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Specificità del controllo formale della dichiarazione dei redditi............................. I

Specificità del controllo formale della dichiarazione dei redditi

soMMario: 1. Premessa. – 2. Il controllo formale di cui all’art. 36-ter D.P.R. 600/1973. – 3. Il confine tra controllo formale e liquidazione. – 4. (segue) e con l’attività di accertamento. – 5. Le diverse “determinazioni” dei crediti d’imposta di cui all’art. 36ter, comma 2, lett. d). – 6. Considerazioni conclusive in punto di tutela del contribuente.

Il controllo formale, di cui all’art. 36-ter D.P.R. 600/1973, rientra tra i controlli cartolari delle dichiarazioni e si applica nel campo delle imposte sui redditi. Dalla sua disciplina emergono una serie di aspetti problematici che riguardano sia la natura dello stesso quanto il suo rapporto con le altre forme di controllo delle dichiarazioni, ma anche e più in generale con l’attività di accertamento. Inoltre nelle trame del controllo formale si annidano una serie di specificità, in particolar modo con riferimento alle fattispecie creditorie del contribuente. E di certo non si può trascurare come aspetti problematici e specificità impattino (anche) sul versante della tutela giurisdizionale.

The formal control, referred to in article 36-ter D.P.R. 600/1973, is one of the return’s controls that are merely based on the return and few other elements, and its application field is income taxes. From its discipline arise many problematical aspects regarding both its nature and its relationship with other forms of return’s control, but even and more in general with tax assessment. Moreover, inside the formal control there are a series of specificities, regarding in particular the cases of tax credits. And for sure it’s impossible to ignore that problematical aspects and specificities have an impact (even) on the side of judicial protection.

1. Premessa. – Il terreno su cui si sviluppa il presente lavoro è quello del controllo formale della dichiarazione dei redditi, disciplinato dall’art. 36-ter D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Si tratta di una attività ascrivibile al genus dei controlli cartolari della dichiarazione e che consta di una struttura complessa, nelle cui trame possono annidarsi aspetti problematici, tant’è che si registrano differenze di vedute in dottrina ed in giurisprudenza riguardo i rapporti fra tale istituto ed il finitimo 36-bis ma anche, e più in generale, con l’attività di accertamento.

Da queste premesse muovono le considerazioni che seguono. Considerazioni con cui si cercherà, analizzando partitamente le varie fattispecie elencate nell’art. 36-ter, di mettere in luce legami e rapporti con altri istituti. E come si vedrà nel corso dell’indagine, emergeranno “assonanze” ma anche e soprattutto “dissonanze” tra le fattispecie considerate. Punto di arrivo del discorso che si intende sviluppare è dato da alcune considerazioni circa le possibilità di tutela giurisdizionale del contribuente assoggettato a controllo formale.

2. Il controllo formale di cui all’art. 36-ter D.P.R. 600/1973. – La rubrica dell’art. 36-ter D.P.R. 600/1973, che recita testualmente «controllo formale delle dichiarazioni», individua un istituto originariamente non previsto nel corpo del D.P.R. 600 e la cui fisionomia ha subito vistose modifiche nel corso degli anni.

La prima forma di controllo “cartolare delle dichiarazioni” è quella di cui all’art. 36-bis (1), introdotto nel 1976 e rubricato allora «Liquidazione delle imposte dovute in base alle dichiarazioni». Mentre occorre attendere il 1982 (2) per l’introduzione dell’art. 36 ter, rubricato originariamente come «Liquidazione dell’Irpef in base a più dichiarazioni o certificati di esse sostitutivi presentati dallo stesso contribuente»,che consentiva all’Amministrazione il recupero del maggior tributo ove, nel medesimo periodo d’imposta (3), vi fossero più dichiarazioni riferibili al medesimo contribuente.

È al D.lgs. 9 luglio 1997, n. 241 che l’art. 36-ter deve buona parte della sua attuale formulazione, a cominciare dalla rubrica che non si riferisce più alla mera liquidazione ma al «controllo formale delle dichiarazioni». Vi è dunque un mutamento nella rubrica che riflette anche un mutamento nella sostanza dell’attività.

(1) L’articolo è stato introdotto dall’art. 2 D.P.R. 24 dicembre 1976, n. 920 nell’ambito di un intervento sul corpo del D.P.R. 600/1973. (2) Cfr. art. 1 D.P.R. 14 aprile 1982, n. 309. (3) Infatti, nella sua originaria formulazione esso disponeva, al comma 1: «Senza pregiudizio dell’accertamento a norma degli artt. 37 e seguenti, gli uffici delle imposte sulla base degli elementi in loro possesso o di quelli forniti dal Centro informativo delle imposte dirette procedono alla liquidazione della maggiore imposta sul reddito delle persone fisiche dovuta sull’ammontare complessivo dei redditi risultanti da più dichiarazioni o certificati di cui all’art. 1, quarto comma lett. d), presentati per lo stesso anno dal medesimo contribuente».

Nel primo comma si fissa un termine (4) per l’effettuazione del controllo e si fa riferimento ai criteri selettivi, fissati dal Ministro delle finanze, per la individuazione dei contribuenti da assoggettare al medesimo controllo.

A queste indicazioni segue, nel comma secondo, una puntuale elencazione delle attività consentite all’Amministrazione in sede di controllo formale, preceduta dalla formula «senza pregiudizio per l’azione accertatrice», che già figurava nelle precedenti formulazioni e che riecheggia l’art. 41-bis D.P.R. 600/1973 (5) frattanto introdotto (6). Appunto nel comma 2 dell’art. 36-ter vengono elencate le varie tipologie di intervento consentite all’Amministrazione in sede di controllo formale. E segnatamente l’Ufficio ha il potere-dovere di escludere tanto lo scomputo di ritenute, quanto deduzioni e detrazioni, di determinare i crediti d’imposta dei contribuenti, di liquidare la maggiore imposta risultante da più dichiarazioni e di correggere gli errori materiali o di calcolo presenti nelle dichiarazioni dei sostituti d’imposta.

Sono evidenti le novità rispetto alle precedenti formulazioni della disposizione. Alla originaria attività di liquidazione dell’imposta sulla base di più dichiarazioni, tuttora consentita, si aggiungono i poteri di esclusione di deduzioni e detrazioni e dello scomputo di ritenute.

Le novità introdotte con la riforma del 1997 non si fermano al contenuto del controllo formale ma toccano anche la sua struttura procedimentale. Al decreto 241/1997, difatti, si deve quella struttura bifasica della procedura, tuttora prevista, che consta di due diverse forme di coinvolgimento del contribuente. Si ricorda che nella formulazione originaria dell’art. 36-ter l’intervento del

(4) Il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione. Il problema della natura del termine stabilito nel comma 1 dell’art. 36 ter deve essere risolto tenendo conto dei rapporti tra quest’ultima disposizione e gli artt. 17 e 25 D.P.R. 602/1973 che riguardano rispettivamente i termini per l’iscrizione a ruolo e per la notifica della cartella di pagamento. La questione fuoriesce tuttavia dall’oggetto del presente lavoro. (5) Sulle differenze testuali tra gli artt. 36-ter e 41-bis si veda, per tutti, G. Fransoni, Considerazioni su accertamenti “generali”, accertamenti parziali, controlli formali e liquidazione della dichiarazione alla luce della L. n. 311/2004, in Riv. dir. trib., 2005, I, 600. (6) L’art. 41-bis, come è noto, dispone che «senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dall’articolo 43, i competenti uffici dell’Agenzia delle entrate, qualora dalle attività istruttorie di cui all’articolo 32, primo comma, numeri da 1) a 4), … risultino elementi che consentono di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato… nonché l’esistenza di imposte o di maggiori imposte non versate … possono limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, il reddito o il maggior reddito imponibili, ovvero la maggiore imposta da versare ... Non si applica la disposizione dell’articolo 44».

contribuente non era previsto; solo con l’art. 10-ter del D.l. 2 marzo 1989, n. 69 (7), fu previsto al comma 3 dell’art. 36-ter un invito al contribuente a confermare l’esposizione dei dati inseriti in dichiarazione, a rettificare errori ed a presentare ricevute di versamento e documenti indicati nella dichiarazione (ma non allegati alla stessa) (8).

Per l’appunto a far tempo dal 1997 si prevede invece sia un apporto in itinere che un apporto a valle del controllo. Il terzo comma prevede, difatti, che il contribuente sia invitato «a fornire chiarimenti in ordine ai dati contenuti nella dichiarazione e ad eseguire o trasmettere ricevute di versamento e altri documenti non allegati alla dichiarazione o difformi dai dati forniti da terzi» (9). Chiarimenti e documenti che da un lato consentono l’effettuazione del controllo, del quale costituiscono la fase c.d. istruttoria (10), dall’altro aprono le porte alla seconda forma di coinvolgimento del contribuente. Il quarto comma, infatti, e a seguire, prevede che l ’esito del controllo sia comunicato al contribuente (11) «… con l’indicazione dei motivi che hanno

(7) Conv. L. 27 aprile 1989, n. 154. (8) Il comma terzo dell’art. 36-ter, nella formulazione entrata in vigore il 29 aprile 1989, non precisava in quale momento avrebbe dovuto essere interpellato il contribuente. Non precisava, cioè, se questo coinvolgimento dovesse avvenire nel corso della liquidazione o al suo esito. (9) Il comma 3-bis, introdotto dall’art. 4-bis D.l. 30 aprile 2019, n. 34, conv. L. 28 giugno 2019, n. 58, dispone che «ai fini del controllo di cui al comma 1, gli uffici, ai sensi dell’articolo 6, comma 4, della legge 27 luglio 2000, n. 212, non chiedono ai contribuenti documenti relativi a informazioni disponibili nell’anagrafe tributaria o a dati trasmessi da parte di soggetti terzi in ottemperanza a obblighi dichiarativi, certificativi o comunicativi, salvo che la richiesta riguardi la verifica della sussistenza di requisiti soggettivi che non emergono dalle informazioni presenti nella stessa anagrafe ovvero elementi di informazione in possesso dell’amministrazione finanziaria non conformi a quelli dichiarati dal contribuente. Eventuali richieste di documenti effettuate dall’amministrazione per dati già in suo possesso sono considerate inefficaci». È evidente la sintonia del comma citato con l’art. 6, comma 4, L. 212/2000, del quale costituisce attuazione specifica, che sancisce il c.d. principio di non aggravamento, impedendo che al contribuente possano essere richiesti documenti già in possesso dell’Amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente. Sul punto si veda S. Cannizzaro, Il principio di reciproca collaborazione tra amministrazione finanziaria e contribuente nel procedimento e nel processo, in AA.VV., Statuto dei diritti del contribuente, a cura di A. FanTozzi, a. Fedele, Milano, 2005, 242 ss. (10) In questo senso cfr. ad esempio Cass. n. 24813 del 15 settembre 2021; Id. n. 5196 del 17 febbraio 2022. (11) Secondo M Pierro, Il dovere di informazione dell’amministrazione finanziaria, Torino, 2013, 147, la comunicazione di irregolarità non dovrebbe essere inviata nel caso in cui non sia emerso alcun debito d’imposta e il controllo abbia avuto esito positivo, posto che il dovere di informazione, ai sensi dell’art. 6, comma 2, dello Statuto, opera solo ove l’Amministrazione

dato luogo alla rettifica degli imponibili, delle imposte, delle ritenute alla fonte, dei contributi e dei premi dichiarate, per consentire anche la segnalazione di eventuali dati ed elementi non considerati o valutati erroneamente in sede di controllo formale entro i trenta giorni successivi al ricevimento della comunicazione (12)». Così la comunicazione consente al contribuente di venire a conoscenza della eventuale pretesa prima che si proceda con la iscrizione a ruolo e di poter far valere già in sede amministrativa sia le inesattezze nella valutazione dei dati e degli elementi già acquisiti dall’Amministrazione, sia eventuali elementi non valutati in precedenza (13).

È dunque evidente la diversità delle funzioni che queste due diverse forme di coinvolgimento del contribuente possono assolvere (14). La prima ha funzio-

intenda adottare provvedimenti lesivi per il contribuente. A questa ricostruzione può solo aggiungersi che, come si vedrà meglio in seguito, la comunicazione può ritenersi doverosa anche ove l’Ufficio abbia disconosciuto un credito e, purtuttavia, non avanzi alcuna pretesa destinata a confluire in una iscrizione a ruolo. Si tratterebbe di un atto comunque lesivo per il contribuente, tant’è che l’art. 6, comma 5, dello Statuto prevede l’obbligo di attivazione del contraddittorio nelle ipotesi in cui a seguito della liquidazione emerga la «spettanza di un minor rimborso d’imposta rispetto a quello richiesto». La disposizione sembra proprio riferirsi alle ipotesi di cui si è detto, in alternativa verrebbe già assorbita da quella di cui alla prima parte del medesimo comma. (12) La disposizione in discorso è stata interessata solo in minima parte dal D.lgs. 26 gennaio 2001, n. 32 (intervento correttivo volto a rendere coerenti le leggi in vigore con i principi dello Statuto). L’unica innovazione introdotta nel 2001 è il termine di trenta giorni per la segnalazione del contribuente. (13) Non si vedono ragioni per escludere che i dati o gli elementi non presentati nella prima forma di coinvolgimento possano essere forniti successivamente, in seguito cioè alla comunicazione dell’esito. A sostegno di questa conclusione può invocarsi il comma 4 dell’art. 32 D.P.R. 600/1973, che, come è noto, esclude che gli «atti i documenti… non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa». La stessa disposizione impedisce tuttavia l’operatività di queste preclusioni, ove il contribuente «depositi in allegato all’atto introduttivo del giudizio di primo grado … i dati … i documenti dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile».

La medesima possibilità dovrebbe essere riconosciuta anche in sede di controllo formale ove, oltretutto, la pretesa dell’Amministrazione non viene cristallizzata subito in un atto espressamente impugnabile, cui possano riferirsi decadenze, ma in una mera comunicazione di irregolarità. (14) Ogniqualvolta si discuta di partecipazione nel diritto amministrativo è opportuno tracciarne i confini dal contraddittorio. Mentre quest’ultimo ha origine essenzialmente processuale e trova fondamento nel diritto di difesa, la partecipazione mira a far conoscere all’amministrazione gli interessi coinvolti nell’esercizio della funzione amministrativa cui, in questo modo il privato partecipa (in questo senso cfr. F. SaTTa, Contraddittorio e partecipazione nel procedimento amministrativo, in Dir. amm., 2010, 2, 306 e ss.; sulla distinzione fra

ne essenzialmente collaborativa (15), la seconda, invece, può assumere anche funzione difensiva (16) ove diretta a coonestare le ragioni del contribuente a

partecipazione e contraddittorio si veda anche F. TriMarChi, Considerazioni in tema di partecipazione al procedimento amministrativo, in Dir. proc. amm., 2000, 3, 634 ss. Sul tema del contraddittorio si veda anche D.U. GaleTTa, Il diritto ad una buona amministrazione nei procedimenti amministrativi oggi (anche alla luce della discussione sull’ambito di applicazione dell’art. 41 della Carta dei diritti UE), in AA.VV., Il diritto ad una buona amministrazione nei procedimenti tributari, a cura di M. Pierro, Milano, 2019, 1 ss.).

Nel diritto tributario qualunque indagine sulle forme di coinvolgimento del contribuente passa attraverso la disposizione dell’art. 13 L. 241/1990 che esclude l’applicabilità delle disposizioni contenute nel capo III, dedicato alla partecipazione, ai procedimenti tributari, rispetto ai quali, tuttavia, restano ferme «le particolari norme che li regolano». Qualunque tipologia di apporto del contribuente deve inoltre fare i conti con la vincolatezza che caratterizza la funzione di accertamento che esclude qualunque ponderazione di interessi e che sembra allontanare l’apporto in discorso dal modello amministrativo di partecipazione.

L’eterogeneità delle fattispecie di cui si compone la disciplina tributaria non consente una definizione unitaria della partecipazione del privato. E queste difficoltà di inquadramento vengono messe in rilievo da A. FanTozzi, Violazione del contraddittorio e invalidità degli atti tributari, in Riv. dir. trib., 2011, 2, 138 ss., l’A. da atto dei profondi mutamenti, intervenuti nel corso del tempo, sulla partecipazione del privato che, da meramente collaborativa, è andata talora ad assumere i tratti della partecipazione difensiva.

Con riferimento all’indagine che qui si conduce può, tuttavia, richiamarsi il pensiero di quella dottrina che, nelle imposte sui redditi e nell’IVA, sostiene la natura giustiziale dell’accertamento. Con la conseguenza che l’apporto del contribuente sarebbe assimilabile più al contraddittorio che alla partecipazione (che, invece, andrebbe riferita ai procedimenti di amministrazione attiva), cfr. S. La rosa, Cinque quesiti in tema di “contraddittorio endoprocedimentale” tributario, in Riv. dir. trib., 2020, 4, 305 ss. Non molto distante da questo modello è la prospettiva di G. raguCCi, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2013, 5 e 6. Secondo l’A., se si è ben inteso il suo pensiero, la bipartizione tra partecipazione “collaborativa” e “difensiva” non potrebbe essere estesa al diritto tributario, dovendosi ricondurre la partecipazione direttamente al principio di legalità dell’imposizione. Lo stesso ritiene, inoltre, che la partecipazione abbia lo scopo di consentire l’attuazione imparziale della legge d’imposta ed assolverebbe una funzione analoga a quella del contraddittorio (id., Legalità tributaria e contraddittorio,in Riv. dir. fin. Sc. Fin., 2004, I, 269 ss.). Sul tema del contraddittorio in materia tributaria si vedano L. salvini, La partecipazione del privato all’accertamento, Padova, 1990; s. saMMarTino, Il diritto al contraddittorio endoprocedimentale, in Rass. trib., 2016, 4, 986 ss.; A. Giovannini, Il contraddittorio endoprocedimentale, in Rass. trib., 2017, 1, 13 ss.; aa.vv., Il diritto ad una buona amministrazione nei procedimenti tributari, a cura di M. Pierro, cit.; a. CoMelli, I diritti della difesa, in materia tributaria, alla stregua del diritto dell’Unione Europea e, segnatamente, il “droit d’être entendu” e il diritto a un processo equo, in Dir. prat. trib., 2020, I, 1315 ss. (15) In questa sede il contribuente “collabora” con l’Amministrazione ai fini della corretta attuazione della normativa tributaria. (16) In questo senso si vedano L. salvini, La “nuova” partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo statuto del contribuente ed oltre), in Riv. dir. trib., 2000,

fronte di una erronea valutazione amministrativa degli elementi forniti nella fase precedente; in questo caso l’Ufficio, ove accolga le osservazioni del contribuente, potrà rideterminare il risultato del controllo comunicato in precedenza (17).

Funzione ulteriore della comunicazione dell’esito è anche quella di consentire al contribuente (subordinatamente ad una precisa scelta) di accedere alla definizione agevolata delle sanzioni (18).

Si comprende quindi perché l’art. 6, comma 5, dello Statuto dei diritti del contribuente imponga all’Amministrazione, prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla «liquidazione di tributi» (19), di invitare il contribuente a fornire chiarimenti o a produrre documenti qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione (20). E, a differenza delle disposizioni

1, 13; M.T. MosCaTelli, Il contraddittorio nella fase di liquidazione e controllo formale del tributo alla luce dell’art. 6, comma 5, dello Statuto dei diritti del contribuente, in Statuto dei diritti del contribuente, cit., 267; A. FanTozzi, op. cit., 140. Diversamente E. Grassi, Nuove considerazioni sulla dichiarazione delle imposte sui redditi, secondo il recente decreto legislativo modificativo degli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. n.600/1973, in Il fisco, 1998, 15, 4573, attribuisce alla comunicazione ex art. 36-ter funzione collaborativa. (17) Secondo S. Zagà, le discipline del contraddittorio nei procedimenti di «controllo cartolare» delle dichiarazioni, in Dir. prat. trib., 2015, 6, 871 ss., la disciplina procedimentale del controllo formale di cui all’art. 36-ter è volta ad assicurare l’effettivo svolgimento del contraddittorio donde sussisterebbe un obbligo, in capo all’Ufficio, di valutare la segnalazione del contribuente e di inviare una seconda comunicazione contente una eventuale rideterminazione in sede di autotutela del precedente esito. (18) L’art. 3, comma 1, D.lgs., 18 dicembre 1997, n. 462, dispone che «Le somme che, a seguito dei controlli formali effettuati ai sensi dell’articolo 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, risultano dovute a titolo d’imposta, ritenute, contributi e premi o di minori crediti già utilizzati, nonché di interessi e di sanzioni, possono essere pagate entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione prevista dal comma 4 del predetto articolo 36-ter, con le modalità indicate nell’articolo 19 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, concernente le modalità di versamento mediante delega. In tal caso l’ammontare delle sanzioni amministrative dovute è ridotto ai due terzi e gli interessi sono dovuti fino all’ultimo giorno del mese antecedente a quello dell’elaborazione della comunicazione». (19) Ancorché la disposizione si riferisca testualmente alla “liquidazione”, si è ritenuto che essa sia applicabile anche ai controlli formali di cui all’art. 36-ter. In questo senso si veda Circ. 3 agosto 2001, n. 77 e, per la dottrina, M.T. MosCaTelli, op. cit., 269; A. FanTozzi, Violazione del contraddittorio e invalidità degli atti tributari, cit., 154. S. Zagà, le discipline, cit. 878, ritiene invece che l’art. 6, comma 5, sia applicabile solo alle liquidazioni delle dichiarazioni posto che per i controlli formali opererebbe la specifica disciplina ivi prevista, la cui inosservanza determina ex se l’invalidità degli atti successivi. (20) Con riferimento al controllo formale di cui all’art. 36-ter è opportuno precisare che se si ritiene applicabile al controllo formale la disposizione di cui all’art. 6, comma 5 dello Statuto, l’invito a fornire chiarimenti o a produrre documenti ivi prescritto dovrà essere riferito alla seconda forma di coinvolgimento del contribuente, cioè quella che segue la comunicazione

contenute negli articoli 36-bis e 36-ter, ove non vengono previste conseguenze giuridiche precise per il caso di omesso invio della comunicazione, nell’art. 6, comma 5, è disposta la nullità (21) dei provvedimenti adottati in violazione di quanto in esso prescritto.

dell’esito del controllo. È ben vero che testualmente l’art. 6 potrebbe ricollegarsi anche al comma 3 dell’art. 36-ter che, come si è visto, prevede un invito a fornire chiarimenti o a produrre documenti «ai fini» dei commi 1 e 2. Ma è anche vero che l’art. 6, comma 5, colloca l’invito di cui si è detto in una fase immediatamente antecedente alla iscrizione a ruolo (e, in ogni caso, successiva all’esito del controllo, cosa che si evince dal riferimento al «minor rimborso» che risulta dalla liquidazione) donde sembra corretto riferire la disposizione dell’art. 6, comma 5, alla comunicazione disciplinata dall’art. 36-ter, comma 4. (21) Sul punto è possibile effettuare un duplice ordine di rilievi. In primo luogo occorre chiedersi come debba essere intesa la nullità cui si riferisce l’art. 6, comma 5.

Ebbene, nonostante il sistema duale che si è affermato in ambito amministrativo con la L. 11 febbraio 2005, n. 15, possa essere applicato alla materia tributaria (cfr. ad es. E. Marello, I fondamenti sistematici del sistema duale nullità-annullabilità, in Riv dir. fin. sc. fin., 2014, I, 352 ss.), è comunque innegabile che l’interpretazione del termine nullità, di cui all’art. 6, comma 5, vada condotta alla luce del significato in uso al tempo del legislatore e, dunque, debba essere intesa in termini di annullabilità. Al tempo in cui fu emanato lo Statuto dei diritti del contribuente difatti non era prevista, a livello normativo, la distinzione tra nullità ed annullabilità. È comunque vero che essendo ora applicabile l’art. 21-septies della L. 241/1990 potrebbe comunque discutersi di nullità strutturale per la rilevanza essenziale del contraddittorio nell’ambito del controllo formale. E ciò non determinerebbe un contrasto tra nullità testuale e nullità strutturale, (posto che, come si è detto, la nullità di cui all’art. 6, comma 5, va letta in termini di annullabilità) ma, piuttosto, un contrasto tra nullità strutturale e annullabilità testuale. Cfr. Marello, op. loc. cit., 373 che con riferimento alle disposizioni previgenti alla riforma del 2005 ritiene prevalente il vizio strutturale.

In secondo luogo ci si potrebbe interrogare sulle conseguenze dell’omesso invio della comunicazione di irregolarità ex art. 36-ter al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 6, comma 5, L. 212/2000, ossia quando non sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione.

Il silenzio del legislatore sul punto induce a ricercare la risposta al di fuori del dato testuale (sulle invalidità non previste espressamente dal legislatore si veda ad es. S. Zagà, Le invalidità degli atti impositivi, Padova, 2012,74 ss.). Potrebbe dunque rilevarsi tanto che il sistema della annullabilità in campo tributario sia essenzialmente aperto quanto la non sufficienza del mero allontanamento dal tipo normativo di atto, affinché si produca il vizio cfr. E. Marello, op. loc. cit., 364 ss.

Essendo l’attivazione del contraddittorio lo scopo principale della comunicazione preventiva occorre vedere quanto importante sia il contraddittorio nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 36-ter.

A tal fine può richiamarsi l’insegnamento di quella dottrina per cui «la partecipazione nel procedimento tributario, in quanto costituisce un canone non generale di azione ma solo un modello procedimentale previsto in rare ipotesi, assume per ciò solo un peso diverso da quello ordinariamente rivestito nel procedimento amministrativo generale», in questi termini si esprime A. FanTozzi, op. cit., 152. Il contraddittorio assume dunque un peso particolare anche al di fuori delle ipotesi specificamente disciplinate dall’art. 6, comma 5, dello Statuto

Delineata nei suoi aspetti essenziali la struttura del controllo formale della dichiarazione, è possibile passare in primo luogo all’esame dei suoi rapporti con le fattispecie contermini per cercare poi di individuare la sua precisa natura.

3. Il confine tra controllo formale e liquidazione. – L’istituto con cui il controllo formale presenta il legame più stretto è quello disciplinato dal finitimo 36-bis. E il legame cui ci si riferisce non è tanto topografico, essendo gli articoli di riferimento collocati in successione; ma attiene all’essenza delle attività di liquidazione e controllo formale. Ciò nondimeno vi sono una serie di differenze che riguardano tanto la forma quanto la sostanza delle due attività.

Per quel che concerne la forma, tanto la liquidazione quanto il controllo formale, si collocano nel genus dei controlli cartolari della dichiarazione attraverso i quali l’Amministrazione può eseguire delle correzioni del dichiarato ed iscrivere direttamente a ruolo senza la previa notifica di un avviso di accertamento.

Tuttavia le due fattispecie non sono sovrapponibili. La liquidazione è eseguita in via automatizzata su tutte le dichiarazioni presentate. Il controllo formale, per contro, riguarda le sole dichiarazioni individuate «sulla base dei criteri selettivi» fissati a livello centrale (22).

dei diritti del contribuente, e quindi anche in quelle di cui si occupa il comma 4 dell’art. 36-ter. Di conseguenza, l’inosservanza dell’obbligo ivi prescritto dovrebbe determinare comunque l’invalidità (annullabilità) dei provvedimenti successivi. Una qualche eco di questo ragionamento si ritrova anche nella giurisprudenza. Infatti si è affermato che, a differenza del controllo di cui all’art. 36-bis, quello di cui all’art. 36-ter per la sua intrinseca natura deve constare di una fase procedimentale necessaria con finalità di garanzia del contribuente, per l’appunto la comunicazione di irregolarità. Cfr. ex multis Cass., 4 luglio 2014, n. 15311; Id., 15 luglio 2020, n. 15129; Id., 19 ottobre 2021, n. 28944.

A quanto detto può aggiungersi solo una notazione. Il discorso svolto con riferimento al comma 4 dell’art. 36-ter non può applicarsi de plano all’invito a produrre documenti o a fornire chiarimenti di cui al comma 3 del medesimo articolo. È ben vero che si tratta di una forma di collaborazione del contribuente ma è anche vero che in caso di omissione dell’invito il contribuente potrebbe comunque fornire i chiarimenti o i documenti in seguito alla comunicazione dell’esito del controllo di cui al comma 4.

Sul tema della invalidità degli atti impositivi si vedano anche: F. Tesauro, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. trib., 2005, 1446 ss.; M. BasilaveCChia, La nullità degli atti impositivi: considerazioni su principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. dir. fin. Sc. fin., 2006, 2, 356 ss.; L. del FederiCo, La rilevanza della legge generale sull’azione amministrativa in materia tributaria e l’invalidità degli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 2010, 6, 729 ss.; F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2015. (22) Cfr. art. 36-ter, comma 1.

Dal punto di vista procedimentale, invece, mentre la liquidazione viene effettuata in via del tutto automatizzata ed il contribuente può essere coinvolto solo all’esito della procedura (23), in sede di controllo formale, come si è visto nel paragrafo precedente, il contribuente viene interpellato sia nel corso che all’esito del controllo.

Ed anche sul piano dei contenuti – quelli di cui tanto nell’art. 36-bis quanto nel 36-ter è prevista la puntuale indicazione – i due controlli cartolari divergono. Del comma 2 dell’art. 36-ter si è detto nei paragrafi precedenti; quivi si ricorda il comma 2 dell’art. 36-bis, per il quale è possibile la correzione in via automatizzata di errori materiali e di calcolo, la riduzione di deduzioni, detrazioni e crediti d’imposta nonché il controllo della tempestività e della rispondenza alla dichiarazione dei versamenti e delle ritenute (24).

Sul piano terminologico le differenze tra le due disposizioni non sono troppo significative e questo potrebbe portare a considerare sovrapponibili le due fattispecie (25). Un esame più approfondito disvela però un risultato diametralmen-

(23) Il terzo comma dell’art. 36-bis dispone che «quando dai controlli automatici eseguiti emerge un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione … l’esito della liquidazione è comunicato al contribuente o al sostituto d’imposta per evitare la reiterazione di errori e per consentire la regolarizzazione degli aspetti formali. Qualora a seguito della comunicazione il contribuente o il sostituto di imposta rilevi eventuali dati o elementi non considerati o valutati erroneamente nella liquidazione dei tributi, lo stesso può fornire i chiarimenti necessari all’amministrazione finanziaria entro i trenta giorni successivi al ricevimento della comunicazione». (24) Il comma 2 dell’art. 36-bis dispone: «sulla base dei dati e degli elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni presentate e di quelli in possesso dell’anagrafe tributaria, l’Amministrazione finanziaria provvede a: a) correggere gli errori materiali e di calcolo commessi dai contribuenti nella determinazione degli imponibili, delle imposte, dei contributi e dei premi; b) correggere gli errori materiali commessi dai contribuenti nel riporto delle eccedenze delle imposte, dei contributi e dei premi risultanti dalle precedenti dichiarazioni; c) ridurre le detrazioni d’imposta indicate in misura superiore a quella prevista dalla legge ovvero non spettanti sulla base dei dati risultanti dalle dichiarazioni; d) ridurre le deduzioni dal reddito esposte in misura superiore a quella prevista dalla legge; e) ridurre i crediti d’imposta esposti in misura superiore a quella prevista dalla legge ovvero non spettanti sulla base dei dati risultanti dalle dichiarazioni; f) controllare la rispondenza con la dichiarazione e la tempestività dei versamenti delle imposte, dei contributi e dei premi dovuti a titolo di acconto e di saldo e delle ritenute alla fonte operate in qualità di sostituto d’imposta». (25) L’art. 36-bis consente all’ufficio di ridurre deduzioni, detrazioni o crediti d’imposta laddove l’art. 36-ter prevede l’esclusione di deduzioni detrazioni e dello scomputo di ritenute e di determinare crediti d’imposta.

te opposto. Nei limiti consentiti dal presente lavoro, valga, come unico esempio, la correzione degli errori materiali e di calcolo della dichiarazione dei redditi – probabilmente la più vistosa delle differenze – venendo essa consentita in sede di liquidazione ma non di controllo formale (26). E questa diversità non è frutto di una mera svista del legislatore; essa traduce piuttosto una precisa scelta. Se fosse consentita l’effettuabilità di queste correzioni anche in sede di controllo formale non solo il termine previsto per la liquidazione risulterebbe tacitamente abrogato (27), ma il contribuente verrebbe ammesso ad un abbattimento delle sanzioni, quello previsto dall’art. 3 D.lgs. 462/1997, diverso e deteriore rispetto a quello previsto dal precedente art. 2 per la liquidazione (28).

Allora non sembra azzardato concludere che il controllo formale, pur condividendo con la liquidazione la natura di controllo cartolare, si configura rispetto ad essa come una fattispecie di secondo livello con un oggetto diverso, il cui confine è determinato dal grado di approfondimento controllo (29).

(26) Vi è a dire che la correzione degli errori materiali e di calcolo non è del tutto estranea al controllo formale di cui all’art. 36-ter, posto che nella lettera f) del secondo comma si prevede la correzione degli errori materiali e di calcolo presenti nelle dichiarazioni dei sostituti. (27) Il comma 1 dell’art. 36-bis individua quale limite ultimo l’inizio del periodo di presentazione delle dichiarazioni relative all’anno successivo, l’art. 36-ter, invece, consente il controllo formale entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione. (28) Benché l’art. 13, comma 2, 18 dicembre 1997, n. 471 preveda la medesima sanzione, il trenta per cento degli importi non versati sia per la liquidazione che per il controllo formale, i due istituti divergono risetto alla definizione agevolata delle sanzioni. Con riferimento alla liquidazione il comma 2 dell’art. 2 D.lgs. 462/1997 dispone che «L’iscrizione a ruolo non è eseguita, in tutto o in parte, se il contribuente … provvede a pagare le somme dovute … entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione, prevista dai commi 3 dei predetti articoli 36bis ... In tal caso, l’ammontare delle sanzioni amministrative dovute è ridotto ad un terzo e gli interessi sono dovuti fino all’ultimo giorno del mese antecedente a quello dell’elaborazione della comunicazione». L’art. 3, in relazione al controllo formale, dispone che «Le somme che, a seguito dei controlli formali … risultano dovute a titolo d’imposta, ritenute, contributi e premi o di minori crediti già utilizzati, nonché di interessi e di sanzioni, possono essere pagate entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione prevista dal comma 4 del predetto articolo 36-ter … In tal caso l’ammontare delle sanzioni amministrative dovute è ridotto ai due terzi e gli interessi sono dovuti fino all’ultimo giorno del mese antecedente a quello dell’elaborazione della comunicazione». (29) G. Fransoni, Considerazioni su accertamenti “generali”, accertamenti parziali, controlli formali e liquidazione della dichiarazione alla luce della L. n. 311/2004, cit., 600. E nello stesso senso si è pronunciata anche la giurisprudenza, si veda, ad es. Cass. n. 17130, del 16 giugno 2021; Id., 24813/2021, cit.

4. (segue) e con l’attività di accertamento. – 4.1 Maggiori difficoltà insorgono quando si cerca di individuare la specifica natura del controllo formale ed il suo rapporto con l’attività di accertamento. Sul tema non vi è, in dottrina, uniformità di vedute. Alcuni autori ritengono che la liquidazione della dichiarazione, così come il suo controllo formale, siano fattispecie della riscossione (30), altri invece li considerano espressione della potestà di accertamento (31).

Risolvere la questione non è agevole, tanto più se si considerano le difficoltà che si sono riscontrate e si riscontrano tuttora nel fornire una definizione di accertamento (32). Entro i limiti del presente lavoro, si intende, comunque, tentare un inquadramento del controllo formale tenendo conto sia dei suoi aspetti formali che di quelli sostanziali.

Sul piano della forma è evidente la distanza dall’accertamento c.d. ordinario; l’esito del controllo non confluisce in un atto di accertamento (o ad esso assimilabile) ma in una iscrizione a ruolo preceduta solamente da una comunicazione preventiva. E siffatta comunicazione non è suscettibile di essere assimilata ad un atto impositivo; essa, difatti, non figura nell’elenco degli atti espressamente impugnabili di cui all’art. 19 D.lgs. 546/1992 e, di conseguenza, la sua mancata impugnazione, come meglio si dirà infra (33), non determina il consolidamento della pretesa.

Ciò non vale tuttavia ad escludere che il controllo formale di cui all’art. 36-ter sia del tutto estraneo alla funzione impositiva. I tratti di quest’ultima risiedono comunque nel ruolo, ossia nell’atto che tipicamente «congiunge il procedimento di applicazione del tributo con quello di riscossione» (34). In

(30) Cfr. per tutti A. FanTozzi, Gli schemi teorici di attuazione del prelievo, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. FanTozzi, Torino, 2012, 405 ss. (31) In questo senso si vedano G. GaFFuri, Considerazioni sull’accertamento tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1981, I, 534; R. SChiavolin, Limiti di applicabilità dell’art. 36 bis D.P.R. 600/1973, in Riv. giur. trib., 1994, 12, 1169 ss.; P. russo, Il problema dei termini per la liquidazione delle imposte dovute in base alla liquidazione ai sensi dell’art. 36 bis, in Rass. trib., 1995, 1018; G. Fransoni, op. cit., 600; S. zagà, Le discipline del contraddittorio nei procedimenti di «controllo cartolare» delle dichiarazioni, in Dir. prat. trib., 2015, 6, 857; s. La rosa, Principi di diritto tributario, Torino, 2020, 339 ss. (32) Già E. CaPaCCioli, Accertamento tributario, in Riv. dir. fin., 1966, I, 5 ss. poneva in risalto le inevitabili difficoltà di definizione. (33) Sul punto si veda infra par. 6. (34) L’espressione è tratta da A. Berliri, In tema di ruolo esattoriale, in Giur. imp., 1965, 652. Si ricorda che secondo l’A. il ruolo sarebbe «atto di imposizione… l’atto finale cui è preordinato tutto il procedimento di determinazione dell’imposta» e a tal fine sarebbe decisiva

esso confluiscono le rettifiche operate in sede di liquidazione e di controllo formale della dichiarazione. E proprio il ruolo, in questi casi, cumula in sé la funzione di accertamento (35) oltre che quella di riscossione (36).

Sul piano formale si assiste dunque ad uno spostamento “in avanti” della funzione impositiva, il che se da un lato sembra costituire una deroga (ancorché apparente) alla separazione tra le funzioni di accertamento e di riscossione, dall’altro non risulta essere una assoluta novità. Con gli avvisi di accertamento esecutori di cui all’art. 29, comma 1, lett. a) D.L. 31 maggio 2010, n. 78, (come convertito dalla legge 30 luglio 2010, n. 122) sembra sbiadire quella netta dicotomia fra accertamento e riscossione. In forza del citato art. 29 gli avvisi di accertamento oggi contengono «anche l’intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso» (37). L’iter procedurale prescinde dunque dalla iscrizione a ruolo e, nel rispetto dei termini prescritti, l’avviso d’accertamento avrà l’efficacia di titolo per la riscossione delle somme in esso indicate; non a caso la rubrica dell’art. 29 recita «concentrazione della riscossione nell’accertamento» (38). Si è realizzato in quest’ultima ipo-

la circostanza che «prima della consegna del ruolo all’esattore il contribuente non può pagare né la finanza o l’esattore possono richiedere o incassare le imposte». (35) Non è un caso che la Cassazione, nell’ambito delle rettifiche delle dichiarazioni di società di persone ed associazioni, abbia esteso il principio di unitarietà dell’accertamento, e quindi il litisconsorzio necessario tra società e tutti i soci, anche all’art. 36-ter, sul presupposto che la cartella di pagamento costituisce, in questi casi, «il primo atto impositivo notificato alla società». Cfr., ad es., Cass. nn. 1643 e 1644 del 26 gennaio 2021. (36) Cfr. amplius A. CarinCi, La riscossione a mezzo ruolo nell’attuazione del tributo, Pisa, 2008, 187. A proposito delle comunicazioni di irregolarità, si veda anche, Id., Il ruolo tra pluralità di atti ed unicità della funzione, in Riv. dir. trib., 2008, 3, 243 ss. (37) Sugli avvisi di accertamento esecutori si vedano per tutti, A. CarinCi, Prime considerazioni sull’avviso di accertamento «esecutivo» ex d.l. n. 78 del 2010, in Riv. dir. trib., 2011, I, 159 ss.; C. glendi, Notifica degli atti «impoesattivi» e tutela cautelare ad essi correlata, in Dir. prat. trib., 2011, 3, 482 ss. (38) La lettera b) dell’articolo citato dispone che «gli atti di cui alla lettera a) divengono esecutivi decorso il termine utile per la proposizione del ricorso e devono espressamente recare l’avvertimento che, decorsi trenta giorni dal termine ultimo per il pagamento, la riscossione delle somme richieste, in deroga alle disposizioni in materia di iscrizione a ruolo, è affidata in carico agli agenti della riscossione anche ai fini dell’esecuzione forzata, con le modalità determinate con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate, di concerto con il Ragioniere generale dello Stato. L’esecuzione forzata è sospesa per un periodo di centottanta giorni dall’affidamento in carico agli agenti della riscossione degli atti di cui alla lettera a)». Inoltre in virtù dell’art. 1, comma 792, L. 27 dicembre 2019, n,160, gli avvisi di accertamento esecutivi sono stati estesi anche ai tributi locali.

tesi un procedimento inverso a quello di cui all’art. 36-ter, ove si ha piuttosto la “concentrazione dell’accertamento nella riscossione” (39).

Non potendo fermare l’indagine ai profili formali dell’istituto sembra opportuno estenderla alla sua sostanza. E nella assenza di una nozione normativa di accertamento, cui confrontare l’istituto in esame, sembra condivisibile la prospettiva già proposta dalla dottrina, per cui tratto essenziale dell’atto di accertamento è la sua finalizzazione ad assicurare la piena attuazione del disposto delle norme sostanziali di imposta (40). Occorre dunque verificare se nelle fattispecie previste dal secondo comma dell’art. 36 ter siano ravvisabili i caratteri di cui si è detto.

4.2. Si intende prendere le mosse dalle lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 36-ter. Come è noto, le predette lettere prevedono l’esclusione in tutto o in parte di deduzioni e detrazioni sulla scorta dei «documenti richiesti ai contribuenti o agli elenchi di cui all’articolo 78, comma 25, della legge 30 dicembre 1991, n. 413». Vi è dunque una sovrapponibilità con le lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 36-bis le quali consentono la riduzione di deduzioni e detrazioni. Il riferimento ora alla esclusione ora alla riduzione non è espressivo di una diversità strutturale tra le fattispecie. È piuttosto il riflesso di un diverso oggetto del controllo: in sede di liquidazione l’ufficio può rettificare solo se la deduzione o detrazione non sia conforme alla misura prevista dalla legge o se la misura della detrazione non coincida con i dati risultanti dalla stessa dichiarazione; in sede di controllo formale l’intervento su deduzioni e detrazioni trova fondamento nei documenti richiesti ai contribuenti o negli elenchi menzionati dall’art. 36-ter, comma 2, lett. b) (41). Con la conseguen-

(39) Ciò non toglie che, in ogni caso, le fasi di accertamento e riscossione, nonostante possano intersecarsi nei medesimi atti, mantengano la loro autonomia e che la contestazione della pretesa debba avvenire, a seconda dei casi, impugnando ora l’avviso di accertamento (per gli avvisi di accertamento esecutori) ora il ruolo (per le liquidazioni e per i controlli formali).

L’esigenza di tenere distinte le due fasi anche, e più che mai, dopo l’entrata in vigore degli accertamenti esecutori viene rimarcata ad esempio da S. La rosa, Riparto delle competenze e “concentrazione” degli atti nella disciplina della riscossione, in Riv. dir. trib., 2011, 6, 595. (40) Cfr. per tutti: S. La rosa, Caratteri e funzioni dell’accertamento tributario, in Dir. prat. trib., 1990, I, 792 ss.; A. FanTozzi, Gli schemi teorici di attuazione del prelievo, cit., 401, ove si dice che appartengono all’accertamento tutti quegli atti «la cui funzione è quella di determinare nell’an e nel quantum il presupposto del tributo». (41) Ossia quelli previsti dall’articolo 78, comma 25, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, per cui «ai fini della elaborazione della dichiarazione dei redditi da parte dell’Agenzia delle entrate nonché’ dei controlli sugli oneri deducibili e sugli oneri detraibili, i soggetti

za che la differenza risiede nell’ampiezza dell’istruttoria (42). E comunque, indipendentemente dall’ampiezza della istruttoria, la rettifica di deduzioni e detrazioni sembra finalizzata alla determinazione dell’imposta dovuta nel caso concreto (43) e non alla mera precisazione del dichiarato. Il titolo dell’iscrizione a ruolo sarebbe dunque la rettifica e non la dichiarazione in sé (44).

Lo stesso potrebbe dirsi anche per l’esclusione dello scomputo delle ritenute, di cui alla lettera a) del comma 2. E analoga soluzione può predicarsi per la correzione degli errori materiali e di calcolo che nel controllo formale è consentita rispetto alle dichiarazioni dei sostituti d’imposta. La liquidazione delle imposte risultanti da più dichiarazioni, a sua volta, non è sovrapponibile alla liquidazione di cui all’art. 36-bis: quivi l’Amministrazione calcola l’imposta attingendo a più dichiarazioni; non si tratta quindi di un riscontro immediatamente evincibile dal testo della dichiarazione, si richiede piuttosto l’espletamento di una, pur sommaria, istruttoria.

Tuttavia, pur essendo accomunabile, come si è detto, nella sostanza all’accertamento, la fattispecie di controllo formale vi diverge sotto il profilo sanzionatorio. Ai sensi dell’art. 13, comma 2, D.lgs. 471/1997 le rettifiche operate in sede di controllo formale, così come avviene nella liquidazione, vengono assoggettate alla sanzione prevista per l’omesso versamento e cioè il trenta per cento degli importi non versati: un trattamento sicuramente più tenue di quello previsto per l’infedele dichiarazione (conseguente alle rettifiche operate in

che erogano mutui agrari e fondiari, le imprese assicuratrici, gli enti previdenziali, le forme pensionistiche complementari, trasmettono, entro il 28 febbraio di ciascun anno all’Agenzia dell’entrate, per tutti i soggetti del rapporto, una comunicazione contenente i dati dei seguenti oneri corrisposti nell’anno precedente: a) quote di interessi passivi e relativi oneri accessori per mutui in corso; b) premi di assicurazione sulla vita, causa morte e contro gli infortuni; c) contributi previdenziali ed assistenziali; d) contributi di cui all’articolo 10, comma 1, lettera e-bis), del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917». (42) In questo senso G. Fransoni, Considerazioni, cit. 607. E la Corte Cost. ord. 7 aprile 1988, n. 430, ha affermato «che la liquidazione ex art. 36 bis d.P.R. n. 600 del 1973 è operata sulla base delle dichiarazioni presentate mediante un mero riscontro cartolare, nei casi eccezionali e tassativamente indicati dalla legge, vertenti su errori materiali e di calcolo immediatamente rilevabili (senza la necessita quindi di alcuna istruttoria), che l’Amministrazione finanziaria ha il potere-dovere di correggere anche a vantaggio del contribuente stesso». (43) Cfr. S. La rosa, Accordi e transazioni nella fase della riscossione dei tributi, in Riv. dir. trib., 2008, I, 317. (44) Questa soluzione è stata prospettata rispetto alla liquidazione della dichiarazione da A. CarinCi, La riscossione a mezzo ruolo nell’attuazione del tributo, cit., 180 ss.

sede di accertamento) che rende speciale il controllo di cui all’art. 36 ter in esame (45). E questa “specialità” del controllo ex art. 36-ter, rispetto all’atto di accertamento, implica che le rettifiche previste dall’art. 36-ter, comma 2, così come quelle di cui all’art. 36-bis, comma 2, debbano essere necessariamente operate secondo le procedure, e nei termini, ivi previsti (46).

La vincolatezza che l’art. 23 Cost. impone alla attività di accertamento non opera solo all’interno della specifica forma di accertamento ma determina altresì i rapporti fra le varie forme di accertamento. Se l’Amministrazione potesse eseguire le rettifiche di cui agli articoli 36-bis e -ter anche in sede di accertamento, non solo risulterebbero tacitamente abrogati i termini ivi prescritti (47), ma le si attribuirebbero facoltà di scelta (48) sia sulle modalità di accertamento che, di riflesso, sull’entità delle sanzioni. Mutatis mutandis le stesse considerazioni possono svolgersi con riferimento ai rapporti tra gli artt. 36-bis e -ter stante la specificità dei presupposti in esse individuati (49).

(45) L’art. 1, comma 2, D.lgs. 471/1997, dispone che «se nella dichiarazione è indicato, ai fini delle singole imposte, un reddito o un valore della produzione imponibile inferiore a quello accertato, o, comunque, un’imposta inferiore a quella dovuta o un credito superiore a quello spettante, si applica la sanzione amministrativa dal novanta al centoottanta per cento della maggior imposta dovuta o della differenza del credito utilizzato. La stessa sanzione si applica se nella dichiarazione sono esposte indebite detrazioni d’imposta ovvero indebite deduzioni dall’imponibile, anche se esse sono state attribuite in sede di ritenuta alla fonte». (46) Cfr. G. GaFFuri, Considerazioni sull’accertamento tributario, cit. 534; G. Fransoni, Considerazioni, cit. 603 ss. Ad avviso di P. CoPPola, La liquidazione dell’imposta dovuta ed il controllo formale delle dichiarazioni, in Rass. trib., 1997, 1490, l’Ufficio potrebbe procedere alle correzioni di cui all’art. 36-bis in sede di accertamento solo dopo lo spirare del termine ivi previsto. Secondo R. Rinaldi, La tutela giurisdizionale nei confronti dei ruoli formati dal Centro di servizio ed il nuovo processo tributario, in Riv. dir. trib., 1997, I, 400 ss., sussisterebbe fungibilità fra liquidazione ed accertamento fino allo spirare del termine previsto dall’art. 36-bis fermo restando che le «attribuzioni degli uffici … sono disciplinate in toto dall’art. n. 36 bis stesso ove si versi nei termini di cui alla norma stessa». (47) Si applicherebbe il termine previsto dall’art. 43, comma 1, D.P.R. 600/1973. (48) Sul punto si veda A. guidara, Indisponibilità del tributo ed accordi in fase di riscossione, Milano, 2010, 25 ss. (49) Naturale conseguenza del discorso eseguito è la invalidità dell’avviso di accertamento, che sia stato emesso sulla scorta dei presupposti di cui agli artt. 36 bis o 36 ter e, correlativamente, l’invalidità delle iscrizioni a ruolo di cui agli articoli citati che siano state operate in assenza dei presupposti in essi previsti. Secondo F. PedroTTi, Riflessioni sull’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 36 ter comma 2 D.P.R. 29 settembre 1972 n. 600, in Riv. dir. trib., 2019, IV, 479, la contestazione di comportamenti non risultanti nell’elenco, di cui al secondo comma nell’ambito di un controllo formale e sulla scorta di materiale probatorio acquisito grazie ad attività istruttorie sostanziali, conduce alla annullabilità del provvedimento ed alla inutilizzabilità del materiale probatorio illegittimamente acquisito.

5. Le diverse “determinazioni” dei crediti d’imposta di cui all’art. 36ter, comma 2, lett. d). – 5.1. Nell’esame compiuto non sono stati esaminati tutti i contenuti del controllo formale di cui all’art. 36-ter. Infatti, si è finora omesso quello disciplinato dal comma 2, lett. d), per cui gli uffici possono «determinare i crediti d’imposta spettanti in base ai dati risultanti dalle dichiarazioni e ai documenti richiesti ai contribuenti». E l’omissione non è casuale, perché quello previsto dal comma 2 lett. d) è l’intervento che presenta più marcati caratteri di specificità e su cui, pertanto, ci si intende soffermare nel prosieguo.

In prima battuta è necessaria una precisazione di ordine terminologico; occorre chiedersi quali siano i crediti cui la lett. d) dell’art. 36-ter si riferisce. E la questione non è di agevole soluzione poiché la definizione del sintagma “credito d’imposta” non si rinviene né nell’articolo di cui si discute né tantomeno in altra disposizione normativa.

In generale può affermarsi che i crediti d’imposta designano posizioni attive del contribuente nei confronti dell’Amministrazione (50). Epperò non tutte le posizioni di tal fatta rientrano nel perimetro della lett. d). A tal fine occorre difatti che siffatte posizioni presentino un qualche legame con la dichiarazione (51). Ma ciò non è ancora sufficiente ad esaurire l’indagine. Infatti la categoria di crediti che generalmente viene in rilievo nell’ambito della dichiarazione tributaria, per l’appunto quella dei “crediti da dichiarazione” (52), ingloba tutte le eccedenze attive rispetto all’imposta dovuta che derivano, ad

(50) Sul tema dei crediti d’imposta si veda M. ingrosso, Il credito d’imposta, Milano, 1984, 117 ss. e 121, ove l’A. definisce il credito d’imposta come «diritto di credito disposto a favore di un contribuente reso nelle forme e nelle procedure di diritto tributario per il conseguimento dei fini propri dello Stato di benessere collettivo ovvero per fini di reazione all’ingiustificato arricchimento del Fisco»; sui crediti d’imposta si veda anche M. TurChi, Credito d’imposta, in Dig. Comm., 1989, 203 ss. (51) Sono pertanto estranee al controllo formale tutte quelle fattispecie creditorie che non presentano legami con la dichiarazione. Si pensi al credito che sia il risultato di errori contenuti in atti di accertamento o della riscossione ovvero al credito per la restituzione dell’imposta di successione pagata in caso di mutamento della devoluzione ereditaria. (52) Questi crediti possono essere impiegati nelle forme indicate dal legislatore. Di essi, difatti, il contribuente può richiedere il rimborso ovvero può utilizzarli per l’estinzione, mediante compensazione, di altri obblighi anche di natura non tributaria. Ovvero del credito è consentito il riporto a nuovo in diminuzione dell’imposta dovuta per l’anno successivo cfr. art. 17 D.lgs. 471/1997. Ai sensi dell’art. 43-bis D.P.R. 602/1973 del credito chiesto a rimborso è consentita anche la cessione.

esempio, dai versamenti eseguiti, dalle ritenute d’acconto subite, dalle deduzioni, dalle detrazioni ovvero anche dai c.d. “crediti d’imposta”.

Allora può incominciarsi col precisare che le eccedenze derivanti dalle ritenute subite o da deduzioni e detrazioni fuoriescono dal raggio di azione dell’art. 36-ter, comma 2, lett. d). L’esclusione (53) di deduzioni, detrazioni e dello scomputo di ritenute, è disciplinata nelle lett. a), b) e c) dell’art. 36-ter; e si tratta di una attività che interessa delle situazioni antecedenti alla formazione dell’eccedenza (54).

Nella categoria dei crediti d’imposta di cui all’art. 36-ter, comma 2, lett. d), dunque, è possibile includere quelle fattispecie creditorie del contribuente, non inquadrabili nelle categorie di cui si è detto, etichettabili per converso come “crediti d’imposta”. Si tratta di una categoria che ha carattere residuale e che ingloba un insieme di istituti eterogenei, spesso figli di interventi settoriali, rispondenti a logiche diverse ed operanti in modi altrettanto diversi. Così a crediti volti a garantire l’equità dell’imposizione (quali quelli per le imposte pagate all’estero) (55) si affiancano più frequentemente crediti con funzioni agevolative (56). Inoltre, alcuni operano mediante detrazione (57),

(53) L’espressione sembra consentire solo interventi a sfavore del contribuente che, in quest’ottica, verrebbe privato della deduzione della detrazione o della ritenuta. In realtà questa “esclusione” non deve essere intesa in senso stretto; essa ricomprende piuttosto tutti i possibili interventi su deduzioni, detrazioni o sulle ritenute e quindi anche quelli a favore del contribuente. E nello stesso modo devono essere intese le lett. c) e d) dell’art. 36-bis, comma 2, ove si prevede la sola possibilità di «ridurre» deduzioni e detrazioni. Se ci si dovesse attenere strettamente al tenore letterale della disposizione, in sede di liquidazione dovrebbe essere escluso qualsiasi intervento su deduzioni e detrazioni che sia favorevole per il contribuente. (54) L’intervento dell’Ufficio, in questi casi, si configura come attuazione della normativa sostanziale di imposta e, dunque, si inquadra più correttamente nell’accertamento. Secondo S. La rosa, Accertamento tributario e situazioni soggettive del contribuente, in Riv. dir. trib., 2006, I, 741 ss., tra le norme di azione disciplinatrici del potere di accertamento vanno incluse anche quelle sostanziali. (55) Il credito d’imposta di cui si discute è disciplinato dall’art. 165 D.P.R. 917/1986 ed ha la funzione di eliminare o attenuare la doppia imposizione giuridica sul piano internazionale. Sul punto cfr. per tutti, anche per i riferimenti bibliografici, A. ConTrino, Contributo allo studio del credito per le imposte estere, Torino, 2012, 15 ss.; id., La recente riforma del credito per le imposte estere: prime considerazioni sistematiche, in Rass. trib., 2017, 2, 323 ss. (56) Un esempio è il credito di imposta per i nuovi assunti di cui all’art. 7 L. 23 dicembre 2000, n.388 ovvero il c.d. bonus facciate disciplinato dall’art. 1, commi 219 ss., L. 27 dicembre 2019, n. 169. (57) Cfr. art. 165, comma 1, D.P.R. 917/1986 o art. 1, comma 219, L. 169/2019. Il fatto che il credito operi attraverso una detrazione non implica di per sé la sua automatica riconducibilità alla lettera b) dell’art. 36-ter, comma 2. Sembra piuttosto che la specifica finalità

altri secondo strutture procedimentali più complesse (58). Ciò che accomuna le varie ipotesi è il fatto che tutti i crediti d’imposta possano essere impiegati solo nei modi tassativamente indicati dal legislatore (59).

Il sintagma “crediti d’imposta” di cui all’art. 36-ter, comma 2, lettera d) designa dunque un insieme preciso, ancorché residuale di situazioni creditorie (60).

5.2. Dopo aver precisato la portata del sintagma “crediti d’imposta”, di cui alla citata lettera d), rimane da delimitare l’area dei possibili interventi che su di essi l’Amministrazione possa compiere. Occorre cioè stabilire in cosa consista la “determinazione” cui l’art. 36-ter fa riferimento.

Intesa in senso generalissimo la determinazione del credito può esplicarsi sia a favore che a sfavore del contribuente e, quindi, può condurre ad un totale o parziale riconoscimento di un credito come anche ad un totale o parziale disconoscimento dello stesso. Ritenendo ambedue le ipotesi meritevoli di approfondimento, si inizia dalla più complessa, ossia il disconoscimento di un credito.

Presupposto indispensabile del disconoscimento è la indicazione del credito nella dichiarazione. E questa indicazione si accompagna di solito ad una forma di impiego del credito, infatti il contribuente può utilizzarlo in compensazione o riportarlo a nuovo (61). Vi è dunque, in questa prospettiva,

dell’istituto valga di per sé a distinguerlo dagli strumenti di costruzione in concreto dell’imposta quali le detrazioni. (58) Quali quelle di cui al citato art. 7 L. 388/2000, ove il credito d’imposta è costituito da una somma di denaro fissata legislativamente e commisurata alla differenza tra i diversi numeri dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato, computati secondo le direttive contenute nella stessa legge. (59) Cfr. ad es. M. TurChi, Credito d’imposta, cit., 206 per cui i crediti d’imposta presentano tre diverse caratteristiche: derivano da pagamenti dovuti; «l’utilizzazione del credito è sempre subordinata all’adempimento di determinate formalità la cui mancata osservanza ne determina la perdita»; «la loro destinazione vincolata alla compensazione». (60) Analoghe considerazioni possono farsi per l’art. 36-bis, che al comma 2, lett. e) impiega la medesima espressione. Ivi si prevede la possibilità di «ridurre i crediti d’imposta esposti in misura superiore a quella prevista dalla legge ovvero non spettanti sulla base dei dati risultanti dalle dichiarazioni». (61) Se il credito fosse rimborsabile ne potrebbe essere richiesto l’adempimento in seno alla stessa dichiarazione. La possibilità che nella dichiarazione siano espresse istanze di rimborso è stata posta in rilievo dalla dottrina. Si veda ad esempio F. Tesauro, Appunti sulle procedure di accertamento, Impresa, ambiente e pubblica amministrazione, 1978, 471 ss. Dello stesso Autore si veda pure Profili sistematici del processo tributario, Padova, 1980, 90.

una parziale vicinanza tra il disconoscimento ed il diniego di rimborso dei crediti tributari lato sensu intesi cui si riferiscono gli articoli 19 e 21 D.lgs. 546/1992 (62). Pur nella assenza di una disciplina normativa a carattere generale che riguardi il procedimento di rimborso sembra comunque possibile predicare la non sovrapponibilità tra il disconoscimento ed il diniego. È ben vero che ambedue muovono da una istanza cui fa seguito una risposta dell’Amministrazione, ma il diniego cui si riferiscono gli artt. 19 e 21 del decreto sul processo muove da una istanza avulsa dalla dichiarazione (63). Il disconoscimento si riferisce invece ad un credito indicato all’interno della dichiarazione ed impiegato nei modi che si sono visti. Consequenzialmente, trattandosi di fattispecie diverse, al disconoscimento non potrà applicarsi de plano la disciplina prevista per il diniego di rimborso (64).

La non assimilabilità del disconoscimento del credito al diniego di rimborso non agevola il lavoro di chi scrive. E il discorso diventa tanto più ingarbugliato quanto più ci si inerpichi sui diversi sentieri che apre il disconoscimento di un credito in sede di controllo formale. Infatti, a seconda dei casi, esso può costituire o meno il presupposto di una maggiore pretesa da far valere nei confronti del contribuente.

Detto in altri termini, può accadere che il disconoscimento si fermi alla mera negazione di un credito, possa cioè essere un disconoscimento puro e semplice che non sfocia in una pretesa (65). Ma è anche possibile che il mede-

(62) L’art. 19 individua gli atti espressamente impugnabili dinanzi al giudice tributario e la lettera g) dispone che il ricorso possa essere proposto avverso «il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti».

L’art. 21, comma 2, dispone che «Il ricorso avverso il rifiuto tacito di restituzione di cui all’art. 19, coma 1, lettera g), può essere proposto dopo il novantesimo giorno dalla domanda di restituzione presentata entro i termini previsti da ciascuna legge d’imposta e fino a quando il diritto alla restituzione non è prescritto. La domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione». (63) Si pensi ad esempio alla istanza cui si riferisce l’art. 38 D.P.R. 602/1973. (64) A conferma della tesi sostenuta nel testo si prenda atto del fatto che in sede di controllo cartolare non v’è spazio per un diniego tacito. L’eventuale silenzio in sede di controllo, ossia la mancata rettifica di un credito esposto in dichiarazione, non ha la tipica valenza di cui all’art. 21, comma 2, D.lgs. 546/1992; il credito in questo caso rimane della stessa entità affermata dal contribuente. Il “diniego” in questi casi non può che essere espresso ed assume la forma del disconoscimento che si è vista. (65) Si pensi ad esempio all’eccedenza, derivante da versamenti eseguiti, che non sia stato possibile compensare con altri debiti. Non dovendosi procedere ad alcuna iscrizione a ruolo questa situazione non implica problemi di sorta. I problemi semmai possono sorgere

simo disconoscimento, a seconda dei casi determini l’emersione di un debito d’imposta; quivi si imporrà il recupero della somma corrispondente all’importo del credito disconosciuto (66) e ciò avverrà per mezzo di una iscrizione a ruolo (67).

Meno problematica è la determinazione in favore del contribuente, cioè quella che faccia emergere un credito, non esposto in dichiarazione (68). In questo caso il credito verrebbe riconosciuto dall’Amministrazione.

L’indagine qui risente della assenza di una nozione normativa del riconoscimento e, nel silenzio del legislatore, non resta che attingere alle elaborazioni della giurisprudenza. Sintetizzando al massimo, per la Suprema Corte (69) affinché un credito possa dirsi riconosciuto è necessario che: «non residuino questioni circa l’esistenza dell’obbligazione tributaria, il quantum del rimborso o le procedure con le quali lo stesso deve essere effettuato» (70). Ebbene, se questi sono i requisiti necessari non vi sono ostacoli ad ammettere che

sul piano della tutela del contribuente che intenda contestare quel disconoscimento. Quivi mancherebbe un atto impugnabile ricompreso nell’elenco di cui all’art. 19 D.lgs. 546/1992. (66) In questi casi ci si potrebbe poi interrogare sulla efficacia impositiva o meno del diniego di rimborso (sub specie di disconoscimento) cogliendo le interessanti sollecitazioni di F. Tesauro, Profili sistematici del processo tributario, cit., 144 ss. ma non è questa la sede. (67) Infatti, l’art. 14, comma 1, lett. a), D.P.R. 602/1973, prevede che possano essere iscritte a ruolo, a titolo definitivo, «le imposte e le ritenute alla fonte liquidate ai sensi degli articoli 36 bis e 36 ter del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 …». (68) I crediti d’imposta sono suscettibili degli utilizzi tassativamente stabiliti dal legislatore che, il più delle volte, ne consente la sola compensazione con il debito d’imposta. Un eventuale riconoscimento, ove non siano né rimborsabili né riportabili a nuovo, sarebbe privo di utilità in mancanza di un debito con cui compensare il credito. (69) Si rinvia per tutte a Cass., SS.UU., 22 luglio 2002, n. 10725, a mente della quale ricorre riconoscimento ove «l’amministrazione abbia formalmente riconosciuto il diritto al rimborso e la quantificazione della somma dovuta, si che non residuino questioni circa l’esistenza dell’obbligazione tributaria, il quantum del rimborso o le procedure con le quali lo stesso deve essere effettuato». Si tratta di una massima che ha ispirato numerose decisioni successive, si pensi a Cass., 13 settembre 2005, n. 18120, ove viene riprodotta, ovvero le recenti SS.UU., 18 giugno 2019, n. 16339. (70) Sulla natura dell’atto di riconoscimento si veda M. PonTillo, La giurisdizione sulle controversie in materia di crediti riconosciuti dall’Amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 2020, 1, 133 ss., che dà atto delle varie posizioni giurisprudenziali e fornisce una soluzione in punto di individuazione del giudice competente a pronunciarsi su tali controversie. A tal fine l’A. riprende a contrario quanto affermato da A. guidara, L’accertamento del credito da espropriare un ulteriore tassello nella espansione della giurisdizione tributaria, in Riv. dir. trib., 2014, 12, 541 ss. che mette in luce l’esigenza di ricondurre al giudice tributario tutte le controversie in cui possa esserci incertezza sui rapporti di credito nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.

la comunicazione dell’esito del controllo formale sia atto idoneo a racchiudere un riconoscimento del credito (71).

6. Considerazioni conclusive in punto di tutela del contribuente. – A questo punto dell’indagine si vogliono tentare delle prime conclusioni circa le possibilità di tutela giurisdizionale del contribuente cui sia stato disconosciuto un credito in sede di controllo formale (72) e che non sia riuscito ad ottenere un ripensamento dell’Amministrazione in sede di contradditorio endoprocedimentale.

Come è noto, la comunicazione di irregolarità che esplicita l’esito del controllo non è ricompresa nell’elenco di cui all’art. 19 D.lgs. 546/1992, ma questo non è un dato di per sé sufficiente ad escluderne l’impugnabilità.

(71) Posta in questi termini la questione non sembra presentare aspetti problematici. Ma non occorre andare molto lontano per individuare dei profili che lasciano spazio a dubbi. In via generale, ci si potrebbe chiedere quale sia il termine entro il quale il contribuente, cui sia stato riconosciuto un credito in sede di controllo formale, possa agire giudizialmente per ottenere l’adempimento del suo diritto di credito.

La questione impatta sul tema della decorrenza della prescrizione per i crediti derivanti dalla dichiarazione tributaria. Sul punto sussistono una pluralità di posizioni, sia della dottrina che della giurisprudenza, delle quali non può darsi atto compiutamente in questa sede. Secondo una prima tesi la prescrizione decorrerebbe dal momento della presentazione della dichiarazione. L’orientamento è stato segnato essenzialmente da Cass., SS.UU., 7 febbraio 2007, n. 2787, e trova riscontro anche in dottrina: si veda ad esempio. F. Randazzo, Alle Sezioni Unite la problematica della contestabilità del credito da dichiarazione non più rettificabile, in Riv. dir. trib., 2014, II, 440 ss. In senso contrario si vedano, però, Cass., 29 dicembre 2010, n. 26318 e, in dottrina, M. nussi, Rimborso officioso da liquidazione della dichiarazione e decorrenza della prescrizione, in Rass. trib., 2014, 1, 138 ss. e 143 ss., che sostengono l’opposta tesi per cui il decorso della prescrizione viene subordinato al riconoscimento espresso del credito in sede di liquidazione della dichiarazione ovvero al riconoscimento tacito ove la liquidazione non sia stata effettuata entro termini.

Ebbene, nel caso di riconoscimento del credito in sede di controllo formale la prescrizione dovrebbe decorrere dal momento del riconoscimento. Del resto il fatto che l’art. 36 ter non contenga una clausola analoga a quella dell’art. 36-bis, comma 4, per cui «i dati contabili risultanti dalla liquidazione prevista nel presente articolo si considerano, a tutti gli effetti, come dichiarati dal contribuente e dal sostituto d’imposta», dovrebbe contribuire a fugare ogni dubbio in merito. (72) Si sono volutamente escluse dal campo di indagine le ipotesi in cui, a seguito del controllo formale, l’Amministrazione avanzi una pretesa che confluisca in una iscrizione a ruolo. Quivi le eventuali contestazioni del contribuente non potrebbero che essere proposte in sede di impugnazione giurisdizionale del ruolo.

Già da tempo, infatti, si sono diffuse delle posizioni interpretative, di matrice giurisprudenziale (73), che estendono la portata dell’art. 19 oltre il suo tenore letterale. Le letture di cui si discute si fondano prevalentemente sulla nuova formulazione dell’art. 2, D.lgs. 546/1992 (74) che eleva il criterio della materia a punto di riferimento per l’individuazione del perimetro della giurisdizione tributaria (75). Nulla osterebbe dunque alla impugnazione della comunicazione di irregolarità con cui viene reso noto l’esito del controllo formale (76). Si tratta di un atto che riguarda la materia tributaria e che, in qualche modo, esprime una pretesa, quella «ben individuata pretesa» (77) cui varie pronunce della Cassazione si riferiscono.

In ogni caso questa sarebbe comunque una impugnabilità non perfettamente assimilabile a quella degli atti di cui all’art. 19; la Corte di Cassazione, difatti, nell’ammettere il ricorso avverso atti non ricompresi nell’elenco citato non ricollega alla mancata impugnazione gli effetti preclusivi che conseguono alla mancata impugnazione di uno degli atti di cui all’art. 19 D. lgs.

(73) Si vedano ex plurimis Cass., SS.UU., 22 luglio 2004, n. 13793; Id., 27 marzo 2007, n. 7388; Id., 11 marzo 2009, n. 10672; Id., 5 ottobre 2012, n. 17010; Id., 24 luglio 2019, n. 19998. (74) La formulazione del comma 1, attualmente vigente, è il risultato dell’operare sinergico sia dell’art. 12, L. 28 dicembre 2001, n. 448; sia de successivo art. 3-bis D.l. del 30 settembre 2005, n. 203. (75) L’inciso iniziale dell’art. 2, comma 1, dispone dell’appunto che «appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati…». (76) Vi sono state anche pronunce che hanno escluso l’impugnabilità delle comunicazioni di irregolarità sul presupposto che essa costituisca una pretesa “in itinere”, cioè non immediata. Si tratta tuttavia di opinioni espresse in relazione all’art. 36-bis (ed al 54-bis), si veda ad esempio Cass., 24 luglio 2007, n. 16293. (77) Il passaggio è tratto da Cass., sez. V, 8 ottobre 2007, n. 21045, a mente della quale «la … ristrettezza della elencazione degli “atti impugnabili” contenuta nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19 e la necessità – in forza di una interpretazione aderente alle norme costituzionali, sia di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) che (art. 97 Cost.) di buon andamento … dell’attività della pubblica amministrazione … – di estendere … la possibilità di ricorrere alla tutela del giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che, con l’esplicazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa … si vesta della forma autoritativa propria di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dall’art. 19 cit. atteso l’indubbio sorgere in capo al contribuente destinatario … dell’interesse (art. 100 c.p.c.) a chiarire … la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, ad invocare una tutela giurisdizionale – ormai, allo stato, esclusiva del giudice tributario – …». Similiter cfr. ad es. Cass., 22 luglio 2011, n. 16100; Id., 11 maggio 2012, n. 7244; Id., 22 giugno 2021, n. 17779; Id., 20 ottobre 2021, n. 29050.

546/1992 (78). L’impugnazione si profila dunque come facoltativa. E la facoltatività è intesa nel senso di non precludere al soggetto, che non abbia impugnato l’atto “facoltativamente” impugnabile, la possibilità di impugnare l’atto tipico, di cui all’art. 19, nel quale la medesima pretesa sia stata in seguito espressa (79).

Quanto si è detto dovrebbe essere sufficiente a dissipare i dubbi circa la impugnabilità della comunicazione preventiva (quantomeno) nelle ipotesi in cui essa racchiuda una pretesa, ossia nelle ipotesi in cui essa preluda ad una iscrizione a ruolo (80). Sia che la pretesa derivi da quegli interventi riconducibili all’accertamento sia che essa si ricolleghi al mancato riconoscimento di un credito (nei termini in cui si è detto supra), la comunicazione sarebbe impugnabile e l’impugnazione avrebbe carattere facoltativo, nel senso che la sua mancata proposizione non pregiudica l’impugnabilità del ruolo.

Lo stesso ragionamento non può tuttavia seguirsi ove in sede di controllo formale sia stato disconosciuto un credito e, in conseguenza di ciò, l’Amministrazione non avanzi pretese; e, dunque, non possa procedere alla iscrizione a ruolo.

Nella assenza di atti espressamente impugnabili si può pensare che il contribuente proponga una istanza di rimborso (81) allo scopo di ottenere un rifiu-

(78) Cfr. Cass. 17010/2012 cit., secondo la quale occorre «escludere, per ovvie ragioni di certezza dei rapporti giuridici e di tutela del diritto di difesa, che possa essere introdotta per via interpretativa (se non negli stretti limiti anzidetti) una decadenza del contribuente dal diritto di contestare una pretesa tributaria, decadenza inevitabilmente conseguente alla omessa impugnazione di uno degli atti tassativamente elencati …» nell’art. 19 D.lgs. 546/1992, «(o la cui impugnabilità è prescritta in altra specifica disposizione di legge), ritualmente notificati nel rispetto della sequenza ivi prevista». Nello stesso senso si veda, ad esempio, Cass., 11 febbraio 2015, n. 2616. (79) Sul tema si veda G. Ingrao, Prime riflessioni sull’impugnazione facoltativa nel processo tributario (a proposito dell’impugnabilità di avvisi di pagamento, comunicazioni di irregolarità, preavvisi di fermo di beni mobili e fatture), in Riv. dir. trib., 2007, 12, 1075 ss. che esplicita le ragioni e le possibili utilità per il contribuente dell’impugnazione delle comunicazioni di irregolarità, quale, ad esempio, la possibilità di evitare misure cautelari nella riscossione. (80) In questo senso depongono numerose pronunzie, anche recenti, della Suprema Corte. In tema di controllo formale si veda, ad esempio, Cass., 20 gennaio 2017, n. 1505. In termini essenzialmente coincidenti si vedano anche le recenti Cass., 15 ottobre 2020, n. 22356; Id., 28 gennaio 2021, n. 1894; Id., 29 ottobre 2021, n. 30725 che possono essere estese al controllo formale nonostante riguardino la comunicazione di irregolarità emessa in seguito alla liquidazione della dichiarazione. (81) In questo caso non dovrebbero valere i termini decadenziali ordinariamente previsti

to, esplicito o tacito, che sia impugnabile ai sensi dell’art. 19, comma 1, lett. g), D.lgs. 546/1992 (82).

Tuttavia, la proposizione di due diverse istanze (la prima in seno alla dichiarazione e la seconda dopo il disconoscimento) aventi lo stesso contenuto non appare razionale. Va tenuto in debito conto che la disciplina cui vengono assoggettati i crediti da dichiarazione ha carattere tassativo, prevedendo essa delle specifiche modalità d’impiego fra cui una domanda di rimborso da presentarsi in seno alla stessa dichiarazione (83). È ben vero che non sussistono elementi idonei per escludere che il contribuente – che abbia indicato ed impiegato il credito nella dichiarazione – presenti, in seguito al disconoscimento, una ulteriore istanza (84), ma è anche vero che quest’ultima istanza, dovrebbe avere valore meramente sollecitatorio rispetto alla istanza presentata in precedenza.

Allora, per consentire l’accesso alla tutela giurisdizionale non resta che far leva su una interpretazione estensiva (se non evolutiva (85)) dell’elenco

per la proposizione dell’istanza di rimborso si pensi ad esempio all’art. 21, comma 2, D.lgs. 546/1992. Sui temi della prescrizione e decadenza nel diritto tributario si vedano C. glendi, Prescrizione e decadenza, in Novissimo Digesto Appendice, V, 1984, 1160 ss.; d. CoPPa, La prescrizione del credito tributario, Torino, 2006; F. Randazzo, Decadenza e prescrizione nella disciplina dei rapporti tributari, in Riv. dir. trib., 2021, 5, 353 ss. (82) Va da sé che ove del credito non sia possibile richiedere il rimborso, l’istanza non potrebbe essere usata al fine di chiedere il rimborso del credito, altrimenti si aggirerebbe il divieto normativo. L’unica funzione dell’istanza, in questo caso, dovrebbe essere quella di fornire al contribuente una via di accesso alla tutela giurisdizionale. (83) Non a caso l’errata dichiarazione di un maggior imponibile o di un minor credito può essere corretta solo mediante la presentazione di una dichiarazione rettificativa in diminuzione. L’art. 2, comma 8, D.P.R. 322/1998 dispone che: «Salva l’applicazione delle sanzioni e ferma restando l’applicazione dell’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, le dichiarazioni dei redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dei sostituti d’imposta possono essere integrate per correggere errori od omissioni, compresi quelli che abbiano determinato l’indicazione di un maggiore o di un minore imponibile o, comunque, di un maggiore o di un minore debito d’imposta ovvero di un maggiore o di un minore credito, mediante successiva dichiarazione da presentare, secondo le disposizioni di cui all’articolo 3, utilizzando modelli conformi a quelli approvati per il periodo d’imposta cui si riferisce la dichiarazione, non oltre i termini stabiliti dall’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600». (84) F. Tesauro, Il rimborso dell’imposta, Torino, 1975, 212, considera «principio generale la facoltà del solvens di domandare all’amministrazione il rimborso di somme indebite, con tutte le conseguenze che a tale domanda si riconnettono». (85) In questo senso cfr. G. TaBeT, Verso la fine del principio di tipicità degli atti impugnabili?, in Riv. giur. trib., 2008, 6, 512.

degli atti impugnabili (86) e assimilare il disconoscimento al diniego di restituzione, con conseguente impugnabilità della comunicazione preventiva che lo racchiuda ai sensi dell’art. 19 comma 1, lett. g) cit. Del resto sono diffuse presso la giurisprudenza di legittimità, letture estensive che ammettono l’impugnazione dei dinieghi c.d. impliciti di rimborso (87) come pure delle dichiarazioni negative dell’ente impositore quale terzo nelle procedure espropriative presso terzi (88). E in questi casi non dovrebbero aversi dubbi circa la sussistenza dell’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c. (89), visto che il disconoscimento, sia esso totale o parziale, elide risorse che di certo sarebbero impiegate dal contribuente.

alessandro zuCCarello

(86) Si veda Cass. SS. UU. 20 settembre 2006, n. 20318 per cui «a seguito dell’ampliamento della giurisdizione delle commissioni tributarie, ratione materiae, realizzata in forza della L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 12, comma 2, la stretta tipicità degli atti impugnabili (costruita sulla base delle caratteristiche degli atti attraverso i quali poteva manifestarsi, in concreto, la pretesa del fisco o del contribuente, riferita ai soli tributi all’epoca giudicabili dal giudice tributario), va adeguata al nuovo assetto della giurisdizione tributaria generale, con riferimento alla varietà dei nuovi tributi e alla evoluzione dei diritti del contribuente, sempre, però, nell’alveo di rapporti tributari concreti». (87) Si pensi al riconoscimento parziale di un credito, ovvero finanche al pagamento parziale dello stesso. Sul che si vedano ad esempio: R. luPi, A chi rivolgersi quando il centro di servizio ci rimborsa meno di quanto avevamo richiesto?, in Rass. trib., 1994, 175 ss.; Cass. Sez. 5, 6 luglio 2004, n. 12382, in Riv. giur. trib. 2005, 2, 141 ss. (con nota di M. BasilaveCChia, Il diniego di rimborso e la sua riconoscibilità, ivi, 142). (88) Sul tema si veda A. guidara, L’accertamento del credito da espropriare un ulteriore tassello nella espansione della giurisdizione tributaria, cit., 514 ss. (89) La giurisprudenza di legittimità è costante, a partire da pronunce quali ad esempio SS. UU. 10 agosto 2005, n. 16776, sez. V 8 ottobre 2007, n. 21045 nell’esigere un sufficiente interesse a ricorrere ai fini dell’impugnazione degli atti, diversi da quelli espressamente impugnabili, cc.dd. facoltativamente impugnabili.

Rubrica di diritto penale tributario

a cura di Gaetano Ragucci

Reati tributari e la “triade punitiva” sanzionatoria

Sommario: 1. Introduzione: cenni sul complesso apparato sanzionatorio vigente. – 2. La natura sostanziale delle sanzioni amministrative ed il doveroso rispetto dei principi di offensività e proporzionalità. – 2.1. Il principio del ne bis in idem e le sue più recenti declinazioni nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale. – 2.2. La possibile inattuazione del principio di specialità. – 3. Le criticità applicative del doppio binario e l’innegabile sussistenza di un bis in idem procedurale. – 4. Il sistema sanzionatorio penal-tributario: tra esigenze di gettito e funzione general-preventiva della pena.– 4.1. Evasione fiscale e possibili interpretazioni del dovere di solidarietà. – 5. Verso un ulteriore aggravio sanzionatorio: i reati tributari come presupposto per l’applicazione della responsabilità amministrativa degli enti. – 5.1. La tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea: le ripercussioni della politica criminale europea sui fondamenti del diritto interno. – 6. Conclusioni.

Il contributo ripercorre le principali criticità che derivano dalla coesistenza, in materia tributaria, di tre diversi impianti sanzionatori e, con riguardo a ciascuno di essi, si porteranno in evidenza le scelte normative che paiono essere, allo stesso tempo, frutto e strumento di contingenti politiche criminali, interne ed europee. La riflessione, inoltre, si soffermerà sugli effetti che un siffatto regime punitivo possa sortire sul piano della deterrenza generale e sull’intima adesione al nobile valore della solidarietà sociale ed economica.

The contribution traces the main criticalities deriving from the coexistence, in tax matters, of three different sanctioning systems and, with regard to each of them, it will highlight the legislative choices that appear to be, at the same time, the result and instrument of the domestic and European contingent criminal policy. The overall analysis will also focus on the effects that such a punitive regime can have on the level of general deterrence and on the intimate adherence to the noble value of social and economic solidarity.

1. Introduzione: cenni sul complesso apparato sanzionatorio vigente. – La violazione degli obblighi tributari attualmente può dar luogo a tre distinte, e per certi versi sovrapponibili, procedure di contestazione che formano idealmente la triade sanzionatoria oggetto del contributo.

Le disposizioni sanzionatorie concernenti le singole violazioni di rilievo amministrativo in materia fiscale, oltre che in una serie di leggi speciali (1), sono contenute nel D.Lgs. n. 471/1997, la cui cornice generale è costituita dal D.Lgs. n. 472/1997, atto normativo che fornisce i criteri per la determinazione e l’applicazione delle sanzioni amministrative di natura tributaria in materia di imposte sui redditi e di imposta sul valore aggiunto. Queste ultime possono declinarsi nella forma pecuniaria ed in quella accessoria e sono applicabili alle persone fisiche o, in caso di illecito relativo alla posizione fiscale di una società o di un ente, alle persone giuridiche.

Il secondo pilastro è, invece, costituito dalle sanzioni di natura penale contenute nel D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74 ed aventi ad oggetto condotte che integrano le specifiche fattispecie di reato in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto individuate dal decreto. Tra le linee guida ispiratrici della legge delega 25 giugno 1999 n. 205 si potevano senz’altro scorgere quelle volte a delimitare la sfera dell’intervento penale alle sole fattispecie di rilevante offensività prevedendosi, da un lato, l’ammontare dell’imposta evasa come nuovo elemento costitutivo della fattispecie sanzionatoria, dall’altro, l’irrilevanza delle condotte cosiddette prodromiche. Il sistema sanzionatorio penale tributario ha subito ulteriori modifiche ad opera del D.Lgs. n. 158/2015, volte principalmente a dare attuazione ai criteri di predeterminazione e di proporzionalità della risposta punitiva rispetto a condotte rilevanti sia in sede amministrativa che in sede penale. L’intervento ha rafforzato il contrasto alle forme di evasione più insidiose, sanzionando più gravemente le condotte in grado di ostacolare l’azione di accertamento e mitigando, al contempo, le misure riservate a quelle prive di una particolare fraudolenza (2).

Il quadro sanzionatorio collegato alle violazioni penal-tributarie risulta inoltre aggravato dall’applicabilità delle misure ablatorie contenute negli artt.

(1) Il riferimento è, ad esempio, al D.P.R. n. 131/1986 in materia di registro o al D.Lgs. n. 346/1990 in materia di successioni e donazioni. (2) La Legge delega n. 23/2014 aveva invitato il Governo a ridurre le sanzioni per le fattispecie meno gravi o a prevedere sanzioni amministrative anziché penali, tenuto conto anche di adeguate soglie di punibilità. In attuazione di tale criterio direttivo sono state introdotte le soglie per i reati di cui agli artt. 10-bis e 10-ter ed è stata esclusa la punibilità per il reato di dichiarazione infedele nei casi di errata contabilizzazione per ragioni classificatorie di elementi attivi o passivi effettivamente esistenti.

12-bis (3) e 12-ter (4) del D.Lgs. n. 74/2000 e, quindi, dalla previsione, in aggiunta alla confisca diretta di cui all’art. 240 c.p., delle ulteriori misure della confisca per equivalente e della confisca “allargata”.

Completa la triade punitiva l’impianto sanzionatorio introdotto con il D.L. n. 124/2019 convertito dalla L. n. 157/2019, che, inserendo l’art. 25-quinquiesdecies all’interno del D.Lgs. n. 231/2001, ha ampliato il novero di reati che possono costituire presupposto per la contestazione della responsabilità amministrativa degli enti, avendovi incluso, in particolare, i delitti di natura tributaria di cui agli artt. 2, 3, 8, 10 e 11 del D.Lgs. n. 74/2000. In attuazione della Direttiva UE 2017/1371, destinata ad arginare le frodi agli interessi finanziari dell’Unione, il legislatore nazionale, con il D.Lgs. n. 75/2020, ha aggiunto il nuovo comma 1-bis all’articolo 25-quinquiesdecies. Tale norma consente che anche i reati di cui agli artt. 4, 5 e 10 quater del D.Lgs. n. 74/2000, se commessi nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri ed al fine di evadere l’IVA per un importo complessivo non inferiore ad euro dieci milioni, possano dar luogo alla responsabilità amministrativa dell’ente.

2. La natura sostanziale delle sanzioni amministrative ed il doveroso rispetto dei principi di offensività e proporzionalità. – Al fine di condurre un’analisi sulla concreta sostenibilità del sistema sanzionatorio tributario si ritiene imprescindibile valutare, in via preliminare, la natura effettiva delle sanzioni amministrative ed il loro atteggiarsi rispetto ai principi di offensività e proporzionalità.

In questa prospettiva, pare legittimo sostenere che l’impianto sanzionatorio contenuto nel D.Lgs. n. 471/1997, in quanto retto da istituti e principi del tutto affini a quelli che fondano il sistema penal-tributario, sia connotato da un carattere sostanzialmente punitivo. In primo luogo, si osservi come l’irrogazione delle sanzioni amministrative, analogamente a quanto avviene per quelle penali, richieda l’accertamento della sussistenza di una, seppur nella pratica spesso presunta, colpevolezza (5) del soggetto agente. Parimenti,

(3) Cfr. C. di gregorio, g. MainolFi, g. risPoli, Confisca per equivalente e frode fiscale, Milano, 2011. (4) La riforma recata dal D.L. n. 124/2019, ha determinato l’estensione della confisca di cui all’art. 240-bis del codice penale ad alcuni reati tributari. (5) L’indagine sull’elemento soggettivo risulta spesso trascurata nella prassi delle contestazioni, con un vero e proprio rovesciamento della presunzione di non colpevolezza. Cfr. A. MarCheselli, Considerazioni eterodosse sull’elemento soggettivo delle sanzioni

oltre all’analisi sull’atteggiamento psicologico dell’autore dell’illecito, sono certamente mutuati dal Codice penale i principi di legalità e di personalità trasfusi, rispettivamente, negli artt. 3 co. 1, e 2 co. 2, del D.Lgs. n. 472/1997.

La riforma del 1997, infatti, nel superare il risalente sistema sanzionatorio regolato dalla L. n. 4/1929 e sposando il principio personalistico, ha abbandonato il modello risarcitorio per adottarne uno dal carattere afflittivo (6): l’attuale disciplina generale delle sanzioni amministrative, infatti, in coerenza con i dettami dell’art. 3, co. 133 della legge delega n. 662/1996, ricalca la cornice sostanzialmente penalistica già adottata dalla L. n. 689/1981.

Il carattere penale delle sanzioni osservate si ricava, ancor più significativamente, dall’applicazione dei principi contenuti nella decisione 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia (ric. nn. 18640, 18647, 18663, 18668 e 18698/2010) della Corte europea dei diritti dell’uomo. In quell’occasione, applicando i tre criteri guida di Engel (7), e dunque prescindendo dal nomen attribuitogli dall’ordinamento, la Corte EDU è giunta a qualificare come sostanzialmente penale una misura formalmente amministrativa: guardando, infatti, alla qualificazione giuridica dell’illecito, alla natura dello stesso ed al grado di afflittività della sanzione, i giudici nazionali sarebbero chiamati a valutare di volta in volta la reale indole di una disposizione, soprattutto al fine di scongiurare un cumulo sanzionatorio potenzialmente lesivo del principio del ne bis in idem (8).

Procedendo in maniera analoga, dunque, anche le sanzioni amministrative di natura tributaria, in esito all’applicazione dei principi di Engel, possono rivelare un carattere sostanzialmente punitivo, al punto che, date le premesse, è naturale domandarsi, alla luce del principio di offensività, quale sia il bene giuridico da esse tutelato.

tributarie. Responsabilità oggettiva, gestione del rischio, intelligenza artificiale, deontologia professionale ed etica del profitto, in Riv. telem. dir. trib., 2021, 235. (6) Cfr. F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, parte generale, Milano, 2020, 316318. Per approfondimento Cfr. A. Perini, Brevi considerazioni in merito alla responsabilità degli enti conseguente alla commissione di illeciti fiscali, in Resp. amm. soc. enti, 2006, II, 88. (7) Elaborati dalla risalente sentenza della Corte EDU, Engel c. Paesi Bassi, 08 giugno 1976. (8) Sulla concreta applicazione dei criteri della Grande Stevens Vgs. Sent. CGUE, Grande Sez., 2 febbraio 2021, causa C-481/19, caso D. B. contro Consob e della sentenza 13 aprile 2021, n. 84 della C. Cost. secondo la quale non vi sarebbero dubbi sulla natura punitiva delle sanzioni amministrative previste dagli artt. 187-bis e 187-ter del d.lgs. n. 58 del 1998.

Il noto principio del nullum crimen sine iniuria subordina la sanzione penale – e, quindi, nel nostro caso la sanzione “sostanzialmente penale” – all’offesa arrecata ad un bene o ad un interesse costituzionalmente protetto (9). La maggior parte degli illeciti tributari sembra ledere un interesse di natura patrimoniale, ovvero l’interesse dello Stato alla riscossione delle imposte, anche se, compiendo un’analisi più consapevole, non sarebbe errato scorgere alla base di tale interesse la violazione del dovere di solidarietà (10) o, ancora più a fondo, del dovere di concorrere alle spese pubbliche di cui all’art. 53 della Costituzione.

È dunque coerente con queste istanze di tutela un sistema, in parte pure simile a quello vigente, che riconduce una sanzione particolarmente afflittiva ai casi di omessa dichiarazione di un’imposta effettivamente dovuta, mentre prevede, di converso, una sanzione in misura fissa nelle ipotesi di violazione di obblighi meramente formali. Ed allora, quid iuris dinanzi a fattispecie sanzionatorie che, pur in mancanza di pregiudizio concreto all’esercizio della funzione impositiva, sembrano tutelare uno strumentale interesse alla “trasparenza” (11)? L’attuale complesso punitivo pare in questi casi perdere di vista il faro dell’offensività per dare voce a finalità repressive, secondo alcuni, a dire il vero, contingenti e disomogenee (12).

Una simile configurazione è anche, certamente, il frutto di improvvisati micro-interventi che, sovrapponendosi, rendono il sistema sanzionatorio amministrativo privo di una propria logica coerente ed incrementano la percezione della sua sproporzione rispetto alle finalità etiche e sociali che dovrebbero fondarlo. Si ritiene, pertanto, che la soppressione di tutti gli illeciti minori, inoffensivi sia sotto il profilo della colpevolezza che della concreta incidenza sull’azione di controllo dell’A.F., potrebbe restituire leggerezza

(9) Cfr. R. garoFoli, Manuale di diritto penale, Roma, 2010, 504 ss. (10) Nel progetto dei padri costituenti, il dovere di solidarietà esplicato nell’articolo 2 è un cardine della convivenza civile: esso è indispensabile per realizzare l’uguaglianza sostanziale che fonda lo Stato di diritto: per solidarietà, però, non si intende solo adempimento di un dovere, ma piuttosto libera e spontanea condivisione di un’umana socialità, scevra da logiche utilitaristiche e da spinte esogene. (11) Si consideri ad esempio quanto statuito dalla CTR Lombardia, 13 giugno 2019, n. 2547, riguardo alla violazione ex art. 13 del D.Lgs. n. 471/97. Per un’aspra critica a tale pronuncia Cfr. M. di siena, Spunti di riflessione sull’irrimediabile evanescenza della nozione di violazione meramente formale (senza alcun debito d’imposta), in Riv. telem. dir. trib., 2020, 257. (12) Cfr. M. di siena, La nebulosa declinazione del principio di offensività nel sistema sanzionatorio amministrativo tributario, in Riv. telem. dir. trib., 2020, 263.

all’apparato sanzionatorio amministrativo e consentire un’adeguata attuazione del disposto degli articoli 10 dello Statuto dei diritti del contribuente (13) e 6 co. 5-bis del D.Lgs. n. 472/1997 (14).

L’attuazione del principio di offensività, peraltro, non richiede soltanto la necessità di perseguire le condotte lesive di un interesse degno di tutela, ma anche l’applicazione di sanzioni adeguate all’offesa arrecata: in questo senso, il nullum crimen sine iniuria potrà dirsi concretamente rispettato solo all’esito del giudizio di proporzionalità. D’altra parte, in tema di criteri di determinazione delle sanzioni, l’art. 7 del D.Lgs. n. 472/1997 prescrive che gli Uffici debbano sempre aver riguardo “alla gravità della violazione desunta anche dalla condotta dell’agente, all’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze, nonché alla sua personalità e alle condizioni economiche e sociali” (15).

Il principio di proporzionalità trova, altresì, fonte sovranazionale nell’art. 5, par. 4, del TUE (16) e, anche secondo un’interpretazione che ne fa canone di giudizio dell’esercizio del potere amministrativo (17), esso dovrebbe sempre orientare le amministrazioni interne verso l’adozione di misure sanzionatorie idonee, necessarie ed adeguate agli interessi tutelati (18). Se è vero che, comunque, in materia di tributi non armonizzati il legislatore nazionale mantiene ampio margine di discrezionalità, la CGUE è fortemente sensibile al tema della sostenibilità complessiva dei singoli regimi sanzionatori tributari,

(13) “Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta.” (14) “Non sono inoltre punibili le violazioni che non arrecano pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo.” (15) Ad riprova della natura simil-penale delle sanzioni amministrative, si noti come la disposizione presenti strettissima affinità con l’art. 133 c.p., norma che dispone i criteri di valutazione della gravità del reato ai fini della applicazione della pena. (16) “In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati. Le istituzioni dell’Unione applicano il principio di proporzionalità conformemente al protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità”. (17) Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 26 febbraio 2015, n. 964. (18) Cfr. G. PeTrillo, Il principio di proporzionalità nell’azione amministrativa di accertamento tributario, Roma, 2015. Cfr. anche G. MosCheTTi, Il principio di proporzionalità come giusta misura del potere nell’evoluzione del diritto tributario, Padova, 2016.

richiamando tutti gli Stati al rispetto del sempre cogente divieto di comprimere le libertà fondamentali previste dal TFUE (19).

Allora, sottoponendo ad un vaglio di proporzionalità il nostro apparato sanzionatorio dovremmo verificare se le sanzioni amministrative siano sempre graduabili in base alla gravità della condotta e se la risposta sanzionatoria complessiva sia o meno eccessiva rispetto al fine ultimo tutelato dalle norme, quello di ottenere il versamento delle imposte dovute e l’adempimento degli obblighi formali (20).

Secondo alcuni il sistema, già singolarmente considerato, nel prevedere in diversi casi (21) una reazione sanzionatoria ridondante rispetto al danno arrecato dall’illecito e sganciata dall’ammontare del tributo evaso, con sostanziale disapplicazione dell’art. 7 del D.Lgs. n. 471/1997 (22), non supererebbe tale giudizio di proporzionalità. Lo squilibrio del complessivo sistema sanzionatorio sembrava già noto al legislatore del D.Lgs. n. 158/2015 il quale, benché conscio di dover prioritariamente, in sede di riforma, “dare attuazione ai principi di effettività, proporzionalità e certezza della risposta sanzionatoria dell’ordinamento di fronte a condotte illecite, rilevanti tanto in sede amministrativa quanto in sede penale” (23), non ha mai dato completa esecuzione alle linee guida contenute nella L. di delega fiscale n. 23/2014.

Di fatto, l’intervento del 2015 ha mitigato alcune sanzioni penali, trascurando ciecamente l’opportunità di rivedere l’intero assetto alla luce dell’espresso invito, contenuto nell’art. 8 della citata delega, a “correlare le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti” e a valutare la possibilità, non solo di ridurre le sanzioni previste per le fattispecie meno gravi, ma anche di applicare eventualmente solo quelle amministrative (24).

(19) Cfr. CGUE, 25 febbraio 1988, causa C-299/86, punto 17 e CGUE, 3 marzo 2020, causa C-482/18. (20) Secondo la CGUE è comunque ammissibile includere nella valutazione il fine di deterrenza, immaginando la sanzione come strumento atto anche a prevenire generalmente il fenomeno evasivo; Cfr. CGUE, 8 maggio 2008, causa C-96/2007. (21) Per approfondimento sui casi Cfr. A. Fazio, “Il principio di proporzionalità nel sistema sanzionatorio tributario tra (recente) giurisprudenza euro-unitaria, ricadute nazionali e (auspicabili) interventi di riforma”, in Dir. prat. trib. internaz., 2020, 1226 ss. (22) Cfr. F. Farri, Sanzioni iva e principio di proporzionalità: nuove prospettive dalla cassazione, in Rivista dir. trib., supplemento online, 13 settembre 2016. (23) Letteralmente dalla Relazione illustrativa al decreto, 26 giugno 2015, 1. (24) Cfr. S. dorigo, Persone giuridiche e sanzioni amministrative tributarie, in Dir. prat. trib., 2018, 1112 ss.

Sfumata l’occasione, dunque, si auspica un’imminente razionalizzazione delle sanzioni amministrative vigenti, con l’elisione delle violazioni non pregiudizievoli sotto il profilo della debenza del tributo e con la riformulazione delle singole cornici edittali, nel senso di un loro adeguamento alla concreta portata offensiva dell’illecito. 2.1. Il principio del ne bis in idem e le sue più recenti declinazioni nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale. – Il diritto a non essere puniti o giudicati due volte per il medesimo fatto trova espresso riconoscimento nell’art. 4 del Protocollo alla Carta Europea dei diritti dell’uomo e nell’articolo 50 della Carta di Nizza, mentre si fonda, nel nostro ordinamento, sui diritti alla difesa ed al giusto processo, rispettivamente contenuti negli artt. 24 e 111 della Costituzione (25). Sono infatti ragioni di certezza del diritto, di rispetto dei diritti umani, ma anche esigenze di economia processuale, ad imporre, in un ordinamento democratico, il divieto di incorrere in duplicazioni processuali e sanzionatorie.

La prima vera condanna per la violazione del principio del ne bis in idem è giunta con la già citata sentenza “Grande Stevens e altri contro Italia”, nota per aver censurato la coesistenza nell’ordinamento – per uno stesso fatto ed a carico del medesimo soggetto – di sanzioni penali con sanzioni amministrative giudicate “sostanzialmente” penali, nonché per aver rimesso ai giudici nazionali il compito di valutare, di volta in volta, la natura delle disposizioni alla luce di un criterio di prevalenza della sostanza sulla forma.

Nonostante l’immediato recepimento di quell’orientamento nelle successive pronunce della CGUE (26), la Corte EDU ha spiazzato il mondo degli interpreti con un successivo ed inaspettato revirement che riammette la compatibilità di un doppio binario sanzionatorio con il principio del ne bis in idem (27). Il caso “A e B contro Norvegia”, deciso con sentenza n. 24130/11

(25) Cfr. G. BisCardi, Ne bis in idem tra Costituzione e fonti europee, in F.R. dinaCCi, Processo penale e Costituzione, Bergamo, 2010, 541 ss.. (26) Cfr. ex multis Corte EDU, 20 maggio 2014, caso “Nykanen contro Finlandia”. (27) Cfr. A. CarinCi, Il principio del ne bis idem, tra opportunità e crisi del sistema sanzionatorio tributario, in Arch. pen., 2017, I, 1 ss.; s. Colaianni, M. Monza, Il problema del “conflitto” tra ne bis in idem “internazionale” e doppio binario tributario. La parabola del principio verso l’eclisse?, in Riv. dir. trib., 2017, II, 32 ss.; L. deaglio, Il perimetro operativo del ne bis in idem nella giurisprudenza sovranazionale e nazionale. È tempo di bilanci, in Dir. pen. proc., 2019, 1436 ss.; F. PisTolesi, Il principio del ne bis in idem nella dialettica fra la Corte costituzionale, i giudici italiani e le Corti Europee, in Rass. trib., 2018, 513 ss..

del 15 novembre 2016, costituisce un baluardo per la tutela degli interessi finanziari degli Stati laddove la Corte giunge ad escludere ogni violazione del ne bis in idem in presenza di una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” tra i procedimenti (penale ed amministrativo) pendenti sul medesimo fatto storico (28). In breve, secondo i giudici di Strasburgo il sistema resta legittimo fintantoché, dal punto di vista temporale, il soggetto non subisca un perdurante stato di incertezza sugli esiti delle vicende processuali (29) e, dal punto di vista sostanziale, siano individuabili gli elementi sintomatici della stretta connessione tra i procedimenti (30).

A fronte degli innumerevoli spunti offerti dalla decisione in commento (31), è evidente come il suo principale e dirompente effetto sia stato quello di aver ridimensionato notevolmente il divieto di bis in idem per tener conto delle esigenze di gettito degli Stati membri: in questa circostanza, nella strenua ricerca di elementi che garantiscano la tenuta del doppio binario, si assiste al predominio dello scopo di deterrenza sulle dinamiche proprie dello Stato di diritto (32). Ciò nonostante, i contenuti della sentenza CEDU sono confermati e rafforzati dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia che, con sentenza 20 marzo 2018, C-524/15 (caso Menci), si pronuncia favorevolmente proprio sulla compatibilità del nostro doppio binario tributario con i principi del diritto dell’UE.

Come si evince, la tutela degli interessi dell’Unione diviene dichiaratamente la ragion giustificatrice di ogni compressione, non solo del ne bis idem, ma di qualunque tipo di diritto o libertà riconosciuto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE (33). Con un giudizio di dettaglio sul nostro

(28) In effetti, i contenuti della Grande Stevens mettevano a rischio la tenuta di gran parte dei sistemi sanzionatori tributari degli Stati membri, caratterizzati dal parallelismo tra il binario sanzionatorio amministrativo e quello penale. (29) Sono ammissibili tanto la conduzione contemporanea, quanto quella progressiva dei due procedimenti. (30) Trattasi di: diversa finalità delle due procedure, prevedibilità della doppia risposta sanzionatoria, dialogo e integrazione tra le due istruttorie, valutazione, ai fini dell’irrogazione della sanzione, dell’entità di quella eventualmente già irrogata in altra sede. (31) Sulle questioni interpretative lasciate irrisolte, specialmente riguardo ai concetti di connessione sostanziale e temporale Cfr. F. gallo, Il ne bis in idem in campo tributario: un esempio per riflettere sul “ruolo” delle Alte Corti e sugli effetti delle loro pronunzie, in Rass. trib., 2017, 915 ss.. (32) In tal senso, giungere a scardinare per una, ancorché autorevolissima, via giurisprudenziale un principio di diritto positivo, il divieto di doppio giudizio, appare motivato, ma non necessariamente giustificabile, da palesi logiche general preventive. (33) A tal fine, la sentenza Menci richiama il contenuto dell’art. 52 della stessa Carta, in

sistema sanzionatorio, poi, i giudici europei ne riconoscono la sostanziale proporzionalità, assicurata dagli istituti di cui agli artt. 21 e 13 del D.Lgs. n. 74/2000, ritenuti idonei a “garantire che le sanzioni imposte siano strettamente limitate a quanto necessario rispetto alla gravità del fatto commesso” (34). All’esito della pronuncia C-524/18, comunque, resta pur sempre a carico dei giudici nazionali il compito di verificare, di volta in volta, se il cumulo sanzionatorio sia effettivamente giustificato dall’interesse fiscale dell’UE (35).

Ben meno travagliata, invece, è stata l’evoluzione della giurisprudenza domestica in tema di ne bis in idem, da sempre assestata sul monolitico riconoscimento della piena legittimità del doppio binario sanzionatorio in ambito tributario, talché la violazione del principio è stata negata a più riprese, tanto dai giudici della Suprema Corte (36), quanto dalla Corte Costituzionale. In proposito, la recente sentenza 4 febbraio 2021, n. 4439, applica pedissequamente i criteri di connessione sostanziale e temporale del caso A e B contro Norvegia ed avanza un’ulteriore riflessione in tema di proporzionalità affermando che il sistema del doppio binario “trova giustificazione nella rilevanza degli interessi nazionali e nella diversità dei fini perseguiti dalle due procedure: mentre il procedimento amministrativo è volto al recupero a tassazione delle imposte non versate, il procedimento penale è teso alla prevenzione e alla repressione dei reati in materia tributaria”.

Analogamente, quando investiti della questione, anche i giudici della Consulta non hanno ravvisato profili di incostituzionalità nell’attuale sistema del doppio binario tributario ed anzi, come precisato nella sentenza 24 ottobre 2019 n. 222, ritengono che l’ordinamento italiano, alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza sovranazionale, non contrasti con il divieto di bis in idem dal momento che il duplice meccanismo sanzionatorio risulta

base al quale “nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”. Cfr. anche CGUE, 20 marzo 2018, causa C-537/16, Garlsson Real Estate; CGUE, 20 marzo 2018, causa C-596/16 e C-597/16, Di Puma e altri. (34) Cfr. par. 58-59 della sentenza. (35) Sull’ingrato compito assegnato al giudice interno Cfr. M. TorTorelli, L’illecito penale tributario e il suo doppio. Dal dialogo (mancato) tra le Corti ad un auspicabile intervento legislativo, in Arch. pen., 2018, II. (36) Cfr. la pronuncia, antecedente al caso Grande Stevens, Cass., SS.UU., 12 settembre 2013, n. 37425; nonché, le successive in linea con la Corte EDU sentenza 15 novembre 2016, n.24130/11: Cass., Sez. III, 20 maggio 2015, n. 20887 e Cass., 8 ottobre 2020, n. 21694.

necessario “per assicurare ex post l’effettiva riscossione degli importi evasi da parte dell’Amministrazione finanziaria grazie ai meccanismi premiali concessi dall’integrale saldo del debito tributario”. Anche la Corte Costituzionale, dunque, rimette al singolo giudice la valutazione sulla sussistenza in concreto delle condizioni per ritenere sussistente la connessione sostanziale e temporale tra i procedimenti, lasciando intendere come, in caso di ritenuta esistenza di un bis in idem, la strada da intraprendere non sia mai, comunque, la remissione alla Consulta in relazione all’art. 649 c.p.p. (37). 2.2. La possibile inattuazione del principio di specialità. – Al fine di scongiurare un cumulo sanzionatorio amministrativo e penale per un idem factum, il D.Lgs. n. 74/2000 ha trasfuso il principio di cui all’art. 15 del c.p., risolutivo dei casi di concorso apparente di norme, all’interno dell’articolo 19, prevedendo che: “Quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale”. Secondo il sistema vigente la norma speciale sarebbe quella penale, poiché essa presenta sempre, rispetto all’omologa fattispecie amministrativa, l’elemento del dolo specifico (38).

In ragione della precisazione contenuta al secondo comma, il principio di specialità trova applicazione solo per gli illeciti commessi da persone fisiche mentre, “permane, in ogni caso, la responsabilità per la sanzione amministrativa dei soggetti indicati nell’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, che non siano persone fisiche concorrenti nel reato”. L’attuale configurazione, in sostanza, mentre vieta la doppia sanzione in capo ad unico soggetto, ammette l’irrogazione di sanzioni diverse a soggetti diversi (39), con la possibilità che, nei casi di illeciti commessi in ambito societario, la sanzione penale comminabile al rappresentante legale o all’amministratore di fatto, si affianchi a quella pecuniaria che viene irrogata all’ente.

Nella concreta applicazione del principio, tuttavia, gli Uffici devono tener conto del disposto dell’art. 21 del D.Lgs. n. 74/2000, dovendo, pur in pendenza

(37) La questione di illegittimità costituzionale aveva riguardato proprio tale norma nella parte in cui non prevederebbe il divieto di un doppio giudizio nei confronti di un soggetto riguardo al quale sia stata già irrogata una sanzione definitiva in un procedimento amministrativo, ma sostanzialmente penale, per gli stessi fatti. Sul punto, molto significativi i contenuti della C. Cost., sent. 24 gennaio 2018, n. 43. (38) Cfr. Circolare 04 agosto 2000, n. 154, del Ministero delle Finanze - Dip. Entrate Aff. Giuridici Uff. del Dir. Centrale. (39) Cfr. F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, parte generale, cit., 349 ss.

di un procedimento penale per gli stessi fatti, irrogare, ma non eseguire (40), le sanzioni amministrative alla persona fisica. Questo meccanismo, unitamente alla completa autonomia dei procedimenti imposta dall’antecedente art. 20, secondo autorevole dottrina (41) non consentirebbe al principio di specialità di esplicare i suoi tipici effetti consegnando, di fatto, il contribuente ad un bis in idem procedurale che stride fortemente con la ratio sottesa al divieto di cumulo sanzionatorio (42).

Tra l’altro, non si può trascurare come qualunque valutazione in ordine alla sussistenza di una duplicazione sanzionatoria e processuale passi, necessariamente, per il preliminare inquadramento delle condotte illecite all’interno delle relative disposizioni. In tale fase bisogna decidere se i fatti osservati, per l’individuazione di un idem factum, rilevino in senso astratto – ovvero guardando, tanto ai fini penali quanto amministrativi, alla mera presenza di elementi costitutivi dell’illecito – oppure rilevino in senso “storiconaturalistico” a prescindere dalla formale qualificazione giuridica (43).

La distinzione è rilevante laddove, aderendo alla prima tesi – ossia richiamando concetti sì giuridici, ma astratti e difficilmente comprensibili dal contribuente medio – diventa molto più semplice escludere che vi sia stata un’ingiusta duplicazione sanzionatoria. Un esempio di tale finissimo

(40) A meno che il procedimento penale sia archiviato o intervenga sentenza irrevocabile di assoluzione o proscioglimento (con formula che esclude la rilevanza penale del fatto). (41) Cfr. F. gallo, Il ne bis in idem in campo tributario: un esempio per riflettere sul “ruolo” delle Alte Corti e sugli effetti delle loro pronunzie, cit.. (42) Da un’altra prospettiva, inoltre, il principio di specialità risulterebbe “schiacciato” dagli istituti premiali di cui agli artt. 13 e 13-bis del D.Lgs. n. 74/2000 i quali, promettendo la risoluzione favorevole della vicenda penale e benché, in ossequio al principio, dovrebbe essere proprio la sanzione penale l’unica applicabile in caso di condanna, di fatto rendono la definizione in sede amministrativa lo strumento per invertire la fisiologica priorità applicativa disposta dall’art. 19; Cfr. O. Mazza, I controversi rapporti fra processo penale e tributario, in Rass. trib., 2020, 233. (43) Sul tema, si rilevi come i dettami CEDU, i quali richiedono espressamente che, ai fini dell’individuazione del fatto rilevante per scongiurare un doppio giudizio, si faccia riferimento al “fatto storico concreto” (Corte EDU Grande Camera, 10 febbraio 2009, caso Zolotukhin c. Russia), non hanno sempre trovato accoglimento nella nostra giurisprudenza di legittimità. Perseverando nel porre in rilievo la tipizzazione legale del fatto, la Suprema Corte in più circostanze si è soffermata sul confronto formale tra le fattispecie astratte (ex multis Cass., SS. UU., 28 ottobre 2010, n. 1235; Cass., SS.UU., 28 giugno 2005, n. 34655; Cass., Sez. III, 19 gennaio 2017, n. 24309; Cass., Sez. V, 4 ottobre 2016, n. 47683). Per approfondimenti Cfr. V. galaTini, Il fatto nella prospettiva del divieto di doppio giudizio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 1205 ss..

escamotage è rinvenibile in due note pronunce delle SS. UU. che, ancor prima che venissero alla luce i principi CEDU in tema di connessione sostanziale e temporale, hanno escluso l’esistenza di un rapporto di specialità tra l’illecito amministrativo di omesso versamento e i delitti di cui agli artt. 10-bis e 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000 (44), ciò contro il prevalente orientamento, formatosi sul piano penalistico generale, in base al quale il giudizio sulla sussistenza di un bis in idem andrebbe effettuato con riguardo all’idem factum storico piuttosto che all’idem factum legale (45).

Appare evidente, dunque, come tramite un simile percorso argomentativo, anche facendo leva sulle, peraltro legittimate dal contenuto dell’art. 20, suggestive disquisizioni sulle diverse finalità (retributive e general-preventive) perseguite dai due apparati sanzionatori, non sia poi così difficile aggirare le nobili intenzioni del principio di specialità (46).

3. Le criticità applicative del doppio binario e l’innegabile sussistenza di un bis in idem procedurale. – Parafrasando una riflessione della Corte Costituzionale (47), nell’approccio al doppio binario sanzionatorio si è passati dalla rigida censura di ogni duplicazione processuale per lo stesso fatto illecito ad una legittimazione, ed anzi quasi all’auspicio, di una prevedibile doppia risposta sanzionatoria, percepibile come proporzionata in virtù del coordinamento, in sede istruttoria, tra le diverse autorità procedenti. L’art. 20 del D.Lgs. n. 74/2000, nel disporre che “Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”, manifesta il chiaro intendimento di mantenere separate sia le fasi di accertamento dei due iter sanzionatori, sia le relative risultanze. La necessità di prevedere lo svolgimento parallelo ed autonomo dei

(44) Cfr. Cass., SS.UU., 28 marzo 2013, nn. 37425 e 37424. Secondo la Corte non vi sarebbe rapporto di specialità tra le norme in quanto i due illeciti, pur avendo in comune il fatto storico, si pongono in una sequenza criminosa progressiva in guisa che ognuna delle violazioni sarebbe dotata di propri elementi essenziali, nel caso di specie tutti verificatisi. (45) Vgs. Cass., SS.UU., Sent. 28 giugno 2005 n. 34655. Principi richiamati di fatto dalla C. Cost., sent. 31 maggio 2016, n. 200. (46) Cfr. M. TorTorelli, L’illecito penale tributario e il suo doppio. Dal dialogo (mancato) tra le Corti ad un auspicabile intervento legislativo, cit. Sul tema Cfr. anche P. russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem alla luce del diritto comunitario, in Riv. dir. trib., 2016, I, 23. (47) C. Cost., Sent. 24 gennaio 2018, n. 43.

procedimenti amministrativo e penale risiede, innanzitutto, nella loro diversa dinamica probatoria (48), ma anche nella volontà di superare del tutto ogni forma di pregiudiziale, essendo ben noti i fallimentari esiti applicativi tanto di quella tributaria, quanto di quella penale (49).

Se queste sono le chiare e cogenti finalità del dispositivo dell’art. 20, l’esigenza di coniugare l’esistenza del doppio binario con il rispetto dei principi di proporzionalità e di ne bis in idem ha generato, come visto nei paragrafi che precedono, l’elaborazione dei contenuti della sentenza CEDU, caso A e B c. Norvegia, che, nell’applicazione dei criteri di connessione temporale e sostanziale, conducono verso l’inesorabile interrelazione tra i due procedimenti. In controtendenza rispetto alla fisiologica configurazione di un sistema di doppio binario (50), infatti, viene espressamente richiesta, al fine di evitare duplicazioni processuali e sanzionatorie contrarie al ne bis in idem, una circolazione del materiale probatorio in sede istruttoria ed una valutazione delle sanzioni eventualmente già irrogate nel procedimento conclusosi per primo.

Tale reciproca influenza tradisce le ragioni dell’originaria separazione ed anzi, consente di “aggirare” la scelta di mantenere autonomi i processi consentendo, da un lato, che nel processo tributario ci sia spazio per la valutazione indiretta di prove in esso vietate (51) e, dall’altro che il giudice penale sia “influenzabile” da presunzioni e ricostruzioni che per loro natura dovrebbero assolutamente rimaner confinate nel contesto amministrativo (52). Peraltro, in pieno sfavore del contribuente, nella fase di determinazione del quantum di imposta evasa, e sempre a discapito del principio di autonomia (in applicazione del quale il giudice penale dovrebbe giungere ad una

(48) Le norme civilistiche e penalistiche in materia di testimonianza non sono applicabili nel processo tributario, infatti, in base all’art. 7, co. 4, del D.Lgs. n. 546/1992, non possono costituire prova né il giuramento né la testimonianza. (49) La pregiudiziale tributaria, disposta dall’art. 21, terzo comma, della L. 7 gennaio 1929, n. 4, vedeva sostanzialmente compresse le prerogative del giudice penale, al punto che l’art. 21, co. 2, della L. n. 4/1929 fu dichiarato incostituzionale con sentenza C. Cost., 27 aprile 1982, n. 88, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 101, co.2 della Costituzione. Il meccanismo inverso, introdotto dall’art. 12 del D.L. n. 429/1982, invece, incompatibile con il contenuto dell’art. 654 c.p.p., è stato espressamente abrogato dall’art. 25 del D.Lgs. n. 74/2000. (50) Cfr. G. Chiarizia, Ne bis in idem europeo e autonomia del processo tributario: le contraddizioni della Cassazione, in Corr. trib., 2018, 1098 ss. (51) Come, ad esempio, la testimonianza e le intercettazioni. Cfr. O. Mazza, I controversi rapporti fra processo penale e tributario, cit. (52) Cfr. F. aMaTuCCi, Doppio binario e connessione sufficiente tra procedimento tributario e penale, in Riv. trim. dir. trib., 2017, 275.

quantificazione autonoma rispetto a quella amministrativa), non è raro – ed è anzi ritenuto ammissibile (53) – che in sede penale si ricorra comunque all’utilizzo di meccanismi presuntivi o sintetici (54).

Tirando le fila del ragionamento, quando rigorosamente applicato, l’art. 20 del D.lgs. n. 74/2000 risulta incompatibile col principio del ne bis in idem, divenendo compito del singolo giudice che abbia ravvisato un’insufficiente close connection (55) “dichiararne” la violazione; quando, viceversa, l’autonomia tra i due processi viene sacrificata per aderire ai dettami CEDU volti ad evitare proprio il bis in idem, si verifica un’inaccettabile osmosi probatoria che non pare conforme né ai principi di base del processo penale, né a quelli del processo tributario (56). Ma vi è di più: seppur volessimo ritenere “sacrificabile” tale ultimo aspetto per scongiurare un insostenibile cumulo sanzionatorio, ci accorgeremmo di non esser comunque riusciti a conseguire l’obiettivo. Se infatti la concreta attuazione della connessione sostanziale neutralizza il principio di autonomia, rendendolo nient’altro che formale, essa neppure ha sempre lo sperato effetto di evitare anche le sovrapposizioni del bis in idem procedurale (57).

Quand’anche esistente, infatti il rapporto di correlazione tra i due procedimenti non basta a rendere complessivamente tollerabile e proporzionato il (comunque doppio) sistema sanzionatorio. I professionisti, gli studiosi, ma soprattutto i contribuenti, percepiscono ancora la concreta insostenibilità di un apparato punitivo caratterizzato da una duplice – se non, come vedremo, triplice – risposta sanzionatoria, con il conseguente aggravio delle incombenze, dei costi

(53) Cfr. Cass. pen., Sez. III, Sent. 4 maggio 2021, n. 16865: “Il giudice penale, mentre non è vincolato dalle valutazioni compiute in sede di accertamento tributario, può tuttavia con adeguata motivazione apprezzare gli elementi induttivi in detta sede valorizzati per trarne elementi probatori, che ritenga idonei a sorreggere il suo convincimento obiettivo”. (54) Cfr. A. ingrassia, La nozione di imposta evasa penale e tributaria, in Riv. telem. dir. trib., 2019, 383 ss.. Cfr. anche S. dorigo, Il “doppio binario” nella prospettiva penale: crisi del sistema e spunti per una riforma, in Rass. trib., n. 2 del 2017, 436. (55) Sull’insostenibilità di una tale soluzione Cfr. G. Chiarizia, Ne bis in idem europeo e autonomia del processo tributario: le contraddizioni della Cassazione, cit.; F. PisTolesi, Crisi e prospettive del principio del doppio binario nei rapporti fra processo e procedimento tributario e giudizio penale, in Riv. dir. trib., 2014, I, 29 ss. (56) Cfr. L. CosTanzo, Il principio del ne bis in idem tributario tra garanzie del contribuente e istituti di integrazione procedimentale, in Riv. telem. dir. trib., 15 ottobre 2021. (57) Cfr. F. gallo, Il ne bis in idem in campo tributario: un esempio per riflettere sul “ruolo” delle Alte Corti e sugli effetti delle loro pronunzie, cit., che rileva come la duplicazione della raccolta delle prove sia evitata solo in fase preliminare.

di consulenza e del sostanziale raddoppio degli adempimenti difensivi. Tra l’altro, sempre in tema di proporzionalità, la conduzione parallela dei procedimenti ha, certamente, anche l’effetto di congestionare diversi apparati amministrativi dello Stato, sotto la spinta di una logica di deterrenza che, di fatto, non pare apportare dei benefici in termini di recupero diversi da quelli che si otterrebbero incardinando un unico, serio ed efficiente procedimento amministrativo. E ciò, evidentemente, a scapito della ragionevolezza, dell’economicità e del buon andamento dell’azione amministrativa (58).

Per tutte le criticità sin qui rilevate, pertanto, diviene improcrastinabile una parziale revisione del sistema del doppio binario, di guisa che pare ragionevole sostenere che sarebbe preferibile configurare una duplice risposta sanzionatoria alternativa, anziché parallela. In tal senso, in particolare, tutti i punti di attrito precedentemente commentati verrebbero meno se si prevedesse, da un lato, un serio, efficace e tempestivo iter sanzionatorio per gli illeciti amministrativi puri, e dall’altro lato il solo procedimento penale per le violazioni che, in ragione della loro particolare gravità, dovessero assumere anche una rilevanza penale (59).

4. Il sistema sanzionatorio penal-tributario: tra esigenze di gettito e funzione general-preventiva della pena. – Il diritto penale tributario, analogamente a quello amministrativo, è teleologicamente indirizzato a favorire l’esercizio della potestà impositiva dello Stato e ciò, tanto in funzione di una concreta e tempestiva percezione del gettito, quanto nell’ottica di una trasparenza che agevoli le attività di accertamento fiscale (60). Proprio in ragione di tali diversi e complementari scopi, i reati fiscali sono riconosciuti come fattispecie plurioffensive, cionondimeno le recenti riforme della materia hanno manifestato la marcata preminenza dell’interesse a perseguire condotte concretamente evasive, idonee cioè a cagionare un danno effettivo in termini di riscossione delle imposte (61), incriminando soprattutto le condotte connotate da uno spiccato grado di “fraudolenza”.

(58) Per un’ampia analisi del principio di buon andamento e sulla sua declinazione nel principio di efficienza Vgs. C. Cost., sent. 05 marzo 1998, n. 40. (59) Nello stesso senso anche O. Mazza, I controversi rapporti fra processo penale e tributario, cit.. (60) Cfr. A. ManCini, Il nuovo diritto penale tributario, Roma, 2016, 14 ss.. (61) Sul progressivo abbandono dell’interesse alla persecuzione delle condotte “prodromiche” si veda la Relazione Governativa al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in Guida al diritto, fasc. 14/2000, 31.

Nel contesto delle osservazioni sulla concreta sostenibilità della “triade sanzionatoria” occorre sicuramente domandarsi quali siano le violazioni tributarie dall’oggettivo disvalore penale e se, di recente, non si assista ad un tacito abbandono dei principi di legalità, offensività e tassatività. La moderna tecnica legislativa, sotto lo slogan di una perenne, e come tale dubbiamente urgente, lotta alla criminalità fiscale, non soltanto fa abuso della normazione per decreto (62) ma, per tale tramite, genera norme penali che si rivelano illegittime dal punto di vista della determinatezza della fattispecie penale (63) ed inefficaci in termini di deterrenza.

Come rilevato da autorevole dottrina sul finalismo della pena, la sanzione penale troverebbe giustificazione etica e giuridica in tre diverse istanze sociali: la rieducazione del condannato (funzione special-preventiva); la compensazione del danno (funzione retributiva); la prevenzione ottenuta mediante la minaccia della sanzione (funzione general-preventiva) (64). Tanto il fine special-preventivo quanto quello retributivo richiedono la predisposizione di un sistema penale ben congegnato che preveda misure sanzionatorie congrue e proporzionate all’offesa arrecata. Ed infatti, se la pena non è percepita come “giusta” dal reo essa non sarà educativa e, quindi, la sua riabilitazione non avrà luogo; se non è proporzionata e commisurata al danno cagionato, non sarà stato centrato neanche l’obiettivo retributivo. In ottica general-preventiva, invece, laddove lo scopo eminente della pena è quello di prevenire il reato scoraggiando il reo dal commetterlo, potrebbe aprirsi un varco ad una leggera sproporzione sanzionatoria (65); cionondimeno bisogna tenere a mente che l’effetto deterrente può senz’altro esser raggiunto anche tramite la spontanea adesione ai valori tutelati dalla norma (generalprevenzione positiva) e non necessariamente soltanto in conseguenza di un’utilitaristica rinuncia a delinquere (general-prevenzione negativa).

(62) Cfr. G. Flora, Le recenti innovazioni in materia di reati tributari: profili di illegittimità costituzionale, in Rass. trib., 2020, 328. (63) Appare abbastanza evidente la violazione del principio di tassatività-determinatezza della fattispecie penale nel caso dei reati in materia IVA introdotti sul solco della Direttiva UE n. 2017/1371, nella quale il concetto di frode, che diviene il perno essenziale per individuare le fattispecie da incriminare, è espresso in modo astratto e generico, essendo pertanto inadeguato ad esser trasfuso in un sistema penale liberal-democratico. (64) Cfr. R. garoFoli, Manuale di diritto penale, cit., 1220 ss.. (65) Si consideri, infatti, come le maglie generalmente larghe del giudizio di proporzionalità consentirebbero, al fine di scoraggiare i consociati dal commettere il reato, di far ricorso alla minaccia di una sanzione non del tutto proporzionata all’offesa arrecata.

Orbene, come anticipato, tutta la legislazione penal-tributaria degli ultimi decenni è orientata da un lapalissiano scopo di deterrenza, sotto la spinta di scelte di politica criminale sia endogena che sovranazionale (66). Si noti tuttavia come, pur sacrificando il finalismo rieducativo della pena – che peraltro in una siffatta normativa penal-tributaria resterebbe comunque inattuato a causa dell’effetto controproducente che la sproporzione dell’apparato sanzionatorio si presta a determinare – l’attuale sistema sanzionatorio penale pare non sortire neanche alcun effetto general-preventivo.

I delitti di natura fiscale, oltre ad esser percepiti come una duplicazione degli omologhi illeciti amministrativi, sono talvolta introdotti con disposizioni incomprensibili e puniti con pene smisurate, con la naturale conseguenza che il cittadino, nell’adempiere all’obbligo tributario, pare mosso più dalla minaccia sanzionatoria che dalla spontanea adesione ai valori per i quali la tutela è stata posta. In questo senso, infatti, si consideri come la contribuzione volontaria sia meglio incentivata dalla diffusa condivisione del sistema tributario piuttosto che da una spasmodica caccia all’evasore che, tra l’altro, pare anche porsi in contrasto con i numerosi istituti di compliance fiscale introdotti nell’ultimo decennio (67). In via incidentale, poi, va sottolineato che tale prospettiva adversary, oltre ad implicare un notevole impiego di risorse, si presta ad aver un esito fallimentare laddove l’attività di controllo, per avere effetti decisivi, dovrebbe possedere un grado di capillarità che, allo stato, non pare realisticamente raggiungibile.

Più in dettaglio, si ritiene che l’attuale impostazione del sistema punitivo penal-tributario presti il fianco a numerose critiche che in concreto ne impediscono la generale accettazione. In primo luogo, emerge in maniera lampante come le esigenze di gettito prevalgano finanche sullo scopo di deterrenza. Nonostante l’indiscussa dignità che, ai fini del pratico funzionamento dello Stato sociale, connota la necessità del prelievo delle imposte, non si può certo accogliere

(66) Cfr. g. dell’anna, l. guCCiardo, La funzione general-preventiva negativa della pena nei reati tributari: tra legittime pretese di lotta all’evasione e irragionevoli inasprimenti sanzionatori, su Giurisprudenza penale web, 2020, 4. (67) La progressiva introduzione di meccanismi di compliance sembra stridente rispetto all’attuale configurazione repressiva del sistema sanzionatorio. Mentre su un fronte l’ordinamento pare “ammorbidirsi” per ottenere l’adempimento collaborativo, sull’altro fronte esso tende ad irrigidirsi prevedendo un apparato punitivo dal carattere draconiano, con pene che, di fatto, verranno comminate soltanto ai (pochi) contribuenti che l’attività di controllo sarà in grado di intercettare.

con favore la progressiva trasformazione del processo penale in uno strumento di riscossione coattiva. Si pensi, ad esempio, agli istituti di cui agli artt. 13, 13-bis e 14 del D.Lgs. n. 74/2000, che risultano speciali e più incisivi rispetto al contesto penalistico generale, nonché in contraddizione con il principio di separazione di cui al successivo articolo 20, palesando, ancora una volta, il ricorso ad una normazione priva di coerenza sistematica e di una visione unitaria del disvalore penale delle violazioni (68). Non sarebbe allora del tutto errato ritenere che il vigente apparato sanzionatorio penale, manchevole com’è di una sua reale autonomia, sia una sovrastruttura, surrogato di un inefficace apparato amministrativo, al punto tale vi è chi auspica l’elisione dello stesso principio di autonomia o, in alternativa, la previsione del solo processo penale per i casi in cui la fattispecie abbia anche tale rilevanza (69).

In ambito di general-prevenzione positiva, poi, un’ulteriore circostanza sconfortante per quanti sperino di indurre il contribuente alla condivisione dei valori tutelati dalla norma, è l’assenza di proporzione riscontrabile, in alcuni casi, tra la cornice edittale delle pene ed il reale disvalore delle azioni. E così, si guardi ad esempio, a parità di imposta evasa, come la presentazione di una dichiarazione meramente infedele possa condurre alla condanna ad una pena superiore a quella applicabile in caso di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (70), o come l’utilizzo di fatture false possa condurre ad una condanna alla reclusione, fino a sei anni, anche nel caso di fatturazione di importi risibili (71).

È stata, inoltre, avvertita come l’ennesimo abuso dello strumento penale la previsione dell’applicabilità della confisca per sproporzione di cui all’art. 240-bis c.p. per taluni reati tributari, intercorsa con l’introduzione dell’art. 12-ter nel D.Lgs. n. 74/2000. La misura, tipica della lotta alla criminalità organizzata, è da subito apparsa abnorme per un sistema già ingolfato da altre misure di sicurezza patrimoniali ugualmente applicabili: essa, peraltro,

(68) Si consideri infatti come tali misure attribuiscano rilevanza al pagamento del debito tributario che diventa, rispettivamente, circostanza attenuante, condizione per il patteggiamento e causa di esclusione della punibilità. (69) Cfr. O. Mazza, I controversi rapporti fra processo penale e tributario, cit.. (70) Si noti come la cornice edittale prevista per il reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000) sia più severa rispetto a quella delineata per le condotte marcatamente fraudolente di cui al successivo art. 11. (71) Cfr. A. Perini, Brevi note sui profili penali tributari del D.L. N. 124/2019, in Sist. pen., 3 dicembre 2019, 2.

suscita seri dubbi di legittimità costituzionale, atteso che la sua originaria ratio preventiva è stata tralasciata per trasformare il rimedio in una vera e propria misura sanzionatoria (72).

L’estensione della confisca allargata ai delitti fiscali, infatti, rivela tutta la sua fragilità sistematica, sotto l’egida di un’affannosa corsa verso la criminalizzazione di ogni inosservanza della legge tributaria durante la quale, per di più, il legislatore dimentica che per ottenere un sistema sanzionatorio coerente e funzionale, non basta prodigarsi in continui interventi “additivi” ma è necessario altresì elidere tutte le disposizioni vigenti che si pongono, o si porrebbero in contrasto, con quelle che si desidera introdurre. Tra l’altro, ad ulteriore riprova dell’improvvisazione legislativa che si sta consolidando sull’onda dell’impeto repressivo, si consideri come la confisca di sproporzione finisca per diventare una misura del tutto superflua in quanto i medesimi effetti ablativi potevano essere già ottenuti ricorrendo alla confisca diretta o, in subordine, all’istituto di cui all’art. 12-bis, ossia alla confisca per equivalente (73).

A ben vedere, l’introduzione dell’art. 12-ter operata dalla L. n. 157/2019 consegue all’elaborazione giurisprudenziale della figura del contribuente fiscalmente pericoloso (74) che, conformemente alla disciplina sulla prevenzione, dovrebbe essere un soggetto che, dedito all’evasione fiscale, vive abitualmente dei proventi da essa derivanti (75). Ed allora, prescindendo dagli scarsi margini applicativi della confisca allargata, è lecito chiedersi in quante occasioni, nel caso dei reati tributari, possa dirsi effettivamente riscontrata una pericolosità sociale del grado richiesto per l’applicazione delle misure contenute nel D.Lgs. n. 159/2011, quante volte la misura venga applicata in esito ad una valutazione empirica ed allo scopo di prevenire la commissione di ulteriori reati

(72) Cfr. G. Flora, Le recenti innovazioni in materia di reati tributari: profili di illegittimità costituzionale, cit..; R. luPo, Un possibile cortocircuito nella confisca dei profitti dell’evasione fiscale, in Corr. trib., 2020, 703. (73) Cfr. A. d’avirro, Confisca diretta, per equivalente e “allargata nei reati tributari, in Rass. trib., 2020, 487; A. ConTrino, A. MarCheselli, Sul perimetro oggettivo di applicazione della “confisca per equivalente” nei delitti penaltributari, in Riv. telem. dir. trib., 2019, 376 ss.; A. MarCheselli, Tecniche di aggressione dei profitti dell’economia fiscalmente infedele: la confisca penale tra efficacia preventiva e tutela dei diritti fondamentali, in Riv. trim. dir. pen. cont., 2015, 188 ss. (74) Cfr. A. MarCheselli, L’evasore fiscalmente pericoloso: prevenzione patrimoniale e contrasto agli illeciti fiscali, in Corr. trib., 2018, 1000-1016, e s.M. ronCo, Il contribuente fiscalmente pericoloso: profili di interrelazione tra il diritto tributario e la giurisprudenza in materia di confisca di prevenzione, in Diritto penale contemporaneo, 13 aprile 2016, 1-27. (75) Cfr. Cass. Pen., 25 giugno 2015, n. 26842.

della medesima indole (76) e, soprattutto, quante volte, invece, la stessa venga concepita come l’ennesima misura destinata ad esercitare effetto dissuasivo. 4.1. Evasione fiscale e possibili interpretazioni del dovere di solidarietà. – Affrontare il tema del reale disvalore di una condotta ai fini dell’applicazione della sanzione penale dovrebbe indurre, non tanto all’analisi dei fatti che, arrecando un pregiudizio in termini di gettito fiscale, sono potenzialmente lesivi degli interessi erariali, quanto, piuttosto, all’osservazione di quelle condotte causate dalla violazione originaria del dovere di solidarietà. In una scala costituzionalmente orientata e secondo un rapporto di genere a specie, infatti, tale valore risulterebbe superiore e preordinato rispetto a quello di contribuire alle spese pubbliche e, dunque, rispetto all’interesse dello Stato all’attuazione del prelievo.

Secondo il progetto dei costituenti la solidarietà enunciata all’art. 2 costituisce un asse portante della convivenza civile e se, da un lato, “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” essa richiede altresì “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (77). Tra l’altro, adempiere al dovere di solidarietà è prodromico ed indispensabile rispetto alla realizzazione dell’uguaglianza sostanziale sulla quale si fonda lo stesso Stato di diritto. In linea teorica, e non senza un filo di utopico idealismo, attuare la solidarietà rispettando il dovere di concorrere alle spese pubbliche non dovrebbe consistere nello sterile adempimento di un obbligo imposto, ma piuttosto nella libera e spontanea espressione della socialità tipica del cittadino. Per le ragioni ampiamente rappresentate nel paragrafo che precede, la vigente versione del sistema penal-tributario non pare idonea né ad instillare il seme dell’intima adesione ai valori tutelati dalle norme fiscali, né ad indurre l’evasore a rinunciare al proposito delittuoso.

Andrebbe pertanto rivisto il metro sanzionatorio, distinguendo gli illeciti in base alla loro reale portata offensiva e graduando la risposta punitiva a seconda della natura stessa della violazione. Se, ad esempio, il dovere di solidarietà può certamente dirsi pregiudicato dinanzi all’inadempimento di un obbligo dichiarativo, in quanto manifesto ed inequivocabile il completo disinteresse verso la partecipazione alla spesa pubblica, la stessa offensività

(76) Cfr. G. Flora, Dalla “spazza corrotti” alla “spazza evasori”. Brevi note critiche sulle recenti innovazioni legislative in materia di reati tributari”, in Rass. trib., 2020, 252. (77) Cfr. E. BeTTi, Dovere giuridico, in Enc. dir., XIV, 1965, p. 53.

non può dirsi riscontrata dinanzi ad un omesso versamento. Nel primo caso, infatti, si assiste ad una dinamica sleale nello sviluppo del rapporto tra consociati, laddove il contribuente non intende neanche portare alla luce la propria reale capacità contributiva, cosicché può esser facile rinvenire non soltanto il dolo di evasione, ma anche la rinnegazione del proprio ruolo per il funzionamento dello Stato sociale.

In questo senso, si potrebbe intervenire sulla normativa ricollocando opportunamente le fattispecie che oggi danno luogo ad una doppia responsabilità amministrativa e penale, riservando la misura della reclusione ai fatti che denotano una reale, concreta e deprecabile inattitudine alla convivenza civile, secondo una logica liberal-democratica che meglio si sposa con il dovere di solidarietà.

In tema di scopi general-preventivi, inoltre, non si dovrebbe trascurare che l’omessa contribuzione alle spese pubbliche, nella maggior parte dei casi, si fonda sul rifiuto di subire una diminutio patrimoniale in virtù di valori rimasti incompresi o inaccettati. È per questa ragione che, per questa categoria di contribuenti, una pesante sanzione pecuniaria, se irrogata in modo certo, tempestivo ed efficace, sortirebbe un effetto maggiormente deterrente rispetto a quello portato da uno spesso infruttuoso cumulo sanzionatorio.

5. Verso un ulteriore aggravio sanzionatorio: i reati tributari come presupposto per l’applicazione della responsabilità amministrativa degli enti. – Il regime sanzionatorio introdotto dal D.Lgs. n. 231/2001, applicabile agli enti per i reati commessi a loro interesse o vantaggio, è giunto ad includere i reati di natura tributaria nel perimetro dei cosiddetti reati-presupposto sotto la decisiva spinta della Direttiva UE n. 1371/2017 (PIF), la quale aveva invitato gli Stati membri a predisporre una tutela minima avverso gli illeciti che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Il primo intervento attuativo è consistito nell’introduzione, a mezzo della L. n. 157/2019, dell’art. 25-quinquiesdecies nel decreto n. 231/2001; in ossequio alla delega n. 117/2019, invece, con il D.Lgs. n. 75/2020 è stata successivamente integrata la medesima norma includendovi ulteriori reati-presupposto di natura fiscale (78).

(78) All’esito delle due riforme oggi possono costituire presupposto per la condanna dell’ente i reati di cui agli artt. 2, 3, 8, 10 e 11, ai fini IIDD e IVA, nonché quelli di cui agli artt. 4, 5 e 10-quater, solo ai fini IVA, “se commessi nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri per un importo complessivo non inferiore a dieci milioni.

L’impianto punitivo che completa la cd. “triade sanzionatoria”, destinato a colpire gli enti per i reati tributari commessi dai propri vertici o dai propri dipendenti, si colloca nel già descritto solco delle riforme settoriali che, pur facendosi manifesto della lotta ad un certo fenomeno criminale, appaiono prive di una visione sistematica. Già prima del suo recepimento, il contenuto delle Direttiva PIF aveva suscitato alcuni dubbi in relazione alle ampie definizioni fornite riguardo ai concetti di interesse finanziario dell’Unione e di condotte lesive dello stesso (79): la modalità descrittiva generalmente adottata dal Parlamento e dal Consiglio UE, infatti, mal si concilia con il principio di determinatezza della fattispecie penale. La mancanza di chiarezza su concetti chiave ed alcune discrasie tra la Direttiva e la legge delega erano, inoltre, già state evidenziate con riguardo alla definizione di persona giuridica ed al presupposto di collegamento tra fatto dell’autore materiale e fatto dell’ente (80). Analogamente, riguardo all’introduzione del comma 1-bis all’art. 25-quinquiesdecies, il quale ha aggiunto la responsabilità dell’ente per alcuni reati fiscali commessi nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri, si erano poste alcune criticità interpretative sul significato di “portata transnazionale del reato” e di “connotazione fraudolenta delle condotte” (81).

Tralasciando le ingegnose soluzioni ermeneutiche con cui si è riusciti a dare una chance applicativa alla disposizione (82), si appalesano nuovamente i limiti derivanti dall’uso – stavolta stimolato da istanze punitive sovranazionali – dello strumento normativo in modalità meramente “additiva”. La trasposizione della Direttiva nel nostro ordinamento sarebbe stata la giusta l’occasione, anch’essa sprecata, per ripensare al sistema sanzionatorio oggi applicabile agli enti: il riordino, infatti, sarebbe stato necessario per evitare di giungere all’attuale configurazione che vede, da un lato, la sovrapposizione

(79) Cfr. S.M. ronCo, Frodi ‘gravi’ IVA e tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea: quali ricadute nell’ordinamento interno alla luce della Direttiva 2017/1371 del 5 luglio 2017?, in Arch.pen., 2017, III. 1-11. (80) Cfr. G. Flora, Prime riflessioni sulle problematiche penalistiche del recepimento della Direttiva PIF nel settore dei reati tributari e della responsabilità penale degli enti, in DisCrimen, 2019. (81) La Direttiva PIF restituisce un’elencazione meramente esemplificativa delle condotte e lascia diversi dubbi sul discrimine, in tema di fraudolenza, tra le violazioni di cui agli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 74/2000. (82) Per un approfondimento Cfr. a.M. dell’osso, i. PelleCChia, Attuazione della Direttiva PIF ed estensione del perimetro dei reati tributari ex D.Lgs. n. 231/2001, in Il Fisco, 2020, 1- 3232.

della responsabilità amministrativa ex D.Lgs. n. 231/2001 con le sanzioni tributarie comminabili ex art. 7 del D.L. n. 269/2003 (83), dall’altro, la preclusione per gli enti di quegli effetti premiali collegati alla riscossione del tributo che invece la legge penale riconosce quando l’autore del reato sia una persona fisica. L’art. 8 del D.Lgs. n. 231/2001, infatti, prevedendo che “La responsabilità dell’ente sussiste anche quando: (…) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”, impedisce che l’estinzione del debito tributario abbia effetto anche nel procedimento contro la persona giuridica.

In merito a quest’ultimo punto, in effetti, si fatica a trovare il senso della disparità di trattamento che, anche dopo il recepimento della Direttiva, sussiste tra persona fisica e persona giuridica a fronte dell’estinzione del debito (84). Nonostante tali perplessità, ad onor del vero, va comunque dato atto della mitigazione punitiva che, alle condizioni previste dagli artt. 17 e 19, consente alle persone giuridiche, quanto meno, di scongiurare l’applicazione delle sanzioni interdittive e della confisca diretta.

Sotto il profilo della duplicazione sanzionatoria si osservi, invece, come la commissione di un delitto tributario da parte del legale rappresentante di una società esporrà l’ente stesso tanto alla sanzione amministrativa quanto a quella derivante dalla responsabilità da reato (85). Nonostante la copiosa e convincente dottrina che riconosce natura penale alle misure previste dal D.Lgs. n. 231/2001 (86), infatti, non si può non notare come dal punto di vista sostanziale l’ente dovrà scontare due sanzioni di natura pecuniaria laddove il meccanismo consente di sommare le pesantissime sanzioni applicabili per quote ai già salati importi irrogabili per la violazione dei precetti contenuti nel D.Lgs. n. 471/1997.

Pertanto, diviene inevitabile confrontarsi, dal punto di vista impositivo e riscossivo, con una nuova possibile forma di duplicazione sanzionatoria.

Sul punto, nonostante non manchi chi ritenga che la duplicazione consista nel raddoppio di misure di natura sostanzialmente penale (in ragione del

(83) Cfr. S.M. ronCo, Prospettive per una riforma del modello sanzionatorio amministrativo tributario con riguardo agli enti collettivi, in Riv. dir. trib., supplemento online, 11 settembre 2019. (84) Cfr. R. BarToli, Responsabilità degli enti e reati tributari: una riforma affetta da sistematica irragionevolezza, in Sist. pen., 2020, III, 219 ss. (85) Ciò salvo che non ricorra alcuna delle cause di esclusione di cui all’art. 6 del decreto. (86) La tesi della natura penale è stata accolta da Cass. pen., Sez. II, 30 gennaio 2006, n. 3615.

riconoscimento giurisprudenziale della natura effettivamente penale tanto della responsabilità degli enti quanto di quella amministrativa-tributaria) (87), l’impianto sanzionatorio va nuovamente giudicato sul piano della sua complessiva proporzionalità e ragionevolezza. Va infatti anticipato che in questo caso, non sussistendo né la doppia repressione di un idem factum, né una duplicazione sanzionatoria in capo al medesimo soggetto, non si sostiene la sussistenza del bis idem, quanto, piuttosto, la dubbia sostenibilità, in concreto, di un apparato sanzionatorio ora ingrossato da una nuova ed invasiva forma di aggressione dei patrimoni societari (88).

Si pensi, ad esempio, a quanto potrebbe avvenire nel caso di intervenuta condanna sia del legale rappresentante per il reato tributario, sia della società per la responsabilità amministrativa: in questa circostanza la confisca ex art. 12-bis del D.Lgs. n. 74/2000 a carico del primo soggetto si potrebbe aggiungere alla confisca sui beni dell’ente ex art. 19 del D.Lgs. n. 231/2001. Ed in effetti in tale ipotesi si assisterebbe ad un evidente raddoppio della misura e, atteso che la ratio giuridica della confisca è quella di colpire il “vantaggio” conseguito con il reato e di ripristinare la situazione quo ante, per soddisfarla potrebbe esser necessaria e sufficiente un’unica applicazione della misura ablatoria (89).

In termini pratici, concludendo, non si può non avvertire il sovraccarico punitivo che risulta dall’applicazione delle sanzioni ex D.Lgs. n. 231/2001 in aggiunta ad un già particolarmente afflittivo sistema sanzionatorio amministrativo, in spregio a qualunque auspicio di ottenere quella proporzionalità, o perlomeno quella sostenibilità, tra l’altro sospinta finanche dalla stessa Direttiva PIF (90).

(87) E. Manoni, Responsabilità da reato degli enti: inevitabile il confronto con il principio del ne bis in idem, in Il Fisco, 2021, 1-2950. (88) Sulle tecniche di redazione di adeguati modelli organizzativi Cfr. C. Melillo, Compliance fiscale, strumenti e soluzioni per la prevenzione dei rischi fiscali, Milano, 2019, 339; s. dorigo, g. salvi, Responsabilità dell’ente e reati tributari: cumulo sanzionatorio e ruolo dei modelli organizzativi, in Corr. trib., 2021, 99.; M. Manzini, a. alBano, Responsabilità ex D.Lgs. n. 231/2001 per reati tributari: gestione del rischio fiscale e assetti organizzativi, in Il Fisco, 2021, 1-554. (89) Cfr. A. d’avirro, Confisca diretta, per equivalente e allargata nei reati tributari, op. cit.. (90) Ancorché le citate misure colpiscano soggetti giuridici distinti, comunque, il Considerando (17) invitava ad immaginare un sistema armonico e tollerabile. Per ulteriori riflessioni Cfr. a. ingrassia, s. Cavallini, Brevi riflessioni sulla relazione tra il d.lgs. 231/2001 e i reati tributari: poenae non sunt multiplicanda sine necessitate, in Resp. amm. soc.

5.1. a tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea: le ripercussioni della politica criminale europea sui fondamenti del diritto interno. – Il fondamento giuridico della tutela approntata dalla Direttiva PIF in relazione alle condotte di frode agli interessi finanziari dell’Unione Europea, pur risiedendo formalmente nell’art. 83.2 TFUE, veniva indicato nella stessa proposta di Direttiva della Commissione Europea nel successivo articolo 325 (91). Tale soluzione interpretativa pare essere, in effetti, più coerente con i contenuti dell’atto unionale, con il contesto storico-normativo nel quale esso giungeva ad inserirsi, ma anche con alcuni principi espressi dalla sentenza della CGUE 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco e a., secondo cui proprio tale norma costituirebbe il fondamento dell’azione dell’UE e degli Stati membri per l’uso del diritto penale contro le frodi che pregiudicano gli interessi finanziari dell’Unione.

Proprio la vicenda Taricco ha posto in discussione i limiti oltre i quali possa realmente spingersi l’Unione Europea nella tutela di un interesse proprio, giungendosi a chiarire dinanzi alla Corte di Giustizia prima, e dinanzi alla Corte Costituzionale poi, che l’ingerenza del diritto sovranazionale debba sempre trovare il limite invalicabile dei valori tutelati dalla Costituzione Repubblicana (92). Come emerge, la protezione degli interessi sovranazionali ha indotto il legislatore a metter mano alla disciplina del D.Lgs. n. 231/2001, legittimando l’uso dello strumento penale per il fine, proclamato come preminente, della lotta a quella criminalità d’impresa in grado di erodere le risorse proprie dell’Unione, compromettere il funzionamento del mercato interno e minare la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni UE (93). È lecito dunque domandarsi cosa si intenda per “interessi finanziari dell’UE”.

enti, 2016, III, 109 ss.. (91) Cfr. Punto 3.1 della Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale /* COM/2012/0363 final - 2012/0193 (COD)*. (92) Senza entrare nel merito, pare utile ricordare i contenuti della pronuncia della C. Cost., 10 aprile 2015, n. 115, che ha concluso la vicenda. Secondo la Consulta: “l’eventuale applicazione della “regola Taricco” nel nostro ordinamento violerebbe gli artt. 25, secondo comma, e 101, secondo comma, Cost., e non potrebbe perciò essere consentita neppure alla luce del primato del diritto dell’Unione. Tuttavia è sembrato a questa Corte che la stessa sentenza Taricco (paragrafi 53 e 55) tenda ad escludere tale applicazione ogni qual volta essa venga a trovarsi in conflitto con l’identità costituzionale dello Stato membro e in particolare implichi una violazione del principio di legalità penale, secondo l’apprezzamento delle competenti autorità di tale Stato”. (93) Cfr. N. Parisi, Chiari e scuri nella direttiva relativa alla lotta contro la frode che

Il Considerando (1) della Direttiva n. 1371/2017 precisa che “la tutela degli interessi finanziari dell’Unione riguarda non solo la gestione degli stanziamenti di bilancio, ma si estende a qualsiasi misura che incida o che minacci di incidere negativamente sul suo patrimonio e su quello degli Stati membri, nella misura in cui è di interesse per le politiche dell’Unione” e l’art. 2.1, definendo l’ambito applicativo fornisce la definizione di interessi finanziari dell’Unione”, per tali intendendosi “tutte le entrate, le spese e i beni che sono coperti o acquisiti oppure dovuti in virtù: i) del bilancio dell’Unione; ii) dei bilanci di istituzioni, organi e organismi dell’Unione istituiti in virtù dei trattati o dei bilanci da questi direttamente o indirettamente gestiti e controllati”. L’ambito di tutela tracciato dalle indicazioni UE si rivela senza dubbio molto ampio, soprattutto alla luce del contenuto dei successivi articoli 3 e 4 che estende il contrasto alle frodi a numerose tipologie di reati connessi.

Se è vero che lo stesso Considerando (1) manifesta il nobile intento di non voler ingerire nella struttura e nel funzionamento delle amministrazioni fiscali degli Stati membri, non si può ignorare come l’adeguamento del nostro diritto interno alle prescrizioni unionali porti con sé sempre più pesanti rinunce alla complessiva proporzionalità del sistema sanzionatorio tributario, nonché visibili limitazioni di alcuni principi fondamentali di origine costituzionale. Oltre al già citato conflitto tra la definizione di frode contenuta nella Direttiva ed il principio di determinatezza della fattispecie penale, si considerino, ad esempio, le ricadute pratiche e procedurali che l’applicazione di questa ulteriore struttura sanzionatoria collegata ai reati fiscali ha sul diritto alla difesa e su quello alla ragionevole durata del processo. Diventa pertanto legittimo chiedersi fino a che punto vadano tollerate ed in che modo vadano arginate le contingenti istanze punitive provenienti dalle istituzioni europee. D’altra parte, la saga della normazione come propaganda contro la minaccia contingente non si è di certo esaurita con quella che ha dato attuazione alla Direttiva PIF.

In conformità alle indicazioni della Direttiva UE 20 maggio 2015, n. 849, in tema di prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo, i reati tributari sono divenuti potenziali delitti presupposto per la contestazione dei reati di cui agli artt. 648-bis, 648-ter, e 648-ter.1, in virtù della possibile reimmissione nel circuito dell’economia lecita dei proventi derivanti dall’evasione fiscale (94). Tralasciando in questa

lede gli interessi finanziari dell’Unione, in Giur. pen. web, 2017, 9. (94) Cfr, I. Pardo, Riciclaggio e autoriciclaggio da frode fiscale e reati tributari, in Il

sede il percorso giurisprudenziale tramite il quale è stata consacrata l’idoneità del reato fiscale a fungere da presupposto del riciclaggio (95), l’accostamento delle due tipologie di reato ha generato un attrito tale che, per consentirne l’applicazione concreta e restituire una coerenza logica e giuridica al sistema, è stato necessario superare un vero e proprio calvario interpretativo. Nello specifico, in primo luogo si è dovuta accogliere la possibilità di considerare il risparmio di imposta quale profitto/utilità riciclabile, successivamente, è stato necessario fornire soluzioni ermeneutiche che limitassero i casi in cui al reato tributario possa seguire, in deroga al ne bis in idem sostanziale (96), la contestazione di autoriciclaggio (97). In effetti, senza gli espedienti con cui la giurisprudenza ha sciolto il nodo della potenziale contestazione automatica di quest’ultimo in tutte le ipotesi di impiego del denaro successivo alla consumazione del reato fiscale, si sarebbe assistito alla proliferazione indiscriminata delle incriminazioni per autoriciclaggio.

Sul tema, resta da aggiungere che, nonostante qualche interprete avesse immaginato come l’attuale configurazione del rapporto tra i due reati potesse dar luogo ad un bis in idem sanzionatorio (98), la CGUE nella recente pronuncia 2 settembre 2021, causa C-790/19, ha precisato che, invece, il principio resta inviolato fintantoché i fatti materiali costitutivi del reato di evasione fiscale saranno diversi da quelli costitutivi del riciclaggio. Ad ogni modo, la complessa vicenda che vede protagonista la relazione tra quest’ultimo e l’evasione fiscale sembra essere l’ennesima dimostrazione dell’impatto negativo che gli impulsi punitivi provenienti dalle attuali politiche criminali dell’Unione producono sia sulla coerenza sistematica delle norme, sia su quel più volte citato effetto di deterrenza che, pur affannosamente ricercato, non pare riscontrarsi.

penalista, 13 dicembre 2019. (95) Cfr. Cass. pen., sez. II, 17 gennaio 2012, n. 6061; Cass., Sez. II, 28 luglio 2016, n. 33704. (96) Cfr. Cass. Pen., 3 dicembre 2019, n. 9755; Cass. pen., Sez. II, 5 novembre 2020, n. 30889; Cass. Pen. Sez. II, 29 marzo 2021, n. 11986. (97) Cfr. A. gullo, Autoriciclaggio e reati tributari, in Diritto Penale Contemporaneo, 2016. (98) Cfr. S.M. ronCo, Prospettive per una riforma del modello sanzionatorio amministrativo tributario con riguardo agli enti collettivi, cit.; Mongillo, Reati tributari e riciclaggio: il problematico binomio lungo il “piano inclinato” della confisca, in Dir. pen. proc., 2015, 451 ss.

6. Conclusioni. – Nel corso dell’analisi sono state richiamate le criticità che connotano un sistema sanzionatorio davvero complesso, nel quale convivono norme incriminatrici che sono frutto di diverse, spesso inconciliabili, istanze repressive. Gli illeciti amministrativi non danno sempre luogo a sanzioni congrue ed adeguate rispetto alla loro concreta offensività, al punto che persino la stessa giustizia unionale gli attribuisce natura sostanzialmente penale. Inoltre, l’apparato punitivo, in origine configurato come un doppio binario sanzionatorio, ha ben presto rivelato la sua fisiologica attitudine alla violazione del principio del ne bis in idem, lasciando i contribuenti in balia di due procedimenti paralleli che, per un idem factum storico, possono ben giungere ad esiti contrapposti. Si è poi illustrato l’impatto che la politica criminale degli ultimi decenni, teleologicamente orientata verso la prevenzione generale, ha avuto sull’evoluzione del diritto penal-tributario, con l’introduzione di nuove misure incriminatrici ed il diffuso inasprimento di quelle esistenti. La lotta alla criminalità economica d’impresa ed il contrasto alle frodi in danno agli interessi dell’UE, poi, hanno indotto il legislatore ad approntare un nuovo strumento di contrasto all’evasione, la possibilità di sanzionare gli enti per i reati fiscali commessi a proprio beneficio.

Sebbene, come sviscerato nello studio dei singoli nodi problematici, i tre apparati punitivi, singolarmente e cumulativamente considerati, siano in grado di reggere dal punto di vista giuridico-normativo, anche grazie agli espedienti giurisprudenziali che levigano gli attriti più evidenti, ciònondimeno si rende necessaria una riflessione sulla complessiva tenuta del sistema e sulla sua reale sostenibilità a lungo termine. La strada attualmente intrapresa per contrastare l’evasione fiscale pare esser quella del continuo ricorso alla legislazione dell’emergenza, con plurimi interventi dalla natura frammentaria ed asistematica, nemmeno più giustificabili da generici fini di lotta a tale, comunque odioso, fenomeno.

Il metodo della deterrenza, la minaccia di pene sempre più severe, oltre a non esser pienamente conforme al rapporto teleologico che in uno Stato liberal-democratico dovrebbe sussistere tra illecito e pena, negli ultimi anni non ci ha neanche restituito delle evidenze in termini di efficacia. Lo studio dei “Rapporti sui risultati conseguiti in materia di contrasto all’evasione fiscale e contributiva” pubblicati annualmente dal MEF, infatti, rivela che il tax gap in essi rilevato nell’ultimo decennio, non avendo subito alcuna rilevante compressione in corrispondenza delle varie riforme fiscali menzionate, non ha mai realmente risentito del progressivo aggravio sanzionatorio. Sarebbe dunque da abbandonare un metodo che, invece, rende sempre più oscura e

farraginosa una normativa che, per esser condivisa ed attuata, reclama in assoluto chiarezza e semplificazione.

Pur in aderenza alle indicazioni delle Istituzioni dell’UE, la revisione del sistema dovrebbe condurre, in primo luogo, alla razionalizzazione dell’impianto sanzionatorio amministrativo, espungendo dagli illeciti le condotte inoffensive in termini di gettito. Il ricorso al diritto penale, poi, andrebbe legittimato non solo da esigenze general-preventive, ma soprattutto da logiche retributive e special-preventive. Andrebbe pertanto recuperata la proporzionalità e la gradualità della pena rispetto alla gravità del fatto, valutando quest’ultima non solo in base al quantum di imposta evasa, ma recuperando i meccanismi fisiologici dell’indagine penale, ovvero guardando all’elemento soggettivo del reato e ricercando, in concreto, il dolo specifico di evasione.

Così, il processo penale sarebbe riservato ai fatti che rivelano una comprovata pericolosità sociale che, pur manifestandosi nel mancato adempimento di obblighi fiscali, risiede nel coriaceo rifiuto del valore della solidarietà sociale ed economica. Per tale via si recupererebbero i trascurati principi di offensività, tassatività e proporzionalità e si restituirebbe, con pene attagliate alla personalità dell’evasore, dignità applicativa alla funzione special-preventiva della pena.

Configurare un sistema punitivo pronto, efficace e proporzionato, nel quale la sanzione appaia “giusta” prima che adeguata, avrebbe altresì il sicuro, agognato, effetto general-preventivo, esplicando cioè una deterrenza dovuta alla preliminare accettazione del modello sanzionatorio stesso. Allo scopo, è tuttavia imprescindibile che il sistema tributario raccolga consenso tanto nel suo aspetto punitivo quanto, soprattutto, in quello sostanziale.

Si tratta con ogni evidenza di un impegno ulteriore rispetto a quello sin qui auspicato ma che, proprio per un’efficace lotta al sommerso, andrebbe prioritariamente assolto, magari già in attuazione della recente legge delega di riforma fiscale. Ad ogni modo, allo stato attuale, la comprensione e l’apprezzamento della legge tributaria, così indispensabili per lo spontaneo adempimento del dovere di contribuzione, incontrano un insormontabile ostacolo nella concreta insostenibilità della “triade punitiva” che, indubbiamente, riversa sui contribuenti un cumulo sanzionatorio scarsamente giustificabile dal punto di vista logico-razionale.

ludoviCa agovino

Rubrica di diritto europeo

a cura di Piera Filippi

Corte di Giustizia UE, sentenza 22 aprile 2021, causa C-703/19

Rinvio pregiudiziale – Fiscalità – Sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (IVA) – Direttiva 2006/112/CE – Articolo 98, paragrafo 2 – Facoltà per gli Stati membri di applicare una o due aliquote IVA ridotte a talune cessioni di beni e prestazioni di servizi – Qualificazione di un’attività commerciale come “prestazione di servizi” – Allegato III, punto 12 bis – Regolamento di esecuzione (UE) n. 282/2011 – Articolo 6 – Nozione di “servizi di ristorazione e catering” – Pasti pronti per il consumo immediato in loco nei locali del venditore o in un’area di ristorazione – Pasti pronti per il consumo immediato da asporto

L’articolo 98, paragrafo 2, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, come modificata dalla direttiva 2009/47/CE del Consiglio, del 5 maggio 2009, in combinato disposto con l’allegato III, punto12 bis, di tale direttiva e con l’articolo 6 del regolamento di esecuzione (UE) n. 282/2011 del Consiglio, del 15 marzo 2011, recante disposizioni di applicazione della direttiva 2006/112, deve essere interpretato nel senso che rientra nella nozione di «servizi di ristorazione e catering» la fornitura di cibi accompagnata da servizi di supporto sufficienti, destinati a consentire il consumo immediato di tali cibi da parte del cliente finale, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Ove il cliente finale scelga di non beneficiare dei mezzi materiali e umani messi a sua disposizione dal soggetto passivo per accompagnare il consumo dei cibi forniti, si dovrà considerare che la fornitura di tali cibi non è accompagnata da alcun servizio di supporto. (1)

Corte di Giustizia UE, sentenza 9 settembre 2021, causa C-406/20

Rinvio pregiudiziale – Fiscalità – Imposta sul valore aggiunto (IVA) – Direttiva 2006/112/CE – Articolo 98 – Facoltà degli Stati membri di applicare un’aliquota ridotta dell’IVA a talune cessioni di beni e prestazioni di servizi – Allegato III, punto 7 – Diritto d’ingresso ai parchi di divertimento e alle fiere – Principio della neutralità fiscale – Prestazioni realizzate da esercenti spettacoli stabiliti in modo permanente e da esercenti spettacoli

viaggianti – Comparabilità – Contesto – Punto di vista del consumatore medio – Perizia giudiziaria

L’articolo 98 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, in combinato disposto con il punto 7 dell’allegato III di tale direttiva, deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale in forza della quale le prestazioni fornite da esercenti spettacoli viaggianti, da un lato, e quelle fornite da esercenti spettacoli stabiliti in modo permanente e che assumono la forma di parchi ricreativi, dall’altro, siano assoggettate ad aliquote di imposta sul valore aggiunto distinte, l’una ridotta e l’altra normale, a condizione che sia rispettato il principio di neutralità fiscale. Il diritto dell’Unione non osta a che il giudice del rinvio, qualora incontri particolari difficoltà nel verificare il rispetto del principio di neutralità fiscale, disponga, alle condizioni previste dal diritto nazionale, una perizia destinata a orientare il suo giudizio. (2)

Corte di Giustizia UE, sentenza 3 febbraio 2022, causa C-515/20

Rinvio pregiudiziale – Imposta sul valore aggiunto (IVA) – Direttiva 2006/112/CE – Articolo 122 – Aliquota ridotta per le cessioni di legna da ardere – Differenziazione in funzione delle caratteristiche e delle proprietà oggettive dei prodotti – Forme di legno destinate alla combustione che rispondono alla stessa esigenza del consumatore e che si trovano in concorrenza – Principio della neutralità fiscale

L’articolo 122 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretato nel senso che la nozione di legna da ardere, ai sensi di tale articolo, designa qualsiasi tipo di legno che, in base alle sue proprietà oggettive, è destinato esclusivamente alla combustione. L’articolo 122 della direttiva 2006/112 deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro il quale, in applicazione di tale articolo, introduca un’aliquota ridotta d’imposta sul valore aggiunto per le cessioni di legna da ardere può limitarne l’ambito di applicazione a talune categorie di cessioni di legna da ardere facendo riferimento alla nomenclatura combinata, purché sia rispettato il principio di neutralità fiscale. Il principio di neutralità fiscale dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a che il diritto nazionale escluda dal beneficio dell’aliquota ridotta d’imposta sul valore aggiunto la cessione di legno in trucioli, sebbene esso conceda tale beneficio alle cessioni di altre forme di legna da ardere, a condizione che, nella mente del consumatore medio, il legno in trucioli non sia sostituibile a tali altre forme di legna da ardere, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. (3)

(1-2-3) Applicazione “selettiva” delle aliquote ridotte, principio di neutralità dell’IVA e “punto di vista del consumatore medio”.

Sommario: 1. L’applicazione “selettiva” delle aliquote IVA ridotte nella prospettiva del giudice europeo. – 2. Il principio di neutralità quale limite all’applicazione “selettiva” delle aliquote ridotte. – 3. Il punto di vista del “consumatore medio” nella causa C-703/19 riguardante i “servizi di ristorazione e catering” (…). – 4. (Segue). … e nelle cause C-406/20 e C-515/20 riguardanti, rispettivamente, il “diritto d’ingresso” a fiere e parchi di divertimento e i prodotti di “legna da ardere”. – 5. L’impatto delle pronunce del giudice europeo sulle prospettive di riforma delle aliquote ridotte.

Da costante giurisprudenza della Corte relativa all’articolo 98 della direttiva IVA, qualora uno Stato membro scelga di applicare selettivamente l’aliquota IVA ridotta alle cessioni di beni o servizi per i quali la direttiva consente l’applicazione di tale aliquota, detto Stato membro deve rispettare il principio della neutralità fiscale. Il presente contributo si occupa della recente giurisprudenza della Corte in materia di aliquote ridotte dell’imposta sul valore aggiunto e analizza il principio di neutralità fiscale che deve essere verificato “dal punto di vista del consumatore medio”. Infine, si svolgono alcune considerazioni sulla riforma delle aliquote IVA: la Direttiva (UE) 2022/542 del Consiglio del 5 aprile 2022 modifica la Direttiva IVA per quanto riguarda le aliquote dell’imposta sul valore aggiunto in prospettiva della definitiva attuazione della tassazione basata sul principio di destinazione.

From the Court’s settled case-law concerning Article 98 of the VAT Directive, where a Member State chooses to apply selectively the reduced rates of VAT to supplies of goods or services for which the Directive allows the application of such a rate, that Member State must comply with the principle of fiscal neutrality. This paper deals with the Court’s recent case-law as regards reduced rates of value added tax and analyzes the principle of tax neutrality which must be verified “from the point of view of the average consumer”. Finally, some considerations are made on the VAT rates reform: the Council Directive (EU) 2022/542 of 5 april 2022 amending VAT Directive as regards rates of value added tax in perspective of the final implementation of destination-based taxation.

1. L’applicazione “selettiva” delle aliquote IVA ridotte nella prospettiva del giudice europeo. – Le sentenze in commento – in continuità con il consolidato orientamento della Corte di Giustizia UE – partono dal “conciso” dato normativo contenuto nella direttiva del 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE sulla possibilità riconosciuta agli Stati membri dell’UE di prevedere aliquote ridotte per taluni beni e servizi per delinearne i limiti di applicabilità.

Quanto al dato normativo, infatti, a fronte del principio di applicabilità dell’aliquota IVA “normale” sancito dall’art. 96 della direttiva – aliquota che deve essere “identica per le cessioni di beni e per le prestazioni di servizi”

– il successivo art. 98 pone una “deroga” a questo principio, prevedendo la possibilità per i singoli Stati membri dell’UE di “applicare una o due aliquote ridotte” (par. 1) “unicamente alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi delle categorie elencate nell’allegato III” (par. 2). Peraltro, per le categorie relative ai beni, è specificata la possibilità di fare ricorso “alla nomenclatura combinata per delimitare con precisione la categoria in questione” (par. 3) (1).

L’allegato III (rubricato, per l’appunto, “elenco delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi che possono essere assoggettate alle aliquote ridotte di cui all’articolo 98”) contempla attualmente 24 “categorie” di beni o servizi cui può essere applicata l’aliquota IVA ridotta.

Vi è poi, com’è noto, anche una serie di disposizioni c.d. “speciali” che si rendono applicabili, per lo più, fino all’introduzione del regime “definitivo” del tributo (previsto dall’art. 402) (2) e che consentono, tra l’altro, agli Stati

(1) Si tratta della c.d. NC (nomenclatura combinata) contenuta nell’allegato I del regolamento n. 2658/87, come modificato dal regolamento n. 1031/2008, fondata sul sistema armonizzato di designazione e di codificazione delle merci elaborato dal Consiglio di cooperazione doganale, divenuto Organizzazione mondiale delle dogane (OMD) e istituito con la Convenzione internazionale sul sistema armonizzato di designazione e di codificazione delle merci, conclusa a Bruxelles il 14 giugno 1983. La NC viene aggiornata periodicamente: la versione applicabile alle operazioni effettuate a decorrere dal 1° gennaio 2022 è contenuta nel regolamento di esecuzione n. 2021/1832. (2) Il regime definitivo, com’è noto, avrebbe dovuto essere fondato sul principio dell’imposizione delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi nello Stato membro “di origine”, in luogo dell’attuale regime “transitorio” fondato sul principio di destinazione.

A partire dal 2012, tuttavia, la Commissione, con l’accordo del Consiglio e del Parlamento europeo, ha deciso di abbandonare l’obiettivo di un sistema dell’IVA definitivo basato sull’origine a favore di un sistema fondato sul principio della destinazione. Cfr. specificamente in argomento COM(2016) 148 final, Verso uno spazio unico europeo dell’IVA - Il momento delle scelte, Bruxelles, 7 aprile 2016, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo su un piano d’azione sull’IVA; COM(2017) 566 final, Verso uno spazio unico europeo dell’IVA - Il momento di agire, Bruxelles, 4 ottobre 2017, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo relativa al seguito del piano d’azione sull’IVA; COM(2017) 569 final, 4 ottobre 2017, Proposta di direttiva del Consiglio che modifica la direttiva 2006/112/CE per quanto concerne l’armonizzazione e la semplificazione di determinate norme nel sistema d’imposta sul valore aggiunto e l’introduzione del sistema definitivo di imposizione degli scambi tra Stati membri; COM(2018) 329 final, Bruxelles, 25 maggio 2018, Proposta di direttiva del Consiglio che modifica la direttiva 2006/112/CE per quanto riguarda l’introduzione di misure tecniche dettagliate per il funzionamento del sistema dell’IVA definitivo per l’imposizione degli scambi tra Stati membri.

membri dell’UE di introdurre e/o mantenere aliquote IVA ridotte per taluni specifici beni o servizi non inclusi nel citato allegato III (3).

Partendo dal quadro normativo sopra delineato e confermando, come detto, un orientamento giurisprudenziale consolidato, la Corte di Giustizia UE, nella sentenza del 22 aprile 2021, causa C-703/19, chiarisce, innanzitutto, che la scelta del legislatore di applicare un’aliquota ridotta soggiace ad un limite oggettivo insuperabile: l’allegato III della direttiva “elenca in maniera esaustiva le categorie di cessioni di beni e di prestazioni di servizi che possono essere assoggettate a tali aliquote ridotte” e, pertanto, la scelta può riguardare esclusivamente beni o servizi che rientrano in una o più delle categorie elencate nell’allegato III della direttiva IVA.

Il medesimo principio è espresso relativamente alle aliquote ridotte inerenti i beni e i servizi tassativamente indicati in talune delle già menzionate disposizioni “speciali” operanti fino all’introduzione del regime “definitivo” dell’IVA: così, in particolare, si esprime la sentenza del 3 febbraio 2022, causa C-515/20, avente ad oggetto, per l’appunto, l’aliquota ridotta applicata ai prodotti di “legna da ardere”, non rientranti in alcuna categoria dell’allegato III, ma espressamente considerati nell’art. 122 della direttiva.

Dopo aver richiamato il limite oggettivo ritraibile già dal dato letterale delle norme contenute nella direttiva (4), il giudice europeo specifica il contenuto ed i limiti della c.d. applicazione “selettiva” delle aliquote IVA ridotte.

In estrema sintesi, sulla base dell’art. 98 della direttiva IVA, gli Stati membri, nell’ambito delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi incluse nelle categorie dell’allegato III della direttiva – ma lo stesso ragionamento

(3) È proprio questo il caso della sentenza del 3 febbraio 2022, causa C-515/20, che verrà esaminato più oltre e che riguarda l’aliquota ridotta applicata ai prodotti di “legna da ardere”, non rientranti in alcuna categoria dell’allegato III ma espressamente considerati nell’art. 122 della direttiva. Ma, in argomento, si può menzionare altresì la sentenza 5 settembre 2019, causa C-145/18, relativa all’applicazione dell’aliquota IVA ridotta prevista dall’art. 103, par. 2, lett. a), della direttiva alle cessioni di oggetti d’arte effettuate dal loro autore o dagli aventi diritto. (4) Si tratta di un limite oggettivo “intrinseco” piuttosto ovvio e tuttavia, se si guarda alla casistica esaminata dal giudice europeo, tale impressione sembra destinata a venir meno. Così ad esempio, nella sentenza 3 marzo 2011, causa C-41-09, riguardante l’applicazione dell’aliquota IVA ridotta a taluni animali vivi (segnatamente, cavalli), utilizzati nella preparazione di prodotti alimentari per il consumo umano e animale, il giudice europeo ha dovuto chiarire che solamente la cessione di un cavallo effettuata affinché sia macellato per essere utilizzato nella preparazione di prodotti alimentari può essere soggetta ad un’aliquota ridotta dell’IVA ai sensi del punto 1 dell’allegato III della direttiva, specificando che “un cavallo da macello non è analogo né a un cavallo da competizione né a un cavallo da compagnia”.

vale, come detto, per i beni o servizi considerati nelle già menzionate disposizioni “speciali” – sono liberi di determinare i beni e i servizi ai quali applicare l’aliquota ridotta. Rientra, cioè, nella piena discrezionalità dei singoli Stati membri la possibilità di applicare, per l’appunto, “selettivamente” l’aliquota IVA ridotta, ponendo riferimento esclusivamente ad “un aspetto concreto e specifico” dei beni o servizi inclusi in una delle categorie dell’allegato III.

Merita a questo proposito da subito precisare che nella prospettiva del giudice europeo per aspetto “concreto e specifico” del bene o del servizio cui astrattamente si può rendere applicabile un’aliquota ridotta in base alle previsioni della direttiva non si intende necessariamente una qualità intrinseca e peculiare del bene o del servizio in sé, ma semmai una specificità attinente alle modalità o alle condizioni, anche temporali, del suo utilizzo. In altri termini – come verrà meglio evidenziato più oltre – la “selezione” fa perno, nella normalità dei casi, sui diversi possibili impieghi del bene o del servizio da parte del consumatore finale (5).

Questa delimitazione ad alcuni concreti e specifici aspetti – delimitazione che porta, com’è evidente, ad un “restringimento” del novero dei beni e servizi che, pur tutti astrattamente ricompresi nelle diverse categorie dell’allegato III, possono in concreto beneficiare delle aliquote ridotte – è, nell’ottica del giudice europeo, perfettamente coerente con la natura “derogatoria” dell’aliquota ridotta. In altri termini, poiché l’introduzione (e/o il mantenimento di) un’aliquota ridotta rappresenta una deroga al principio dell’applicazione dell’aliquota IVA ordinaria e, quindi, un’“eccezione” a tale principio, la delimitazione della sua applicazione sulla base di aspetti concreti e specifici dei beni o dei servizi è coerente con il principio secondo il quale le deroghe devono essere interpretate in senso restrittivo (6).

(5) Ed in questo senso, a titolo di esempio, il giudice europeo nella sentenza 27 giugno 2019, causa C597/17, ha ritenuto conforme al dettato normativo dell’UE la legislazione belga che riserva l’aliquota ridotta ai medicinali e ai dispositivi medici forniti nell’ambito di interventi o trattamenti di natura terapeutica e sottopone ad aliquota ordinaria i medicinali e i dispositivi medici forniti nell’ambito di interventi o trattamenti di natura esclusivamente estetica.

Analogamente, nella sentenza del 9 novembre 2017, causa C-499/16, il giudice europeo ha chiarito che il legislatore nazionale ben può limitare l’applicazione dell’aliquota IVA ridotta ai prodotti di pasticceria “freschi” ponendo riferimento al criterio del “termine minimo di conservazione” o della “data di scadenza” (nel caso specifico, alla durata di conservazione di 45 giorni). (6) A questo proposito, meritano di essere segnalate, tra l’altro, CGUE, sentenza del 6 maggio 2010, causa C-94/09, punti da 25 a 29; sentenza 27 febbraio 2014, cause C 454/12 e

Sempre in linea con il consolidato orientamento del giudice europeo, inoltre, nella sentenza del 22 aprile 2021 è ribadito che la deroga al principio dell’aliquota IVA ordinaria ha la finalità “di rendere meno onerosi e, di conseguenza, maggiormente accessibili al consumatore finale, sul quale grava in definitiva l’imposta, taluni beni e servizi ritenuti particolarmente necessari” (cfr. punto 37) (7).

Il giudice europeo conferma, poi, che nella “selezione” dei beni o dei servizi il legislatore nazionale è “libero, quando delimita, nel suo diritto interno, le categorie alle quali intende applicare tale aliquota ridotta, di classificare le cessioni di beni e le prestazioni di servizi incluse nelle categorie di cui all’allegato III della direttiva IVA secondo il metodo che ritiene più adeguato” (cfr. punto 40 della sentenza resa nella causa C-703/19). In questa prospettiva, anche il ricorso alla nomenclatura combinata previsto dal par. 3 dell’art. 98 rappresenta solo uno dei possibili metodi per circoscrivere ulteriormente i beni o i servizi che scontano l’aliquota ridotta. Anzi, a ben guardare, proprio in quanto le aliquote ridotte derogano al principio dell’aliquota normale, gli Stati membri dell’UE non solo possono fare riferimento alla nomenclatura combinata, ma possono anche “precisare, con ogni mezzo presente nel loro diritto nazionale”, a quali beni o servizi intendono riservare un’aliquota ridotta e ciò in quanto “non vi è alcuna disposizione di diritto dell’Unione che vieti

C 455/12, punti 43 e 44; sentenza 11 settembre 2014, causa C-219/13, punto 23 e ss.; sentenza 9 novembre 2017, causa C-499/16, punto 23 e ss., ove la Corte ha precisato che la possibilità di procedere a una tale applicazione selettiva dell’aliquota IVA ridotta è giustificata in particolare dalla considerazione che, costituendo tale aliquota un’eccezione, la limitazione della sua applicazione ad elementi concreti e specifici della categoria di prestazioni di cui trattasi è coerente con il principio secondo il quale le esenzioni e le deroghe devono essere interpretate in senso restrittivo” (punto 24).

Tra le più recenti, si veda altresì CGUE 5 settembre 2019, C145/18, punto 42, ove è precisato che, rispetto all’art. 98 della direttiva, “nulla, nel testo di tale disposizione, impone che essa sia interpretata nel senso di esigere che l’applicazione di tale aliquota ridotta riguardi necessariamente tutti gli aspetti di una categoria di prestazioni di cui all’allegato III di tale direttiva. Inoltre, fatto salvo il principio della neutralità fiscale inerente al sistema comune dell’IVA, gli Stati membri hanno la possibilità di applicare un’aliquota IVA ridotta a elementi concreti e specifici di una delle categorie di prestazioni di cui all’allegato III di detta direttiva”. (7) Si tratta, com’è evidente, di una finalità tradizionalmente affermata dal giudice europeo anche rispetto al diverso comparto dei regimi di esenzione IVA. Nella prospettiva della Corte di Giustizia, infatti, le aliquote ridotte, al pari dei regimi di esenzione, sono previsti dal legislatore dell’UE con l’obiettivo di rendere i beni essenziali meno costosi per il consumatore finale. Cfr. in tema F. MonTanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA, Torino, 2013, 49.

loro di ricorrere, a tal fine, a uno strumento di tale diritto” (cfr. punto 38 della sentenza 3 febbraio 2022, causa C-515/20).

Secondo il giudice europeo, peraltro, “ciascuno Stato membro è libero di classificare in una stessa categoria e di assoggettare ad imposta alla stessa aliquota IVA ridotta operazioni imponibili diverse, incluse in categorie distinte di tale allegato, senza operare alcuna distinzione formale tra le cessioni di beni e le prestazioni di servizi” (cfr. punto 64 della sentenza resa nella causa C-703/19), così come cessioni di beni o prestazioni di servizi rientranti nella medesima categoria di cui all’allegato III di tale direttiva possono essere assoggettate “a due aliquote IVA ridotte diverse” (cfr. punto 42 della medesima sentenza).

L’ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore nazionale in merito all’applicazione c.d. selettiva delle aliquote ridotte, tuttavia, incontra un limite insuperabile: nella scelta dei beni e dei servizi che possono fruire dell’aliquota ridotta il legislatore nazionale è, infatti, sempre tenuto a rispettare il principio della neutralità dell’IVA.

Precisamente, il principio di neutralità dell’IVA impone di non trattare in modo diverso ai fini della determinazione delle aliquote “cessioni di beni o prestazioni di servizi simili, che si trovino in concorrenza gli uni con gli altri”. In base a tale principio, quindi, si configura una non corretta attuazione della direttiva IVA ogni qualvolta la normativa nazionale non assoggetti due operatori economici in concorrenza tra loro alla medesima aliquota. Ciò, quindi, può avvenire tanto nel caso in cui tali operatori siano soggetti a due aliquote ridotte diverse, tanto nel caso in cui solo uno di essi fruisca di un’aliquota ridotta e l’altro, invece, soggiaccia ad aliquota ordinaria.

Ma poiché, come detto, le aliquote ridotte sono previste dal legislatore europeo come deroga al principio dell’aliquota normale con l’obiettivo di rendere i beni essenziali meno costosi per il consumatore finale, per verificare se la legislazione domestica rispetti o meno il principio di neutralità non ci si può limitare ad una valutazione comparativa avente ad oggetto, sic et simpliciter le attività oggettivamente svolte dai due operatori economici: è necessario, infatti, utilizzare un criterio specifico e, cioè, il “punto di vista del consumatore medio”, che funge quindi da vero e proprio tertium comparationis (8). In base

(8) Così, ponendo nuovamente riferimento all’esempio già citato nella nota 5, nella sentenza del 9 novembre 2017, causa C-499/16, il giudice europeo, dopo aver chiarito che, in via di principio, il legislatore nazionale – nella fattispecie, polacco – ben può limitare l’applicazione

a tale criterio interpretativo, pertanto, “beni o prestazioni di servizi sono simili quando presentano proprietà analoghe e rispondono alle medesime esigenze del consumatore, in base ad un criterio di comparabilità dell’uso, e quando le differenze esistenti non influiscono significativamente sulla decisione del consumatore medio di optare per l’uno o l’altro di tali beni o prestazioni di servizi” (cfr. punto 38 della sentenza del 9 settembre 2021, causa C-406/20) (9).

In questa prospettiva, quindi, il giudice nazionale – chiamato a valutare se il diverso trattamento IVA previsto dalla normativa domestica in relazione a beni o servizi cui astrattamente si potrebbe renderebbe applicabile un’aliquota ridotta in base alle previsioni della direttiva rispetti o meno il principio di neutralità – deve accertare se i beni o i servizi si trovano, dal punto di vista del consumatore medio, in un rapporto di “sostituzione”: se così è, allora l’applicazione di aliquote diverse è suscettibile di influenzare la scelta del consumatore e determinare ex se una violazione del principio di neutralità.

dell’aliquota IVA ridotta ai prodotti di pasticceria “freschi” alla durata di conservazione, chiarisce che occorre però anche stabilire se tale criterio (i.e.: la durata di conservazione che non supera i 45 giorni) “sia determinante nella prospettiva del consumatore medio polacco quando fa la sua scelta di acquisto di prodotti di pasticceria” e questa valutazione comporta, secondo un approccio “comparativo”, la necessità di verificare se esistono, sul mercato polacco, dei prodotti di pasticceria che hanno una durata di conservazione non superiore ai 45 giorni, ma che sono comunque simili, agli occhi del consumatore, ai prodotti che hanno un termine minimo di conservazione stabilito oltre i 45 giorni e che si trovano in un rapporto di “sostituzione” con quest’ultimi. Ciò in quanto “se effettivamente tali beni esistono, la durata di conservazione inferiore a 45 giorni non risulterebbe determinante per il consumatore medio polacco e sulla scelta di quest’ultimo potrebbe incidere l’applicazione di aliquote IVA diverse. In tale ipotesi, il principio della neutralità fiscale osterebbe alle disposizioni nazionali di cui trattasi nel procedimento principale”(punto 34). (9) In argomento, si vedano altresì ex multis CGUE 9 novembre 2017, causa C-499/16, punto 31, 27 febbraio 2014, cause C-454/12 e C-455/12, punti 53 e 54; 27 giugno 2019, causa C-597/17, punto 48.

2. Il principio di neutralità quale limite all’applicazione “selettiva” delle aliquote ridotte. – L’IVA è il tributo “europeo” per definizione ed è per questo che permane tutt’oggi, nonostante la sua introduzione risalga al 1972, la difficoltà di “inserirla nei tradizionali schemi di studio della scienza tributaristica” (10). Questa difficoltà “originaria” non viene meno dinanzi alla copiosa giurisprudenza della Corte di Giustizia UE che, nel corso del tempo, ha chiarito i vari aspetti del tributo, quale interprete “qualificato” della normativa europea (11). Si tratta di pronunce, infatti, che il più delle volte, secondo un approccio casistico, privilegiano i profili economico-sostanziali del tributo svalutando, nel contempo, i profili giuridico-formali valorizzati dai giudici nazionali in sede di rinvio pregiudiziale.

Non sembra sfuggire a questa logica neppure la giurisprudenza europea che si è occupata delle aliquote IVA ridotte, al punto che sembra opportuno, prima di analizzare i casi concreti sottoposti all’esame della Corte UE, focalizzare l’attenzione sul principio di neutralità quale limite all’applicazione selettiva delle aliquote ridotte.

(10) Così A. FanTozzi, I profili soggettivi del presupposto, in L’imposta sul valore aggiunto. Aspetti economici e giuridici, Atti del convegno Assonime-Luiss del 21 e 22 settembre 2009, in Giur. Imp., 2009, 15, che – a distanza di quasi quarant’anni dalla sua ricostruzione dell’IVA in termini di “imposta sulle entrate nette applicata per masse su base annuale” (cfr. A. FanTozzi, Presupposto e soggetti passivi dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. Prat. Trib., 1972, 725) – rilevava come il tributo avesse assunto nel corso del tempo, anche in ragione della copiosa giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, “i profili di un’imposta europea in senso pieno rispetto a quelli di una mera imposta armonizzata”; profili attinenti, tra l’altro, “alla piena realizzazione (oggi si direbbe senza se e senza ma) del principio di neutralità dell’imposta”. Si veda altresì P. FiliPPi, I profili oggettivi del presupposto, ivi, 31, la quale osservava in quella sede come il modello europeo dell’IVA, definita già nel 1967 dalla prima direttiva come “imposta sul consumo”, “generale” e “neutrale” “è pensato per soddisfare finalità economiche” e presenta profili di originalità tali che difficilmente potrebbe essere ricondotto nelle categorie giuridiche tradizionali che consentono, di norma, all’interprete di collocare il tributo “in modo coerente e armonico all’interno del proprio ordinamento nazionale”. (11) Cfr. A. CoMelli, Iva comunitaria e iva nazionale. Contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, passim; L. Perrone, L’armonizzazione dell’Iva: il ruolo della Corte di Giustizia, gli effetti verticali delle direttive e l’affidamento del contribuente, in Rass. trib., 2006, 423; G. Melis - R. MiCeli, Le sentenze interpretative della Corte di Giustizia delle Comunità europee nel diritto tributario: spunti dalla giurisprudenza relativa alle direttive sull’“imposta sui conferimenti” e sull’Iva, in Riv. dir. trib., 2003, 111; V. nuCera, Le sentenze interpretative della Corte di Giustizia ed il loro impatto sul sistema tributario, in Rass. trib., 2006, 1136; id., Sentenze pregiudiziali della Corte di Giustizia e ordinamento tributario interno, Padova, 2010.

Peraltro, per declinare in modo più preciso la portata del principio di neutralità richiamato dal giudice europeo nelle sentenze in commento appare utile richiamare le interessanti conclusioni presentate il 23 settembre 2021 dall’Avvocato generale Gerard Hogan nella causa C-228/20; causa decisa con sentenza lo scorso 7 aprile e riguardante il regime di esenzione previsto dall’art.132, par. 1, lett. b) della direttiva per le prestazioni mediche.

Secondo l’Avvocato generale, il principio di neutralità dell’IVA è stato declinato nel corso del tempo dal giudice europeo in una “triplice accezione”.

Nella sua primaria accezione, il principio di neutralità individua il principio cardine dell’IVA quale “imposta sul consumo”, “generale” e “neutrale”, che trova espressione nel meccanismo di rivalsa e detrazione che presiede al funzionamento applicativo del tributo e che garantisce ai soggetti passivi IVA di non rimanere incisi dall’onere impositivo (12).

In questo senso, il principio si ritrae già dal Considerando 7 della direttiva, laddove è precisato che “il sistema comune dell’IVA dovrebbe portare, anche se le aliquote e le esenzioni non sono completamente armonizzate, ad una neutralità dell’imposta ai fini della concorrenza nel senso che, nel territorio di ciascuno Stato membro, sui beni e sui servizi di uno stesso tipo gravi lo stesso carico fiscale, a prescindere dalla lunghezza del circuito di produzione e di distribuzione”. Così inteso, il principio attiene alla definizione strutturale del tributo, che si differenzia da quelli plurifase “a cascata” o “cumulativi”, in quanto il meccanismo di rivalsa e detrazione garantisce che l’imposta sia “neutrale”, per l’appunto, rispetto al numero di passaggi effettuati dal bene o dal servizio prima di arrivare al consumatore finale (13).

(12) Cfr. punto 29 delle conclusioni: “tale espressione è spesso utilizzata per descrivere il fatto che una persona che ha dovuto pagare l’IVA per acquistare beni o servizi può poi dedurla se questi beni o servizi sono a loro volta destinati ad essere utilizzati ai fini di un’attività imponibile. Questo è chiaramente il significato primario della suddetta espressione”. (13) Nella prospettiva europea, d’altronde, l’IVA colpisce l’immissione del bene o del servizio al consumo finale e il meccanismo di rivalsa e detrazione è preordinato a porre l’imposta a carico del consumatore che, in questa visione, assume un’indubbia rilevanza fiscale.

Non è possibile in questa sede ripercorrere lo storico dibattito in merito alle diverse ricostruzioni teoriche dell’IVA; dibattito che ha portato la più autorevole dottrina ad interrogarsi, fin dall’introduzione dell’IVA nell’ordinamento nazionale, sulla sua ricostruzione in termini di tributo volto a colpire, alternativamente, la capacità contributiva espressa dalle singole operazioni imponibili, dai risultati dell’attività economica esercitata o, ancora, dall’atto di scambio in sé. Per l’analisi delle varie teorie, oltre alla tradizionale manualistica di diritto tributario, si rinvia a r. luPi, Imposta sul valore aggiunto (IVA), in Enc. Giur., Roma, XVI, 1989, 5; P. FiliPPi, Valore aggiunto (Imposta), in Enc. Dir., 1993, 125.

In una diversa prospettiva, il principio è stato inteso come trasposizione, in materia di IVA, del principio di parità di trattamento (14) o di non discriminazione (15). Così inteso, tuttavia, il principio di neutralità sembra perdere la propria “identità” in quanto espressivo dei principi fondanti dell’ordinamento europeo; principi volti alla realizzazione di un mercato unico e concorrenziale in ambito europeo operanti “a monte” e “a tutto campo”, non solo cioè nel settore fiscale ma in tutti gli ambiti di operatività dell’ordinamento europeo (16).

Esula altresì dalla presente trattazione l’analisi del problematico inquadramento del tradizionale meccanismo di rivalsa e detrazione nell’IVA; meccanismo, di volta in volta, ascritto all’ambito dei rapporti di tipo esclusivamente privatistico, tra il soggetto attivo e quello passivo, con conseguente sua estraneità alla disciplina propria del tributo, ovvero, al contrario, inserito a pieno titolo nella struttura del tributo, quale elemento cardine che concorre all’individuazione del soggetto passivo e, correlativamente, della capacità contributiva che il tributo intende colpire. Su tali tematiche si veda in particolare L. salvini, Rivalsa, detrazione e capacità contributiva nell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. Dir. Trib., 1993, 1287; F. randazzo, Le rivalse tributarie, Milano 2012, passim; nonché id., Rivalsa [dir. trib.], in Diritto on line, Treccani, 2015. Merita semmai a questo proposito aggiungere che, in chiave evolutiva, il tradizionale meccanismo di rivalsa e detrazione sembra destinato a perdere la propria centralità rispetto alla realizzazione del principio di neutralità del tributo: a ben guardare, infatti, questo principio sembra poter essere efficacemente realizzato anche attraverso altri meccanismi applicativi che – introdotti originariamente in deroga al meccanismo ordinario di “rivalsa e detrazione” per fini specifici, tra l’altro, di semplificazione o contrasto all’evasione – si affiancano oggi a quello tradizionale ed assumono, in chiave evolutiva, sempre maggior peso, come avviene in relazione al meccanismo dell’inversione contabile (c.d. reverse charge), della scissione dei pagamenti (c.d. split payment) o dei regimi semplificati o speciali c.d. monofase. (14) Cfr. punto 29 delle conclusioni: “il principio di neutralità fiscale è talvolta inteso nel senso che traspone, in materia di IVA, il principio di parità di trattamento. Quando è utilizzato in questo senso, tale principio può, ovviamente, essere invocato per contestare la validità di una disposizione della direttiva IVA”. Ed in questa prospettiva è espressamente richiamata CGUE, Grande Sezione, sentenza del 7 marzo 2017, causa C-390/15, riguardante l’esclusione dell’applicabilità dell’IVA ridotta ai servizi forniti per via elettronica prevista dal previgente art. 98, par. 2, ultimo periodo, della direttiva. (15) Sull’evoluzione nell’ordinamento europeo dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione e sulla loro declinazione rispetto al principio di uguaglianza formale e sostanziale, cfr. A. FanTozzi, Dalla non discriminazione all’eguaglianza in materia tributaria, in A. di PieTro (a cura di), Per una Costituzione europea, Padova, 2008. 193. In argomento, più in generale, cfr. A. aMaTuCCi, Il principio di non discriminazione fiscale, Napoli, 1998; G. Bizioli, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Padova, 2008; id., Il principio di non discriminazione, in A. di PieTro - T. Tassani (a cura di), I principi europei del diritto tributario, Padova, 2014, 191. (16) In tema si veda A. Fedele, Diritto tributario (principi), in Enc. Dir., Annali II, tomo II, 459, il quale evidenzia come, di norma, i principi generali dell’UE non possano essere annoverati tra i principi generali del diritto tributario perché “eccedono ampiamente il fenomeno

Ed infatti, in questa seconda accezione, il principio non solo dimostra un ambito applicativo che va ben al di là del singolo tributo considerato, in quanto espressivo, più in generale, della tutela del buon funzionamento del mercato unico e dell’eliminazione di qualsiasi potenziale effetto distorsivo della concorrenza ma, allorché è invocato specificamente rispetto al comparto impositivo dell’IVA, non sembra neppure presupporre necessariamente una potenziale discriminazione riguardante operatori in concorrenza fra loro (17).

Nella sua terza accezione, infine, il principio di neutralità sarebbe specificamente apprezzato dal punto di vista della concorrenza ed in quest’accezione si differenzierebbe dal principio di parità di trattamento in quanto, “in questo (terzo) senso, l’idea di neutralità fiscale è piuttosto un principio interpretativo che entra in gioco quando altri metodi di interpretazione non portano ad un risultato concludente”, venendo in rilievo rispetto al singolo tributo e “come riferimento all’obiettivo perseguito dalla direttiva IVA: che l’imposta sia, per quanto possibile, neutrale dal punto di vista della concorrenza” (punti 31-32 delle conclusioni).

In via di prima approssimazione, è possibile ritenere che questa terza accezione del principio trovi riconoscimento nel Considerando 4 della direttiva IVA, ai sensi del quale “la realizzazione dell’obiettivo di instaurare un mercato interno presuppone l’applicazione, negli Stati membri, di legislazioni

fiscale ed il sistema tributario”, risultando piuttosto enucleati a presidio dell’obiettivo dell’ordinamento europeo che è il mercato e, quindi, applicabili in tutti gli ambiti di operatività delle norme UE. In altri termini, tali principi operano in un contesto nel quale la fiscalità nel suo complesso – in quanto in grado di alterare il normale equilibrio del mercato – è vista come potenziale “ostacolo” alla realizzazione di un mercato unico e concorrenziale in ambito europeo. (17) Si veda, a questo proposito, la sentenza del 10 aprile 2008 resa nella causa C-309/06 (Marks & Spencer), concernente il diritto di rimborso dell’IVA erroneamente applicata su prodotti soggetti ad aliquota zero; diritto condizionato in Inghilterra dalla prova della mancata traslazione “a valle” dell’onere impositivo. In tale pronuncia, infatti, il giudice chiarisce che “il principio della neutralità fiscale osta a che il divieto di arricchimento senza causa sia opposto solo a soggetti passivi quali i «payment traders» (soggetti passivi per i quali, per un predeterminato periodo contabile, l’imposta riscossa a valle eccede l’imposta pagata a monte) e non a soggetti passivi quali i «repayment traders» (soggetti passivi la cui situazione è il contrario della precedente) nella misura in cui tali soggetti passivi hanno distribuito merci di uno stesso tipo. (…) il principio generale della parità di trattamento la cui violazione può essere contraddistinta, in materia tributaria, da discriminazioni che toccano operatori economici i quali non sono necessariamente concorrenti, ma versano nondimeno in una situazione comparabile per altri rapporti, osta ad una discriminazione tra i «payment traders» ed i «repayment traders», che non è obiettivamente giustificata”.

Cfr. altresì in argomento sentenza del 14 giugno 2017, causa C-38/16, punto 38.

relative alle imposte sul volume di affari che non falsino le condizioni di concorrenza e non ostacolino la libera circolazione delle merci e dei servizi. È pertanto necessario realizzare un’armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte sul volume di affari mediante un sistema d’imposta sul valore aggiunto (IVA), al fine di eliminare, per quanto possibile, i fattori che possono falsare le condizioni di concorrenza, tanto sul piano nazionale quanto sul piano comunitario”.

È proprio in questa terza accezione che il giudice europeo pone riferimento al principio di neutralità dell’IVA quale limite all’applicazione selettiva delle aliquote ridotte, specificando però – come già anticipato – che il parametro da utilizzare per verificare se vi è stata la violazione di tale principio è dato dal “punto di vista del consumatore medio”.

3. Il punto di vista del “consumatore medio” nella causa C-703/19 riguardante i “servizi di ristorazione e catering” (…). – La controversia esaminata dal giudice europeo nella causa C-703/19 concerneva l’ambito di applicazione dell’aliquota ridotta alle prestazioni di “servizi di ristorazione” indicati al numero 12 bis) del citato allegato III della direttiva.

Specificamente, la controversia traeva origine dalla normativa polacca che prevedeva due diverse aliquote ridotte e, cioè, un’aliquota dell’8% per i “servizi di ristorazione” ed un’aliquota del 5% per le cessioni di piatti pronti per il consumo immediato da asporto, questi ultimi riconducibili alla diversa categoria dei “prodotti alimentari” individuata al punto 1 dell’allegato III. L’amministrazione polacca, in buona sostanza, aveva ritenuto che l’attività svolta dal contribuente – affiliato ad una catena di ristoranti fast food – rientrasse nell’ambito delle prestazioni di servizi di ristorazione e dovesse scontare, quindi, l’aliquota ridotta dell’8%, anziché quella del 5% prevista per le cessioni di prodotti alimentari.

Il giudice nazionale, in sede di rinvio pregiudiziale, aveva evidenziato le peculiarità dei ristoranti fast food che – come precisato al punto 28 della sentenza – si caratterizzano per il “sistema di vendita semplificato”, nonché per il modo “di servire e di confezionare tali piatti o pasti”, che impedirebbe, nella fase della vendita, di “stabilire se detto piatto o pasto sarà consumato in loco o se si tratti di una vendita da asporto”. Insomma, il dubbio del giudice del rinvio era se, “indipendentemente dal metodo di vendita”, la prestazione di servizi e, precisamente, “la possibilità di consumare in loco il piatto o il pasto acquistato”, avesse solo “carattere potenziale” dipendendo, in definitiva, dalla mera “scelta del cliente” compiuta nell’immediatezza dell’acquisto. Ed

in questa prospettiva, quindi, se fosse “sufficiente che il cliente abbia la possibilità di fruire eventualmente dell’infrastruttura messa a disposizione o se sia necessario stabilire che, dal punto di vista del consumatore medio, detto elemento costituisce una parte essenziale della prestazione” (18).

La Corte, per il corretto inquadramento dei “servizi di ristorazione e catering”, pone da subito riferimento, ovviamente, ai principi tuttora attuali espressi dalla Corte di Giustizia UE, cause riunite C-497/09, C-499/09, C-501/09 e C-502/09, nella ben nota sentenza del 10 marzo 2011.

Secondo il richiamato orientamento – che ha poi trovato espressa conferma a livello normativo nella definizione di servizi di ristorazione e di catering contenuta nell’art. 6 del regolamento esecutivo (19) – il criterio determinante è quello di valutare se i servizi che accompagnano la fornitura di cibi preparati possano essere considerati servizi di supporto “sufficienti”; si tratta, a ben guardare di una valutazione di tipo qualitativo, che pone riferimento, per l’appunto, al livello e alla qualità dei servizi offerti al cliente finale. In tale contesto argomentativo, è quindi precisato che “rientra nella nozione di «servizi di ristorazione e catering» la fornitura di cibi accompagnata da servizi di supporto sufficienti, destinati a consentire il consumo immediato di tali cibi da parte del cliente finale, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare” (punto 66).

(18) Pertanto, la questione pregiudiziale sottoposta all’esame della Corte di giustizia UE concerneva, in sostanza, l’esatta individuazione della nozione di “servizio di ristorazione” al quale risulta applicabile l’aliquota ridotta e se, precisamente, potesse rientrare in tale nozione anche “la vendita di piatti pronti per il consumo” nell’ipotesi in cui: i) “un venditore mette a disposizione degli acquirenti un’infrastruttura che rende possibile il consumo in loco del pasto acquistato (spazio separato destinato alla consumazione, accesso alla toilette)”; ii) “manca un servizio specializzato fornito da camerieri”; iii) “non c’è servizio in senso stretto”; iv) “il processo di ordinazione è semplificato e parzialmente automatizzato”; v) “il cliente ha possibilità limitate di personalizzare l’ordinazione”. (19) La nozione di “servizi di ristorazione e catering” è attualmente enucleata all’art. 6 del regolamento esecutivo del 15 marzo 2011, n. 282/2011. Ai sensi del par. 1 di tale articolo, i servizi di ristorazione e catering “consistono nella fornitura di cibi o bevande preparati o non preparati o di entrambi, destinati al consumo umano, accompagnata da servizi di supporto sufficienti a permetterne il consumo immediato. La fornitura di cibi o bevande o di entrambi costituisce solo una componente dell’insieme in cui i servizi prevalgono. Nel caso della ristorazione tali servizi sono prestati nei locali del prestatore, mentre nel caso del catering i servizi sono prestati in locali diversi da quelli del prestatore”. Il successivo paragrafo, inoltre, specifica che “la fornitura di cibi o bevande preparati o non preparati o di entrambi, compreso o meno il trasporto ma senza altri servizi di supporto, non è considerata un servizio di ristorazione o di catering ai sensi del paragrafo 1”.

Tale analisi tuttavia non può essere, ex se, dirimente. Secondo la Corte di Giustizia la valutazione deve essere condotta assumendo, come tertium comparationis, il punto di vista del consumatore medio. Infatti, “ove il cliente finale scelga di non beneficiare dei mezzi materiali e umani messi a sua disposizione dal soggetto passivo per accompagnare il consumo dei cibi forniti, si dovrà considerare che la fornitura di tali cibi non è accompagnata da alcun servizio di supporto”.

Per il giudice europeo, quindi, il discrimen tra cessione di beni e prestazione di servizi è il risultato di una valutazione “comparativa” che fa perno “sul punto di vista del consumatore medio” e sull’importanza “non semplicemente quantitativa, ma anche qualitativa” che, per tale consumatore, assumono “gli elementi della prestazione di servizi rispetto a quelli rientranti in una cessione di beni”. In particolare, “se quest’ultimo sceglie di non beneficiare dei mezzi materiali e umani messi a sua disposizione dal soggetto passivo, tali mezzi non sono determinanti per detto consumatore. Pertanto, in tale fattispecie, occorre considerare che nessun servizio di supporto accompagna la fornitura di cibi o bevande e che l’operazione di cui trattasi deve essere qualificata come cessione di beni” (cfr. punto 62 della sentenza). D’altronde, “se si applicano aliquote IVA ridotte diverse per le cessioni di beni e per le prestazioni di servizi o per una parte di essi”, l’operatore economico è obbligato a “tenere una contabilità sufficientemente dettagliata e, in particolare, conservare la copia di tutte le fatture emesse che provino l’applicazione di tali aliquote”.

In prima battuta, si potrebbe ritenere che le conclusioni del giudice europeo non siano di notevole ausilio per l’interprete: una simile valutazione potrebbe implicare, com’è evidente, ampi margini di discrezionalità. Tuttavia, occorre considerare, innanzitutto, che il punto di vista del consumatore medio è assunto in quest’ambito per individuare l’esatta natura dell’operazione rilevante ai fini IVA – se trattasi o meno, cioè, di prestazione “complessa” o “unica” – e, sotto questo profilo, il decisum non si mostra innovativo rispetto alla tradizionale giurisprudenza (20).

(20) Cfr. in argomento CGUE, sentenza 27 ottobre 2005, causa C-41/04, punto 22, ove ai fini della qualificazione dell’operazione si pone riferimento al fatto che “due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo al consumatore, considerato come consumatore medio, sono a tal punto strettamente connessi da formare, oggettivamente, una sola prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale”. In senso analogo, si veda sentenza 2 dicembre 2010, Causa C-276/09, punto 26, ove si chiarisce che “per stabilire se il soggetto passivo fornisce al consumatore, considerato come consumatore medio, più prestazio-

Ma al di là di questa prima considerazione, occorre anche evidenziare che il giudice europeo sembrerebbe “suggerire” in modo piuttosto esplicito al legislatore nazionale una comoda “via di fuga” da questo empasse: è possibile, infatti, applicare la medesima aliquota ridotta ad entrambe le categorie indicate nell’allegato III e questo proprio al fine di evitare gli inconvenienti evidenziati, tra l’altro, anche dall’Avvocato generale (21).

È in questa prospettiva, infatti, che secondo la Corte “il fatto che le operazioni di cui trattasi rientrino nella nozione di «servizi di ristorazione e catering» o in quella di «prodotti alimentari», ai sensi dell’allegato III della direttiva IVA, può non incidere sulla scelta dell’aliquota IVA ridotta applicabile dallo Stato membro”. Sicché – come già evidenziato in precedenza – “ciascuno Stato membro è libero di classificare in una stessa categoria e di assoggettare ad imposta alla stessa aliquota IVA ridotta operazioni imponibili diverse, incluse in categorie distinte di tale allegato, senza operare alcuna distinzione formale tra le cessioni di beni e le prestazioni di servizi” (cfr. punto 64).

ni principali distinte oppure una prestazione unica, occorre individuare gli elementi caratteristici dell’operazione in questione e prendere in considerazione tutte le circostanze in cui questa si svolge”. (21) Cfr. le conclusioni presentate il 12 novembre 2020 dall’Avvocato generale Jean Richard De La Tour, il quale sottolineava come, rispetto al precedente giurisprudenziale del 2011 già richiamato, il tema presentasse allo stato attuale “difficoltà senza precedenti nel distinguere la nozione di «prodotti alimentari» da quella di «servizi di ristorazione»” (punto 36).

Più nello specifico (punti 90 e ss.), l’Avvocato generale osservava che la valutazione qualitativa riguardo ai livelli di servizi richiesti per distinguere tra prestazione di servizi e cessione di beni risente oggi delle variegate modalità di vendita di piatti pronti che si sono sviluppate nel corso del tempo e che potrebbero svilupparsi ulteriormente, come dimostrato peraltro dalla pandemia. Secondo l’Avvocato generale, inoltre, il criterio della valutazione qualitativa dei servizi dovrebbe comunque essere sempre “combinato con la scelta del consumatore di fruire dei servizi di supporto alla fornitura di cibi”, fermo restando che la distinzione tra prestazione di servizi e cessione di beni potrebbe non incidere “sulla scelta dell’aliquota IVA ridotta applicabile da parte dello Stato membro”, posto che il legislatore nazionale è libero di applicare “la stessa aliquota IVA qualora siano rispettati i criteri di qualificazione dell’operazione alla luce dell’allegato III della direttiva IVA”.

In altri termini, nella prospettiva dell’Avvocato generale sarebbe “economicamente giustificato che la vendita di piatti pronti per il consumo che non sono consumati in loco possa essere assoggettata ad imposta in modo diverso, in quanto cessione di beni, a seconda che abbia luogo in un negozio di alimentari o che consista, invece, nella messa a disposizione del cliente di tali piatti su sua richiesta, in vista di un consumo immediato o meno. A mio avviso tali servizi non sono oggettivamente simili, in quanto non rispondono alle stesse esigenze dei consumatori e coinvolgono gradi di intervento diversi da parte dell’uomo” (punto 94).

Insomma, sotto questo profilo la pronuncia in esame sembra suggerire una soluzione “semplificatoria” ed in questo senso, anzi, si apprezza in proposito la scelta del nostro legislatore di intervenire in materia con la norma di interpretazione autentica contenuta nella legge di bilancio 2021 (legge 30 dicembre 2020, n. 178). Infatti, l’art. 1, comma 40, di tale legge ha definitivamente riconosciuto che in simili ipotesi si rende applicabile un’aliquota ridotta – che è “unica” e in misura del 10% – tanto se l’operazione è configurabile come prestazione di servizi (e, quindi, quale somministrazione di alimenti e bevande, riconducibile al n. 121 della Tabella A, Parte III del D.P.R. n. 633 del 1972), tanto se qualificabile in termini di cessione di beni (i.e.: cessione di cibo per il consumo immediato, a domicilio o da asporto, riconducibile al n. 80 della citata Tabella A) (22).

(22) Il citato art. 1, comma 40, infatti, con norma di interpretazione autentica, ha stabilito che “la nozione di preparazioni alimentari di cui al numero 80) della tabella A, parte III, allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, deve essere interpretata nel senso che in essa rientrano anche le cessioni di piatti pronti e di pasti che siano stati cotti, arrostiti, fritti o altrimenti preparati in vista del loro consumo immediato, della loro consegna a domicilio o dell’asporto”.

L’introduzione della norma era stata da più parti caldeggiata proprio a seguito dell’emergenza Covid-19 che ha determinato un considerevole aumento delle ipotesi di ordinazione con consegna a domicilio di cibo (c.d. food delivery) o di cessioni di “piatti da asporto” (c.d. take away) durante il periodo di lockdown imposto per contrastare l’epidemia, al punto che la questione era stata oggetto anche di un’apposita interrogazione parlamentare al Ministro dell’economia e delle finanze. Cfr. interrogazione parlamentare n. 5-05007 presentata il 18 novembre 2020.

A ben guardare, infatti, la differenza di aliquota tra servizi di ristorazione (sottoposti ad aliquota del 10 %) e cessione di piatti da asporto (che scontavano l’aliquota ordinaria del 22 %) si dimostrava ingiustificata proprio dal punto di vista del consumatore finale che, a causa della situazione emergenziale, era impossibilitato in ogni caso a fruire dei servizi di ristorazione e, pertanto, disponeva di un’unica modalità di fruizione (i.e.: l’asporto) per soddisfare le proprie esigenze.

4. (Segue). … e nelle cause C-406/20 e C-515/20 riguardanti, rispettivamente, il “diritto d’ingresso” a fiere e parchi di divertimento e i prodotti di “legna da ardere”. – Qualche mese più tardi il criterio del punto di vista del consumatore medio torna ad essere nuovamente esaminato nella sentenza del 9 settembre 2021, causa C-406/20, avente ad oggetto la categoria di operazioni contemplata al numero 7) dell’allegato III alla direttiva e, cioè, il “diritto d’ingresso a spettacoli, teatri, circhi, fiere, parchi di divertimento, concerti, musei, zoo, cinema, mostre ed altre manifestazioni o istituti culturali simili”.

La controversia riguardava la normativa tedesca che aveva introdotto un’aliquota ridotta del 7 % solo per talune attività riconducibili alla citata categoria e, precisamente, per le “prestazioni dell’attività di esercenti spettacoli viaggianti”. In quel caso, in sostanza, il rinvio pregiudiziale traeva origine dal diniego dell’amministrazione tedesca di riconoscere la medesima aliquota ridotta ad un’attività analoga (i.e.: parco ricreativo) che tuttavia non aveva carattere “stagionale” o “itinerante”, ma era svolta in modo permanente sul territorio.

Il giudice nazionale dubitava che fosse contrario al principio di neutralità fiscale “il fatto che, in forza della normativa nazionale, alle operazioni effettuate dagli esercenti spettacoli non stabiliti in modo permanente in occasione di fiere stagionali e temporanee sia applicata un’aliquota IVA ridotta, mentre le operazioni effettuate da esercenti spettacoli stabiliti in modo permanente, come quelle oggetto del procedimento principale, sono soggette all’aliquota IVA normale” (punto 13). A questo proposito, il giudice del rinvio domandava se si dovesse guardare alle “esigenze soddisfatte, dal punto di vista del consumatore medio attuale, da un lato, in una fiera e, dall’altro, in un parco ricreativo” e, in caso di risposta affermativa, “valutare se entrambe le prestazioni soddisfano le stesse esigenze e se le eventuali differenze influenzano la scelta del consumatore medio” (punto 20). Tuttavia, secondo tale giudice l’indagine circa il “punto di vista del consumatore medio” avrebbe richiesto una “perizia giudiziaria empirica” traducendosi, altrimenti, nella valutazione di “una “prospettiva mentale” non accessibile all’assunzione di prove”.

Anche in questo caso la Corte ribadisce da subito la piena legittimità dell’applicazione selettiva delle aliquote ridotte IVA, per cui “uno Stato membro può, in linea di principio, applicare un’aliquota IVA ridotta alle prestazioni di servizi fornite da esercenti spettacoli viaggianti, pur applicando l’aliquota normale a quelle fornite da esercenti spettacoli stabiliti in modo permanente e sotto forma di parchi di divertimento”. Ciò posto, il giudice europeo rammenta che tale applicazione selettiva deve rispettare il principio

di neutralità fiscale e che “per stabilire se beni o prestazioni di servizi siano simili si deve principalmente tenere conto del punto di vista del consumatore medio”.

Come già rilevato in precedenza, infatti, secondo la Corte “beni o prestazioni di servizi sono simili quando presentano proprietà analoghe e rispondono alle medesime esigenze del consumatore, in base ad un criterio di comparabilità dell’uso, e quando le differenze esistenti non influiscono significativamente sulla decisione del consumatore medio di optare per l’uno o l’altro di tali beni o prestazioni di servizi” (punto 38). In tal senso, rilevano tutte le differenze che “possano creare una distinzione agli occhi del consumatore medio, in termini di rispondenza alle proprie esigenze” e, quindi, in grado di influenzare la scelta di tale consumatore (punto 42) (23).

In buona sostanza, se i beni o i servizi non sono percepiti come “differenti” dal consumatore medio e si trovano, quindi, in un rapporto di “sostituzione” perché possono essere alternativamente scelti e fruiti per soddisfare le medesime esigenze di quest’ultimo, allora l’applicazione di diverse aliquote IVA è suscettibile di influenzarne la scelta, determinando così la violazione del principio di neutralità fiscale.

Così inteso, il punto di vista del consumatore medio non è una mera “prospettiva mentale”, ma è oggettivamente valutabile con le ordinarie conoscenze senza dover ricorrere ad una perizia, fermo restando che “il diritto dell’Unione non osta a che il giudice del rinvio, qualora incontri particolari difficoltà nel verificare il rispetto del principio di neutralità fiscale, disponga, alle condizioni previste dal diritto nazionale, una perizia destinata a orientare il suo giudizio” (punto 48).

Di analogo tenore, infine, anche la più recente sentenza del 3 febbraio 2022, causa C- 515/20, che trae origine dalla mancata applicazione in Germania dell’aliquota IVA ridotta prevista per i prodotti di “legna da ardere” alle cessioni di legno in trucioli.

In quel contesto, infatti, il giudice – richiamando ampiamente i principi espressi nelle precedenti sentenze – conferma ancora una volta che “il principio di neutralità fiscale dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a

(23) E così, tra l’altro, nel caso di specie, il carattere permanente o meno dell’attività potrebbe essere determinante dal punto di vista del consumatore medio nel caso in cui – al di là di eventuali differenze relative al contesto normativo o al regime giuridico che disciplina le prestazioni interessate ovvero alla riconducibilità dell’evento a specifiche tradizioni socioculturali – la disponibilità solo per un periodo limitato di tempo ne condizioni le scelte.

che il diritto nazionale escluda dal beneficio dell’aliquota IVA ridotta la cessione di legno in trucioli, sebbene esso conceda tale beneficio alle cessioni di altre forme di legna da ardere, a condizione che, nella mente del consumatore medio, il legno in trucioli non sia sostituibile a tali altre forme di legna da ardere, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare” (24).

In conclusione, il convincimento che si ritrae in modo piuttosto chiaro dalle pronunce esaminate è che, ai fini della valutazione dei regimi “derogatori” dell’IVA – non solo, quindi, per le aliquote ridotte ma anche per i regimi di esenzione – il principio di neutralità risulta violato ogni qualvolta i beni o i servizi che soggiacciono ad una diversa disciplina sono in concorrenza per il consumatore medio: se per quest’ultimo, cioè, possono essere alternativamente ed egualmente impiegati per soddisfare la medesima esigenza (25).

D’altronde, anche nel diverso contesto dei regimi di esenzione – in quanto anch’essi, lo si è già ricordato, espressivi di una deroga al principio generale di applicazione ordinaria dell’IVA finalizzata a rendere meno onerosi per il consumatore finale taluni beni o servizi ritenuti particolarmente necessari – la valutazione in ordine all’eventuale violazione del principio di neutralità dell’IVA deve essere effettuata impiegando, come tertium comparationis, il punto di vista del consumatore medio (26). Probabilmente questa ricostruzione è più

(24) E a questo riguardo non deve indurre in errore il fatto che in tale pronuncia, nella versione di lingua italiana, si ponga riferimento alla “mente” del consumatore anziché al suo “punto di vista”: merita rilevare, infatti, che nella versione inglese le varie pronunce presentano sempre la medesima locuzione e, cioè, “the point of view of the average consumer”. (25) Vi possono essere anche ipotesi, poi, in cui non è possibile individuare un consumatore medio: si veda, ad esempio, CGUE, sentenza 17 dicembre 2020, Causa C-449/19, riguardante la possibilità di esentare o meno la fornitura di calore da parte di un’associazione di proprietari di alloggi ai proprietari facenti parte di tale associazione, ove il giudice europeo ha escluso la possibilità di ricorrere al punto di vista del consumatore medio perché il raffronto avrebbe riguardato cessioni di beni effettuate nei confronti di “due gruppi di consumatori chiaramente distinti”. (26) Emblematica, a questo riguardo, sembrerebbe la sentenza 4 marzo 2021, causa C-581/19, nella quale viene negata l’esenzione IVA alle prestazioni di consulenza nutrizionale rese all’interno di stabilimenti sportivi e, quindi, in un contesto nel quale il consumatore poteva fruire sia di servizi di monitoraggio e consulenza nutrizionale, sia di servizi relativi ad attività sportiva, di benessere e di cultura fisica. Per il giudice europeo, infatti, un tale servizio di monitoraggio nutrizionale “non soddisfa il criterio dell’attività di interesse generale comune a tutte le esenzioni” previste dall’art. 132, par. 1, lett. c), della direttiva perché manca qualsiasi elemento che indichi che tale servizio sia “fornito a fini di prevenzione, diagnosi, trattamento di una malattia e ripristino della salute, e quindi con uno scopo terapeutico” (punto 31). D’altronde, prosegue il giudice, il fatto che tale prestazione di servizi non sia soggetta al regime di

difficile da cogliere esaminando la giurisprudenza europea che si è espressa sui regimi di esenzione e ciò, forse, anche perché in tale ambito – come già evidenziato – il tema è affrontato nel contesto dell’inquadramento delle singole operazioni e, quindi, dell’esatta declinazione delle nozioni di “prestazione complessa unica”, di “prestazione accessoria alla prestazione principale” e di “indipendenza delle prestazioni”.

5. L’impatto delle pronunce del giudice europeo sulle prospettive di riforma delle aliquote ridotte. – Se si accolgono le precedenti conclusioni in ordine alla giurisprudenza europea sull’applicazione selettiva delle aliquote ridotte si può, forse, anche convenire sul fatto che esse tendono, in definitiva, al superamento, in chiave evolutiva, di quello che è stato definitivo l’“ibridismo concettuale” dell’IVA e che ha portato a configurare le aliquote ridotte – al pari dei regimi di esenzione – in termini di eccezioni ad un modello di imposizione “neutrale” (27).

Tuttavia, proprio dall’analisi di tali pronunce emerge in modo piuttosto evidente che l’abbandono del principio di origine in favore di un regime defi-

esenzione non viola il principio di neutralità in quanto “servizi di monitoraggio nutrizionale forniti con un obiettivo terapeutico e servizi di monitoraggio nutrizionale privi di un siffatto obiettivo non possono essere considerati identici o simili dal punto di vista del consumatore e non soddisfano le medesime esigenze di quest’ultimo”. Cfr. in tema P. aCCordino, Operazioni esenti iva tra interpretazione restrittiva ed evolutiva, in Dir. Prat. Trib., 2021, 2579, piuttosto critica rispetto a questo specifico passaggio della sentenza, in quanto non sarebbe possibile distinguere tra servizi di monitoraggio nutrizionale con un obiettivo terapeutico e servizi di monitoraggio nutrizionale privi di un siffatto obiettivo “se al consumatore è fornito lo stesso tipo di prestazione”. Si tratta di un’affermazione, in via di principio, condivisibile. Eppure, come si è cercato di argomentare in questa sede, nell’ottica del giudice europeo e rispetto alle ipotesi di deroga dal regime ordinario IVA – e, quindi, tanto rispetto alle esenzioni, quanto con riguardo alle aliquote ridotte – la “concorrenza” tra due operatori economici che prestano il medesimo servizio e pongono in essere la medesima prestazione deve essere valutata proprio ponendo riferimento all’utilizzo (alternativo) che di tale prestazione può fare il consumatore finale per soddisfare il proprio (unico) bisogno. Occorre guardare, cioè, non all’attività oggettivamente svolta dagli operatori economici, ma al soggetto che ne beneficia e, cioè, al consumatore finale, che è l’unico “destinatario” degli effetti della deroga.

Si veda in argomento anche la sentenza del 10 novembre 2011, cause C-259/10 e C-260/10, punto 36, ove è rilevato che “una differenza di trattamento ai fini dell’IVA di due prestazioni di servizi identiche o simili dal punto di vista del consumatore e che soddisfano le medesime esigenze di quest’ultimo è sufficiente a dimostrare una violazione di tale principio. Una violazione siffatta non esige che sia dimostrata anche l’effettiva esistenza di una concorrenza tra i servizi di cui trattasi o una distorsione della concorrenza a causa di tale differenza di trattamento”. (27) Cfr. P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2015, 353. In argomento si veda

nitivo basato sul principio della destinazione non configura ex se una ragione sufficiente per realizzare quell’ambizioso progetto di riforma che era alla base della proposta di direttiva del 2018 riguardante, per l’appunto, la modifica della direttiva IVA per quanto concerne le aliquote (28).

Nella versione originaria di tale proposta, infatti, la Commissione suggeriva di concedere ampia flessibilità agli Stati membri in ordine alla fissazione delle aliquote ridotte, al punto che l’idea di base – espressamente affermata nella relazione – era, tra l’altro, quella di riformulare l’allegato III della direttiva per introdurre una sorta di “negative list” di beni e servizi cui non avrebbe potuto essere applicata un’aliquota ridotta (29). Il presupposto di fondo da cui partiva la Commissione UE era, in realtà, quello secondo cui in un regime definitivo in cui beni e servizi sono tassati nello Stato membro di destinazione “i fornitori e i prestatori non traggono alcun vantaggio significativo dall’essere stabiliti in uno Stato membro che applica aliquote più basse e pertanto la diversità delle aliquote IVA non perturba più il funzionamento del mercato unico” (30).

in particolare A. Mondini, Il principio di neutralità dell’IVA, tra “mito” e (perfettibile) realtà, in A. di PieTro - T. Tassani (a cura di), I principi europei del diritto tributario, Padova, 2013, 267. (28) Cfr. la proposta di direttiva COM(2018)20 final del 18 gennaio 2018 che, com’è noto, era finalizzata alla modifica delle disposizioni della direttiva riguardanti, per l’appunto, le aliquote IVA; proposta di direttiva il cui iter si è definitivamente concluso con la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 6 aprile scorso della direttiva 2022/542. Gli Stati membri dovranno recepire le nuove disposizioni entro il 31 dicembre 2024 e applicarle a decorrere dal 1° gennaio 2025. (29) La Commissione europea proprio nel presupposto di garantire una più ampia applicazione del principio di neutralità – principio che “nell’attuale regime transitorio dell’IVA è annullato dalle disposizioni dell’allegato III e dalle deroghe temporanee, che sono di portata ridotta” – affermava in quell’occasione che le aliquote ridotte e le esenzioni “devono essere a beneficio del consumatore finale e di interesse generale”, specificando che il consumatore finale “è la persona che acquista i beni o i servizi per uso personale, anziché per un’attività economica, e quindi sostiene l’onere dell’imposta”. (30) Cfr. il considerando 2 della proposta di direttiva COM(2018)20 final. In modo ancor più efficace la Commissione aveva già chiarito nella comunicazione COM(2016) 148 final, Verso uno spazio unico europeo dell’IVA - Il momento delle scelte, Bruxelles, 7 aprile 2016, cit., che “le differenze di aliquota possono ancora influire sul funzionamento del mercato unico in un sistema in cui i consumatori attraversano le frontiere per acquistare beni e servizi. A parte questi casi, però, contrariamente a ciò che accade in un regime basato sul principio dell’origine, i fornitori non traggono alcun vantaggio significativo dal fatto di essere stabiliti in uno Stato membro che applica aliquote basse, per cui è meno probabile che le differenze tra le aliquote IVA possano compromettere il funzionamento del mercato unico”.

Tuttavia, se le deroghe al principio generale dell’aliquota ordinaria devono essere apprezzate dal punto di vista del consumatore finale e possono influire sulle sue scelte, le aliquote ridotte restano una possibile causa di distorsione della concorrenza e di violazione del principio di neutralità del tributo anche nel contesto di un regime di tassazione fondato sul principio di destinazione; e ciò a prescindere dalla pacifica considerazione che l’adozione del principio di destinazione si dimostra del tutto “neutrale” rispetto alle scelte degli operatori economici (31).

L’originario progetto della Commissione risulta comunque notevolmente ridimensionato nella proposta di direttiva concordata nella sessione del Consiglio Ecofin del 7 dicembre 2021. L’allegato III – pur attualizzato e aggiornato per concedere maggior flessibilità agli Stati membri dell’UE e tener conto, tra l’altro, del programma UE per la salute nonché del Green Deal europeo – conferma l’impostazione tradizionale: un elenco “in positivo” di beni e servizi cui può rendersi applicabile l’aliquota ridotta.

Resta invariato il principio di fondo secondo cui le aliquote ridotte devono essere “a beneficio del consumatore finale” e perseguire “obiettivi di interesse generale”, ma sembra implicitamente affiorare nel nuovo testo una più matura consapevolezza in merito alla non necessaria coincidenza dei due obiettivi (32).

(31) Si tratta, per la verità, di una “contraddizione interna” alla stessa logica della ricostruzione dell’IVA in termini di imposta sul consumo “neutrale”. Cfr. R. luPi, op. cit., 3, il quale osservava, tra l’altro, come il consumatore consideri “anche l’imposta nel costo complessivo dell’operazione e, tra le variabili che incidono sulle decisioni di spesa, il maggior onere rappresentato dall’IVA ha attitudine ad orientare la decisione in un senso o nell’altro. Se un bene ha l’aliquota IVA del 20% ed un altro del 10% tale differente trattamento è uno dei fattori che, riverberandosi sul costo complessivo, spinge ad effettuare un acquisto anziché un altro e comunque, a prescindere dalle differenze di aliquota il maggior onere rappresentato dall’IVA può spingere una parte dei potenziali consumatori a non acquistare affatto”. (32) Ed in questo senso la dottrina che si è occupata più specificamente del tema – già prima della comunicazione della Commissione del 2018 – si interrogava sulle possibilità di conciliare in un prossimo futuro “il punto di vista del consumatore medio” – teso a soddisfare i bisogni primari in base alla propria capacità di spesa – con gli obiettivi di interesse generale riconosciuti dall’ordinamento europeo e, in particolare, rispetto alla tutela dell’ambiente, ipotizzando fosse possibile identificare in prospettiva un’esigenza “ecologica” del consumatore “medio”. Cfr. in questo senso e per le interessanti considerazioni sul possibile utilizzo strumentale, in prospettiva, delle aliquote ridotte IVA per il raggiungimento di obiettivi europei di interesse generale S. Cannizzaro, Spunti di riflessione sulla possibile introduzione di aliquote IVA ridotte per beni e servizi “verdi”, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2017, 315.

Tuttavia, allo stato attuale, il consumatore “medio” non integra ancora nelle proprie scelte

L’utilizzo delle aliquote ridotte nella prospettiva di “leva” fiscale, “in positivo”, per raggiungere obiettivi di interesse generale, è evidente anche nella comunicazione COM(2021) 251 final (33) ove la Commissione europea delinea, per la prima volta, i tratti essenziali di una politica fiscale dell’UE “a tutto campo”, strumentale alla realizzazione degli obiettivi socio-economici da realizzare nel breve, medio e lungo periodo. Ed è in quel contesto, peraltro, che si prende espressamente atto che “le aliquote delle imposte sui consumi sono già a un massimo storico, in quanto le aliquote IVA sono state aumentate negli anni successivi alla crisi finanziaria. Dovrebbe essere data la precedenza a misure tese a limitare l’uso inefficiente delle aliquote IVA ridotte e delle esenzioni, che spesso non riescono a realizzare il presunto obiettivo politico”. Particolarmente critico sulla possibilità di utilizzare le aliquote ridotte per specifici obiettivi di politica sociale si dimostra, poi, il Parlamento europeo: nella relazione del 20 dicembre 2021 – Relazione sull’attuazione della sesta direttiva IVA: cosa manca per ridurre il divario nell’IVA nell’UE? (2020/2263(INI)) – è rilevato che “l’impatto delle aliquote ridotte sui consumatori e sul conseguimento degli obiettivi sociali e ambientali è limitato perché la ripercussione di tali aliquote sui prezzi è scarsa e ha carattere temporaneo” (34). Insomma, le aliquote ridotte non sarebbero lo strumento

considerazioni di carattere socio-ambientale ed anzi il tema appare delicatissimo proprio nel contesto del c.d. pacchetto “Fit for 55” dell’UE – programma che contempla, tra l’altro, la revisione della legislazione settoriale del clima, dell’energia, dei trasporti e della fiscalità – in quanto l’esigenza di tutelare la soddisfazione dei bisogni primari del consumatore medio appare uno dei maggiori ostacoli alla realizzazione degli obiettivi di interesse generale che si pone l’UE. (33) Cfr. COM(2021) 251 final, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, Tassazione delle imprese per il XXI secolo, Bruxelles,18 maggio 2021, ove viene tratteggiata, per la prima volta, un’ambiziosa “strategia fiscale dell’UE” che risponda ai grandi cambiamenti economico-sociali (invecchiamento demografico e trasformazione del mercato del lavoro; cambiamento climatico e tutela dell’ambiente; trasformazione digitale; globalizzazione) con l’obiettivo di rendere il sistema di tassazione efficiente, sostenibile, equo, semplice e stabile e soddisfare le esigenze di finanziamento pubblico per disporre gli investimenti essenziali alla ripresa economica “inclusiva” nell’era post COVID 19.

Si tratta, a ben guardare, del primo documento in cui chiaramente la Commissione UE guarda alla fiscalità come un’opportunità, uno strumento idoneo a contribuire alla realizzazione degli obiettivi di interesse generale dell’UE e non solo in chiave “negativa”, come potenziale ostacolo al libero mercato sotto il profilo, tra l’altro, della concorrenza fiscale dannosa o degli aiuti di Stato. (34) In tal sede, infatti, viene evidenziato che in base agli studi in materia occorrerebbe tener conto di altri fattori, quali l’elasticità rispetto ai prezzi della domanda. Secondo il Parlamento UE “per essere efficaci, le aliquote ridotte adottate in tale contesto, che rappresentano oneri

più efficace per realizzare una fiscalità “in positivo” ed anzi aumenterebbero il c.d. Vat Gap. Più efficaci, invece, sarebbero misure volte alla convergenza – o quanto meno al ravvicinamento – dell’aliquota standard nell’ottica di una sua progressiva riduzione. La riduzione dell’aliquota ordinaria dell’IVA, infatti, potrebbe ridurre la “regressività” del tributo a vantaggio del consumatore e, in particolare, delle famiglie a basso reddito, mentre le aliquote ridotte se “proporzionalmente più vantaggiose per le famiglie a basso reddito nell’UE (se misurate in rapporto alla spesa)” sono “in genere più vantaggiose per le famiglie ad alto reddito in termini assoluti (di liquidità)” (35).

A fronte di questo panorama normativo europeo in continua evoluzione appaiono, infine, piuttosto incerti i possibili profili di intervento – diversi da quelli necessari al recepimento della direttiva 2022/542 – del nostro legislatore nazionale in materia e questo al di là del disegno di legge del 7 ottobre 2021, riguardante la delega per la riforma fiscale, ove si prevede espressamente che la “razionalizzazione dell’imposta sul valore aggiunto” debba passare (art. 4, comma 1, lett. a) anche per la “razionalizzazione (numero e livelli delle aliquote nonché distribuzione delle basi imponibili tra le diverse aliquote)” (36).

significativi per le amministrazioni pubbliche a causa dell’erosione della base imponibile, oltre ad essere trasferite in toto o parzialmente sul prezzo pagato dal consumatore causandone una riduzione, devono essere abbinate ad altre iniziative quali crediti d’imposta e sovvenzioni dirette che hanno il pregio di rivolgersi direttamente al consumatore o all’imprenditore. Le aliquote ridotte, non rivolgendosi alle famiglie meno abbienti, hanno un effetto minore rispetto a quanto sperato nel conseguimento degli obiettivi sociali e ambientali. Esse generano una perdita meccanica fino al 22 % del gettito IVA nazionale complessivo, comportano costi di conformità più elevati e un maggior rischio di frodi in materia di IVA. Pertanto, gli esperti hanno riscontrato che la riduzione dell’IVA durante la pandemia di COVID-19 non ha avuto l’impatto desiderato sui consumi in quanto le imprese, aumentando il loro margine di profitto in previsione di questa mossa, non hanno abbassato i prezzi. È il costo-opportunità che dovrebbe fungere da bussola e orientare le nostre decisioni. Invece di abbassare l’IVA, di cui beneficiano i produttori o i consumatori in proporzione al volume in questione, occorre riflettere sulla possibilità di ridurre altre imposte, con ripercussioni più favorevoli in termini di ambiente, giustizia, promozione dell’occupazione o stimolo dell’economia locale. Oltre agli incentivi diretti, la promozione dei beni meritori e le campagne di informazione, in particolare per conseguire i nostri obiettivi ambientali, dovrebbero essere considerate un’alternativa efficace rispetto alle aliquote IVA ridotte”. (35) Nella citata relazione è infatti precisato, tra l’altro, che “i dati dimostrano anche che solo le aliquote IVA che sono state ridotte allo scopo di sostenere le famiglie a basso reddito (come le aliquote ridotte sui prodotti alimentari) rendono l’IVA più progressiva; invita gli Stati membri, in sede di applicazione di aliquote IVA ridotte, a procedere in tal senso con l’obiettivo specifico di sostenere le famiglie a basso reddito”. (36) Sulle possibilità di intervento in questo particolare settore cfr. F. gallo, Nuovi pro-

BarBara denora

fili dell’imposta sul valore aggiunto: verso una disciplina definitiva, in Dir. Prat. Trib. 2018, 1874, critico rispetto ad ogni manovra di politica fiscale volta ad aumentare l’aliquota ordinaria IVA e favorevole semmai all’abolizione delle aliquote ridotte o, quanto meno, alla non mitigazione delle stesse, soprattutto nell’attuale regime transitorio dell’IVA. In particolare, l’Autore – richiamando gli studi degli economisti in materia – evidenzia che il Vat policy gap – che misura la perdita di gettito dovuta all’applicazione delle aliquote ridotte e di regimi di esenzione – cresce al crescere della disomogeneità del sistema delle aliquote e può produrre implicazioni ulteriori sul Vat gap, che misura la perdita da evasione.

Sulla genericità ed insufficienza dell’attuale disegno di legge rispetto al comparto impositivo in esame cfr. r. Corso - P. MasPes, IVA: una riforma già da riformare!, in Il fisco, 2021, 3029; P. MasPes, La riforma e l’IVA: dum Romae consulitur, tributum expugnatur!, in La gestione straordinaria delle imprese, Eutekne, 2021, 80.

Le nozioni autonome nell’imposta sul valore aggiunto tra Corte di Giustizia e giudici nazionali

Sommario: 1. L’importanza delle nozioni autonome nell’imposta sul valore aggiunto. – 2. Le nozioni autonome tra Corte di Giustizia e ordinamenti nazionali. – 3. I caratteri delle nozioni autonome nell’ambito delle esenzioni IVA. – 4. Il ruolo del giudice nazionale rispetto alle nozioni autonome. – 5. La difficoltà del giudice nazionale di perseguire l’uniforme applicazione. – 6. Considerazioni conclusive.

Nel settore dell’imposta sul valore aggiunto, la Corte di Giustizia individua le nozioni autonome, cioè nozioni giuridiche il cui contenuto è svincolato dalla discrezionalità degli Stati membri ed è definito in coerenza con gli obiettivi e i caratteri dell’ordinamento europeo in modo da garantirne l’uniforme applicazione negli Stati membri. L’individuazione delle suddette nozioni è, infatti, volta ad evitare divergenze nell’applicazione del sistema dell’IVA da uno Stato membro all’altro. Il lavoro si propone di concentrarsi sull’aspetto specifico delle conseguenze per il giudice nazionale dell’esistenza di nozioni autonome europee di origine giurisprudenziale. L’obiettivo è di porre in luce gli aspetti originali e problematici che il giudice nazionale deve affrontare in questo settore e di indagare se gli strumenti che attualmente egli ha a disposizione siano sufficienti all’esercizio delle sue funzioni.

In the field of value added tax, the Court of Justice of the European Union identifies independent concepts of European law: legal concepts which are defined in coherence with the objectives and features of the European legal system and independently from the discretion of the Member States, to ensure their uniform application in the European Union. The identification of these concepts aims at avoiding divergences in the application of the VAT regulation from one Member State to another. This work focuses on the consequences for the national courts of the existence of independent concepts of European law of caselaw origin. The first objective is to highlight the original and problematic aspects that the national judges must deal with in this field. The second objective is to investigate whether the instruments they currently have at their disposal are suitable for the exercise of their functions.

1. L’importanza delle nozioni autonome nell’imposta sul valore aggiunto. – Lo scopo del presente lavoro è verificare come la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e i giudici tributari nazionali interagiscono nell’individuazione e nell’elaborazione di nozioni autonome in ambito IVA, ponendo in luce gli aspetti originali e problematici del dialogo tra giudici in questo settore. A tal fine, occorre analizzare preliminarmente la definizione e la funzione delle nozioni. Alla luce di tali caratteri originali, si analizzeranno le questioni che la loro elaborazione solleva per il giudice nazionale e gli strumenti a sua disposizione per farvi fronte.

Il tema è di particolare interesse se si considera che, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia, le esenzioni nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto “costituiscono nozioni autonome del diritto dell’Unione, che mirano ad evitare divergenze nell’applicazione del sistema dell’IVA da uno Stato membro all’altro” (1). Tale assunto è ormai radicato nell’ordinamento nazionale e sia la giurisprudenza di Cassazione sia le Commissioni tributarie, nel trattare di esenzioni IVA, ribadiscono la centralità della qualificazione come nozioni autonome (2).

2. Le nozioni autonome tra Corte di Giustizia e ordinamenti nazionali. – Come anticipato, l’ambito elettivo di individuazione delle nozioni autonome nell’imposta sul valore aggiunto è quello delle esenzioni, su cui ci si concentrerà in questo lavoro. Tuttavia, l’individuazione di nozioni giuridiche il cui significato è svincolato dall’autonomia degli interpreti nazionali interessa ogni ambito del diritto europeo. Infatti, per nozioni autonome si intendono, in termini più generali, le nozioni giuridiche il cui contenuto è sottratto all’autonoma determinazione da parte degli Stati membri ed è invece definito unicamente

(1) Tra le sentenze più recenti v. Corte Giust., 15 febbraio 2017, British Film Institute, causa C-592/15; Corte Giust., 2 luglio 2020, Blackrock Investment Management (UK), causa C-231/19; Corte Giust., 17 dicembre 2020, Franck, causa C-801/19; Corte Giust., 17 giugno 2021, K, causa C-58/20. (2) Tra le sentenze più recenti v. Cass. civ. Sez. V, Sent., 11 dicembre 2012, n. 22577; Cass. civ. Sez. V, Sent., 04 novembre 2016, n. 22429; Cass. civ. Sez. V, Ord., 29 agosto 2018, n. 21303; Cass. civ. Sez. V, Sent., 15 ottobre 2018, n. 25648; e Comm. Trib. Reg. Piemonte Sez. II, Sent., 09 febbraio 2017, n. 226. Inoltre, anche la prassi riconosce il valore dell’individuazione di nozioni autonome in ambito IVA e le Risoluzioni e le Circolari dell’Agenzia delle Entrate ribadiscono la centralità di tale qualificazione: v. Ris. 30 ottobre 2008, n. 405/E; Ris. 17 dicembre 2008, n. 480/E; Ris. 30 ottobre 2009, n. 267/E; Ris. 02 settembre 2019, n. 79.

in coerenza con gli obiettivi e i caratteri dell’ordinamento europeo in modo da garantirne l’uniforme applicazione (3).

Nell’ambito delle fattispecie di esenzione, l’individuazione ha interessato sia le “esenzioni a favore di alcune attività di interesse pubblico” di cui agli artt. 132-134 della Direttiva IVA (4), sia le “esenzioni a favore di altre attività” di cui all’art. 135 della Direttiva IVA (5). Secondo la giurisprudenza della Corte esse devono essere oggetto di un’interpretazione e di un’applicazione uniformi in tutta l’Unione Europea e vanno inquadrate nel contesto generale del sistema comune dell’IVA instaurato da tale Direttiva (6). Perciò, l’esenzione di una determinata operazione dall’applicazione dell’imposta non può dipendere dalla sua qualificazione nell’ambito del diritto nazionale (7).

La scelta di limitare l’autonomia degli Stati nell’attuazione della normativa armonizzata, proprio in relazione alle esenzioni, è giustificata dal loro carattere derogatorio rispetto all’applicazione dell’imposta alle varie fasi del

(3) Hanno fornito definizioni del concetto di “nozione autonoma” o ne hanno esplicitato alcuni caratteri, tra gli altri, k. lenaerTs - J.a. guTiérrez-Fons, To Say What the Law of the EU Is: Methods of Interpretation and the European Court of Justice, in EUI Working Paper, 2013, Firenze, 5; id., Les méthodes d’interprétation de la Cour de justice de l’Union européenne, Bruylant, 2020, 15 e 23. Per quanto riguarda specificamente il diritto tributario v. a. Piri - s. gianonCelli, La disciplina delle esenzioni IVA, in a. di PieTro, Lo stato della fiscalità nell’Unione europea - l’esperienza e l’efficacia dell’armonizzazione, Roma, 2003, 194 - 219; g. d’angelo, Integrazione europea e interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2013, 84 e a. CoMelli, La frammentazione delle prestazioni di servizi culturali esenti, ai fini della disciplina dell’iva europea e nazionale, in Dir. prat. trib., 2019, I, 1561. (4) Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto; in seguito: la “Direttiva IVA”. (5) Per un approfondimento sul tema delle esenzioni, v. a. Fedele, Esenzioni ed esclusioni nella disciplina dell’IVA, in Riv. dir. fin., 1973, I, 146 ss.; a. FanTozzi, Operazioni imponibili, non imponibili ed esenti nel procedimento di applicazione dell’I.V.A., in Riv. dir. fin., 1973, I, 138 ss.; s. la rosa, Esenzioni ed agevolazioni tributarie (voce), in Enc. giur. Trec., XIII, Roma, 1989; a. vioTTo, Le esenzioni, in F. Tesauro, L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 2001; M. BasilaveCChia, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni (voce), in Enc. dir., V, Milano, 2002; F. sChulyok, The ECJ’s Interpretation of Vat Exemptions, in Int. VAT mon., 2010, 266-270. (6) Tra le più recenti, v. Corte Giust., 15 febbraio 2017, The English Bridge Union, causa C-90/16, p.to 17; Corte Giust., 20 giugno 2019, Grup Servicii Petroliere, causa C-291/18, p.to 19; Corte Giust., 17 dicembre 2020, Bakati Plus, causa C-656/19, p.ti 38-40. (7) Sentenza Grup Servicii Petroliere SA, cit., p.to 19; Corte Giust., 26 maggio 2005, Kingscrest Associates e Montecello, causa C-498/03, p.to 25; Corte Giust., 14 giugno 2007, Haderer, causa C-445/05, p.to 25; Corte Giust., 18 ottobre 2007, Navicon, causa C-97/06, p.to 28.

ciclo produttivo-distributivo fino al consumo del bene oppure del servizio (8). L’esigenza che l’utilizzazione di concetti nazionali sia coerente con gli obiettivi e i caratteri della Direttiva e, per converso, non legittimi soluzioni nazionali che provocherebbero un’eterogenea applicazione tale da vanificare l’efficacia della deroga, rende necessaria l’individuazione di concetti definiti a livello europeo (9). D’altronde tale scelta è coerente con lo scopo della Direttiva di basare il sistema dell’IVA su una “definizione uniforme delle operazioni imponibili” (10). Al contempo, il carattere derogatorio delle esenzioni IVA motiva la loro interpretazione restrittiva (11). Di conseguenza, è ormai noto agli interpreti nazionali che i concetti utilizzati dalla Direttiva per definire le esenzioni sono nozioni autonome di diritto europeo e devono essere applicate in maniera rigorosa dai giudici e dalle amministrazioni nazionali.

Ciò che rende particolarmente interessante l’individuazione in via giurisprudenziale di nozioni autonome ad opera della Corte di Giustizia è che, proprio in questo ambito, il ruolo interpretativo della Corte si declina in modo originale, attribuendo rilievo centrale e responsabilità nuove al giudice nazionale [v. il succ. para. 4]. Infatti, bisogna ricordare che la scelta originaria che il legislatore europeo aveva compiuto rispetto all’imposta sul valore aggiunto era stata quella dell’armonizzazione e, quindi, che nell’assetto europeo dell’IVA gli ordinamenti nazionali dispongono per definizione di una certa autonomia e flessibilità nell’attuazione del modello dell’imposta (12). Nel caso di cui ci si

(8) Per quanto riguarda la giurisprudenza, a titolo esemplificativo, v. Corte Giust., 21 febbraio 1989, Commissione / Repubblica Ellenica, causa C-203/87, p.to 9. Per quanto riguarda la dottrina, v. M. BasilaveCChia, “Lost in translation”: le esenzioni Iva sono riservate al diritto europeo, in Corr. trib., 2010, 987-990. (9) Le esenzioni sono infatti strettamente legate agli istituti della rivalsa e della detrazione, istituti cardine del sistema dell’imposta. All’applicazione dell’esenzione corrisponde di regola la non detrazione dell’IVA sugli acquisiti. Poiché l’IVA non detratta costituisce un costo per gli operatori, essa ne condiziona le scelte economiche, influendo sulla concorrenza. (10) V., tra le sentenze più recenti, Corte Giust., 22 aprile 2021, Dyrektor Izby Administracji Skarbowej w Katowicach, causa C-703/19, p.to 47 e Corte Giust., 10 febbraio 2022, Grundstücksgemeinschaft Kollaustraße 136, causa C-9/20, p.to 46. (11) Occorre non sovrapporre il concetto di nozione autonoma e quello di interpretazione restrittiva: sebbene l’individuazione di una nozione autonoma in una materia armonizzata sia più agevole in relazione alle ipotesi derogatorie, e le ipotesi derogatorie debbano essere oggetto di interpretazione restrittiva, l’esistenza di una nozione autonome prescinde dall’interpretazione restrittiva e viceversa. (12) Sull’armonizzazione dell’imposta sul valore aggiunto v., ex multis, a. Berliri, L’imposta sul valore aggiunto, Milano, 1971; a. Perrone CaPano, L’imposta sul valore aggiunto, Napoli, 1977; g.a. MiCheli, Dalle direttive comunitarie sull’IVA alla nuova legislazione italiana, in Riv.

occupa, in nome della propria competenza di garante dell’uniforme applicazione del diritto europeo, la Corte di Giustizia è venuta attribuendosi il compito di definire nozioni lasciate indeterminate dalla Direttiva e, in questo modo, ha finito, di fatto, per influenzare la tradizionale ripartizione di competenze tra Stati membri e Unione Europea in una materia armonizzata. La diretta applicabilità di nozioni definite in ambito europeo serve ad affermare il primato “diretto” del diritto unionale, a discapito del metodo “graduale” e mediato che l’armonizzazione presuppone e che lo stesso Trattato stabilisce nel settore dell’imposizione indiretta sui consumi. In nome del carattere derogatorio delle esenzioni, proprio in questo settore, la Corte di Giustizia si dimostra più decisa e, in un settore armonizzato, arriva a definire i concetti della Direttiva in modo vincolante e direttamente applicabile negli ordinamenti nazionali in nome della primazia ed effettività del diritto europeo.

Come si analizzerà meglio più avanti [v. il succ. para. 5], tale approccio impone al giudice nazionale peculiari responsabilità. Al fine di comprendere questo punto, occorre prima individuare i caratteri delle nozioni autonome, nonché alcuni esempi, concentrandosi, senza pretesa di completezza, su quelle che sul fronte interno sono state oggetto di pronunce anche da parte della Corte di Cassazione.

3. I caratteri delle nozioni autonome nell’ambito delle esenzioni IVA.

3.1. L’importanza dei caratteri qualificanti. – L’uniforme applicazione del diritto europeo, di cui le nozioni autonome sono garanzia, ne orienta tanto l’individuazione quanto la definizione. Innanzitutto, l’individuazione avviene negli ambiti in cui vi è un rischio di molteplici interpretazioni, e quindi di applicazioni difformi, come nel caso delle esenzioni. In secondo luogo, la definizione valorizza i caratteri della nozione necessari a garantire l’uniforme perseguimento dell’obiettivo europeo al quale essa è funzionale. Di conseguenza, è raro che una nozione autonoma venga individuata con riferimento a termini “fattuali”, cioè termini che indicano o rinviano a determinati oggetti materiali o situazioni o comportamenti fattuali, come ad esempio per i concetti relativi alla territorialità.

dir. fin., 1979, I, 663 ss.; r. luPi, Imposta sul valore aggiunto (voce), in Enc. giur., XVI, Roma, 1989; C. saCCheTTo, Armonizzazione fiscale nella Comunità europea (voce), in Enc. giur., III, Roma, 1994; l. CeCaMore, Valore aggiunto (imposta sul) (voce), in Dig. disc. priv., XVI, Torino, 1999; r. Cordeiro guerra, L’iva quale imposta sui consumi, in Rass. trib., 2000, 322-332.

Le nozioni individuate dalla Corte, poi, sono formulate in modo tale da evitare quanto più possibile confusioni o sovrapposizioni con le corrispondenti nozioni utilizzate a livello nazionale (13). La necessità di concetti “stabiliti” mediante una definizione unica e valevole in numerose giurisdizioni diverse implica che si faccia riferimento a termini connotati il meno possibile dal punto di vista giuridico. Dunque, accanto ai termini propri del linguaggio giuridico, vengono scelti per designare le nozioni termini propri del linguaggio ordinario, così come termini originali, coniati all’apposito fine di individuare concetti nuovi. Il grado di complessità ed elaborazione minimale riguarda anche le definizioni delle nozioni che devono essere comprensibili e accettabili a qualsiasi operatore all’interno dell’Unione.

Inoltre, come anticipato, le definizioni sono fortemente orientate alla funzione che sono chiamate a svolgere e l’esplicita menzione della funzione spesso assume un ruolo centrale nella definizione. Ciò è coerente con il fatto che l’individuazione di nozioni dal significato autonomamente europeo è in ultima analisi volto a garantirne la primazia e l’effettività all’interno di ordinamenti nazionali che aspirano all’unità, completezza e coesione, senza al contempo limitare eccessivamente l’autonomia applicativa degli Stati. Appare quindi fondamentale ricorrere a “nozioni funzionalistiche” che privilegino l’efficace raggiungimento dell’obiettivo rilevante nella circostanza specifica (14). Al contempo, nella varietà delle fattispecie di esenzione, la definizione è funzionale ai “microcosmi” autonomi delle singole esenzioni, connotati da aspetti comuni, ma anche da problematiche peculiari e specifiche (15).

Infine, dal momento che la Corte di Giustizia specifica la portata delle nozioni autonome nel contesto di rinvii pregiudiziali aventi ad oggetto la qualificazione di un’operazione alla luce delle disposizioni relative alle esenzioni, molto spesso essa definisce gli elementi caratterizzanti del concetto nel corso

(13) Cfr. M. MiCCinesi, I principi comunitari nell’esperienza del giudice tributario la cooperazione della giurisprudenza nazionale nella applicazione del diritto comunitario, in Dir. prat. trib., 2013, I, 868, che sottolinea in termini più generali che la Corte di Giustizia, dovendo tenere conto di tutti i diversi ordinamenti nazionali dei Paesi membri, ha dato vita a una giurisprudenza più attenta agli effetti pratici che non alle forme, evitando i formalismi giuridici riconducibili a un ordinamento piuttosto che a un altro. (14) Cfr. M. MiCCinesi, I principi comunitari nell’esperienza del giudice tributario, cit., 868, che evidenzia la centralità del perseguimento dell’effet utile nella giurisprudenza della Corte. (15) F. MonTanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA, Torino, 2013, 45 ss.

della qualificazione dell’operazione (16). Nel diritto europeo, per la qualificazione di una singola fattispecie, viene in considerazione la valutazione degli effetti economici, che hanno un rilievo qualificatorio maggiore delle mere formalità o forme giuridiche (17). Nel caso delle esenzioni, la valorizzazione degli effetti economici spesso si concretizza nel concetto di “equivalenza economica” ed è motivata dalla volontà di evitare che operazioni che sono tra loro equivalenti, cioè che sono idonee a soddisfare i medesimi interessi economici, subiscano trattamenti diversi (18). Si tratta di valutazioni, quindi, strettamente legate anche al principio di non discriminazione e di parità di trattamento sul mercato concorrenziale. Dunque, nell’individuazione degli elementi qualificanti delle nozioni vengono alla luce considerazioni legate all’idea di equivalenza economica e al principio di prevalenza della sostanza sulla forma, che ben si prestano agli obiettivi di uniformità e di integrazione della Corte di Giustizia per superare le diversità di forme giuridiche presenti nei singoli Stati (19). Tali considerazioni si concretizzano anche in una maggiore attenzione dedicata al profilo oggettivo delle esenzioni che è particolarmente evidente quando si considerano quelle di cui agli artt. 135-137 della Direttiva.

3.2. I caratteri qualificanti in alcune tipologie di nozioni autonome. – Pur nella varietà delle fattispecie di esenzioni IVA (20), i suddetti caratteri sono

(16) Per un approfondimento su questo tema, con specifica attenzione al diritto tributario, v. v. vindard, La qualification en droit fiscal, tesi di dottorato discussa a Rennes il 3 giugno 2014. (17) Cfr. P. FiliPPi, I profili oggettivi del presupposto dell’iva, in Dir. prat. trib., 2009, I, 1201 e 1204, che affronta questo tema in relazione alle operazioni imponibili. In termini più generali, sulla complessa questione della sostanza sulla forma, cfr. g. Fransoni, La determinazione dei tributi tra diritto e capacità economica individuale: il diritto tributario come materia giuridica e i suoi rapporti con l’economia, in Dial. trib., 2009, 9 ss.; F. MonTanari, La prevalenza della sostanza sulla forma nel diritto tributario, Padova, 2019. (18) Si tratta di un concetto che la giurisprudenza unionale ha provveduto a specificare nel corso del tempo legandolo a valutazioni di tipo concorrenziale e che la Corte utilizza soprattutto nella giurisprudenza più recente, dal 2010 a oggi. Nel 2011, rivedendo un proprio orientamento che preferiva non specificare i criteri sulla base dei quali verificare la similarità tra determinati beni e servizi, la Corte ha affermato che merci o prestazioni di servizi simili, che si trovano quindi in concorrenza fra loro, non possono essere trattati in modo diverso ai fini dell’IVA (Corte Giust., 10 novembre 2011, The Rank Group, causa C-259/10, p.to 32 e giurisprudenza richiamata, poi significativamente confermata e specificata da Corte Giust., 27 febbraio 2014, Pro Med Logistik e Pongratz, causa C-454/12). (19) M. MiCCinesi, I principi comunitari nell’esperienza del giudice tributario, cit., 858. (20) Per quanto riguarda l’asistematicità della Direttiva IVA in relazione alle esenzioni

evidenti se si considerano, ad esempio, le nozioni di ospedalizzazione e di cure mediche (21), individuate dalla Corte di Giustizia tra le esenzioni per le attività di interesse pubblico. Secondo la Corte, le cure mediche sono quelle che “hanno lo scopo di diagnosticare, di curare e, nella misura del possibile, di guarire malattie e problemi di salute” (22). Il perseguimento delle finalità terapeutiche è centrale nell’individuazione del concetto, tanto da divenire l’elemento cardine della sua definizione. Proprio sulla finalità terapeutica si è concentrata la giurisprudenza europea per stabilire se le singole attività rientrassero nella nozione (23). Sono perciò stati individuati alcuni criteri, recepiti poi della Corte di Cassazione, tra i quali il criterio dell’essenzialità o dello scopo principale (24), e dell’ininfluenza della percezione soggettiva (25).

La Corte di Giustizia specifica, inoltre, che l’obiettivo ultimo delle esen-

v. d. Berlin, Droit fiscal communautaire, in Rev. inter. dr. comp., 1989, 549; a. CoMelli, IVA comunitaria e IVA nazionale, Padova, 2000, 619; F. MonTanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA, cit., 45 ss. (21) Per la trattazione dell’esenzione relativa all’ospedalizzazione e alle cure mediche, v., tra gli altri, e. Traversa, Le régime TVA des soins de santé, in Rev. gen. fisc., 2005, 16-23; s. digregorio naToli, Trattamento iva delle prestazioni sanitarie, in Fisco, 2010, 5800 ss.; g. ChinellaTo, Sull’interpretazione delle norme UE e nazionali in materia di prestazioni di diagnosi, cura e ospedalizzazione, in Rass. trib., 2012, 1219-1230; P. aCCordino, Operazioni esenti iva tra interpretazione restrittiva ed evolutiva, in Dir. prat. trib., 2021, I, 2552-2583. (22) Corte Giust., 14 settembre 2000, D. contro W., causa C-384/98, p.to 18; Corte Giust., 10 settembre 2002, Ambulanter Pflegedienst Kligler GmbH, causa C-141/00, p.to 38; Corte Giust., 8 giugno 2006, L.u.P., causa C-106/05, p.ti 27-29; Corte Giust., 18 novembre 2010, Verigen Transplantation Service International, causa C-156/09, p.to 24; Corte Giust., 21 marzo 2013, PFC Clinic, causa C-91/12, p.ti 27-30; Corte Giust., 13 marzo 2014, Klinik Dortmund, causa C-366/12, p.ti 29-31; Corte Giust., 2 luglio 2015, De Fruytier, causa C-334/14, p.ti 20-21. (23) Possono, quindi, considerarsi attività aventi finalità terapeutiche anche le attività mediche a fini profilattici qualora le persone che vi sono state sottoposte non soffrano di alcuna malattia o anomalia di salute (Corte Giust., 20 novembre 2003, Peter d’Ambrumenil, causa C-307/01, p.to 58) e il prelievo di materiale cartilagineo al fine dell’estrazione, riproduzione e reimpianto di cellule a scopo terapeutico e l’analisi del sangue cordonale qualora persegua effettivamente finalità diagnostiche (sentenza Verigen Transplantation Service International, cit., p.to 32). (24) Anche qualora le prestazioni offerte costituiscano soltanto una parte del processo generale di cura, queste devono essere considerate esenti “qualora siano una parte essenziale, intrinseca e indissociabile del processo e nessuna delle fasi che lo compongono può essere eseguita utilmente in maniera distinta dalle altre” (sentenza Verigen Transplantation Service International, cit., p.to 26). (25) Sull’accertamento della finalità terapeutica non incide in alcun modo la percezione soggettiva del paziente. Questo criterio è stato particolarmente rilevante nella scelta se qualificare come cure mediche gli interventi chirurgici e i trattamenti di carattere estetico (sentenza PFC Clinic, cit., p.ti 33-34)

zioni è la riduzione del costo delle spese sanitarie che perseguono finalità terapeutiche (26). La centralità di questo obiettivo per gli Stati europei giustifica che, malgrado l’obbligo di interpretazione restrittiva delle esenzioni in materia IVA, la finalità terapeutica di un’esenzione non debba essere intesa in un’accezione particolarmente restrittiva (27). Tale approccio viene condiviso dalla giurisprudenza di legittimità nazionale. La Cassazione, pronunciandosi sulla portata della nozione di cure mediche ai sensi dell’art. 10, n. 18 D.P.R. n. 633 del 1972, ha esplicitamente richiamato la giurisprudenza europea per sottolineare che lo scopo della prestazione determina se quest’ultima debba essere esentata (c.d. interpretazione funzionalistica (28)). In ragione di quanto appena detto, le prestazioni come le perizie sono state escluse dall’esenzione (29).

Per quanto riguarda, invece, le considerazioni di tipo economico e l’attenzione al profilo oggettivo, è particolarmente interessante guardare alla giurisprudenza europea in materia di assicurazioni. La Corte di Giustizia ha definito operazioni di assicurazione quelle in cui “l’assicuratore s’impegna, dietro previo versamento di un premio, a procurare all’assicurato, in caso di realizzazione del rischio assicurato, la prestazione convenuta all’atto della stipula del contratto” (30). L’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia

(26) Corte Giust., 10 giugno 2010, CopyGene, causa C-262/08. Per quanto riguarda, in termini più generali, il fatto che le esenzioni, soprattutto quelle per le attività di interesse pubblico, abbiano l’obiettivo di agevolare il consumatore, v. a. Fedele, Esenzioni ed esclusioni nella disciplina dell’IVA, cit., 152; R. Perrone CaPano, L’imposta sul valore aggiunto, cit., 356. (27) Sentenza CopyGene, cit., p.to 29 confermata dalle sentenze Verigen Transplantation Service International, cit., p.to 24 e Peter d’Ambrumenil, cit., p.to 58. (28) g. iTzCoviCh, L’interpretazione del diritto comunitario, in Mat. st. cult. giur., 2008, 452 ss.; k. lenaerTs - J.a. guTiérrez-Fons, To Say What the Law of the EU Is, cit., 25; in materia fiscale v. g. Melis, Motivazione e argomentazione nelle sentenze interpretative della Corte di Giustizia in materia tributaria: alcuni spunti di riflessione, in Rass. trib., 2005, 415. Si parlava di “funzionalismo guidato dallo scopo” già in P. PesCaTore, Les objectifs de la Communauté européenne comme principes d’interprétation dans la jurisprudence de la Cour de justice, in Miscellanea W.J. Ganshof van der Meersch, vol. 2, Bruylant, 1972, 325-363. (29) Esse, infatti, pur basandosi sulle competenze mediche del prestatore, non hanno lo scopo principale di tutelare la salute dei soggetti della perizia (Cass. 22577/2012, cit.). In relazione a tale aspetto, dirimente è la giurisprudenza europea (sentenza Peter d’Ambrumenil, cit., p.to 62). (30) Corte Giust., 25 febbraio 1999, Card Protection Plan Ltd, causa C-349/96, p.to 17; Corte Giust., 8 marzo 2001, Skandia, causa C-240/99, p.to 37; Corte Giust., 20 novembre 2003, Taksatorringen, causa C-8/01, p.to 39; Corte Giust., 22 ottobre 2009, Swiss Re Germany Hol-

dimostra che le nozioni autonome relative alle esenzioni a favore di “altre attività” si caratterizzano per una più accentuata attenzione al profilo oggettivo rispetto alle esenzioni per attività di interesse generale. Ciò è dovuto sia al fatto che l’art. 135 della Direttiva individua le esenzioni quasi esclusivamente in ragione dell’oggetto dell’operazione e della veste del prestatore (31), sia alla volontà di garantire che operazioni equivalenti vengano trattate allo stesso modo, a prescindere dalla veste del prestatore [v. il prec. para. 3.1].

Inoltre, la definizione fornita in sede europea è coerente con quanto enunciato nella Direttiva 73/239/CEE in materia di accesso ed esercizio delle attività di assicurazione (32). Secondo la Corte, non vi sarebbero ragioni per adottare un’interpretazione diversa del termine “assicurazione” a seconda che esso figuri nel testo della Direttiva 73/239/CEE o in quello della sesta Direttiva (33). Il riferimento alle definizioni contenute in altri strumenti normativi europei per individuare la portata dei concetti della Direttiva IVA è un tema assai ampio, su cui non è possibile soffermarsi in questo contributo ma che, come vedremo, è suscettibile di creare molti dubbi all’interprete nazionale [v. il succ. para. 5.1].

La nozione di operazione di assicurazione fornita in sede europea viene recepita testualmente dalla Corte di Cassazione (34) che, anche in questo

ding, causa C-242/08, p.to 34; Corte Giust., 17 marzo 2016, Aspiro, causa C-40/15, p.to 22. Ciò deve avvenire in ragione di un rapporto contrattuale tra il prestatore del servizio di assicurazione e l’assicurato (sentenza Taksatorringen, cit., p.ti 40 e 41). (31) Le esigenze tecniche, di semplificazione o di coordinamento con altri aspetti della disciplina nazionale, assumono minimo rilievo nella lettera della Direttiva IVA. Sul punto v. r. de la Feria, Ending VAT Exemptions: Towards a Post-Modern VAT, in r. de la Feria, VAT Exemptions: Consequences and Design Alternatives, Wolters Kluwer, 2013, 22 ss. (32) Direttiva 73/239/CEE del Consiglio del 24 luglio 1973 recante coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative in materia di accesso e di esercizio dell’assicurazione diretta diversa dall’assicurazione sulla vita, nella sua versione risultante dalla Direttiva 84/641/CEE del Consiglio del 10 dicembre 1984; in seguito: la “Direttiva 73/239”. (33) Nella sentenza Card Protection Plan Ltd, cit., p.to 18, si afferma che “nessuna ragione autorizza infatti un’interpretazione diversa del termine assicurazione a seconda che esso figuri nel testo della direttiva relativa all’assicurazione o in quello della sesta direttiva”. Occorre specificare che in altre pronunce la Corte aveva rifiutato di ispirarsi alle definizioni offerte da altri strumenti normativi. Probabilmente la ragione che giustifica la “permeabilità” tra le due Direttive è che la nozione proposta dalla Direttiva sulle assicurazioni risulta compatibile con le finalità della Direttiva IVA. Per comprendere le ragioni che portano la Corte a fare riferimento a nozioni appartenenti a strumenti normativi diversi, può essere utile fare riferimento alle conclusioni degli Avvocati generali che si esprimono più diffusamente sulla questione. Cfr. conclusioni dell’Avvocato generale Campos Sánchez-Bordona del 16 luglio 2020, Bakati Plus, causa C-656/19. (34) Cass. 22429/2016, cit.; Cass. civ. Sez. V, Sent., 15 settembre 2017, n. 21406; Cass.

caso, richiama direttamente la giurisprudenza unionale sia per quanto riguarda la definizione, sia per quanto riguarda la necessità di un rapporto contrattuale tra assicuratore e assicurato (35). Inoltre, anche la giurisprudenza nazionale valorizza il profilo oggettivo dell’esenzione. Essa richiama la Corte di Giustizia a proposito del fatto che, nell’ambito delle operazioni di assicurazione, possano rientrare anche quelle effettuate da un soggetto passivo che non sia direttamente assicuratore, ma che, nell’ambito di un’assicurazione collettiva, procuri ai suoi clienti siffatta copertura avvalendosi delle prestazioni di un assicuratore che si assume l’onere del rischio assicurato, a condizione che sussista l’identità del destinatario della prestazione e che esista un rapporto contrattuale tra il prestatario del servizio di assicurazione e l’assicurato (36). Tale equiparazione sembra motivata dalla volontà di garantire il medesimo trattamento a operazioni equivalenti dal punto di vista economico.

In conclusione, le nozioni autonome di origine giurisprudenziale sono elaborate nel contesto di un metodo casistico tipicamente giudiziale e hanno caratteri funzionali agli obiettivi dell’Unione. Al contempo, l’organizzazione e il multilinguismo della Corte incidono sull’individuazione e sulla definizione delle suddette nozioni. Di conseguenza, i caratteri tipizzanti delle nozioni autonome di diritto europeo spesso si allontanano significativamente da quelli caratterizzanti i concetti normativi di diritto nazionale (37). Infatti, sia per il termine utilizzato per individuare la nozione, sia per la definizione, utilizzano un lessico meno specialistico, non sono “organizzativi” bensì funzionali a specifiche esigenze e ricorrono a definizione ampie.

civ. Sez. V, Sent., 11 ottobre 2017, n. 23785; Cass. civ. Sez. V, Sent., 25 maggio 2018, n. 13112 e Cass. civ. Sez. V, Ord., 24 agosto 2018, n. 21070, che tutte richiamano la sentenza Cass. 22429/2016, cit. (35) In particolare, la sentenza Taksatorringen, cit., p.ti 40 e 41 in relazione al secondo profilo. A tale proposito, sempre richiamandosi alla giurisprudenza europea e di Cassazione, i giudici di merito affermano che, ai fini dell’esenzione IVA, nel caso in cui vi sia un’impresa delegataria coassicuratrice che gestisce la liquidazione dei sinistri, occorre verificare che essa sia anche parte del rapporto in essere con l’assicurato, per avere assunto obbligazioni contrattuali nei suoi confronti sotto il profilo della garanzia della copertura del rischio. La giurisprudenza di merito esclude esplicitamente che rilevi la regola nazionale sancita dall’art. 1911 c.c., che esclude la solidarietà nelle obbligazioni assunte dalle diverse imprese (co)assicuratrici (Comm. Trib. Reg. Lombardia Sez. I, Sent., 01 ottobre 2018, n. 4108). (36) Cass. 22429/2016, cit.; Cass. 21406/2017, cit.; Cass. 23785/2017, cit.; Cass. 13112/2018, cit.; Cass. 21070/2018, cit. (37) Per un approfondimento sul ruolo dei concetti, v. a. d’angelo, Discorso giuridico, termini tecnici e concetti, in Riv. dir. civ., 2016, 312 e 318.

Dunque, l’interpretazione e l’applicazione delle nozioni europee implica uno sforzo e un ruolo nuovo per il giudice nazionale, per il quale gli strumenti e l’esperienza acquisite relativamente ai rinvii interordinamentali non sono sempre sufficienti. Ciò è stato evidente, ad esempio, nel caso della nozione di operazioni assicurative, la cui individuazione ha reso necessari numerosi interventi della giurisprudenza nazionale.

4. Il ruolo del giudice nazionale rispetto alle nozioni autonome. – L’esistenza, in ambito IVA, di concetti individuati in sede europea come “autonomi” e che, nondimeno, si offrono all’interpretazione e all’applicazione da parte degli operatori nazionali, accresce la responsabilità del giudice nazionale e ne conferma il ruolo di garante del primato del diritto europeo in tale settore (38). Infatti, dal momento che solitamente la Corte di Giustizia interviene a chiarire la portata dei concetti in un momento successivo rispetto al loro recepimento da parte del legislatore nazionale, la giustizia tributaria ha un ruolo ben più rilevante di quello che avrebbe se le nozioni fossero definite direttamente dalla legislazione europea.

Secondo la consolidata giurisprudenza europea, com’è noto, tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi quelli giurisdizionali, hanno l’obbligo di contribuire al conseguimento del risultato stabilito dalla Direttiva e all’adozione di tutti i provvedimenti, generali o particolari, che siano atti a garantirne il corretto recepimento e attuazione (39). Il giudice nazionale è il garante della coerenza tra il diritto nazionale e quello europeo in nome del principio del primato del diritto europeo e del principio di leale collaborazione (40). In questo modo la trasposizione delle nozioni europee nell’ordinamento nazionale si

(38) a. di PieTro, Il giudice tributario come giudice europeo: dall’interpretazione all’attuazione delle norme europee, in Rass. trib., 2020, 26. (39) Corte Giust., 10 aprile 1984, Von Colson and Kamann, causa C-14/83; Corte Giust., 13 novembre 1990, Marleasing, causa C-106/89; Corte Giust., 25 agosto 2007, Kofoed, causa C-321/05. (40) g. iTzCoviCh, L’interpretazione del diritto comunitario, cit., 429; d. u. galeTTa, Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE ed obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale: una rilettura nell’ottica del rapporto di cooperazione (leale) fra giudici, in Riv. it. dir. pubb. comm., 2012, 433. Per l’applicazione nel diritto tributario europeo v. M. Barassi, L’interpretazione del diritto tributario europeo, in C. saCCheTTo, Principi di diritto tributario europeo e internazionale, Torino, 2011; M. MiCCinesi, I principi comunitari nell’esperienza del giudice tributario, cit., 853-878; r. Cordeiro guerra, Crisi della fattispecie, fonti multilivello e ruolo del giudice: il caso del diritto tributario, in Rass. trib., 2019, 265-289.

configura come un’attività che ha luogo in due fasi. La prima fase, limitata nel tempo, riguarda il legislatore e coincide con la trasposizione vera e propria nei testi normativi (41); la seconda fase riguarda, invece, il giudice e l’amministrazione finanziaria che hanno un obbligo continuo di interpretare e applicare la legislazione nazionale in coerenza con quella europea (42).

Le disposizioni che contengono concetti autonomi devono essere non solo interpretate ma anche applicate in coerenza con l’ordinamento unionale. L’obiettivo ultimo delle nozioni autonome, cioè la garanzia della corretta e uniforme applicazione dei concetti europei, si realizza, infatti, per mezzo dell’applicazione. Ciò è evidente, come si è appena discusso, rispetto alla giurisprudenza di Cassazione relativa alle prestazioni mediche o di assicurazione, ma anche rispetto a quella relativa alle prestazioni didattiche (43) oppure alla qualificazione ai fini IVA delle operazioni di leasing finanziario (44).

Per chiarire meglio: qualora il legislatore nazionale abbia trasposto la Direttiva utilizzando le medesime locuzioni linguistiche proprie della Direttiva stessa, come accade ad esempio in relazione alle “operazioni di assicurazione e riassicurazione”, il giudice tributario dovrebbe limitarsi ad una mera applicazione dei concetti coniati in ambito europeo, che però possono risultare non (ancora) compiutamente definiti. Per quanto riguarda il riconoscimento del carattere autonomo della nozione, in questo caso non pare possano emergere particolari problemi. Proprio l’aderenza testuale tra la formulazione della nozione nella legge nazionale e quella della Direttiva rende per il giudice inevitabile trattare quella nozione come specificamente europea. Possono però darsi diversi scenari nel caso in cui la nozione presenti un basso grado di specificità e di determinatezza (escludendo, quindi, le fattispecie in cui la stessa Direttiva o eventuali Regolamenti interpretativi emanati successivamente dall’UE forniscono, in via normativa, una definizione del concetto) [v. il succ. para. 5.3]. Se il giudice nutre dubbi sul corretto significato da attribuire alla nozione autonoma e non vi sono precedenti giurisprudenziali della Corte di Giustizia, dovrà valutare se effettua-

(41) V. Corte Cost., Sent., 5 giugno 1984, n. 170 (Granital). Al riguardo v. anche g. d’angelo, Integrazione europea e interpretazione, cit., 48. (42) C. aCoCella, Interpretazione Conforme al Diritto Comunitario ed Efficienza Economica: il principio di concorrenza, in M. d’aMiCo - B. randazzo, Interpretazione Conforme e Tecniche Argomentative, Torino, 2009, 96 ss. (43) Tra le altre, v. Cass. civ. Sez. V, Sent., 30 settembre 2015, n. 19429 e Cass. civ. Sez. V, Sent., 21 marzo 2019, n. 7943. (44) V., da ultimo, Cass. civ. Sez. V, Ord., 14 gennaio 2021, n. 535.

re o meno un rinvio pregiudiziale [v. il succ. para. 5.4]. Se vi sono precedenti giurisprudenziali, per quanto occasionati da controversie interpretative sorte in altri ordinamenti, al giudice basterà “applicare” tali precedenti, recependone in modo piano e lineare le definizioni, che in questo caso assumono una valenza normativa. Eventualmente il giudice potrà ricorrere in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia per ottenere chiarimenti specifici sul significato da attribuire a una nozione autonoma così come definita in un certo precedente, stimolando l’attività interpretativa della Corte sulla sua stessa giurisprudenza. Proprio in relazione al trattamento IVA delle “operazioni di assicurazione e riassicurazione” i numerosi interventi della Corte di Cassazione (tesi a recepire la giurisprudenza europea avente ad oggetto tale nozione) dimostrano che si tratta di un processo graduale che acquisisce efficacia nel corso del tempo grazie a un dialogo continuo tra le Corti [v. il prec. para. 3.2].

Qualora invece il legislatore nazionale abbia dato attuazione alla Direttiva ricorrendo, nella trasposizione delle sue disposizioni, a concetti già definiti nella legislazione tributaria o extra-tributaria, come accade ad esempio in relazione ad alcune delle prestazioni sanitarie elencate all’ art. 10 c. 18 d.p.r. 633/1972, il ruolo del giudice tributario è più complesso. Pur consapevole del dovere di interpretazione conforme, il giudice nazionale può essere indotto ad applicare la norma IVA ascrivendole un significato che è condizionato dalla formulazione nazionale delle nozioni incorporate nella norma tributaria. Le scelte compiute dal legislatore nell’adottare una formulazione “interna” delle nozioni autonome, potrebbero ad esempio rispondere all’obiettivo di specificarle e dettagliarle, conferendo loro un grado maggiore di analiticità e di determinatezza, nell’ottica di assicurare la certezza del diritto, o di adattarne il significato semantico alla realtà sociale, economica, istituzionale, che caratterizza quell’ordinamento rispetto a settori extratributari. In questo caso è facile che il giudice, nell’applicare quella nozione (rectius: nell’applicare quella disposizione ascrivendo un certo significato alla nozione in essa incorporata), sia portato a ricorrere al significato che essa assume nei settori giuridici di riferimento dell’ordinamento nazionale; cioè nel modo in cui il concetto è definito da altre discipline normative non tributarie: ad esempio sanità, trasporti, istruzione.

Ecco quindi che, nella prima ipotesi prospettata in precedenza, si può arrivare a parlare di “mera applicazione” della nozione autonoma da parte del giudice nazionale, cioè mero recepimento della nozione nella sua formulazione europea e nella definizione offerta dalla giurisprudenza della Corte del Lussemburgo. Nel secondo caso emerge, invece, in tutta la sua importanza

l’attenzione che il giudice deve rivolgere al corretto esercizio dell’attività di interpretazione conforme. Come si chiarirà meglio nel prosieguo, essa qui va intesa non solo come quell’ermeneutica rivolta all’intero testo delle disposizioni normative nazionali e diretta a far sì che tali disposizioni non producano effetti incoerenti e contraddittori rispetto al diritto europeo; ma piuttosto come una vera interpretazione adeguatrice dei significati attribuibili a formule, sintagmi, locuzioni che il diritto nazionale ha utilizzato per trasporre e definire le nozioni generiche (ma autonome) del diritto europeo all’interno del sistema giuridico interno.

Per questo il giudice nazionale deve interpretare e applicare le disposizioni che menzionano nozioni autonome utilizzando gli strumenti di natura generale per conciliare ordinamento europeo e nazionale (interpretazione conforme e disapplicazione), i cui caratteri e funzioni devono essere declinati rispetto alle nozioni autonome.

a) La responsabilità di assicurare l’interpretazione conforme

Nel caso in cui il legislatore nazionale abbia dato attuazione alla Direttiva servendosi di concetti e definizioni già utilizzati in diritto nazionale, riformulandoli, e la Corte di Giustizia non sia ancora intervenuta a specificare la portata dei suddetti concetti, oppure sia intervenuta lasciando aperti e indefiniti alcuni aspetti, il principale strumento di riferimento del giudice nazionale è l’interpretazione conforme (45). Com’è noto, l’obiettivo dell’interpretazione conforme non è solo evitare le antinomie tra disposizioni nazionali ed europee, ma anche conciliare le disposizioni appartenenti ai due ordinamenti sul piano assiologico (46). Per quanto riguarda le nozioni autonome, ciò significa garantire la concretizzazione delle disposizioni che utilizzano concetti giuridici già utilizzati in ambito nazionale in senso conforme a quanto statuito a livello europeo. Nel caso in cui tali concetti siano indeterminati oppure significativamente lontani dai corrispondenti europei, il compito del giudice è più arduo, rendendo talvolta labile il confine tra interpretazione e creazione (47).

(45) V. a. di PieTro, L’integrazione fiscale europea e la sua interpretazione, in a. Bernardi, L’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, Napoli, 2015, 369-390. (46) C. aCoCella, Interpretazione Conforme al Diritto Comunitario, cit., 101. (47) Sul punto v. d. gallo, L’efficacia diretta del diritto dell’Unione Europea negli ordinamenti nazionali, Milano, 2018, 50, che sostiene che è necessario distinguere il ruolo della Corte di Lussemburgo quale actor of change al fine di far progredire e, allo stesso tempo, rafforzare e completare il processo di comunitarizzazione che si pone alla base dei Trattati europei

Nei settori armonizzati, in cui la competenza è ripartita tra gli Stati e l’Unione, il parametro da rispettare è costituito dal modello impositivo previsto a livello europeo (48). Il giudice nazionale deve, innanzitutto, individuare la portata delle norme e degli obiettivi dell’ordinamento europeo affinché diventino i parametri dell’interpretazione dei concetti nazionali (49). Nei casi in cui, come nella Direttiva IVA, il dato normativo è stato significativamente arricchito dalla giurisprudenza, essa sarà particolarmente utile per determinare portata e obiettivi delle disposizioni. Se la Corte di Giustizia si è espressa in modo chiaro sulla portata del concetto, quindi, il giudice nazionale dovrà interpretare la disposizione nazionale applicando direttamente la definizione europea della nozione [v. anche il succ. punto b)]. Se la Corte, poi, ha fatto riferimento ad altre Direttive o Regolamenti per l’interpretazione dei concetti della Direttiva IVA, come si è visto in relazione alla nozione di assicurazione, al giudice sarà richiesta la conoscenza di queste ulteriori fonti europee [v. il prec. para. 3.2].

Inoltre, ai fini dell’interpretazione conforme in ambito IVA, il principio di concorrenza assume un ruolo importante (50). In questo settore, infatti, è

e del diritto derivato (v. J.-P. JaCqué, Le rôle du droit dans l’intégration européenne, in Phil. polit., 1991, 132) dal judicial activism (v. M. rasMussen, On Law and Policy in the European Court of Justice: a Comparative Study in Judicial Policymaking, The Hague, 1986; J.h.h. Weiler, The Court of Justice on Trial, in Comm. mark. l. rev., 1987, 555 ss.; k.J. alTer, The European Court’s Political Power, Oxford University Press, 2009). Più specificamente in materia fiscale si è parlato di funzione creativa della Corte di Giustizia in g. Melis-r. MiCeli, Le sentenze interpretative della Corte di Giustizia delle comunità europee nel diritto tributario: spunti dalla giurisprudenza relativa alle direttive sull’imposta sui conferimenti e sull’Iva, in Riv. dir. trib., 2003, I, 111 ss.; v. nuCera, Le sentenze interpretative della Corte di Giustizia ed il loro impatto sul diritto tributario, in Rass. trib., 2006, 1136-1173. (48) A questo proposito v. g. d’angelo, Integrazione europea e interpretazione, cit., 68-69, che sottolinea che, sebbene esista una presunzione di conformità della norma interna al diritto europeo, l’ampiezza e la pervasività del parametro europeo da tenere in considerazione varia notevolmente in ragione dell’ambito del diritto europeo. Il compito del giudice di interpretare il diritto nazionale in conformità a quello europeo e di applicare il diritto europeo in ragione della sua superiorità su quello nazionale è particolarmente evidente nei settori armonizzati (a. di PieTro, Il giudice tributario come giudice europeo, cit., 26). (49) Secondo Miccinesi, per il giudice tributario interpretare la norma interna alla luce del diritto unionale significa ricercarne la ratio profonda, posponendo ad essa i criteri ermeneutici comunemente utilizzati nel diritto interno (argomento letterale, testuale, logico e sistematico) e attribuendo particolare rilievo ai precedenti della Corte di Giustizia, ai lavori preparatori del testo unionale, ai preamboli delle Direttive (M. MiCCinesi, I principi comunitari nell’esperienza del giudice tributario, cit., 878). (50) C. aCoCella, Interpretazione Conforme al Diritto Comunitario, cit., 127. Per una riflessione più ampia e generale, v. M. BasilaveCChia, L’evoluzione della politica fiscale

fondamentale il contesto economico di riferimento: l’interprete deve tenere in considerazione la rilevanza dell’attività economica svolta nel mercato e cercare di garantire la neutralità concorrenziale, che, nell’ambito delle esenzioni, è fondamentale (51). Si è visto [para. 3.1] che, in relazione alle nozioni autonome, la centralità della neutralità concorrenziale si esplica nell’utilizzo di definizioni orientate alla funzione dell’esenzione e nell’applicazione delle esenzioni compiendo considerazioni di equivalenza economica. Quindi, il giudice nazionale deve interpretare e applicare le disposizioni relative alle esenzioni in cui si rinvenga una nozione autonoma tenendo conto dell’obiettivo esplicitato a livello europeo, spesso in termini ampi, e della garanzia di parità di trattamento delle operazioni che si equivalgono del punto di vista economico.

Occorre infine specificare che non devono essere oggetto di scrutinio soltanto le disposizioni di diretta trasposizione del diritto europeo, ma anche quelle che possono influenzarlo, nonché l’interpretazione secondo la giurisprudenza consolidata e l’applicazione da parte della pubblica amministrazione (52). Quindi, ad esempio, in tutti i casi in cui la normativa nazionale abbia dato attuazione a disposizioni europee in cui si trovi una nozione autonoma rinviando a nozioni appartenenti ad altri settori oppure definite in altri settori, come nel caso delle attività mediche, anche queste devono essere oggetto dell’obbligo di interpretazione conforme.

Diversamente, nel caso in cui il legislatore nazionale abbia trasposto la Direttiva in modo letterale, le disposizioni relative alle esenzioni devono pur sempre essere oggetto di interpretazione conforme ma, in relazione all’aspetto specifico delle nozioni autonome, si tratta piuttosto di applicare le definizioni della Corte in ambito nazionale. Nel caso in cui la definizione non sia stata però ancora individuata a livello europeo, come vedremo, si creano situazioni

dell’Unione europea, in Riv. dir. trib., 2009, I, 361-400; a. Mondini, Il principio di neutralità dell’iva tra mito e (perfettibile) realtà, in a. di PieTro - T. Tassani, I principi europei del diritto tributario, Padova, 2013, pp. 269 - 306 e C. BuzzaCChi, Politiche fiscali (diritto dell’Unione europea) (voce), in Dig. disc. pubbl., Torino, 2015. (51) V. C. aCoCella, Interpretazione Conforme al Diritto Comunitario, cit., 98-99 che sostiene che la concorrenza, nel caso del diritto europeo, non debba essere intesa come libero dispiegamento delle forze economiche, ma come principio ispiratore di un complesso apparato di regole finalizzato al conseguimento di un equilibrio economicamente accettabile in cui l’efficienza economica vuole garantire assetti di mercato competitivi. (52) Corte Giust., 8 ottobre 1987, Kolpinghuis Nijmegen, causa C-80/86, p.to 12; Corte Giust., 13 luglio 2000, Centrosteel, causa C-456/98, p.ti 16-17 e giurisprudenza ivi citata; Corte Giust., 9 dicembre 2003, Commissione / Italia, causa C-129/00, p.to 30.

problematiche per il giudice [v. il succ. para. 5.1]

b) La responsabilità di scegliere tra interpretazione conforme e disapplicazione, e l’applicazione diretta delle nozioni autonome

Nel caso in cui, applicando tutte le tecniche ermeneutiche a disposizione, l’interprete non riesca ad attribuire alle norme interne un significato che non sia in conflitto con il diritto europeo, egli deve disapplicare la norma (53). Occorre, quindi, chiedersi se si possa parlare di “disapplicazione di una norma” in relazione ad una nozione e quale nozione alternativa si debba applicare in luogo di quella disapplicata.

Quanto alla prima questione, nel caso in cui la disposizione faccia uso di una determinata formulazione linguistica del concetto, la quale non è suscettibile di interpretazione conforme poiché non le si può attribuire altro significato se non quello contrario al diritto dell’Unione, si potrebbe parlare di disapplicazione di una norma in relazione ad una nozione. Tuttavia, per le nozioni autonome sembra più probabile che si verifichi una disapplicazione di codici interpretativi: il giudice avrebbe il compito di disapplicare non tanto la norma in sé, quanto il criterio interpretativo, e in particolare quello letterale, che gli sarebbe prescritto dal diritto interno. Al contrario, l’interpretazione teleologica orientata agli obiettivi europei spesso consentirebbe di attribuire alla disposizione nazionale un significato alla disposizione conforme al diritto europeo. Tuttavia, in tal casi, si tornerebbe a parlare di interpretazione conforme piuttosto che di disapplicazione.

Quanto alla seconda questione, nel caso in cui il concetto trasposto nella normativa nazionale non possa essere interpretato, e quindi applicato, conformemente all’ordinamento europeo, al giudice nazionale è demandata la disapplicazione del diritto interno e l’applicazione diretta delle norme e degli atti europei alla concreta fattispecie (54). In nome del principio di effettività, in questi casi, qualora non vi siano dubbi sull’interpretazione della disposizione

(53) Poiché l’ordinamento europeo è ispirato al principio di leale collaborazione, nel garantire l’integrazione tra diritto nazionale e ordinamento europeo, l’interpretazione conforme costituisce il primo tentativo obbligato e la disapplicazione l’extrema ratio (g. BeTleM, The Doctrine of Consistent Interpretation – Managing Legal Uncertainty, in Oxford j. leg. St., 2002, 397-418). È compito del giudice scegliere tra interpretazione conforme, disapplicazione ed eventualmente rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Sul punto v. d. gallo, L’efficacia diretta del diritto dell’Unione Europea, cit., 351. (54) g. Tesauro, Diritto comunitario, Padova, 2008, 303 ss.

europea, il giudice nazionale dovrà applicare direttamente le nozioni autonome europee, così come si trovano formulate nella Direttiva IVA. Affinché una disposizione della Direttiva sia dotata di effetto diretto, è necessario che preveda un obbligo chiaro, preciso e incondizionato e attribuisca diritti specifici sulla base dei quali i contribuenti possono fondare le loro richieste (55).

Nel caso delle disposizioni di cui ci si occupa è spesso difficile stabilire se esse abbiano natura condizionata e, quindi, se si possa invocare l’efficacia diretta di tali norme, anche se la Corte ha in varie occasioni affermato che le disposizioni relative alle esenzioni sono suscettibili di efficacia diretta (56). La questione si dimostra complessa, in particolare, per le esenzioni che rimandano al riconoscimento o alla definizione da parte degli Stati membri, come le nozioni relative al profilo soggettivo di molte esenzioni per attività di interesse pubblico o ai fondi d’investimento (57). A questo proposito, nelle sentenze della Corte relative alla “gestione di fondi d’investimento come definiti dagli Stati membri” si è affermato che l’esenzione prevista per questi ultimi possa avere effetto diretto in quanto sufficientemente precisa (58). Il fatto che la disposizione lasci un margine di discrezionalità agli Stati membri non significa che gli individui non possano fare affidamento sull’effetto diretto della norma quando gli Stati hanno ecceduto i limiti lasciati alla loro discrezionalità (59). Inoltre, la Corte ha anche affermato che la circostanza che lo Stato subordini la concessione dell’esenzione a condizioni che sono contrarie alla neutralità fiscale, e quindi incompatibili con la Direttiva, non può comportare l’impossibilità di invocare l’effetto diretto della disposizione di esenzione (60).

5. La difficoltà del giudice nazionale di perseguire l’uniforme applica-

(55) Quanto al presupposto della chiarezza e precisione, la Corte lo ritiene integrato allorché la norma “sancisce un obbligo in termini non equivoci” (Corte Giust., 17 settembre 1996, Cooperativa Agricola Zootecnica S. Antonio, cause riunite C-246/94, C-247/94, C-248/94 e C-249/94, p.to 19). (56) Sentenza del 19 gennaio 1982, Becker, causa C-8/81, p.ti 17-25; sentenza del 20 ottobre 1993, Balocchi, causa C-10/92, p.to 33. Con la sentenza del 6 luglio 1995, BP Soupergaz, causa C-62/93, punto 36, la Corte ha riconosciuto l’efficacia diretta delle disposizioni relative al diritto al rimborso. (57) Art. 132 c. 1 lett. b), g), h), i), n) e art. 135 c. 1 lett. g) della Direttiva IVA. (58) Corte Giust., 28 giugno 2007, JP Morgan Fleming, causa C-363/05, p.ti 61-62. (59) Sentenza JP Morgan Fleming, cit., p.to 60 e Corte Giust., 10 settembre 2002, Kügler, C-141/00, p.ti 52-53. (60) Corte Giust., 17 febbraio 2005, Linneweber e Akritidis, cause riunite C-453/02 e C-462/02, p.ti 35-37.

zione. – Nella sua assunzione di responsabilità per contribuire all’uniforme applicazione delle nozioni individuate e definite in sede europea il giudice nazionale può incontrare varie difficoltà, a cui si è in parte già fatto cenno per quanto riguarda la scelta tra interpretazione conforme e disapplicazione (61).

5.1. Modalità di recepimento da parte del legislatore nazionale. – Il tipo di difficoltà dipende innanzitutto dalla scelta compiuta dal legislatore, a seconda che abbia trasposto la Direttiva attenendosi alla lettera della stessa oppure abbia utilizzato nozioni già utilizzate in diritto nazionale nel settore fiscale o in altri settori dell’ordinamento (62) [v. il prec. para. 4]. Nel primo caso, il giudice nazionale dovrà confrontarsi con nozioni nuove, provenienti dall’ordinamento europeo e spesso non definite da quest’ultimo. Infatti, la trasposizione letterale dei concetti della Direttiva IVA evita le questioni legate all’identificazione delle nozioni, ma non quelle legate alla loro interpretazione e applicazione. Diversamente, nel secondo caso, il giudice sarà facilitato nell’interpretazione e applicazione, essendo più chiara la portata delle nozioni, ma la scelta del legislatore potrebbe non essere coerente con l’interpretazione delle stesse da parte della Corte di Giustizia. Ciò è avvenuto, ad esempio, per la nozione di “intermediazione” (63).

Si è già fatto cenno al fatto che nell’ordinamento nazionale la trasposizio-

(61) È già stato osservato da autorevole dottrina che uno dei tratti più delicati dell’attività di applicazione del diritto unionale da parte del giudice tributario nazionale consiste nel comprendere la terminologia utilizzata delle istituzioni europee, che consegue ad una diversità concettuale tra le categorie prese in considerazione dall’ordinamento unionale rispetto a quello interno (M. MiCCinesi, I principi comunitari nell’esperienza del giudice tributario, cit., 867). (62) Si può pensare che la scelta del legislatore nazionale sia più complessa per le nozioni non definite dalla Direttiva. La presenza di una definizione può essere una valida ragione per il legislatore nazionale per fare ricorso a concetti nuovi, dal momento che la definizione stessa può fornire indicazioni utili per l’interpretazione e applicazione delle diposizioni. Nell’assenza di una definizione, invece, esigenze di certezza del diritto giustificano la scelta di riferirsi a concetti noti. Sulla scelta del legislatore incide anche il livello di integrazione raggiunto al momento dell’attuazione della Direttiva: maggiore è il numero e l’incidenza delle materie disciplinate dal diritto dell’Unione, maggiori sono i concetti e la conoscenza che i legislatori nazionali hanno di questi ultimi e, quindi, maggiore è la fiducia che questi ripongono nelle nozioni europee. (63) Sebbene l’art. 10, c. 1, n. 9) d.P.R. n. 633/1972 consideri unitariamente la categoria degli agenti, mediatori e intermediari relativamente a tutte le operazioni esenti di cui ai nn. da 1) a 7) della medesima disposizione, probabilmente in nome di esigenze di sistematicità, tale unitarietà non è coerente con la disciplina unionale. La nozione di “intermediario” non sembra

ne della Direttiva, in particolare per quanto riguarda le esenzioni, è avvenuta facendo spesso riferimento a concetti già conosciuti e utilizzati nel diritto interno. La scelta nazionale può essere complicata dalla frequenza con cui, nel diritto tributario, si manifesta una stretta correlazione con le fattispecie, gli istituti, i principi o le nozioni relativi ad altri ambiti dell’ordinamento (64). Ciò è evidente nel caso delle esenzioni relative ad attività di interesse pubblico che tutelano valori extragiuridici, disciplinati da altri settori dell’ordinamento [v. il prec. para. 4]. La qualificazione di una nozione come autonoma non preclude infatti che questa possa essere definita in coerenza con altri strumenti normativi, ma soltanto che debba avere un significato unitario e un’applicazione omogenea all’interno dell’Unione.

5.2. Effetti dell’elaborazione giurisprudenziale delle nozioni. – In secondo luogo, le nozioni autonome sono definite dalla Corte di Giustizia in un momento successivo rispetto all’adozione della Direttiva stessa, e quindi – solitamente – anche alla sua attuazione nazionale. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, determinati termini appartenenti a fonti europee costituiscono nozioni autonome del diritto dell’Unione (65). Con tale affermazione la Corte sembrerebbe sottolineare che la qualificazione come “autonome” di certe nozioni sia un carattere costitutivo delle stesse, che la Corte si limita ad esplicitare. Tuttavia, l’attività di formulazione di nozioni autonome sembra vicina ad un’attività di vera e propria “creazione” sulla base di criteri logici insiti nel sistema, piuttosto che a un’attività di scoperta di significati preesistenti, la cui ricostruzione avvie-

doversi interpretare nello stesso modo per quanto riguarda le operazioni finanziarie e alle operazioni assicurative. Per un approfondimento v. g. Fransoni, Prestazioni di intermediazione esenti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, in Rass. trib., 2020, 342 ss. (64) Per quanto riguarda il rapporto tra il diritto tributario e le altre branche del diritto, e in particolare il diritto civile, v. a. Berliri, Sulle cause della incertezza nell’individuazione e interpretazione della norma tributaria applicabile ad una determinata fattispecie, in Giur. imp., 1976, 117 ss.; F. Bosello, La formulazione della norma tributaria e le categorie giuridiche civilistiche, in Dir. prat. trib., 1981, I, 1436 ss.; s. CiPollina, La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, Padova, 1992; F. PaParella, L’autonomia del diritto tributario ed i rapporti con gli altri settori dell’ordinamento tra ponderazione dei valori, crisi del diritto e tendenze alla semplificazione dei saperi giuridici, in Riv. dir. trib., 2019, I, 587-620. (65) Tra le sentenze più recenti v. Corte Giust., 25 luglio 2018, DPAS, causa C-5/17, p.to 28; Corte Giust., 28 febbraio 2019, Sequeira Mesquita, causa C-278/18, punto 16; Corte Giust., 14 marzo 2019, A & G Fahrschul-Akademie, causa C-449/17, p.to 18; sentenza Grup Servicii Petroliere SA, cit., p.to 19; Corte Giust., 20 novembre 2019, Infohos, causa C-400/18, p.to 29.

ne sulla base dei medesimi criteri logici [v. il prec. para. 4].

Precedentemente all’intervento definitorio della Corte, l’obbligo per i giudici nazionali di applicare disposizioni che utilizzano nozioni autonome conformemente al diritto europeo non solo comporta difficoltà per il giudice nazionale ma ha conseguenze evidenti in termini di certezza e uniforme applicazione del diritto. Successivamente all’intervento della Corte, il giudice nazionale deve comunque confrontarsi con i caratteri qualificanti delle nozioni [v. il succ. para. 5.3].

Occorre poi specificare che la scelta del giudice nazionale risulta particolarmente complessa nei casi in cui i chiarimenti offerti dalla Corte di Giustizia non siano stati recepiti formalmente dal legislatore o non abbiano dato luogo a una modifica o riformulazione della legislazione nazionale (66). In questo caso al giudice tributario è richiesta una conoscenza assai accurata della giurisprudenza europea (67).

L’origine giurisprudenziale della nozione comporta che spesso non si elaborino definizioni “compiute”, ma piuttosto che si dia rilievo ad un particolare profilo giuridico a seconda del caso di specie (68). All’interprete, quindi, non si forniscono in un unico momento tutti i caratteri qualificanti della nozione, a maggior ragione poiché quasi sempre l’individuazione e definizione di nozioni autonome avviene nel contesto di rinvii pregiudiziali aventi ad oggetto la qualificazione di determinate operazioni [v. il prec. para. 3.1]. Per questo motivo, l’individuazione dei caratteri costitutivi richiede uno sforzo ulteriore all’interprete e pone dei limiti al suo operato ricostruttivo.

Infine, il metodo di lavoro che caratterizza la Corte di Giustizia, come giudice per definizione multilingue, incide anche sull’elaborazione delle nozioni autonome. Le sentenze elaborate in contesti multilingue e multiculturali, frutto di un compromesso tra giudici appartenenti a tradizioni e culture giuridiche differenti, sono l’esito di negoziazioni impegnative e di difficile indagine da

(66) Ciò avviene, ad esempio, in Spagna, in cui molte delle conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza trovano spazio nella disciplina positiva che, di conseguenza, è particolarmente ricca e articolata. (67) F. gallo, L’applicazione d’ufficio del diritto comunitario da parte del giudice nazionale nel processo tributario e nel giudizio di cassazione, in Rass. trib., 2003, 435-455. (68) È il caso della nozione di “trasferimento della proprietà”, relativo alle cessioni di beni. In questo modo non solo si favorisce la comprensione e la circolazione delle nozioni in tutti gli ordinamenti dell’Unione, ma si rispettano anche le esigenze di neutralità concorrenziale che animano la concezione europea del tributo.

parte dello studioso la cui soluzione implica necessariamente un certo livello di approssimazione (69). Ciò è evidente nel caso dei termini vaghi oppure dei concetti giuridici “intraducibili”.

Il giudice nazionale, poi, si confronta con i testi tradotti delle sentenze. Malgrado la Corte suggerisca l’esistenza di un significato unico delle nozioni di diritto europeo, a noi sembra che la traduzione delle nozioni incida sulla formazione delle nozioni stesse poiché gli interpreti nazionali interagiscono e prendono in considerazione le nozioni come queste sono declinate nelle diverse versioni linguistiche. Dunque, eventuali questioni linguistiche o imprecisioni di traduzione possono incidere anche sulla corretta individuazione della nozione (70). Tali circostanze hanno evidentemente delle conseguenze per il giudice nazionale che, chiamato ad utilizzare le nozioni in contesti specifici, si trova a fare i conti con le conseguenze della difficoltà di elaborazione in sede europea rispetto ai casi concreti.

5.3. Ampiezza delle nozioni. – In terzo luogo, i giudici nazionali devono confrontarsi con la formulazione della Direttiva IVA che prevede nozioni estremamente semplificate oppure ampie rispetto a quelle interne e orientate alla funzione che sono chiamate a ricoprire [v. il prec. para. 3.1]. La giurisdizione nazionale recepisce la centralità dell’obiettivo dell’operazione, spesso riproponendo letteralmente la definizione europea. I giudici nazionali, ad esempio, in materia di cure mediche e ospedalizzazione richiamano direttamente la giurisprudenza della Corte di Giustizia e affermano che è “lo scopo della prestazione medica che determina se quest’ultima debba essere esentata” e che “se dal contesto emerge che il suo scopo principale non è quello di tutelare, vuoi mantenendola vuoi ristabilendola, la salute, ma un altro scopo, l’esenzione non è applicabile” (71). La definizione europea ampia, pur contribuendo a ripristinare la ripartizione originaria di competenze tra Unione

(69) C. sChäFFner - C.a. Beverly, The Idea of the Hybrid Text in Translation Revisited, in Acr. lang. cult., 2001, 277-302. (70) M.r. Ferrarese, Drafting e traduzione: un’insolita accoppiata. Si può scrivere il diritto in molte lingue?, in e. ioriaTTi Ferrari, La traduzione del diritto comunitario ed europeo: riflessioni metodologiche, Trento, 2007; k. MCauliFFe, Hidden Translators: The Invisibility of Translators and the Influence of Lawyer-Linguists on the Case Law of the Court of Justice of the European Union, in Lang. l., 2016, 5-29; e. Clay-k. MCauliFFe, Reconceptualising the Third Space of legal translation: a study of the Court of Justice of the European Union, in Comp. legiling., 2021, 93-126. (71) Cfr. Cass. 22577/2012, cit.

Europea e Stati membri tipica dei settori armonizzati, può risultare ambigua all’interprete che deve applicarla nell’ordinamento nazionale. La questione si pone in termini particolarmente problematici per i concetti (ad esempio, quello di “fondo d’investimento”) rispetto ai quali la stessa Direttiva IVA rinvia all’individuazione da parte degli Stati membri, in questo modo suggerendo la libertà del legislatore nazionale nella definizione della nozione (72).

Per quanto riguarda, invece, la valorizzazione di considerazioni relative alla sostanza economica [v. il prec. para. 3.1], la conseguenza è che spesso concetti, autonomi nelle tradizioni giuridiche nazionali, siano equiparati e inclusi nel medesimo concetto europeo oppure che ipotesi riconducibili allo stesso concetto in ambito nazionale non lo siano in quello europeo. La Corte di Cassazione, pronunciandosi riguardo alla nozione di “affitto e locazione di beni immobili” ha riconosciuto che la definizione - che deve essere individuata autonomamente dal corrispondente nazionale - “è stata formulata dalla giurisprudenza, in senso più ampio di quello contenuto nei diversi ordinamenti giuridici nazionali” (73). L’affermazione della Cassazione è coerente con quella della Corte di Giustizia la quale, proprio in relazione alla stessa nozione, ha affermato esplicitamente che la nozione di affitto e locazione è “per determinati aspetti più ampia di quella sancita dai diversi diritti nazionali” (74). Alla valorizzazione di questi aspetti alcuni ordinamenti, come quello italiano, avevano in passato guardato con diffidenza in nome della certezza del diritto che il ricorso a parametri strettamente giuridici garantisce. Di conseguenza, l’individuazione di definizioni ad opera della Corte di Giustizia implica uno sforzo nuovo per il giudice nazionale e il primato del diritto europeo, che le nozioni intendono assicurare, si scontra con vincoli d’interpretazione talvolta troppo generali per essere efficaci nell’ordinamento interno.

5.4. Valutazione dell’opportunità/doverosità del rinvio pregiudiziale. – Infine, al giudice nazionale spetta la scelta se operare il rinvio pregiudiziale. Secondo l’art. 267 TFUE ogni organo giurisdizionale può, e quelli di ultima istanza devono, operare il rinvio pregiudiziale qualora ritengano che la Corte di Giustizia debba pronunciarsi sull’interpretazione del diritto europeo e

(72) Art. 132 c. 1 lett. c); art. 135 c. 1 lett. g) della Direttiva IVA. (73) Cass. civ. Sez. V, Sent., 13 marzo 2009, n. 6138. Per un approfondimento v. C. Cornia, Le locazioni di immobili ai fini Iva tra interpretazione della norma e riqualificazione della fattispecie, in Rass. trib., 2005, 641-658. (74) Corte Giust., 26 aprile 2005, Goed Wonen, causa C-376/02, punto 49.

quindi che sia indispensabile rimettere a essa la questione interpretativa (75). Anche nel caso delle nozioni, la scelta del giudice nazionale se operare un rinvio pregiudiziale è fondamentale poiché l’elaborazione e la definizione dei suddetti concetti avviene proprio nelle sentenze relative a rinvii pregiudiziali.

Com’è noto, nella giurisprudenza europea, si è affermato che l’art. 267 TFUE non si applica qualora la disposizione sia stata già interpretata dalla Corte di Giustizia oppure se essa si sia già pronunciata su una questione identica (acte eclairé) (76). Inoltre, la possibilità di effettuare rinvio pregiudiziale è preclusa nelle ipotesi in cui la risposta si imponga con sufficiente evidenza da non lasciare spazio per alcun ragionevole dubbio (acte clair) (77). L’applicazione dei suddetti principi in relazione a nozioni non definite dalla Direttiva, ma definite nell’ordinamento nazionale, o il cui significato sia comunque ragionevolmente definibile in base ad esso, crea difficoltà per il giudice nazionale. Infatti, egli dovrà decidere se affidarsi alla definizione nazionale, se operare l’interpretazione conforme o, infine, se operare il rinvio pregiudiziale sulla base dei criteri individuati dalla giurisprudenza europea. Inoltre, se la Corte di Giustizia si è già pronunciata riguardo a una nozione, ma soltanto in relazione a determinati aspetti, la valutazione dell’opportunità di operare il rinvio pregiudiziale sarà ulteriormente complicata.

La scelta di operare il rinvio pregiudiziale, poi, avviene nella consapevolezza degli effetti ex tunc delle sentenze della Corte. L’efficacia ex nunc

(75) Per un approfondimento si rimanda a M. lagrange, L’action préjudicielle dans le droit interne des États membres et en droit communautaire, in Rev. trim. dr. eur., 1974, 268 ss.; g. raiTi, La collaborazione giudiziaria nell’esperienza del rinvio pregiudiziale comunitario, Milano, 2003; C. sChePisi, Rinvio pregiudiziale obbligatorio ed effettività della tutela giurisdizionale, Trieste, 2003; B. nasCiMBene, Il giudice nazionale e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2009, 1675 ss.; r. MasTroianni, Pregiudiziale comunitaria, in Dig. disc. pubbl., Torino, 2010; J. PerTek, Coopération entre juges nationaux et Cour de justice de l’UE. Le renvoi préjudiciel, Bruxelles, 2013; g. vandersanden, Renvoi préjudiciel en droit européen, Bruxelles, 2013. (76) Corte Giust., 27 marzo 1963, Da Costa, causa C-28/62. Per un approfondimento, v. a.P. dourado - r. da PalMa Borges (a cura di), The acte clair in EC direct tax law, 2008, Online Books IBFD; M.g.h sChaPer, A computational legal analysis of Acte Clair Rules of EU law in the field of direct taxes, in WTJ, 2014, 77-108; a. kornezov, The new format of the acte clair doctrine and its consequences, in Comm. mark. l. rev., 2016, 1317-1342. (77) Corte Giust., 6 ottobre 1982, Cilfit, causa C-283/81. Occorre specificare che i suddetti criteri sono stati recentemente messi in discussione nelle conclusioni dell’Avvocato generale Bobek del 15 aprile 2021, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, causa C-561/19, che ne ha proposto una revisione.

viene infatti limitata ai casi assolutamente eccezionali (78). Ciò è ben noto alla Corte di Cassazione che, nella già menzionata sentenza avente ad oggetto la nozione di “prestazioni mediche” (79), ricorda che le sentenze della Corte di Giustizia hanno efficacia retroattiva e che le pronunzie del giudice di Lussemburgo definiscono la portata della norma unionale così come avrebbe dovuto essere intesa ed applicata fin dal momento della sua entrata in vigore, richiamando a tale proposito la giurisprudenza della Corte costituzionale (80). Da ultimo, nell’ipotesi in cui la violazione del diritto europeo da parte di uno Stato membro sia imputabile al giudice nazionale, i soggetti pregiudicati hanno diritto al risarcimento del danno sulla base delle disposizioni del diritto nazionale del singolo Stato membro, anche quando ci si muove in un settore caratterizzato da ampio potere discrezionale (81). Le condizioni affinché ciò accada sono che la norma europea violata sia preordinata ad attribuire questi diritti; la violazione sia grave e manifesta; vi sia un nesso di causalità diretto tra la violazione e il danno subito dai singoli (82). Nel caso del rinvio pregiudiziale, poiché i giudici di ultima istanza hanno l’obbligo di rimettere la questione alla Corte di Giustizia in caso di dubbio, l’omesso rinvio riguardo alla portata di una nozione autonoma può comportare la responsabilità degli Stati con il conseguente risarcimento ai soggetti destinatari (83). Lo Stato è tenuto a ovviare alle conseguenze del danno provocato facendo riferimento alle norme

(78) In ogni caso, l’interesse finanziario dello Stato membro può diventare un fattore giustificativo della limitazione nel tempo delle sentenze della Corte, sebbene si sia preferito più spesso fare riferimento alla certezza del diritto, alla stabilità dei rapporti pregressi e alla buona fede (l. del FederiCo, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010, 148). (79) Cass. 22577/2012, cit. (80) Corte Cost., Sent., 23 aprile 1985, n. 113; Corte Cost., Sent., 18 aprile 1991, n. 168; Corte Cost., Sent., 16 giugno 1993, n. 285, Corte Cost. Ord., 14 marzo 2003, n. 62, in cui la Corte ha con continuità affermato che “le statuizioni interpretative della Corte di Giustizia delle Comunità Europee hanno, al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili, operatività immediata negli ordinamenti interni”. (81) Corte Giust., 19 novembre 1991, Francovich, causa C-6/90. (82) l. del FederiCo, Tutela del contribuente, cit., 160. (83) Corte Giust., 30 settembre 2003, Köbler, causa C-224/01; Corte Giust., 13 giugno 2006, Traghetti del Mediterraneo, causa C-173/03; Corte Giust., 24 novembre 2011, Commissione / Italia, causa C-379/10. Per un approfondimento v. g. aFFerni, La disciplina italiana della responsabilità civile dello stato per violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale di ultima istanza, in Nuova giur. civ. comm., 2007, II, 20261. Per quanto riguarda la responsabilità, e il conseguente risarcimento, in caso di contrasti giurisprudenziali v. Corte Giust., 9 settembre 2015, Ferreira da Silva e Brito, causa C-160/14.

del diritto nazionale relative alla responsabilità dei magistrati (84), nel rispetto del principio di equivalenza e di effettività del diritto europeo (85). Questa responsabilità funge da incentivo per gli organi dello Stato a introdurre nel proprio sistema nozioni europee o interpretare e applicare le nozioni del diritto nazionale in conformità a quelle europee. Al contempo, però, può creare difficoltà alla magistratura in ragione delle difficoltà appena evidenziate e, di conseguenza, aumentare significativamente la quantità di rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia per avere chiarimenti sulla portata delle nozioni.

6. Considerazioni conclusive. – Nell’esperienza attuativa e interpretativa dell’IVA emerge sempre più l’esigenza di creare concetti comuni che integrino l’attuazione della Direttiva e prevengano il rischio di disarmonie determinate dalle scelte attuative soprattutto in relazione ad ipotesi derogatorie, come nel caso delle esenzioni (86). Al contempo, l’imposta sul valore aggiunto è oggetto di numerosi rinvii pregiudiziali che rafforzano il ruolo della Corte di Giustizia nel determinare il significato della Direttiva IVA e, quindi, nel guidare l’interpretazione dei giudici nazionali (87). In questo contesto, la Corte di Giustizia ha assunto il compito di definire le nozioni rispetto alle quali è necessario garantire l’uniforme applicazione. Sebbene la giurisprudenza europea sostenga che i concetti relativi alle esenzioni costituiscono nozioni autonome di diritto europeo, in questo modo sottolineando la natura di nozioni autonome anche a prescindere dalla definizione giurisprudenziale, l’origine de facto giurisprudenziale ha avuto conseguenze rilevanti sugli ordinamenti degli Stati membri, coinvolgendo in particolar modo il giudice nazionale.

Il presente lavoro ha inteso analizzare, innanzitutto, i caratteri qualificanti di nozioni la cui ideazione ed elaborazione avviene nell’ambito della giuri-

(84) Nel nostro ordinamento l. 13 aprile 1988, n. 117. (85) Sentenza Köbler, cit., p.to 58. (86) Nel settore dell’IVA l’armonizzazione ha avuto luogo per mezzo di interventi normativi europei che l’hanno resa sempre più incisiva. V. a. di PieTro, L’incidenza del diritto dell’Unione europea sul diritto tributario - Cinquant’anni di dialettica tra imposizione nazionale e mercato europeo, in l.s. rossi - g. di FederiCo, L’incidenza del diritto dell’Unione europea sullo studio delle discipline giuridiche, Napoli, 2008, 291-304. Ciò è evidente anche quando si considera il fatto che le stesse fonti europee, sull’esempio offerto dagli ordinamenti di common law, offrono una lista di definizioni utili ai fini dell’attuazione, interpretazione e attuazione delle Direttive. (87) P. MarChessou - B. TresCher, Droit fiscal international et européen, Bruylant, 2018, 154.

sprudenza europea in relazione a concetti che hanno un correlativo legislativo che rimane indeterminato (88) e l’importanza del ruolo del giudice in relazione ad essi. Inoltre, ha proposto una riflessione sul recepimento e sull’interazione tra giudice europeo sovraordinato e giudice nazionale che, pur nel doveroso rispetto del diritto UE, da un lato, mantiene una certa discrezionalità nell’attività ermeneutica anche quando compie interpretazioni euro-orientate e, dall’altro lato, si trova a dover affrontare le difficoltà causate dall’origine e dai caratteri delle nozioni.

Infatti, l’origine giurisprudenziale delle nozioni implica che esse intervengano in un momento successivo rispetto alla trasposizione della Direttiva. Poiché spesso esse, almeno nell’ordinamento nazionale, non risultano in una modifica legislativa, il giudice è chiamato a interpretare e applicare i concetti nazionali alla luce dell’ordinamento europeo. Ciò richiede, innanzitutto, al giudice nazionale una conoscenza approfondita e costantemente aggiornata della giurisprudenza europea.

Inoltre, questo scenario attribuisce al giudice nazionale la responsabilità di applicare ai casi concreti norme che incorporano concetti ampi, non definiti precisamente e declinati in chiave funzionalistica. I caratteri delle nozioni, infatti, sono funzionali al perseguimento degli obiettivi dell’Unione, ma creano non poche sfide per i giudici nazionali. Essi devono valutare l’opportunità della nozione utilizzata dal legislatore nazionale; in caso di disallineamento devono interpretare la nozione nazionale alla luce delle indicazioni fornite in sede europea e rendere le suddette ampie definizioni sufficientemente circostanziate da essere applicabili al caso di specie.

Infine, sul giudice nazionale grava la responsabilità di scegliere se operare il rinvio pregiudiziale nei casi in cui il dubbio sulla portata del concetto non possa essere risolto in via interpretativa dal giudice nazionale stesso.

Tali circostanze, oltre che suscettibili di causare la responsabilità risarcitoria dello Stato, e quindi indirettamente un aumento del numero di rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia, può comportare una minore tutela delle esigenze del contribuente (89). Egli si trova a confrontarsi con le conseguenze

(88) Salvi alcuni casi di concetti “definiti” dai Regolamenti-Direttive, come il Regolamento di esecuzione 282/2011/UE del Consiglio del 15 marzo 2011 recante disposizioni di applicazione della Direttiva 2006/112/CE relativa al sistema comune di imposta sul valore aggiunto, che fornisce la definizione dei “servizi prestati tramite mezzi elettronici”. (89) V. l. Perrone, L’armonizzazione dell’IVA: il ruolo della Corte di Giustizia, gli effetti verticali delle direttive e l’affidamento del contribuente, in Rass. trib., 2006, 423 ss.

della difficile interpretazione e applicazione delle nozioni in ambito nazionale, non potendo attivare direttamente né la procedura di infrazione, né il rinvio pregiudiziale. Inoltre, in entrambi i casi si tratterebbe di rimedi ex post, insufficienti a garantire la certezza del diritto (90). Anche per quanto riguarda l’efficacia diretta delle disposizioni unionali, essa non è automatica dal momento che non sempre è agevole stabilire la natura condizionata o meno delle disposizioni relative alle esenzioni e ciò richiede, comunque, una conoscenza approfondita della giurisprudenza europea da parte del contribuente e del giudice.

In conclusione, la questione fondamentale che si è cercato di argomentare in questo lavoro è che l’introduzione da parte della Corte di Giustizia di quella che potremmo chiamare la “dottrina” delle nozioni autonome, in particolare in alcuni comparti della disciplina IVA come le esenzioni, al fine di rafforzare l’uniforme applicazione del diritto europeo, costituisce uno dei fattori dell’armonizzazione che, invece di ridimensionare il ruolo del giudice nazionale, concorre a renderlo decisivo, accrescendone al contempo la responsabilità.

alessia Fidelangeli

(90) Per un approfondimento, v. del FederiCo, Tutela del contribuente, cit., 37 ss.

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