Italia Ornitologica, numero 8/9 2022

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Rivista mensile di Ornitologia Scientifica - Tecnica - Pratica Organo Ufficiale della F.O.I.-Onlus

ANNO XLVIII numero 8/9 2022

Cnarini di Colore

Estrildidi Fringillidi e Ibridi

Cobalto comportamento genetico Il Ciuffolotto

Canarini di Forma e Posizione Arricciati

Canarini di Forma e Posizione Lisci

Il Fiorino: testa e collo

Il Fife Fancy



ANNO XLVIII NUMERO 8 9 2022

sommario 3 5

Critiche e partecipazione Giovanni Canali

Cobalto Paolo Corbelletto

Canarini di Colore

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Estrildidi Fringillidi Ibridi

Il Ciuffolotto Piercarlo Rossi e Massimo Lodato

Cromia bianca nei canarini di colore Mimmo Alfonzetti

Quattro chiacchiere sul Fiorino: la Testa e il Collo Francesco Rossini

Photo Show Le foto scattate dagli allevatori

Parliamo del Nero Giovanni Canali

Il Diamante del bambù Ivano Mortaruolo

AMMINISTRAZIONE E PUBBLICITÀ: Segreteria F.O.I.-Onlus Via Caorsana, 94 - Località Le Mose 29122 Piacenza Tel. 0523.593403 - Fax 0523.571613 Web: www.foi.it - E-mail: redazione@foi.it

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43 I gusci delle uova Pierluigi Mengacci 47 OrniFlash News al volo dal web e non solo 50 Il collezionismo ornitologico (17ª parte) Francesco Badalamenti 53 Volontariato - progetti ed eventi Associazione “Passione Pappagalli Free Flight” 57 I 90 anni dell’A.M.O. Damiano Lo Porto 59 Il Fife Fancy Sergio Palma

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Canarini di Forma e Posizione Arricciati

Cardellino nero dominante Gennaro Amalfi

Pagina aperta Argomenti a tema

Associato all’Unione Stampa Periodica Italiana ISSN 0391-254X (International Standard Serial Number) Autorizzazione del Tribunale di Bologna n. 4396 del 12-3-1975

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Coadiutore Editoriale: Lorenza Cattalani

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Canarini di Forma e Posizione Lisci

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Italia Ornitologica è la rivista ufficiale della F.O.I. - Federazione Ornicoltori Italiani, pubblicata in 10 (dieci) numeri annuali a cadenza mensile, 2 (due) dei quali in versione bimestrale nel periodo estivo (Giugno/Luglio e Agosto/Settembre). Il numero 8/9 - 2022 è stato licenziato per la stampa il 20/7/2022



Editoriale

Critiche e partecipazione di G IOVANNI CANALI

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econdo alcuni le limitate collaborazioni con la rivista potrebbero essere determinate o favorite dalle critiche sui social, oltre che dai soliti motivi, come timori di sbagliare e timidezza. Il diritto di critica è fondamentale. Senza il diritto di critica non avremmo democrazia ed avremmo enormi limiti in campo culturale e sociale. Non a caso io sono sempre stato contrario ai reati d’opinione. Anche la censura, che è indispensabile, secondo me sarebbe bene fosse minimale. Certamente l’autocritica è un grosso pregio e denota intelligenza ed onestà intellettuale, quando è vera e non ipocritamente imposta. Grave difetto è l’abuso del diritto di critica. Taluni, specialmente sui media, sembra quasi che si sentano in obbligo di criticare anche quando non c’è motivo, questo in tutti i campi. D’altronde sono nate professioni vere e proprie nell’influenzare l’opinione pubblica e nel fare i critici. In realtà, l’attività di critico c’è sempre stata, ma i critici autentici devono essere preparati e possono anche parlare bene, di qualcosa o qualcuno, se lo merita. Oggi mi pare che si tenda a parlare molto male ed a fare nota di merito nel dire qualcosa di diverso dal solito, non importa se a torto. Tanto per capirci, parlare male di Al Capone e bene del dott. Schweizer per qualcuno è banale, meglio parlarne al contrario per mettersi in luce. Anche in passato si ricordano cantonate incredibili di critici e contemporanei vari. Giuseppe Verdi all’inizio al conservatorio venne bocciato; non solo ma il suo capolavoro assoluto “La traviata” alla prima venne fischiato. La superlativa corrente pittorica impressionista all’inizio non venne capita e bocciata, anzi il termine “impressionismo” venne usato in senso dispregiativo per bocciare questo meraviglioso stile! Non si può neppure dire che in campo scientifico le cose siano andate molto meglio, tutt’altro, basta pensare ai casi di Galileo, Darwin e Freud ed al loro contraltare Lysenko. Oggi, comunque, i social imperversano. Capita che persone di alto o altissimo livello vengano criticate da personaggi qualsiasi senza remora alcuna. Talora vi sono autentici insulti, calunnie e chi più ne ha più ne metta.

Pare che molti ignorino che non vi è un vero anonimato e che i responsabili possono essere individuati, il che accade abbastanza spesso. Poi non sempre basta scusarsi e fare piagnistei. C’è chi ha paragonato i vari siti di chat a dei bar, dove chiunque può dire la sua senza vergona, anche quando sarebbe da vergogna. Per quanto mi riguarda, non sono presente sui social ed ignoro del tutto quanto vi è detto, a meno che non mi venga fatto sapere. Se attaccato, sempre ammesso che lo venga a sapere, non faccio neanche una piega, per me le chiacchere sono chiacchere e basta. Per le contestazioni vere ci sono altre sedi e ci vogliono veri argomenti. Sedi idonee sono le riviste vere (eventualmente anche informatiche), registrate ed adeguatamente gestite. Purtroppo però esistono persone che, comprensibilmente, si risentono da quanto detto se offensivo ed ingiusto. Sono colpite ed hanno turbamenti per i cattivi trattamenti, specie se viziati da rancori, invidie e cattiverie piccole o grandi. Non intendo certo disapprovare queste persone sensibili, tuttavia mi sentirei di incoraggiarle all’indifferenza. Non facile da conseguire l’indifferenza, specialmente se una persona perbene è sensibile. Un metodo che io suggerisco è anche quello di valutare, non solo le parole ma anche chi le ha pronunciate e perché. Tanti anni or sono a qualcuno dissi che mi sarei preoccupato se avesse parlato bene di me. Ho ritenuto di fare questo discorso perché mi sono accorto che, in qualche caso, persone preparate non si esprimono per timore di attacchi ingiusti. Ebbene vorrei dire che chi desiderasse collaborare con Italia Ornitologica può sempre contare sulla valutazione e l’aiuto della redazione. Se qualcuno non condividesse, in tutto o in parte, ed obbiettasse con argomenti validi, cosa del tutto lecita ed utile, si potrebbe sempre discutere, suscitando ulteriore interesse. Mi auguro quindi che persone preparate collaborino; la diversità delle fonti e dei contributi è preziosa.

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CANARINI DI COLORE

Cobalto Comportamento genetico di PAOLO CORBELLETTO, foto E. DEL POZZO e A. J. SANZ

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remetto che allevo nel tipo Bruno e Nero la mutazione Cobalto dal 2006. Mi sono permesso di condividere con tutti i lettori interessati di I.O. i miei dubbi sulla trasmissione genetica di tale mutazione come sino ad oggi classificata per avere un riscontro e un contradditorio. Ho sempre considerato, e conseguentemente mi sono comportato negli accoppiamenti, che la mutazione Cobalto fosse recessiva, come veniva indicato dai Criteri di giudizio della CTN Colore – Origine ed evoluzione del canarino di colore: “Tale fattore esercita la sua azione estendendo la melanina all’estremità di tutte le penne e piume, in particolar modo evidente su petto, fianchi ed ancor più palesemente sul ventre, che diventano scuri, mentre il disegno, costituito dall’eumelanina centrale, è poco ridotto, tanto che il fatto può sfuggire, specialmente nei Neri. Il suo comportamento genetico è recessivo autosomico”. Con il passare degli anni mi accorsi che alcuni risultati derivanti dagli accoppiamenti • Cob/cob X Cob/cob cioè portatore x portatore • Cob/Cob X Cob/cob cioè puro x portatore • Cob/Cob X cob/cob cioè puro x classico e viceversa, non coincidevano con quelli canonici previsti secondo le regole di trasmissione genetica del carattere recessivo. Il primo dubbio mi venne quando nella normale scelta selettiva dei soggetti a fine settembre, per individuare i mi-

Bruno cobalto mosaico giallo maschio, foto: E. del Pozzo

gliori per le mostre e/o la riproduzione dell’anno seguente, mi imbattevo in canarini che erano interessati dalla mutazione (in tutte le categorie: mo-

saico, brinati e intensi) che presentavano una manifestazione fenotipica della mutazione incompleta o parziale.

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Cerco di esprimermi meglio: la tonalità del ventre, dei fianchi, del petto e non ultima quella del dorso, in questi soggetti, non si presentava cupa od intrisa di melanizzazione tale da variare così significativamente la tonalità del lipocromo di fondo, così come sottolineato per l’ottimo del Cobalto nei criteri di giudizio CTN Colore: “pigmentazione melanica sul colore di fondo. La tonalità complessiva dovrà essere la più scura possibile; questa caratteristica rende il lipocromo più offuscato”; al contrario, si presentava modificata in gradazioni diverse, con un range dal leggermente percettibile all’abbastanza evidente. Alcuni soggetti non sembravano nemmeno interessati dalla mutazione cobalto, ma potevano essere scambiati per soggetti classici “migliorati”; sottolineo che nel caso di grande tipicità delle altre caratteristiche del tipo base, queste “sfumature cobalto” possono portare a considerare questi ultimi un classico ancora migliore per una tonalità complessiva del fondo più scura (soprattutto nei Bruni, ma anche nei Neri). Non a caso ho raccolto i commenti dietro le quinte di diverse manifestazioni espositive: chi ha raggiunto il primo

Nero cobalto intenso giallo, foto: E. del Pozzo

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premio era un portatore di Cobalto, anche se ho potuto negli ultimi anni vedere nascere in ceppi di Neri classici dei soggetti che, per effetto della concentrazione di altri caratteri accrescitivi della melanizzazione, raggiungevano un effetto simile a quello descritto. Continuando negli anni ad osservare tale fenomeno, ho riscontrato che questi soggetti (“portatori intermedi” o, come sotto suggerito, a “singolo fattore”) nascevano costantemente anche inserendo dei soggetti del tipo base Neri o Bruni sicuramente classici nel ceppo di Cobalto; teoricamente, avrei dovuto ottenere solo dei “portatori”, ovvero soggetti fenotipicamente del tipo base, senza interferenze della mutazione e genotipicamente portatori di Cobalto, come succede per es. con l’opale, mentre ottenevo, appunto, dei soggetti “portatori intermedi” o a singolo fattore sopra descritti. Quanto detto ci porta al seguente assunto: Il Cobalto eterozigote (attualmente indicato come portatore) è generalmente riconoscibile più o meno facil-

mente a seconda degli altri fattori additivi che ne determinano il risultato fenotipico. Questa modalità di espressione della mutazione è più assimilabile ad un comportamento genetico semidominante che a quello recessivo che corrisponde all’attuale classificazione. Per tale ragione, dall’inizio dell’articolo è stata volutamente utilizzata la seguente legenda: • Cob/Cob = Cobalto Omozigote; • cob/cob = non cobalto; • Cob/cob = Cobalto Eterozigote (portatore o singolo fattore?) Ora proviamo a formulare delle ipotesi a dimostrazione dell’assunto: partendo da quanto sopra osservato, possiamo affermare che i fattori genetici quantitativi e i fattori genetici additivi/accrescitivi della melanizzazione influiscano sulla mutazione come su tutte le altre, ma non possono giustificare la nascita di soggetti “intermedi” anche nell’accoppiamento Cob/Cob X cob/cob, cioè puro x classico. Per poter spiegare la nascita di tali soggetti potrebbe essere utile riconside-

Bruno cobalto mosaico giallo maschio, foto: A. J. Sanz


Nero cobalto bianco dominante, foto: A. J. Sanz

rare il tipo di trasmissione genetica della mutazione ad oggi definita “recessiva”.

Quale alternativa abbiamo per inquadrare meglio quanto osservato? L’ipotesi più plausibile è che non si tratti di una mutazione recessiva ma di una mutazione semidominante e, soprattutto, che non sia un fattore di riduzione ma di incremento, come succede in molte altre specie (per esempio nel Diamante mandarino), che i fattori additivi giochino un ruolo importantissimo nella individuazione e riconoscimento del singolo fattore (ex “portatore”) e che anche da soli a volte riescano ad imitarlo, purtroppo. Proviamo ora a traslare tale ipotesi su una tabella di trasmissione genetica di tipo autosomico semidominante come quella dello Jaspe: 1. Tipo base Cobalto Singolo Fattore x Tipo Base (o viceversa) Il 50% della prole sarà a singolo Fattore (S.F.) e l’altro 50% sarà Tipo Base, indipendentemente dal sesso. 2. Tipo Base Cobalto Doppio Fattore (D.F.) x Tipo Base (o viceversa)

Bruno cobalto mosaico rosso maschio, foto: E. del Pozzo

Il 100% della prole sarà a Singolo Fattore (S.F.), indipendentemente dal sesso.

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Commento della C.T.N. Colore all’articolo di Paolo Corbelletto

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Nero cobalto mosaico rosso maschio, foto: E. del Pozzo

3. Tipo Base Cobalto Singolo Fattore (S.F.) x Tipo Base Cobalto Singolo Fattore (S.F.). Il 50% della prole sarà a Singolo Fattore (S.F.), il 25% sarà Doppio Fattore (D.F.) ed il 25% sarà Tipo Base, indipendentemente dal sesso. 4. Tipo Base Cobalto Doppio Fattore (D.F.) x Tipo Base Cobalto Doppio Fattore (D.F.) Il 100% della prole sarà a Doppio Fattore (D.F.), indipendentemente dal sesso; 5. Tipo base Cobalto Singolo Fattore x Tipo Base Cobalto Doppio Fattore (D.F.) Il 50% della prole sarà a singolo Fattore (S.F.) e l’altro 50% sarà Doppio Fattore (D.F.), indipendentemente dal sesso. Secondo quanto esposto, possiamo sottolineare che gli eterozigoti Cob/cob sono più o meno evidentemente distinguibili a seconda della presenza/mancanza di altri ulteriori fattori additivi della melanizzazione che, di regola, concorrono in maniera quasi sempre sostanziale a definire la tipicità dei Cobalto da concorso, producendo negli eterozigoti (portatori o singolo fattore) un range fenotipico che va da un “classico legger-

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mente modificato” a quello che fino ad ora è stato definito un “portatore evidente”, pur essendo consapevoli del fatto che gli eterozigoti, fino ad oggi chiamati “portatori”, a volte siano ben visibili e a volte meno per i motivi sopra citati e quindi è necessaria l’accuratezza delle valutazioni. Cioè, a volte è facile confondere il Cobalto a singolo fattore con un classico incrementato per “selezione”. La cosa non ci deve stupire perché, come tutti sanno, tutte le mutazioni si esprimono con delle variazioni di tipicità e questo sembra essere logicamente valido sia per le mutazioni di riduzione che per quelle di incremento, le quali, se però si esprimono in “singolo fattore”, come stiamo suggerendo per il Cobalto, implicano una adeguata accuratezza nell’osservazione e valutazione. Per redigere il presente scritto e avere un valido contradditorio nella sua stesura, mi sono avvalso dell’aiuto di Gianmaria Bertarini, al quale mi lega una trentennale amicizia e che ringrazio per la sua competenza, esperienza, disponibilità e passione. Quindi chiedo ora il vostro contributo in termini di riscontri e contradditorio per validare o meno quanto esposto.

nnanzitutto ringrazio Paolo Corbelletto per la sua testimonianza e Gianmaria Bertarini che ne ha seguito l’esperienza di allevamento per il prezioso contributo: l’informazione fondata su fatti concreti, su reali esperienze di allevamento, su riscontri che vengono riferiti a seguito di test e verifiche, di prove e controprove, rappresentano la vera divulgazione in ornitocultura. Raccolgo per primo l’invito di Paolo e racconto la mia esperienza. Come mio solito, con l’ammissione a concorso dei Cobalto (non ricordo esattamente l’anno), mi procurai un po’ di soggetti Nero Cobalto Mosaico Rosso per studiare la mutazione e, soprattutto, per i miei esperimenti. Premetto che sin dal primo anno di inserimento a concorso, a conclusione delle operazioni di giudizio in dell’internazionale di Reggio Emilia, avevo fatto notare a un caro amico e collega, che purtroppo non c’è più, alcuni Neri intenso rosso che presentavano una insolita tonalità della colorazione della zona ventrale, segno di interferenza di eumelanina. «Guarda un po’ questo Canarino. Io qui ci vedo un po’ di Cobalto».

R1 Cobalto singolo fattore


L’amico sollevò la gabbia, guardò attentamente e disse: «Hai ragione, c’è il Cobalto». Nella successiva stagione cove arrivarono i primi risultati di accoppiamento e di sperimentazione. Un maschio lo feci accoppiare con altre femmine per trasferire la mutazione negli intensi e nei bruni che già in prima generazione generarono alcuni soggetti fenotipicamente Cobalto. È importante chiarire che le femmine adoperate erano caratterizzate non solo da un ottimo disegno ma soprattutto da una forte carica melaninica dell’interstria, caratteristica fondamentale del tipo base che si adopera per selezionare questa mutazione. Dando per buona l’informazione del comportamento recessivo della mutazione, pensai subito a un gran colpo di … fortuna (diciamo così) nell’aver inconsapevolmente acquistato delle femmine portatrici. Bastò poco tempo per trasformare lo stupore in sospetto anche perché avevo sempre a mente quei soggetti osservati a Reggio Emilia.. Seguirono ulteriori test e finalmente arrivarono le prime conferme dalle confidenze oneste e sincere di amici vincitori di titoli italiani e mondiali con soggetti definiti impropriamente “portatori”. Gli stessi amici in occasione del campionato italiano di Bari mi “sfidarono” a distinguere puri e “portatori” tra un gruppo di Bruni Cobalto sistemati sui ripiani dei carrelli in attesa del giudizio. Chiarisco subito che l’aver azzeccato in pieno non può in alcun modo suggerire una attendibile descrizione dei caratteri distintivi tra il singolo e il doppio fattore trattandosi di differenze sottili e rilevabili solo da occhio esperto e non senza un certo margine di incertezza. Cercherò di sintetizzare al massimo le mie conclusioni dettate dall’esperienza diretta e dal confronto con alcuni allevatori di indiscutibile serietà. 1. Non credo che il Cobalto sia una mutazione recessiva. Al contrario ritengo si tratti di codominanza. 2. L’estrinsecazione del Cobalto in singolo fattore è direttamente proporzionale alla carica melaninica dell’interstria del tipo base e genera risultati che vanno dalla mera percettibilità alla massima tipicità descritta nello standard. Nei bruni, in particolare, ho osservato Cobalto singolo fattore (spesso impropriamente definiti “portatori” dai proprietari) caratterizzati da una tipicità impressionante, sia per quanto riguarda il tenore quantitativo delle melanine, sia per la tipicità del disegno, diversamente da quanto accade nel doppio fattore in cui il disegno risulta generalmente ridotto rispetto al tipo base. 3. La cosiddetta “chiusura” dell’area ventrale è generalmente più completa nei soggetti a doppio fattore ma nei migliori soggetti a singolo fattore non è pregiudicata la tipicità. 4. Per quanto riguarda il giudizio nulla quaestio. Il giudice non deve e non può fare l’esame del DNA: deve semplicemente valutare il fenotipo secondo le previsioni degli standard. Approfitto per riportare, sempre in estrema sintesi, i risul-

tati di un progetto ambizioso avviato anni fa e stroncato miseramente dal furto subito nel 2018. Rientrava in quel progetto la selezione del Cobalto facendo ricorso a incroci e, soprattutto, reincroci, con lo Xanthogaster. Di quel progetto è rimasto un solo maschio F1 portatore di Cobalto fuggito all’attenzione dei malfattori. Innanzitutto la presenza del Cobalto era già visibile in alcune femmine F1 inverosimilmente scure tanto da sollevare dubbi negli osservatori circa l’utilizzo di additivi. Per converso i maschi erano sì appariscenti per quanto riguarda la melanizzazione, ma il ventre non presentava significativi incrementi di melanine (chi conosce lo Xanthogaster sa benissimo che l’area ventrale non evidenzia eumelanina). Il Cobalto è riemerso in seguito, nella femmina R1 della foto, frutto dell’accoppiamento di ripiego del maschio F1 con una nera di poco valore e comunque proveniente da un ceppo in cui non era mai stato introdotto il Cobalto. La foto non ha bisogno di commenti: non è necessaria una buona vista per notare la presenza del Cobalto. Consentitemi anche un accenno alla mutazione “Scuro” dell’Organetto. Corrisponde al Cobalto del Canarino? Sono molto diversi, vero, come è vero che sono molto diverse le due specie con la gran carica di melanina bruna che caratterizza l’Organetto. Ed è proprio la melanina bruna che fa la differenza nei Canarini Cobalto. Per giunta agli allevatori più attenti ed esperti che hanno modo di osservare gli ibridi Organetto Scuro per Canarina avranno certamente notato una certa somiglianza con i primi Cobalto carichi di bruno. Già da quest’anno avevo programmato un test inverso: due coppie di Organetto cabaret ancestrale (sottospecie ideale per la sperimentazione essendo quella che possiede la maggior carica di melanina bruna) x Canarina Cobalto doppio fattore. Un disguido mi ha impedito di entrare in possesso delle due femmine e gli Organetti sono in allevamento a villeggiare beatamente. Certo, non avrei avuto prove inconfutabili (i test di complementazione forniscono prova certa con le mutazioni recessive) ma gli F1 avrebbero potuto fornire indizi importanti. L’esperimento è rimandato ma approfitto per fare appello a qualche allevatore curioso ed entusiasta disposto a testare questo accoppiamento. So benissimo l’effetto di questi scritti: avendo come punto di riferimento gli estremi opposti, per qualcuno sarebbe la proverbiale scoperta dell’uovo di Colombo, qualcun altro, invece, potrebbe intravedere gli estremi della più irriverente blasfemia. Bene, una cosa è certa: questo è il resoconto di esperienze riferite e condivise da gente che alleva, che sperimenta e condivide le proprie esperienze, di gente che alleva con entusiasmo e per il puro piacere di allevare. Provare per credere, diceva una pubblicità di tanti anni fa. Mi rendo conto di essermi dilungato un bel po’ nonostante la sintesi operata. Prima di chiudere, però, sento di dover rinnovare il mio sentito ringraziamento a Paolo e Gianmaria ed esprimere apprezzamento per il loro impegno. GAETANO ZAMBETTA

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ESTRILDIDI FRINGILLIDI IBRIDI

Il Ciuffolotto

Può essere considerato un tipico abitante delle nostre montagne, nemico dei grandi caldi umidi delle pianure

Il piacere di vivere con gli uccelli testo e foto di PIERCARLO ROSSI e MASSIMO LODATO

Maschio di Ciuffolotto

«U

no non immagina neanche il senso di intimità che dà una gabbia con una coppia di ciuffolotti. II canto discreto, rauco ma armonioso del maschio è meravigliosamente distensivo; la sua parata dignitosamente misurata e cortese, le attenzioni costanti che testimonia alla femmina sono le cose più gioiose che può offrire una gabbia d’uccelli». Scriveva così il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia Konrad Lorenz, grandissimo etologo, che con i suoi scritti cambiò il modo in cui guardiamo gli animali. Io penso che oltre al grande zoologo austriaco questa specie da sempre ab-

Femmina di Ciuffolotto

bia ammaliato il genere umano; infatti il ciuffolotto, un tempo, veniva tenuto in ambiente domestico e usato come uccello da richiamo per la caccia; gli veniva riconosciuta una naturale propensione all’apprendimento e ad imparare brevi melodie. La tradizione popolare ha insignito questa specie di un valore beneaugurante. Si credeva infatti che allontanasse la cattiva sorte e che potesse guarire gli ammalati attirando su di sé i mali che li affliggevano. Distribuzione e habitat Questo splendido rappresentante dell’avifauna europea può essere conside-

rato un tipico abitante delle nostre montagne, nemico dei grandi caldi umidi delle pianure ed amante invece di un clima freddo e temperato. La specie è presente nell’Europa settentrionale dalla penisola scandinava al mar Bianco, ad est nell’attuale Unione Sovietica fino alla Mongolia settentrionale; nel sud del continente europeo lo si può incontrare nella Francia orientale ed in Germania meridionale, sulle montagne della Svizzera ed in Italia sulla catena montuosa delle Alpi e delle Dolomiti, ma anche lungo il nostro Appennino con una sottospecie di taglia ridotta, dai Balcani fino alla Grecia, in Bulgaria e verso nord fino alla Romania centrale.

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In un areale così vasto esistono diverse sottospecie, che si differenziano per lo più per l’intensità dei colori e per la taglia; una di queste, il ciuffolotto delle Ardenne, negli ultimi anni è presente in diversi allevamenti. Questa sottospecie di ciuffolotto europeo è tipica della omonima vasta area collinare e fittamente boscosa che si estende tra il Belgio ed il Lussemburgo, toccando la Francia. La sua caratteristica principale, peraltro comune anche a quella dei Pirenei e dell’Appennino, è rappresentata dalle ridotte dimensioni e dai colori più accesi.

Ciuffolotto delle Pinete

Ciuffolotto pastello bruno in cova

Materiali per la costruzione del nido

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La dieta in natura In natura le coppie, formate anche da soggetti dello stesso sesso, che si separano nel periodo riproduttivo, si spostano alla ricerca del cibo tra i cespugli e sugli alberi. Appassionato da sempre di erbe prative, negli anni ho cercato in più riprese le notizie più interessanti in materia, scoprendo che il ciuffolotto si distingue per due caratteristiche particolari: è in primis un grande divoratore di gemme, in particolare degli alberi da frutto, ed un grandissimo appassionato di chioccioline di piccole dimensioni, molto utilizzate soprattutto nell’allevamento dei nidiacei. La particolare conformazione del becco, di forma massiccia, corto ed arrotondato lo rende uno strumento indispensabile per aprire semi di grandi dimensioni come le fagiole del faggio o le

Maschio di Ciuffolotto pastello bruno

samare dell’acero; inoltre, gli permette di appetire qualsiasi tipo di alimento. All’interno del bosco fa incetta delle bacche bluastre del mirtillo o di quelle rosse del biancospino o ancora di quelle del ligustro, delle quali estrae soltanto i semi disdegnando la polpa; questo avviene anche con le bacche del rovo, fatta eccezione per il sorbo, di cui appetisce anche la polpa visto che le pomelle di questa pianta contengono solo 1-2 semi molto grossi ma non così numerosi da giustificare tutto il lavoro della loro estrazione. Come già accennato, una serie importante di alimenti compone la sua dieta, che potremmo così descrivere: nel periodo invernale, quando la neve copre buona parte del bosco, la sua ricerca virerà verso i semi secchi come quelli di betulla, di ortica, di romice e di frassino, alimento molto gradito grazie al suo elevato valore di proteine e grassi, oltre all’immancabile Buon Enrico. Con l’arrivo della primavera la sua ricerca è rivolta ai semi dell’olmo ed a tutte quelle infiorescenze che crescono nelle aree di piantagione e collinari, a ridosso delle zone boschive, come la mercorella, il centocchio, i capolini del dente di leone, ricchi di preziosi semini, del ranuncolo ed il solito Buon Enrico ricco di ferro. Con l’approssimarsi della stagione riproduttiva il ciuffolotto sviluppa sotto le mandibole due sacche alimentari, visibilissime quando sono rigonfie di cibo,


Novelli pastello bruno

tanto da sollevare le piume. Le stesse vengono “riassorbite” al termine della stagione e sono presenti anche nel ciuffolotto delle pinete, nei trombettieri e in alcuni beccogrossi del Nord America. Lo studio sui nidiacei è quello che ci ha permesso di aggiungere un importante tassello nella conoscenza della sua dieta; infatti, è stato riscontrato che le covate di maggio ricevono un numero più importante di insetti (bruchi, chioccioline, afidi, vermetti vari) rispetto alle successive, che sono composte in prevalenza da elementi vegetali, piccoli invertebrati (in alcuni casi chioccioline) muco, grit, acqua. Nelle covate di maggio, indicativamente dal 12º giorno, la proporzione tra alimenti di origine animale e vegetale risulta decrescente a favore di questi ultimi. I piccoli rimangono a nido per circa 16/18 giorni e raggiungono la completa indipendenza verso il trentesimo giorno di vita. Al termine della delicata fase della muta e con il sopraggiungere nuovamente della stagione fredda il ciuffolotto abbandona le altezze ed è più facile osservarlo anche nei parchi e nei giardini mentre frequenta le mangiatoie poste dall’uomo. Allevamento in ambiente controllato A fronte di quanto appena descritto si capisce che riprodurre in ambiente con-

Maschio di ciuffolotto mutazione giallo

trollato una tale alchimia alimentare è praticamente impossibile, anche se questo, negli anni, non ha scoraggiato gli allevatori più audaci. Un carattere mite e confidente ha fatto, da sempre, del suo allevamento una vera e propria chimera; molti bravi al-

levatori, studiando il comportamento in natura, hanno cercato di fornire alimenti idonei, come ad esempio le tanto amate chioccioline adorate dalle nutrici, o le erbe prative sopra indicate e vari tipi di bacche raccolte nel periodo invernale e poi opportunamente con-

Coppia di ciuffolotti

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Mix di semi da germinare

servate, senza trascurare i materiali per la costruzione dei nidi, come gli indispensabili sfilacci di cocco; tutto questo ha fatto sì che con il passare degli anni un numero sempre maggiore di soggetti risultasse realmente nato in ambiente domestico. Come per altre specie, l’apparire di nuove mutazioni di piumaggio, a parer mio mai migliorative rispetto alla forma ancestrale, abilmente selezionate sulla forma major in modo egregio dagli allevatori nordeuropei, ha dato nuovo vigore al suo allevamento. Questi soggetti di taglia maggiore risultano essere meno esposti all’insorgenza di pericolose malattie, in special modo quelle che colpiscono le vie respiratorie, anche se ad onor del vero la rubrocillina, opportunamente somministrata, risolve in maniera molto efficace tale problema che, a parer mio, rappresentava il maggior limite alla diffusione del loro allevamento. La mangimistica attuale e tecniche d’allevamento sempre più affinate hanno fatto crescere negli ultimi anni gli estimatori di questa splendida razza, tra i quali il bravo allevatore e selezionatore Massimo Lodato, a cui passo la penna per farci raccontare le sue esperienza d’allevamento con i Phyrrula. “Come non innamorarsi del ciuffolotto? Per quanto mi riguarda, fu un amore a prima vista, un amore adolescenziale, puro; ricordo infatti che poco più che ragazzo intrapresi i primi viaggi, in com-

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Abluzioni giornaliere

pagnia di mio padre, per far visita ai grandi allevatori, anche di ciuffolotti, del Nord Europa: erano gli inizi degli anni 90 e proprio in quei tempi apparvero le prime mutazioni in questo fringillide, come la bruno e la pastello. Nel nostro girovagare facemmo visita al grande allevatore fiammingo Louis Paquot che mi mostrò, in prima assoluta, una femmina pastello bruna da lui ottenuta. Quella femmina, di una bellezza unica, accentuò ulteriormente la passione per questa specie e per mutazioni che apparvero in seguito, come la pezzata e la giallo. Quest’ultima mutazione, inizialmente, fu un po’ snobbata, essendo meno d’impatto rispetto ad un soggetto pastello bruno, ma a parer mio, con la visione e conoscenza dei primi soggetti affetti da entrambe le mutazioni (P/B+G), anche questa variante cromatica ottenne il giusto riconoscimento e valorizzazione.

Quest’ultima mutazione, inizialmente, fu un po’ snobbata, essendo meno d’impatto rispetto ad un soggetto pastello bruno

Come non innamorarsene, appunto, con le sue forme tondeggianti e possenti, alcune volte sgraziato nei movimenti, ma al tempo stesso delicato, in possesso di un volo molto rapido e veloce, con zampe robuste ed un becco vigoroso? Inoltre, trasmette un senso di docilità e di desiderio di interazione con chi se ne prende cura, caratteristiche che appagano molto l’allevatore. Terminata ora la parte emotiva, vorrei parlarvi delle mie esperienze e delle tecniche d’allevamento acquisite nel corso degli anni. Abito in Pianura Padana, più precisamente nella Lomellina, tra le province di Pavia e Milano, dove il clima è piuttosto umido e poco ventilato rispetto ad altre zone d’Italia o del nord Europa, ma anche in questa area il Phyrrula ha dato delle stupefacenti prove di adattabilità, superiori alle mie aspettative, dimostrate nel corso degli anni con ottimi risultati ottenuti in ogni stagione riproduttiva. La formazione delle coppie inizia, per quanto mi riguarda, già nel periodo della muta in quanto questa specie tende ad essere piuttosto selettiva, in special modo la femmina, nella scelta del partner. Questo la porta a non accettare un maschio qualsiasi, ma a cercarne uno a lei “affine”, che le farà da compagnia per tutta la stagione riproduttiva; la difficoltà è proprio quella di riuscire a selezionare soggetti con caratteri mansueti


Nido e uova

Pulli

Novelli bruni e pastello bruno

e compatibili tra loro. Per un’ottima selezione e per mantenere i disegni, nel tempo, ho sempre utilizzato soggetti nero/bruni e proprio in queste coppie ho riscontrato notevoli difficoltà a far accettare i soggetti con piumaggio molto chiaro, come pastello bruni ed i bianchi, ottenuti dalla selezione dei pezzati. Per ovviare a questa problematica, una volta individuati i soggetti tra i novelli dell’annata che intendo utilizzare nella successiva stagione riproduttiva, li metto in coppia ad ultimare la muta, essendo per loro questo un periodo relativamente tranquillo; così facendo si accettano più volentieri. Durante il periodo di riposo, tendo ad alloggiarli in voliere di varie metrature, per un ottimo esercizio di volo; in questo periodo utilizzo un’alimentazione a base secca per circa per il 70-80% ed

evito di fornire un’alimentazione “bagnata”, come semi germinati o bacche. Per ovviare a tutto questo do loro mele e cetrioli, che offrono un apporto d’acqua che permette di terminare al meglio la muta, anche perché ho notato che questa specie è una grande amante dell’acqua in tutte le sue forme. Al termine della muta, cerco di evitare di fornire loro semi di girasole così da non appesantirli, e di conseguenza non farli ingrassare, condizione fondamentale per il loro alloggiamento finale, sia questo una voliera o una volieretta da 120 cm; per agevolare questo compito aggiungo alla miscela per ciuffolotti, la più completa possibile, anche semi di miglio e di panico. In base alle mie esperienze penso che il Ciuffolotto sia un animale, al contrario di quanto si può pensare, che si adatta tranquillamente alle temperature

tardo-primaverili della Pianura Padana; logicamente in estate, con temperature superiori ai 30 gradi, qualsiasi animale va in affanno. La preparazione delle coppie inizia alla fine dell’inverno, con l’aumento delle ore di sole, fornendo loro degli alimenti idonei: aumentando anche il livello proteico non avranno nessun tipo di problema. Ho notato, inoltre, che hanno bisogno di un periodo molto più lungo, rispetto ai comuni fringillidi, come il verdone ad esempio, per entrare in estro e giungere ad una finestra di fecondità ottimale. In base a quanto appena affermato, ho notato che a pari variazione di fotoperiodo il Phyrrula tende a posticipare la stagione riproduttiva di circa un mese rispetto ad altre specie; un periodo più lungo gli permette di giungere al top

Novello appena uscito dal nido

Femmina pastello bruno

Maschio ancestrale

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Famiglia

della forma senza nessun fattore di stress per entrambi i sessi. Con il sopraggiungere della bella stagione, incomincio a fornire loro un mix di semi germinati il più vario possibile, composto da semi di diametro importante come soja, azuki, cartamo, frumento; ritengo che il germinato fresco sia un alimento fondamentale, che non li appesantisce e che al tempo stesso fornisce loro quell’apporto di alimento umido di cui hanno estremamente bisogno per la preparazione alle cove e per giungere al meglio in questa delicata fase. Come molti fringillidi, il ciuffolotto è un mangiatore di insetti e larve di vario genere oltre alle chioccioline menzionate in precedenza, di cui fa incetta nei primi giorni di vita dei nidiacei, quando solerte vola al nido per ingozzare i nuovi nati. Devono essere forniti con parsimonia, in maniera graduale, incominciando dalla preparazione alla stagione riproduttiva, mentre nel periodo dell’allevamento io li fornisco per i primi 3/4 giorni, per poi escluderli dalla dieta per evitare che con un eccesso di proteine vi possano essere delle alterazioni comportamentali, nel maschio con un’eccessiva aggressività nei confronti della femmina o dei piccoli, quando questi ultimi sono pronti per l’involo, tanto che in alcuni casi l’eccessiva “ferocia”

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nei loro confronti li può portare anche alla morte, mentre nella femmina potrebbe manifestarsi una precoce ricostruzione del nido ed abbandono della nidiata; nei piccoli questo eccesso di proteine si presenta con l’arrossamento della cute. Nel periodo riproduttivo, oltre agli insetti, sono solito fornire un ottimo misto da germoglio ed in sostituzione delle bacche do un mix di mais e piselli di primissima qualità; questi alimenti incentivano le imbeccate delle nutrici ed agevolano l’allevamento in purezza. Ritengo personalmente che il pastoncino, sia secco che all’uovo, sia quasi totalmente inutile durante la fase riproduttiva; di contro, lo ritengo fondamentale durante la muta. Io consiglio un ottimo pastone morbido, con l’aggiunta un buon colorante o corraborante artificiale, reperibile in commercio, che fornisca loro il giusto apporto per ben figurare nelle esposizioni. Una coppia affiatata e ben ambientata si nota già nella prima fase, quella della costruzione del nido, in cui il maschio, oltre al suo rituale amoroso, porgerà alla femmina i fili per la costruzione; questi verranno accettati e ciò darà il via alla stagione riproduttiva. In commercio sono disponibili diversi materiali a tale scopo, anche se questa specie predilige delle fibre lunghe e

dure (sfilacci di cocco), che abilmente intrecciate permettono di mantenere il calore all’interno del nido ma anche di farlo traspirare ed eliminare quella percentuale di umidità non necessaria per la schiusa delle uova. Questa specie depone un numero di uova importante, superiore agli altri fringillidi comunemente allevati come il verdone ed il cardellino, arrivando ad una cifra media di 7/8 uova a nidiata, pertanto io ritengo indispensabile un apporto di calcio in aggiunta ai semi da germoglio o nell’acqua da bere per aiutare la nutrice ed evitare la ritenzione dell’uovo, soprattutto nelle femmine alla loro prima deposizione. Osservandoli attentamente ho notato che se la coppia è posta in uno spazio ridotto può mostrare delle alterazioni comportamentali che, nonostante un buon equilibrio, si possono verificare; per esempio, alla schiusa delle uova il maschio può uccidere i piccoli e gettarli fuori dal nido. Io negli anni ho imparato a gestire queste situazioni isolando il maschio in un alloggiamento di dimensioni ridotte, ma lasciandolo comunque all’interno della voliera o appeso sul fianco della 120, così la femmina continuerà a vederlo. Questo avviene 2, 3 o 4 giorni prima che si schiudano le uova, tenendo sotto controllo la situazione, per evitare che lei possa abbandonare la covata (succede


molto di rado); trovandosi ora in una situazione più tranquilla, alla schiusa la femmina alimenta i piccoli per alcuni giorni, anche se sarebbe in grado di portarli fino allo svezzamento, ma io preferisco che la covata venga cresciuta da entrambi ed allora controllo il comportamento del maschio e se noto che questo ha sviluppato le sacche mandibolari e la voglia di partecipare all’imbecco o se la partner lo va a cercare sopra a dove è alloggiato, solo in questi casi lo libero e solitamente il maschio, una volta che si è cibato, incomincia ad imbeccare i piccoli. Un altro problema che ho riscontrato è quello legato alle zanzare, molto comuni in Lomellina. Questo insetto non colpisce gli adulti ma i novelli, non ancora impiumati, nel nido, in quella fase in cui la femmina non li “copre” costantemente, tra il settimo ed il decimo giorno di vita.

La zanzara trova la testa dei pulli molto “appetibile” ed una volta che sono stati punti, purtroppo, non vi è nessun rimedio, la testa e gli occhi si gonfiano e l’animale nel giro di 24 ore muore. Raccomando pertanto di proteggere gli alloggiamenti riproduttivi, le voliere ed il locale d’allevamento, se si vuole allevare ciuffolotti, per evitare queste morie che inizialmente disorientano un pochino, ma una volta individuata la causa, con opportuni accorgimenti, è possibile evitarle. Come ultima cosa io consiglio l’allevamento in purezza, in quanto il ciuffolotto è un ottimo allevatore anche grazie alla collaborazione del maschio, per quanto, in caso di necessità e per evitare di perdere la covata o per alcune mutazioni o selezioni particolari, sia possibile usare le balie, solitamente canarine. È preferibile individuare un ceppo di canarini rustici, poco selezionati, anche perché l’allevamento dei ciuffolotti da

parte dei canarini non è per nulla semplice. La difficoltà non è legata all’alimentazione o ad un apporto proteico particolare che il canarino può fornire ai piccoli, ma la differenza sta nel numero delle imbeccate fornite dalle due specie: il ciuffolotto, infatti, ne fornisce un numero maggiore nell’arco della giornata e per ovviare a questo problema e riuscire in questa impresa, il segreto è quella di porre le coppie destinate a tale scopo in un locale a cui noi andremo a variare il fotoperiodo giornaliero, fino ad un massimo di 16 /17 ore e fornendo loro un pastone molto appetibile anche 6/7 volte al giorno, cosi da invogliare la nutrice all’imbecco.” Ringrazio Massimo per questo interessantissimo excursus sul mondo del ciuffolotto e mi auguro che questo nostro scritto possa invogliare qualche lettore ad intraprendere questa nuova avventura.

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CANARINI DI COLORE

Cromia bianca nei canarini di colore Aspetti strutturali di MIMMO ALFONZETTI, foto WWW.AMBIENTETRENTINO.IT e M. ALFONZETTI

L’

aspetto bianco delle piume non pigmentate è generalmente riconosciuto come un ‘colore’ strutturale (Fox, 1976). Il bianco è il risultato della dispersione ottica incoerente dalla cheratina della piuma non pigmentata, sia dalle superfici delle strutture della piuma e sia dai vacuoli d’aria all’interno della cheratina. La cromia bianca è peculiarità dei canarini Bianco dominante (soffuso, tedesco) e Bianco (recessivo, inglese). Tutte le parti della piuma possono apparire bianche, sebbene le barbule siano spesso così sottili da poter apparire trasparenti. Le piume bianche appaiono in un’ampia varietà di famiglie di uccelli e si sono chiaramente evolute molte volte in modo indipendente. È evidente che il bianco, colore strutturale, possa funzionare anche come piumaggio criptico in determinati ambienti e che questo colore probabilmente si sia evoluto per selezione naturale come adattamento contro il rilevamento da parte dei predatori visivi. Una piuma bianca mostra delle interessanti caratteristiche strutturali se vista sotto un potente microscopio. La struttura della superficie di una piuma bianca appare cristallina, simile a vetro tagliato o neve, chiaramente in grado di riflettere tutta la luce visibile. Le piume bianche hanno barbe che contengono molte cavità d’aria, che aumentano la riflessione totale dell’intero spettro della luce visibile. Perché il bianco del piumaggio dei ca-

Fig.1 - La pernice bianca (Lagopus mutus) è tra gli uccelli con il massimo candore del bianco, fonte: Ambientetrentino.it

narini è da considerare un colore fisico. Quando le bollicine d’aria imprigionate dalla cheratina sono piuttosto grandi e opportunamente conformate, riescono a respingere tutte le onde della radiazione luminosa e la penna risulta bianca. Il bianco dei capelli, come quello della neve o dei gigli, è causato da spazi d’aria contenuti in una sostanza solida traslucida. Il bianco delle piume dei canarini è quindi dovuto alle numerose

Una piuma bianca mostra delle interessanti caratteristiche strutturali se vista al microscopio

bollicine d’aria (vacuoli più o meno assemblati) presenti nelle barbe e nelle barbule prive di pigmenti, così numerose da causare un’imponente e diffusa riflessione della luce, come accade per la neve, il cotone o la carta. La natura strutturale del bianco del canarino, intesa come mancanza di granuli di melanina nel substrato sottostante e come presenza di numerose cavità d’aria, può essere facilmente dimostrata con un semplice esperimento: una piuma bianca brillante diventa trasparente quando è immersa in un balsamo per capelli o qualunque liquido contenente siliconi purché l’indice di rifrazione sia praticamente uguale a quello della cheratina; il bianco svanisce e la piuma assume l’aspetto di un foglio di carta unto.

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Fig.2 - Sezione di una barba di penna bianca (da Auber 1957, ridisegnata). In evidenza il vasto midollo occupato da vacuoli piene d’aria in assenza di pigmenti melaninci

Esiste nei canarini bianchi un “bianco che più bianco non si può”? Beh, sembrerebbe proprio di sì. In un’analisi dettagliata del bianco brillante del piumaggio invernale della pernice bianca Lagopus mutus (Van Dyck, 1979), si è dimostrato (con esperienze e misurazioni di laboratorio) che le piume bianche della pernice sono più bianche delle piume non pigmentate di altre specie. Il piumaggio invernale del Lagopus riflette quasi il 50% della luce visibile di tutte le lunghezze d’onda, rispetto al 15-18% di riflettanza delle lunghezze d’onda visibili per le singole piume, per esempio, della gallina domestica bianca (Gallus gallus). Utilizzando la microscopia elettronica a trasmissione, Van Dyck ha dimostrato che questo colore bianco è prodotto da vacuoli d’aria (sì da creare dei canali pieni

Fig 3- Dispersione luminosa da superficie speculare e da superficie scabra

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di aria) organizzati in modo casuale nelle barbule delle piume di Lagopus e che questi particolari vacuoli sono assenti nelle piume di altre specie. Van Dyck ha ipotizzato che, causa la sovrapposizione di molte piume, sì da incrementare la concentrazione di questi vacuoli, la riflettanza si sarebbe avvicinata a quella altamente efficiente dell’80% della neve caduta. Il numero e la dimensione dei microvacuoli contenuti nello strato midollare della piuma giocano un ruolo importantissimo nella diffusione del bianco. Se la concentrazione dei microvacuoli pieni di aria è maggiore la radiazione bianca ha una intensità superiore, per cui si potrebbe apprezzare un bianco più bianco (sic!). Il maggior candore di alcuni canarini bianchi recessivi, tralasciando le particolari abluzioni sbiancanti, potrebbe avere una giustificazione di natura strutturale legata alla presenza e alla dimensione dei microvacuoli e quindi risultare ereditaria. Collegare quanto sperimentalmente verificato da Van Dyck ai nostri canarini bianchi non mi sembra qualcosa di “dissociante”, per cui potrebbe essere giustificata la prassi delle Commissione Tecnica del Colore di differenziare nel giudizio le gradazioni del bianco. Questo concetto non deve sembrare fuorviante perché, ad esempio, le industrie della carta usano tecniche particolari per misurare proprio il grado del bianco. Se per i bianchi soffusi le gradazioni della varietà bianca sono opportune, lo stesso non sarebbe possibile (secondo alcune correnti di pensiero) per i bianchi recessivi, dove la varietà bianca è assoluta (assenza totale di lipocromo) e teoricamente non valutabile.

In merito, riporto il pensiero di un tecnico di sicura competenza (Giovanni Canali, un maestro dell’ornicoltura italiana): la minore espressione del candore potrebbe essere associata a difetti della compattezza del piumaggio, dove eventuali zone di microombre (simili a quelle generate della goffratura di tessuti o carta) sarebbero di ostacolo ad una riflessione completa; ne consegue che eventuali penalizzazioni dovrebbero interessare il considerando del piumaggio. La riflettanza solare è la proprietà di un materiale/superficie di riflettere l’irradiazione solare (si misura con particolari strumenti ottici, i riflettori). Una superficie dotata di elevata riflettanza solare riflette la maggior parte dell’irradiazione solare incidente e quindi rimane più fresca in superficie (l’energia luminosa solo in parte viene riflessa, l’altra assorbita come energia termica). I colori chiari, in particolare il bianco, hanno una elevata riflettanza solare. La riflettanza solare si definisce con un valore da 0 a 1, oppure in percentuale. A margine di questo argomento merita un cenno la natura del bianco come aberrazione cromatica del piumaggio. Il leucismo, dal greco leukós = bianco, è una condizione anormale del piumaggio causata da una mutazione genetica che impedisce ai pigmenti, in particolare alla melanina, di essere correttamente depositati sulle piume di un uccello. Nel caso in cui i pigmenti scuri (I.Ferrari, Quaderni di birdwatching) vengano prodotti in quantità davvero minime rispetto a quelle tipiche, gli esemplari mutanti mostrano spesso una colorazione ocra (“isabellina”) o color crema pallido (“leucistica”) dovuta alla presenza dei

Fig. 4 - Il riflettometro ottico misura il rapporto tra la quantità di energia luminosa incidente e quella riflessa


carotenoidi in quantità normali. Gli individui leucisti sono caratterizzati da una colorazione pallida e slavata priva di toni scuri che può interessare l’intero piumaggio (leucismo totale) o solo alcune chiazze isolate frammiste a penne e piume normalmente colorate. I canarini con leucismo totale possono apparire totalmente bianchi. Il leucismo è dovuto massimamente alla mancata differenziazione delle cellule responsabili della pigmentazione. Ciò determina un’assenza parziale (a macchie) o totale della pigmentazione. Per cui l’enzima responsabile della produzione della melanina può essere presente, ma il difetto è nelle cellule che codificano la pigmentazione. Se tutte le cellule sulla superficie corporea non riescono a differenziarsi allora si avrà leucismo totale; se invece alcune riescono a differenziarsi e altre no, si osserveranno chiazze di colore normale su livrea bianca, o chiazze bianche su manto normale. A differenza dell’albinismo, inoltre, coloro che sono affetti da leucismo presentano gli occhi di colore normale. Infatti, le cellule pigmentarie si sviluppano da una particolare zona embrionale del derma (la cresta neurale), tranne nel caso degli occhi, dove l’origine è differente. Le cellule pigmentarie oculari si differenziano normalmente e quindi producono melanina. Nell’ornitologia da diletto viene spesso usato il termine “acianismo” al posto di “leucismo”. Parola impropria (sta letteralmente ad indicare l’assenza di ciano, azzurro) e stranamente usata per distinguere i canarini dove i pigmenti neri sono sopiti; “leucismo” è invece ampiamente usato in zoologia e sarebbe più corretto per i canarini bianchi con occhi neri. Forse sarebbe utile usare il termine “acianismo” per soggetti lipocronici gialli e rossi e “leucismo” per quelli bianchi, anche se nella pratica usiamo il termine “acianico” impropriamente per entrambi i colori. Per evitare qualsiasi confusione forse sarebbe il caso di chiamarli “canarini amelanotici” da “amelanismo” (noto anche come “amelanosi”), termine usato in medicina per indicare un’anomalia della pigmentazione caratterizzata dalla mancanza delle melanine.

ALBINISMO

MELANISMO

LEUCISMO

Albinismo è una generica condizione che riduce l’apporto di melanina nella pelle, nelle piume e/o occhi

Il leucismo e una condizione in Melanismo è una condizione cui solo una parziale perdita della che incrementa il pigmento nero pigmentazione prende posto che prende posto conseguendo realizzando pelli, capelli o piume una apparenza nerastra in bianco o colorate a chiazze

Assenza di melanina

PRESENZA E ASSENZA DI MELANINE Alto apporto di granuli Parziale perdita di pigmentazione, di melanine nella pelle, piume e le cellule dei pigmenti degli occhi occhi non sono affetti CAUSE

Uno o piu difetti genetici che rendono l’organismo incapace di produrre o distribuire a melanina

Associato ad un gene che codifica il recettore di melanocortina 1 (MC1R)

Dal punto di vista specificatamente chimico-biologico, la cromia bianca potrebbe giustificarsi nella inibizione di una delle varie reazioni enzimatiche che in successione trasformano i lipocromi della dieta in xantofille. Nei bianchi dominanti non è inibita la produzione di xantofille ma non è assicurato il loro trasferimento nelle piume. Per alcuni follicoli, in particolare quelli relativi al bordo esterno delle penne delle prime remiganti delle due ali, la differenziazione ha luogo, per cui è assicurato il trasferimento dei pigmenti che si manifestano come soffusioni (da cui l’aggettivo “soffuso”). Nei soggetti non correttamente selezionati le soffusioni possono interessare le “spalline”, le guance etc. Di contro, nei bianchi recessivi sembra che sia inibita proprio l’assimilazione delle xantofille a livello intestinale; la differenza è apprezzabile per la totale mancanza delle soffusioni gialle e la colorazione viola-

Associato a una particolarità genetica dovuta a un gene, recessivo in molti casi.

cea della pelle (il grasso del derma, essendo completamente apigmentato, ha un aspetto sui generis). Gli allevatori più anziani ricorderanno che i soggetti bianchi erano gracili o cagionevoli; si interveniva con abbondanti somministrazione di complessi vitaminici ed in particolare la vitamina D. Nel canarino melanico apigmentato la radiazione bianca è decisamente diversa da quella dei bianchi (lipocromici), perché siamo in presenza di piume che pur presentando apigmentazione lipocromica hanno una cheratina contenente strati con melanine più o meno disperse. Queste melanine assorbono una quantità non indifferente delle radiazioni incidenti, per cui la luce riflessa non può avere il candore del corrispondente piumaggio dei bianchi lipocromici. Ricordiamo che per parlare di bianco l’energia luminosa riflessa deve essere superiore al 50% di quella incidente.

Fig. 5 – Semplificazione strutturale dei melaninici apigmentati. La diffusa riflessione bianca della corteccia non può aver nitore per la presenza di radiazioni grigiastre provenienti da strati profondi siti di rarefazione melaninica

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CANARINI DI FORMA E POSIZIONE ARRICCIATI

Quattro chiacchiere sul Fiorino: la Testa e il Collo testo e foto di FRANCESCO ROSSINI

Fiorini melaninici testa liscia

I

n un articolo pubblicato su I.O. un paio di anni fa lessi una frase con la quale, per rimarcare la larga diffusione del Fiorino, l’autore sosteneva che ormai anche molti allevatori di altre razze ne possedevano una o due coppie “tanto per provare”. Un’affermazione a mio avviso proferita con leggerezza e spero con altri intenti, ma che certo non nobilita la razza. Per chi ha una conoscenza approssimativa del Fiorino, il suo allevamento può anche sembrare meno impegnativo rispetto a quello di altre razze, ma ci sono casi di allevatori che hanno iniziato ad allevare i Fiorini con canarini ottenuti dai migliori allevamenti e in due o tre anni hanno disperso il

ceppo acquisito e sono inesorabilmente “spariti”, proprio per la presunzione di avere a che fare con una razza solo apparentemente considerata “facile”. Lo stesso Zingoni sottolineava spesso

Per chi ha una conoscenza approssimativa allevare il Fiorino può sembrare meno impegnativo rispetto ad altre razze

come i Fiorini fossero prolifici oltre che buoni allevatori della prole, ma non ha mai sostenuto che la razza stesse assumendo questo ruolo di secondaria importanza negli allevamenti, nè tanto meno che fosse semplice ottenere soggetti di pregio. Se si considera che la stragrande maggioranza degli allevatori di Fiorini alleva con l’ambizione di ben figurare nelle mostre ornitologiche, e molti di loro hanno ottenuto prestigiosi successi nel mondo grazie alla loro riconosciuta competenza tecnica, l’affermazione è quantomeno “singolare”. L’allevamento del Fiorino, così come per tutte le altre razze di canarini, richiede una attenta conoscenza dei

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suoi connotati ed una buona capacità selettiva dell’allevatore per il raggiungimento dei caratteri ottimali previsti dallo standard. Se poi si fa affidamento sulla legge dei grandi numeri, mirando a produrre 150/200 novelli per ottenere qualche premio d’onore, oppure si vuole detenere una o due coppie “tanto per provare”, allora è tutto un altro discorso e sicuramente non si può in alcun modo parlare né di selezione, né di “ceppo”. Fatta questa doverosa premessa iniziamo a commentare due connotati (anche se raccolti in una unica voce dello standard) che, come per la “taglia”, richiedono la massima attenzione specialmente da parte di chi si approccia per la prima volta alla razza. Il tema in questione è la “testa e collo” e, con quest’articolo, cercherò di rimarcare alcuni punti di attenzione di cui nel corso degli anni si è parlato e riparlato, aggiungendovi qualche considerazione che è frutto del mio ormai consolidato status di “vecchio allevatore”. Nella scheda descrittiva dello standard del Fiorino i punti a disposizione per questa voce sono 15, così come

Fiorini melaninici testa liscia

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quelli per la voce “Taglia”, a dimostrazione della grande importanza che Zingoni e Del Prete attribuirono a questi due connotati. C’è da dire che poiché la selezione necessaria per ottenere una ottima testa liscia è molto meno impegnativa rispetto a quella necessaria per ottenere un ciuffo di ottima fattura, i 15 punti previsti potrebbero essere considerati eccessivi, mentre potrebbero sembrare scarsi per i “testa ciuffata”. Per questo motivo una media di 15 punti fu il giusto compromesso per mettere tutti d’accordo. Occorre altresì tenere presente che la conformazione del collo non è un dettaglio di secondaria importanza, ma è un elemento imprescindibile per conferire al Fiorino l’eleganza che lo contraddistingue nei soggetti più tipici. Ne parleremo dopo… La testa Nei soggetti privi di ciuffo la testa deve essere semplicemente liscia e, in particolare, priva di quelle cosiddette “crestine” che sono delle piumette presenti ai lati della testa, generate dal solco retrooculare, e la cui

presenza è maggiormente riscontrabile nei maschi. Sarebbe anche richiesto un “accenno” di sopracciglia anche se, in realtà, queste non sono sempre presenti e, non essendo un dettaglio di primaria importanza, c’è una certa tolleranza e si va avanti così con buona pace di tutti. Nei soggetti ciuffati, il ciuffo è richiesto completo, centrato e deve lasciare vedere l’occhio. I Criteri di Giudizio, nei commenti alle singole voci dello standard, riportano esplicitamente che deve essere completo in tutta la sua circonferenza, e che nella parte posteriore, deve essere privo di calvizie. Sono sono da considerare difettosi i ciuffi “buttati in avanti” cioè a “ferro di cavallo” sul tipo di quello del Lancashire. Durante i primissimi anni di selezione, Zingoni e Del Prete pensarono un Fiorino con un ciuffo molto sviluppato che coprisse l’occhio obbligando il canarino ad assumere un portamento eretto che gli consentisse di vederci meglio. Poi considerarono che un ciuffo con piume così sviluppate avrebbe comportato piume più lunghe in tutto il corpo che sarebbero state difficili da ottenere oltre che inadatte ad un piccolo arricciato. Fu così che quando stilarono lo standard del Fiorino indicarono in modo indiscutibile che il ciuffo doveva lasciare vedere l’occhio. Il ciuffo deve essere ben centrato e ben raccordato sul retro con le piume del collo. In questi decenni, dopo aver osservato migliaia di Fiorini, credo di poter affermare che, in generale, la percentuale di ciuffi di questa fattura è abbastanza rara perché un ciuffo ben raccordato non ha una grande diffusione nei soggetti di piccola taglia che, ovviamente, hanno anche una testa più piccola. Purtuttavia nei migliori allevamenti, in cui è presente un’alta quantità di soggetti “piccoli” si possono ammirare anche un buon numero di ciuffi perfetti o quasi. Certamente la percentuale di quelli di ottima fattura è maggiore negli allevamenti dove la taglia è mediamente al limite (se non oltre) e le teste , più grandi, meglio si addicono alla crescita di un ciuffo ben raccordato.


Ritengo che il “lavoro” necessario per correggere la calvizie nucale sia obbiettivamente impegnativo, ma sicuramente più facile rispetto a quello per la correzione di altri difetti come ad esempio la “taglia” per la quale occorrono molti anni di rigida selezione. Se in qualche mio soggetto la calvizie è lieve, e cioè dovuta a poche piume che sono leggermente sollevate senza lasciare scoperta la nuca, più frequente nei soggetti più piccoli, e se veramente ne vale la pena, io lo utilizzo tranquillamente per la riproduzione. Dopo tanti anni di esperienza ho imparato che la selezione, se i punti di attenzione sono più di uno (taglia, testa, collo), deve anche basarsi sull’accettazione di compromessi che piano piano verranno risolti nel tempo. Forse mi sbaglierò ma nel corso degli anni ho notato una certa tolleranza dei giudici nei casi in cui si tratta di una “leggera calvizie” e devo dire che questo eventuale tipo di approccio, se il soggetto eccelle in tutto il resto, mi trova assolutamente d’accordo. Lo ripeto ancora, a causa della calvizie nucale, ottenere ciuffi perfetti, nei Fiorini piccoli è molto difficile, ma la selezione e la capacità dell’allevatore possono portare a ottimi risultati. Un altro difetto presente principalmente nei ciuffi di soggetti provenienti da allevamenti meno selezionati, è quello delle piumette rialzate ai lati della testa che sono principalmente dovute alla presenza delle sopracitate “crestine” che purtroppo talvolta, quando presenti, danno il loro contributo negativo, oltre che nei testa liscia, anche nei ciuffati. Il collo Lo standard prevede che il collo debba essere liscio e ben staccato da testa e jabot, e nel commento alla voce è specificato chiaramente: “… nessuna concessione se il collo non è perfettamente liscio, cioè se mostra il cravattino o svirgolamenti di piume da un lato o dall’altro, oppure se appare troppo grosso richiamando alla mente quello del Gloster, e appesantisce il soggetto nuocendo alla sua eleganza…”. Sia il “cravattino” o “baffetto” che dir

Fiorino melaninico testa liscia

si voglia, che “il collo grosso” sono difetti che, nonostante siano trascorsi oltre cinquant’anni dai primissimi meticciamenti, di tanto in tanto si ripresentano anche ai giorni nostri. Ma mentre il secondo, probabilmente dovuto all’originario meticciamento con il Gloster, può essere corretto in tempi relativamente brevi escludendo i soggetti difettosi dalla riproduzione, il cravattino è un nemico molto più difficile da combattere. Raccontava Zingoni che una delle prime coppie che dettero origine ai meticci era costituita da un Arricciato del Nord di scarto, con un vistoso collarino particolarmente sviluppato sulla parte destra del collo, e da due piccole femmine Gloster ciuffate. Ma anche in seguito, nel determinante tentativo di ridurre ulteriormente la taglia, l’inserimento di un Gibber di scarto “ben cravattato”, dette una ulteriore spinta al consolidamento di

quel difetto. Fin da subito i primi soggetti da cui ha avuto origine la razza erano in buona parte caratterizzati da quel baffetto al collo che, in alcuni casi era qualcosa di più di qualche piumetta, al punto tale che i primi anni di selezione furono costituiti da due linee di soggetti che si differenziavano proprio per la presenza o meno di quella arricciatura sul collo. Infatti fino all’incontro con giudici e allevatori tenutosi in quella ormai storica Rassegna di Arricciati svoltasi a Bologna nel 1980 durante la quale Zingoni presentò ufficialmente le due linee di Fiorini, l’idea era quella di creare un mini arricciato, con e senza ciuffo, che assomigliasse al Padovano. In quella occasione fu chiesto ai presenti se preferissero il collarino oppure il collo liscio e, per alzata di mano, con una manciata di voti in più, prevalse quest’ultima “linea”. In seguito, i creatori della razza ammisero che le loro

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preferenze erano per un canarino più somigliante al Padovano rispetto all’Arricciato del Nord ma questo nulla toglieva all’enorme soddisfazione di aver creato un vero e proprio gioiellino dalla canaricoltura italiana che, di lì a poco, avrebbe avuto una enorme diffusione in tutto il mondo. La loro preferenza era motivata, oltre che da un tema prettamente estetico, anche dalla consapevolezza che quella arricciatura sul collo avrebbe facilitato la creazione di un collarino mentre, al contrario, sarebbe stato un duro ostacolo da superare nel caso si fosse voluto optare per il collo liscio. Mi raccontava Zingoni che quando i giovani Fiorini terminavano la muta, lui ne osservava ripetutamente il collo per vedere se scorgeva, specialmente a destra, quel famigerato baffetto che, negli anni, nonostante la sua rigida selezione, di tanto in tanto, appariva anche se in maniera impercettibile. Naturalmente, quando vedeva quelle poche piumette alzarsi, in particolare quando il canarino girava la testa, anche nel caso fosse stato un bellissimo soggetto, non esitava ad escluderlo dalla riproduzione. Quante volte mi diceva: «Guarda che meraviglia Francesco, eppure non lo posso accoppiare… Maledetto baffetto!...». Io stesso avevo notato che lui era

Fiorini pezzati testa liscia e testa ciuffata

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I creatori della razza ammisero che le loro preferenze erano per un canarino più somigliante al Padovano rispetto all’Arricciato del Nord

molto più tollerante nei confronti di altri difetti ritenuti meno difficili da correggere, ma la guerra a quelle piumette sul collo era implacabile perché era convinto che alla fine, sue testuali parole, «“chi la dura la vince” e una buona volta il gene maledetto che sostiene quell’anomalia sarà escluso del tutto”». Occorre però considerare che non solo negli allevamenti, ma anche in mostra, di soggetti che evidenziano quelle poche piumette ve ne sono ancora e allora forse potremmo prendere in considerazione l’idea che ci sia una certa generale sottovalutazione del difetto. Io penso di sì! Forse perché gli occhi che osservano non sono particolarmente esperti, forse per una eccessiva tolleranza nei confronti di questa anomalia, forse

perché quel leggero accenno di cravattino è talmente “impercettibile” che passa inosservato, forse per non voler rinunciare contemporaneamente all’alto livello qualitativo raggiunto per altre peculiarità, forse perché c’è ancora chi addirittura non sa che si tratta di un difetto? Non saprei, ma sono certo che nella maggior parte degli allevatori, escluso pochi, non c’è la reale consapevolezza dell’alta penetranza di questo baffetto. Diceva Zingoni che la difficoltà riscontrata nell’eliminazione definitiva di quel connotato dipendeva dal fatto che si trattava di una razza che fa parte dei canarini arricciati nei quali, ovviamente, sussiste una certa tendenza generale all’arricciatura delle piume che si può manifestare anche nelle regioni a piumaggio liscio. Ed è proprio questa generale caratteristica a tendere verso l’arricciatura delle piume, che crea una forte resistenza all’eliminazione totale, ed in tempi brevi del “cravattino” che, anche se raramente, può apparire per la prima volta anche dopo la muta dei soggetti adulti. Zingoni faceva notare che, per contro, la comparsa del medesimo difetto ottenuto dall’accoppiamento di due canarini a piumaggio “totalmente liscio”, sarebbe stato di ben più facile risoluzione. Da vecchio allevatore di Fiorini, consiglio di fare molta attenzione all’eventuale insorgenza di quelle piumette a destra del collo. Anche io sono assolutamente convinto che, anche in presenza di altre caratteristiche di ottima fattura, seppure a malincuore, sia molto meglio escludere il canarino dalla riproduzione per non correre il rischio di radicare ancor di più la presenza del “collarino” in allevamento. In conclusione, già affrontando solo due connotati è evidente quanto sia impegnativa la selezione del Fiorino. Sono convinto che il racconto delle coppie tenute “tanto per provare” sia una narrazione relativa a pochi casi, quindi di marginale importanza, e certamente non riconducibile alla maggior parte degli estimatori della razza.


Questo mese, il protagonista di Photo Show è: EMANUELE ARPONE R.N.A 9ABF con la fotografia che ritrae il soggetto: “Conuro guance verdi” Pyrrhura molinae (mut. hypoxantha) Complimenti dalla Redazione!

• Invitiamo tutti gli allevatori a inviare foto di soggetti provenienti dai propri allevamenti, con descrizione della specie, razza e mutazione, all’indirizzo: redazione@foi.it

• All’autore della foto mensilmente prescelta da un comitato interno, verrà offerto in omaggio un libro edito dalla FOI in base alla preferenza e alla disponibilità.

(*) Tutte le foto inviate, anche quelle non pubblicate, rimarranno a disposizione della FOI a titolo gratuito e potranno essere utilizzate, senza alcun limite o vincolo temporale, per pubblicazioni, iniziative e scopi promozionali della Federazione



CANARINI DI COLORE

Parliamo del Nero di GIOVANNI CANALI, foto F.O.I. e E. DEL POZZO

H

o spesso parlato dei 4 tipi base: nero, bruno, agata ed isabella. Ho inoltre segnalato come il nero e l’agata siano i più importanti. Ho anche detto che sono da considerare le colonne portanti delle due linee selettive principali e cioè: ossidati il nero e diluiti l’agata. Precisando ulteriormente che con i bruni, sia classici che in interazione con tipi aggiunti, dovrebbero essere usati i nero-bruni, non i neri selezionati come si pretende oggi. Vale a dire sia massima espressione del nero che del bruno, nei soggetti ottimi. Il canarino selvatico è un nero-bruno non selezionato dall’uomo bensì dalla natura, che ha esigenze soprattutto funzionali e di mimetismo non tanto estetiche come piace all’uomo. Tuttavia esistono casi particolari, come la selezione sessuale che cura aspetti estetici; lo si nota molto bene in diverse specie, come ad esempio il celebratissimo pavone. Mi si consenta una digressione su questo tema. In questi casi vengono selezionati i maschi più apprezzati dalle femmine. Si nota perfino un danno alla funzionalità; infatti la coda del pavone non è certo utile per sfuggire ai predatori. Su questo esempio ed altri è stata formulata la “teoria dell’handicap” secondo la quale la sopravvivenza dei soggetti, nonostante l’handicap, sarebbe una selezione particolarmente severa a favore dei più dotati, che sopravvivono nonostante l’handicap. È la teoria di Zahavi da alcuni contestata, ma che personalmente apprezzo, se non altro per il fatto di essere davvero suggestiva. Non è detto però che vada sempre così; infatti, secondo una tesi molto fondata, una specie di cervi antichissimi si sarebbe estinta poiché i palchi enormi

La lotta contro il bruno è più difficile nella femmina

Nero bianco, foto: E. del Pozzo

dei maschi selezionati sessualmente, oltre un certo limite pregiudicarono irrimediabilmente la sopravvivenza dei maschi stessi. Tornando al canarino selvatico si nota bene il dimorfismo sessuale, anche se non molto accentuato. Certo non tale da costituire un handicap per i maschi. Fra l’altro la femmina non si accoppia con maschi che non abbiano conquistato un territorio. Quindi occorre una competitività fra i maschi di forza e non di estetica, anche se, vigendo la monogamia, quasi tutti o almeno molti maschi si riproducono. Il dimorfismo sessuale del canarino selvatico si ripercuote anche sui mutati, magari in misura minore se certe caratteristiche sono perdute o apparentemente maggiore se sottolineate da altre caratteristiche. La lotta contro il bruno è più difficile nella femmina, poiché la femmina per esigenze mimetiche ha più bruno, vale a dire feomelanina ed è una regola generale con poche eccezioni. Questo aspetto deve essere tenuto in alta considerazione, altrimenti lo svantaggio della femmina diventa troppo pesante, quando si seleziona contro la feomelanina. Si deve tenere conto anche del fatto che i novelli riecheggiano le caratteristiche femminili, anche nei maschi, i quali assumeranno solo da adulti le loro espressioni tipiche, questo per esigenze di mimetismo particolarmente importanti nei giovani. Lo si deve tener presente nelle penne che non sono mutate in prima muta. Di conseguenza, tracce di feomelanina in tali penne devono essere tollerate. Ricordo che queste penne sono: remiganti primarie, remiganti secondarie, grandi copritrici delle primarie, che non sono mai mutate, salvo incidenti, men-

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Nero pastello ali grigie mosaico rosso, foto: E. del Pozzo

tre sono più o meno spesso mutate le: remiganti terziarie (molto spesso), le timoniere e quelle dell’alula, almeno la prima. Tutte le altre sono mutate sempre. Il disegno del selvatico a livello di striature non è molto accentuato, evidentemente striature medie sono ideali per il mimetismo. Del resto il mimetismo, di solito, è favorito da linee interrotte. Ricordo che il disegno si divide in: marcature delle penne forti, vergature delle medie copritrici dell’ala e striature tutte le altre. Ho ampiamente trattato del disegno in altre sedi e quindi non mi dilungo. In questa sede sottolineo che il disegno di eumelanina, che nei neri classici è nero, è richiesto lungo e largo. Questo

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per esaltare, causa ragioni estetiche, il disegno, che è più modesto nel selvatico. Inoltre si richiedono becco e zampe molto ricchi di eumelanina nera. Talora si dice becco e zampe nere oppure becco e zampe ossidati. Il concetto è sempre quello: su becco e zampe si tende ad avere il massimo di eumelanina nera. Becco e zampe nel selvatico hanno modesta quantità di eumelanina. In effetti questi aspetti hanno una loro logica precisa; si cerca di esaltare le caratteristiche dell’ossidato al massimo, oltre i livelli normali del selvatico. Ricordo che la melanogenesi, cioè la formazione delle melanine, è un fenomeno complesso e chimicamente di ossidazione.

Becco e zampe nere sono pregevoli sul piano estetico, tuttavia suscitano qualche timore sul prezzo da pagare in fatto di vitalità. Ebbene non vi è certezza alcuna, ma forse la selezione molto spinta soprattutto per becco e zampe nere potrebbe creare dei problemi di vitalità. Si è ipotizzato che il fenomeno “pelle nera” sia stato indotto da selezioni eccessive verso il nero. Si è ritenuto da parte di molti che il fenomeno “pelle nera” sia appunto il risultato sgraditissimo di tali selezioni. I soggetti affetti dal fenomeno “pelle nera” sono in muta continua e quindi sterili. Del resto nella melanogenesi intervengono diversi ormoni come quelli tiroidei, che presiedono anche alla muta. I difetti suddetti sono evidentemente gravissimi. Si è anche ipotizzato che il “pelle nera”, così chiamato per la pelle nera visibile già nel nido, potesse essere una mutazione. Ho a lungo discusso il fenomeno, ma non ho certezze sulla sua natura originale. Ho sempre ritenuto di propendere per la selezione, ma in certi momenti di più, in altri con dubbi maggiori. Di certo posso dire che il “pelle nera” comporta uno squilibrio a favore dell’eumelanina, non costituisce quindi un puro e semplice aumento generale di ossidazione, che dovrebbe agire anche sulla feomelanina, che invece non è interessata. Il fenomeno pelle nera si verifica anche in tipi diversi, come: bruni, agata ed isabella. Sia classici che con tipi aggiunti. La presenza anche in agata ed isabella, cioè nella linea dei diluiti, ci fa ben capire che si tratta di uno squilibrio a favore dell’eumelanina, presente anche nei diluiti, ancorché ridotta e non di una generica maggiore ossidazione. C’è pure da dire che il “pelle nera” è palese su: pelle, becco e zampe, ma non è detto che lo sia anche per il disegno; infatti ho visto dei “pelle nera” con disegno sottile. Se la tesi della selezione eccessiva per il nero fosse esatta, faremmo bene a non seguire il pessimo esempio delle femmine del cervo preistorico, che davvero apprezzavano troppo i palchi esagerati, anche se i meccanismi sono diversi. Nei neri si cerca un disegno non solo ben nero, ma anche molto espresso,


vale a dire lungo e largo. Il concetto di largo credo sia abbastanza ovvio: è largo se è maggiormente espresso e con più eumelanina. Per quanto concerne il lungo, è un effetto che si viene a creare con la forte saturazione della penna. Vale a dire che la stria molto espressa finisce con il creare un’apparente linea unica con la stria della penna successiva. Certo, perché il fenomeno si verifichi occorre che il piumaggio sia composto, altrimenti anche con ottima saturazione le strie non creerebbero un’apparente continuità, vista la scompostezza del piumaggio. Quando si parla di disegno nei neri, si dice spesso non solo lungo e largo, ma si parla anche di rigoni o di binari. In effetti in presenza di strie larghe e seguenti quella è l’impressione che si viene a percepire. Per aumentare la larghezza del disegno c’è chi ha pensato di allargare la penna, di fatto allungando le barbe. Trattasi di trucco poco apprezzabile; poiché la circostanza si ripercuote negativamente sul piumaggio in quanto tale. Inoltre, più il piumaggio è abbondante e più è difficile tenerlo composto. Mi è anche capitato di vedere soggetti che a seconda delle movenze in certi momenti avevano un ottimo disegno ed in altri un disegno che rimaneva si largo, ma non più lungo, vale a dire seguente. Questo perché, appunto secondo i movimenti, il piumaggio si componeva o si scomponeva. Quindi certamente selezionare disegni lunghi e larghi ma senza indulgenze verso piumaggi eccessivi. Nell’allevamento dei neri, intendendo seguire l’attuale orientamento contro il bruno e cioè contro la demonizzata feomelanina, si cerca di avere il miglior disegno con i connotati di cui sopra con minimo bruno. Dico minimo poiché l’annullamento totale non è ottenibile con la selezione. Per avere annullamento e cioè inibizione della feomelanina bisogna ricorrere al “mono melanico”, vale a dire a dei soggetti affetti da una mutazione che inibisce la feomelanina. Si badi però che nei “mono melanici” difficilmente si ha un disegno davvero ottimo. Pare che la suddetta mutazione agisca anche nei confronti dell’eumelanina, anche se in misura

Nero topazio intenso giallo, foto: E. del Pozzo

molto limitata. Si consideri anche che il “mono melanico” non distrugge la feomelanina, ma la inibisce. È lo stesso discorso del bianco recessivo, che non distrugge ma inibisce i carotenoidi dando luogo a varie sorprese. Ebbene anche un “mono melanico” potrebbe nascondere elevata feomelanina, pertanto non ci si illuda di combatterla nei soggetti normali o classici, che dir si voglia, inserendo il mono melanico che non si sa quanta feomelanina nasconda. Nella selezione contro la feomelanina è bene non esagerare; infatti esistono geni specializzati o quasi, ma molti pleiotropici cioè in grado di codificare per entrambe le melanine. Di conseguenza l’accanimento contro la feomelanina

può intaccare anche l’eumelanina (Povera feomelanina I. O. n°8/9 del 2012). Alcuni allevatori usano accoppiare un soggetto molto nero con un altro che conservi un poco di bruno. Nella selezione si deve cercare anche un disegno completo in ogni sua parte, vale a dire che zone localizzate scarse di disegno costituiscono difetto. Tali zone sono spesso rappresentate dai fianchi, dalla testa e dal petto. Si badi però che il maschio è meno dotato sulla testa, avendo fronte più alta ed inoltre è meno segnato di petto e fianchi; ha invece mustacchi più segnati, ma le femmine sono più dotate di piccole strie fra i mustacchi stessi. Una certa attenzione quindi va data anche al dimorfismo sessuale. Questo però

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non significa che si debbano tollerare maschi con pochi o minimi fianchi o poche striature sulla testa, si deve solo fare attenzione al dimorfismo per non pretendete troppo dal sesso meno dotato in un determinato punto. Da non dimenticare assolutamente, come dicevo, il fatto che la femmina ha più feomelanina al fine di non considerare allo stesso modo tracce di feomelanina nei due sessi. Per quanto concerne il becco e le zampe, sono previsti neri o quasi. Bisogna quindi selezionare in tal senso, tuttavia anche e soprattutto per i discorsi fatti prima sul “pelle nera” ritengo non sia il caso di esasperare la selezione. Convengo sul fatto che becco e zampe nere siano un ottimo attributo, ma il disegno deve essere prioritario, anzi per me molto prioritario. Vale a dire che fra un soggetto leggermente superiore come becco e zampe ed uno leggermente superiore come disegno non ho dubbi che sia da preferire quest’ultimo. Anzi un mio personale e discutibile parere, da molti non condiviso, è che l’ossidazione ele-

Nero brinato giallo, foto: E. del Pozzo

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Si consideri che, in passato i neri gialli erano chiamati verdi, i rossi bronzo, i bianchi ardesia, gli avorio gialli oliva e gli avorio rosa o rossi, come si dice ora, viola

vata di becco e zampe, siano un complemento non proprio fondamentale, anche se pregevole. Un tempo, molto correttamente si parlava di nero-bruni e si ricercava la massima espressione di entrambe le melanine. Poi si è cambiata linea per seguire l’estero. Non mi soffermo, ho già stigmatizzato abbastanza questa pessima scelta in altre sedi. Voglio però ricordare che il nero per essere colonna portante delle selezioni dei bruni, deve avere la feomelanina, deve cioè essere un vero nero-bruno, secondo natura e

non secondo moda. In effetti l’incrocio fra nero-bruni e bruni giova al mantenimento del disegno ed alla qualità del piumaggio nei bruni. Purtroppo dei veri nero-bruni si è quasi perso lo stampo e diventa davvero arduo trovarne. Del resto chi li ha, quei pochissimi, di solito cerca di tenerseli. Ebbene, chi volesse farseli dovrà trovare un nero, magari scartato perché con tracce evidenti di bruno, ed accoppiarlo con bruni molto ricchi di feomelanina. Nel giro di 2 o 3 generazioni è probabile che si possano avere dei buoni nero-bruni. Attenzione però a non trascurare la qualità del disegno: lungo, largo e completo in ogni sua parte che rimane comunque fondamentale. C’è poi l’aspetto delle interferenze. Non si deve dimenticare che la categoria intenso restringe il vessillo accorciando le barde, di conseguenza il disegno di un intenso non può essere largo come quello di un brinato o di un mosaico. I fondi bianco ed avorio mettono in evidenza la feomelanina, quindi non si pretenda in fondi bianchi o avorio la stessa situazione che si ha con le

Nero mosaico rosso maschio, foto: E. del Pozzo


varietà giallo o rosso. In altri termini tracce brune non sono difetto uguale nelle diverse varietà. Del dimorfismo ho già detto. Ci sono stati in passato vari discorsi su presunti fattori ottici o blu o di rifrazione che aumenterebbero il nero e ridurrebbero il bruno, magari con trasformazioni; ebbene sono tutti destituiti di ogni fondamento. Quanto al blu, l’unica cosa vera è che i fondi bianchi presentano riflessi metallico bluastri, molto probabilmente dovuti a granuli di eumelanina fuori dal centro di convergenza che produce il disegno. Si consideri che, in passato i neri gialli erano chiamati verdi, i rossi bronzo, i bianchi ardesia, gli avorio gialli oliva e gli avorio rosa o rossi, come si dice ora, viola. Ebbene, a parte il viola, gli altri nomi erano abbastanza azzeccati come effetto finale percepito. Se vogliamo è una curiosità storica, tuttavia fa ca-

Nero mosaico giallo, foto: E. del Pozzo

pire gli effetti che ci sono nel nero, che è sempre un tipo bellissimo. Quanto agli accoppiamenti ho già dato indicazioni. Posso aggiungere che un tempo non era da escludere l’accop-

piamento con bruni purché avessero becco e zampe brune. Oggi non avrebbe senso, per fare dei neri. Anche in passato si preferiva accoppiare solo fra neri. In effetti l’accoppiamento fra veri nero-bruni e bruni giova ai bruni, ma non conferisce vantaggio ai nerobruni e tanto meno ai neri di oggi, quindi non adatto l’accoppiamento con bruni. Ovviamente da escludere l’accoppiamento con diluiti, agata o isabella, visto che sono linee selettive opposte, cioè massima ossidazione negli ossidati e massima diluizione nei diluiti. Quanto all’ibridazione con il verzellino propugnata da qualcuno in passato, è una roba senza senso che farebbe solo danni, visto che il verzellino non ha certo il becco, le zampe e soprattutto il disegno di un nero ben selezionato, ma semmai simile a quello di un canarino selvatico, più altri limiti ancora in altri aspetti.

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ESTRILDIDI FRINGILLIDI IBRIDI

Il Diamante del bambù Erythrura hyperythra (Reichenbach, 1862): digressioni e postille nomenclaturali e tassonomiche testo di IVANO MORTARUOLO, FOTO AUTORI VARI

D

al punto di vista tassonomico il Diamante del bambù Erythrura hyperythra esordisce nel 1862 (1), quando il medico, zoologo e botanico Heinrich Gottlieb Ludwig Reichenbach (1793-1879) lo descrisse come Chlorura hyperythra alla pagina 33 della pubblicazione Die Singvögel. Sia il nome generico che quello specifico (detto anche “epiteto”) rimandano a due peculiari aspetti cromatici del volatile. Chlorura è infatti l’insieme di due parole greche: kloros = verde e oura = coda. È interessante notare che questa specie, nell’ambito dell’attuale genere di appartenenza, vale a dire l’Erythrura, è l’unica ad avere le timoniere verdi, mentre nella quasi totalità degli altri taxa sono rosse (2) … come suggerisce anche l’analisi etimologica (erythros = rosso e oura = coda). Per converso, non uniforme è la valutazione dell’epiteto hyperythra, al quale, in qualche scritto, viene attribuito il significato di un’estesa presenza di colore rosso nella livrea.

È interessante notare che questa specie, nell’ambito dell’attuale genere di appartenenza, vale a dire l’Erythrura, è l’unica ad avere le timoniere verdi

Maschio di D. del bambù della sottospecie nominale (hyperythra). Fonte iconografica: Mattew Kwan/ebird.org

È ipotizzabile che tale convinzione sia stata favorita anche dal fatto che foneticamente le prime sillabe di questa parola propongono un “iper”, vale a dire il prefisso con il quale si indica sostanzialmente una maggiore estensione o quantità. Una diversa valutazione etimologica porta invece a un risultato sostanzialmente opposto, in quanto evidenzia una ridotta concentrazione di tale lipocromo: infatti, la parola in esame è, a mio giudizio, la

risultante dell’unione di hypo (sotto) con erythros (rosso). Detto altrimenti, si fa riferimento a una cromia tendente al rossastro, ben lontana dall’intensità di un bel carminio. Per averne un’ulteriore conferma, basta sottoporre a un sommario esame visivo alcune specie di uccelli cui è stato attribuito il nome specifico di hyperythra, come, ad esempio, la Rondine di Sri-Lanka Cecropis hyperythra o il Garrulo ventrerossiccio Dumetia hy-

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Femmina di D. del bambù della sottospecie nominale (hyperythra). Fonte iconografica: J.C. Mittermeier/Avibase.bsc-eoc.org

perythra (India), le cui cromie dell’area petto-addome sono pressoché sovrapponibili a quelle del Diamante del bambù. La suddetta descrizione di Reichenbach, sebbene avesse indubbi meriti tassonomici, ha anche creato molte perplessità nel mondo scientifico di allora. L’autore fornisce infatti una notizia inesatta sul locus typicus, ovvero sulla località dove è stato prelevato il reperto ornitico: la Nuova Guinea invece dell’isola di Giava. Tommaso Salvadori, autore dell’opera Ornitologia della Papuasia e delle Molucche (seconda parte, 1881), ci informa che Reichenbach “dice di aver ricevuto un individuo di questa specie dallo Schierbrand insieme con molti altri uccelli della Nuova Guinea”. Salvadori comunica anche di aver esaminato, presso il Museo di Dresda, l’esemplare tipico, sul quale era applicato un cartellino con una vaga indicazione geografica: OstIndien (est dell’India). Per quanto attiene alle caratteristiche fenotipiche dell’esemplare descritto, che costituisce la sottospecie nominale, invito il lettore a prendere visione delle foto e ornitografie a corredo di questa nota.

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Dopo la segnalazione di Reichenbach fecero seguito, nell’arco di circa settant’anni, altre scoperte di volatili con caratteristiche molto simili, ma collocati in differenti aree geografiche del Sud-Est Asiatico, gran parte dei quali acquisirono lo status di sottospecie. Le comunicazioni di tali nuovi taxa, riconosciute valide anche ai nostri giorni, furono complessivamente sei, di cui l’ultima effettuata nel 1931 da Erwin Stresemann (1889-1972). Costui, infatti, descrisse come Chlorura hyperythra microrhyncha (dal greco: mikros = piccolo e rhynkhos = becco) un soggetto catturato il 23 luglio 1830 sul versante occidentale dei Monti Latimodjong (Celebes). La segnalazione fu pubblicata su Ornithologische Monatsberichte (volume XXXIX, pagina 12). Dal punto di vista fenotipico questo volatile si caratterizza, ovviamente, per il becco più piccolo; inoltre, il piumaggio appare più chiaro e opaco con sfumature verdi nelle aree inferiori e, nel maschio, il blu della testa è poco intenso e di ridotta estensione. A tutte le sottospecie di Diamante del bambù, scoperte nel corso dei suddetti sette decenni, è stato attri-

buito, anche in tempi relativamente recenti, il nome generico di Chlorura, in quanto era radicata l’opinione che fosse un taxon a sé stante. Un esempio è offerto dalla pagina n. 12 (v. foto) della suddetta pubblicazione di Stresemann, nella quale descrive la sottospecie microrhyncha. L’autore, che dal 1921 era il direttore del Dipartimento di Ornitologia presso il Museo di Berlino, nella parte superiore del foglio propone anche una nuova sottospecie di Diamante di Kittlitz: l’Erythrura trichroa sanfordi. Risulta quindi evidente che fino ad allora esisteva una rigida separazione fra i due generi. Una rigidità che però lasciò spazio a una sorta di coupe de théâtre tassonomico, “orchestrato” da Franz Poche, che sostituì il genere Chlorura con quello di Reichenowia. La proposta venne pubblicata nel 1904 su Ornithologische Monatsberichte (volume XII, pagina 26). Anche per espressa ammissione dell’autore, questa nuova denominazione voleva altresì essere un omaggio ad Anton Reichenow (1847-1941): “l’eccellente esperto di uccelli etiopici” (così scrive Poche), ma anche direttore di tale pubblicazione e, per vari anni, l’indiscusso protagonista dell’ornitologia tedesca (aggiungo io). L’iniziativa di Poche, però, non ebbe il seguito sperato, e lo dimostra anche il fatto che, dopo la suddetta data di pubblicazione (1904), vennero proposte altre tre sottospecie (obscura -successivamente non accettata perché ritenuta sinonimo di intermedia-, malayana e la già citata microrhyncha) con il nome generico di Chlorura. Va tuttavia evidenziato che l’intento dell’autore era meritorio: eliminare un caso di omonimia (3) esistente, poiché la stessa denominazione era utilizzata anche per un passeriforme nordamericano. Sta di fatto che, nello stesso anno in cui Stresemann descriveva la già citata sottospecie Chlorura hyperythra microrhyncha, l’ornitologo e biologo evoluzionista Ernest Mayr (19042005) includeva il Diamante del bambù nell’attuale genere, proponendo, nel contempo, altre interessanti considerazioni (The Parrot Fin-


ches [Genus Erythrura]- American Museum Novitates n. 489, 15 settembre 1931).Per realizzare questo processo di revisione, l’autore creò anche un nuovo sottogenere al quale, attingendo alla precedente proposta di Poche, attribuì il nome di Reichenowia. Credo che a questo punto, prima di procedere con la trattazione, si renda necessario un cenno di spiegazione per far comprendere meglio, segnatamente ai giovani lettori, la natura dell’intervento di Mayr. Un genere può contenere una o più (non raramente numerose) specie; nel secondo caso tutte le unità condividono sia un percorso evolutivo sia alcuni caratteri. Però, se si vuole evidenziare un rapporto di più stretta parentela fra gruppi di taxa in seno al genere, si ricorre alla creazione di un sottogenere, che è una categoria tassonomica compresa tra il genere e la specie. Pertanto, con la costituzione del sottogenere Reichenowia, che attiene esclusivamente ai Diamanti del bambù, si è voluto evidenziarne una diversità nell’ambito dell’“omogeneità” del genere Erythrura. (4) Colgo l’occasione per rilevare che l’indicazione del sottogenere non è obbligatoria, ma, se si desidera proporla, va scritta tra parentesi, nello spazio compreso fra il nome generico e quello specifico (articolo 6.1 del Codice Internazionale di Nomenclatura Zoologica). Nel caso del Diamante del bambù, si potrebbe scrivere: Erythrura (Reichenowia) hiperythra (Reichenbach, 1862). Mayr afferma poi, seppur laconicamente, che il Diamante del bambù ha molte affinità con il Diamante quadricolore Erythrura prasina, il quale peraltro costituisce la specie tipo del genere Erythrura. Tale relazione fra i due taxa trovò l’approvazione di diversi studiosi e fornì anche spunti per ulteriori elaborazioni. Cito un solo esempio, tratto dal libro Estrildid finches of the world (1982) di Derek Goodwin, nel quale l’autore ipotizza uno stretto rapporto fra le suddette due specie e il Diamante facciaverde Erythrura viridifacies. Mayr scrive, inoltre, che il Diamante del bambù potrebbe essere la più an-

Un genere può contenere una o più (non raramente numerose) specie; nel secondo caso tutte le unità condividono sia un percorso evolutivo sia alcuni caratteri tica specie del genere di appartenenza. Questa intuizione, anche di recente, ha trovato un adeguato riscontro in un’approfondita indagine filogenetica sugli esponenti della famiglia Estrildidae, pubblicata dai biologi Urban Olsson e Per Alström (A comparative philogeny and taxonomic evaluation of Waxbills [Aves: Estrildidae], 2020). Trattasi di una ricerca in

cui sono stati esaminati i dati di 172 specie, utilizzando due marcatori mitocondriali e cinque nucleari. È così emerso che il più recente antenato comune (MRCA ovvero Most Recent Common Ancestor) delle Erythrure apparve 6,4 milioni di anni fa e che il Diamante del bambù, insieme al Diamante quadricolore, è la specie più remota. Riportando il discorso alle varie sottospecie scoperte, la seconda in ordine cronologico è stata la borneensis. La propose un altro ornitologo di tutto rispetto, a lungo direttore della collezione ornitologica del British Museum di Londra: Richard Bowdler Sharpe (1847-1909) che, a pagina 424 di The Annuals and Magazine of Natural History (volume III, serieVI,1889), attribuì la denominazione di Chlorura borneensis. L’epiteto è un chiaro riferimento al luogo di provenienza, vale a dire il Borneo.

Frontespizio del libro Die Singvögel nel quale H. G.L. Reichembach, a pagina 33, descrisse per la prima volta il D. del bambù come Chlorura hyperythra. Da notare che non viene indicato l’anno di pubblicazione e ciò ha creato qualche disorientamento fra gli ornitologi. Si consiglia di leggere sia l’annotazione a matita posta in alto sia la nota n. 1. Fonte iconografica: Internet Archive

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Ornitografia riproducente varie sottospecie di D. del bambù. Fonte iconografica: Handbook of the Birds of the World, vol. XV,2010

La rappresentazione e l’esatta individuazione del nuovo taxon hanno però subito un iter un po’ tortuoso e forse sofferto. Queste le vicende. Nel 1887

Sharpe propose sulla rivista The Ibis (volume V, pagina 453), una comunicazione dal titolo Notes on a Collection of Birds made by Mr John White-

Ornitografia riproducente varie sottospecie di D. del bambù: 1 – Maschio di hyperythra; 2 – Femmina di microrhyncha (pressoché uguale al maschio); 3 – Maschio di microrhyncha; 4 – Maschio di brunneiventris; 5 – Giovane di hyperythra. Fonte iconografica: Passeriformi Granivori del Mondo, 1993

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head on the Mounttain of Kina Balu, in Norther Borneo, with Description of new Species, all’interno della quale descrisse, con una particolare attenzione, un volatile che identificò come Chlorura hyperythra (Reichenbach). Successivamente, lo studioso si accorse dell’inesattezza commessa e, nella suddetta pubblicazione del 1889, evidenziò che il volatile descritto differiva dalla sottospecie nominale, perché il sopracoda e il groppone avevano lo stesso colore del dorso (verde, mentre nella hyperythra sono di un fulvo aranciato). Dopodiché propose di chiamarla Chlorura borneensis. Colgo l’occasione per evidenziare che questo taxon si caratterizza anche per la maggior diffusione del blu su fronte e vertice. La terza sottospecie venne descritta nel 1894 sul Bulletin of the British Ornithologist’s Club (5) (volume 3, bollettino n. XIX, pagina 50 e 51) a cura dello scozzese William Robert Ogilvie Grant. Fra questo personaggio e lo scopritore del precedente taxon (R. B. Sharpe) si stabilì un rapporto di collaborazione che facilitò la successione del primo negli incarichi assegnati al secondo: Grant fu, infatti, curatore del Dipartimento di Ornitologia del British Museum di Londra dal 1909 al 1918 e fu editore del suddetto Bollettino dal 1904 al 1914. Il nome attribuito al volatile è Chlorura brunneiventris il quale, ovviamente, non presenta difficoltà ermeneutiche, poiché sta a significare “ventre bruno”. La descrizione è molto breve e “scheletrica”, non in grado di fornire sufficienti elementi di individuazione; inoltre, è scritta in lingua latina. L’autore, tuttavia, sembra riscattarsi con una successiva pubblicazione dal titolo On the Birds of Philippine. - Part II. The Highlans of North Luzon, 5000 feet (The Ibis, volume VI,serie VI, pagina 518,1894), nella quale propone una più accurata descrizione della brunneiventris e ne traccia un raffronto con l’hyperythra e la borneensis. Emerge così che il taxon in esame differisce dagli altri due sia per la colorazione ai lati del petto, di un verde infiltrato di blu, sia per il blu della te-


sta, intenso ma poco esteso. Come località tipica si sottintende l’isola filippina di Luzon, ma successive esplorazioni evidenzieranno la presenza del volatile anche a Mindoro e Panay. Sul finire del secolo XIX, Il Diamante del bambù acquisì un’altra sottospecie: l’intermedia. In questo caso il protagonista è un altro ornitologo di pregio, Ernest Hartert (1859-1933), che tra i vari incarichi ricevuti fu anche il curatore della sezione ornitologica dell’importante collezione naturalistica, trasformata poi in “Tring Museum”, del Lord Lionel Walter Rothschild (1868-1937). L’autore propose il nome di Chlorura intermedia (verosimilmente per le caratteristiche fenotipiche comuni ad altre sottospecie), ma ipotizzò che potesse trattarsi di una sottospecie (tra l’altro, fu un sostenitore del sistema trinominale). La pubblicazione avvenne attraverso il periodico Novitates Zoo-

Parziale rappresentazione filogenetica dalla quale emerge che il D. del bambù, insieme al D. quadricolore, è la specie più antica del genere Erythrura .Fonte iconografica: Urban Olsson e Per Alström, 2020

logicae (volume III, pagine 558-559, 1896), l’organo ufficiale del museo allestito dal Rothschild e al quale collaborava anche Harthert. Nella descrizione viene evidenziato che vi è molta affinità con la sottospecie hyperythra, ma nell’intermedia il sopracoda è di un verde con lievi

sfumature di arancio. Molto simile è anche la borneensis, dalla quale differisce per il colore più fulvo e rossiccio del petto, gola, lati della testa e del collo, e per l’omogeneità della cromia dell’addome. Il locus typicus è costituito dall’isola di Lombok (Piccole Isole della Sonda), ma di recente

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però l’area fulva è più ricca di colore, i fianchi con minore verde, gli auricolari castano scuro, la fronte nerastra con lievi sfumature di azzurro,il mantello verde-erba opaco, il dorso e il groppone con leggere sfumature bronzee. Il typus è una femmina adulta catturata il 22 gennaio 1902 presso Telȏm (Camerons Highlands), al confine fra gli Stati Perak e Pahang (Malesia), e conservata presso il British Museum con il numero 1905.2.1.267. Robinson segnala, inoltre, che tutti gli esponenti del genere Chlorura sono rari a vedersi (questa realtà sussiste anche ai nostri giorni in Malesia) e che, insieme alla sottospecie nominale e quella del Borneo, la malayana è stata osservata fra le alte piante di bambù. In passato si è sostenuto che questo taxon non potesse essere preso in Rappresentazione grafica dell’areale di distribuzione del D. del bambù. Fonte iconografica: www.hbw.com considerazione e, conseguentemente, dovesse essere valutato come sinonimo di borl’areale occupato è stato neensis. Attualmente, però, esteso anche alle isole di Sumvari orientamenti tassonobawa e Flores (sempre facenti mici sono concordi nel ricoparte del gruppo delle Piccole noscere che trattasi di un’auIsole della Sonda). La ragione tonoma sottospecie. di ciò è da ricercare nel fatto Da ultimo, va segnalata la più che la proposta di una nuova recente delle iniziative non sottospecie dal nome Chloriuscite. L’autore è Erwin Strerura hyperythra obscura, presemann, lo stesso che nel sentata nel 1928 dal biologo e 1931 descrisse la Chlorura hyornitologo Bernhard Rensch perythra microrhyncha, il quale (Ornithologische Monatsberinel 1938, rendendo omaggio chte, volume XXXVI, pagina al suo grande amico Ernest 6), da tempo non è ritenuta vaMayr, propose l’Erythrura hylida. Pertanto, obscura è consiperythra ernstmayri sulla derata sinonimo di intermedia pubblicazione Ornithologie il territorio inizialmente atsche Monatsberichte (volume tribuito alla prima è stato ac46, pagina 45). Nella descriquisito dalla seconda. zione viene evidenziato il fatto Il 1928 fu anche l’anno in cui che a livello fenotipico il volavenne segnalato un altro taxon, tile sia molto simile alla microdiventato poi oggetto di critihyncha, ma se ne differenzia che e perplessità che fortunaper qualche lieve caratteristica tamente si sopirono. Si tratta come, ad esempio, minore della Chlorura hyperythra mapresenza di verde-azzurro, relayana (vale a dire “della Madini e guance più marroni, lesia”), descritta dall’inglese petto più opaco e l’addome ulHerbert Cristopher Robinson teriormente sbiadito. La loca(1874-1929) sul Bulletin of the Nel 1931 E. Stresemann descrisse una nuova sottospecie sia di D. di Kittlitz lità in cui è avvenuta la cattura, British Ornithologist’s Club sia di D. di bambù, mantenendo, pertanto, ben distinti i due generi Erythrura eseguita il 18 settembre 1931, (volume XLVIII, pagina 72). e Chlorura. Per converso, E. Mayr nello stesso anno incluse D. di bambù è Wawa Karaeng presso il L’autore ritiene che il volatile nel genere Erythrura, dando così vita all’attuale orientamento tassonomico. Monte Lompobatang (nel mesia molto simile alla borneensis, Fonte iconografica: Biodiversity Heritage Library

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ridione di Celebes). Attualmente questa sottospecie viene però considerata sinonimo di microhyncha. Concludo questa breve rassegna nomenclaturale e tassonomica con la quale ho cercato di tracciare anche un profilo storico del Diamante del bambù. Una storia che assomiglia a quella di moltissime altre specie ornitiche e che è un susseguirsi di scoperte, di incertezze, di ripensamenti, di intuizioni felici... e anche di ornitologi di grande levatura. Questa ricerca è stata effettuata per conto del Parrot Finches European Club Desidero esprimere viva riconoscenza al giovane Marco Esuperanzi che, con competenza e tanta pazienza, è riuscito ad acquisire ed elaborare le ornitografie proposte.

NOTE (1) Consultando gli scritti di vari autori, è emerso che spesso vi è discordanza nell’indicazione dell’anno in cui Reichenbach descrisse, sul libro Die Singvögel, la specie Chlorura hyperythra. Infatti, alcuni indicano 1862, altri 1863 e altri ancora propongono entrambi gli anni. È ragionevole pensare che l’origine di tali incertezze sia da attribuire alla mancanza di indicazioni sul volume. La soluzione, però, ci viene offerta da un’annotazione a matita, verosimilmente apposta da un solerte bibliotecario, sul frontespizio di un esemplare, tratto dal sito Internet Archive. Nello scritto è indicato che fino a pagina 72 la pubblicazione è avvenuta nel 1862, mentre per quelle successive nel 1863. Poiché la suddetta descrizione è stata effettuata a pag. 33, andrebbe indicato l’anno 1862. (2) Nel Diamante di Kleinschmidt o beccorosa Erythrura kleinschmidti la coda è smussata e di colore nero. Questa specie è endemica dell’isola di Viti Levu, la più grande dell’arcipelago delle Fiji. (3) Si verifica un caso di omonimia quando lo stesso nome scientifico viene attri-

buito a più specie. Mentre si ha sinonimia nel caso in cui alla stessa specie vengono attribuiti più nomi. (4) Il genere Erythrura è considerato il più omogeneo della famiglia Estrididae. Tutte le specie interessate sono infatti molto somiglianti, ed è anche per tale peculiarità che la loro origine viene ritenuta relativamente “recente” (G. P. Mignone, La fertilité des hybrides male d’Erythrurés, 1989). Detto altrimenti, il percorso evolutivo che ha caratterizzato questi volatili sembra più breve, e forse anche meno articolato, tale da non consentire ulteriori processi di speciazione che avrebbero potuto generare popolazioni con caratteristiche fenotipiche e genetiche ancor più diverse. (5) I membri del British Ornithologist’s Club, alcuni dei quali erano studiosi di statura internazionale, nel periodo preso in esame si riunivano mensilmente (in genere un venerdì della seconda decade del mese) presso il Ristorante Velletri, al fine scambiarsi informazioni ed esperienze. Mi permetto di ipotizzare, con benevola ironia, che anche una certa italianità possa aver contribuito, in qualche modo, al successo dell’ornitologia inglese.

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CANARINI DI FORMA E POSIZIONE LISCI

Il Fife Fancy di SERGIO PALMA, foto L. FERRARO

L’

aumento della popolarità del parente scozzese del Border, il Fife Fancy, negli ultimi anni ha fatto nascere in me la necessità di approfondimento della conoscenza di questa Razza e della sua selezione, nonché la gestione, attraverso la lettura e la visita di allevamenti specializzati nella razza, per poter mantenere vivo l’interesse. Per scrivere questo nuovo articolo mi sono affidato non solo alla comprensione del Fife ma ho anche cercato di accumulare esperienze e cercato di capire i problemi che si devono affrontare, sia come Giudice che come Allevatore principiante. Questa combinazione di esperienze, nella consapevolezza delle incertezze che accompagnano l’entusiasmo ini-

Giovane bianco

ziale, mi ha permesso di produrre questo scritto che soddisfa le mie esigenze e spero anche quelle dei lettori. Questa Razza, come quasi tutte le razze di provenienza dall’isola una volta chiamata “Albione” cioè la Gran Bretagna, ha preso il nome dalla contea nella quale è stata selezionata. Quest’area, denominata Fife (piffero) per la sua forma di penisola allungata nel Mare del Nord, è posta nel sud est della Scozia, di fronte alla città di Edimburgo. Il primo nome attribuito a questo canarino fu “wee gem” termine scozzese che sta per “piccola gemma”. Con il tempo molti allevatori cominciarono a sviluppare canarini molto più grandi e dato che non era più conforme all’idea che i suoi

primi selezionatori avevano voluto esprimere, fu attribuito il nome “Border canary” che, tradotto in italiano, indica “il canarino del confine”, dato che la zona di selezione era proprio il confine tra l’Inghilterra e la Scozia. Per fortuna, altri tenaci allevatori hanno voluto conservare i dettami dei primi selezionatori e dunque la taglia originale, così che prese il nome di Fife fancy. Il primo Club della razza pare sia nato nel 1953. Si dice che gli associati di quel club avessero come intenzione la miniaturizzazione del canarino e solo all’inizio del 1958 al club fu dato il nome di “Fife Fancy Canary Club”. Purtroppo, sebbene il club sia stato formato in anni abbastanza recenti, dove oltre alla memoria tramandata si viveva di scrittura e

Nidiaceo a fondo bianco

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Femmina con pullo in svezzamento

Giovane verde pezzato

Gruppo di giovani alle prese con tarassaco

stampa, sono sopravvissute poche informazioni su coloro che per primi hanno immaginato, progettato e contribuito alla creazione del Fife. Perciò, si possono trovare solo alcuni nomi dei primi appassionati di questa Razza. Naturalmente, i primi Fife mancavano di una propria specifica identità e consistevano principalmente in piccoli Border meticciati con Roller e Gloster. I piccoli Border erano ancora troppo grandi per essere veri Fife e i Roller e i Gloster avevano la schiena dritta, quindi bisognava lavorare con criterio e gli allevatori inglesi hanno dimostrato negli anni di averne tanto. Per fortuna quei giorni sono ormai passati e la Razza ha sviluppato un vero e proprio carattere unico e distintivo. Il Fife è spesso descritto come un piccolo Border, ma mi piace pensarlo come una razza a sé stante perché a mio avviso le ali e la coda più corte del Fife gli consentono di mostrare un bel dorso arrotondato, molto meglio del Border, nel quale, avendo il corpo più grande, a volte vengono inglobate nel piumaggio ed aggiungerei che, a parità di gradi nel petto e nel dorso, il Fife - più piccolo - esprime una maggiore e visivamente migliore uniformità nella silhouette. La posizione è semi-eretta (in piedi, con un angolo di 60 gradi); l’atteggiamento sbarazzino, con occhi vispi e piumaggio ricco e morbido, il più uniforme possibile, con buona carica li-

pocromica che non ha bisogno di integrazione alimentare, deve essere stretto e fermo, presentando un aspetto liscio, setoso, lucido, senza sbuffi o ruvidità. Le gambe sono di media lunghezza e mostrano metà della coscia piumata. Alcuni allevatori, per far loro esprimere lucentezza, usano trattare con olio di lino le zone senza piume. La testa piccola, da qualsiasi angolatura si guardi, deve apparire tonda in proporzione al corpo, anch’esso ben arrotondato e non troppo pesante. Il becco è piccolo e proporzionato alla testa. Il collo e il petto sono proporzionati e rispetto alle zampe non portati molto indietro. La schiena, come il petto, è ben arrotondata, ben riempita, dà una forma a uovo ben bilanciata. La taglia deve essere contenuta, come se veramente si trattasse di canarini miniature e, se proprio dobbiamo dare dei numeri, diciamo che non dovrebbe superare i 12,5 centimetri. Le ali sono compatte e portate vicino al corpo, incontrandosi appena all’estremità, un po’ più in

basso della radice della coda che pure deve essere compatta, stretta e piena, con il sottocoda chiaramente distinto dal corpo, liscio e sempre con una curva che chiude senza andare lunga sotto le timoniere. Uno dei difetti che oggi si riscontrano nei Fife è una testa schiacciata invece della bella testa tonda ed ancora becchi troppo grandi, code che si allargano eccessivamente man mano che dalla radice si irradiano verso l’apice, nonché la divisione delle piume sul petto che secondo me, insieme alle zampe portate troppo indietro, è uno, se non forse il più grave difetto: in alcuni casi, sembra quasi la riga centrale nei capelli che si usava negli anni della mia gioventù. Per il Fife, come per tutti gli altri Canarini, vale la regola del training, ha bisogno di allenamento. L’amico Luigi Ferraro, che mi ha consentito di visitare più volte il suo allevamento di ottimi Fife Fancy, usava una tecnica che mi ricordava quella adoperata dagli allevatori di canarini da canto i quali, abitualmente, quando addestrano i propri beniamini per le gare, si mascherano con baffi finti ed occhiali. Anche Luigi, quando sceglieva i soggetti da esporre e li alloggiava nelle gabbie da mostra, a volte indossava il cappello, a volte occhiali finti e così via: questo per far sì che i suoi Fife non si abituassero ad una sola faccia. Usava anche spostarli ogni giorno di posizione, questo per abituarli allo spostamento: i Canarini ben allenati par-

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Il proprietario deve essere molto onesto con sé stesso, studiando bene lo standard ideale


tono sicuramente con una marcia in più. Si scelgono i soggetti che stanno in piedi con l’angolo corretto di 60 gradi, usando posatoi di misura giusta (12 mm di diametro), ponendo molta attenzione anche alla posizione di mangiatoia e beverino. Come altre volte detto, il primo giudice del Canarino è l’allevatore. Il proprietario deve essere molto onesto con sé stesso, studiando bene lo standard ideale e poi confrontandolo con i propri uccelli. Invece di cercare tutti gli aspetti positivi, dovrebbe provare a individuare i difetti e solo quando il numero di difetti si riduce ad uno, allora si può dire di avere possibilità di vittoria. Non ci si deve mai dimenticare che anche se l’allevatore decide di chiudere un occhio su un difetto, il Giudice non sarà disposto a farlo, perché egli è alla ricerca del Fife ideale o il più vicino ad esso. Bisogna però precisare che se è assolutamente vero che si debbano abituare i propri canarini alla gabbia da mostra, è altrettanto vero che non si debba iniziare a farlo troppo presto. Un buon sistema è quello di appendere una gabbia da esposizione alla porta aperta del fronte della gabbia; questo consentirà ai Fife di accedervi liberamente per poi, progressivamente, trasferirli in esse. Ciò per consentire agli uccelli di abituarsi alla gabbia senza stressarli. Solo quando tutti i canarini saranno assuefatti alla gabbia da mostra si potrà cominciare a scegliere i possibili vincitori. Teniamo però sempre presente che quelli che scegliamo in allevamento sono i migliori dei nostri uccelli e che in mostra dovranno confrontarsi con altri che pure aspirano a diventare campioni. Un Fife Fancy con gradevole vivacità, piccolo ed elegante non può che esprimere, agli occhi degli osservatori, i connotati di vera e propria gaiezza.

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ALIMENTAZIONE

I gusci delle uova Una risorsa da riciclare

Dal libretto dei miei appunti orto-ornitofili e non solo

di PIERLUIGI MENGACCI, foto P. MENGACCI e WWW.TUTTOSULLEGALLINE.IT

Premessa Fino a quando ho abitato a Pesaro Città, il guscio delle uova per me è sempre stato immondizia e come tale l’ho sempre smaltito. Trasferitomi a risiedere a Monteciccardo, 27 anni fa, nel realizzare un orticello biologico, son venuto a conoscenza del fatto che i gusci delle uova sono una risorsa da riciclare. Vi dico come. L’anno successivo al mio trasferimento ho aderito ad una campagna promozionale della Provincia di Pesaro Urbino che regalava un contenitore compostiera a chi era interessato a fare compostaggio con gli scarti di cucina e del proprio giardino, con l’impegno di far verificare da un tecnico l’uso corretto della compostiera. Assieme al contenitore in p.v.c. della capacità di circa 4000 lt. ci venne fornito un libretto di istruzioni e un diario dove annotare le immissioni e gli eventuali scarichi. Per un paio di anni abbiamo avuto dei controlli a sorpresa e, verificato che l’utilizzo era conforme alle istruzioni, la compostiera ci è rimasta in dotazione ed i controlli sono terminati. Proprio dal libretto delle istruzioni ho appreso che i gusci delle uova erano una risorsa da riciclare e tritati e inseriti nella compostiera arricchivano di calcio e altri minerali il terriccio ottenuto. Da allora i gusci delle uova sono finiti nella compostiera. Un sabato pomeriggio, mentre ero intento a schiacciare alcuni gusci di uova, ecco che arriva l’amico agronomo Massimo per alcuni chiarimenti su di un tipo di frazionamento che avevo redatto per suo conto. Alla vista dei gusci esclama: “Hai le lumache nell’insalata!”. “No” gli rispondo “le schiaccio per la compostiera”. “Ah! Fai molto bene, ottima ag-

Gusci di uova di galline da sterilizzare

giunta di calcio al tuo terriccio! Con gli stessi gusci puoi anche proteggere l’insalata dalle lumache facendo una barriera che non riescono a superare ed arricchisci anche il terreno di minerali”. “Non ci avevo mai pensato: ottima idea, all’occorrenza ne farò tesoro! Dai, andiamo a gustarci un bicchierino di nocino!”. Giunti nel soggiorno, metto in tavola due bicchierini e la bottiglia del nocino e mentre si sorseggia esaminiamo gli elaborati del frazionamento. Fatti i dovuti chiarimenti, la conversazione ritorna ai gusci delle uova. Massimo elenca una serie di utilizzi in campo agricolo per pomodori, melanzane, ecc.; ad uso umano, come integratore di calcio e per la cura del corpo ed anche in cucina. Poi passa

ai ricordi, a come le nostre nonne “raschiavano” le pentole affumicate o aggiungevano i gusci tritati nel bucato per sbiancare le lenzuola, ma soprattutto Massimo mette in evidenza l’uso dei gusci tritati nel mangime delle galline “ritenuti utili per rafforzare l’apparato scheletrico e le difese immunitarie”. Ad un certo punto mi domanda: “Hai mai pensato di utilizzare i gusci delle uova tritati per i tuoi canarini?”. Rimango un po’ meravigliato e, onestamente, ammetto che non ci avevo mai pensato. Prosegue: “Sono utili soprattutto nella fase pre-cove per le femmine e nello sviluppo dei piccoli; un’aggiunta di calcio durante l’anno, non fa mai male, anzi… Però dovrai sterilizzarli per eliminare eventuali batteri e sal-

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Teglia con gusci di uova sterilizzati al forno

monelle varie”. Massimo, molte volte, anzi quasi sempre, mi sorprende con le sue argomentazioni precise e tecniche ed in questo caso, oltre ad avermi dato un ottimo consiglio per i canarini, ha sollecitato il mio interesse a conoscere meglio questa risorsa da riciclare! Il guscio dell’uovo Il guscio, nell’anatomia dell’uovo, è la parte esterna dei tre componenti principali dell’uovo, precisamente guscio, albume e tuorlo. Ha la tipica forma ovale, con un polo acuto ed un polo ottuso ed è una struttura mineralizzata, che ha uno spessore medio complessivo di 0,35 mm, comprese le sottoparti che lo compongono (vedi rappresentazione schematica allegata). Il colore e la dimensione dell’uovo possono variare e ciò dipende dalla razza e non dall’alimentazione della gallina che lo depone, anche se il mercato alimentare ci presenta generalmente uova di color rosabruno e delle stesse dimensioni. Nel peso totale di un uovo intero, il guscio è pari all’11%, (albume 58% - tuorlo 31%) ed è essenzialmente costituito da: - 94% carbonato di calcio [CaCO3] - 4% proteine - 1% carbonato di magnesio [MgCO3] - 1% fosfato di calcio [Ca3(PO4)] - inoltre, sono presenti zinco, fosforo, manganese, ferro e cromo.

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Proprietà ed utilizzi Come ho scritto nella premessa, era mia convinzione che il guscio delle uova fosse da gettare, poi l’ho scoperto come una risorsa da riciclare: prima nel compostaggio e, successivamente, grazie all’amico agronomo Massimo, in modo green ed eco-sostenibile nella vita quotidiana, per il nostro organismo, per molti utilizzi in casa, e, non ultimo, in campo ornitologico e non solo. Le proprietà si concentrano soprattutto nel carbonato di calcio, un sale organico fondamentale sia in campo agricolo per lo sviluppo vegetativo che per alcune problematiche in campo umano tipo bruciori di stomaco e problemi gastrici o come ottimo integratore per chi soffre di carenza di calcio ed in ultimo anche per la cura della casa. Prima di elencare i vari utilizzi del guscio delle uova, ritengo utile descriverne la sterilizzazione, a mio avviso indispensabile nell’uso umano e avicolo, ma altresì consigliabile anche in quello agricolo. La sterilizzazione è un’operazione necessaria per eliminare eventuali presenze di batteri o salmonelle. Io procedo in questo modo: circa ogni 30 uova usate, lavo accuratamente i gusci sotto l’acqua corrente; in una pentola, coperti con acqua, li faccio bollire per circa 15 minuti e una volta scolati li metto nel forno a 100° per altri 15 minuti su una teglia coperta con carta forno. Ottenuta la sterilizzazione, li schiaccio

un po’ e, inseriti nel frullatore, li trito finemente e li conservo in un vaso di vetro in un armadietto nella dispensa da utilizzare all’occorrenza. Per ricavarne la polvere è sufficiente ripassarli con un passino molto fine. I gusci che inserisco nella compostiera o come deterrente per le lumache ed altri insetti li schiaccio grossolanamente. Come già scritto in precedenza, oltre all’uso come antiparassitari e fertilizzanti nell’orto (in modo particolare per le piante di pomodoro, melanzane, e peperoni), i gusci delle uova possono essere molto utili per la cura del corpo e della casa. Per quanto riguarda l’uso umano, ho trovato molto interessante l’articolo pubblicato dalla Dott. Laura Rossi* su Il Fatto Alimentare in merito all’utilizzo del guscio delle uova, di cui riporto alcune parti: “Il guscio d’uovo può essere usato anche come integratore alimentare, fonte naturale e facilmente assimilabile di carbonato di calcio (che ne costituisce il 95%), magnesio, sodio, potassio, zinco e rame, necessari per il corretto accrescimento scheletrico, per prevenire l’osteoporosi, tenere sotto controllo i livelli di colesterolo e la pressione sanguigna e per assicurare la normale trasmissione degli impulsi nervosi da cui dipende anche il battito cardiaco”. Secondo la Dott.sa è sufficiente mezzo cucchiaio di polvere per soddisfare il fabbisogno quotidiano di una persona

Vasetto con gusci di uova di gallina sterilizzati e frullati da passare nel passino

Polvere di gusci di uova in primo piano pronta per l'uso


adulta, che è di 100 mg al giorno. “Dal momento che è insapore e inodore – conclude la Dott.sa –, la polvere di guscio d’uovo può essere aggiunta a zuppe, salse e creme, cereali e frullati, ma anche disciolta in acqua o succo di limone e bevuta a stomaco vuoto per ridurre i problemi di iperacidità e gastrite”. Anche la membrana interna delle uova possiede spiccate proprietà medicamentose e rigeneranti. Tali proprietà erano conosciute fin dal tempo degli Etruschi e sono state tramandate fino ai giorni nostri utilizzando detta membrana come cicatrizzante di lesioni e ferite. “Il merito” sempre secondo la Dott.ssa Rossi “è del contenuto di cheratina, collagene ed elastina, presenti in questa cuticola insieme ad acido ialuronico, glucosamina e condroitina; tutte sostanze che, applicate sulla pelle, stimolano la rigenerazione cellulare, la formazione di nuovo tessuto connettivo e di vasi sanguigni microscopici, determinando così una più rapida riparazione dei tessuti.” Oltre all’uso come integratore alimentare, precedentemente descritto, il guscio di uovo sterilizzato, ridotto in polvere e passato con un po’ di smalto è utile per rinforzare e rendere più resistenti le unghie. Lasciato macerare per un paio di giorni in aceto o limone, è altresì efficace contro il prurito o irritazioni cutanee, strofinando delicatamente la zona interessata. Nell’uso green ed eco-sostenibile casalingo troviamo la presenza del guscio delle uova per la pulizia di pentole e tegami strofinando le parti sporche con i gusci tritati, oppure per sbiancare il bucato o eliminare macchie resistenti inserendo nella lavatrice gusci frantumati di uova chiusi in una calza di nylon o in una retina o sacchetto di cotone (le nostre nonne…). Sono utili anche per affilare le lame di elettrodomestici: dopo averli congelati, inserirli nel frullatore con un po’ di acqua, azionare le lame…in un minuto l’affilatura è fatta! Sempre nel campo eco-sostenibile, studi recenti hanno dimostrato che aggiungendo piccole parti di guscio delle uova ad alcune ecoplastiche già esistenti, si possono creare imballaggi biodegradabili, più resistenti e flessibili. Per quanto riguarda i nostri animali do-

Rappresentazione Guscio d'uovo, fonte: www.tuttosullegalline.it

mestici, cani e gatti, i gusci di uova sterilizzati e polverizzati possono tranquillamente sostituire le classiche compresse di calcio che vengono prescritte per fortificare le loro ossa o nel caso in cui siano affetti da diarree persistenti. È sempre opportuno interpellare il veterinario. Anche in campo ornitologico, alcune aziende hanno messo in commercio confezioni di gusci di uova sterilizzati e polverizzati, che costituiscono un importante fonte di calcio per tutti gli uccelli soprattutto nei periodi di maggior fabbisogno come la riproduzione, quando le femmine sono impegnate nella deposizione, oppure durante la fase di svezzamento per aiutare i novelli a sviluppare la struttura ossea. Generalmente è prevista una integrazione che va da 60 a 80 grammi per Kg di pastoncino somministrato o lasciato a libera disposizione nelle classiche linguette o contenitori. Il prof. U. Zingoni nel suo libro “Canaricoltura” nelle pagine 162/163 (Costituenti il guscio) e a pag. 224 (I Sali) accenna all’utilizzo dei gusci delle uova quando “una certa deficienza di Sali di Calcio può verificarsi in alcune femmine durante la deposizione… Si ovvia facilmente fornendo i soliti ben noti ingredienti a base di Carbonato di Calcio (gusci di uovo, ecc.,…)”. A mio avviso, con una alimentazione in-

tegrata con gusci di uova, sicuramente non incorriamo nei classici casi di carenza di calcio e, se lasciati a disposizione negli appositi contenitori, sarà il canarino stesso ad assumerli in caso di necessità. Comunque, chi vuole cimentarsi, come il sottoscritto, a riutilizzare i gusci di uova dell’uso familiare, anziché gettarli nell’umido, dopo averli sterilizzati con la procedura sopra descritta e polverizzati, può tranquillamente usarli nel proprio allevamento nelle quantità precedentemente previste, oppure per uso personale e della propria casa. Infine, tengo a precisare che oltre a fare operazioni eco-sostenibili si garantisce una ottima integrazione di minerali e calcio ai propri volatili e… sicuramente un piccolo risparmio economico, il che, come dico sempre, non guasta mai! Ad maiora, semper. Alcune fonti * Laura Rossi, specialista in Scienza dell’alimentazione e nutrizione di comunità e salute pubblica presso il CREA Alimenti e Nutrizione - https://ilfattoalimentare.it/uova-utilizzo-gusciomembrana-albume-tuorlo. Html - https://www.tuttogreen.it/guscio-duovo-unafonte-naturale-di-calcio-per-organismo-e-per-laterra/ - https://www.tuttosullegalline.it/ricetteuova/uovo-come-fatto-guscio-albume-tuorlo/ - Canaricoltura, di Umberto Zingoni, edito dalla F.O.I., 1ª edizione.

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O rniFlash Pur di fare a botte i cigni rinunciano anche a dormire

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tando a un nuovo studio pubblicato su PLoS One, i cigni amano fare a botte più di qualsiasi altra cosa, al punto da rinunciare anche a dormire se c’è la possibilità di farsi coinvolgere in una rissa. La situazione non è ovviamente così semplice. Lo studio, condotto da un team dell’Università di Exeter (UK) in collaborazione con il Wildfowl and Wetlands Trust, valuta quelli che in inglese si chiamano trade-off, cioè le scelte mutuamente esclusive alle quali tutti gli animali sono sottoposte di continuo. Lo studio ha investigato due specie di cigni (il cigno reale, Cygnus olor, e il cigno selvatico, Cygnus cygnus) quando devono scegliere tra quattro comportamenti basilari: aggressività, ricerca di cibo, cura di sé stessi e riposo. Quello che hanno scoperto è che per i cigni nulla è più importante del dominio sul cibo e sulle aree che ne contengono di più. Sia il cigno reale sia quello selvatico non hanno problemi a stare svegli a oltranza: finché c’è del territorio da difendere, oppure da provare a conquistare, il trade-off tra sonno e botte è fortemente a favore delle seconde. Non è però l’unico: entrambe le specie rinunciano a dormire anche se c’è da procurarsi del cibo, ma non lo fanno con la stessa decisione di quando invece hanno da menare le ali. Tra le due specie, il cigno selvatico è quella più aggressiva, perché ha assoluto bisogno di tutto il cibo che può ingerire per affrontare il freddo inverno che la aspetta ogni anno (lo studio è stato condotto nella riserva di Caerlaverock, in Scozia). Secondo Paul Rose, primo autore dello studio, questi risultati ci possono essere utili nei nostri sforzi di conservazione di entrambe le specie (una stanziale e una migratrice): se vogliamo evitare che i cigni sprechino energie combattendo tra di loro, è sufficiente creare più aree ricche di cibo. Fonte: https://www.focus.it/ambiente/animali/cigni-animali-rissosi

Canto degli uccellini: arriva una scoperta dalla Svezia

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no studio svedese ha dimostrato che i suoni naturali, tra cui il cinguettio degli uccelli, hanno un effetto rigenerante sull’uomo. E scientificamente hanno provato che ascoltare i melodiosi richiami dei volatili ha un effetto calmante, forse perché per molti evoca associazioni positive con la natura. Alcuni suoni della natura sono associati a sensazione di libertà, di leggerezza di contatto e risonanza con il Pianeta. È stato ora dimostrato che ascoltare questi suoni permetta all’uomo di associarli a situazioni positive e gradevoli. I partecipanti del test sono stati analizzati prima e dopo l’esperimento acustico e misurati tramite la conduttanza cutanea, ovvero la propagazione di elettricità nella pelle, tramite la secrezione sudoripara. Le reazioni alle stimolazioni acustiche sono poi variate da caso a caso. Può capitare a volte che i partecipanti al test abbiano dimostrato più interesse nel canto di più specie di uccelli insieme rispetto a chi ha preferito ascoltare il canto di un solo esemplare. Nell’esperimento sono stati usati 50 richiami di uccelli che si sentono comunemente in Inghilterra e nel Galles del Sud. Le specie di uccelli preferite nel test dello studio sono state quelle che riconoscevano e associavano a spazi verdi e situazioni familiari, come i giardini. Gli uccelli che abitano ambienti diversi dagli spazi urbani, come gli uccelli del deserto o quelli alpini erano meno apprezzati. Tra le varietà citate dallo studio vi sono: la passera scopaiola, il verdone comune, il merlo, l’occhialino dorso grigio, la cinciallegra, il pettirosso, il cardellino e il passero domestico, lo scricciolo comune. Fonte: https://www.ecoo.it/articolo/giardino-canto-degli-uccellini-arriva-una-scoperta-dalla-svezia/74420/ foto Pixabay


O rniFlash Le ghiandaie possono aiutare a far rinascere i boschi a scorsa primavera la delegazione Lipu di Oristano ha effettuato un primo monitoraggio sugli uccelli nel Montiferru, registrando la presenza di almeno 30 specie, il 90% delle quali passeriformi, in un’area non interessata dall’incendio dell’estate 2021. In una superficie con caratteristiche simili, ma percorsa dal grande rogo, è stata osservata la presenza di specie come la ghiandaia, che ha una buona adattabilità anche in formazioni forestali degradate. Lo ha riferito Gabriele Pinna, delegato provinciale della Lipu Oristano. “La ghiandaia”, sottolinea ancora il delegato provinciale della Lipu, “alla stregua di altre specie con abitudini simili, svolge un ruolo chiave nella ripresa della vegetazione grazie alla sua abitudine di interrare semi e frutti eccedenti il fabbisogno alimentare. Un singolo esemplare di ghiandaia può seppellire circa un migliaio di ghiande all’anno, diventando il principale vettore d’espansione del leccio in un raggio di venti chilometri”. “Agevolare il lavoro di questi uccelli”, conclude Gabriele Pinna, “è quella che viene definita una soluzione basata sulla natura dall’Uicn (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) come ‘azioni per proteggere, gestire in modo sostenibile e ripristinare gli ecosistemi naturali modificati, che affrontano le sfide sociali in modo efficace e adattativo, fornendo contemporaneamente benessere umano e benefici per la biodiversità“. Fonte: https://www.linkoristano.it/2022/07/11/le-ghiandaie-possono-aiutare-a-far-rinascerei-boschi-del-montiferru-devastati-dal-grande-rogo-un-anno-fa/ di Alberto Cherchi / Lipu Oristano

Il caldo fa strage di uccelli: fenomeno mai visto

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ome se non bastasse il conflitto ucraino e tutto ciò che ne consegue, pure il clima ci ha dichiarato guerra. In Italia la situazione sta diventando preoccupante, con temperature fino ai 40 gradi in gran parte della Penisola e con la siccità che è già diventata un problema grave per il Po, il fiume più grande d’Italia che è ai minimi storici per quanto concerne i livelli idrici. Il caldo torrido sta riguardando un po’ tutti, con l’anticiclone africano che sta investendo l’Europa fin dalle prime settimane di giugno, facendo registrare temperature assurde, del tutto fuori dalle medie del periodo. Lo scorso 14 giugno è stata diffusa la mappa tracciata dai satelliti Sentinel-3, che fotografa il secondo evento di caldo estremo dell’anno: in Spagna la temperatura della superficie terrestre è arrivata fino a 53 gradi. Non solo, perché ultimamente sulla penisola iberica si sta verificando un fenomeno allarmante: gli uccellini stramazzano al suolo a causa delle elevate temperature. Segno che il caldo torrido sta inficiando anche l’ecosistema e la vita degli animali. A pagare il prezzo più alto in questo momento è la specie protetta dei piccoli di rondone: soprattutto in Andalusia se ne sono trovati decine privi di vita a terra. Il motivo è da ricercare nel fatto che questi uccelli costruiscono il nido in cavità esistenti tra edifici: si tratta di punti che si scaldano facilmente, fino a superare i 40 gradi nei giorni di grande caldo. Motivo per cui i piccoli provano a fuggire e muoiono cadendo. Fonte: https://www.liberoquotidiano.it/news/scienze-tech/32055121/meteo-caldo-fa-strage-uccellifenomeno-mai-visto-cosa-significa.html

News al volo dal web e non solo

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DIDATTICA & CULTURA

Il collezionismo ornitologico

Diciassettesima parte

La collezione che la Sicilia non volle di FRANCESCO BADALAMENTI, foto sito Internet della Fondazione Giuseppe Whitaker

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roseguendo con il tema delle collezioni naturalistiche, già trattato nella parte XVI, racconterò brevemente in quest’articolo, la paradossale vicenda riguardante la preziosa collezione naturalistica -ornitologica che la Sicilia non volle.

Joseph Isaac Spadafora Whitaker

Joseph Whitaker industriale, ornitologo, naturalista, archeologo, studioso e collezionista

La storia è strettamente legata a Joseph Isaac Spadafora Whitaker (1850 – 1936), conosciuto familiarmente con il soprannome “Pip”, industriale, appassionato ornitologo, naturalista, ma anche archeologo, studioso e – ovviamente - collezionista.

Villa Malfitano

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Villa Malfitano

Di origini britanniche, ma nato e vissuto a Palermo, innamorato della Sicilia e in particolare dell’Isola di Mozia, nel cosiddetto Stagnone di Marsala (TP), coltivò la disciplina specialistica dell’ornitologia con la dedizione dello scienziato e la passione del collezionista. I Whitaker erano una facoltosa famiglia di imprenditori britannici, originari dello Yorkshire, che si era trasferita in Sicilia, per affiancare i cugini della famiglia Ingham, proprietari di numerosi appezzamenti di terreno coltivati a vigneto, che avevano avviato nel territorio Trapanese la produzione industriale del famoso vino Marsala. Joseph Whitaker divenne presto direttore dello stabilimento vinicolo di famiglia, tuttavia questo importante e

Parco di Villa Malfitano

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“Pip” aderì, sin da giovane, all’Unione degli Ornitologi Britannici e avviò un’intensa attività di studio e di ricerca, prendendo parte a numerose spedizioni nel nord dell’Africa

impegnativo incarico non gli impedì di dedicarsi alle sue passioni e di recarsi periodicamente nell’isola dello Sta-

gnone di Marsala che gli abitanti del territorio trapanese chiamano Isola di San Pantaleo, per eseguire ricerche e studi ornitologici e archeologici. “Pip” aderì, sin da giovane, all’Unione degli Ornitologi Britannici e avviò un’intensa attività di studio e di ricerca, prendendo parte a numerose spedizioni nel nord dell’Africa, soprattutto in Tunisia ove raccolse una grande quantità di appunti e informazioni sulla storia naturale prevalentemente degli uccelli e di altra fauna dell’Africa settentrionale. Poliedrico e intraprendente, Joseph Whitaker fu fondatore e Presidente della Società per la prevenzione della crudeltà sugli animali a Palermo e (cosa che ai miei occhi lo rende ancor più am-


mirevole) nel marzo 1902 divenne Presidente Onorario della “Anglo Palermitan Athletic and Football Club”, e fino agli anni venti del secolo scorso fu socio della società di calcio rosanero. I Whitaker a Palermo diffusero anche la passione per l’equitazione, per la vela, per il tennis e contribuirono all’edificazione della Chiesa Anglicana della città. La loro era una vita intensa, fatta di lavoro e di opere di beneficenza ma anche di mondanità; infatti, dall’Inghilterra i Whitaker portarono a Palermo anche l’abitudine di allestire dei ricevimenti all’aperto, sotto grandi tende, offrendo agli ospiti ogni genere di prelibatezze. In quel periodo Pip fece costruire a Palermo la Villa Malfitano, una palazzina in stile neo rinascimentale (oggi sita in via Dante Alighieri, nel cuore della città) su un terreno di circa 7 ettari, capolavoro di eleganza architettonica, raffinatezza e ricchezza decorativa.

La villa s’innalza al centro di un bellissimo e vasto parco esotico (quasi un vero e proprio orto botanico) ove furono collocate piante ricercate direttamente da Giuseppe Whitaker, specie botaniche rarissime, provenienti da tutto il mondo, dalla Tunisia, da Sumatra, dall’Australia, dalle Americhe, dalla Nuova Caledonia e da altri paesi esotici. Il parco di Villa Malfitano si configura come un arboreto di grande interesse scientifico e rappresenta oggi uno tra i più importanti giardini storici siciliani. La Villa arredata con mobili unici e ricercati, acquistati in Inghilterra, è stata impreziosita con raffinati oggetti d’arte, sculture, preziosi dipinti, specchiere, arazzi, le vetrine con preziose collezioni di porcellane; ambienti bellissimi e magnificamente arredati che avvolgono nella loro raffinatezza ed eleganza, un vero gioiello, ancora oggi rimasto e conser-

LUCHERINO DORSO NERO “COLUMBIA” (Carduelis psaltria) Da una lunga e competente selezione soggetti di grande qualità e dalle eccezionali doti riproduttive

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vato come ai tempi dei Whitaker. A Villa Malfitano, nella dependance (dove sino al 1894 aveva dimorato il suocero, il Gen.le Alfonso Scalia) venne collocata la pregiata collezione di uccelli di Pip. Il 10 gennaio 1900 Joseph Whitaker inaugurava un Museo Ornitologico costituito da uccelli imbalsamati appartenenti a trecentosessantacinque specie e sottospecie viventi nel litorale mediterraneo. La collezione si arricchì nel tempo con uccelli, nidi e uova provenienti dal nord dell’Africa. Nel

Alectoris graeca whitakeri

Soggetto impagliato della Collezione Whitaker

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Il 10 gennaio 1900 Joseph Whitaker inaugurava un Museo Ornitologico costituito da uccelli imbalsamati appartenenti a specie e sottospecie viventi nel litorale mediterraneo

museo trovarono adeguata sistemazione i campioni provenienti dalla Tunisia che si unirono alla già ricca collezione di uccelli siciliani e a quella di Edward Dobson, comprendente numerose specie provenienti dal Marocco. A questi si aggiunsero in seguito specie di uccelli provenienti da vari paesi sulle coste del Mediterraneo. Joseph Whitaker morì il 3 novembre 1936 ed è seppellito a Palermo nel cimitero cattolico ai Rotoli. Al momento della sua scomparsa si stimarono circa 10.000 esemplari che componevano la cosiddetta Collezione Whitaker, patrimonio che, negli anni, era stato notato e apprezzato da studiosi e appassionati, oltre che per il considerevole il numero di esemplari, sopratutto, per il suo valore scientifico. La secondogenita di Pip, Cordelia Stella Georgette Edith Whitaker da tutti conosciuta come Delia, che rimase nubile, si preoccupò sin dagli anni ‘50 del destino che avrebbe avuto il museo creato dal padre. L’obiettivo principale di Delia Whitaker era di mantenere viva la memoria di Pip che, con sacrificio e passione, aveva realizzato una grande opera scientifica e culturale. Infatti Delia, dopo avere invano più volte offerto in dono alla Regione Siciliana la collezione ornitologica, comprendente uccelli, mammiferi, uova, nidi, libri, appunti e disegni, carte ecc, e non essendo riuscita a fare accogliere tale Museo né presso l’Istituto di Zoologia dell’Università degli Studi di Palermo, né presso altro Istituto museale della Regione Si-

ciliana, nel 1968 dopo una lunga trattativa fu costretta a donare la ricca collezione ornitologica, bisognosa di manutenzione, cure, catalogazione ecc., ai Musei irlandesi di Storia Naturale (il Royal Scottish Museum di Edimburgh e l’Ulster Museum di Belfast). Del prestigioso Museo di Storia naturale di Joseph Whitaker di Villa Malfitano a Palermo, resta oggi soltanto la documentazione fotografica e qualche esemplare rimasto in Sicilia occasionalmente “salvatosi” dalle donazioni all’estero. In particolare sono ancora a Villa Malfitano alcune teste di cervo montate su pannelli (classificate come dono di Vittorio Emanuele III a Giuseppe Whitaker) e alcuni esemplari di uccelli che erano in prestito presso la Federazione Siciliana di Caccia per consentire le sessioni d’esame, e qualche altro esemplare che si trovava temporaneamente presso il Museo naturalistico della Real Casina a Ficuzza o presso la Ripartizione faunistico-venatoria di Palermo. Oggi la magnifica Villa Malfitano -Whitaker è divenuta un’importante sede espositiva e luogo di eventi di particolare prestigio. Dopo la morte di Delia infatti, sia Villa Malfitano, sia l’isola di Mozia, fanno parte della Fondazione Giuseppe Whitaker, posta sotto l’alto patrocinio dell’Accademia dei Lincei e istituita nel 1975 con Decreto del Presidente della Repubblica, che ancora oggi prosegue la sua attività promuovendo l’incremento della cultura, dell’istruzione e la divulgazione dei valori artistici nelle varie espressioni.

Specie dedicate a Jospeh Whitaker Tra gli uccelli: • Coturnice di Sicilia (Alectoris whitakeri) • Ghiandaia nordafricana (Garrulus glandarius whitakeri) Tra i mammiferi: • Lepre nordafricana (Lepus capensis whitakeri) • Crocidura del nordafrica (Crocidura whitakeri)


V olontariato L’Associazione “Passione Pappagalli Free Flight” e il progetto con l’Associazione “L’Edera” na delle cose più belle del mondo è vedere un bambino sorridere, ma sapere che dietro a quel sorriso ci sei tu è un qualcosa che poche righe non riuscirebbero di certo a descrivere. Vi vogliamo parlare di quando la passione riesce a coniugare due aspetti così delicati e puri e di come l’amore che ogni giorno riversiamo sui nostri pappagalli possa diventare il mezzo per far brillare gli occhi ad un bimbo. L’Associazione “Passione Pappagalli Free Flight” dà inizio ad un nuovo progetto con l’Associazione “L’Edera” di Foligno. Incontri settimanali in un campo estivo già sono iniziati. Lo scopo sarà un gran lavoro di interazione tra i bimbi presenti nel campus e i pappagalli. A distinguere l’Associazione culturale “L’Edera” è l’integrazione fra bambini disabili e bambini normodotati, seguiti da operatori qualificati a seconda delle esigenze. Il progetto prevede l’avvio di una interazione fra bimbo e pennuto che va dal prendersene cura al comprendere come approcciarsi con questi animali così particolari. L’Associazione “Passione Pappagalli Free Flight”, come l’Associazione “L’Edera”, nascono entrambe da un sogno di

persone professioniste, seppur in ambiti diversi, impegnati nell’ambito del sociale. Se su di un fronte si lavora per il benessere psicofisico dei pappagalli, dall’altro lo si fa con i bambini e l’interazione tra questi due mondi ha dato dei risultati che fino a ieri sembravano utopici. Bambini con spettro autistico che, pur di interagire con questi curiosi animali, imparano pian piano a controllare i loro comportamenti stereotipi come il movimento inconsulto delle manine. La comunicazione e la relazione, spesso difficile per loro, inizia con una velocità sconcertante. Gli schemi comportamentali ripetitivi si attenuano. Ora, affermare che ciò possa essere la risposta a tanti aiuti per problematiche importanti è una parola grande, ma spesso le cose che hanno fatto la differenza soprattutto nelle neuroscienze sono stati avvenimenti che nessuno si aspettava. Per il momento la soddisfazione che viene da tutto ciò è un qualcosa che ci riempie il cuore e che ci darà sempre la spinta a continuare i nostri percorsi, affinché la nostra passione possa sempre spaziare ed aiutare nell’unico linguaggio che di sicuro rimane universale: l’amore.

Progetti ed eventi

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CRONACA

I 90 anni dell’A.M.O. testo e foto di DAMIANO LO PORTO

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uest’anno l’AMO, Associazione Modenese Ornicoltori, festeggia il 90° anno di Vita. La Società è stata fondata nel lontano 1932 a Modena da alcuni appassionati ornicoltori presso il Ristorante “Bruno” sito al n° 9 di via Ganaceto nel centro città, dove solitamente alcuni appassionati di uccellini si riunivano a bere un buon bicchiere di vino mentre parlavano dei loro pennuti. Il Ristorante “Bruno”, quindi, è stata la nostra prima sede e tale è rimasta sino al 1950. Da allora diverse sono state le altre sedi dove l’AMO si è spostata prima di approdare nel maggio 1980 presso la Polisportiva di San Faustino in via Wiligelmo 72, sede attuale. Da quel giorno molti sono i Presidenti e i Segretari che si sono succe-

duti; ricordiamo il primo presidente Carlo Brillanti e il primo Segretario Aldo Baraldi. Da oltre 21 anni alla guida dell’AMO vi sono il Presidente Giuseppe Calzolari e il Segretario Damiano Lo Porto. Molti sono i soci che si sono distinti in campo italiano e mondiale e tanti sono i Giudici che la Società dell’AMO ha dato alla famiglia FOI; tra questi, alcuni si sono iscritti ad altre Società, altri hanno smesso perché purtroppo passati a miglior vita, altri ancora hanno smesso per limite d’età ed altri ancora giudicano. Questi i nomi di coloro che hanno ricoperto il ruolo di Giudice nelle varie Razze: Damiano Lo Porto, Enzo Nocetti, Alberto Bianchini, Gastone Masini, Luigi Monticelli, Ores Balugani, Manuele Piccinini, Sergio Gafà, Gior-

gio Checchi, Alvares Borghi, Romano Fioravanti, Daniele Blandini, Giuseppe Calzolari e l’ultimo arrivato, Marco Gazzetti. A Modena dal 4 al 7 gennaio 1962 è stato organizzato il Primo Campionato Italiano della Razza Sassone. Nel tempo molte cose sono cambiate; all’epoca della mia iscrizione, l’AMO contava oltre 200 iscritti e molte volte la nostra Società risultava essere la Società più premiata d’ Italia. L’alto livello qualitativo delle nostre Mostre Ornitologiche ci aveva fatto guadagnare l’appellativo di “Modena Culla del Colore”. Dal 2006 la Società si è gemellata con l’ex AOC di Carpi e con l’ASOC di Correggio, dando vita nel 2007 al “Gruppo Ornitologico La Fenice”, tutt’ora esistente.

Da sinistra: il segretario Damiano Lo Porto, Enzo Nocetti ed il Presidente Giuseppe Cazzolari

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ESTRILDIDI FRINGILLIDI IBRIDI

Cardellino nero dominante Nuova avventura nella specie del Cardellino testo e foto di GENNARO AMALFI

uest’anno ho avuto l’immenso piacere di introdurre nel mio allevamento un soggetto di cardellino nero dominante. Gioia e soddisfazione ora che ho iniziato a vedere i primi novelli nati dall’accoppiamento tra il cardellino e tre diverse femmine ancestrali, ottenendo come prole del 50% circa di piccoli mutati e piccoli ancestrali. Da ciò deduco che trattasi di genotipo nero dominante, definito tale in quanto maschera, calotta, barra alare e il piumaggio sono completamente marrone scuro e nero, delineati da un disegno ben definito che supera del tutto i confini tipici.

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A differenza dell’aberrazione che spesso si è già vista in diversi soggetti in questione, essi manifestavano una evidente colorazione intensificata dal nero ma non omogenea, con infiltrazioni di rosso nella mascherina e che, alla seconda muta, sono tornati al classico fattore ancestrale. Da accoppiamenti fatti anche tra soggetti di questo tipo la prole risultava essere sempre a fattore ancestrale. In questo caso, ritornando alla questione nero, come si evince dalle foto dei piccoli novelli la mutazione è ben evidente. Ma già dai primi giorni di vita nei piccoli nati mutati la pigmentazione alla nascita risul-

tava di colore nero omogeneo, cosa che li differenzia dai classici. A mio modesto parere c’è ancora tanto da lavorare per capire un’eventuale progressione della mutazione, sovrapponendola ad eventuali altre, anche se credo che la notevole presenza del fattore melanico dia ben poco spazio ad altri fattori. L’unica sovrapposizione, ad oggi, è stata fatta accoppiando nero per femmina pezzata acianica, da cui si sono ottenuti piccoli neri acianici! Bella avventura, direi… la quale mi porta a continuare in questa fantastica esperienza ornitologica.

Nido novelli neri acianici

Nido 3 mutati

Nido con due mutati e due ancestrali

Novello mutato

Novello mutato

Maschio adulto

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P agina aperta P

ur avendo delle origini antichissime l’etologia, ovvero la scienza che studia il comportamento animale, solo negli ultimi anni ha trovato una propria collocazione in ambito scientifico. I fondatori di questa disciplina vengono considerati Konrad Lorenz e Nikolaas Tinbergen, i quali per i loro studi sono stati premiati nel 1973 con il premio Nobel. Tuttavia, le conclusioni alle quali i due studiosi sono arrivati hanno percorso delle strade diverse; mentre gli studi di Tinbergen prendevano in considerazione il comportamento degli animali prevalentemente nel loro ambiente naturale, Lorenz preferiva osservarli in un ambiente domestico in modo da poter studiare i moduli comportamentali in relazione all’habitat nel quale essi si erano di fatto evoluti. È molto importante che si conosca questa differente metodologia poiché gli animalisti propagandano un concetto della scienza etologica “ad usum delphini”, correlandola esclusivamente agli studi effettuati sugli animali in natura. Questo è già di per sé sbagliato e lo è ancor di più specialmente considerando che gli studi sui meccanismi di controllo e di sviluppo del comportamento effettuati in laboratorio sono stati quelli che hanno portato a scoperte di maggior rilievo, come ad esempio lo studio fatto sull’apprendimento del canto degli uccelli, o quello sull’imprinting fatto, appunto, dallo stesso Lorenz. Parlare oggi di etologia in relazione al canarino è alquanto complesso poiché il canarino selvatico ricorda ben poco i canarini presenti nei nostri allevamenti; paradossalmente, se dovessimo parlare di etologia in senso stretto, probabilmente il canarino selvatico avrebbe molte più affinità col verzellino nostrano che con i nostri canarini. A parer mio, il punto cruciale consiste nel fatto che si voglia considerare un’unica filogenesi, ovvero un’unica storia evolutiva del Serinus canaria, tralasciando il fatto che da circa 600 anni la loro evoluzione ha intrapreso differenti cammini: uno allo stato brado e l’altro in ambiente controllato. Se facciamo una disamina delle quattro questioni fondamentali dell’etologia, ovvero il controllo del comportamento, lo sviluppo del comportamento, la funzione del comportamento e l’evoluzione del comportamento, è palese che non si possano ignorare i due differenti percorsi intrapresi dal Serinus canaria. Gli etologi enfatizzano il fatto che questi quattro punti debbano essere presi in considerazione nell’insieme per avere una visione del comportamento più ampia possibile, ma come si ci dovrebbe comportare in relazione al canarino, protagonista di

due percorsi non soltanto diversi ma in alcuni punti completamente inversi? Sarebbe come prendere in considerazione il comportamento di un cagnolino Chihuahua usando come criterio di riferimento le caratteristiche comportamentali di un lupo, adducendo la motivazione di tale scelta al fatto che ambedue abbiano la stessa origine. È bizzarro pensare a quante affinità esistano proprio tra il cane ed il canarino, come la lunga relazione con l’uomo, che negli anni è passata da una concezione meramente zooantropologica al moderno concetto di pet. Certo, per il cane la storia è più antica ed il fatto che egli abbia sempre avuto un’interazione diretta con l’uomo, diversamente dall’interazione che si è potuta instaurare uomo-canarino, può far erroneamente pensare ad una sorta di “non adattamento” alla vita in gabbia ma non dobbiamo dimenticare che i ruoli nella catena alimentare sono totalmente differenti e, per quanto un canarino possa avere alle spalle secoli di vita in ambiente controllato, il suo ruolo originario è quello di preda. Se per noi umani gli occhi sono lo specchio dell’anima, in natura non è esattamente così. È difficile per un animale come il canarino, che ha gli occhi posizionati lateralmente, quindi con una visione panoramica e con i punti ciechi ridotti al minimo, relazionarsi con l’uomo che ha gli occhi posizionati frontalmente, tipici dei predatori che li usano per focalizzare le imboscate, poiché in quella posizione permettono loro di utilizzare la stereopsi (la percezione della profondità e della struttura tridimensionale), nonché di valutare la distanza e velocità delle prede. Un animale, per quanto essere senziente, non ha la facoltà di immaginare cose che non conosce. Un cane che ha sempre vissuto in un appartamento non ha cognizione di cosa sia vivere in un bosco e passare il giorno a cacciare per la propria sopravvivenza; un canarino nato in gabbia non ha idea di cosa significhi volare nel cielo e procurarsi il cibo stando in allerta ogni istante per difendersi da eventuali pericoli e dai predatori. Farebbero dunque bene gli animalisti più incalliti, giusto per intenderci quelli che sostengono che un canarino in gabbia sia un uccello in prigione o che un cane sia soltanto un lupo addomesticato, a riflettere su tutto ciò. Lungi da me l’intenzione di entrare nell’ambito della filosofia fine a sé stessa, ma mi chiedo: se gli animalisti più estremisti dovessero usare gli stessi termini di giudizio, quale sarebbe la loro idea dell’uomo in relazione alla società in cui viviamo? PASQUALE LEONE

Argomenti a tema

Riflessioni sull’etologia e la canaricoltura

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