Rilievo 3D e HBIM per il restauro di Ponte Carlo III | Santoni, Massaro

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rosanna massaro camilla santoni

Rilievo 3D e HBIM per il restauro di Ponte Carlo III Alla scoperta di una infrastruttura dell'Acquedotto Carolino



tesi | architettura design territorio


Il presente volume è la sintesi della tesi di laurea a cui è stata attribuita la dignità di pubblicazione. “Per l'approccio sperimentale e innovativo allo studio del Ponte Carlo III, una struttura importante e poco nota, inserita in una infrastruttura di grande rilevanza ambientale come l'acquedotto Carolino. La ricerca, attraverso la strutturazione di un l'HBIM ha proposto una tecnica originale che fornisce un interessante e approfondito contributo all'aggiornamento della prassi del progetto di conservazione programmata”. Commissione: Proff. G. Tempesta, T. Matteini, G. Tucci, M. De Santis, M. Di Benedetto, L. Fiorini, A. Conti

in copertina Ortofoto Prospetto SUD Ponte Carlo III, Moiano-Bucciano (BN)

progetto grafico

didacommunicationlab Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Susanna Cerri Giacomo Dallatorre

didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121 © 2021 ISBN 978-88-3338-133-6

Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset


rosanna massaro camilla santoni

Rilievo 3D e HBIM per il restauro di Ponte Carlo III Alla scoperta di una infrastruttura dell'Acquedotto Carolino



Fig. 1 – Rilievo agosto 2019. Prof.ssa L. Fiorini, Arch. A. Conti, Rosanna Massaro e Camilla Santoni su Ponte Carlo III (foto Lab. GeCo Unifi, 2019).

Il Ponte Carlo III, sineddoche dell’Acquedotto Carolino

Il Ponte Carlo III è una delle poche porzioni visibili dell’acquedotto Carolino, la straordinaria infrastruttura che, con i suoi trentasette chilometri, conduce, dalle sorgenti del Fizzo, l’acqua che alimenta tutto il sistema di fontane e cascate della Reggia di Caserta. Un’opera monumentale e poco conosciuta, realizzata non solo per il diletto della corte reale ma per azionare mulini e opifici, come le seterie di San Leucio e prolungata successivamente anche per potenziare la rete idrica di Napoli. L’acquedotto e i suoi manufatti, dagli imponenti Ponti della Valle alle decine di torrini di ispezione, sono anche il “manifesto” di un potere illuminato, quello di Carlo di Borbone, che segnava e disegnava il territorio attraverso l’ingegno sapiente di Luigi Vanvitelli. Quest’ultimo, in pieno Secolo dei Lumi, nel periodo in cui si dice che sia nata la dicotomia tra competenze scientifiche e umanistiche, incarnava ancora entrambe queste conoscenze. Non a caso, promosse il suo lavoro sull’acquedotto con incisioni che richiamavano insieme la cultura idraulica romana e l’evoluzione tecnologica dei suoi tempi, raffigurandosi nell’atto di misurare con un moderno strumento topografico. Rosanna Massaro e Camilla Santoni hanno fortemente voluto studiare il Ponte Carlo III, un’opera fino ad ora trascurata e solo occasionalmente elencata tra le infrastrutture dell’Acquedotto. Nella convinzione che il rilievo sia lo strumento d’elezione per lo studio dell’architettura, la loro ricerca è partita da un’approfondita indagine strumentale che ha permesso di ottenere una rappresentazione digitale tridimensionale del monumento con un’elevata risoluzione finale. L’azione mensoria è una attività dispendiosa, sia in termini di tempo che di risorse. Per uno sviluppo sostenibile, è perciò essenziale che i rilievi siano conosciuti, conservati, condivisi e trasmessi, in quanto fonti primarie delle condizioni di un bene in un determinato periodo. Questo è ancor più importante nell’attuale fase di transizione verso una società digitale, che pone sfide che riguardano non solo le tecnologie di acquisizione delle informazioni ma ancor più la loro conservazione, gestione e riutilizzo, temi su cui è impegnato lo stesso Parlamento Europeo. Le informazioni sulla consistenza geometrica e materica contenute in un rilievo strutturano tutte le fasi della conservazione, dalla diagnosi all’intervento fino al successivo monitoraggio e devono pertanto essere gestite con sistemi adeguati. Spingendosi ben al di là dei limiti dei vari ambiti disciplinari, che spaziano dal rilievo alla geomatica, dalla storia dell’architettura al restauro, dall’ingegneria delle infrastrutture all’idraulica, Rosanna e Camilla si sono cimentate anche nella gestione delle informazioni del Ponte Carlo III con gli strumenti H-BIM. Questo ha evidenziato da un lato i punti di forza di questa metodologia, dall’altro quanto attende ancora un miglioramento degli strumenti attualmente disponibili, notoriamente nati per le nuove costruzioni. Il modello parametrico, corredato di tutte le informazioni che testimoniano dettagliatamente lo stato del ponte all’agosto 2019, costituisce già un documento storico ed è, al contempo, uno strumento progettuale completo di tutte le indicazioni necessarie a provvedere alla conservazione di questo monumento. Grazia Tucci Università degli Studi di Firenze

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Introduzione

Fig. 2 – Ponte Carlo III, vista a volo d'uccello (foto: Lab. GeCo Unifi, 2019).

Questa tesi è nata dall’unione di due elementi indispensabili. In primis, dall’attaccamento di una persona alla sua terra di origine, che non è stato minimamente intaccato dagli anni di allontanamento dovuti alla scelta di intraprendere una carriera universitaria in un’altra regione. Essi hanno contribuito, al contrario, a rafforzarlo al punto tale da farle desiderare di portare un pezzo della sua storia e delle sue radici con sé al termine del suo percorso di studi, coronamento di anni di impegno e arricchimento personale e culturale. Realizzare questo progetto non sarebbe stato possibile, però, senza il secondo elemento fondamentale di questa tesi, ossia l’amicizia tra due compagne, nata nelle aule universitarie, tra le fila di architetti e progettisti di ogni sorta, nel tempo trascorso tra un esame ed una lezione. È proprio in questi anni, in questi luoghi, che si intessono relazioni autentiche e, soprattutto, si scoprono interessi, passioni, modi di pensare in comune e, perché no, elementi di disaccordo che possono rappresentare reciprocamente motivo di arricchimento e crescita. Nelle aule di un Dipartimento di Architettura si può scoprire di apprezzare l’innovazione e la follia creativa della progettazione, l’entusiasmo del da-

re forma ad un qualcosa di totalmente inesistente, o abbandonato. In maniera differente, ma non del tutto contrapposta, si può scoprire di subire irrimediabilmente il fascino del passato, di tutto ciò che ci è offerto dall’immenso patrimonio artistico-architettonico di ogni epoca. Leggere la storia e tutte le mille sfaccettature del contemporaneo a partire da quello che resta. Tracce di un passato che resta visibile in superficie, ma quasi sempre in condizioni di abbandono e incuria, esposto al rischio di cadere nell’oblio nel giro di pochi decenni se non oggetto di un intervento immediato, pronto, deciso, che nasca dalla consapevolezza del suo valore inestimabile. Appurata questa propensione comune, scoperta e continuamente riconfermata nel corso degli anni di studio, essa ha potuto trovare pienamente modo di esplicarsi e di poter esser coltivata in quello che è l’oggetto di questa Tesi di Laurea Magistrale in Architettura. Non a caso l’oggetto di interesse ha da poco superato i 260 anni. Sono abbastanza chiare fin da subito le intenzioni iniziali. Esiste una dimensione dell’Architettura e del Progetto dell’Architettura svincolata dalla Progettazione in senso stretto, quella canonica, quella alla quale si è maggiormente abituati. Esiste la possibilità di analizzare, svisce-

rare, fare ragionamenti e "progettare anche il patrimonio", specialmente grazie agli strumenti che le tecnologie sviluppate negli ultimi decenni ci mettono a disposizione. Ed è, in fondo, proprio questo l’obiettivo che ci eravamo poste quando abbiamo deciso di affrontare questo tema: raccontare un’architettura, che è anche un’infrastruttura territoriale, innanzitutto rappresentandola affinché se ne possa preservare la memoria storica e poi sviscerandone le caratteristiche proprie e quelle più “globali” che essa possiede in quanto facente parte, come vedremo, di un sistema ben più ampio. Di questo e di molto altro ci sarà modo di discorrere in questa sede: di architettura, di storia, di ingegneria, di territorio, di idraulica, di rilievo e rappresentazione, di sensibilizzazione e amore per il territorio, di senso di appartenenza, della necessità di preservare e delle modalità attraverso cui è possibile farlo. E, soprattutto, di come, a partire dal piccolo, si possa aspirare tracciare delle linee guida per un intervento più capillare e diffuso che possa, effettivamente, mettere al riparo il passato dalla perdita completa delle sue tracce. In questo percorso partiremo dalla fine, dal punto di arrivo, dalla parte più conosciuta per poi addentrarci lentamente verso il cuore della nostra ricerca.

E man mano che ci allontaneremo dal punto di arrivo vedremo come le cose diventeranno più vaghe, più oscure, più dimenticate. Proprio lì, proprio nel cuore pulsante di tutto il sistema…dove tutto ha inizio. L’intento è quello di sottrarre tutto questo all’oblio, di restituirgli la dignità che possiede e che merita, come elemento singolo e come ingranaggio del sistema al quale appartiene.

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La Campania Felix prima e dopo il Carolino

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Fig.3 –Inquadramento generale della Campania (dati mappa: Google Earth Satellite 3D Model Image Landsat/Copernicus-Data SIO, NOAA, U.S. Navy, NGA, GEBCO).

Inquadramento storico-territoriale

Fino ad ora sono state fornite delle informazioni piuttosto generiche inerenti al tema e alle finalità degli studi effettuati ma è arrivato il momento di procedere con maggior dettaglio. Volendo iniziare a fornire un nome e un riferimento territoriale, l’oggetto di studio è il Ponte Carlo III, (anche denominato Ponte Nuovo, sul fiume Faenza, detto anche Isclero). Esso costituisce una traccia visibile in superficie dell’Acquedotto Carolino, condotto di circa 37 km che alimenta la cascata e le fontane del Parco Reale di Caserta. Il contesto territoriale di interesse necessita di un opportuno approfondimento vista la sua complessa caratterizzazione. Citare delle città come Napoli e Caserta è abbastanza chiaro per avere un’idea almeno orientativa dell’area geografica di interesse, tuttavia quando si parla di sistemi infrastrutturali complessi come gli acquedotti è chiaro che la fascia territoriale coinvolta sia ben più estesa e zone come, ad esempio, quella in cui è situato il Ponte Carlo III, siano sconosciute alla maggior parte delle persone nonostante, come vedremo, l’importanza che esso assume per il funzionamento dell’intero sistema. L’acquedotto si sviluppa nell’entroterra campano, con un percorso molto complesso che attraversa colline, valli, gole più o meno ripide, zone un tempo paludose e pareti rocciose, situate nel-

la fascia territoriale compresa tra Benevento e Caserta, territori dell’Antico Sannio e della provincia di Terra di Lavoro e del Principato di Ultra ai tempi della realizzazione del progetto, che risale a circa due secoli e mezzo fa. Per comprendere, invece, il contesto storico di interesse, occorre immaginare di trovarsi nella seconda metà del Settecento nel Regno di Napoli e di Sicilia, alla corte del Re Carlo di Borbone. Fu il regnante, infatti, a commissionare la realizzazione di questa opera straordinaria, un progetto maestoso, all’Architetto olandese Luigi Vanvitelli, che si era già occupato dal 1752 del Palazzo Reale di Caserta. Nella descrizione del progetto del Palazzo, per definire il sito scelto per realizzare l'opera, l'architetto utilizza queste parole, sottolineando la fertilità e la mitezza della Campania Felice. Amene e fertili campagne quasi per tutta la deliziosa Italia si incontrano: ma rara, e forse niuna paragonare si può con quella, eh ‘ebbe per eccellenza il nome di Campania, e per cognome di Felice, perlocchè da buona parte degli antichi Scrittori fu tra le prime pianure tutte dichiarata felicissima. Questa, per darle il più ristretto confine, si circoscrive a Levante da i Monti Nolani, a Ponente dal tortuoso Volturno, a Settentrione da i Monti Tifata, ed a Mez-

zogiorno dal Mare Napoletano; quantunque altri dilatandola oltre il Volturno, l’accrescano di molti famosi campi, fra i quali il Caleno, il Falerno, e lo Stellatino sono i più memorabili- La posizione di quella terra è la più fortunata, perché difesa dalle montagne contro lo sterile soffio de i rigidi venti, testa nelle altre parti piana, ed aperta per raccogliere de i fecondi il favorevole fiato. […]. (Vanvitelli L., La Dichiarazione dei disegni del Real Palazzo di Caserta alle Sacre Maestà ..., Napoli, 1756, p. I-II) Prima di entrare nello specifico in merito alla realizzazione della Reggia e dell’Acquedotto, è opportuno presentare brevemente coloro che ne furono i protagonisti principali e che abbiamo appena citato, ossia il committente, Carlo di Borbone e il progettista, Luigi Vanvitelli.

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Fig. 4 – Ritratto di Carlo III, Mariano Salvador Maella, Palazzo Reale di Madrid, 1771.

I personaggi, la Reggia e l'Acquedotto

Carlo III di Borbone In primis, parliamo di Carlo di Borbone, Re di Napoli e di Sicilia dal 1734 al 1759, il quale promosse la costruzione della nuova residenza Reale nella città di Caserta dislocata dal centro del potere borbonico, ovvero Napoli. Questa scelta si colloca nell’ambito delle politiche dei monarchi illuminati dell’epoca, con la volontà di allontanare il centro del potere borbonico da Napoli, ritenuta eccessivamente vulnerabile alle incursioni nemiche data la sua posizione sulla costa. Carlo, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, divenne Re di Napoli appena diciottenne nel 1734, rendendo la città capitale di uno Stato. Riuscì a unificare il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia, sottraendolo agli austriaci, approfittando della guerra di successione polacca. Carlo di Borbone fu un perfetto esempio di quello che si suole definire un “sovrano illuminato”, ossia un monarca che si circondava di intellettuali, artisti e uomini politici che portavano avanti le idee dell’Illuminismo settecentesco. Napoli divenne una capitale dell’Illuminismo e visse un periodo di grande fioritura intellettuale. Carlo di Borbone, oltre ad essere un abile uomo politico, era un uomo del suo popolo, vicino alla sua gente, per questo motivo tanto amato. Il contributo della sua azione di governo è da ricer-

care anche nelle grandiose opere architettoniche e archeologiche che re Carlo ha lasciato a Napoli e dintorni: a lui si deve l’apertura sistematica degli scavi di Ercolano, Pompei e Stabia; la realizzazione del Real Teatro di San Carlo; la Reggia di Portici, la Reggia di Capodimonte; il Foro Carolino (oggi Piazza Dante) sempre ad opera del Vanvitelli e che vanta alcune sculture di Giuseppe Sanmartino, l’artista del Cristo Velato; il gigantesco Real Albergo dei Poveri dell’architetto Ferdinando Fuga; il rinnovamento e ampliamento di Palazzo Reale; la fondazione della Real Fabbrica di Capodimonte per la produzione della porcellana; la fondazione dell’Accademia di Belle Arti. Grazie a tutto ciò, Napoli divenne una grandissima capitale europea, sicuramente e di gran lunga la più importante città in Italia, ambitissima meta del Gran Tour. La maestosa Reggia di Caserta, realizzata per rivaleggiare con quella di Versailles, e il contestuale Acquedotto Carolino, rientrano perfettamente in questa politica che re Carlo aveva voluto dare alla propria azione di governo, volta contemporaneamente all’affermazione della monarchia e alla valorizzazione delle potenzialità delle conoscenze a sua disposizione. L’attaccamento che il sovrano nutriva per il popolo, la città, il legame che aveva creato con quel territorio si interruppero forzatamente

nel 1759, anno del suo trasferimento in Spagna, dovuto a questioni di successioni dinastiche. Qui restò fino alla sua morte assumendo il nome di Carlo III, con il quale è meglio conosciuto. Lasciava nelle mani del giovanissimo figlio Ferdinando un Regno florido ma ricco di insidie, affidandone la reggenza al Ministro Bernardo Tanucci. Luigi Vanvitelli La storia del sovrano si intreccia con quella dell’altro grande protagonista di questo racconto. Luigi Vanvitelli nasce a Napoli nel 1700. Figlio di Gaspard van Wittel, noto vedutista olandese, è uno dei più straordinari architetti-ingegneri del secolo XVIII. Dopo un principio di carriera pittorica, decide di dedicarsi piuttosto all’architettura, ricevendo la sua formazione nell’ambiente del barocco-romano di Carlo Fontana, ed entrando verosimilmente in contatto con il già affermato Juvara. Pur avendo una solida base barocca, si dimostra sensibile ai temi della classicità, recuperati direttamente dallo studio delle rovine antiche che la cultura illuminista del tempo incominciava a rivalutare con sempre maggior insistenza. Per questi motivi egli è considerato il primo architetto neoclassico italiano. Dopo aver partecipato a diversi concorsi (il più importante per la facciata della Basilica di San

Giovanni in Laterano) viene nominato nel 1726 alla prestigiosa carica di primo architetto della Fabbrica di San Pietro. La fama raggiunta grazie alla sua abilità tecnico-ingegneristica indusse re Carlo di Borbone a chiamarlo a Napoli per incaricarlo della costruzione della reggia di Caserta. Questo incarico rappresentò per Vanvitelli un vero e proprio trampolino di lancio. Da allora, infatti, ebbe inizio un intenso periodo di attività non solo nel regno di Napoli, ma, nel Regno di Sicilia, nello Stato Pontificio, a Torino, Milano, Brescia ed anche in Spagna. In tutti i progetti che realizzò, egli seppe dare prova delle sue abilità non solo propriamente di architetto, ma anche di costruttore, ingegnere, tecnico, idraulico, strutturista: una incarnazione dei principali saperi del costruire dell’epoca. La reggia e l'Acquedotto Conclusa questa breve ma necessaria parentesi di inquadramento dei principali attori della storia, segue una descrizione abbastanza rapida delle fasi iniziali della realizzazione del palazzo. All’epoca, il territorio di interesse era occupato dal centro di "Casa Hirta", oggi Caserta Vecchia, borgo medievale, probabilmente di origine longobarda, alle pendici dei monti Tifatini, dai quali attualmente affiora la cascata del Parco della Reggia.


L’avvento dei Borbone e la costruzione della Reggia favorirono la fioritura di Caserta, che divenne il nuovo centro di ogni attività a scapito di Casertavecchia. Il nuovo palazzo reale doveva essere capace di ospitare anche tutti gli uffici e i ministeri, per la cui realizzazione necessitava un vasto territorio con particolari qualità orografiche, di clima, di infrastrutture stradali, di ricchezza di falde acquifere e di aree libere e il territorio ai piedi dei monti Tifatini si prestava perfettamente a queste necessità. Di palazzi reali, tuttavia, la storia era piena. Il committente, in questa occasione, aveva una richiesta più impegnativa: quella di tradurre in un progetto su carta la grandezza di una dinastia,

lasciando al progettista totale carta bianca, purché riuscisse nell’impresa. Vanvitelli trovò immediatamente il modo di raggiungere questo intento: occorreva progettare, congiuntamente al palazzo, un grande giardino, degno di quello di Versailles, per soddisfare le esigenze del Re con delle “Reali Delizie”: un giardino munito di giochi d’acqua, di un fastoso sistema di vasche e fontane che lo avrebbero percorso in tutta la sua lunghezza. Per realizzare questo ambizioso progetto, tuttavia, occorreva risolvere preliminarmente un problema fondamentale: quello dell’alimentazione delle fontane e dell’intero sistema. Problema piuttosto rilevante, data la scarsità di sorgenti nella zona in que-

stione. Il problema dell’approvvigionamento idrico fu risolto da Vanvitelli, non senza grandi sforzi, attraverso accurate ricerche che lo condussero all’individuazione di ricche sorgenti collocate alle falde del monte Taburno, nella Valle Caudina. I territori in questione sono situati ad una distanza notevole dal sito di Caserta: ecco che, dunque, il progetto iniziale della Reggia diventa ben più complesso, arricchendosi di un intricato acquedotto. Dalla pura architettura, all’architettura dei parchi e dei giardini del Settecento, all’infrastruttura, all’ingegneria, all’idraulica: in un solo progetto, nel sogno di una casata reale e del suo Architetto, convergono numerosi settori della conoscenza e

della tecnica dell’epoca che offriranno spunti di approfondimento e di riflessione portando, in molti casi, all’elaborazione di soluzioni innovative e altamente ingegnose, che denotarono e denotano ancora tutta la grandezza di quest’opera, ancora perfettamente funzionante, malgrado l’incuria e lo stato di abbandono in cui versa.


Fig. 5 – Ritratto Luigi Vanvitelli, Giacinto Diano, Reggia di Caserta. 1765.

Prima di prendere in considerazione nello specifico il sistema settecentesco del Carolino, occorre offrire un inquadramento un po’ più dettagliato del territorio in questione, del suo retroscena culturale, storico e delle risorse che esso offre, per poter interpretare scelte e operazioni fatte dal Vanvitelli alla luce delle condizioni concrete nelle quali si trovò ad operare. La questione relativa alla scarsità della risorsa idrica nella fascia costiera campana aveva spinto da sempre alla ricerca di sorgenti nell’entroterra, fin dai tempi antichi. Già, infatti, gli antichi centri di Capua e Napoli erano stati alimentati da complessi sistemi di acquedotti che avevano origine a distanza di svariate decine di chilometri dalle città in cui l’acqua veniva poi effettivamente utilizzata. Se la costruzione della Reggia di Caserta e dell’acquedotto fanno riferimento ad un momento storico ben preciso, il territorio di pertinenza ha un trascorso molto più antico e il problema dell’acqua è da sempre esistito, trovando differenti soluzioni in ogni epoca. L'acqua Claudia L’antica Partenope, la Napoli greca, era servita dall’acquedotto della Bolla, realizzato dai coloni greci nel IV sec. a.C., che attingeva acqua dal sottosuolo e la distribuiva ai quartieri bassi, ma che

Il sistema acquedottistico campano

manifestò fin da subito la sua precarietà dovuta alle scarse condizioni igieniche nelle quali versava l’acqua al suo interno. Per questo motivo, la Neapolis romana fu dotata in età augustea (I sec. d.C.) di un nuovo acquedotto, alimentato questa volta dalle sorgenti del Serino, nella zona dell’Avellinese, denominato Acquedotto Claudio. Questo acquedotto serviva anche i centri di Pompei ed Ercolano e alimentava principalmente i quartieri bassi della città di Napoli, mentre i quartieri collinari restavano ancora piuttosto sprovvisti.n Il Sannio nio L’entroterra campano, reale territorio d’interesse per la realizzazione del Carolino, presenta un’evoluzione storica completamente differente. Le sue vicissitudini sono legate indissolubilmente a quelle di un popolo, i Sanniti. Popolazione dell’Italia preromana, suddivisa in 4 tribù principali: Pentri, Caudini, Carricini, Irpini, più i Frentani, che abitò le valli e i monti dell’Appennino Campano-Molisano-Lucano, passata alla storia come rude e bellicosa, dedita alla lotta e alla caccia come fili conduttori anche nell’intreccio dei rapporti, specchio dell’asperità del territorio che li ha ospitati nel corso della loro storia. Gran parte del territorio abitato da Caudini ed Irpini rientra nel bacino idro-

grafico del Volturno che, insieme ai suoi affluenti (Titerno, Calore, Isclero) assicura il drenaggio della regione. La presenza certa di questa popolazione è testimoniata dal ritrovamento di resti archeologici risalenti all’ VIII sec a.C., principalmente nella fascia caudina, e cioè esattamente quella corrispondente al percorso dell’Acquedotto Carolino. Le vicende delle guerre sannitiche, con la sconfitta definitiva dei Sanniti in occasione della Terza guerra Sannitica nel 372 a.C., segnarono il tramonto di questa società e la sua destrutturazione da parte del vittorioso nemico romano, che consolidò la sua presenza nei territori della Campania. Se fino ad allora gli interventi infrastrutturali romani si erano limitati ai territori di loro pertinenza, a partire da questo momento in poi, poterono estendersi nei nuovi territori di conquista. Capua, ad esempio, era uno dei centri antichi più grandi dell’Impero Romano, addirittura secondo a Roma da quanto riporta la tradizione. Città osca, etrusca, sannita e poi romana, importantissimo centro sulla Via Appia, corrispondente all’attuale città di Santa Maria Capua Vetere, nella provincia di Caserta. Un nucleo di tale importanza era, tuttavia, sprovvisto di un adeguato sistema di rifornimento idrico. Per questo motivo, a partire dal 36

a.C., il Curator Acquarum Vispasianum Agrippa promosse la realizzazione di un acquedotto denominato Acquedotto Iulio, le cui sorgenti risiedevano in quelle del Fizzo, ai piedi del Monte Taburno, alimentando il condotto fino a Capua con una portata di ben 700 l/s. L'acqua stessa del Fizzo era anticamente incanalata in un altro acquidotto, Giulio denominato in onor di Giulio Cesare, che fu costruito da Augusto per comodo della colonia di Capua. In vari siti vedesi il suo corso, e di qualche spezzone, ch'era nel livello del nuovo, si è servito l' architetto Vanvitelli per condurre le acque in Caserta. (Bartolini D., Viaggio Da Napoli Alle Forche Caudine Ed a Benevento E Di Ritorno a Caserta, Ed a Monte-Casino, 1827, p. 55) Sebbene non esista una mappatura completa di questo acquedotto, sono ben visibili alcuni suoi tratti nelle campagne del comune di Bucciano (BN), nonché un sistema di piccoli ponti e tratti dell’acquedotto nella vallata che separa Moiano da Sant’Agata. L'acquedotto del Carmignano L’esistenza dell’Acquedotto Giulio e delle poderose sorgenti che lo alimentavano era ben nota anche nel Seicento, quando Pietro di Tole-



Fig. 6 – Schema inquadramento acquedotti storici campani all'Acquedotto Carolino (dati mappa: Google Earth Satellite 3D Model - Image Landsat/Copernicus-Data SIO, NOAA, U.S. Navy, NGA, GEBCO).

do, viceré della monarchia spagnola, si pose il problema del rifornimento idrico della città, in particolare dei rioni alti, e conseguentemente di arginare la criticità delle condizioni igienico-sanitarie. L’idea iniziale, ossia quella di ripristinare l’antico acquedotto Claudio, non attivo da un millennio, era stata accantonata all’indomani della bonifica delle aree di Nola, Acerra, Maddaloni, che aveva aperto la prospettiva dello sfruttamento delle sorgenti di Sant’Agata dei Goti. Prese avvio, così, su proposta del Marchese Carmignano, la costruzione dell’Acquedotto del Carmignano. Esso riceve acqua dal primo tratto del Carolino (dall’Isclero) tramite la “Catena”, nei pressi del mulino Mastromarco. Di conseguenza, non condivide il primo tratto con quello vanvitelliano. In questo punto le acque delle Sorgenti di Airola, mischiate alle acque dell’Isclero, vengono deviate e incanalate in un condotto in parte sotterraneo e in parte a pelo libero che, attraverso la Valle di Maddaloni, inglobando in parte i resti del condotto Giulio, giunge fino a Napoli. Le sorgenti del nuovo acquedotto di Napoli di trovano ad Airola, mentre il condotto inizia effettivamente a Sant’Agata dei Goti, in corrispondenza della Catena. L’ideatore e l’esecutore del progetto fu Alessandro Ciminelli e i lavori si protrasse-

ro per circa due anni, a partire dal 29 maggio 1629. I ristretti tempi di esecuzione furono resi possibili (come si legge dal contratto) dal restauro e l’integrazione dell’antico acquedotto giulio tra Sant’Agata dei Goti e Maddaloni. (Fiengo G., L'acquedotto di Carmignano e lo sviluppo di Napoli in età barocca, 1990, p. 96) La pratica del “riuso” di strutture preesistenti per la realizzazione di nuovi sistemi architettonici-infrastrutturali era ben nota già nei secoli scorsi, soprattutto in casi in cui, come in questo, essa comportava un notevole risparmio in termini di tempistiche e di costi di realizzazione. Quando Carlo di Borbone acquistò dal principe della Riccia di Airola le Sorgenti del Fizzo la situazione si inasprì. Il fiume Faenza, all’altezza di Sant’Agata, alimentava il Carmignano e, attingendo il Carolino alle stesse fonti, ne riduceva inevitabilmente l’afflusso di acqua, danneggiando Napoli a favore di Caserta. Per correre ai ripari, il re pensò di restituire le acque alla capitale reimmettendole nel condotto del Carmignano attraverso un condotto in muratura all’altezza di Montedecoro, presso Maddaloni. Carlo di Bornone in realtà sperava di poter proseguire il Caroli-

no verso Napoli, per far sì che esse giungessero a Napoli ad una quota alta, così da poter servire anche i quartieri più collinari, senza però riuscirvi. Il canale, partendo dalla reggia di Caserta, raggiungeva i mulini di S. Benedetto e poi puntava verso Montedecoro, innestandosi poi nell’alveo napoletano. Vanvitelli fissò per l’opera una sezione di 4 palmi e ½ di larghezza per 6 e ½ di altezza, con pareti laterali di spessore di 1 palmo e ½ (1 palmo = 26 cm). Le dimensioni erano tali da uniformarsi a quelle del Carolino negli altri suoi tratti. Nonostante le grandi aspettative, i lavori di risanamento del Carmignano non decollarono mai. Il progetto del Carmignano, nonostante le buone intenzioni iniziali, mostrò in corso di realizzazione una serie di problematiche (legate soprattutto alla contaminazione, presenza di parti del condotto a pelo libero, episodi di appropriazione non autorizzata), che comportarono la sua chiusura a favore della restaurazione dell’Acquedotto Claudio, avvenuta nel 1885, anno in cui l’acqua del Serino tornò a far zampillare le fontane di Napoli. Conclusioni La storia del Carolino si intreccia inevitabilmente con tutte le preesistenze che caratterizzano il territorio che esso attraversa. Il rapporto che l’acquedotto va ad instaurare con esse è ancora

non del tutto chiaro, anzi, a tratti particolarmente intricato ed enigmatico. In che misura Vanvitelli si rapportò con le preesistenze? Quanto di queste preesistenze fu effettivamente riutilizzato dall’architetto per realizzare la nuova opera, concretamente o anche soltanto in linea di principio costruttivo e realizzativo? Sono questi degli interrogativi ai quali allo stato dei fatti è difficile dare una risposta concreta e attendibile scientificamente, perché sarebbero necessarie delle indagini archeologiche per poter avere un quadro chiaro. Ciò che, ai fini del nostro studio, è interessante sottolineare, è il trascorso storico di questa area. La presenza di un grande patrimonio dimenticato, nascosto, lasciato inosservato, ma che testimonia tracce di una civiltà antichissima che aveva compreso millenni fa le potenzialità di una terra che oggi non viene riconosciuta e valorizzata come meriterebbe.

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Attraverso i territori di Benevento e Caserta

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L'Acquedotto Carolino: Linee guida

Fig.7 – Torrino n° 50, Acquedotto Carolino (foto: Camilla Santoni, 2020). pagine successive Fig.8 – Ponte della Valle di Durazzano, Durazzano (BN) (foto: Cittadinanza Attiva Moiano e I.I.S. A.M. de' Liguori, Sant'agata dei Goti, 2017). Fig.9 – Ponti della Valle, Maddaloni (CE) (foto: Cittadinanza Attiva Moiano e I.I.S. A.M. de' Liguori, Sant'agata dei Goti, 2017).

Il condotto e il sistema dei torrini Il condotto ha origine, come già specificato, all’interno di un territorio ricco di sorgenti, situato ai piedi del Monte Taburno, nel Sannio beneventano. A partire da lì l’acqua del Fizzo (una delle principali sorgenti) prosegue in direzione Sud-Ovest verso Caserta, attraversando un territorio caratterizzato da valli e rilievi rocciosi, che resero piuttosto difficoltosa l’esecuzione dei lavori, percorrendo 37 km e incontrando 7 comuni differenti: Moiano, Airola, Bucciano, Sant’Agata dei Goti, Durazzano, Valle di Maddaloni e Caserta. Finalmente, il condotto giunge sulle colline di Casertavecchia, dove è visibile nella parte sommitale della cascata dei giardini della Reggia. Il condotto è quasi nella sua interezza interrato, ad una profondità variabile nel terreno a seconda delle caratteristiche del tratto dell’acquedotto considerato. Questo aspetto influisce nettamente dal punto di vista della gestione del condotto, che resta invisibile in superficie e, soprattutto, inaccessibile, fattore non particolarmente indicato dal punto di vista della sua corretta manutenzione. Per ovviare a questo inconveniente, tutto l’acquedotto è segnato sul territorio da torrini di controllo. Si tratta di 67 piccole costruzioni in muratura a base quadrata e copertura piramidale. Questa loro caratterizzazione for-

male li rende riconoscibili sul territorio, aspetto di non poca rilevanza dal punto di vista anche pratico, in quanto segno di riconoscimento della “direzione” indicativa nell’acquedotto. Il sistema dei torrini è caratterizzato da una numerazione che, allo stato originario, doveva presentarsi realizzata tramite delle targhette in marmo, che sono state oggetto nella quasi totalità dei casi di furti, e successivamente sostituite da numeri incisi o targhette realizzate in materiali di minore pregio. Come già specificato, tutti i torrini sono realizzati in muratura tufacea, a eccezione di alcuni esempi, il più eclatante dei quali è rappresentato dal torrino numero 11, situato a ridosso del Ponte Carlo III: esso, infatti, è scavato nella collina tufacea di Prato, nella quale l’acquedotto va ad insinuarsi prima di riversarsi nella valle che mira verso Sant’Agata dei Goti. Il sistema dei torrini non è stata un’invenzione di Vanvitelli, ma è un’eredità del Seicentesco Acquedotto del Carmignano, nata da specifiche esigenze di controllo e manutenzione del condotto. I torrini, oltre che a permettere il riconoscimento dell’acquedotto stesso nel territorio, fungevano da sistema di controllo del flusso d’acqua, realizzato attraverso un sistema di valvole e saracinesche che permettevano il blocco o il rilascio dell’acqua in eccesso.

Il condotto: pendenza e costruzione L’interno del condotto è rivestito da un intonaco a calce impermeabilizzante, utilizzato per preservare la purezza e la limpidezza dell’acqua e limitare quanto più possibile le perdite. Un altro elemento che riduce la probabilità di contaminazione dell’acqua è legato alla progettazione del sistema e, in particolare, alla sua pendenza costante e pari mediamente allo 0,15% (1,5mm per ogni metro percorso), mantenuta per tutto il percorso a livelli minimi, ricorrendo ove necessario ad espedienti particolari per evitare salti di quota eccessivi con potenziale malfunzionamento del meccanismo di progetto iniziale. Lo studio della pendenza è stato effettuato dall’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, sotto la guida del Professor nonché Presidente del Corso di Laurea in Ingegneria Michele Di Natale. Sono state effettuate delle misurazioni della quota altimetrica in corrispondenza dei vari torrini e dell’altezza del condotto. Fatta eccezione per un salto di quota rilevante riscontrato in prossimità dei Ponti della Valle, la pendenza resta pressappoco invariata. La differenza di quota tra la sorgente e il punto di arrivo del condotto, situati come già detto ad una distanza di circa 37 km, è di soli 48 metri, cosa che all’epoca fu ritenuta un vero

e proprio successo tecnico, soprattutto se si considerano gli strumenti che vi erano a disposizione per l’esecuzione delle livellazioni e delle ulteriori operazioni di cantiere. Rispetto alle dimensioni del condotto, occorre fare delle considerazioni più specifiche, che saranno riprese in seguito, quando ci si troverà a soffermarsi sul condotto in riferimento alla porzione corrispondente al tratto del Ponte Carlo III. Lungo tutto il percorso dell’Acquedotto Carolino il condotto si “mostra” in maniera eclatante tre volte, per la necessità di superare depressioni del territorio. A tal proposito vengono realizzati tre ponti che, oltre a rispondere all’esigenza puramente funzionale di superare un ostacolo fisico che il condotto incontrava sulla propria strada, fungono da “messa in scena della funzione”. I tre ponti in questione sono: • Ponte Carlo III, situato a Moiano-Bucciano (BN), realizzato per superare il corso del torrente Faenza, oggi Isclero; • Ponte della Valle di Durazzano, situato a Durazzano (BN), per oltrepassare il torrente Martorana; • I Ponti della Valle, situati a Valle di Maddaloni (CE), per superare la valle tra i monti Longano e Gar21 zano.


La complessità dell’opera era nota fin da prima dell’inizio della sua costruzione, e fu comprovata dalle spese, dai tempi e dagli inconvenienti che sorsero in sede di cantiere di fabbrica. Nell’arco del periodo che fu necessario per la sua realizzazione, più di un decennio (1750-1770), numerose vicende si susseguirono. Vanvitelli documenta la costruzione del Palazzo e dell’Acquedotto con una serie di lettere scritte giornalmente al fratello Urbano, abate della Chiesa Nazionale di San Giovanni dei Fiorentini in Roma. Un vero e proprio diario di cantiere pubblicato da Franco Strazzullo nel 1976 in tre volumi della raccolta “Le lettere di Luigi Vanvitelli della Biblioteca Palatina di Caserta”, che comprendono le epistole dal 1751, anno di arrivo di Vanvitelli alla corte di Napoli, fino al 1768, anno del trasferimento a Napoli del fratello Don Urbano. Le lettere costituiscono una fonte molto preziosa soprattutto rispetto alla documentazione delle fasi di costruzione, delle problematiche e del cantiere di realizzazione dell’acquedotto e

sono state molto preziose per gli studi già effettuati su di esso. La costruzione dell’acquedotto, dalla lettura delle lettere e dal concatenarsi degli eventi, può considerarsi suddivisa in tre fasi, corrispondenti a 3 tratti distinti, dalle sorgenti verso la Reggia: • Dalle sorgenti al Monte Ciesco; • Dal Monte Ciesco al Monte Longano; • Dal Monte Longano alla Reggia. Lungo il Carolino: dalle Sorgenti a Sant'Agata dei Goti La ricerca delle sorgenti fu una delle fasi più ardue di tutta la costruzione dell’acquedotto, come Vanvitelli stesso ci testimonia in alcune sue lettere dei primi anni '50: […] Indi andiedi ad un’altra sorgente, che è quella che veniva anticamente al boschetto di Caserta; qua ò ritrovato circa 5 oncie di acqua, che unita alle 3 e mezza saranno da 8 in 9 oncie; vederemo poi se si puotrà acquistare dell’altra, in tanto però in questi giorni anderò di nuovo co il Cavalier Neroni a visitare certa altra acqua e condurrò

Mastro Pietro eli due Giovani a livellare quella acqua delle 5 libre; forse vi resterò qualche giorno, onde non vi stupite se non avrete lettere per un ordinario […]. (Strazzullo F., Jacobitti G., Le lettere di Luigi Vanvitelli della Biblioteca Palatina di Caserta, lettera 34, Caserta, 15 novembre 1751, 2012.) Qualche mese dopo, Luigi annuncia al fratello Urbano il ritrovamento delle sorgenti e l’avvio delle livellazioni per verificare la concreta possibilità di condurre le acque ritrovate a Caserta: Carissimo fratello, Sono ritornato Sabato a Caserta, dopo essere stato sei giorni a cavallo per mondi e balze; ho veduta molta acqua; ho incominciata et avanzata la livellazione.[…]. (Strazzullo F., Jacobitti G., Le lettere di Luigi Vanvitelli della Biblioteca Palatina di Caserta, lettera 81, Caserta, 25 aprile 1752, 2012.) Finalmente, dopo alcune visite dei sovrani al sito delle sorgenti, si pose la prima pietra della costruzione del Ca-

rolino, avviando in maniera ufficiale la costruzione della grandiosa opera, non senza preoccupazione da parte dello stesso Vanvitelli: Carissimo fratello, Oggi ritorno in Caserta. Sabato mattina (19 maggio) si pose la prima pietra dell’acquedotto alle sorgenti di Airola. Domenica sera si venne a Portici a dare la notizia alle Loro Maestà, che intesero con piacere e fra pochi giorni vogliono venire in Caserta a vedere la fabbrica. […] Io fatico all’estremo e prego il Signore Dio e i suoi Santi che mi diano forza di resistere, e mente per bene eseguire l’opera magna […]. (Strazzullo F., Jacobitti G., Le lettere di L. Vanvitelli, B. Palatina di Caserta, lettera 135, Caserta, 21 maggio, 2012) Sebbene le più conosciute siano le Sorgenti del Fizzo, il Carolino è alimentato da numerose sorgenti, le più importanti delle quali sono le seguenti, rappresentate anche nello schizzo di progetto di Vanvitelli: Fizzo (o lo Sfizzo), Noce, Ifico, Molinise, Marano, Sanbu-


co, San Sebastiano, Volla, Rapillo, Peschiera del Principe. Tutte sorgenti che avevano alimentato secoli prima l’Acquedotto romano Giulio. Dunque sotto il Monte Taburno incomincia l’Acquedotto, immerso sempre sotto terra di pochi palmi nel suo principio, con pendenza più tosto avantaggiate che no, fin tanto che passa per raccogliere le sorgenti, le quali nell’estensione di 2 miglia tutti s’includono, e sono le seguenti: La prima e maggiore di tutti di nomina lo Sfizzo. […] Fino ad ora l’Acquedotto ha compiuto 3 miglia. Ora si perfora un monte di tufo lungo circa un miglio e mezzo, indi si lasserà il territorio di Airola e si passerà in quello di Sant’Agata dei Goti, così nominato, perché quella città fu l’ultimo nido di questi barbari. Si prosiegue nel territorio di Durazzano, doppo in quello della Valle e finalmente in quello di Caserta, ove si perforerà un monte di pietra viva denominato Tifata e poi Givaglori, doppo il giro di 27 miglia almeno, sempre per cuspidi di monti al-

pestri alla collina, che fa fronte al Giardino Reale di Caserta nell’altezza del piano del Palazzo e porterà quasi palmi Romani numero 350. Per condurla a quell’altezza si dovrà, come si disse, camminare coll’Acquedotto per le cime dei monti e per balze pietrose, nelle quali si deve incavare nella pietra viva il cuniculo, si deve passare ogni poco sopra archi nei seni delli monti per lasciare l’adito libero alle acque piovane, e di queste atenazioni non se ne puole dare ancora il preciso dettaglio.[…]. (Strazzullo F., Jacobitti G., Le lettere di L. Vanvitelli, B. Palatina di Caserta, lettera 227, Caserta, 10 luglio 1754, 2012) Il più grande collettore d’acqua della zona è il Monte Taburno, che capta acqua in corrispondenza di depressioni naturali passate alla tradizione popolare come “Porca Ladra” e “Porca Prena”. Attraverso il sistema di distribuzione sotterranea, l’acqua veniva convogliata all’interno di due collettori, denominati “Carcarella” e “Ficucella”, che captavano le acque per indirizzarle verso vasche artificiali di raccol-

ta, che ancora oggi permettono alle acque di riunirsi e decantarsi, depositando sul fondo le impurità e sono dotate del meccanismo del troppo pieno, un sistema di fuoriuscita dell’acqua in casi d’improvvisi aumenti di portata. Dalle “vasche del Fizzo” trae origine il condotto vero e proprio. Tutto il sistema delle sorgenti è situato a Bucciano, in località Madonna Immacolata. Dalle vasche del Fizzo prende avvio un doppio percorso: quello sotterraneo, invisibile, dell’acquedotto e quello più bucolico e percorribile fisicamente segnato dai primi 10 torrini che puntellano come quelli che oggi verrebbero definiti dei “landmarks” le campagne al confine tra i comuni di Bucciano e Moiano. Alcuni dei torrini sono tutt’oggi accessibili, nonostante la totale assenza di manutenzione. Da essi si può ancora scorgere l’acqua che corre nel condotto, che si muove con una velocità molto contenuta a causa della pendenza volutamente ridotta del sistema. Finalmente il condotto giunge a valle, ove si trova costretto a superare un ostacolo naturale, corrisponden-

te al fiume Faenza. Per aggirare il problema Vanvitelli di servì di un ponte a 4 arcate, denominato Ponte Carlo III, che corre su quello che oggi è chiamato fiume Isclero. Il ponte venne espressamente dedicato ala Re Carlo e alla consorte Maria Amalia di Sassonia, attraverso l’apposizione di due lapidi, una in corrispondenza di ciascuna testata del ponte. Superato il fiume, l’acquedotto si insinua nella collina tufacea detta "di Prato", dove è localizzato un torrino molto particolare, che nella numerazione ufficiale corrisponde al torrino numero 11. Il condotto, in questo tratto, venne ampliato, per poter accogliere l’acqua di altre sorgenti. Durante l’esecuzione dei lavori, vennero rinvenuti resti dell’Antico acquedotto Giulio, che si scoprì avere una sezione inferiore poiché accoglieva una quantità inferiore di acqua. Il condotto prosegue verso Sant’Agata dei Goti attraverso il traforo del Monte Ciesco, superato il quale il condotto sbuca in un altro vallone. Qui venne realizzato un allaccio all’Acquedotto del Carmignano.


Ancora sotterraneo continuava il tragitto dell’acquedotto attraverso il monte Croce, e con molte difficoltà di cantiere, che Vanvitelli rende note all’interno delle lettere che scambia con il fratello: …con l’aiuto di Dio si è alla perfine forato il monte della Croce; il capo maestro è entrato per un verso ed è uscito per un altro; ora si travaglia alla terminazione dei muri dentro, in quel piccolo passaggio ridotto a soli 5 palmi… Io sono con le ossa rotte di stanchezza. (Strazzullo F., Jacobitti G., Le lettere di L. Vanvitelli, B. Palatina di Caserta, lettera 853, Caserta, 6 aprile 1761, 2012) Il Carolino prosegue per i territori di Sant’Agata dei Goti, passando per le “sassose balze” dei monti Castrone, dell’Acquavivola, della Sagrestia, della Cacosa, di Stella maggiore, di Fico Fano, di Traugnano, (montagne sempre appartenenti alla catena del Taburno). (Prof. Ing. Michele di Natale, , Dott. Ing. Angelo Fuschini, Studio di fattibilità per la realizzazione di un intervento di riqualificazione dell’Acq. Carolino, Relazione tecnico-descrittiva, p. 10). Dalle colline che si oltrepassano per percorrere oggi la strada che separa i comuni di pertinenza si scorgono i tor-

rini e si riesce a ricostruire ancora una volta il percorso sotterraneo dell’acquedotto, che non potrebbe essere intuito in altro modo. Lungo il Carolino: da Sant'Agata dei Goti al Monte Longano Oltrepassata Sant’Agata dei Goti, sempre in galleria, l’acquedotto Carolino attraversa percorsi prevalentemente interrati, tra vallate e modeste zone in cui furono necessari trafori, come del resto era già avvenuto nel primo tratto. Non molto distante dal confine dell’attuale territorio comunale di Sant’Agata dei Goti, nella Valle di Durazzano, l’acquedotto “emerge” nuovamente, con un ponte a 5 archi, lungo sessanta metri circa e con un’altezza di 19 metri dal letto del torrente Majorano, che attraversa la valle. Carissimo fratello, Non ho ricevuto vostra lettera nel corrente; vi scrivo oggi, perché domani vado a Durazzano per piantare il ponte; vi dormirò una notte, dovendosi anche incominciare la livellazione per il proseguimento dell’acquedotto dal Monte della Croce, ove si lavora. Fui al Ponte grande della Valle […]. (Strazzullo F., Jacobitti G., Le lettere di L. Vanvitelli, B. Palatina di Caserta, lettera 739, Caserta, 28 aprile 1760, 2012).

Il camminamento del ponte termina con il torrino numero 28, in corrispondenza del quale il condotto è già tornato interrato e prosegue in direzione di Valle di Maddaloni, dove si verifica l’episodio più eclatante di “emersione” del Carolino fuori terra, rappresentato dei celebri Ponti della Valle. Lungo il Carolino: da Monte Longano alla Reggia Il traforo del Monte Longano si rivelò ancor più difficoltoso di quello realizzato all’interno del monte Croce, data la cedevolezza del terreno in questione. Al termine dei lavori, il traforo contava una lunghezza di circa un chilometro e si apriva verso la strada del Longano, scandita dalla presenza dei torrini e terminante nei Ponti della Valle. I Ponti della Valle costituiscono la più esplicita traccia di “romanità” vanvitelliana: un ponte a tre ordini, che collega il Monte Longano al Monte Garzano, realizzato per evitare un lungo percorso sul fianco della montagna per una estensione di circa sette miglia, preferendovi una galleria che univa i due versanti. Anche il traforo del Monte Garzano fu piuttosto difficoltoso, tanto che alla riuscita dell’impresa, lo stesso Vanvitelli fu presente per attraversare il traforo che collegava i due lati opposti. Fu così grande la soddisfazione per l’impresa

portata a termine, che fu organizzata una maestosa cerimonia di inaugurazione che vide il Re e la Regina, accompagnati dall’architetto, percorrere tutto il tragitto della galleria che, nell’occasione, fu illuminata da più di settecento doppieri. Superato l’ostacolo del monte Garzano, il Carolino prosegue lungo le pendici della catena dei monti Tifatini che si affacciano sulla piana casertana, toccando i casali di Garzano, Tuoro, Santa Barbara, Casella, rifornendo, ancor oggi, fontane e vasche di raccolta. Il cammino prosegue in profondità per circa 6 chilometri, ma ben visibili si mostrano i torrini in particolare sul Casale di Mezzano, a mezza costa della montagna. L’ultimo visibile è quello posto in adiacenza al muro del parco, in una delle curve della panoramica che porta a Casertavecchia. L’arrivo delle acque del Fizzo alla Reggia era atteso con tanta impazienza da tutti coloro che ricevevano notizie in merito alla costruzione dell’acquedotto ma non avevano ancora avuto prova concreta del suo funzionamento. Vanvitelli progettò una vera e propria cerimonia di inaugurazione, alla presenza della corte e del popolo, che dalle colline intorno fu chiamato ad assistere all’arrivo dell’acqua nelle fontane del Parco. L’impresa riuscì nel 1762, dopo aver eseguito una serie di prove genera-


li, come lo stesso Luigi racconta in una lettera al fratello: […] Sono ritornato questa sera all’una e mezza di notte agl’Archi, ove è arrivata l’acqua, avendola fatta imboccare questa mattina dalle sorgenti; vi sono volute undici ore per arrivare, primacché avesse riempito il condotto. È giunta all’Ave Maria in punto, e la caduta che fa, quantunque io la faccia cadere in loco basso, che per altro saranno 50 palmi, non ostante fa tremare il suolo dalla percossa. Ò aspettato un poco, ma per vedere tutto il volume averei dovuto stare ancora un paio d’ore, ed aspetterò levarmi la curiosità domattina; quando è arrivata era di color inchiostro, stanteché lava 22 miglia d’acquedotto sporco di tutto. […] Dopo che averò veduto l’effetto della mia cascata d’acqua, subito mandarò a levare l’acqua dalle sorgenti, e si riponerà poi il Giovedì mattina, all’alba, acciò vi sia tempo che l’acqua scorra e si schiarisca per quando la vedrà il Re […]. (F. Strazzullo e G. Jacobitti, Le lettere di Luigi Vanvitelli della Biblioteca Palatina di Caserta, lettera 957, Caserta, 30 aprile 1762, 2012) Fino al resoconto effettivo della giornata, con l’entusiasmo di aver dato vita ad un’impresa grandiosa e, finalmente, riconosciuta come tale:

Carissimo fratello, Ieri finalmente fu il Re a vedere la mostra dell’acqua, la quale riuscì assai bene. Vi erano le guardie italiane e svizzere, con quelle del corpo a cavallo, che facevano complesso molto decoroso; v’intervenne moltissimo popolo dei paesi di contorno; questi non furono ammessi nel circondario, onde per vedere furono costretti ponersi nella pendice della collina vicina incontro la mostra, cosa che produsse alla vista questo popolo unito come stasse in un anfiteatro. Dopo partito il Re sopragiunse l’acqua, la quale regalò a tutti una buona bagnatura, e dopo mezzo quarto repliconne un’altra, la quale ogni goccia d’acqua conteneva un bicchiere, di modo che si ricorderanno tutti della giornata dell’acqua […]. (F. Strazzullo e G. Jacobitti, Le lettere di Luigi Vanvitelli della Biblioteca Palatina di Caserta, lettera 959, Caserta, 18 maggio 1762, 2012) Oltre la Reggia: i precedenti storici e la versatilità del sistema Uno tra i tanti motivi che sono stati spesso argomentati in opposizione alla realizzazione di quest’opera erano proprio le finalità: era davvero necessario investire delle risorse così consistenti per alimentare tutto sommato una residenza nobiliare e il suo Parco? Non era, in fondo, il primo esemplare di

Acquedotto a servizio di un Palazzo Reale. La storia immediatamente precedente a quella della realizzazione della Reggia di Caserta, e cioè corrispondente dell’operato dei Borbone nel Regno di Napoli, presenta un esempio ben conosciuto al quale vale la pena dedicare un piccolo spazio all’interno di questa trattazione, che occorrerà per fare poi delle considerazioni in merito all’innovatività dell’esperienza vanvitelliana. L’esempio più illustre, e indubbia fonte di ispirazione, è la Reggia di Versailles, con il rispettivo parco e acquedotto. Sebbene i numerosi punti di contatto tra le due opere, in merito alle difficoltà in fase di costruzione, alla ricerca delle sorgenti e agli ingenti costi di realizzazione, la novità fondamentale del Carolino rispetto a Versailles è che esso non fu pensato esclusivamente in funzione della Reggia, ma venne anche utilizzato per rifornire altri luoghi di interesse. Tra gli esempi più illustri, la Tenuta di Caccia di Carditello, il complesso delle Seterie di San Leucio, la Nuova Caserta. L’acqua, con una conduttura di ritorno si riversava in una grande cisterna posta sotto la cascata in coincidenza della fontana di Venere e Adone. Da qui partivano le tubazioni che rifornivano tutte le fontane e vasche del parco Reale. Senza dimenticare il già citato allaccio, sempre attraverso una condotta interrata, all’acquedotto del

Carmignano, con il Tronco di San Benedetto, assicurando un incremento idrico per Napoli, la capitale del Regno, e il complesso sistema di mulini e allacci utilizzati per supportare l'attività agricola e produttiva locale. L'acquedotto ha costituito, al di là del suo indubbio e dichiarato intento istituzionale e rappresentativo, un motivo di forte impulso per l'economia locale.

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Ponte Carlo III

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Descrizione dell'opera

Fig.10 – Camminamento di Ponte Carlo III, tratto Bucciano-Moiano (foto: Lab. GeCo,2019). Fig.11 – Ponte dell'Acquedotto Reale di Caserta sul fiume Faenza per la conduzione di alcune acque che sono in Airola, Luigi Vanvitelli, 1756, Reggia di Caserta, Soprintendenza per i B.A.A.A.S. [inv. 855].

pagine successive Fig.12 – Targa sul prospetto sud, Ponte Carlo III (foto: Lab. GeCo Unifi, 2019). Fig.13 – Ponte Carlo III, vista da drone (foto: Lab. GeCo Unifi, 2019).

Siamo finalmente giunti a occuparci della trattazione di quello che è stato il “tema scatenante” di questa tesi, ciò che ha dato spunto per avviare un processo di ricerca e indagine su tutto il sistema. Il primo dei ponti del Carolino, l’unico che Carlo è riuscito ad ammirare ancora da sovrano del Regno di Napoli e del Regno di Sicilia, prima del trasferimento in Spagna: Ponte Carlo III. Situato al confine tra tre comuni della provincia di Benevento, Moiano, Bucciano e Airola, Ponte Carlo III venne realizzato per poter superare un ostacolo che l’acquedotto incontrava durante il suo percorso. Si tratta del torrente Faenza, oggi Isclero, che attraversa per circa 30 km le province di Benevento e Avellino. Vanvitelli realizzò un ponte di 4 arcate (a dispetto delle 5 previste dal progetto originale), corredato su entrambi i fronti da una targa celebrativa rivolta al regnante Carlo di Borbone e a sua moglie Maria Amalia di Sassonia. Nel territorio di Airola a piedi del Taburno, da me già descritto, in un luogo nomato Fizzo vedesi la scaturigine delle acque, che vanno alla Regia di Caserta, e là comincia il famoso acquidotto, il quale dopo breve tratto ingrossato dalla copiosa fontana del Duca, e d'altre sorgive, arriva al fiume Faenza, o Isclero, ch' è l'origine di un altro acquidotto costrutto da Cesare

Carmignano per comodo della città di Napoli. In tal congiunzione, dove dicesi Tre-ponti, o Tuori, in distanza di mezzo miglio d'Airola, è innalzato un bel ponte, per far passare l'acqua di Caserta sopra quella di Carmignano, e sopra l'arco maggiore di esso, in memoria del Re Carlo Borbone, e della Regina Amalia, che qui vennero ad osservare la costruzione dell'acquidotto, sta scritto: "CAROLVS ET AMALIA VTR-SIC-ET-HIER-RAD.MDCCLIII” (Bartolini D., Viaggio Da Napoli Alle Forche Caudine Ed a Benevento E Di Ritorno a Caserta, Ed a Monte-Casino, p. 55) Il ponte presenta, già solo volgendo uno sguardo alla planimetria, una forte caratterizzazione formale: una doppia curvatura permette prima di superare il fiume e poi di insinuarsi entro la collina tufacea per costeggiarla proseguire il suo cammino. L’opera ha una lunghezza fuori terra di circa 130 m, ed una altezza massima di quasi 7 metri. La struttura portante è realizzata in tufo giallo locale, estratto sicuramente nelle immediate vicinanze, mentre i conci perimetrali sommitali, le targhe, alcuni elementi del cordolo e il selciato del camminamento sono realizzati in

pietra calcarea anch’essa locale, caratterizzata da una colorazione più chiara, quasi bianca. L’immagine sottostante mostra l’unica rappresentazione esistente dell’opera, appartenente alla “Dichiarazione dei disegni del Real Palazzo di Caserta alle Sacre Maestà”, Stamperia Reale, Napoli, 1756. L’incisione mostra una discrepanza notevole tra quelle che erano probabilmente le intenzioni iniziali del progetto e la sua effettiva realizzazione. A colpo d’occhio emergono delle differenze fondamentali. • Innanzitutto, la presenza di una arcata in più (5 nel disegno piuttosto che 4 nella realtà); • La conformazione differente dei contrafforti e dei rostri basamentali; • La mancanza di un livello orizzontale, quello corrispondente al camminamento superiore, come se il condotto mancasse della volta e fosse semplicemente a sezione rettangolare; • La mancanza di alcuni elementi frutto degli interventi che sono stati fatti nel corso del tempo sul ponte (esempio: il muretto in muratura sul camminamento). Al di là di queste differenze formali, un elemento del quale Vanvitelli aveva già allora colto l’importanza, nonché l’imprescindibilità, era il paesaggio. La vegetazione, le colline intorno, l’elemento dell’acqua in movimento, le sponde

e gli agglomerati edilizi sono elementi che, sebbene non fedelissimi allo stato reale delle cose, lo riprendono con forza, quasi a sottolineare quanto fosse impossibile pensare ad un’opera del genere andando a scinderla dal suo intorno, quasi come se essa andasse a perdere valore e significato sottratta dal suo contesto. Caratteristiche geometrico-costruttive Volendo analizzare Ponte Carlo III da un punto di vista più scientifico, è opportuno cercare di scomporlo nei suoi elementi costitutivi, che permettono di farne una lettura “tematica”, mirata a comprendere da un lato il funzionamento di ogni singola parte e dall’altro il ruolo di ogni componente nell’insieme. Dal punto di vista geometrico, il ponte può essere così scomposto: Verticalmente: • 4 arcate a tutto sesto intervallate da contrafforti; • 2 “spalle” di raccordo alla terraferma, che si insinuano gradualmente nel terreno, assecondandone la pendenza naturale; • il fiume scorre in corrispondenza della seconda arcata da sinistra del Prospetto Sud. Orizzontalmente: • primo livello: volte di scarico al terreno;


• secondo livello: livello che ospita propriamente il condotto, delimitato esternamente da due filari di cornici in pietra calcarea ben riconoscibili seppur fortemente degradati; • terzo livello: rinfianco della volta di copertura del condotto e camminamento superiore, chiusura sommitale del sistema. Oltre a questa suddivisione “grossolana” del ponte in fasce orizzontali e verticali, distinte principalmente in relazione alla geometria e alla funzione, è opportuno procedere ad una ulterio-

re classificazione, che tiene conto delle relazioni che l’opera instaura con la tipologia costruttiva, ossia con esempi simili di ponti in muratura realizzati contemporaneamente o precedentemente al Ponte Carlo III. In questo caso, seguendo anche la logica costruttiva del sistema, è possibile individuare: • Fondazioni dirette: strutture di fondazione che poggiano direttamente sullo strato resistente sottostante. In questo caso, in maniera del tutto ipotetica, si potrebbe pensare alla

roccia tufacea o altro, sulla quale sarebbero stati impostati questi basamenti in muratura tufacea; • Rostri o cappucci: strutture piramidali in muratura tufacea, la loro conformazione geometrica servirebbe a ridurre il rischio di esondazione in caso di piena, grazie alla loro capacità di far infrangere le acque, riducendone la potenza e l’impeto; • Muri d’ala: muri di contenimento delle sponde del fiume, realizzati in ciascun lato del fiume stesso; • Spalla: muro di altezza decrescente

dal fiume verso l’esterno. Asseconda l’andamento del terreno, permettendo gradualmente al condotto di fuoriuscire e di rinterrarsi; • Archivolti: cornici esterne di delimitazione perimetrale dell’arcata delle volte, per ciascuna arcata, su ogni lato del ponte; • Muri di testa: porzione visibile dello spessore murario, realizzato con conci di pietra tufacea più o meno sagomata, che contengono in riempimento interno; • Riempimento: stratificazione in-


terna della muratura a sacco, nel nostro caso ipotizzata di spessore consistente. Prevalentemente costituita da malta, ciottoli e calce, assolve correttamente alle funzioni strutturali soltanto se combinata correttamente ai muri di testa. Differentemente, i 3 strati rischiano di comportarsi in maniera separata, compromettendo la stabilità dell’intero sistema; • Contrafforti: elementi con sviluppo in direzione verticale, addossati al piano principale della muratu-

ra di testa. Se fossero realizzati con una ammorsatura considerevole (spessore del tufo in direzione trasversale consistente) assolverebbero all’importante funzione di controventamento del condotto che, altrimenti, sarebbe un cunicolo stretto e lungo privo di ammorsatura tra le due pareti parallele. Se quest’ammorsatura non esiste, i contrafforti hanno una funzione meramente decorativa; • Cornici: elementi decorativi con sviluppo prevalentemente linea-

te, suddivisi in tre fasce (di chiave, intermedia, di coronamento). Permettono di individuare dall’esterno la posizione del condotto. • Camminamento: tipico selciato di ascendenza romana, realizzato con ciottoli irregolari in pietra calcarea disposti radialmente e intervallati da filari con elementi di dimensioni maggiori e disposti in maniera più regolare. Delimitato perimetralmente dagli elementi della cornice di coronamento. • Condotto: cunicolo con pareti in tufo

e copertura voltata, disposto in corrispondenza del secondo medio del ponte. Passeremo in rassegna in seguito le caratteristiche dimensionali e generali del condotto, che meritano una trattazione più specifica.

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La campagna di rilievo e l'elaborazione dei dati

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Rilievo: agosto 2019

Fig.14 – Dall'alto: baseline a 4 bracci per inquadramento topografico; target orizzontali rilevati con GPS; punti di presa delle scansioni laser (dati mappa: Google Earth Satellite 3D Model - Image Landsat/CopernicusData SIO, NOAA, U.S. Navy, NGA, GEBCO).

Ciò che stupisce molto del Ponte Carlo III è la totale assenza di una documentazione storica che permetta di ricostruirne le condizioni iniziali, le intenzioni di progetto rispetto all’effettiva realizzazione, le variazioni subite nel tempo rispetto allo stato originario. Non esser riusciti nell’impresa di reperire un rilievo, un disegno, uno schizzo di progetto negli Archivi Storici d’interesse (Caserta, Napoli, Benevento, Madrid) e nelle Soprintendenze, ha fatto avanzare numerose ipotesi circa il perché dell’assenza di questo tipo di documentazione. • Ipotesi 1: difficoltà di collocazione esatta, legata al particolare contesto territoriale, che è stato oggetto di numerose trasformazioni anche dal punto di vista amministrativo, causando la perdita di molto materiale documentario; • Ipotesi 2: trasferimento della documentazione riguardante il Carolino a Madrid, a causa dello spostamento del sovrano, con conseguente perdita della documentazione; • Ipotesi 3: perdita della documentazione in occasione dell’incendio della sezione Sette-Ottocentesca dell’Archivio Storico di Napoli, ad opera dei tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale. A prescindere da quelle che possono essere state le cause dello smarri-

mento dei disegni originali di progetto, ammesso che ce ne siano mai stati effettivamente, sembra ormai doveroso porre rimedio a questa inaccettabile lacuna documentaria e grafica relativa ad un progetto che, per quanto sconosciuto ai più, abbiamo dimostrato esser degno di essere preservato quantomeno nella memoria e negli archivi, oltre a necessitare di un intervento concreto e tempestivo. Per questo motivo, Ponte Carlo III è stato oggetto di una intensa campagna di rilievo nel periodo 26-29 Agosto 2019, che si procede ora a descrivere nel dettaglio, così da poter conservare memoria di tutte le operazioni effettuate ed essere in grado di ricostruirne le dinamiche anche a distanza di decenni. L’assenza di manutenzione, dovuta anche alla particolare collocazione del ponte all’interno del territorio urbano, ha comportato nei suoi due secoli e mezzo di storia il verificarsi di vari episodi di causa antropica e non solo che lo hanno condotto attualmente ad uno stato di grande precarietà rispetto alle sue condizioni iniziali. Per citarne alcuni, il prelievo di conci tufacei e calcarei, i tentativi di approvvigionamento idrico non autorizzato con inserimento di tubazioni cementizie e metalliche all’altezza del condotto, la comparsa di una folta vegetazione a ridosso del ponte

e anche al suo interno (edera, alberi di fico), che comporta evidenti fenomeni di lesione e fratturazione piuttosto preoccupanti. Considerando il “sistema cartesiano” avente come “asse Y” il fiume Isclero (orientato N-S) e come “asse x” il ponte (orientato E-O), il territorio può considerarsi ripartito in 4 quadranti: • I quadranti NO-SO sono costituiti da terreni incolti, prossimi a Via Tuoro; • i quadranti NE-SE sono, invece, coltivati; • i quadranti S, visto il tipo di coltivazione o non coltivazione, permettono una visione piuttosto completa dei prospetti del ponte, fatta eccezione per l’arcata centrale, spesso nascosta a causa della vegetazione che cresce lungo le sponde del fiume; • i quadranti rivolti verso Nord, invece, data la tipologia di vegetazione e coltivazione (piante di tabacco) e la presenza di alberi in loro prossimità e sulle sponde del fiume, non sono visibili. Inoltre, l’esposizione sfavorevole determina la presenza di un ambiente umido che favorisce la crescita di piante infestanti come l’edera senza che questa possa essere essiccata come avviene per i fronti esposti a Sud, dove la vegetazione infestante compromette l’opera sia dal punto di vista della sua

visibilità, sia dal punto di vista strutturale e conservativo. Sopralluoghi e progettazione del rilievo Un sopralluogo preliminare svolto agli inizi del mese di luglio 2019 ha evidenziato uno stato di notevole criticità nella situazione esistente: la vegetazione, particolarmente folta considerato il periodo dell’anno, occultava quasi completamente l’opera, rendendo impossibili le operazioni di rilievo. Attraverso il coinvolgimento delle associazioni locali e di gruppi di volontari si è proceduto, in una serie di giornate di lavoro nei mesi di luglio ed agosto, alla rimozione della vegetazione nei terreni immediatamente prossimi allo stesso e ad uno sfoltimento della stessa sul camminamento e sui prospetti, attraverso interventi superficiali atti a salvaguardare l’integrità del manufatto. La campagna di rilievo è stata effettuata dal 26 al 28 agosto 2019, per un totale di quasi 3 giornate di lavoro svolto dalle ore 9:00 alle ore 19:00 i primi due giorni e dalle ore 9:00 alle ore 13:30 l’ultimo giorno. Secondo il principio del “rilievo integrato”, le informazioni metriche sono state acquisite utilizzando in modo coordinato più tecniche di misura. Le strumentazioni di rilievo utiliz35 zate sono state le seguenti:


• STAZIONE TOTALE, per il rilievo topografico. La stazione totale è uno strumento in grado di misurare angoli orizzontali, angoli verticali, distanze oblique. Viene posizionata in un punto (definito stazione) e il topografo misura le posizioni di altri punti collimandoli con il cannocchiale (guardando dentro il cannocchiale dello strumento si inquadra il punto da battere e si registra la misura). La misura può essere effettuata con o senza un prisma riflettente, che riflette il raggio laser del distanziometro integrato permettendo di effettuare misure più accurate e a distanza maggiore. • GPS Il GPS (Global Positioning System) è uno strumento piuttosto noto non solo tra gli addetti ai lavori. Nel caso del rilievo topografico, è più corretto parlare di GNSS: questo sistema consente di conoscere la posizione spaziale di punti terrestri, navali o aerei, grazie a costellazioni di satelliti artificiali in orbita attorno alla Terra. • LASER SCANNER Strumenti come il Laser Scanner o LIDAR (Laser Imaging Detection and Ranging) sono utili per misurare la posizione di un punto calcolando il tempo che passa tra l’emissione di un raggio laser e la ricezione da parte del sensore del segnale riflesso dall’oggetto. Il funzionamento del laser scanner

prevede la rotazione dello strumento sul suo asse verticale e su quello orizzontale, riuscendo ad emettere (e leggere) un enorme numero di punti (centinaia di migliaia) al secondo. Il risultato della misurazione è una nuvola di punti, rappresentazione digitale tridimensionale dell’oggetto. • FOTOCAMERA E DRONE CON CAMERA INTEGRATA Per prese fotogrammetriche, utilizzate per elaborare una nuvola di punti. In occasione della giornata di arrivo, il 26 agosto 2019, sono state fatte le prime valutazioni, in funzione degli obiettivi del lavoro, sulle tecniche di rilievo più idonee, sulla risoluzione da adottare, sulle criticità presenti. Tra gli aspetti relativi il manufatto riportiamo di seguito i più importanti ai fini delle scelte operative fatte: • Dimensioni e geometria del ponte: • sviluppo prevalentemente monodirezionale dello stesso (circa 150m di lunghezza rispetto al 4 metri di larghezza del camminamento); • altezza rilevante del ponte in corrispondenza dell’attraversamento del fiume (quasi 7 metri) con conseguente difficoltà di copertura dell’oggetto in termini di prese fotogrammetriche; • altezza rilevante del ponte con conseguente difficoltà nell’apposizione dei target, considerata anche la criticità del camminamento, man-

cante in alcuni tratti dei conci tufacei perimetrali. Caratteristiche del sito • Presenza di terreni cedevoli con conseguente difficoltà nell’apposizione di target terrestri e punti di stazione per il rilievo topografico; • Presenza di terreni coltivati con rischio di rimozione da parte di terzi dei vertici di stazione fissati; • Presenza di vegetazione che ha reso difficoltosa l’esecuzione delle prese da terra per la fotogrammetria terrestre; • Presenza di alberi di altezza notevole (circa 20m), con conseguente innalzamento del punto di presa delle foto aeree e impossibilità di eseguire voli di presa programmati. Le prese sono state effettuate manualmente dall’operatore; • Presenza del corso d’acqua in corrispondenza della seconda arcata da Ovest, con conseguente impossibilità di esecuzione di una scansione frontale dell’arcata stessa e di foto per la fotogrammetria aerea con asse focale perfettamente perpendicolare. Condizioni di illuminazione Le operazioni sono state effettuate nell’arco di una giornata prevalentemente soleggiata ma a tratti nuvolosa: le condizioni di illuminazione sono

state piuttosto variabili e ciò ha comportato la realizzazione di prese fotografiche con diverse caratteristiche di illuminazione ed esposizione. Il lavoro di post-produzione, a tal proposito, è stato fondamentale per bilanciare correttamente tutte le immagini così da ottenere un risultato soddisfacente. L’esposizione del sito, infine, è tale da comportare una costante differenza tra il fronte Sud, esposto in tutte le ore della giornata, e il fronte Nord, perennemente in penombra con prese fotografiche controluce. Per il rilievo complessivo del ponte è stata utilizzata la scansione laser, unitamente alla fotogrammetria terrestre e aerea, utilizzate per descrivere accuratamente le superfici delle murature sia dal punto di vista materico che cromatico. Acquisizioni Tra il 26 e il 28 agosto sono state effettuate le seguenti operazioni: • materializzazione e misurazione della rete, posizionamento e misurazione dei 12 target • acquisizione delle coordinate GPS dei target a terra • esecuzione delle 47 scansioni da terra • esecuzione delle prese fotogrammetriche sempre da terra • esecuzione delle prese fotogrammetriche aeree


La rete L'inquadramento topografico è stato realizzato con stazione totale. I vertici della rete sono stati posizionati conformemente alla ripartizione spaziale dell’oggetto, e cioè come segue: • 2 vertici (100-200) sul camminamento del ponte, uno per ciascuna sponda del fiume Isclero; • 4 vertici (300-400-500-600) a terra, in corrispondenza dei 4 quadranti in cui il fiume e il ponte suddividono il territorio. Le misurazioni tra i vertici di stazione sono state ripetute più volte in modalità coniugata per ognuna delle direzioni misurate, a eccezione della direzione 200->500, assicurando la ridondanza delle osservazioni. Acquisizioni laser scanner Per le acquisizioni laser scanner è stato impiegato uno scanner a differenza di fase con fotocamera integrata che acquisisce panorami sferici HDR consentendo di ottenere non solo le coordinate X,Y,Z di ogni punto, ma anche i valori RGB corrispondenti a ciascuno di essi. Sono state effettuate 47 scansioni a 360 gradi, con una risoluzione di 6 mm a 10 m. • 10 sul camminamento del ponte; • 2 nell’imbotte delle arcate laterali; • 14 nei terreni a Sud; • 20 nei terreni a Nord;

• 1 a colori sulla sponda Ovest del fiume nei terreni a Nord. Acquisizione delle coordinate GPS dei target a terra La mattina del 27 agosto, avendo a disposizione un ricevitore GPS (per cui si ringrazia Leica Geosystems), è stato possibile georeferenziare il rilievo in corso misurando le stazioni della rete topografica e i target disposti a terra come punti di controllo per il volo fotogrammetrico da drone. In sintesi, lo strumento è costituito da un’antenna che misura longitudine, latitudine e altitudine dei punti in cui staziona rispetto al sistema di coordinate geografiche basate sull’ellissoide di riferimento WGS84. Acquisizioni fotogrammetriche terrestri Le prese fotografiche, data la collocazione del ponte, sono state fatte con le seguenti caratteristiche:

• distanza di presa di circa 1.5-3 m. • sensibilità di 400 ISO; • focale costante, pari a f/8; • tempo di presa variabile determinato in Modalità a Priorità di diaframma;

• massima qualità e formato RAW per la post-produzione. Mediamente il GSD ottenuto risulta non superiore a 2mm. La distanza tra i punti di presa è stata determinata in modo da avere sempre una sovrappo-

sizione non inferiore all’80% tra fotogrammi adiacenti. Per ciascun prospetto del ponte sono state effettuate prese nadirali (ortogonali alle pareti) e prese orientate a 45° sia verso destra che verso sinistra. Le prese oblique convergenti permettono di individuare più accuratamente i punti oggetto e inoltre consentono di ottenere i dati anche di spigoli, elementi estroflessi e zone invisibili nella direzione ortogonale. Le prese sono state effettuate con una camera Nikon D700 con un sensore di 24x36 mm ed una risoluzione 4256x2832 pixel, un obiettivo Nikkor 50 1.4 G con lunghezza focale nominale di 50 mm. Sono state realizzate 1820 prese complessive. Acquisizioni fotogrammetriche aeree Il piano di volo è stato progettato in modo da scattare le foto automaticamente ogni 5 secondi. Con la camera montata sul drone e alla quota di volo impostata, sono state effettuate 84 foto con una Ground Sample distance (GSD) nominale di 9 mm. È stato effettuato un volo di prova la mattina di lunedì 26 agosto e i voli effettivi nel pomeriggio e nei 2 giorni successivi. Data la caratterizzazione del sito, che presenta alberi di altezza piuttosto rilevante, è stato effettuato un volo programmato per realizzare le foto ambientali, ad un’altezza di circa 30 metri da terra (10 metri al di sopra dell’albero prossimo al lato Nord del fiu-

me, alto circa 20 metri). Di seguito sono elencati i parametri del volo effettuato: • Altezza di volo: 30 m • Volo a quota costante ed altezza variabile; • 84 foto/5 min; • Ground resolution: 9 mm; • Raggio di virata: circa 2m; • Velocità di volo: da 1,5 a 2 m/s. Prese effettuate: • direzione nadirale (90° rispetto al camminamento del ponte). • Totale prese: 236. Per ottenere delle immagini ad una migliore risoluzione è stato necessario ridurre la distanza di presa. Data la presenza di ostacoli, è stato ritenuto opportuno effettuare delle prese manuali, con le seguenti caratteristiche: • Distanza di presa dal camminamento: circa 1,5 m; • Direzione nadirale per il camminamento; • Direzione di 45°/-45° per inquadrare i conci e la sommità dei prospetti, così da ottenere una sovrapposizione con le riprese fotografiche terrestri; • Distanza tra prese successive: circa 1,5 m; • Totale degli scatti effettuati: 2520. Nonostante la variabilità delle condizioni di illuminazione, la qualità complessiva dei risultati, nonostante ciò, è risultata piuttosto soddisfacente.

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Fig.15 – Elaborati ottenuti. Dall'alto: arcata maggiore sul fiume Isclero, prospetto sud, ortofoto; targa celebrativa, prospetto sud, ortofoto.

La rete In primo luogo sono stati elaborati i dati ottenuti dalle letture topografiche della stazione totale. Le osservazioni ridondanti hanno consentito, inoltre, la valutazione degli errori e la stima delle accuratezze. Come accennato, il rilievo è georiferito nel sistema cartografico, ma per semplificare le elaborazioni successive è stato utilizzato un sistema di riferimento locale con origine traslata in prossimità del ponte. Fissata la rete topografica fondamentale (vertici 100, 200, 300, 400, 500, 600), sono stati individuati anche i target orizzontali a partire dalle coordinate rilevate in situ, in maniera da ritrovarne la posizione all’interno del sistema di riferimento locale. Elaborazione delle point clouds La prima operazione effettuata è stata l’individuazione dei target orizzontali in ciascuna scansione. Una volta ultimata questa operazione, sono state allineate le coppie di scansioni, scegliendo 3 coppie di punti naturali omologhi per ciascuna coppia di scansioni. Ogni scansione inizialmente ha un proprio sistema di riferimento posizionato nel centro strumentale. Per collocarle nel sistema di riferimento topografico, è stata eseguita una roto-traslazione effettuata individuando come punti omologhi il centro dei

targets e punti naturali rilevati in più scansioni. Il modello finale ottenuto è stato orientato rispetto ai vertici della rete topografica, elaborata nei giorni precedenti. Dopo aver eliminato gli errori grossolani e sistematici effettuati nelle prime fasi di elaborazione dati, la rete topografica è stata riferita alle coordinate GPS dei target orizzontali per la georeferenziazione, ottenendo i nuovi valori delle coordinate cartografiche dei target rilevati. L’allineamento delle scansioni ha presentato qualche problema sia per la natura dell’oggetto, con una dimensione notevolmente prevalente rispetto alle altre, sia per la presenza di un elemento instabile, come la grande quantità di vegetazione, nelle scansioni. Nonostante queste difficoltà, l’errore complessivo dei dati acquisiti è stato inferiore a 1 cm. A questo punto è stata effettuata la suddivisione del modello in layer corrispondenti a ciascuna. Elaborazione fotogrammetriche Le immagini realizzate durante la campagna, date le differenti condizioni di illuminazione, sono state bilanciate dal punto di vista radiometrico, così da ottenere una mappatura del sito con cromie omogenee e coerenti. Le prese fotogrammetriche aggiungono all’informazione dimensionale e

morfologica riguardante l’oggetto di rilievo le caratterizzazioni cromatiche e materiche. Per ottenere modelli digitali tridimensionali a partire dalle immagini fotografiche è stato utilizzato il software Agisoft Metashape. La procedura, dall’acquisizione del materiale fotografico alla generazione del modello 3D, si articola in quattro fasi principali. La prima fase (detta Structure from Motion), ha l’obiettivo di individuare l’orientamento esterno e interno delle prese fotogrammetriche. In questa fase, a partire dall’individuazione di punti corrispondenti sulle fotografie, viene individuata la posizione della camera al momento di ogni presa, determinando anche i parametri di calibrazione della fotocamera. Il risultato è costituito dall’insieme delle coordinate 3D dei punti omologhi individuati, denominato “nuvola sparsa”. E’ possibile filtrare i punti ottenuti secondo vari criteri, in modo da scartare quelli di minore qualità metrica. Le immagini realizzate durante la campagna di rilievo sono state caricate nel software e sottoposte alla prima elaborazione. In questa fase iniziale, dopo aver eliminato il dato GPS dalle immagini aeree, si è deciso di elaborare due modelli differenti: • un modello più generale, comprendente le foto ambientali scattate dal drone;

• un modello ad una maggiore risoluzione, ottenuto a partire dalle prese fotogrammetriche terrestri e dalle prese aeree più ravvicinate. Una volta conclusa questa operazione, è stato effettuato l’inserimento di punti di controllo, fondamentale per orientare e scalare il modello. Come punti di controllo sono stati utilizzati i target con le coordinate misurate nel rilievo topografico. Il rilievo fotogrammetrico quindi è riferito allo stesso sistema di riferimento utilizzato anche per il rilievo laser scanner. I punti di controllo sono stati individuati su ciascuna delle immagini, così da ridurre quanto più possibile gli errori di collimazione accidentali. La nuvola di punti ottenuta si presenta generalmente accettabile, fatta eccezione per gli scatti del quadrante 600, prossimi all’estremità della parte visibile del condotto. In questo caso è stato necessario ripetere l’allineamento per ottenere un risultato in linea con quello delle altre parti. A questo punto, per verificare i risultati ottenuti, si è deciso di operare un confronto con la nuvola di punti ottenuta dalle scansioni. È stata esportata la nuvola di punti fotogrammetrica in un formato compatibile (ASPR Las) con Cyclone e importata in Cyclone. Dopodiché è stata fatta una Quick slice orizzontale dalla quale è emer39 so quanto segue:


• Allineamento buono nella parte dì centrale del ponte; • Buona densità della nuvola in corrispondenza dei prospetti, scarsa densità nei punti di raccordo con il camminamento; • Restringimento della nuvola di punti fotogrammetrica rispetto a quella di Cyclone in corrispondenza dell’estremità 600-400 (lato tabacco); • Rotazione oraria della stessa in corrispondenza dell’estremità 300-500 (lato fontanella). Lo slittamento delle due nuvole in corrispondenza degli estremi è rilevante, si aggira intorno ai 5 cm, ma è comprensibile data l’assenza di target in quelle zone e data la complessità nell’esecuzione rigorosa di scansioni e prese fotografiche. Prima di passare all’elaborazione della nuvola densa è

necessario ricontrollare tutte le immagini per inserire manualmente i markers che il software non ha riconosciuto automaticamente. La fase successiva di elaborazione delle immagini (detta Multi-View Stereo) porta alla costruzione della nuvola densa di punti. Questa può essere ulteriormente elaborata prima della generazione del modello 3D, eventualmente suddividendo i punti in base alla classe di appartenenza (terreno, costruzioni, vegetazione ecc). Le prese eseguite a distanza maggiore (prese ambientali) e quelle a distanza ravvicinata sono state elaborate separatamente, ottenendo due nuvole dense che poi sono state fuse insieme. Dalla nuvola di punti ottenuta dalle scansioni è stata ottenuta una Slice orizzontale. Essa è stata importata in

Autocad per tracciare i sistemi di riferimento necessari per produrre gli elaborati necessari alla descrizione dell’oggetto e all’elaborazione del progetto di restauro. La definizione di sistemi di riferimento locali ha consentito, inoltre, la realizzazione di ortoimmagini, ovvero immagini della nuvola di punti in proiezioni ortogonali corrette dal punto di vista metrico e misurabili. La terza fase consiste nella creazione della mesh. Visto che era già disponibile un modello mesh ad alta definizione dalla nuvola di punti ricavata dalle scansioni è stato importato questo in Metashape come modello per realizzare ortofoto con un elevato livello di dettaglio. Nel caso invece del set di immagini fatte da drone, considerata la mole nettamente inferiore di dati da elaborare, la

mesh è stata prodotta direttamente con il software Metashape. Una volta aver ottenuto la ricostruzione della geometria (cioè la mesh), essa può essere strutturata e/o utilizzata per la generazione di ortofoto, ovvero immagini prive di distorsioni prospettiche e quindi utilizzabili per ottenere rappresentazioni in proiezioni ortogonali. Nel caso del Ponte, sono state ottenute tante ortofoto quanti erano i piani di lavoro precedentemente definiti. Per una resa ottimale, ciascuna ortofoto è stata realizzata selezionando le immagini prive di elementi estranei, soprattutto per quanto riguarda il camminamento. La risoluzione ottenuta è stata molto soddisfacente e permette di trattare l’oggetto con un livello di dettaglio notevole.


Fig.16 – Scansione N° 40 da laser scanner a colori. Fig.17 – Orientamento delle riprese fotografiche nell'elaborazione della fotogrammetria aerea.

Perché un rilievo digitale? L’esecuzione di un rilievo digitale di Ponte Carlo III ha condotto, dal non avere alcun tipo di documentazione relativa allo stesso, a disporre di un modello tridimensionale metricamente attendibile frutto di una lunga e complessa elaborazione, atto a poter ricavare qualsiasi tipo di elaborato bi-dimensionale di cui si possa aver bisogno. Il passaggio dal rilievo tradizionale alle moderne tecniche di rilievo, dalla bidimensionalità alla terza dimensione, ha sancito proprio questa svolta: disporre di un oggetto che, per quanto ancora di difficile gestione, consente di ottenere un grandissimo quantitativo di informazioni sul manufatto, che possono anche essere implementate negli anni qualora lo si ritenga necessario. Nel settore dei Beni Culturali

questo tipo di approccio sta prendendo sempre maggiormente piede, al punto tale da sostituirsi quasi completamente a quello tradizionale. L’uso sempre più intensivo dei metodi di visualizzazione digitale per assistere la ricerca, la comunicazione e la preservazione dei beni culturali in una vasta gamma di contesti, ha fatto sorgere l’esigenza di fissare una serie di principi che assicurino che la visualizzazione digitale del patrimonio culturale sia intellettualmente e tecnicamente rigorosa, al pari dei metodi di ricerca sui beni culturali e di comunicazione dei risultati di tali ricerche. E’ stata quindi redatta la “London Charter”, che [...] non cerca di prescrivere specifici scopi o metodi, ma piuttosto di stabilire, nella ricerca e nella comunicazio-

ne relative ai beni culturali, alcuni larghi principi per l’uso della visualizzazione digitale, dai quali dipende l’integrità intellettuale degli stessi metodi e risultati. La Carta riguarda i campi della la ricerca e la divulgazione relativa ai beni culturali tra contesti accademici, educativi, culturali e commerciali. Ha quindi rilevanza anche per quegli aspetti dell’industria dell’intrattenimento che coinvolgono la ricostruzione o l’evocazione del patrimonio culturale [...] (La Carta di Londra per la visualizzazione digitale dei Beni Culturali", 2008, pp. 2-3). Il principio 3, ad esempio, riguarda le fonti della ricerca, informazioni, digitali e non digitali, prese in considerazione durante la creazione dei risultati della

visualizzazione digitale o che vi influiscono direttamente. Affinché il risultato della visualizzazione digitale sia attendibile, esse devono essere identificate e valutate in maniera documentata e strutturata, prestando attenzione alle influenze di fattori ideologici, storici, religiosi, estetici o altri ancora che possono aver subito. Secondo il principio 4, la documentazione può contribuire alla gestione dei diritti di proprietà intellettuale e delle informazioni riservate oltre a chiarire esattamente cosa viene rappresentato all’interno di una visualizzazione digitale, per esempio lo stato attuale di un sito o di un oggetto appartenente al campo dei beni culturali, la sua ricostruzione basata sulle evidenze o invece sulle ipotesi, oltre che 41 la portata e la natura di ogni in-



Fig.18 – Elaborato ottenuto: modello mesh da fotogrammetria e da scansioni. Fig.19 – Elaborato ottenuto: porzione di ortofoto del camminamento.

formazione incerta, ogni decisione valutativa, deduttiva, interpretativa o creativa fatta nel corso del procedimento di visualizzazione digitale. La documentazione dovrebbe essere divulgata usando i media più efficaci e disponibili, inclusi la grafica, il testo, il video, l’audio, il linguaggio matematico o una combinazione di questi. Il principio 5, relativo alla sostenibilità a lungo termine della documentazione e dei risultati di visualizzazione digitale riguardante i beni culturali, sottolinea l’importanza di prevenire perdite di questa parte crescente del patrimonio culturale, economico, sociale, intellettuale dell’umanità, individuando nuove forma di archiviazione dei risultati di visualizzazione digitale, sia questa analogica o digitale, tale da permettere il loro uso in futuro, attraver-

so la migrazione in differenti formati o il loro utilizzo con diversi software di emulazione. Il principio 6, dell’accessibilità, afferma: […] Gli scopi, i metodi e i piani di divulgazione della visualizzazione digitale dei beni culturali dovrebbero considerare con attenzione quanto può migliorare l’accesso ai beni stessi, che risultano altrimenti inaccessibili a chi ha problemi di salute o è disabile, o a chi ha impedimenti di carattere economico, politico o ambientale. Tali beni possono inoltre risultare inaccessibili anche perché l’oggetto della visualizzazione è andato perduto, si è danneggiato o è stato disperso, distrutto, restaurato o ricostruito […]. (La Carta di Londra per la visualizzazione digitale dei Beni Culturali, 7 febbraio 2008, p. 12)

Da questi brevi passaggi è chiaro come da un decennio a questa parte qualcosa si stia decisamente sollevando. Resta da capire come tradurre tutto questo in una opportunità concreta per il Patrimonio, senza correre il rischio di trovarsi a produrre grandi moli di dati elaborati che però restino sepolte negli Archivi al pari delle vecchie tavole cartacee che venivano prodotte prima dell’era 3D. La sfida che ci si è posti all’inizio di questo progetto è stata proprio quella di rispondere a due esigenze fondamentali che il Ponte Carlo III, ma in realtà l’intero Acquedotto, manifestano nel profondo: • La prima, quella di essere documentati accuratamente in ogni loro parte, attraverso rilievi, attraversamenti, percorsi, campagne, esplorazioni

dirette che ne riportino alla luce ogni angolo, come lo stesso Vanvitelli aveva fatto al momento della sua costruzione; • La seconda, quella di realizzare degli elaborati dinamici, versatili, interoperabili. Concentrare l’attenzione per il momento sul ponte, avviando un discorso iterabile a tutto il condotto, per dimostrare come attraverso le moderne tecniche di rilievo si possa giungere a produrre, oltre ai classici elaborati bidimensionali, degli elaborati innovativi, da utilizzare sia nel campo della gestione, conservazione e del restauro, sia nel campo della valorizzazione del bene.

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Modellazione HBIM

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Il modello BIM

Fig.20 – Vista del modello HBIM di Ponte Carlo III.

Le questioni aperte e tutti obiettivi prefissati riguardanti l’oggetto di studio potrebbero trovare un punto di svolta significativa in una sua particolare elaborazione digitale: un modello BIM. Essa potrebbe costituire una risposta ai seguenti quesiti: • Come posso tradurre i dati del mio rilievo in un dato più flessibile e facilmente utilizzabile, con informazioni di più immediato utilizzo? • Come posso documentare in maniera sistematica il condotto, fornendo un modello interoperabile tra tutti i saperi tecnici che possono essere coinvolti nella sua gestione? • Posso ottenere un “modello parlante”, nel quale ciascun elemento costitutivo del manufatto rilevato sia analizzato e descritto nelle sue caratteristiche, quantomeno in ciò che si deduce dalle letture effettuate in sede di rilievo? • Come posso realizzare una documentazione che sia implementabile qualora venissero ad essere effettuate negli anni delle indagini più approfondite? • Posso pensare di analizzare lo Stato di Fatto del ponte, ossia l’unica “lettura critica” che di esso posso fare al momento per le indagini che ho avuto la possibilità di effettuare, all’interno di un modello digitale tridimensionale in cui io possa inserire le

informazioni (degrado, quadro fessurativo, letture materiche, ecc.)? Di fatto, quelle sopra elencate, sono tutte operazioni che possono essere effettuate lavorando in ambiente BIM, che sta prendendo sempre maggior piede nel campo della conservazione del Patrimonio Culturale, ove le situazioni che si possono presentare sono molto più complesse rispetto a quello della nuova costruzione perché si ha a che fare con l’unicità degli elementi architettonici, dei sistemi costruttivi e dei materiali (non standardizzati), il degrado delle strutture e le condizioni ambientali. È opportuno, prima di passare alla descrizione dell’HBIM (termine coniato per definire il BIM applicato al patrimonio architettonico), aprire una piccola parentesi esplicativa su quelle che sono le caratteristiche peculiari del BIM in generale, per avere una panoramica dell’argomento trattato. Il BIM - Building Information Modeling - è la rappresentazione digitale di una struttura attraverso un modello parametrico contenente tutte le informazioni che riguardano l'intero ciclo di vita di un'opera, dal progetto alla costruzione, fino alla sua demolizione e dismissione. È un modello informativo - dinamico, interdisciplinare, condiviso e in continua evoluzione - che contie-

ne dati su geometria, materiali, struttura portante, caratteristiche termiche e prestazioni energetiche, impianti, costi, sicurezza, manutenzione, ciclo di vita, demolizione, dismissione." (BIM, cos'è il Building Information Modeling?, https://www.acca.it/bim-building-information-modeling). Alla base del BIM ci sono: • la collaborazione tra le diverse figure interessate nelle diverse fasi del ciclo di vita di una struttura • la condivisione digitale dei dati e l'interoperabilità mediante formati aperti. L'interoperabilità tra i software è resa possibile dal formato standard IFC creato e promosso da building SMART international. Se la tecnologia Bim è efficace e piuttosto consolidata per la realizzazione delle nuove costruzioni, soltanto da pochi anni si sta prendendo in considerazione la sua applicazione al settore dell’esistente e, ancor più nello specifico, della gestione del patrimonio. Un BIM dovrebbe garantire: • La rappresentazione digitale del patrimonio; • Un database informatico sui differenti elementi del patrimonio; • Un controllo ricorrente delle condizioni dell’opera. • Una valutazione degli effetti diverse tipologie di intervento.

• Il modello BIM applicato al patrimonio dovrebbe garantire, a tal proposito, la corretta rappresentazione: • della forma degli elementi; • dei materiali; • dello stato di degrado; • delle informazioni storiche; • delle condizioni ambientali; • della geolocalizzazione del manufatto. (Achille C., Lombardini N., Tommasi C., "BIM and cultural heritage: compatibility tests in an archaeological site", WIT Transactions on The Built Environment, Vol 149, 2015, pp. 594-595). In questo senso, la parte preliminare dello studio effettuato sul Ponte Carlo III è fondamentale per l’acquisizione di tutte le informazioni sopra elencate. In particolare, l’approccio oggi maggiormente utilizzato per ottenere dei modelli Bim degli edifici esistenti consiste nella metodologia SCAN TO BIM, che si avvale dei modelli 3d elaborati a partire da campagne di rilievo digitale (nuvole di punti e modelli mesh) per utilizzarli come base dalla quale modellare tutte le componenti degli edifici rilevati, così da ottenere una rappresentazione quanto più possibile fedele del manufatto esistente. Viene prodotto, così, un’HBIM (Historic Building Information 47


Modelling), che ha una base di informazioni di rilievo, poiché alla funzione di pianificazione del nuovo sostituisce quella documentativa e di ricostruzione dello stato di fatto con tutte le istanze geometriche, architettoniche e strutturali dell’edificio, producendo una rappresentazione digitale organizzata di un edificio o di una struttura. I dati della nuvola di punti risultanti forniscono un database di informazioni immediate da cui è possibile costruire un modello BIM parametrico 3D. Il database ottenuto fornisce un archivio di informazioni a cui è possibile accedere in qualsiasi momento. Dalla nuvola di punti al modello parametrico HBIM Per ottenere il modello parametrico del ponte, dopo un’accurata indagine mirata a selezionare il software più appropriato tra quelli più diffusi (Archicad e Revit), si è deciso di optare per Autodesk Revit. Si tratta di uno dei software che, a partire dal suddetto database (nuvola di punti e immagini) può produrre modelli BIM di edifici esistenti. Gli edifici storici ed esistenti vengono, dunque, modellati come accade per qualsiasi software di modellazione tridimensionale, con una differenza sostanziale. I software di modellazione consentono di ottenere rappresenta-

zioni digitali caratterizzate da una significativa risoluzione, accuratezza, precisione, complessi e molto vicini alla realtà osservata, costituite da Mesh e Nurbs. I software BIM aggiungono, invece, all’informazione geometrico-dimensionale anche altre tipologie di informazioni, che posso essere associate ai vari elementi del modello, utili per la gestione dell’edificio. Le fasi di realizzazione di un modello BIM possono essere distinte in una serie di tappe, che sono elencate di seguito. • Fase di rilievo, scansioni Elaborazione nuvola di punti • Riduzione della nuvola di punti in Recap, un plugin che consente di predisporre le nuvole di punti per la visualizzazione in ambiente CAD e BIM • Importazione della nuvola in Autodesk Revit, software per la modellazione BiM. • Suddivisione semantica dell’oggetto del rilievo nei suoi elementi principali al fine di individuare parti coerenti alle quali possono essere attribuite informazioni simili. • Individuazione dei piani di riferimento ed estrazione di sezioni per ottenere i profili degli elementi da modellare. Per ottenere un risultato appropriato, occorre evitare eccessive semplifica-

zioni del modello, che potrebbero renderlo inutilizzabile ai fini del progetto di conservazione. Nel nostro caso specifico, prima di procedere alla modellazione, è stata effettuata un’analisi e una ricerca sulla costruzione dei ponti storici così da individuare degli elementi effettivamente corrispondenti a porzioni del manufatto aventi una logica separatamente e nel loro insieme. In particolare, gli elementi in cui è stato suddiviso il ponte sono: • Fondazioni dirette; • Rostri o cappucci; • Muri d’ala; • Archivolti; • Muri di testa; • Riempimento; • Contrafforti; • Cornici; • Camminamento; • Condotto Trovandosi ad operare nel contesto dell’architettura storica/archeologia ci si è trovati di fronte immediatamente ad uno dei “limiti” del software utilizzato: l’impossibilità di ricorrere agli strumenti automatici offerti dal programma. Per poter riprodurre l’unicità degli elementi architettonici individuati è stato necessario ricorrere ai cosiddetti "modelli locali", che restituissero nella maniera più fedele possibile la geometria

esistente, non standardizzata. Per le fondazioni, in mancanza di un modello incorporato, è stata creata una "famiglia esterna", così da poter apportare delle modifiche dimensionali qualora si riuscissero ad effettuare delle indagini più approfondite. Bisogna però constatare che l'irregolarità dell’edificio, specialmente per quanto concerne gli elementi che compongono la muratura, perfettamente leggibile sia dalla nuvola di punti che dal modello mesh, va perduta nella modellazione parametrica. Quest’ultimo appunto fatto costituisce uno dei più grandi limiti nell’utilizzo del BIM nel campo dei Beni Architettonici e Archeologici attualmente. L’approccio BIM al Patrimonio comporta anche un’altra difficoltà totalmente trascurata nelle nuove costruzioni: lo scontro con un manufatto che non è totalmente conoscibile, soprattutto al suo “interno”, e il rischio di incorrere nella modellazione “muta”, se il rilievo non è accompagnato da indagini approfondite che conducano effettivamente ad una conoscenza profonda dell’oggetto. Per evitare di ottenere dei modelli muti, mere rappresentazioni tridimensionali di un oggetto che non comunicano nulla di esso se non i suoi aspetti geometrico-dimensionali, occorre andare a fondo nella conoscenza dell’ogget-


to, documentandolo in ogni suo aspetto e sfruttando a pieno le potenzialità del software, che permette di inserire tutti i dati raccolti all’interno del modello ottenuto. Nel caso del Ponte Carlo III, la più grande difficoltà riscontrata risiedeva proprio nell’aver documentato con grande dettaglio ed elevatissima risoluzione l’involucro ma nel non aver a disposizione alcun tipo di informazione in merito agli aspetti più tecnici, come i materiali, il degrado, il quadro fessurativo, l’apparecchiatura muraria interna, le caratteristiche del condotto e dell’interno della muratura. Per questo motivo, in fase di rilievo, sono stati documentati fotograficamente i materiali, prelevati campioni di materiali di piccole dimensioni rinvenuti in terra e di patologia di degrado, documentate fotograficamente e misurate le principali lesioni e fessurazioni. Il tutto è stato restituito o opportunamente analizzato in laboratorio così da poter realizzare delle tavole o schede illustrative da allegare ai corrispondenti elementi del modello Bim. La testimonianza di persone del posto ha permesso di avanzare ipotesi sulle dimensioni di massima del condotto e la presenza di un tombino semiaperto ha permesso di verificarle, attestandole corrispondenti a 1,26 m di larghezza 1,85 m di altezza in chiave di volta.

L'ispezione ha permesso, inoltre, di rilevare i materiali e lo stato interno, confrontando i risultati ottenuti con quanto riportato dalle fonti bibliografiche e con quanto rilevato nelle altre parti dell’Acquedotto fisicamente ispezionabili. È stata rilevata, inoltre, la presenza di un intervento novecentesco di intubazione del condotto, realizzato rimuovendo parte del camminamento e inserendo 3 tubi probabilmente per rispondere ad una perdita del condotto in corrispondenza della parte centrale del ponte. Laddove sono presenti le arcate, infine, è stato smantellato il camminamento per eseguire l'intervento, ricostruito internamente in laterocemento e poi ricomposto il selciato di coronamento per restituire l'unità compositiva esterna. Resta ancora oscura l’esatta composizione della muratura interna: non è possibile conoscere esattamente lo spessore dei muri di testa, né le caratteristiche del riempimento interno. Per quello si può far affidamento sulle “regole del costruire” dell’epoca, sulla trattatistica sette-ottocentesca relativa in particolare ai ponti (che risulta peraltro comunque molto scarna). L’ipotesi più accreditata, viste anche le dimensioni del camminamento, è quella di una muratura a sacco, stretta tra due pareti laterali di circa 40 cm (si può solo ipotizzare questo spessore,

in corrispondenza di alcuni conci mancanti in prospetto che lasciano intravedere un secondo filare retrostante), e caratterizzata da un riempimento in materiale incoerente, sul quale poggia la base del condotto, in tufo, anche se è stato appurato che lo spessore della parte superiore del condotto, quindi il livello sottostante il camminamento, è realizzato interamente in tufo. Un altro aspetto da prendere in considerazione al momento della modellazione è l’attendibilità di quanto modellato rispetto al dato reale. Possono essere fatte, infatti, diverse ipotesi, specialmente in merito alle strutture portanti e, in particolare in questo caso, alla struttura di fondazione. In fase di restituzione è fondamentale, tuttavia, differenziare quanto realmente rilevato rispetto a quanto ipotizzato. La versatilità del software ha permesso di inserire, per ciascun elemento modellato, informazioni inerenti: • il materiale; • la fase di costruzione; • le patologie di degrado che lo interessano. Il tutto corredato da immagini fotografiche/tavole esplicative, alle quali è possibile accedere semplicemente cliccando sull'elemento considerato all'interno del modello. Un limite del BIM è quello dell'archiviazione di informazioni. Il programma è pensato per edifi-

ci nuovi, risalenti al massimo agli ultimi 50 anni, quindi è impostato in modo tale da avere parametri standard che non sono modificabili. Infatti tutto il modello è stato realizzato secondo elementi generici estrusi e non secondo l'iter classico del "muro" o dell'"arco". Non sono mai stati utilizzati elementi predefiniti, né nella fase iniziale, né della fase di modellazione del condotto degli anni '70 (dato che non era comunque disponibile nella libreria il tipo di solaio in laterocemento di cui necessitavamo). Per quanto riguarda i dati inseriti, inizialmente si è fatto ricorso ai parametri già presenti nell'impostazione di default. Successivamente sono stati inseriti nuovi parametri associati ai singoli elementi, come delle immagini, delle informazioni storiche e infomazioni sulla fase di costruzione.

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Fig.21 – Dall'alto: modello 3D con applicazione dell'intervento di restauro; abaco di informazioni estrapolato dal sistema di gestione; inserimento dell'intervento di restauro nel modello; prospetto sud con informazioni sull'intervento.

Il tufo giallo napoletano La presenza sul territorio italiano di un consistente patrimonio artistico-architettonico rende, o almeno dovrebbe rendere, sensibile lo sviluppo di strategie nel settore della conservazione preventiva e nel settore della ricerca finalizzata ad assicurare le condizioni ottimali di conservazione. La maggior parte del patrimonio italiano è costituito da pietre di varia natura, collocate in contesti climatici differenti e soggette a diverse tipologie di lavorazione. La storia insegna, come avviene anche nel caso di Ponte Carlo III, che la maggior parte delle volte la pietra utilizzata per la costruzione di manufatti è quella reperibile in loco, o comunque in cave prossime al sito in cui avverrà effettivamente l’edificazione. Alla varietà di materia prima disponibile corrisponde una varietà nella caratterizzazione assunta degli edifici in relazione all’utilizzo di quella pietra locale. Tornando al contesto di studio, occorre specificare che la Campania, data l’intensa attività vulcanica che da sempre l’ha caratterizzata, è nota per l’utilizzo predominante, tra i materiali lapidei, di un particolare tipo di tufo, noto come “tufo giallo napoletano”. Il tufo, oltre ad avere delle ottime caratteristiche costruttive, presenta un aspetto gradevole, delle buone carat-

Intervento di restauro conservativo

teristiche termiche e acustiche ed una estrazione non eccessivamente gravosa che permette la realizzazione di opere sotterranee di notevoli dimensioni. Nel panorama costruttivo campano è utilizzato spesso come materiale a “facciavista” ed è soggetto a svariate tipologie di degrado ed alterazione, di cui si parlerà in seguito più nello specifico. Il tufo locale utilizzato per la realizzazione di Ponte Carlo III presenta delle caratteristiche assimilabili a quelle del tufo giallo napoletano estratto nei Campi Flegrei, pertanto si procederà nella descrizione dei suoi principali aspetti e delle alterazioni alle quali è soggetto. Il degrado dei materiali lapidei Il processo di degrado dei materiali lapidei avviene principalmente a causa dell’interazione del materiale con l’ambiente circostante. Il materiale tende ad adattarsi alle nuove condizioni ambientali ogni volta che queste variano. Questo adattamento continuo, anche solo nell’arco di una giornata, provoca dei danni al materiale. Le tipologie più frequenti di degrado dei materiali lapidei, soprattutto del tufo sono: • Alveolizzazione: formazione di alveoli profondi nella tessitura lapidea,

dovuta al distacco dei clasti presenti nella matrice o dalla disgregazione delle pomici; • Scagliatura ed esfoliazione: dovute all’azione di acque piovane e alla ricristallizzazione di sali solubili; • Disgregazione: dovuta all’infiltrazione di acqua e al conseguente effetto di dissoluzione delle fasi presenti nella roccia; • Patine, ossidazioni, efflorescenze: maggiormente presenti sulle superfici esterne sottoposte ad una intensa dissoluzione ed evaporazione delle acque meteoriche; • Alterazione cromatica: dovuta all’opera degli agenti atmosferici, a causa della quale superfici lapidee esposte sbiadiscono o mutano completamente il proprio colore, in modo diffuso oppure localizzato in macchie più o meno estese; • Patina: si manifesta come una velatura che spesso assume tonalità più scure, fino ad arrivare al nero. Si ritrova nelle porzioni più riparate del manufatto, laddove i fenomeni di dilavamento continuo sono più limitati. Materiali da costruzione utilizzati e principali tipologie di degrado rilevate Analizzando il ponte, possiamo facilmente identificare i materiali che so-

no stati utilizzati. In primis il tufo che è stato usato per il rivestimento e la struttura portante del ponte. Inoltre, abbiamo la pietra calcarea per quanto riguarda le decorazioni, ovvero le cornici che della parte centrale e dei bordi del camminamento. Come già evidenziato, le condizioni del ponte lo hanno condotto inevitabilmente ad uno stato di estrema precarietà. La mancanza di manutenzione ha favorito la proliferazione della vegetazione, che ha già “assalito” la struttura, causando una serie di lesioni che denotano la lettura di un quadro fessurativo piuttosto preoccupante. La presenza di vegetazione si riscontra in tutto il ponte, sia per quanto riguarda il camminamento, sul quale restano visibili soltanto i ciottoli centrali del selciato, e alcune porzioni dei conci perimetrali che fungono da cornice del camminamento stesso. Per quanto riguarda il Prospetto Sud, la situazione è leggermente migliore. La vegetazione ha innestato i suoi apparati radicali prevalentemente in sommità e in basso, all’attacco a terra, e, soltanto in prossimità delle arcate, anche nella parte centrale, tra il camminamento e il terreno. Il prospetto Nord è sicuramente il più critico da questo punto di vista: la vegetazione lo ricopre qua- 51


si nella sua interezza e, in corrispondenza dei contrafforti, si è insinuata al punto tale da permettere la crescita di un’intera pianta di fico tra i tufi. La presenza di una vegetazione così abbondante fa sospettare l’esistenza di perdite del condotto e, di conseguenza, la possibilità che ci siano delle colonie infestanti anche al suo interno, aspetto che potrebbe risultare catastrofico dal punto di vista del funzionamento dell’intero sistema di alimentazione della Reggia. Un altro elemento di degrado particolarmente evidente è la mancanza di conci tufacei in corrispondenza dei cornicioni e anche della stessa muratura. La loro assenza è dovuta, in alcuni casi, alla caduta spontanea del materiale (che è ancora posizionato a terra nella direzione della caduta), oppure a furti avvenuti nel corso del tempo. Tutte le superfici lapidee sono interessate, come tipico del materiale in questione, da disgregazioni, patine, scagliature, esfoliazioni, efflorescenze, alveolizzazioni diffuse, che interessano le superfici nella loro interezza, con livelli di criticità differenti ma sempre presenti. In particolare, una tipologia di degrado del tufo particolarmente evidente nel manufatto in questione è la disgregazione con arretramento delle superfici lapidee, che interessa molti conci e che denuncia la perdita, per perdita di continuità del materiale di partenza, degli strati superficiali. Un segno inequivocabile dei rimaneggiamenti che sono stati fatti sul ponte nel corso dei decenni è rappresentato dai numerosi rappezzi incongrui, ge-

neralmente effettuati con materiale cementizio, realizzati per “rimpiazzare” conci caduti o gravemente lesionati, oppure per “chiudere” interventi impropri realizzati sul manufatto, come i tombini dello scorso secolo sul camminamento oppure le varie prese abusive all’altezza del condotto. Il prospetto Nord, dato il tasso di umidità rilevante, presenta una vegetazione più abbondante, spesso costituita da muschi e licheni che rivestono completamente i conci. Questa forma di degrado così rilevante tende ad “occultare” tutte le altre, suggerendo le operazioni che occorrerebbe intraprendere nell’immediato nell’ambito di un progetto di restauro conservativo. Il quadro fessurativo Le dimensioni tutto sommato contenute, specialmente in altezza, del ponte, unitamente alla sua compattezza in corrispondenza delle ali laterali, hanno determinato una robustezza e solidità piuttosto significative. Non si può dire lo stesso in merito alla parte centrale, ossia quella interessata dalla presenza degli archi, specialmente quello attraversato dal fiume. In questa porzione, infatti, il ponte raggiunge l’altezza più rilevante e il terreno è più cedevole, determinando la presenza del quadro fessurativo più preoccupante. In particolare, l’arcata interessata dalla presenza di lesioni è quella ad Ovest (rispetto al prospetto Sud) dell’arcata sotto la quale corre il fiume. La lesione, avente uno spessore massimo di circa 5-6 cm e una profondità nella muratura che varia dai 30 ai 50 cm, in-

teressa, quindi, tutto il presunto paramento murario esterno, ha andamento obliquo, e congiunge la chiave dell’arco con l’attacco del “contrafforte” destro. Essa prosegue, poi, trasversalmente, innescando un cinematismo di ribaltamento del contrafforte stesso, visibilmente fuori piano rispetto al prospetto. La lesione si ripete in maniera quasi speculare secondo un asse parallelo alla direzione del condotto anche in corrispondenza del prospetto nord, interessando la medesima arcata e correndo sempre dal concio di chiave verso l’altro in direzione del “contrafforte” sinistro. Lo spessore massimo si aggira sempre intorno ai 6 cm, per una profondità nella muratura di 60-70 cm. In questo caso, oltre alla lesione maggiore, la presenza di una pianta di fico ha comportato un distacco della cornice dell’arcata. Inoltre, nell’imbotte si segnala la presenza di una lesione che corre longitudinalmente alla direzione del ponte, ad una distanza di 70 cm dal filo esterno del prospetto nord. Le informazioni sul degrado e sul quadro fessurativo inserite all’interno del modello Bim Un approccio tradizionale al Restauro conservativo avrebbe portato, a questo punto, alla realizzazione di tavole tematiche, nelle quali inserire tutti i dati rilevati in termini di degrado e quadro fessurativo. All’interno di ciascuna tavola vengono inseriti tutti gli elaborati necessari alla descrizione del manufatto (immagini fotografiche, tabelle con descrizione delle varie tipologie di degrado, note

necessarie alla migliore comprensione del manufatto, ecc). Questi elaborati restano, tuttavia, separati in documenti diversi e, quindi, complessi nella gestione. Avere a disposizione un modello BIM del Ponte offre la possibilità di riportare all’interno di esso i dati rilevati, anche in termini di degrado e quadro fessurativo, così da poter implementare ancora una volta il database anche con un ulteriore tipo di informazione. Per fare questa operazione si è proceduto nel seguente modo: • importazione delle ortofoto all’interno del modello; • vettorializzazione del degrado e del quadro fessurativo sulle stesse ortofoto; • proiezione delle curve sulle superfici del ponte; • estrusione delle curve in superfici di spessore millimetrico modellate come modelli generici, nominate a seconda del tipo di patologia di degrado che rappresentano. Uno dei vantaggi di rappresentare gli aspetti conservativi su un modello 3D è quello di considerare anche le patologie presenti sulle superfici parallele al piano di calpestio, aspetto generalmente trascurato nella rappresentazione classica. L'enorme vantaggio inoltre è che il programma permette di ottenere in maniera automatica e sempre aggiornabile all'interno del solito database gli abachi che comprendono il quantitativo di superficie interessata dal degrado e tutte le informazioni annesse. Questa procedura è stata riproposta anche per il quadro fessurativo, otte-


nendo una rappresentazione 3D di più immediata comprensione. In seguito, per implementare ulteriormente l’informazione, sono state allegate delle immagini alle varie tipologie di degrado evidenziate, unitamente alle tavole tematiche, mentre le lesioni sono state corredate, oltre che da foto, anche di tavole di rilievo più dettagliate. Avendo a disposizione un quadro completo della situazione, è possibile procedere con delle ipotesi di intervento che, vista la natura dell’oggetto, sarà senza dubbio di Restauro Conservativo, preceduto da un Consolidamento Strutturale, atto a ripristinare e mettere in sicurezza l’opera. Per inserire le fasi dell'intervento all'interno del modello si procederà operativamente come fatto per descrivere lo stato conservativo, ottenendo allo stesso modo abachi e quantità, dati utili ai fini dell'utilizzo in fase di progetto. Descrizione dell’intervento di Restauro conservativo Le procedure messe in atto scaturiscono da un criterio “conservativo”. Il quadro fessurativo esistente, tuttavia, rende necessario in primis un intervento di consolidamento strutturale, atto ad evitare un peggioramento delle condizioni dell’oggetto, in particolare in corrispondenza della campata interessata dalla presenza della lesione principale. Essa è legata ad un cedimento in fondazione, prevedibile se si considera che la fondazione in questione confina con il fiume e, pertanto, poggia su un terreno piuttosto cedevole, manifestan-

dosi sotto forma di una rottura dell’arco in mezzeria con scivolamento della parte più prossima al fiume verso il fiume stesso. L’altro lato dell’arco, invece, è rimasto pressappoco immutato e la rottura si è sviluppata secondo le fughe dei conci in tufo. La prima operazione da eseguire dovrebbe essere, di conseguenza, un intervento di sottofondazione, realizzabile come segue: • puntellamento della campata in oggetto; • scavo in sezione e puntellamento della fondazione; • inserimento di pali trivellati fino a raggiungimento dello strato resistente; • inserimento di una griglia in acciaio e completamento con un getto di calcestruzzo; • gradonata in mattoni; • riempimento dello scavo con materiale compatibile (malta e legante a matrice calcarea). L’intervento realizzato consentirebbe di potenziare la fondazione e, pur prevedendo il ricorso al sistema moderno, lo riduce al limite, preservando l’integrità del manufatto e, allo stesso tempo, c onservandone i caratteri originali. Unitamente a questa operazione dovrebbe essere previsto il ricorso a barre elicoidali disposte radialmente e posate a secco da inserire all’intero dello spessore murario in corrispondenza dell’arcata per ricucire la lesione esistente, unitamente a interventi puntuali di cuci e scuci per sostituire conci particolarmente ammalorati, sempre con materiale compatibile con quello originario.

Per restituire connessione alle due pareti murarie corrispondenti ai due prospetti del ponte dovrebbe esser prevista una “contraffortatura” realizzata a mezzo di barre inserite trasversalmente al di sotto e al di sopra del livello del condotto, così da non intaccarlo, possibilmente in corrispondenza dei “contrafforti” decorativi esistenti. Per quanto riguarda la parte interna, è stato segnalato un intervento novecentesco di intubazione del condotto originario in corrispondenza delle 4 arcate, forse per sanare una perdita, con 3 tubi in eternit e conseguenti opere cementizie e non (smantellamento della volta in tufo originaria, rimozione di parte del camminamento superiore e sostituzione all’interni con solaio in laterocemento). Da un punto di vista conservativo, oltre che per assicurare la possibilità di preservare la purezza dell’acqua che giunge alla Reggia, occorrerebbe rimuovere i tubi e ripristinare il condotto originale. In questo caso, tuttavia, occorrerebbe effettuare delle indagini più approfondite per verificare che l’esecuzione delle opere non comporti un rischio di danneggiamento strutturale dell’opera. Una volta concluse le operazioni preliminari di messa in sicurezza dell’opera, si può procedere con l’intervento di Restauro conservativo che interessa più propriamente l’involucro, l’aspetto che l’opera assume nel contesto in cui è collocata. 1. As: Asportazione dei depositi superficiali Presenti, nel caso di Ponte Carlo III, specialmente in corrispondenza degli

aggetti orizzontali (cornici, modanature, ecc.) e del camminamento. Il deposito si presenta sottoforma di fogliame, polvere, terriccio, rami e sostanze trasportante dal vento e dagli agenti atmosferici, rimovibile manualmente, fissati dei sistemi di movimentazione per raggiungere le parti in quota, oppure tramite aspiratori meccanici. 2. Pcn: Preconsolidamento La successiva fase, imprescindibile, è quella del preconsolidamento, operazione precedente alla pulitura, che consente di ristabilire la compattezza dei materiali disgregati o polverizzati, individuati dopo la prima fase di asportazione dei depositi superficiali. Tale operazione ha la finalità di rendere nuovamente solidali porzioni del manufatto ormai sconnesse, fornendo una stabilità provvisoria laddove sono necessarie delle operazioni di pulitura anche molto invasive. Normalmente il preconsolidamento si attua su porzioni limitate della superficie interessata dalla presenza del fenomeno di degrado. 2. Pcn ml: Ponti di malta magra e/o resina Questa operazione ha l’obiettivo di rendere solidali scaglie, frammenti e fratture di conci lapidei che potrebbero andare perduti durante le operazioni di pulitura, utilizzando una malta magra con granulometria molto fine (carbonato di calcio o polvere di pomice). Le stuccature verranno stese con spatole a doppia foglia piatta oppure con cazzuolini tra i frammenti in di53 stacco e la massa principale.


La fase di preconsolidamento interessa i singoli conci che costituiscono la muratura del ponte ma interessa in particolar modo i conci meno stabili, ossia quelli delle cornici del camminamento. Essi necessitano di un preconsolidamento piuttosto invasivo poiché, data la loro forte precarietà, rischiano di precipitare al suolo durante le operazioni successive. 3. As: Asportazione di parti non compatibili L’intervento di asportazione interessa esclusivamente quelle porzioni del manufatto frutto di interventi abusivi del XIX-XX secolo, ossia i rappezzi incongrui cementizi realizzati in corrispondenza di tentativi di presa abusiva dell’acqua del condotto, con un materiale incompatibile con quelli del monumento. Durante l’esecuzione dell’asportazione occorre prendere tutte le necessarie precauzioni per evitare inconvenienti legati alla possibile fuoriuscita di acqua dal condotto, oltre a prevedere un preconsolidamento temporaneo delle porzioni rimosse tramite puntellamento e delimitazione delle aree affette da rischio di caduta di materiale. L’asportazione riguarda anche i rappezzi cementizi effettuati in corrispondenza dei conci del camminamento. Anche in questo caso sarà effettuato puntualmente con l’ausilio degli strumenti sopra indicati, predisponendo tutti gli accorgimenti atti ad evitare la caduta dei conci sommitali al momento dell’eliminazione del supporto cementizio.

4. Ri: Rimozione Concluse queste operazioni preliminari, si procederà alla rimozione delle prese abusive vere e proprie, realizzate in materiale metallico o in conglomerato cementizio. 5. Pu ml: Macroflora La macroflora è costituita da organismi come alghe, muschi, licheni, che si sviluppano prevalentemente nei dissesti dell’apparecchio murario, occupando la superficie muraria e favorendo l’accumulo dell’umidità superficiale e, nel caso della vegetazione infestante, comportando danni meccanici, dissesti e caduta di materiale. Per rimuovere la vegetazione occorre individuare in primo luogo la tipologia della vegetazione (erbacea o arbustiva), verificando la reale possibilità di intervenire sull’intera superficie interessata o la necessità di un intervento più mirato, con sostanze biocide. I biocidi devono presentare delle caratteristiche tali da non risultare dannosi nei confronti delle superfici murarie e, soprattutto nel nostro caso, nei confronti delle acque del condotto che devono preservare la purezza che le contraddistingue. 5. Pu ml: Diserbo da piante superiori Asportazione di vegetazione erbacea, arbustiva ed arborea, fatta preferibilmente nel periodo invernale, sia meccanicamente (taglio con mezzi a bassa emissione di vibrazioni, seghe, forbici, asce, accette,…) sia con disinfestanti liquidi. Dopo l'estirpazione meccanica, si può procedere col trattamento biocida.

5. Pu ml: Disinfestazione da alghe, muschi e licheni L’asportazione di alghe, muschi e licheni può essere meccanica (spazzole rigide, bisturi, spatole) sia con i biocidi. Se i licheni sono molto spessi la rimozione meccanica sarà preceduta dall’applicazione di una soluzione di ammoniaca diluita in acqua al 5%. L’applicazione può essere fatta a spruzzo, a pennello o ad impacco a seconda del tipo di prodotto prescelto. In merito all’utilizzo di prodotti biocidi per la rimozione della vegetazione, ci si è interrogati rispetto alla loro tossicità, preoccupandosi di un eventuale contatto con le acque del condotto. Per il momento esistono soltanto in fase di sperimentazione dei prodotti definibili come "atossici", a base di olii essenziali o batteri. I prodotti che si trovano in commercio conservano un livello di tossicità, seppure minimo. È sempre consigliabile eseguire dopo il trattamento un risciacquo del muro con acqua deionizzata. 5. Pu: Pulitura La pulitura di una superficie mira a rimuovere sostanze estranee patogene, che hanno determinato uno stato di degrado superficiale, limitandosi alla loro asportazione. 5. Pu ml: Pulitura del materiale lapideo: Procedure preliminari • Analisi puntuale della consistenza dei materiali; • analisi dei prodotti di reazione; • preconsolidamento; • applicazione del prodotto su campione;

• analisi dei risultati ottenuti sulla superficie campione. La difficoltà di asportazione dipende dalla natura del deposito: • depositi incoerenti (particellato atmosferico terroso o carbonioso) che non risultano coesi con il materiale depositati per gravità o depositati dalle acque meteoriche; • depositi incoerenti (particelle atmosferiche penetrate in profondità, Sali di dilavamento) che solidarizzano con il materiale senza intaccarne la natura chimica; • strato superficiale derivato dalla combinazione chimica delle sostanze esterna con il materiale di finitura. Nel primo dei casi di depositi incoerenti, si procederà con una pulitura con sistemi meccanici come stracci, spazzole, scope, aspiratori, bisturi, lavaggi. Nel secondo e nel terzo dei casi sopra elencati si effettueranno puliture a base d’acqua, impacchi acquosi o sostanze chimiche, pulitura meccanica, sabbiatura ecc. 5. Pu ml: Pulitura del materiale tufo La presenza di pori nella muratura tufacea garantisce un'ottimale traspiranza alla muratura che viene a mancare nel momento in cui questi fori si occultano, compromettendo le proprietà dell’intero materiale. A seconda dello stato di degrado bisognerà intervenire con azioni volte al consolidamento, idrofobizzazione, rivestimento a mezzo di intonacature traspiranti. In generale, anche qualora si debba intervenire restaurando il materiale, è opportuno evitare tutte le lavorazioni che necessitano di acqua.


Anche le vecchie malte di allettamento vanno rimosse. Si procede con una rimozione delicata manuale, di quanto incongruente è presente tra i giunti dei conci. Questo poiché, una malta ormai degradata, non garantisce più l'azione legante che assicura la stabilità del paramento murario. 5. Pu ml: Spazzolatura manuale della superficie muraria Nel caso del tufo, in base a quanto detto rispetto all’utilizzo dell’acqua, la pulitura avviene attraverso una spazzolatura manuale, tale da assicurare la completa rimozione di eventuali sostanze estranee presenti sull'intera muratura, unitamente a tutte le operazioni più puntuali da eseguirsi nelle zone interessate da particolari patologie di degrado, come indicheremo successivamente. 5. Pu ml: Pietra calcarea Pulitura mediante spray di acqua a bassa pressione, capace di rimuovere polveri e depositi solubili in acqua o non troppo coesi al substrato. Trattamento particolarmente adatto per asportare depositi da materiali di natura calcarea e poco porosi. La superficie da trattare sarà invasa con dei getti di acqua a bassa pressione (2-3 atm) dall’alto verso il basso, avendo cura di proteggere la sottostante superficie tufacea, ove presente. L’intervento non si effettua di norma nella stagione invernale onde evitare gli inconvenienti connessi all’azione del gelo e alla lenta evaporazione e il ciclo di pulitura ha una durata compresa tra i 15 e i 20 minuti.

6. Ag: Aggiunte o Re: Reintegrazioni La reintegrazione mira a voler restituire all’oggetto la sua configurazione originale laddove nel corso dei secoli si è intervenuto con delle modalità poco consone alla natura del manufatto e verrà eseguita con dei conci in tufo o in pietra calcarea laddove erano presenti precedentemente dei rappezzi cementizi, demoliti nelle operazioni preliminari di restauro, purchè l’intervento sia chiaramente distinguibile dall’originale, utilizzando sempre del tufo con delle caratteristiche assimilabili al materiale originario. Inoltre, si procederà al ripristino delle mancanze laddove sarà ritenuto necessario a restituire l’efficienza tecnica, recuperando i requisiti di integrità strutturale che, essendo venuti a mancare, incrementano il rischio d’innesco di fenomeni di degrado e dissesto strutturale. 7. Cn ml: Consolidamento Il consolidamento è un’azione che si rende necessaria quando il danno causato dal degrado è tale da richiedere il ripristino delle caratteristiche strutturali del materiale. Il problema del consolidamento è legato alla perdita di coesione tra le particelle costituenti un materiale che non si trova più nell’originaria condizione di stabilità materica, e sottintende un intervento relativo alla sua microstruttura, mirato ad aumentare la resistenza e la coerenza del materiale danneggiato. Il consolidamento di materiali edili da costruzione sfarinanti e decoesi, come il tufo può avvenire tramite l’utilizzo di prodotti con buona penetrazione in

supporti porosi e assorbenti che assicurano la conservazione delle ricercate caratteristiche di traspirabilità del materiale. Tra i vari prodotti presenti attualmente sul mercato, esistono dei consolidanti naturali che aumentano la compattezza della superficie trattata, elimina lo spolverio e mantiene inalterata la traspirabilità, rendendo la superficie resistente all’acqua e alle infiltrazioni. Alcuni di questi prodotti sono anche ecologici. L’applicazione può avvenire tramite rullo o pennello, ma risulta ottimale, soprattutto nel caso di trattamento di supporti molto sfarinanti, l’applicazione tramite nebulizzazione.

conclusive dell’intervento di restauro. Il consolidamento protettivo, denominato waterproofing, è affidato a prodotti specifici che hanno la funzione di penetrare in profondità con la duplice funzione di consolidante e idrorepellente. L’applicazione del protettivo, specialmente nel caso del tufo, deve essere tale da non compromettere la traspirabilità del materiale. Per i materiali lapidei sono particolarmente indicati trattamenti protettivi a base di composti organici (resine siliconiche) con applicazione a pennello.

8. Cn ml: Stilatura dei giunti Rimosse le vecchie malte, attraverso la stilatura dei giunti, si inserisce una malta a spessore, a base di calce e pozzolana, specifica per tufo e facendo attenzione che abbia, tra le proprie caratteristiche, il modulo elastico coincidente con quello della muratura. L’operazione si effettua dopo aver bagnato con abbondante acqua pulita la superficie del giunto. Una volta inumidito il giunto si applica l’impasto in strati successivi, utilizzando il cazzuolino o il cucchiarotto, proteggendo idoneamente le superfici lapidee dei conci che delimitano il giunto. 9. Pr: Protezione Gli interventi di protezione salvaguardano il materiale dall’aggressione degli agenti naturali esterni e di natura antropica (in particolare impedire il passaggio dell’acqua e degli inquinanti atmosferici) e coincidono con le fasi

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Conclusioni

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I risultati

Fig.22 – Immagine dell'interno del condotto in corrispondenza di Ponte Carlo III (foto: Camilla Santoni, 2020).

Conoscere l’Acquedotto Carolino da Caserta fino alle sorgenti è stata un’impresa tutt’altro che semplice. Sono stati necessari mesi e mesi di ricerche, tentativi fallimentari in tutti gli archivi storici della Campania e non solo, decine di testi e fonti consultati. La storia di questa porzione di terra è tanto complessa quanto remota e affascinante. È fatta di una moltitudine di genti, di intrecci di civiltà, ciascuna delle quali ha apportato il proprio contributo, più o meno positivo, al suo seguito. Da qualche decennio a questa parte, la domanda che più turba le menti di coloro che questa terra continuano ad amarla nonostante le sue contraddizioni è sempre la stessa: quale è il contributo della nostra epoca? Siamo capaci di produrre bellezza, grandezza, cultura e civiltà tali da ritenerci degni di un passato tanto illustre? Il tentativo, o il dovere morale, dovrebbe essere quantomeno quello di custodire quanto di bello abbiamo ricevuto. È pur vero che per custodirlo occorre innanzitutto conoscerlo, per poi valorizzarlo come merita. Come studentesse di Architettura, sulla base del percorso formativo affrontato, possiamo apportare il nostro contributo alla conservazione di un bene tanto lodevole quanto delicato, per il quale la manutenzione e il controllo dovrebbero essere all’ordine del giorno.

Le moderne tecniche di rilievo, seppur ancora da perfezionare, consentirebbero una adeguata mappatura dell'intero condotto e questo consentirebbe di comprendere, forse per la prima volta in assoluto nella sua storia, dove esso passa precisamente, quali sono con esattezza i territori che attraversa e come poter intervenire in caso di criticità, di malfunzionamenti. Un altro aspetto di non secondaria importanza, che ancora una volta sottolinea la straordinaria capacità di ampie vedute che Vanvitelli possedeva, è rappresentato dalla straordinaria possibilità che l’acquedotto rappresenterebbe per tutto il territorio che attraversa. L’Acquedotto è di fatto un percorso all'interno di terre inesplorate, variegate, bucoliche e verdeggianti. Dunque, perché non vederlo come una possibilità, come un tracciato da seguire per esplorare le campagne e ricongiungere il beneventano al casertano, approdando in cima alle cascate della Reggia? Ancora una volta, un rilievo digitale del condotto, supportato da un modello interattivo nel quale raccogliere tutte le informazioni necessarie alla sua codifica, diventa un supporto fondamentale alla redazione di progetti di riqualificazione, valorizzazione, che potrebbero rappresentare un motivo di rinascita per un territorio tanto bello quanto dimenticato.

Questa tesi è stata motivo di riflessione in merito alla concreta possibilità di far ricorso ad uno strumento come il BIM per esplorare un campo del genere, sottraendolo completamente ai contesti nei quali viene solitamente utilizzato. Non edifici nuovi ma esistenti, non "architettura" in senso assoluto ma "infrastruttura territoriale"; un ponte, un acquedotto, del '700. Trascorsi alcuni mesi dalla campagna di rilievo,è possibile fare un bilancio dei risultati ottenuti. Fino a qualche mese fa, Ponte Carlo III era nel totale oblio, privo di qualsiasi supporto cartografico che ne attestasse quantomeno le dimensioni di massima. Attualmente disponiamo di un modello BIM ottenuto partire da una nuvola di punti frutto di una campagna di rilievo dettagliata, metricamente attendibile, e soprattutto corredato da supporti fotografici, informativi, atti ad avere una comprensione più approfondita dell'oggetto. Il tutto è inserito all'interno di un unico database. Se da un lato questo risultato è sorprendente, dall'altro è stato anche evidente nel corso dell'elaborazione l'incompatibilità per alcuni aspetti tra il software di modellazione e l'architettura esistente, sia rispetto alla fase di ricostruzione geometrica, sia rispetto alla flessibilità nell'inserimento delle informazioni, specialmente quelle ine-

renti agli aspetti conservativi (degrado, quadro fessurativo, ecc.), chiaramente assenti in un software pensato per la nuova costruzione. Nell'attesa di una implementazione dei programmi che possa renderli effettivamente adatti ad un approccio HBIM, occorrerebbe stabilire dei criteri di utilizzo per adattarli al patrimonio in maniera univoca, così da uniformare l'approccio dei vari studiosi che si avvicinano a questo mondo. Del resto solo un Paese come l'Italia, visto il suo enorme patrimonio storico-architettonico, può investire in questo settore. Formare dei professionisti all'utilizzo dell'HBIM potrebbe mutare nettamente l'approccio all'esistente, monitorandolo e riconoscendone finalmente il valore intrinseco.

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61



Indice

Il Ponte Carlo III, sineddoche dell’Acquedotto Carolino Grazia Tucci

5

Introduzione

7

La Campania Felix prima e dopo il Carolino Inquadramento storico-territoriale I personaggi, la Reggia e l'Acquedotto Il sistema acquedottistico campano

9 11 13 15

Attraverso i territori di Benevento e Caserta L'acquedotto Carolino: linee guida

19 21

Ponte Carlo III Descrizione dell'opera

27 29

La Campagna di rilievo e l'elaborazione dei dati Rilievo: Agosto 2019 Elaborazione dei dati di rilievo

33 35 39

Modellazione HBIM Il modello BIM Intervento di restauro conservativo

45 47 51

Conclusioni I risultati

57 59

Bibliografia

60

Sitografia

61


Finito di stampare per conto di didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Febbraio 2021



Lo studio del Ponte Carlo III ha costituito motivo di sperimentazione in merito all’applicazione della metodologia HBIM al patrimonio architettonico, non soltanto in termini di raccolta di informazioni, ma come strumento progettuale. La scelta di quest’opera è nata dal riconoscimento del suo grande valore architettonico, nonché dell’opportunità che essa rappresenta per il territorio, non soltanto nella sua individualità ma in quanto parte dell’Acquedotto Carolino, sistema di approvvigionamento idrico della Reggia di Caserta. A partire da un’adeguata documentazione bibliografica, e proseguendo con una campagna di rilievo integrato, sono stati ottenuti elaborati tridimensionali accurati e dettagliati per una conoscenza approfondita dell’oggetto. Il dato ottenuto è stato elaborato in ambiente HBIM, con particolare attenzione agli aspetti conservativi. Questo strumento, sebbene ancora in sperimentazione, si è rivelato utile ai fini della valorizzazione delle informazioni raccolte e, al contempo, valido supporto all’elaborazione di una strategia di intervento, dimostrando le sue potenzialità di utilizzo nel settore dei Beni Architettonici. Camilla Santoni, nata a Bagno a Ripoli (FI) il 30 maggio 1995. Frequenta il Corso di Laurea Triennale in Scienze dell’Architettura e successivamente il Corso di Laurea Magistrale in Progettazione dell’Architettura presso l’Università degli Studi di Firenze. Durante gli anni si interessa particolarmente al Rilievo e al Restauro Architettonico, temi che ha potuto approfondire anche durante le sue esperienze all’estero. Partecipa a iniziative come Mobilità Extra UE in Armenia, presso la Yerevan State University, Seminario Tematico ”Solomon Project” in Israele e Erasmus+ a Parigi dove frequenta l’ENSA de Paris-La Villette. Rosanna Massaro , nasce a Benevento (BN) il 4 maggio 1996. Frequenta il Corso di Laurea Triennale in Scienze dell’Architettura e a seguire il Corso di Laurea Magistrale in Progettazione dell’Architettura presso l’Università degli Studi di Firenze, concludendo il percorso accademico nell’aprile 2020. Coltiva un interesse particolare per il Restauro e per la valorizzazione dei Beni Architettonici, come dimostra questo progetto di ricerca tesi. La sua formazione comprende la partecipazione a progetti di mobilità internazionale, come l’Erasmus+ presso l’Université Libre de Bruxelles, la mobilità Extra UE presso la Yerevan State University, Armenia e il “Solomon Project” presso L’Ariel University, Israele.

ISBN 978-88-3338-133-6

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9 788833 381336


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