Prendersi cura. Pensieri in tempo di crisi.

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ANTONIO DE LUCA

PRENDERSI CURA

pensieri in tempo di crisi





ANTONIO DE LUCA

PRENDERSI CURA pensieri in tempo di crisi


Progetto grafico e impaginazione: Massimo La Corte

Š 2020 Diocesi di Teggiano-Policastro Piazza V. Vignone, 1 - 84039 Teggiano SA comunicazioni#diocesiteggiano.it www.diocesiteggiano.it

ISBN 978-88-322-2221-0


Presentazione Queste pagine raccolgono note di viaggio, pensieri generati in un momento di crisi, che Padre Antonio De Luca, Vescovo di Teggiano-Policastro, ha voluto condividere attraverso un messaggio quotidiano con sacerdoti, diaconi, seminaristi, operatori pastorali, persone sole e ammalate, famiglie impegnate ad affrontare il difficile momento storico. Il primo compito del Vescovo, come più volte ci ha ricordato Papa Francesco, è la preghiera, che genera anche concretezza e ragionevolezza. In questa ottica, all’insorgere dell’emergenza coronavirus, è stato decisivo per il nostro Vescovo imprimere un impulso alla carità con innumerevoli iniziative, soprattutto per i più vulnerabili, le famiglie, gli immigrati e quanti si sono ritrovati nell’estremo bisogno. La sollecitudine pastorale si è fatta vicinanza e solidarietà attraverso il sostegno della Conferenza Episcopale Italiana, della Caritas Italiana e delle risorse diocesane che paternamente e nella discrezione il nostro Vescovo ha orientato verso i più bisognosi. La carità, nella concretezza di gesti e relazioni, ha permesso di incontrare e curare le ferite. Dando forma alla “fantasia della carità”, tanto sollecitata da Papa Francesco, sono scesi in campo i parroci con instancabile alacrità, le comunità, le associazioni, in una grande mobilitazione di solidarietà, sostenendo anche progetti umanitari di gruppi, le unità ospedaliere del territorio e numerosi altri bisogni. Insieme agli interventi di sostegno e solidarietà, in questi giorni così difficili, avvertiamo quanto mai la necessità di parole di consolazione e di speranza, che il Vescovo non ci ha fatto mancare condividendo con noi le sue le riflessioni. Non si tratta di elucubrazioni teoretiche, ma di semplici pensieri del padre, che è anche compagno di viaggio, e vuole raggiungere ognuno per dirgli di non sentirsi solo in questo cammino. 5


Molti dei percorsi della vita sono in salita, ma quello della pandemia ci ha messi tutti a dura prova. I sentieri che stiamo percorrendo sono faticosi, richiedono impegno, forza, tenacia, pazienza ed anche estenuante allenamento. Non eravamo affatto preparati! Ci siamo attrezzati giorno per giorno, imparando innanzitutto che quando si è sul crinale bisogna camminare con passo deciso, senza farsi suggestionare da ciò che si abbandona e senza distogliere lo sguardo dalla meta che si ha davanti. Si sa, in salita si affanna, il respiro si fa corto, si arranca, ma la salita sprona anche a tirare fuori il meglio di sé. Talvolta ci si sente soli, altre volte la meta appare lontanissima, spesso si perdono anche valorosi compagni di viaggio, ma si procede con la consapevolezza che, come ci ricorda Papa Francesco, Gesù “è come un capo cordata quando si scala una montagna, che è giunto alla cima e ci attira a sé conducendoci a Dio”1. I messaggi del Vescovo sono nati in giorni difficili di smarrimento e paura, di grande incertezza, di preoccupazione e di pianto; giorni che al contempo hanno visto il rafforzarsi della speranza alimentata dalla preghiera e l’accrescersi di una meravigliosa carità, fatta di tanti piccoli e grandi gesti, a testimonianza della fede e della solidarietà delle nostre comunità. In salita non si parla molto per non sciupare le resistenze del respiro, si sussurrano parole di incoraggiamento, si condivide lo stupore di fronte alle prospettive bellissime di una montagna, di ruvide scogliere scoscese o di strapiombi mozzafiato. Così i messaggi del Vescovo ci hanno provvidenzialmente raggiunti nei giorni della forzata reclusione nelle nostre case, nelle salite della triste ferialità, nella stanchezza monotona del trascorrere quotidiano, per “prendersi cura”, sostenendo, confortando, consolando e stimolando ad una salutare riflessione attraverso il silenzio e la preghiera. 1

FRANCESCO, Udienza generale, 13 aprile 2013.

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Nell’imminenza della Pasqua, raccogliendo la sofferenza di sacerdoti e fedeli per non poter ritrovarsi insieme a Celebrare i Sacri Riti, il Vescovo ha voluto poi offrirci anche le preziose riflessioni sulle sette parole di Gesù in croce, una tematica cara alla tradizione popolare, con solido fondamento biblico, perciò capace di vivificare anche opere e giorni che Cristo Crocifisso e Risorto ci dona. Un passaggio di un articolo pubblicato da Avvenire agli inizi dello scorso mese di marzo, mi sembra possa ben sintetizzare il messaggio di speranza che il Vescovo vuole consegnarci in queste pagine: “Ci sono giorni terribili in montagna pieni di nebbia e tormente nei quali le nevicate sono di solito intense. Appena la perturbazione cessa e arriva una giornata di sole pieno con celi tersi, possiamo contemplare un paesaggio incantato pieno di alberi carichi di neve. Siamo dentro quest’emergenza e questa tormenta, ma dobbiamo tenere gli occhi fissi al giorno dopo. Quello in cui ci riapproprieremo della nostra libertà piena con ancora maggiore gioia di vivere. Possiamo vivere già adesso dentro quest’attesa carica di speranza. E renderla utile”2. Il nostro Vescovo, fedele al carisma Redentorista e al programma del suo ministero episcopale - “Purché in ogni maniera, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene…”(Dum omni modo Christus adnuntietur - Fil 1,18) -, ci insegna ad abitare i giorni ed il tempo con entusiasmo e coraggioso servizio. A lui va la sincera gratitudine della nostra chiesa Diocesana.

Massimo La Corte Ufficio diocesano per le comunicazioni sociali

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L. BECHETTI, La tempesta e il giorno dopo che verrà. Coronavirus, prepariamoci al tempo buono, in Avvenire, 7 marzo 2020.

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SI INDEBOLISCE UN MITO E RINASCE UNA VISIONE Siamo entrati in giorni di prova e con indicazioni ancora più restrittive. Anche oggi nella preghiera il mio pensiero raggiunge tutti voi, le vostre famiglie, gli anziani e gli ammalati. La crisi di questo tempo mette tutto in discussione. Richiede ripensamento degli stili di vita, accortezza nei consumi, prudenza nei contatti e, finalmente, l’accantonamento di una brillantezza esasperata del mito dell’immagine, dell’efficienza, delle prestazioni e dell’istantaneità delle risposte. Non siamo onnipotenti! Anche la scienza con la rapidità dei suoi successi è costretta ad attendere. Tuttavia la contingenza deve permettere la rinascita di una visione che sottolinei il “più umano”, il “più umile”, il “più essenziale” ed il “più ragionevole”. È la logica della sostenibilità contro il delirio dell’individualismo. È anche urgente avvertire ciò che in questo tempo di crisi ci manca veramente: ci manca l’incontro, ci priviamo dell’affetto di un abbraccio, del suggello impegnativo di una stretta di mano, di un minuto trascorso in un luogo pubblico, della vitalità dei giovani nelle nostre strade, sembra tutto inverosimile. Noi cristiani avvertiamo la mancanza dell’Eucarestia e con essa della comunità adunata in preghiera. Forse distratti e abitudinari siamo ora messi di fronte a un giudizio, si perché la mancanza è sempre un giudizio! Ora è il momento di riscoprire una visione cristiana del tempo e della vita, delle nostre domeniche, dei nostri spazi di libertà, dei nostri incontri, non per uno sterile rimpianto, ma per una ritrovata speranza di impegno, per una riscoperta di profondità e di motivazioni. In un libretto dal titolo “Del buon uso delle crisi”, Christiane Singer, una pensatrice recentemente scomparsa, scrive: “Nel

corso della vita ho raggiunto la certezza che le crisi servono ad evitarci il peggio. Sapete che cosa è il peggio? È aver trascorso la 9


vita senza naufragi, è esser sempre rimasti alla superficie delle coseâ€?. Benedico tutti di cuore.

Teggiano, 10 marzo 2020

MartedĂŹ della II settimana di Quaresima

+ p. Antonio De Luca

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ASSEDIATI DALLA PAURA Il tempo strano di questi giorni è segnato dall’umano sentimento della paura. Un nemico silenzioso e virale ha minacciato le relazioni, gli spazi, i tempi, la quotidianità degli impegni. Un vortice ha forzatamente trasfigurato la pace della preghiera comunitaria, ha reso irriconoscibile la Domenica, ha eliminato la gioia di un abbraccio, il compiacimento di una stretta di mano, la pacatezza di una fraterna e cordiale conversazione, anch’essa delimitata dalla necessaria distanza. Le precauzioni hanno determinato misure restrittive. Una paura ci sovrasta, genera diffidenza e perplessità. Ma è anche necessario imparare a cogliere nella docile sottomissione a misteriosi eventi della vita, ciò che può rimanere come insegnamento e come monito. La paura di questo momento è anche un allenamento spirituale che ci educa al rispetto del limite, che ridimensione il delirio della prevaricazione e dell’efficienza. Assediati dalle paure, quelle che accompagnano ordinariamente la vita, corriamo il rischio di porre domande sbagliate, dinanzi alle quali di conseguenza si generano risposte sproporzionate ed errate. Talvolta la paura della sofferenza, della perdita, dell’incapacità a fronteggiare la vita, desta in alcuni reazioni scomposte, negative e insulse. Quando poi l’emergenza è reale e pericolosa come quella odierna del covid-19, assistiamo ad una incosciente spavalderia e ad una banale sfrontatezza da parte di pericolosi impavidi ai danni della collettività. Diventa quanto mai valido ed attuale il pensiero dello scrittore Graham Greene: «ho paura dell’uomo che non ha paura». Gesù, nell’amara solitudine della Croce, e ancor prima nel tradimento di Giuda e nelle tenebre del Getsemani, vive intensamente la paura. Solo nell’abbandono fiducioso al Padre e nella resa al progetto salvifico, gli eventi acquistano un senso e diven-

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tano Redenzione. Avvinti dalla paura e senza un tentativo di sussulto umano e spirituale corriamo il rischio di svuotare tutti gli sforzi e ogni responsabilità. Solo l’amore dissolve lo spettro dell’angoscia e del timore, “nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timor” (1Gv 4,18). Anche nella paura si apre un compito ed una missione, è bello quanto scrive don Cesare Sommariva, prete operaio della diocesi di Milano: «A conclusione di tutto, possiamo porre le tre leggi

dell’umano educatore: non aver paura, non far paura, liberare dalla paura. Quello che conta e una relazione nuova, in cui non ci sia nulla che possa avere a che fare con la paura». Vi ricordo tutti nella preghiera e vi benedico di cuore.

Teggiano, 11 marzo 2020

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PRENDERE LE DISTANZE L’incalzare di un pericoloso contagio determina limitazioni e restrizioni al fine di salvaguardare la salute e l’incolumità delle persone. Risuona insistente l’invito a prendere le distanze gli uni dagli altri, se vogliamo aiutarci dobbiamo effettivamente distanziarci. Con sofferenza dobbiamo privarci di quelle esternazioni di amicizia e di fraternità che sono il nostro modo ordinario e immediato di comunicare, di esprimere vicendevole gratitudine, affetto ed accoglienza. Per un bene più grande dobbiamo imparare le piccole privazioni. Le vittime dei disastri legati agli incendi, vanno collocati nei padiglioni dei grandi ustionati, in un ambiente asettico, sterilizzato; visite e conversazioni avvengono attraverso una vetrata protettiva e con l’utilizzo di un telefono: se vogliamo aiutare i grandi ustionati, non bisogna toccarli. È doloroso, ma è così! Al di là di questa immagine vorrei indicare un esercizio interiore che nasce dalla vigilanza, dalla lotta spirituale, dal prudente discernimento che ci induce a prendere le distanze in alcuni frangenti della vita. Quando il rischio dell’omologazione e gli slogan possono determinare scelte decisive sulla vita, sull’etica, sulla fede e addirittura su Dio. Sono quei grandi crocevia dell’esistenza nei quali ogni scelta deve essere soppesata alla luce della responsabilità e delle conseguenze che portano con sé. Educarci a prende le distanze è un allenamento di alto profilo umano. Evoca un recupero di responsabilità e di un impegno fatto di obiezioni e dissociazioni, persino di disobbedienza, per riaffermare i valori originari legati alla dignità delle persone e delle autentiche democrazie. Prendere le distanze significa far crescere quella geniale intuizione cristiana che si chiama coscienza, santuario inviolabile: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce 13


risuona nell’intimità” (GS 16). In questa forzata immobilità ci stiamo allenando a prendere le distanze dalla frenesia delle risposte immediate, dal delirio dell’istantaneità della soluzione e anche da una certa idea di progresso: «Progresso significa liberarsi dai ceppi del potere magico e tirannico, anche dai ceppi del progresso [...] Si potrebbe dunque affermare che il progresso si realizza davvero là dove si ferma» (Theodor Adorno). Questo blocco non previsto ci sta introducendo gradualmente nella dimensione dell’attesa e della preghiera. E questo deve rimanere per sempre! Con affetto vi assicuro la mia preghiera e vi benedico.

Teggiano, 12 marzo 2020

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DALLA CONSOLAZIONE ALL’INNAMORAMENTO Sopravvissuta ad alcuni retaggi religiosi del passato, permane ancora la visione che ogni sciagura, ogni cataclisma, i terremoti, le alluvioni ed anche un’epidemia come quella da covid-19, sono il giusto castigo divino all’umanità corrotta e peccatrice. È la visione di una religiosità repressiva, punitiva e colpevolizzante. S’immagina il volto rabbioso di un Dio autoritario e dominatore, che certamente non è il Dio rivelato in Gesù Cristo. Dio non distrugge, ma crea e redime; Dio non abbandona, ma si fa prossimo. Non poche volte il ricorso al fatto religioso diventa una scelta appagante e consolatoria. E se l’umanità spigliata, autonoma, egoista e disinibita ha esiliato Dio, ci si illude poi di riproporne l’onnipotenza attraverso tematiche anacronistiche, suscitando ancestrali sensi di colpa. È necessario passare dalla consolazione della religiosità, all’innamoramento della fede, per una matura relazione d’amore con Dio. Non basta la dimensione appagante della vita religiosa, è necessario entrare in una dinamica di conoscenza, di frequentazione, di impegno, di unicità e di appartenenza, che è tipico di chi si innamora di una persona, di un progetto, di un ideale. L’uomo innamorato di Dio, scopre che Egli è generatore di libertà ed è rispettoso dell’autonomia, conferisce dignità, ci dona Gesù, uomo della gioia e gioia dell’uomo. L’innamoramento, anche nella dinamica della fede, è sempre ansioso di ulteriori conquiste e di consensi solidi, quelli dell’amore irrevocabile e sponsale. Avvertiamo che in questi giorni di spettrali vuoti ci manca la fatica della ferialità, l’avvicendarsi di impegni, la privazione di gesti e modi di fare che raccontano la nostra passione per la vita, per il servizio, per l’incontro. Ha fatto scalpore la sofferta decisione delle chiese chiuse,

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forse possiamo anche ricominciare a rileggere le vicende alla luce degli stimoli che ne nasceranno, per vivere con passione nella Chiesa sposa di Cristo. “Una Chiesa brava non attira nessuno, perché è solo una Chiesa bella che fa innamorare. Abbiamo una Chiesa intraprendente, stanca per quanto bene realizza, che però non affascina nessuno e dietro la quale non si incammina nessuno. Siamo bravi, ma nessuno ci vuole seguire”3. È insufficiente accontentarsi solo di consolazione, bisogna avere il sussulto di un infinito innamoramento di Dio e del prossimo. Benedico di cuore tutti e vi ricordo nella celebrazione quotidiana dell’Eucaristia.

Teggiano, 13 marzo 2020

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M. RUPNIK, Quando la bellezza giudicherà il bene, in Avvenire, 3 giugno 2015.

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FRONTIERE E PORTE CHIUSE Al primo insorgere del fenomeno covid-19 nell’Oriente lontano, furono pensati e messi in atto con una certa immediatezza tutti i dispositivi per bloccare il contagio. Il primo passo fu la chiusura degli aeroporti ai voli provenienti da quelle regioni e poi controlli meticolosi a chi rientrava o aveva trascorso un periodo a contatto con quelle popolazioni. Controlli a trappeto e frontiere sanitarie. Allarmi per bloccare il flusso della mobilità umana. Quando l’insidia virale ha fatto poi capolino nei patri confini, gli stessi italiani hanno provato a proprie spese il blocco alle frontiere, i porti chiusi alle navi da crociera, gli interminabili controlli e in alcuni casi i respingimenti. Una sensazione di grande tristezza. È arrivato poi l’obbligo di rimanere in casa, la chiusura dei locali di ritrovo, la privazione dei momenti di culto. Barriera sono diventate le mura domestiche, le chiese e i musei chiusi, le saracinesche abbassate. Una fase dolorosa, ma necessaria nella valutazione di chi governa il paese. Al di là di tutto sperimentiamo quanto è amaro ed insopportabile l’impatto con una frontiera insormontabile, con una porta sbattuta in faccia, con un mutismo che si fa abisso, con i conflitti che diventano muri. E, si sa, negli ultimi decenni i muri si sono moltiplicati, la frenesia securitaria ha scavato trincee di morte, il mare nostrum è diventato barriera, alle frontiere c’è la tecnologia, i droni, le fototrappole, le telecamere. A questi si aggiungono le barriere invisibili, anch’esse insormontabili: giudizi, sguardi indagatori, rifiuti. La patologia delle frontiere si fa incomunicabilità. La discriminazione etnica, religiosa, culturale, economica, geografica, sanitaria, induce a chiudere i porti, s’innalzano fili spinati, si edificano nuove cordigliere.

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L’incontrollabilità del contagio che viviamo in questi giorni ci ricorda che non esistono barriere che tengano, né portali che proteggano; sulla groppa dell’egoismo viaggia veloce il covid19, ma anche la spregiudicatezza e l’indifferenza di chi crede di poter fare da solo e di poter fare meglio. La lezione è che nella vulnerabilità ci salva solo la solidarietà. Siamo precipitati in quel disagio contemporaneo che il noto psicanalista Massimo Recalcati, definisce “nuove melanconie”: «Si tratta di una sofferenza che ha come tratto fondamentale il dominio della pulsione securitaria su quella erotica, della chiusura sull’apertura, della difesa sullo scambio. Una melanconia senza senso di colpa, senza delirio morale, … che suffraga la spinta della vita ad uscire dalla vita, a rifiutare la contaminazione inevitabile e necessaria della vita»4. Benedico di cuore tutti.

Teggiano, 14 marzo 2020

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M. RECALCATI, La tentazione del muro, in La Repubblica, 30 novembre 2019.

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MARE NOSTRUM

Migranti e accoglienza nell’area del Mediterraneo è il tema predominante sulla scena del dibattito pubblico quotidiano, sia sul fronte sociale che su quello politico. Un’area come “frontiera di pace”, oppure, come osservano alcuni, muro, barriera, persino tomba? Molte considerazioni sulla delicatissima questione delle migrazioni degli ultimi decenni nel bacino del Mare Nostrum, attraversano gli interessi e le preoccupazioni della politica, dell’economia, dell’istruzione e del mondo ecclesiale a diversi livelli. Papa Francesco rivolge lo sguardo ad interessi di più alta portata con l’invito ad una visione planetaria di fraternità universale, unica opzione capace di generare futuro per le comunità attuali e le nuove generazioni. Bergoglio, nondimeno, invita i credenti a cogliere in questa strutturale modifica della geopolitica un reale “segno dei tempi”, che interpella ogni coscienza, reclamando essenzialmente una ripresa delle relazioni interpersonali e la realizzazione di un più ampio progetto, di un nuovo umanesimo, alla luce dell’Uomo nuovo. È urgente superare i luoghi comuni e le paure, ma anche respingere gli insulti urlati come slogan. Ciò che serve è una visione planetaria del “noi”. Nessuno può entrare in una simile tematica articolata e complessa con la supponenza di offrire soluzioni semplici ed immediate, né la particolare complessità può indebolire il desiderio di offrire un aiuto alla discussione e alla crescita collettiva. Nell’approccio multidisciplinare alla tematica delle migrazioni e della mobilità umana, si possono aprire spiragli inediti e prospettive umanamente vantaggiose per la reciproca comprensione e per edificare quei valori cristiani della solidarietà e della sussidiarietà che la Dottrina sociale della Chiesa sostiene con energico vigore.

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Siamo nel tempo delle fragilità e dell’istantaneità emotiva, comunicativa e relazionale, ma è necessario riscoprire nuove visioni. Il cammino articolato e complesso dell’incontro e dell’integrazione deve accompagnare i molteplici sforzi, ma anche alimentare il vero desiderio di ogni umana promozione. Paolo VI, nella Populorum progressio, scrive: «Lo sviluppo integrale dell’uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità»5. L’essere e l’agire della Chiesa, sottolinea Papa Ratzinger, hanno non a caso come precipua finalità la promozione dello sviluppo integrale dell’uomo. Vi benedico con affetto.

Teggiano, 15 marzo 2020

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PAOLO VI, Lettera enciclica Populorum Progressio, n. 43.

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TEMPO DI DOMANDE Interrogativi e domande accompagnano la nostra esistenza. Una sana inquietudine genera domande sul senso della vita, sui grandi perché che riguardano la sofferenza degli innocenti, la presenza del male nel mondo, le ingiustizie persistenti, le malattie, le pestilenze, le carestie e, infine, la domanda decisiva sul perché della morte. La storia del pensiero umano è sempre riandata costantemente ad un interrogativo decisivo: se Dio c’è, perché il male (si Deus est unde malum)? Nonostante la nostra attitudine ad offrire risposte, non siamo ancora riusciti, fortunatamente, a bloccare quest’anelito di sapienza che nasce dal cuore dell’uomo. Un’intrepida voglia di vicinanza ci spinge ad offrire sempre risposte. Spesso domande appena balbettate vengono occluse da risposte non richieste, stantie, che rasentano l’ovvietà dei luoghi comuni e la stanchezza della continua ripetizione. Bisogna educare alle domande, amarle, poiché sono il segno di un sapere incipiente, di una sapienza che vuole volgersi alla completezza. Bisogna contemplare la sconcertante bellezza delle ingenue domande dei bambini, la curiosità dei giovani, la docile umiltà di un adulto che pone domande: sono il segno di un circuito che vuole sormontare le visioni precostituite e si lancia nella coraggiosa prospettiva di riuscire a vedere oltre. Ecco il senso di ogni domanda: aprire varchi verso orizzonti sorprendenti! Di fronte alle vicende della storia collettiva, familiare e personale, riemergono dei laceranti “perché?” ai quali neanche la felice alleanza tra scienza e fede riesce a dare risposte esaustive, né a quietare il tormento di un anelito e il desiderio di una visione. Nelle domande risiede la vera maturità dell’animo umano. Chi pone domande si allena all’attesa, argina la dittatura dell’istan21


taneo, dà il tempo alle emozioni di generare sentimenti, poi progetti, quindi segni. Le domande sono un’esercitazione di lungo corso che apprendono a guardare come risorse anche le cadute, le lotte, le sconfitte e ad abbracciare con soddisfazione i traguardi, le mete e la fatica che le accompagna. Molte domande sono apertura al mistero, all’infinito, all’eterno, sono attesa di vita. È presuntuoso credere di possedere una risposta se non quella nobilissima del silenzio e dell’attesa. A tal proposito, mi piace ricordare il poeta Rilke: «Cerca di amare le domande… Non cercare ora le risposte… non saresti capace di convivere con esse. Vivere le domande ora. Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga, di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta»6. Vi ricordo tutti nel Signore e vi benedico.

Teggiano, 16 marzo 2020

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R. M. RILKE, Sii paziente, Lettere ad un giovane poeta, Adelphi.

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CAMBIAMENTO D’EPOCA Abbiamo sentito ripetere più volte da papa Francesco che

questa non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca. Ascoltando acconsentiamo, siamo convinti, lo viviamo, ma talvolta non riusciamo poi a concettualizzare cosa sia realmente scomparso, cosa stia tramontando e qual è il nuovo che nasce. Certamente appare indiscutibilmente vera l’attuale frenesia di una totale emancipazione dell’essere umano. Si è creduto di dover organizzare l’esilio di Dio, poi la rivolta della cultura contro la natura e l’affermazione di un relativismo sulle verità, per giungere ad un esasperato individualismo in cui ciascuno diviene misura unica delle cose. Il progresso, lo sviluppo e la tecnica, da sempre concepiti al servizio dello sviluppo umano e del benessere del pianeta, sono diventati anche strumenti contro l’uomo e contro il creato. Si pensi alle armi di sterminio di massa, alle guerre batteriologiche o alle sperimentazioni nucleari che nei decenni scorsi hanno devastato autentici paradisi naturali. E poi lo sfruttamento incondizionato delle risorse non rinnovabili. La sostenibilità è stata coniugata con lo spingere fino al limite di sopportazione e non con la cultura del rispetto e della cautela. La mobilità umana ha impresso una velocità di scambi e di contatti che, se per una parte degli esseri umani è coincisa con conquiste e crescita, per altri ha significato trasmissione di strutture economiche di sfruttamento del lavoro, di esseri umani e di risorse naturali. La diffusione di nuovi stili di vita e visioni del mondo hanno accentuato le profonde ineguaglianze tra ricchi e poveri, tra nord e sud del mondo! Questa accelerazione ha provocato sì una globalizzazione, ma quella dell’indifferenza. Eppure la passione per il cambiamento è una virtù eminentemente cristiana. Essa cerca di imprimere una sana relatività alle 23


ideologie, agli stili di vita, al presente, per cogliere al di là di nostalgie e di rimpianti modalità nuove e inedite di vivere la storia, i legami, gli impegni in rapporto alla mondialità e alla fratellanza universale. È questo il senso autentico della globalizzazione. Senza l’attitudine alla profezia e la forza vigorosa del cambiamento mai faremo avvicinare il tempo delle promesse di Dio, quel «ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,53). La passione cristiana per il cambiamento sconfigge la delusione, la disperazione e quella “epidemia globale di nostalgia”, che è parola d’ordine di ogni populismo e programma riconosciuto di ogni restaurazione. Oggi a noi tocca guardare al futuro! Tutti vi ricordo in Gesù Redentore.

Teggiano, 17 marzo 2020

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LA FATICA DI CREDERE La fede è prima di tutto consapevolezza di rispondere personalmente all’amore che Dio ha per ciascuno di noi. Eppure, il vocabolario cristiano e quello religioso sono confinati spesso in una zona d’ombra, sia nella vita di molti adulti che nelle motivazioni delle nuove generazioni. Tuttavia, per fortuna, non sempre si nutre verso Dio la stessa forma di ostilità che si riserva alla Chiesa. Nonostante ciò, permane una diffusa indifferenza verso i temi di fede, salvo l’assenso generico ad una incompiuta sete di infinito, vago e sincretista, che non sempre coincide con il Dio di Gesù Cristo. Sui temi morali, invece, subentra spesso l’irritazione e la diffidenza. Una parvenza di confluenza riaffiora sulle sfide della solidarietà, sulla pace e sui temi ambientali, che certamente costituiscono il nuovo obiettivo che la famiglia umana deve perseguire, pena la dissoluzione totale Non è stato mai facile credere, nel senso di una fede come abbandono/fiducia. Il Libro Sacro, che ci consegna la storia di fede di tanti uomini, evidenzia talvolta il dramma di chi si sente deluso dall’aver contato su Dio e la paura dell’essersi consegnati ad una Divinità spesso silenziosa. La fede è fatta di dubbi, di tormenti, persino di tradimenti e di confusioni, ma ciò che non può mancare è il libero e sincero impegno a fare spazio al Trascendente. Perché è questa inquietante presenza che rimette sulla giusta direzione l’umanesimo, l’ambientalismo, la solidarietà, la lotta per la giustizia. Questi non possono ridursi a delle pur belle sfide di un lodevole orizzontalismo, ma devono aprirsi ad una vocazione soprannaturale, che giustifica e motiva le scelte etiche nel presente e la speranza di un futuro. Inspiegabilmente, si è fatta talvolta coincidere l’emancipazione dell’uomo con la totale esclusione di Dio. Quasi che i due fossero antagonisti, in un rapporto di miserevole schiavitù. Ma

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Dio non oltraggia l’uomo, la sua presenza accanto è generatrice di libertà, di dignità, di autenticità. Mai porre Dio contro o in alternativa all’uomo. Il Dio di Gesù Cristo è un padre che accompagna l’uomo verso l’autentico bene, indicandogli un destino di sovrumana felicità. Senza Dio questa è una impossibile chimera. Un giovane scrittore svedese, tragicamente scomparso negli anni cinquanta, annota: «Mi manca la fede e, quindi, non potrò mai essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa»7. Qui solo la fede, con fatica, può aprire altri spiragli! Nel costante ricordo nella preghiera, vi benedico.

Teggiano, 18 marzo 2020

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S. DAGERMAN, Il nostro bisogno di consolazione, Iperborea.

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SOGNARE IN TEMPO DI CRISI Siamo nel tempo di una crisi profonda, accompagnata dalle necessarie restrizioni che hanno l’intento di circoscrivere il contagio del pericoloso Covid-19. Una crisi non è mai evento isolato, ha sempre sensibili ricadute nell’ambito dell’economia, del lavoro, delle relazioni, della politica e della fede. Tutto è connesso, ci ricorda Papa Francesco. Eppure, ogni crisi ha anche delle opportunità nascoste e porta in sé dei preziosi stimoli in rapporto ad una rinnovata crescita. Essa spinge a trovare nuove soluzioni, altri rimedi, che non possono consistere in un vano ristabilimento delle cose passate, ma postula una creativa e geniale ripresa di generatività. La crisi porta in seno fecondi semi di rinascita. Siamo con le spalle al muro, l’organizzazione cerca di fronteggiare, le strutture scricchiolano, la paura si diffonde, tuttavia bisogna saper sognare. Non come esercizio alienante e incantato che alimenta una sterile attesa, ma un sognare che è l’arma dei coraggiosi per poter osare l’impossibile: «Soltanto chi mette a prova l’assurdo è capace di conquistare l’impossibile»8. Inteso in tal senso, il sogno è un guardare il futuro ad occhi chiusi, pregustandone la bellezza e intercettandone tutte le risorse per il raggiungimento di mete e obiettivi grandi, anche a costo di dolorosissimi sforzi. Guardare oltre il presente contingente, per non restarne schiacciati e avvinti da esso. Con la pretesa di riportare i “piedi per terra”, in tanti ripetono l’ordine perentorio: “smetti di sognare!”. Ma è proprio questo “sognare” che bisogna alimentare e proporre come prospettiva di vita, responsabilità condivisa, riscatto da ogni condizione di sofferenza. I nostri giovani, sognatori naturali, vogliono essere sostenuti. Senza quel “sognare” non c’è speranza, né si possono 8

M. DE UNAMUNO, Vita di Don Chisciotte e Sancho Panza, Newton Compton.

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attraversare i dolorosi paradossi che la vita ci consegna. È un oltraggio ai sogni la diffusa mediocrità di chi, cercando la popolarità di un attimo, ordisce inganni e monta ad arte la menzogna alimentando la cultura delle fake news, mercanteggiata da chi vuol far sentire il nulla che ha da dire. Un proverbio africano racchiude come in uno scrigno la garanzia più bella del sognare: “Se si sogna da soli, è solo un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia”. Il vero “sognare” è un sussulto collettivo che fa rimboccare le maniche. Tutto ciò ci è ricordato oggi da Giuseppe, il carpentiere di Nazareth, che sorretto da un sogno contribuì “al parto più difficile da comprendere nella storia dell’umanità”. È lui a ricordarci che per far rinascere il bene e Dio bisogna essere dei grandi sognatori! Con la supplica di intercessione a Maria e Giuseppe, vi benedico di cuore.

Teggiano, 19 marzo 2020

Solennità di S. Giuseppe, sposo della B.V. Maria

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SCRUTARE I SEGNI DEI TEMPI

Scrutare i segni dei tempi è un permanente dovere che hanno i credenti. Non si tratta di un’attitudine puramente mondana, come il presagire o il saper cogliere in anticipo che aria tira intorno a noi. Il “segno dei tempi” per eccellenza è la presenza stessa di Dio in mezzo a noi e la fede è quell’arte di saperla scrutare: «La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell'uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane»9. E se la fede, da sola, non può offrire un’analisi esaustiva dei fenomeni storici e sociali, essa ha tuttavia la capacità di cogliervi la presenza e il dilatarsi salvifico del regno di Dio. Il discernimento personale e comunitario, in tal senso, imprime un’accelerazione al Regno di Dio. Quanta colpevole distrazione, quanti silenzi complici di fronte a fenomeni storici, anche profani, forieri di verità autenticamente evangeliche. Pensiamo alla lotta per la giustizia o l’uguaglianza, all’impegno per la non violenza, per il diritto all’obiezione di coscienza, per l’abolizione della schiavitù e della pena di morte o per il riconoscimento dei diritti delle donne. Oggi tutto questo ci sembra naturale, ma la storia ci dice che non è stato sempre così semplice. Quanti martiri, condanne o emarginazioni di autentici testimoni! Si tratta spesso di segni nascosti, insignificanti, talvolta persino ovvi, che per essere compresi come opportunità salvifiche e “semi” del Regno richiedono discernimento, lungimiranza, inquietudine e passione per il Vangelo. Il rischio di sorvolare sui segni dei tempi è notevole, oggi più che mai, quando tutto è letto in chiave materialista e organizzativa. Eppure, anche oggi, germogliano segni che impartiscono 9 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, n. 11.

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lezioni, generano cambiamenti, esigono schieramenti a costo di sanguinose persecuzioni. Solo uomini ispirati, vere sentinelle, riescono a additare come segni dei tempi ciò che la nostra superficialità intercetta solamente come evento o circostanza: l’emergenza ambientale, il bisogno di lavoro, il disagio giovanile, la migrazione dei popoli e, non ultima, la terribile pandemia nella quali siamo immersi. Sono le grandi anime a suggerirci come elaborare paura, spavento, timori di non farcela, sete di voler capire. Per scrutare tali segni abbiamo bisogno di docilità, umiltà e disponibilità a cambiare, ricollocando Dio al centro. Uno scrittore agnostico sosteneva: «Io non affermo che Dio esiste: non ne so nulla… È come un angolo di cielo azzurro alla fine di una giornata un po’ grigia… Coraggio, tentiamo ancora una volta. Siamo tutti degli smarriti, un mondo senza Dio sarebbe troppo ingiusto, troppo triste, troppo inutile. Senza Dio, niente speranza». Non smetto di pregare per tutti voi! Teggiano, 20 marzo 2020

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QUARESIMA NELLA PRIMAVERA Questa notte, impercettibilmente, è terminato l’inverno. La quaresima, che si colloca sempre in primavera, questa volta investe di una tristezza particolare la stagione metereologica, in un indicibile sovvertimento di rapporto. Nella nostra nascosta e intima primavera, tuttavia, si alimenta con forza e vigore il sogno che presto debelleremo il nemico invisibile. Il tributo di tante vite, l’instancabile servizio di uomini e donne di scienza, la vicinanza irriducibile di parroci e pastori, il mondo della sanità, le forze dell’ordine, le misure restrittive e faticose… non possono approdare ad un esausto sfinimento. La primavera porta un risveglio, una riappropriazione di risorse e di energie che ci spingono a sperare e ad impegnarci in una più intensa corsa di solidarietà e di prossimità. “La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a danzare anche sotto la pioggia”: in tale proverbio, che qualcuno attribuisce al Mahatma Gandhi, è racchiuso il senso di ogni risveglio e inizio coraggioso. In una dolorosa vicenda di fallimento e scomposta reazione dei suoi connazionali, assaliti dal panico e dalle vicissitudini di guerre e deportazioni, il profeta Geremia è protagonista di una singolare vicenda. Nel corso di una misteriosa conversazione con Dio, il profeta si sente rivolgere una domanda: «Cosa vedi Geremia?», a cui replica: «Vedo un ramo di mandorlo in fiore» (Ger 1,11). Quel germoglio è un segnale dell’imminente nuova stagione, ma anche un monito a vedere in modo nuovo le cose che stanno attorno. Il mandorlo in fiore nella Sacra Scrittura è simbolo del nuovo che sta per spuntare, a dispetto di un panorama invernale, segnato dalla morte. Benché provato e sgomento, da tale visione il profeta riceve la rassicurazione che niente e nessuno smentisce la vigilanza di Dio. Questo è il suo mestiere, vigilare e custodire!

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Anche in questa menomata primavera occorre metter in atto segnali di vita, rifuggendo con discreta attenzione la spettacolarizzazione mediatica, i protagonismi puerili, gli attacchi sterili, impegnandoci in una cordata di nuovo umanesimo con il quale guardare e possibilmente entrare nell’imminente futuro di bene della nostra società. Quelli che hanno fede sanno a chi rivolgere lo sguardo: “Così, Gesù, hai portato la primavera del sole, in tutte le profondità della terra, e sei sceso a patteggiare col demonio di cui non avevi paura essendo stato creato dal Padre”10. Nella speranza siamo stati salvati! Vi abbraccio tutti nel Redentore.

Teggiano, 21 marzo 2020

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A. MERINI, Poema della Croce, Frassinelli, 2004, p. 19.

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PRENDERSI CURA I tempi di crisi mettono in luce le capacità organizzative delle strutture, ma evidenziano anche i talenti delle persone e le qualità di una comunità. Le difficoltà, oltre che cifra di lettura di ogni persona, fanno emergere la forza irrefrenabile di generatività di un popolo nello sforzo di prendersi cura di chi è nel disagio, nella prova, nella malattia. Non è vero che la professione è solo un lavoro. Troppo riduttivo. Sarebbe impossibile conciliare questa idea con quanto in questi giorni di prolungata prova stiamo sperimentando. In categorie quali medici, personale sanitario, forze dell’ordine, mondo della scuola, sono scattate forme di generatività che hanno valicato il limite prescritto delle prestazioni lavorative. Turni estenuanti, emozioni strazianti, congedi dalla vita in solitudine, nei quali gli stessi operatori hanno scoperto la presenza di Dio. Qualcuno ha scritto: «la cura non è la buona azione che passa da chi

la offre a chi la riceve, ma un contatto che scalda il cuore di entrambi. È un dare e un ricevere, pur nella situazione asimmetrica». Il pericolo del contagio ha determinato un necessario isolamento pastorale, ma è bello quanto un pastore ha suggerito a medici e personale sanitario: «Benedite voi chi soffre, il dolore ci unirà!». Nell’attuale situazione, prendersi cura è inchinarsi accanto ad ogni persona, nella sacralità laica di un gesto umano, per confortare, infondere fiducia, consolare. È proprio vero che «quando riusciamo a entrare nel tempio della cura, le ore nostre e quelle degli altri si espandono, le nostre vite si allungano, la morte di tutti si allontana»11. Si spiega così la risorsa infinita di chi sta servendo il nostro popolo: le forze si espandono e si rigenerano nell’intensità del dono e anche nell’amarezza di non 11

L. BRUNI, Il tempio infinito della cura, in Avvenire 8 aprile 2017.

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avercela fatta. Tra le maggiori afflizioni di questi giorni vi è la distanza e la mancata percezione di presenze care, che s’incontrano per una singolare osmosi di dare e ricevere. Tuttavia, la lontananza ha generato nuove modalità di dono e di cura. Le stiamo scoprendo e praticando tutti in tanti piccoli semi di generatività posti nel solco di queste tristi giornate. Presto o tardi germoglieranno, e sarà la bellezza di una fioritura di bene a confermare che senza il bello anche il bene svanisce! È proprio vero che «il tempo trascorso nel prendersi cura è più lungo, denso, vivo» (Ignazio Silone). Mai come in questo tempo sentiamo l’estremo bisogno di una nuova cultura della cura, per tutti. Vi abbraccio con paterno affetto, ricordandovi nella preghiera. Teggiano, 22 marzo 2020

IV domenica di Quaresima

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LASCIAR ANDARE Nella logica generativa con quale possiamo/dobbiamo rapportarci agli altri e alla realtà che viviamo, il momento più maturo e decisivo in chiave di reciprocità è il lasciar andare. Se compreso impropriamente, esso può suggerire l’idea della resa rassegnata, persino il senso di inaccettabile sconfitta. Le crisi e la maturità che ne deriva ci allenano a nuove conquiste ma, contemporaneamente, ci addomesticano anche ai distacchi dalle stagioni della vita, da sogni e legami.

Lasciar andare non è sconfitta o rassegnazione, ma atto di fiducia e consegna responsabile, come quando si lasciano andare i figli al raggiungimento di ideali e di progetti che li riempiano di vitalità. I distacchi costano ma sono necessari. C’è anche un lasciare andare a cui si è indotti da vicende della vita, e l’attuale pandemia è senz’altro una di quelle più tragiche e decisive. Quale lezione possiamo tirarne da questa stagione tragica, cosa dobbiamo ancora lasciare dopo l’abbandono forzato della relazionalità, dello spazio libero o dei luoghi sacri? Non nascondiamolo, all’inizio di questa dolorosa storia abbiamo avuto l’ardire di pensare che forse non sarebbe toccato a noi ed anche che l’impatto ci avrebbe trovati pronti ed organizzati dal punto di vista tecnico e scientifico. Questa crisi ci ha invece disarmati rivelandoci che nell’epoca della globalizzazione siamo tutti interconnessi, nel bene e nel male. Questa crisi, che presto passerà, ci ricorda che, dagli affetti ai sentimenti, tutto si esaurisce in un battibaleno. Questa esperienza ci faccia riscoprire la gradualità dei processi, l’umiltà della lenta assimilazione e l’umanizzante ridimensionamento della nostra inquietudine che genera voracità consumistica d’informazione e di beni materiali. Papa Francesco non perde occasione di sensibilizzare le coscienze ad un salutare distacco dal cosiddetto “paradigma tecno35


cratico”. Occorre lasciar andare l’idea di un potere senza limiti, di una economia senza il bene comune, di un benessere che produce l’oblio della persona. Oggi soffriamo, ma siamo certi, come ricorda Simone Weil, che «ogni dolore che non distacca è dolore perduto»12. Nella nostra amara vulnerabilità ci occorre l’abbraccio della solidarietà. Assicurandovi il costante ricordo nella mia preghiera, vi benedico.

Teggiano, 23 marzo 2020

12

S. WEIL, Quaderni II, Adelphi, Milano 1985, p. 136.

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LA PAZIENZA, VIRTÙ GENERATIVA Gli innumerevoli disagi di questi giorni e le pur necessarie privazioni cui siamo sottoposti (uscite, spese, incontri, sport, momenti ecclesiali), generano innegabilmente anche attimi di tristezza e di sconcerto: quando finirà? Spesso ci ripetiamo, a mo’ di conforto, che bisogna avere pazienza, che prima o poi le cose si aggiusteranno. Quando ciò accadrà, ne saremo veramente felici! In tale visione, la virtù cristiana della pazienza è fatta coincidere con la sopportazione, la rassegnata resa a fatti dolorosi e inspiegabili o comunque più grandi di noi. Avere pazienza coincide purtroppo con l’invito alla sottomissione. Abbiamo sperimentato quanto è faticoso reagire con carità, scevri da ira e da vendetta, di fronte alle ingiustizie e alla cultura delle fake news che crescono incredibilmente. Non mancano i banditori della pazienza che in realtà la interpretano come capitolazione della verità e sconfitta del bene, svuotandola del suo intimo significato. La pazienza cristiana ha, in realtà, un tono maggiore e non può accompagnarsi con l’ovvio buonismo di chi sceglie il ‘quieta non movere’ (non agitare le cose calme). Essa assume piuttosto, come percorso opposto, il ‘mota non quietare!’ (non spegnere la vivacità!). La pazienza cristiana è visione ampia, lungimiranza di attesa, consapevolezza del limite, ma anche responsabilità di lavorare per un sogno. Essa è libertà da ogni forma di intolleranza integralista e attesa in fattiva laboriosità. Il tratto più bello della pazienza è la capacità di reagire con speranza ad ogni possibile sconfitta. Essa guarisce le ferite più profonde con una lenta opera di ricucitura di rapporti e di ricomposizione degli affetti e dei legami. La persona paziente sa che mai nulla è perduto per sempre! La pazienza cristiana è, in una parola, l’arte di ricomposizione dei frammenti.

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Anche i giorni che viviamo richiedono di essere vivificati dalla pazienza, non per disinnescare gli aneliti di futuro o anestetizzare le attese. La pazienza di questi tempi si riannoda alla fede, perché è riscoperta di percorsi relazionali da tempo archiviati, rivitalizzazione di abitudini esanimi. In primo luogo la relazione con Dio. Affaccendati e insoddisfatti, siamo diventati preda della dittatura dell’istantaneo, ma senza attesa e aspirazioni non si raggiungono mete, non si potrà mai familiarizzare con il limite e la reciprocità. Bellissimo quanto scrive, a tal proposito, il poeta Rilke: «Aspettate con umiltà e con pazienza l’ora della nascita di un nuovo chiarore…, [l’albero] resiste fiducioso ai grandi venti della primavera, senza temere che l’estate possa non venire. L’estate viene. Ma non viene che per quelli che sanno attendere… la pazienza è tutto»13. Solo imparando a prendere tempo troveremo un senso tra mille paure. Vi saluto, benedicendovi tutti. Teggiano, 24 marzo 2020

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R. M. RILKE, Lettere ad un giovane poeta, Adelphi.

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IL SEGRETO DELL’ENTUSIASMO

Eccomi! In questa piccolissima parola è racchiuso il segreto di ogni alba, il sigillo di tutti gli inizi. È l’intima disponibilità al sogno di un amore incipiente, di cuori che si immaginano proiettati al futuro nella logica del noi. “Eccomi!”, è la risposta di tanti martiri della carità e, in questi giorni, di tanti martiri di corsia che spendono l’esistenza accanto ad ammalati, sfortunati, disagiati. Un “eccomi!” misterioso e provocatore che con inossidabile fedeltà riscalda le coscienze indurite dall’abitudine e dalla crisi della compassione. In questa breve parola si coglie la portata progettuale di una vita che si spende nel valore della fedeltà, della solidarietà, della libertà. Tuttavia, la genuinità di questo “eccomi!” si misura dalla strutturale relazionalità all’Assoluto, dalla lealtà delle alleanze, dall’irrevocabilità di una fedeltà giurata, fino all’incandescenza del martirio. L’ultimo “eccomi!” lo bisbiglieremo esausti sulla soglia della vita che non ha fine. La visione dell’uomo indebolita e ferita dall’indifferenza, dalla banalità e dalla inaffidabilità dei rapporti ha spento il senso della speranza. Facendo ciò, ha sottratto la passione per la vita e il vigore dell’intraprendenza. Tutto si subisce in una sorta di tragica fatalità. La depressione, come male sociale, risale anche alla sconfitta della sfida educativa, alla fragilità dei legami familiari, alla perdita di sicurezze lavorative e alla precarietà della salute. Ma non è consentito arrendersi. Custodiamo le risorse e l’intelligenza per rimettere nel trascorrere dei giorni quella linfa vitale che si chiama entusiasmo.

Un “eccomi!” genera entusiasmo e si sorregge con l’entusiasmo. È consapevolezza di fragilità, ma anche fiducia profonda che qualcosa di bello e di nuovo sta per nascere, nonostante i tempi avversi e le apparenti prove di sconfitta e di inutilità. L’entusiasmo, quello vero, conta su qualcosa di grande che interpella

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e chiede la resa! Il filosofo e saggista statunitense R.W. Emerson scriveva: «L’entusiasmo è la grandezza dell’uomo. È il passaggio dall’umano al Divino. Senza entusiasmo non si è mai compiuto niente di grande». Non a caso, la festa di oggi ci ricorda una fanciulla di Nazaret che diventa Madre di Dio semplicemente con l’entusiasmo del suo “eccomi!”. La sua voce cristallina, nel pronunciarlo, ha riempito e ancora riempie l’attesa del mondo. Nella consolante certezza di essere amati e protetti dalla Vergine dell’Annunciazione, saluto e benedico tutti di cuore.

Teggiano, 25 marzo 2020

Solennità dell’Annunciazione del Signore

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DIVENTARE ADULTI Non è automatico né scontato che l’età anagrafica coincida con la consapevolezza della propria maturità. Ci si educa e ci si allena sormontando gli ostacoli, e la vita ne riserva parecchi, ma non basta solo subire le vicende avverse, bisogna entravi con la ricerca di nuove risorse e nuove opportunità. È difficile, ma è così che si diventa adulti! Contrariamente al movimento impresso alle dinamiche del passato, dove si diventava adulti persino anzitempo, con un sovraccarico di responsabilità, di impegni, quasi con la disconoscenza delle esigenze giovanili e adolescenziali, oggi vi è una sproporzionata ansia ed attaccamento a restare perennemente giovani. Un giovanilismo nella moda, negli stili di vita, nell’uso dei social, nel tempo libero, nel linguaggio, che impedisce persino di varcare la soglia di quello spazio di condizione adulta che ha il destino della generatività, che consegna vita, ingegno, patrimonio, esperienza, senza antagonismo, né invidia. Per molti la grande crisi educativa è la dissoluzione dell’«adultità». I giovani avvertono una sorta di accantonamento, un’aspettativa forzata, perché coloro che dovrebbero essere gli adulti si sentono ancora troppo giovani per permettere l’avvicendamento. E l’attesa aumenta generando demotivazione e stanchezza prima ancora di cominciare. L’attaccamento sproporzionato alla condizione della perenne giovinezza, emargina coloro che sono di fatto i veri giovani. La stessa realtà ecclesiale avverte il bisogno di proporre ai giovani una presenza protagonista e creativa nell’ambito delle comunità. Papa Francesco lo ricorda: sono i giovani – e non i giovanili - che possono portare alla Chiesa la bellezza della giovinezza cioè aiutarla ad essere Chiesa migliore, secondo il cuore di Dio. Si diventa adulti con la pacata accoglienza del tempo che pas41


sa nonostante il suo peso e gli obbligati congedi, con gli inesorabili segni del declino. Non si avversa la vita, né il tempo, ma si sublimano con una eccezionale saggezza che è quella di cedere il passo, divenendo punto di riferimento, sorgente di motivazioni, per aiutare i giovani a reagire con maturità di fronte alla fragilità, alla malattia, al dolore, alla morte. Un giovane docente, scrittore e interprete del clima educativo di questi anni, scrive: «Diventa adulto chi ha imparato e vuole farsi carico del mondo, ma questo non accade se le soglie di responsabilità (soprattutto nelle relazioni e nel lavoro) svaniscono e se il giovane non è più, destinatario di un passaggio di testimone, ma oggetto di autocompiacimento o di invidia, se non è addirittura percepito come una minaccia»14. Il nodo da sciogliere non sono i giovani, ma gli adulti che devono crescere. In Gesù Redentore, benedico tutti.

Teggiano, 26 marzo 2020

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A. D’AVENIA, Dalla stessa parte mi troverai, in Corriere della sera, 17 giugno 2019.

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I CONFINI CHE TENGONO La crisi coronavirus ha messo in luce il bisogno di restare dentro i confini, quelli di casa! Si tratta di limiti da rispettare per attuare la solidarietà e la responsabilità nei confronti della salute collettiva. È innegabile che il restare circoscritti in casa per più giorni comincia a pesare. Tuttavia, è l’unica garanzia per controllare la pandemia e bloccare il contagio. Esistono confini positivi che vanno rafforzati, soprattutto quando la persona avverte il rischio di un decadimento di umanità o anche di intelligenza. Un argine è necessario: alla collera, alla voglia spasmodica di potere, al rischio della selezione, all’ambizione dei primi posti e a quella sempre crescente sete di visibilità che trova nella rete il più grande palcoscenico. Abbiamo bisogno di limiti per irrobustire la dignità di ogni persona, l’etica nella comunicazione, la correttezza nel discernimento. Occorre constatare che esistono anche confini che non tengono: il coronavirus ha invaso la mondialità senza alcun riguardo ai limiti geografici. Altrettanto contagiosa deve esser la solidarietà, abbattendo tutte le forme discriminatorie nei confronti delle diversità, delle minoranze etniche, delle differenze di genere e di religione. Non dobbiamo nasconderlo: è sempre più insidiosa la suggestione nefasta di credere che per difendere patrimoni identitari, religiosi o tradizionali, serva edificare muri insormontabili che finiscono poi per isolarci invece che difenderci. Nella solitudine si avviano processi di lacerazione e di decomposizione che toccano anche ciò che si riteneva più duraturo e più inattaccabile. Di fronte a tante e tali barriere è importante accogliere la sfida di aprire brecce, rimuovendo i grossi macigni dell’indifferenza, dell’individualismo e della saccente superiorità. Brecce nei bastioni dell’abitudinarietà, per imparare a leggere e dare nome a

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fatti nuovi, episodi inediti che, per quanto sconcertanti, sono forieri di nuovi moniti, di nuove opportunità e di generosi coinvolgimenti umani. Ciò che i confini devono arginare non sono persone o storie, quanto mediocrità, indifferenza, paure dell’altro, chiusure al sapere, vuoto di senso, cinismo di fronte alla sofferenza altrui. Siamo ormai vicini alla Pasqua di Risurrezione, che quest’anno sarà senz’altro diversa e singolare, ma per nulla menomata nella sua grazia. Mi piace guardarla fin da ora con le parole di Erri De Luca: «Sia Pasqua piena per voi che fabbricate passaggi dove ci sono muri e sbarramenti, per voi operatori di brecce, saltatori di ostacoli, corrieri ad ogni costo, atleti della parola pace». Far Pasqua significa, più di ogni altra cosa, superare la paurosa incapacità di guardare oltre! Vi benedico nell’affetto del Redentore. Teggiano, 27 marzo 2020

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ANDARE SOLI Alle prime luci dell’alba, ho colto la raccomandazione della CEI: «I Pastori… si recheranno da soli a un Cimitero … per un momento di raccoglimento, veglia di preghiera e benedizione… e affidare alla misericordia del Padre tutti i defunti di questa pandemia, nonché esprimere anche in questo modo la vicinanza della Chiesa a quanti sono nel pianto e nel dolore». Da soli: un invito, un monito, un messaggio sul tema della solitudine che viene impropriamente scambiata per isolamento. Procedere da soli non significa individualisticamente, ma nella chiara percezione di sentirsi connessi e sorretti da una sovrumana forza di comunione che ci fa sentire tutti in una rete di preghiera, di sofferenza, di speranza. Non è lecito sentirci isolati. La solitudine aumenta, e quando essa è sinonimo di isolamento, abbandono, dimenticanza, genera le vittime della nostra indifferenza. È il male oscuro della società occidentale, come è stato più volte scritto. È un lento e inesorabile rifiuto dell’umanità, un rinchiudersi nel proprio io. Spesso è frutto di amare delusioni, di insuccessi, di fallimenti o fragilità. Questo isolamento indebolisce, fino a dissolverlo, ogni legame con l’alterità e ogni incontro con un tu reale. Qualche governo ha persino pensato a un “Ministero della solitudine”, per fronteggiare l’isolamento nel quale sono precipitate tante persone anziane, sole, senza legami e risorse. In aumento è anche il numero di giovani contagiati dall’epidemia del rifiuto relazionale, eremiti senza cielo, che optano per una sorta di volontaria reclusione. Tuttavia, esiste anche una solitudine gravida di sogni e di propositi, che offre un’occasione unica per ricomprendere il rapporto con sé stessi e con la realtà. È quella solitudine che permette di percepire il mondo e la storia da un punto di vista che ordinariamente sfugge. Andare da soli, significa sottrarsi alla sug45


gestione dei facili consensi e della mediaticità dei gesti. La solitudine è comprensiva della comunione, anzi la ricompone e la qualifica, perciò è il solo e vero antidoto alla banalità e al qualunquismo di chi si rifiuta di pensare. Il poeta e narratore G. M. Villalta, parlando dei due protagonisti del suo ultimo romanzo, dice: «erano soli ma non disperati, sapevano dare ordine alla giornata, avere pensieri per ogni cosa, ma avevano perduto la letizia del cuore. Non potevano fare nulla l’uno per l’altro, ma si erano incontrati»15. Nella feconda solitudine vi è sempre un Tu che interroga e ci incontra! Vi saluto nel nome della SS. Trinità, fonte di comunione, e vi benedico.

Teggiano, 28 marzo 2020

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G. M. VILLALTA, L’apprendista, Ed. Sem.

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CHI PREGA SI SALVA

“Chi prega si salva”, è il titolo di una raccolta di preghiere della tradizione cattolica, ispirato ad una massima di S. Alfonso M. de Liguori, esperto maestro di vita cristiana, che educa alla preghiera come “un mezzo necessario e sicuro, affin di ottenere la

salute, e tutte le grazie che per quella ci bisognano”. Il Santo Napoletano non vuole ispirare una tecnica di preghiera, desidera piuttosto, attraverso la preghiera, illuminare una speciale visione dell’uomo. Il pensiero alfonsiano, infatti, mette in evidenza una singolare modalità della persona che orienta la vita in un permanente dialogo con una Trascendenza, un Divino, l’Assoluto, su quale si alimentano anche dubbi, incertezze e inquietanti interrogativi, ma con il quale si è deciso di non troncare mai più il dialogo: questa è la preghiera, spazio dell’amore. In questo spazio convergono l’uomo e Dio, e si instaura una straordinaria conoscenza. Dalla preghiera si irrobustisce anche la fede, ma è anche questa che genera l’anelito dell’anima ad aprirsi a Dio. Pregare è rimanere crocifissi per sempre all’Eterno e permettergli di trasfigurarci il cuore. Nella preghiera dobbiamo riuscire ad accogliere il vero volto di Dio. Non è un’entità astratta, né una idea, né un giustiziere, né il tappabuchi ai nostri guai. Il Dio che ci rivela Gesù è prima di tutto un Padre. “Quando pregate, dite: Padre” (Lc 11,2). Affievolire o dissolvere questo legame significa disimparare a pregare. In questo legame c’è la certezza del nostro amore: ecco la solidità delle parole che pronunciamo, ecco l’orizzonte nel quale attingiamo tutta la forza per combattere il male. Un biblista, interrogato su questa terribile pandemia, ha detto che “Dio non può cambiare il corso della storia, ma può dare

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all’uomo la sua forza per viverla”16. Dio Padre concede a coloro che lo chiedono nella preghiera la forza per sottrarsi all’accadere della resa al nulla, al baratro dell’autosufficienza e all’arida insensibilità. Nella preghiera non si tratta di ripetere a memoria un formulario, forse neanche serve ritagliarsi un tempo per inserirvi la preghiera, essa non serve a dare luce alla vita, ma ci aiuta ogni giorno a dare alla luce una nuova vita, una nuova gioia, una nuova generosa risposta d’amore, un grido spontaneo nel dolore e nella prova. La preghiera ci sottrae alla tristezza di un presente insopportabile e ci apre alla profezia, la quale, come diceva Olivier Clement, «non decifra l'avvenire, lo rende possibile»17. Apre un dubbio sul presente, sulle certezze che l’abitudine alimenta, sui nostri stessi bisogni e desideri! La preghiera cambia il cuore e il nostro presente. Con affetto benedico ciascuno e ricordo tutti nella preghiera. Teggiano, 29 marzo 2020

V domenica di Quaresima

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A. MAGGI, Così Francesco ci insegna a riscoprire il divino che è in noi, in La Repubblica, 28 marzo 2020. 17 O. CLEMENT, Il potere crocifisso, ed. Qiqajon Comunità di Bose.

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VECCHIAIA VENERANDA NON È QUELLA LONGEVA «Vecchiaia veneranda non è quella longeva, né si misura con il numero degli anni; ma canizie per gli uomini è la saggezza» (Sap 4,8-9). In questa tragica guerra per sconfiggere il covid-19, i primi a cadere sul campo sono proprio i nostri anziani. L’età avanzata delle vittime non estingue l’amarezza del distacco. L’allungamento della vita ha permesso il consolidarsi di legami affettivi con i nonni e gli anziani, come estremo tentativo di recupero del frammentario panorama relazionale familiare. Nella loro sedimentata capacità di ascolto e di racconto, si può gustare la bellezza di una consolante sicurezza, che come ci ricorda il testo sacro è la “saggezza”. In questa decimazione, che tocca soprattutto gli anziani, stiamo imparando a ricalibrare il nostro linguaggio: dopo l’iniziale calcolo grezzo delle vite da sacrificare rispetto a quelle da salvare – chiaramente le più produttive e redditizie – si sta facendo sempre più strada una logica eticamente più valida, rispettosa di ogni vita umana. Nei paesi occidentali l’invecchiamento assume proporzioni considerevoli, ma non per questo bisogna sminuire questa fase della vita che merita un’attenzione umana e relazionale capace di aiutare ad invecchiare e soprattutto a trovarvi un senso. È noto il contributo che, anche dal punto di vista economico, gli anziani riescono ancora a offrire alle famiglie, al mondo del lavoro, della farmaceutica e dell’assistenza sanitaria. Gli anziani non sono una sciagura, ma una risorsa educativa, che aiuta a riscoprire l’amicizia disinteressata, l’affermazione delle cose essenziali, la relativizzazione dei miti efficientisti. Essi sono una lezione permanente: «Accetta serenamente l’insegnamento degli anni, abbandonando con grazia le cose della giovinezza»18. Nel lento scorrere dei giorni e nelle sorprese dei piccoli doni, l’anziano ci educa al 18

M. EHRMANN, Desiderata.

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saper dire addio! Nei nostri anziani dobbiamo saper cogliere tutto il desiderio di non recidere i ponti con le giovani generazioni, la bramosia di raccontare, di consegnare ricordi, di riandare costantemente ai punti di riferimento: la famiglia, il lavoro, le rinunzie e i sacrifici, in molti anche il terribile ricordo di guerre e di calamità; ma anche l’amabile apprezzamento per le meravigliose conquiste e la vivida passione per il futuro. Essi, come ricorda il teologo L. Boros, sanno parlarci di Dio, perché «il Dio della vecchiaia è un Dio di sorridente tranquillità». È proprio questa la missione più grande. Con un grato ricordo per tutti, vi benedico di cuore. Teggiano, 30 marzo 2020

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I GIOVANI PORTANO IL CUORE Bella l’intuizione di chi ha invertito le parole del titolo del famoso romanzo “Va’ dove ti porta il cuore”, trasformandolo in “porta il cuore dovunque vai!”. In questo tempo incerto e doloroso restiamo ammirati e spesso esterrefatti nel vedere i nostri ragazzi e giovani che, animati da solidarietà e profondo altruismo, si sono affiancati ad associazioni e organizzazioni civili e religiose per rispondere alle urgenze e portare soccorso con generi di prima necessità, medicine, ma anche tanta consolazione e speranza. A nessuno è sfuggito la profondità degli sguardi, la loro tenerezza e compassione pur sotto tute, mascherine e guanti. Si coglie subito che essi non portano solo cose, portano il cuore. Un plotone di atleti, medici, infermieri, gruppi parrocchiali, volontari, associazioni in corale e sinergica intesa, giganti dell’umano trasformati in angeli del servizio accanto ai più deboli. Lo scoppio della pandemia di covid-19 li ha colti, come tutti d’altronde, di sorpresa. Sembravano precipitati in un silenzio sbigottito e incredulo, ma è bastato poco per farli reagire con una mobilitazione esuberante e vivace. Sulle strade, negli ospedali, nelle case di riposo, nella presenza porta a porta, con innumerevoli attività di sostegno agli anziani, alle persone sole, a coloro che non hanno una dimora, agli immigrati, ai bambini, stiamo assistendo alla solidità di un patto intergenerazionale che forse era stato sottovalutato. Non va taciuta inoltre l’intraprendenza digitale dei nostri giovani, che attraverso la specifica tecnologia mediatica hanno posto in campo occasioni di comunione virtuali, in riferimento alla cultura, alla scuola, al culto. Oltre alla smentita di fake news, sono in prima linea per combattere il virus dell’"infodemia", la cinica e colpevole diffusioni di false notizie che destabilizzano i rapporti sociali, determinando sfiducia e paure.

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Frettolose valutazioni rinchiudono spesso i giovani e i loro comportamenti in un frasario scontato di scetticismo e sfiducia. Emerge invece in questi giorni un’incredibile voglia di spiritualità e di domande profonde che si esprimono in scelte di altruismo, di inclusione, di prossimità e di rifiuto di ogni discriminazione. Papa Francesco ha più volte ribadito: «mi piace una Chiesa inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. … una Chiesa che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà». Sono convinto che i giovani – i nostri giovani – hanno tutte le caratteristiche per accettare questo invito. Con grata riconoscenza abbraccio e benedico tutti

Teggiano, 31 marzo 2020

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COMUNICARE È SPERARE Siamo nell’era della comunicazione, un prodigio tecnologico che si quantifica intorno a 23 miliardi di dispositivi connessi dai quali, ogni minuto, partono 187 milioni di mail, 38 milioni di messaggi WhatsApp e oltre 90.000 visualizzazioni Facebook. In questi giorni di quarantena, poi, la rete è stata esposta ad un esponenziale sovraccarico, tanto da temerne il collasso. In tanto traffico di notizie, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato l’allarme per la diffusione virale di false notizie, in un contagio mediatico di paure e notizie destabilizzanti che generano sfiducia verso istituzioni e organismi sociali. I social, questo strumento meraviglioso, possono diventare anche mezzo di conflitto e di dipendenza. È ormai un dato di fatto che la rete ci ha immessi in nuove modalità di relazioni, di rapporti e scambi. Si sono eliminate le distanze, gli spazi si sono ravvicinati, i tempi sono omologati, permettendo, in circostanze di eccezionale gravità come quelle attuale, un immediato scambio di informazioni, messaggi e dati in ambito educativo, sanitario, economico e culturale. Questa nuova modalità, tuttavia, ci ha anche condannati ad una dittatura dell’istantaneo. La comunicazione è sempre un atto generativo di bene, di speranza, di fiducia, anche quando nasce da situazioni di afflizione e di dolorosa condizione. Ogni piccolo click sulla tastiera o ogni parola bisbigliata deve essere finalizzato al prendersi cura, a rafforzare la fiducia. I parolai menzogneri, i banditori di falsità, assetati di effimeri scoop, sono una cancrena nel mondo dell’informazione. Né etica, né professionalità accompagnano questi untori della malattia mediatica, ossessionati esclusivamente di like e di visualizzazioni. Questi terroristi delle chiacchiere seminano sfiducia e raccolgono frustanti ammiccamenti. Per esser

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presenti significativamente nella rete non basta la competenza tecnica sull’utilizzo di sistemi e di strumenti, servono contenuti, parole, messaggi, soprattutto un supplemento d’anima. Comunicare è innanzitutto condivisione di un dono (da cum, condividere e munus, dono), la trasmissione di una dialettica che rispetta la libertà della persona, nella capacità di prendere le distanze da chi semina odio e falsità. Serve il coraggio della responsabilità anche e soprattutto per chi si occupa di comunicazione: «può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla», ammoniva severamente Martin Luther King. Occorre una tenacia per smentire quell’equivoca rivendicazione della libertà di espressione che non si pone al servizio dell’edificazione del bene comune e del rispetto della persona. Un manuale recentemente in circolazione porta un titolo emblematico: “Tienilo acceso, posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello”19. Comunicare, in senso vero e pieno, non può che esser frutto di rettitudine e intelligenza. Nell’abbraccio della comunione Trinitaria, vi benedico.

Teggiano, 1° aprile 2020

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V. GHENO, B. MASTROIANNI, Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello, Longanesi, 2018.

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IL LIMITE E CIÒ CHE CI FA ESSERE Qualcosa andava meglio compreso e anticipatamente arrestato: è questa la considerazione che viene riflettendo sulla dolorosa battaglia al covid-19. Anche in questa circostanza, in fondo, è mancata la consapevolezza del limite. Nell’incontrollabile corsa del progresso e del profitto si è creduto di poter valicare i limiti umani, ambientali, relazionali, compresi quelli religiosi ed etici. Gli antichi avevano scolpito un imperativo religioso sulle colonne d’Ercole: non andare oltre (nec plus ultra)! Oltre c’era l’incognito, con l’oscura possibilità di un non ritorno. Il delirio di onnipotenza era considerato un oltraggio alla divinità, di fronte alla quale l’essere umano non poteva che avere soggezione, paura, timore di vendetta e rappresaglia. È quella un’antropologia menomata, una vera deriva di umanità. La modernità occidentale, invece, ha compreso il limite come segno di spaventosa incompletezza, di incomprensibile condizionamento, reagendo di fronte ad esso con la smania dell’eccesso, dell’incontrollato, della dismisura. Più si valica il limite più si prova l’ebrezza dell’inarrestabile, del “tutto ad ogni costo”. Ossessionati del trionfo della riuscita, abbiamo circondato di insopportabile sospetto il senso del limite, confinandolo nella categoria del decadimento. Le regole sovvertite o ignorate, i contenuti confusi: il bene è ridotto all’“utile”, la verità a empirica razionalità, la bellezza a effimero godimento, l’altro ad un oggetto utilizzabile. Una fanciullesca ansia da prestazione scolastica, lavorativa, sportiva, ha compromesso i progetti di vita, cancellando la pacatezza di un decisivo passaggio verso la maturità, che consiste proprio nell’accettazione di “quello che manca”. Il limite non lo si ignora, ma lo si attraversa con dignità. Il limite non ci sfigura, anzi ci connota autenticamente in quanto esseri bisognosi di alterità e di superamento.

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Occorre ricominciare, rimettersi in gioco con un sapere che si confronta con saggezza e umiltà, dissimulando la presunzione di chi, esiliando Dio, ha anche eclissato l’esperienza fondamentale del limite. Si è resa estranea la “sapienza della finitezza”, inneggiando ad una grandezza miseramente fuorviata. Solo in compagnia del limite potremo esser più umani. Una relazione che prende in conto il limite, con Dio, con il prossimo, con la terra, è l’unica che può ispirare in noi un singolare cammino di fede, nella coscienza che, come afferma il filosofo Remo Bodei, «è come una porta verso cui sento di non potermi spingere oltre, ben sapendo che qualcosa mi sfugge». A noi invece sembra giusto varcare quella soglia della fede, ci aiuta a comprendere noi stessi, Dio e il prossimo. Con rinnovato entusiasmo vi abbraccio e benedico in Gesù Redentore. Teggiano, 2 aprile 2020

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EDUCARE TRA PASSIONE E STANCHEZZA Educare rientra in quell’arte di amare che spinge a prenderci cura dell’altro, dei figli, del prossimo. La cura è una delle cifre fondamentali dell’essere umano che, in una dimensione generativa, permette all’altro di essere sé stesso, perché sostenuto, incoraggiato e custodito. La passione nell’educare, se costruita sulla reciprocità, genera una dinamica di crescita che aiuta a cercare la bellezza, a inseguire la passione per il bene, la giustizia, la custodia e il rispetto della natura. Essa impara anche a sognare, sebbene il clima di eccedenza del ‘tutto e subito’, che investe i nostri ragazzi e giovani, li trasferisce spesso nella terra arida del vuoto. Siamo davanti a «una generazione che non conosce i sogni perché non sono state insegnate le passioni»20, afferma il noto psichiatra e sociologo Crepet. Occorre riconoscerlo, viviamo un tempo di stanchezza educativa che trova sempre più soggetti dimissionari, inclini a perpetrare inconsapevolmente il divorzio tra istruzione ed educazione. Questo è uno dei pericoli peggiori, poiché si educa istruendo e si istruisce educando. Educare significa puntare dritto al cuore, suscitare il desiderio, innestare aspirazioni elevate. Le nozioni hanno senso solo dopo le relazioni, che rendono tutti più umanamente maturi. Oggi, più che mai, educare è una disciplina estremamente impegnativa, perché sottopone ad una costante verifica e al giudizio impietoso di ragazzi e giovani, figli, nipoti, che recriminano coerenza e credibilità. Solo con esse è possibile interagire, ricercare motivazioni e arrivare a condividere anche dei dolorosi “no!”. Non si tratta di metter paletti, quanto di alimentare un sano discernimento delle motivazioni che ci determinano e di ciò che veramente si desidera. Quando si educa il 20 P. CREPET, intervista: Figli, Crepet spiega: «Senza i "no" non si cresce, educare è una fatica», in Il Gazzettino, 26 febbraio 2018.

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desiderio, si educa tutta la persona. Rallegra che si sia gradualmente attenuata l’ansia che faceva parlare di sfida educativa, generando implicitamente l’idea dello scontro o di una lotta tra avversari. Mi piace percepire la bellezza di questa avventura dell’educazione che aiuta a mettersi in gioco, senza intimorire o scoraggiare per l’eccesso di responsabilità che essa comporta. Educare è sì impegnativo, e non dipende solo da tecniche, professionalità o didattica, ma è prima di tutto un atto di amore. Un giornalista scrive «educare è la prima virtù del credere», e in questo umanesimo quotidiano rappresenta una comune consapevolezza da rafforzare. Essa ci fa mendicanti del cielo, genera un desiderio di infinito e l’apertura verso l’Assoluto, facendo attingere vigore per realizzare le speranze possibili. Con la mia preghiera, vi benedico.

Teggiano, 3 aprile 2020

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TUTTO È CONNESSO I provvedimenti di restrizione di questi giorni ci hanno obbligati a metter in atto una serie di verifiche e di attenzione critica all’andamento generale dell’economia, della politica, dell’educazione, della custodia ambientale. Siamo in una terribile congiuntura che non è solo ambientale. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale – avverte Papa Francesco –, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Tuttavia, se da un lato è necessaria l’analisi, urge anche una coraggiosa ed esplicita presa di posizione nell’indicare la terapia per il recupero di una qualità di vita proporzionata al benessere della persona umana e rispettosa degli equilibri ambientali. Papa Francesco lo ricorda: «Tutto è connesso. Se l’essere umano si dichiara autonomo dalla realtà e si costituisce dominatore assoluto, la stessa base della sua esistenza si sgretola»21. La minaccia di questa inesorabile lacerazione è in agguato nella preponderanza di una visione frammentata dei saperi e della concezione di natura, verso la quale, senza alcun criterio di sostenibilità, ci si è accaniti per soddisfare una voracità consumista, ora giunta all’apice della tollerabilità ambientale. La concezione del tutto è connesso nasce dalla visione di una ecologia umana integrale, che prende in seria considerazione non solo un aspetto del dibattito ecologista, ma una visione unitaria che va dalla foresta amazzonica, ai microorganismi in estinzione, alla crescita della povertà, alla migrazione dei popoli. La persona umana, con la sua intelligenza ed il suo sapere, deve cogliere i tratti che legano tutte queste emergenze per denunciare la violenza di chi continua ad infliggere ferite mortali alla madre terra. Il danaro e il profitto di pochi non possono devastare la casa di tutti. Anche una piccola violazione di equilibri socio-am 21

FRANCESCO, Lettera enciclica Laudato si’, n. 117.

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bientali ha dovunque, anche in un angolo recondito della terra, una terribile ricaduta su tutta l’umanità. Le furbate dell’uomo ai danni della natura non restano mai isolate ma generano sempre una catena di disastri. La rinnovata questione ambientale non consiste nell’elenco di provvedimenti tecnici e quasi sempre utilitaristici che si devono mettere in atto per ripercorrere a ritroso la via del recupero. È estremamente sbagliato credere di poter ancora centellinare sulle decisioni. Siamo in una vera svolta antropologia che ci rende coscienti che l’uomo non è padrone del mondo, né l’utilizzatore insensato di ogni risorsa. È urgente riscoprire i piccoli gesti di una buona pratica ambientale, cambiare stili di vita, recuperare una relazionalità con la natura che non è solo di mera contemplazione, ma di partecipazione alla sua salvaguardia e al suo sviluppo. Abbiamo preteso troppo dalla casa comune, saccheggiando le sue risorse ed esigendo prestazioni tecnologiche al limite del tracollo. Ora bisogna ripartire mettendo in gioco il senso della responsabilità della politica, dell’economia, della cultura, dell’organizzazione sociale e della stessa antropologia. Risanare il pianeta richiede il risanamento del cuore dell’uomo! Vi benedico con affetto.

Teggiano, 4 aprile 2020

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LE SETTE PAROLE DI GESÙ IN CROCE Le ultime parole di un morente, sono quelle che si custodiscono con grande premura. Racchiudono il segreto di un’esistenza spesa al servizio di ideali e contengono anche una profezia che interpella per il futuro. La morte è consegna di un passato, ma è anche rivelazione di futuro. Così nella tradizione cristiana è maturata la riflessione intorno alle sette parole di Gesù, che i Vangeli registrano con dettagliata accortezza. Sono come sette note musicali, collocate sul pentagramma dell’umana esistenza, che hanno generato eroiche fedeltà all’Amato Maestro, che sulla Croce apre la via della Redenzione. Ci soffermeremo ogni giorno su una delle ultime frasi pronunciate da Gesù Crocifisso, come grande esercizio di compassione accanto al Signore, per trarne poi occasione di crescita e di impegno nella nostra vita cristiana.

1. «PADRE, PERDONA LORO PERCHÉ NON SANNO QUELLO CHE FANNO» (Lc 23,34) Cominciamo il nostro cammino di preparazione spirituale verso la Pasqua soffermandoci sulla prima frase. Viene proferita da Gesù e riguarda il suo singolare rapporto con il Padre, ma non distoglie lo sguardo dai soldati, dai sommi sacerdoti, dai crocifissi con lui, da coloro che si sono miseramente attivati per decretare l’atroce condanna di croce. Per tutti una parola sovrumana, che si fa supplica ed invocazione: il perdono. «Sulla croce era nascosta la sola divinità» (In cruce latebat sola Deitas), così cantiamo in un antichissimo inno eucaristico, eppure proprio nel perdono la Divinità esprime la grandezza di un impegno e di una missione:

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perdonare. “Il perdono: lì c’è veramente il volto di Dio”22. Il perdono di Gesù rivela l’accecamento e la mancanza di consapevolezza che i suoi crocifissori mostrano: «non sanno». Preda di questa ignoranza collettiva non mostrano alcun segno di pentimento, umanamente non meritano perdono, nulla fanno per ottenerlo, eppure Gesù prega che nel perdono intraprendano la via della conversone. Il perdono mette insieme giustizia e misericordia. Perciò il perdono cristiano non è ingenuità, né va confuso con l’indifferenza o la remissività, ma è un appello a risanare le radici dei mali che inquinano le relazioni tra le persone. Se perdonare è una fatica, più faticoso è innescare quei processi di risanamento e di revisione che il perdono porta con sé. Il perdono che non ristabilisce la verità e l’autenticità è espressione solo di resa e di paternalismo compassionevole. «Se il peccato è una realtà paralizzante, il perdono è invece vivificante» (G. Ravasi). Il perdono è responsabilmente gravido di futuro. Dio della misericordia e del perdono custodisca tutti, vi benedico.

Teggiano, 5 aprile 2020

Domenica delle Palme e della Passione del Signore

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Carretto. Un contemplativo sulle strade del mondo, a cura di G. C. Sibilia. Paoline,

1996.

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2. «OGGI CON ME SARAI NEL PARADISO» (Lc 23,43) Un lacerante spettacolo di umana ferocia: tre croci, due delle quali destinate a malfattori comuni, rotti dall’esperienza del male e asserviti a logiche di perversa criminalità, tanto da essere condannati ad una pena severa, irreversibile ed esemplare. Noi oggi inorridiamo di fronte a tanta crudeltà. Tra essi, in posizione leggermente più elevata, così come lo raffigura la tradizione, c’è Gesù, il re dei giudei, esausto, sfigurato e deriso. Le urla blasfeme e le diaboliche provocazioni, che irridono alla condizione del crocifisso morente: «scenda dalla croce… ha confidato in Dio» (Mt 27,42-43); sono le stesse suggestioni del diavolo nel deserto: «Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù di qui» (Lc 4,9). Nel cuore di ogni uomo, benché devastato dal male e dal peccato, permane fino alla fine una insopprimibile sete di verità, un’aspirazione di salvezza che non può avere altro nome che l’eternità. Lo spettacolo di Cristo in croce ispira uno dei malfattori ad un’ultima invocazione, forse anche la prima della sua vita: «Ricordati di me…» (Lc 23,42). Capisce e riconosce che Colui che gli è accanto, compagno di sventura, è portatore di una misteriosa pacatezza che gli dà forza, è veramente un Re. È la regalità di Gesù, la sua figliolanza, la sua straordinaria forza sovrannaturale a suscitare fiducia. È lui che genera nel cuore di quello che la tradizione ha definito “buon ladrone” un ultimo sussulto di coscienza e di speranza. Perciò con fiducia non esita a supplicarlo. La promessa è il paradiso, subito, oggi. L’oggi di Dio è l’eternità. Questa non viene dopo la morte, è costantemente promessa e realizzata nel presente, là dove c’è perdono, accoglienza, umanità, voglia di bene, tutto ciò ci permette di realizzare ogni giorno il paradiso, benché può esserci capitato di dimenticarlo. Tuttavia, “se l’uomo dimentica il paradiso rende il mondo un inferno”: queste parole, attribuite ad un grande statista e uomo di fede luterano, interpellano noi oggi. Solo chiedendo il paradiso 63


lo si ottiene: «Ricordati di me!». Nell’attesa della domenica senza tramonto, di cuore vi benedico.

Teggiano, 6 aprile 2020

Lunedì santo

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3. «DONNA, ECCO TUO FIGLIO!»... «ECCO TUA MADRE!» (Gv 19,26-27) Nell’attimo in cui tutto sembra esser finito per sempre, quando l’avventura della prima comunità è tragicamente dissolta, per la paura, per infedeltà e per i tradimenti, su questi cocci Gesù fa nascere il sacramento universale di salvezza: la Chiesa. Nella sua Madre è misticamente prefigurata l’adunanza di tutto il popolo di Dio; in Giovanni, il discepolo amato, è tutta l’umanità che viene riconsegnata a questa Madre sempre feconda di nuovi figli, trasfigurati per fede in germe di nuova umanità. Allora non è solo un atto di premurosa compassione verso una madre destinata a restare sola, ma in quella consegna e in quella accoglienza è scritto tutto il mistero del popolo di Dio. Ai piedi della croce nasce la Chiesa, sposa di Cristo, madre sempre pronta a ridare la vita ai figli attraverso la grazia dei sacramenti. Accogliere e lasciarsi accogliere sotto la croce è la vera missione della Chiesa. Uomini e donne alla ricerca di casa, di affetto, di riconciliazione, di perdono, possono trovare nella Chiesa ciò che il Cristo crocifisso e morente ha consegnato. Non si appartiene alla Chiesa per titoli, né per censo, né per abilità, si appartiene semplicemente perché siamo portatori di croci pesantissime. Nella Chiesa troviamo la tenerezza di una madre che ama indipendentemente dai meriti acquisiti. Chiesa, sposa di Cristo, casa e scuola di misericordia, divinamente sbilanciata sul servizio, sulla carità, sull’accoglienza, a costo di riscuotere attacchi e malevoli fraintendimenti, ma la fedeltà è sempre presso la croce. Il Cardinal Joseph Ratzinger, prima di essere Papa, in un meeting internazionale sostenne: «Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana. E per questo tutto ciò che è fatto

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dall’uomo, all’interno della Chiesa, deve riconoscersi nel suo puro carattere di servizio e ritrarsi davanti a ciò che più conta e che è l’essenziale»23. Accettare la vita in Cristo e nella Chiesa è la nostra sfida. Con la Protezione di Maria, Madre vigile nell’orazione e ardente nella carità, modello della Chiesa, vi benedico.

Teggiano, 7 aprile 2020

Martedì santo

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J. RATZINGER, Una compagnia sempre riformanda, Meeting di Rimini, 1 settembre 1990.

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4. «DIO MIO, DIO MIO, PERCHÉ MI HAI ABBANDONATO?» (Mc 15,34) L’abbandono deliberato è sempre un crimine, voltarsi dall’altra parte è un incipiente tradimento. Gesù sperimenta il lento e graduale abbandono già con il tradimento di Giuda, poi nel Getsemani chiede la compagnia nella preghiera: “Vegliate e pregate» (Mt 26,41), ma «li trovò di nuovo addormentati» (Mt 26,43). Che dire poi dell’indicibile tradimento di Pietro e del bizzarro scambio con un prigioniero famoso, rivoltoso e omicida, Barabba. L’abbandono è lo strazio. Tradimento e abbandono sono i più atroci dei dolori, la solitudine induce persino a dubitare del valore di ogni gesto, è il naufragio nel mare dell’inutilità. Nessuno ascolta, nessuno risponde. Tutto diventa ancora più tragico quando nell’apice dell’ultimo respiro, Gesù ha la forza di un sussulto di preghiera: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Non è rivolta: è certezza che anche per lui la preghiera con le parole dell’antico salmo (21) è celebrazione della vittoria di Israele sull’inesorabile condanna. Dio ha già decretato la glorificazione. Il “perché?” di Gesù Cristo in croce, ha un’eco che risuona sulla terra e nei secoli, ridonda sonoro nella sofferenza, nella prova, nella malattia, nella morte. Si ripropone nelle ingiustizie della storia e di fronte all’arroganza dei prepotenti. Gli abbandonati della società, che sono diventati scarti, ripropongono con nudo realismo l’interrogativo sulle strutture di peccato, sul male che dilaga nel cuore degli uomini e nel mondo: “perché?”. È necessario liberarci dall’assillo di una ricerca di umane risposte a interrogativi di sovrumana inquietudine. Non alimentiamo una preghiera malata, desiderosa di segni e di certezze, con la presunzione di cambiare Dio e di manometterne la volontà; che presunzione! La preghiera è una resa al bisogno di cambiamento del nostro cuore e alla certezza che Dio non abbandona nel 67


dolore. Mi piace ricordare i versi di una poesia «Il dolore… mancanza netta di orizzonti. Il dolore è senza domani»24, ma nel dolore di Cristo è già scritta la gioia della resurrezione. Con la certezza che la Vergine Maria lenisce la nostra solitudine, vi benedico.

Teggiano, 8 aprile 2020

Mercoledì santo

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A. MERINI, Il taglio.

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5. «HO SETE» (Gv 19,28) Tragica e vera umanità, ma anche orizzonte di vera Divinità. Sulla croce Gesù non può non seguire fino in fondo la traiettoria di un dolore tutto umano, la sete. Nei terrificanti racconti di ragazzi e giovani migranti, che dopo lunghissimo traumatico silenzio hanno avuto la forza di raccontare il viaggio della speranza, condannati a terribili e atroci detenzioni, emerge la privazione di tutto, ma colpisce l’implacabile mancanza d’acqua e la permanente arsura della sete. «Ho sete!», un grido che scuote. Una mano pietosa allunga su di una canna la pozione di una bevanda capace di alleviare le barbarie inflitte. Gesù chiude la sua esistenza con la stessa domanda con la quale aveva iniziato il suo ministero al pozzo di Sicar: «Dammi da bere!» (Gv 4,7). In quel grido c’è anche una rivelazione divina. Di cosa ha sete l’uomo-Dio Gesù? Non è interessato al ristabilimento della verità, benché l’ingiusta condanna è la conclusione di un irridente e fantomatico processo. Non ha sete di vendetta, né di riconoscimenti. C’è una sete teologale che consiste nel desiderio della conversione dei buoni! L’abbandono degli schieramenti per aprirsi all’accoglienza, la cancellazione dell’intransigenza degli osservanti che si fa cattiveria. I duri e puri resistono al cambiamento del cuore. La giustizia dei buoni è sempre contro qualcuno, per cautelarsi dietro il rispetto di una insignificante ritualità che spinge il levita e il sacerdote ad ignorare il bisognoso. Nella sete di Gesù c’è ultima speranza di Dio: la conversione dei buoni. Quell’insaziabile sete è posta anche nel nostro cuore e nella coscienza che ci mantiene desti sui bisogni dei poveri, ai quali sentiamo, noi poveri, di dover donare prima di tutto Dio, l’acqua e il pane della vita. Un proverbio africano dice «quando un povero dona ad un altro povero il buon Dio sorride!».

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L’intercessione della Vergine Maria, Donna accogliente, e la mia benedizione vi accompagnino.

Teggiano, 9 aprile 2020 GiovedĂŹ santo

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6. «TUTTO È COMPIUTO» (Gv 19,30) Le sconcertanti parole di Gesù non sono una dichiarazione di resa, non un triste congedo dalla vita, non la rassegnata sconfitta di chi non ha più nulla da dire o da sperare. È una consegna di totalità e di pienezza d’amore. Non si liquida in un attimo una vicenda dalle coordinate eterne. S. Alfonso de Liguori, con inquietante commozione, esclama: «Gesù in croce fu uno spettacolo che riempì di stupore il cielo e la terra!». Questa visione ispirò una densa e drammatica rappresentazione pittorica del crocifisso, e nel canto della Passione aiutò il popolo a chiedersi: «Gesù mio, con duri funi come reo chi ti legò?»; la risposta rinvia ad una complicità cosmica. Tutti siamo rei e carnefici nel compimento del male che insidia il mondo. «Tutto è compiuto», è anche la conclamata dichiarazione di una risposta generosa ad una chiamata salvifica, è l’apice dell’amore effuso in una eccedenza di oblatività. Così Gesù parla al Padre. Non si ama per calcoli né per trarne profitto. Nel dono non si guarda al tornaconto, ma solo il bene e l’amore offerto fino all’estremo della tenerezza e della compassione. Non si ama con pregiudizi, né con le barriere, non si ama perpetrando ingiustizie sulla vita e sui più vulnerabili. Il dono non è uno scambio, né presume di essere ricambiato. Nella logica del dono Gesù realizza l’offerta del suo corpo «per voi e per tutti», che diventa irrevocabile mandato alle nostre comunità radunate per celebrare il rendimento di grazia nel giorno del Signore. Abbiamo bisogno di recuperare la pienezza del cuore. Non possiamo servire con l’attesa di riconoscimenti, né di compensi e gratificazioni. Non basta essere brillanti nelle nostre civili e religiose iniziative di altruismo e di prossimità, c’è bisogno di cuore. Vi condivido le parole di un amico che commuovono: «di cuore: è un modo di stare al mondo, una scelta di vita, una percezione del reale. Di cuore può essere un difetto, anche doloroso, quasi 71


una malattia, ma è l’unica cura possibile a una esistenza inutile e vuota. Di cuore è il contrario del distacco, dell’indifferenza, dell’insofferenza. Di cuore è vicinanza, attenzione, affetto, calore, accoglienza, comprensione, vita... Semplicemente vita. Assolutamente vita. Il resto è silenzio, deserto, paura. Di cuore è il nostro sentimento del mondo e del destino». Se non c’è il “cuore” c’è il tradimento! La Beata Vergine Maria, Donna dal cuore puro, ci protegga.

Teggiano, 10 aprile 2020

Venerdì santo

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7. «PADRE, NELLE TUE MANI CONSEGNO IL MIO SPIRITO» (Lc 22,46) L’ultima parola di Gesù ci riporta al cospetto del Padre. Anche la sua prima parola dalla croce era stata rivolta al Padre per la richiesta di perdono. In tal modo si completa un ideale percorso di annuncio che Gesù dalla croce ci rivela attraverso le sue ultime parole. Egli è il Figlio amato del Padre, porta nella sua carne la sofferenza del mondo, impetra per noi misericordia e perdono, perciò riapre la via del paradiso. Consapevolezza e libertà accompagnano l’atto supremo del morire, come coraggio e audacia hanno caratterizzato l’esistenza del Messia. In quell’atto supremo si sovvertono i segni dello spazio e del tempo: i pesantissimi arredi del tempio sono squarciati da un violento terremoto; anche l’eclissi di sole ricopre con fitte tenebre un evento dalla portata imponente: la morte del Figlio di Dio. La morte, benché «muraglia, dolore, ostinazione violenta»25, è sempre una sintesi di parole, gesti, memorie, evocazioni che rivendicano un riconoscimento e una gratitudine. In quella confusa congiuntura di tempo e spazio, nel buio della fine, un pagano coglie nel segno, e vede chiaro: «Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). Dobbiamo imparare a distinguere i lineamenti e la forza della presenza Divina anche quando intorno a noi infuria la tempesta, quando le tenebre si fanno impenetrabili, l’ansia sembra prevalere sulle prospettive e le paure dissolvono le visioni; c’è una inevitabile consegna alla quale non ci è consentito sottrarci, pena il nostro totale fallimento: “nelle mani di Dio”. Nelle situazioni più incompressibile e nei giorni tristi, segnati da inspiegabile sofferenza, spesso ho sentito ripeter un proverbio africano «Dio non dorme!». È vero. La morte non è l’ultima parola, né recide le speranze. Non è 25

A. MERINI, Aforismi e magie, Bur Rizzoli, 2013.

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l’ingresso nel nulla indefinito. «L’uomo è tormentato dal timore di una distruzione definitiva … aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona … Dio chiama l’uomo in una comunione con la incorruttibile vita divina. Questa vittoria l’ha conquistata il Cristo risorgendo alla vita, liberando l’uomo dalla morte mediante la sua morte»26. Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, rispondendo ad una lettrice che chiede franchezza sulla morte risponde: «il fatto cristiano per eccellenza è la Risurrezione di Cristo. E quella luce, per noi, fa chiaro su ogni umano termine, sull’umano dolore e sull’umana attesa. Qui è la nostra forza, e il nostro coraggio: «Dov’è, o morte, la tua vittoria?» (cfr. 1Cor 15, 54-57)»27. Tutto questo avviene sulla montagna delle tre croci, il Golgota. La Madre dell’ultimo respiro ci segue con intrepida sollecitudine. Vi benedico.

Teggiano, 11 aprile 2020

Sabato santo

26 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, n. 18. 27 M. TARQUINIO, in Avvenire, 27 agosto 2019.

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LA PAROLA DI PASQUA «GESÙ LE DISSE: “NON MI TRATTENERE…”» (Gv 20,17) Carissimi fratelli e sorelle, il mattino di quella prima Pasqua si apre con la vista di una tomba violata ed il pianto e lo smarrimento di chi va al sepolcro per ultimare i prescritti riti di sepoltura. Accanto al dolore per la morte atroce, anche la desolazione nel non poter onorare il corpo di Cristo. Lo sconforto occlude i ricordi, la memoria è annebbiata; nessuno si sovviene dei discorsi, delle promesse, delle anticipazioni che Gesù ha fatto. C’è solo il lancinante dolore per la sua ‘assenza’. Maria Maddalena è chiusa in un cerchio di angosciante tristezza che progressivamente si aprirà allo stupore e alla gioia quando ascolterà le parole del ‘misterioso personaggio’: «perché piangi? Chi cerchi?» (Gv 20,15); ed infine: «non mi trattenere ... ma va da miei fratelli…» (Gv 20,17). Gesù, il Risorto, si rivela: ha vinto la morte ed ha introdotto l’intera umanità nella possibilità-certezza di una vita senza fine. Questo è possibile se riusciamo a rispondere anche noi all’imperativo «non mi trattenere» del Cristo Risorto. «Non mi trattenere», può significare non cercare di chiudermi nei ragionamenti asfittici di calcoli ideologici, non compromettermi con quesiti che sanno più di calcolo che di fiducia, non coinvolgermi in vicissitudini che sono il frutto di ossessivi pronostici umani. «Non mi trattenere», è una rivendicazione di libertà, un’ultima uscita di sicurezza, se si vuole seguire il Maestro morto e risorto. Andare con Lui diventa possibile e l’approdo è sicuro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17). «Non mi trattenere», non è un rifiuto radicale né una disistima da parte di Gesù, al contrario, mostra alla Maddalena tutta la sua fiducia, affidando a lei, ed in lei anche a noi, l’annuncio fondamentale da portare ai fratelli.

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Nel mattino di Pasqua c’è la vera consegna della fede che è abbandono, speranza e certezza di non essere lasciati soli anche quando «Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio»28. In questa terribile prova, che getta ombre di tristezza, Gesù ci chiede di non legarlo alle nostre paure, ma di incamminarci con Lui sulla via pasquale di una nuova imminente Risurrezione, di una sicura guarigione del corpo e dello spirito. È vero, ci sentiamo privati della gioia più bella delle nostre comunità che è la Pasqua, ma non possiamo avvertire la mancanza del Risorto: anche nella sofferenza e nella prova Egli ci raggiunge e, benché non ci sottragga al dolore e alla sofferenza, ci dà la forza per imprimervi un senso nuovo attraverso il quale arrivare alla gioia della Risurrezione. La sua ‘misteriosa presenza’ è percepibile nelle domande che ci rivolge: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (Mc 4,40). Sono per noi domande ridondanti ed attuali. Gesù non vuole risposte nozionistiche, non chiede teoremi, vuole solo trasfigurare il nostro pianto in gioia, perché aver ritrovato Lui e la sua comunità ci permette ancora di continuare insieme a proclamare la sua morte e la sua Risurrezione nell’attesa della sua venuta. In questo mattino di Pasqua, segnato dalla sofferenza, ma illuminato dallo splendore della Risurrezione del Signore, voglio ricordare e ringraziare particolarmente i parroci che con generosità continuano ad assistere i poveri e a donare alle comunità l’assicurazione di una diuturna vicinanza. Con l’aiuto delle religiose e dei religiosi, la carità si fa concreta. Un grato e riconoscente apprezzamento agli Uffici Diocesani, che in diversi modi continua 28

FRANCESCO, meditazione durante il Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia, Piazza San Pietro, 27 marzo 2020.

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no a lavorare a servizio delle Comunità. Un pensiero affettuoso unito alla preghiera va alle persone sole e malate, alle famiglie segnate dalla tristezza del lutto, a quelle provate dalla perdita di lavoro e di pane, ai fratelli migranti, ai giovani scesi in campo con tenacia e coraggio, ai volontari, alle forze dell’ordine, alle associazioni, agli operatori della sanità, alle istituzioni civili, e a chi ha inteso rendere dignitoso il servizio dell’informazione con il recupero di un’etica necessarissima, lottando ed astenendosi dalla diffusione di ogni falsa notizia e dal terrorismo informativo. Il Signore sostenga tutti! Per intercessione di Maria, Regina dei cieli, nel nome della Trinità, di cuore vi benedico e vi auguro ogni bene nella speranza di riabbracciarci presto dopo la prova di questo momento. Santa Pasqua di Risurrezione, carissimi amici!

Teggiano, 12 aprile 2020

Risurrezione del Signore

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NON ALLENTARE LA VIGILANZA Paradossalmente, stando a casa, abbiamo vissuto anche un singolare esilio. Mi piace quanto ha scritto recentemente un giornalista: «È negli esili che si fanno i sogni più grandi»29. Nella costrizione delle mura domestica, abbiamo riscoperto legami e modalità alternative per trascorrere questo tempo sospeso. Ma abbiamo anche percepito la pesantezza di ritmi ai quali eravamo completamente disabituati, ci sono mancate le passeggiate, le frequentazioni, la domenica. In questi esili si comincia a valorizzare la gioia delle cose semplici, che un tempo abbiamo vissuto con disarmante abitudinarietà. Proprio nella privazione cominciamo a scoprire la bellezza delle cose che aiutano a vivere. Ma l’allerta non finisce, esiste il pericolo in agguato e abbiamo la responsabilità di non abbassare la guardia. Senza illusione dobbiamo accettare che altri pericolosi virus si aggirano nel panorama mondiale delle relazioni tra i popoli, nella visione politica: il modello efficientista a discapito anche della democrazia, i sovranismi e le chiusure populiste, sono virus che inquinano e destabilizzano la convivenza pacifica dei popoli. In questa stagione abbiamo ascoltato affermazioni al limite della sopportabilità quando con tronfia sicumera, anche qualche capo di stato ha tentato di smentire i risultati scientifici in rapporto ai pericoli che corriamo. È criminale inneggiare alla «immunizzazione di gregge», restando così inoperosi attendendo che il virus si dissipi da solo. Per fortuna, anche se con ritardo, si è preso coscienza della tragedia. Papa Francesco, in una recente intervista, ha pronunciato parole coraggiose: «Mi preoccupa l’ipocrisia di certi personaggi politici che dicono di voler affrontare la crisi, che parlano della fame nel mondo, e mentre ne parlano fabbricano armi. È il momento 29

L. BRUNI, La mano che abbassa il ponte, in Avvenire, 4 aprile 2020.

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di convertirci da quest’ipocrisia all’opera»30. Ci sono dei leader mondiali che si sono dissociati di fronte all’appello per risanare la madre terra. Non hanno inteso rispettare gli accordi, né richiedere consensi e coordinamento per il futuro del pianeta, hanno persino irriso scienziati, che con il loro sapere, ci hanno allarmati sulle condizioni di malattia del nostro ambiente. Il riscaldamento globale promette la moltiplicazione delle pandemie tropicali, come affermano gli studiosi dei fenomeni ambientali. Papa Francesco, citando un proverbio spagnolo, ricorda: «Dio perdona sempre, noi qualche volta, la natura mai»; e continua: «Non abbiamo dato ascolto alle catastrofi parziali»31. È tipico di una cultura individualista e di una economia neoliberista affermare come verità quanto invece la storia, la scienza, e il presente ritengono tutt’altro. Dobbiamo riscoprire lo stato sociale, il servizio pubblico nazionale e l’accesso alle cure per ogni cittadino, perché la salute di tutti è connessa alla salute di ciascuno. In alcuni paesi è cominciata anche la strumentalizzazione della situazione di emergenza socio-sanitaria per permettere al virus populista di attaccare la governabilità di un paese, attraverso la disintermediazione delle forme di partecipazione e la richiesta di poteri speciali. Così la democrazia di un popolo viene pericolosamente sospesa! Il virus della frammentazione politica, economica, culturale e razziale aleggia sull’Europa, e se attecchisse produrrebbe guadagno e interesse solo per chi genera questo contagio sovranista. Le grandi conquiste del continente europeo sulla libertà, la dignità umana, la solidarietà e l’accoglienza, la cooperazione, sono valori irrinunciabili. “Senza un nuovo patriottismo, il declino dell’Unione è inevitabile”, hanno ricordato gli 30

FRANCESCO, intervista a cura di Austen Ivereigh, in La Civiltà Cattolica, 8 aprile 2020. 31 Ibidem.

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accademici europei. Contro questi virus non servono né armi, né eserciti e, forse, neanche l’incomprensibile rivendicazione di alcuni che pretenderebbero l’accesso ai riti e alle celebrazioni quest’ultima privazione è proprio un atto di amore - serve invece il sapere solidale e Trascendente che genera un diffuso e rinnovato umanesimo. Ciò che è vivo se non si rigenera degenera. Vi benedico.

Teggiano, 13 aprile 2020

Lunedì dell’Ottava di Pasqua

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INDICE

Presentazione

5

Si indebolisce un mito e rinasce una visione

9

Assediati dalla paura

11

Prendere le distanze

13

Dalla consolazione all’innamoramento

15

Frontiere e porte chiuse

17

Mare nostrum

19

Tempo di domande

21

Cambiamento d’epoca

23

La fatica di credere

25

Sognare in tempo di crisi

27

Scrutare i segni dei tempi

29

Quaresima nella primavera

31

Prendersi cura

33

Lasciar andare

35

La pazienza, virtù generativa

37

Il segreto dell’entusiasmo

39

Diventare adulti

41

I confini che tengono

43


Andare soli

45

Chi prega si salva

47

Vecchiaia veneranda non è quella longeva

49

I giovani portano il cuore

51

Comunicare è sperare

53

Il limite e ciò che ci fa essere

55

Educare tra passione e stanchezza

57

Tutto è connesso

59

Le sette parole di Gesù in croce

1. Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno

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2. Oggi con me sarai nel paradiso

63

3. Donna, ecco tuo figlio! Ecco tua madre!

65

4. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

67

5. Ho sete

69

6. Tutto è compiuto

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7. Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito

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La Parola di Pasqua Gesù le disse: non mi trattenere Non allentare la vigilanza

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Finito di stampare nel mese di aprile 2020

Via degli Edili 101 - Sapri (SA) Tel. 0973 603365 e-mail legatoria.cesare2@gmail.com



I messaggi delVescovo sono nati in giorni difficili di smarrimento e paura, di grande incertezza, di preoccupazione e di pianto; giorni che al contempo hanno visto il rafforzarsi della speranza alimentata dalla preghiera e l’accrescersi di una meravigliosa carità, fatta di tanti piccoli e grandi gesti, a testimonianza della fede e della solidarietà delle nostre comunità. In salita non si parla molto per non sciupare le resistenze del respiro, si sussurrano parole di incoraggiamento, si condivide lo stupore di fronte alle prospettive bellissime di una montagna, di ruvide scogliere scoscese o di strapiombi mozzafiato. Così i messaggi del Vescovo ci hanno provvidenzialmente raggiunti nei giorni della forzata reclusione nelle nostre case, nelle salite della triste ferialità, nella stanchezza monotona del trascorrere quotidiano, per ”prendersi cura“, sostenendo, confortando, consolando e stimolando ad una salutare riflessione attraverso il silenzio e la preghiera. (Massimo LaCorte,Ufficio per leComunicazioniSociali - Diocesi diTeggiano-Policastro)

A D L (1956), redentorista e vescovo diTeggiano-Policastro dal 2011, è delegato della Conferenza Episcopale Campana per il settore migrantes.

ISBN 978-88-322-2221-0


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