: effusioni, spese gloriose di energia senza contropartita. 6 Ciò non significa che ne neghi l’esistenza o l’efficacia. Bataille rivendica l’esistenza negata e rimossa di una dimensione inefficace, poetica, ma non disconosce una parte a favore dell’altra (si ricadrebbe nella frammentazione opposta); piuttosto evidenzia la necessità di valutarle, pur nella loro contraddittorietà, come ugualmente reali e contemporaneamente esistenti. A tal proposito si veda Elena Pulcini, Il bisogno di Dépense. Passioni, sacro, sovranità in G. Bataille, in Filosofia Politica anno VIII, n. 1, aprile 1994. 7 Si veda il paragrafo 1.2 sul sacrificio. Per ora mi limito a dire che è sacro il miracoloso, ciò che pur essendo considerato impossibile (dal sapere), esiste. 8 Come chiarisce J.L. Nancy (Il pensiero sottratto, 79-80) riferendosi alla polemica fra Sartre e Bataille circa il non-sapere, se il primo lo considera immanente al sapere, di modo che un pensiero che pensa di non sapere è ancora un pensiero, per Bataille esso significa sapere che “non c’è sapere al di là del nostro sapere, che «sapere» non designa altro che la conoscenza d’oggetto (…) e che la totalità dell’essere non dipende da un sapere. Sapere ciò, ossia non-sapere, (…) non vuol dire rimandare al futuro o al più alto il sapere ultimo, ma entrare nell’oscurità e nell’opacità di ciò che in nessun modo dipende più dal sapere”. 5

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La conoscenza si esprime e trasmette attraverso il linguaggio, che, attribuendo un nome a parti del continuum (il mondo immanente) considerate come ‘distinte’, non rispecchia il vero modo di presentarsi della natura: “La vita [è] accumulazione e perdita di forze(…) Non può dunque esserci una sostanza isolabile”9. Ogni discorso istituisce delle distinzioni arbitrarie, poggianti essenzialmente sulle sue stesse definizioni. Una parola è definita attraverso un insieme di altre parole e così via all’infinito, e lo stesso Hegel non fa mistero che, a suo avviso, “La conoscenza, quand’anche fosse acquisita in modo definitivo e fino in fondo, non è mai data, in definitiva, se non nel suo sviluppo temporale (…) in un discorso”(45). Ciò esclude ogni possibile immediatezza del linguaggio: una parola ha una significazione, rimanda ad un oggetto e ad una definizione; inoltre “implica il durare del pensiero mentre pensa il proprio oggetto”10, e non può quindi afferrare o esprimere l’esperienza immediata del soggetto, che propriamente non è niente(rien). La sovranità si presenta come un abbandono del servilismo del sapere: è nonsapere, cioè disposizione a piegarsi sul soggetto per sentirne le manifestazioni. Il sapere rappresenta per Bataille lo stadio “adulto” dell’uomo, perché ipostatizza il trascendimento dell’animale in sé e della natura caotica (labirintica), tanto che “I profani o adulti, i saggi e i ragionevoli, sono coloro che non hanno la forza di desiderare il loro irrimediabile destino – la tragedia violenta della vita umana”11. Attraverso il pensiero e il ‘sapere’ che ne consegue, l’uomo si forma un progetto, una strategia d’azione, perché attraverso il lavoro – l’azione svolta nei confronti della natura per modificarla – prende coscienza degli usi cui destinare gli oggetti che mano a mano conosce. È proprio attraverso la conoscenza acquisita tramite l’uso della cosa che l’intelletto riesce a parlarne (inserirla nel discorso). L’uomo agisce per via delle proprie aspettative; le azioni che intraprende sono dettate da un calcolo delle probabilità decretato dalla sua conoscenza della relazione di cause ed effetti che istituisce come legge necessaria della natura; ma come visto ogni progetto è servile, così la stessa ragione è un veicolo di quel servilismo. “Nessuna «risposta» può offrire all’uomo una possibilità di autonomia. Ogni «risposta» subordina l’esistenza umana. L’autonomia – e la sovranità – dell’uomo dipende dal fatto che egli è una domanda senza risposta”12. Progettare di cogliere in sé la sovranità (cioè di affermare la propria soggettività) è dunque sinonimo di asservimento al tempo della durata, e lungi dal cogliere l’immediatezza soggettiva relega colui che lo faccia a non travalicare la propria oggettività: “Colui che vuole salvare la propria vita la perderà. Nessuno può essere (…) sovrano se non si perde”(238). Conoscere, infatti, significa “Sforzarsi, lavorare, [perciò] è sempre un’operazione servile”, e l’unica modalità conoscitiva potenzialmente sovrana dovrebbe “prodursi nell’istante: ma l’istante resta al di fuori(…) del sapere”(46). 9

G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 27 F.C. Papparo, Incanto e misura, 100 11 G. Bataille, Venti proposizioni sulla morte di Dio, in La congiura sacra, 208 12 G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 177. In questa frase si esplica il principio di immanenza di Bataille: non più la ricerca di una via d’uscita dal caos/labirinto ma l’accettazione della propria esistenza nella definitiva deriva al suo interno. 10

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Essere in funzione di un progetto equivale ad essere asserviti (“cose”). Costruendo “attrezzi di selce grezza” l’uomo trasforma la realtà e ne fa una cosa per sé: una cosa è, infatti, ciò che ci serve in funzione di un progetto. Ma in questo modo, all’epilogo, l’uomo stesso diviene una cosa: preferendo la servitù alla morte, infatti, utilizza lavorando il suo tempo presente funzionalizzando la sua esistenza ad un imprecisato momento futuro in cui userà il suo stesso attrezzo, divenendo così una funzione del suo stesso lavoro. Tuttavia si evidenzia un paradosso: ogni progetto è risibile se fatto da un soggetto che, a differenza dell’oggetto immutabile, potrebbe non essere più, morire, prima che quel progetto giunga al suo termine: “L’uomo che si serve dell’utensile (…) diventa egli stesso oggetto al pari dell’utensile. Il mondo della pratica è un mondo in cui l’uomo è lui stesso una cosa. (…) tuttavia, non è veramente una cosa. Una cosa è identica nel tempo, ma l’uomo muore e si decompone, non è la stessa cosa di quest’uomo che prima viveva. Così il morto che si decompone è una contraddizione attiva nel mondo della pratica”13. L’essere umano, asservendosi, divenendo funzione del suo stesso lavoro e dell’immagine di sé nel futuro, si considera alla stregua dell’oggetto: identico a sé nel tempo; ma l’essere umano, per quanto asservito al suo lavoro, non può rinunciare alla sua soggettività. Si esprime così la differenza: l’uomo non è “in tutto” una cosa; a differenza di essa può morire (fallire il suo progetto). La morte, infatti, “distrugge, riduce a NIENTE l’individuo che si prendeva (…) per una cosa, identica a sé stessa”. L’uomo-oggetto è colui che immagina di avere un avvenire, ma la “morte distrugge ciò che fu avvenire, che è diventato presente cessando di esserlo”(59-60). Per non morire l’uomo si asservisce, ma asservendosi non può più vivere (non può più essere un soggetto, un sovrano, un uomo). Farà così dei progetti per assurgere a quella sovranità perduta, ma fallirà perché come visto il progetto la esclude, e in più perché la morte stessa lo impedisce. Ed è in questo senso che si può a pieno titolo affermare che la sovranità, non risiedendo in un oggetto, è sprovvista di un avvenire come di un’identità: il che equivale a dire che il soggetto batailleano, essendo l’espressione immediata della sovranità, denuncia una mancanza di sostanza, di identità (individualità) e di avvenire14. Non essendo una cosa, il Sovrano è l’«io-che-muore» Accettare la propria differenza dalla cosa, dall’immutabile, significa accettare la propria mortalità; in mancanza di un futuro certo la necessità di spendersi immediatamente, tragicamente (diversamente da quanto succede per la Signoria hegeliana che invece richiede un riconoscimento). Ogni sistema di conoscenza è finalizzato alla soppressione – ed è originariamente motivato dall’angoscia – della paura della morte. Ogni sistema, sia esso filosofico, religioso, politico o scientifico, si sviluppa per affidare un senso al mondo e capire come allontanare da esso lo spettro dell’annientamento, inscrivendo la morte stessa nel suo discorso; ma come visto il discorso può parlare solo di ciò che definisce, che, quindi, in base 13

G.Bataille, Il paradosso della morte e la piramide, in L’aldilà del serio…, 198 La mancanza di identità del soggetto verrà approfondita nel capitolo 3. Un soggetto non può considerarsi tale che nella comunicazione profonda (a-linguistica) con l’altro: si tratta quindi di un essere non più definibile da un ‘io’ bensì da un ‘noi’, espressione dell’essere comuniale, dell’«essere-con». 14

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alla sua azione sulla natura, conosce. Ebbene, la morte è l’inconoscibile per eccellenza: “Io muoio nella misura in cui ho coscienza di morire. Ma se la morte sottrae la coscienza, non ho soltanto coscienza di morire: questa coscienza, allo stesso tempo, la morte la sottrae in me…”15. L’animale selvatico, incapace di attribuire senso perché non agente sulla natura (non la lavora/trascende), non proietterà l’ombra della morte sul suo futuro; in realtà non si può nemmeno dire che “abbia” un futuro. All’uomo invece, così necessariamente determinato dalla negazione della natura, toccherà di “morire umanamente, nell’angoscia, [il che] vuol dire avere della morte la rappresentazione resa possibile dallo sdoppiamento di sé stessi in presente e futuro”(62). Il sovrano oltre a non avere un avvenire, essendo cioè simile all’animale selvatico, non proverà nemmeno l’angoscia per la morte… e in un certo senso non morirà: “sfugge alla morte in quanto vive nell’istante”(62). Ma non ci si deve ingannare: il Sovrano non è in tutto uguale alla bestia; esso, infatti, è (vagamente) cosciente della propria mortalità. Tuttavia, come detto, non subordinandosi alla pratica del progetto (non curandosi della propria autoconservazione), rischia la vita mettendo in gioco la sua esistenza16. Ora, essendo la finitezza del soggetto ciò che lo discrimina dall’oggetto, il sovrano assumerà nei confronti del suo destino mortifero l’atteggiamento che Papparo chiama dell’io-che-muore17, che consiste nel considerare con gioia quella morte stessa.18: gioia verso ciò che, sola, permette la sovranità. La libertà Sovrana esige la trasgressione dei divieti La coscienza della morte svolge un ruolo di primaria importanza nel processo di umanizzazione: essa determina l’uomo all’azione negatrice. Bataille osserva che nello stesso periodo in cui si possono reperire i primi “attrezzi di selce grezza”, fanno la loro comparsa anche i divieti (tabù), che ripongono il loro senso nel bisogno di preservare la comunità da quegli atteggiamenti che potrebbero essere lesivi alla sua sussistenza19. Questi divieti sono per Bataille il primo veicolo del senso (per via dell’istituzione di quelle differenze, profano/sacro, che lo determinano), precedentemente allo sviluppo di una coscienza chiara e distinta, razionale; quindi “Non è l’uso della ragione ma l’osservanza di certi divieti che dette agli uomini il sentimento di non essere animali”(177). Gli uomini continuano però, almeno in tempi remoti, a considerare il mondo animale come quello dell’intimità perduta (ad opera dei divieti che ne limitano la violenza in favore della tranquillità necessaria al lavoro), tanto che essi “si riservano momenti gravi durante i quali [i divieti] li violano”(179). Ciononostante queste trasgressioni rituali (le feste orgiastiche, i sacrifici) non sono un ritorno all’animalità: le trasgressioni non significano assenza di limiti, esse “scatenano 15

G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 17 “la soggettività (…) è una questione”(216). 17 Felice Ciro Papparo, Tutti per (l’)Uno?, 67 sgg. 18 Si veda a tal proposito G. Bataille, La pratica della gioia davanti alla morte, in (a cura di) Sergio Finzi, Critica dell’occhio, nonché in G.Bataille, La congiura sacra. 19 Questa definizione dei tabù è volontariamente utilitaristica, ma per il momento è sufficiente porla in questi termini ricordando che, comunque, i tabù sono alla base della separazione del mondo in sacro e profano, permesso e vietato, che sprigiona da sé il senso del sacro. Più avanti approfondirò la precisione di questa definizione. 16

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una violenza mista alla certezza che la calma tornerà”(180): sono una commedia, uno spettacolo che l’uomo inscena per tornare periodicamente alla propria intimità con la terra; ma uno spettacolo tragico e necessario: l’uomo limitato dal divieto non è più libero, eppure non può sopprimerlo perché farlo, essendo il divieto ciò che lo fonda in quanto uomo, “non sarebbe altro che il rifiuto di essere, il suicidio”(181). L’essere umano ridotto allo stato servile, si sottomette ai divieti pur di sopravvivere, sancendo in tal modo una spaccatura con l’intimità dell’animale selvatico e la spregiudicatezza dell’essere sovrano che, accettando gioiosamente la propria mortalità, trasgredisce ogni divieto rischiando il suicidio: “La sovranità è essenzialmente il rifiuto di accettare i limiti che il timore della morte spinge a rispettare per garantire generalmente, nella pace operosa, la vita degli individui”(64). Risulta a questo punto chiaro che, istituendo il razionalismo etico una coincidenza fra il divieto e il “male”, e coincidendo la sovranità con l’indifferenza al divieto, con la sua trasgressione, il sovrano è colui che compie il male.20 È inoltre superfluo ricordare che anche nelle forme assunte dalla sovranità nella storia (che affronterò nel prossimo paragrafo), il sovrano è sempre, secondo Schmitt, “colui che ha il potere legittimo di proclamare lo stato d’eccezione e di sospendere, in tal modo, la validità dell’ordinamento giuridico, [tanto che] «il sovrano è nello stesso tempo fuori e dentro l’ordinamento», (…) si pone legittimamente fuori legge”21. Della Sovranità si può avere esperienza laddove il discorso si spezza. Se attribuire un senso ad una cosa significa renderla utilizzabile, ciò che non ha senso, che non è conoscibile, è allora inutilizzabile. Tuttavia il sapere, anche se compiuto, non potrà contenere in sé ciò che non è conoscibile ma che, nonostante ciò, accade inaspettatamente e si manifesta come uno spezzamento del discorso. La Sovranità è questo non-senso del quale non si può dire niente22, è l’interruzione del senso (e del discorso) in un accadere insensato23 che si presenta “sotto lo choc di emozioni forti che spezzano(…) lo svolgimento continuo del pensiero”(47). Ma quali dovrebbero essere questi momenti di interruzione del discorso che, pur essendo inconoscibili, si rendono comunque esperibili? Abbiamo già visto la morte: essa spezza il discorso perché per conoscerla se ne dovrebbe avere esperienza, ma se la si ha, non si può più avere nessuna esperienza24. Esistono nondimeno delle manifestazioni della sovranità delle quali possiamo avere coscienza (non chiara, non una coscienza data da una conoscenza razionale, ma da un’esperienza soggettiva, da un modo di conoscenza altro): sono quelle interruzioni del pensiero/discorso che Bataille chiama effusioni: il riso, l’angoscia, il 20

Logicamente è dovuto unicamente alla lettura moralistica delle parti (ammesso/bene – vietato/male), che il vietato è “male”. Male è invece per la morale del culmine batailleana, che da etica si fa energetica, ciò che impedisce all’uomo di manifestare la sua integrità e libertà sovrana: quei divieti e la stessa etica (in quanto derivata da processi intellettivo-razionali). Il sovrano così non è il signore del male ma colui per cui le distinzioni morali non esistono, colui che si pone “al di là del bene e del male”. 21 G. Agamben, Bataille e il paradosso della sovranità, 117 22 Si può parlare non tanto della sovranità “in sé” (un “in sé” che non ha) quanto degli effetti che la qualificano. 23 Felice Ciro Papparo, Tutti per (l’)Uno?, 75 24 Per questo la morte è la manifestazione Sovrana per eccellenza.

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pianto…, “durante le quali si fa luce una sensibilità acuta all’istante presente”(71). Certo, il riso, il pianto… sono reazioni soggettive, in quanto tali inadatte a fondare una conoscenza, ma secondo Bataille raggiungono “un certo grado di oggettività” nel momento in cui consideriamo l’oggetto del loro pensiero: non il fatto che io rida ma il motivo per cui rido ha un’oggettività che non è quella della scienza, ma non è nemmeno soggettiva: è l’“esperienza soggettiva di un’assenza d’oggetto: ciò di cui abbiamo esperienza (…) non è NIENTE”(75). Se piango è perché succede qualcosa che non mi aspettavo (l’assenza di oggetto). Ma siccome ciò che mi aspetto è dovuto alle concatenazioni di cause ed effetti che stabilisco grazie alla mia conoscenza delle cose, allora piango (o rido) di ciò che non avevo calcolato, di ciò che non mi aspettavo: non arriva ciò che prevedevo (arriva ciò che era impossibile) perciò non arriva niente (niente di cui io possa dire qualcosa). L’uomo agisce in base a delle previsioni, quando una di queste non è rispettata c’è un effusione, tanto che esse manifestano una falla, un’inconsistenza del sistema conoscitivo razionale; sono il sintomo che rivela la non onnicomprensività della ragione. Sovranità e sacro. Il sacro è una manifestazione miracolosa, posta perciò al di là della sfera profana (del lavoro, del calcolo discorsivo). Il miracoloso è ciò che Bataille definisce “Impossibile! Eppure esiste”25, ed è quindi, come visto, ciò che spezza in un punto il sapere e le sue concatenazioni logiche: “Ciò che conta (…) è che l’attesa, quello che lega nell’attività, il cui senso è dato nell’attesa ragionevole del risultato, si risolva, in modo stupefacente e inatteso, in niente”26. Non approfondirò la nozione di sacro in Bataille; mi limiterò qui ad osservare che l’uomo può dirsi tale solamente riconoscendosi come soggetto (liberandosi della “cosa”), e che quindi “Non ha che un’importanza secondaria il sapere se, nell’attesa seguita da NIENTE, la sorpresa è triste o gioiosa”(53), se l’essere uomo implichi, secondo i termini tradizionali, il «bene» o il «male»27: “Il sacro è questa agitazione prodiga della vita che, per durare, l’ordine delle cose incatena e che l’incatenamento tramuta in scatenamento, ossia in violenza. Senza tregua minaccia di infrangere le dighe, di opporre all’attività produttrice il movimento precipitoso e contagioso di un consumo di pura gloria. Il sacro è precisamente paragonabile alla fiamma che distrugge il legno, consumandolo. È il contrario di una cosa, è l’incendio illimitato che si propaga”28.

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Si veda il debito di Bataille a Goethe per questa definizione del sacro (che esso espresse per definire l’evento della morte) in G. Bataille, La sovranità, 48-49 e 56n. 26 G. Bataille, La sovranità, 54. Riguardo ai termini nulla/niente, secondo Papparo (Incanto e misura, 20sgg) curatore e traduttore de “La sovranità” hanno invertito il senso cui Bataille si atterrebbe. Così il rien viene tradotto in niente, ma Bataille, secondo Papparo, contrappone proprio il rien/nulla al neant/niente, come il non-qualcosa (solo esperibile) al niente metafisico, pensabile e concettualizzabile come assenza di ente. Per semplificare utilizzerò i termini francesi rien–neant, chiarendo che il rien è il dato esperienziale e il neant configura il termine con cui la metafisica esistenzialista considera il pensiero della negazione dell’ente, quindi ancora un’idea. In Bataille l’esperienza del rien non rimanda a nessun’idea di esso, elimina ogni senso, apre al luogo del non-senso, della insubordinazione all’uso propria dell’inconoscibile dell’istante (si veda a tal fine Bataille, La sovranità, 56n). 27 Si veda a tal proposito Rita Bishof, Nietszche, Bataille e il problema di una nuova morale. 28 G. Bataille, Teoria della religione, 49

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1.1.2. LA SOVRANITÀ NELLA STORIA Sintetizzando quanto detto, l’uomo si riduce a “cosa” asservendosi al lavoro (negando la natura) pur di evitare l’angoscia della morte, ma si trova di fronte ad un’ulteriore negazione: passivamente la morte nega la sua identità fra passato e futuro, la sua persistenza oggettiva; in senso attivo è lui stesso a non volersi più asservito, a volersi finalmente sovrano di sé, ad esigere di poter trasgredire i divieti da lui stesso istituiti. Il senso della “negazione della negazione”, è quello di un completamento del circolo illusorio avviato dal sapere umano e destinato a richiudersi su sé stesso (dopo la luce, tornare nella notte). Il mondo arcaico, feudale, autocratico Nel mondo arcaico “Il re circondato dai sacerdoti, che lo consacravano re, era il riflesso della sovranità globale”(73). Esso era la manifestazione del miracoloso che perciò non si ricercava interiormente, mentre la massa a lui asservita – e asservita per aver coscientemente preferito la servitù alla morte – tratteneva di ciò che produceva col suo lavoro lo stretto necessario per sopravvivere (per continuare a lavorare), e destinava il sovrappiù al sovrano che, infine, spendeva gloriosamente (senza contropartita) ciò che non era stato lui a produrre. In questo contesto il sovrano è l’unico soggetto, di cui l’immensa massa dei sudditi è l’oggetto. Il soggetto gode di ciò che l’altro-cosificato produce in sua funzione, tanto che “Il coltivatore non è un uomo: è l’aratro di colui che mangia il pane”1. Questa alienazione della propria sovranità ad un soggetto esterno, era possibile per via del fatto che la massa riconosceva al sovrano una magnificenza che lei non aveva, e che esso manifestava attraverso la sua temerarietà; non era quindi la ricchezza a determinare il ruolo sovrano, ma una dignità, una gloria, manifestate dal suo ardimento di fronte alla morte: “Non è la proprietà che conferisce la sovranità. La sovranità è sempre una qualità soggettiva”(129n), perciò il rango “era dovuto alla presenza sacra di un soggetto la cui sovranità non dipendeva dalle cose ma attirava a sé le cose nel suo movimento”(185). In definitiva la massa si sottometteva al lavoro e trasponeva la sua soggettività in un sovrano dal quale si aspettava dimostrazioni di splendore; essa ritrovava la sua intimità attraverso l’identificazione col soggetto sovrano e i suoi fasti. Le spese faraoniche che esso compieva (costruendo edifici fastosi o finanziando guerre) restituivano al presente ciò che era stato prodotto sotto il primato del futuro, e concorrevano ad istituire le distinzioni di rango. Al di là del mondo arcaico, la forma di sovranità effettivamente manifestatasi nelle società feudali ed autocratiche del passato, è per Bataille quella “dell’eccezione (un solo soggetto, fra tanti, gode delle prerogative dell’insieme dei soggetti)”(80), e seppur questa forma preservava almeno il re dall’oggettivazione, Bataille spiega che “Dalla servitù della cosa (…) Non è sufficiente che [l’uomo] si sbarazzi al modo dei sovrani del passato: sarebbe solo una scappatoia, quella sovranità era una lusinga, era la schiavitù degli altri”2.

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G. Bataille, Teoria della religione, 39. G. Bataille, Il paradosso della morte e la piramide, in G Bataille, L’aldilà del serio… , 208

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Storicamente la sovranità non si è mai manifestata nella sua forma pura, ma è sempre stata contaminata da delle funzioni, in quanto, per essere re, il soggetto sovrano deve essere riconosciuto tale3; la sovranità del re diviene così una carica politica, legata al potere, che inscena una “Commedia dello splendore [in cui] l’umanità si sforzava miseramente di sfuggire alla miseria”(89). Una sovranità pura non può mai avere un potere, perché esso presuppone una ‘proprietà’ e la necessità di salvaguardarla, e ciò, svolgendosi sul piano dell’azione programmata, non può ricondurre il re all’immediatezza della propria soggettività. La sovranità reale, mescolandosi al potere, svilì la possibilità per la massa di identificarsi ad essa. La massa, non più emotivamente legata alla figura sovrana, non poté infine più sopportare le spese fastose che un re si poteva permettere solo attraverso lo sfruttamento del suo lavoro: essa negò infine la figura sovrana, nella persona del re, per pretendere il proprio accesso alla sovranità in prima persona. La rivoluzione L’uomo-massa della “negazione della negazione”, volendo accedere direttamente, e non più grazie all’identificazione col re, alla sovranità, cercando per sé la gloria, non le può trovare se non nel crimine. Questo crimine – la trasgressione del divieto per eccellenza – è l’uccisione del sovrano stesso: il “potere di realizzare il desiderio comune è convogliato nella persona del re, che diviene il solo responsabile. Il re è precisamente il garante dell’ordine delle cose, deve quindi essere incriminato quando appare il disordine”4. In uno stralcio de “L’esperienza interiore”, Bataille ricorda come la pratica del sacrificio fosse determinata dalla necessità di un ritorno, dei partecipanti ad esso, ad una comunicazione profonda. In questo caso gli uomini assoggettati ad un re, costretti quindi ad un’assenza di comunicazione con l’unico soggetto sociale per via della sua esistenza separata, alla lunga decisero che “dovevano mettere a morte non lo schiavo ma il re, per assicurare il ritorno alla comunione di tutto il popolo”5. La repubblica si fonda dunque sul crimine, e non può che sussistere mantenendosi a livello dello stesso crimine che l’ha resa possibile: “Una nazione già vecchia e corrotta, che coraggiosamente scuoterà il giogo del suo governo monarchico per adottarne uno repubblicano, si manterrà soltanto attraverso molti crimini; perché essa è già nel crimine”6. È possibile decapitare il re solo se preventivamente si è accettata la natura criminosa del potere desacralizzato: “La messa a morte del re da parte della nazione è quindi solo la fase suprema del processo la cui prima fase è la messa a morte di Dio attraverso la rivolta del gran signore libertino. L’esecuzione del re di-

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Sul ‘riconoscimento’ come discrimine fra signoria Hegeliana e Sovranità batailleana si veda il paragrafo su Hegel. 4 Roger Caillois, Il potere, in G.Bataille, Il collegio di sociologia, 160. Questa conferenza fu tenuta da Bataille ( il 19 febbraio 1938) per via di una malattia che non permise a Caillois di farlo, e in effetti i toni ed i contenuti sono chiaramente batailleani, e in vivo contrasto con le tesi sostenute da Caillois stesso. Di lì a poco, la rottura del collège. 5 G. Bataille, L’esperienza interiore, 193. E’ in questo senso che Caillois (Sociologia del boia, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 323), rifacendosi al discorso di Saint-Just del 1791, parla del monarca come (schmittianamente) di una figura al di fuori della legge, escluso dal regime repubblicano già per il solo fatto di essere stato re: “Non si può regnare senza colpa”. 6 Donatine-Alphonse-François marchese di Sade, citato in G. Bataille, La congiura sacra, 89

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venta così il simulacro della messa a morte di Dio”7. Nella società nella quale il potere non è più legittimato da un elemento sacro (la sacralità della figura sovrana, emanazione del potere di Dio sulla terra), il potere di uno sugli altri diviene intollerabile; infatti “l’uomo che all’ultimo gradino della gerarchia raggiungeva Dio nell’atto di servire, e che è caduto nella condizione di schiavo ora che Dio è morto (…) in effetti si rivolta; accetta quindi la morte di Dio; ma quando si spingerà a fare il processo del suo padrone, in nome di che cosa lo farà se non della prerogativa del crimine? Non gli rimane che diventare all’istante complice della rivolta del suo padrone contro Dio, e assumere a sua volta il crimine”8, altrimenti, essendo la sovranità politica (storica) sempre intrecciata a doppio filo col potere, se il rivoluzionario si limitasse a sopprimere la sovranità si troverebbe ben presto preda del potere più oggettivo. Una nazione “vecchia e corrotta”, è una nazione giunta ad un certo grado di criminalità, ma a questo grado l’hanno condotta i suoi antichi padroni. È perciò che “La comunità rivoluzionaria sarà dunque, in sostanza, segretamente ma intimamente solidale con la disgregazione morale della società monarchica, poiché è grazie a questa disgregazione che i membri hanno acquisito la forza e l’energia necessarie alle decisioni cruente”9. Se precedentemente alla rivoluzione il potere limitava tutti tranne il sovrano, ora, ucciso il sovrano e non persistendo nel crimine, quello stesso potere limita tutti, nessuno escluso: “Il ribelle rifiutava di alienare a vantaggio di altri una sovranità che gli apparteneva (…) Liquidò la soggettività regale che (…) lo privava della sua propria soggettività, ma non seppe ritrovare per sé ciò di cui la gloria del re l’aveva privato”(94). Viene cioè perduta la componente sacra del potere, e si cerca di sostituirla ricorrendo ad istanze razionali: “il gran signore libertino alla vigilia della rivoluzione (…) non [ha] più un autorità indiscussa, pur avendone conservato gli istinti, e poiché la sua volontà non ha più nulla di sacro, egli adotta il linguaggio della folla (…) cerca argomenti nei filosofi (…) non credendo più al diritto divino, cerca di legittimare la propria condizione privilegiata con i sofismi della ragione accessibili a tutti”10. Se, insomma, gli individui di una data società “rinunciano a vantaggio di un sovrano (…) [alla propria sovranità] trasponendo[la] nella sua persona (…) trovano, contemplandola in essa, il rapimento religioso che è il loro fine. Se (…) [invece sostengono che] la pretesa sovranità dei re appartiene a loro (…), essi possono rinunciare sovranamente (…) senza lasciare in retaggio a un altro quel bene che sembra loro inalienabile(…). [Ma] I fini sovrani sono l’oggetto del più grande interesse nelle società la cui popolazione è monarchica; lo sono invece i mezzi, quando gli individui rinunciano sovranamente, ma rinunciano, alla sovranità”(163). Questo succede perché ogni rivoluzione può ribaltare un ordine solo per instaurarne un altro: “non possiamo avere l’intenzione di sostituire a un sistema coercitivo la libertà, dobbiamo per forza imporre qualche nuovo obbligo (…) che permetta alla società di continuare a riconoscere il primato dell’attività utile. Come prima dobbiamo privarci di lussi troppo costosi: e cioè di una certa libertà chiamata il male”(243). 7

P. Klossowski, Il marchese de Sade e la rivoluzione, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 298-299 idem, 298 9 idem, 296 10 idem, 297 8

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È a questo punto facilmente comprensibile il valore dell’affermazione di Nietszche a proposito della rivoluzione: “Le guerre sono le più grandi eccitazioni della fantasia (…). La rivoluzione sociale forse è qualcosa di anche più grande; per questo verrà. Ma il suo successo sarà minore di quanto si pensi”11. Infatti ogni rivoluzione moderna è stata condotta non contro la borghesia ma contro i fasti, prodotti dal feudalesimo12, che l’individuo-massa considerava come un maltolto che avrebbe potuto essere altrimenti ridistribuito. Questa convinzione ha contribuito nel tempo, con l’avvento della presa del potere del Servo a spese del Signore, a modificare la struttura economica, volgendola dal primato delle opere verso il primato dell’accumulazione, che si distingue nelle due forme sociali oggi esistenti: comunismo (in cui a gestire e regolamentare l’accumulazione è lo stato) e democrazia borghese (in cui è l’individuo atomizzato). La società borghese L’accumulo delle ricchezze è il principio borghese per eccellenza13. Nelle società borghesi non c’è più un sovrano che restituisca al presente, per mezzo di dispendi gloriosi, la ricchezza accumulata; tuttavia la borghesia, mantenendo la distinzione delle classi (non più in base a rango o gloria, ma in base alla ricchezza), non si svincola completamente dalla società feudale, bensì aspira ad elevarsi all’altezza dei fasti perduti: essa ha combattuto la nobiltà solo per sostituirvisi14: “Voler mantenere questo stato di cose [il fasto feudale e la distinzione in classi] significa essere aristocratico. Ma essere democratico non è volerlo infrangere bensì volervi partecipare, essere in questo sistema chiuso: non potendo entrare nelle antiche tribù [classi], se ne fanno di nuove, figlie, come le altre, di un eroe fondatore; nella città così ricostruita, una volta entrati, ci si organizzerà per non permettere a quanti non ne fanno parte di introdurvisi”15. Rimangono delle classi ed una lotta dell’“uno contro tutti” per risalirle, ma viene perduto il senso che giustificava la risalita nelle società feudali: il valore personale, la gloria, lo splendore… ciò che rimane non è altro che una gradazione di ricchezze, cioè di servilismo. Per Klossowski, Sade rimprovera ai rivoluzionari che “Vi siete rivoltati contro l’iniquità; per voi l’iniquità consisteva nell’essere esclusi dalla pratica dell’iniquità; rivoltandovi contro l’iniquità, avete replicato solo con l’iniquità, poiché avete ucciso i vostri padroni come i vostri padroni avevano ucciso Dio nella loro coscienza. La giustizia, per voi, (…) può consistere solo nella pratica comune dell’iniquità individuale (…) Tutto ciò che intraprenderete porterà ormai il marchio dell’assassinio”16. Si è perso il senso che giustificava l’ascesa: accumulando ricchezze per giungere ad una posizione che crede sovrana, il borghese capitalista ‘mima’ comicamente la grandezza della sovranità; la tragicità sovrana si degrada alla commedia borghese: “Il mondo dell’accumulazione è un mondo sbarazzato dei valori della 11

G. Bataille, Il limite dell’utile, 99 Anche la rivoluzione sovietica non è altro che un sovvertimento dell’ordine feudale zarista. 13 Le spese non sono più inutili (chiese, monumenti, feste) ma sono reinvestite sotto forma di capitale (fabbriche, mezzi di produzione), per cui anche le spese sono una forma di accumulo e servono per esso. 14 Nel paragrafo su “La structure psychologique du fascisme” evidenzierò i legami che intercorrono tra borghesia e fascismo, ovvero una forma moderna di autocrazia basata sul sentimento del sacro. 15 Renè M. Guastalla, Nascita della letteratura. in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 277. 16 Pierre Klossowski, Il marchese de Sade e la rivoluzione, cit., 301 12

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sovranità tradizionale (…) il rango conserva (…) un’importanza costante (…) ma ora è determinato solo dal denaro”(260-261). Ci si serve infatti di un mezzo (il danaro accumulato) per ottenere una posizione gerarchica. Ma la posizione sovrana esclude il progetto, quindi “se la cerco, faccio il progetto di essere– sovranamente: ma il progetto di essere–sovranamente implica un essere servile”17. Il comunismo Il comunismo, escludendo la divisione in classi attraverso la collettivizzazione dell’accumulazione, elimina ogni surplus di ricchezza tramite la redistribuzione (appiattisce tutti alla posizione del servo). Se nel socialismo, fase transitoria verso il comunismo18, ciò che si può ridistribuire non è il lusso ma semplicemente il necessario (ancora una volta si lavora per mangiare, si mangia per lavorare), è però vero che nel comunismo l’uomo pur sopprimendo la sovranità “cessa di essere una cosa. O meglio, diventa così interamente cosa che non è più una cosa. Divenendo grazie a una qualifica poli-tecnica, un perfezionamento della cosa, una perfezione dell’utilità, e perciò della servilità, cessa di essere riducibile a un elemento particolare, come sono le cose”(140). L’egualitarismo comunista pretende di liberare ognuno dal bisogno costituendo una massa sovrana (o di sovrani). Tuttavia, per asserire questo principio di uguaglianza, limita l’uomo alla definizione che di esso dà la scienza naturale (un ominide contraddistinto dall’uso e fabbricazione di oggetti: l’homo faber), rigettando ogni ulteriore differenza. Però Bataille osserva che nonostante tutto “Certi comportamenti elementari, il modo di mangiare, per esempio, o quello di espellere, o l’attività sessuale sottoposta a certe regole, distinguono [a loro volta] l’uomo dall’animale. Da questo punto di vista, ogni uomo è certamente superiore all’animale, ma più o meno: la maniera in cui soddisfa i suoi bisogni animali è più o meno umana (…) questo tipo di distinzioni lo si ritrova nella vita corrente, a tutti i livelli della vita sociale. Ci sono pochi uomini che non abbiano provato nausea un giorno di fronte all’animalità relativa di qualcuno (…). [Questo] dà luogo a giudizi di valore primari – fondati sul disgusto e la simpatia – che si oppongono al principio comunista del valore equivalente e non dipendono da alcun calcolo di interesse”(170-171). Per Bataille le differenze tra individui non sono riducibili unicamente alle loro ricchezze, ma anche al grado di umanità che essi assumono in base a dei giudizi primari; quindi, anche ipotizzando l’instaurazione definitiva del comunismo, in base a questi giudizi si ricreerebbero delle distinzioni e delle classi di dignità. Del resto i comunisti cadono nel tranello che loro stessi avevano ordito: anche essi esprimono giudizi primari affermando che gli “sfruttatori di uomini” sono disumani. Se infatti questi esseri, del tutto identici agli altri in base alla definizione delle scienze naturali, sono meno umani, allora anche il comunismo ricrea delle gradazioni di umanità tradendo l’egualitarismo professato.

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G. Bataille, Hegel, la morte e il sacrificio, in L’aldilà del serio…, 167 Il motto della fase socialista è: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro”; quello della fase comunista, successiva; “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” 18

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In definitiva anche il comunismo ricrea delle distinzioni in base a un divieto, “Valuta a sua volta gli individui, i governi o le classi secondo il rispetto che manifestano per il divieto, da esso formulato, che si oppone allo sfruttamento”(174). La sovranità oggi: un’esperienza interiore Nelle società contemporanee, prive di manifestazioni di grandezza, non è più possibile reperire una soggettività sovrana all’esterno. Si apre un nuovo campo di possibilità interiori, una ricerca in sé stessi della sovranità, delle sue manifestazioni; si tratta di una nuova sensibilità nei confronti di quelle effusioni che, come visto, pur essendo soggettive, raggiungono un certo grado di oggettività in relazione al loro oggetto. La sovranità stessa non è soggettiva proprio perché si comunica. Gli oggetti non possono indurre una comunicazione, sono sempre identici a sé, chiusi: essa è possibile solo fra soggetti, e l’unica distinzione universale fra soggetti ed oggetti sta nella mortalità dei primi. È perciò la morte, il fatto di essere lacerati, di portare in sé una ferita e un’indeterminatezza, che apre la possibilità della comunicazione: “fondamento della comunicazione (…) è l’essere «noncompiuto» (inachevé): nella misura in cui gli esseri sembrano perfetti, essi restano isolati, rinchiusi in sé stessi. Ma la ferita del non-compimento li apre. (…) Se l’essere fosse compiuto (…) non si darebbe nessuna comunicazione, nessuna relazione significativa”19. In questi termini, affinché si instauri una comunicazione profonda, i soggetti devono essere sovranamente, devono distinguersi dalla cosa che erano divenuti nel corso del processo di umanizzazione (di negazione della natura), devono cioè chinarsi sul proprio nulla, sulla propria morte. L’uomo non è mai solo un oggetto, è sempre un “oggetto in questione… il cui contenuto fondamentale è la soggettività, che è una questione”(216). “La soggettività non è mai oggetto della conoscenza discorsiva, ma si comunica da soggetto a soggetto grazie al contatto sensibile dell’emozione”(83). Ma che cosa si comunica, quale può essere il nonoggetto (rien) di una comunicazione a-discorsiva? Le passioni (nel loro senso etimologico), “di cui le persone che ridono sentono la trasparenza sorprendente, trascinante, che passa dall’uno all’altro, come se un medesimo riso sollevasse un’unica onda interiore”(84). Ciò che rende comunicabili le effusioni è il fatto che esse giungono ad una certa oggettività attraverso “L’esperienza soggettiva di un’assenza d’oggetto”, e che cos’è l’assenza di oggetto, quel dire “io sono niente”, se non la sovranità? Il mondo contemporaneo – capitalista o comunista – è in tutto il mondo della cosa, ma questo mondo nasconde una menzogna politica: esso condanna ogni spesa fastosa, ogni spreco immediato della ricchezza, nega all’uomo l’intimo bisogno di dispendio attraverso un’economia limitata alla produzione in vista del futuro20, ma l’accumulo sprigiona una crescita di ricchezza che rende, a lungo andare, inevitabile quello che i capitalisti non sembrano voler accettare: il fatto che esso 19

R. Ronchi, Un’ontologia dell’eccesso, 92 Per stigmatizzare le differenti economie, del dispendio glorioso e dell’sccumulo borghese, si può ricorrere all’immagine delle forme assunte nelle diverse epoche dalle guerre: da eccesso di vitalità e dimostrazione del proprio valore nel disprezzo della morte, a guerra di trincea, dell’attesa. 20

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“non può esaurire la sua ricchezza senza il ricorso alle differenze di rango e alla guerra” (261) . Prospettive “L’azione rivoluzionaria [è] la sola che sia adulta”(244); non si dà altra forma di rivendicazione politica all’altezza di un mondo ridotto alla cosa. Ma al di là di essa c’è qualcosa d’altro. Ho mostrato il carattere infantile della Sovranità: la messa in questione. Questa messa in questione, questa critica del potere che rimane infantile perché incapace di sovvertire alcunché, perché priva di progetti o di ricerche dell’utile, votata a spendere senza contropartita quel surplus di energia necessariamente presente in ogni essere, è la rivolta. Sartre dice che la rivolta è infantile perché “Non vuole né distruggere né oltrepassare l’ordine stabilito, ma soltanto ergersi contro esso”21. Ma a ben vedere questa rivolta, trasgredendo l’ordine sociale eppur mantenendolo, non è diversa da quella trasgressione rituale dei divieti che nelle società arcaiche si praticava per mantenere un contatto con l’intimità perduta (che è come dire che per trovare il soggetto è necessario lottare infantilmente, senza progetti, ribellarsi… ma comunque farlo). Essa, certo, non potrà portare al potere, ma “l’uomo dell’arte sovrana occupa la situazione più comune, quella della povertà (…) inoltre deve rinunciare a richiedere per queste classi [povere] il privilegio di dirigere (…). Coloro che vogliono dirigere il mondo – e cambiarlo – vogliono anche l’accumulazione. Coloro che preferiscono che altri lo dirigano, anche se in essi il rifiuto di dirigere è la conseguenza del rifiuto di essere diretti, aspirano a consumare”(259), e di certo questa “affinità con la povertà (…) agisce solo nella ripugnanza per l’iniziativa (…). Le masse operaie a cui mi riferisco ridurrebbero, se avessero potere di decidere, la parte d’accumulazione e aumenterebbero quella destinata ai salari”(259-260), “Così il movimento operaio e la politica di sinistra, (…) significano principalmente, opponendosi al capitalismo, una parte più grande di ricchezza votata al dispendio improduttivo”22.

21 22

J.P. Sartre, Boudelaire, Mondatori, Milano 1947, 39. Citato in G. Bataille, La sovranità, 243 G. Bataille, La parte maledetta, 149

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1.2: IL SACRIFICIO E L’INTIMITÀ PERDUTA Il sacro è dunque razionalmente inconoscibile, rimane al di fuori delle categorie logiche; eppure esiste. Se si accetta che il sapere è compiuto e che l’uomo non ha altro veicolo di conoscenza, esso è l’impossibile o il niente (rien); in ogni caso è ciò che si pone al di là del sapere: “la concezione del sacro liberata da qualsiasi trascendenza viene riportata alla pura immanenza dell’esistenza umana”1. Però il sacro batailleano non coincide col religioso o con la sacralità della rivelazione: le religioni rivelate sacralizzano il principio razionale di causazione (teorizzando il Dio/motore-primo), definendo trascendentalmente delle cose già separate, istituendo una separazione tra sacro (trascendente) e profano (immanente) intesa come alto/basso. Il mondo diviene dominio profano della ragione, del lavoro, dell’utile, non comunicante con un sacro posto di là del divenire (della storia), nell’idea. Se le religioni rivelate escludono da sé il male, l’orrore, la violenza e la putredine della terra e si elevano verso i cieli, se al cospetto di esse profano diviene il calcolo, la sobrietà, la ricerca della sicurezza (nel mondo profano c’è l’essere incompleto, che deve lavorare per completarsi), un sacro liberato da ogni trascendenza è invece la perdita, lo scatenamento che rivela la precarietà del profano. Contro la trascendenza e l’esclusione del basso operata dalle religioni rivelate, Bataille tenta di riscattare il sacro ricollocandolo sulla terra: “Si tratta prima di tutto di non sottomettersi, e con sé la propria ragione, a niente di più elevato, a niente che possa dare all’essere che io sono, alla ragione che arma questo essere, un’autorità fittizia”2. L’obiettivo è quello di liberare l’uomo da ogni trascendenza per restituirlo alla sua soggettività; certo, la liberazione dell’uomo (dalla miseria, dalla paura, dalla morte) è lo scopo che ogni impresa conoscitiva si prefigge3, ma per Bataille queste imprese, siano esse politiche, filosofiche, scientifiche o religiose, sono votate al fallimento in quanto inscrivono il soggetto nel tempo della durata e cercano per quella via – la via della “cosa” – una salvezza. Per Bataille, come visto, il soggetto è sovrano, in quanto tale accessibile solo nel tempo impossibile (estatico) dell’istante presente; ma qual’è il mondo che prefigura questa modalità del tempo? Bataille lo chiama mondo dell’immanenza: non si tratta di un mondo ideale, di un eden immaginario, ma di un vero e proprio eden che deve essere ipotizzato precedentemente al processo di umanizzazione (e parallelamente ad esso). E’ il mondo del continuum che ho citato nel paragrafo precedente, un continuum indistinto fra gli esseri nel quale “Ogni animale è nel mondo come l’acqua dentro l’acqua”4, un mondo della comunicazione infinita in quanto “un organismo cerca intorno a sé (fuori di sé) degli elementi che gli siano immanenti 1

Giovanni Ferrari, Il limite e l’impossibile, 147 G. Bataille, Il basso materialismo e la gnosi, in G. Bataille, Documents, 102 3 “Non c’è in questo mondo alcuna immensa impresa che abbia un fine diverso da una perdita definitiva del futile istante (…) [ma] la massa degli sforzi non è nulla a confronto della futilità di un solo istante”G. Bataille, Teoria della religione, 93. 4 G. Bataille, Teoria della religione, 22. Ai fini del tema della ‘comunialità’, cito anche la frase in cui Bataille afferma che “coloro che ridono diventano insieme come le onde nel mare, non esistono più tra loro paratie finché dura il riso, non sono più separati di due onde, ma la loro unità è indefinita e precaria quanto quella dell’agitarsi delle acque”. (G. Bataille, L’esperienza interiore, 147) 2

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e con i quali deve stabilire (…) delle relazioni di immanenza”5. Con un semplice esercizio di immaginazione ci si può figurare che cosa potesse (non)essere il mondo prima che l’uomo stabilisse delle distinzioni oggettuali: ciò che ci appare è un immenso coacervo indistinto nel quale ogni essere non può far altro che provare emozioni, più o meno forti, all’apparizione di ogni altro essere, che tuttavia non può considerare distinto da sé6. Ciò perché “L’apparizione di una cosa è concepibile solo in una coscienza (…) Se ci rappresentiamo l’universo senza l’uomo (…) possiamo solo suscitare una visione in cui non vediamo nulla, poiché l’oggetto della visione è [il] mondo colmo di senso implicato dall’uomo che conferisce a ogni cosa il suo”7. Unico movimento intimo dell’uomo, dunque, unico movimento che si produca nell’istante, è quello del consumo improduttivo, della Dépense, della sacra “agitazione prodiga della vita”8 in accordo col movimento essenziale, contrario a quello terrestre, dell’universo: “Il «moto intimo» della terra procede all’inverso rispetto a quello del sole. (…) Il sole prodiga perdutamente le sue forze: il nostro suolo si divide in particelle avide di forza”9. Tale moto universale, negato dai sistemi di produzione capitalistici, minaccia di ripresentarsi, prima o poi, con esiti catastrofici, un po’ come accade con il rimosso freudiano. È perciò come afferma Papparo essenziale, al fine di evitare la catastrofe, agire una rivoluzione del “punto di vista”; da quello terrestre (terra-terra!), borghese, ad uno che sia “à la mesure de l’univers”10. Se “Le libere emissioni, analoghe a quelle delle stelle, del sole, costituiscono i dispendi improduttivi o gloriosi. (…) [e] In questo senso, la luce del sole è a ragione considerata gloriosa”11, allora si deve alla fine accettare che “La vita degli uomini è come lo sfavillio delle stelle: essenzialmente, non ha altro fine che questo sfavillio, è la sua gloria a costituirne il senso ultimo”12. L’uomo nega questo suo intimo movimento divenendo cosciente della propria mortalità, ma in questo modo nega la sua intimità. Tuttavia non potrebbe essere altrimenti: esso, infatti, è tale (e quindi può giungere alla coscienza della negazione della sua intimità) solo attraverso quella negazione iniziale, “se [infatti] si abbandonasse senza riserve all’immanenza, l’uomo mancherebbe all’umanità, non la compirebbe che per perderla e a lungo andare la vita ritornerebbe all’intimità senza risveglio delle bestie”13. La negazione della natura è una negazione 5

G. Bataille, Teoria della religione, 22 Su questo tema rimando ad una curiosa questione che Bataille tratta in una conferenza del 1951: è possibile dire che il sole esistesse prima che l’uomo apparisse sulla terra? G. Bataille, Le conseguenze del non-sapere, in G. Bataille, Conferenze sul non-sapere e altri saggi, 7-16 7 G. Bataille, Teoria della religione, 23 8 idem, 49 9 G. Bataille, Il limite dell’utile, 21-22 10 F.C. Papparo, Una traccia lasciata su un vetro rigato, in G. Bataille, Il limite dell’ utile, 241-262. 11 G. Bataille, Il limite dell’utile, 218 12 idem, 49 13 G. Bataille, Teoria della religione, 50. Tornare all’immanenza, cioè, è possibile solo una volta compiuto il sapere (la riduzione a cosa, la trascendenza): “O culmine del comico!… Dobbiamo fuggire il vuoto (l’insignificante) di una immanenza infinita, destinandoci come pazzi al falso della trascendenza! Ma questo falso illumina con la sua follia l’immanente immensità: quest’ultima non è il più puro nonsenso, il puro vuoto, ma è questo fondo dell’essere pieno, questo fondo vero, davanti al quale si dissipa la vanità della trascendenza. Non l’avremmo mai conosciuta – per noi, non sarebbe mai esistita (e forse, a farla esistere per sé questo era il solo mezzo), se non avessimo prima messo a morte, poi negato, demolito la trascendenza. (Sarà possibile seguirmi così lontano?)” (in G. Bataille, Su Nietszche, 193-194). 6

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della propria negatività, del proprio essere mortale, viene operata nell’aspettativa di una liberazione dalle insidie della natura/morte, ma non può far altro che rendere l’uomo cosciente, al culmine, di nulla potere nei confronti di un evento miracoloso che rimane comunque al di là della sua capacità razionale. La morte è dunque il fulcro della discussione: essa è l’unico evento comune a tutti gli esseri viventi, rende possibile la comunicazione, esprime quell’al di là sacro del soggetto che è sì lo spazio di evenienza dell’altro, ma anche quello della perdita di sé stessi. L’uomo è però l’unico essere a “discernere nel mondo degli oggetti e negarli”14, ed è perciò l’unico ad avere coscienza della morte, tanto da negarla con la pretesa di annullarla definitivamente (non dover più morire); ma questa negazione conduce all’oggettivazione del mondo e dell’uomo stesso al suo interno, e quindi alla perdita del soggetto. La coscienza – e la paura – della morte, sviluppando il discorso razionale, asserviscono all’uomo la natura ed infine l’uomo stesso al suo progetto. A questo punto il ruolo del sacrificio diviene chiaro: “Il sacrificio restituisce al mondo sacro ciò che l’uso servile ha degradato, reso profano. L’uso servile ha reso cosa (oggetto) una realtà che, nel profondo, è della stessa natura del soggetto”15. La coscienza della morte, per quanto in sé non possa insegnare niente, manifesta all’uomo la sua appartenenza al mondo naturale (al suo movimento intimo): “la morte in verità non rivela nulla. In generale, all’uomo stesso il suo essere naturale, animale, viene rivelato dalla morte, ma la rivelazione non avviene mai. Infatti una volta morto l’essere animale che lo supporta, l’essere umano stesso ha cessato di essere. Affinché l’uomo si riveli infine a sé stesso dovrebbe morire, ma dovrebbe farlo vivendo – guardandosi mentre cessa di essere (…) La morte stessa dovrebbe divenire coscienza (di sé) nel momento stesso in cui annienta l’essere cosciente. In un certo senso è quel che avviene (…) mediante un sotterfugio. Nel sacrificio il sacrificante s’identifica con l’animale messo a morte. In questo modo egli muore vedendosi morire”16. È dunque il sacrificio l’unica strada accessibile all’uomo per cogliere la sua origine sacra? E quale senso assume in Bataille? Alla sacralità del soggetto, come visto, si può accedere nuovamente in quelle interruzioni del discorso che Bataille chiama “effusioni”, ma esse interrompono il discorso solo per un momento ed in maniera fortuita. L’uomo non può fare che accoglierle, non le può provocare (non può fare il progetto di accedere a ciò cui un progetto non può avere accesso), ma la loro importanza risiede nel “mostrare” che il discorso ha delle falle, che il continuum non è riducibile alla “cosa”, e con ciò nel chiarire il (non)senso del sacrificio: non tanto uccidere un essere quanto sopprimere un oggetto, una “cosa” utile. “Il sacrificio si compie con oggetti che avrebbero potuto essere degli spiriti (…) ma che sono diventati delle cose e occorre restituire all’immanenza da cui provengono, alla sfera vaga dell’intimità perduta”17. Come le effusioni, il sacrificio spezza il discorso, l’oggettività, e dà accesso chi ne fa esperienza alla dimensione del sacro: “Quello che importa è passare da un ordine duraturo, dove ogni consumo di risorse è subordinato alla necessità di durare, alla violen14

Paola Alberti, postazione a; G. Bataille, Teoria della religione, 117 G. Bataille, La parte maledetta, 66 16 G. Bataille, Hegel, la morte e il sacrificio, cit., 159 17 G. Bataille, Teoria della religione, 47 15

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za di un consumo incondizionato (…) è l’antitesi della produzione, fatta in vista dell’avvenire, è il consumo che non ha interesse che per l’istante”18. Ciò che le effusioni rivelano è l’io-che-muore, l’uomo che accoglie gioiosamente la sua finitezza, la tendenza verso un dispendio illimitato delle proprie energie, ma queste interruzioni possono essere a loro volta considerate dei sacrifici: sacrifici del senso, della continuità o completezza del discorso: e ciò che spezza il discorso è sempre la morte. Solo la conoscenza emotiva della morte, la sua esperienza, può dare all’uomo la facoltà di cogliere intimamente la sua appartenenza all’immediatezza ed indistinzione del mondo sacro, ma questa conoscenza, come visto, è l’impossibile per antonomasia; perciò l’uomo adotta uno stratagemma: lo spettacolo. “Della morte, se la si vuole conoscere, si ha solo un mezzo: bisogna darne spettacolo”19, e questo spettacolo è proprio il sacrificio tramite il quale l’uomo ha esperienza (comica) della morte tramite una compassione che lega tutti gli spettatori. È lo spettacolo della rappresentazione della morte, o meglio dell’esperienza sensibile della propria morte attraverso l’immedesimazione con un soggetto morente: esso “annuncia la necessità dello spettacolo, o in generale della rappresentazione (…) L’uomo non vive solo di pane ma di commedie attraverso le quali volontariamente s’illude (…) Si tratta, per lo meno nella tragedia, di identificarci con un qualche personaggio che muore, e credere di morire allorché siamo in vita”20. La morte, incarnando la negatività dell’uomo (essendo lo stimolo originario per la negazione della natura21), è ciò che determina l’uomo all’azione mirata, a quella forma di azione che Fabrizio Di Stefano chiama pensiero-azione22, che porta, attraverso il lavoro di negazione, allo sviluppo di un pensiero cosciente e razionale: il sapere. “Se si tiene conto del fatto che l’istituzione del sacrificio è in pratica universale, è chiaro che la negatività, incarnata nella morte dell’uomo (…) ha avuto un ruolo, nell’animo degli uomini più semplici (…) in maniera univoca. È impressionante vedere come una negatività comune ha mantenuto ovunque sulla terra uno stretto parallelismo nello sviluppo di istituzioni stabili, che hanno la stessa forma e gli stessi effetti”23. “Ancora oggi nelle città più civilizzate si celebrano sacrifici. Quanto meno sacrifici simbolici. Si mette a morte un Dio umano, si mangia la sua carne, si beve il suo sangue”24. In questo contesto tornare alla morte, alla sua esperienza sensibile, negare la negazione iniziale, è l’unica porta attraverso cui l’uomo possa sperare di accedere a quel mondo dell’intimità perduta. “Nei suoi strani miti, nei suoi riti crudeli, l’uomo è fin dall’inizio alla ricerca dell’intimità perduta”,25 e “L’intimità è espressa soltanto ad una condizione da una cosa: che questa cosa sia in fondo il 18

G. Bataille, Teoria della religione, 47 F.C. Papparo, Tutti per (l’)uno?, 75 20 G. Bataille, Hegel, la morte e il sacrificio, cit., 160 21 Secondo Hegel l’angoscia provocata dalla morte spinge l’uomo ad intraprendere il lavoro e di conseguenza a trasformare/negare la natura. Si tratta di un argomento che approfondirò nel prossimo paragrafo, soprattutto in relazione alla diversa interpretazione di Bataille del processo di umanizzazione. 22 Fabrizio Di Stefano, Salire verso il basso: appunti su Bataille e il negativo,. Il pensiero-azione, secondo la definizione che ne dà Di Stefano, non sarebbe altro che la negatività hegelianamente intesa. 23 G. Bataille, Hegel, la morte e il sacrificio,cit., 158-159 24 G. Bataille, Il limite dell’utile, 123 25 G. Bataille, La parte maledetta, 68 19

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contrario di una cosa, il contrario di un prodotto, di una merce, che sia un consumo e un sacrificio”26. È bene chiarire a questo punto che Bataille non intende, logicamente, riabilitare questa istituzione della cui violenza e degli orrori“disumani” della quale non nasconde gli esiti, fino ad affermare che “Solo a costo di odiose menzogne possiamo nascondere questa verità maledetta della storia [,e cioè che il mondo del sacrificio] è legato a orribili guerre tribali, a torture, massacri (…) alla riduzione in schiavitù di una torma di miserabili vinti”27. Riflettendo sul sacrificio esprime piuttosto il bisogno di sacrificare la cosa in sé da parte dell’essere umano, sacrificare quell’«io astratto» che risulta dalla considerazione dell’essere attraverso le categorie conoscitive razionali utilizzate per l’attrezzo, per la cosa; sacrificare insomma quello che Bataille chiama il “soggetto-oggetto, [il] soggetto oggettivamente considerato (…)[conosciuto] dall’esterno”28. È l’auspicio di un Sacrificio dell’individualità29, per poter finalmente accedere/tornare a ciò che l’essere è al di là di essa: una soggettività indistinta, comuniale, perduta in mezzo agli altri come un onda nel mare: “Nell’oggetto distrutto (…) ci attira il fatto che ha il potere di mettere in causa (…) la solidità del soggetto. L’esito del tranello è dunque distruggerci in quanto oggetto (in quanto restiamo rinchiusi – e beffati – nel nostro enigmatico isolamento)”30; il sacrificio diviene in tal modo ciò che può farci cogliere l’evenienza di un’antropologia altra. “Si determina, a causa della morte violenta, una rottura della discontinuità dell’essere: ciò che sussiste e che, nel silenzio che cade, provano gli spiriti ansiosi è la totalità dell’essere, alla quale è ricondotta la vittima”31. La totalità dell’essere è di conseguenza data unicamente nel momento in cui, oltrepassati i limiti individuali, la vittima viene ricondotta violentemente ad una sfera in cui con-dividere con l’altro l’esistenza. Discutendo del sacrificio, inoltre, non posso fare a meno di menzionare (seppur di sfuggita per motivi di spazio) il tempo della festa, nel quale vengono dissipate gloriosamente, immediatamente, delle ricchezze e delle energie che erano state accumulate sotto il primato del tempo della durata: il tempo della festa è dunque quello del sacrificio delle cose utili e del dispendio improvviso e senza contropartita. “La festa è la soluzione limitata al problema incessante posto dall’impossibilità di essere umano senza essere una cosa e di sfuggire ai limiti delle cose senza giungere al sonno animale. (…) Così lo scatenarsi della festa è in definitiva, se non proprio incatenato, almeno circoscritto nei limiti di una realtà di cui è la negazione. È nella misura in cui conserva le necessità del mondo profano che la festa è tollerata”32. Un mondo desacralizzato Avendo finora constatato che Bataille esclude l’eventualità di un ritorno alla forma violenta del passato, ma anche che nonostante ciò rimane urgente il biso26

idem, 132 G. Bataille, Terra invivibile?, in G. Bataille, L’aldilà del serio…, 502 28 G. Bataille, Teoria della religione, 32 29 F. C. Papparo, op. cit., 78 30 G. Bataille, L’arte, esercizio di crudeltà, in L’aldilà del serio…, 235 31 G. Bataille, L’erotismo, 22 32 G. Bataille, Teoria della religione, 50 27

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gno di una riduzione dell’individuo e del sistema conoscitivo razionale, come attuare questo proposito? Come individuare una strada attraverso la quale rendere finalmente all’uomo l’opportunità di accedere all’immanenza primordiale e quindi vivere, escludendo ogni sopravvivenza e ogni dilazione, nella pienezza dell’istante? Come assecondare quel movimento di dispendio che altrimenti, continuando ad essere rimosso, non potrà che esplodere in forme catastrofiche? Scopo finale di ogni impresa umana è giungere all’uomo, ma ognuna pretende di farlo proprio negando la violenza che esso porta intimamente in sé, naufragando in tal modo inevitabilmente di fronte alle sue menzogne. Ogni impresa contempla insomma un uomo monco, privo di una parte essenziale della sua esistenza, pur di negarne la morte: Per Bataille è invece necessario assumere l’esistenza nella sua essenza, che è quella della manifestazione del bisogno di dépense33. Concordo pertanto con Moroncini nel constatare che “infine la verità del sacrificio (…) è che la morte non gli è necessaria [quanto invece] negare il primato della durata, della conservazione, a favore di un consumo incondizionato. Il sacrificio, quindi, è l’antitesi della produzione fatta in vista dell’avvenire, esso è, piuttosto, un consumo integrale, privo di qualsiasi preoccupazione per il futuro”34. Dicendo che unico modo per conoscere il soggetto è quello di averne esperienza, Bataille può definire la comunità, piuttosto che una relazione di reciprocità fra singoli individui, come quel luogo in cui “Non è sufficiente riconoscere che l’altro esiste o che la morte è il destino ineluttabile o il fondamento originario dell’esistenza umana: tutto questo non espone ancora il soggetto del sapere, non lo consegna fino in fondo alla verità del rapporto all’altro. Bisogna – è la legge della comunità – accedere all’alterità dell’altro, all’alterarsi dell’altro, bisogna sapere – un sapere eccessivo, un non sapere – che l’altro sfugge alla misura (…) Il soggetto deve patire la morte innumerevole dell’altro”35. Ridurre il soggetto, l’individuo, non significa negare la ragione (è impossibile) ma solamente cercare di dimostrarne l’incompletezza, l’inadeguatezza a dare una spiegazione dell’uomo integro (cioè ferito) per via del fatto che la parte maledetta, fino ad ora per lo più negata, sta al di là della sua capacità di comprensione. Bataille tenterà di compiere questa riduzione del soggetto, almeno fino alla guerra, attraverso delle strategie di lotta condotte sul terreno del nemico. Nell’arco degli anni trenta, prima della svolta verso l’esperienza interiore, passerà dalla strategia rivoluzionaria a quella della rivolta, dall’azione adulta a quella infantile, ma sempre di azioni si tratterà. La rivoluzione impone il dispendio violento e incontrollato delle masse inferocite, la rivolta, invece, un sartreano “ergersi contro”, una lotta giocata sul terreno della conoscenza, per giungere attraverso il suo sviluppo a dimostrarne l’insufficienza senza trascenderla (è una lotta intesa come infezione). Sia l’analisi dell’istituzione del sacrificio che queste forme di azione, dimostrano la determinazione a combattere e sconfiggere la riduzione dell’uomo a cosa, obiettivo per il quale, e Bataille non lo nasconde, un sapere sviluppato fino al culmine è un elemento imprescindibile, tanto che il suo ipotetico compimento, 33

Bataille, l’ho già scritto, non intende negare la parte razionale per far spazio a questa, maledetta; non vuole un uomo monco ma integro, e può esserlo solo nella con-vivenza di ogni suo elemento costituente. 34 Bruno Moroncini, La comunità impossibile, 62 35 idem, 72

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“questa riduzione generalizzata, questa perfetta realizzazione della cosa, è la condizione necessaria alla posizione cosciente (…) del problema della riduzione dell’uomo a cosa. È solamente in un mondo in cui la cosa ha sottomesso tutto (…) che l’intimità può affermarsi senza più compromessi con la cosa. Lo sviluppo gigantesco dei mezzi di produzione ha solo la forza di rivelare pienamente il senso della produzione, che è il consumo improduttivo delle ricchezze” 36. L’idea di comunità, lo vedremo, non rimanda ad un passato immaginario del quale avere nostalgia, quanto ad uno spazio aperto dal completamento della riduzione a cosa, reso possibile dal sacrificio di sé e della propria fissità identitaria, a favore del riconoscimento di un’antropologia comuniale: “Si tratta di consumare – o di distruggere – infinitamente gli oggetti prodotti. E questo si potrebbe anche fare senza la benché minima coscienza. Ma è nella misura in cui la coscienza chiara interverrà che gli oggetti effettivamente distrutti non distruggeranno gli uomini stessi. La distruzione del soggetto come individuo è in effetti implicata nella distruzione dell’oggetto in quanto tale ma la guerra non ne è la forma inevitabile: non ne è, in ogni caso, la forma cosciente” 37. È chiaro il senso che quest’affermazione assumerà nella maturità: affinché la violenza intima dell’uomo non si esprima in una distruzione catastrofica degli uomini fra loro o tramite nuovi sacrifici, l’unica strada da percorrere è quella di ridurre il sapere (la cosa) aumentando il sapere stesso, portandolo ai suoi estremi possibili, al culmine, al non-sapere e ad una coscienza non più chiara e distinta: una coscienza-senza.

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G. Bataille, Teoria della religione, 87-88 idem, 94

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1.3: UN ULTRA-HEGELISMO Bataille riconosce in Hegel il saggio, l’uomo che effettivamente compie il sapere. Hegel è a suo avviso la filosofia stessa, e il pensiero di Bataille è quindi definibile come un Ultra-hegelismo1, come un hegelismo senza riserve2. Lo stesso Bataille afferma che “Nell’insieme del movimento che rappresenta il pensiero di Hegel ai miei occhi, non c’è niente che io non sia disposto a seguire”3, e non è certo nelle conclusioni che esso se ne distingue; anche la tesi hegeliana del compimento del sapere e della fine della storia viene infatti accettata da Bataille senza riserve: “Nonostante i modi di pensare prevalenti, considero ora la fine della storia come una verità qualunque, come una verità stabilita” 4. Che cos’è allora a distinguere la riflessione batailleana dal discorso hegeliano? Bataille afferma che “Se Hegel fallì, non si può dire che sia stato a causa di un errore. Il senso stesso dello scacco differisce da quello dell’errore che lo causò: forse solo l’errore è fortuito. Bisogna parlare dello «scacco» di Hegel, in generale, come di un movimento autentico e carico di senso”5. Di conseguenza si tratta di una svista, di qualcosa che Hegel non “comprese” per via del suo punto di vista “ingenuo” : di una svista esplicitata da uno scacco. Ne “L’esperienza interiore” Bataille descrive lo scacco in questo modo: “Allorché il sistema si chiuse, Hegel credette per due anni di diventare pazzo: forse ebbe paura di aver accettato il male – che il sistema giustifica e rende necessario; o forse, collegando la certezza di aver raggiunto il sapere assoluto con il compimento della storia – con il passaggio dall’esistenza allo stato di vuota monotonia – si è visto, in un senso profondo, diventare morto”6. Dunque Hegel si sente morire, ma abbandona questo sentimento angoscioso negandogli alcun senso: “dal punto di vista di Hegel, si tratta proprio di un accidente. Un caso, una cattiva chance”7. Tuttavia per Bataille questo scacco nella vita di Hegel è “carico di senso”: esso manifesta un elemento esterno al discorso che non può essere taciuto; lo stesso Hegel era solito infatti sancire che “Lo spirito ottiene la sua verità solo trovando sé stesso nella dilacerazione assoluta. (…) lo spirito è questa potenza solo nella misura in cui contempla bene-in-faccia il Negativo [e] si sofferma presso di esso”8. Questa dilacerazione assoluta è la stessa coscienza della morte che Hegel riconosce a fondamento della negatività umana, stimolo per la negazione della natura. L’uomo, a suo avviso, essendo essenzialmente negatività, per rivelarsi a sé stesso (conoscersi) dovrebbe esperirsi come negatività, ovvero dovrebbe ricevere un insegnamento dalla morte. Tuttavia la morte per Bataille non può insegnare nulla, e quando può farlo non è la propria morte ma quella dell’altro espe1

Felice Ciro Papparo, Tutti per (l’)uno?. Jacques Derrida, Dall’economia ristretta all’economia generale: un hegelismo senza riserve, in La scrittura e la differenza. 3 G. Bataille, La sovranità, 207. Ma anche: “Senza Hegel, innanzitutto sarei dovuto essere Hegel; e me ne mancano i mezzi”. In G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 143 4 G. Bataille, Hegel, l’uomo e la storia, in Aldilà del serio…, 183 5 G. Bataille, Hegel,la morte e il sacrificio, in Aldilà del serio…, 168 6 G. Bataille, L’esperienza interiore, 164 7 G. Bataille, Hegel,la morte e il sacrificio, cit. 167 8 Citazione di Hegel, in G. Bataille, Hegel, la morte e il sacrificio, cit., 158. Per Bataille, lo vedremo, ciò significa che è solo la contemplazione sensibile della morte, il sacrificio, ad istituire la coscienza. 2

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rita attraverso uno spettacolo9, e il fatto che il filosofo di Stoccarda trascuri questo elemento fa si che “Per Hegel fu essenziale prendere coscienza della Negatività in quanto tale, afferrarne l’orrore, nello specifico l’orrore della morte, sostenendo e guardando dritto in faccia l’opera della morte”10. La morte viene cioè accomodata da Hegel all’interno del suo sistema, proprio perché “Il carattere essenziale(…) della filosofia hegeliana è descrivere la totalità di ciò che è. E di conseguenza rendere conto (…) del pensiero e del linguaggio i quali esprimono – e rivelano – quest’apparizione”11. Hegel si propone di descrivere la Totalità di ciò che è, compiendo così un sapere che si può dire tale solamente nel momento in cui presenti il carattere di completezza, ma ciò significa anche e soprattutto descrivere le origini di ciò che è12 (della storia, dell’uomo), e quindi descrivere ciò che (la morte, la coscienza di cui segna l’umanizzazione) per Bataille non è descrivibile né conoscibile13. L’errore di Hegel è quello di ridurre al discorso ciò che eccede ontologicamente il sapere: “La visione della totalità [del compimento del discorso] da cui nessun elemento costitutivo può essere separato; che, per questo, riporta, da ultimo, ogni elemento al momento in cui la morte lo tocca; che, in più, trae la verità da ogni elemento di quest’assorbimento prossimo alla morte. Questa contemplazione della totalità non è, tuttavia, possibile realmente; come quella della morte, essa è fuori della nostra portata”14. È chiaro, già da queste prime osservazioni, che distingue i due filosofi il loro differente modo di intendere la negatività. Non che Hegel abbia sottovalutato il suo peso (la pone anzi a fondamento del processo di umanizzazione), ma, secondo Bataille, esso non rimase fedele fino in fondo alle sue stesse premesse15, non riconoscendone in tal modo l’irriducibilità al discorso, la comprensibilità solo attraverso l’identificazione con l’altro morente nel sacrificio: “Non si può dire che Hegel misconobbe il «momento» del sacrificio: Tale «momento» è incluso, implicito in tutto il movimento della fenomenologia – in questa è la negatività della morte, in quanto l’uomo l’assume, a fare dell’animale umano un uomo. Non a-

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Si veda su questo tema Bruno Moroncini, La comunità impossibile, (soprattutto pag. 60) G. Bataille, Hegel,la morte e il sacrificio, cit., 164 11 idem, 151 12 L’assoluto in Hegel è rintracciabile solo quando il processo conoscitivo finisce. Il compimento è la rivelazione del cominciamento, ma non può che avvenire alla fine. Con le parole di Kojeve: “La Storia, avendo avuto inizio, ha dunque necessariamente una fine: e questa fine è la rivelazione discorsiva del suo cominciamento” (citato in R. Esposito, Categorie dell’impolitico, 264) 13 Per Bataille “Il movimento (…) che definisce l’esistenza è effettivamente, come indica Hegel, un circolo, che inizia dall’ignoto e va al conosciuto; ciò che il filosofo tedesco trascura, secondo Bataille, è il fatto che il culmine di questo percorso è, ancora, l’ignoto, e che questo ignoto è tale in linea di principio, in quanto irriducibile al sapere; in ciò si fa chiaro, appunto, come il sapere sia una forma del non-sapere, e non l’inverso, come ritiene Hegel”. F. Cassinari, Il punto cieco. La ricezione di Hegel e la polemica contro Heidegger nella riflessione di G. Bataille, 82 14 G. Bataille, Hegel, l’uomo e la storia, cit., 179. Fabrizio Di Stefano parla a questo proposito di una fine della storia non assoluta ma solo del pensiero, rimanendo possibile una forma di azione dettata unicamente dalla forza del sacro immanente. Parla perciò di una fine della storia intesa come un improvviso «inter-tempo», “Da un lato la fine della storia (…) della presenza di Dio sulla terra, ateismo realizzato, dall’altro (…) inizio, apertura dello spazio del non senso, ateismo de-realizzato dall’irruzione del sacro oltre la morte di Dio”. In Salire verso il basso: appunti su Bataille e il negativo, 155 15 In questo senso Bataille è ultra-hegeliano: più hegeliano dello stesso Hegel 10

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vendo però visto che il sacrificio da solo testimoniava dell’intero movimento della morte (…) non seppe in quale misura avesse ragione”16. Secondo Bataille, lo scacco che Hegel subisce ed accantona come un accidente, è proprio ciò che fonda, lacerando il discorso, la significazione. Come giustamente osserva Papparo, “riconducendo, come fa Hegel, l’accadimento incidentale ad un accadimento eliminabile dal e nel percorso formativo della ‘coscienza’, il rischio è quello di trovarsi di fronte a un concetto di verità poco hegeliano («il vero è l’intero», diceva Hegel) proprio perché all’intero vengono espunti, resi nulli, (…) elementi ‘essenziali’ alla formazione dell’essere”17. Ciò che lo scacco testimonia è che la conoscenza discorsiva non può riassumere in sé tutto l’essere, che la filosofia hegeliana completa sì il sapere, ma non può spiegare la Totalità, e questo concetto viene mirabilmente espresso da Bataille in una conferenza tenuta al tempo del collegio di sociologia: “Hegel stesso ha raccontato di essere stato (…) sfiorato dalla follia. (…) eppure come non essere colpiti da un fatto stranamente contraddittorio: Hegel potè elaborare, esporre e pubblicare la sua dottrina e tuttavia, se si esclude l’eccezione appena citata, gli altri non sembrano essere stati turbati da ciò che aveva turbato lui. Anche supponendo che ci sia stato per Hegel passaggio dall’inconscio al conscio, esso si sarebbe prodotto per Hegel soltanto. La stessa fenomenologia dello spirito, in quanto riconosce la negatività, non è stata riconosciuta”18. Il sistema dialettico hegeliano completa il discorso della negatività riconducendola alla sua origine – la coscienza della morte – inserendo anche questa nel discorso. Nonostante ciò al di là di essa Bataille rileva una negatività senza impiego, cioè una forma di negatività che non è mai passibile di svilupparsi in nessuna azione – non è cioè passibile di essere impiegata – e che si manifesta perciò a-discorsivamente: “Se l’azione (il fare) è – come dice Hegel – la negatività, allora la domanda che si pone è se la negatività di chi non ha «più niente da fare» svanisca o sussista allo stato di «negatività senza impiego»: personalmente, non posso decidere che in un senso, essendo io stesso esattamente questa «negatività senza impiego»”19. Bataille si chiede se, completato il possibile, non si debba riconoscere l’esistenza dell’impossibile! Di un impossibile che è tale in quanto adiscorsivo, non includibile in un discorso razionale, eppure esistente, esperibile attraverso interruzioni del discorso stesso. Alla base dell’umanizzazione (questa è l’interpretazione kojeveana di Hegel) sta l’introduzione nella natura, ad opera dell’intelletto, di un «puro io astratto», cioè di “un’intimità nell’esteriorità delle cose”20; si tratta dell’individuo, che già di per sé nega la natura (il continuum): “L’azione separatrice dell’intelletto implica l’energia mostruosa del pensiero, «del puro io astratto», che si oppone essenzialmente alla fusione, al carattere inseparabile degli elementi. [Ma ciò determina] (…) il suo isolamento nella natura e di conseguenza il suo isolamento in mezzo ai suoi simili, che lo condannano a morire in maniera definitiva”21. 16

G. Bataille, Hegel,la morte e il sacrificio, cit., 161-2 F. C. Papparo, op. cit., 75-76 18 G. Bataille, Attrazione e repulsione II: La struttura sociale, in Il collegio di sociologia, 143. 19 G. Bataille, Lettera a Kojeve, pubblicata col titolo di (Lettera a X, incaricato di un corso su Hegel…), in Il colpevole/L’alleluia, 163 20 G. Bataille, Hegel, l’uomo e la storia, cit., 170 21 G. Bataille, Hegel,la morte e il sacrificio, cit., 155 17

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L’uomo muore “in maniera definitiva”, infatti, solo nel momento in cui considera sé stesso isolatamente: “In questo gioco l’animale umano trova la morte, trova per esattezza la morte umana, la sola che spaventa, agghiaccia, ma che spaventa e agghiaccia solo l’uomo assorbito nella coscienza della sua scomparsa futura”22, perché “La mosca individuale muore, ma queste mosche sono le stesse dell’anno scorso. Quelle dell’anno scorso sono morte?... È possibile, ma nulla è scomparso”23. Il discrimine uomo/animale sta proprio in questa coscienza umana della morte, che per Hegel scaturisce dalla lotta per il puro prestigio intrapresa dal Signore. “Secondo Hegel, l’azione non è data direttamente nel lavoro ma in primo luogo nella lotta del signore – lotta di puro prestigio – in vista del riconoscimento. Questa lotta è essenzialmente una lotta a morte. Ed è per Hegel la forma in cui appare all’uomo la sua Negatività (la sua coscienza della morte)”24. In questa lotta “a morte” il signore uccide un suo simile – “L’impulso dell’uomo sovrano fa di lui un assassino”25 – e la vista del cadavere ingenera in alcuni (i futuri schiavi) un orrore tale da deciderli a sottomettersi al vincitore, in altri la volontà di mettersi a loro volta in gioco per essere riconosciuti come signori. Tuttavia combattere “in vista del riconoscimento”, per Bataille, rende implicita nel movimento della lotta la condanna alla schiavitù di chi, quel riconoscimento, lo effettua: “Secondo Hegel, il proprio del signore, ed è qui in definitiva il suo errore, è voler essere riconosciuto dal vinto, da quello reso schiavo. (…) Accettando di essere vinto lo schiavo ha perso però la qualità senza la quale non può riconoscere il vincitore in modo da soddisfarlo. Lo schiavo non può dare al signore la soddisfazione e senza di essa il signore non avrà quiete. Egli è riconosciuto solo da uno schiavo; e per essere riconosciuto in modo soddisfacente dovrebbe esserlo da un eguale. L’atteggiamento del signore riposa su una contraddizione: secondo Hegel l’uomo non potrebbe realizzarsi e diventare uomo completo se non affrontasse innanzitutto il suo simile in una lotta a morte; non deve però soltanto ucciderlo, deve anche farsi riconoscere da lui. Ora, se il suo avversario è morto, non v’è più nulla, e se sopravvive è declassato…”26. Inoltre una volta riconosciuto dal Servo, il Signore dovrà amministrare una torma di miserabili vinti e quindi, a sua volta, dovrà asservirsi alle funzioni cui la Signoria lo destina: “L’imbroglio del Signore è chiaro fin dall’inizio. Il signore infatti comanda lo Schiavo e in questa misura agisce invece di essere in modo Sovrano, nell’istante. Non è lo Schiavo, è il Signore a decidere gli atti degli Schiavi, e questi atti servili sono quelli del Signore”27. Secondo Bataille la Signoria hegeliana incorre in questa contraddizione perchè Hegel considera la morte come “ciò-che-c’è-di-più-terribile”28: “Hegel non ha separato, in modo chiaro, la morte dal sentimento di tristezza (…) [del]l’esperienza ingenua”29. La morte è difatti triste solo per un “essere isolato” che la 22

idem,155-156. idem, 155 24 G. Bataille, Hegel, l’uomo e la storia, cit., 170-1 25 G. Bataille, Il paradosso della morte e la piramide, in Aldilà del serio…, 203 26 G. Bataille, Hemingway alla luce di Hegel, in L’aldilà del serio…, 131 27 G. Bataille, Hegel, l’uomo e la storia, cit.,187 28 G. Bataille, Hegel, la morte e il sacrificio, 154 29 idem, 162. Ecco l’ingenuità hegeliana: egli rispetta il divieto! 23

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consideri come proiezione lungo la propria esistenza avvenire; mai per il sovrano, perché “Se viviamo sovranamente la rappresentazione della morte è impossibile, giacché il presente cessa di essere sottomesso all’esigenza del futuro. È per questo che vivere sovranamente è, in maniera fondamentale, sfuggire se non alla morte quantomeno all’angoscia della morte”30, ed essendo per Bataille l’essere-isolato-nel-tempo-della-durata il prototipo della servilità, risulta chiaro come sia proprio al servo che Hegel dà voce (ed in effetti è proprio lui, nel suo sistema, a compiere il sapere). Hegel inoltre reintroduce la morte nel discorso funzionalizzandola allo sviluppo del lavoro, determinandone cioè l’utilità, un senso, un “ruolo”: essa origina la negatività, dà inizio al lavoro, all’uomo in quanto si distingue dall’animale per questo. “Hegel si risvegliò in modo cosciente alla rappresentazione che si diede del Negativo; lo collocava, lucidamente, in un punto definito del «discorso coerente» attraverso cui si rivelava a sé stesso, includendo questa Totalità il discorso che la rivela. L’uomo del sacrificio, invece, cui mancò una conoscenza discorsiva di quel che faceva, ebbe solo la coscienza «sensibile», cioè oscura, ridotta all’emozione intelligibile (…). Hegel stesso, al di là del discorso, e malgrado lui (in una «lacerazione assoluta») ricevette anzi in modo più violento lo choc della morte (…). L’emozione di cui parlo è nota, è definibile, ed è l’orrore sacro”31. La sacralità a-discorsiva della «lacerazione assoluta» determinò dunque lo scacco di Hegel ma lui, avendola negata e resa controllabile attraverso il discorso, non se ne curò: in quel preciso istante, “accolse la sovranità come un peso, e la mollò…”32. Hegel difatti, escludendo dal discorso il sacro (e quindi il suo orrore indicibile), non può tollerarne la presenza senza decretare il fallimento del suo sistema: “Il discorso di Hegel ha senso solo compiuto e si compie solo nel momento in cui la storia stessa, tutto si compie; diversamente, infatti, la Storia continua e altre cose ancora dovranno essere dette”33. Tuttavia questo disconoscimento indispensabile, questa esclusione agita “per partito preso”, lo porta ad assegnare alla morte un’utilità che essa non può avere: di essa si può avere solo una coscienza sensibile, oscura, data – attraverso l’identificazione affettiva – in una comunicazione con l’altro-morente: si tratta del sacrificio, di cui “ posso dire (…) che in un certo senso l’Uomo ha rivelato e fondato la verità umana sacrificando: nel sacrificio distrusse l’animale in sé stesso”34. Hegel porta a compimento il discorso, ma gli sfugge quel sacro che, come la morte, non si può mai conoscere e perciò non può essere detto; “Questa delusione, in fondo, è quella dell’uomo che cerca nella morte il segreto dell’essere e, non trovando nulla, perché non può nello stesso istante conoscere e cessare di essere, deve accontentarsi di uno spettacolo”35. È questo l’approdo di Bataille: non contro Hegel36, ma fedelmente alle sue premesse, è necessario postulare all’origine dell’umanizzazione, oltre al lavoro, 30

G. Bataille, Il paradosso della morte e la piramide, cit., 203 G. Bataille, Hegel, la morte e il sacrificio, cit., 161 32 idem, 167 33 G. Bataille, Hegel, l’uomo e la storia, cit., 179 34 G. Bataille, Hegel, la morte e il sacrificio, cit., 158 35 G. Bataille, Hegel, l’uomo e la storia, cit.,179 36 Bataille si pone “sempre all’ombra di Hegel, anche e proprio lì dove insiste ad essere ‘contro’ un certo Hegel, quello sistematico”. F. C. Papparo, op. cit., 72 31

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un altro elemento: quello del sacro. “È possibile che l’uomo divenne tale, che si separò dall’animale seguendo alte vie, diverse dalla descrizione hegeliana”37; e quali siano queste vie altre è presto detto dal pensatore francese:“Secondo me, è a causa dell’interdetto o degli interdetti religiosi che l’Uomo si sarebbe separato dall’animalità”38. Così, una volta introdotto nel mondo l’isolamento di un “io personale puro”, esso introduce una forma di lavoro non ancora subordinata a nessun Signore, ma tale da distoglierlo già dall’immediatezza animale. “Possiamo anche ammettere che (…) la nascita del divieto relativo alla morte abbia coinciso con la nascita del lavoro”39. “Hegel fa del lavoro il dato peculiare dello schiavo e trascura per partito preso il fatto che l’attività servile di un uomo antecedente l’apparizione dello schiavo propriamente detto abbia determinato in modo elementare, ma sufficiente per assicurare l’umanizzazione, ciò che soltanto il lavoro dello schiavo ha sviluppato contraddittoriamente”40. Inoltre l’“io personale puro” deve aver assunto una coscienza della propria mortalità: il suo essere distintamente, isolatamente, e la mediatezza posta in atto per via del lavoro, ne sono una premessa. Questa coscienza della negatività, gli deve perciò essere data da un’identificazione affettiva con l’“altro-morente”, sia esso il caro, più probabilmente l’animale ucciso durante la caccia41, oppure la vittima di un sacrificio. I ritrovamenti archeologici di sepolture (che testimoniano di un’avvenuta attribuzione di valore alla morte) sono pressoché contemporanei a quelli degli utensili di selce. La sepoltura, espressione del divieto, è quindi contemporanea all’apparizione del lavoro e costituisce una prova dell’emergenza della coscienza della morte e di una distinzione di ambiti, sacro e profano, nella vita stessa degli individui42: “[Gli uomini] si distinsero dagli animali per il lavoro. Parallelamente, imposero delle restrizioni conosciute sotto il nome di interdetti”43. “Il tabù appare per la prima volta sotto la specie del cadavere, è d’un lato, sul piano della conoscenza, la definizione di un aspetto determinato – il sacro – in opposizione al profano 37

G. Bataille, Hegel, l’uomo e la storia, cit.,177 idem, 178n 39 G. Bataille, L’erotismo, 42 40 G. Bataille, Il paradosso della morte e la piramide, cit., 198n. Non riconoscendo Hegel il ruolo dei divieti nell’umanizzazione (non parlandone), non fa altro che rispettare a sua volta il divieto istituito nei confronti delle componenti eterogenee, che in tal modo vengono escluse dal suo sistema; infatti per Bataille “il rimosso più profondo nel passaggio dall’animale all’uomo, tanto che non lo si annovera neppure fra i tabù fondamentali” (C. Pasi, L’Hétérologie e «Acéphale»: dal fantasma al mito, 97), coincide con quella che chiama “dimensione escretoria”, ovvero dell’espulsione da sé degli elementi eterogenei (le feci, il sudore, il cadavere…), in cui “Si assiste (…) ad un processo di incorporazione ed espulsione che altera l’identità del soggetto” (idem, 101). 41 “L’uomo che si vedeva divenuto tale, lungi dall’aver vergogna come noi della parte animale che rimaneva in lui, dissimulò invece quest’umanità che lo distingueva dalle bestie. Mascherò il viso di cui andiamo fieri e mise in mostra ciò che i nostri vestiti nascondono”. G. Bataille, Il passaggio dall’animale all’uomo e la nascita dell’arte, in Aldilà del serio…, 363. Contemplando le raffigurazioni scolpite nella grotta di Lascaux si può, secondo Bataille, dire che l’arte è il primo atto veramente umano. 42 Bataille (Che cos’è la storia universale?, cit., 433) parla della tendenza a fornire ad ogni atto una sua utilità. Nel caso specifico parla del tentativo di spiegare l’affermazione dei tabù in chiave utilitaristica (ad esempio quello dell’incesto verrebbe istituito per prevenire unioni che sarebbero nocive alla prole, quindi alla tribù d’appartenenza), ma a suo avviso i tabù non sopprimono un’usanza bensì la definiscono come sacra: “Il carattere essenziale dei tabù non sta nella soppressione di un’usanza, ma nel fatto di definirla, nel senso ampio del termine, come sacra. (…) Il sacro è sempre tabù, e, almeno all’inizio, l’oggetto di un tabù ha sempre avuto un senso, un valore sacro”. 43 G. Bataille, L’erotismo o la messa in questione dell’essere, in Aldilà del serio…, 404 38

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(…) Anche il mondo del tabù è mondo della conoscenza, ma non è un mondo della ragione: è il mondo di ciò che non è riducibile alla ragione, cioè alle leggi che ordinano il lavoro”44. Con l’istituzione dei tabù, il cadavere, la violenza eccedente, l’angoscioso, vengono vietati e sacralizzati, cosicché il mondo profano si riduce al tempo del lavoro e alla calma che gli è necessaria per la produzione. In questo mondo spogliato di ogni desiderio “che dà la febbre”, l’uomo mutilato ha nostalgia della negata sacralità dell’immediatezza animale, cui tenta periodicamente di riaffacciarsi istituendo dei riti sacrificali (feste, immolazioni, dispendi). Per Bataille, dunque, “l’uomo si svincolò dall’animalità primaria (…) lavorando, comprendendo che moriva e scivolando dalla sessualità senza vergogna alla sessualità vergognosa, da cui scaturì l’erotismo” 45, “i divieti risposero alla necessità di respingere la violenza dal corso abituale delle cose”46 al fine di rendere possibile la sfera del “ lavoro [che] richiede una condotta di vita ragionevole, da cui siano esclusi i moti tumultuosi che si scatenano nel corso della festa”47. Per Bataille i divieti, pur rivelandosi funzionali alla calma necessaria al lavoro, non vengono istituiti dalla ragione: “i divieti, sui quali si fonda il mondo della ragione, non sono affatto razionali. Una contrapposizione equilibrata della ragione alla violenza non sarebbe infatti bastata a scindere nettamente i due mondi (…) Soltanto il raccapriccio, la paura irragionevole, potevano resistere a scatenamenti senza misura. Tale è dunque la natura del tabù, (…) un tremore che non si impone alla ragione, ma alla sensibilità come la violenza”48. Il tabù in definitiva delimita – non razionalmente ma emotivamente – il profano dal sacro; solo così esso può avere la forza di imporre la distinzione netta fra le due dimensioni rendendo possibile lo sviluppo del lavoro e della ragione, nella calma produttiva alla quale in questo modo le rinchiude. L’uomo è in questo stadio già alienato dal lavoro che svolge, è già cosciente della sua mortalità e della sua distanza dall’animale, tuttavia non è ancora lo Schiavo di cui parla Hegel: “È l’azione produttiva delle cose che nega ciò che è (il dato naturale) ed è la cosa a essere la negazione di ciò che è. Il mondo delle cose o della pratica è il mondo in cui l’uomo è asservito (…) in cui egli serve a qualcosa, sia o non sia il servitore di un altro. L’uomo è alienato in esso, è lui stesso una cosa, almeno temporaneamente, nella misura in cui serve: se la sua condizione è quella dello Schiavo egli è interamente alienato, altrimenti una parte di sé stesso più o meno coerente è, rapportata alla libertà dell’animale selvaggio, alienata”49. Il Signore non stenta a mettere in gioco la propria vita per44

G. Bataille, Che cos’è la storia universale?, in Aldilà del serio…, 430-431 G. Bataille, L’erotismo o la messa in questione dell’essere, cit., 405. J. Habermas osserva che oltre all’interdetto verso il cadavere “I tabù più antichi riguardano (…) la sessualità; (…) viene tabuizzata la violenza della morte e della sessualità” (Jürgen Habermas, Il discorso filosofico della modernità, 234). L’istituzione dei divieti ‘religiosi’, secondo Habermas, rende possibile lo spazio tranquillo e razionale del lavoro in quanto interruzione (e negazione) del mondo sacro dell’immanenza perduta (idem, 215-240.). 46 G. Bataille, L’erotismo, 53 47 idem, 39-40 48 idem, 61. E. Pulcini intravede a ragione una convergenza, su questo punto, di Bataille con Hobbes: in entrambi è la paura della morte a spingere l’uomo a limitare le sue passioni. Ma se in Hobbes la limitazione è definitiva, in Bataille il divieto non lo è (si completa anzi con la trasgressione, che lo supera senza negarlo). Si veda E. Pulcini, Il bisogno di Dépense. 49 G. Bataille, Il paradosso della morte e la piramide, cit.,199 45

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ché è meno cosciente – ha una coscienza vaga, oscura – rispetto allo schiavo della morte, mentre il servo, essendone più cosciente, per conservarsi si sottomette al signore e, solo da quel momento, diviene il suo schiavo. Il sovrano batailleano, diversamente dal Signore hegeliano, non lottando per il riconoscimento ma unicamente per rispondere al movimento sovrano che lo alimenta, uccide il suo rivale solo per esprimere la violenza della sua dépense; non cerca un riconoscimento, “ha soltanto una posizione paragonabile a quella dell’animale selvaggio ed è sacro, poiché è al di sopra delle cose che possiede e di cui si serve. Ma ciò che è in lui ha in relazione alle cose una violenza distruttrice, che è per esempio quella della morte”50. Per Hegel il rischio di morte è l’affermazione della coscienza individuale (è alla base del lavoro che conduce lo schiavo ad impossessarsi della natura), per Bataille “Nel rischio di morte, invece, l’essere umano si sottrae davanti alla coscienza individuale. Il sovrano non è un animale, proprio perché, conoscendo la morte, si oppone alla coscienza individuale. (…) Egli oppone alla coscienza (…) un movimento di gioco”51. In base a queste precisazioni la lotta fra Signori per il riconoscimento appare come una forma di funzionalizzazione della potenza sovrana che conduce, come ho mostrato nel capitolo 1.1.2, alle forme “impure” di sovranità storica, mescolate al potere e in quanto tali servili e destinate alla propria dissoluzione in un sistema accumulativo: “Nella vita del Signore di Schiavi, la parte sovrana, manifestata nella lotta di puro prestigio, cessa di essere unicamente sovrana: ha due aspetti. Da un lato la lotta assume il valore e la forma di un’attività utile, dall’altro, quest’attività utile è sempre stornata verso fini che superano l’utilità nel senso del prestigio”52. Non a caso infatti per Kojeve la fine della storia (e il compimento del sapere) non è altro che la società egualitaria che appiana ogni differenza, cioè quel comunismo che per Bataille è sì compimento della storia ma non della sovranità (ne è anzi la negazione assoluta). Infatti “divenendo, mediante il lavoro, signore della Natura, il Servo si libera dunque della propria natura (…) il lavoro lo libera dunque anche da sé stesso, dalla sua natura di Servo; lo libera dal Signore”53, quindi “l’avvenire e la storia appartengono (…) al servo lavoratore”54 e questa è proprio la prospettiva sviluppata da Marx nella sua teoria in cui, secondo Kojeve, “gli uomini (riconoscendosi reciprocamente senza riserva), non lottano più e lavorano il meno possibile (dato che la natura è stata definitivamente domata, cioè armonizzata dall’uomo)”55. La storia si compie hegelianamente, per Kojeve, nel momento in cui il pensiero umano giunge all’altezza di un “sapere” (nel momento in cui chiude il circolo impossessandosi di ogni risposta) e contemporaneamente realizza un comunismo universale, che concretizza la riduzione di ogni uomo all’uguaglianza assoluta e 50

ibidem. idem, 203 52 G. Bataille, Hegel, l’uomo e la storia, cit.,172. Come afferma J. Habermas, Fra erotismo ed economia generale, 233: “La contraddizione fra sovranità e razionalità finalistica (…) è strutturalmente inserita in tutte le forme di sovranità storicamente incarnate”. 53 G. Bataille, Hegel, l’uomo e la storia, 174. Citazione di Kojeve 54 idem, 175 55 idem, 181. Citazione di Kojeve 51

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determina la fine di ogni azione (guerre o rivoluzioni) e del pensiero stesso, mentre la posizione di Bataille, basandosi sul sacro e sulla volontà insopprimibile dell’uomo di tornare ad esso, pone il mondo della sovranità al di là del comunismo che, come visto, non è altro che il compimento della riduzione dell’uomo a cosa: “Compiutasi la storia, l’esistenza umana entrerebbe nella notte animale. Niente di meno sicuro. Ma la notte richiederebbe una condizione preliminare: ignorare di essere la notte? La notte che sa di essere notte non sarebbe più notte, non sarebbe che il declinare del giorno…”56. Mostrerò nel capitolo 3 quale forma informe, per Bataille, dovrebbe assumere la comunicazione tra esseri che siano sopravvissuti al compimento della storia e quindi esplichino essenzialmente una “negatività senza impiego”. Per il momento ho mostrato: a) che il compimento del discorso e della storia non dimostrano altro che l’irriducibilità ad esso di ciò che non è storico ma istantaneo; b) che istantaneo è il momento sacro e sovrano dell’irruzione della morte o della dilacerazione assoluta. Il compimento del pensiero non avrebbe perciò l’autorità per vietare all’uomo della “negatività senza impiego” di continuare a pensare l’impensabile – pensare la notte – poiché “La vita divina è immediata, la conoscenza è un’operazione che esige la sospensione e l’attesa”57; perciò “Non ritroverà l’intimità che nella notte. Avrà dunque raggiunto il più alto grado di chiarezza distinta, ma porterà così perfettamente a compimento la possibilità dell’uomo o dell’essere da ritrovare distintamente la notte dell’animale intimo nel mondo – in cui essa entrerà”58.

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G.Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 185. Quanto appena detta, a mio avviso, dimostra che dal punto di vista di Bataille, come afferma Flavio Cassinari, (Il punto cieco…, 83)“La conoscenza intellettivorazionale esaurisce la propria verità nell’ambito della propria finalizzazione all’azione, ma risulta, più che inadeguata, infondata (in quanto non autosufficiente) nel momento in cui si tratti di mettere a fuoco la specificità di quella «possibilità dell’essere» che è l’esistenza umana”. 57 G. Bataille, Teoria della religione, 90 58 idem, 92

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1.3.2.: HEGEL E LA SCRITTURA SOVRANA Escludendo Bataille ogni possibilità di collocare il sacro nel discorso, come può dirne qualcosa? Com’è possibile farlo se “La parola silenzio è ancora rumore, parlare significa di per sé immaginare di conoscere, e per non conoscere più bisognerebbe non parlare più”1? E soprattutto in che modo “dopo avere esaurito il discorso della filosofia inscrivere nel lessico e nella sintassi di una lingua (…) che è stata anche quella della filosofia, ciò che tuttavia eccede le contrapposizioni di concetti dominati da quella logica comune?”2. “Ma bisogna parlarne”, aggiunge Derrida, e lo stesso Bataille precisa che «L’inadeguatezza di ogni parola (…) deve quantomeno essere detta»”3. Ho mostrato come il sistema hegeliano escluda il sacrificio per via del fatto che Hegel “non conosce altro fine che il sapere”, il che richiede una “sottomissione all’evidenza del senso”4 di ogni elemento che ne risulti estraneo, rendendo in tal modo il suo discorso cieco all’emergenza del caso, dell’accidente: affinché ci sia un senso, che lo schiavo compie attraverso il lavoro, lo Schiavo-Signore deve mantenersi in vita, quindi sopprimere ogni eccesso. Hegel affida un senso alla morte; quello di fondare il mondo umano e trovare posto nel suo discorso, mentre per Bataille essa distrugge il senso, è un dispendio improduttivo. Hegel trasforma il negativo nel suo contrario positivo – il “lavoro del negativo” –, tuttavia per Bataille, Hegel ha sperimentato su di sé, nel periodo dello “scacco”, l’esistenza di una negatività non funzionalizzabile al discorso proprio perché non positivizzabile ma definibile come negatività pura, che Bataille chiama “negatività senza impiego”. “Bisogna dunque seguirlo [Hegel] fino in fondo, senza riserva, fino al punto di dargli ragione contro sé stesso”5. L’uomo batailleano insomma, per giungere alla piena Sovranità, “deve (…) sacrificare ancora la Signoria, la presentazione del senso della morte”6, e questo, per venire al punto, esclude ogni possibilità di parlarne sistematicamente. Per dirla con le parole dello stesso Bataille: “Il soggetto è dapprima animale la cui coscienza non discrimina nulla. Poi animale cosciente di essere un vivente tra gli altri (piante, animali). Poi uomo cosciente di essere uomo. Egli diventa uomo cosciente di essere uomo: nel sacrificio umano, poi nell’abolizione del sacrificio, poi nella celebrazione della morte di Cristo, in cui il sacrificio e l’abolizione coincidono. Ciò che distingue l’uomo dagli animali è forse la comunicazione, che probabilmente è l’effetto del sacrificio”7. Quale linguaggio, di conseguenza, può, comunque, esprimere l’inadeguatezza delle parole? Non si deve trattare di un linguaggio che nega la compiutezza del linguaggio stesso? Bataille parla della necessità di trovare delle parole che siano

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G. Bataille, L’esperienza interiore, 43 Jacques Derrida, Dall’economia ristretta all’economia generale: un hegelismo senza riserve, 326-327 3 G. Bataille, L’insegnamento della morte, in Conferenze sul non-sapere (e altri saggi), 19 4 Jacques Derrida, op. cit., 332 5 idem, 336. Si veda F. Cassinari (Il punto cieco…, 78–87), per la distinzione tra l’interpretazione batailleana e quella hegeliana della negatività. 6 idem, 337 7 G. Bataille, Il limite dell’utile, 199-200 2

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capaci di ricondurre dal noto all’ignoto: “Non posso parlare di un’assenza di senso se non dandole un senso che non ha”8. Ogni sistema di conoscenza non è altro che una riduzione del “nuovo” ai termini già conosciuti (l’ignoto al noto): “L’azione introduce il conosciuto (il fabbricato), poi l’intelletto che le è legato riporta, uno dopo l’altro, gli elementi non fabbricati, sconosciuti, al conosciuto. Ma il desiderio, la poesia, il riso, fanno incessantemente scivolare la vita nel senso contrario”9. Se, insomma, il linguaggio che è stato anche quello della filosofia, si erge su isolamento e ‘nominazione’ di parti distinte della natura (strappate al continuum), e sulla definizione di questi nomi attraverso altre parole – conducendo in tal modo ciò che era ignoto (caotico) alla certezza pacificatoria del noto – per esprimere ciò che quello stesso linguaggio non può comunicare Bataille deve abbracciare un linguaggio inverso; la poesia (finché non sia subordinata all’uso di metafore comuni, perciò note), che distrugge la pienezza di senso dei termini usati per via del suo uso “libero”10; la letteratura oscena in cui “usare il linguaggio in modo tale che il lettore sia sopraffatto dall’oscenità, sia colpito dallo shock del nonattendibile e irrappresentabile, sia precipitato nell’ambivalenza di disgusto e piacere”11; la parola sacra, e ogni tipo di scrittura frammentaria, labirintica, incompiuta. “Questa conoscenza che si potrebbe definire liberata (ma che io preferisco chiamare neutra) è l’uso di una funzione sciolta (liberata) dalla servitù dalla quale deriva: la funzione riferiva l’ignoto al noto, mentre a partire dal momento in cui si scioglie, riferisce il noto all’ignoto”12. Si tratta, secondo Marie-Christine Lala, di un’“operazione sovrana della conoscenza [che] contesta questa riduzione rovesciandone il fondamento e propone, al contrario, un nuovo tipo di conoscenza appartenente al dominio dell’esperienza e non (…) del discorso, nel quale si riferisce il noto all’ignoto”13; di un linguaggio, insomma, che esprima immediatamente l’esperienza propria della sovranità, che metta scompiglio nella linearità del discorso spezzandolo; si tratta, per Bataille, di trovare “…delle parole! Che senza tregua mi svuotano (…) Ne voglio trovare che reintroducano – in un punto – il sovrano silenzio che interrompe il linguaggio articolato”14. Esso dovrebbe riprodurre sul piano linguistico lo stesso meccanismo operato dalle effusioni di cui ho già parlato: se esse spezzano il sapere/discorso attraverso l’irruzione del sacro nella sfera profana, questo linguaggio deve fare altrettanto, contribuendo a spezzare l’oggettività e ad aprire 8

G. Bataille, Metodo di meditazione, 38. Metodo di meditazione è uno dei capitoli di G. Bataille, La parte maledetta. Tuttavia, per comodità, le citazioni da questo testo saranno reperite, dove non diversamente specificato, dall’edizione distinta appena citata. 9 G. Bataille, L’esperienza interiore, 165 10 La poesia è, secondo M.C. Lala (Introduzione a G. Bataille, Metodo di meditazione, 20) “un sacrificio in cui le parole sono vittime, opera nella pienezza del significato e libera realmente l’energia di quella parte maledetta e sacra dell’impossibile”. Bataille stesso definisce la poesia come “l’espressione di uno stato di perdita (…) un sinonimo di dépense. Essa significa, infatti, nel modo più preciso, creazione per mezzo di una perdita. Il suo senso è vicino a quello di sacrificio”. (G. Bataille, Il dispendio, 62) “è il sacrificio in cui le parole sono vittime (…) [ma il sacrificio] differisce dalla poesia per il fatto che, di solito, non è limitato al campo delle parole”. (G. Bataille, L’esperienza interiore, 196) 11 J. Habermas, Fra erotismo ed economia generale: Bataille, 240 12 G. Bataille, Metodo di meditazione, 71 13 Marie-Christine Lala, op. cit. 13 14 G. Bataille, Metodo di meditazione, 63

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lo sguardo sul continuum dell’intimità perduta. Spezzare il discorso articolato contribuisce a distruggere la discontinuità degli esseri (la cosalità degli oggetti menzionati), e perciò a ri(col)legare (re-ligere) l’uomo al mondo della comunicazione. “Il sacro è esattamente il contrario della trascendenza, il sacro precisamente è immanenza. Il sacro sia nelle forme più semplici che in quelle più evolute è (…) essenzialmente contagio”15. Perciò “La «comunicazione» non può avvenire da un essere pieno e intatto a un altro: essa vuole esseri in cui si trovi posto in gioco l’essere – in loro stessi – al limite della morte, del nulla”16. La sovranità batailleana, come visto, non lottando per il riconoscimento, non asservendo nessuno, non può essere cosciente di sé (equivarrebbe ad assumere un senso), e infine si riduce all’impossibile. È “L’oggetto che sempre si sottrae, che nessuno ha mai afferrato, che nessuno afferrerà”17. La sovranità eccede così il logos, e Bataille, per esprimerla, ricerca una scrittura che provochi degli “scivolamenti” che svuotino di senso i concetti stessi: Una scrittura scivolante che fa dire a Bataille, nella prefazione ad un suo lavoro, che quello che sta scrivendo è “Un libro (…) che l’autore non avrebbe scritto se ne avesse seguito la lezione alla lettera”18. Del resto, in effetti, “come potrei mai scrivendo prendere quota come dico? Quello che scrivo mi impegna proprio a non scrivere più! Se parlo di prender quota, di altezza, o la prendo e smetto subito di parlare, o tradisco l’altezza di cui parlo. (…) ma, se abbandono il filo del mio pensiero e trascrivo le parole che seguono (…): piangere da solo porta a qualcosa, mi accorgo che la scrittura, al di là dell’impegno organizzativo, (…) può d’un tratto, discretamente, rompersi e divenire grido dell’emozione”19. È una scrittura, compendiata dalla forma poetica, che piuttosto che ridursi al senso, riduce il senso, ri(con)duce il sapere a ciò che lo eccede, all’impossibile: “il non-sapere che saprà dove e in che modo eccedere la scienza stessa [e che] non sarà qualificabile scientificamente (…), non sarà un non-sapere determinato, circoscritto alla storia del sapere come una figura (che dà) presa alla dialettica, ma eccedenza assoluta di ogni episteme”20. Una scrittura che non dura, non significa, non insegna – e perciò non può servire da modello –, che esprime unicamente lo spossamento proprio a quell’esperienza immediata che, non avendo nessuna autorità (nessuno scopo) al di fuori di sé stessa, la ritrova in sé: “l’esperienza stessa è l’autorità. [Ma] tale autorità (…) deve essere espiata”21.

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G. Bataille, Le mal dans le platonisme et dans le sadisme. Citato in G. Ferrari, op. cit., 153 G. Bataille, Su Nietszche, 50 17 G. Bataille, La letteratura e il male. Citato in J. Derrida, op. cit., 343. 18 G. Bataille, La parte maledetta, 27 19 G. Bataille, René Char e la forza della poesia, in L’aldilà del serio…, 260. La frase in grassetto è un pensiero dello stesso René Char. 20 J. Derrida, op. cit., 347. E’ eccedenza assoluta in quanto al di là dell’opposizione positivo/negativo, perciò incapace di creare un nuovo senso. E ne è al di là in quanto atto di consumo puro, non utilizzabile, spreco non recuperabile, definitivo. 21 G. Bataille, L’esperienza interiore, 93. L’autorità dell’operazione sovrana deve essere espiata perché “Se non l’espiasse, avrebbe qualche punto di applicazione, cercherebbe l’impero, il dominio, la durata. Ma l’autenticità glieli rifiuta: essa non è altro che impotenza, assenza di durata, distruzione carica di odio (o allegra) di sé stessa, insoddisfazione”. In G. Bataille, L’esperienza interiore, 268. Un’azione rivoluzionaria, ad esempio, è sovrana se non persegue altri fini che la propria rivolta, trasformandosi da mezzo di conseguimento del potere in un mezzo senza fini. (si veda F. Ferrari, La comunità errante, 29). 16

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Non approfondirò il tema dell’economia generale22. Per quanto interessa questa tesi è sufficiente dire che si sarebbe dovuta contrapporre, per Bataille, all’economia ristretta della società borghese. Essenzialmente si tratta di una scienza economica che tenga conto non solo dei processi di produzione ma, infine, anche del loro spreco necessario. Essa “considera il senso di quegli oggetti gli uni rispetto agli altri, finalmente rispetto alla perdita di senso (…). Mette in evidenza (…) che si danno delle eccedenze di energia le quali, per definizione, non possono essere utilizzate. L’energia eccedente non può essere che dispersa senza il minimo scopo, di conseguenza senza alcun senso23. È questa dispersione inutile, insensata che è la sovranità”24. Ciò detto la scrittura sovrana, allo stesso modo dell’economia generale, allo stesso modo di ciò che si può dire delle effusioni, mette in evidenza delle eccedenze, “non descrive il non-sapere, questo è l’impossibile, ma soltanto gli effetti del non-sapere”25. Si tratta pertanto di una scrittura inutile – “Scrivo per annullare un gioco di operazioni subordinate (in fin dei conti, è superfluo)”26 –, che frantuma il senso del discorso e lascia una sensazione di disagio, come succede nel caso della frase che individua Derrida in cui Bataille scrive: “Precedentemente designavo l’operazione sovrana con il nome di ‘esperienza interiore’ o di ‘estremo del possibile’. Ora la designo anche col nome di: ‘meditazione’. Cambiare parola esprime il fastidio di usare qualsiasi parola (‘operazione sovrana’ è, fra tutti, il nome più fastidioso: ‘operazione comica’ sarebbe in un certo senso meno ingannevole); preferisco ‘meditazione’, ma ha un sapore religioso”27. Come si vede questa frase non dice nulla: è un vero e proprio sacrificio del senso, un potlach dei segni e della significazione che si consuma tramite il principio secondo il quale cambiare parole è utile per non fissarsi su un elemento noto, ribadendo che è necessario produrre degli scivolamenti di senso per aprire degli squarci nel discorso articolato. A questo punto non rimane che capire la regola del gioco tramite le parole di Derrida: che cosa è successo, dunque, nella frase succitata? “In definitiva non si è detto niente. Non ci si è fermati su nessuna parola; la catena non si regge su nulla; non uno dei concetti soddisfa alla richiesta, tutti si determinano gli uni con gli altri e nello stesso tempo si distruggono o si neutralizzano. Ma è stata affermata la regola del gioco, o meglio, il gioco come regola; e la necessità di tra-

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Per approfondirlo si veda G. Bataille, La parte maledetta, soprattutto la prima parte (25-53); ma anche, per una concisa sintesi, J. Habermas, Fra erotismo ed economia generale: Bataille, soprattutto 237-240. 23 Bataille, ne La parte maledetta (163 sgg) indica nel ‘piano Marshall’ un esempio di questo dispendio del surplus senza contropartita. Tuttavia rileva anche come l’interesse politico che esso manifestò ne infici la validità implicando una contropartita, votandosi ancora all’accumulazione. 24 G. Bataille, Metodo di meditazione, 89. 25 J. Derrida, op. cit., 350. Grassetto mio 26 In questa nota e nella successiva, utilizzo la traduzione in G. Bataille, L’esperienza interiore, 268, che preferisco a quella in Metodo di meditazione (piuttosto ‘disordinata’), che riporto qui: “Scrivo per annullare in me un gioco di operazioni subordinate (cosa che è, in ultima analisi, superflua)”. 27 G. Bataille, L’esperienza interiore, 264. Anche in questo caso trascrivo la traduzione di G. Bataille, Metodo di meditazione, 73-74: “In passato mi riferivo all’operazione sovrana con le parole “esperienza interiore” o “estremo del possibile”. Ora la chiamo anche con il nome di meditazione. Cambiare parola esprime la noia di usare una parola quale che sia operazione sovrana è fra tutti i nomi il più fastidioso (in un certo senso comico ingannerebbe meno): preferisco meditazione ma è di tono un po’ devoto”.

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sgredire il discorso e la negatività della noia (d’impiegare una parola qualsiasi nell’identità rassicurante del suo senso)”28. Questa interruzione del discorso dà accesso allo spazio sacro della comunicazione: “Nella misura in cui gli esseri sembrano perfetti, restano isolati, chiusi in sé stessi. Ma la ferita dell’incompiutezza li apre. Attraverso ciò che si può chiamare incompiutezza, nudità animale, ferita, i diversi esseri separati comunicano, prendono vita perdendosi nella comunicazione dell’uno all’altro”29. Dunque, affinché abbia luogo, dice Bataille, “La comunione vuole che un essere umano si apra ai suoi simili, a quelli almeno che condividono la sua sorte e gli sono prossimi: è il principio della lealtà. (…) Così alla base della lealtà non c’è l’obbligazione ma la generosità, l’esistenza di un in-più che trabocca nelle feste, distruggendo ogni misura tra i partecipanti. (…) Solo i comportamenti sovrani della festa, dove niente si commisura all’interesse, consentono a degli uomini di rivelare la parte divina di sé, quella che non può essere in alcun modo asservita”30. A questo punto si chiarisce definitivamente il non-senso di questa scrittura sovrana, che è in definitiva un altro modo per manifestare i comportamenti sovrani della festa di cui parla Bataille in questo stralcio. Questo sacrificio del senso è ciò che si slega (scatena) dal discorso e rende possibile aprirsi a quel non-sapere che, come visto, è un modo di conoscenza: ma non razionale. È una conoscenza che si comunica da soggetto a soggetto scivolando emotivamente fra essi: come precisa Papparo “Ciò che dona e si dona nella comunicazione tra gli esseri è la loro parte di non utilizzabilità”31.

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J. Derrida, op. cit., 355 G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 39 30 G. Bataille, La vittoria militare e la bancarotta della morale che maledice, in L’aldilà del serio…, 70 31 F.C. Papparo, op. cit., 82 29

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Capitolo 2 DA “DOCUMENTS” AL “COLLÈGE”: UN PENSIERO ALL’AZIONE 2.1: “DOCUMENTS” Nell’aprile 1929, dopo la rottura coi surrealisti (accusati da Bataille di idealismo), il pensatore francese fonda e ottiene la direzione della rivista “Documents”. L’uscita, assieme ad altri dissidenti, dai Surrealisti, aveva provocato le ire di Breton che stigmatizzò il fatto nel secondo manifesto surrealista. I fuoriusciti risposero prontamente con l’opuscolo “Une cadavre”, nel quale Bataille pubblicò il suo breve articolo “Il leone castrato”. In esso Bataille condanna senza esclusione di colpi, la “furberia politica del cadaverico Breton [che si è intrufolato] come poteva nel carro del comunismo” finendo per “dissimulare la sua impresa religiosa sotto una povera fraseologia rivoluzionaria”. E’ la fraseologia clericale del surrealismo, la volontà di combattere l’ideologia su cui si fonda la società borghese negandola attraverso la fede in un’ideologia superiore, a spingere Bataille a terminare questo breve articolo con un’altra provocazione (“Ma l’attitudine rivoluzionaria di un Breton potrebbe passare per altro che per una truffa?”1) e a produrre il distacco dal surrealismo. A Documents, che in principio doveva (secondo l’editore Wildenstein e il suo rappresentante in redazione D’Espezel2) limitarsi all’ambito artistico, Bataille impone immediatamente una direzione tesa alla critica della cultura che prefigura alcuni dei temi che nel resto della sua biografia tenterà incessantemente di approfondire. A spronarlo in questa direzione è la volontà di fornire di basi teoriche più dinamiche il marxismo (che in quei tempi, nelle sue sconfitte a vantaggio dei fascismi e nella sua applicazione reale nell’Unione Sovietica di Stalin, evidenziava tutte le sue debolezze), nonché la volontà di far poggiare la violenza espressa dal movimento rivoluzionario su radici teoriche non vertenti unicamente su valutazioni di tipo economico. “Documents” diviene così, secondo C. Maubon, “il luogo in cui la rappresentazione della differenza (…) ha permesso meglio che altrove (…) la presa di distanza dai pregiudizi più radicati della civiltà occidentale: il logocentrismo, l’etnocentrismo, l’antropomorfismo”3. Negli articoli di questo periodo, Bataille sviluppa la proclamazione del diritto di ciò che è “basso” a rialzare la testa, per denunciare la faziosità del sistema teorico vigente che ne ha determinato l’esclusione, ponendo in rilievo tutto quello che, nella storia dell’arte ufficiale, è stato occultato o rimosso. Fondamentale nello svolgimento dei suoi articoli è la visione “bipolare” tra alto e basso, tra materia e spirito, espressione di “un materialismo visceralmente 1

Georges Bataille, Il leone castrato, in Sergio Finzi, La critica dell’occhio, 55-56 Catherine Maubon, “Documents”, una esperienza eretica, 47-59 3 idem, 51 2

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anti-idealista che diventa critica radicale di tutta la civiltà occidentale”4. La distinzione fra alto e basso si sviluppa, negli articoli della rivista, in tematiche alquanto svariate: ne “Il cavallo accademico”, ad esempio, a partire da un’analisi delle forme pittoriche che lo spinge a distinguere quelle “barbare” (che esprimerebbero la caoticità della natura) da quelle classiche (che esprimerebbero la cultura), istituisce di fatto una coppia di contrari che tuttavia non si escludono a vicenda ma semmai si completano, non manifestandosi in periodi storici ben distinti ma coesistendo in ogni epoca, tanto che laddove si palesano forme chiare e pulite non vengono escluse forme espressive più rozze – o come afferma Bataille “Mostruose”5 – che evidenziano la violenza con cui la natura si distingue dalla trascendenza della cultura “battendo e spumeggiando come un’onda in un giorno di burrasca”6. Il valore di queste affermazioni si chiarisce ulteriormente nell’articolo “Il linguaggio dei fiori”, nel quale, con una piccola forzatura, si possono ricollegare i due stili artistici ai movimenti opposti qui analizzati: quello orizzontale e quello verticale. Del primo farebbero parte una pittura istintiva, che non si eleva concettualmente ma esprime immediatamente delle impressioni (ed è perciò capace di ingenerare in chi la osserva lo stesso sgomento che ne ha determinato la realizzazione), ma anche il letame, lo scavare dei vermi nella terra, ciò che di mostruoso si cela al di sotto di una superficie edulcorata; del secondo l’arte classica, così come ogni cosa, ad esempio i fiori, che si elevi al di sopra del primo. Bataille vuole svalutare l’usanza di trarre a prestito dalla natura immagini di elevazione dal suolo per rafforzare l’instabile trascendenza umana: anche l’uomo, infatti, attraverso l’umanizzazione, trascende l’orizzontalità del movimento naturale. Questo trapasso dell’orizzontalità, propriamente il superamento del limite – l’uomo è “fuori legge”7 –, provoca un movimento di crescita comune all’essere umano come a parte del mondo organico – c’è un “impulso generale dal basso in alto”8 –, che si distingue nell’uomo per via dell’oblio/negazione che esso effettua nei confronti delle proprie radici. Questa rimozione si rivela tuttavia fallace: come l’arte classica non può fare a meno di (essere completata da) quella “barbara”, allo stesso modo il fiore, l’uomo, non possono fare a meno delle loro radici “che brulicano, sotto la superficie del suolo, stomachevoli e nude come vermicai”9; vicine alla morte, in quanto è di essa che si nutrono per crescere. L’uomo rimuove così il suo legame col basso, con le radici, con la morte – che nutre la sua stessa vita –, si identifica col fiore, con ciò che si eleva. Dimenticando la contiguità con la dimensione orizzontale, trascende ciò che il fiore, per via dell’esilità del suo stelo, tradisce; ma ogni movimento verticale, ogni desiderio di 4

Giovanni Ferrari, Il limite e l’impossibile, 84. G. Bataille, Il cavallo accademico, in G. Bataille , Documents, 23-30. Per Simone Weil (Quaderni, Adelphi, Milano 1982, 14, 44), “l’essenza del bello è contraddizione”, e “Ogni affermazione vera è un errore se non pensata contemporaneamente al suo contrario, e non la si può pensare contemporaneamente”. Riguardo all’influenza reciproca, nonostante un’evidente antipatia tra i due, di Weil e Bataille, si veda F. Rella, Lo sguardo ulteriore della bellezza. 6 Rodolphe Gasché, L’aborto del pensiero, 32. Ho utilizzato questa traduzione che mi pare più accurata. Tuttavia si può consultare la stessa frase in G. Bataille, Il cavallo accademico, cit., 30. 7 “Il cuore è umano quando si ribella. Non essere una bestia ma un uomo significa rifiutare la legge (quella della natura)” (G. Bataille, La volontà dell’impossibile, in L’aldilà del serio…, 32). 8 G. Bataille, Il linguaggio dei fiori, in G. Bataille , Documents, 56 9 idem, 56-57 5

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innalzarsi (i fiori lo dimostrano) genera morte: questo è il “dramma della morte indefinitamente rappresentato fra cielo e terra”10, dramma in cui “Raggiunto il fetore del letame, benché avesse dato l’impressione di sfuggirvi in uno slancio di purezza angelica e lirica, il fiore sembra bruscamente tornare alla sua sozzura primitiva. Il [fiore] più ideale è rapidamente ridotto a un brandello di letamo aereo. I fiori (…) muoiono ridicolmente sugli steli che sembravano portarli alle stelle”11. L’uomo, tramite il linguaggio, attribuendo un nome alle cose (riducendo l’ignoto al noto), categorizzando gli aspetti12 in base alle loro similitudini, escludendo in tal maniera il nuovo, lo stupefacente, l’ignoto, assimila il proprio movimento a quello verticale del fiore. In questo modo esclude dal “suo” mondo possibile (dal mondo che considera reale e che può “dire” attraverso un linguaggio) ciò che non è metaforizzabile e quindi riducibile al noto; l’inassimilabile/eterogeneo13 che viene escluso e negato col nome di male. Esso è perciò l’impossibile in quanto, se esperito, dà luogo al sentimento umano di non poter sfuggire alla propria genesi, staccarsi dalle proprie radici, disfarsene. Il basso, la morte (che dà vita), le radici, la natura scarsamente o per nulla assimilabile, divengono in tal modo il male che l’uomo trascende (nega) attraverso la reificazione del suo movimento verticale; perciò tornare agli aspetti significa esperire un mondo altro da quello in cui l’uomo attribuisce senso alle cose, un mondo privo di senso (del non-senso) che decapita l’uomo escludendone la ragione giudicante. In “Le deviazioni della natura”14, questa viene definita come lo spazio della differenza, di produzione del dissimile, del (perciò) mostruoso15; ma che cos’è il mostruoso, l’eternamente differente da sé, se non l’inassimilabile/eterogeneo, il “maligno”, ciò che l’uomo – per fruirne – deve inizialmente ridurre all’identità facendone una “cosa”? E questa “cosificazione” non è proprio ciò che l’uomo compie tramite il lavoro, negando hegelianamente la natura? L’uomo, tramite le sue categorie conoscitive e il lavoro, annulla le differenze della natura nell’omogeneità delle sue identità, giungendo al culmine, in Hegel, all’annullamento di ogni differenza fra ragione e natura. Per Bataille, invece, quell’identità fra ragione e natura non può mai essere postulata: un probabile compimento hegeliano della storia annuncerebbe solamente un’identità della ragione con sé stessa, mai con la natura che, inassimilabile, rimarrebbe tale. Ogni parola, scrive a tal proposito Bataille, “ha ricevuto la missione di occupare militarmente uno dei punti del globo”16, cioè di negare il vero aspetto della natura per ergersi verticalmente al di sopra di essa creando sintesi concettuali ed identità fittizie. La dialettica di Bataille (se così si può dire), è quindi un movimento che, al contrario di quella sin10

idem, 55 idem, 55 12 Rodolphe Gasché, op. cit. Gli aspetti di cui parla Gasché sono il residuo degli oggetti nel momento in cui il soggetto interrompa la sua facoltà di giudizio. Privato della coscienza (della facoltà di attribuire senso, relazioni regolari tra categorie di oggetti simili), il soggetto è reso ad una serie di impressioni scivolanti determinate da movimenti esterni o interni, confusi tra loro ed innominabili, ma ugualmente capaci di ingenerare nel soggetto immerso in essi, sentimenti ed emozioni: una comunicazione batailleana. 13 Chiarirò più avanti come la riflessione sull’eterogeneo assumerà nel pensiero batailleano un aspetto sempre più di primo piano. 14 Georges Bataille, Le deviazioni della natura, in G. Bataille , Documents, 105-110 15 Georges Bataille, Le deviazioni della natura, in Rodolphe Gasché, op. cit., 40 16 Georges Bataille, Il giro del mondo in ottanta giorni, G. Bataille , Documents, 72 11

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tetica hegeliana, cammina all’indietro17, in direzione dei mostri che abitano una natura indicibile. Ne “Il basso materialismo e la gnosi”18 Bataille chiarisce ulteriormente la sua riflessione. In esso definisce l’hegelianesimo (la filosofia) come un perfetto sistema di riduzione a livello del discorso di elementi (gli aspetti) di un discorso più vasto, distruggendo in tal modo la pretesa filosofica di essere la forma organizzatrice di tutti i discorsi e auspicando una pratica del pensiero che raccolga tutto ciò che è impuro19. Per il pensiero gnostico la materia è un principio attivo. Tale assunto ontologico è mantenuto nel basso materialismo batailleano secondo cui la modalità di esistenza della materia “è quella delle tenebre (che non sarebbero l’assenza di luce ma gli arconti mostruosi rivelati da questa assenza), quella del male (che non sarebbe l’assenza del bene, ma un’azione creatrice)”20; se per il pensiero classico (la filosofia) luce e bene simboleggiano l’essere, mentre tenebre e male il nonessere (gli arconti mostruosi che le vivono, entità innominabili, “fuorilegge”), per Bataille, sulla scia della gnosi, quelle tenebre sono la parte di impossibile che ci anima: la nostra parte maledetta. Così gli irrappresentabili arconti mostruosi sono ciò che non è: “Il più basso è ciò che non è, non una nuova testa, ma scarto, differenza. (…) Il basso, acefalo, sregolato materialismo, privo di presupposti ontologici, affermazione tragicamente libera, non è lontano dall’antinomismo di fondo che caratterizza l’espressione gnostica”21. Il più basso di cui Ciampa disserta in questa citazione, è l’acefalo di cui Bataille scrive: “l’adorazione di un dio dalla testa d’asino (…) mi sembra suscettibile ancor oggi di assumere un valore molto importante e (…) la testa d’asino troncata della personificazione acefala del sole rappresenta forse, per imperfetta che sia, una delle più virulente manifestazioni del materialismo”22. Questa figura di Dio-dalla-testa-d’asino raffigura perciò l’acefalo nel quale la testa umana (la Luce, l’Idea, la Ragione) viene tagliata via e rimpiazzata da una testa “bassa”; non è più, in essa, il sole a raffigurare il culmine, ma quegli arconti mostruosi incapaci di una qualsiasi attribuzione di senso. Tramite la testa “bassa” dell’asino si apre uno spazio di figurazione insensato costituito di figure irrappresentabili, di “aspetti” che non rimandano a nulla all’infuori di sé (della propria emergenza), e che in quanto non veicolanti alcun senso sono considerati il male, le tenebre. Tramite il Dio acefalo la materia non è né fuori né sotto ma semplicemente non è, in quanto priva di intelligibilità, estranea alla ragione. Diviene solamente uno scarto, una differenza inutilizzabile23. Ne “Il gioco Lugubre”24 Bataille tenta di smembrare il pensiero, reo di creare delle prigioni lessicali (“occupare militarmente…”), non permettendogli di arri17

Rodolphe Gasché, op. cit., 46 Georges Bataille, Il basso materialismo e la gnosi, in G. Bataille , Documents, 93-104 19 Rodolphe Gasché, op. cit., 47. Quest’auspicio, ribadito, come vedremo, in “La struttura psicologica del fascismo”, sarà concretizzato da quell’«eterologia» che Bataille svilupperà negli anni successivi. 20 Georges Bataille, Il basso materialismo e la gnosi, cit., 98 21 Maurizio Ciampa, La gnosi paradossale di Bataille, 25 22 Georges Bataille, Il basso materialismo e la gnosi, cit., 94 23 Sulla stessa falsariga di questa “lettura” del basso materialismo, si veda anche R. Gasché, op. cit. 24 Georges Bataille, Il gioco lugubre, in G. Bataille , Documents, 85-91 18

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vare alla formulazione dell’idea. Unica possibilità, però, per ottenere un successo in questa impresa, è quella di liberare la violenza che, prodotta dal rancore e dall’odio verso le “prigioni”, solitamente la società vieta moralmente. Si deve così condurre il parto delle idee ad un aborto, al quale non sarà il nulla a far seguito bensì gli arconti, gli aspetti, il ritorno ad un’immersione nella materia (non il nulla /neant, ma il niente /rien). Se l’idealismo rimuove le proprie radici affondate nel sottosuolo, Bataille rivendica, per Giovanni Ferrari, il valore “del basso contro l’alto, del corpo contro lo spirito (…) del male contro il bene”25, contrapponendo all’idealismo un “basso materialismo” facente perno sulla rivalutazione delle “rivendicazioni brutali giustificate dalla miseria e dall’oppressione”26. In questi articoli di “Documents” Bataille vuole riscattare quanto è basso, non farne l’apologia contro l’alto: come visto ciò che è basso (lo scarto, la differenza, l’acefalo) non istituisce nessun nuovo linguaggio o sistema di riduzione all’idea. Questo riscatto non è perciò definibile col lessico della rivoluzione ma con quello della rivolta: il basso non vuole essere hegelianamente riconosciuto bensì esistere, manifestarsi, eccedendo la rimozione operata dal sistema rappresentativo. Si tratta non tanto di condannare lo spirito moderno, ma di “attirare l’attenzione – come afferma Maubon – sull’impasse nella quale [esso] si ostina[va] a voler progredire”27, di recepire il (e volere tornare fedeli al) movimento della nostra parte maledetta. Questo riscatto del basso nei confronti dell’alto, va da sé, è da intendersi sia a livello del soggetto – in cui il basso (i piedi che gli ricordano il fango, gli organi sessuali accuratamente nascosti, le feci “taciute” vergognosamente) è negato idealisticamente – sia a livello sociale – in cui gli strati bassi, abietti, vengono esclusi ed abbandonati a sé. La riflessione di Bataille esige così “che il rimosso sia reso cosciente”, ed a suo avviso questo può accadere, esplodendo in tutta la sua virulenza, solo con il compimento hegeliano della storia e del sapere – con l’accesso al non-sapere – che provocherà lo spazio per una libera manifestazione di una superflua ed inassimilabile (non sintetizzabile) “negatività senza impiego”28: e come visto Bataille considera “ora la fine della storia come una verità qualunque, come una verità stabilita” 29.

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Giovanni Ferrari, op. cit., 84 G. Bataille, Il basso materialismo e la gnosi (nota assente in G. Bataille , Documents) in G. Ferrari, op. cit., 104n 27 Catherine Maubon, op. cit., 59 28 G. Bataille, Lettera a X [ A. Kojeve], incaricato di un corso su Hegel…, in Il colpevole/L’alleluia, 163 29 G. Bataille, Hegel, l’uomo e la storia, in Aldilà del serio…, 183 26

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2.2: “CERCLE COMMUNISTE DÉMOCRATIQUE” E “CRITIQUE SOCIALE” L’esperienza di “Documents” si esaurì in poco più di un anno. Nel triennio successivo, dal 1931 al 1934, Bataille collaborò col Cercle communiste démocratique di Boris Souvarine1 e alla rivista che questa collaborazione partorì: “La critique sociale”. Tuttavia, prima di affrontare alcuni articoli di questa rivista, penso sia opportuno visionare brevemente un altro documento, in cui Bataille, nuovamente dopo “Il leone castrato” del 19292, denuncia l’ingenuità del surrealismo che pensa di poter stravolgere i valori del capitalismo borghese sostituendoli con degli altri superiori: questo documento è “La «vecchia talpa» e il prefisso su nelle parole superuomo e surrealismo”. “La sovversione – scrive Bataille in esso – cerca (…) di creare valori suoi propri per opporli ai valori stabiliti. E’ così che si trova, appena nata, in cerca di un’autorità superiore di quella che ha provocato la rivolta”3, ed è disgustoso l’atteggiamento di chi “parla attraverso il cielo, pieno di un rispetto esaltato per questo cielo e la sua folgore, pieno di disgusto per questo mondo situato troppo in basso che egli crede di disprezzare”4. Bataille condanna in tal modo le affermazioni di Breton, secondo cui il surrealista deve usare “l’arma vendicatrice dell’Idea contro la bestialità di tutti gli esseri e di tutte le cose”5, opponendo ad esse la sua convinzione che “è l’agitazione umana, con tutta la volgarità dei piccoli e dei grossi bisogni (…) che condiziona da sola le forme mentali rivoluzionarie”6. A tal proposito parla di “scappatoie icariane”7, sulla scorta di un paragone secondo cui l’imperialismo è accostato ad un’aquila (“cioè con un libero sviluppo del potere autoritario particolare”8), e quindi qualsiasi idealismo rivoluzionario, surrealismo in primis, pretendendo di sconfiggere quell’idea con idee più alte o nobili, diviene nient’altro che una “aquila al di sopra delle aquile, una superaquila che abbatte gli imperialismi autoritari”9, conducendo irrimediabilmente ogni istanza rivoluzionaria ad una sconfitta e ad un rinnovato bisogno di idealismo, concretizzato allora nel fascismo. Bataille, al contrario, afferma il valore del basso materialismo acefalo, unico capace di distruggere ogni idealismo sviluppandosi e persistendo, piuttosto che nel cielo delle idee ed alla luce del sole, nel sottosuolo dove “la rivoluzione – vecchia talpa – scava gallerie in un terreno decomposto e ripugnante per il naso delicato degli utopisti”10. La rivoluzione scatena la violenza pulsionale dell’uomo, scatena cioè quella parte maledetta che la società di cui esso fa parte aveva “incatenato” assimilandola al concetto tabuizzato di “male”.

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Per un chiarimento sulla biografia di B. Souvarine (alias Boris Lifšic, 1893-1984) rimando a G. Bataille, Documents, 145n, inoltre G. Ferrari, op. cit., 87-88 2 Si veda il paragrafo precedente. 3 G. Bataille, La “vecchia talpa”…, in S. Finzi, Critica dell’occhio, 137 4 idem, 151 5 Secondo manifesto del surrealismo, in Manifesti del surrealismo, Torino 1966, p. 66. Citato in G. Bataille, La “vecchia talpa”…, 147 6 G. Bataille, op. cit., 153 7 idem, 153 8 idem, 139 9 idem, 139 10 G. Bataille, op. cit., 140

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Cosa potrebbe sopprimere, altrimenti, il regime delle idee, il potere delle aquile, se non ciò che ne rimane indifferente, estraneo… più esattamente “all’oscuro”? Bataille torna così su alcune tematiche già affrontate ne “Il linguaggio dei fiori”, asserendo che “un uomo non è tanto differente da una pianta, subendo come una pianta un impulso che lo eleva in una direzione perpendicolare al suolo (…) una pianta dirige radici di aspetto osceno all’interno del suolo per assimilare la putrefazione delle materie inorganiche, e un uomo subisce (…) gli impulsi che l’attirano verso ciò che è basso, mettendolo in antagonismo aperto con ogni elevazione dello spirito”11. Allo stesso tempo prefigura alcuni temi che affronterà in futuro, quali: a) L’acefalo, scrivendo che “Nietszche poteva solo prendere coscienza in primo luogo della sua inattitudine alle forme sociali attuali (…), del carattere eccessivamente derisorio e quasi imbecille della sua attività mentale – geniale o no (…). Si trattava di diventare la vittima dilaniata e nello stesso tempo insultante di una stupidità senza precedenti”12. b) Il non-sapere, affermando (tramite una citazione di Nietszche) che “ogni verità che non vi ha fatto scoppiare a ridere almeno una volta sia guardata da voi come falsa”13. c) La nostalgia di una sacralità perduta eppure essenziale all’esistenza in comune, constatando che “Nietszche ha messo in evidenza (…) che, dall’avere la borghesia ucciso Dio, risulterebbe subito una confusione catastrofica, il vuoto (…). Era dunque necessario (…) creare dei nuovi valori (…) suscettibili di colmare il vuoto lasciato da Dio”14. Per Bataille, Nietszche, non afferrando che i nuovi valori cui ambiva non li avrebbero che potuti realizzare quei bassi strati sociali che egli guardava invece con distacco (e che ne avrebbero fatto, per via della loro “in-essenza”15, dei nonvalori), ricade nello stesso errore dei surrealisti: l’uso del prefisso “su” – superuomo – culminante nella volontà di legittimare i propri valori attraverso il ricorso ad una relazione di filiazione con un passato mitico. Così Nietszche conia una super–aquila attraverso la sua volontà di potenza, alla quale Bataille preferirà (e la quale in certo qual modo tradurrà con) la volontà di chance16. Attraverso questa preferenza, per G. Ferrari, Bataille ricongiunge il politico a “Quei movimenti sotterranei che nascono in relazione ai piccoli e ai grandi bisogni che si sviluppano in radicale opposizione alle forme intellettualistiche della borghesia”17. Il suo interesse per la lotta rivoluzionaria intesa come scatenamento lo avvicina nello stesso anno al “Cercle communiste démocratique”, i cui membri sono “uniti dalla lotta contro il fascismo ma anche dalla dissidenza dal marxismo ufficiale”18. Nell’ambito di questa collaborazione Bataille pubblicherà su “La critique sociale” diversi studi di grande importanza, tra cui “La notion de dépense” e “La structure psichologique du fascisme”, a cui dedico i prossimi due paragrafi.

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idem, 141 idem, 145 13 idem, 146 14 idem, 145-146 15 Chiarirò nel capitolo 3 che cosa intendo per in-essenza. 16 Volontà di Chance, è il sottotitolo del libro di Bataille, Su Nietszche. 17 G. Ferrari, op. cit., 86 18 Elena Pulcini, introduzione a G. Bataille, Il dispendio, 7 12

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2.2.2: “LA NOTION DE DÉPENSE”1 Questo articolo segna uno dei momenti della biografia batailleana in cui più aspramente, e direttamente, attacca la società borghese in cui “il piacere, si tratti di arte, di vizio consentito o di gioco, viene ridotto, in definitiva (…) ad una concessione, cioè ad un abbandono il cui ruolo sarebbe sussidiario. La parte più apprezzabile della vita è data come la condizione (…) dell’attività sociale produttiva”2. Per Elena Pulcini, Bataille, criticando la società borghese, critica il modo moderno di intendere la società e al contempo l’antropologia dell’Homo oeconomicus che, a partire da Locke e dalla rivoluzione liberal-contrattualistica, si afferma come il fondamento di una società in cui è la paura della morte a vincolare gli individui ad un contratto che, mantenendo il loro isolamento, li priva dell’immediatezza animale3. Questo tipo di società, relega per Bataille l’umanità a rimanere “minorenne”, assumendo nei confronti del singolo individuo lo stesso ruolo che il padre incarna nei confronti del figlio: quello di inibente alla soddisfazione delle pulsioni interdette (a-sociali); così come esistono cose di cui un figlio “non ha nemmeno il diritto di parlare”(57) col padre – quelle che “gli dà[nno] la febbre”(57) – allo stesso modo all’umanità cosciente è negata la possibilità di manifestare la violenza delle pulsioni che il principio dell’utile esclude. Ma quali sono queste pulsioni innominabili? Perché lo sono? Bataille lo spiega chiaramente affermando, contro il principio dell’utilità, che “L’attività umana non è interamente riducibile a processi di produzione e di conservazione e il consumo deve essere diviso in due parti distinte. La prima, riducibile, è rappresentata dall’uso del minimo necessario (…) per la conservazione della vita e per la continuazione dell’attività produttiva. Si tratta dunque della condizione fondamentale di quest’ultima. La seconda parte è rappresentata dalle spese cosiddette improduttive il lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di monumenti santuari, i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perversa (cioè deviata dalla finalità genitale)”(58-59). Il mondo borghese, volendo difendere l’identità dalla distruzione, esclude da sé ognuna delle forme di dispendio che Bataille enumera nella precedente citazione. Tuttavia, esprimendo questi dispendi un’esigenza intima riscontrabile in ogni popolazione (universale), essi esprimono la stessa antropologia, perciò eliminarli dal proprio spazio d’azione equivale a castrare l’uomo di un suo elemento ontologico4. Per Bataille le società borghesi giungono a rimuovere dal proprio mondo le forme dispendiose di cui sopra, per via di un errore che mina le fondamenta della scienza economica: considerare il baratto come la prima forma di circolazione delle ricchezze, come fondamento dello scambio. Per Bataille, al contrario, il baratto non rappresenta che un’interpretazione tendenziosa di un movimento di circolazione di ricchezze che invece, sulla scorta delle intuizioni 1

pubblicato sul n° 7 del gennaio 1933 de “La critique sociale”. Traduzione italiana: G. Bataille, Il dispendio, nonché in G.Bataille, La parte maledetta. 2 G. Bataille, Il dispendio, 56. Per ogni citazione tratta da questo testo d’ora in poi segnalerò la pagina in una parentesi successiva alla citazione direttamente nel testo. 3 E. Pulcini, introduzione a G. Bataille, Il dispendio, E’ contro questa visione antropologica che Bataille istituirà la figura dell’uomo comuniale 4 G. Ferrari, Georges Bataille: il limite e l’impossibile, 92

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esposte da Mauss nel suo “Saggio sul dono”5, deve essere spiegato, almeno riguardo alla sua genesi, tramite il concetto di potlach: “un dono di ricchezze ostensibilmente offerte con il fine di umiliare, di sfidare o di obbligare un rivale (…). Il donatario, per cancellare l’umiliazione e raccogliere la sfida, deve (…) rispondere ulteriormente con un dono più importante, cioè restituire ad usura.”(65). Il potlach esprime così una dinamica dispendiosa che, per Rella, sembra non avere alcuno scopo se non quello di assicurare la comunicazione attraverso una distruzione, che “Da un lato (…) annienta l’utilità della cosa, consegnandoci, nel momento del suo annichilimento, ciò che va oltre l’utile (…), il suo carattere sacro. D’altro lato questo atto distruttivo è creativo di uno spazio, anch’esso sacro, di una comunicazione sottratta alle leggi dello scambio (…) che (…) definiremo «totale»”6. Porre come fine, al modo del borghese, il momento dell’accumulo che segue allo scambio, e postulare a fondamento della circolazione di ricchezze la volontà di acquisire e non quella di perdere, non significa altro che intendere come fine ciò che è soltanto un mezzo, dal momento che attraverso un’“economia generale” l’esito finale di ogni accumulo di ricchezze altro non è se non il loro spreco “glorioso”. Se nelle società arcaiche il potere era una dote di rango, acquisita attraverso “spettacolari distruzioni di ricchezza” i cui benefici ricadevano sull’intera comunità (restituendo al presente ciò che era stato prodotto sotto l’autorità del futuro), nella società borghese esso perde il suo carattere glorioso per ridursi ad una disposizione più o meno ingente di ricchezze, ad una maggiore capacità di spesa che si compie comicamente nel lusso personale: “Il comico nei dispendi è associato alla borghesia. (…) La tragedia mette in scena i grandi signori e i preti, la commedia i borghesi. (…) [Nel mondo arcaico] Per gli uomini il lusso era espressione della festa – nella quale il popolo è partecipe e in comunione – prima di essere espressione del rango sociale. (…) Le spese signorili instauravano il rango senza rottura del legame sociale. (…) Avendo prodotto e trovandosi infine fornito, non molto meno di un gran signore, di un sovrappiù da sprecare, il borghese fu a sua volta indotto al lusso: [ma] egli compì per primo il movimento che conferisce alla ricchezza valore di godimento privato”7. Se, insomma, è in base al dono che nell’economia regolata dal potlach, quella della festa, si acquisivano rango e prestigio, allora “il potlach è il contrario di un principio di conservazione: esso mette fine alla stabilità delle fortune. [È] una specie di poker rituale (…). Ma dopo aver fatto fortuna, i giocatori non possono mai ritirarsi: essi restano alla mercè della provocazione. In nessun caso dunque, la fortuna ha la funzione di mettere chi la possiede al riparo dal bisogno”(6768); ed è proprio questo il punto focale dell’articolo di Bataille: la borghesia infatti, “in quanto classe detentrice della ricchezza, avendo ricevuto insieme alla ricchezza l’obbligo della spesa funzionale (…), si caratterizza per il rifiuto da principio che essa oppone a tale obbligo”(71), perché disposta a spendere improduttivamente “soltanto nella misura in cui la stabilità viene assicurata e non può più venir compromessa anche da perdite considerevoli”(68-69). Infatti, continua Bataille, “L’odio verso la dépense è la ragione d’essere e la giustificazione 5

Marcel Mauss, Saggio sul dono. Franco Rella, introduzione a G. Bataille, La parte maledetta, XVII-XVIII 7 Georges Bataille, Il limite dell’utile, 84 - 85 6

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della borghesia”(71-72), in quanto i borghesi sono giunti al potere solamente perché “hanno utilizzato gli sperperi della società feudale come un fondamentale capo d’accusa”(72). Il peso reale del significato che Bataille affida al concetto di potlach assume tutta la sua evidenza in un passaggio di poco precedente quelli appena citati, nel quale afferma che “dato che il potere viene esercitato dalle classi che spendono (…), i miserabili non hanno altro mezzo per rientrare nella cerchia del potere se non la distruzione rivoluzionaria delle classi che l’occupano, cioè una dépense sociale sanguinosa e illimitata”(63-64); si tratta di un ribaltamento di prospettiva: non sono più né ricchezza né potere a determinare il rango, ma la disposizione a scatenare le proprie pulsioni violente, ad accettarsi pienamente esprimendo ed esperendo la propria soggettività. Bataille considera la rivoluzione un dispendio di vite umane, tanto più gloriosa in quanto priva, rispetto alle guerre, di scopi precisi e guide rigide. Essa è la manifestazione del bisogno di dépense che, non potendo essere soddisfatto nelle società contemporanee (esse, seguendo il principio di utilità, ne determinano la rimozione), riesplode in maniera catastrofica e in questo modo riafferma la sua ineluttabilità: “L’organismo vivente8 (…) riceve in teoria più energia di quanta sia necessaria al mantenimento della vita. L’energia (la ricchezza) eccedente può essere utilizzata per la crescita di un sistema (per esempio di un organismo); se il sistema non può più crescere, o se l’eccedenza non può per intero essere assorbita nella sua crescita, bisogna necessariamente perderla senza profitto, spenderla, volentieri o meno, gloriosamente o in modo catastrofico”9. A questo esito si deve ricondurre ogni possibile liberazione dall’asservimento cui l’uomo è sottoposto nelle società borghesi: una ribellione determinata unicamente dalla propria disperazione provocata da una società che, in nome di principi razionali (che, come osserva Giovanni Ferrari, sono divenuti oramai soltanto una funzione dei giochi economici10), mutila l’individuo al suo valore d’uso, ne fa una funzione della sua produttività, nega ad esso ogni diritto al dispendio. Riassumendo direi che, oggi, l’umanità è relegata al suo stadio “minorenne” per via di ciò che non può “nemmeno dire”, e che quest’innominabile (l’esperienza pulsionale) è tale perché inassimilabile al principio razionale utilitaristico assunto dalla società borghese come radice della propria legittimazione. Bataille, perciò, richiama le forme arcaiche di dépense (il sacrificio e il potlach, cioè un sacrificio del proprio) per affidare ad esse il compito di colmare quel bisogno di perdita insito in ogni essere umano ma rimosso dalla società borghese11, esplicitando che in ogni caso, volenti o nolenti, questo medesimo bisogno di perdita si manifesterà: ciò che una società può fare, è solo tentare di relegare questo surplus di energie ad ambiti e tempi ben delimitati (il tempo della festa), piuttosto che negarli per poi vederli riesplodere catastroficamente.

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Per Bataille, sulla scorta della sociologia francese, la società non è un ammasso di individui ma un “fatto sociale totale”, un “essere composto”. Per questo motivo quanto affermato sull’essere ha valore, in Bataille, anche per le società. 9 G. Bataille, La parte maledetta, 35 10 G. Ferrari, op. cit., 94 11 Rimando per queste ultime righe a E. Pulcini, Il bisogno di dépense: passioni, sacro, sovranità in G. Bataille

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La comunicazione della dépense: verso una con-vivenza altra. “Ogni dispendio immediato è creatore di un segno che ha per altri il senso del dispendio effettuato. (…) Il significato di un dispendio coincide col suo contagio. Il senso di una danza è dato nel fatto che a mia volta danzo”12. In questa maniera si accede alla presa di coscienza della comunicatività espressa dal movimento di dépense: nel momento in cui mi dono, infatti, mi apro all’altro da me in una comunicazione inesprimibile per via del suo statuto inconscio. Ma questa apertura all’altro viene recepita, sentita dall’altro nel momento in cui egli stesso si apra nei miei confronti, si prepari ad accogliere la mia esistenza e i segni che essa emana. Il movimento di dépense, insomma, delinea il terreno sul quale erigere l’esperienza di un’antropologia differente da quella dell’homo oeconomicus borghese: esso prepara a riconoscere l’(in)essenzialità dell’uomo comuniale, votato ad un legame con l’altro che tenga conto del proprio bisogno di donarsi, spendersi ed infine perdersi, accogliendo in sé “L’insensibile passaggio dall’accrescimento alla perdita [che] è implicato da un principio: la perdita ha come condizione il movimento di crescita, il quale non può essere indefinito, si risolve nella perdita. Allo stadio animale più semplice è la riproduzione asessuata”13, prefigurando in tal modo una comunità istintiva da compiere successivamente all’avvento del non-sapere (al compimento del sapere). La dépense viene definita da Papparo come “un’economia rovesciata nel suo stesso principio. Non più l’accumulazione per l’accumulazione (…) ma esattamente il contrario: l’accumulazione per il dispendio, e una concatenazione della specie votata al lusso, all’eccesso e alla voluttà. (…) Votata cioè al dono senza speranza di profitto, in una parola: votata al nulla”14. Se l’economia dell’accumulo risponde ad un principio economico ristretto, che tiene conto unicamente della produzione e circolazione dei beni senza porsi il problema del loro utilizzo, allora essa confonde un mezzo con un fine: lo stesso consumismo non serve ad altro che a nutrire nuovamente il reinvestimento e quindi l’aumento di produzione. Il principio dell’economia capitalista è quello di poter fornire prodotti “solo assorbendo più di quanto fornisce”15, escludendo così ogni forma di solidarietà: “Non c’è essere sulla terra che possa consumare senza aver prima acquisito. Il capitalismo (…) ha bisogno di lasciar morire gli uomini in modo discreto, rigoroso: non poteva fornire loro i prodotti disponibili senza rinunciare al proprio fine”16. Solo a livello di un’economia generale, che tenga conto anche degli sprechi e dell’uso delle forze prodotte, si può ipotizzare la presa di coscienza della necessità finale dello spreco: “Se la minaccia della guerra impegna gli Stati Uniti a destinare l’essenziale dell’eccedente alle fabbricazioni militari, sarà vano parlare ancora di evoluzione pacifica: praticamente, la guerra avrà luogo di sicuro. È solamente nella misura in cui questa minaccia li impegna a destinare, a sangue 12

G. Bataille, Il limite dell’utile, 210. Per Papparo (Incanto e misura, 127-129), il segno che un dispendio lascia è lo stato d’animo, che non dà una conoscenza ma lascia affiorare un “campo d’azione”, di comunicazione. 13 Georges Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 125 14 Felice Ciro Papparo, Una traccia lasciata su un vetro rigato, 248-249 15 Georges Bataille, Il limite dell’utile, 92 -93 16 idem, 93

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freddo, una parte importante dell’eccedente – senza contropartita – all’innalzamento del livello di vita mondiale che, offrendo i movimenti dell’economia un’altra via d’uscita da quella bellica al sovrappiù dell’energia prodotta, l’umanità andrà pacificamente verso una soluzione generale dei suoi problemi”17. Questo spostamento evidenzia il bisogno di riconoscere all’uomo una finalità diversa da quella della produzione, una finalità che si configuri come il momento della perdita, che riconosca che “l’acquisizione ha come «fine» la parte di perdita che essa rende possibile”18. Una vera solidarietà, e non un aiuto periodico dei ricchi (paesi o soggetti) ai poveri – una “carità - caricatura della solidarietà”19 –, è pensabile solo a partire dal carattere comuniale dell’uomo, ovvero dal superamento dell’isolamento identitario e dell’egoismo che ne deriva, dal verificarsi dell’esperienza passionale attraverso cui “sentire” il proprio bisogno di completarsi con l’altro da sé. Altrimenti, “in mancanza di fini gloriosi (…), gli uomini non possono sentirsi solidali; fra di loro rimane solo la separante avidità dei beni”20. Solo l’uomo comuniale, espressione di un’antropologia non castrante e di un’economia generale, può, accogliendo in sé un comportamento glorioso di dépense, fondare una comunità non basata su calcoli di interesse individuali, e quindi porsi come culmine morale e fine ultimo del movimento di acquisizione. Una comunità che, certo, non esiste per un motivo, degli interessi o degli scopi precisi, ma il cui senso, la cui autorità, è data semplicemente dalla sua esistenza, così come “Il senso di una danza è dato nel fatto che a mia volta danzo”.

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G. Bataille, La parte maledetta, 179. Si veda l’interpretazione di Bataille del “dono” del piano Marshall, di cui parlo in questa tesi al paragrafo su Hegel e la scrittura sovrana. 18 Georges Bataille, Il limite dell’utile, 48 19 idem, 64 20 idem, 64

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2.2.3 : “LA STRUCTURE PSYCHOLOGIQUE DU FASCISME” Secondo G. Ferrari1, a persuadere Bataille a scrivere questo saggio2 sono state due urgenze cui la sua riflessione politica si scontrò: da un lato la volontà di comprendere le cause che consentono ai totalitarismi (o cesarismi) di imporsi con tanta virulenza3, dall’altro ovviare ai limiti dell’interpretazione marxista ufficiale che considerava il fenomeno fascista in chiave esclusivamente economica. La seconda urgenza è subito esposta in apertura del saggio, allorquando Bataille scrive che “Il marxismo, dopo avere affermato che in ultima istanza l’infrastruttura di una società determina o condiziona la sovrastruttura, non ha tentato nessuna delucidazione generale delle modalità proprie alla formazione della società religiosa e politica”4. In questa maniera il marxismo sottovaluta la portata che nel fascismo ricoprono gli elementi di natura religiosa e psicologica (per Bataille determinanti). Questi elementi religiosi e psicologici vengono messi in luce da Bataille attraverso il bipolarismo eterogeneo/omogeneo, che si sovrappone al bipolarismo alto/asso dei primi scritti, cosicché l’omogeneità coincide con “la società della misura, del calcolo, della razionalità borghese, [che] trova nel capitalismo la sua espressione più pura [e nella quale] l’uomo stesso diviene semplice funzione della tecnica”5. In detta società, aggiunge Bataille, “La misura comune, fondamento dell’omogeneità sociale e dell’attività che ne risulta, è il danaro, cioè un’equivalenza calcolabile dei diversi prodotti dell’attività collettiva. Il denaro serve a misurare ogni lavoro e fa dell’uomo una funzione di prodotti misurabili. Ogni uomo, secondo il giudizio della società omogenea, vale secondo ciò che produce” (176)6. L’eterogeneo è ovviamente l’inassimilabile; ma siccome un lavoratore può essere funzione dei propri prodotti solo in una società artigiana, mentre nelle società industriali ciò che produce è di proprietà del possessore dei mezzi di produzio1

G.Ferrari, Georges Bataille: il limite e l’impossibile. “La structure psychologique du fascisme”, pubblicato ne « La critique sociale » n°10, Novembre 1933, traduzione italiana “la struttura psicologica del fascismo”, in S. Finzi, Critica dell’occhio. 3 In quello stesso anno il fascismo prendeva il potere in Italia, e anche in Francia il suo ascendente era sempre più indiscutibile, fino a culminare nell’anno successivo nella marcia fascista a Parigi 4 G. Bataille, La struttura psicologica del fascismo, cit., 175 D’ora in poi di ogni citazione tratta da questo testo, segnalerò la pagina direttamente nel testo, in una parentesi successiva alla citazione stessa. 5 G. Ferrari, op. cit., 96 6 A questo scopo mi sembra importante riportare quanto rileva Francois Perroux (la parte maledetta e il silenzio, 57), ovvero che, in base alla massima dell’economista R.F. Harrold, cioè “Nothing for nothing”, le economie capitalistico-borghesi nascondono ipocritamente la loro vera identità con affermazioni di facciata. In realtà quel “Nothing for nothing” può senz’altro essere tradotto in “Pagate e vivrete”, e ciò chiarisce come “Le società [borghesi contemporanee] (…) amano sempre di meno dire apertamente «io uccido». [Ma] dal loro silenzio sorgono parole che esse non pronunciano: «IO FACCIO MORIRE, IO LASCIO MORIRE»”. Lo stesso Bataille (Il limite dell’utile, 93) conferma quanto detto scrivendo che “Il capitalismo (…) ha bisogno di lasciar morire gli uomini in modo discreto, rigoroso; non poteva fornire loro i prodotti disponibili senza rinunciare al proprio fine [il guadagno]”. Le società che si basano, cioè, sul principio dell’utilità non possono che condannare a morte (vigliaccamente) ogni soggetto improduttivo, al loro interno (gli strati sociali miserabili) come all’esterno (il terzo mondo), e questo è sempre più evidente oggi, quando un tribunale U.S.A. condanna una compagnia assicurativa per aver corrotto dei medici ospedalieri affinché “lasciassero morire” i pazienti anziani in condizioni critiche (cioè improduttivi), o nel momento in cui le popolazioni del terzo mondo si dilaniano a vicenda mentre il mondo “civilizzato” le osserva indifferente, ora che ciò che in esse era sfruttabile (diamanti, carbone e quant’altro) è stato usurpato. Per un approfondimento di questi temi AA.VV., Uomini in armi. 2

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ne, in essa sarà solo lui (il possessore) ad essere funzione di quei prodotti e paradigma dell’omogeneità:“Il proletariato operaio resta in gran parte irriducibile”(177). Eterogenea è quindi quella parte sociale maledetta, rimossa7, la cui dinamica va per Bataille tenuta in considerazione in relazione alle potenziali modifiche della configurazione sociale (in cui essa agisce come agente di disgregazione). In uno Stato che altro non è che un istituto di mantenimento dell’omogeneità – di riduzione delle divergenze – tramite pratiche che “A seconda che lo Stato sia democratico o dispotico, [si esplicano tramite] l’adattamento o l’autorità”(178), l’eterogeneo è la “differenza non spiegabile”(182)8. Tuttavia il potenziale di disgregazione di cui dispone non è mai sufficiente per mettere in pericolo un’omogeneità che può essere minacciata seriamente solo se “una parte apprezzabile della massa degli individui omogenei cessa di avere interesse alla conservazione della forma di omogeneità esistente (…) Questa frazione della società si associa allora spontaneamente alle forze eterogenee”(179). Il potenziale di disgregazione dell’eterogeneo è diminuito anche da un altro fattore: rimanendo estraneo al mondo della produzione e dell’attività esso è sacro9, e in quanto tale anch’esso si dirama (disperdendo così le sue energie in una ulteriore contrapposizione “fratricida”) in un dualismo alto/basso, puro/impuro. Così sia le istanze eterogenee alte (imperative) che basse (miserabili) sono a pari titolo estranee alla struttura omogenea per via del fatto che “l’eterogeneità del padrone non è meno altra rispetto a quella dello schiavo. Se la natura eterogenea dello schiavo si confonde con quella dell’immondizia (…) quella del padrone si forma in un atto di esclusione da ogni immondizia”(189). Ora, i leader fascisti “appartengono senza dubbio all’esistenza eterogenea [perché] di fronte ai politici democratici (…) Mussolini e Hitler appaiono (…) come qualcosa di completamente diverso”(185); più precisamente appartengono alla parte imperativa, che si pone al di sopra delle leggi e dei partiti (la volontà di dominare le masse, già di per sé, indica il sentimento di superiorità del dominatore). L’espressione politica dell’eterogeneo imperativo è quella di un’“identificazione morale col capo” di matrice militare e religiosa: come il capo dell’esercito la cui gloria “costituisce una specie di polo affettivo che si oppone alla natura ignobile dei soldati, (…)[che] appartengono di necessità alla parte infame della popolazione (…)[in quanto] non sono che elementi negati (…): nel tono di ogni comando (…) nella parata (…)”(195-197), allo stesso modo “i rapporti affettivi che associano (identificano) strettamente il leader al membro di partito (…) sono analoghi a quelli che uniscono il capo ai suoi soldati”(201), con la differenza 7

Per G. Ferrari (op. cit., 97) questa rimozione sociale è analoga formalmente alla censura subita dagli elementi dell’inconscio nella teoria psicoanalitica (la stessa annotazione la fa Bataille a pag. 181 de La struttura psicologica del fascismo), per quanto, secondo Papparo (Incanto e misura) l’inconscio batailleano sia, ed io ne convengo, più di derivazione filosofica che psicoanalitica. 8 Si veda, sulla differenza come scarto inassimilabile, M.Ciampa, “La gnosi paradossale di Bataille” 9 “il mondo eterogeneo è costituito, per una parte rilevante, dal mondo sacro (…) delle reazioni analoghe a quelle che provocano le cose sacre rivelano quelle delle cose eterogenee”(182-183), in quanto “la cosa eterogenea è supposta carica di una forza sconosciuta (che ricorda il mana polinesiano) e che un certo proibizionismo sociale di contatto (tabù) la separa dal mondo omogeneo”(183); e oltretutto il mondo eterogeneo rappresenta “l’insieme dei risultati della dépense improduttiva”(183). Per il sacro come “L’assolutamente eterogeneo rispetto al mondo profano” si veda Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Cremona, 1963

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che a questa dignità di tipo militare il politico imperativo unisce un prestigio di tipo religioso (che si manifesta attraverso i principi del sangue, cioè l’ereditarietà del potere che può essere legittimata solo da una trascendenza di tipo religioso): “mentre il potere militare dipende soprattutto dal valore personale”(199)10 quello di un capo di partito imperativo diviene “l’emanazione di un principio che (…) è (…) l’esistenza gloriosa di una patria portata al valore di una forza divina”(201). Così, identificandosi affettivamente al leader fascista, il popolo rinuncia alla soddisfazione dei suoi bisogni immediati in vista di un principio trascendente, il che ribadisce una volta di più che il principio dell’utile e l’analisi economica non sono sufficienti a dare spiegazioni relativamente all’agire degli uomini e delle masse.11 Il punto critico sta nel fatto che per Bataille l’unificazione, nella figura del capo, di istanze militari e religiose, determina quella superiorità del fascismo (e di ogni totalitarismo imperativo12) che permette ad esso di “dominare e perfino opprimere i propri simili. (…) [Come il] padre in rapporto ai suoi figli (…), il capo militare in rapporto all’esercito (…), il padrone in rapporto allo schiavo”(188). Tutto questo è ad esso permesso per via del “carattere separato proprio della supremazia divina”(192), che in tal modo manifesta “La tendenza fondamentale e il principio di ogni autorità: la riduzione all’unità personale, l’individualizzazione del potere”(193): se nella società borghese il principio è quello, omogeneizzante, della misura comune, e tra il proletariato operaio è la moltitudine, nella società fascista o autoritaria tout-court esso è quello della “riduzione all’unità sotto forma di essere umano”(193): il capo di partito. Tuttavia è sempre questo carattere dell’eterogeneo imperativo a fare di esso, come afferma G. Ferrari, “una forza impropriamente eterogenea in quanto facilmente rovesciabile nel suo opposto omogeneizzante”13. Infatti se il miserabile lo è perché oggetto di esclusione, quindi suo malgrado, il padrone esclude l’immondizia volontariamente, e così asservisce il suo movimento ad un progetto “sufficiente per trovare, su un certo piano, una connessione con la forma omogenea”(190) che consiste nell’escludere entrambe il miserabile14. E’ quindi per via di un’evoluzione implicita al movimento della società omogenea borghese che, nei momenti di crisi, essa si avvale del sostegno delle istanze imperative, suicidandosi in una tirannide15 al fine di preservarsi dal vero eterogeneo: quello 10

Pertinente in questo caso citare C. Lasch, La ribellione delle elite. Esso intende la meritocrazia una pratica utilizzata dai detentori del potere per arruolare i potenziali nemici più pericolosi, quelli che qui potremmo chiamare elementi eterogenei irriducibili, nei ranghi dell’omogeneità di elite: un modo per sventare ogni rivolta togliendo ai rivoltosi ogni potenziale arma. 11 L’uomo non vive di solo pane. Su questo tema Marina Galletti, introduzione a Contre-attaques. 12 Il termine “superiore” non esprime, logicamente, un sentimento partigiano di Bataille, quanto invece la necessità di esprimere il più chiaramente possibile i caratteri di un’azione che storicamente sono stati definiti tali (si veda lo stesso Bataille, La struttura psicologica del fascismo, 188: “È chiaro che l’uso delle parole superiore, nobile, elevato, non implica un acquiescenza. Questi qualificativi non possono designare qui che l’appartenenza a una categoria storicamente definita come superiore, nobile, ed elevata”). 13 G. Ferrari, op. cit., 98 14 M.C. Lala (Da «La structure psychologique du fascisme» ai fondamenti de «La souveraineté», 63-64) osserva che, essendo la rimozione sociale operata dalla parte omogenea simile a quella che la psicoanalisi descrive nel soggetto, allora la parte autoritaria, quella imperativa che si identifica col ruolo del padre, viene sublimata (e in questo modo riconnessa all’omogeneo, vero censore di quella omogeneità) mentre quella bassa (interdetta ed ignobile come l’attività sessuale) viene appunto rimossa proprio grazie ad essa. 15 Bruno Moroncini (Sovranità e democrazia, 50) si riferisce alla Repubblica in questi termini: “L’eccesso di libertà in nient’altro sembra convertirsi se non nell’eccesso della servitù, per l’individuo e per lo

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irriducibilmente inassimilabile proveniente dal basso. Infatti, essendo la società omogenea incapace “a trovare in sé stessa una ragione d’essere”(190) visto e considerato che “il dover essere puro, l’imperativo morale, esige l’essere per sé, cioè il modo specifico dell’esistenza eterogenea” (191)16, nel momento in cui viene minacciata da forze eterogenee ha solo due possibilità: lasciarsi travolgere oppure trovare una ragione per contrattaccare; ma tale ragione, potendo essere data solamente dall’esistenza per sé17, deve trovarla tramite il ricorso a quella parte eterogenea che condividendo con lei il principio di esclusione le è più prossima; “autonegandosi: essa si assorbe nell’eterogeneità”(192). Questo chiarisce come nessuna vera rivoluzione possa essere perpetrata dalla parte imperativa in quanto essa unifica le classi sociali annullando autoritariamente ogni differenza, e “l’esito di un movimento che esclude ogni sovvertimento (…) resta conforme alla direzione generale dell’omogeneità esistente, cioè, in pratica, agli interessi dell’insieme dei capitalisti”(205). Bataille dimostra in questo modo, contro la superficiale interpretazione marxista18, che “l’unità del fascismo si trova nella sua struttura psicologica e non nelle condizioni economiche che gli servono di base”(206), e ribadisce la necessità di “costituire una conoscenza della differenza non spiegabile”(182) al fine di prevedere le reazioni affettive che agitano la sovrastruttura, per disporne in vista dell’“emancipazione delle vite umane”(210) che può aver luogo solo a partire dal vero eterogeneo. Disporre di questa conoscenza dell’inconoscibile19 è l’unico modo che ha l’eterogeneo basso di giungere ad una ‘vittoria’ contro la parte omogenea, visto che in ogni momento “di effervescenza” “Una stessa società vede formarsi in concorrenza (…) due rivoluzioni ostili insieme l’una all’altra e all’ordine costituito”(209), ma “man mano che l’effervescenza aumenta, l’importanza degli elementi dissociati (borghesia e piccola borghesia) cresce in rapporto a quella degli elementi che non sono mai stati integrati (proletariato). Così mano a mano che le possibilità rivoluzionarie si affermano, spariscono le probabilità della rivoluzione operaia, le chances di una sovversione liberatrice della società”(209). Ma come istituire questa conoscenza dell’inconoscibile? Al momento Bataille si limita a riscontrare l’insufficienza della tesi marxista e la superiorità dell’istanza imperativa, chiudendo però l’articolo con un’affermazione rivelatrice di ciò che già allora presagiva: che non fosse più sufficiente parlare di queste cose ma si dovesse passare all’azione: “rimane possibile raffigurarsi, almeno come stato (…) [di conseguenza è] naturale che la tirannide non si stabilisca da altro regime fuorché dalla democrazia, dall’estrema libertà intendo una massima e feroce servitù”. Moroncini parla di questo movimento storico come di un suicidio auto-immunitario, definizione fornita da J. Derrida. 16 Nella società omogenea non si esiste“per sé” quanto per il prodotto del lavoro di cui si è funzione: lo scopo non è l’esistenza ma il valore d’uso che si assume e che viene infine deciso dalla misura comune del denaro. Per Bataille (Contre-attaques, 274) dà senso all’esistenza un“tragico dono della propria vita”. Si veda M.C. Lala, op.cit, 60-66 17 Un’esistenza sovrana che non deleghi l’autorità ad un meccanismo di dilazione nel tempo come quello produttivo ma che distrugga ogni autorità perché “la stessa esperienza è l’autorità (…) L’esperienza, la sua autorità, il suo metodo, non si distinguono dalla contestazione” (G. Bataille, L’esperienza interiore, 35 e 42). Essa “immediatamente (…) si produce come valore, che è o che non è e mai come valore in vista di un dover essere”(G. Bataille, La struttura psicologica del fascismo, cit., 191) 18 Bataille consacrerà buona parte del suo “La sovranità” alla critica a marxismo e comunismo. 19 Si tratta dell’eterologia, di quel “modo di conoscenza altro” che discuto nell’ultimo capitolo: una conoscenza senza oggetto (in cui soggetto e oggetto sono con-fusi).

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una rappresentazione ancora imprecisa, delle forze di attrazione differenti da quelle che sono già utilizzate, così diverse dal comunismo attuale o anche passato come il fascismo lo è dalle rivendicazioni dinastiche”(210). Questo articolo fu l’ultimo che Bataille scrisse per “La Critique sociale”. Di lì a poco il “Cercle Communiste Démocratique” si dissolse per via di contrasti interni fra i suoi componenti, tali che “se Souvarine era orientato verso la formazione di un partito, non lo erano Bataille ed altri che anzi sembravano ormai prepararsi alla lotta clandestina”20. Questa lotta clandestina, evoluzione di quella “rappresentazione ancora imprecisa” che ho citato in queste ultime righe e che segna il distacco da “La Critique sociale”, sarà a fondamento di “Contreattaques”.

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G. Ferrari, op. cit., 103

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2.3; “MASSES”, LA MINACCIA FASCISTA E “CONTRE–ATTAQUES” Se la collaborazione a “La Critique sociale” segnò per Bataille un momento di riflessione teorica, “Contre-attaques” fu invece un’azione militante. Nel breve arco di tempo intercorso dalla dissoluzione della prima alla fondazione della seconda, si situa la brevissima collaborazione (dall’ottobre 1933 fino al febbraio 1934) con “Masses”, della quale tratta Marina Galletti nel suo saggio “Masses: un collège mancato?”1. Questa rivista si dichiarava aperta a “marxisti e non marxisti”, “indipendente dalla politica revisionista del P.C.F. e della S.F.I.O”2, e si sforzava di rilanciare il dibattito teorico dell’ultrasinistra attraverso la diffusione del pensiero di Rosa Luxemburg.3 In questa collaborazione (come sottolinea la Galletti, tanto trascurata dalla critica batailleana quanto dalla rivista stessa), il nome di Bataille compare in un solo numero in qualità di relatore in un corso di sociologia che si sarebbe dovuto svolgere in una serie di conferenze distinte (altri relatori dovevano essere P. Kaan, A. Patri e M. Leiris), attorno alla questione di miti e riti dei movimenti politici moderni che, probabilmente, per via dei tumulti seguiti alla manifestazione fascista di Parigi del 6 febbraio 1934 e della successiva contromanifestazione (cui Bataille partecipò assieme a Leiris e R. Tual) del 12 febbraio, non ebbe mai luogo. I Titoli delle varie conferenze affrontate avrebbero dovuto essere, tuttavia, “Sovranità, nazione e patria”, “La religione e la famiglia”, “L’esercito”, il che legittima a supporre che in esse Bataille avrebbe dovuto esporre le stesse conclusioni cui era giunto negli articoli del periodo de “La Critique sociale” e che avrebbe approfondito nel periodo del “Collège de Sociologie”4. Ma non è questo il punto su cui insiste la Galletti: essa vuole infatti capire quale relazione debba avere intessuto questa breve esperienza con quella precedente e contemporanea de “La Critique sociale” e quelle successive e imminenti di “Contre-attaques” e del “Collège de Sociologie”. Come visto alcuni contrasti interni conducono alla dissoluzione del “Cercle communiste démocratique”. Tra essi il più evidente è quello che la Weil formalizzò in una lettera ai membri del Cercle stesso nella quale, parlando di Bataille, dice che “La rivoluzione è per lui il trionfo dell’irrazionale, per me, del razionale: per lui una catastrofe, per me, un’azione metodica”5. Ma questo modo batailleano di intendere la rivoluzione, se fu uno dei tanti motivi che condussero il cercle al dissolvimento, è altresì un motivo di affinità con le posizioni luxemburghiane sostenute da “Masses”. Come vedremo di seguito, la scelta di entrare a far parte di questo movimento non è rigorosa, e questo stesso stimolo affine (la valutazione della rivoluzione come di un movimento “senza testa”, irrazionale, dovuto ad un surplus di energia implicito nella massa, un sacrosanto bisogno di dépense), qualche mese dopo, durante la partecipazione alla manifestazione operaia del 12 febbraio, lo por-

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Marina Galletti, Masses: un collège mancato?, 67-95 Si legga rispettivamente: Parti Comuniste Français e Section Français de l’Internationale Ouvrière 3 M. Galletti, op. cit., 71-73. per il pensiero della Luxemburg, oltre alla nota a pag. 72 della stessa Galletti: Rosa Luxemburg e la spontaneità rivoluzionaria, Mursia, Milano, 1974 4 Per questo motivo la Galletti è propensa, giustamente, a considerare questa pur breve esperienza come un grande bacino di intuizioni, e un periodo nel quale fare chiarezza sul da farsi, per Bataille. 5 Simone Weil, citata in da G. Ferrari, op. cit., 108 2

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terà a considerare l’insufficienza anche di questa iniziativa e lo convincerà a passare oltre, dans la rue, in “Contre-attaques”. Questo periodo è quindi un momento di svolta: Bataille prende coscienza del fatto che si deve “intervenire in una maniera che può essere decisiva. [Che] (…) la situazione politica attuale esige l’urgenza”6. Rappresenta cioè il punto “in cui si attua il passaggio dal momento teorico della «Critique Sociale» alla strategia rivoluzionaria organizzata di «Contre-attaques»”7. “Masses” voleva rivalutare l’istinto rivoluzionario implicito nelle masse che si riuniscono spontaneamente: come vedremo Bataille, che li aveva già espressi al tempo de “La notion de dépense”, adopererà termini simili a questi nei suoi scritti successivi, quelli di “Contre-attaques”. “Contre-attaques” “Contre-attaques” vide la luce – nonostante il fatto che il suo manifesto propositivo apparve solo nell’ottobre successivo8 – nel luglio 1935 attorno a Bataille e Caillois9, per dissolversi, ancora una volta nei dissensi, nell’aprile dell’anno successivo. La sua azione si concretizzò per lo più in manifesti e dichiarazioni che trovarono nella partecipazione alle manifestazioni di strada l’espressione più netta di “un pensiero politico legato alla realtà storica e non a un’utopica fraseologia rivoluzionaria”10. È una politica “dans la rue”11 che Bataille avrebbe voluto realizzare, come la corrispondenza con Kaan chiarisce12, già almeno dal 12 febbraio 1934, in occasione dello sciopero generale successivo alla manifestazione fascista del 6 febbraio, data in cui gli scrisse: “Oggi bisogna scegliere. Sul carattere arcaico e insostenibile delle posizioni tradizionali non ho ombra di dubbio (…) Non ho dubbi circa il piano sul quale noi dovremmo porci: non potrebbe essere che quello del fascismo stesso, vale a dire il piano mitologico. Si tratta dunque di porre dei valori che partecipino di un nichilismo vivente, alla stregua degli imperativi fascisti. Questi valori non sono ancora stati posti ed è possibile porli, ma forse non è ancora possibile sapere come bisognerebbe farlo”13. Un testo del 1936, “Vers la rèvolution réelle”14, esplicita le strategie d’azione di un siffatto movimento attraverso il quesito, formalizzato in alcuni inviti (firmati da Bataille, Dautry e Kaan) divulgati in occasione di una delle prime riunioni di “Contre-attaques”: “Che fare? Davanti al fascismo, data l’insufficienza del comunismo”15. In “Verso la rivoluzione reale” Bataille approfondisce le analisi esposte in “La struttura psicologica del fascismo” sulle motivazioni che condannano il marxismo alla sterilità: la dipendenza di ogni modificazione della sovra6

G. Bataille, lettera a Roger Caillois. Citazione tratta da G. Ferrari, op. cit., 115 M. Galletti, op. cit., 70 8 G. Bataille, Unione di lotta degli intellettuali rivoluzionari, in S. Finzi, Critica dell’occhio. 9 Sui rapporti Fra Bataille e Roger Caillois si veda A. Laserra, Bataille e Caillois: osmosi e dissenso. 10 G. Ferrari, op. cit., 109 11 Le front populaire dans la rue è il titolo di un libello confluito nell’unico numero dei cahiers de Contre-attaques 12 in G. Bataille, Contre-attaques. 13 lettera a Pierre Kaan pubblicata in G.Bataille, Contre-attaque, 73 14 in S. Finzi, Critica dell’occhio, D’ora in poi le citazioni da questo testo saranno segnalate con il numero di pagina fra parentesi nel testo. 15 G. Bataille, Contre-attaques, 81 7

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struttura ad un mutamento delle condizioni economiche strutturali; la fissità dei teorici marxisti nell’attesa della realizzazione (ogni giorno più improbabile) della proletarizzazione dei paesi civilizzati; il fatto che essi continuino a valutare semplicisticamente le crisi democratiche alla stregua di quelle autocratiche e perciò destinate a risolversi, necessariamente, in una presa del potere da parte del proletariato (mentre per Bataille, sostiene G. Ferrari, “il discredito delle istituzioni democratiche borghesi causa sempre la ricomposizione di forze conservatrici, esercito, clero, classe capitalista”16). Per Bataille l’analisi economica non è sufficiente a spiegare le crisi dei governi democratici; il proletariato non è mai “numericamente sufficiente per rovesciare il regime costituito”(226), e il fatto che una società democratica in crisi veda formarsi al suo interno “ due correnti di opposizioni divergenti”, determina evidentemente la sua diversità rispetto ad una situazione autocratica in cui la “testa coronata riuni[sce]re contro di sé (…) l’insieme dell’opposizione”(229). Non esiste perciò nessuna sicurezza (semmai il contrario, come i fascismi e la pratica parlamentare – la sua prassi di eliminare l’oggetto della protesta sociale – confermano) che le crisi si risolvano in una presa di potere da parte del popolo. “E’ l’autorità che diviene intollerabile nel caso dell’autocrazia. Nella democrazia, è l’assenza di autorità”(229). “La crisi dei regimi di democrazia borghese non porta né a sommosse né a insurrezioni popolari (…), [ma all’instaurazione di] movimenti organici (…) ai quali i politici impotenti sono obbligati a cedere il posto”(234). Questi movimenti organici “costituiscono (…) l’insieme di forze che ricostituiscono la struttura dell’autorità in chiara ostilità alle democrazie parlamentari”17; nient’altro, come si vede, che istanze imperative che si sostituiscono a quella borghese grazie ad una loro omogeneità interna tendente all’omogeneizzazione forzata di ogni eterogeneità: nient’altro che il metodo di lotta fatto proprio dai fascismi. In questo stato di cose, la strategia che Bataille confessa a Kaan nella lettera del 1934 e fa propria, è quella di un contrattacco al fascismo che utilizzi le sue stesse armi, quelle mitologiche, per sconfiggerlo: “Noi dobbiamo smettere di credere che i mezzi ritrovati dai nostri avversari siano necessariamente dei cattivi mezzi. Dobbiamo, al contrario, a nostra volta servircene contro di loro (…) Dobbiamo sapere utilizzare per la liberazione degli sfruttati le armi che erano state forgiate per incatenarli di più”(234), “riunire gli sfruttati in quanto sfruttati che esigono e sanno pretendere l’esercizio del potere, in una parola che si comportano fin dall’inizio da padroni” (236)18. È evidente che a questo scopo ogni proclama non potrà essere dettato da un astratto orgoglio di classe né tendere al riconoscimento di diritti generali, ma dovrà essere “necessariamente legato ai bisogni immediati, in parte fortuiti e provvisori, ad aspirazioni che animano (…) una massa data, in un luogo e in un tempo dati.”(236). Questa particolarizzazione delle motivazioni di lotta, non segna una rinuncia all’internazionalismo, ma risponde al bisogno di privilegiare una situazione spazio-temporale limitata al fine di poterne avere ragione più a16

G. Ferrari, cit., 113 G. Ferrari, op. cit., 113 18 Sulla stessa falsariga l’affermazione di un volantino di poco precedente, “Appello all’azione” (anch’esso in S. Finzi, critica dell’occhio, 218) nel quale si legge “Noi affermiamo che non è per uno solo, ma per TUTTI che viene il tempo di agire da padroni” 17

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gilmente grazie alla lotta, nella speranza che si possa creare un effetto domino tale da spronare ogni popolazione alla lotta civile, fondando così “l’autorità rivoluzionaria che farà tremare i capitalisti nelle loro banche, che libererà gli sfruttati e sola potrà provocare il riavvicinamento appassionato delle folle popolari di tutti i paesi”(241). Ma in tal modo i “movimenti organici” delle masse lavoratrici sfruttate che si svilupperanno, non poggiando su valutazioni economiche e quindi non rappresentando una “classe” – ma esprimendo dei bisogni urgenti e largamente “sentiti” dai singoli soggetti per via di una violenta crisi delle istituzioni democratiche borghesi, perciò affettivi, passionali (instabili), e validi unicamente in un periodo limitato e preciso di tempo – dovranno obbligatoriamente, pena il dissolvimento, giungere velocemente e direttamente allo scontro violento e al potere: si tratta di azioni fulminee, altrimenti i bisogni urgenti per combattere i quali si erano istituite potrebbero essere risolti con stratagemmi operati dal sistema parlamentare. Per via di questo loro carattere violento e fulmineo, certo, “È (…) possibile che dei movimenti organici abbiano conseguenze disastrose (…) [ma queste] conseguenze disastrose (…) non devono fare dimenticare peraltro che questi movimenti hanno regolarmente portato al potere i loro protagonisti”(236). Ma a questo punto una domanda è d’obbligo: “Come sapere in anticipo se questa massa presa in una evoluzione che rischia di alterarne in qualche misura la composizione sociale non si troverà a essere in capo a un certo tempo animata da aspirazioni nazionalistiche o da tendenze ostili alle libertà operaie? Come sapere se un movimento che si presenta al principio antifascista non si evolverà, più o meno rapidamente, verso il fascismo?” (237)19. Questa domanda ricalca un dubbio che nel 1934 Bataille s’era posto in un frammento che sarebbe dovuto confluire nel suo libro – mai completato – “Le fascisme en France”. In esso si chiedeva se “L’esito delle lacerazioni provocate dal capitalismo e dalla lotta di classe, l’esito del movimento operaio, non sarà forse, semplicemente, questa società fascista – radicalmente irrazionale, religiosa – in cui l’uomo vive solo per il Duce, e pensa solo attraverso il Duce?”20. La risposta tuttavia, su come sia possibile essere certi che questo slittamento non possa avvenire, non viene fornita immediatamente. Al suo posto Bataille fa una dichiarazione di principio – “Non abbiamo niente in comune con la demenza infantile del nazionalismo tedesco, niente in comune con la demenza senile del nazionalismo francese”21 – e un elenco delle azioni e dei principi che dovrebbero alimentare un fronte popolare di lotta antifascista. Ma questo serve a tranquillizzare dalle accuse oramai mosse? “Noi lottiamo (…) – dice – per liberare gli uomini da due sistemi di forze cieche: il primo che li obbliga ad uccidersi l’un l’altro opponendosi nazione contro nazione; il secondo che li obbliga a lavorare per una minoranza inumana di grandi produttori essendo questi diventati impotenti e ciechi”(237). Risulta dunque fondamentale, per evitare di scivolare in un (o essere confusi col) fascismo, il tema bellico, da usare a fondamento del proprio movimento; ri19

In questo paragrafo Bataille sembra ribattere all’accusa di sur-fascismo che gli era stata mossa da parte dei surrealisti dopo la sua uscita dal gruppo di André Breton. 20 Nota reperita in Marina Galletti, Riparazione a Bataille, 27 21 G. Bataille Lavoratori, siete traditi!, in S. Finzi, critica dell’occhio, 223

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mane solo questa possibilità: contro ogni guerra, la rivoluzione! Infatti “Al nazionalismo aggressivo dei paesi poveri, risponde, nei paesi ricchi, il nazionalismo della paura”22, e a questo rischio di guerra totale non si può che rispondere con “Una (…) composizione di forze [che] deve riunire coloro (…) che non accettano la corsa all’abisso – alla rovina e alla guerra – di una società capitalista senza cervello e senza occhi”23. Così per Bataille la lotta antifascista, lungi dall’affievolire l’offensiva rivoluzionaria e l’antiparlamentarismo, deve anzi aumentarne l’efficacia, essendo il complesso di questi movimenti il discrimine con i movimenti organici fascisti: abbassare la guardia dell’antiparlamentarismo (quindi dimenticarsi l’urgenza della lotta rivoluzionaria in un periodo di crisi) avrebbe infatti giustificato le scelte dell’odiato partito comunista francese che “sotto il pretesto del mantenimento della pace, [pur trattandosi di] coloro che si erano sempre levati contro la guerra [ora] sono apertamente entrati in uno dei campi”24, divenendo così nient’altro che dei “cani da guardia” del capitalismo25. I nazionalismi conducono le loro nazioni a guerre contro altre nazioni, le democrazie affermano a piena voce il loro diritto di difendersi (ma sempre di guerra si parla); per “Contre-attaques” “La difensiva che vi si suggerisce (…) significherebbe soltanto il mantenimento dello sfruttamento capitalista (…). Non è più tempo delle ritirate e dei compromessi. Per l’azione. ORGANIZZATEVI! (...) voi risponderete ai latrati da cani da guardia del capitalismo con la parola d’ordine cruciale di CONTRATTACCO”26; ed è ancora contro la posizione inaccettabile, da “cani da guardia”, assunta dal P.C.F., che si scaglia affermando che “La guerra fra i cani imperialisti solleva il disgusto, i comunisti si adoperano oggi a camuffarla in crociata. Brandiscono su un mondo accasciato la bandiera di una crociata antifascista”27. Bataille infatti sa28 che il dichiarato diritto di difendersi dalla minaccia fascista non è altro che un pretesto dei capitalisti per difendere i loro interessi, perciò accettare la legittimità dell’autodifesa diviene un tradimento dei principi rivoluzionari e una squalifica di principio. A tal scopo parla di “crociata antifascista” tesa a preparare la ripetizione della guerra del 191429. L’antifascismo è, per chi lo utilizza come pretesto per una guerra difensiva, un diversivo, come afferma Bernier, per preparare una nuova crociata delle democrazie che, dopo la guerra del ’14, avevano messo “a nudo il declino del capitalismo primitivo, liberale e pacifista, scalzato dal proliferare – nei regimi democratici, fascisti e socialisti – di un nuo-

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idem, 222 nota di Bataille reperita in G. Ferrari, op cit., 115 24 Lavoratori, siete traditi!, cit., 222 25 L’affievolimento dell’antiparlamentarismo, per G. Ferrari (op. cit., 111), “avrebbe significato semplicemente la difesa dello status quo borghese. Soltanto la lotta congiunta contro il fascismo e contro il capitalismo poteva salvare le masse dall’incubo della guerra”. 26 G. Bataille, Appello all’azione, in S. Finzi, Critica dell’occhio, 218-219 27 G. Bataille, Lavoratori, siete traditi!, cit., 222 28 fino a dichiarare che “preferiamo loro, in ogni stato di causa, la brutalità antidiplomatica di Hitler, più pacifica infatti, dell’eccitazione bavosa dei diplomatici e dei politici” (G. Bataille, Sotto il fuoco dei cannoni francesi, in S. Finzi, op.cit., 221); dichiarazione che gli costerà le già citate accuse di sur-fascismo. 29 La propaganda ufficiale aveva presentato la guerra del 1914 come quella “del diritto e della libertà” (non si può che rimanere stupefatti ed affascinati dalla regolarità quasi matematica con la quale, a distanza di anni, è storia dei nostri giorni, ogni nuova iniziativa imperialista o neo-imperialista venga legittimata propagandisticamente allo stesso modo). 23

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vo capitalismo monopolista, autoritario, imperialista”30denunciando il ritorno alla politica delle alleanze “che porta diritto alla guerra”31. Ma a cosa porterebbe una lotta rivoluzionaria che non possa più, una volta abbattuto il potere, istituire un nuovo potere nazionalista o capitalista? Se la popolazione di un paese democratico non si oppone al parlamentarismo essa viene trascinata dal parlamento in una crociata imperialista. Per evitarlo, la popolazione lo combatte attraverso un “movimento organico” facente leva sul sentimento (sacro) di nazione, che ne attira sulla figura del capo l’identificazione morale, ma in questo modo si avrà comunque una guerra: quella dei nazionalismi contrapposti. Partendo da queste premesse Bataille conclude che l’unica eventualità di pace è quella di creare un “movimento organico” che, al pari di quello fascista, abbia la forza per attirare a sé (creare un’identificazione emotiva ai principi del movimento) la popolazione, ma tale da esprimersi sul campo in contrapposizione sia all’imperialismo che al nazionalismo. È a questo punto che nascono le contraddizioni che porteranno “Contre-attaques” al dissolvimento e Bataille, per via del tentativo di rispondere ai quesiti che esse imponevano, alle esperienze comunitarie degli anni successivi. Questi quesiti sono: a) come fare in modo che la popolazione possa identificarsi emotivamente coi princìpi del movimento in questione? b) Come evitare, una volta ottenuto il potere, di ricadere in imperialismi o nazionalismi (cioè come arrivare al comunismo senza passare per il socialismo)? Come visto l’unico mezzo per preservare la pace è la rivolta sociale, ma perché essa si sviluppi non è sufficiente divulgare dei volantini quanto invece fare in modo che ognuno senta come propria la battaglia che si dovrà combattere, e a questo fine è indispensabile perseguire “gli interessi vitali degli abitanti [francesi]”, che secondo Bataille sono riassumibili in un unico desiderio: la pace! Essa è infatti “indispensabile per preservare la loro [dei francesi] esistenza fisica da una morte ignobile e inutile, [e] in nessun caso la guerra può apportar loro il minimo vantaggio materiale (…). È possibile e necessario in Francia fare della lotta contro la guerra la base dell’agitazione rivoluzionaria”(238). Bataille ha quindi rinvenuto il principio condiviso dalla popolazione (proletaria) francese – il che è sufficiente dovendosi, come visto, i movimenti organici svilupparsi nei confini nazionali – ma nonostante ciò rimane ancora da comprendere il modo con cui infonderne una consapevolezza emotiva alla popolazione, che la convinca a sentirsi disposta a combattere o addirittura sacrificare la vita per questo principio condiviso. Per capire come, per Bataille, sia possibile farlo, è il caso di tornare alla manifestazione del 12 febbraio ‘34. Allora fu lo choc emotivo, l’angoscia provocata nella popolazione dalla manifestazione fascista del 6 febbraio culminata nel sangue, a decidere le masse lavoratrici a scendere in piazza per protestare e far sentire il peso della loro presenza, e può quindi essere in quell’occasione che si sviluppa in Bataille l’intuizione che sia necessario uno choc emotivo altrettanto grande per cementare un’unione, per dare un senso di appartenenza ad un movimento, ad una comunità: “A portare la folla nella strada è l’emozione suscitata direttamente da eventi sconvolgenti, in un’atmosfera di tempesta, è l’emozione 30

J. Bernier, Actualité de l’Anarchisme, in “Crapouillot”, gennaio 1938. Traggo queste indicazioni su Contre-attaques, 190-192 31 idem, 192

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contagiosa che di casa in casa, di quartiere in quartiere, fa di un uomo titubante, di colpo, un uomo fuori di sé”32. Per Bataille si può riunire una folla, farne comunità, solo attraverso la condivisione di uno choc emotivo, ed è per questo che organizza per il 21 gennaio 1936, in Place de la concorde, l’anniversario commemorativo della decapitazione di re Luigi XVI, nel corso del quale lui stesso, Breton e Heine presero la parola. Commemorare un atto eroico tramite il quale la popolazione rivoluzionaria si liberò dei freni del potere, riattualizzare, come in una cerimonia sacrificale, le emozioni provate dalla folla inferocita di allora tramite la finzione rappresentativa di un nuovo sacrificio, avrebbe dovuto comportare nella folla quell’“emozione suscitata direttamente da eventi sconvolgenti”: un’identificazione emotiva con gli eroici furori di allora e un senso di comunità con gli altri partecipanti che, sarebbe dovuta servire da base per la solidità del movimento. Sappiamo che la celebrazione ebbe luogo ma l’afflusso di pubblico fu scarso, e tutto si risolse in un sonoro fallimento. E’ però un particolare rivelatore, in quell’occasione, per i futuri impegni di Bataille, la presenza intima del clima della rivoluzione francese nei motti del gruppo. Come il nome delle due sezioni di “Contre-attaques” (di rive gauche e rive droite) attestano, non è dalla parte di Robespierre (fondatore del potere post-rivoluzionario) ma da quella di Marat e di Sade che il gruppo si schiera33: il rivoluzionario più spietato e il precursore della rivoluzione morale. Questo riconoscersi affini con quanto di più inassimilabile alla forma statale compiuta (omogenea e omogeneizzante, con Robespierre), è sintomatico di una concezione della rivoluzione esprimibile nei termini della Weil prima citati: passionale e catastrofica, finalizzata alla distruzione di un potere esistente e non all’istituzione di uno nuovo34: è, contro ogni omogeneizzazione, la profonda fiducia nel libero svolgersi della violenza incontrollata delle masse esasperate che “perdono la testa”, si scatenano, esprimono un eccesso di violenza finalizzata a niente (rien) in nome di un implicito bisogno di dépense che le volge verso “l’impossibile”. Una nota cancellata in una lettera di Kaan a Bataille del febbraio ’36 è emblematica per mettere in luce il tipo di divergenze ideologiche e pragmatiche che si erano sviluppate in seno al gruppo. In essa Kaan, in seguito al dissenso manifestato per il volantino “Lavoratori, siete traditi”35, mette al corrente Bataille che “la tua lettera, lo confesso, mi fa temere delle difficoltà quando vorremo trovare un’espressione comune; per te, e questo fa sì che accetti di riferirti ai nazisti, legame affettivo implica legame sociale. Per me, vi è opposizione. La società è negazione dell’affettività nella misura in cui l’una è costrizione, ordine o disordine subìto ma sistematico, e l’altro è spontaneità, libertà, natura”36. Kaan mette quindi al corrente Bataille che ciò che sta cercando è impossibile, è l’impossibile. Delle critiche dello stesso tenore Kaan le rivolge anche a I. Kelemen, dicendogli che una rivoluzione che non si indirizzi alla costituzione di un ordine ben preciso 32

“Front populaire dans la rue”, citazione tratta da M. Galletti, op.cit., 28 Marat e Sade erano rispettivamente i nomi in codice della sede di rive gauche e rive droite. Per le annotazioni successive: G. Bataille, Contre-attacques, 124-126 34 Bataille è consapevole, come afferma Merlau–Ponty, che ogni rivoluzione è un aborto rispetto al proprio ideale. 35 Questo volantino e questi dissensi porteranno di lì ad un mese alla dissoluzione del gruppo 36 Parte cancellata dalla lettera di Kaan a Bataille del Febbraio 1936, in G. Bataille, Contre-attaques, 173 33

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“cessa di dipendere da un fine, diventa, essa stessa, fine, giustificazione dell’attività”37. Tralasciando il fatto che una definizione di questo tipo, pressoché identica a quella che Bataille stesso fornisce dell’esperienza, sarebbe stata da lui accettata di buon grado, penso sia importante sottolineare la risposta di Kelemen a Kaan, per far luce sul senso che potrà assumere quel niente (rien), quell’impossibile verso cui una rivoluzione senza scopi quale questa tende: “Noi sappiamo, – egli scrive – che senza alcun ordine oggettivo nessuna vita umana (sociale) è possibile. Ma sappiamo pure che ogni ordine oggettivo, ontologico, riposa su ciò che Marx chiama «entfremdung»: alienazione. Così la rivoluzione, rivolta interamente contro ogni ordine oggettivo, risponde ad un’aspirazione umana assai profonda, potrei dire: assoluta. [la sua dépense]. E’ vero che tale aspirazione è assurda, mira all’impossibile, perché la sua realizzazione renderebbe impossibile ogni vita umana – ma non che essa non sia la fonte di ogni tendenza sovversiva dell’uomo”38. Siamo nel pieno del disaccordo nel gruppo; non sembrano esserci più margini per ricomporre divergenze di vedute radicali fra chi come Kelemen e Bataille riscontra nel bisogno di dépense un fattore ontologico ineliminabile e chi, invece, come Kaan e la stessa Weil, considera la rivoluzione solo un mezzo per un fine al di là di essa. Rimane comunque emblematico il volantino che pubblicizzava la celebrazione della decapitazione di Luigi XVI: in esso appare una testa di toro su un vassoio. Viene spontaneo domandarsi come mai proprio la testa di un toro e non, ad esempio, una caricatura del re. Forse non c’è un motivo preciso, o forse, invece, quel motivo è da far risalire alla similitudine di questa testa di toro stilizzata con i Minotauri del pittore André Masson, col quale di lì a qualche mese Bataille (dopo lo scioglimento di “Contre-attaques”) si sarebbe ritirato in un piccolo paesino spagnolo, Tossa de mar, per porre le basi di una nuova strategia comunitaria: “Acéphale”. In questo caso la testa decapitata del toro raffigurerebbe quella rivoluzione senza testa che Marat e Sade, e non Robespierre, rappresentano, l’unica forma di rivoluzione in grado di non ricadere nella disfatta della creazione di un nuovo potere perché avente in sé stessa l’autorità: cioè la rivolta39. Ma, al di là delle difficoltà incontrate sul cammino da “Contre-attaques”, delle divergenze e dei risultati (pressoché nulli) ottenuti, il senso di questa esperienza potrebbe essere riassunta in una breve frase scritta da Bataille a Kaan nel gennaio 193640; una frase che senza dubbio esprime da sola lo spirito, i principi e gli obiettivi (al di là della rivoluzione) che in un anno di vita speso per essi, Bataille si proponeva di realizzare. “Due compiti si impongono a noi nel modo più pesante: ridare un senso concreto, un senso affettivo concreto, ai valori universali; fare una critica positiva dell’unitarismo, in particolare dell’unitarismo russo e tentare una soluzione che non sia puramente e semplicemente la democrazia, che sembra essere una forma superata, ma una soluzione che vada oltre l’unitarismo. Aggiungo tristemente, 37

lettera di Kaan a Kelemen dell’ottobre-novembre 1935, in G. Bataille, Contre-attaques, 102 Lettera di Kelemen a Kaan, 19 dicembre 1935, op. cit., 112-113. Kelemen non lo conferma, ma in questa lettera scrive che la moglie chiama una rivoluzione di questo tipo:“permanente”. 39 Come riscontra M. Galletti (Rivolta e sovranità, 53), la linea di demarcazione tra la rivoluzione e la rivolta e che la prima manifesta l’“aspirazione a «leggi legittime»”, mentre la seconda è “intesa come contestazione della «legittimità di ogni legge»”. 40 Lettera di Bataille a Kaan del gennaio 1936, in G. Bataille, Contre-attaques, 159 38

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oggi, debbo dirlo, piĂš tristemente che mai: chi può farsi carico di questi compiti se non siamo noi a farlo?â€?.

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2.4: “ACÉPHALE”E IL “COLLÈGE DE SOCIOLOGIE” Nell’arco degli anni trenta è sostanzialmente un unico nemico a stimolare Bataille all’azione: il capitalismo e, alla sua base, l’economia ristretta dell’accumulazione, il cui carattere distintivo è l’individualismo, la responsabilità privata, che porta i soggetti, all’interno di una società, a considerarsi distinti (isolati) e in competizione gli uni con gli altri. Così l’esito naturale della società borghese, implicito nei valori costituenti la stessa pratica democratica, è quello di una disgregazione del legame sociale fra i suoi cittadini individualizzati tesi alla ricerca (e alla pretesa) di una sempre più estesa libertà1. “Quando la passione comune non è più abbastanza grande per comporre le forze umane, diventa necessario servirsi della costrizione e sviluppare le combinazioni, i mercanteggiamenti e le falsificazioni che hanno ricevuto il nome di politica. Gli esseri umani, nello stesso tempo in cui diventano autonomi, scoprono intorno a sé un mondo falso e vuoto. Al sentimento forte e doloroso dell’unità comuniale succede la coscienza di essere ingannati dall’impudenza amministrativa, dagli agenti di polizia e dai soldati”2. È però chiaro che se si sviluppasse incontrollata, questa pretesa di libertà, di autonomia dell’individuo isolato, non potrebbe portare ad altro che ad un’anarchia distruttiva, ad un’hobbesiano uno-contro-tutti, annientando la condizione di qualsiasi convivenza. Per arginare la pericolosità di una tale disgregazione la storia politica ha sperimentato due sistemi di ricomposizione del legame sociale: comunismo e fascismo. “Le destre fondan(d)o la loro azione [di ricomposizione] sull’attaccamento affettivo al passato. Le sinistre su principi razionali”3. Tuttavia in essi Bataille ravvede due forme di Cesarismo inaccettabile, perché tendenti a ricomporre la coesione sociale a discapito e contrariamente alla richiesta, emotivamente violenta, di un accesso all’intima dimensione soggettiva (sovrana) da parte della popolazione: in pratica se la popolazione si vuole scatenare, essi la re-incatenano. “Coloro che si sono liberati dal passato restano incatenati alla ragione; coloro che la ragione non incatena sono schiavi del passato. (…) Trasgredire con la vita alle leggi della ragione, rispondere alle esigenze della vita anche contro la ragione, in politica praticamente equivale a consegnarsi al passato (…) E tuttavia la vita esige di essere liberata dal passato tanto quanto da un sistema di misure razionali, amministrative”4. L’impresa di Bataille nel corso degli anni trenta è il tentativo di trovare una via d’uscita dall’impasse democratica evitando di ricadere in una di queste due forme; un tentativo di combattere ogni idealismo e ogni fuga “icariana” per tornare alla bassa materia5. Con l’esperienza di “Contre-attaques”, Bataille si pone sullo stesso piano del fascismo, rilevando già nei tempi della “Critique sociale” come esso giunga più facilmente ad imporre i suoi imperativi6; agisce cioè una lotta strettamente politi1

Si veda a tal proposito l’eccellente lavoro di Moroncini: Sovranità e democrazia. G.Bataille, La congiura sacra, 79 3 idem, 16 4 idem, 28 5 Per Ciampa, questo ritorno alla materia bassa, infima, deve essere ricollegato all’influenza del pensiero gnostico su Bataille. Si veda M. Ciampa, La gnosi paradossale di Bataille. 6 Sono i motivi elencati ne “La struttura psicologica del fascismo”. Più si protrae il periodo di crisi più si sbilancia verso forme imperative per via: a) degli arruolamenti di elementi omogenei dissidenti al suo in2

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ca, usando le stesse armi dell’avversario numero uno. Il fallimento di quell’esperienza induce Bataille ad una riflessione: “Personalmente penso di sviluppare il punto di vista secondo cui la politica che assorbe attualmente l’interesse affettivo debba in definitiva essere denunciata come una peste, che questa specie di legittimità che noi le abbiamo prestata finora non faceva che testimoniare della debolezza che ancora avevamo”7. Dunque “Contre-attaques” mirava alla rivoluzione, era “Il movimento appassionato e tumultuoso” sostenuto dall’azione politica, che però si scontra con “i riaggiustamenti voluti da masse coscienti e realizzati sul piano politico da specialisti più o meno parlamentari”8: esso fallisce per le divisioni interne e, contemporaneamente, per la tensione rivoluzionaria. “Acéphale” è un altro tentativo di porre rimedio a questo problema di fondo.9 La necessità è ancora quella di trovare una formula attraverso la quale istituire un legame sociale rinnovato – una comunicazione – che sopprima le debolezze disgreganti endogene alla democrazia, e che lo faccia senza ricadere in un nuovo cesarismo, cioè senza più istituire nuovi legami dall’alto, nuove società del padre, come invece rischia di fare la rivoluzione che, sconfitto il vecchio potere, non può che istituirne un altro. L’ipotetica comunità senza padre che Bataille ipotizza è simile ad un organismo senza capo: acefalo, per l’appunto. L’unico modo per istituirla (liberarla) è quello di sopprimere proprio l’individualismo – l’ideologia borghese – e in definitiva ogni considerazione di sé come di un essere separato ed autonomo: sopprimere ogni io per perdersi in un infinito noi: “Rovinando in me stesso, negli altri, l’integrità dell’essere, mi apro alla comunione, posso giungere al culmine morale”10. Il legame di una società è dato dalla comunicazione degli esseri che le appartengono, ma la comunicazione come visto è accessibile solo in un mondo immanente, perciò affinché gli appartenenti ad una stessa società possano ricostituire un legame sociale che li vincoli senza nessuna costrizione (nessun esercito o legge, nessuna testa), è necessario limitare la trascendenza dell’“io-personalepuro”. Si deve fare in modo che quel legame sociale sia voluto, non subìto, e ciò è possibile solo se questa comunità non unisce individui isolati in concorrenza fra loro, ma con-fonde esseri uniti da una comune passione: un vincolo sacro, una stessa “spiegazione” sensibile del mondo. Questa comunità potrebbe essere descritta come un’anarchia nella quale non siano degli individui separati, ma degli esseri fusi tra loro attraverso il vincolo sacro che li accomuna e tra loro comunicanti.

terno, b) del fatto di ricostituire una parvenza di sacralità attraverso dei miti (la patria, il capo). Si veda il paragrafo 2.2.3 di questa tesi 7 G. Bataille, lettera a Kaan datata 4 novembre 1936, in G. Bataille, Contre-attaques, 224 8 G. Bataille, La congiura sacra, 28. E’ in questo senso che Merlau-Ponty afferma che il rivoluzionario “credeva di trasformare il mondo secondo il suo sogno; in verità non ha fatto altro che trasformare il suo sogno adattandolo alla più misera realtà” (citato in F. Ferrari, La comunità errante, 91). Non si deve più, quindi, perseguire un sogno (un progetto), bensì agire uno scatenamento insensato, legittimato solo dalla propria violenza eccedente. 9 E in quanto tale rimane sostanzialmente un rimedio politico. 10 G. Bataille, Su Nietszche, 55

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Ho mostrato come gli esseri si possano fondere, giungere ad una comunicazione, solo attraverso una reciproca lacerazione11, e come questa lacerazione possa significare solamente la coscienza della propria finitezza: “Gli esseri, gli uomini, possono comunicare – vivere – soltanto al di fuori di sé stessi. E siccome devono «comunicare», devono volere questo male, la sozzura, che mettendo in loro stessi in gioco l’essere, li rende reciprocamente compenetrabili”12. Si tratta dunque di volere una comunità “all’altezza della morte”, capace di assumere la propria tragicità come vincolo della propria esistenza e sussistenza: la società segreta di “Acéphale” rispecchia il tentativo di mettere in atto le tesi sviluppate nell’omonima rivista. Allo stesso tempo è indispensabile capire quale sia il fondamento delle società, ma per comprenderlo è necessario risalire alle sua origini; gli uomini si differenziano, come visto, dagli animali attraverso la coscienza della loro mortalità; è allora probabile che il loro modo di porsi nei confronti di quella stessa morte (gli usi, i tabù condivisi, le “spiegazioni” mitiche) abbia determinato il senso di appartenenza ad una comunità, nel qual caso alla base delle società vige un vincolo sacro, e questo è il tema che svilupperà la sociologia sacra del “Collège”. In questo contesto la rivista “Acéphale” è incentrata sulla figura di Nietszche: perché? Probabilmente le ragioni sono più d’una: innanzitutto per fare giustizia al suo pensiero strappandolo dalle grinfie del fascismo che se ne era illegittimamente impossessato; in secondo luogo per un’innegabile affinità (un “incorporamento”13) di Bataille col pensiero del filosofo tedesco14 (e quindi la volontà di non sentirsi irrimediabilmente destinato al fascismo); in ultimo, e soprattutto, perché il pensiero di Nietszche è la risposta ad ogni servilismo, in quanto esso è il filosofo che reclama la sua indipendenza da ogni parte politica, che rinuncia ad ogni “testa” (uccide Dio) e pretende per sé la tragicità dell’esistenza senza ricadere nell’individualismo ma cercando disperatamente un “amico”. E soprattutto perché esso non avendo ceduto alle lusinghe di nessuna facilitazione, né di destra né di sinistra, “si è precipitato in una solitudine umiliante”15, rappresentando così perfettamente, oltre il compimento del sapere hegeliano, la figura dell’acefalo e della “negatività senza impiego”. Insomma “Fascismo e nietszcheanesimo si escludono, anzi, si escludono violentemente, se considerati nella loro totalità: da un lato la vita s’incatena e si stabilizza una schiavitù senza fine, dall’altro soffia non solo l’aria libera ma un vento di burrasca”16.

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“La «comunicazione» non può avvenire da un essere pieno e intatto a un altro: essa vuole esseri in cui si trovi posto in gioco l’essere – in loro stessi – al limite della morte, del nulla” idem, 50. Citazione già utilizzata nel paragrafo 1.3.2 su Hegel e la scrittura sovrana. 12 idem, 54 13 In questi termini Roberto Esposito (Il comunismo e la morte, 20) esprime la modalità della ricezione della filosofia Nietszcheana da parte di Bataille 14 “Quando nel 1922 lessi Al di là del bene e del male (…) ho creduto di leggere ciò che io stesso avrei potuto dire (…) Non avevo altra aspirazione: pensai semplicemente di non aver più ragione per scrivere”, frase già citata in prefazione. 15 G. Bataille, La congiura sacra, 80 16 citazione reperita in G. Ferrari, op. cit., 132

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2.4.2 L’«AMICIZIA» CON NIETSZCHE “Nietszche sta ad Hegel come l’uccello che rompe il suo guscio sta a colui che ne assorbiva felicemente la sostanza interiore”1. Se Hegel è il “saggio” che compie il sapere, e in tal modo rende accessibile l’emergere del non-sapere, Nietszche è colui che prepara il terreno per l’avvento dell’uomo che il non-sapere lo accoglierà in sé (il superuomo). Questa preparazione del terreno, ciò che Bataille recepisce e stima nel filosofo tedesco, è la “trasvalutazione” di ogni valore: i valori fin’allora assunti come tali dall’uomo erano servili, ognuno di essi non serviva ad altro che ad asservire l’uomo stesso. Nietszche è colui che condanna tutto quanto svilisca, in nome di una vile sicurezza, la libera espressione della violenza intima all’essere umano che si sviluppa nella direzione di una svalutazione di ogni valore, di ogni morale e quindi di ogni idea: “Nietszche si accorse della falsità dei profeti che dicono: «fate questo o quello»; che indicano il male e che esortano alla lotta. «La mia esperienza» egli afferma in Ecce homo «ignora ciò che significa ‘volere’ qualcosa, ‘lavorarvi ambiziosamente’, mirare ad uno ‘scopo’ o alla realizzazione di un desiderio»”2. Secondo Esposito3, Nietszche contempla un’antropologia ultra-hobbesiana: condivide infatti con Hobbes l’“innatità” della violenza umana, ma, a differenza del filosofo inglese, rigetta l’ipotesi pacificatoria contrattualista, accettando l’ineliminabilità dell’istanza violenta dall’orizzonte umano, e valutando perciò ogni forma di governo possibile non tanto come un mezzo teso alla rimozione o sublimazione, attraverso il contratto, dell’originaria violenza dell’uno contro tutti, quanto come un organismo che attira su di sé, istituzionalizzandola in un sistema di potere coercitivo, quella stessa violenza. Se, insomma, per Hobbes l’uomo aveva il potere di scegliere tra una violenza generalizzata – e la paura di morirne – o la cessione di ogni diritto al sovrano in cambio della sicurezza, per Nietszche può solo subire una violenza anarchica oppure gerarchica: non ci sono vie di mezzo, nessuna democrazia possibile; ogni istituzione è una violenta anarchia ordinata a Stato. L’uomo è così destinato a subire le conseguenza della stessa violenza che lo ordina, in quanto tale l’uomo stesso è espressione del male4. Se unica alternativa resa possibile dalla ragione, nella sua ricerca di vie d’uscita da questa violenza, non è altro che quella di scegliere fra una o l’altra violenza, allora è la razionalità stessa a dover essere messa in questione; infatti una razionalità che, pur essendo storicamente volta in una direzione (il bene comune), si dimostra ugualmente incapace di risolvere il problema che si pone, palesa alla fine solamente la sua sterilità: “il supremo abuso che l’uomo fa tardivamente della propria ragione richiede un ultimo sacrificio: la ragione, l’intelligibilità, il

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G. Bataille, La Souveraineté, 404. Citato in R. Esposito, Categorie dell’impolitico, 290 G. Bataille, Su Nietszche, 113 3 Roberto Esposito, Categorie dell’impolitico, 133n 4 Essendo considerati in base alla morale gli eccessi, e ogni comportamento non “conforme”, dei mali, voler esprimere in sé quella pienezza coincide con il volere il male. Ma il male della vecchia morale: il culmine di quella nuova, che Nietszche delinea e Bataille tenta di compiere. “Il male è il contrario della costrizione, la quale in teoria viene esercitata in vista di un bene. Il male (…) in fondo, non è forse libertà concreta, la torbida violazione di un tabù?” ( in G. Bataille, Su Nietszche, 21). 2

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terreno stesso su cui si regge, l’uomo li deve respingere, in lui Dio deve morire, è il fondo del terrore, l’estremo in cui soccombe”5. Nietszche procede nella sua trasvalutazione innanzitutto uccidendo Dio, cioè la risposta più ambiziosa sviluppata dall’uomo per “domare” la caoticità del mondo. Con Dio (ma anche con ogni dottrina filosofica, politica, morale: in una parola con ogni “impresa”) finalmente l’uomo può non sentirsi più angosciato dalla sua esistenza, può avere una risposta per tutto, sapere chi è, perché, dove vada. Bataille, in un paragrafo de “L’esperienza interiore”, si richiama ad un brano tratto da “Al di là del bene del male” in cui Nietszche descrive la morte di Dio in questi termini: “Esiste una grande scala della crudeltà religiosa (…). Un tempo si sacrificavano al proprio Dio esseri umani (…). In seguito, nell’epoca morale dell’umanità, si sacrificavano al proprio Dio gli istinti più forti che si possedevano, «la propria natura». (…) E infine che cosa restava ancora da sacrificare? Non si doveva finalmente sacrificare una buona volta tutto ciò che v’è di confortante, di sacro, di risanante, ogni speranza, ogni fede in una occulta armonia, in beatitudini e giustizie di là da venire? Non si doveva sacrificare Dio stesso e, per crudeltà contro sé stessi, adorare la pietra, la stupidità, la pesantezza, il destino, il nulla?”6. Uccidere Dio significa perciò non cercare più delle risposte per lenire l’angoscia di fronte all’immensità ed inspiegabilità dell’universo; volersi finalmente soli, immersi nella propria ignoranza: “Nietszche è l’ateo che si cura di Dio perché riconobbe un giorno che, giacché egli non esiste, il posto lasciato vacante esponeva tutte le cose all’annientamento. Nello stesso tempo Nietszche esigeva la libertà (…). La libertà è innanzi tutto una realtà politica”7. Il superuomo non è dunque un uomo più potente, capace di gesta (militari) più eroiche come il nazismo lo aveva propagandisticamente tradotto, ma semplicemente l’essere che pur scoprendosi perduto nella propria mancanza di vie d’uscita, non s’illude cercando scappatoie e continua a contemplare la morte a testa alta.8 Non per comprenderla, per trovare anche ad essa un senso (sulla falsariga di Hegel), quanto per pretendere il proprio non-senso, la propria mancanza costitutiva (il proprio essersi autocostituiti su quella mancanza, il fatto che l’uomo è un insieme di elucubrazioni erette a sistema con alle proprie fondamenta il nulla). Nietszche, attraverso la figura del superuomo, si distingue dunque dalla “maggioranza dei pensatori atei [che] sostituiscono a Dio altri valori assoluti quali la ragione, lo Stato, la nazione, la felicità delle masse, conservando la struttura della metafisica tradizionale. Nietszche vuole mettere fine a questo monotono gioco storico della creazione e della distruzione di dei”9. Sarà certo disperante, 5

G. Bataille, L’esperienza interiore, 195 Friedric Nietszche, Al di là del bene e del male, citato in G. Bataille, L’esperienza interiore, 191-192 7 G. Bataille, La sovranità, 245 8 “Il superuomo (…) nietszcheano [secondo l’interpretazione nazista di Baeumler] ha in sé la volontà di potenza in quanto vuole eroicamente sé stesso e in veste di führer persegue la creazione di una grande Germania fondata sull’unità simbolica della razza ariana”. Ma “In Nietszche questa volontà di potenza (…) [è] un volere l’affermazione della vita nella sua totalità, in ogni suo aspetto, anche nella sua parte maledetta”. (F. Ferrari, La comunità errante, 53, 56). Bataille nega che in Nietszche sia rilevante una “volontà di potenza” intesa come volontà di affermazione, di acquisizione di un potere (come il nazismo la interpretò); per lui, in Nietszche, “La volontà di potenza è un equivoco. Ne rimane, in un certo senso, la volontà del male, e infine quella di spendere, di giocare.”(G. Bataille, Su Nietszche, 179) 9 Rita Bishof, Nietszche, Bataille e il problema di una nuova morale, 153 6

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ma l’uomo è questo: un punto insignificante in un universo caotico, e se si vuole capire “l’uomo” nella sua integrità (mente e corpo, ragione e passione, progetto e desiderio, bene e male) non si può rimuoverne la violenza ma è indispensabile invece riconoscerla come sua parte integrante, riconoscere in esso una composizione duale non sintetizzabile ma sempre, a sé stessa, contraddittoria. La morale, come sistema di regolamentazione dell’agire, va dunque smantellata: essa serviva a forgiare l’individuo ad un insieme di dogmi politico-socioreligiosi, ad asservire il neonato violento e sovrano alle regole sociali proprie del sistema morale omogeneizzante10. Era un’istanza forgiante, diceva cosa vedere quando, come essere quando, costringeva in coscienza alla conformità: “L’essenza della «morale volgare» [sta nel fatto che] (…) certi uomini si prendono la responsabilità di dare ad altri una regola di vita, devono appellarsi al merito e proporre come finalità il bene dell’essere, che trova compimento nel futuro”11. Nietszche profetizza così l’avvento di una nuova morale che non s’insegni ma si viva12, sposta il fulcro del pensiero dall’avere (razionale) all’essere (l’esperienza presente), cosicché “Paragonati a Zarathustra, Gesù e Buddha sembrano servili. Avevano qualche cosa da fare in questo mondo. (…) Erano soltanto «saggi», «dotti», «salvatori». Zarathustra (Nietszche) è qualche cosa di più: un seduttore che rideva dei compiti che si era assunto. (…) Gesù, Buddha (…) fissarono ai loro discepoli un compito arido e obbligatorio. Il discepolo di Zarathustra impara soltanto, alla fine, a rinnegare il suo maestro”13. Questo ritorno a sé, questa negazione dell’indipendenza razionale, corrisponde ad una critica del tempo: se il tempo della ragione è quello del progetto, della dilazione nel futuro, il tempo del sé, dell’essere, è quello presente, in cui si VIVE l’esperienza che ci plasma. Questo significa l’eterno ritorno! In esso “Non è la promessa di infinite ripetizioni quella che lacera, ma questo: gli istanti afferrati nell’immanenza del ritorno appaiono improvvisamente come scopi. (…) Gli istanti sono, da tutti i sistemi, considerati e assegnati come mezzi: ogni morale dice: «ciascun istante della vostra vita sia motivato». Il ritorno toglie il motivo all’istante, libera la vita dai fini. (…) Il ritorno è il modo drammatico e la maschera dell’uomo totale: è il deserto dell’uomo per il quale ogni istante si trova oramai immotivato”14. Se il futuro è destinato a ripetere all’infinito un passato già stato, del tutto identico, allora ogni futuro perde valore e unico punto del tempo che continua ad appartenerci è il presente, l’istante in cui un evento che “ci vive” scivola nel passato, lasciando in noi, se protesi a coglierne l’effetto, una sensazione viva, una prova di noi stessi. Perciò come afferma Rita Bishof “Il presente cessa d’essere un semplice mezzo in vista di un fine fantasmatico situato nel futuro, per ritrovare il suo compimento, necessariamente effimero, in sé stesso”15. Se non ha più senso ricercare una realizzazione nel futuro (è già stato identico a sé) allora l’unica realizzazione è nel recepire pienamente in sé le impressioni dell’istante che stiamo vivendo! “Questo v’è di grande nell’uomo: che è un pon10

Si veda a tal proposito G. Bataille, Il padre anale, in S. Finzi, Lavoro dell’inconscio e comunismo. G. Bataille, Su Nietszche, 57 12 Quella che Rita Bishof (op. cit.) chiama “morale estetica” e Bataille “del culmine”. 13 G. Bataille, Su Nietszche, 113 14 idem, 30 15 Rita Bishof, op. cit., 152 11

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te, non un fine; ciò che si può amare nell’uomo, è il suo essere una transizione e un declino”16. Questo tempo diverso (dell’istante) necessita di un uomo diverso: un superuomo (l’acefalo) che, come visto, uccidendo Dio abbia finalmente la possibilità di vivere in sé anche quegli elementi tabuizzati che esso negava (le passioni, la violenza, l’angoscia…). Si tratta di ritrovare il nostro corpo, le nostre passioni, accettarne la balordaggine, denunciare la parzialità della coscienza scientifico–razionale, liberare la violenza in sé, viverla e riconoscerla nel prossimo come istanza ineliminabile, verificare nella coesistenza sociale il difficile balletto degli egoismi reciproci: il superuomo è perciò l’essere che Bataille definisce chino su sé stesso, acefalo, lacerato dalla propria mancanza, onda in mezzo al mare; è l’essere comuniale, che può dirsi essere solo attraverso la conferma recepita emotivamente tramite la comunicazione illimitata con l’altro generalizzato. La coscienza chiara e distinta dei sistemi razionali si esplica attraverso l’individuazione di una serie di oggetti isolati all’interno della caoticità preesistente: l’essere diviene in–dividuo, in quanto tale isolato dall’altro da sé e potenzialmente nocivo nei suoi confronti: Homini lupus. Nietszche, negando il contrattualismo e attraverso esso la legittimità o il valore di verità della coscienza chiara e distinta, nega che la società possa essere considerata una somma d’individui.17 Bataille esprime questo pensiero ricordando che “[Nel]L’antica economia gloriosa (…) ogni persona era (…) l’espressione di un insieme organizzato, cui apparteneva. L’economia borghese (…) si sviluppò legata a una concezione che fa della società una somma di individui (…) [e] fabbricò un mondo a sua misura”18, ma una società di questo tipo ha infine condotto alla mancanza di comunicazione (alla crisi) delle democrazie. “Dove ci troveremo, solitari fra solitari – perché questo saremo certamente un giorno, per effetto della conoscenza – dove troveremo un compagno per l’uomo? Un tempo cercavamo un re, un padre, un giudice per tutti, perché mancavamo di re, di padri, di giudici veri. Poi cercheremo un amico – gli uomini saranno diventati splendori e sistemi autonomi, ma saranno soli. L’istinto mitologico sarà allora alla ricerca di un amico”19. Bataille, in questo senso, è per Nietszche (e Nietszche per lui) quell’amico che esso si era sforzato di trovare senza riuscirvi, e insieme a lui, formando quell’essere composto di cui tratterò più avanti, si pensa come fondamento di una nuova comunità basata sulla morale del culmine20, che non sia più espressione di una somma di individui tenuti assieme da un vincolo razionale (un contratto), ma di un organismo composto di parti fra loro interconnesse e con-fuse da un vincolo 16

F. Nietszche, Così parlò Zarathustra. Citazione in G. Bataille, Su Nietszche, 149. Bataille condivide con Durkheim e la sociologia francese la tesi dell’organicismo, secondo cui “La società non è una semplice somma di individui; al contrario, il sistema formato dalla loro associazione rappresenta una realtà specifica dotata di caratteri propri”. Pensiero di Durkheim, citato in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 527 18 G. Bataille, Il limite dell’utile, 95 19 Friedric Nietszche, Volontà di potenza, citato in G. Bataille, Su Nietszche, 38 20 In cui il culmine morale non sia un bene contrapposto ad un male, ma “l’eccesso”,“l’esuberanza delle forze”,“il massimo di intensità tragica”,“il dispendio di energia senza misura”. Il culmine è l’uomo non frammentato.“L’uomo integrale è solo un essere in cui si annulla la trascendenza, da cui niente è più separato: un po’ burattino, un po’ Dio, un po’ pazzo… è la trasparenza”. “L’immanenza è (…) culmine immediato, poiché è da ogni parte rovina dell’essere, e culmine spirituale. (…) Parlando del culmine, (…) opposi la preoccupazione per l’avvenire a quella per il culmine, che si iscrive nel tempo presente.” (G. Bataille, Su Nietszche, 26, 177-179). 17

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sacro, intimo: “La mia vita con Nietszche è una comunità, il mio libro è questa comunità”21. Certo, Nietszche non diede risposte; farlo avrebbe significato dare un senso, e con esso una direzione da seguire, una verità per cui lottare e un nuovo sistema: un nuovo Dio. A lui interessò mettere in questione, far vacillare il castello di sabbia eretto da un’umanità pusillanime, denunciare l’artificiosità meschina di ogni “impresa”. Bataille lo segue su questa strada, si pone nel deserto che il suo “amico” Nietszche creò; diviene, infine, quel deserto.

21

G. Bataille, Su Nietszche, 41.

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2.4.3: LA RIVISTA La rivista “Acéphale”, interamente dedicata all’interpretazione del pensiero nietszcheano, uscì in soli tre numeri fra giugno ‘36 e luglio ’37, ai quali si aggiunse un ulteriore numero nel giugno ‘39 scritto dal solo Bataille. Nel primo numero, in un articolo scritto proprio nel periodo (i primi mesi del ‘36) nel quale stette a Tossa de Mar con Masson, Bataille azzarda una descrizione dell’acefalo: esso rappresenta, dice, al di là di quello che sono (il mio “io astratto” isolato), non un Dio, che è la proibizione del crimine, ma un essere che ignora la proibizione e a cui affidare la realizzazione di quanto affermato nel già citato passo in cui secondo Bataille “Il supremo abuso che l’uomo fa tardivamente della propria ragione richiede un ultimo sacrificio: la ragione, l’intelligibilità, il terreno stesso su cui si regge, l’uomo li deve respingere, in lui Dio deve morire”.1 L’essere senza testa (il soggetto non limitato alla propria identità) si priva di quella stessa caratteristica (la ragione) che lo ha isolato in un mondo di cose isolate, cosa in mezzo alle cose: “L’automutilazione della testa opera la rottura dell’omogeneità e il passaggio all’eterogeneo, al dominio del sacro (…) e realizza la proiezione all’esterno dell’elemento repressivo, colpevolizzante, l’espulsione del padre introiettato nel super-io”2. È perciò un essere privo di atteggiamenti o aspettative morali (al di là del bene e del male) nella misura in cui queste sono dettate da una scala di valori istituita a partire dal suo isolamento: “La vita umana non ne può più di servire da testa e da ragione all’universo. Nella misura in cui diviene questa testa (…) essa accetta un asservimento”3. Volersi liberi rispetto alla propria testa implica il fatto di volersi liberi rispetto alla testa sociale, a ogni cesarismo: “I nuovi faraoni, i cesari romani e i capi di partiti rivoluzionari che hanno ammaliato oggi metà degli abitanti dell’Europa hanno risposto alla speranza di fondare nuovamente la vita. (…) Ma (…) l’ansia di recuperare il mondo perduto, che ha svolto un ruolo nella genesi del fascismo, ha come sbocco solo la disciplina militare”4. A questo uomo frammentato, mutilato, inibente la propria parte maledetta, Bataille oppone un uomo integrale; esso è colui che accetta di sé ogni parte, colui che non esclude né nega da sé nessun elemento, per quanto indicibile (e quindi impensabile), e che in questo modo non giunge né alla dichiarazione del suo isolamento (concepibile solo da un soggetto conoscente verso un oggetto conosciuto, quindi isolato da sé) né a tutto ciò che ne consegue (teorie contrattualistiche e negazione di un “in-comune” che tratterò nell’ultimo capitolo); l’uomo integro libera sé stesso da ogni vincolo morale, da ogni catena. Non si tratta di liberare l’“uno” dalla sottomissione dell’“altro” (o dell’egualitarismo in genere), quanto invece di uno scatenamento dalle maglie interpretative vigenti, ottenibile attraverso una lotta che difficilmente si può situare all’interno della tradizionale divisione politica – il partito esclude etimologicamente una visione d’insieme, rimanda alla frammentarietà dell’essere – quanto ai suoi 1

G. Bataille, L’esperienza interiore, 195. Si noti la somiglianza di questo passo con quello in cui Nietszche definisce la necessità della morte di Dio (nota 5 del paragrafo precedente). 2 C. Pasi, L’Hétérologie e «Acéphale»: dal fantasma al mito, 106 3 G. Bataille, La congiura sacra, 6 4 idem, 81

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estremi5: “Coloro che già percepiscono il vuoto nelle soluzioni proposte dai partiti, che neanche vedono più [in] questi partiti altro che una occasione di guerre (…) cercano una fede a misura delle convulsioni che li scuotono”6. Nietszche come visto è per Bataille il pensatore che pone la sua esperienza al di là della morale e di ogni partizione politica7, delineando così per il pensatore francese un punto di partenza per l’espressione del suo pensiero: “Il movimento stesso del pensiero di Nietszche implica una disfatta dei diversi fondamenti possibili della politica attuale. Le destre fondano la loro azione sull’attaccamento affettivo al passato. Le sinistre su principi razionali. Ora, attaccamento al passato e principi razionali (giustizia, eguaglianza sociale) sono egualmente respinti da Nietszche. Dovrebbe dunque essere impossibile utilizzare il suo insegnamento in un senso qualsiasi”. 8 Ora si provi a confrontare questa affermazione sul valore del pensiero di Nietszche con quella già citata secondo cui “Coloro che si sono liberati dal passato restano incatenati alla ragione; coloro che la ragione non incatena sono schiavi del passato. (…) Trasgredire con la vita alle leggi della ragione, rispondere alle esigenze della vita anche contro la ragione, in politica praticamente equivale a consegnarsi al passato (…) E tuttavia la vita esige di essere liberata dal passato tanto quanto da un sistema di misure razionali, amministrative”9. Comparando le due citazioni precedenti si comprende come per Bataille sia essenziale esprimere un modo di esistenza liberata dei “diversi fondamenti possibili della politica attuale”, cioè, a mio avviso, un modo di essere posto al di là di ciò che accomuna tutti questi fondamenti. Ora, essendo fondamento indistintamente dell’una come dell’altra parte politica l’ipotesi contrattualista, fondata sul principio dell’isolamento degli individui tra loro, allora il “modo di esistenza” che Bataille concepisce come indispensabile è quello di un esserecomunemente al di là del contrattualismo10. Nietszche, in questo contesto di critica politica alla politica, diviene l’esempio concreto, in quanto assassino del Dio della trascendenza (e con ciò di ogni trascendenza), di un’esperienza di vita che, lungi dall’essere utilizzata, non può che essere “seguita”11 perseverando sadianamente nella sua opera assassina: distruggendo indefinitamente ogni Dio, ogni testa12. Come detto Bataille consacrò a Nietszche la rivista “Acéphale” anche per liberare il pensiero del filosofo tedesco dalle costrizioni interpretative naziste13, 5

ma che non perciò sono da intendersi necessariamente impolitiche. Si veda l’ultimo capitolo. G. Bataille, La congiura sacra, 29 7 “Egli non ebbe, particolarmente, alcuna inclinazione per la politica, rifiutava di scegliere qualsiasi partito politico, e si irritava che lo si credesse di destra o di sinistra. Non poteva sopportare l’idea che il suo pensiero fosse subordinato a qualche causa”. G. Bataille, Su Nietszche, 18 8 G. Bataille, La congiura sacra, 16 9 idem, 28 10 Si veda il paragrafo così intitolato nel capitolo 3. 11 “La dottrina di Nietszche non può essere asservita. Può soltanto essere seguita”. (citato in G. Ferrari, op. cit., 131). Si veda anche G. Bataille, Su Nietszche, 28: “Situata nella prospettiva dell’azione, l’opera di Nietszche è un aborto – dei più impossibili a difendersi – e la sua è una vita mancata, come la vita di chi tenta di realizzare gli scritti di lui” (cioè, auto-ironicamente, come la vita dello stesso Bataille, quella che, come lui stesso afferma, esprime unicamente una negatività senza impiego). 12 È tuttavia importante ricordare che per Bataille Nietszche, uccidendo Dio, non nega l’esistenza del sacro quanto la “riduzione che la morale opera all’interno di questa sfera nella forma di un Dio personificato”. (G. Bataille, La sovranità, 220). Lo stesso Nietszche afferma che “In fondo solo il Dio morale è confutato” (in La volontà di potenza, citato in G. Bataille, La sovranità, 220). 13 “Nietszche e i fascisti, una riparazione”, intitolerà il secondo numero della rivista del 21 gennaio 1937. 6

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anche se, a suo avviso, esiste un unico punto in cui la riflessione nietszcheana può essere confusa con la prassi fascista: “l’assillo del mondo perduto”. Tuttavia non tarda ad evidenziare come, superando un’osservazione piuttosto superficiale, sia evidente una profonda diversità dei motivi e dei modi determinanti questo assillo: se il fascismo si mette in relazione ad un passato mitico, legato alla patria ed alle sue tradizioni gloriose (sulla scia del quale si pone come legittima continuazione piegando con la repressione militare ogni sentire non allineato all’idolatria degli stessi principi), Nietszche ricerca in esso “un legame di fraternità che può essere estraneo al legame di sangue, annodato tra uomini che decidono tra di loro le necessarie consacrazioni; e l’oggetto della loro unione non ha per fine un’azione definita, ma l’esistenza stessa, L’ESISTENZA, CIOÈ LA TRAGEDIA”14. Si tratta del Kinderland nietszcheano15, del sentimento fraterno di appartenenza ad una comunità coesa nell’opposizione al padre (all’istanza paterna, inibente), e perciò ad una comunità che si configura più come un movimento di tipo religioso (accomunato da una fede condivisa, da un sentire comune) che non come una somma di individui politicamente espressa tramite un nome: “Un movimento religioso che si svilupperà nel mondo attuale non dovrà somigliare al cristianesimo o al buddismo più di quanto cristianesimo e buddismo non somiglino al politeismo”16. Questa ipotetica Kinderland, espungendo da sé ogni forma paterna, non potrà essere l’emanazione di una religione rivelata – che in quanto tale esprime una religiosità del padre – ma di una forma di religione basata sulla sola esperienza del sacro, dell’indicibile, espressione del proprio vincolo profondo con la terra: “La figura sacra – nietszcheana – di Dioniso tragico libera la vita dalla servitù, (…) dall’umiltà religiosa, dalla confusione e dal torpore del romanticismo”17. Questa comunità nietszcheana viene descritta nella sua tragicità da Bataille attraverso la metafora, presa a prestito dall’opera di Cervantes, di Numanzia: “Nell’agonia di Numanzia, all’interno delle mura e sotto la nuda parete della sierra, c’è la terra: la terra che si apre per restituire il cadavere al mondo dei viventi”18. Contro i romani, paragonati per la gloria del loro capo (Cesare) al sole, “i numantini SENZA CAPO si collocano nella regione della Notte della Terra”19; essi non sono dunque un ammasso di individui ma una comunità, e soprattutto una comunità che grida la propria coesione nel momento del sacrificio di sé stessa, che trova la sua unità nel momento della morte: “La morte, e non il cibo o la produzione dei mezzi di produzione”20; e il punto sta proprio qui: Numanzia rappresenta la società acefala in quanto unita nella con-divisione della morte per 14

G. Bataille, La congiura sacra, 82. questa frase preannuncia la società segreta di “Acéphale”. “Nietszche espresse attraverso l’idea del fanciullo il principio del gioco aperto, in cui l’evento supera il dato. «Perché» diceva Zarathustra «bisogna che il leone diventi bambino?». Il bambino è innocenza e oblio, un nuovo inizio ed un gioco, una ruota che gira su sé stessa, un primo movimento, un sì sacro. La volontà di potenza è il leone, ma il bambino non è forse la volontà di chance?” (in G. Bataille, Su Nietszche, 179-180). Per F.C. Papparo, L’aldilà del serio…, 17, l’infanzia è un’interrogazione vuota, perché “l’universo del piccolo è pregno di interrogativi verso quell’enigma che è il mondo, il mondo al suo apparirgli e a cui il piccolo non intende per prima cosa dare nomi ma piuttosto vederlo e rappresentarselo nella sua stupefacente disposizione di forme”. 16 G. Bataille, La congiura sacra, 83 17 idem, 84 18 idem, 85 19 ibidem 20 idem, 86 15

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affermare la propria esistenza, e funge da modello per il superamento “della crisi che deprime attualmente l’esistenza. (…) [Una comunità] può essere fondata solo su una comune coscienza di ciò che è l’esistenza profonda: gioco emotivo e lacerato della vita con la morte”21. È, per questo motivo, una comunità “di cuore”, della tragedia, in lotta per non essere assimilata, che afferma la sua esistenza nella propria estinzione, ma non perciò si tratta di una comunità imbelle, inerte; anzi: “Il movimento antifascista, se viene paragonato a Numanzia, appare come un vuoto coacervo, come una vasta decomposizione di uomini uniti solo da un rifiuto. (…) La lotta intrapresa acquisterà un senso e diverrà efficace solo nella misura in cui la miseria fascista incontrerà di fronte a sé qualcosa d’altro che una negazione frenetica: la comunità di cuore, di cui Numanzia è l’immagine”22. Bataille, attraverso questo “vuoto coacervo di uomini legati solo da un rifiuto” (perciò votati al fallimento), stigmatizza, oltre alla sterilità delle formazioni politiche di sinistra, anche la sua precedente esperienza di “Contre-attaques”, per far fronte alla disgregazione della quale, sempre al fine di combattere contro ogni cesarismo, si rende necessario un legame sacro: “All’unità cesarea fondata su un capo, si oppone la comunità senza capo legata dall’immagine assillante di una tragedia. La vita esige uomini riuniti, e gli uomini sono riuniti solo da un capo o da una tragedia. Cercare la comunità umana senza testa è cercare la tragedia. (…) L’elemento emotivo che dà un valore assillante all’esistenza comune è la morte”23. Dunque, per scongiurare che l’azione liberatrice di un “movimento organico” fallisca per via delle sue divisioni interne, ci si deve affidare alla tragedia, ed essa è data dalla coscienza in-comune della morte: “La manifestazione del conflitto tragico si situa nell’intimo dell’individuo e tende così a distruggere le strutture sociali non dall’esterno, come fanno le manifestazioni belliche, ma dall’interno, cercando di liberare l’uomo dalla loro costrizione. Nondimeno questo tentativo, lungi dall’indebolire la coesione sociale, la rafforza, suscitando la formazione di comunità che sono l’indispensabile contropartita dello sforzo rivoluzionario di personalizzazione”24. Il numero 3-4 della rivista venne pubblicato nel luglio 1937. È in esso che venne pubblicata la “dichiarazione relativa alla fondazione di un collegio di sociologia”25 di cui discuto nel prossimo paragrafo.

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idem, 87 idem, 88. Questa citazione evidenzia il carattere “politico” dell’immagine di Numanzia e della società segreta ad essa ispirata. Svilupperò nel prossimo capitolo il peso stranamente politico dell’intera impresa. 23 ibidem 24 P. Prévost, Le collège de sociologie, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 484. Ribadisco il fatto che una siffatta comunità non escluda l’attivismo in vista dei prossimi paragrafi e dell’ultimo capitolo. 25 In G. Bataille, Il collegio di sociologia, 5 22

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2.4.4: “COLLÈGE DE SOCIOLOGIE” La sociologia, secondo la tradizione sociologica francese, riveste un carattere ambiguo: in quanto branca del sapere scientifico costituisce una corporazione di mestiere autonoma, autrice di un sapere separato; d’altro lato, per via della materia del suo studio, scopre il “fatto sociale totale”1 secondo cui nessuna conoscenza può essere considerata tale se non nel suo intreccio/confronto con ogni altra, e afferma che ad istituire una qualsiasi verità non è ne la cosa in sé né il genio di un individuo, quanto una rappresentazione sociale, collettiva (di natura essenzialmente religiosa, mitica). Il “Collège de sociologie” nacque con l’intento di colmare questo paradosso, volendo studiare il fatto sociale totale, ponendosi in una posizione critica nei confronti della scienza, del carattere separato, specialistico del suo sapere, e fondando un’“istituzione” atta allo studio di ciò che la scienza stessa rifiuta di conoscere2: “La scienza limita la coscienza agli oggetti, non conduce alla coscienza di sé (non può conoscere il soggetto se non prendendolo per un oggetto, per una cosa); ma contribuisce al risveglio assuefacendo alla precisione e disingannando: poiché ammette essa stessa i propri limiti, confessa l’impotenza in cui è di giungere alla coscienza di sé”3. Nel documento di fondazione del Collège, Caillois afferma che “Le scienze umane (…) Sono progredite con una tale rapidità che ancora non (…) si è avuta la possibilità o l’audacia di applicarle ai molteplici problemi posti dal gioco degli istinti e dei miti che le compongono o le mobilitano nella società contemporanea. E’ noto che da tale carenza risulta che tutto un lato della vita collettiva moderna, il suo aspetto più grave, i suoi strati profondi, sfuggono all’intelligenza”4 e, analogamente, Hollier rileva che attraverso questo gruppo di studi Bataille intese fornire di basi teoriche quello che ne “La struttura psicologica del fascismo” considerava un modo di conoscenza necessario: l’eterologia, ovvero con le parole di Hollier “la scienza di ciò che la scienza non vuol sapere, la scienza di ciò che eccede il sapere, la scienza dei residui epistemologici”5. 1

“La sociologia sacra (…) ipotizza che esista, oltre agli individui che compongono la società, un movimento d’insieme che ne trasforma la natura. È pertanto estranea a tutte quelle concezioni per le quali l’esistenza sociale si limiterebbe ad aggiungere agli individui dei contratti, concezioni su cui si fonda per l’appunto l’insieme della cultura attuale”. G. Bataille e R. Caillois, La sociologia sacra e i rapporti tra «società», «organismo», «essere», in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 92 2 Si veda, sulla chiusura della scienza “specialistica” rispetto ad ambiti di non-sapere impliciti nel suo movimento, D. Hollier, Sull’equivoco (tra letteratura e politica), in G. Bataille, Il collegio di sociologia, soprattutto XXIV-XXVII; ma anche C. Pasi, L’Hétérologie e “Acéphale”: dal fantasma al mito. Per un parallelo con la critica moderna alla scienza che, mettendo in crisi la validità “ontologica” della stessa apre degli orizzonti nei quali ogni sapere rischia di divenire un non-sapere condiviso, si veda soprattutto T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, e P.K. Feyerabend, Contro il metodo. 3 G. Bataille, La parte maledetta, 134. Si noti che Bataille, nella polemica contro l’esistenzialismo, dirà di esso che, ancor più della scienza, contribuisce all’oggettivazione del sapere, quindi alla cosificazione dell’essere ed all’allontanamento dall’esistente/esperienza. Ciò per via del fatto che la scienza non pretende di studiare il soggetto ma solo degli oggetti, mentre l’esistenzialismo nutre proprio questa pretesa, ma secondo Bataille fallisce parlandone, filosofando, rimanendo una pratica essenzialmente professorale. 4 R. Caillois, Introduzione a “Per un collegio di sociologia”, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 1314. Quest’articolo (apparso sulla «Novelle Revue Française» del luglio 1938 assieme ai testi di Bataille, L’apprendista stregone; Leiris, Il sacro nella vita quotidiana e Caillois, Il vento d’inverno) fu l’atto pubblico di fondazione del gruppo di studi che tuttavia esisteva già da almeno un anno. 5 D. Hollier, Sull’equivoco (tra letteratura e politica), XXVI

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Non è il caso di ripetere che quanto rimane al di fuori della scienza è proprio il sacro e che esso è alla base del “fatto sociale totale”. Secondo Bataille, infatti, le società umane ruotano attorno ad un “nucleo sacro”, rappresentato ad esempio, nel periodo medievale, dalla chiesa al centro del villaggio. Questo “nucleo centrale di un agglomerato è il luogo in cui il sacro sinistro è trasformato in sacro destro, l’oggetto di repulsione in oggetto di attrazione, e la depressione in eccitazione. Già il passaggio del cadavere nella chiesa era rivelatore di tale processo e, nell’insieme, gli effetti di adesione e di repulsione che mantengono l’attrazione a una certa distanza dal centro ben traducono questa attività”6. È dunque attorno a questo nucleo che gravita il movimento d’insieme di un agglomerato; ed è attorno ad esso che si “presenta altresì un movimento di concentrazione del potere, legato al movimento che si produce intorno alle cose sacre”7. La crisi, negli anni precedenti la seconda guerra, delle società democratiche, ne mette in evidenza la debolezza e la mancanza di un vincolo sacro comune; in questo contesto8, per scongiurare esiti catastrofici (il fascismo, la guerra), è indispensabile individuare delle fondamenta mitologiche di un “vivere comune” che supplisca alle loro mancanze. La crisi delle democrazie, causa prima del loro trapasso in forme totalitarie, deve essere risolutamente analizzata per comprenderne le ragioni e ad esse dare una risposta che permetta di evitare disastrose derive. Prévost, parlando del “Collège” in un articolo apparso su “La Flèche” nel maggio 19399, chiarisce questi temi dicendo che “Ogni società umana, per non ridursi ad elementi di un quadro vuoto, costituito unicamente dalle strutture politiche ed economiche, deve coagularsi attorno a un nucleo che provveda a dar vita e significato all’insieme sociale. La sorte delle democrazie è di ridursi a un insieme opprimente di quadri vuoti, e questa debolezza rischia di essere loro letale”. L’economia ristretta dell’accumulo e l’individualismo sul quale si erge, sono una diretta conseguenza della rivoluzione francese (perpetrata contro il lusso dei potenti), che sfocia nella razionalizzazione dei fondamenti del vivere comune; in questo senso Marina Galletti può dire che “Il crollo delle religioni a seguito del progresso dell’illuminismo ha politicizzato il sacro che si investe adesso nel nazionalismo: «la bandiera sostituisce la croce»”10. Questo insieme di caratteristiche (individualismo, primato dell’accumulo, razionalismo) isola gli individui fra di loro e, cancellando ogni accesso alle espressioni sacre (ripudiate in quanto irrazionali), li priva della possibilità di riconoscersi come appartenenti ad un “noi” che li inglobi in sé. Affinché fra gli appartenenti ad una data società si possa sviluppare il sentimento di condividere un destino comune, è indispensabile che il vincolo che li accomuna sia sancito da un mito intimamente condiviso e dalla capacità di esperirne, attraverso una sua riattualizzazione rituale, la vitalità. Essa non può quindi essere un ammasso di individui ma un «essere composto» (“un tutto che presenta qualcosa in più rispetto alla somma delle sue parti”11), il cui 6

G. Bataille, Attrazione e repulsione II: la struttura sociale, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 150 idem, 157 8 Il fatto che il Collège risponda ai bisogni del tempo avvalora la teoria del “fatto sociale totale”. 9 P. Prévost, Le collège de sociologie, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 483-485 10 M. Galletti, introduzione alla Inchiesta sui direttori di coscienza, promossa da Monnerot nel febbraio 1939 sulla rivista “Volontés”, pubblicata in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 68 sgg. 11 idem, 127 7

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nucleo è costituito da “un insieme di oggetti, luoghi, credenze, persone e pratiche che rivestono carattere sacro – oggetti, luoghi, credenze, persone e pratiche appartenenti a tutti in proprio a un gruppo e non a un altro”12. Il rituale riveste così una doppia funzione: a) quella di ritemprare, rinvigorire un senso di appartenenza alla comunità espresso dalla con-divisione del mito; b) quella di sprigionare un tempo sacro di licenza nel quale sprecare, tramite lo scatenamento delle danze o il sacrificio tragico delle proprie ricchezze, quel surplus di energie che nel tempo profano del lavoro non ha modo di prorompere: “Gli interdetti si sono rivelati impotenti a mantenere l’integrità della natura e della società. (…) La regola non possiede in sé stessa alcun principio in grado di rinvigorirla. Bisogna fare appello alla virtù creatrice degli dei e tornare agli inizi del mondo, volgersi verso le forze che allora trasformarono il caos in cosmo”13. Le società si erigono sul rispetto dei divieti elevato a norma nel tempo profano, quello del lavoro; tuttavia il tempo del lavoro e i suoi divieti rivestono sempre maggiore importanza all’interno delle società umane, perché è in esso che si stabilisce la calma necessaria alla sussistenza e alla produzione. Le società democratiche portano al culmine il peso dell’istanza dell’accumulo e del tempo profano a scapito di quello sacro, che viene rimosso e rifiutato come irrazionale, amorale; ma è proprio per questo che esso ricompare in forme devastanti e catastrofiche votando gli esseri all’isolamento e alla reciproca rivalità, ponendo così le stesse società democratiche in uno stato di crisi instabile e sempre passibile di sbilanciarsi verso quell’istanza che, nel sentire comune, appare la più propizia ad una ricreazione del vincolo perduto. Così facendo “la società instaura solo legami relativamente deboli fra i suoi membri. Non assegna loro compiti particolari né una ragion d’essere. Li lascia in balìa del loro destino individuale, buono o cattivo che sia. Soltanto i «corpi costituiti» propongono (o impongono) vincoli profondi: agli uomini che li compongono chiedono di legare il loro destino al proprio”14. È dunque una componente che presenta i caratteri della necessità a contrapporre gli individui alla (e nella) società democratica: il loro bisogno di dépense, il loro bisogno di ritrovare la soggettività in sé stessi, la loro sovranità derubata dal potere del passato. Ogni rivolta nasce nell’intimità (attraverso la liberazione della violenza repressa) di una massa inferocita alla ricerca di una comunicazione profonda con l’altro; nasce dal bisogno di giungere sull’orlo di quella ferita lacerante che è la morte: “Ridere di una caduta è già, in qualche modo, ridere della morte; ma, siccome lo sconforto in gioco è minimo, il riso comunicativo non è inibito”15. Il ribelle cerca la sua soggettività/sovranità (vuole sopprimere in sé la cosa), e di conseguenza il tempo sacro, istantaneo, della comunicazione con l’altro16. Questa ricerca non è programmatica, non segue un metodo (come visto se 12

G. Bataille, Attrazione e repulsione. Tropismi, sessualità, riso e lacrime, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 130 13 Roger Caillois, Teoria della festa, in G. Bataille, Il collegio di sociologia,. 370 14 G. Bataille, Struttura e funzione dell’esercito, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 172 15 G. Bataille, Attrazione e repulsione. Tropismi, sessualità, riso e lacrime, cit., 135 16 il che implica che il ribelle non può esserlo da solo… con chi comunicare, se nella comunicazione ogni essere deve essere chino sul suo nulla? È questa una delle differenze fra la posizione mistica e quella del ribelle: il mistico comunica con sé/Tutto (Dio) attraverso un processo scandito da un metodo/mezzo tendente al fine futuro, il ribelle comunica immediatamente, senza scopi, ma deve farlo con l’altro, cioè deve pretendere che anche l’altro non segua scopi (seguendo così a sua volta uno scopo), e una comunicazione

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cerco la sovranità non la posso cogliere), ma è una chance, un’azione decisa immediatamente. “Le azioni intraprese alla ricerca delle immagini seducenti della chance sono le uniche che rispondano al bisogno di vivere sull’esempio della fiamma”17. Ne “L’apprendista stregone” Bataille mostra come la scelta dell’amata sia per l’amante dettata non da un calcolo razionale delle probabilità ma dalla chance, come le passioni verso l’altro non sottostiano alla volontà ma si liberino ed esplodano indipendentemente da noi: “Ciò che determina la scelta dell’essere amato (…) è (…) riducibile a un insieme di casualità. (…) Il caso, la chance, che tenta di sottrarre la vita alla disposizione teleologica, all’ordinamento dei mezzi e dei fini, ha così la meglio”18. L’azione che si sviluppa in questo modo è di una tale violenza e di una tale sproporzionata forza da rendere evidente il bisogno di vivere “sull’esempio della fiamma”, di ciò che velocemente brucia. Escluso ogni programma, ogni scopo, ogni Dio; rimasta solamente l’esperienza umana, qui ed ora; l’unico modo di azione ancora possibile è quello dettato da una negatività senza impiego, ovvero da un indicibile ‘niente’ (rien) che ci appartiene intimamente ma che per via della sua indicibilità non è passibile di un’ulteriore negazione, di una sublimazione nel suo opposto (il risvolto positivo della mortalità in Hegel): perché essendo ‘niente’ , non può avere nessun opposto. Per negare in noi degli istinti pulsionali considerati lesivi per la convivenza sociale (violenti, criminosi), il razionalismo democratico ne nega/rimuove l’esistenza: tuttavia questa rimozione, lungi dall’estirpare il “male” dal mondo, ne nega solamente gli effetti, tanto che continuando la violenza a ribollire nell’inconscio sociale (sulla falsariga di quanto succede per il rimosso nella teoria psicoanalitica19) essa è destinata a ri-esplodere periodicamente. Ciò di cui intende perciò parlare Bataille coincide con il rimosso sociale, tanto che esso afferma che “Il tentativo da me perseguito presuppone che sia possibile una rivelazione di ciò che era inconscio”.20 “Al centro dell’agitazione umana c’è il crimine, che genera il sacro sinistro e intoccabile; questo sacro impuro genera a sua volta una temibile forza, parimenti sacra, ma destra e gloriosa: tuttavia questa forza personalizzata è ancora sottomessa alla minaccia del crimine. Infatti il rinnovamento del crimine è necessario all’intenso movimento che si produce in seno agli insiemi umani”21. I fascismi rigenerano il mito22 proprio contrapponendosi al razionalismo dominante nelle democrazie, ricreando un sentimento di appartenenza ad un destino comutotale non può che essere una comunicazione fra tutti, quella di un essere composto costituito dell’insieme di tutti gli esseri fra loro inter-comunicanti, mortali ed acefali. 17 G. Bataille, L’apprendista stregone, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 28 18 idem, 26-27 19 “l’oggetto preciso dell’attività prospettata può assumere il nome di sociologia sacra. (…) Essa si propone di stabilire i punti di coincidenza tra le tendenze ossessive fondamentali della psicologia individuale e le strutture direttive che presiedono all’organizzazione sociale e ne determinano le rivoluzioni”. Atto di fondazione del collège, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 7 20 G. Bataille, Attrazione e repulsione. La struttura sociale, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 142 21 R. Caillois, Il potere, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 167. Relazione tenuta da Bataille per via dell’assenza di Caillois; e contenuti chiaramente batailleani. 22 D. De Rougemont, dopo avere assistito ad un discorso di Hitler durante una manifestazione a Francoforte, afferma che “Ciò che provo adesso si deve chiamare l’orrore sacro. Pensavo di trovarmi ad un meeting di massa, a qualche manifestazione politica. Ma è il loro culto che essi celebrano!”. Citato in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 201

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ne, ma questa rigenerazione del mito rimane, nei fascismi, subordinata alla volontà di conquista, quindi “il loro carattere fondamentale è militare per semplicistica reazione all’impotenza delle democrazie”23. La volontà di conquista, riversando all’esterno (della nazione) la violenza pulsionale (del sacro sinistro) che inizialmente era invece trasformata in vincolo d’unione (in sacro destro), accomuna i fascismi agli amanti sopraffatti dalla noia: “Quando un uomo e una donna sono uniti dall’amore, insieme formano una comunità, un essere totalmente chiuso in sé stesso, ma quando il primitivo equilibrio è compromesso, è possibile che la nuda ricerca erotica si aggiunga o si sostituisca alla ricerca degli amanti, che all’inizio non aveva altro oggetto all’infuori di loro stessi. Il bisogno di perdersi sopraffa il loro bisogno di trovarsi. Non è detto allora che la presenza di un terzo costituisca ancora, come all’inizio del loro amore, l’ostacolo estremo. (…) Essi cercano un (…) violento dispendio, dove il possesso di un nuovo oggetto – un’altra donna o un altro uomo – è mero pretesto per un dispendio ancor più distruttivo”24. Allo stesso modo degli amanti, anche i fascismi spostano l’interesse dall’interno all’esterno; in questo modo però il culto religioso di un mito comune assume un senso, un’utilità: esso serve per operare, motivare, legittimare delle conquiste militari. “Le relazioni militari non sembrano comportare la messa a morte di un capo, probabilmente perché i moti di repulsione omicida ivi implicati vengono il più delle volte deviati contro il nemico”25. È superfluo ribadire che questa utilità del mito ne stravolge il vero valore, in quanto esso è in sé stesso, nello spingere alla decisione (al cedimento) di vivere finalmente “sull’esempio della fiamma”; non certo tesi alla conquista dell’altro quanto alla perdita, con l’altro, di sé stessi. Bataille, nella conferenza del 4 luglio 1939 (che segnò la crisi definitiva del gruppo), istituisce un bellissimo parallelo fra la passione amorosa intesa come volontà di perdita e la comunicazione26: “Ogni essere obbedisce ciecamente al suo istinto. Dare un nome a questo istinto, farne l’espressione di una volontà di riproduzione insita nella natura, non è una via per uscire dalla notte, giacché nell’accoppiamento vengono appagati bisogni diversi da quelli della procreazione. (…) la comunità legata da vincoli affettivi richiama l’unità passionale degli amanti; né mancano forme che con le perversioni erotiche hanno in comune il fatto che la perdita di sé in un essere più ampio determina la perdita di sé in un universo informe e nella morte. (…) Se degli elementi si combinano allo scopo di formare un insieme, ciò si avvera facilmente quando ciascuno di loro perde in una lacerazione della sua integrità una parte del proprio essere a vantaggio dell’essere comuniale. Iniziazioni, sacrifici, feste rappresentano altrettanti momenti di perdita e di comunicazione degli individui tra di loro”27. Questa necessità di sospendere la propria identità non è quindi finalizzata all’impossessamen-

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Pierre Prévost, op. cit., 485 G. Bataille, Il collegio di sociologia, 443 25 Roger Caillois, Il potere, cit., 162. 26 Dopo la guerra Bataille presterà sempre più attenzione all’erotismo in relazione alla sovranità, fino a dedicare ad esso, nel 1957, uno dei suoi libri maggiori: L’erotismo, per l’appunto. 27 G. Bataille, Il collegio di sociologia, 440-441. 24

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to dell’altro né ad una pura perdita di sé (che manifesta invece la perversione28), quanto invece al bisogno intimo di trovarsi. Concordo quindi con G. Ferrari sul fatto che il “Collège” doveva configurarsi come una “lacerante e profonda comunicazione tra i soggetti che ne facevano parte (…) operando una rottura dell’integrità soggettiva”29. Due diverse “letture” delle società segrete: la fine del Collège Nel panorama a lui contemporaneo, in cui democrazie oramai in disfacimento si dirigono verso l’autodistruzione o verso l’accettazione di un totalitarismo, Bataille intende le comunità che spontaneamente si vengono ad istituire al loro interno come formazioni secondarie cui si può sempre accedere. “La comunità elettiva o società segreta [è] una forma di organizzazione secondaria (…) cui è sempre possibile il ricorso quando l’organizzazione primaria della società non può più soddisfare tutte le aspirazioni che si manifestano”30. Queste formazioni secondarie possono essere di complotto o esistenziali, ed è la differente definizione di dette formazioni che segna un’incolmabile abisso fra la riflessione batailleana e quella cailloisiana. Se per Caillois, infatti, la società segreta “presuppone una certa educazione del senso di rivolta (…) e che ci si persuada a subordinare le proprie reazioni impulsive e turbolente alla necessità della disciplina, del calcolo e della pazienza. In una parola, bisogna che da satanico tale spirito si faccia luciferino”31, per Bataille sono proprio le reazioni più impulsive, turbolente, violente a dovervi trovare espressione. Per Caillois, insomma, ogni società segreta è destinata ad evolvesi in una società di complotto che rappresenta “il solo mezzo capace di consentire una specie di muta esplosiva a società pervenute a un vero e proprio vuoto, a uno statico non senso”32, mentre per Bataille in questo modo esse “si evolvono a loro volta e, da società dinamica, passano poi progressivamente allo stato di formazione stabile e stabilizzante”33. Per questo motivo secondo Bataille è essenziale “circoscrivere il nome di «società di complotto» a quelle società segrete che si formano espressamente in vista di un’azione distinta dalla loro propria esistenza (…), che si formano per agire e non per esistere. (poiché quelle società che si sono formate per esistere, e che però agiscono, devono essere considerate come puramente e semplicemente esistenziali)”34. Se, quindi, per Bataille le società di complotto sottomettono miseramente la loro esistenza ad un’azione tendente alla conquista del potere, quelle esistenziali 28

“Come l’erotismo facilmente scivola nell’orgia, così il sacrificio, diventando un fine in sé, ambisce, al di là della limitatezza comunitaria, a un valore universale”, legittimando in tal modo “un Dio che la sostenga”. idem, 443 29 Giovanni Ferrari, op. cit., 145 30 R. Caillois, Confraternite, ordini, società segrete, Chiese. Conferenza tenuta da Bataille per via di un’assenza di Caillois, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 185. Lo stesso Bataille (lettera del 10/’36 a Leiris, in La congiura sacra, 151), confessa che “Trovo che in questa società europea così abbrutita, si è per forza obbligati a formare il progetto di uscirne, e non soltanto in maniera episodica (…) Per mio conto mai accetterò di venire incorporato in una confraternita senile di chiacchieroni e di seccatori (…) meglio crepare che diventare una delle loro illustrazioni” 31 R. Caillois, Il vento invernale, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 46 32 R. Caillois, Confraternite, ordini, società segrete, Chiese, cit., 189 33 idem, 190 34 idem, 191

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affermano unicamente la loro esistenza: “Mi piace contrapporre nettamente il principio della comunità elettiva al tempo stesso a quello della comunità tradizionale alla quale appartengo di fatto ma da cui mi preme dissociarmi, e, altrettanto nettamente, ai principi di individualismo che sfociano nell’atomizzazione democratica”35. Dalla società, dall’essere-in-comune, del resto, all’essere umano non è mai dato di uscire; ciò che è in suo potere decidere non è altro che il fine cui essa debba tendere o l’assenza di fine come unico fine (che non è più un fine in quanto manca di una progettualità per coglierlo: è l’immediato, l’amor fati nietszcheano36). Il mondo intero è impegnato a produrre beni in vista dell’avvenire, ad imporsi dei compiti da assolvere. In questo contesto la società segreta “costitui[sce]re l’unica negazione radicale e operante, l’unica negazione (che non sia fatta di sole parole) di quel principio della necessità in nome del quale l’insieme degli uomini attuali collabora alla rovina dell’esistenza. (…) [E unica negazione alle] organizzazioni politiche che sfruttano la naturale inclinazione all’esplosione e alla violenza tutto sommato unicamente per arrivare a una qualsiasi brutale negazione di siffatta tendenza (…), fondando e ingrandendo il dominio della necessità”37. Con l’esperienza della società segreta di “Acéphale”, contemporanea a quella del “Collège”, Bataille si ripropone proprio di esperire una comunità di questo tipo. A tal proposito G. Duthuit, in una lettera del ‘43 indirizzata a Breton, ricorda che a quel tempo Bataille “Sentiva (…) la necessità di formare un gruppo di uomini saldamente uniti e di dotare tale gruppo di una struttura solida, capace di tener testa alle conventicole che i funzionari del risparmio e del calcolo costituiscono e sostengono contro gli uomini”38. Ma in che cosa potrebbe consistere questa solidità, questo elemento capace di tenere gli uomini saldamente uniti, se non in un vincolo sacro? Non approfondirò ora il fatto che opporsi ad ogni formazione politica, implicando la negazione del valore di verità del loro fondamento comune (individualismo e contrattualismo), implica a mio avviso una negazione della politica tout-court (considerata “impropria” per esprimere un uomo integro: a-contrattuale), e quindi una nuova contrapposizione politico/apolitico (non più di una destra contrapposta ad una sinistra quanto di una destra ed una sinistra assieme, entrambe omogenee, contrapposte ad un eterogeneo incessantemente inassimilabile). Mi preme invece ribadire che queste comunità, elettive o di cuore (in contrapposizione a quelle di sangue, razza, patria), ed esistenziali (in contrapposizione a quelle di complotto) si devono fondare su una credenza comune – che provochi la stessa passione che suscita la vista dell’amata – e su rituali attraverso cui rigenerarsi. “Una comunità che non realizzi il possesso rituale dei propri miti – infatti – non detiene più che una verità in declino: giacché è viva nella misura in cui la sua volontà di essere anima l’insieme delle combinazioni mitiche che ne rappresentano l’intima coscienza. Un mito non può dunque essere assimilato ai 35

G. Bataille-R. Caillois, La sociologia sacra e i rapporti tra «società»,«organismo», «essere», cit., 102 Franco Rella, nella prefazione a La parte maledetta, XXVIII, scrive che “Bataille ha capito la «saggezza» di Nietszche, quando questi affermava che «se un giorno non riesci a sopportare la vita, devi cercare di amarla», in quanto «il difensore della vita» è costretto «a difendere anche la sofferenza»”. 37 R. Caillois, Confraternite, ordini, società segrete, Chiese, cit., 192 38 Lettera pubblicata in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 426. 36

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frammenti sparsi di un insieme dissociato. Esso è solidale con l’esistenza totale di cui è l’espressione sensibile”39.

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G. Bataille, L’apprendista stregone, cit., 29

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2.4.5: LA SOCIETÀ SEGRETA: UN ABISSO TRA AZIONE ED A-POLITICITÀ L’istituzione della società segreta di “Acéphale” può essere fatta risalire al documento di “Costituzione del giornale interno”1, nel quale viene affermato: “Siamo decisi ad affermarci come esistenza e non come funzione di una determinata impresa”. In questo documento Bataille data in incontro del 15 aprile ‘352 le radici della società segreta, passata poi attraverso l’esperienza di “Contreattaques” nella quale “rinunciarono al carattere apolitico delle loro intenzioni e ammisero che un tentativo d’azione poteva avere un senso”3. Il documento continua stabilendo come, “Negli ultimi tempi dell’esistenza di «Contre-attaques» si era manifestata una tendenza a organizzare non più un partito politico o una formazione paramilitare, ma un «ordine» analogo a certe società segrete”4. Non è il caso di entrare nel merito delle presunte cerimonie o rituali iniziatici5; quello che invece è determinante capire è quale sia stata la reale motivazione che portò all’instaurazione di un rapporto comunitario di questo tipo (e soprattutto di che tipo di rapporto si tratti, a cosa tenda, come si manifesti). Esso espresse senza dubbio la volontà di dare vita a quella comunità “di cuore” trattata sull’omonima rivista e studiata nella sua genesi dal “Collège”, nonché la volontà di dare continuità, pur su campi nettamente distinti, all’esperienza di “Contre-attaques”; ma questa semplice constatazione implica già un paradosso: come conciliare la volontà di passare all’azione pur ribadendo la propria a-politicità? Se ogni politica si manifesta in un’azione, e se essa presuppone un progetto, una comunità che si definisca apolitica non dovrebbe essere una comunità a-progettuale, inoperosa? Bataille pensa di no: l’a-progettualità, unitamente al riconoscimento del bisogno di dispendio come di un aspetto ineliminabile dell’essere-umanamente, non implica inoperosità; rimane la possibilità di un’azione senza scopo, impulsiva, ma comunque reale ed efficace. Ma in questo caso di che tipo di azione si deve parlare? Di che apoliticità? Di questo paradosso era consapevole lo stesso Bataille, tanto che nel documento succitato confessa che in un primo tempo, “abbandonando le abitudini dei gruppi politici apparve impossibile superare la forma di un «gruppo di studi»”6. Eppure Bataille insiste sulla non inconciliabilità della compresenza di questi due termini7, affermando che: “Rompendo con coloro che rifiutano la lotta e con quanti l’accettano nei ranghi dei partiti che esigono da loro l’abdicazione, noi rivendichiamo, e manterremo con tutta l’aggressività che esso richiede, il potere di opposizione violenta a tutte le potenze che vivono della diminuzione dell’uo-

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G. Bataille, Costituzione del giornale interno, in G. Bataille, Contre-attaques, 232-240 L’incontro il cui tema era “Che fare, davanti al fascismo, data l’insufficienza del comunismo”. 3 G. Bataille, Costituzione del giornale interno, cit., 233 4 idem, 234 5 Le diverse versioni sono peraltro piuttosto controverse: da chi sostiene che tutto si risolvesse in semplici pratiche di meditazione, a chi sostiene che ci fossero veri e propri rituali iniziatici. Si veda a tal proposito G. Bataille, Contre-attaques, 242-245. Mi limito in questa sede a ricordare, per affinità personale e perché espressione della politicità antifascista di “Acéphale”, il divieto di stringere la mano agli antisemiti. 6 G. Bataille, Costituzione del giornale interno, cit., 235 7 Apoliticità non è qui non-politicità, ma politicità espressa tramite azioni altre (estranee al linguaggio politico classico basato su simmetrie oppositive: amico-nemico, ordine-conflitto): appunto le azioni che una comunità, per quanto unicamente esistenziale, non solo può ma è necessario che svolga. 2

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mo”8, nonché “La nostra aggressività porta[no] a compimento la figura armata con cui ci opporremo nella notte che incombe alle forze antagoniste di qualsiasi natura che convergono nella loro volontà di avvilire l’uomo”9. Così, a mio avviso, l’esperienza di “Acéphale” risulta essere un ulteriore tentativo di azione: non più rivoluzionaria, certo, ma di ribellione pura – “La sovranità è la rivolta e non l’esercizio del potere”10 – quindi espressione di un’apoliticità che, come Esposito ammette, non è altro che un “fare politica esattamente contrapponendosi ad essa”11. Caillois sembra avallare l’ipotesi secondo cui Bataille si pone ancora sul piano dell’azione: “Alcuni di noi, – dice infatti – animati da fervore, (…) Erano impazienti di agire per conto proprio. Le nostre ricerche li avevano persuasi che non esiste ostacolo che la volontà e la fede non possano superare, purché il patto iniziale di alleanza si riveli davvero indissolubile. Nell’esaltazione del momento, solo un sacrificio umano sembrava capace di legare le energie con la profondità necessaria. (…) Fu più facile trovare una vittima volontaria [Bataille] che un sacrificatore disponibile”12. Certo, la “progettualità” è rigettata da Bataille in quanto soggetta al principio dell’utile, servile; eppure io penso sia essenziale “sapere esattamente quale azione bisogna intraprendere, e ancor più esattamente, se si tratta di intraprendere o no un’azione”13. A condurre “Acéphale” alla sua estinzione sarà, non a caso, un dissenso relativo al modo di intendere e adoperare la potenza liberata dal mito comunitario: se ogni organismo (ivi compreso quello composto, sociale) accumula più energia di quanta gli serva per sopravvivere, la differenza fra le varie istanze sociali sta nel modo di dispendio di questo surplus; e se è vero che nelle società democratiche esso è negato, rimosso, e perciò riesplode in maniera catastrofica, sostenere che la comunità di “Acéphale” esprima una svolta essenzialmente mistica, significherebbe una nuova negazione14. Bataille infatti non nega né l’esistenza di un surplus di energia né il bisogno di sprecarlo attraverso un dispendio che esprima la violenza, ma i congiurati, al contrario, istituendo un parallelo fra “esistenza per-sé” ed “inazione”, rigettano i suoi appelli alla lotta di contrapposizione all’omogeneizzazione affermando che: “Se si vuole agire(…), si è indotti, per nutrire e alimentare l’avidità, a definire i mezzi d’azione. Dall’opposizione si passa all’imposizione. Le energie accumulate attraverso tale avidità naturale non saranno spese e prodigate inutilmente; esse serviranno ad imporsi (…) secondo il principio della necessità servile (…). La volontà di potenza affermata tragicamente è una volontà di perdita, affermata praticamente, una dominazione, la creazione di un potere (…) I mezzi che propone, non mi 8

G. Bataille, seconda parte dell’ordine del giorno del settembre 1938, in G. Bataille, Contre-attaques, 276. Grassetto mio 9 G. Bataille, ordine del giorno del settembre 1938, cit., 272 10 G. Bataille, Metodo di meditazione, 78 11 R. Esposito, Categorie dell’impolitico, XIII. Si tratta cioè ancora di un progetto di azione e ogni azione è politica; il prefisso “a” precedente al termine “politico”, starebbe a significare un mutamento delle armi utilizzate – la conoscenza – e del luogo di questa lotta – le sue origini sacre. 12 R. Caillois, L’esprit des sectes, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 494. Che una fede possa dare la forza di superare gli ostacoli è alla base dell’esperienza di Acéphale. Sulla richiesta di Bataille di essere sacrificato per favorire la coesione comunitaria, si veda Waldberg in G. Bataille, Contre-attaques, 312n. 13 Lettera di J. Rollin a Bataille, in G. Bataille, Contre-attaques, 3oo 14 È l’interpretazione secondo cui “Acéphale” esprimerebbe questa svolta mistica, sostenuta indistintamente da R. Esposito e M. Galletti, che intendo criticare.

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sembrano efficaci per evitare l’impostura e l’illusione che, a me pare, abbiamo sempre combattute”15. È chiaro che qui per “impostura e illusione” non possiamo che intendere: “Tutte le imprese (…) e tutti i programmi attuali, siano essi rivoluzionari, democratici o nazionali, come opera di bugiardi (…) parolai che promettono la felicità”16. Nell’ottobre 1938, all’incirca un anno prima della disfatta di “Acéphale”, Bataille rimprovera i congiurati per questa ritrosia ad usare dei “mezzi”, esprimendosi in questi termini: “Se esistesse in noi quella sorta di fede che dà coscienza di un potere da esercitare, neppure i mezzi più sgradevoli, neppure i mezzi sbagliati farebbero esitare e potrebbero essere accettati con gioia (…). Non si tratta di sapere se tale metodo sia o no difettoso – sulla questione dei mezzi, se è inammissibile sottrarvisi, è necessario parlare – ma io mi dissocio totalmente dall’inerzia (…). Se portiamo in noi il potere che vogliamo esercitare (…) come possiamo sopportare l’umiliazione, la piaga che risulta dai possibili confronti con coloro che si sono messi al servizio di Dio o di una Germania?”17. Bataille afferma qui che ognuno diverrebbe cosciente di un potere che, essendo potenzialmente in ognuno, ne è costitutivo, come Esposito ribadisce nel suo “Categorie dell’impolitico”: “il soggetto è già costitutivamente potere”18. Ma per Bataille questo potere è il potere di perdere: “Allorquando [la ricchezza] fu acquisizione di un potere, tale potere era il potere di perdere”19. Nella società borghese capitalista tale potere risulta essere sul punto di scomparire per via dell’economia ristretta finalizzata all’accumulo in vista del futuro: si tratta quindi di un potere sì costitutivo, ma rimosso e riconducibile alla coscienza solo attraverso la liberazione da ogni servilismo: “è tanto contraddittorio parlare quanto ricercare questi momenti [sovrani]. Nel momento in cui cerchiamo qualcosa (…) non viviamo sovranamente, subordiniamo il momento presente a un momento futuro (…). Raggiungeremo, forse alla fine dei nostri sforzi, il momento sovrano: è infatti possibile che uno sforzo sia necessario, ma fra il tempo dello sforzo e il tempo sovrano si ha necessariamente una cesura, e si potrebbe anche dire un abisso”20. Bataille, quindi, si dissocia totalmente dall’inerzia e si pone, con “Acéphale”, in questo abisso, in questa frattura tra il tempo dello sforzo (servile ma necessario) e quello sovrano. Votarsi alla propria sovranità, “affermarsi come esistenza”, non significa rimanere in una contemplazione inerte di sé, ma agire violentemente (senza catene) per affermare immediatamente la propria sovranità; la volontà di potenza, evocata a più riprese da Bataille, non è creazione di un nuovo potere ma ritorno alla capacità di disporre liberamente (sovranamente) delle proprie energie, del 15

Lettera di J. Rollin a Bataille, cit., 301-302. L’anno successivo, ponendo termine alla società segreta, Bataille rimprovererà ai congiurati che “Una concordanza così grande all’interno di un gruppo contro colui che di quel gruppo è all’origine deve essere rara”. In G. Bataille, Contre-attaques, 313 16 Seconda parte dell’ordine del giorno di “Acéphale” del settembre 1938, in Contre-attaques, 273 (grassetto mio). E’ importante porre l’accento sulla precisazione: attuali! Per Bataille i programmi “attuali” sono opera di bugiardi, non ogni programma; specie se unico loro scopo è distruggere la possibilità di fare qualsiasi programma, cioè il niente/rien. 17 Nota di Bataille ai membri di Acéphale, in G. Bataille, Contre-attaques, 287 (grassetto mio). 18 R. Esposito, “Categorie dell’impolitico”, 20 19 G. Bataille, Il limite dell’utile, 51 20 G. Bataille, L’insegnamento della morte, in G. Bataille, Conferenze sul non-sapere, 27(grassetto mio)

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potere di perderle: la volontà di potenza si tradisce, l’ho già evidenziato, come volontà di chance. Per istituire una comunità è indispensabile, oltre ad un vincolo sacro in-comune, che essa sia libera di esistere, ovvero che non sia limitata da vincoli esterni (e ciò presuppone una generalizzazione dei principi in essa sovrani, ovvero della diminuzione dell’individualità in ogni soggetto, l’apertura di ognuno alla comunicazione profonda attraverso la formulazione di un disegno antropologico non più discontinuo); fine ultimo è recuperare un “accordo” con il proprio movimento intimo (cioè, à la mesure de l’univers, un dispendio pari a quello delle stelle), ma a questo fine “Un dispendio è facilitato da una soddisfazione simultanea dell’avidità”21. Bataille fa risalire all’identità del nemico la continuità tra “Contre-attaques” e “Acéphale”: “Il mostro tricefalo”. Differenza fondamentale tra le due esperienze è la forma che assumono nella lotta contro esso: politica la prima, la seconda apolitica/religiosa. Ciò che cambia sono le armi utilizzate: “Il mostro sul quale noi dobbiamo trionfare ha tre teste, tre teste nemiche, cristianesimo, socialismo e fascismo (…). Le armi (…) di tale mostro (…) sono (…) conoscenza, giudizio netto e propaganda (…). tutto ciò che è aumento di conoscenza entra dunque per noi nell’organizzazione del combattimento (…). Noi possiamo lottare soltanto come infezione, ciò vuol dire che dobbiamo affrontare il combattimento sul terreno in cui già si trova il mostro”22. “Contre-attaques” si riproponeva di abbattere il potere “tricefalo” attraverso un’azione rivoluzionaria, paramilitare, ma ha registrato un sonoro fallimento. La lotta allora si deve configurare come “infezione”, attraverso l’indebolimento delle armi proprie di ogni autoritarismo: “Noi mettiamo la lucidità, il dominio di sé, l’ostinazione oscura, la scienza precisa e rigorosa che prevede, al servizio di questa forza”23. Monnerot chiarisce il senso di questa politicità dell’apolitica in chiusura alla sua inchiesta sui direttori di coscienza, affermando che l’epoca nella quale essi si muovono impone un compito “intellettuale, certo, ma alla lettera anche militare, antipolitico, cioè politico, religioso nel vero senso della parola”24; politico nel senso, cioè, che Kierkegaard aveva esplicitato affermando che “Quanto aveva parvenza di politico e vagheggiava di essere politico, si smaschererà un giorno come movimento religioso”25. Logico è che la lotta contro il mostro tricefalo è ciò cui è inammissibile sottrarsi nella misura in cui fin quando ci sarà una forma di asservimento non sarà possibile affermare o mantenere la propria esistenza: “Obbligheremo a riconoscere nell’avidità – nel fatto che ogni forza si accresce o si mantiene solo distruggendo e assorbendo tutto quel che può dalle altre forze 21

G. Bataille, Il limite dell’utile, 103 G. Bataille, Il mostro tricefalo, in Contre-attaques, 294. Grassetto mio. 23 G. Bataille, Seconda parte dell’ordine del giorno di “Acéphale” del settembre ’38, cit., 274 (grassetto mio). Sotto questo aspetto il “Collège de sociologie” si configura come “L’ARMA” tramite la quale combattere la propria battaglia. Oltretutto un arma che, per le sue caratteristiche, si avvicina molto a quell’eterologia che Bataille aveva paventato come necessaria per combattere la scienza ufficiale (cioè lo strumento di legittimazione dell’oggettivazione operata dall’ideologia borghese). Approfondirò questo aspetto nel prossimo capitolo, per ora constato che anche questo fatto testimonia a favore di una continuità nello svolgimento del pensiero politico (che, sulla falsariga della definizione di “Ipercristianesimo” che Bataille aveva coniato per il suo modo di intendere il sacro, potrei chiamare “Iperpolitica”) di Bataille nell’arco degli anni trenta, e invalida ogni ipotesi di cesura mistica operata da “Acéphale”. 24 J. Monnerot, Inchiesta sui direttori di coscienza, cit., 86 25 S. Kierkegaard, citato in G. Bataille, Contre-attaques, 226 22

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incontrate – la legge di ogni esistenza terrena (…), [così] taglieremo la parola agli evirati e agli ipocriti”26. Affermarsi come esistenza significa lottare per assorbire le esistenze contigue. Un’esistenza affermata è difatti un’esistenza non asservita; è la libertà stessa, inconiugabile con qualsiasi forma di asservimento: “Noi rompiamo con tutti i servilismi: comporremo una forza autonoma unendo tutti coloro che vogliono un destino umano (…). Non è più (…) un Dio, un partito o una patria: è l’UOMO che parla: donde l’intransigenza con la quale siamo pronti a conservare tragicamente l’autonomia di questa forza di fronte a tutte quelle potenze che vogliono sottomettere la vita umana al principio della necessità servile”27. Attraverso questa citazione si rende evidente come per Bataille esistere, giungere alla libertà (all’uomo), corrisponda a combattere ogni forma di asservimento che altrimenti rischierebbe di limitarci: “Solo quando l’umanità intera avrà cessato di opprimere, quando in nessun luogo ci sarà più un uomo-merce da vendere, potremo anche noi sfuggire alla riduzione. Fino a quel giorno, al livello della cosa disponibile, al livello dell’umanità avvilita, dobbiamo contribuire con disciplina a un immenso lavoro di liberazione”28. Il quadro si fa ora più chiaro: combattere ogni servilismo (dio, partito, patria, ragione) è inevitabile non in nome di uno scopo teleologico, bensì dell’uomo, dove per uomo si deve intendere l’uomo completo, integro, non mutilato di nessuna sua parte né votato alla trascendenza. Perciò quando Imre Kelemen comunica a Bataille che a suo avviso piuttosto che votarsi all’azione (al lavoro profano) la comunità dovrebbe tornare a rivendicare la sua esistenza (cioè porsi nel tempo sacro della festa), Bataille gli risponde: “Tu personalmente metti senza posa l’accento su tutto ciò che potrebbe ritardare [l’azione] (…), [ma] l’esperienza che noi facciamo segna crudelmente la distanza tra l’essere e l’inerzia (…); la vita può essere fatta soltanto di una contraddittoria alternanza di atti e di feste. Ciò che portiamo in noi stessi è precisamente la possibilità di mostrare che gli atti hanno per fine il loro fallimento, vale a dire la festa, ma il fallimento esige già il compimento, e non c’è festa se non di eroi, di coloro cioè che hanno trionfato prima di morire tragicamente”29. E cosa ribadisce questa lettera se non la necessità di sconfiggere ogni forma di trascendenza prima ancora di poter accedere al tempo della festa, sopprimere con l’arma di una conoscenza “eterologica” l’antropologia borghese dell’uomo economico? Riassumo quanto detto affermando che Bataille, con l’esperienza della società segreta di “Acéphale”, persegue ancora uno scopo politico di annientamento di ogni sistema di coercizione, attaccandone l’ideologia portante tramite lo sviluppo di una conoscenza “altra” capace di metterne in evidenza le contraddizioni e le mancanze. Tale conoscenza deve essere umana, basarsi cioè su un’antropologia non castrante, esprimere l’integrità dell’uomo, non escludendone nessun aspetto. La comunità esistenziale non è inerte ma tragica, si erge sulla condivisione di un segreto, una differenza inesplicabile, che coincide col suo stesso nucleo sa-

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G. Bataille, Seconda parte dell’ordine del giorno di “Acéphale” del settembre 1938, cit., 274 Idem 273-274 28 G. Bataille, La menzogna politica in G. Bataille, L’aldilà del serio, 493 (grassetto mio) 29 Lettera di G. Bataille a I. Kelemen, 2 novembre 1938, in Contre-attaques, 291-292 27

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cro30. Bataille “non faceva troppo mistero della sua intenzione di ricreare un sacro virulento e devastatore che, col suo contagio epidemico, finisse per intaccare e irretire chi ne avesse per primo seminato il germe”31; questo sacro, attraverso la rigenerazione operata nel nucleo sociale (l’identificazione affettiva coi principi del gruppo e, in questo caso, col guru-Bataille32) e attraverso le riattualizzazioni del mito operate dai riti, doveva fondare intimamente il legame comunitario così da scongiurarne quelle divergenze di vedute che avevano condotto “Contreattaques” alla disfatta: esso avrebbe dovuto fare di un ammasso di individui legati da un rifiuto, un «organismo composto» pronto a lottare per difendere il suo diritto d’esistenza, favorendo contemporaneamente uno slittamento dal campo comunemente politico a quello strettamente religioso (cioè strettamente politico): ancora una volta Bataille si pone sul terreno del suo nemico, un terreno che, ora, non stenta a condannare come una peste: quello del fascismo33. I 17 paragrafi della seconda parte dell’ordine del giorno del settembre 1938, sono una dichiarazione politica di guerra attraverso la quale Bataille vuole scatenare l’uomo, liberarlo da ogni asservimento sociale o morale: “Tutto deve essere sacrificato alla tragica grandezza che all’UOMO è possibile raggiungere (…), Ma la grandezza umana non avrebbe senso se non esigesse da colui che la ricerca un dono tragico della sua forza e della sua vita (…). I dilettanti, gli amici della tranquillità e delle fiere parole inconseguenti credono di conservare la loro virilità nell’isolamento e nella fuga. Ma la virilità appartiene soltanto a coloro che lottano”34. È, qui, ancora la ragione che parla. Certo, spinta al culmine in cui riconosce la sua insufficienza, ma non si può pensare di uscire dal suo dominio35, perciò “Acéphale” non segna una svolta mistica nell’esperienza comunitaria batailleana, ma è invece inscritta in un movimento di continuità con le esperienze di lotta precedenti36. Come visto le società postume alla morte di Dio, legittimano le proprie scelte attraverso il ricorso a principi etici razionali (umani, troppo umani), ed essi compiono la reificazione; così l’uomo all’interno di una società si viene a trovare “lacerato e consumato da un dissidio interiore tra l’essere che è intimamente e il 30

Per D. Hollier (Contr’un) le società segrete sono società i cui membri condividono un segreto, e sono perciò perseguitate dalle istituzioni democratiche che altro non sarebbero se non “Il potere della pubblicità e la pubblicità del potere”, e in quanto tali non potrebbero accettarlo. 31 R. Caillois, Approches de l’imaginaire. Citato in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 16 32 L’identificazione affettiva con uno, sulla falsariga degli amanti, deve presagire ad un’estensione di quest’identificazione agli altri per istituire una società policefala nella quale ogni singolo componente sia sovrano “La dualità o la molteplicità delle teste, tende a realizzare in uno stesso movimento il carattere acefalo dell’esistenza. Infatti il principio stesso della testa si basa su una riduzione all’unità, riduzione del mondo a Dio”. (G. Bataille, La congiura sacra,18) 33 “la politica che assorbe attualmente l’interesse affettivo [deve] in definitiva essere denunciata come una peste, che questa specie di legittimità che noi le abbiamo prestata finora non faceva che testimoniare della debolezza che ancora avevamo” (G. Bataille, Contre-attaques, 224. Già citato a pagina 70). A tal proposito ricordo l’accusa proferita da Benjamin, “Lavorate per il fascismo”, citata da Klossowsky in G. Bataille, La congiura sacra, XXVIII. 34 G.Bataille, Seconda parte dell’ordine del giorno di “Acéphale” del settembre 1938, cit., 276 35 Bataille, l’ho già detto, non nega in sé stesso la razionalità: essa lo è, ma non ne esaurisce l’essere. 36 In effetti lo stesso Bataille, in un’indagine retrospettiva (L’esperienza interiore, 143), afferma: “Mi irrito se penso al tempo di «attività» che – negli ultimi anni di pace – passai a sforzarmi di raggiungere i miei simili. (…) La comunicazione profonda richiede il silenzio”. È la guerra, a mio avviso, ad imprimere pertanto lo slittamento dall’attivismo all’indagine interiore (come premessa per l’attuazione di una comunità della comunicazione profonda, che peraltro non risulta essere meno politica di questa ).

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dover essere della società”37. Anche “Acéphale” è postuma alla morte di Dio (“Dapprima la rappresentazione di Acéphale aveva coinciso (…) solo con l’idea ancora schematica della «folla senza capo» e di un’esistenza a immagine di un universo evidentemente acefalo, dell’universo in cui Dio è morto”38), tuttavia essa nega la validità di un ricorso a principi razionali per legittimare la propria autorità. La nuova lotta non può più essere motivata eticamente39, ma dovrà essere una lotta tragica, senza scopo, a-progettuale: non è un bene maggiore contrapposto ad uno minore o falso (una superaquila) a motivare l’azione, ma il bisogno di manifestarsi integralmente attraverso l’espressione di quegli elementi negati dalla caricatura castrante dell’homo oeconomicus operata dalla borghesia. È la lotta dell’uomo, per l’uomo, che non compone un nuovo sistema e una tensione verso la felicità – “Noi non promettiamo alcuna felicità, noi parliamo di virilità. La gioia violenta che rechiamo si trova tanto nella morte quanto nel successo e nella potenza”40 – ma esprime la tragica accettazione della morte di Dio, della propria morte, della fine di ogni certezza o speranza trascendente. Questa lotta esprime unicamente l’eroicità di chi rimane in piedi davanti al baratro, di chi sente in sé l’(in)essenza del niente (rien) che è: il superuomo nietszcheano, il mito del quale “Può trasformare la realtà solo sotto la forma dell’identificazione affettiva (…). Essa esclude tanto la sovranità del padre quanto la sottomissione del figlio. Il superuomo esige l’identificazione con un modo di esistenza umana nel quale l’atteggiamento di insubordinazione o piuttosto di totale rifiuto di condizioni è anche un’accettazione esaltata della distruzione tragica”41. Questa lotta, però, rimane indicibile, in quanto “La morte di Dio rigetta innanzi tutto la maggior parte dell’esistenza umana nel non-senso, nell’assenza di un fine (…). Nel mondo in cui Dio è morto il superuomo, e lui soltanto, si offre necessariamente all’identificazione affettiva (…). L’acéphale esprime mitologicamente la sovranità votata alla distruzione, la morte di Dio, e in ciò l’identificazione con l’uomo senza testa si compone e si confonde con l’identificazione col superumano che è per intero «morte di Dio». Nella sua rivelazione l’ostinata direzione dell’avidità della vita verso la morte non appare più come un bisogno di annullamento ma come la pura avidità di essere io”42. Il superuomo/acefalo quindi non può mai porsi come capo (pur essendo soggetto di identificazione) perché rifiutando Dio (la trascendenza, la negazione della morte) e affermando il proprio diritto a morire, esso non potrà assumere in sé nessun potere che non sia quello di perdersi, “a la mesure de l’Univers”, in un dispendio illimitato: “noi dimostreremo che le energie accumulate con questa avidità naturale devono essere spese e prodigate senza risparmio. L’acquisizione non può avere altro scopo che il dispendio (…). Soltanto il sole che prodiga la sua forza, che si abbandona senza fine a una perdita di energia abbagliante, e l’uomo che perde il suo seme nell’orgasmo, chi, per sua fede, fa il tragico dono della propria vita dànno un senso all’esistenza. (…) Ciò che viene prodigato solo per la servitù a Dio, alle 37

G. Ferrari, op. cit., 121. G. Bataille, Costituzione del giornale interno, in Contre-attaques, 235 39 Diversi autori parlano di un passaggio dall’etica all’energetica, cioè alla valutazione delle modalità di utilizzo delle proprie energie vitali. 40 G. Bataille, Seconda parte dell’ordine del giorno di “Acéphale” del settembre 1938, cit., 273 41 G. Bataille, Venti proposizioni sulla morte di Dio, in G. Bataille, La Congiura sacra, 207 42 idem, 208 38

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rivoluzioni e alle patrie, noi proponiamo di darlo all’UOMO: la VIRILITÀ che non si inchina davanti a nulla è la FEDE che portiamo a coloro che hanno fermezza sufficientemente lucida per trovare una grandezza, una forza e una gioia abbagliante nel destino ineluttabilmente tragico dell’uomo”43. “Acéphale” rappresenta dunque l’esperienza di una sacralità implicita alla formazione di una comunità esistenziale, e si esplica affermando il proprio diritto all’esistenza; tale comunità, facendo perno sulla sua potenza tragica, combatte virilmente ogni forma di asservimento. “E’ pressoché fuori questione che questa potenza e questa virilità si manifestino altrimenti se non in un’attività che raggiunga a colpo sicuro gli scopi che essa si prefigge”44. Insomma: “«Acéphale» nasce (…) da uno spostamento di campo del politico che porta Bataille alla decisione di un percorso ai limiti della pratica religiosa. (…) il politico entra in una nuova dimensione, non meno politica, ma non più rappresentabile dal linguaggio della idea parlamentare”45; non nel senso di un aristocratico ripiegamento su sé stessi, ma in quello di uno spostamento del fulcro del dibattito sulla religiosità come momento fondante del politico. Penso che Bataille intenda questo nell’affermare duramente che “Se niente si potesse trovare al di là dell’attività politica, l’avidità umana incontrerebbe soltanto il vuoto. Noi siamo ferocemente religiosi, e nella misura in cui la nostra esistenza è la condanna di tutto ciò che è riconosciuto oggi, una esigenza interiore vuole che siamo anche imperiosi. Ciò che intraprendiamo è una guerra (…). E’ necessario divenire tutt’altro o cessare di essere. Il mondo al quale siamo appartenuti non propone nulla da amare fuori dall’insufficienza individuale di ciascuno (…); un mondo che non può essere amato fino a morirne – nello stesso modo in cui un uomo ama una donna – rappresenta solo l’interesse e l’obbligo al lavoro”46. Nello stesso modo in cui un uomo ama una donna… è quindi questa la comunità che si può amare “fino a morirne”? Quella suggerita dal legame passionale degli amanti ipoteticamente esteso a tutti gli uomini? E non si tratta forse di uomini che, incarnati in un’antropologia che tenga conto di ogni aspetto dell’essere-umanamente, scoprono la loro insufficienza, la loro ferita, si chinano su di essa e si dispongono, dunque, ad una comunicazione illimitata e reciproca con gli altri? Sono queste le domande cui intendo cercare di rispondere nell’ultimo capitolo.

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G. Bataille, Seconda parte dell’ordine del giorno di “Acéphale” del settembre 1938, cit., 274-276 G. Bataille, Il mostro tricefalo, cit., 295 45 G. Ferrari, op. cit., 120 46 G. Bataille, La congiura sacra, 4-5 44

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CAPITOLO 3 LA COMUNITÀ DELL’UOMO INTEGRALE 3.1: LA COMUNITÀ INTUITA L’ulteriore slittamento che il dopoguerra determina nella riflessione batailleana, si manifesta come un abbandono dell’attivismo a favore di una indagine della sfera interiore. “La Guerra mise fine alla mia «attività» e la mia vita si trovò tanto meno separata dall’oggetto della sua ricerca”1. Ciò nonostante non si tratta di una svolta mistica; Bataille lo afferma più volte, difendendosi dalle accuse di J. P. Sartre2: “Voglio (…) rigettare l’obiezione infondata che ridurrebbe il mio atteggiamento a quello del filosofo mistico. L’atto di conoscenza che metto in opera ridendo non ha nulla di arbitrario o di personale. La fantasia ne è esclusa”3. Vedremo più avanti quale sia questo atto di conoscenza; al momento è sufficiente rivelare come l’interesse primo in Bataille, nonostante (e anzi, a maggior ragione) questo ripiegamento sulla sfera interiore, rimanga l’essere, la definizione più idonea per esso in una prospettiva alternativa a quella, insufficiente, dell’uomo economico: “L’esperienza all’estremo del possibile richiede (…) una rinuncia: cessare di volere essere tutto. Quando l’ascesi, intesa nel senso comune è proprio il segno della pretesa di diventare tutto, tramite il possesso di Dio (…). Bisogna scegliere la via ardua, movimentata – quella dell’«uomo intero», non mutilato”4. Bataille considera il comunismo, forma compiuta della riduzione dell’uomo a cosa, come un male necessario, come il logico compimento di un processo storico: quello dell’essere isolato vertente su una concezione antropologica che si svolge attraverso le tesi contrattualistiche (l’uomo deve limitare un egoismo ineliminabile in lui per via del suo isolamento, attraverso la sottomissione di ogni istanza violenta) e che si compie in Hegel. Si potrebbe così pensare di trovarsi in un vicolo cieco: se l’uomo, com’è, è destinato al comunismo o al capitalismo borghese, come rilevare forme altre di convivenza? La risposta di Bataille è quella di reperire, al di là delle forme di convivenza pensabili, possibili, delle forme impossibili; impossibili cioè per l’uomo “così-com’è” nel mondo borghese. Non si può, infatti, non riscontrare un desiderio, forse ingenuo, ma reale, che spinge emotivamente, disperatamente, gli uomini a cercare altri tipi di convivenza, alternativi a quelli esistenti ed alienanti, e ad esperire forme sperimentali di comunità. Insomma, “La comunità non va più (…) pensata, teorizzata, progettata, raffigurata o modellata su un’essenza comunitaria proveniente da chissà dove, ma

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G. Bataille, L’esperienza interiore, 143 L’ormai arcinoto attacco dal titolo “Un nouveau mystique”. 3 G. Bataille, Il limite dell’utile, 170 4 G. Bataille, L’esperienza interiore, 54-55 e 57. “L’esperienza interiore [è] l’esperienza religiosa - indipendentemente dalle religioni rivelate” (G. Bataille, L’erotismo, 33) 2

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va piuttosto praticata, abitata nelle sue contraddizioni, nella sua finitezza, poiché solo la finitezza è comunitaria”5. Il valore del comunismo, secondo Bataille, sta nel fatto che, portando alle estreme conseguenze la volontà dell’uomo di liberarsi della cosa (ma facendolo riducendo senza residui l’uomo stesso a cosa), esso apre la possibilità di pensare un essere differente: porta al culmine un’economia ristretta solo per aprire il pensiero ad un’economia generale. E’ in questo modo che si può accettare, assieme a Moroncini, che “ci accade la comunità, ci accade cioè di doverla pensare, e non come un passato empirico che la società avrebbe abolito, bensì come quell’advenire, quell’oggetto del desiderio e dell’attesa, che può manifestarsi (…) solo a partire dall’orizzonte aperto dalla società”6 (di cui il comunismo è, secondo Bataille, il compimento). Ma questo bisogno di comunità, stridente all’orizzonte del compimento hegeliano della storia, apre il bisogno di ipotizzare un residuo non compreso nel sistema dialettico7. Si rende indispensabile rivedere il processo di umanizzazione dalle sue radici, di formulare, in base ai dati etnologici a disposizione, una definizione antropologica che prenda atto di elementi che la concezione classica dell’homo oeconomicus rimuoveva (la maledetta parte eterogenea)8, di abbandonare una concezione del soggetto “tutto e solo rappresentazionale-epistemico”9, di ipotizzare un uomo diverso per spiegare un diverso modo di relazionarsi che includa nel suo movimento anche quella comunicazione di cui ho più sopra parlato, e che Bataille considera ineliminabile nell’essere umano; un dato, appunto, antropologico disconosciuto. Salta evidentemente agli occhi l’insistenza con cui Bataille, in numerosi suoi scritti, fino all’ultimo “Le lacrime di eros”, senta preliminarmente il bisogno di una ricostruzione, dai primordi, del processo di umanizzazione per legittimare le tesi che vuole promuovere: un’esperienza comunitaria quale quella che Bataille prefigura rende indispensabile infatti un uomo diverso, definito da un’antropologia altra, tale che realizzi l’esistenza come un essere-in-comune. “L’essere-incomune o l’essere-con non sono affatto due delle tante modalità dell’essere, come dire, aggiunte successivamente alla comparsa del soggetto. L’essere dell’uomo non può essere dissociato dal suo essere insieme, l’esserci non è esposto casualmente all’alterità, è l’esistenza stessa dell’uomo che inizia in-comunità, cioè nella pluralità”10. E non è forse proprio questa caratteristica antropologica che Bataille intende affermare dicendo che “Io solo non sono mai l’essere, sono sempre io con i miei simili”11, oppure che “L’estremo (…) viene completamente 5

F.Ferrari, La comunità errante,136. Si veda a tal proposito anche G.Agamben, La comunità che viene. B. Moroncini, La comunità impossibile, 14-15 7 E’ quella «negatività senza impiego» che Bataille riscontra come negatività propria dell’essere della fine della storia, tale da ipotizzare un nuovo inizio. Si veda il paragrafo di questa tesi dedicato ad Hegel e la lettera che Bataille spedisce a Kojeve in G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 163 sgg. 8 “L’esistenza è comunicazione, (…) ogni rappresentazione della vita, dell’essere e, generalmente, di «qualcosa» deve essere riveduta proprio a partire da lì”. (G. Bataille, L’esperienza interiore,150) 9 F.C. Papparo, Incanto e misura, 53. Tutto il primo capitolo, intitolato “Al cuore della coscienza”, di questo scritto di Papparo è di un importanza determinante per questo paragrafo. Una prima stesura di questo capitolo era già apparsa su AA.VV., L’ineguale umanità, col titolo «Per più vedere e per più farvi amici»: su l’Esperienza interiore di G. Bataille. 10 G. Ferrari, Il limite e l’impossibile, 163 11 G. Bataille, La sovranità, 93. Ma anche “«Sé stesso» non è il soggetto che si isola dal mondo, ma un luogo di comunicazione, di fusione del soggetto e dell’oggetto” (G. Bataille, L’esperienza interiore, 37). 6

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raggiunto solo se comunicato (l’uomo è molti, la solitudine è il vuoto, la nullità, la menzogna)”12? Con le parole di Papparo: “occorre parlare ancora dell’uomo, della specie umana (…) facendo (…) fungere la figura dell’animale da prisma antropologico, rendere possibile un riposizionamento diverso della specie umana nell’arredo terrestre, non come quella specie che risolve-dissolve dalla sua epistemica posizione l’enigma del mondo bensì come quella che vi si reinscrive (ecco il senso dell’immanenza batailleana) con la consapevolezza di essere essa stessa a sé stessa parte dell’enigma. (…) «Basterebbe (…) staccarci, mediante la riflessione più esaustiva e più esatta, dalla costruzione riflessa che ci allontana da quegli uomini cui gli animali sembravano fratelli»”13. Per questo motivo L’esperienza interiore non rappresenta una deriva mistica, una chiusura su di sé, bensì un’apertura ad una ri-fondazione dell’essere che, sfuggendo alle maglie di quella culminante nel sistema contrattualista, sviluppi l’immagine, ma soprattutto faciliti l’esperienza, di un essere che può trovare la propria completezza solo nell’altro, e che quindi verso l’altro rimane teso: “Noi usiamo qui la parola mistica a proposito della «gioia davanti alla morte» (…) che non ha altro oggetto che la vita immediata. La «gioia davanti alla morte» non appartiene che a colui per il quale non c’è al di là; essa è la sola via di probità intellettuale che possa seguire la ricerca dell’estasi14. (…) Nessun termine è abbastanza chiaro per esprimere il disprezzo felice di colui che «danza con il tempo che l’uccide». (…) La «gioia davanti alla morte» (…) priva di senso tutto ciò che è al di là intellettuale o morale, sostanza, Dio, ordine immutabile o salvezza. È un’apoteosi di ciò che è perituro”15. In fondo è solo attraverso una comunicazione interiore che si manifesta la sovranità, non attraverso l’esteriorità, il riconoscimento da parte dei sudditi del proprio dominio, che non è altro che ciò che resta della sovranità all’interno dell’economia ristretta16. Parlare di esperienza interiore non esclude, perciò, il parlare della comunità, soprattutto se si considera che in Bataille il soggetto non si dà mai al di fuori di un movimento comuniale: ognuno può essere solo in società17, e la coscienza stessa non è altro che l’esito di una comunicazione: “Interiormente, che cosa sono? L’attività che unisce i numerosi elementi che mi compongono, la comunicazione continua e reciproca di essi. La vita (…) non può essere localizzata in un punto, si produce passando rapidamente da un punto all’altro. (…) Non appena voglio afferrare la mia sostanza, avverto solo uno slittamento”18. L’istituzione della società, del resto, si situa per Bataille alla base dell’umaniz12

G. Bataille, L’esperienza interiore, 89. Sul carattere ontologicamente eccedente dell’essere, e quindi sulla comunicazione come suo dato immediato, rimando a R. Ronchi, Un’ontologia dell’eccesso. 13 F.C. Papparo, L’aldilà del serio…, 14. (la frase virgolettata è una citazione di G. Bataille, All’appuntamento di Lascaux: l’uomo civilizzato si ritrova uomo del desiderio, in L’aldilà del serio… , 382) 14 per G. Agamben (Bataille e il paradosso della sovranità, 116-117) l’estasi batailleana altro non è che “l’essere-fuori-di-sé”, coincidendo in tal modo col sovrano cosciente della dualità della sua esistenza (un corpo mortale e uno immortale) e che, pur incarnando in sé la legge, se ne situa legalmente al di fuori (il sovrano è fuori-legge), cioè, estaticamente, fuori-di-sé. 15 G. Bataille, La pratica della gioia davanti alla morte, in S. Finzi, La critica dell’occhio, 294 16 B. Moroncini, La comunità impossibile, 38 17 Ne sono una riprova i tanti gruppi di studio che fondò e cui partecipò, suggellati dall’affermazione che “Non può esservi conoscenza senza una comunità di ricercatori, né esperienza interiore senza comunità di quanti la vivano” (G. Bataille, L’esperienza interore, 58) 18 G. Bataille, Il limite dell’utile, 143

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zazione (configurando così un essere-umanamente che non si distingue in nessun momento da un essere-in-comune) contemporaneamente alla comprensione della propria finitezza. E la finitezza, l’evento della morte, è proprio il fulcro della riflessione batailleana: come visto è solo a partire dal sentimento di mancanza in me stesso, cessando di essere, attraverso la consapevolezza della morte, un essere separato, che mi apro alla presenza dell’altro: “L’aldilà del mio essere è prima di tutto il nulla. Presagisce la mia assenza nella lacerazione (…). La presenza altrui si rivela attraverso questo sentimento. (…) La comunicazione avviene solo tra due esseri messi in gioco – lacerati, sospesi, chini entrambi sul loro nulla”19; ma sapendo che la morte è proprio l’impossibile (ciò che non si può in alcun caso conoscere), allora la comunicazione, e la comunità che essa fonda (vertente sul carattere comuniale, dell’essere-con, dell’esistenza umana20), sono rese possibili solo dal niente/rien, da quell’impossibile che è la morte; non quindi da un riconoscimento ma da una messa in gioco.

19

G. Bataille, Su Nietszche, 51 G. Bataille, L’esperienza interore, 58 “La comunicazione è qualcosa che non viene affatto ad aggiungersi alla realtà umana, bensì la costituisce”. 20

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3.2: UN MODO DI CONOSCENZA ALTRO Denunciare l’insufficienza della ragione, la sua menzogna mutilante l’essere, significa anche definire, parallelamente ad essa, una conoscenza altra, ad essa inassimilabile, indicibile (impossibile), eppure reale ed esperibile: “Dal momento che lo sforzo di comprensione razionale sfocia nella contraddizione, la pratica della scatologia intellettuale impone la deiezione degli elementi inassimilabili, confermando così volgarmente che uno scoppio di risa è il solo sbocco immaginabile, definitivamente terminale, e non il mezzo, della speculazione filosofica”1. Ora, non potendo una conoscenza così data rientrare nelle maglie di quella razionale, cioè del sapere, evidentemente essa si configura come non-sapere cui solo l’esperienza, in certo modo oggettiva eppur scivolante, può avere accesso: “Il non-sapere mette a nudo (…) dunque vedo ciò che il sapere nascondeva finora, ma se vedo, so”2. Bataille riscontra nel riso (e nelle altre effusioni) questo ulteriore modo di conoscenza: “Il carattere ignoto del risibile non sarebbe accidentale ma essenziale. Si ride non per una ragione che non riusciamo a conoscere per mancanza di informazione o di sufficiente penetrazione, ma perché l’ignoto fa ridere”3. Se quindi il riso (e le lacrime, perché “L’irruzione improvvisa dell’ignoto [può] avere per effetto, a seconda dei casi, il riso o le lacrime”4) esprime l’emergere di un’esperienza del non-sapere, se, propriamente, si configura come l’accesso alla dimensione dell’inconoscibile, allora esso esprime un’eccedenza che permane nonostante qualsiasi compimento del sapere linguistico/razionale: “Se rido (…) la natura delle cose si denuda, la conosco, si tradisce. È la natura delle cose che mi fa ridere. (…) [Questo] era un modo di conoscenza di cui mi impadronivo (…). Voglio (…) rigettare l’obiezione infondata che ridurrebbe il mio atteggiamento a quello del filosofo mistico. L’atto di conoscenza che metto in opera ridendo non ha nulla di arbitrario o di personale. La fantasia ne è esclusa. Io rido nelle stesse circostanze in cui ride una folla immensa: questo sentimento del risibile in cui scopro il fondo delle cose è identico in me e in ogni altro uomo”5. Chiaramente Bataille non nega, è superfluo ribadirlo, il valore della conoscenza razionale6, ma si limita a riscontrare, al di là di essa, un altro modo di cono1

G. Bataille, Il valore d’uso di D.A.F. de Sade, in S. Finzi, Critica dell’occhio, 130. Per quanto riguarda la scelta di utilizzare in questo caso, per definire questa conoscenza “altra”, il nome di scatologia, riporto la seguente nota: “[L’eterologia è la] scienza di ciò che è tutt’altro. Il termine di agiologia sarebbe forse più preciso ma bisognerebbe sottintendere il doppio senso di agios (analogo al doppio senso di sacer) tanto sporco che santo. Ma è soprattutto il termine di scatologia (scienza dei rifiuti) che conserva nelle circostanze attuali (specializzazione del sacro) un valore espressivo incontestabile, come doppione di un termine astratto quale eterologia” (G. Bataille, idem, 127n). 2 G. Bataille, L’esperienza interiore, 91 3 G. Bataille, Non-sapere, riso e lacrime, conferenza tenuta il 9 febbraio 1953, in Conferenze sul non sapere e altri saggi, 36. Per un approfondimento di questo tema si veda C. Grassi, Il non-sapere (soprattutto il cap. processi di soggettivazione e non-sapere, 101). 4 idem, 38 5 G. Bataille, Il limite dell’utile, 169-170 6 “Può anche darsi che nessuno mai più di noi sia stato fedele alla ragione, ma ciò accade proprio perché essa ha cessato di sembrarci divina. Accettiamo così come regola d’azione i principi della ragione, ma non omettiamo più che la ragione subordini a sé le passioni; anzi, è nell’asservimento delle passioni alla ragione, quando questa scatena passioni cieche per servire i suoi scopi, che vediamo il male, il quale comincia quando si è completata in noi la riduzione dell’irriducibile. (…) Chi non vede peraltro che, og-

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scenza7 e la necessità, mirabilmente ribadita da Papparo nel suo “Incanto e misura”, di trovare un punto nel quale le due modalità di conoscenza coincidano, comunichino: “L’analisi del riso mi aveva aperto un campo di coincidenze tra i dati di una conoscenza emozionale comune e rigorosa e quelli della conoscenza discorsiva. La possibilità di unire in un punto preciso due modi di conoscenza finora o estranei l’uno all’altro o grossolanamente confusi conferiva a tale ontologia la sua insperata consistenza: il moto del pensiero si perdeva intero, ma intero si ritrovava in un punto in cui ride la folla unanime”8. Ho già mostrato che la conoscenza razionale, o come la chiama Bataille “obiettiva”9, sia il metro attraverso il quale l’uomo ha pensato il reale, il mondo esterno a lui, tanto che c’è realtà possibile solo tramite essa. Riconoscere ora un modo di conoscenza senza oggetto e inassimilabile alla conoscenza “obiettiva”, significa perciò un salto nell’impossibile, infatti: “Il riso è il salto dal possibile all’impossibile (…); Ma non è che un salto: farlo durare sarebbe ridurre l’impossibile al possibile”10. Come visto si tratta di un salto, di un istante in cui la conoscenza obiettiva viene spezzata, di un salto che Derrida, come visto, considera esprimibile solo attraverso una scrittura scivolante e che Papparo considera espressione del “tempo della sorpresa o dell’istante miracoloso”11. Ma quale valore potrà mai assumere una conoscenza di questo tipo? Innanzitutto quello di esprimere uno spazio sacro esterno al linguaggio; in secondo luogo, proprio per il primo motivo, quello di denunciare l’insufficienza della conoscenza razionale e la necessità di includere nell’esperienza umana anche voci esterne ad essa. Questa conoscenza altra, infatti, pur non essendo dicibile, è non meno oggettiva dell’altra; semplicemente “Il riso non è conoscibile dall’interno. Non è possibile immaginare una fenomenologia del riso (…). L’origine del riso, a colui che la rende oggetto di riflessione, si presenta come esterna, è un dato oggettivo, nettamente separato dal risultato soggettivo”12. Ma di che tipo di oggettività si tratta? Come già visto nel paragrafo 1.1 parlando delle effusioni, non certo di un’oggettività intesa come conoscenza dell’oggetto: “La conoscenza comuniale non è, per l’esattezza, oggettiva. Come la conoscenza ragionata, la comuniale conosce una modificazione del soggetto attraverso l’oggetto, ma mentre la coscienza ragionata parte da questa modificazione per concepire l’oggetto isolatamente, la conoscenza comuniale resta conoscenza

gi, il male si dà essenzialmente nella bestialità al servizio della ragione di Stato?” (G. Bataille, Del rapporto tra il divino e il male, in L’aldilà del serio…, 55) 7 “Ridere, amare, perfino piangere di rabbia e della mia impotenza a conoscere sono mezzi di conoscenza, che non bisogna porre sul piano dell’intelletto”. (in G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 27) 8 G. Bataille, L’esperienza interiore, 26 9 “Ai due modi opposti di conoscenza conferisco i nomi di obiettiva e comuniale”. (in G. Bataille, Il limite dell’utile,. 171) 10 G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 135. Il salto è per Bataille un’uscita dal tempo (della durata), diviene quindi un accesso all’istante, unica forma di esistenza possibile dopo il compimento del sapere hegeliano: “Il salto è la vita, la resa dei conti è la morte. E se la storia si ferma io muoio. Oppure: oltre ogni resa dei conti, un nuovo genere di salto? Se la storia è finita, un salto fuori dal tempo? Esclamando per sempre: Time out of joints.”(G. Bataille, Su Nietszche, 103) 11 F.C. Papparo, Incanto e misura, 73 12 G. Bataille, Il limite dell’utile, 174

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di questa modificazione e nello stesso tempo dell’oggetto, non è possibile nessuna separazione del soggetto e dell’oggetto”13. Risulta quindi evidente che attraverso questo modo di conoscenza, essendo ad esso bandita una coscienza chiara e distinta propria di quella obiettiva, ciò che si può “(non)sapere” altro non è che la lacerazione patita dal contatto con l’altro14, l’illusorietà del proprio isolamento individuale a favore di una coscienza del proprio essere solo unitamente all’altro, non più di un “io” ma di un “noi”, di un “essere-con”: “La verità non è la dove si considerano gli uomini isolatamente: essa comincia con le conversazioni, il riso complice, l’amicizia, l’erotismo e ha luogo solo passando dall’uno all’altro”15. Questo diverso tipo di conoscenza rende sensibile, senza tuttavia poterne parlare, ciò che, eterogeneo alla conoscenza obiettiva, veniva da essa rimosso16; ma questo eterogeneo (sinistro), non è proprio ciò che, tabuizzato, configura la dimensione sacra in quanto differenza impossibile eppure presente? Essendo questi i termini, il sacro è ciò che rimane irriducibilmente inassimilabile, quindi coincide con quella parte maledetta che nell’essere viene rimossa, resa appunto inassimilabile, e ridotta a rifiuto: ovvero coincide con ogni dinamica di dépense della propria identità (attraverso l’escrezione, la morte, l’estasi…). Semplificando, si deve intendere come sacro tutto ciò che eccede l’individuo, ciò che sta al di là di esso, nel niente/rien che il suo limite evoca, come il cadavere, le feci, l’ad-venire dell’altro in un processo comunicativo, così come, in definitiva, il suo ritorno all’immanenza. Il sapere, infine, che si potrà ottenere attraverso questo modo di conoscenza, può essere solo un non-sapere, cioè una coscienza di sé come soggetto (impossibile per il soggetto del sapere che può conoscere solo oggetti), che ci può essere comunicata solo paticamente dall’altro. Questo non-sapere si configura come l’unico modo di conoscenza, da parte del soggetto del sapere, di sé; ma questa conoscenza può avvenire solo attraverso l’altro da sé, tramite una comunicazione non discorsiva. Questo essere solo se oggetto del desiderio dell’altro, definisce propriamente il desiderio umano: esso, a differenza di quello animale che si esaurisce negli oggetti raggiunti e consumati, è desiderio non della cosa ma di un altro desiderio. Mostrerò più avanti come questo desiderare il desiderio dell’altro, cioè desiderare di essere desiderato, divenga l’unica forma impossibile di accesso all’autocoscienza (non più chiara e distinta bensì vaga, “coscienza-.senza”17). Per il mo13

idem, 177 Moroncini, in La comunità impossibile (35n), descrive questa conoscenza scivolante come una conoscenza data da esperienze limite (le effusioni) non logiche né discorsive, che perciò vanno definite come patiche, che si danno al di fuori della volontà o del controllo del soggetto che le esperisce. 15 G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 62 16 Si tratta di quella che Pasi (L’Hètèrologie e Acéphale: dal fantasma al mito, 95-115) chiama “dimensione escretoria”. Per chiarire, attraverso le parole di Bataille (Il valore d’uso di D.A.F. de Sade, cit., 128)“L’eterogeneo è (…) posto risolutamente fuori della portata della conoscenza scientifica che per definizione non è applicabile che agli elementi omogenei. Prima di tutto l’eterologia si oppone a qualsiasi specie di rappresentazione omogenea del mondo, cioè a qualsiasi sistema filosofico” 17 Il concetto di “coscienza-senza”, coniato da F.C. Papparo (Incanto e misura, 58-65), rimanda ad un’interpretazione dello psichico di matrice non psicoanalitica bensì filosofica. Bataille si riferisce ad un rapporto fra coscienza e inconscio che suppone una gradualità della stessa coscienza, tanto che fra i due momenti dello psichico non c’è mai una cesura (un oggetto non è “o cosciente o inconscio”), ma comunicazione: un oggetto ignoto (un non-oggetto/rien) è sia cosciente (ma vagamente, appunto, non chiaramente/discorsivamente) che inconscio, e quella che Papparo chiama “coscienza-senza” è definibile come quel 14

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mento mi limito a riscontrare che, date le premesse, l’uomo può dirsi sovrano, ovvero liberarsi dello statuto di cosa, solo nel momento in cui diviene soggetto; ma lo può divenire solo grazie al desiderio dell’altro, che a sua volta può pervenire solo se entrambi si chinano sul proprio nulla, ovvero sulla parte di morte cui appartengono: “Il soggetto, quindi, è veramente tale solo quando, chiamato dal desiderio dell’altro, sospende il potere del discorso, risolve in nulla l’attesa. Ma ciò che dissolve l’attesa è il miracolo: l’attesa è sempre attesa del possibile, di ciò che è noto, familiare; il miracolo allora è il darsi nell’esperienza dell’impossibile [della morte]”18. Un’esperienza comunitaria non potrà che basarsi su questo modo di conoscenza altro: l’esperienza! Essa è per Bataille (sta qui a suo avviso la portata galileiana dell’intera riflessione) non più un mezzo al quale attribuire un senso in base al risultato raggiunto in relazione ad un progetto preesistente, ma essa stessa fine, unica autorità. Bataille definisce la comunità del primato dell’esperienza, mutuando da Nietszche il comandamento “sii questo oceano”, in questi termini: “Nell’esperienza non vi è più esistenza limitata. Un uomo non vi si distingue in nulla dagli altri, in lui si perde ciò che in altri è torrenziale. Il comandamento così semplice: «Sii quest’oceano», legato all’estremo fa di un uomo, allo stesso tempo, una moltitudine, un deserto. E’ un’espressione che riassume e precisa il senso di comunità. Posso rispondere al desiderio di Nietszche parlando di una comunità che non ha altro oggetto se non l’esperienza (ma designando tale comunità, parlo di «deserto»)”19. La comunità è dunque per Bataille l’estremo limite cui tende l’esperienza, e come essa sarà quindi evanescente e glissante.

grado di coscienza più prossima al rimosso, tale da poterlo esperire, intuire, ma non tale da averne indicazioni chiare e distinte (dicibili). 18 B. Moroncini, La comunità impossibile, 54 19 G. Bataille, L’esperienza interiore, 62

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3.3: AL DI LÀ DEL CONTRATTUALISMO Il contrattualismo esige individui separati, reciprocamente conflittuali: “la civiltà è composta di sistemi autonomi, opposti gli uni agli altri. [L’uomo] sa bene dov’è il male, ma non vuol vedere che la civiltà che egli «oppone» alla ferocia delle guerre è questa civiltà non deformata da alcuna fantasia idealista, la quale, fatta di entità in sé contraddittorie, è essa stessa causa delle guerre. (…) Egli difende sistemi umani fondati sulla preoccupazione del domani, sull’angoscia delle sventure che potrebbero accadere e, di conseguenza,(…) tra gli orrori della guerra e la rinuncia a qualcuna delle attività con cui una società crede di dover assicurare il proprio futuro, la società sceglie la guerra”1. Al di là della società “civile” Bataille enumera dei momenti di rottura nei quali l’isolamento tra individui, e di conseguenza la loro reciproca conflittualità, viene meno: sono le effusioni, nelle quali un flusso comunicativo a-discorsivo passa, scivola, fra gli esseri che ne vengono contagiati. La contingenza di questi “momenti”, a suo avviso, testimonia di una recettività reciproca che non può essere spiegata da quell’isolamento individuale ma reclama una ri-definizione dell’essere: non più un microcosmo chiuso in sé ma un essere ferito, aperto all’altro, in cerca di un completamento che può solo “advenirgli”2 dal di fuori. Questi momenti privilegiati che testimoniano di una differente disposizione verso l’altro sono il riso, le lacrime, lo sbadiglio… ma in modo particolare l’erotismo, il sacrificio, cioè ogni dimensione dell’esperienza che implica una perdita di sé e del proprio isolamento3. In questi momenti privilegiati gli esseri coinvolti subiscono una sospensione temporanea, nell’istante in cui avviene, della propria separazione: sperimentano una fusione con l’altro: “Il riso è un’esperienza in cui i soggetti entrano in comunicazione fra loro, e si potrebbe dire, formano una comunità”4. Nonostante quanto detto precedentemente, e cioè che questi momenti non sono che un salto dal possibile all’impossibile, che non hanno né possono avere durata, essi non esprimono (come erroneamente pensò Hegel non includendo il periodo di crisi che “patì” nel suo sistema), un accidente, quanto invece un momento ineliminabile, per quanto oscuro, dall’esistenza umana stessa: la sua differenza. L’erotismo è, forse, la manifestazione più evidente di questo bisogno di perdersi; nella passione erotica due esseri si volgono violentemente, irrazionalmente ed illogicamente, alla ricerca dell’altro con il solo desiderio di fondersi con esso, cancellare ogni separazione reciproca. “La riproduzione (…) degli uomini si divide in due fasi ciascuna delle quali presenta [degli] aspetti di eccedenza, di lacerazione e di perdita di sostanza. Nella prima fase i due esseri comunicano attraverso le loro lacerazioni nascoste. (…) Ma non comunicano se non perdendo una parte di sé stessi. La comunicazione li unisce attraverso ferite in cui la loro unità e integrità si dissipano nella febbre”5. Questa unione/fusione è possibile solo se i due esseri implicati non godono di una completezza ontologica, ed è proprio questo il punto: l’uomo non è completo, la morte stessa lo rivela, essa è “l’impossibile attraverso il quale l’altro mi 1

G. Bataille, Sui racconti degli abitanti di Hiroscima, in L’aldilà del serio…, 471-72 Termine coniato e spesso utilizzato da F. C. Papparo nel suo Incanto e misura. 3 Perdita dell’individualità, dell’isolamento, che prima ho definito sacra. 4 B. Moroncini, La comunità impossibile, 34 5 G. Bataille, Il collegio di sociologia, 440 2

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accade”6. La mortalità dell’essere umano testimonia della sua ferita; esserne coscienti significa recepire una propria mancanza costituzionale unitamente alla tensione verso la sua soppressione attraverso la comunicazione con/nell’altro. E’ in questo contesto, per questi motivi, che il tema della morte e dell’erotismo assumono una sempre maggiore importanza nell’indagine batailleana, e siccome la morte è l’inconoscibile per eccellenza, lo spettacolo del sacrificio diviene indispensabile per istituire una condivisione/partage emotiva dell’evento della morte, in quanto esperita da un altro simile a me. Tramite esso divengo, con un espediente, cosciente della mia mortalità, della mia mancanza; mi apro di conseguenza alla mia ferita, chino su di essa, teso verso l’altro. Questo essere tragico, votato alla morte, legato all’altro da un continuum di immanenza, è un essere che, lungi dal pretendere il proprio isolamento, risponde ad uno statuto antropologico differente (o della differenza7), che è quello di un essere che non è mai dato “come il ciottolo nel fiume, ma come il flusso nelle acque”; un essere mai fisso, senza sostanza, ma presente e vivo solo nell’atto della comunicazione con l’altro da sé.

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B. Moroncini, La comunità impossibile, 27 Per Bataille il nucleo sacro di una comunità è una differenza non esplicabile che, nonostante ciò, crea attrazione e repulsione al suo interno. Si veda a tal proposito F. Ferrari, op. cit., 129 7

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3.4: L’ESSERE COMPOSTO Secondo la sociologia francese la società non è un ammasso di individui ma un “fatto sociale totale”. Bataille accetta questa definizione solo se si concepisce quel “fatto sociale totale” come un “essere composto”, ed è a suo avviso solo a livello di questo “essere composto” che si sviluppa la coscienza. Così la coscienza non è mai individuale ma sempre dell’essere-con: “la coscienza (…) appare come moltiplicazione di ogni riflessione, questo gioco di specchi, passa da un punto all’altro, da un uomo all’altro. (…) in questo gioco non si coglie mai un punto fermo: c’è sempre movimento, attività, passaggio. L’essere, quale l’uomo l’ha definito ritenendosi tale, non è mai presente come il ciottolo nel fiume, ma come il flusso nelle acque. (…) Si può dunque parlare di essere solo se è assicurata nel tempo una sussistenza, come nel caso di una formazione sociale che riunisce numerosi individui (pressappoco come l’animale riunisce numerose cellule)”.1 In questo modo Bataille delinea un essere per cui non è possibile alcuna coscienza di sé se non in un contesto e tramite una conoscenza, appunto, che rifiuti l’oggetto: “Si tratta di arrivare al momento in cui la coscienza cesserà di essere coscienza di qualche cosa. In altre parole, prendere coscienza del senso decisivo di un istante in cui la crescita (l’acquisizione di qualche cosa) si risolverà in dispendio, è esattamente la coscienza di sé, cioè una coscienza che non ha più nulla per oggetto”2. La finitezza umana (l’io-che-muore) è l’in-comune in ogni essere (ciò che può fondare la comunità3), ed è questo il senso profondo del movimento di dépense: l’uomo, diventato attraverso il lavoro una cosa, si libera di essa, e in tal modo ritorna alla comunicazione con l’altro che sta a fondamento dell’essere comuniale, solo nel momento in cui risolve l’accumulo delle energie di cui sussiste in un dono di sé all’altro: “Rovinando in me stesso, negli altri, l’integrità dell’essere, mi apro alla comunione, posso giungere al culmine morale”4. Ma perché la comunità si dia non è sufficiente tenersi all’altezza della morte, perché “per il soggetto sarà sempre possibile farne uso, piegare la morte all’ordine del senso, renderla operosa”5; per questo il solo modo per evitare che il soggetto possa affidare anche alla negatività una sua finalità (il lavoro della negatività, ovvero il passaggio da opera di distruzione a mezzo di produzione: del mondo umano), è quello di limitare il soggetto, sé stesso, facendo dono della propria morte, verificandone l’inconsistenza: “si tratta (…) di accedere al carattere

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G. Bataille, Il limite dell’utile, 136. F.C. Papparo, in Una traccia lasciata su un vetro rigato, 251, scrive che in Bataille l’essere è “mobile e glissant”, “incardinato sul flusso comuniale che lega gli esseri fra di loro con cose da nulla: il riso, le lacrime, la gioia estatica, il fumo, ecc.”. 2 G. Bataille, La parte maledetta, 182 3 “ciò che crea comunità, è appunto la morte” (R. Esposito, Categorie dell’impolitico, 301). C. Grassi (Il non-sapere, 158-159), citando F. Crespi (Multiculturalismo e democrazia, Donzelli, Roma 1996) e N. Luhmann (Osservazioni sul moderno, Armando, Roma 1995), osserva che nell’epoca contemporanea, contraddistinta dalla caduta di ogni punto di vista unanimemente condiviso (ad esempio quello religioso), a fondare la base della solidarietà non potrebbe che essere un non-sapere condiviso in alcune categorie comuni quali l’angoscia, la gioia, l’insicurezza, il desiderio, la consapevolezza della morte… 4 G. Bataille, Su Nietszche, 55 5 B. Moroncini,op. cit., 70

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espropriante del morire, al fatto cioè che la morte è ciò che esteriorizza il soggetto senza che questi possa tornare a sé”6. Non c’è soggetto se non in una comunità, ovvero la comunità è l’unico soggetto; ma un soggetto dileguante, mai presente, mai fisso bensì sempre in movimento, in quanto tale impossibile… eppure è lì: sacro. Si tratta di una soppressione della dicotomia soggetto-oggetto (della discontinuità) attraverso una dinamica nella quale “L’esperienza raggiunge infine la fusione dell’oggetto e del soggetto, essendo quale soggetto non-sapere, quale oggetto l’ignoto”7. Bataille chiama “Menzogna politica” il complesso di conoscenze antropologiche che servono da substrato all’individualismo, funzionali all’ideologia borghese e al contrattualismo. Attraverso questa menzogna, nell’economia borghese, “Tutto mi diceva cha a contare ero solo io. Ma la morte mi avverte che è una menzogna: infatti io non conto nulla, solo il mondo conta. Io conto quando sono in questo mondo non come un estraneo che si isola e si chiude (…). Mi accorgo allora che se devo vivere, è solo a questa condizione tragica: perdendo questa vita, che mi appartiene, mi do a ciò che mi ignora, a ciò che è soltanto fuori di me”8.

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ibidem. Inoltre “Tutto fa supporre che gli uomini dei tempi primitivi siano stati uniti da un disgusto e un terrore comune, da un orrore insormontabile avente per oggetto proprio ciò che originariamente era stato il centro di attrazione della loro unione”, in G. Bataille, Il collegio di sociologia, 130. 7 G. Bataille, L’esperienza interiore, 37. 8 G. Bataille, Il limite dell’utile, 141

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3.5: L’UOMO INTEGRO (O DEL MALE) Ciò che l’uomo espelle dalla propria concezione antropologica è il male, divenuto peccato nelle religioni rivelate: “L’equivoco che può infatti far battezzare il culmine con il ‘male’, e il bene con il ‘declino’, è l’identificazione ontoteologica del bene con l’essere (con la conservazione dell’essere) e del male con il non essere. Se l’essere è concepito come substantia, se il bene è l’essere al massimo grado, (…) allora la dépense è male”1. Volgersi alla completezza dell’essere significa rivederne l’ontologia alla luce di un’annessione alla sua definizione di questo rimosso, riconoscere la partecipazione dell’uomo al male (o del male nell’uomo). Ciò non significa, ovviamente, che Bataille voglia “il male”, ma semplicemente che ritiene indispensabile ascrivere anch’esso (“Il vero è l’intero”) alle fondamenta dell’essere-umanamente: “Bataille, come Nietszche, non vuole lo scatenamento bruto delle forze, aspira a dominare il male ma solo a condizione che il male sia stato smascherato come intrinsecamente legato all’esperienza dell’uomo, sia stato visto come il fondo nascosto da cui sorge il bene. Il male (ed è ovvio che questo termine non va compreso secondo i dettami della vulgata cristiana o della morale utilitarista) è in noi e finché non lo riconosceremo saremo gettati in uno stato frustrante di non comprensione del fenomeno umano”2. Questo male è la violenza che anima intimamente l’essere, la sua negatività. L’ideologia borghese rimuove il male dalla società attraverso il contratto, relegandolo allo stadio dello “stato di natura”, ma attraverso questa rimozione, l’individuo soggetto al contratto si vota al tempo profano del lavoro rinunciando all’immediatezza della sua parte sacra/violenta. Bataille, diversamente, non vuole certo un ritorno allo “stato di natura”: “Non meno di altri – dice – aspiro al dominio di ciò che è mostruoso, a patto però che vi sia dominio, non di una realtà estranea, ma di quanto viene propriamente riconosciuto come sé stesso e liberato nelle feste”3. Lo slittamento del dopoguerra conduce Bataille, come detto, da un’indagine e una pratica svolte essenzialmente a livello sociale, ad una, invece, a livello intimo4; si tratta di ritrovare in sé stessi le fondamenta del vivere in comune prima ancora di riconoscerle o volerle imporre tramite una lotta; di consacrare l’uomo alla sua completezza ontologica, trascendendone la frammentarietà5. Se, quindi, gli scopi sono gli stessi, si ha uno slittamento solo metodologico: prima della guerra credette ancora possibile imporre con la forza un diverso statuto antropologico (denudando con la lotta l’insufficienza della tesi contrattualista borghese, e promuovendo una forma di convivenza altra); dopo, memore delle sconfitte conseguite, si convinse dell’esigenza di una ricerca interiore attraverso la quale giungere intimamente alla stessa coscienza: la comunità “non è formata da una serie di soggetti, ma dalla loro esposizione alla perdita della soggettività. Ciò 1

R. Ronchi, Un’ontologia dell’eccesso, 94 F. Ferrari, op. cit., 117 3 G. Bataille, Lettera a Caillos pubblicata in Il collegio di sociologia, 461 4 Se “Acéphale” era l’abisso (ancora servile) “fra il tempo dello sforzo e il tempo sovrano” (si veda il paragrafo 2.4.5 di questa tesi), L’esperienza interiore del dopoguerra è l’aldilà dell’abisso, il superamento di ogni servilismo e l’abbandono alla pura dépense. 5 Ovvero trascendendone la trascendenza: tornando all’immanenza 2

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che si condivide è esattamente questa perdita che fa del soggetto (…) semplice esistenza”6. È solo in un’esperienza interiore che si possono trovare le fondamenta dell’essere comuniale, accettando ed esperendo la propria tragicità, la propria finitezza, condividendola con gli altri. L’esperienza interiore, facendoci sentire insufficienti, mette in questione l’individualismo borghese: se l’essere frammentato (borghese) si pensa come Tutto (nega la finitezza attraverso delle “imprese”), l’essere integro (il superuomo/acefalo) scopre e accetta la sua incompiutezza. Il processo di umanizzazione, più volte ripercorso da Bataille nei suoi lavori, evidenzia quell’incompletezza costituente l’uomo che anche Hegel coglie (nel suo discorso è la negatività a determinare l’uomo all’azione). Ma se in Hegel questa incompletezza va lenita col “lavoro” (assumendo elementi lavorati e giungendo alla coincidenza finale di natura e cultura), per Bataille si può lenire solo fondendosi con l’altro, tornando all’immanenza del tutto di cui si è parte, perdendo immediatamente, sovranamente, la propria discontinuità7. Se l’economia borghese è quella ristretta del lavoro, l’economia batailleana è quella generale del dispendio, nella quale si è consci della propria completezza solo attraverso la perdita del proprio isolamento: “Ciò che lega l’esistenza a tutto il resto è la morte: chiunque guardi la morte cessa di appartenere a una stanza, a persone care, si affida ai liberi giochi del cielo”8. La comunità batailleana è perciò quella della morte9: se l’uomo dell’umanesimo nega la morte attraverso l’appartenenza ad un organismo – lo stato – che non può morire, la comunità dell’uomo batailleano “non trascende i propri membri come un’ipostasi collettiva che ne riscatti la finitezza nella propria immortalità. È al contrario il tramite attraverso il quale quella finitezza può costituire gli esseri che nella loro differenza la compongono: che la compongono cioè non nella modalità del legame (…), ma in quella dell’alterità in comune, dell’alterità condivisa”10. In fin dei conti può fare di ‘noi’ una ‘comunità’ solo un sentimento di con-fusione, di co-appartenenza ad un destino con-diviso: l’improbabile chance che ci ha messo al mondo e la sicura morte che ci aspetta, il fatto di essere “una morte che vive una vita umana”11. Il nuovo soggetto condivide nella comunità la propria impossibilità di morire, di comprendere la morte: esso non si può riconoscere nella morte dell’altro (che li accomuna) come nemmeno l’altro lo può; la morte rimane inconoscibile, l’inconoscibile comune a tutti, accomunante: comuniale. La contraddittorietà che questo nuovo soggetto esperisce e manifesta è quella implicita alla sua irrinunciabile differenza costitutiva – ragione/passione; un dedalo che non si può più ragionevolmente trascendere12. Si tratta di un soggetto che non è più contraddistinto dalla sua capacità di dare risposte bensì dall’essere 6

R. Esposito, Categorie dell’impolitico, 307 A questo punto, per Papparo (Incanto e misura, 107), non si ha più una coscienza-di, quanto una coscienza-con, insieme all’oggetto che mi diviene immanente. 8 G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 64 9 Si veda a tal proposito R. Esposito, Categorie dell’impolitico, cap. V, soprattutto pagg. 304–312. 10 R. Esposito, Categorie dell’impolitico, 306 11 B. Moroncini, La comunità impossibile, 58 12 Papparo (Incanto e misura, 41-43), definisce questa nuova posizione antropologica come quella della “via all’in giù”, non più espressa dall’idea della piramide bensì da quella del labirinto, e quindi non più orientata teleologicamente bensì labirinticamente come “totalità diffratta”. 7

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una domanda senza risposta: “Tutto lo sviluppo tendeva [per Hegel] al punto in cui l’uomo non è più distinto dalla ragione. (…) Di questo disegno dello spirito considero l’essenziale: cercando l’autonomia (l’indipendenza dalla natura), l’uomo è portato – dal linguaggio – a situare in un termine medio (irreale, logico) questa autonomia; tuttavia, se conferisce a questo irreale la realtà (…) il termine medio che egli utilizza a sua volta diviene esso stesso la natura (…). L’autonomia dell’uomo è legata alla messa in questione della natura. (…) Ciò vuol dire: 1) che, essenzialmente, l’uomo è la ‘messa in questione’ della natura; 2) che la natura stessa è l’essenziale – il dato fondamentale – di ogni risposta alla messa in questione. (…) Nessuna «risposta» può offrire all’uomo una possibilità di autonomia. Ogni «risposta» subordina l’esistenza umana. L’autonomia – e la sovranità – dell’uomo dipende dal fatto che egli è una domanda senza risposta. (…) La negatività è un doppio movimento di messa in atto e di messa in questione. (…) L’uomo è questo doppio movimento”13.

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G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 176 - 182

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3.6: LA COMUNITÀ DEGLI AMANTI Immergersi nel labirinto senza trascenderlo attraverso il pensiero logico, equivale ad una critica dell’onnipotenza della ragione a favore di una riscoperta delle fondamenta irrazionali dell’essere-umanamente: la ragione non è più l’unica fonte di conoscenza; di più: la conoscenza non è mai solamente razionale, ma è sempre con-fusa con l’emotività: “le mie rappresentazioni elaborate logicamente non sono mai indifferenti alla sensibilità”1. Si ha così accesso alla dimensione tragica degli amanti: una comunità del desiderio dell’altro (il desiderio di essere desiderato) che si esprime nell’erotismo, e “L’erotismo non può servire a nulla, e purtuttavia fonda, nella trasgressione della mera animalità, della naturalità sessuale, l’umanità autentica”2. Nell’esperienza erotica “due esseri (…) non comunicano se non perdendo una parte di sé stessi. (…) Due esseri di sesso opposto si perdono l’uno nell’altro, formando insieme un nuovo essere diverso da ciascuno di loro. La precarietà di questo essere nuovo è manifesta: non è mai tale che le parti non ne rimangano distinte”3. È essenziale insistere sulla precarietà di questo nuovo essere (a tutti gli effetti definibile come essere composto instabile), per via del fatto che l’instabilità dell’esperienza comunitaria è la chiave di volta della riflessione batailleana, come deduce F. Ferrari intitolando il suo lavoro: “La comunità errante”. Gli amanti, esponendosi alla perdita della reciproca discontinuità, si pongono a livello della morte, rifuggendo la sicurezza della stabilità per confondersi in una unica vacillante instabilità; essi si contrappongono ai congiunti in matrimonio, nel quale l’uno possiede l’atro, così come la comunità si oppone alla società, pensata nella sua stabilità di forza conquistatrice. La comunità degli amanti è perciò solo un esempio, unisce solo due esseri fra loro chiudendosi contemporaneamente agli altri4, ma dà un’idea del bisogno di completarsi al di fuori di noi, tramite la comunicazione con l’altro; “E soprattutto niente più oggetto. L’estasi non è amore: l’amore è possesso cui è necessario l’oggetto, al tempo stesso possessore del soggetto e da esso posseduto. Non vi è più soggetto-oggetto, ma «breccia spalancata» tra l’uno e l’altro, e, nella breccia, il soggetto, l’oggetto sono dissolti, vi è passaggio, comunicazione, ma non dall’uno all’altro: l’uno e l’altro hanno perso l’esistenza distinta”5. Non si tratta più di costituire una comunità istituendo per essa dei miti cui partecipare, né di accettare una società che unisca gli individui tramite un’intersoggettiva standardizzazione dell’essere ad esclusione dell’altro6, ma di riconoscere quel mito, quel nucleo sacro, segreto7, già esistente e fondante la vita, in sé stessi, 1

G. Bataille, Oeuvres complètes, vol. VIII, cit, 585. Traduzione mia. Per un approfondimento del ruolo dell’emotività nelle scelte razionali, rimando a (a cura di) Eddy Carli, Cervelli che parlano (soprattutto in relazione al famigerato caso “Phineas Gage”, citato nel cap. 2, L’errore fatale di Cartesio). 2 F. Rella, Lo sguardo ulteriore della bellezza, XXV 3 G. Bataille, Il collegio di sociologia, 440 4 F. Ferrari, op. cit., 93: “Se (…) è vero che la comunità degli amanti si avvicina più alla totalità dell’esistenza di quanto non facciano l’arte, la politica e la scienza, altrettanto vero è che essa non realizza la vita umana, poiché non è la forma elementare della società. La forza contenuta in un rapporto amoroso, nella relazione tra due corpi, non può essere trasmessa all’intero corpo sociale”. 5 G. Bataille, L’esperienza interiore, 101 6 Si veda R. Esposito, Categorie dell’impolitico, cit., 307 7 “il segreto propriamente non c’è, in quanto esiste solo come movimento”. F. Ferrari, op. cit., 129

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esperendolo, facendosi ricettivi nei confronti dei suoi segni; infatti il nucleo sacro non è né personale né locale, e “sembra quindi composto da qualcosa che non dipende da nessuno, da nessun atto volontario – la società non si può fondare con la buona volontà”8. La comunità va esperita attraverso una nuova recettività nei confronti di quel vincolo che, al pari degli amanti, porta gli uni a tendere verso gli altri; e ciò è possibile solo abbandonando la parzialità antropologica dell’individuo epistemico a favore di un’antropologia della ferita, che apra necessariamente ognuno all’interfusione con l’altro. Esperita, certo, a prescindere dalla sua impossibilità razionale. Concordo pienamente pertanto con Federico Ferrari nel momento in cui afferma che “Agire nella consapevolezza del proprio inevitabile fallimento, ma continuare ad agire, continuare a dare forma al possibile. In questo senso la politica che qui si delinea non è più, come Bataille l’ha talvolta adombrata, una politica dell’impossibile (della trasgressione), ma una politica del possibile (della contestazione affermativa)”9. Impossibile perché essendo la “comunità di chi non ha comunità” non si identifica con una “patria” né con un legame prestabilito (di sangue, di razza), e quindi scivola, passa elettivamente da un punto all’altro rimanendo in tal modo inassimilabile al sapere: “L’essere-in-comune (…) è (…) una pratica quotidiana che, rispondendo ad un’urgenza ogni volta particolare, costituisce un noi, il quale si dissolve con la fine dello stato d’ emergenza”10. Al sapere, infatti, non potendo conoscere che “cose” (cioè parti isolabili, localizzabili), sfugge necessariamente ciò che non ha sostanza, come questa comunità errante che è un oggetto-nulla – cioè un non-oggetto/rien11 – esperibile solo da un soggetto che sia non-sapere12. Con la conoscenza discorsiva posso dunque “parlare” di Società e Nazioni spazio-temporalmente isolabili, ma la comunità batailleana non è mai assimilabile a queste forme di convivenza che non sono elettive bensì costrittive: “l’esperienza comunitaria è (…) il luogo in cui la comunità si produce nell’atto stesso del suo trasformarsi, del suo passare di forma in forma senza potersi fermare. Se la forma si fissa non c’è più comunità, ma alienazione sociale del puro prodotto”13. Si tratta dunque di raggruppamenti erranti, comunità esistenziali i cui componenti, non potendo disperdersi in progetti ma lottando per difendere nell’immediato il proprio diritto all’esistenza, accedono alla sovranità. Ma è una comunità allo stesso tempo possibile – per quanto non ragionevolmente – in quanto esperibile dall’essere che, nel momento della protesta, si voti 8

F. Ferrari, op. cit., 74. Questa affermazione, ribadita da Bataille a pag. 130 de Il collegio di sociologia, suona come una delegittimazione del tentativo militante della società segreta di “Acéphale”, e conferma quindi la mia ipotesi che essa si configuri come una esperienza sostanzialmente “sociale”, militante, per la quale il fine giustifica ancora i mezzi. Segna inoltre l’accettazione della critica mossagli da Kojeve: “Il taumaturgo che volesse scatenare il sacro per esserne a sua volta catturato [ha] la stessa possibilità di riuscita di un prestigiatore che volesse persuadersi dell’esistenza della magia cedendo all’incanto dei suoi stessi trucchi”. Citazione tratta in Il collegio di sociologia, 16 9 F. Ferrari, op. cit., 142 10 idem, 132 11 F.C. Papparo, Incanto e misura, 128. Un non-oggetto è sempre razionalmente impossibile, rimanendo inaccessibile al linguaggio, e la comunità, che si fa, con Bataille, dinamica, eccede in tal modo il sapere. 12 “L’esperienza raggiunge infine la fusione dell’oggetto e del soggetto, essendo quale soggetto nonsapere, quale oggetto l’ignoto”.G. Bataille, L’esperienza interiore, 37. 13 F. Ferrari, op. cit., 137

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all’azione nonostante “la consapevolezza del proprio inevitabile fallimento”, dell’essere che diviene “capace di mettere in comune le proprie passioni (…). Una comunità esistenziale nella quale la vita non è per niente povera ma anzi conosce quei doni enormi che sono la generosità, l’amicizia, l’amore, la condivisione, l’esperienza del possibile. (…) L’esperienza del senso, che è volontà di resistenza e affermazione di un mondo possibile”14. Insomma, d’accordo con Federico Ferrari, la comunità non è altro (o di più) dell’istante in cui degli individui abbandonano il loro isolamento per unirsi elettivamente, accettando per sé di poter essere solo assieme all’altro: di essere-con. Se questi esseri comuniali si uniscono non è per altro che per proteggere la propria esistenza-in-comune: essi donano la propria individualità alla causa comune che è una lotta per la resistenza. È in questo senso, in quanto “esperienza, sempre rinnovata, dell’indicibile venire al mondo di nuove configurazioni dell’essere-comune”15, che questa forma di con-vivenza assume un valore politico, di cambiamento del reale e quindi di produzione di senso: “è solo nel qui e ora ogni volta particolare che il senso emerge. (…) Ma poiché la mia esperienza non esaurisce il senso, ognuno di noi è responsabile dell’emergenza di questo senso finito, che non è mai finale ed esaustivo, perché per esserlo dovrebbe arrivare a stabilire che c’è un qui e ora assoluto comprendente in sé tutti gli altri. L’io non può esaurire il senso del noi (individualismo), né il noi schiacciare il senso dell’io (totalitarismo). Il senso si dà nell’infinito rinvio tra l’io e il noi, nell’impossibilità di poter separare l’io dal noi, la singolarità da una comunità. Il senso propriamente non si dà, si condivide”16.

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idem, 141 idem, 142 16 Idem, 142-143 15

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3.7: L’EQUILIBRIO INSTABILE FRA L’« UNO» E IL «DUE»: IL PASSAGGIO Certo la comunità limita l’essere-individualmente, che essendo il risultato della nostra “parte razionale”, è parimenti ineliminabile: “Un uomo è inevitabilmente lacerato tra questi poli, inconciliabili, poiché non può decidersi per una direzione né per l’altra. Non può rinunciare alla propria esistenza isolata; né all’esuberanza di un mondo che si fa beffe di questa esistenza e si accinge ad annientarla”1: si tratta di trovare un equilibrio. Bataille a più riprese, in diversi lavori, istituisce un’analogia della comunità con il fenomeno di scissiparità nella riproduzione delle cellule asessuate, in cui “I due nuovi esseri sono allo stesso titolo i prodotti del primo. Il primo essere (…) cessa di esistere nella misura in cui era discontinuo. Soltanto in un punto del processo di riproduzione si è verificata una sospensione della discontinuità. Vi è un punto in cui l’uno primitivo diviene due. Dal momento in cui sono diventati due, torna a manifestarsi la discontinuità (…) Ma il passaggio implica un istante di continuità tra i due esseri. Il primo muore, ma nella sua morte si manifesta un istante fondamentale di fusione dei due esseri”2. Questo fenomeno dimostra l’esistenza di una sovrabbondanza della prima cellula, di una sua necessità di dispendio3 che culmina nella divisione/morte. “La crescita dell’essere minuscolo ha come effetto l’eccedenza, la lacerazione e la perdita di sostanza”4. Tuttavia, l’eccedenza che conduce la cellula madre alla separazione lascia intravedere un istante di continuità, di comunicazione – fulminea – tra i due esseri immanenti che, successivamente, torneranno alla loro discontinuità. Certo, nella riproduzione sessuata la situazione si complica, ma il movimento dell’amplesso testimonia a sua volta di momenti nei quali si manifestano eccedenza, fusione, perdita, separazione e morte. Se infatti nella riproduzione asessuata la prima cellula scompare, nella riproduzione sessuata “Lo spermatozoo e l’ovulo sono (…) esseri frammentati, ma essi si uniscono, e di conseguenza fra loro si stabilisce una fusione, matrice di un nuovo essere, e questo accade a partire dalla morte, dalla sparizione degli esseri separati”5. Si deve in fin dei conti superare la paura (il contrattualismo) per focalizzare l’importanza dell’istante della comunicazione, del passaggio da uno stato all’altro, evento impossibile di trasmissione dell’essere: “Se la crescita avviene a vantaggio di un essere o di un insieme che ci supera, non è più una crescita ma un dono. È la perdita del suo avere”6. La tendenza dell’uomo a trascendere il labirinto attraverso il pensiero è indicativa di una sua tensione verso l’uno, ma come afferma giustamente Moroncini, la volontà dell’uomo di tornare all’uno è inoperosa, in quanto ciò cui può risalire altro non è che il momento del passaggio, dello slittamento, dall’uno al due. “Noi 1

G. Bataille, Il limite dell’utile, 142 G. Bataille, L’erotismo, 15 3 “volontà di perdita che solo nella paura trova un argine ai suoi movimenti smisurati”, idem, 441 4 G. Bataille, Il collegio di sociologia, 440 5 G. Bataille, L’erotismo, 15-16. Certo, nella riproduzione sessuata l’essere che ne genera un altro non scompare/muore nell’istante della separazione; nonostante ciò per Bataille può essere solo la morte a generare la vita, e se “chi si riproduce sopravvive alla nascita di chi ha generato, (…) tale sopravvivenza non è che una proroga” (in G. Bataille, idem, 97). 6 G. Bataille, L’erotismo o la messa in questione dell’essere, in L’aldilà del serio…, 413 2

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siamo due (…) da sempre, originariamente, prima ancora dell’uno. Separati, ci uniamo misurando la distanza che ci divide e ci individua”7. È solo in questo istante di continuità che si può parlare di comunità; comunità che perciò si concretizza in un movimento, in uno scivolamento da uno stato all’altro, in una mancanza di sostanza fra una limitazione dell’egoismo e una limitazione del comunismo. Bataille si trova però di fronte ad un’impasse: la comunità, l’equilibrio, sono impossibili; ogni equilibrio non può che essere un istante fra differenze. Ciononostante, quest’impossibile che la comunità è, si delinea come un’(energ)etica del possibile – “una nuova dimensione etica che è anche politica”8 – in quanto immediatamente praticata (non pensata) quale unica forma di azione per un essere che non si possa più considerare “Tutto”. “Contro la saggezza nichilista del “tutto è vano” la nuova etica abbandona il sogno del tutto e si vede in quanto parte carica di senso. Il tutto è vano perché non si dà mai il Tutto, ciò che si dà è solo la parte. All’uomo non resta che decidere di essere finalmente parte, cioè uomo”9. A questo punto, “Se il fine della morale è l’essere umano, se più precisamente questo fine richiede la creazione di un legame di vita tra gli esseri, possiamo tentare di dire: la comunicazione è il bene. (…) L’esempio più chiaro e più profondo di comunicazione si da nel caso di una sventura pubblica (…)10. La sventura ha il potere di rendere sensibile, nell’intima comunione dei cuori, la parte divina propria agli uomini, peritura sì ma tale che, per evitarne la rovina, non c’è nulla che non vada tentato. Non sempre ciò rinvia alla collettività stabile e formale: questo sentimento può nascere da qualsiasi unione di esseri umani, può nascere dall’amicizia e, nell’amore tra un uomo e una donna, la sua intensità è lacerante”11. Da quanto appena scritto risulta chiaramente che ai fini dell’instaurazione di un legame comunitario non è determinante la stabilità quanto l’intensità del legame, per quanto passeggero, che si instaura. Tramite la coscienza della propria mortalità (la sventura), del proprio essere parte e non tutto, si rende emotivamente cosciente la parte divina comune agli uomini (maledetta). Per l’uomo che, attraverso le esperienze interiori appena descritte, decida12 di assumere la propria esistenza come parte, unico modo di esistenza è quello di una ricerca dell’altra parte, attraverso un’azione non sottoposta a programmi ma resa necessaria dalla sua stessa mancanza di sostanza, che potrei definire in-essenza. Un uomo di questa natura non potrà che intraprendere azioni immediate, impulsive, aprogrammatiche, ma capaci nonostante la loro mancanza di progettualità di produrre un reale cambiamento nella sfera sociale: di produrre senso. “L’esperienza del senso, che è volontà di resistenza e affermazione di un mondo possibile, riempie di felicità. (…) Il pensiero che dona, abbandonandosi alla propria fine, ricerca la felicità. 7

B. Moroncini, La comunità impossibile, 30 F. Ferrari, op. cit., 140 9 ibidem. Lo stesso Bataille afferma che “non volersi più come tutto (…) è voler essere uomo.(…) Non volersi più tutto, essere dunque l’uomo che supera il bisogno che provò di distogliersi da sé stesso” (in L’esperienza interiore, 59) 10 Si pensi alla forza patica suscitata, ai giorni nostri, dalle sciagure delle twin towers, d’Ossezia, dei treni di Madrid e in ultimo del maremoto dell’oceano indiano. 11 G.Bataille,La vittoria militare e la bancarotta della morale che maledice, in L’aldilà del serio…, 68-69 12 Si veda, sul tema della decisione in Bataille, R. Esposito, Categorie dell’impolitico, 258-261. Per Bataille (L’esperienza interiore, 60) “La decisione (…) è l’inverso del progetto (essa esige che si rinunci agli indugi, che si decida immediatamente, tutto in gioco: la conseguenza importa in secondo luogo)”. 8

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Non certo la felicità assoluta che non conosce il dolore della perdita ma la felicità finita dell’esperienza”13. Fermarsi di fronte all’impossibile equivarrebbe infatti a continuare a ragionare, valutando le possibilità di successo, utilitaristicamente; l’essere comuniale è colui che continua a combattere la sua lotta scontrandosi ciecamente con la sua impossibilità. La comunità batailleana è composta di esseri finiti, chini sul proprio nulla, che lottano a prescindere dal successo solo per il senso che la lotta attribuisce alla loro esistenza (per sé): una comunità numantina che si estingue piuttosto che cessare di essere, che vuole essere anche nell’impossibilità di sussistere14; essa non è un raggruppamento di individui isolati tenuti assieme da un interesse egoistico comune e dalla paura del prossimo, ma quel luogo sfuggente, in cui s’instaura una comunicazione fra esseri non individualmente separati, che si contrappone alla “Nazione-Stato del mondo moderno (…) caricatura del bene, che esige dall’individuo un dono di sé necessariamente triste, cui spesso si accondiscende a malincuore”15. La Nazione-Stato richiede, contrattualisticamente, che ognuno rinunci alla sua violenza, e se l’uomo lo fa è solo per paura di un male maggiore. Per una nuova morale del culmine, che non consideri più il bene come una sopravvivenza nelle maglie dello Stato ma come la comunicazione stessa, l’esistenza, l’istante sovrano della soggettività in-comune, il bene non può essere che l’“insieme dell’umanità, non più un gruppo ristretto, che può proporgli nella sua pienezza la comunicazione coi suoi simili. (…) Solo l’umanità (…) può rivestire un senso sacro, sono escluse le nazioni e più in generale gli Stati”16. Unico bene possibile (o forse dovrei dire impossibile) è quello “la cui essenza è non cedere né al gusto di servire né a quello di condannare”17, e questo presuppone il superamento dell’individuale passione per il comando a favore della “sovrana e inutile passione del legame”18. Per Bataille, come visto, ogni organismo (anche composto, per cui anche la società) produce più di ciò che è necessario alla sua sussistenza: “Dispone di un eccedente. Ed è precisamente l’uso che ne fa che la determina”19. Se le società feudali delegavano l’eccedente al sovrano, la borghesia alla produzione dei mezzi di produzione in mano ai singoli, il comunismo alla produzione dei mezzi di produzione in mano allo stato (ridistribuiti), la comunità batailleana, invece, non è più quella dell’utile ma del piacere20, l’eccedente non è più investito utilitaristi13

F. Ferrari, op. cit., 141 Se per Nietszche ogni società possibile, come visto nel paragrafo 2.4.2 di questa tesi, non può che essere una “violenta anarchia ordinata a Stato”, la comunità batailleana, essendo impossibile, è proprio la liberazione dalla soggezione; conduce dal “soggetto-soggetto” (l’in-dividuo, uguale a sé) verso il “soggetto-sovrano” (lacerato, differente). 15 G. Bataille, La vittoria militare e la bancarotta…, cit., 74 16 ibidem 17 ibidem 18 F.C.Papparo, Tutti per (l)’uno?, 83 19 G. Bataille, La parte maledetta, 110 20 Non più etica ma estetica. Non è più una ricerca, nell’altro, dell’utile, né una ricerca del piacere: il piacere non lo si vuole, esso si impone in quanto è epidemico; non ballo perché voglio farlo ma perché una folla danzante mi contagia, tanto che “il piacere è l’effetto, e non la causa” (G. Bataille, L’ultimo istante, in L’aldilà del serio…, 44). Inoltre, “questa inevitabile perdita non può a nessun titolo passare per utile. Si tratta soltanto di una perdita piacevole, preferibile a un’altra, spiacevole: si tratta di piacere, non più di utilità” (G. Bataille, La parte maledetta, 43). 14

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camente ma è investito in cose che ci piacciono: “L’ozio, la piramide e l’alcool hanno (…) il vantaggio di consumare senza contropartita – senza profitto – le risorse che utilizzano: semplicemente ci piacciono, rispondono alla scelta senza necessità che noi facciamo. In una società in cui le forze produttive non si accrescono (…) questo piacere, nella sua forma collettiva, determina il valore della ricchezza, e in tal modo la natura dell’economia”21.

21

G. Bataille, La parte maledetta, 121

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3.8: QUALE COMUNITÀ? Per palesare la differenza ermeneutica rispetto ai raggruppamenti reali di individui, legati tra loro solo da fittizi legami di sangue o di appartenenza ad una Patria, Bataille parla di una comunità di cuore, o comunità esistenziale. Questa precisazione è sufficiente a chiarire come non sia una tradizione o una specifica cultura a determinare questa unione; parla di una comunità elettiva, composta di esseri che si uniscono autonomamente per via di un sentimento di affinità e una volontà di condivisione della propria esistenza. È evidente, quindi, che nel caso di comunità elettive i confini territoriali nazionali o le genealogie particolari non rivestono nessun valore attivo. Se per le prime, costituite di individui che si uniscono per via di un legame di sangue o di una comune appartenenza ad un territorio specifico, i modi di istituzione della civile convivenza sono determinati da un’identificazione affettiva con un capo e da un contratto tendente a limitare i reciproci egoismi, per la seconda questo modo di istituzione (questa mancanza di istituzioni) è determinato dall’intima tendenza dell’uno verso l’altro in una relazione di co-appartenenza: di reciproco completamento. Non si tratta, sarebbe semplicistico pensarlo, di composizioni sociali interne alle società contemporanee e distinte da esse solo per via di interessi particolari. Di una comunità del tipo di quella descritta da Bataille nessuno entra a far parte con lo scopo di difendere degli interessi particolari; in questo caso non si tratterebbe di altro che di un’associazione di categoria o di una comunità di complotto, contrapposta in maniera militante alla società in seno alla quale si erge ma proprio per ciò, di riflesso, in linea con essa. Infatti un tale raggruppamento comunitario sarebbe ancora nient’altro che un raggruppamento, stabilito da un contratto, di individui fra loro separati, discontinui, egoisti, istituito appositamente per sfruttare il surplus di forza ingenerato dall’unione, per aumentare le probabilità di portare a compimento il proprio progetto: insomma, quanto di più servile! Inoltre le comunità di complotto, raggruppano degli individui solo in vista di una contrapposizione verso il raggruppamento sociale dominante; sono eterogenei rispetto ad esso e ciò che si ripropongono è trasformare la loro eterogeneità in una nuova omogeneità alla quale sottomettere il raggruppamento sociale dominante una volta sconfitto; istituiscono un’unione temporanea finalizzata ad un interesse preciso, ad uno scontro con l’altro: non creano legami emotivi fra i componenti. La comunità per Bataille, al contrario, non fa altro che votare l’intera umanità all’eterogeneità (in primis verso sé stessi, nell’assenza di nome della propria acefalità) perché solo questo può agevolare una forma di unione comunitaria che ponga rimedio alla frammentazione sociale derivante dalla crisi della democrazia a lui contemporanea1: “la fusione introduce in me un’esistenza altra (introduce questo altro in me come mio, ma nello stesso tempo come altro): in quanto passaggio (il contrario di uno stato), la fusione, per prodursi, richiede l’eterogeneità”2. Quindi, a ben vedere, la fusione con l’altro “non è annullamento della diffe-

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Ai giorni nostri, l’emergere consistente di studi relativi la comunità, congiuntamente alle difficoltà incontrate dalle società democratiche, può essere l’esito dello stesso sentimento di crisi. 2 G. Bataille, Il colpevole/L’alleluia, 191

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renza ma, attraverso la dissoluzione dell’identità ‘proprietaria’, relazione all’altro essere, così come avveniva (…) nella notte delle caverne”3. È evidente che una comunità di questo tipo non possa che tendere all’interfusione degli esseri piuttosto che abbandonarli a sé. Per poterlo fare, come visto, Bataille, risalendo le tappe dell’umanizzazione, afferma l’ipocrisia e la menzogna di un’antropologia castrante che culmina nell’individuo secolarizzato moderno, per fare spazio (evitando ogni volo icariano e tornando sulla terra, nel labirinto) ad un uomo che si può dire tale, integro, vivo, solo nel momento della fusione emotiva con l’altro all’interno di una comunità che diviene, appunto, elettiva. Lungi dal sorgere sulla condivisione di uno scopo conflittuale verso le altre, la comunità batailleana non ha altri scopi che quello dell’esistenza, di un’esistenza potenzialmente comune a tutti gli esseri umani e quindi tale da poter fondare una comunità di cuore: l’esistenza che essa difende è l’uomo. Dire comunità esistenziale non significa designare una comunità che è pronta a morire pur di sussistere in quanto comunità: questa è solo una conseguenza del significato primo, a mio avviso, nella riflessione batailleana: l’esistenza che si difende non è in primo luogo quella della comunità (che come visto si dilegua, passa da un punto all’altro) quanto invece quella dell’uomo definito da un’interpretazione antropologica la quale non voglia più escludere o negare la negatività, il male, ma che voglia invece rivendicarla come un carattere proprio ed ineluttabile; quella di un uomo che non può che esistere a livello della morte. Nella società segnata dall’economia borghese, dal tempo della durata, l’uomo, come visto, è ridotto a cosa, e lo è non per via di un cattivo fato ma di un logico svolgimento a partire dalle sue premesse antropologiche; in essa l’essere umano non è, e non può essere, (interamente) uomo. Nelle società contrattuale l’uomo non può esistere, si auto-nega; per farlo deve ricorrere, lo vuole, in nome della sua reale in-essenza, ad una comunità esistenziale. Ai fini dell’instaurazione di una comunità di questo tipo è comunque preliminare un’esperienza interiore4, un rivolgimento verso sé stessi che renda cosciente l’essere della propria insufficienza, e quindi la validità di un assunto antropologico come quello delineato da Bataille5. Una comunità di questo tipo è una comunità di uomini altri da quelli descritti dall’assunto antropologico dell’homo oeconomicus caro alle tesi contrattualiste, di esseri tesi verso la fusione con gli altri piuttosto che verso l’isolamento e la deriva dell’homo homini lupus: C’è “in Bataille il rifiuto di ogni comunità positiva fondata sulla realizzazione o sulla partecipazione di un presupposto comune.

3

F.C. Papparo, L’aldilà del serio…, 20 L’esperienza interiore è, secondo Maurice Blanchot (postfazione di G. Bataille, Su Nietszche, 222), l’esperienza limite, “è la risposta che l’uomo incontra quando ha deciso di mettersi in questione radicalmente. Questa decisione che compromette l’intero essere esprime l’impossibilità di fermarsi, a qualsiasi consolazione o a qualsiasi verità, agli interessi o ai risultati dell’azione, alle certezze della conoscenza e della fede”. 5 Assunto antropologico che, è bene ribadirlo, non è inventato da Bataille né utopico, ma è un dato esperibile appunto attraverso un’esperienza interiore, ovvero attraverso una conoscenza non linguistica ma emotiva determinata dall’ascolto di sé stessi, e conseguita, a rafforzarne la fondatezza, attraverso una rilettura non castrante, non impaurita di fronte al male, del processo di umanizzazione, svolta attraverso i suoi studi etnologici 4

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(…) in questa prospettiva la comunità può essere soltanto «comunità di coloro che non hanno comunità»” 6 (degli amanti, degli artisti, degli amici). Ed è questo il motivo per cui è stata intesa la riflessione comunitaria batailleana come un’espressione compiuta dell’impolitico: essa si contraddistingue per la sua mancanza di opposizioni “politiche”, di opposizioni diametrali verso una o l’altra istanza sociale specifica, a favore della volontà di esistere. Ma, come visto, esigendo l’essere comuniale descritto da Bataille il superamento dello stato frammentato dell’essere, è evidente che si potrebbe considerare la riflessione batailleana come espressione dell’impolitico solo nel momento in cui, ipoteticamente, questa comunialità dell’esistenza fosse universalmente accettata, e soprattutto sentita, come propria. Fino ad allora, tuttavia, una comunità di questo tipo non potrà che legare fra loro coloro che sentono, provano in sé questa antropologia, questo preciso modo dell’essere; coloro che accettano come parte ineliminabile della loro esistenza la propria mortalità e l’angoscia che essa determina, il male che essa testimonia. Questa comunità può quindi instaurarsi inizialmente solamente tra coloro che elettivamente si riconoscono come condividenti questa nuova coscienza, la coscienza dell’essere-con; e se non fanno altro che difendere il loro diritto all’esistenza, è però vero che lo fanno all’interno di un mondo in cui essa non è sentita universalmente come la radice prima e ineliminabile dell’esistenza, e questo determina una sostanziale contrapposizione nei confronti di coloro che, questo sentimento, non condividono7. Ho indicato con che veemenza Bataille parli sia della necessità della lotta che di quella di usare dei mezzi8 – per quanto contrario questo sia alla soggettività sovrana – per difendere la propria esistenza (la propria integrità); questo sta a dimostrare come fintanto che il sentimento della comunialità del proprio essere intimo non sarà universalmente condivisa ci sarà una contrapposizione fra uomini-integri (esseri-in-comune) e uomini-cosa; certo, non si tratta di una lotta esercitata all’interno del linguaggio politico usuale; non c’è contrapposizione a una parte politica a favore dell’altra, una difesa della sinistra a discapito della destra o viceversa9, ma una contrapposizione alla politica tout-court, operata da chi si pone al di là di essa, nella sfera dell’impossibile, del non-dicibile, istituendo però in questo modo una nuova contrapposizione, per quanto ambigua ed impalpabile, nei confronti della politica stessa: essa, infatti, al di là delle sue divergenze teleologiche interne (destra/sinistra), rappresenta nel suo movimento l’espressione di un uomo definito dall’antropologia classica dell’uomo economico/isolato. Di qua o di là, a destra o sinistra, non è altro che una battaglia giocata sul piano del contrattualismo. Parlando di comunità, attraverso il suo carattere esistenziale, Bataille si pone invece al di là, in contrapposizione, in una situazione di inconciliabilità col pre6

G. Agamben, Bataille e il paradosso della sovranità, 116 “Fino a quel giorno, al livello della cosa disponibile, al livello dell’umanità avvilita, dobbiamo contribuire con disciplina a un immenso lavoro di liberazione”. (G. Bataille, La menzogna politica, in G. Bataille, L’aldilà del serio, 493. Gia citata a pag. 92 di questa tesi. Grassetto mio). 8 “Se esistesse in noi quella sorta di fede che dà coscienza di un potere da esercitare, neppure i mezzi più sgradevoli, neppure i mezzi sbagliati farebbero esitare e potrebbero essere accettati con gioia (…) Non si tratta di sapere se tale metodo sia o no difettoso – sulla questione dei mezzi, se è inammissibile sottrarvisi, è necessario parlare - ma io mi dissocio totalmente dall’inerzia (…)”. Si veda la nota a pag. 90 di questa tesi. 9 Ho ampiamente mostrato come Bataille critichi ogni cesarismo, sia esso comunista o fascista. 7

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supposto contrattualista, quindi in contrapposizione con la politica tout-court (con l’uomo asservito ad un progetto che essa esplicita) che, per quanto ambigua, è pur sempre una contrapposizione. Ma essendo la politica tutto il possibile per l’uomo (tutto ciò che è possibile dirne), è evidente che in questo modo Bataille si pone al di là del possibile, istituendo una comunità (dell’)impossibile. Questo non significa certo, tuttavia, che essa non sia attuabile, ma soltanto che rimane in ogni modo inassimilabile, eterogenea, rispetto al linguaggio razionale, politico, filosofico. In tal senso si può di essa dire che è una comunità dileguante, errante; essa è una comunità negativa: la comunità di coloro che non hanno comunità, nel senso che sta “alla base di formazioni di soggettività che, proprio perché inserite nel villaggio globale, (…) non possono più appartenere a nessuna comunità particolare”10. Questo scivolamento progressivo della comunità nella sua erranza, non avviene perché essa, al modo delle società di complotto, segua via via interessi sempre diversi da salvaguardare, ma perché, per via delle sue caratteristiche, è passibile di instaurarsi potenzialmente in ogni luogo attraverso l’emergere di piccoli gruppi di uomini che, abbandonato l’abbaglio dell’onnipotenza razionale, si siano dedicati all’ascolto della propria interiorità volgendosi in tal modo verso gli altri – verso il flusso dell’esistenza che li circonda – facendosi tendenzialmente ostili nei confronti del conformismo sociale vigente (per via della sua negazione della loro chance di essere). La tensione dell’essere, scatenato nella comunità, verso il flusso degli altri all’esterno di essa, chiarisce il senso della frase nella quale Bataille parla del peso dell’avidità11 e del valore della lotta tragica, numantina, all’ultimo sangue, a difesa della vita stessa: “Noi rompiamo con tutti i servilismi: comporremo una forza autonoma unendo tutti coloro che vogliono un destino umano (…). Non è più (…) un Dio, un partito o una patria: è l’UOMO che parla: donde l’intransigenza con la quale siamo pronti a conservare tragicamente l’autonomia di questa forza di fronte a tutte quelle potenze che vogliono sottomettere la vita umana al principio della necessità servile”12. È la comunità di chi accetta come verità il fatto che, esistere, è possibile solo al di fuori dalle società contemporanee reali, contrattualiste: “Trovo che in questa società europea così abbrutita, si è per forza obbligati a formare il progetto di uscirne e non soltanto in maniera episodica”13. Insomma: sentendo in me che sto tradendo la mia reale in-essenza nel momento in cui “sopravvivo” in una società contrattualista fondata sull’“economia dell’accumulo in vista del futuro” (ristretta), mi voto ad una visione differente: solo in comunità, con gli altri, io vivo: solo nell’attimo. Sarò perciò disposto a difendere con la morte la mia esistenza ritrovata nella comunità di simili: l’alternativa a questa morte sarebbe una non-vita (una “sopra-vivenza”) nella società, sarei

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C. Grassi, Il non sapere, 216 “Obbligheremo a riconoscere nell’avidità - nel fatto che ogni forza si accresce o si mantiene solo distruggendo e assorbendo tutto quel che può dalle altre forze incontrate – la legge di ogni esistenza terrena (…)”. Si veda la nota a pag. 91-92di questa tesi. 12 G. Bataille, Seconda parte dell’ordine del giorno di “Acéphale” del settembre 1938, cit., 273-274 (già citato a pag. 92 di questa tesi). 13 G. Bataille, Lettera a Leiris del 10/1936, in La congiura sacra, 151 11

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già un non-uomo, una cosa14. Mi contrappongo allora alla politica, in quanto essa è espressione dell’antropologia limitata e della conoscenza obiettiva che la fonda. Perciò mi abbandono alla deriva di una comunità errante, che si produce in momenti e spazi di crisi, perché è in quei momenti che è evidente l’esito disastroso e senza vie d’uscita del modello antropologico rappresentazionale/epistemico.

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“La morte non spaventa [l’essere comuniale che si perde nella comunità] perché l’uomo dell’umanesimo è già morto – morto alla possibilità del proprio trascendimento – e insieme escluso dalla morte dall’appartenenza ad un organismo che in quanto tale non può morire [la società comunista]. (R. Esposito, Categorie dell’impolitico, 306)

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3.9: AL DI LÀ DELL’IMPOLITICO, VERSO L’IMPOLITICO Roberto Esposito considera, come già accennato, l’opera batailleana espressione dell’impolitico. Ne “La comunità della perdita: l’impolitico in Bataille”, interpreta come riprova di questa sua tesi la frase di Bataille: “Chi pensa, prima di aver lottato fino alla fine, di lasciare al loro posto uomini che è impossibile guardare senza provare il bisogno di distruggerli? Ma se niente si potesse trovare al di là dell’attività politica, l’avidità umana incontrerebbe soltanto il vuoto”1. Secondo Esposito, in quell’al di là dell’attività politica, ma non esterno ad essa, c’è solo il suo risvolto impolitico2, però questo non può spiegare, ad esempio, l’affermazione del congiurato Masson secondo cui “«Acéphale» è stata una sfida alla politica, una sfida a tutte le norme stabilite”3. Esposito dice che Masson, attraverso quest’affermazione, intendeva evidenziare che la società segreta era distante “da ogni opzione semplicemente politica”4, ma ciò è in contraddizione con la sua definizione dell’antipolitico: “fare politica esattamente contrapponendosi ad essa”5 riproducendola, sotto altre forme, in maniera potenziata. Perciò quando Bataille afferma l’apoliticità dell’esperienza di “Acéphale” io non posso che intendere questa affermazione alla lettera come una forma di politica che si esplica con armi, linguaggio, e su un terreno differenti da quelli classici; ma pur sempre politici. Forse la diversità di opinione sta nel fatto che per Esposito Bataille, da buon impolitico, non riconosce altra realtà al di fuori del politico, considerato come somma di ogni possibile, tanto che esso può solo porsi in quella soglia, in quella frontiera di separazione fra il politico e il nulla/neant (l’impolitico). Tuttavia a mio avviso Bataille non considera il politico come il Tutto, ma solo come tutto il possibile, rilevando però, come visto, al di là di esso una sfera di attività – alimentata da una negatività senza impiego – (dell’)impossibile, che seppure non può essere conosciuta può comunque essere esperita. La comunità di Bataille è in tal senso impossibile6: posta al di fuori del linguaggio, non dicibile, ma non perciò irrealizzabile. Dunque penso che Bataille si ponga proprio nell’impossibile, cioè nel niente/rien (e non nel nulla/neant dell’impolitico), al di fuori di quel possibile che è la politica, ricreando in tal modo una sorta di contrapposizione (fra possibile e impossibile, politico e niente) tale da alimentare un progetto che deve essere considerato anti-politico, ma in tal 1

G. Bataille, La congiura sacra, 16 Condivido come visto l’analisi con la quale Esposito (“Categorie dell’impolitico”, XV-XVI) riconduce l’antipolitico al politico in quanto “una maniera di fare politica esattamente contrapponendosi ad essa” che quindi “negandola, la riproduce potenziata”. Non mi convince però la sua tesi secondo cui l’impolitico, non negando la politica ma considerandola invece “l’unica realtà e tutta la realtà”, possa nonostante ciò, come afferma nell’introduzione a La congiura sacra, considerarsi “al di là della politica, ma non esterno ad essa”. Se la politica è infatti tutta la realtà, non ci può essere un suo al di là che non sia il niente. E questo niente è proprio ciò cui Bataille tende, ma di esso non se ne può dire nulla (come invece fa Esposito): se ne può solo avere esperienza, coscienza-senza. 3 Citato in G. Bataille, La congiura sacra, XXV (grassetto mio). Come ho detto prima, a tutta la politica: al contrattualismo. 4 R. Esposito, La comunità della perdita: l’impolitico in Bataille, XXV 5 R. Esposito, Le categorie dell’impolitico, XIII 6 La comunità impossibile è in effetti, come visto, il titolo del sottile studio di Moroncini cui ho spesso attinto in questa mia tesi. 2

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modo, in base alla condivisibile definizione dello stesso Esposito, ugualmente politico. Lo stesso Esposito, del resto, riconosce l’anomalia batailleana e la difficoltà di una sua collocazione concettuale, arrivando ad affermare che “Ciò che separa (…) Bataille da questi autori [impolitici] è un’elisione (un velamento?) del confine tra politico e impolitico (…). Spinto ai confini estremi (…) l’impolitico ritrova una configurazione politica. (…) resta rigorosamente irrappresentabile. Ma tale irrappresentabilità può essere essa stessa rappresentata (…) Questa rappresentazione dell’irrappresentabile è ciò che Bataille chiama «comunità»”7, così come riconosce che il lessico batailleano “Non [è] una rimessa in circuito del vecchio lessico politico (…) Ma neanche un semplice arresto nei confini dell’impolitico. Probabilmente è la stessa opposizione politico-impolitico che non regge più”8. Ho appena scritto che la comunità batailleana si pone al di là del possibile, cioè in un impossibile che, tuttavia, si può esperire; si tratta di uno strano impossibile che nonostante ciò esiste, parafrasi tautologica dell’espressione “Impossibile! Eppure esiste”9, attraverso la quale, come visto, Bataille definisce il sacro. Dunque, essendo il non-luogo in cui si pone (passa) la comunità batailleana quello (dell’)impossibile, quale forma politica potrà mai assumere questa comunità? La risposta è cristallina: nient’altro che una politica sacra, cioè una politica che “si smaschererà un giorno come movimento religioso”10, un movimento sacro totale capace di esprimere emotivamente l’essere-in-comune di ognuno. Politica (ad oggi) è ogni istanza che abbia un peso relativamente alla funzionalizzazione servile dell’uomo; porsi al di là di essa assume il significato di una fuga da ogni funzione autoritaria, uno scatenamento, un’acefala liberazione dalla testa; significa aprirsi all’orrore della libertà. “Il principio stesso della testa si basa su una riduzione all’unità, riduzione del mondo a Dio”11. Questo Dio, espressione ultima e compiuta della tensione dell’uomo verso l’uno, assume l’aspetto della conoscenza obiettiva per la ragione, del partito in politica, della patria a livello emotivo; è una funzione unificante. Bataille invece, non tendendo all’uno quanto al momento del passaggio fra l’uno e il due, si pone al di là di ogni funzione unificante (è l’acefalo), il che non significa che si ponga al di là della politica, anzi: dopo l’affermazione kierkegaardiana per cui il politico non è altro che il religioso, afferma senza mezzi termini che “[siamo] selvaggiamente religiosi, e nella misura in cui la nostra esistenza è la condanna di tutto ciò che è riconosciuto oggi una esigenza interna vuole che noi si sia ugualmente imperiosi. Ciò che intraprendiamo è una guerra”12. Ma se pur ponendosi in contrapposizione alla religione (rivelata) ci si può dichiarare selvaggiamente religiosi, perché, ponendosi in contrapposizione alla politica (contrattuale), non ci si dovrebbe poter dichiarare selvaggiamente politici? Se Bataille interpreta la sua esperienza del sacro come un’a-teologia, perché non 7

R. Esposito, Categorie dell’impolitico, 299 idem, 260 9 Si veda il debito di Bataille a Goethe per questa definizione in G. Bataille, La sovranità, 48-49 e 56n. 10 S. Kierkegaard, citazione reperita in G. Bataille, “Contre-attaques”, 226 11 G. Ferrari, op. cit., 132 12 G. Bataille, La congiura sacra, 16. In effetti, come osserva F.C. Papparo nel suo incanto e misura (118), Bataille, volendo ri-annodare i legami fra gli esseri, realizza un pensiero re-ligioso. 8

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poter parlare di un a-politica? Se parla di iper-cristianesimo, perché non parlare di iper-politica? Esposito non esita a definire anche la religione di “Acéphale” come irreligiosa13. Ciò che invece, a mio avviso, intende Bataille con i termini ipercristianesimo o ateologia è l’esperienza in sé, coerentemente con gli studi del collège de sociologie, dei fenomeni patici alla base del sentimento sacro fondante le società umane, e quindi una contrapposizione critica nei confronti delle religioni rivelate ree, a suo avviso, di aver negato la violenza emotiva implicita ed ineliminabile in ognuno, ponendosi al servizio della tranquillità necessaria per l’accumulo; “religione non può significare per noi se non la pratica del riso (o delle lacrime, o dell’eccitazione erotica) sul piano universale – in questo senso preciso che il riso (come le lacrime o l’eccitazione erotica) rappresenta la caduta da tutto ciò che aveva ambito a imporre la propria permanenza”14. In Bataille il sacro è l’eterogeneo, l’inassimilabile (l’impossibile), mentre le religioni rivelate non sono altro che un eccesso di trascendenza da questo spazio della trasgressione: “L’autorità di diritto divino e Dio stesso rappresentano l’ostinazione disperata dell’uomo di opporsi alla potenza esuberante del tempo e a trovare la sicurezza in un’erezione immobile e vicina al più sterile sonno (…) per tentare di negare la morte riducendola a componente di una gloria senza angoscia”15. Bataille non si pone al di fuori della religione o della politica: esse, a pari titolo della ragione, sono l’uomo, lo costituiscono, lo fondano (al di là di esse non si dà l’uomo16). L’uomo sovrano di Bataille si pone in questo modo in uno spazio impossibile in cui esse sono la stessa cosa. L’acefalo è l’uomo senza alcuna autorità, l’essenza stessa della libertà17: di una libertà che essendo costretta, per affermarsi, a lottare contro ogni asservimento, assume un’importanza politica rilevante. Il congiurato di “Acéphale” è dunque un soggetto che, rifiutando ogni autorità, si decide all’azione solamente per poter sfuggire a qualsiasi azione18. Un essere di questo tipo è quanto di più lontano si possa immaginare dal passivo soggetto impolitico, che si definisce attraverso una riduzione del soggetto al fine di ridurre il potere19, mentre in Bataille c’è la negazione dell’individuo, dell’antropologia che claustrofobicamente lo definisce, a favore di un’antropologia altra che, come visto, ne definisce l’essere solo in relazione all’altro da sé, al reciproco completamento.

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R. Esposito, La comunità della perdita: l’impolitico in Bataille, XXV G. Bataille, Contre-attaques, 284 15 G. Bataille, Venti proposizioni sulla morte di Dio, in G. Bataille, La congiura sacra, 209 16 “L’uomo appartiene all’uno e all’altro di questi due mondi, tra i quali, per quanto faccia, la sua esistenza è lacerata. (…) ma il lavoro non riesce ad assorbirci interamente (…) sussiste pur sempre (…) un fondo di violenza” (G. Bataille, L’erotismo, 39). 17 G. Ferrari, op. cit., 125 18 si potrebbe dire che Bataille formula il progetto paradossale di liberarsi dalla funzione che determina in lui la progettualità (“L’esperienza interiore è progetto (…) Ma il progetto in questo caso non è più quello, positivo, della salvezza, bensì quello, negativo, di abolire il potere delle parole, dunque del progetto”; G. Bataille, L’esperienza interiore, 55-56), ma non sarebbe corretto: come visto la spinta all’azione in Bataille non è data da un progetto quanto invece da un bisogno ineliminabile di donare sé stesso alla comunità, una decisione immediata di tendere verso l’altro. 19 R. Esposito, categorie dell’impolitico, 21: “L’unico modo di contenere il potere è quello di ridurre il soggetto”. 14

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Non una limitazione del suo potere ma una liberazione di un potere che gli è proprio e ineliminabile: il potere, ed il diritto che questo potere giunga a successo, di perdersi, di morire indefinitamente.

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BIBLIOGRAFIA TESTI DI GEORGES BATAILLE: 1)

CONFERENZE SUL NON SAPERE E ALTRI SAGGI, Costa e Nolan, Genova-Milano, 1998.

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10)

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11)

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13)

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14)

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15)

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16)

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17)

TEORIA DELLA RELIGIONE, Se, Milano 2002.

ALTRI TESTI CONSULTATI: 1)

AA.VV.: Chaosmos: critica cura teoria, anno 2003 (sciogliere legare: sacrificio democrazia sovranità), Filema edizioni, Napoli

2)

AA.VV.: Fenomenologia e società (a cura di “comunità di ricerca”) n.2, 1998, anno XXI, Rosenberg & Sellier, Torino

3)

AA.VV.: Filosofia politica, anno VIII, n.1, aprile 1994, Il mulino, Bologna

4)

AA.VV.: Georges Bataille: il politico e il sacro, Liguori, Napoli, 1987.

5)

AA.VV.: L’ineguale umanità, Liguori, Napoli, 1991

6)

AA.VV.: Per Bataille: saggi sul pensiero batailleano, Bertani, Verona, 1976.

7)

AA.VV.: Sulla fine della storia: saggi su Hegel/Bataille, Liguori, Napoli, 1985.

8)

AA.VV.: Uomini in armi, L’ancora editore, Napoli 2000

9)

Agamben, Giorgio: La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino, 2001.

10)

Aron, Raymond: Marxismi immaginari: da una sacra famiglia all’altra, Angeli, Milano, 1972.

11)

Carli, Eddy: Cervelli che parlano, Mondadori, Milano 1997

12)

Derrida, Jacques: La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1990.

128


13)

Esposito, Roberto: Categorie dell’impolitico, Il mulino, Bologna, 1999.

14)

Ferrari, Federico: La comunità errante , Lanfranchi, Milano 1997.

15)

Ferrari, Giovanni: Georges Bataille: Il limite e l’impossibile, Marco, Lungro di Cosenza, 2003.

16)

Feyerabend, Paul K.: Contro il metodo, Feltrinelli editore, Milano 2002.

17)

Finzi, Sergio: Critica dell’occhio, Guaraldi, Rimini, 1972.

18)

Finzi, Sergio: Lavoro dell’inconscio e comunismo, Dedalo, Bari, 1975.

19)

Grassi, Carlo: Il non sapere, Costa e Nolan, Napoli 1998.

20)

Habermas, Jürgen: Il discorso filosofico della modernità (cap. 8, Fra erotismo ed economia generale:Bataille), Laterza, Roma, 1997.

21)

Hollier, Denis: Il collegio di sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991.

22)

Kuhn, Thomas: La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi editori, Torino 1978

23)

Lasch, Christopher: La ribellione delle élite, Feltrinelli editore, Milano 2001.

24)

Marramao, Giacomo: Potere e secolarizzazione, Editori riuniti, Roma, 1983.

25)

Mauss, Marcel: Saggio sul dono, Einaudi, Torino, 2002.

26)

Papparo, Felice Ciro: L’al di là del serio, Guida, Napoli 2002.

27)

Papparo, Felice Ciro: Incanto e misura: per una lettura di Georges Bataille, Edizioni scientifiche Italiane, Napoli 1997.

28)

Risset, Jacqueline: Bataille-Sartre: un dialogo incompiuto, Artemide, Roma 2002.

SAGGI e ARTICOLI: Agamben, Giorgio: Bataille e il paradosso della sovranità, in aa.vv., Georges Bataille, il politico e il sacro. Alberti, Paola: postfazione, in G. Bataille, Teoria della religione. Bishof, Rita: Nietszche, Bataille e il problema di una nuova morale, in aa.vv., Georges Bataille, il politico e il sacro. Blanchot, Maurice: postfazione, in G. Bataille, Su Nietszche. Cassinari, Flavio: Il punto cieco. La ricezione di Hegel e la polemica contro Heidegger nella riflessione di G. Bataille, in aa.vv., Fenomenologia e società. Ciampa, Maurizio: 1) Animali post-storici, in aa.vv, Sulla fine della storia; 2) La gnosi paradossale di Bataille, in aa.vv., Georges Bataille: il politico e il sacro. Coulange, Alain: La prova ovvero il veleno nella scrittura nell’organo, in aa.vv. Per Bataille: saggi sul pensiero batailleano. Didi Huberman, Georges: L’immagine aperta, in aa.vv.., Georges Bataille: il politico e il sacro Di Stefano, Fabrizio: Salire verso il basso, in aa.vv., Sulla fine della storia. Esposito, Maria: Il corpo e la carne. La comunità secondo G. Bataille e Simone Weil. Esposito, Roberto: 1) Il comunismo e la morte, in G. Bataille, La sovranità; 2) La comunità della perdita: l’impolitico di Bataille, in G. Bataille, La congiura sacra. Finzi, Sergio: La dialettica delle forme visibili, in G. Bataille, Documents. Galletti, Marina: 1) Riparazione a Bataille, in G. Bataille, Contre-attaques…; 2) “Masses”: un collège mancato?, in aa.vv., Georges Bataille: il politico e il sacro; 3) Il re del bosco, in G. Bataille, La congiura sacra. 4) Rivolta e sovranità, in J. Risset, Bataille-Sartre: un dialogo incompiuto.

129


Gasché, Rodolphe: L’aborto del pensiero, in aa.vv., Per Bataille… Hollier, Denis:

1) Contr’un, in aa.vv., Georges Bataille: il politico e il sacro; 2) La place de la concorde, in aa.vv., Per Bataille…; 3) Sull’equivoco (tra letteratura e politica), in G. Bataille, Il collegio di sociologia.

Lala, Marie-christine: 1) prefazione, in G. Bataille, Metodo di meditazione; 2) Da “la structure psycologique du fascism” ai fondamenti de “La souveraineté”, in aa.vv., Georges Bataille: il politico e il sacro Laserra, Annamaria: Bataille e Caillois: osmosi e dissenso, in aa.vv.., Georges Bataille: il politico e il sacro Manghi, Moreno: Il re dei boschi, in G. Bataille, Il colpevole/l’alleluia. Margat, Claire: Bataille-Sartre e il disgusto, in J. Risset, Bataille-Sartre: un dialogo incompiuto. Marmande, Francis: 1) Le vertige essentiel, in aa.vv., Georges Bataille: il politico e il sacro; 2) Sotto il sole nero della poesia, in J. Risset, Bataille-Sartre: un dialogo incompiuto. Maubon, Catherine: “Documents”: una esperienza eretica, in aa.vv., G. Bataille, il politico e il sacro. Moravia, Alberto: prefazione, in G. Bataille, Storia dell’occhio. Moroncini, Bruno: 1) Sovranità e democrazia, in aa.vv., Chaosmos…; 2) La comunità impossibile, in aa.vv., L’ineguale umanità. Nancy, Jean-Luc: Il pensiero sottratto, in J. Risset, Bataille-Sartre: un dialogo incompiuto. Orlandi-Cerenza, Germana: Bataille e le «Minotaure»: presagi e prodigi, in aa.vv., Georges Bataille: il politico e il sacro Papparo, Felice Ciro: 1) Tutti per (l’)uno, in aa.vv., Chaosmos…; 2) Una traccia lasciata su un vetro rigato, in G. Bataille, Il limite dell’utile; 3) Per più vedere e per più farvi amici, in aa.vv., L’ineguale umanità. Pasi, Carlo:

1) Al di là della poesia. G. Bataille dall’expérience intérieure a l’impossible, in aa.vv., Fenomenologia e società; 2) L’Hétérologie e “Acéphale”: dal fantasma al mito, in aa.vv., Georges Bataille, il politico e il sacro. 3) Il capriccio e il progetto, in J. Risset, Bataille-Sartre: un dialogo incompiuto.

Perroux, Francois: La parte maledetta e il silenzio, in aa.vv., Per Bataille… Piccioni, Laura: G. Bataille. La metamorfosi e l’occhio cannibale, in aa.vv., Fenomenologia e società. Pulcini, Elena:

1) Il bisogno di dépense. Passioni, sacro, sovranità in G. Bataille, in aa.vv., Filosofia politica; 2) Presentazione, in G. Bataille, Il dispendio.

Ravazzoni, Roberta:Georges Bataille e il pensiero del sacrificio, in aa.vv., Fenomenologia e società. Rella, Franco: Lo sguardo ulteriore della bellezza, in G. Bataille, La parte maledetta. Rey, Jean Michel:

1) Bataille e Nietszche, in aa.vv., G. Bataille: il politico e il sacro; 2) La messa in gioco, in aa.vv., Per Bataille…; 3) Il segno cieco, in aa.vv., Per Bataille… 4) Primi passi in letteratura, in J. Risset, Bataille-Sartre: un dialogo incompiuto.

Ronchi, Rocco: L’ontologia dell’eccesso, in J. Risset, Bataille-Sartre: un dialogo incompiuto. Rubino, Gianfranco: Due letture del male, in J. Risset, Bataille-Sartre: un dialogo incompiuto. Santone, Laura: La ricerca dell’«Istante privilegiato», in J. Risset, Bataille-Sartre: un dialogo incompiuto. Surya, Michel: Il salto mortale dell’engagement, in J. Risset, Bataille-Sartre: un dialogo incompiuto. Tamassia, Paolo: Al di là della dialettica: politica e letteratura, in J. Risset, Bataille-Sartre: un dialogo incompiuto. Traverso, Enzo: Il genocidio invisibile, in J. Risset, Bataille-Sartre: un dialogo incompiuto.

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