simposio internazionale
REUSO 2020 Restauro: temi contemporanei per un confronto dialettico
a cura di
Giovanni Minutoli
simposio internazionale REUSO 2020
Restauro: temi contemporanei per un confronto dialettico a cura di Giovanni Minutoli
Una rete di ricercatori, studiosi che operano nel campo della conservazione e della salvaguardia del patrimonio ha costituito l’associazione ReUSO ETS il cui scopo è l’organizzazione e la gestione di attività culturali, attività editoriali e l’organizzazione di convegni scientifici. Gli studiosi che condividono le finalità dell’associazione potranno quindi aderire e partecipare alle attività dell’associazione stessa. Tutti gli associati avranno diritto di eleggere gli organi associativi, di essere informati sull’attività dell’associazione e partecipare a tutte le iniziative e le manifestazioni promosse dall’associazione stessa. L’accento è posto sulle tematiche della documentazione, della catalogazione, del rilievo, delle conoscenze specifiche nell’ambito della storia del restauro e della valorizzazione, con la consapevolezza che il patrimonio stesso si evolve e necessita di un adeguamento costante alle esigenze della società della quale costituisce memoria e testimonianza fisica.
ReUSO è un acronimo nato dalla combinazione dei concetti di “restauro” e “uso” in chiave contemporanea e suggerisce quindi lo studio applicativo di diversi campi del sapere, un’applicazione teorica e pratica di tematiche che esprimano in maniera significativa ed emblematica le diverse e possibili modalità di declinazione della conoscenza del Patrimonio e dei relativi processi o progetti di conservazione e riqualificazione. La diffusione di queste conoscenze e del dibattito relativo a livello internazionale costituisce inoltre lo scopo fondante dell’associazione: questo è dimostrato dall’ampio spettro dei contributi presentati nelle varie edizioni dei nostri convegni, provenienti in sostanza da numerosi paesi europei ed extraeuropei, dove è sentita o inizia a sentirsi la problematica della conservazione del patrimonio come elemento fondante della cultura e della società.
Comitato scientifico Adell, José Maria - Arquitecto, Universidad Politecnica de Madrid
De Vita, Maurizio - Dipartimento di Muñoz Cosme, Alfonso - Arquitecto, Architettura, Università di Firenze Universidad Politecnica de Madrid
Bernardo, Graziella - Università degli Studi della Basilicata
Esposito Daniela - Università “Sapienza”, Roma
Sanchez Chiquito, Soledad Arqueologo Consorcio de Toledo
Nanetti, Andrea - Nanyang Technological University, Singapore
Santolaya, Manuel - Arquitecto Consorcio de Toledo
Bevilacqua, Mario - Dipartimento di Garces, Marco Antonio Architettura, Università di Firenze Arquitecto, Junta de Castilla Leon
Onat Hattap, Sibel - Mimar Sinan Fine Arts University, Estambul
Santopuoli, Nicola - Università “La Sapienza”, Roma
Caccia Gherardini, Susanna Dipartimento di Architettura, Università di Firenze
García Quesada, Rafael Universidad de Granada
Perez Arroyo, Salvador - Arquitecto, Hanoi Vietnam
Tiberi, Riziero - Università di Firenze
Cassinello, Pepa - Arquitecto, Universidad Politecnica de Madrid
Gonzalez Moreno-Navarro, Antoni - Arquitecto Diputacion de Barcelona
Picone, Renata - Università di Napoli “Federico II”
Tognon, Marcos - Universidade Estadual de Campinas
Chapapria, Julian Esteban Arquitecto, Universidad Politecnica de Valencia
Ieksarova, Nadia - Odessa State Academy of Civil Engineering and Architecture
Prescia, Renata - Università di Palermo
Segreteria scientifica
Pretelli, Marco - Università di Bologna
Dalla Negra, Riccardo - Università degli Studi di Ferrara
Jurina, Lorenzo - Politecnico di Milano
Monica Lusoli - Dipartimento di Architettura, Università di Firenze
The Author(s) 2020 ISBN 9788833381206
progetto grafico
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didacommunicationlab
DIDA Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 50121 Firenze, Italy
Romeo, Emanuele - Politecnico di Torino
Indice Presentazione Saverio Mecca
10
Contributi introduttivi Rifare a una le parti guaste. Il restauro tra indagine clinica e palinsesto cognitivo Susanna Caccia
12
Restauro. Concetti: orientamenti e tendenze attuali Renata Prescia
16
L’insegnamento del restauro tra criticità e innovazione Sandro Parrinello
20
La conoscenza del patrimonio come premessa indispensabile alla sua corretta conservazione Nicola Santopuoli
24
Uso e “vita” del Patrimonio: strumenti per la conservazione e la valorizzazione Antonella Guida
26
Contributi introduttivi alle tematiche ReUso 2020 Luis Palmero Iglesias
28
ReUso: Riciclare, riutilizzare, ripensare Giovanni Minutoli
36
Restauro. Concetti: orientamenti e tendenze attuali Protezione delle aree archeologiche: interventi di musealizzazione ‘effimera’ su aree fragili D’Aquino Riccardo, Cariglino Serafina, Lembo Fazio Francesca
16
Valorizzazione, turismo, identità e restauro. Alcune considerazioni sui beni culturali in Sicilia Genovese Carmen
26
Superposiciones históricas en edificios religiosos: el caso de Los Retablos Iniesta Muñoz Alejandro
36
La rilettura dello spazio architettonico e dei percorsi liturgici dopo il COVID-19: il caso di S. Gregorio Barbarigo a Roma Maria Dal Mas Roberta
46
Naci en 1168 y mi domicilio sigue siendo el mismo: monasterio de Santa Maria Gradefes Le0n, España Mora Alonso-Muñoyerro Susana, Bellanca Calogero
56
Nuove luci sul castello dei Conti di Biandrate a Foglizzo (TO): il restauro delle sale cinquecentesche tra conservazione e valorizzazione integrata Novelli Francesco
66
Il cantiere di restauro nelle zone di rischio sismico. Un caso di studio Rotilio Marianna
76
L’insegnamento del restauro, della conservazione e delle discipline afferenti L’insegnamento del Restauro dei giardini e dei parchi storici nella Scuola di specializzazione in beni architettonici e del paesaggio di Roma de Vico Fallani Massimo, Accorsi Maria Letizia Restoration and History of Architecture role in international courses: Master’s Degree in Architecture (Restoration) learning experience, at Sapienza University of Rome Santopuoli Nicola, Russo Antonio,Tetti Barbara
86
96
La conoscenza del patrimonio come premessa indispensabile alla sua corretta conservazione Levantamiento y documentacion digital para la conservacion. El area arqueologica de la ciudad de Cassino Cigola Michela, Gallozzi Arturo, Strollo Rodolfo M.
108
Le indagini archivistiche e la valorizzazione del paesaggio storico urbano: dalla sicurezza ambientale alle caratterizzazioni cromatiche Angelucci Federica, Pugliano Antonio, Fei Lorenzo
116
Cornicioni e sistemi di smaltimento delle acque meteoriche dell’architettura tradizionale mediterranea. Conoscenza, durabilita e recupero compatibile nella Sicilia occidentale Campisi Tiziana, Colajanni Simona Studi preliminari per la ricostruzione virtuale della chiesa tardo cinquecentesca della Certosa di Serra San Bruno Canonaco Brunella, Fortunato Giuseppe, Gerace Michele Pietro Pio L’importanza della ricerca d’archivio per un’analisi dello stato di fatto degli edifici storici e delle cause dei fenomeni di degrado: il caso dell’anfiteatro romano di Catania Cascone Santi Maria, Longhitano Lucrezia Castrum Petrae. El patrimonio herido de “San Valentino in Abruzzo Citeriore” Cecamore Stefano
126
136
146 156
“Restauro” del “Moderno”: un ossimoro concettuale divenuto procedurale. La Documentazione del modernismo a Messina fra 1930 e 1965 Cernaro Alessandra, Fiandaca Ornella
166
“Restauro” del “Moderno”: un ossimoro concettuale divenuto procedurale. La Conservazione del modernismo a Messina dal 1945 a oggi Cernaro Alessandra, Fiandaca Ornella
176
Il Parco archeologico di Porto (Fiumicino): conoscenza, conservazione e fruizione Chiavoni Emanuela, Esposito Daniela
186
Il ruolo delle fonti per la conoscenza, la storia e il restauro dell’ex chiesa di Santa Maria del Carmine a Piacenza Còccioli Mastroviti Anna
196
‘Realtà poetica o realtà oggettiva’: il recupero dei sassi di Matera Concas Daniela
206
Il sistema cava-concimaia nella Fossa della Garofala a Palermo Corrao Rossella, Vinci Calogero
216
Geomateriali e paesaggio nell’architettura spontanea del casertano D’Angelo Gigliola, Di Nardo Luisa, Forte Giovanni
226
Il giardino di Palazzo Barberini a Roma. Storia e ipotesi di restauro De Giusti Gilberto, Formosa Marta
234
Il complesso dell’ex Stazione Trastevere a Roma. Studio storico-critico per un possibile re-uso (restauro e uso) Frigieri Chiara, Muratore Oliva
242
Percorsi conoscitivi per una proposta di restauro e valorizzazione della basilica-propileo del Parco Archeologico di Tindari Ghelfi Giorgio
252
Diagnosis de humedades en el lado norte de la girola de la Catedral de Palencia. Afectación de las intervenciones antiguas y recientes Gil-Muñoz María Teresa, López-González Laura
262
Il rilievo per la conservazione degli elementi costruttivi e di finitura: il caso studio delle residenze di Torviscosa (NE Italia) Laiola Giovanna Saveria
272
Modi costruttivi comuni fra centro e periferia nell’architettura militare dell’Impero Romano nel III secolo: i casi di Roma e della Gallia nordoccidentale Mancini Rossana
282
El conocimiento astronómico en el urbanismo de los Austrias: la Puerta del Sol de Madrid y las Huertas de Picotajo de Aranjuez Merlos-Romero Magdalena, Argilés Josep Adell, Hernández-Ayllón Javier Alejo, Martínez García Arturo
290
Ricerca storica e analisi dell’edificato per la valorizzazione dei centri storici: l’esempio di palazzo Piccolo già di Macalda in Ficarra Lusoli Monica
298
The building stratigraphic analysis supporting the structural strengthening and conservation design: a case study in Lebanon Nicolini Laura
308
Da comune autonomo a fragile ‘ospite’ della periferia urbana di Milano: il caso di Cascina Sella Nuova. Studi e documentazione per la conservazione e il riuso Oreni Daniela, Pertot Gianfranco
318
Ricerca umanistica e diagnostica per il restauro. Bologna: Girolamo Curti e Lucio Massari in San Martino (1629) Pigozzi Marinella
328
La ricerca documentale per la conoscenza strutturale. Gli edifici popolari dell’isolato 14/A del rione Giostra di Messina Pisani Francesco
338
Metodologie HBIM e strumenti per l’analisi conoscitiva del patrimonio residenziale moderno nei borghi della r iforma agraria in Italia e Spagna. I villaggi rurali di La Martella e Cañada de Agra Pontrandolfi Raffaele, Castellano Román Manuel, Moya Muñoz Jorge Tecniche edilizie in area romana: il castello di Bracciano in una perizia del 1803 Santopuoli Nicola, Sodano Cecilia Rilievo digitale per la costruzione della memoria - Insediamenti rupestri. I Caforchi di S. Elia il Giovane a Seminara Stilo Francesco
346 356
366
I taccuini per il disegno del territorio e del paesaggio. Documenti grafici del XVIII secolo Tolla Enza, Damone Giuseppe
376
Il patrimonio costiero tra storia e paesaggio: ri-conoscere per valorizzare Turco Maria Grazia
384
Preservare la memoria di una comunità. Restauro e riuso del Monte di Prestiti di Piazza Armerina (Enna) Versaci Antonella, Fauzia Luca Renato, Scandaliato Angela, Cardaci Alessio
396
La conoscenza dei territori danneggiati dal sisma. Catalogazione e rappresentazione dell’interscalarità dei valori paesaggistici. Prime risultanze Vitiello Maria
406
Uso e “vita” del Patrimonio: strumenti per la conservazione e la valorizzazione. Il sito altomedievale di Svac in Montenegro. Recupero strutturale e conservativo Catalano Agostino Las vías verdes en Asturias. La reutilización de una infraestructura ferroviaria obsoleta como parques lineales urbanos y regionales Bargón-García Marina, Plasencia-Lozano Pedro Piani e progetti per la valorizzazione del tessuto urbano de la habana vieja a Cuba Bartolomei Cristiana, Gutiérrez Maidata René, Mazzoli Cecilia, Morganti Caterina, Predari Giorgia Il Tempio di Portuno a Fiumicino. Conoscenza per la fruizione e la salvaguardia del Patrimonio Archeologico Boscolo Anna
418
428 438
448
Chi fu Isaia? Una riflessione sul patrimonio culturale e identità Brasileiro Vanessa, Dangelo André, Pinto Mariana C. F.
458
Beni architettonici, storico-artistici e miglioramento sismico Cifani Giandomenico, Lemme Alberto, Mignemi Antonio, Miozzi Carmeno
466
L’acquedotto Claudio, disfacimento o manutenzione programmata De Cesaris Fabrizio, Ninarello Liliana
478
Gela e polo petrolchimico: tra antichità gloriosa, presente difficile e futuro… green Di Mari Giuliana, Garda Emilia, Renzulli Alessandra, Scicolone Omar
486
Valorizzazione e catalogazione del patrimonio culturale tramite l’utilizzo di immagini a 360° per un’esperienza turistica consapevole ed immersiva Ferrari Federico, Medici Marco, Becherini Pietro
496
Il sistema dei forti militari di tipo rocchi: il caso del forte Venini a Oga (SO). Una valorizzazione consapevole Galanto Carla, Nunziata Antonietta
504
La componente trasparente nel costruito storico: innovazione e sperimentazione Lione Raffaella, Minutoli Fabio, Palmero Iglesias Luis Tendenze e strategie nei progetti contemporanei di riuso museale: spazialità, identità urbana e narrazione negli interventi sulle preesistenze Matarazzo Elisabetta Lugares entre tierra y mar. Los faros y los lugares conspicuos costeros Montemurro Michele, La Vitola Nicola
514
526 536
Come il rischio idraulico ha influenzato la forma del centro storico di Cosenza. Il caso del quartiere di San Giovanni Gerosolimitano Palermo Giuseppe
546
Culture, tradition and innovation in the reuse of the monastic architecture of the city of Valencia Palmero Iglesias Luis, Bernardo Graziella
556
L’ausilio delle nuove tecnologie per la valorizzazione del patrimonio culturale Parisi Angela
564
L’architettura del tessuto urbano del centro Storico di Corleone, analisi e valutazione per un progetto di restauro urbano Marco Ricciarini
572
La dinamica conoscitiva del paesaggio storico e il ‘restauro per la valorizzazione’: l’Atlante Dinamico DynASK (Dynamic AtlaS of Knowledge) Pugliano Antonio, Angelucci Federica, Fei Lorenzo
580
Anfiteatri e contesti urbani: una riconciliazione necessaria. Il ‘Colosseo’ di Catania Sanfilippo Giulia, Ferlito Laura, Mondello Attilio, Salemi Angelo
590
Más que una lista: unas mesas de discusión para el proceso de acercamiento al nuevo catálogo del patrimonio arquitectónico y urbano de Barcelona Scarnato Alessandro
600
Dall’urbano all’edificio: strumenti per la riduzione e la mitigazione del rischio sismico. Il caso di Sestino. Dai piani di recupero alla CLE, una ricerca interdisciplinare Van Riel Silvio
610
Dall’urbano all’edificio: strumenti per la riduzione e la mitigazione del rischio sismico. Il caso di Sestino. L’analisi documentale per la storia urbana e sismica dell’insediamento urbano.
618
Farneti Fauzia Dall’urbano all’edificio: strumenti per la riduzione e la mitigazione del rischio sismico. Il caso di Sestino. Analisi multilivello per l’upgrade della Condizione Limite per l’Emergenza Tanganelli Marco, Paoletti Barbara Dall’urbano all’edificio: strumenti per la riduzione e mitigazione del rischio sismico. Il caso di Sestino. La schedatura per l’analisi della Condizione Limite per l’Emergenza (CLE) Mariano Ornella Dall’urbano all’edificio: strumenti per la riduzione e la mitigazione del rischio sismico. Il caso di Sestino. Valutazione della Condizione Limite per l’Emergenza (CLE): analisi e applicazione all’area amministrativa di Sestino Panella Valentina
626
636
644
Dall’urbano all’edificio: strumenti per la riduzione e la mitigazione del rischio sismico. Il caso di Sestino. La CLE di un aggregato ad alta vulnerabilità e l’analisi delle prestazioni strutturali del teatro “Pilade Cavallini” di Sestino (AR) Parmigiani Lisa Between abandonments and reuses. Recovery strategies of disused architectural heritage: from the analysis to the re-functionalization project of the former Santa Maria Asylum of Collemaggio Verazzo Clara, Nardis Martina Via São Bento nel centro storico di São Paulo-Brasile: linee guida per un piano di conservazione delle facciate dei edifici Vieira Santos Regina Helena
654
664
674
La gestione del territorio e il problema della conservazione dei centri storici e del paesaggio. Uso, vita, economia, rispetto della cultura locale e prospettive. Edilizia storica romana: Cartografia dei danni in scala MCS causati dai terremoti storici. Strumento critico per la valutazione della vulnerabilità sismica Fei Lorenzo, Angelucci Federica, Pugliano Antonio
688
Paesaggi Francescani: rilievo digitale e documentazione dell’Eremo delle Carceri ad Assisi, Umbria Bertocci Stefano, Cioli Federico, Cottini Anastasia
698
L’isola di Ventotene. Riflessioni sul paesaggio e i suoi valori De Giusti Gilberto, Formosa Marta
708
Bollenti spiriti: la via pugliese della rigenerazione urbana Di Mari Giuliana, Garda Emilia, Lococciolo Leonardo, Renzulli Alessandra
718
La torre di Montecatino: la conoscenza come valorizzazione del sistema difensivo territoriale della Repubblica di Lucca Fenili Gianluca
728
L’ulivo e i portali monumentali in Sardegna: tradizione locale e ‘innesti’ culturali esogeni. Restauro, tutela e valorizzazione Putzu Maria Giovanna
736
Valorizzazione dei frammenti e delle rovine classiche nella città contemporanea Romeo Emanuele, Rudiero Riccardo
746
simposio internazionale
REUSO 2020 Restauro: temi contemporanei per un confronto dialettico
Presentazione Saverio Mecca
Saverio Mecca
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze
Nel presentare il testo che raccoglie i contributi selezionati per la pubblicazione, non posso non segnalare le difficoltà che il comitato organizzatore del Simposio Internazionale Reuso 2020 Restauro: temi contemporanei per un confronto dialettico ha dovuto affrontare per gestire questa iniziativa durante l’emergenza prodotta dal Covid19. Il Simposio ha dato la possibilità agli studiosi di continuare a pubblicare i loro contributi, sintesi di ricerche scientifiche o di qualificate esperienze professionali, all’interno di una piattaforma qualitativa; ha garantito – come negli anni precedenti – la continuità scientifica dei temi trattati all’interno di un costante e vivo dibattito interdisciplinare che non ha confini né barriere nazionali; ha permesso inoltre di attivare ricerche interdisciplinari che hanno visto coinvolte le discipline fondanti della Conoscenza, della Valorizzazione e del Restauro, cioè la Storia dell’Architettura, il Disegno e Rilievo e il Restauro. Questo simposio, che trova i suoi precedenti nei convegni organizzati a partire dal 2013, rappresenta un punto di incontro importante a livello internazionale per confrontare le varie tendenze disciplinari legate al tema della conoscenza, tutela architettonica ed ambientale che collega il dibattito sul restauro nelle molteplici e variegate sfumature. «In Europa, e non solo, uno degli aspetti più emblematici della conservazione del patrimonio architettonico, paesaggistico, archeologico e storico artistico è quello dell’uso compatibile. Questo risulta uno dei nodi emblematici della cultura architettonica contemporanea. Il restauro non è il semplice ripristino, il risarcimento di una struttura, la riparazione funzionale e il rifacimento, non è il cosidetto riuso con i suoi derivati rivitalizzazione, rivalutazione, riabilitazione, rianimazione, recycling, recupero, rigenerazione, conversione o ammodernamento. Il restauro afferma che ogni intervento costituisce un caso a sé, non inquadrabile in categorie, non regole prefissate, ma da interpretare con originalità, caso per caso, nei suoi criteri e metodi. Sarà la preesistenza interrogata con sensibilità e preparazione storico-critica e con competenza tecnica e tecnologica a rispondere e illuminare l’uomo colto» (Bellanca, Mora). Reuso nasce nell’alveo delle Scuole di Architettura, ad opera del Comitato Fondatore con una precisa direttiva; diventare un momento di aggregazione e confronto fra studiosi sulle tematiche legate al mondo del restauro con cadenza annuale e alternanza fra Spagna e Italia, con la possibilità di svolgere il convegno in altri paesi. Da Madrid
10
2013 a Matera 2019 si è tenuto a Firenze (2014), a Valencia (2015), a Pavia (2016), a Granada (2017), a Messina (2018) e facendo una dovuta eccezione a Matera, capitale delle cultura europea nel 2019. Naturalmente parte integrante doveva essere, e lo è stato, la partecipazione degli architetti professionisti che con i loro contributi arricchiscono il confronto fra teoria e prassi operativa, confronto sempre stimolante. Quest’anno avrebbe dovuto ritornare in Spagna ed era tutto pronto per ospitare gli studiosi in una delle sedi più belle e storiche della penisola iberica: Toledo, città affascinante e ricca di significative stratificazioni culturali e avrebbe accolto gli studiosi nel migliore dei modi, seguendo la consolidata tradizione del convegno. Purtroppo l’attuale situazione ha costretto gli organizzatori a ripiegare sulla soluzione del Simposio sviluppato su sistema telematico, giungendo comunque a raccogliere numerosi contributi grazie all’opera del comitato organizzatore e all’entusiasmo con cui hanno risposto gli studiosi. Però l’appuntamento con Toledo è solo rimandato al prossimo anno, nell’augurio che, finalmente, l’emergenza sanitaria sia stata debellata. Nel testo sono raccolti i contributi, circa settanta, oltre ogni più rosea previsione, che hanno trattato i temi specifici che caratterizzano con sfumature sempre diverse i temi del restauro; in questa sessione di studio sono state previste le seguenti linee tematiche: 1. Restauro. Concetti: orientamenti e tendenze attuali. 2. L’insegnamento del restauro, della conservazione e delle discipline afferenti. 3. La conoscenza del patrimonio come premessa indispensabile alla sua corretta conservazione. 4. Uso e “vita” del Patrimonio: strumenti per la conservazione e la valorizzazione. 5. La gestione del territorio e il problema della conservazione dei centri storici e del paesaggio. Uso, vita, economia, rispetto della cultura locale e prospettive. La lettura di questi contributi può quindi sollecitare nella memoria comune la profonda convinzione che il Patrimonio non sia solo memoria storica, ma uno stimolo ed una grande opportunità per la costruzione “condivisa” del nostro futuro.
11
Rifare a una le parti guaste. Il restauro tra indagine clinica e palinsesto cognitivo Susanna Caccia
Susanna Caccia
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze
S. Caccia Gherardini, L’eccezione come regola. Il paradosso teorico del restauro/ The Exception as the Rule: The Paradox of Restoration, Firenze 2019. 2 Sul tema tanto importante e complesso per il restauro del rapporto tra iconologia e anacronismo delle immagini, cfr. G. Didi-Huberman, Archeologia dell’anacronismo, in Id., Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Torino 2007, pp.59 e sgg. 3 S. Caccia Gherardini, Elogio della cura. Il progetto di restauro: orientamenti critici ed esperienze/ In praise of care. The restoration project: critical orientation and experience, Pisa, Ets 2012. 4 M. De Certeau, L’invention du quotidien, Paris 1990. 1
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“Rifare a una cosa le parti guaste, e quelle che mancano, o per vecchiezza, o per altro accidente simile, il che diremmo anche, ma in modo basso RABBERCIARE, RINNOVARE”. (Lemma RESTAURARE, e RISTAURARE. Vocabolario degli Accademici della Crusca, 1612)
La contraddizione di cui vive ancora oggi la disciplina del restauro potrebbe trovare le sue radici storiche nell’impossibilità di ridurre una questione tanto complessa a un approccio manualistico, quasi a voler dimenticare che soprattutto per il restauro la codificazione di “regole” sul come procedere sarebbe un’impresa quasi impossibile1. In primo luogo per l’“unicità”, singolarità, individualità del manufatto, che talvolta rischia di farci dimenticare le archeologie dei saperi. In secondo luogo, per la complessità e le dinamiche d’approccio a ogni manufatto, suscettibili di continui revisionismi che comportano riposizionamenti critici nei confronti del tempo storico che l’opera fissa e del tempo in cui il progetto vive, ma anche del brusio, a volte assordante, che la loro differenza produce. Da qui l’esigenza di tenere in mente che l’anacronismo è la condizione quotidiana per chi opera sui manufatti storici, antichi o moderni che essi siano, ma anche e soprattutto che il restauro si configura come un intreccio di azioni2. Un intreccio che troppo spesso le Università sembrano voler dimenticare, separando e specializzando gli stessi insegnamenti. Ciò può comportare che il dipanarsi del pensiero critico, a fondamento del restauro, sia relegato a mero esercizio retorico, mentre gli aspetti progettuali rischiano di scivolare lentamente verso derive tecnicistiche o immaginifiche3. La necessità è quella di reimpostare il problema delle varie anime che confluiscono nel progetto di restauro, indicando strumenti che rispondano alla complessità dei fenomeni e delle culture, per rendere meno complicata quell’ invention du quotidien che caratterizza gli aspetti operativi4. Conservazione, permanenza, gestione del degrado, sono alcune tra le molte parole che la nostra disciplina ha, da tempo, chiarito e divulgato anche attraverso Carte e documenti internazionali. Tuttavia, si è radicata, soprattutto nel confronto tra cultura d’Oriente e d’Occidente, una diversa concezione del tempo (e di conseguenza di cambiamento, divenire, durata e quindi di permanenza) e dell’efficacia che si pretende dall’intervento.5 Concezioni che hanno portato per esempio a privilegiare la prevenzione o la manutenzione programmata rispetto al più traumatico intervento di restauro che, nella gran parte delle culture non europee, è ancora legato a un’immagine del patrimonio fissa e immutabile, fuori dal tempo. Posizione quest’ultima che legittima il rifacimento in stile di molti edifici “monumentali” e che si fonda sul mito di una possibile
origine cui rimandare gli attori della conservazione di un bene. Una origine che ha segnato scuole di pensiero, accademie, pubblicistiche di diverse nazioni e che non può essere staccata dal sempre più ideologico conflitto che è aperto da decenni sull’ossessione identitaria.6 Senza insistere sugli aspetti cognitivi del patrimonio, trattati in vari contesti e pubblicazioni, la necessità è ancora oggi quella di restituire il percorso del processo critico, cercando di esporre in maniera chiara e lineare le sue possibili fasi. Chi scrive ritiene importante insistere sulla natura processuale del progetto, con tutte le verifiche documentarie e diagnostiche che questo comporta, prima, durante e anche dopo, nella fase del cantiere, sempre anch’essa occasione di conoscenza. Una scelta desunta certo dalla cospicua letteratura sull’argomento, che ha contribuito a consolidare e a divulgare le fasi tecniche e scientifiche del processo, ma anche espressione di una concezione del progetto di restauro come sapere clinico, nel riferimento alla definizione di quel “metodo” che ne da Gilles Gaston Granger nell’ Enciclopedia Einaudi.7 C’è un’altra considerazione che motiva la volontà di fare chiarezza: il proliferare di una vasta produzione scientifica e manualistica nel settore del restauro8. A rendere ancora più difficile il maturare di un corretto atteggiamento “clinico” verso il restauro, contribuisce il ruolo sempre più pressante e invasivo di una pubblicistica commerciale, divulgata on-line, favorendo, certo non da sola, alla messa in crisi di uno dei pilastri fondativi della disciplina, ovvero la critica delle fonti che la natura cumulativa delle informazioni in rete certo non facilita9. Per ricondurre la complessità del progetto di restauro - tanto evocata quanto spesso poco resa esplicita teoricamente - a una strategia capace di elaborare un pensiero critico e a portare avanti scelte tra storicismi e temporalità che l’opera intreccia, bisogna partire dagli aspetti cognitivi del patrimonio e dalle relazioni tra cambiamento e permanenza. L’identità di un bene si riconosce anche attraverso le sue trasformazioni e la continuità o permanenza di “quel” bene, rispetto ai suoi possibili cambiamenti fisici e antropici, portano a privilegiare due parole, con tutte le epistemologie storiche che si portano dietro - stratificazione e palinsesto. Da qui il passo al riconoscimento del valore e alla comprensione dei linguaggi10, al rilevamento e alla diagnostica, come preludio ma anche materia dell’elaborazione progettuale, è breve, ma tutt’altro che consequenziale. Anche perché il restauro esige quella “mediazione di cultura e scienza”11 che ha la capacità di fornire strumenti per la comprensione e l’osservazione del patrimonio, recuperando due tradizioni: quella latina di observare, come atto di custodire e sorvegliare, e la conoscenza non ingenua delle Meditazioni di Edmund Husserl .12 L’obiettivo di queste riflessioni è duplice: acquisire un approccio critico al processo di restauro e strutturare un progetto “aperto” che lasci spazio per verifiche successive (estensibili ovviamente alla fase post cantiere), mostrando il carattere fortemente intrecciato dei saperi e delle pratiche che confluiscono nel processo stesso. Il contesto culturale in cui si realizza oggi questa messa in discussione è sempre più internazionale. Per questo oggi è quanto mai utile riflettere sul glossario, sui vocaboli del restauro, per poter procedere nell’esercizio che si crede fondamentale di ogni pratica scientifica: quello della comparazione, estesa anche alle parole che quel processo sono chiamate ad esprimere13. Una meditazione che appare ancor più irrinunciabile in un mondo dove la comprensione dei termini che si usano è fondamento dei mestieri e delle pratiche, delle opere e dei confronti, spesso aspri, tra valori certo, ma anche tra professioni-
F. Julien, Trattato dell’efficacia, Torino 1996. 6 F. Remotti, L’ossessione identitaria, Bari 2010. 7 G. G. Granger, Metodo, in Enciclopedia Einaudi, Torino 1982, 9, pp.160-188. 8 Tra i molti manuali esistenti un riferimento restano comunque i volumi editi dalla Utet tra cui il recente aggiornamento di S. Musso, cfr. S. F. Musso (a cura di), Tecniche di Restauro. Aggiornamento, Torino 2013. 9 M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Bari Roma 2012. 10 S. Caccia Gherardini, Connaissance et reconnaissance. Il restauro tra documento, interpretazione, techne, in S. Musso, M. Pretelli (eds.), Restauro Conoscenza Progetto Cantiere Gestione, Roma 2020, pp.79-84. 11 M. A. Giusti, Temi di restauro, Torino 2000. 12 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale Torino 2002. 13 S. Caccia Gherardini, Le “Mots-Matière”. Alcune riflessioni tra glossario e linguaggio scientifico per il restauro, in M. Palma Crespo, M.L. Gutiérrez Carrillo, R. Garcia Quesada, Sobre una arquitectura hecha de tiempo, Granada 2017, pp. 115-122. 14 U. Eco, Dire quasi la stessa cosa: esperienze di traduzione, Torino 2003. 15 F.Hartog, Règimes d’historicité. Tresentisme et expérience du temps, Paris 5
2003.
13
Susanna Caccia
sti, imprese e poteri pubblici. Nella piena coscienza che anche lo strumento dei saperi empirici è oggetto non solo di conoscenza e di critica, ma anche di continua rifondazione, come la migrazione di significati che le traduzioni da sempre veicolano e mutano.14 Un glossario che dovrebbe essere insieme premessa e sintesi del nostro lavoro, perché nasce su basi epistemologiche e di verifica sui singoli casi. Con un’avvertenza. Il restauro appartiene, più di altri saperi a quello che oggi si chiama histoire du temps présent, le cui radici sono certamente in Marc Bloch, ma che ha conosciuto uno sviluppo straordinario come ricostruisce già nel 2003 François Hartog.15
Pagina successiva Firenze, vista aerea
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Restauro. Concetti: orientamenti e tendenze attuali Renata Prescia
Renata Prescia
Dipartimento di Architettura, Università degli studi di Palermo
In Italia ratificata con legge 133 dell’1.10.20. 2 S. Caccia Gherardini, Connaissance et reconnaissance. Il restauro tra documento, interpretazione, techne, in S.F. Musso e M. Pretelli (coordinamento), Restauro Conoscenza Progetto Cantiere Gestione, atti del II Convegno SIRA, sez. 1.1. Conoscenza previa (preventiva) e puntuale (mirata). Metodologie, a cura di A. Boato, S. Caccia Gherardini ed. Quasar, Roma 2020, pp. 79-84. 1
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Nel primo topic del più generale convegno Reuso, “restauro: temi contemporanei per un confronto dialettico” sono confluiti stimolanti interventi sulle dialettiche tra Conservazione e Accessibilità, sugli ambiti degli edifici religiosi e delle aree archeologiche, su Conservazione e sicurezza, ancora nell’ambito di edifici religiosi colpiti da sisma, su Conservazione e Riusi, sugli ambiti di chiese e monasteri e dei castelli, esemplificati su esperienze concrete, insieme ad una riflessione sull’impatto che il turismo può indurre sulla tutela dei monumenti, in specie archeologici, in nome della ‘valorizzazione’. Sono di fatto i temi centrali su cui si dibatte oggi, e non solo nel campo del restauro, ma più estensivamente nel territorio dell’architettura, alla luce del nuovo senso da dare al Patrimonio così come in Italia si va costruendo a partire dall’emanazione del Codice dei beni culturali (d.lgs 42/04) e, a livello internazionale, con la pubblicazione della Convenzione di Faro (2005) , divenuta anch’essa normativa in molti Paesi1. L’operazione di ri-conoscimento, così come teorizzato da Cesare Brandi, si amplia, dall’ambito ristretto degli specialisti, all’ambito ben più grande della collettività richiedendo nuovi spunti di riflessione 2 e, con essa, si ampliano i valori che, dal piano tradizionale ‘storico-artistico’ si spostano su diversi piani, primo fra tutti quello antropologico, innescando inevitabili ‘conflitti di valori’ . Questo termine richiama inevitabilmente la riflessione di Alois Riegl che, se avesse avuto più successo nel corso del Novecento, avrebbe potuto indirizzare in termini di tutela prassi diverse da quelle che si sono verificate appunto nel secolo scorso. Ma ora la questione diventa centrale anche per la nuova attenzione prestata al riuso3 e richiede, soprattutto per il patrimonio moderno, che è quello oggi a cui più si riguarda per ovvi motivi cronologici, nuove prassi e una profonda revisione degli statuti disciplinari, rivedendo anche i modi di fare formazione. Per la gestione dei conflitti e il loro auspicabile contemperamento possono tornare in scena quegli ‘specialisti’ che, alla luce dei nuovi contesti, hanno saputo coniugare le loro profonde competenze in tema di patrimonio a quelle di solving manager capace di assicurare la massima permanenza delle testimonianze, sia in termini di materia che di significato, con un raggiungimento di effetti benefici per le comunità tutte, identificando la cura del patrimonio culturale con la crescita del paese. Questo significa anche passare dal progetto al processo cercando di anticipare i già citati conflitti di valori nella fase di prevenzione o in una fase istruttoria, la cosiddetta ‘magistratura di cura’, ancora una volta sulla scia di Riegl, a cui sarebbero chiamati non solo i membri degli organi di tutela ma anche rappresentanti dei vari interessi4.
La ricerca multidisciplinare diviene condizione necessaria «perché i complessi meccanismi attraverso i quali il patrimonio culturale produce valore economico e sociale siano attivati proprio in una eterogenea ed estesa rete dei luoghi, dove ogni parte trovi il suo spazio specifico anche attraverso una cooperazione della ricerca tra scienze naturali, tecnologia, scienze sociali e scienze umane» 5. Conciliare queste nuove esigenze senza per questo tradire i valori dell’architettura, innanzitutto monumentali, per proporne un ruolo rinnovato all’interno del contesto urbano e sociale è uno dei compiti che ci attendono in questo prossimo futuro, così come quelli della gestione nel tempo della nuova utilizzazione adottata6. Di questo ci parla il contributo (Roberta Dal Mas) sulla chiesa di S. Gregorio Barbarigo a Roma, che può servire da riferimento in una prassi di casi analoghi, nell’ambito degli edifici religiosi. Adeguamenti indotti da normative che non vengono interpretati soltanto come atti di necessaria osservanza ma come occasioni per reinterpretare e valorizzare l’ architettura. Un tema che consente di riassorbire le soluzioni esclusivamente tecnologiche in un processo di scelte di più ampio orizzonte culturale, senza rinserrarsi nelle secche di una conservazione assoluta ma optando invece per proposte di restauro sostenibile. Come del resto viene verificato anche nel saggio illustrante l’intervento di protezione del sito archeologico di Acquarossa (VT) (gruppo di lavoro coordinato dall’arch. Riccardo D’Aquino) in cui l’obiettivo della protezione dagli agenti atmosferici viene reso all’interno di una proposta più complessiva che si configura come un vero e proprio atto critico di restauro che, senza limitarsi alla più tradizionale ricostruzione filologica di quanto perduto, si affida all’invenzione di forme nuove, effimere, da non leggere solo all’interno di una reversibilità, anche utopica, ma piuttosto come ricerca di un nuovo modo, più contemporaneo, di dialogare con le preesistenze. Esse peraltro consentono anche una migliore comunicazione di un sito complesso quale è sempre un sito archeologico, per un più ampio ambito di fruitori, anche di gente comune. La comunicazione diventa anch’essa un ingrediente centrale di un progetto di restauro contemporaneo che costringe il progettista a narrare in maniera piana, le sue scelte, come è stato fatto nel caso del progetto di valorizzazione integrata (saggio di Francesco Novelli), al termine di un canonico processo metodologico di conoscenza e conservazione, del Castello dei conti di Biandrate a Foglizzo che, quale soggetto portatore di un patrimonio di cultura materiale storicamente sedimentata, è diventato oggetto di condivisione delle comunità attraverso il coinvolgimento delle scuole, con la realizzazione di mapping museali, e la progettazione di minimi adeguamenti impiantistici per ampliarne l’accessibilità. Oggi, alla luce di situazioni sempre più complesse per quanto detto in premessa, ogni progetto di architettura e/o di restauro, perché sia rispondente al massimo grado alle esigenze della committenza da un lato e alla condivisione dei fruitori dall’altro, deve saper proporre un ventaglio di opzioni, al variare dei gradienti valoriali. Questo è il tema che è chiaramente delineato nel saggio di Muoz, esemplificato su una serie di chiese in Spagna a proposito di opere artistiche. I frequenti spostamenti di opere d’arte all’interno di edifici religiosi per la variabilità nel tempo di esigenze ecclesiastico-liturgiche, con i conseguenti diversi allestimenti, o i ritrovamenti di più antiche decorazioni nel corso di nuovi restauri, impongono delle scelte che, abbandonando le ideologiche dialettiche opposte demolire/mantenere, si muovono nella direzione del contemperamento, anche ricorrendo all’utilizzo di nuove tecnologie e nuovi materia-
Vedi, tra le varie iniziative due per tutti, D.Fiorani, L.Kealy, S.F.Musso ed., Conservation-adaptation. Keeping alive the spirit of the place adptive reuse of heritage with symbolic value, EAAE Transactions on Architectural Education n. 65, EAAE, Hasselt (Belgium), 2017 e gli atti del tradizionale convegno di Bressanone 2019 “Il patrimonio culturale in mutamento. Le sfide dell’uso” . 4 S. Scarrocchia, Metodologia per la progettazione del restauro, in E.Palazzotto (a cura di), Esperienze nel restauro del moderno, ed. F.Angeli, Milano 2013, pp. 61-66. 5 Cfr l’esperienza dei Contamination Lab, previsti dal PNR 2015-20 e realizzati in molte università italiane; e le nuove affermazioni in tal senso nel PNR 2021-7 che ci apprestiamo a seguire. 6 C. De Biase, Riuso, in Abbecedario minimo: parte VII, in “Ananke”, 78, maggio 2016, pp. 40-42. 3
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Renata Prescia Pagina successiva Cappelle medicee, Firenze
F. Gurrieri, Prospettive per un rinnovato ruolo del restauro, in “Techne”, 12, 2016, pp. 27-32. 8 R. Prescia, Comunicare il restauro, in D.Fiorani (coordinamento), RICcerca/ REStauro, atti del I Convegno SIRA, sezione 4, Valorizzazione e gestione delle informazioni, a cura di R. Prescia, ed. Quasar, Roma 2017, pp. 867-877. 7
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li per consentire la migliore coesistenza. Anche in questo, come nei saggi di D’Aquino e Novelli, è evidente il rapporto con le discipline museologiche e museografiche: un rapporto molto integrato con il restauro negli anni ’60 e poi perduto per la ricerca delle progressive specializzazioni. Oggi invece anche questo è tornato di grande attualità ed apre ad interessanti connessioni 7, che sostituiscono l’evocazione e la ricreazione ad aggiunte spesso invasive. Naturalmente sul tema dell’uso e della fruizione è entrato a gamba tesa il processo pandemico in atto per il Covid-19 che ha determinato agli occhi di tutti una battuta d’arresto ai modi di vita e di fruizione degli spazi avviando un processo di ripensamento dei tipi di fruizione fondati sulla riduzione della numerosità e degli assembramenti, il ricalcolo delle distanze di prossimità, il ripensamento di concetti quali l’equilibrio, la misura, la lentezza, la solidarietà. Ma anche la restituzione di valori a luoghi che erano sfuggiti dal nostro ambito d’interesse (campagne, aree interne, architetture dismesse) per la concentrazione su luoghi privilegiati di attrazione (metropoli e grandi opere). Tra le architetture dismesse in cui prevalentemente si pongono le grandi fabbriche industriali, le grosse infrastrutture demaniali e militari, rientrano anche i grandi complessi religiosi che, al pari delle prime hanno perso la loro originaria destinazione d’uso, non più rinnovabile. Ma anche in questi casi, soprattutto laddove una pur esigua presenza religiosa è sopravvissuta, se il progetto di restauro è capace di ripercorrere, attraverso la lettura delle tracce di un lungo processo temporale, come nel caso del monastero di S. Maria Grafedes a Léon, in Spagna (contributo di S. Mora Alonso-Munoyerro, C. Bellanca), è possibile rivitalizzare il senso di una comunità che decida di aprirsi alla condivisione di una comunità e di un luogo, prestando attenzione a gruppi fragili (anziani, senza-casa, tossico-dipendenti) e offrendo opportunità (di lavoro, di svago, di studio) a giovani. Tutto ciò riporta ad un ritorno ai valori fondanti della cultura del restauro che, lasciatisi indietro i cinquantennali dibattiti su antico e nuovo, recupera al suo interno anche i temi della valorizzazione, come misura per risignificare un monumento e per aumentare la crescita culturale, sociale ed economica delle comunità8. Anche in questa prospettiva il dibattito è stato riaperto dalla pandemia dopo anni in cui la valorizzazione, in tempi di forte crisi economica, è stata interpretata come un modo per fare cassa, quasi esclusivamente a fini turistici, come ci suggerisce il denso contributo sull’utopia siciliana (saggio di Genovese) .
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L’insegnamento del restauro tra criticità e innovazione Sandro Parrinello
Sandro Parrinello
Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura, Università degli studi di Pavia.
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L’insegnamento del restauro nei corsi di architettura ed ingegneria rappresenta oggi una sfida culturale ancor più importante rispetto a quanto già non lo fosse qualche anno fa. Il processo di globalizzazione maturato negli ultimi decenni ha interessato positivamente le realtà universitaria avendo, come uno dei tanti risultati, lo sviluppo di un panorama internazionale di allievi anche nelle piccole università italiane. Molti di questi studenti sono attratti da quelle competenze per cui l’Italia espone un primato indiscusso, come nel design, nella moda e nelle pratiche di gestione del patrimonio storico. In questa ultima disciplina rientrano materie come il disegno, il rilievo architettonico, il restauro e la conservazione e, in generale un’ampia gamma di atteggiamenti culturali, trasversali ai diversi insegnamenti, tesi a sviluppare un’attenzione verso la protezione dell’identità storica dei luoghi e della cultura in genere. Da questi atteggiamenti, che si possono declinare su molteplici attitudini della quotidianità, si genera una filosofia o coscienza etica comune, propria del nostro sistema paese. A questa importante attenzione che deve essere rivolta al costruito vengono però a scontrarsi i numerosi fattori che rendono tale insegnamento e tale presupposto culturale sempre più complesso e importante. Principalmente è possibile ravvisare due aspetti, da un lato modelli culturali profondamente diversi, per i quali il concetto stesso di restauro entra in contraddizione con principi storici, anche religiosi, di come i luoghi devono apparire, dall’altro la propensione a modelli economici che producono ricchezze effimere, che subentrano nei processi di gestione del territorio a discapito della qualità. Credo sia importante parlare di qualità perché il restaurare non si può riassumere con il mantenere una patina che esplicita una stabilitas loci su di una facciata di un fabbricato, come viene troppo semplicisticamente letto in molti paesi, ma coincide con una ricerca sulle tecniche costruttive, sui materiali e sulle vicende che hanno qualificato la vita di un luogo al fine di acquisire conoscenze che rischiano di venir dimenticate. I paesi in cui oggi è più complesso parlare di restauro sono proprio quei paesi in cui nell’ultimo secolo sono andate perdute le maestranze e le competenze tecniche per operare in un certo modo. In queste realtà il patrimonio storico è destinato a sparire, o per mancanza di interventi di conservazione, o per la messa in opera di interventi di conservazione che coincidono con pratiche di demolizione e ricostruzione. In questo complesso panorama dunque l’importanza del restauro, non tanto come disciplina tecnica ma come vera e propria filosofia culturale, assume un ruolo determinante a tutela e salvaguardia di una dimensione storica delle civiltà che ogni giorno perdiamo sempre di più.
Non si tratta quindi della capacità di proteggere un monumento o le tracce di una modalità costruttiva per mettere in opera significati propri di un momento passato, ma dell’attenzione ad un sistema paesaggio, inteso come il sedimentarsi di significati che originano un certo luogo, nella sua più ampia accezione. Del resto la base culturale, su cui si radicano le diverse civiltà, mostra i diversi approcci alla disciplina del restauro. Questa considerazione fa emergere come la disciplina del restauro sia tra le più ‘sensibili’ al contesto socio-culturale in cui viene trattata. Un elemento significativo di memoria classica è il paradosso della nave di Teseo in cui si narra che l’imbarcazione del mitico eroe greco si fosse conservata intatta nel corso degli anni grazie alla sostituzione sistematica degli elementi ammalorati, così che, a distanza di numerosi decenni, la nave si presentasse nella sua forma originaria e in perfetto stato di conservazione anche se nessuno degli elementi costitutivi era quello presente in origine. In questo paradosso l’interrogativo è se sia più importante conservare l’immagine degli oggetti iconici o se sia meglio conservarne la materia. Questo dualismo trova anche un concreto riscontro nelle diverse religioni professate principalmente in oriente e occidente: se per i Cristiani la reliquia, e quindi la materia, è essenza della divinità tanto che con il solo contatto si entra in ‘relazione’ con la divinità, nelle religioni orientali il corpo, e quindi la materia, non è rappresentazione del divino. a tal punto da prevederne la cremazione dopo la morte. La perpetuazione del culto avviene tramite l’immagine, dipinta o scolpita, della divinità. La conservazione degli antichi templi Buddisti o Scintoisti è garantita attraverso la sostituzione continua degli elementi ammalorati, assicurando la preservazione dell’immagine degli edifici. La conservazione delle chiese Cristiane è garantita attraverso interventi mirati al rallentamento dell’invecchiamento dei materiali e delle strutture, limitando le sostituzioni e le integrazioni esclusivamente agli elementi strutturali. Il paradosso della nave di Teseo, con il dualismo del conservare l’immagine o conservare la materia, sancisce la differenza tra visione orientale e occidentale della disciplina del restauro. Si tratta di uno degli aspetti e delle concezioni della cultura della conservazione (in questo caso ascrivibili al principio dell’autenticità) che rendono particolarmente complessa la trasmissione e la condivisione di criteri ed anche tecniche restaurative a livello internazionale. Lo stesso principio può essere esteso dunque non solo al manufatto in quanto oggetto, ma al paesaggio come risultato di eventi, ai giardini, ai sistemi naturalistici o a più complessi sistemi antropici. Ecco perché si parla di restauro urbano, restauro del verde, restauro archeologico ecc.. Restauro inteso come quella capacità di riabilitare certe funzionalità di un determinato contesto, senza alterare le proprietà significanti che lo determinano. Soffermandosi sugli aspetti specifici della formazione universitaria appare chiaro quanto, nel pieno e totale rispetto delle differenze culturali, degli approcci spesso lontani che le diverse culture riservano ai temi ed alle esperienze della conservazione — anzi proprio per questo motivo — le nostre aule ed insegnamenti possono contribuire alla crescita di un percorso conoscitivo internazionalmente condiviso dei manufatti e del territorio storicizzato, per la conservazione attiva e propositiva del patrimonio architettonico quale bene culturale internazionale. Se il restauro è una disciplina di sintesi, che determina scelte progettuali in funzione di una complessità e compresenza di saperi tecnici diversi e complementari, educare a questa prassi richiede l’integrazione di numerose conoscenze. Dalla capacità di
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Sandro Parrinello Pagina successiva Il trionfo di San Tommaso d’Aquino, dettaglio, Andrea di Bonaiuto, 1343-1355, Cappellone degli Spagnoli, Chiesa di Santa Maria Novella, Firenze
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gestire progetti di conoscenza che pongano a confronto indagini storiche, rilievi digitali, diagnostica invasiva e non, analisi fisico-chimiche ecc., la lettura critica dell’esistente si articola in un rapporto molto stretto e in un legame profondo con il disegno e la rappresentazione. Partendo da tali sinergie e da un impianto metodologico forte e condiviso si creeranno i presupposti per un confronto rispettoso delle specificità culturali e territoriali di operatori e luoghi. In questa sessione del convegno sono solo due gli interventi proposti: “L’insegnamento del restauro dei giardini e dei parchi storici nella Scuola di specializzazione in beni architettonici e del paesaggio di Roma” e “Restoration and History of Architecture role in international courses: Master’s Degree in Architecture (Restoration) learning experience, at Sapienza University of Rome”. Non solo due interventi romani, che esplicitano così la vivacità dell’ateneo in questo specifico ambito, ma due interventi che parlano dell’insegnamento del restauro in due direzioni trasversali a quanto già consolidato, ponendo al centro del dibattito la necessaria internazionalizzazione di questo insegnamento e la necessaria rivisitazione di alcuni paradigmi in funzione di una sua più esplicita applicazione di concerto con altre discipline.
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La conoscenza del patrimonio come premessa indispensabile alla sua corretta conservazione Nicola Santopuoli
Nicola Santopuoli
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
L. Floridi, La quarta rivoluzione - Come l’infosfera sta trasformando il mondo. Raffaello Cortina Editore, 2017. 2 F. Azzariti, P. Mazzon, Il valore della conoscenza – Teoria e pratica del Knowledge management prossimo e venturo, Etas Editore, Milano, 2005. 3 T. Montanari, Patrimonio e coscienza civile, Castelvecchi editore (Lit Edizioni), Roma, 2020. 4 Ricordiamo anche la Carta di Amsterdam (1975), nella quale viene sancito il principio della conservazione integrata, e la Carta di Washington (1987) per la salvaguardia delle città storiche. 5 Si pensi in questo ambito all’importanza fondamentale di un percorso conoscitivo di tipo critico sugli edifici esistenti: si veda, ad esempio: S. Van Riel, Consolidamento e prevenzione antisismica. Alcune riflessioni, Kermes, anno XXVIII n. 100, ottobre-dicembre 2015, pp. 37-39. 1
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In questa introduzione al tema della sezione mi limiterò, per evidenti motivi di spazio, soltanto ad alcune sottolineature sul tema, anche in un senso più ampio rispetto all’ambito dei beni culturali, peraltro senza alcuna ambizione di completezza. La prima osservazione è che negli ultimi due decenni il tema della conoscenza è diventato sempre più di importanza cruciale, per la società nel suo complesso e per ciascuno di noi come singoli individui immersi nella cosiddetta infosfera1 (l’insieme delle informazioni e dei mezzi di comunicazione), a tal punto che ormai il termine knowledge society2 (società della conoscenza) è entrato a far parte del linguaggio comune. Se adesso volgiamo lo sguardo alla conoscenza nel campo specifico del patrimonio naturalistico, paesaggistico e culturale, è immediatamente evidente, ancor più in questo momento di pandemia globale, come essa rappresenti un valore di importanza fondamentale, da vari punti di vista. Intanto, questa conoscenza rappresenta un forte elemento identitario, capace di far sentire i singoli individui, costretti a pratiche di distanziamento sociale, parte di una stessa comunità, attenuando la paura di ciascuno ed il rischio di un ripiegamento su una visione individualistica esasperata. Inoltre, va anche sottolineato che ogni azione finalizzata alla conoscenza del territorio e delle sue risorse sociali, naturali e culturali favorisce inevitabilmente la crescita di processi economici, in particolare di un’economia legata ai vari aspetti della vita e delle culture locali. Infine, c’è un ultimo aspetto, che potremmo chiamare metodo o pensiero critico, sicuramente favorito dalla conoscenza di cui sopra, per spiegare il quale dobbiamo rifarci ad un testo fondamentale, vale a dire l’articolo 9 della nostra Costituzione: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura […]. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». A commento, Tomaso Montanari di recente, in un breve ma provocante dialogo, ha affermato3 che esso nasce dalla convinzione che <<la cultura funga da vaccino per la neonata Repubblica contro il ritorno di qualunque fascismo. Concetto Marchesi, grande latinista siciliano e professore all’Università di Padova, disse in Costituente: «Il presidio della Repubblica non sarà più l’esercito, ma la scuola>>. L’idea collettiva guarda a una Repubblica fondata sull’istruzione, sulla conoscenza e sulla cultura […]». A questo punto, anche solo con qualche breve citazione, non possiamo non ricordare la progressiva e complessa riflessione sul tema della conoscenza per il restauro che lega, come un fil rouge, le Carte del Restauro, da quella Italiana del 1932, che riprende sostanzialmente i principi della Carta di Atene del 1931 ma rivisti alla luce della posizione assunta da Gustavo Giovannoni (il cosiddetto restauro scientifico), e poi, passando per la Carta di Venezia (1964), alla Carta Italiana del Restauro del 1972, in cui si riconosce chiaramente l’ispirazione di Cesare Brandi (si pensi alla formulazione esplicita della dialettica fra storia ed estetica nel restauro), fino ad arrivare4 alla Carta di Cracovia del 2000, in cui lo sguardo si allarga dal singolo monumento all’intero patrimonio architettonico.
A titolo di esempio, di questa ultima Carta desidero citare il punto 3 della sezione Scopi e Metodi:«La conservazione del patrimonio costruito si attua attraverso il progetto di restauro, che comprende le strategie per la sua conservazione nel tempo. Questo progetto di restauro deve essere basato su una serie di appropriate scelte tecniche e preparato all’interno di un processo conoscitivo che implichi la raccolta di informazioni e l’approfondita conoscenza dell’edificio o del sito. Questo processo comprende le indagini strutturali5, le analisi grafiche e dimensionali e la identificazione del significato storico, artistico e socio-culturale; il progetto necessita del coinvolgimento di tutte le discipline pertinenti, ed è coordinato da una persona qualificata ed esperta nel campo della conservazione e restauro». In sintesi estrema, possiamo dire che nel processo di conoscenza e, quindi, di interpretazione di un monumento (o di un manufatto) nei suoi molteplici aspetti (statico, decorativo, materico, costruttivo relativo al degrado, ecc.), in primo luogo è necessaria una lettura storico-critica (non solo a distanza, ma anche autoptica6) e, successivamente, il rilievo scientifico ed una sistematica ispezione preliminare, al fine di controllare e mappare inizialmente lo stato di conservazione fisica, a cui dovranno far seguito indagini diagnostiche mirate, che sono di fondamentale importanza per la definizione del progetto di restauro7. Va sottolineata l’importanza strategica del rilievo8 del bene in esame, in quanto rappresenta un passo fondamentale del processo conoscitivo, che deve essere caratterizzato dalla accurata produzione di elaborati analitici, sintetici ed interpretativi aperto ai diversi settori operativi e scientifici della conservazione9. Da quanto appena detto si comprende facilmente come nel processo di conoscenza, accanto ad una figura che svolga un ruolo di sintesi e coordinamento, sia fortemente necessario che i diversi operatori coinvolti sviluppino la capacità di gestire in modo interdisciplinare e, quindi, realmente interattivo, il momento delle indagini, soprattutto nel campo della diagnostica finalizzata al restauro, salvaguardando il necessario equilibrio tra strumento e conoscenza, tra mezzo e fine, tra indiscriminata raccolta dei dati e valutazione critica dello stato di conservazione del bene mediante le diverse tecnologie. A questo proposito sono illuminanti le parole di Carbonara10: «L’atto tecnologico, quando è culturalmente consapevole, deve sottoporsi alla verifica della più generale riflessione critica e degli orientamenti culturali che sono posti oggi a guida del restauro. Può sembrare che così le scienze siano relegate in una posizione di servizio ma, in effetti, l’intento è solo di dare consapevolezza e formulazione teorica al problema tecnologico, il quale deve, in primo luogo, saper rispondere alla “domanda storica” ed “estetica” che il monumento, in quanto bene culturale, pone». Concludo con una osservazione sul titolo di queste brevi note che, in senso lato, mi sembra che si possa considerare un’affermazione palindroma, perché, se è vero, come abbiamo sottolineato, che la conoscenza è la premessa per la conservazione, è anche vero che la conservazione può diventare la premessa per un’ulteriore conoscenza. Infatti, se si riesce a conservare l’integrità del documento materiale giunto fino a noi, sorgente autentica e ricchissima di conoscenze, in futuro, anche con il supporto di nuove indagini tecnologicamente avanzate, potremmo forse raggiungere nuove interpretazioni storico-critiche e, quindi, una maggiore conoscenza.
Insigni studiosi come, ad esempio, Guglielmo De Angelis d’Ossat, Giuseppe Zander, Piero Sanpaolesi, Gino Chierici, hanno sempre raccomandato una ripetuta interrogazione diretta del bene in esame, indagato in primis a vista con sguardo attento ed esercitato. 7 Si veda, ad esempio, G. Carbonara, Restauro architettonico: principi e metodo, M.E. Architectural Book and Review S.r.l., Editore Carlo Mancuso, Roma, 2012. 8 Giovannoni sottolineava che il disegno ed il rilievo sono di fatto metodi e strumenti della conoscenza storica e del restauro. In altri termini, il rilievo è, in certo qual modo, una fase di avvicinamento e d’interrogazione del manufatto attraverso l’analisi della morfologia e dello stato conservativo e può essere svolto attualmente con metodi diretti ed indiretti, anche di tipo avanzato. 9 N. Santopuoli, L. Seccia, Sviluppi delle tecniche analitiche e diagnostiche per la conservazione. In: G. Carbonara. Trattato di restauro architettonico, II aggiornamento. vol. X, p. 165-191, UTET Scienze Tecniche, Torino 2008; S. F. Musso, Recupero e restauro degli edifici storici - Guida pratica al rilievo e alla diagnostica, II edizione, Casa Editrice EPC LIBRI, Pomezia 2006. 10 Op. cit. nella nota 7, pp. 94-95. 6
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Uso e “vita” del Patrimonio: strumenti per la conservazione e la valorizzazione Antonella Guida
Antonella Guida
Dipartimento delle Culture Europee e Mediterranee - Architettura, Ambiente, Patrimoni Culturali Università degli Studi della Basilicata.
Nel panorama delle costruzioni, parlare di “ciclo di vita”, o “durata di vita”, significa riferirsi alla capacità dell’edificio di fornire prestazioni e quindi investigare possibilità e modalità d’uso. In una accezione molto più ampia, un edificio dovrebbe essere dismesso appunto quando termina il suo “ciclo di vita”, ovvero non si riconosce più un uso nuovo economicamente vantaggioso. La sua dismissione può derivare anche dalla impossibilità di identificare nuovi usi compatibili degli edifici. Edifici che oggi rappresentano una testimonianza da trasferire alle generazioni future. Per i Beni Culturali il concetto di “ciclo di vita” è dunque inapplicabile in considerazione del fatto che, l’utilità di un Bene Culturale non decade nel tempo neanche quando questo verrà dismesso. Il delicato Patrimonio Culturale, quindi, oggi deve risponde a specifiche prestazioni ed a determinati requisiti anche in relazione al contesto in cui è inserito. Infatti, ogni evento naturale catastrofico, come il sisma, ripropone inesorabilmente, il “problema” della vetustà e inadeguatezza del patrimonio edilizio nazionale riguardo il rischio. La metodologia da adottare per una concreta ed efficace mitigazione del rischio è certamente sintesi dell’imprescindibile trinomio composto da conoscenza, progetto ed intervento. In una considerazione generale, sia il monumento sia il suo contesto sono documento, espressione fisica della memoria collettiva, portatore di valori o messaggi di identità di una nazione o di un popolo, che quindi definiscono una visione unitaria di tutto l’ambiente costruito. La conservazione è l’unica possibilità che oggi ci permette di riscoprire e studiare il passato, per rileggere momenti ed eventi di un tempo ormai lontano. Così, il concetto del Conservare si manifesta come la ricerca di una “regolamentazione della trasformazione che, nella coscienza dell’unicità di ogni testimonianza e del suo molteplice carattere documentario, massimizza la permanenza, aggiunge il proprio segno, reinterpreta senza distruggere”. Partendo da tali considerazioni, il progetto di recupero si può definire come l’atto delicato di cambiamento compatibile, risultato di una conoscenza dell’edificio e
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delle sue trasformazioni avvenute nel tempo, utile nella scoperta di un nuovo uso. In tale ottica, anche nel dibattito scientifico, oggi continua a persistere la posizione di adottare e promuovere un riuso consapevole del Patrimonio, inteso come “tutti i processi e i problemi afferenti alle modifiche, o alle attribuzioni, di destinazioni d’uso del costruito (concepiti quindi separatamente ma non indipendentemente dai procedimenti di conservazione, manutenzione, riqualificazione, restauro, sostituzione, distruzione che ne possano conseguire)”. Al termine “riuso” viene spesso abbinato quello di rigenerazione nell’accezione urbana del termine. L’ambito di riferimento della rigenerazione urbana è in realtà più immateriale e più orientato all’azione sociale. Le sfide e le azioni che con la rigenerazione urbana si vogliono attuare, mirano a progetti e programmi complessi, di lunga durata, considerando anche la sfera sociale e di relazione tra i cittadini, non solo le singole architetture. Che si parli di singole unità architettoniche o di intere città, la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale risultano oggi essere gli ambiti sperimentali più idonei per un altro trinomio imprescindibile sia nel dibattito scientifico che in quello professionale, rappresentato da materiali, energia e ICT (Information Comunication Tecnology). L’ICT acquista il ruolo di attore principale poiché si rileva come l’insieme delle classiche problematiche di una città possono trovare una risposa innovativa attraverso nuovi scenari come l’accessibilità e la fruizione innovativa, controllo e gestione remoto, ecc.. In tale scenario si ritrovano naturalmente le IoT che si occupano di “controllare in maniera continuativa ed immersiva l’ambiente in cui sono collocate, di trasferire i dati monitorati in un ambiente di raccolta e di elaborare tali informazioni al fine di svolgere azioni che facciano fronte o prevengano ad un ampio ventaglio di esigenze”. Tale “controllo” dev’essere considerato in relazione alla gestione del contesto di riferimento. Infatti, la gestione del patrimonio culturale nel nostro Paese è da tempo oggetto di dibattito, di proposte di modelli giuridici, di metodo, di processo e di valutazioni economiche. Il dibattito sull’innovazione della gestione dei beni vede una netta distinzione di “trattamento” tra i tipi di Beni. I Beni che, in conformità alle norme vigneti, hanno ottenuto il riconoscimento di un valore, oggi sono oggetto di grandi ed importanti progetti e programmi di investimenti economici. La sfida deve però oggi riguardare l’intero patrimonio, soprattutto quello cosiddetto “minore”, che rappresenta la specificità, in molti casi “silenziosa”, del nostro Paese. Gestione che non è da considerarsi solo economica, ma gestione di un processo/ progetto come quello del Recupero del Patrimonio. Si sottolinea come oggi, a fronte di una sempre più constante perdita di testimonianze materiali, le ricerche in atto affrontano il delicato ma oggi indispensabile tema della manutenzione, come necessario atto di recupero. Si può quindi concludere che l’intervento sul costruito si espleta essenzialmente sui paradigmi della manutenzione e della riqualificazione, essendo il tema del riuso prettamente inerente alle modalità di utilizzo e, il restauro, ancora relegato ai soli interventi destinati ad edifici soggetti a tutela. Conviene allora “anticipare” maggiormente le cure, massimizzare tutte le considerazioni riguardo il tema delle specificità delle attività di manutenzione, in particolare se “programmata”.
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Contributi introduttivi alle tematiche ReUSO 2020 Luis Palmero Iglesias
Luis Palmero Iglesias
Departamento de Construcciones Arquitectónicas, Universitat Politecnica de Valencia.
L’isola di Ventotene. Riflessioni sul paesaggio e i suoi valori. (Gilberto De Giusti, Marta Formosa). Il saggio si propone di evidenziare le componenti paesaggistiche dell’isola di Ventotene, analizzando l’attuale assetto urbanistico, la storia e le caratteristiche naturalistiche del sito. L’isola è un’importante risorsa ambientale ed è una Riserva Naturale Statale (RNS) e Area Marina Protetta (AMP). Tuttavia, gli attuali strumenti legislativi non sono sufficienti per attivare un vero e proprio piano di conservazione del paesaggio, non considerando i rapporti con le attività antropiche né i problemi economici e di spopolamento che riguardano il piccolo territorio insulare. In particolare, emerge il problema dell’abbandono dei campi, che senza cura o manutenzione rischiano di perdere la loro identità, permettendo alla vegetazione alloctona di avanzare a scapito della natura del luogo. Una corretta pianificazione deve integrare i vari problemi in una visione futura dello sviluppo locale. Le isole di Ventotene e di S. Stefano affiorano dal mare su di un’alta costiera lavica, stratificata, frantumata alla base in numerosi scogli basaltici sparpagliati sotto il pelo dell’acqua. Lo studio della geologia e dell’orografia del territorio ha permesso di considerare le relazioni altimetriche instaurate tra le diverse parti dell’isola: si osserva che a nord-est l’accentuata depressione verso il mare ha favorito l’insediamento umano, con la realizzazione del porto e del borgo. Scendendo verso sud-ovest, invece, il terreno si fa più ripido, con aspre salite a cui seguono immediate discese, per poi raggiungere la parte più alta alla Punta dell’Arco. Il profilo ovest è caratterizzato da un’alta parete rocciosa, mentre quello est da una più dolce conformazione del terreno a terrazzamenti Le diverse componenti del paesaggio sono declinabili a partire dai tre macroambiti: fisico-naturale, agricolo e insediativo. Le componenti fisico-naturalistiche vedono in primo piano gli ambienti e le varietà vegetali da preservare, ma anche di quelli non prioritari di alto rilievo quali la macchia mediterranea che si estende lungo il perimetro dell’isola. Per quel che riguarda le componenti agricole, si evidenzia il rapporto conflittuale tra la vegetazione spontanea e quella dei campi. Le tradizionali coltivazioni a seminativo, vite e olivo sono ridotte al minimo, per cui i terreni sono spesso in stato di abbandono e consumati dall’incolto.
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La componente insediativa, infine, tiene conto dei tempi e dei modi con cui l’abitato si è consolidato nel tessuto attuale, distinguendo il nucleo settecentesco d’origine dalle espansioni successive, ma si segnalano anche episodi di interessante architettura rurale al di fuori del centro. Da questa analisi emerge la problematica dell’abbandono dei campi, che investe molteplici tematiche, dalla conservazione del paesaggio agrario a quello del ripopolamento dell’isola. Infatti, mentre l’abitato si concentra nella zona portuale, dove si svolgono le attività turistico-ricettive, si perde la tradizione agricola, facendo sì che il paesaggio muti progressivamente perdendo quelli che sono i suoi caratteri identitari, e quindi impoverendosi dei suoi valori storici e figurativi. Il nuovo costruito, con forme eterogenee distanti dalla storia del luogo, si immerge in un contesto spesso disordinato e frammentario, per cui è bene mettere a punto delle strategie d’intervento e di tutela che restituiscano la corretta unità figurativa. Alla luce di questa analisi, è evidente la necessità di formulare una nuova e aggiornata pianificazione territoriale che non si limiti a settorializzare i vari ambiti comunali, ma che tenga soprattutto conto delle relazioni instaurate tra le diverse componenti di paesaggio e le attività umane, in una visione futura di crescita e di sviluppo del territorio. Studi recenti hanno messo in luce la realtà periferica di quest’isola, che vive esclusivamente di turismo nell’alta stagione svuotandosi per il resto dell’anno, nonché poi le criticità legate al protocollo per la pesca fissato dalla AMP. In considerazione delle limitazioni imposte a questo tipo di produzione, la conservazione e l’incentivazione dell’attività agricola sono allora da ritenersi strategie essenziali, non solo per non perdere l’identità del luogo, ma anche per la ripresa dell’economia in un’ottica di sostenibilità. Il ritorno ai campi, oltre a preservare la tessitura dei poderi, assicurerebbe una maggiore cura della fascia costiera. La ripresa dell’attività agricola garantirebbe cioè una forma manutentiva continua e, con opportuni aiuti da parte degli organi governativi, un certo argine allo spopolamento. Il saggio espone alcune riflessioni sulla salvaguardia dell’identità del luogo, facendo riferimento ai concetti di territorio, ambiente e paesaggio, da considerare come base della pianificazione del paesaggio. L’ulivo e i portali monumentali in Sardegna: tradizione locale e ‘innesti’ culturali esogeni. Restauro, tutela e valorizzazione (Maria Giovanna Putzu). La costruzione di portali monumentali nella campagna sarda rappresenta un fenomeno limitato ad un arco di tempo compreso tra il XVII e il XIX secolo e ad uno specifico contesto geografico che si estende alle campagne di Sassari, Alghero e soprattutto alla fertile pianura del Campidano di Oristano. Il fenomeno sembra essere strettamente legato all’impianto di oliveti, la cui coltivazione è una pratica antica, altamente specializzata e sapiente, proposta dal governo spagnolo prima e da quello sabaudo poi, come mezzo per rivitalizzare l’agricoltura sarda nel periodo di crisi successivo all’età dell’oro dei Giudicati (X-XV secolo). Partendo da una breve storia della coltivazione e della diffusione dell’olivo in Sardegna, lo studio delinea brevemente le principali caratteristiche architettoniche e le questioni più critiche di degrado e conservazione dei manufatti architettonici e del contesto paesaggistico. È nel Campidano di Oristano che si rilevano le testimonianze più significative dei portali monumentali di accesso ai poderi. Dal punto di vista tipologico si rilevano due principali varianti: il ‘portale diaframma’, con funzione essenzialmente di rappresentanza, e il ‘portale a loggia’, che talvolta ac-
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coglie anche un ambiente interno, con funzione sia di rappresentanza che utilitaristica. In entrambi i casi il fornice con terminazione ad arco, a tutto sesto o ribassato, è inquadrato da un ordine architettonico; la trabeazione nella maggior parte dei casi è sormontata da un fastigio barocco o da un timpano con conformazione triangolare, curvilinea o spezzata. Il fornice è chiuso da cancelli in ferro battuto o, più semplicemente, in legno. Dal punto di vista costruttivo si individuano tre principali tipologie murarie: 1) murature con paramenti in laterizi e finitura ad intonaco (le strutture annesse sono solitamente realizzate in mattoni crudi); 2) murature con paramenti in pietra (arenaria, o arenaria e trachite rossa in alternanza bicroma) e 3) murature in pietra e laterizi. Mentre dal punto di vista stilistico i portali sono caratterizzati da una grande varietà di forme e dettagli costruttivi che vengono attinti dal ricco repertorio barocco, neoclassico, neoromanico e neogotico e sono impiegati sia nell’architettura civile che religiosa. Le problematiche di degrado e la conseguente necessità della predisposizione di un programma di interventi di restauro, di manutenzione programmata e di provvedimenti per la tutela riguardano sia le singole emergenze architettoniche che il contesto paesaggistico. In riferimento al degrado materico e strutturale dei portali, nella maggior parte dei casi analizzati si rileva il dissesto delle coperture dal quale possono derivare danni strutturali e rischi di crollo dell’arco del fornice e l’indebolimento degli elementi verticali. I dissesti rilevati, infatti, non appaiono generati da problemi progettuali e strutturali (fondali ecc.) ma conseguenti al progressivo e incontrollato processo di degrado. Dal punto di vista del degrado materico superficiale, le strutture realizzate in laterizi con finitura ad intonaco presentano il distacco o la perdita quasi totale degli strati di intonaco con conseguente deterioramento delle murature in laterizi (cotti o crudi) o in opera mista. Mentre nelle strutture realizzate in pietra i problemi sono legati al degrado superficiale degli elementi lapidei (erosione, polverizzazione, alveolizzazione ecc.), al dilavamento dei giunti di malta e alla fratturazione dei conci, utilizzati per imperniare i cancelli di chiusura, a seguito dell’ossidazione dei ferri. Anche i portali monumentali, nonostante la secolare incuria che ne ha lasciato visibili segni e ha comportato anche il venir meno nella memoria collettiva della funzione che hanno svolto e del simbolo che hanno rappresentato nel territorio e nella cultura agraria, sono giunti fino a noi e si ergono a monito di una possibile e doverosa ‘rinascita’. L’attenzione è posta sulla necessità di effettuare interventi mirati di restauro, salvaguardia e valorizzazione, non solo degli elementi architettonici stessi, ma anche dei singoli siti e del paesaggio agricolo di cui fanno parte, individuando le basi di un progetto progettuale per la loro riscoperta e la conseguente conservazione nella stretta e fondamentale unione che li ha generati. Bollenti spiriti: la via pugliese della rigenerazione urbana (Giuliana Di Mari, Emilia Garda, Leonardo Lococciolo, Alessandra Renzulli). In questo lavoro viene presentato il distillato di un ragionamento realizzato da un’istituzione pubblica insieme a una comunità di persone, che è poi entrato a far parte del Programma delle Politiche Giovanili della Regione Puglia - Bollenti Spiriti, punto di partenza di una nuova esperienza di riqualificazione urbana partecipata. Il racconto esposto non è un caso teorico, ma va considerato alla luce dell’attuale contesto socioeconomico. Si è parlato del tipo di politiche pubbliche che si possono pro-
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gettare per l’attivazione e l’interconnessione delle persone con i beni pubblici e le città. Gli esempi analizzati non sono dei modelli di intervento standardizzati e trasferibili, ma modelli di politiche pubbliche sperimentali da ricostruire con gli attori coinvolti, riportando aggiustamenti e adattamenti progressivi. Questi strumenti sono nati come risposta ai bisogni dei cittadini del territorio pugliese e devono essere interpretati alla luce dell’attuale contesto socioeconomico. Nello specifico quale è stata l’eredità culturale? Due sono le parole chiave: condivisione e partecipazione, binomio che può concretizzarsi solo attraverso un attore d’eccezione: la giovane generazione. È principalmente dai giovani che si può attingere l’energia per gestire la trasformazione. Le pubbliche amministrazioni possono fare da rete, condividendo le proprie risorse per favorire sperimentazioni e nascita di prototipi. Attraverso l’esame critico di alcune fasi di questa esperienza, si cerca di riflettere sull’importanza della capacità di progettare strumenti per attivare processi virtuosi, grazie ai quali possano emergere nuove interpretazioni dei grandi cambiamenti che caratterizzano questo millennio. In un mondo in continua evoluzione, un cambiamento di paradigma può aprire nuove opportunità che aprono la strada all’espressione di soggettività molto complesse e vitali, con capacità di azione inaspettate. Assumendo il ruolo di piattaforma, le amministrazioni pubbliche possono condividere le proprie risorse, favorendo la sperimentazione e l’emergere di processi di trasformazione delle città. Al di là della progettazione di strumenti, è necessario che una comunità abbia spazi in cui creare relazioni. Il passo successivo, dopo aver assunto la consapevolezza dell’enorme energia potenziale che viene dai cittadini in relazione ai problemi della città, è quindi quello di chiedersi quale e quanto valore può essere generato se i cittadini cominciano a sperimentare lo spazio pubblico. Tra le forme tradizionali di gestione pubblica e privata del patrimonio, possiamo riflettere su una terza via: quella di una gestione comune in grado di valorizzare la responsabilità reciproca, generare nuove risorse e miscelare quelle latenti, responsabilizzare le persone e le comunità, creare luoghi dove il capitale sociale si addensa e diventa elemento di sviluppo culturale ed economico. Valorizzazione dei frammenti e delle rovine classiche nella città contemporanea (Emanuele Romeo, Riccardo Rudiero). La città che cambia ha sempre conservato nelle sue aree urbane alcuni simboli del passato. Hanno avuto ruoli diversi e il loro valore (celebrativo, politico, artistico) è spesso cambiato nel corso degli anni. Questi simboli hanno un indubbio significato legato a particolari eventi storici. Tuttavia, spesso sono anche associati a un valore artistico che, nella città contemporanea, può accrescere le espressioni dell’arte moderna. Quindi le rovine e i frammenti classici possono essere considerati manifestazioni artistiche di “installazione permanente” accanto all’opera d’arte di “installazione temporanea”? Attraverso l’analisi di casi nazionali e internazionali lo studio propone strategie compatibili per la conservazione di frammenti e rovine antiche come espressione dell’arte nella città contemporanea. Questo per evitare che essi diventino oggetto di una valorizzazione inconsapevole che potrebbe portare ad aberrazioni (come frammenti o rovine trasformate in “feticci della storia”) o a fenomeni di contrasto e sostituzione (come nuove manifestazioni artistiche che, poste accanto a quelle del passato, ne riducono il valore).
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Affinché l’antico frammento all’interno della città contemporanea non perda il suo valore d’arte, deve essere considerato prima di tutto come un testimone della storia, e conservare il suo valore di memoria. Il rapporto tra le vestigia del passato e la nuova espansione urbana deve far sì che entrambe ne traggano beneficio, in un dialogo che porti alla conservazione dei reciproci valori. In questo modo si possono considerare monumenti antichi e rovine come opere classiche di “installazione permanente”, e questi elementi come opere d’arte in un contesto più allargato che comprenda l’intera città contemporanea. In ogni caso, è importante che le rovine siano contestualizzate correttamente e coesistano perfettamente con le nuove funzioni urbane e con la città contemporanea. Così, anche il frammento può assumere il ruolo di incremento culturale degli odierni ambienti urbani. Anche le opere d’arte contemporanea possono arricchire la città e, se opportunamente unite a quelle antiche, entrambe aumentano il loro valore. Inoltre, le opere d’arte contemporanea dovrebbero servire a valorizzare le periferie o i nuovi quartieri privi di elementi di attrattività. La torre di Montecatino: la conoscenza come valorizzazione del sistema difensivo territoriale della Repubblica di Lucca (Gianluca Fenili). Attraverso il concetto di paesaggio archeologico, viene proposto un meccanismo per la valorizzazione del sistema di segnalazione ottica, impiegato dalla Repubblica Lucchese nel XVII secolo, per la sorveglianza dei confini. La Repubblica di Lucca affidava la sua difesa militare a un complesso di elementi destinati a interagire tra loro in maniera sinergica e coordinata, che possono essere raggruppati in tre categorie principali: alla prima appartenevano le strutture atta alla difesa passiva, ovvero le fortificazioni cittadine, sia nelle loro parti murarie, costituite dai baluardi e dalle cortine, sia nella sistemazione esterna con spalti e fossati. Facevano parte di questa categoria anche i castelli e le varie opere minori come le rocche e torri poste a guardia dei punti strategici del territorio dello Stato. Gli elementi atti alla difesa attiva, appartenenti alla seconda tipologia, si componevano invece delle milizie e dei corpi armati nelle loro specializzazioni ma anche delle aree di reclutamento e delle artiglierie, includendo tutto quel che potesse servire per la loro produzione e manutenzione. Tutto ciò che assicurava efficienza gestionale e di coordinamento apparteneva invece alla terza categoria, quella cioè che includeva oltre gli organi di governo della città, gli Offizi preposti alle questioni difensive, i commissari (delle porte, dei baluardi, delle milizie, ecc.), gli ufficiali, i sistemi di allarme e i piani attuativi per il dispiegamento delle forze. A queste analisi si è affiancato uno spoglio archivistico ampio, focalizzato sul sistema di comunicazione ottica di cui faceva uso la Repubblica per proteggere i propri territori. Il primo passo è stato scegliere l’intervallo temporale da prendere in considerazione, identificato con l’inizio del XVI secolo e la fine del XVIII, periodo che ha visto trasformate le Mura della città dalla conformazione medievale alla struttura attuale e la massima espansione del sistema difensivo lucchese. La ricerca si è basata sul confronto di pergamene, mappe e documenti inerenti alle fortezze che, abbandonate, distrutte o ricostruite nel corso del tempo, sorgevano originariamente in punti strategici, dominanti le principali vie di transito, in posizione tale da consentire un’ampia visibilità sul territorio. Queste erano otticamente collegate tra loro, talvolta direttamente, più
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spesso attraverso torri e campanili, che consentivano la “trasmissione” del segnale. Tutti questi dati sono stati introdotti all’interno di una piattaforma GIS (utilizzando il software opensource QGIS), attraverso il quale sono stati tracciati (con un margine di approssimazione) quelli che dovevano essere i confini della Repubblica nel lasso temporale di riferimento. All’interno di questi sono state posizionatele rocche, i centri incastellati e le torri di segnalazione ritrovati. In seguito, posizionate le torri (esistenti o meno, ma con un’ubicazione certa), si è passati a quelle torri di cui, nonostante la presenza segnalata nelle carte, non se ne è potuto stabilire una posizione inconfutabile. Per ognuno di questi elementi, che appaiono sulla mappa digitale come punti di colore diverso, è stata compilata una scheda inerente alle diverse caratteristiche: la già citata collocazione, l’attuale proprietà (Comune, Provincia, Regione), lo stato di conservazione e la possibilità di fruizione. Fruibilità attuabile anche da remoto, attraverso l’impiego del GIS per la gestione e conservazione del database e di una versione web più intuitiva per la diffusione della conoscenza. È opportuno anche ricordare che per un’efficace tutela dei Beni culturali, nell’ambito della conoscenza, il processo conservativo è da svolgere di pari passo con quello volto alla valorizzazione, essendo queste due azioni inevitabilmente sinergiche. Tramite l’analisi del contesto storico e geopolitico del piccolo stato toscano e l’impiego delle tecnologie web-GIS diviene possibile attuare un processo di diffusione della conoscenza che ha come cardine principale la pubblicizzazione dei beni, intesa con l’accezione di ‘dominio pubblico’. Il caso studio del rudere di Montecatino si presta ad essere la base per la proposta di tale valorizzazione in una prospettiva futura di conservazione del patrimonio che comprenda l’intero paesaggio archeologico della città di Lucca. Edilizia storica romana: Cartografia dei danni in scala MCS causati dai terremoti storici. Strumento critico per la valutazione della vulnerabilità sismica (Lorenzo Fei, Federica Angelucci, Antonio Pugliano). Si documenta lo stato di avanzamento di un progetto recentemente finanziato dall’Università Roma Tre, nell’ambito del Piano straordinario di sviluppo della ricerca dell’Università: CALL4IDEAS, che il Dipartimento di Architettura sta conducendo al fine di produrre un Atlante Dinamico ICT: un sistema informativo geografico (GIS) su Roma utile per la documentazione, la valorizzazione del ‘paesaggio urbano storico’ e la caratterizzazione del costruito, dei substrati archeologici e geologici, contribuendo alla fruizione e alla sicurezza della città, ponendo le premesse conoscitive utili alla prevenzione del rischio idrogeologico e sismico. Il presente lavoro presenta una mappatura dei guasti causati alla città dai terremoti storici: uno strumento preliminare per valutare la vulnerabilità sismica di interi settori urbani. Rappresentando i terremoti come motore dell’evoluzione scientifica e dell’affinamento delle tecniche costruttive, particolare attenzione è rivolta alle strutture di copertura: il loro studio permette di riconoscere, valorizzandole, il carattere strutturale e l’incidenza in termini di prestazioni delle peculiarità formali e costruttive con l’obiettivo di utilizzare queste tecniche, seppur ottimizzate, negli interventi di restauro a matrice filologica. Tra le sue finalità, l’Atlante Dinamico DynASK vuole contribuire alla fruizione in sicurezza della città storica, associando alla diffusione di informazioni culturali gli aspetti
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conoscitivi propedeutici alla prevenzione del rischio sismico e idrogeologico; si pone quindi come un modello di comportamento metodologico esportabile, conforme allo scenario normativo vigente circa la valorizzazione dei Beni Culturali. L’argomento descritto è organizzato in un archivio digitale frutto dello studio di un esteso repertorio di fonti cartografiche e documentarie archivistiche. La banca dati è associata a una base grafica vettoriale, open source, la Carta Tecnica Regionale Numerica del Lazio (CTRN 2014), che garantisce durabilità del sistema e libera accessibilità dei dati. In riferimento alla CTRN si è sviluppato il processo di riconoscimento e definizione dei risentimenti documentati a Roma, tanto delle unità edilizie esistenti quanto dei brani di città scomparsi, questi ultimi considerati per individuare una eventuale vocazione al danneggiamento sismico di parti di città. Per quanto attiene la conoscenza delle problematiche legate alla conservazione e fruizione sostenibile del Patrimonio, sono stati prodotti approfondimenti circa la consistenza dell’edilizia storica, a partire dalle componenti materiali che svolgono un ruolo fondamentale nel comportamento meccanico degli edifici storici esposti alle azioni sismiche, prime tra tutte le strutture di copertura lignea. In particolare, i paesi più soggetti agli eventi sismici hanno risposto con soluzioni tecnologiche diverse, da intendersi come prodotto materiale dell’osservazione dei fenomeni sismici e dell’esperienza empirica che ne risultava, più o meno razionali rispetto all’uso e al grado massimo della violenza sismica locale attesa, alle esigenze del clima e alla durata richiesta dagli edifici stessi. La conoscenza delle tecniche costruttive tradizionali e della cultura materiale che le ha generate è necessaria per la comprensione degli effetti causati dei terremoti sulle costruzioni, consentendo di descriverne, quantificarne e prevederne i risentimenti. Questo programma intende evolvere dalla trattazione della ‘regola dell’arte’ degli elementi strutturali più eloquenti tipologicamente, affiancando a questa linea di ricerca un processo di documentazione sistematica basato su un censimento il più esteso possibile; qui troverà spazio l’osservazione dello stato di conservazione dei manufatti e si farà ricorso al contributo della dendrocronologia per interpretare i segni di possibili mutazioni storiche che, caso per caso, hanno introdotto varianti fondamentali nelle fisionomie architettoniche consuete e residenti. Si produrrà quindi una interpretazione processuale, su basi scientifiche, delle fisionomie architettoniche oggi osservabili, a vantaggio della ricostruzione della storia delle metodiche di restauro, riparazione-reintegrazione, sostituzione e della storia del pensiero scientifico e tecnologico del quale i processi di mutazione descritti costituiscono l’espressione durevole. In tale programma, la questione sismica svolge un ruolo centrale in quanto motore dell’evoluzione storica e tecnica del lessico costruttivo locale verso il raggiungimento di requisiti prestazionali adeguati alle condizioni di esercizio; la scelta di rivolgere l’attenzione alle coperture a tetto ligneo è dunque obbligata, per la cogenza delle problematiche insorte, allo stato attuale, dall’assenza di pratiche manutentive condotte negli ultimi decenni e per la spendibilità delle conoscenze da applicare nell’ambito della pratica attuale del restauro filologico nell’evidenza del rischio sismico. L’analisi da condursi per la sicurezza di una struttura o di un intero edificio ha lo scopo di individuare i punti deboli e di prefigurare il meccanismo che l’azione sismica può innescare. Il detto meccanismo coinvolge componenti lignee e murarie, chiamate a collaborare nei termini della manifestazione di efficienti relazioni reciproche, utili a garantire un comportamento di massima coesione tra le componenti del sistema.
L’efficienza di queste strutture di orizzontamento e copertura gioca un ruolo fondamentale per la stabilità complessiva degli edifici. Approfondimenti utili al restauro in quanto comunicano la gerarchia funzionale degli elementi materiali che compongono tali strutture, la loro fisionomia architettonica e la configurazione ottimale in termini di efficienza. E’ di tutta evidenza il carattere innovativo di questa visione: il contributo degli approfondimenti va a vantaggio dell’implemento della ‘cultura della progettazione’ del dettaglio esecutivo, da attuarsi attraverso tecniche dialoganti con la tradizione locale che siano, oltre che meccanicamente efficaci, anche filologicamente compatibili ed economicamente sostenibili, in quanto manutenibili e idonee all’esercizio di pratiche labour intensive destinate al rilancio di ambiti di imprenditoria site specific. Il prodotto manualistico digitale, applicativo dell’Atlante Dinamico DynASK, inoltre, contribuisce alla pratica del restauro anche attraverso la forma della comunicazione dei dati conoscitivi. Esso raccoglie elaborazioni grafiche concepite per dar vita a un repertorio di ‘librerie’ composte secondo espressioni semantiche affini a quelle in uso in ambiente HiBIM: al fine di agevolare la comprensione tecnologica degli elementi strutturali, essi sono rappresentati come l’aggregazione razionale di componenti elementari compiute, isolabili e caratterizzate da schede attributo descrittive dei caratteri storici, tipologici, materici, tecnologici e critici, in relazione all’efficienza in esercizio e, viceversa, alla loro vocazione al danneggiamento sismico.
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ReUso: Riciclare, riutilizzare, ripensare Giovanni Minutoli
Giovanni Minutoli
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze
Pagina successiva Capitello, Chiesa di San Miniato al Monte, Firenze
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Cosa significa oggi ReUso? Se da una parte viene interpretato come Restauro e Uso compatibile in alcuni contesti è declinato come riutilizzo e riciclo, solo per utilizzare due dei termini più alla “moda”. Il problema dell’uso compatibile del nostro patrimonio storico artistico è un tema molto attuale, e nasce soprattutto dall’esigenza di saturare di “nuove funzioni” i grandi complessi architettonici presenti nei nostri centri storici (edifici monastici e conventuali e nobiliari principalmente) o posti in zone che era periferiche fino a qualche decennio fa (edifici industriali), ma che oggi invece risultano parte integrante del tessuto cittadino. Quando si affrontano queste importanti tematiche le dinamiche politico-sociali non valutano che ogni edificio o complesso ha una sua peculiarità e non sono “adatti” a tutte le funzioni. Il contenitore perde la sua identità e diventa un non luogo che spesso e volentieri non tiene conto dell’edificio nella scelta dell’uso da assegnare agli spazi interni che si vanno a realizzare o per meglio dire a saturare. Non sarebbe più importante, prima di intervenire e progettare nuove funzioni ripensare i nostri edifici storici? Partendo dalla domanda che quotidianamente viene posta ai tecnici: ma conviene “restaurare” (sarebbe più corretto dire ristrutturare nella maggior parte dei casi) o sarebbe meno oneroso demolire e ricostruire? La risposta è immediata: “sicuramente conviene demolire e ricostruire, costa meno!” Quindi, per come viene inteso da molti il concetto di Restaurare (valutato come atto costoso e traumatico che poco ha a che fare con la conservazione), gli interventi da farsi su un edificio comportano così tanto impegno da renderli anti-convenienti. Ma, questa osservazione nasce dalle scelte tecniche o dall’incapacità di leggere le potenzialità dell’edificio. Assistiamo troppo spesso ad interventi di rifunzionalizzazione che, sì, hanno il grande pregio di salvare un monumento dall’oblìo e dall’abbandono ma spesso – complice talvolta il quadro normativo - si limitano a valutare l’involucro architettonico come un contenitore da riciclare e riutilizzare senza ricorrere ad analisi organiche che ne comprendano e dunque lo preservino. Allora forse non è pleonastico ripensare al perché continuare a insistere con l’idea che così tanti edifici debbano essere conservati e tramandati alle generazioni future,
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quando secondo molti gli antichi non avevano tutte queste attenzioni per il patrimonio storico antecedente alla loro epoca! Secondo questa visione storica l’architettura quando la funzionalità di un edificio era messa in discussione si demoliva e si costruiva qualcos’altro oppure si trasformava l’edificio seguendo il gusto e le esigente (a volte anche i capricci) del mecenate di turno. Può sembrare ovvio ma ciò che ci “obbliga”, oggi, a conservare il nostro estesissimo patrimonio, è semplicemente il suo “riconoscimento”. Proprio quel brandiano “riconoscimento dell’opera d’arte nel suo valore storico ed estetico” per cui noi riversiamo in quelle opere una parte irrinunciabile della nostra cultura e della nostra identità storica. E non dobbiamo dimenticare come tale “riconoscimento”, seppur ratificato nel Novecento, sia molto più antico. Si pensi alla diffusa prassi dell’uso di materiali di spoglio, riutilizzati non tanto per motivazioni economiche quanto per il significato fondativo e simbolico che gli si riconosceva. D’altronde, come è noto, la storia è costellata di ripetute riscoperte di un passato riconsiderato, in forme diverse, in modo da essere funzionale al disegno dell’avvenire: il Rinascimento, la Restaurazione, i nazionalismi. Oggi sorattutto, le democrazie occidentali vivono una grande crisi che non nasce dalla pandemia ma, piuttosto, dalla mercificazione dell’essere umano che da cittadino è divenuto consumatore e conseguentemente il patrimonio edilizio non è più da usare ma da sfruttare. Le grandi crisi portano sempre a nuovi “rinascimenti”; si spera che approcciandosi al tema del ReUso si parta dal concetto di ripensare, valutare il nostro passato, riscoprirlo e valorizzarlo secondo nuove istanze, certamente in maniera sostenibile dal punto di vista della conservazione, culturale, ambientale ed anche economico, sempre nel rispetto dell’autenticità del patrimonio che ci è stato tramandato. Ed è forse questa la sfida più grande del REUSO, oggi.
Pagina precedente Firenze, vista aerea.
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Restauro
Concetti: orientamenti e tendenze attuali
Protezione delle aree archeologiche: interventi di musealizzazione ‘effimera’ su aree fragili Serafina Cariglino
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Riccardo d’Aquino
University of Arkansas Rome Program, Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio, Sapienza Università di Roma. Serafina Cariglino Riccardo d’Aquino Francesca Lembo Fazio
Francesca Lembo Fazio
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Abstract The urgency for conservation and presentation of the archaeologic remains on the site is a problematic challenge. Not only it is necessary to face the need for shelter the areas from weather: ruins must be accessible, perceivable, understandable especially because most of the time the excavations are isolated and devalued by the surroundings. After the digging, the pledge of caring lead often to projects of sheltering with no architectural quality, that can’t establish a relationship between the remains and the spatial context in which they are. The aim of the paper is to analyse conservation projects on sites that can be considered ‘frail’, as more exposed to decay, neglected and lacking in communication. As a potential project strategy, the case of some ephemeral structures is presented with a detailed analysis on Acquarossa, considering these proposals as a way to help reading ancient ruins through evoking signs. Keywords archaeological sites, ephemeral architecture, context, aesthetic of abstraction, fragments.
Archeologia e architettura effimera: possibili scenari interpretativi (F.L.F) La realizzazione di uno spazio che possa conservare in situ dei rinvenimenti e concorrere a formare un coerente mezzo espressivo a servizio delle aree di scavo deve essere letta non come mera protezione dagli agenti atmosferici, bensì come vero e proprio atto critico di restauro. È vero che la fragilità insita nelle aree archeologiche impone una programmazione di manutenzioni e di verifiche della validità dei dispositivi di protezione (Sposito, 20152016, p. 128), tuttavia scopo ultimo della progettazione deve essere quello di realizzare “un luogo architettonico per fare godere in pieno, ma in se stesse, le opere d’arte che vi si allogano” (Brandi, [1977] 2000, p.128), rendendo possibile una fruizione ed una lettura di resti altrimenti incoerenti. In tale atto critico-creativo di ‘raccordo’ tra la spazialità delle opere e lo spazio che le contiene “non esiste soluzione prefabbricata
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dall’autore” (Brandi, [1977] 2000, p. 128). Nel caso degli scavi archeologici urge realizzare un progetto che rifugga la riproposizione inderogabile di volumi e di architetture, ciò non solo per rispondere alla necessità di non realizzare una falsificazione dell’immagine dell’opera, quanto anche per l’esiguità dei dati a disposizione: sovente si tratta di architetture di cui spesso si conserva esclusivamente lo spiccato e che possono essere solo astrattamente ‘ricreate’. Le informazioni derivanti dall’analisi del sito, a conclusione di uno studio approfondito e ragionato, rimangono pur sempre delle ipotesi ‘mute’ che necessitano di una comunicazione chiara ed efficace, frutto di un attento lavoro progettuale, senza sovrastare l’immagine dell’opera attraverso un forte segno progettuale. L’apparente limite rappresentato dalla mancanza di comunicazione e dall’esiguità dei resti materiali di queste aree fragili può invece dare slancio a realizzazioni “più morbide, sostenibili e delicate” (Carbonara, 2015, p. 2) che, qualora attentamente ragionate, possono valorizzare i resti grazie ad un insito carattere di reversibilità. Ecco che l’utilizzo di materiali effimeri viene a costituire una nuova prospettiva negli interventi di musealizzazione a protezione e valorizzazione delle aree archeologiche: l’effimero può a pieno titolo assumere il ruolo di una sostanza reale ma, al contempo, virtuale. A tale riguardo, riveste una fondamentale importanza l’elaborazione di Christine Buci-Glucksmann circa la “poetica dell’effimero”, incentrata su considerazioni relative alla percezione del passaggio del tempo: si avrà, così, da un lato un “effimero melanconico”, che registra in modo negativo i cambiamenti dovuti al passaggio del tempo; mentre all’opposto un “effimero positivo”, che registra lo scorrere del tempo come una trasformazione favorevole alla determinazione di una cultura “della fluidità e della trasparenza”, alla quale ispirarsi per la realizzazione di “un’esperienza coinvolgente ed immersiva, capace di trasmettere valori e significati in modo chiaro” (Santopuoli, in stampa).
Fig.1 Vista dell’edificio A dallo spazio all’interno dell’edificio C.
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Sullo stesso filone d’indagine, anche Gillo Dorfles si è più volte espresso a favore di una ‘coscienza dell’effimero’, ossia della convinzione del progettista di non realizzare un’opera duratura, consentendogli la possibilità di abbandonarsi alla concezione di “forme difficilmente ipotizzabili sul versante dell’architettura permanente” (Unali, 2010). Ulteriori considerazioni possono scaturire dagli studi di musealizzazione di espressioni artistiche, come performance ed installazioni temporanee, che per sopravvivere hanno necessità di una continua partecipazione del pubblico e che mostrano la necessità di “riflettere su forme di esposizione innovative e adeguati modi di proporre e rendere fruibili” opere d’arte altrimenti afasiche (Gallo, 2016, p. 29). In questi casi, la possibilità dell’architettura espositiva di raccontare uno spazio tramite l’impiego di strutture effimere richiede talvolta un dialogo con l’osservatore e la ridefinizione dello spazio stesso in modo interattivo. La comunicazione e l’intermediazione con il pubblico si realizza all’interno del sito attraverso livelli di lettura, velocità di attraversamento del luogo e disegno del ‘vuoto’ rispetto al ‘pieno’. Nel caso della ‘reintegrazione’ dell’immagine è utile pensare alla possibilità di collaborazione tra vari specialisti, non più limitata alle figure dell’architetto, dell’archeologo e dei tecnici, ma arrivando a coinvolgere professionalità artistiche, sempre sotto la guida dei principî della teoria del restauro. È questo un punto al quale è bene prestare particolare attenzione: l’aspetto della performance deve essere controllato dalla teoria a causa degli aspetti negativi che ne potrebbero derivare, in particolar modo se legati alla spettacolarizzazione dell’architettura, ricadendo nell’idea ‘creazione’ avulsa da ogni contesto e messa in atto solo per soddisfare un bisogno di visibilità e di fama. La possibilità che la performance scada nell’entertainment mediatico e consumistico comporta degli “allestimenti ‘senza qualità’”, che si piegano al solo criterio del profitto (Unali, 2010). Se è necessaria una particolare attenzione per non esaurire l’intervento in una performance vuota di significato, è tuttavia rilevante il ruolo comunicativo e di informazione dell’effimero: in tal modo si verrebbero a definire strutture temporanee con il merito di essere un “medium polisemico, in grado di comunicare non solo il valore specifico del bene architettonico che si cerca di preservare, ma anche la peculiarità dell’intervento stesso” (Santopuoli, in stampa). Si noti l’accezione più profonda di medium come mezzo per veicolare simboli e idee, diversa da quella più semplicistica genericamente usata che vede nel medium solo un’espressione di contemporaneità, di interattività e quasi di performance assoggettata alla cultura digitale. La percezione spazio-temporale sembra contraddistinguere le realizzazioni effimere, spesso descritte come esperienze tipiche della modernità per il loro carattere di “modificazione temporanea dello spazio, al di là di ogni ‘matericità’ e tassonomia stilistica” (Unali, 2010). Tuttavia, invece di mirare a possibilità aperte dall’effimero verso una “libera reinvenzione”, si dovrebbe puntare ad una ‘interpretazione guidata’ che si svolge in un contesto spazio-temporale “pluridimensionale disegnato dalla nostra mente” (Unali, 2010); il che, considerando una condizione di rudere, potrebbe essere un’azione positiva se inquadrata in uno stabile contesto teorico ed in un progetto attentamente ragionato. Sarebbe tuttavia errato guardare all’effimero come nettamente contrapposto al permanente, né come ad un elemento che “non anela all’eternità di un sogno di pietra, ma a un presente ‘sostituibile’ all’infinito” (Augè, 2004, p. 92). Ad una materia effimera identificata esclusivamente come sensibile, ipermediale, mutevole e pur sempre presente, il restauro può ben contrapporre un effimero inteso come rap-
porto tra gesto, tempo e memoria, dalla natura segnica legata all’interpretazione ed alla valorizzazione del sito e come nuova rappresentazione artistica in rapporto alla percezione di forma e tempo. Restauro archeologico ed estetica dell’astrazione: ipotesi e opportunità di un nuovo linguaggio (S.C) Il patrimonio archeologico si compone di testimonianze fra loro molto diverse che richiedono, per la loro conservazione e lettura, differenti tipologie d’intervento restaurativo. Se il museo rappresenta per eccellenza il luogo deputato alla conservazione e al racconto di quanto rinvenuto nei siti archeologici, questi ultimi si configurano spesso come spazi di difficile lettura, protetti da coperture provvisorie e soggetti, se le risorse lo permettono, a manutenzione ordinaria, opere di pulizia e diserbo (Minissi, Ranellucci, 1992). Il compito più complesso a cui gli architetti del patrimonio sono chiamati a rispondere è sicuramente quello del restauro di quei ‘fragili resti archeologici’ che, abbandonati dopo lo scavo, ‘restano’, appunto, in superficie, incapaci da soli di ‘raccontarsi’, rendersi riconoscibili e comprensibili. Il valore storico e culturale di cui essi sono portatori necessita, dunque, di un atto interpretativo-progettuale di restauro che sia in grado di connettere testimonianze materiali, messaggio culturale e “gente comune” (Ricci, 2006). Risiede proprio in un atto interpretativo, di traduzione e trasmissione culturale, l’etica del restauro: facilitare la lettura di un contesto archeologico dovrebbe configurarsi come un imperativo morale non secondario, ma complementare al dovere di conservazione e trasmissione al futuro delle testimonianze materiali. La complessità del progetto di restauro in siffatti contesti riguarda soprattutto le modalità con cui materialmente esso tenta di riconfigurare architettura e spazialità perdute. L’opera di ‘traduzione’ dei resti che il progetto persegue è necessariamente legata alla scelta di materiali, tecnologie costruttive ed espedienti compositivi che incidono fortemente su ambienti archeologici spesso caratterizzati dalla presenza di una dominante componente naturalistica. L’ipotesi di perseguire, attraverso il progetto, una comunicabilità del messaggio culturale ed un rapporto visivo con il contesto ha portato in alcuni casi alla realizzazione di allestimenti temporanei, poi divenuti permanenti, in cui attraverso un procedimento di ricostruzione ideale e smaterializzazione è stato possibile dare una nuova configurazione identitaria a luoghi di straordinaria importanza culturale, ma poco leggibili. Ci si riferisce ad alcuni casi specifici in cui il tentativo di rievocazione dell’architettura perduta è avvenuto attraverso l’uso di nuove strutture in materiale metallico, di consistenza ‘filiforme’: la riconfigurazione del tempio di Apollo a Veio, realizzata nel 1992 da Franco Ceschi e l’installazione artistica, realizzata nel 2015, da Edoardo Tresoldi che rievoca la chiesa paleocristiana accanto a S. Maria di Siponto. Qui si inserisce il progetto (2014) di copertura e restauro dell’area etrusca di Acquarossa (Viterbo), dell’architetto Riccardo d’Aquino (ancora non realizzato). Le variazioni sul tema comune della riconfigurazione astratta, qui proposte, inducono a riflettere sulle differenti opportunità che una simile tecnica compositivo-costruttiva offre. L’intervento di Ceschi ricostruisce ‘a fil di ferro’ frontone e lato di un tempio tuscanico di cui restano in situ tracce materiali ai livelli di fondazione.
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Più precisamente, a Veio una struttura di tondini di ferro ripropone astrattamente lo schema volumetrico del tempio, mentre la decorazione architettonica della trabeazione viene riconfigurata attraverso pannelli sagomati su cui sono impressi disegni a colori desunti dallo studio dei resti originali. La semplicità della configurazione, la negazione di una riproposizione realistica, la capacità della struttura, così ‘rarefatta’, di permettere relazioni visive con le testimonianze materiali sul luogo stesso dello scavo, hanno reso la nuova immagine del tempio iconica e identitaria di un sito, tanto da tradurre l’intervento da effimero a permanente. L’uso di elementi metallici filiformi a Veio ricorda sicuramente alcune elaborazioni progettuali degli anni Trenta-Quaranta di architetti quali Figini, Pollini, Frette, Libera o del gruppo BBPR: si pensi alla trama metallica del monumento ai caduti di guerra nel cimitero monumentale di Milano (Gizzi, 2003, pp. 395-405). L’opera di Ceschi, inoltre, offre molti spunti di riflessione soprattutto in merito all’espediente compositivo della configurazione geometrica che, utilizzato da quest’ultimo con sapienza architettonica e intenzione restaurativa, rimanda ad immagini di allestimenti effimeri realizzati e progettati da Costantino Dardi negli anni Ottanta, attraverso la scrittura geometrica di griglie metalliche nel paesaggio. Risulta subito evidente quale campo di sperimentazione si possa aprire tentando di assumere la tecnica dell’astrazione-configurazione geometrica per mezzo di telai metallici quale ipotesi operativa nel restauro archeologico in situ. Con effetti percettivi piuttosto differenti dall’esempio di Veio, ma pur sempre con l’utilizzo di strutture metalliche leggere, Tresoldi riconfigura parte della volumetria della basilica paleocristiana di Siponto presso Manfredonia. Strutture scatolari resistenti per forma, costituite da reti elettrosaldate opportunamente giuntate a ridisegnare nello spazio le partiture architettoniche, restituiscono un’immagine evanescente e smaterializzata della basilica. L’esempio di Siponto dimostra come le strutture in metallo possano essere impiegate in modo alternativo rispetto al sistema usato a Veio ed incoraggia sicuramente la sperimentazione, considerando la varietà delle soluzioni possibili che un materiale come il metallo permette. Con una logica costruttiva ed estetica ancora differente, il progetto di Riccardo d’Aquino per il sito archeologico di Acquarossa sembra coniugare esigenze di restauro e di conservazione materiale dei resti. La reintegrazione delle volumetrie perdute dell’abitato etrusco e la protezione delle esigue tracce materiali a terra sono perseguite attraverso la realizzazione di vere e proprie coperture a falda, così come in antico. Un sistema di griglie metalliche, con tondini di diametro sufficiente a rendere la struttura resistente e portante, restituisce il volume delle colonne. Al di sopra di queste, travi e diaframmi triangolari metallici realizzano il sistema di copertura. La qualità estetica dell’intervento, illustrato nel dettaglio al paragrafo successivo, attraverso l’uso di griglie strutturali restituisce non solo volumetrie e spazialità dell’abitato etrusco, ma allude anche alla logica costruttiva delle sue parti. Tale aspetto, nel progetto di Acquarossa sembra essere la cifra compositiva caratterizzante che distingue quest’ultimo dagli esempi precedenti in cui non si presentava l’esigenza di realizzare una vera e propria copertura. I casi menzionati di evocazione formale e riconfigurazione spaziale rappresentano tre differenti declinazioni di una comune estetica, che si potrebbe definire dell’astrazione e che si traduce nell’uso espressivo di strutture metalliche, leggere, aperte e permeabili, particolarmente funzionali alle esigenze di restauro e musealizzazione in situ.
Esse offrono interessanti opportunità d’indagine non solo nell’ambito di allestimenti temporanei ma, come l’esempio progettuale di Acquarossa dimostra, anche di strutture pensate per configurazioni “permanenti”. Sito archeologico di Acquarossa. Restauro e nuova copertura dei resti etruschi (G. d’A) Il sito archeologico di Acquarossa si trova a circa 6 km a nord di Viterbo (fig. 1). La città etrusca prende il nome da una sorgente nelle vicinanze da cui sgorga un’acqua rossa per la sospensione di ferro. La città arcaica era costruita su un vasto pianoro, che discende dolcemente dai Monti Cimini, delimitato dai fossi di Acquarossa e Francalancia, secondo uno schema geologico tipico delle forre viterbesi. Nel 1960, a seguito della scoperta accidentale di parte delle rovine durante lavori agricoli, il re di Svezia Gustaf VI Adolf ordinò un primo lavoro di scavo sul luogo dell’antica città (Santillo Frizell, 2010); gli studi svedesi allora avviati sono tuttora di riferimento per le informazioni sul sito (Pallottino et al., 1986). I resti archeologici sono ormai pietre che completano un paesaggio punteggiato da antiche querce e noci che delimitano i pascoli. A causa della loro inconsistenza formale non sono più in grado di evocare alcuna immagine degli edifici di cui erano parte né, tantomeno, della città etrusca. Sul terreno, perfettamente allineate, gli archeologi trovarono formelle di decorazioni fittili e tegole dei tetti. Tuttavia, nel corso degli anni, i blocchi di tufo esposti all’aria si sono deteriorati a motivo della loro scarsa resistenza agli agenti atmosferici; inoltre, molti degli elementi fondali erano stati rimossi, spostati o distrutti a causa dell’uso agricolo del suolo, specialmente per via dell’impiego moderno degli aratri meccanici. Dopo lo scavo e l’indagine scientifica, si rese necessaria la realizzazione di un sistema indiretto di protezione delle murature originali, sovrapponendo ai resti un filare di moderni blocchetti di tufo, semplicemente appoggiati: era un sistema poco costoso, completamente reversibile ma, sfortunatamente, poco efficace, al quale fu aggiunta una tettoia metallica attorno al 1980. Queste strutture prefabbricate, oggi fatiscenti, fungevano da mera difesa delle rovine dagli agenti atmosferici. Nel 2014 l’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma ha promosso una competizione ad inviti a carattere internazionale per il restauro e il progetto della nuova copertura di Acquarossa, con l’approvazione ed il supporto della competente Soprintendenza italiana. Il concorso richiamava l’attenzione sul restauro dei quattro edifici etruschi all’entrata della città e sulla ristrutturazione delle tettoie che coprono i resti arcaici (fig. 2). Premessa al progetto era la comprensione del carattere della copertura: intento didattico e di trasmissione visiva di informazioni, oppure allusione ad una forma architettonica coerente con le ipotesi degli studi, senza fornire alcuna certezza riguardo alla riproduzione di forme originali per lo più sconosciute. Due principi architettonici necessari hanno orientato le prime proposte: offrire ai visitatori la percezione dello spazio urbano, sia per quanto atteneva la pavimentazione del cortile sia per ciò che riguardava i volumi, visto che le murature residue non sono in grado di fornire alcuna informazione in tale senso; nonché mantenere la forte relazione con il paesaggio mediante strutture moderne trasparenti per consentire la vista del bosco. Si è avviato il processo progettuale accettando la dominante presenza della Natura e la necessità dell’Archeologia di svelare le costruzioni arcaiche di Acquarossa (fig. 2).
Fig. 2 foto aerea del sito da google maps; in basso: foto del contesto e delle tettoie protettive
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Serafina Cariglino Riccardo d’Aquino Francesca Lembo Fazio Fig.3 A sinistra: primi schizzi della nuova struttura; a destra: rilievo da laser scanner (Foto di: D. Palumbo, 2016)
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La Commissione giudicatrice era diretta dal dott. Kristian Göransson, direttore dell’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma, dalla direttrice della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale dott.ssa Alfonsina Russo e dalla dott.ssa Margareta Strandberg Olofsson, archeologa responsabile di Acquarossa e direttore scientifico del Museo Nazionale Etrusco di Viterbo. Il gruppo di progettazione risultato vincitore era composto dal prof. arch. Giovanni Carbonara, dagli arch. Gioia Barchiesi Ghenzi, Serafina Cariglino, Teresa Cuccarese, Natalie Lazzaro, dall’ing. Paolo Uliana e coordinato dall’arch. Riccardo d’Aquino. La nuova copertura e le strutture di supporto sono state disegnate focalizzando l’attenzione sui principi della Carta di Venezia e sulle posizioni culturali di Renato Bonelli (Bonelli, 1963), da cui sono stati estratti quattro principi fondamentali: 1. il nuovo tetto avrebbe dovuto promuovere la comprensione delle tracce archeologiche. Sarebbe stata più una ‘ricostruzione’ che una ‘nuova costruzione’, o meglio un restauro dell’immagine archeologica (non di quella originale); 2. ‘frammento’ sarebbe stata la parola conduttrice e capace di descrivere tutti gli elementi che compongono la nuova copertura, anche a livello didattico. Un grande gesto scenografico per il tetto sarebbe apparso come un’imposizione arbitraria di elementi architettonici sul Luogo, il quale rimane il documento più significativo dal punto di vista fisico e l’unica memoria della relazione Natura – Architettura; 3. copie delle decorazioni fittili e dei capitelli tufacei originali, oggi conservati a Viterbo, avrebbero potuto essere esposte nella loro posizione originale sul nuovo costruito in una sorta di museo a cielo aperto; 4. inoltre, la nuova pavimentazione avrebbe dovuto connotare le diverse qualità degli spazi originali evidenziando il loro diverso carattere con colori, grana e disegno differente del terreno. La nuova struttura (fig. 3) è concepita come una sorta di rete metallica tridimensionale, resistente agli sforzi anche sismici, all’azione del vento e trasparente. Le nuove strutture mirano a sottolineare gli elementi costruttivi archeologici. Sono fondate sul suolo archeologico evitando fondamenta profonde o continue e seguono le tracce degli edifici arcaici A e C. I pilastri esterni sono realizzati in legno e delicatamente rastremati per trovare un collegamento ideale con gli alberi che circondano l’area. Le lastre di copertura in acciaio corten sono piegate per generare aperture utili a
Fig. 3 Assonometria dell’intervento.
ridurre l’effetto di sollevamento dovuto alla forza del vento. Sono quindi superfici discontinue che mantengono la loro funzione ‘protettiva’ o l’idea di un tetto a due falde, la probabile forma originale, senza alcuna imposizione arbitraria su forme sconosciute e altezze. L’acciaio è il materiale da costruzione per questo progetto per la possibilità che offre di ridurre la sua massa aumentando la trasparenza, fornendo inoltre un’eccellente resistenza. È anche uno dei materiali da costruzione più coerenti per i siti archeologici; assemblato a secco evita dannose dispersioni d’acqua. Le strutture per i nuovi tetti di Acquarossa sono progettate utilizzando prodotti industriali bidimensionali e semitrasparenti (reti e fili di acciaio). Il numero e la geometria degli elementi strutturali li hanno resi più leggeri e hanno permesso di evitare fondamenta profonde. Inoltre, le strutture mirano ad evocare la memoria volumetrica degli edifici attraverso la loro trasparenza e consistenza immateriale. In realtà, il nuovo sistema strutturale disegna una tettonica che ricorda la muratura piuttosto che l’acciaio: la nuova struttura sembra chiedere che i resti delle costruzioni arcaiche partecipino alla realizzazione, senza imporre un qualche linguaggio contemporaneo alla loro antica presenza. Il progetto strutturale utilizza reti e fili, avvolgendoli per formare colonne o piegandoli per costruire capriate triangolari, un’idea di resistenza strutturale per forma, un concetto quasi perso nell’architettura contemporanea in cui i linguaggi architettonici non influenzano le relazioni tra forma e struttura: il calcolo diventa qui necessario per giustificare fisicamente la forma del progetto, architettura e ingegneria sono una cosa sola. I dettagli del nuovo sistema di copertura per Acquarossa (fig. 4) hanno lo scopo di suggerire l’orizzonte del sito archeologico, mostrando copie degli elementi fittili originali, oggi realizzabili con scansioni laser e stampanti 3D. Inoltre, la ricostruzione delle colonne, la piegatura di reti in acciaio e l’avvolgimento di fili per sostenere i nuovi tetti seguono lo stesso principio di ridotta materialità e intendono valorizzare la presenza della struttura al di là delle sue specifiche esigenze tecniche. Il nuovo sistema di coperture mira a favorire la comprensione delle tracce archeologiche, il progetto di una ‘ricostruzione’ piuttosto che un ‘nuovo intervento’ di costruzione. Nell’incrocio fra le colonne e la struttura in acciaio del tetto, è possibile inserire copie dei capitelli originali in resina sintetica al fine di suggerire scorci e prospettive dei volumi delle antiche costruzioni. Allo stesso modo, a seguito di ulteriori ritrovamenti dell’apparato decorativo e di capitelli, sono state inserite nella nuova struttura riproduzioni in resina sintetica delle decorazioni originali per ottenere ombre e sugge-
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Serafina Cariglino Riccardo d’Aquino Francesca Lembo Fazio Fig. 4 Dettagli architettonici e strutturali che mostrano la composizione della struttura in acciaio, il tetto in acciaio corten e le copie in resina delle decorazioni fittili originali (in basso).
stioni antiche. Oltre a seguire protocolli fisico-chimici precisi, necessari per la migliore tutela dei resti arcaici, ad Acquarossa il restauro doveva coinvolgere l’immagine del Luogo, la memoria della città etrusca, il suggerimento della presenza volumetrica degli edifici. A proposito delle protezioni delle murature etrusche, si è scelto di seguire e re-interpretare il sistema svedese: sono stati semplicemente ruotati i mattoni di tufo verticalmente sulle murature arcaiche, inserendo uno strato sacrificale tra i blocchi di pietra originali e l’aggiunta contemporanea (fig. 5). In questo modo, si sono protette le creste delle murature; inoltre, alzando la quota degli elementi di tufo originale per effetto dei nuovi inserimenti, si è aumentata la visibilità delle file di pietra arcaica a beneficio dei visitatori. Riguardo alle superfici orizzontali, non sapendo se e quali fossero le pavimentazioni, sono state progettate superfici di terra stabilizzata (tipo Levostab) per evitare la crescita spontanea della vegetazione, assicurare un buon drenaggio delle superfici orizzontali e proteggere la base delle murature etrusche dal ruscellamento dell’acqua piovana. Si sono anche utilizzati diversi colori, venature e grane delle terre per evidenziare le differenze tra gli spazi archeologici: l’interno dell’edificio, il cortile e le fasce in terra sciolta (pozzolana) lungo le pareti di tufo, creano un distacco protettivo dalle murature etrusche (fig. 5). In conclusione, il progetto architettonico offre una lettura più chiara e immediata del sito archeologico. Le strutture a griglia e il tetto restituiscono la percezione volumetrica di alcuni edifici della città arcaica. L’inserimento delle copie in resina degli elementi decorativi conferisce alle ricostruzioni un tocco di realtà. Le pavimentazioni colorate e le murature etrusche protette offrono una lettura più chiara e immediata del sito archeologico. L’architettura può servire l’archeologia offrendo immagini moderne del passato. Bibliografia Augè M. 2004, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringheri, Torino. Bonelli R. 1963, Restauro Architettonico, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. XI, Roma, pp. 344-352. Brandi C. 2000, Teoria del restauro, Einaudi, Torino [ed. orig. 1977]. Carbonara G. 2015, Archeologia, architettura e restauro: problemi di conservazione e presentazione, in L’archeologia in Italia: la sfida con la realtà. Ricerca, tutela, valorizzazione,
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Fig.5 A sinistra: schizzi e disegni di dettaglio che mostrano la conservazione delle pareti arcaiche; a destra: pianta di restauro che mostra le pavimentazioni.
gestione, Atti del Convegno, «Aedon», <http://www.aedon.mulino.it/atti/2017/archeologia_in_ italia/carbonara.pdf>. Gallo F. 2016, Lo studio delle mostre d’arte contemporanea: approcci e problemi, dall’effimero al permanente, in F. Gallo, A. Simonicca (a cura di), Effimero. Il dispositivo espositivo tra arte e antropologia, CISU, Roma, pp. 29-44. Gizzi S. 2003, Al confine tra ricostruzioni archeologiche e architettura moderna fino agli anni Ottanta, in V. Franchetti Pardo (a cura di), L’architettura nelle città italiane del XX secolo. Dagli anni Venti agli anni Ottanta, Jaca Book, Milano 2003, pp. 395-405. Minissi F., Ranellucci S. 1992, Museografia, Scuola di specializzazione per lo studio ed il restauro dei monumenti, Gangemi Editore, Roma. Ostenberg C. E. 1975, Case Etrusche di Acquarossa, Multigrafica Editrice, Roma. Pallottino M. et al. 1986, Architettura etrusca nel viterbese: ricerche svedesi a San Giovenale e Acquarossa 1956-1986, De Luca, Roma. Pane A. 2017, Per un’etica del restauro, in S. F. Musso (a cura di), RICerca/REStauro, Questioni teoriche: inquadramento generale, Edizioni Quasar, Roma Rystedt E., Wikander O. 2017, Acquarossa, «Forma Urbis», n.12, pp. 22-25. Ricci A. 2006, Attorno alla nuda pietra. Archeologia e città tra identità e progetto, Donzelli Editore, Roma. Santillo Frizell B. 2010, Il Re archeologo Gustavo VI Adolfo nel Viterbese, «Biblioteca e Società», vol. LXV, n. 1-2, pp. 20-23, <http://www.bibliotecaviterbo.it/biblioteca-e-societa/2010_1-2/cap6_ frizell.pdf >. Santopuoli N. (in stampa), Opere provvisionali di messa in sicurezza: architetture effimere per il restauro e la valorizzazione del patrimonio monumentale. Sposito C. 2015-2016, Coprire l’antico: sistemi e tipi per conservare, in A. Sposito, A. Mangiarotti (a cura di), Project Soluntum. Tradition and Innovation in ancient Contexts, erMes, Palermo, pp. 127136. Unali M. 2010, Architettura effimera, in Enciclopedia Treccani Lessico del XXI secolo, <http://www. treccani.it/enciclopedia/architettura-effimera_%28XXI-Secolo%29/>.
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Valorizzazione, turismo, identità e restauro. Alcune considerazioni sui beni culturali in Sicilia Carmen Genovese
Carmen Genovese
Soprintendenza Archivistica della Sicilia –Archivio di Stato di Palermo, MiBACT.
Abstract The link between the enhancement of cultural heritage and tourism generates debates and reflections, reviving from time to time in the geographical areas in which the flow of travelers increases. Particular perplexity is raised by the possible “profitability” or economic sustainability of the cultural heritage, which is obtained essentially with the desirable incentive for the use and therefore of tourist flows and which, if not properly pursued, can hinder the fundamental instances of protection. The essay deals with this theme in Sicily, a region with historical, cultural peculiarities and, since 1975, also by regional legislation that governs the protection of the island’s cultural heritage, where tourism-related issues have influenced the strategies for the protection and restoration of monuments. Starting from some emblematic episodes, it is part of the lively and current debate on the “management” of the island’s cultural heritage. Keywords Sicilia, turismo, valorizzazione, identità, autonomia
Il nascente turismo, inteso come asservimento “al forestiero troppo amato”, fu criticato ad esempio dal Futurismo, che criticò il “passatismo italiano sotto tutte le sue forme ripugnanti: archeologia, accademismo, […] industria del forestiero” (Marinetti, 1914).
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Il legame tra la valorizzazione dei beni culturali ed il turismo suscita dibattiti e riflessioni rinnovate di volta in volta dal crescente flusso turistico in varie regioni del mondo. A suscitare particolari perplessità è la possibile redditività o, che dir si voglia, sostenibilità economica del patrimonio, che si ottiene essenzialmente con l’auspicabile incentivazione della fruizione e dunque dei flussi turistici e che, se non opportunamente perseguita, può portare ad un allontanamento dalle fondamentali istanze della tutela. Il saggio affronta questo tema in Sicilia, regione unica nel quadro nazionale per l’assetto legislativo che governa, dal 1975, la tutela dei suoi beni culturali. Qui le istanze legate al turismo hanno talvolta influito sulle strategie di tutela e restauro dei monumenti: partendo da alcuni episodi emblematici, le riflessioni che seguono si innestano nel dibattito vivo ed attuale sulla gestione dei beni culturali dell’isola e sul loro possibile destino.
Fig. 1 Graffiti stencil apparso nel centro storico di Palermo, sul prospetto del Teatro Garibaldi: “Tourism is colonialism”
L’“industria del forestiero” in Sicilia Nel solco della tradizione del Grand Tour, nei primissimi anni del Novecento si afferma anche in Sicilia una nuova figura di viaggiatore colto che intende visitare i luoghi ormai noti del patrimonio monumentale archeologico e medievale con le comodità e le facilitazioni dell’epoca moderna, aprendo la strada a quello che sarà, via via, il cosiddetto, famigerato turismo di massa. Infatti, nonostante alcune isolate critiche1, la cosiddetta “industria del forestiero”2 si sviluppa velocemente, intervenendo in modo sempre più incisivo nell’economia ed orientando talvolta anche la scelta dei monumenti da restaurare e le modalità con cui renderli più “attraenti” agli occhi dei turisti. Si va consolidando l’iconografia dei luoghi emblematici della “sicilianità”, resa attraverso paesaggi, scorci e monumenti che hanno lo scopo di pubblicizzare i luoghi di fronte ad una vasta platea di potenziali visitatori; al contempo la nuova “industria” si svincola dal viaggio di studio per accogliere valenze legate al divertimento ed allo svago. Tali istanze si tramutano anche nella nascita di riviste tematiche, come “La Sicile illustrée”3 e specifici movimenti associazionistici.
Questa espressione compare all’inizio del Novecento e denota già, in maniera esplicita, la possibile ricaduta economica, “industriale” di quello che poi sarebbe stato il turismo. 3 La rivista, ricalcando a scala regionale le orme de “Le vie d’Italia”, promosse in Sicilia luoghi e “cose d’arte” con un taglio regionalistico ed identitario. Dal 1911 la rivista pubblicò anche gli atti dell’Associazione pel movimento dei forestieri in Sicilia (Bajamonte, 2017). 2
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Carmen Genovese Fig. 2 Selinunte, il Tempio C dopo l’anastilosi. Cartolina (Stab. D. Anderson, 1929). Fig. 3 Castelvetrano-Selinunte. Il Tempio C ricostruito idealmente in una cartolina del primo Novecento. 4 Il tema delle infrastrutture è spesso tirato in causa sin dai primi anni del Novecento, sull’eco dei racconti spesso rocamboleschi dei viaggiatori del Grand Tour in Sicilia. “Non vi è lembo di mondo che meriti maggiormente di essere conosciuto ed esplorato in ogni suo punto. […] La Sicilia dovrebbe essere considerata il paradiso dei turisti […]. Quello che alla Sicilia occorre non è una serie di monumentali opere o di grandiose costruzioni, ma ferrovie […] allo scopo di portare l’ultimo lume di civiltà ove ancora ne esiste il bisogno, di svelare e rendere accessibili tutti i tesori di una regione privilegiata, che gli italiani hanno il torto di non conoscere per sé e di non saper far conoscere agli altri” (Tajani, 1917, p. 247). 5 L’Associazione propose che il palazzo, allora sede dei Tribunali, fosse destinato a Museo Archeologico, e sollecitò i restauri che effettivamente di lì a poco sarebbero stati eseguiti. 6 La segnalazione in effetti contribuisce a decretare, lo stesso anno, il restauro della chiesa (Genovese, 2010, p. 68).
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Prima tra tutte l’Associazione pel movimento dei forestieri in Sicilia, antesignana come in altre regioni delle “Pro-loco”, dal primo Novecento non solo promuove lo sviluppo delle condizioni a contorno favorevoli al turismo, come la realizzazione di infrastrutture viarie e ferroviarie4, ma interviene anche a favore della tutela dei monumenti, giustamente intesi come il primo volano del turismo. Troviamo l’Associazione attiva a Palermo nella difesa del palazzo Chiaramonte5; inoltre nel 1920 i suoi membri segnalano al Consiglio di AA.BB.AA la costruzione abusiva di alcune costruzioni intorno alla chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi a Palermo, auspicando il restauro della chiesa e giudicando quello stato di cose “atto offensivo al sentimento artistico della popolazione […] specie se si rifletta che il monumento è visitato dai forestieri, epperò espone il paese ad aspre critiche”6. Nel 1913 prendono avvio le rappresentazioni nei teatri greci siciliani, grazie anche all’interazione tra vari enti regionali e nazionali, con “una vera e propria campagna pubblicitaria sulle principali testate nazionali e internazionali per puntare l’attenzione sull’evento e far confluire quante più carovane di turisti” (Sirena, 2017, pp. 2740-2741). A Taormina, già meta privilegiata dei viaggiatori del Grand Tour, dalla seconda metà dell’Ottocento sorgono nuovi alberghi per un crescente numero di visitatori non più disposti a soggiorni disagevoli pur di studiare i monumenti. A ciò si accompagnano già allora gli effetti collaterali a discapito del patrimonio, come l’incremento della vendita illegale di reperti archeologici, anche di falsi7. Tra gli effetti più evidenti dell’ampliamento della platea dei visitatori vi sono quei restauri volti a facilitare la comprensione dei monumenti ai “non conoscitori” e di certo l’anastilosi è tra gli strumenti più efficaci di “valorizzazione” del patrimonio archeologico, da sempre meta privilegiata dei turisti. La riscoperta e il restauro dei resti archeologici come volano per lo sviluppo delle potenzialità turistiche dell’isola diventa presto una causa molto sentita dalle Istituzioni pubbliche e talvolta anche dai singoli privati, con la conseguente messa a disposizione di finanziamenti non solo per scavi ma anche per costose ricomposizioni: ad esempio nel 1921 il capitano Hardcastle8, allo “scopo di rendersi utile all’incremento degli studi archeologici e rendersi benemerito all’industria dei forestieri”, finanzia l’anastilosi parziale del tempio di Eracle ad Agrigento “a somiglianza di quanto si è fatto a suo tempo per il tempio di Castore e Polluce” (Genovese, 2017, p. 208), già diventato monumento iconico nel nascente turismo in Sicilia. Nel 1924 Mussolini, allora Ministro degli affari esteri, destina parte di una donazione di un italiano residente all’estero “a uno scopo di alto interesse nazionale, qual è quello di far rivivere, sotto la luce dell’arte, uno dei templi di Selinunte, avanzi mae-
stosi del glorioso periodo della civiltà greco-sicula”9. Dopo l’anastilosi, come è noto, le immagini del Tempio C (fig. 2) sarebbero state uno dei più efficaci biglietti da visita della Sicilia turistica. Un nuovo tipo di restauro: il restauro turistico In questo nuovo quadro il patrimonio archeologico costituisce sempre, in Sicilia, l’oggetto privilegiato di interesse. Selinunte resta un campo particolarmente significativo nell’ambito del tema restauro-turismo anche nella seconda metà del Novecento con l’anastilosi del Tempio E, significativamente promosso dall’Assessorato del Turismo siciliano e dalla Cassa per il Mezzogiorno (Bovio Marconi, 1967). Carlo Ceschi, che fornisce una consulenza tecnica all’archeologa Iole Bovio Marconi, nel 1970, a pochi anni dall’intervento, così si esprime: “È possibile che una ricostruzione come quella del Tempio E di Selinunte possa anche ritenersi eccessiva, non necessaria e persino antistorica”. Tuttavia prevarrà la “necessità di fruizione da parte di una società di massa di queste vestigia fino a mezzo secolo fa riservate ad una élite di studiosi e poeti”. Infatti “il verificarsi di condizioni umane diverse e la crescente mobilità delle masse, l’accentuarsi dell’interesse culturale come promotore del cosiddetto turismo […] ha mutato ancora una volta il rapporto tra l’opera d’arte e gli uomini stessi. […] Abbiamo forse inventato un nuovo tipo di restauro: il restauro turistico?” (Ceschi, 1970, pp. 131-132). In effetti l’anastilosi del Tempio E porrà a lungo non pochi interrogativi sulla legittimità dell’operazione e sui limiti possibili di ricomposizione dei resti, volti secondo Ranuccio Bianchi Bandinelli, a “favorire una cultura di moda del turismo rozzo, spettacolare, diseducativo”. Lo studioso offre nel 1958 anche una più ampia testimonianza - frutto di un viaggio in Sicilia affrontato dopo un lungo periodo di assenza dall’isola - sui cambiamenti e sui rischi legati al “turismo rozzo”, constatando che “la storia antichissima dell’isola sta mutando volto”. Egli, a lungo impegnato nella “promozione di un turismo di qualità” (Russo Krauss, 2017), critica alcuni degli ingenti finanziamenti regionali per i restauri e gli scavi: “i problemi archeologici sono visti dalle autorità regionali come problemi di incremento turistico: e sta bene. Ma c’è un’iniziativa turistica bene intesa, che, oltre ad essere fonte di incremento economico, è anche strumento educativo, culturale; e c’è iniziativa turistica male intesa, che violenta monumenti e paesaggi che intendeva valorizzare e che finisce per essere anticulturale, diseducativa, invito alla rozzezza mentale”. Gli effetti di tale politica sono ad esempio la “strada turistica […] che ha tolto il tempio della Concordia dal suo ambiente naturale per porlo sull’asse di un’arteria asfaltata” e quella che “recentemente, ha distrutto […] il paesaggio della necropoli di Pantalica” (Bianchi Bandinelli, 1959, p. 3). Tornando a Selinunte, in concomitanza con l’anastilosi del tempio E alcuni studiosi propongono la ricostruzione del vicino Tempio G. Ciò lascia adito a molte critiche; come quella di Cesare Brandi, che oltre alle perplessità sulla legittimità dell’intervento sul piano scientifico, ribadisce che l’enorme cumulo di rovine “atterrisce quasi ed è uno spettacolo unico al mondo” più che il tempio ricomposto (Brandi, 1978, p. 179). Intorno al 2010 l’idea dell’anastilosi viene riproposta da una parte della comunità scientifica e da alcune componenti politiche, non celando troppo le lusinghe offerte dall’eventuale incremento turistico legato alla ampia “godibilità” di uno dei templi più imponenti della Sicilia, seppure ormai nell’epoca dei mezzi comunicativi resi disponibili dalla realtà multimediale. Il convegno “Selinus 2011”, organizzato dall’allora Soprin-
7 A Taormina con il nascente turismo, “si sviluppa un fiorente commercio antiquario e […] sono numerosi i privati e i musei che acquistano sul mercato antiquario taorminese, a volte anche con notevoli raggiri” (Muscolino, 2014, p. 116). 8 Alexander Hardcastle, ricco londinese, stabilitosi nella villa Aurea all’interno della Valle dei Templi, finanzia numerose campagne di scavo. 9 La comunicazione è tratta da una lettera inviata nel 1924 dal Ministro degli affari esteri Mussolini alla Soprintendenza ai Monumenti della Sicilia (Genovese, 2010).
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Carmen Genovese Fig. 4 Piazza Armerina. Villa del Casale. Le nuove coperture in legno e, in secondo piano, quelle in ferro e plexiglass.
10 Con i D.P.R. 635 e 637 del 1975 recanti le norme per l’attuazione dello Statuto della Regione Siciliana in materia di beni culturali, si istituisce l’Assessorato per i beni culturali ed ambientali (Valbruzzi, 2019).
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tendente del Parco Caterina Greco, è stata una proficua occasione di confronto sulle premesse scientifiche e, più in generale, sull’opportunità dell’anastilosi del Tempio G ed ha visto confrontarsi studiosi con diverse provenienze: Università, Amministrazione regionale, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in una prospettiva di dialogo e confronto extra regionale. Molti furono i pareri contrari e l’anastilosi, come è noto, non fu intrapresa. “Come si può oggi, pensare di rialzare un ammasso di rovine e sollecitare il peggiore gusto dei visitatori con un falso storico farcito di vistosi rappezzi e di sostanziose reintegrazioni, quali sarebbero indubbiamente richiesti dalle condizioni dei resti?” (Vlad Borrelli, 2016, p. 482). Intanto non è completamente scongiurato il periodico ritorno degli intenti ricompositivi, tanto più che, come chiarisce Clemente Marconi prendendo in prestito le teorie del sociologo John Urry, la storia di Selinunte rappresenta “l’evoluzione di un sito archeologico in età moderna e le sue trasformazioni nell’epoca del crescente turismo di massa, e di un mercato sempre più competitivo, anzitutto a livello regionale (basti ovviamente pensare alla vicina Agrigento)” (Marconi, 2016, p. 76). Restauro, valorizzazione e turismo tra opportunità e pericoli È difficile parlare di turismo e valorizzazione in Sicilia senza parlare di tutela e restauro; è quasi impossibile, infine, non ricordare l’eccezionale condizione, nel quadro nazionale, dei beni culturali in questa regione che, a statuto diremmo “specialissimo”, dal 1975 vede lo Stato delegarne alla Regione Sicilia la tutela10. Senza voler ripercorrere la storia istituzionale della tutela dei beni culturali di una regione in cui il turismo - quello di massa ma per fortuna anche quello culturale - è una fonte importantissima di reddito, in questa sede è interessante però rilevare che in materia di valorizzazione e gestione dei beni culturali, anche in relazione alle politiche del turismo, l’autonomia dal sistema statale ha favorito, nel bene e nel male, iniziative autonome che spesso si sono rivelate precorritrici degli orientamenti poi recepiti anche sul piano nazionale. Da una parte dunque vi è una certa autonomia nell’intraprende vie innovative di tutela e valorizzazione, in qualche modo svincolate non solo dalle istituzioni ma anche dal dibattito critico nazionale. Come si è detto, tale condizione ha determinato pro e contro: alcuni casi significativi, seppur nella loro specificità, possono fornire un’idea. Si pensi ad esempio alla proposta di sostituzione della degradata copertura della Villa
del Casale di Piazza Armerina, realizzata da Franco Minissi nel 1963. L’intervento, presentato ufficialmente nel 2006 e realizzato su progetto del Centro del Restauro Regionale stravolgendo di fatto l’immagine ormai consolidata di uno dei più siti conosciuti e visitati dell’isola (fig. 4), patrimonio UNESCO, avrebbe potuto (o dovuto?) riscuotere maggiore partecipazione a livello nazionale. A nulla sono valsi gli appelli di personalità della cultura, come il compianto Sebastiano Tusa, allora Soprintendente del mare, e del mondo universitario, come i professori Franco Tomaselli e Marco Dezzi Bardeschi, rivolti anche al Ministero per i beni e le attività culturali e inascoltati (Dezzi Bardeschi, 2004; Alagna, Tomaselli, 2007). È significativo peraltro che questi studiosi chiedessero, oltre alla conservazione dell’opera di Minissi emblema del restauro critico, che il cospicuo finanziamento disponibile fosse impiegato non solo per la conservazione ma anche nel miglioramento dei servizi per la fruizione turistica11. Nella vicenda, nel suo complesso, è ravvisabile una certa lontananza, non solo istituzionale, della Sicilia dal sistema di tutela e, probabilmente, dal dibattito nazionale; certo è che, trattandosi di interventi sul patrimonio culturale, dunque patrimonio di tutti, questo tipo di autonomia non è un vantaggio per la collettività. Di contro sono interessanti alcune specificità del sistema di tutela siciliano e le reali ripercussioni sul patrimonio: si pensi all’istituzione della Soprintendenza del mare, che grazie al suo ideatore e Soprintendente, l’archeologo Sebastiano Tusa, dal 2004 non solo ha sviluppato plurime azioni di tutela diretta del patrimonio costiero e sommerso, ma ha attivato azioni trasversali tra tutela, valorizzazione, restauro, turismo, economia, ecologia portando a fruttuosi risultati. Si pensi, solo per citare un esempio, al complesso della Tonnara di Favignana, salvata dall’abbandono, restaurata e rifunzionalizzata; inaugurata nel 2009, è oggi centro propulsore e luogo di sintesi di un’offerta culturale ampia per temi (il mare, la storia, l’architettura, l’archeologia, l’ecologia) ed approcci multimediali, in una dimensione mediterranea, in linea appunto con la politica culturale più volte chiarita dal Soprintendente e poi Assessore Tusa. Sul tema della comunicazione, l’autonomia amministrativa siciliana fa sì che il patrimonio, non solo monumentale ma anche museale, non sia incluso nei canali di comunicazione del MiBACT, con evidenti ripercussioni sulla notorietà e dunque sulla frequentazione dei luoghi12. La comunicazione delle istituzioni culturali siciliane dunque può incontrare, più che altrove, difficoltà nel superare la dimensione regionale ed arrivare a più ampi bacini di utenza. In tal senso il museo archeologico Salinas di Palermo costituisce un esempio virtuoso e, per quanto detto, controcorrente. Infatti, grazie ad un’efficace campagna estesa oltre ai canali istituzionali di comunicazione, è riuscito ancor prima della sua riapertura post restauro a diventare “social museum… a porte chiuse” (Bonacini, 2016, p. 225) e ad intensificare, poi, il flusso di visitatori (fig. 5). Istanze attuali e problemi di identità L’istituzione, nel 2008, dell’Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana13 rimarca la volontà di autonomia dei beni culturali siciliani rispetto al quadro nazionale: l’identità sembrerebbe caratterizzare le logiche di tutela e valorizzazione, per un’offerta culturale identitaria da offrire anche al visitatore esterno. Tuttavia le critiche a questo approccio, che rischia di trasformare “il concetto di «identità culturale» in una rappresentazione folcloristica della Sicilia, ad uso e consumo del turismo di massa” (Valbruzzi, 2019, p. 214), non sono mancate e anzi si sono intensificate negli ultimi tempi.
Fig. 5 Palermo, Museo Archeologico Salinas. Un’immagine tratta dalla pagina Facebook.
11 “Un’importante opera d’architettura contemporanea, la copertura della Villa del casale progettata da Franco Minissi negli anni ‘60 e ‘70 per proteggere i ruderi e soprattutto i pavimenti a mosaico della villa d’ epoca romana tardo-imperiale, sta per essere distrutta […]. Con quei 24 milioni di euro, a loro dire, alla Villa del Casale si potrebbe fare ben altro: «Migliorare il sistema di fruizione del sito costruendo adeguati servizi d’ accoglienza per le migliaia di visitatori, risolvere il problema della vendita di gadget e souvenir che affoga l’ingresso alla villa, continuare la ricerca archeologica»” (Ziniti, 2006). 12 “La competenza esclusiva in materia di beni culturali ha fatto sì, per esempio, che si sia pagata a caro prezzo l’autonomia in termini di comunicazione e valorizzazione digitale dei beni culturali: non si contano, negli ultimi anni, i progetti, i portali web e le app ministeriali da cui sono stati esclusi i beni ricadenti in questa regione a statuto autonomo, non ultimo il progetto MuD” (Bonacini, 2016, p. 227).
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Carmen Genovese Figg. 6-7 Santa Croce Camerina, Torre Scalambri prima e dopo il recente restauro per il riuso a fini turistici. 13 Con L.r. 19/2008, Norme per la riorganizzazione dei dipartimenti regionali. Ordinamento del Governo e dell’amministrazione della Regione, si istituisce questo Assessorato competenza su “patrimonio archeologico, architettonico, archivistico, bibliotecario, etnoantropologico e storico-artistico. Tutela dei beni paesaggistici, naturali e naturalistici. Attività di promozione e valorizzazione delle tradizioni e dell’identità siciliana”. 14 “L’identità Sicilia è, perciò, un brand naturale nel quale a parlare è la nostra “specialità” in quanto, al contempo, isola (con tutto ciò che questo comporta) e più grande regione italiana” (Samonà, 2018). Si noti che queste dichiarazioni sono di chi è stato recentemente nominato Assessore ai Beni Culturali e all’Identità Siciliana!
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Il rischio è quello di unificare, appiattire, inglobare il patrimonio architettonico, archeologico e paesaggistico in un unico slogan, o addirittura in un brand14, che rischia di banalizzarne il significato, privilegiandone, anche nelle azioni di restauro, le declinazioni più rispondenti alla “sicilianità” nell’immaginario collettivo. Naturalmente chi critica questo approccio non vuole demonizzare lo sviluppo turistico che, in crescita in tutta la Sicilia negli ultimi anni, oltre che una risorsa economica costituisce una straordinaria opportunità per il riconoscimento, finalmente, anche da parte dei siciliani, dell’immenso valore del patrimonio culturale, materiale ed immateriale, della regione. Si pensi a tal proposito alla città di Palermo, in cui l’incremento del flusso turistico è coinciso, in un alterno rapporto di causa ed effetto, con la nascita di nuove risorse economiche ma anche con il miglioramento della qualità della vita dei cittadini. Certamente il processo di cambiamento dei luoghi inevitabilmente associato allo sviluppo turistico deve essere ben monitorato e governato. Riferibile in qualche modo a queste considerazioni, oltre che particolarmente attuale, è il dibattito sull’impatto che il riconoscimento UNESCO, nel 2015, del percorso arabo-normanno di Palermo, Monreale e Cefalù - di per sé avvenimento oggettivamente positivo - potrà avere sui monumenti e, più in generale, sulla crescita turistica del territorio. In particolare il flusso considerevole di turisti nel centro storico di Palermo rischia infatti, se non ben colto come straordinaria occasione di sviluppo culturale ancor prima che economico, di portare a fenomeni di gentrification e perdita di “identità” – ora è il caso di dirlo – di una città molto caratterizzata, nonché ad una errata o strumentale percezione, e dunque fruizione, dei monumenti coinvolti (fig. 1).
Tra i tanti siti UNESCO siciliani che hanno percorso la giusta strada vi è un altro importante centro storico, Ragusa Ibla, che ha sviluppato un turismo tendenzialmente orientato alla conservazione dei luoghi e dei monumenti, senza limitarsi alle mete “emergenti” ma valorizzando anche il contesto paesaggistico e il grande patrimonio immateriale delle tradizioni che, anche nel caso delle città barocche del sud est della Sicilia, costituiscono un grande patrimonio da tutelare. Sempre nel ragusano, d’altro canto, si registra negli ultimi anni un singolare tipo di turismo che si potrebbe definire “televisivo”, riferito agli scenari delle fiction di grande successo tratte dai racconti di Andrea Camilleri. Il rischio è che i flussi turistici importanti privilegino l’osservazione di singoli monumenti o addirittura scorci e punti di vista, alla ricerca dei “luoghi di Montalbano” con la banalizzazione della percezione di quel territorio e dei suoi plurimi valori. Fortunatamente si innescano anche tendenze positive, come nel caso della cinquecentesca torre Scalambri: nel generale abbandono delle torri di avvistamento costiere della Sicilia e dopo decenni di incongrue trasformazioni tanto da essere irriconoscibile (Genovese 2018), la torre è stata restaurata per ospitare un bar sul mare con vista sulla vicina “casa di Montalbano”! (Figg. 6-7) Infine un tema di grande attualità a livello nazionale è la legittimità di concedere l’uso dei siti culturali a sponsor e finanziatori e, se sì, quali sia la tipologia di eventi ammissibili. Come è noto alcune polemiche sono nate dopo la concessione a privati del Castello Sforzesco di Milano, il Palazzo Pitti di Firenze, la Reggia di Caserta e si connettono col dibattito su come debba essere intesa la valorizzazione, ravvivato alla luce della Riforma del MiBAC Franceschini del 2014. In Sicilia, ricca di siti di grande impatto visivo e scenografico, le richieste di organizzare eventi di spettacolo e intrattenimento, addirittura concerti, non sono mancate e, quasi sempre, sono state accolte (Mazza, 2019). Così facendo, secondo alcune interpretazioni, oltre ad acquisire proventi economici dagli utilizzatori, normalmente brand di grande notorietà, si è cercato di promuovere il patrimonio culturale nel mondo, e dunque in qualche modo il turismo. Purtroppo tale comunicazione non è stata sempre filtrata o calibrata in funzione della “sacralità” del bene culturale che faceva da quinta, trasmettendo così un messaggio superficiale di quei monumenti, talvolta mistificante, oltre che a privare il bene alla comunità per il tempo necessario all’allestimento di palchi e strutture che “usano” i monumenti come quinta scenica. Nonostante possa apparire un gioco di parole, il brand Sicilia citato prima sembra aver preso pienamente forma ed essersi consolidato quando a farne uso sono i brand internazionali. Insomma il brand, o l’etichetta, sembra essere lo strumento di comunicazione privilegiato. Per fare solo due tra gli esempi più noti, le case di moda Gucci e Dolce e Gabbana hanno scelto, lo scorso anno, due luoghi di grande impatto per sfilate e campagne pubblicitarie: i parchi archeologici di Selinunte e Agrigento (fig. 9) con il conseguente e prevedibile clamore e ritorno mediatico. In realtà non si deve demonizzare questo fenomeno, specialmente in un’epoca in cui gli introiti derivanti potrebbero finanziare la cura e la puntuale manutenzione dei beni, dunque la loro conservazione. D’altronde la scelta di luoghi d’arte come set per campagne pubblicitarie di vario tipo conta su una lunga tradizione e, se opportunamente gestito, può veramente costituire un canale di comunicazione ammissibile (fig. 8).
Fig. 8 Una pagina tratta dalla rivista «Bellezza» degli anni 1950-60 (Castiglione 2017, p. 2100). La modella, posa sui mosaici della Villa del Casale a Piazza Armerina. Fig. 9 Selinunte, Parco archeologico. Un’immagine della campagna pubblicitaria Gucci del 2019.
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Carmen Genovese Fig. 10 Palermo, Chiesa di Santa Caterina. Un’immagine dell’edizione 2018 del festival “La macchina dei sogni”.
Certo è, tuttavia, che non si può sorvolare sulla funzione imprescindibile che, istituzionalmente, ha il patrimonio culturale – dunque anche quello siciliano - cioè quella educativa rivolta all’intera comunità; fortunatamente non mancano le iniziative di utilizzo dei monumenti siciliani in tal senso, si pensi alle consolidate stagioni teatrali in molti teatri greci siciliani o ai tanti festival organizzati grazie alla sinergia tra privati, MiBACT e Assessorato regionale, come “La macchina dei sogni” (fig. 10), un evento che da diversi anni promuove, ambientandovi spettacoli dell’opera dei pupi, diversi luoghi della cultura in un fruttuoso connubio tra monumenti materiali ed immateriali siciliani. Con tali esempi virtuosi si chiude questo sguardo allo sfaccettato ambito della valorizzazione dei beni culturali siciliani: è questa la via da seguire, senza cedere alle lusinghe (essenzialmente politiche ed economiche) di una “iniziativa turistica male intesa, che violenta monumenti e paesaggi che intendeva valorizzare e che finisce per essere anticulturale, diseducativa, invito alla rozzezza mentale” (Bianchi Bandinelli, 1959, p. 3). Bibliografia Marinetti F. T. 1914, In quest’anno futurista, Stab. Tip. Taveggia, Milano. Tajani F. 2017, Le ferrovie della Sicilia, «Le vie d’Italia», anno I, n. 4, pp. 247-255. Bianchi Bandinelli R. 1958, La Sicilia Archeologica, «L’Unità», 12 settembre 1958, p. 3. Bovio Marconi J. 1967, Problemi di restauro e difficoltà dell’anastylosis del «Tempio E» di Selinunte, «Palladio», anno XVI, fasc. I-IV, pp. 85-96. Ceschi C. 1970, Teoria e storia del restauro, Bulzoni editore, Roma. Brandi C. 1978, È sempre giusto ricostruire un tempio?, «Corriere della Sera», 22 agosto 1978, ripubblicato come L’ipotesi di ricostruzione del tempio di Giove a Selinunte in Cordaro M. (a cura di), 2005, Il restauro. Teoria e pratica, Editori Riuniti, Roma, pp. 178-179. Dezzi Bardeschi M. 2004, Cupolone, no grazie!, «Ananke», n. 44, pp. 78-81. Ziniti A. 2006, Lavori alla Villa del Casale archeologi contro Sgarbi, «La Repubblica», 24 ottobre 2006,
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Superposiciones históricas en edificios religiosos: el caso de los retablos Alejandro Iniesta Muñoz
Alejandro Iniesta Muñoz
Escuela Técnica Superior de Arquitectura de Madrid, Universidad Politécnica de Madrid.
Abstract In the architectonical restoration of historical buildings, it is common to find elements hidden through the centuries by the addition of new items above them. This historical overlay contains important historical, cultural, documental and artistic values, so an appropriate solution must be taken in each case. A special situation between those overlaps is found in the altarpieces of churches and chapels, where the changes on Church doctrine and the artistic representation, forced a redesign of the interiors. Nowadays, during an architectural or artistic restoration, previous artwork may appear and they must be documented and preserved creating a discussion on how to act. Should we hide the findings, transfer the historical addendum or try to find a solution that can maintain both? This article tries to show some recent solutions used by architects in Spanish churches when facing this issue. Keywords Restoration, Conservation, Altarpiece, Mural Painting, Arquitectual Trompe l’œil
Los hallazgos en obras sobre edificios históricos no son algo nuevo, ya que durante la vida de un edificio los estratos históricos se suman dando forma al conjunto. Es habitual encontrar ejemplos de restos arqueológicos romanos o visigodos bajo iglesias románicas o góticas que han sido musealizados, retirando partes del suelo, que permiten la convivencia del culto con el estudio de los restos, o habilitando criptas donde se intenta mostrar a los visitantes el origen del edificio. En los últimos años en España, un nuevo tipo de hallazgo ha llenado noticias en periódicos llamando la atención de nuevos visitantes. Distintos trabajos de restauración en edificios religiosos han descubierto detalles arquitectónicos y artísticos que habían permanecido ocultos tras elementos mobiliarios añadidos con el paso de los siglos. Ante estos descubrimientos, surge la dificultad de conciliar los nuevos hallazgos con las
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Fig. 1 Retablos mayores de la iglesia de San Martín de Bachicabo en la posición actual, tras la intervención. (Los dos retablos de la iglesia de San Martín de Bachicabo (Álava)).
obras de arte que los ocultaban, tendiéndose en muchos casos, a retirar o poner en un segundo plano los añadidos posteriores y primando lo novedoso o lo más llamativo. En el siglo XIII, el culto latino empieza a sustituir las pinturas murales tras el altar por retablos, de madera o piedra sobre la que se colocaban piezas escultóricas y pictóricas. Estos retablos suponen una obra arquitectónica en sí misma, al representar las ideas del arquitecto que por la dificultad o el alto coste no podían realizarse en el propio edificio creando una fachada interior confeccionada con elementos constructivos, columnas, arquitrabes, pináculos o dinteles. Esta sustitución supuso en muchos casos la eliminación de las pinturas y detalles arquitectónicos de los muros, como capiteles, cornisas, relieves y huecos profusamente decorados, pero en otras, simplemente se colocaba el nuevo retablo sobre ellas, o se realizaba un encalado, enfosca-
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do o una capa de yeso que cubriese la superficie pintada y permitiese apoyar el nuevo elemento. Gracias a esas decisiones menos dañinas hoy podemos redescubrirlos, estudiarlos y visitarlos. La toma de decisiones sobre qué hacer ante estos hallazgos debe ser consensuada entre los distintos actores que trabajan sobre la restauración, arquitectos, propietarios, autoridades y restauradores, y debe basarse en un estudio de los valores de cada obra para no caer en la sobrevaloración de unos elementos sobre otros. Y siendo siempre, al igual que en toda obra de restauración, compatibles y reversibles. El segundo axioma de la Teoría de la Restauración expresaba “La restauración debe dirigirse al restablecimiento de la unidad potencial de la obra de arte siempre que esto sea posible sin cometer una falsificación artística o histórica, y sin borrar huella alguna del transcurso de la obra de arte a través del tiempo” (Brandi, 1963). Entendiendo en este caso como obra de arte el edificio y los elementos muebles añadidos las huellas del paso del tiempo. El trabajo de restauración debe ser un trabajo meticuloso, basado en un estudio pormenorizado en el que los técnicos de las diferentes partes de la obra pongan en común sus conocimientos y valoren las opciones para conseguir el mejor tratamiento para cada parte, sin realizar modificaciones que puedan suponer pérdidas irreversibles. Respuestas ante los hallazgos Ante los hallazgos de este tipo existen tres opciones. La primera supone descubrir los hallazgos y desmontar o trasladar el retablo que los ocultaba, lo que en muchos casos provoca la destrucción del mismo y la transformación del espacio. La mayoría de estos retablos se diseñaron para ocupar un lugar en concreto de la iglesia con las medidas ajustadas a esa posición, por lo que su traslado es complicado. Las dificultades en el movimiento unido al valor artístico, histórico y devocional de la obra hacen que se opte por una segunda opción, decidiendo mantener el retablo en su posición identificando todo lo que se encuentra tras él, pero sin permitir su visión. La tercera opción consiste en, utilizando las nuevas tecnologías y los nuevos materiales permitir la convivencia de los dos elementos para su contemplación y estudio.
Fig. 2 Retablo de San Francisco en su ubicación original (“La escultura romanista en la Diócesis de Osma-Soria” de D. José Arranz (1986)).
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Priorización de los hallazgos sobre el elemento mobiliario. Esta opción es la más destructiva, ya que provoca un cambio en el espacio y en algunos casos la modificación del retablo con el objetivo de dejar únicamente los hallazgos o restos tras el altar. El traslado del retablo puede hacer que huecos en otros puntos de la iglesia sean cegados o provocar la pérdida de visión de otros elementos considerados de menor valor. En situaciones en las que el recinto no cuenta con un espacio donde se pueda colocar, debido a la altura o tamaño del retablo, o a la presencia de otros retablos en el resto de muros, este se traslada a almacenes, donde la obra no puede ser contemplada y donde peligra su conservación si el espacio no está adecuado para el mantenimiento de la misma, u a otras ubicaciones, provocando la desconexión entre obra y entorno. Un ejemplo de priorización del hallazgo sobre el retablo existente lo encontramos en el Retablo Mayor del convento de San Francisco en San Esteban de Gormaz, Soria (fig. 2), en el año 1985 se descubrieron tras el retablo unas pinturas murales que representan al patrón fundador de la Orden del convento formando un retablo pictórico poco común en España. Debido a la importancia del hallazgo se decidió trasladar el retablo de la primera mitad del siglo XVII a la ermita de San Roque de la misma localidad.
El retablo de gran tamaño presidía el altar mayor de la iglesia y, debido a su gran altura, no fue posible su reubicación completa en la pequeña ermita donde se encuentra. Por ello, tuvo que ser desmontado y dividido en varias partes para ser colocado en las distintas paredes, perdiéndose por completo la imagen de conjunto que tenía (fig. 3). Prioridad del elemento mueble sobre el hallazgo. En este tipo de intervenciones la importancia artística, histórica y el valor cultural del elemento superpuesto prevalecen sobre el del nuevo hallazgo. En estos casos es importante la documentación del hallazgo para facilitar futuros trabajos en el edificio y la investigación, a la vez que se debe trabajar en su conservación frenando el deterioro que pueda tener en el momento del descubrimiento y el que pueda sufrir en el futuro una vez vuelva a cubrirse. El retablo mayor de la iglesia de Santiago Apóstol de Peraleda de la Mata (Cáceres), ocultó en el siglo XVIII un retablo anterior de mediados del siglo XVI esgrafiado, una técnica pictórica que consiste en dibujar sobre una superficie de cal y arena teñida de gris con paja quemada y cubierto por una capa de cal sobre la que se dibuja con una punta de hierro (fig. 4). El muro esgrafiado fue descubierto tras el retablo, su presencia fue documentada y se ha realizado un estudio fotográfico y documental su existencia. Los resultados del estudio se presentaron en el Congreso del Comité Español de Historiadores del Arte (CEHA). El retablo esgrafiado es un ejemplo único de esgrafiado figurativo de gran tamaño, ya que el resto de ejemplos españoles del uso de esta técnica son de esgrafiado geométrico o figurativo de pequeño tamaño. Actualmente se encuentra únicamente visible el retablo barroco de madera de 1703 (fig. 5).
Fig. 3 Disposición de los cuerpos del retablo en la ermita de San Roque. San Esteban de Gormaz, Soria (“Propuesta de reubicación mediante reconstrucción virtual. caso de estudio: Retablo Mayor de San Francisco de San Esteban de Gormaz (Soria), Mónica Sánchez). Fig. 4 Imagen generada por la unión de distintas fotografías parciales del retablo esgrafiado oculto. (Foto de: Ángel Castaño, 2019).
Convivencia de los hallazgos con los elementos posteriores. Cuando los valores artísticos, históricos y culturales de los hallazgos son valorados igual que las superposiciones históricas se tiende a la búsqueda de una convivencia entre los distintos estratos que permita la contemplación y estudio del edificio en sus distintas fases junto con el mantenimiento del uso y la imagen social y cultural. Esta solución es la más respetuosa con el paso del tiempo, al asumirse que las superposiciones en los edificios históricos son algo natural y que no debe priorizarse ni eliminarse un elemento por la búsqueda de una autenticidad histórica o cultural que posiblemente nunca existió. A continuación, se desarrollan tres ejemplos españoles en los que mediante soluciones distintas se da respuesta al problema de hacer convivir elementos históricos superpuestos en un mismo lugar.
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Alejandro Iniesta Muñoz Fig. 5 Estado actual de la iglesia de Santiago Apóstol de Peraleda de la Mata hacia el altar mayor (Raíces de Peraleda).
Ejemplos Capilla de Santa Bárbara de la Catedral Vieja de Salamanca El 26 de febrero de 2020 se presentó la intervención integral de la capilla de Santa Bárbara de la Catedral Vieja de Salamanca, obra llevada a cabo por el arquitecto responsable del plan director del conjunto catedralicio de Salamanca, Valentín Berrocha. En la intervención se restauró el conjunto de la capilla, empezando por las bóvedas, cubiertas y fachadas para continuar por los elementos del interior, los conjuntos escultóricos y pictóricos de la capilla (fig. 6). Durante las obras se desmontó el retablo principal de la capilla, un retablo del siglo XVI encastrado en un arcosolio gótico con muestras de color. Tras él se descubrió la presencia de un retablo anterior pintado, datado entre 1339 y 1365. El retablo gótico se encontraba en sorprendente estado de conservación gracias a que al colocarse el retablo de madera a medida en el siglo XVI se creó una cámara de aire de entre 15 y 20cm entre ambos. La importancia de la capilla en la catedral y de ambos retablos obligaba a buscar una solución para su conservación. El retablo del siglo XVI se realizó a medida y sus dimensiones y diseño fueron realizados para colocarse en ese punto ocultando lo anterior por completo. El criterio general de la intervención, expresado por el técnico de restauración de la Junta de Castilla y León, Carlos Tejedor, debía ser mantener todos los bienes presentes en la capilla en su mismo lugar compatibilizando la visión de los elementos en momentos puntuales. Por ello se decidió crear una estructura móvil que permita la visión de ambos retablos (fig. 7). La solución elegida fue realizada por el carpintero especializado en restauración, Jesús Javier Aragón, y consiste en una subestructura metálica anclada en el interior del arcosolio en los puntos donde la policromía del arco había sufrido mayores pérdidas. La estructura funciona como un soporte de televisión móvil, mediante dos ejes, uno colocado en el interior del arco y el otro en la trasera del retablo. Estos ejes permiten el deslizamiento en paralelo al muro y con un ángulo de 45º. Además, la estructura posibilita la elevación del retablo para evitar rozaduras contra los restos pictóricos (fig. 8). Era importante crear una gran estructura portante ya que el peso del retablo de entorno a 350kg unido al peso de la estructura obligan a mover media tonelada de peso cada vez que se abre el retablo. Se trata en definitiva de una solución móvil, que facilita en momentos concretos la visión de ambos retablos, aunque en condiciones normales la visión principal de la capilla será la del retablo del siglo XVI. Este tipo de soluciones móviles es válido en obras de pequeño formato, donde el peso y tamaño de la obra permite su movimiento, y en entornos musealizados donde se pueda controlar adecuadamente el uso del elemento abatible. En cambio, cuando esta opción va a tomarse en entornos donde se obligue a un estado fijo, esta opción puede ser innecesaria y debería tenderse a un estado más permanente. Iglesia de San Martín de Bachicabo, Álava En 2006, el Servicio Foral de Restauración del País Vasco y el obispado de Álava decide restaurar el lienzo principal del Retablo Mayor de la Iglesia de San Martín en Bachicabo (fig. 9). Al retirar el lienzo se descubre parte de un retablo pintado sobre el ábside de la Iglesia. Ante este descubrimiento, considerando también el mal estado del resto del retablo, se tomó la decisión de retirarlo por completo para su restauración. Al retirar-
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lo se descubrió que el ábside se encontraba cubierto por una pintura de 35m2 firmada por el pintor del siglo XVI Juan de Armona. Las primeras propuestas consistían en trasladar el retablo a otro punto de la iglesia, pero estas se desecharon al constatarse que su movimiento a una posición distinta de la iglesia obligaría, debido a su gran tamaño, a tapar huecos y elementos arquitectónicos de la iglesia (como sucedía en el muro sur con uno de los arcos góticos del templo) o incluso a modificar la estructura del edificio si se trasladaba junto al coro, donde debía eliminarse parte del forjado y de la escalera de acceso. Los problemas arquitectónicos, el coste de estas obras y la descontextualización que provocaría obligaron a pensar en otras opciones. La decisión final, en la que participaron todas las partes implicadas, arquitecto, obispado, restaurador artístico, historiadores y gobierno regional, consistió en adelantar el retablo de madera y colocarlo sobre un nuevo soporte creando una girola tras el retablo que permitiese la visión del retablo pintado, a la vez que se conservaba el retablo barroco en una situación lo más parecida posible a la que tenía en diseño. Esta solución se basaba en la realizada años antes en la iglesia de San Esteban de Larraul, donde el retablo había sido adelantado unos metros mediante una gran estructura de acero. La intervención de Larraul fue llevada a cabo en 1996 por Lorenzo Goikoetxea y Ana Mª Sanz Ruiz de Onraita. Así pues, la solución escogida permitía la contemplación de los dos elementos de manera permanente, respetaba la historia del edificio al mantener los añadidos históricos, era reversible ya que la nueva estructura se iba a realizar en madera sin realizar grandes obras en la iglesia y permitía el mantenimiento del uso de la iglesia tal y como se realizaba desde el siglo XVIII. La intervención consistía, por tanto, en la realización de una subestructura de madera sobre la que se colocaría el retablo barroco. Para apoyar esa subestructura se construyó una base de obra de 25 cm alargando el altar para evitar apoyar el retablo directamente sobre el suelo de la iglesia, solucionando los problemas que había ido acumulando a lo largo de los años, colocando entre el suelo y la nueva base una lámina de polietileno, mortero de cal y una lámina de neopreno para frenar el paso de la humedad. La estructura de soporte es de madera laminada de abeto de 25cm de espesor con los herrajes ocultos hacia el exterior (fig. 10). La elección de la madera de un color más claro que la del retablo permite diferenciar la intervención del retablo original y sirve para enmarcar la obra. La estructura crea huecos a través de los cuales es posible ver la trasera del retablo, una situación anómala en este tipo de conjuntos. En la parte trase-
Fig. 6 Estado de la Capilla de Santa Bárbara en la Catedral Vieja de Salamanca antes de la restauración (Junta de Castilla y León). Fig. 7 Estructura de sujeción del retablo de la Capilla de Santa Bárbara en la Catedral Vieja de Salamanca (Junta de Castilla y León). Fig. 8 Estado tras la restauración de la Capilla de Santa Bárbara en la Catedral Vieja de Salamanca con el retablo abierto (Diócesis de Salamanca).
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Alejandro Iniesta Muñoz Fig. 9 Estado del retablo al retirar el lienzo barroco del altar Mayor de la iglesia de San Martín de Bachicabo (Los dos retablos de la iglesia de San Martín de Bachicabo (Álava)). Fig. 10 Colocación de la estructura portante del retablo del altar Mayor de la iglesia de San Martín de Bachicabo (Los dos retablos de la iglesia de San Martín de Bachicabo (Álava)).
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ra, pensando en los visitantes se incluye una zona elevada adosada a la subestructura, que permite una mejor contemplación del retablo descubierto (fig. 11). Iglesia de San Sebastián de Turégano, Segovia La historia de la iglesia de San Sebastián de Turégano ha sufrido numerosos cambios y modificaciones. En origen, se trataba de una iglesia románica, que recibió añadidos góticos y renacentistas para finalmente en el siglo XVII ampliar su nave sustituyendo la románica por una barroca a la que posteriormente se le adosaría una sacristía. En los años 80 unos trabajos en el interior del templo descubren unos relieves en la cara interna del ábside (fig. 12). Estos habían quedado ocultos por el retablo neoclásico que preside el altar mayor. En ese primer encuentro no se realiza ninguna intervención, por lo que permanecerán ocultos hasta que en 2009 unas obras encargadas por la junta de Castilla y León y llevadas a cabo por la arquitecto María Suárez Inclán tratarán de estudiarlas y permitir su visita. Frente a la oposición del Obispado, que pretendía trasladar el retablo neoclásico a otro punto de la iglesia, se decide realizar una intervención que permita visitar el ábside románico sin modificar la iglesia barroca. La solución del traslado ya había sido utilizada años antes en la iglesia-catedral de Santo Domingo de la Calzada. La decisión de no trasladar se tomó en base al importante valor cultural del retablo, ya que la iglesia se encuentra dedicada a Santiago Apóstol y se quiere mantener la imagen presidiendo la iglesia, y por el valor artístico e histórico del retablo neoclásico. La solución consiste, por tanto, en adelantar el retablo neoclásico hasta la embocadura del arco de acceso al ábside románico y permitir el acceso al ábside desde los espacios laterales del mismo, constituyendo así una unidad museística distinta a la de la iglesia. Además, al adelantar el retablo se reabren los huecos que se cerraron con la construcción de la sacristía y que la eliminación de esta en los 90 no había vuelto a abrir. Al retirarse el retablo neoclásico y eliminar la capa de yeso que cubría tanto los muros del ábside como los de las figuras de los relieves descubiertos en los 80, se aprecian restos de policromía en toda su superficie. También se visibiliza la estructura com-
positiva del ábside que responde a la del exterior, con tres niveles y en la que los relieves absidiales románicos se encontraban también policromados y que tanto la colocación del retablo como la capa de yeso que lo cubría habían protegido (fig. 13). Para adelantar el retablo se construye en primer lugar una base cerámica sobre la que apoyar el retablo y una estructura sustentante de madera con la misma dimensión del ábside. El trasdós del retablo se forra mediante una celosía también de madera, al considerarse que no tenía interés. Esta solución difiere de la de la iglesia de Bachicabo donde la intervención si permite su visión. Finalmente, la intervención crea dos espacios distintos y separados por el retablo neoclásico y que permite apreciar la historia conjunta de la iglesia sin modificar su funcionamiento y facilitando la visita y el conocimiento del origen románico (fig. 14).
Fig. 11 Estado actual del altar Mayor de la iglesia de San Martín de Bachicabo (Los dos retablos de la iglesia de San Martín de Bachicabo (Álava)). Fig. 12 Iglesia de Santiago de Turégano antes de la restauración (Junta de Castilla y León).
En conclusión, estos ejemplos demuestran que es posible compatibilizar la visión y el mantenimiento de dos superposiciones históricas sin modificar de manera permanente el recinto histórico y sin dañar ni descontextualizar las obras. Siguiendo las últimas ideas de restauración arquitectónica, aplicando los avances tecnológicos y las apreciaciones artísticas actuales. Permitiendo mostrar en un mismo recinto las distintas fases históricas y los cambios sucedidos durante la vida del edificio.
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Alejandro Iniesta Muñoz Fig. 13 Estado interior del ábside después de la restauración (Junta de Castilla y León). Fig. 14 Planta de la intervención (Junta de Castilla y León).
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Bibliografía Aransay Saura C. et al. 2014, Los dos retablos de la iglesia de San Martín de Bachicabo (Álava), Diputación Foral de Álava, Departamento de Euskera, Cultura y Deporte, Álava. Brandi C. 2002, Teoría de la Restauración, Alianza Forma, Madrid. Sánchez M. 2016, Propuesta de reubicación mediante reconstrucción virtual. Caso de estudio: Retablo Mayor de San Francisco de San Esteban de Gormaz (Soria), 8th International Congress on Archaeology, Computer Graphics, Cultural Heritage and Innovation, Valencia. Sánchez Inclán M. 2010, Memoria Final reubicación y restauración del retablo mayor y restauración del ábside de la iglesia de Santiago en Turégano. Segovia, Junta de Castilla y León. Bellanca C. (edited by) 2011, Methodical approach to the restoration of historic architecture, Alinea editore, Firenze.
Webgrafía Artículo diario ABC Un retablo esgrafiado único en España se ocultaba en Peraleda de la Mata, https://www.abc.es/cultura/arte/abci-unico-retablo-esgrafiado-espana-ocultaba-peraledamata-201908271151_noticia.html (10/06/2020) Raíces de Peraleda, https://raicesdeperaleda.com/turismo-en-peraleda/iglesia-de-santiagoapostol-39 (10/06/2020) Junta de Castilla y León, Conserjería de Cultura y Turismo, Anuncio finalización obras de restauración de la Capilla de Santa Bárbara en la Catedral Vieja de Salamanca https:// comunicacion.jcyl.es/web/jcyl/Comunicacion/es/Plantilla100Detalle/1281372051501/ NotaPrensa/1284934932191/Comunicacion (12/06/2020) Catedral de Salamanca, nota de prensa tras la finalización de la restauración de la Capilla de Santa Bárbara https://catedralsalamanca.org/presentacion-de-la-restauracion-de-santabarbara/ (12/06/2020) Diócesis de Salamanca, Presentación oficial de la restauración de la https://www. diocesisdesalamanca.com/noticias/un-sistema-innovador-permite-mostrar-las-pinturasocultas-tras-el-retablo-de-santa-barbara/ (10/06/2020) Junta de Castilla y León, Conserjería de Cultura y Turismo, Ficha de la restauración del ábside de la iglesia de Santiago en Turégano, Segovia. http://patrimoniocultural.jcyl.es/web/jcyl/ PatrimonioCultural/es/Plantilla100DetalleFeed/1284180255460/Intervencion/1284214629941/ Arte (17/06/2020)
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La rilettura dello spazio architettonico e dei percorsi liturgici dopo il COVID-19: il caso di S. Maria Dal Mas Gregorio Barbarigo Roberta a Roma Roberta Maria Dal Mas
Roberta Maria Dal Mas
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Abstract After the lockdown due to the COVID-19 virus and the resulting lockdown of all public places, the D.P.C.M. of 17 May 2020 reopened the buildings of worship to the churchgoers who need to follow specific rules to avoid gatherings of people. This essay analyzes the adaptation works carried out in the complex of S. Gregorio Barbarigo in the Eur district in Rome, designed by Giuseppe Vaccaro (1968; 1971-1972). The solutions that were used for the safe access and fruition of the church and its appurtenances have shown that understanding the historical, figurative and symbolic values of the architectural work guarantees compliance with current legislation and does not alter the planimetric layout and hierarchy of the internal and the external routes. Therefore, the right application of the legislative provisions constitutes an opportunity to redefine liturgical spaces that are not settled today and do not comply with the dictates of the Second Vatican Ecumenical Council (1959-1965). Keywords S. Gregorio Barbarigo, chiesa, percorsi liturgici, adeguamento liturgico, COVID-19
D.P.C.M., Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull’intero territorio nazionale, Art. 1, comma 2, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Serie generale, n. 62, 9 marzo 2020, p. 7.
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Introduzione Dopo il lockdown e la chiusura delle chiese in tutta Italia per limitare la diffusione del virus COVID-191, il D.P.C.M. del 17 maggio 2020, all’Art.1, Misure urgenti di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale, al comma 1, specifica che, per la riapertura ai fedeli: “l’accesso ai luoghi di culto avviene con misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro” (lettera n) e che “le funzioni religiose” con la partecipazione della comunità religiosa “si svolgono nel rispetto dei protocolli sottoscritti dal Governo e dalle rispettive confessioni” (lettera o)2. Nel Protocollo con la Conferenza Episcopale Italiana circa la ripresa delle celebrazioni con il popolo (Allegato1), sono definite le procedure da adottare per la graduale riattivazione delle liturgie con l’assemblea, per l’accesso agli ambienti sacri e alle pertinenze come sagrato e sacrestia, anche per gli individui diversamente abili,
nell’osservanza della legge e garantendo il distanziamento sociale in base alla “capienza massima dell’edificio di culto”. Pertanto, devono essere predisposti dei percorsi dedicati per favorire l’ordinato flusso dei credenti, utilizzando “ove presenti, più ingressi, eventualmente distinguendo quelli riservati all’entrata da quelli riservati all’uscita”, mantenendo le porte aperte. Inoltre, se “il luogo […] non è idoneo al rispetto delle indicazioni del […] Protocollo”, l’Ordinario della chiesa “può valutare la possibilità di celebrazioni all’aperto, assicurandone la dignità e il rispetto della normativa sanitaria” e promuovendo “le trasmissioni […] in modalità streaming”3. Questi provvedimenti, che nell’attuale situazione sanitaria hanno un carattere di provvisorietà restando in vigore dal 18 maggio al 31 luglio 20204, con proroga al 15 ottobre 20205, in ogni caso hanno comportato la necessità di ridefinire l’organizzazione degli accessi, la percorrenza esterna e interna e il modo di fruizione dell’architettura sacra, anche contemporanea, con le sue specificità tipologiche per la presenza della collettività dei fedeli. In una chiesa “per natura e tradizione lo spazio interno […] è […] studiato per esprimere e favorire in tutto la comunione dell’assemblea, che è il soggetto celebrante” ed è sempre “orientato verso il centro dell’azione liturgica e scandito secondo una dinamica che parte dall’atrio, si sviluppa nell’aula e si conclude nel “presbiterio”, quali spazi articolati ma non separati” e con “una centralità non tanto geometrica, quanto focale dell’area presbiteriale” (CEI, 18 febbraio 1993, pp. 4-5). Infatti, l’impianto planimetrico, per rendere possibile l’organico svolgimento della messa e degli altri Sacramenti e sacramentali, con un margine di adattabilità che la prassi pastorale esige, è in stretta relazione con “i sistemi fissi di accesso e i percorsi per la circolazione interna”, che indirizzano “i vari movimenti processionali e gli spostamenti previsti dalle celebrazioni liturgiche” (anche con il superamento delle barriere architettoniche), a cui si unisce la disposizione dell’arredo mobile (banchi, sedie) della zona assembleale (CEI, 18 febbraio 1993, p. 5). Va ricordato, inoltre, il collegamento con il sagrato, area esterna di notevole importanza in quanto “soglia dell’accoglienza e del rinvio”, ma che “può essere anche luogo di celebrazione”, mantenendo allo stesso tempo “la sua funzione di tramite e di filtro […] nel rapporto con il contesto urbano” (CEI, 18 febbraio 1993, p. 8). In un edificio sacro, come in ogni opera architettonica, lo schema in pianta e in alzato, la sequenza degli ambienti, la gerarchia delle percorrenze, i caratteri costruttivi-strutturali e le scelte formali che ne conseguono diverse per ogni epoca, costituiscono gli elementi nei quali è possibile riconoscere i suoi valori storici, figurativi e simbolici che devono essere conservati e valorizzati per le generazioni future. In questo particolare periodo, una riconfigurazione di queste architetture, sia pure temporanea, richiede un atto progettuale consapevole, per prospettare soluzioni in grado di conciliare l’adempimento normativo con la tutela dei loro significati memorativi e della loro ‘fisionomia’ liturgica e artistica, anche moderna, come nella chiesa di S. Gregorio Barbarigo a Roma. La rilettura dello spazio e dei percorsi liturgici della chiesa di S. Gregorio Barbarigo La progettazione degli spazi e l’assetto distributivo della chiesa di S. Gregorio Barbarigo e delle sue pertinenze è eseguita da Giuseppe Vaccaro (1968; 1971-1972), in stretto rapporto con il tessuto urbano preesistente del quartiere Eur a Roma (Dal Mas, 2018, pp. 1421-1432; Ead., 2020, pp. 599-605)6.
D.P.C.M., Disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, recante misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, e del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, recante ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Serie generale, n. 126, 17 maggio 2020, p. 2. 3 D.P.C.M., Disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, recante misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, e del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, recante ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, Allegato 1, pp. 12-15. Il documento, sottoscritto dal Presidente della CEI, dal Presidente del Consiglio e dal Ministro dell’Interno, stabilisce in aggiunta le modalità per l’amministrazione dei Sacramenti diversi da quelli eucaristici (matrimoni, battesimi, unzione degli infermi ed esequie), per la gestione delle operazioni previste durante le messe (la consegna della Comunione al banco con l’ostia offerta sulle mani; l’omissione dello scambio della pace; il ridotto numero di concelebranti e ministri; la presenza di un organista, ma non del coro; la racconta delle offerte) e per la collocazione all’ingresso di manifesti informativi delle norme vigenti. 4 D.L. n. 33, Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, Art. 1. Misure di contenimento della diffusione del COVID-19, Art. 3. Disposizioni finali, comma 1, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Serie generale, n. 125, 16 maggio 2020, p. 2. 5 D.L. n. 83, Misure urgenti connesse con la scadenza della dichiarazione di emergenza epidemiologica da COVID-19 deliberata il 31 gennaio 2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Serie generale, n. 190, 30 luglio 2020. 2
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Roberta Maria Dal Mas Il progetto di Vaccaro è dell’aprile del 1968, ma il complesso è completato tra il 1971 e il 1972, con i calcoli strutturali di Sergio Musmeci, i dettagli costruttivi di Gualtiero Gualtieri e sotto la direzione di Ignazio Breccia Fratadocchi per la Pontificia Opera per la Preservazione della Fede e la Provvista di Nuove Chiese in Roma. Si consulti la bibliografia indicata anche per le specificità costruttive, le soluzioni strutturali, le problematiche esecutive in cantiere e gli interventi di restauro realizzati nel tempo.
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Il lotto disponibile a una quota più alta rispetto a quella della via Laurentina, ha guidato la scelta del progettista di rendere raggiungibile il complesso architettonico tramite un doppio sistema di salita: la cordonata adiacente al giardino e la scala verso la cripta, convergenti al livello del percorso coperto a portico. Questo, isolato dal traffico veicolare sottostante, disimpegna a sinistra il sagrato e le sale parrocchiali; a destra la chiesa, gli uffici e la canonica. Lungo questo asse si articolano planimetricamente i diversi corpi di fabbrica che identificano le differenti funzioni. Tra questi assume particolare rilevanza il volume cilindrico della chiesa, con pronao e scalinata antistante e con le superfici modulate dalle sfaccettature dei pannelli prefabbricati di calcestruzzo (a spigolo vivo all’esterno e rettilinee all’interno). Il sagrato, sul lato opposto, leggermente disassato dall’aula e separato da tre gradini dal piano più alto del porticato, è delimitato dal fronte curvilineo dell’edificio parrocchiale che ne definisce la forma irregolare della pianta, riproposta nel dettagliato disegno dei blocchetti di cemento del pavimento del 1995-1996, per l’inserimento delle bocchette di raccolta delle acque meteoriche. L’impianto di S. Gregorio Barbarigo, uno dei primi esempi di applicazione dei dettami del Concilio Ecumenico Vaticano II (1959-1965), è determinato dall’intersezione di quattro circonferenze, connesse ai cinque portali dal vano longitudinale. Questo, con le due cappelle scalari a destra e l’emiciclo dei confessionali a sinistra, sottolinea la direttrice verso l’area presbiteriale e la sala dell’assemblea che la circonda, secondo le disposizioni post-conciliari, con sedute a circumstantes e a battaglione coerentemente inserite nell’articolata planimetria, per permettere i movimenti richiesi dall’adempimento dei diversi Sacramenti. In continuità con la zona destinata ai fedeli, inoltre, rispettivamente a sinistra e a destra, si dispongono il sacello del SS. Sacramento e l’esedra con la Via Crucis, con i rispettivi percorsi. Il presbiterio, sopraelevato di due scalini, ospita i ‘fuochi’ liturgici (la mensa versus populum, l’ambone, la sede del celebrante, il fonte battesimale) ed è coperto dall’orditura circolare di travi reticolari su pilastri metallici a vista, ma staccata dalle pareti per lasciar filtrare la luce naturale dall’asola vetrata e dal grande lucernario sull’altare, con suggestivi effetti cromatici sulle scanalature delle pannellature perimetrali (fig. 1). Il significato artistico di S. Gregorio Barbarigo di Vaccaro può essere individuato nella interdipendenza tra le pure geometrie della pianta, la correttezza della struttura in elevato, l’impiego delle moderne tecniche costruttive e l’uso sapiente dell’illuminazione, come chiarisce lo stesso architetto: “il valore mistico di una chiesa non chiede particolari elementi figurativi o simbolici; tutt’al più, valori spaziali e psicologici” (Libera, 1955, p. 369), e trae origine “da una norma di generazione rigorosa delle forme dalle funzioni cui adempiono” (Vaccaro, 1943, p. 1). Come conferma l’efficace organizzazione delle aree liturgiche, in relazione ai vari riti e in stretto collegamento con gli itinerari spirituali, sacramentali e processionali. Su questo ultimo aspetto in particolare, va sottolineato che nelle chiese, più che negli altri monumenti, è molto importante “il rapporto spazio-tempo espresso nel sistema degli accessi e dei percorsi”, dal momento che esiste una corrispondenza dinamica “che lega lo spazio esterno a quello interno, [...] il sagrato all’entrata” e questa “all’aula e [...] al presbiterio con l’altare al centro” (Concas, 2019, 2413). Da questa assialità prevalente, che deve essere garantita durante le messe, si diramano gli assi direzionali minori verso gli altri luoghi di preghiera (Adorazione, Penitenza, Via Crucis ecc.) e con i quali si determinano delle “relazioni che si rafforzano grazie all’impianto
planimetrico dell’edificio-chiesa che ha […] una direzione longitudinale centrale, indipendentemente dalla tipologia della pianta” e che sono accentuate dalla luce naturale e artificiale e dall’iconografia sacra (Concas, 2019, 2413). Nel rispetto di questa complessa impostazione è stato realizzato il progetto della nuova pavimentazione completata nel 1994. L’orientamento dei campi pavimentali separati da fasce di marmo bianco e la disposizione degli elementi al loro interno in marmo rosso, facilita il riconoscimento delle parti dell’edificio sacro adibite ai diversi usi stabiliti da Vaccaro: dagli ingressi le lastre lapidee presentano nel vano longitudinale una trama ortogonale e parallela al pronao esterno, variamente inclinata nella porzione sinistra dei confessionali, a raggiera e per settori concentrici verso il presbiterio. In questo schema, le bande marmoree di delimitazione, senza salti di quota, dividono l’area antistante l’entrata dallo spazio dei fedeli e delineano la gerarchia delle percorrenze: un doppio tratto rettilineo perimetra l’avvicinamento all’altare, che si conclude nel disegno semicircolare che definisce idealmente la posizione del sacerdote al momento della Comunione; un solo segno, invece, identifica i tracciati minori in direzione della cappella del Santissimo e della sagrestia a sinistra e della Via Crucis sulla parete curva di destra (fig. 2). L’approccio metodologico adottato in questo intervento, di comprensione prima e di valorizzazione poi della realtà architettonica esistente, deve indirizzare qualsiasi modifica nella chiesa di S. Gregorio Barbarigo, anche in applicazione delle recenti procedure per la sicura frequentazione delle funzioni le quali, soprattutto in questo caso, devono prospettare ‘soluzioni temporanee e reversibili’. Nel complesso di S. Gregorio Barbarigo, la duplice modalità di salita ideata per superare il salto di quota dal piano stradale a quello del portico, ha consentito con operazioni minimali di risolvere efficacemente la differenziazione dei flussi delle persone: in entrata dalla rampa sinistra che costeggia il giardino con il campanile e in uscita dalla scala destra verso la cripta (figg. 3-4). Per i disabili, e per assicurare un’accessibilità ‘ampliata’, è stato mantenuto attivo l’ascensore da via Laurentina, sapientemente collocato già dal 2012 a ridosso del parapetto della gradinata destra, che permette di arrivare in maniera autonoma all’aula e il cui utilizzo è facilmente contingentabile. Inoltre, la larghezza del porticato di distribuzione, ha garantito con
Fig. 1 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo, interno. Vista verso l’area presbiteriale durante le celebrazioni delle messe all’aperto. Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020. Fig. 2 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo. Disegno del nuovo pavimento interno al piano della chiesa, scala 1:100. Foto: Mario Dal Mas, 1994.
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Roberta Maria Dal Mas Fig. 3 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo, esterno. La rampa sinistra d’ingresso che costeggia il giardino con il campanile . Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020. Fig. 4 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo, esterno. La scala destra di uscita verso la cripta. Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020. Fig. 5 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo, esterno. Il porticato di distribuzione con in evidenza i segni a terra per gestire il flussi dei fedeli, in entrata e in uscita. Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020. Fig. 6 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo, esterno. La nuova cancellata sull’attacco della scalinata della chiesa come ‘barriera’ per i controlli prima dell’accesso all’aula. Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020.
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facilità il distanziamento dei parrocchiani in transito con semplici, ma ben visibili, segni paralleli a terra: verdi per l’accesso alla chiesa, rossi per l’uscita e segnalati chiaramente da appositi cartelli (fig. 5). La nuova cancellata, ultimata all’inizio del 2020 sull’attacco della scalinata della chiesa per risolvere urgenti problemi di sicurezza, nelle circostanze straordinarie imposte dal COVID-19 si è rilevata particolarmente utile per costituire una sorta di ‘barriera’ prima della quale effettuare il controllo della temperatura e l’igienizzazione delle mani e posizionare i pannelli informativi sulle regole da rispettare (fig. 6). Sempre dal percorso coperto è raggiungibile senza rischi anche il sagrato, nel quale è stato previsto, in un secondo momento, l’allestimento delle messe all’aperto, limitando ulteriormente l’eventualità di contatto ravvicinato fra i fedeli. In definitiva, in S. Gregorio Barbarigo il portico concepito da Vaccaro come direttrice per disimpegnare gli ambiti funzionali dell’organismo chiesastico, è stato convenientemente riproposto allo stesso scopo, in ottemperanza alle disposizioni anti-COVID-19 e senza elaborare azioni di contenimento più invasive e meno rispettose dei valori dell’edificio. Anche all’interno della chiesa, gli adeguamenti sono stati effettuati senza stravolgere l’impianto e le originarie percorrenze, salvaguardando anche i successivi lavori che si sono susseguiti nel tempo (Dal Mas, 2018, pp. 1423-1425). Per rispondere alle prescrizioni di legge, durante lo svolgimento delle celebrazioni, dei cinque portali d’ingresso presenti sono stati lasciati aperti in entrata solo i due accoppiati (utilizzati per le festività solenni), sull’asse del presbiterio, rimarcato dalle due fasce laterali di marmo bianco. Su quella destra sono state posizionate a terra le due linee colorate, come quelle esterne, per indicare l’andamento obbligato
Fig. 7 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo, interno. Il percorso di avvicinamento all’altare con le linee colorate sul pavimento per indicare i percorsi obbligati e il nastro su piantane per la separazione dei fedeli. Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020 Fig. 8 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo, interno. La via di uscita sul lato opposto con i contenitori per le offerte. Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020 Fig. 9 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo, interno. L’asse direzionale sulla fascia pavimentale dalla cappella del SS. Sacramento verso l’altare Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020
dei tracciati e il nastro su piantane per separare la circolazione dei credenti. Sul lato opposto di questo ‘simbolico sbarramento’, infatti, si snoda la via di uscita, con i contenitori per le offerte, in direzione del terzo portale aperto solamente alla fine della liturgia (figg. 7-8). Con questi pochi accorgimenti, sono stati lasciati inalterati il percorso principale verso l’altare e quelli secondari verso la cappellina del SS. Sacramento e l’emiciclo della Via Crucis, come precedentemente specificato. Ciò è stato possibile anche per la preesistente posizione dei banchi che è rimasta invariata e che era stata progettata appositamente per rendere percepibili, e praticabili, le differenti direttrici della chiesa (figg. 9-10). Inoltre, subito sotto lo scalino dell’area presbiteriale davanti alla mensa, centro della scena eucaristica, nello spazio destinato alla distribuzione della Comunione (per il momento non praticabile), sono state sistemate le apparecchiature per le riprese in streaming delle funzioni per assicurare la partecipazione di tutti i fedeli, senza interferire con le attività dal vivo, secondo quanto raccomandato dalla legislazione COVID-19 (fig. 11). Ritornando alle sedute per la comunità parrocchiale, la distanza necessaria è stata ottenuta unicamente applicando dei cerchi verdi adesivi, messi anche sul pavimento per segnalare i posti disponibili in piedi fino al numero massimo consentito dalle dimensioni dell’edificio (fissato a 200) (fig. 12). Questi ultimi contrassegni sono stati situati, opportunatamente distaccati, al di fuori degli itinerari sacramentali, processionali e di disimpegno (fig. 13). Con il procedere della stagione calda, ulteriori opere, sempre nell’ottica del minimo intervento e della reversibilità, sono state realizzate per organizzare le messe all’aperto nel sagrato. Nel piazzale, esposto al sole e solo parzialmente ombreggiato da
Fig. 10 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo, interno. L’asse di percorrenza sulla fascia pavimentale dall’emiciclo della Via Crucis verso l’area presbiteriale. Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020.
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Roberta Maria Dal Mas Fig. 11 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo, interno. La zona antistante il presbiterio con le apparecchiature per la trasmissione in streaming. Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020. Fig. 12 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo, interno. La simbologia sulle sedute dei banchi per il distanziamento dei parrocchiani, verso l’altare. Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020. Fig. 13 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo, interno. I simboli collocati a pavimento per garantire la distanza tra le persone, in prossimità della parete destra con la Via Crucis. Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020.
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alcuni ulivi dalla parte del giardino con il campanile, è stata installata una copertura provvisoria. Questa è formata da larghe porzioni di tessuto sostenute da sottili cavi di acciaio, fissati al di sopra delle finestre dell’edificio parrocchiale da una parte e sull’attacco del tetto del portico dall’altra, dove è posta l’entrata. I teli, in numero necessario per coprire la superficie, costituiscono una sorta di velario e sono collegati a cadenza regolare da cavetti metallici distanti 20 cm circa, per limitare l’oscillazione del vento e per permettere la circolazione dell’aria nel sagrato (fig. 14). Questo, pensato in fase progettuale anche come un anfiteatro per manifestazioni all’aria aperta, presenta una forma mistilinea convergente in una piccola zona rialzata a uso di palco, nell’intersezione tra il corpo parrocchiale curvo e il porticato. La configurazione della pianta derivante dalla primitiva destinazione ha consentito, anche in questo caso, di realizzare una corretta sistemazione dell’impianto-chiesa. Infatti, disponendo l’altare sul piccolo podio, l’aula comunitaria è stata definita ordinando le sedute a raggiera verso l’area eucaristica, con appositi corridoi di separazione per gestire in sicurezza i movimenti dei fedeli durante il rito e con il richiesto distanziamento sociale. Naturalmente, la scelta delle sedie con schienale (ma non bloccate a pavimento), senza particolari qualità formali e cromatiche è stata dettata dall’urgenza dei tempi, ma risponde comunque al criterio di transitorietà dell’intervento (fig. 15). Le soluzioni compositive di grande funzionalità e di alta espressività ideate da Giuseppe Vaccaro in S. Gregorio Barbarigo, quindi, hanno permesso di accogliere adeguatamente e con rapidità le prescrizioni imposte dall’emergenza epidemiologica da COVID-19, conservando l’equilibrio formale esistente del complesso chiesastico e coniugando “le istanze della fruizione, […] con quelle della valorizzazione, in quanto spazio architettonico e artistico […] da preservare” (Concas, 2019, 2412).
Fig. 14 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo. Il sagrato allestito per le celebrazioni all’aperto. Visione dal portico verso l’edificio parrocchiale curvilineo. Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020. Fig. 15 Roma, Italia. Chiesa di S. Gregorio Barbarigo. Il sagrato per le celebrazioni all’aperto. Visione verso l’altare; a destra l’entrata dal porticato. Foto: Roberta Maria Dal Mas, 2020.
Conclusioni Le riflessioni sopra riportate sono solo apparentemente ovvie. L’esempio della chiesa romana di S. Gregorio Barbarigo pone l’attenzione sul fatto che, se lo spazio congregazionale è il risultato di una attenta progettazione delle sue componenti funzionali, costruttive e figurative, è sempre possibile operare con un certo grado di libertà per una sua, meditata, ridefinizione distributiva. Questi concetti si applicano, in particolare, agli edifici sacri contemporanei, già conformi ai criteri liturgici del Concilio Ecumenico Vaticano II e realizzati con l’apporto creativo di architetti di consolidata professionalità, nell’ambito dei lavori promossi nelle periferie dal Comune capitolino e la Pontificia Opera per la Preservazione della Fede e la Provvista di Nuove Chiese in Roma, tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento. Come i SS. Martiri dell’Uganda di Poggio Ameno (1970-1982) di Giuseppe Vaccaro ed Ennio Canino, la chiesa di Nostra Signora de La Salette (1957-65) e quella di S. Marco Evangelista in Agro Laurentino (1970-72) di Ennio Canino e Viviana Rizzi, per citare i casi più significativi (Dal Mas, 2019a, pp. 499-510; Ead., 2019b, pp. 177-183).
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In presenza di chiese di epoche più lontane e stratificate nel tempo, la questione dell’adeguamento a norme anche transitorie, è molto più complessa perché correlata alla rispondenza dei canoni conciliari. In queste costruzioni, infatti, qualsiasi azione progettuale richiede il propedeutico riconoscimento dei valori storici, artistici e simbolici del testo architettonico, tramite gli strumenti della ricerca storica e del rilievo. Sulla base di questi significati è possibile fare scelte ‘culturali’ e formali consapevoli per soddisfare le esigenze temporanee della vita umana e per garantire, oggi, la fruibilità liturgica in sicurezza, senza alterazioni tipologiche e strutturali e salvaguardando l’autenticità dell’organismo chiesastico. Nelle difficoltà sanitarie che ci si è trovati ad affrontare a partire dai primi mesi del 2020, come è stato notato in generale nelle tante trasformazioni riferibili alla riforma del Concilio Vaticano II (Concas, 2018) e in particolare per le problematiche dell’accessibilità delle chiese, le leggi vigenti possono costituire un’occasione per ripensare alcune architetture sacre ancora oggi non risolte dal punto di vista dell’organizzazione distributiva e, quindi, “andranno accolte come dei requisiti da tener presente per realizzare un intervento in cui gli aspetti funzionali si affianchino a quelli estetico-formali [...] in rapporto con la realtà ‘materica’ e quella ‘simbolica’ propria dell’edificio-chiesa in esame” (Concas, 2019, 2420).
Bibliografia CEI 18 febbraio 1993, La progettazione di nuove chiese. Nota Pastorale, Commissione Episcopale per la Liturgia, Roma, pp. 1-30. Concas D. 2018, Vademecum per l’adeguamento liturgico dell’edificio-chiesa di culto cattolico romano, Il prato, Saonara (PD). Concas D. 2019, Accessibilità degli edifici-chiesa: semplice fruizione o sensibile valorizzazione?, in A. Conte, A. Guida (a cura di), ReUso Matera. Patrimonio in divenire. Conoscere, Valorizzare, Abitare, Gangemi Editore International, Roma, pp. 2411-2422. Dal Mas R.M. 2018, La chiesa di S. Gregorio Barbarigo nel quartiere Eur a Roma, dal progetto di G. Vaccaro alle recenti trasformazioni: interventi progettuali e problematiche conservative, in F. Minutoli (a cura di), ReUso 2018. L’intreccio dei saperi per rispettare il passato interpretare il presente salvaguardare il futuro, Gangemi Editore International, Roma, pp. 1421-1432. Dal Mas R.M. 2019a, Il complesso dei SS. Martiri dell’Uganda a Roma: dal progetto di G. Vaccaro alla chiesa attuale, in A. Conte, A. Guida (a cura di), ReUso Matera. Patrimonio in divenire. Conoscere, Valorizzare, Abitare, Gangemi Editore International, Roma, pp. 499-510. Dal Mas R.M. 2019b, The Churches of San Gregorio Barbarigo and Santi Martiri dell’Uganda in Rome, «Resourceedings. Proceedings of Science and Technology», vol 2, C. Gambardella, M.L. Germanà, M.F. Shahidan, H. Bougdah (by), International Conference Proceedings on: Utopian & Sacred Architecture Studies (USAS), IEREK press, pp. 177-183. Dal Mas R.M. 2020, La chiesa di S. Gregorio Barbarigo nel quartiere Eur a Roma di G. Vaccaro e la conservazione dell’architettura moderna, in Restauro: Conoscenza, Progetto, Cantiere, Gestione, Sezione 4.2, A. Grimoldi, M. Zampilli (a cura di), Realizzazione degli interventi. Casi Studio, Edizioni Quasar di S. Tognon srl, Roma, pp. 599-505. Libera A. 1955, Chiesa parrocchiale a Bologna, «L’Architettura, cronache e storia», n. 3, pp. 368-371, in M. Mulazzani (a cura di) 2002, Giuseppe Vaccaro, Electa, Milano, p. 245. Vaccaro G. 1943, Convincimenti, «Stile», n. 27, p. 1.
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Naci en 1168 y mi domicilio sigue siendo el mismo: monasterio de santa maria gradefes le0n, españa. (Un Monasterio siempre habitado. Un mismo uso/distinta forma de vivirlo) Susana Mora Alonso-Muñoyerro Susana Mora Alonso-Muñoyerro Calogero Bellanca
Departamento de Construcción y Tecnología Arquitectónicas, Universidad Politécnica de Madrid.
Calogero Bellanca
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Abstract On those difficult days that we are living we think about places where we can live in peace with ourselves and with nature. And we think about autosufficient places as cistercian monasteries, and specially about a feminile cistercian one, where we have worked for restoration. A special monastery that have being alive since 1168, never abandoned; although cistercian rules were changed, the monastery has always been used Keywords Restoration, use, autosufficient, cistercian monastery
Premisas Hace muy poco, al iniciar el año, parecía imposible pensar en que pudiera pasar lo que está pasando. Todos encerrados, en casa, con lo que podíamos haber recopilado para un encierro, que no pensamos que iba a durar tanto. Debíamos ser autosuficientes, primero para poder comer, beber…para asearnos, cuidarnos. Y también para trabajar, para comunicarnos, leer. Pasado el primer shock, hablamos con los nuestros más cercanos, que el confinamiento les había sorprendido en el campo, o en algún pequeño pueblo. A pesar del confinamiento, de las difíciles circunstancias, ellos se encontraban en mejores condiciones, se podían mover más, tenían productos naturales. Y todo ello nos hace pensar en un cambio de vida, o de simplemente vivir con ilusión. La ilusión que también ponemos en el trabajo, en la Restauración, el “Restauro dei monumenti”.
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Fig. 1 Vuelo de la Confederación Hidrográfica del Duero. El monasterio y su primer recinto.
Ello te hace conocer, si quieres hacerlo con rigor, con método, además de bibliotecas, archivos, organismos y profesionales distintos. Si; conocer el país, sus pequeñas ciudades, sus pueblos. Gente muy distinta. muy variada. En este trabajo de Restauración arquitectónica se pasa del esfuerzo físico y la vida muy austera y simple, a lo intelectual. También conocemos las instituciones, la Iglesia, las parroquias y los monasterios. Pero desde la vida, no solo desde los archivos y/o con la tecnología. Y ahora recluidos y en estas circunstancias, nos acordamos de algunos lugares que mantienen una serie de condiciones, muy valoradas en estos momentos. Y nos preguntamos como es posible que alguno haya permanecido siempre en USO. Y entre ellos, uno especialmente, al que conocimos por realizar sus restauraciones, su RESTAURO. Un monasterio cisterciense, femenino, que ha permanecido habitado desde 1168; siempre habitado, en uso, aunque la vida monacal haya ido cambiando. Y tal vez comenzamos a entender esa vida sencilla, la relación con el lugar, con el agua, los riachuelos, los pequeños diques. Sus varios recintos, los muros, las eras, las huertas, la agricultura, los pastos, la ganadería. Lo que ha llegado a nosotros y nos hace pensar en un futuro, en un monasterio que se abra a la comunidad, a la gente. Espacios abiertos de Fe, Historia, Arte. A visitantes, a estudiosos. Introducción El Monasterio cisterciense de Santa Maria de Gradefes, en la provincia de León se presenta como una sorpresa, al llegar por la pequeña carretera bordeada de chopos (de las pocas que aún quedan) en medio del pequeño pueblo, al cruzar el puentecillo sobre el rio. Es un lugar plácido, en llanura junto al rio Esla, a unos 30 km. de León. El núcleo central del monasterio está rodeado por una muralla, que la carretera de acceso actual al pueblo bordea. Un vuelo aéreo de la Confederación del Duero permite ver la planta tipo de un monasterio cister. (fig. 1)
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Susana Mora Alonso-Muñoyerro Calogero Bellanca Fig. 2 El claustro reglar del Monasterio.
La traducción es “En la era 1215, calendas de marzo, fue fundada esta iglesia de Santa Maria de Gradefes por la abadesa Teresa” 2 Juan Lopez Castrillón. Monasteriorum Cisterciensium feminei sexos de Gradefes et Otero de las Dueñas historica Sinopsis. León 1893 1
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La Iglesia al norte, y en torno al claustro reglar, el ala oriental cubierta con teja curva se supone que cubre las huellas del antiguo “armarium”, la “sacristía”, la “sala capitular”, el “locutorio”, el “pasaje”, las escaleras de subida al “dormitorio”, la “sala de monjes”. El ala sur, que posiblemente ocupara el “refectorio”, paralelo a la panda del claustro, y el “calefactorio”, el “scriptorium”. El ala oeste se observa englobada en torno a un segundo claustro, que delimitan otras tres alas. Esta ala occidental debiera corresponderse con el ala de conversos, desaparecida en muchos monasterios cisterciense a partir del siglo XIV. Este segundo claustro está bordeado por otras tres alas de volumen similar. El núcleo arquitectónico del monasterio de Gradefes se presenta como un conjunto compacto y claro, que puede aparecer descuidado, pero nunca ruinoso. ¿Porque queremos hablar de esto en Re Uso cuando siempre tememos que las contribuciones no se atengan al tema propuesto, nacido en Madrid 2013? Pues porque este monasterio siempre habitado desde el 1168 no ha cambiado de uso, ni de orden, siempre perteneciente al cister femenino; pero si lo ha hecho en la forma de vivirlo, si en la vida monacal. Y por tanto con los problemas de adaptación, incluso de supervivencia, para seguir siempre en uso, Restauro y Uso. Sus orígenes El monasterio femenino de Santa Maria de Gradefes comienza su vida monástica el año 1168, proviniendo la comunidad inicial del monasterio navarro de Tulebras, primer monasterio cisterciense femenino en España. La iglesia de Gradefes, según se lee en la lápida colocada en el muro interior de la misma, se inauguró en 11771. Alfonso VII, realiza la donación del realengo de Gradefes al matrimonio formado por don Garcia y doña Teresa Petri, en 1151, según documento que valora el servicio prestado por don Garcia en “tierras de sarracenos y de cristianos”, así como “el servicio que me haces en Baeza”2. En Gradefes el matrimonio va adquiriendo otras propiedades además del patrimonio otorgado por el rey, antes de la fundación del monasterio. Habitaban en la villa de Cea, donde del 1159 al 1164, don Garcia y don Fernando Braoliz figuran como titulares de la tenencia señorial de Cea, y en documento de 1164, fallecido don Garcia, su viuda figura compartiendo el Señorío de Cea. La familia de don Garcia descendía del conde Martín Alfonso relacionado con Alfonso VI, con propiedades en la zona de Tierra de Campos, entre el rio Cea al norte, y Villavicencio, al sur3.Cuando enviuda Teresa Petri, en 1164, da sus bienes al cenobio de Gradefes, del que será la primera abadesa. Todo ello explicaría, junto con su situación geográfica el porqué del lugar. La vida en el Monasterio transcurre sin grandes problemas, hasta 1629, en que debido a disposiciones superiores, por las que las comunidades de monjas se debían unir en número suficiente y en un lugar con cierto número de habitantes, la Comunidad de Gradefes se trasladó a Medina de Rioseco. Pero el 31 de diciembre de 1632, regresan al Monasterio de Gradefes, incrementado en número con monjas de Tulebras4. Un monasterio autosuficiente Así debía ser el Monasterio cisterciense; debía autoabastecerse. El núcleo central edificatorio se rodeaba de diversos recintos destinados a huertas, cuadras, cría de animales, palomares, colmenas. En aquellas huertas más alejadas se situaban pequeñas capillas donde se daban las horas y se rezaba el Angelus.
Una de las primeras preocupaciones de los cistercienses fue acotar el término en que estaba emplazado el monasterio y sus alrededores. Directamente explotado por la comunidad conventual, con el fin de obtener los productos necesarios, y para permitir a los monjes cumplir con el trabajo asignado por las normas del Cister en el tiempo asignado para el trabajo manual. La organización y explotación del coto monástico se sigue a través de la casa o edificio monacal, de las huertas, las construcciones hidráulicas de acotamiento fluvial y del bosque , la riqueza maderera y la explotación ganadera. Y por su importancia para la vida monástica, son importantes las manufacturas relacionadas con los tejidos y los telares. A la casa, edificio o monasterio, se accede a través de un patio o “compás”, en cuyo extremo se encuentra la “portería”. De allí se pasa al actual acceso, de un monasterio muy transformado, que ahora también presenta otro desde el exterior al templo. (fig.3 y fig. 4) El claustro reglar era, y continúa siendo centro de la vida monacal. El ala oriental guarda aún los restos de los elementos arquitectónicos más importantes. Se conserva el “armarium”, el hueco o pequeña hornacina en el muro del claustro, donde se depositan los libros del monasterio cister en una primera época, antes de que se construyera la “librería”. La “Sacristía”, espacio rectangular, ahora sobrio y desnudo, con la única permanencia de dos fustes de columna en dos de sus ángulos, probablemente apoyos de unas posibles bóvedas. Aún se conserva una antigua cajonería de madera. A continuación, la “Sala Capitular”, con una magnífica portada desde el claustro. Consta de siete arcos, el central mayor y otros tres a cada lado, todos ellos ligeramente apuntados, de arista y con las dovelas recorridas por un zigzag. Todo ello enmarcado por una especie de alfiz, que separa la cantería de la portada, del resto del muro revocado. Los arcos apoyan sobre tres órdenes de “repisas” que van disminuyendo, hasta los capiteles campaniformes, con alguna sutil decoración de papiros, que rematan tres líneas de columnillas. en el espesor del muro, y que reposan en sencillas basas y antepecho, dejando libre el arco central. En el interior, dos lucillos o arcosolios, uno en cada muro lateral, ligeramente apuntados, y uno de ellos decorado con dientes de sierra, donde se conserva un sepulcro. Y donde una apertura comunica con la antigua cajonería de madera en la “sacristía”. (fig. 5) Según la planta tipo cisterciense, a continuación, deberíamos encontrar el locutorio, el pasaje y la escalera de acceso al dormitorio de monjas. De ello no queda nada, encontrándonos un espacio que comunica al exterior, al espacio que rodea los ábsides. No está cubierto, y en uno de sus ángulos se situó un pequeño horno. Más adelante un espacio, posible sala de monjas, ahora almacén de todo tipo de aperos. Al fondo, unas escaleras de madera suben al piso superior, que conserva en parte una galería de madera o “solana”, que rodeaba tres de las alas del claustro reglar, hasta que una parte desapareció en una restauración de los años 70 del siglo XX. El “Refectorio” debió ocupar la panda sur del claustro, pero ahora solo se conserva el cerramiento de su perímetro Al parecer, en un primer momento, el refectorio se desarrollaba en paralelo a la panda del claustro, como debió ser el de Gradefes. Alguna de las monjas más ancianas conoció la decoración de esa sala longitudinal, que tenía sus paredes, con pinturas que según esta religiosa eran similares a las del monasterio de Carrizo. (De ello no se ha encontrado información). Al norte, la iglesia, coro y algunos elementos residuales que quedaron sin terminar, a sus pies.
En el Archivo del Monasterio de Gradefes encontramos un documento de 1136, en el que se citan las propiedades en esta zona de doña Maria Gomez, madre de don Garcia, y de sus 5 hermanos. 4 En ese mismo Archivo, encontramos documentos al respecto. Leg 12-135 3
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Susana Mora Alonso-Muñoyerro Calogero Bellanca Fig. 3 Planta Baja. Proyecto de Susana Mora. Fig. 4 Planta Primera. Proyecto de Susana Mora.
Al parecer el único femenino que se conserva en España, es el del monasterio de Tulebras (Navarra)(Antes de aparecer el del Monasterio de Gradefes) 6 Aurelio Calvo. “El monasterio de Gradefes. Apuntes para su historia y la de algunos otros cenobios y pueblos del concejo”. León. Imprenta Provincial. Facsimil, 1984 5
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El ala oeste quedó embebida en la nueva construcción de la ampliación del siglo XVII. Pero aunque no se percibe fácilmente, el “levantamiento de los planos” de planta, puso en evidencia el “Pasaje de conversos”, muy difícil de encontrar en un monasterio femenino5. (fig.6) En el claustro reglar por 3 de sus lados, en primera planta, se levantó una galería o “solana” de madera, que se eliminó parcialmente en una “intervención” de los años 70, conservándose en uno de sus lados y la mitad de otro. Uno de los lados eliminados fué el adosado al templo. En la planta alta del ala oeste, común a ambos claustros, y sobre el “Pasaje de conversos” se conservan varios de los antiguos dormitorios, con sus estancias para la “doña” con su criada y su pequeña cocina con horno. La Iglesia tiene un acceso independiente, separado por un muro de su entorno. Lo que ha llegado a nosotros es la cabecera con girola de un templo inacabado. A ella se accede desde el exterior, por una puerta situada a los pies de la nave lateral del Evangelio (izquierda). La portada es de arco ligeramente apuntado, con decoración en zigzag, y enmarcada por dos boceles. Sobre la puerta, un escudo; y a los lados dos ménsulas con modillones y volutas, muy desgastadas, sobre las que se dice había leones6. (fig. 7 y fig. 8) La iglesia parece debería ser de tres naves y girola, con 5 ábsides, 3 circulares y 2 poligonales. Dos tramos constituyen lo que podíamos considerar el crucero, y allí quedó interrumpida. Seguramente más tarde se continuó con un coro, que ocuparía en planta el tramo central y una parte de la lateral de la epístola, lo que produciría una gran confusión en esa zona del templo. La girola consta de cinco tramos divididos por arcos apuntados en aristas. Bóvedas de crucería y sus nervios presentan motivos abocelados o rosetas de ocho puntas. Recuerda mucho al Monasterio de Moreruela en Zamora.
La capilla mayor (presbiterio) presenta dos ordenes: el inferior con arcos abiertos hacia la girola, apuntados. En el orden superior hay cinco huecos de medio punto. La bóveda descansa sobre cinco nervios sobre dos columnas y entre ellas se abren los vanos. Los temas decorativos son de tipo geométrico y vegetal simplificado, en las cornisas. Los capiteles son muy variados. Algunos con la simplicidad del cister, y otros presentan flores de lis, papiros, palmas, o de repertorio local, cabezas, cabezas de animales, pájaros, frutos, arpías, hojas de acanto y cogollos que recuerdan esquemas mozárabes. Las claves de la zona de la capilla mayor y del crucero presentan motivos florales, y las de las otras naves a San Miguel matando un dragón, el Agnus Dei, un hombre con arco, o un escudo con barras. En el interior del templo hay una serie de sepulcros. Cerca de la puerta de acceso desde el exterior, y a ambos lados, hay dos muy parecidos, ambos bajo sendos arquisolios, uno trilobulado; cobijan sendas arquetas de piedra con cubierta a dos aguas. A continuación, un sarcófago que descansa sobre leones, con escudo que se repite, y un calvario en su cabecera. Otro arquisolio, acoge el enterramiento de un clérigo capellán del monasterio, el año 1345; es una escultura de bulto y está presidido por una imagen de Nuestra Señora con el Niño y una manzana en la mano. Una lápida a la derecha del arquisolio, recuerda la fecha de fundación de la iglesia el año 1177. (fig. 9) Junto a la puerta de la sacristía se sitúan dos laudas de piedra. Una de ellas con la incisión de una mujer con tocado; la otra con escudo del apellido Cabeza de Vaca. Existen también dos sarcófagos, con tapas con esculturas de bulto de una dama y un caballero, con indumentaria cuidada, y que conservan restos de policromía, que podrían corresponder al siglo XIII. La iglesia, construida en fábrica de piedra, quedó inacabada poco después del crucero, donde se iniciaban las naves laterales. No sabemos exactamente cuando se continuó la construcción con un coro en fábrica de ladrillo. Este coro no ocupó todo el espacio correspondiente a la nave central, quedando un espacio residual entre su límite lateral y el perímetro del claustro. El coro actual, parece obra de albañilería del s.XVII, cubierto por bóveda con lunetos, de cinco tramos separados por arcos. Con decoración de yesería y recuadros centrales, hojarasca y angelotes. Una buena reja, separa la iglesia del coro, fechada en 1628 por un cerrajero de León7. En este coro hay una sobria sillería de madera, posiblemente del s.XVIII.
Fig. 5 La Portada de la Sala Capitular. Fig. 6 El claustro reglar del Monasterio. Después del Restauro de Susana Mora.
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Susana Mora Alonso-Muñoyerro Calogero Bellanca Fig. 7 Sección de la Iglesia y Coro. Proyecto. Susana Mora.
7 La realizó el cerrajero Bartolomé Carcase, según consta en el Libro de Cuentas del Monasterio 8 En el Museo Arqueologico se conservan tres sillas del antiguo coro. Espaldares con restos de pintura, y labores de entrelazos y rosetas. El Museo lo adquirió en 1874.
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No queda nada de un posible coro anterior, donde estaría situada la sillería de la que se conservan elementos en el Museo Arqueológico Nacional de Madrid8. Desde el ala oriental del claustro, a través del espacio descubierto junto a la sala capitular, se sale al exterior del templo. Se observan los tres ábsides semicirculares, el central con columnas y con contrafuertes entre las ventanas en su parte alta. Los canecillos de estos ábsides, además de los motivos geométricos, de lacería y vegetales, representan cabezas de animales, atlantes, arpías, castillos, una escena de lucha leonesa etc. La iglesia, declarada Monumento Nacional fué restaurada por D. Luis Menendez Pidal en los años 60. Realizó una limpieza de sus paramentos y pavimentó el templo, dejando solo algún espacio testigo. Estado actual. Al acercarnos al núcleo del monasterio, se observa el desarrollo horizontal de la edificación dominante, construida en su mayor parte en el conocido como “aparejo toledano”, un “opus mixtum” de mampostería y ladrillo, con cubierta de teja árabe. En un extremo se destaca la cabecera inacabada en sillería del templo, que se eleva sobre la nave del coro con un gran arco ojival que se cierra con fábrica revocada. Al otro extremo del coro, la espadaña con los huecos para sus dos campanas, tímpano y remates de bolas. Si entramos al monasterio, dejando a la derecha la casa de “la demandadera”, accedemos a través de la portería, en una de las alas del segundo claustro, donde encontramos el torno, una sala de visitas con la reja de la clausura etc., escaleras sencillas para subir a la planta superior y también un acceso al centro del claustro, que presenta esgrafiados en su zona superior, bajo el alero. Una pequeña puerta da acceso a la Hospedería, actualmente reformada, pero que seguramente ocupa el espacio de la del siglo XVII. A este segundo claustro da también un ala de edificación, que al exterior sigue el volumen y el color del resto del monasterio, pero que fué construida en los años 60, por un benefactor de la Comunidad cister. Enlaza con la zona correspondiente al antiguo Refectorio en torno al claustro reglar, habiéndose destruido algún elemen-
Fig. 8 Planta de la Iglesia y Coro. Proyecto. Susana Mora. Fig. 9 Interior de la Iglesia; cabecera y girola. Después del Restauro de Susana Mora.
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Susana Mora Alonso-Muñoyerro Calogero Bellanca
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to anterior. En la planta baja, se sitúan zonas de trabajo, donde las monjas hacían diversas labores textiles para obtener beneficios económicos, cocinas, así como el actual Capítulo; y en la planta alta los nuevos dormitorios, los aseos. Así como algunos espacios como archivo y despachos. Este claustro corresponde a la ampliación del s. XVII, y esta ala occidental conservó en su interior, en planta baja, el “pasaje o paso de conversos” del monasterio medieval, y en la superior celdas antiguas, alguna todavía habitada por alguna de las monjas más ancianas, que no quisieron trasladarse a las nuevas de los años 60. Esta ampliación se correspondía con el retorno de las monjas desde Medina de Rioseco. Los espacios en torno al claustro reglar, salvo la Sala Capitular, conservan solamente el aspecto de su muro al claustro, utilizándose como almacenes. La galería de madera que se conserva, se abre al claustro reglar, sirviendo como lugar de asueto de la comunidad. Restauración Acercarse a un monumento, para procurar entenderlo, descubrir sus valores, ver sus problemas y sus necesidades, necesita un tiempo, un proceso. Hace mucho que nos acercamos a Gradefes, con un primer encargo de restauración por parte del Ministerio de Cultura/Junta de Castilla León. Preparados con lo que habíamos estudiado del Cister, en bibliotecas y archivos, pero, ahora nos encontramos con la realidad. Las monjas tenían miedo para enseñar todo el monasterio. Poco a poco hubo que ganar su confianza. ¿Que se iba a hacer allí? ¿No sería para Hacienda? Preguntaban. Y se empezaron a “levantar planos”, en forma manual, poco a poco, para poder pensar, conocer, captar. Y también las monjas veían el esfuerzo; cuando se terminaba de trabajar allí, se pasaba a limpio y se señalaban las dudas para el día siguiente. Empezaron a dejar estar en la Hospedería; a través de la reja y el torno pasaban el desayuno, la comida y hablaban. Y nos decían ¿si está declarada monumento solo la iglesia, porque se quiere dibujar todo? Pero habría que levantar, dibujar, para conocer y entender. Y así fue. Así apareció uno de los escasos “pasajes o pasos de conversos” femeninos en España, difícil de percibir si no es a través de su dibujo. El monasterio ha estado siempre habitado, salvo el corto paso por Medina de Rioseco. Sin embargo, la falta de valoración de algunos de sus elementos, llevó a su desaparición, para dotar de confort la vida monacal, con algunas transformaciones. Había necesidad de dar a conocer, de explicar los valores del edificio a las monjas. Y también de explicar todo lo que se iba haciendo, intentando unir criterios y soluciones. En la línea del “Restauro critico-conservativo”. Así se consolidaron las fábricas, dejando las deformaciones, las faltas, evidenciando el paso del tiempo, que le daba un nuevo valor; especialmente en el claustro reglar. Se respetó lo que permanecía de la “solana” de madera, lo que no se había eliminado con anterioridad, también con sus deformaciones y faltas. Se ordenaron las cubiertas, completando la parte del ala oriental del claustro reglar, que había desaparecido. Se optó por una estructura de cerchas de madera, de cuchillo español, simples, mínimas, en la “Sala Capitular”. Y se completó con cubierta de teja curva, pues la proporción de lo que faltaba con lo conservado no aconsejaba otra solución buscando la distinguibilidad, sino más bien respetar el ambiente. También en el ala oeste, en la zona de las antiguas habitaciones, en el pasillo, se conservó el pavimento, los óculos, las carpinterías, el ambiente, el aire. (fig. 10)
En la Iglesia, se siguió el criterio de consolidar lo mínimo, respetando lo hecho por D. Luis Menendez Pidal, y dejando las huellas existentes de pavimento irregular. Se cambió de lugar la verja del coro, hasta situarla ante su primer tramo, justo en la separación templo/coro con la idea de clarificar el espacio. Se realizó la iluminación del templo, mediante la colocación de bañadores de techo, como muebles exentos, cuidando la instalación, siempre al exterior, sin hacer rozas. Futuro Sigue siendo un lugar donde se respira paz, donde desde el claustro reglar se oyen los cantos y las clases de canto gregoriano que, de vez en cuando alguna monja de otro monasterio viene a impartir. Las monjas cultivan la huerta, recogen tomates, frutas, fresas. Tienen tractor, pero solo saben conducirlo en una dirección. También cuidan de sus vacas y de las gallinas. Recogen la miel de los panales. Y cangrejos en sus riachuelos. También cosen, en algunos de los espacios de la planta baja del ala nueva. Y hacen prendas para vender. Y hacen jabones Y preparan pastas. La iglesia tiene su acceso propio desde la actual calle, desde donde también puede accederse a los ábsides. La Iglesia puede acoger actos religiosos y culturales, conciertos como ya se ha hecho. Y de allí salir al claustro reglar, disfrutar de la sala capitular, donde se podría obtener algún libro sobre el lugar, la orden. Y subir a la “solana” donde disfrutar de un té con pastas, que podrán comprar también al salir. La Hospedería tiene un acceso independiente, no muchas habitaciones, pero, aunque austeras, con lo necesario para estudiar y escribir. Se comunica con la primera planta del ala nueva y el ala occidental, hoy todavía habitada por las escasas vocaciones, pero y ¿cuándo no haya más? Es el lugar perfecto para facilitar la vida a personas mayores, del entorno. Pero en mezcla con personas jóvenes que puedan continuar las oportunidades que el lugar ofrece. Es un ejemplo de Restauro y USO, sin cambiar, continuando desde el 1170.
Fig. 10 Pasillo de la planta primera del ala oeste. A la derecha puertas a las celdas.
Bibliografía Bellanca C. (edited by) 2011, Methodical approach to the restoration of historic architecture, Alinea editore, Firenze. Bonelli R. 1959, Architettura e Restauro, Neri Pozzi editore, Venezia. Carbonara G. 1976, La reintegrazione dell´immagine. Problemi di restauro dei monumenti, Bulzoni editore, Roma. Carbonara G. 1987, Avvicinamento al restauro,teoría,storia,monumento, Liguori editore, Napoli. De Angelis d´Ossat G. 1982, Realtá dell Árchitettura apporti allá sua storia 1933-78, a cura di Laura Marcucci, Daniele Imperi, Carucci editore, Roma. Dezzi Bardeschi M. 1991, Restauro:punto e a capo, Franco Angeli editore, Milano. Pérez Embid J. 1986, El cister en Castilla y León, Junta de Castilla y León editor.
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Nuove luci sul castello dei Conti di Biandrate a Foglizzo (TO): il restauro delle sale cinquecentesche tra conservazione e valorizzazione integrata Francesco Novelli Francesco Novelli
Dipartimento Architettura e Design, Politecnico di Torino.
Abstract The conservation and enhancement processes that the administration of the municipality of Foglizzo has carried out in recent years, to start the restoration of the castle, represent an example of best practices in the field of management of the publicly-owned fortified architectural heritage in Piedmont. The castle, institutional seat of the municipality, is a significant example of an architectural palimpsest that preserves evidence of the 14th century, and an important 16th century cycle of decorated surfaces and painted coffered wooden ceilings. The start of integrated projects directed towards carrying out system actions aimed at cultural activities and the identification of sustainable restoration intervention lots, from the municipality, has represented a first objective achieved. The involvement of the local community, in the activities recommended by the initiative, has allowed to consolidate a historically strong connection with the castle itself. The project also has encouraged the development of new professionalism in the field of found raising for the conservation and enhancement of cultural heritage. Keywords Foglizzo castle, painted wooden ceiling, plastered painted surfaces, conservation, integrated enhancement
Premessa I processi di conservazione e valorizzazione che l’amministrazione del comune di Foglizzo ha messo in atto in questi ultimi anni, per avviare i restauri del castello, rappresentano un esempio di best practices nel campo della gestione del patrimonio di architettura fortificata di proprietà pubblica in Piemonte. Il castello, sede istituzionale del comune, è un esempio significativo di palinsesto architettonico che conserva testimonianze del XIV secolo, e un importante ciclo cinquecentesco di superfici decorate e soffitti lignei a cassettoni dipinti. L’avvio di progettualità integrate volte alla realizzazione di azioni di sistema finalizzate ad attività culturali e l’individuazione di lotti di intervento di restauro sostenibili dall’ente proprietario
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ha rappresentato un primo obiettivo raggiunto. Il coinvolgimento della comunità locale nelle attività proposte dall’iniziativa, ha permesso quindi di consolidare, un rapporto storicamente già molto forte, con il castello stesso e stimolare la formazione di nuove professionalità nel campo del fundraising per la conservazione e valorizzazione di beni culturali. Folgicium Castrum Il castello di Foglizzo è citato per la prima volta a partire dal 1329 nella relazione seguita alla visita pastorale compiuta in diocesi dal vescovo di Ivrea Palejino Avogadro (Maffioli 2002; Faruggia 2007, pp. 140-141). I Biandrate, dopo aver ricevuto l’investitura sul territorio di Foglizzo, costruirono o riadattarono una struttura fortificata già esistente in cui risiedere stabilmente, situata nel cuore del nucleo abitato ed in posizione dominante, favorevole alla sua difesa. Nel giro di pochi anni alte mura in ciottoli di fiume vennero costruite intorno all’edificio principale e prese forma il ricetto, risultato dell’alleanza tra i Biandrate e la comunità foglizzese. La struttura del castello, così come la possiamo osservare oggi, è frutto di una lenta e sistematica azione di trasformazione e integrazione di un palinsesto particolarmente significativo e che documenta nella sua consistenza architettonica i passaggi fondamentali e lo stratificarsi delle strutture. Tra le testimonianze più evidenti della fortificazione trecentesca sono la decorazione in cotto (beccatelli) visibile all’altezza dell’imposta del tetto, quindi la merlatura testimoniata e parzialmente distinguibile dal solaio di sottotetto, e la tessitura muraria di fondazione visibile negli scantinati, realizzata da un conglomerato misto con ciottoli di fiume. Questo impianto originario era completato da due torri in posizione dominante e simmetrica rispetto alla torre di accesso alla corte interna del castello. Le prime modifiche significative all’impianto trecentesco risalgono al XV secolo con la costruzione di una nuova manica di collegamento tra la torre di ingresso e la torre, più antica, a nord-ovest: traccia di questo impianto è oggi documentato da un’ampia finestra a crociera con cornici in cotto visibile nel sottotetto. Sarà però a partire dalla fine del XV secolo che si avviano interventi di adeguamento e integrazione del complesso con un’interessante campagna decorativa delle sale più antiche del primo piano del castello realizzata in occasione del matrimonio di Guido Biandrate con Giustina Crivelli, nel 1586. Il ‘gran Salone’, con gli ambienti adiacenti, la ‘stanza dei Trionfi’, quella delle ‘Grottesche’ e delle ‘Eroine’ furono sottoposti ad un’ampia revisione decorativa: ambienti caratterizzati da soffitti lignei a cassettoni dipinti, e specchiature paesaggistiche ornavano il perimetro superiore delle pareti delle diverse sale, oltre ad imponenti camini decorati in stucco di cui ne permane oggi la testimonianza nella ‘stanza dei Trionfi’. Durante il XVII secolo il complesso raggiunse la configurazione planimetrica ancora oggi apprezzabile con la costruzione della manica ovest, collegamento tra le due torri, inglobate nella nuova costruzione. Il XVIII secolo è testimone di un’ampia campagna decorativa realizzata dal quadraturista Pietro Camaschella (Maffioli, 2002, p. 60) che interessò tutti i prospetti esterni, e le sale del piano terreno, con il compito di trasformare l’antico complesso fortificato in una blasonata residenza di rappresentanza dei Biandrate. Con l’avvio del XIX secolo i Biandrate scelsero quale residenza permanente il castello di San Giorgio (TO) e nel 1811 il castello di Foglizzo viene venduto a privati, e successivamente, nel 1855 acquistato dal Comune che ne occupa tutt’oggi gli spazi come sede municipale, biblioteca civica e uffici pubblici.
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Francesco Novelli Progetto e direzione lavori: F. Novelli (Tetrastudio architetti associati); Impresa esecutrice: Ducale Restauri, Venezia; anno di realizzazione 2016-2018.
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Le sale auliche: trasformazioni e stato di fatto Il piano nobile del castello di Foglizzo costituisce ad oggi un palinsesto di grande interesse in cui si evidenziano campagne decorative, tecniche costruttive la cui conservazione rappresenta uno degli obiettivi primari nel percorso di valorizzazione del complesso stesso. Le sale più antiche e ricche di spunti decorativi e architettonici si trovano nell’ala est di primo impianto dell’edificio (XIV secolo) e conservano, nei locali compresi tra lo scalone aulico a sud e la scala di servizio in prossimità della torre di accesso alla corte, testimonianza dei cantieri condotti lungo tutto il XVI secolo durante la signoria di Guido Biandrate detto Seniore e di suo nipote Guido. Il ‘gran Salone’, la ‘stanza delle Grottesche’, la ‘stanza dei Trionfi’ sono caratterizzate da soffitti lignei a cassettoni realizzati appunto tra la fine del XV secolo e il primo quarto del XVI, decorati da travi dipinte, tavolette figurate o da elementi decorativi dorati realizzati a carta pesta. La ‘stanza delle Eroine’, conserva un soffitto ligneo più tardo (fine XVI secolo) sempre dipinto però con motivi geometrici. Le pareti di tutti questi locali non presentano apparati decorativi, salvo uno zoccolo basamentale ed una importante fascia dipinta con motivi allegorici e paesaggistici. Le principali trasformazioni che hanno inciso sulla conservazione del complesso foglizzese causando alcune perdite significative sono da ascriversi al passaggio (1855) dai Biandrate alla proprietà comunale: le nuove destinazioni d’uso ad uffici pubblici e a scuola del paese hanno soprattutto inciso in una frammentazione dei grandi spazi, al piano nobile, con l’inserimento di tramezzi e controsoffitti. Se da un lato si sono quindi registrate trasformazioni improprie non si può non riconoscere alla proprietà pubblica il merito di una manutenzione costante dell’intero complesso governando e contenendo i fenomeni di degrado e dissesto che quasi sempre interessano complessi architettonici in abbandono. All’inizio degli anni Settanta del Novecento lo spostamento delle scuole nella sede attutale e una riorganizzazione degli uffici comunali ha consentito la demolizione dei divisori interni, interventi di consolidamento delle strutture portanti dei soffitti lignei e una campagna di restauri particolarmente significativa del ‘gran Salone’ (1979) avviando così quel processo di conservazione e studio delle fasi storiche sedimentate sulla parte più antica del castello che ancora oggi offre nuovi spunti nel processo di conoscenza per il suo restauro. Dalla campagna diagnostica per la redazione del progetto di restauro al cantiere A circa 40 anni dagli ultimi restauri, nel 2017, l’Amministrazione comunale ha avviato un processo di conservazione e restauro che ha interessato proprio i locali al piano primo della manica più antica compresa appunto tra i due vani scala. Il progetto di restauro1 è stato sviluppato secondo un approccio metodologico alla conoscenza del costruito storico (sul tema si vedano i contributi in Fiorani et al. 2017) ormai consolidato e pienamente condiviso con gli Uffici di tutela, individuando nella fase preliminare l’ambito di intervento sostanzialmente connesso con le ‘stanze delle Grottesche’, ‘dei Trionfi’ e ‘delle Eroine’ e i due vani scala principali, tralasciando il ‘gran Salone’ già restaurato nel 1979. Lo stato di fatto degli ambienti oggetto di intervento evidenzia una pluralità di tematiche il cui approfondimento è necessariamente demandato ad una campagna diagnostica di analisi e studi preliminari rivolti ad acquisire sufficienti elementi utili al progetto di restauro che ha interessato le superfici intonacate e decorate, e il complesso sistema dei soffitti lignei a cassettoni, indagandone fenomeni di degrado e dissesto statico.
Lo studio e la conoscenza delle superfici intonacate attraverso indagini stratigrafiche, materiche volte ad una maggiore comprensione delle relazioni tra il sedimentarsi delle diverse fasi decorative e i legami mantenuti con lo strato di superfice più antica, verosimilmente ascrivibile all’impianto trecentesco, costituiscono un contributo fondamentale alle successive scelte operative. Il risultato di queste analisi condotte sui materiali attraverso indagini petrografiche al microscopio ottico polarizzatore sulla sezione sottile stratigrafica, per determinare la composizione mineralogica e la sequenza stratigrafica dei vari componenti ha permesso di apprezzare l’alta qualità dei materiali utilizzati nella campagna decorativa cinquecentesca e confermare la presenza di maestranze specializzate nelle lavorazioni delle decorazioni a stucco (Cattaneo, Ostorero, 2006). La ‘stanza delle Grottesche’ presenta una fascia con decorazioni a grottesche intervallate da vedute paesaggistiche: dai primi sondaggi eseguiti sulle pareti si rileva una stratificazione di intonaci che confermano l’esistenza, e la parziale conservazione, di una fase preesistente. Si deduce che il dipinto cinquecentesco sia stato realizzato usando come supporto l’intonaco medievale. Questo opportunamente picchiettato è stato utilizzato come arriccio su cui si è steso un sottile strato di intonachino di preparazione alla nuova stesura pittorica. La tecnica esecutiva del dipinto rinascimentale non può essere definita “a fresco”: solo la stesura pittorica dei fondi risulta ben carbonatata, mentre candelabre, figure e paesaggi rivelano una pellicola pittorica materica tipica di una tecnica a secco (presunta tempera, fig.1). Anche la Stanza dei Trionfi presenta analogie sulla metodologia esecutiva, in questo caso però l’apparato decorativo è costituito da scene rappresentanti le divinità greche di Diana, il Tempo, Giove, Marte, il Sole e Saturno. Le decorazioni sono realizzate con una tecnica mista, i fondi delle scene sono ben carbonatati realizzati su intonaco ancora bagnato, le raffigurazioni allegoriche sono dipinte a secco con colori opachi e pennellate materiche. In generale si rilevano interventi di manutenzione e restauro sempre consapevoli del valore artistico delle superfici, con una campagna di interventi collocabile cronologicamente tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, quindi successivamente gli interventi di restauro realizzati nel ‘gran
Fig.1 Foglizzo, Italia. Castello. ‘Stanza delle Grottesche’, dettaglio fascia decorata prima del restauro (2017).
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Francesco Novelli Fig.2 Foglizzo, Italia. Castello. ‘Stanza dei Trionfi’, dettaglio soffitto ligneo a cassettoni, prima del restauro (2017).
I restauri sono stati condotti da Nicola Restauri s.r.l., Aramengo (AT), 1979. 3 In merito ai risultati delle Analisi petrografiche sui dipinti murali si rimanda alle relazioni redatte da M. Spampinato, Lucca 2017; per l’Analisi statica delle travi in legno stanza dei Trionfi e delle Grottesche, si rimanda ai documenti ed elaborati grafici redatti da F. Comba, Torino 2017; per le Indagini diagnostiche sulle strutture lignee di solaio si rimanda agli elaborati redatti da M. Moschi, Firenze 2015. Gli esiti delle indagini effettuate sono parte integrante della documentazione del progetto esecutivo Intervento di recupero e restauro conservativo della scala laterale, delle stanze delle Grottesche, dei Trionfi e delle Eroine, piano nobile del Castello, 2016-2018, Archivio corrente pratiche edilizie, Comune di Foglizzo. 2
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Salone’ hanno molto probabilmente compreso anche le altre sale con interventi minori ma di uguale approccio metodologico2. I soffitti a cassettoni lignei costituiscono, per il castello di Foglizzo, una tecnologia prevalente conservata in circa il 50% del complesso, in particolare quelli delle sale auliche al piano nobile sono stati costruiti tra la fine del XIV secolo e l’inizio del XVI con importanti trasformazioni dovute alla campagna decorativa avviata per il matrimonio di Guido Biandrate e Giustina Crivelli nel 1586 (Maffioli, 2002, pp.35-49). In occasione dei recenti restauri delle ‘stanze dei Trionfi’ e ‘delle Grottesche’ si è reso necessario approfondire stato di conservazione e verifica statica dei soffitti lignei, precedentemente esclusi dagli interventi di restauro e consolidamento della fine degli anni Settanta al ‘gran Salone’. E’ stata quindi avviata una preventiva indagine diagnostica volta alla valutazione dello stato di conservazione, delle caratteristiche meccaniche degli elementi e delle carenze strutturali delle strutture lignee indagate oltre a prove strumentali di tipo resistografico. Dalle analisi effettuate si rileva una struttura portante costituita da grosse travi squadrate e correnti in quercia, sormontati da un tavolato ligneo provvisto di cornici, tavole parapolvere, elementi coprifilo, con fregi e decori in legno e cartapesta (fig.2). Significativi fenomeni di infiltrazione e percolazione provengono dal piano di sottotetto superiore, non sono presenti sintomi di degrado biologico alle strutture portanti mentre problemi maggiori si rilevano a livello di ‘difettosità’, grossi nodi, deviazione della fibratura associata in alcuni casi a rotture che provocano inflessioni della struttura portante e secondaria. E’ stata quindi redatta una verifica strutturale dell’intero sistema, che ne ha successivamente confermato la capacità di sostenere in sicurezza i carichi attualmente presenti (sottotetto visitabile) rimandando ad eventuali correttivi in caso di modifica d’uso dei locali stessi3. Ampliata quindi la fase della conoscenza, anche grazie ai risultati ottenuti dalle campagne di approfondimento materico e strutturale, la redazione del progetto di re-
stauro è indirizzata alla conservazione degli intonaci decorati e dei soffitti lignei dipinti (Torsello, Musso, 2003; Musso, 2010). Gli elaborati grafici parte integrante della documentazione costituente il progetto esecutivo, acquisiscono particolare rilevanza nella individuazione e sintesi delle fasi conoscitive e delle procedure di intervento e devono essere sufficientemente esaustivi e chiari nella descrizione della struttura architettonica, attraverso un rilievo di dettaglio, nella individuazione dei materiali e dei fenomeni di degrado e dissesti presenti. Il rilievo architettonico degli spazi interessati dal restauro, nella restituzione di tutte le sue parti, costituisce supporto adeguato alla individuazione dei materiali attraverso una mappatura cromatica coadiuvata da legende tematiche per la lettura incrociata dei dati (fig.3). Questo primo passaggio individua le informazioni necessarie alla successiva fase di riconoscimento dei fenomeni di degrado e dissesto presente, sintetizzati con l’uso di simboli connessi, e la proposta di metodologie di intervento per la conservazione e il restauro. Il necessario raggruppamento in categorie, superfici intonacate per esempio, della descrizione dei fenomeni di degrado e loro individuazione simbolica, associata ad una documentazione fotografica significativa, permette quindi di estendere il processo di analisi alla individuazione dei relativi metodi di intervento (fig.4). La redazione di elaborati grafici che raccolgano un alto grado di informazioni e che siano facilmente fruibili nella fase di cantiere da parte degli operatori incaricati
Fig.3 Progetto esecutivo, Stato di fatto, piante, prospettisezione della stanza dei Trionfi, individuazione materiali (in originale scala 1:50, ottobre 2016). Fig.4 Progetto esecutivo, Stato di fatto, Soffitto ligneo cassettonato e superfici murarie della stanza dei Trionfi, individuazione dei difetti e interventi di restauro (in originale scala 1:50, ottobre 2016).
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Francesco Novelli Fig.5 Foglizzo, Italia. Castello. ‘Stanza dei Trionfi’, dopo il restauro (2018).
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dell’intervento di restauro costituisce, insieme agli altri documenti parte integrante del progetto complessivo, una maggiore garanzia di controllo delle singole operazioni oltre ad una necessaria verifica sulla compatibilità dell’intervento stesso. La fase di conoscenza e indagine dello stato di fatto oggetto di intervento è stato sviluppata secondo un processo metodologico ormai ampiamente consolidato nel suo approccio di base alla conservazione dei beni culturali: le indagini sulla materia, i saggi stratigrafici e le analisi diagnostiche hanno costituito una banca dati di informazioni fondamentali per la progettazione dell’intervento ma, come spesso succede, solo durante il cantiere si possono definitivamente sciogliere dubbi o presentare imprevisti la cui definizione è difficilmente preventivabile nella fase di redazione del progetto. Le opere di restauro delle sale auliche del castello di Foglizzo non hanno presentato difficoltà operative particolari, le tecniche di conservazione delle superfici intonacate decorate sono state condotte secondo protocolli operativi noti e i risultati ottenuti finalizzati alla pulitura delle superfici, alla rimozione di stuccature e aggiunte improprie, al consolidamento di intonaci originali in fase di distacco, ad integrazioni pittoriche ed equilibratura cromatica (fig.5). I soffitti a cassettoni lignei sono stati interessati da una preventiva pulitura e da una successiva protezione dell’estradosso dei solai (a livello del sottotetto) per poter quindi avviare opere di consolidamento dei pigmenti originali dei soffitti lignei, piccole reintegrazioni o sostituzioni di tasselli lignei ammalorati, restauro e fissaggio di elementi decorativi in carta pesta e relative integrazioni cromatiche (fig.6). Infine l’attività di descialbo e restauro operata sulle decorazioni a stucco del camino della ‘stanza dei Trionfi’ ha restituito superfici la cui decorazione era precedentemente completamente obliterata e appesantita dal sovrapporsi dalle diverse tinteggiature di manutenzione che hanno nel tempo interessato il locale, confermando l’alta qualità delle tecniche esecutive dei mastri luganesi.
Il progetto di valorizzazione integrata. Nuove luci su Foglizzo. Le mura del castello raccontano una storia L’attività di conservazione e valorizzazione avviata dall’Amministrazione del comune di Foglizzo è testimonianza della capacità dell’ente stesso a sviluppare progettualità di ampio respiro che rispondano alle linee di indirizzo delineate dai principali enti erogatori di contributi per opere di restauro. Complice l’attuale crisi economica e l’ampio bacino di riferimento sul territorio, le fondazioni bancarie, tra i soggetti erogatori più importanti in Piemonte, hanno fortemente orientato il proprio interesse in materia di sostegno alla conservazione e valorizzazione dei beni culturali attraverso l’emanazione di bandi per attività di progettazione integrata4. Intendendo i processi e le attività di restauro quali proattive alla rivitalizzazione economica e sociale del territorio e delle comunità in cui vengono sviluppate, l’attività progettuale coinvolge nuovi interlocutori e stimola lo sviluppo di nuove professionalità che attraverso iniziative e azioni di sistema mirate concorrono al recupero di un patrimonio di cultura materiale e immateriale parte di un più ampio sistema di relazioni tra il bene da recuperare e il suo contesto (Novelli, 2016). Secondo questa logica è stato avviato il progetto Nuove luci su Foglizzo. Le mura del castello raccontano una storia5: dal restauro delle sale auliche, alla loro valorizzazione nell’ambito di un più ampio bacino di iniziative e attività che coinvolgano direttamente il castello quale soggetto portatore di un patrimonio di cultura materiale storicamente sedimentata. Un’occasione per la comunità attraverso il coinvolgimento delle scolaresche, delle associazioni locali di individuare nel castello non solo le radici e le
Fig.6 Foglizzo, Italia. Castello. ‘Stanza delle Grottesche’, dettaglio fascia decorata e soffitto ligneo dopo il restauro (2018).
4 Sui bandi di progettazione integrata si rimanda ai siti web istituzionali delle fondazioni bancarie, https://www. fondazionibancariepiemonte. it. 5 Il progetto è stato finanziato nell’ambito del bando, Luoghi della cultura 2016, https:// www.compagniadisanpaolo. it/ita/Bandi-e-scadenze/ Bando-Luoghi-dellaCultura-2020.
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Francesco Novelli
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origini dei luoghi ma anche una proposta di uso sostenibile che possa conciliare l’alto valore storico artistico e architettonico del bene con attività che ne possano promuovere nel tempo la fruizione, la conservazione, la valorizzazione. La volontà di mantenere forte la vocazione pubblica del castello si è concretizzata anche attraverso interventi volti a garantire l’accessibilità agli uffici pubblici e alle sale auliche del primo piano: è stato infatti installato un ascensore che ne permette una piena fruizione senza barriere architettoniche. I locali restaurati e accessibili del castello costituiscono, negli obiettivi del progetto di valorizzazione, anche una quinta scenica per l’azione di sistema denominata Mapping Foglizzo: un percorso di ricostruzione storico-letteraria, di documentazione scientifica e allo stesso tempo di narrazione creativa, grazie al quale gli studenti delle scuole secondarie di primo grado di Foglizzo, durante l’anno scolastico, partendo dal locale Museo della scopa e della saggina, andranno a ritroso nel tempo riscoprendo la storia del loro Comune e le sue tradizioni. Questa attività, in corso di realizzazione sotto la guida di uno storico, è finalizzata alla raccolta di dati, documenti, testimonianze, coinvolgendo la comunità locale, destinatario finale del progetto proposto. Con la documentazione raccolta gli studenti insieme ad uno sceneggiatore imbastiranno un racconto per video e immagini, la cui narrazione avverrà matericamente sulle pareti del Museo della Saggina, della vittoniana Chiesa di S. Maria Maddalena, e nelle sale auliche e pareti esterne del Castello dei Biandrate, utilizzando la tecnica del mapping museale e con l’aiuto di un team di tecnici esperti di mapping, produrranno le foto, i video, le luci e le tracce sonore necessarie alla realizzazione di questa rappresentazione storica in movimento, parte integrante di un evento per la presentazione generale del progetto. L’attuale svolgimento delle iniziative descritte rappresenta una strada possibile nello sviluppo di buone pratiche nel processo di valorizzazione dei beni culturali attraverso una progettazione integrata che preveda investimenti medio piccoli la cui sostenibilità nel tempo sia garantita da parte degli enti promotori, e sia riconosciuta dalla comunità locale coinvolta, quale occasione di rivitalizzazione del territorio e sviluppo di nuove professionalità.
Bibliografia Cattaneo M. V., Ostorero N., 2006, L’Archivio della Compagnia di Sant’Anna dei Luganesi a Torino, Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo, Torino. Faruggia A., 2007, Castello di Foglizzo, in M. Viglino Davico, A. Bruno jr., E. Lusso, G. G. Massara, F. Novelli (a cura di), Strutture fortificate della Provincia di Torino. Atlante castellano, Celid, Torino, pp. 140-141. Fiorani D., Musso S. F., Giusti M. A., Grimoldi A., De Vita M., Della Torre S., Aveta A., Prescia R., Di Biase C., Sette M. P., Mariano F., Vassallo E. (a cura di), RICerca / REStauro / coordinamento di D. Fiorani, Quasar, Roma 2017. Maffioli N., 2002, Il castello di Foglizzo, Torino. Musso S. F. (a cura di), Recupero e restauro degli edifici storici: guida pratica al rilievo e alla diagnostica, EPC, Roma 2010. Novelli F., 2016, Buone pratiche di conservazione e valorizzazione a rete del patrimonio architettonico religioso alpino: il territorio tra Valle Elvo (BI) e Canavese Montano (TO) / Good net-like conservation and development practices of Alpine religious architectural heritage, the territory between Elvo Valley (Bi) and Montano Canavese (To), In IN BO, vol. 10, Bologna, pp. 183-196. Torsello B. P., Musso S. F. (a cura di), Tecniche di restauro architettonico, Utet, Torino 2003. <https://www.compagniadisanpaolo.it/ita/Bandi-e-scadenze/Bando-Luoghi-della-Cultura-2020> (04/20) <https://www.fondazionibancariepiemonte.it> (04/20)
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Il cantiere di restauro nelle zone di rischio sismico. Un caso di studio Marianna Rotilio
Marianna Rotilio
Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile-Architettura e Ambientale, Università degli Studi di L’Aquila.
Abstract The study of the state of the art has highlighted the need to overcome the current regulatory and authorization apparatus in the case of cultural assets restoration. And this because, in this type of intervention, the construction site becomes a place of continuous discoveries and changes, in constant evolution, rich in stratifications, a place in which knowledge does not stop at the metaproject phase but continues throughout the executive process. This need appears even more evident when the cultural assets are in fragile, risky contexts, where nature could lead to sudden changes of scenario. In these contexts, lean and simplified procedures must be adopted, abandoning the long and complex traditional administrative processes. In light of such premises, in this article the events that characterized the restoration site of the church of San Benedetto Abate in Arischia (Aq), Italy, will be illustrated. In fact, during the execution of the 2009 earthquake works, the church was further damaged by the one that hit central Italy in 2016. Keywords Beni culturali, Il cantiere di restauro, Zone di rischio sismico, Variante progettuale
Introduzione Il compimento di un’opera di restauro si articola in un processo complesso, dinamico, sempre in divenire (Vitiello, Castelluccio, 2019). Infatti la classica scomposizione per step in cui si ha la fase metaprogettuale conoscitiva (Capone, 2006), quella progettuale vera e propria, la cantierizzazione ed il collaudo, consegna dell’opera, molto raramente segue uno sviluppo lineare. Soventemente la fase della conoscen-
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za continua e si approfondisce anche durante quella del cantiere, sia in termini di materiali che di tecniche costruttive, ma anche alla luce di ritrovamenti più o meno eccezionali. Oltre ciò, anche lo stesso cantiere di restauro è di per se stesso complesso con caratteristiche di programmazione e organizzazione peculiari mirate all’ottenimento di una struttura flessibile ed articolata in base alla natura dell’esistente. Pertanto non potrà avvalersi di metodi classici definendo a priori le modalità di esecuzione ma piuttosto sviluppandole caso per caso con l’aiuto di metodi statistico-matematici per il controllo della qualità. Risulta evidente che nel cantiere di restauro possa trovarsi una relazione diretta con la classica edilizia industrializzata dove il modello stesso richiede caratteristiche completamente diverse. Infatti l’adattabilità al cantiere di restauro deve prevedere un modello di organizzazione produttiva industrializzata legata alla piccola serie e alla necessità di cambiamento della fabbricazione per adattarsi alle necessità dell’esistente, capace di inserire nella procedura momenti di ulteriore definizione progettuale e cambiamenti che non alterino la linea di produzione mantenendo un’organizzazione flessibile. In tema di flessibilità e di “modelli”, l’HBim, ovvero Heritage Building Information Modeling, presenta enormi potenzialità, tenuto conto della ricchezza del patrimonio artistico italiano. E’ un ambito di studio di notevole interesse a cui molti autori hanno dedicato le loro ricerche (Lopez et al., 2018; Brusaporci et. al, 2018; Simeone, 2018; Fiorani et al., 2017). In particolare Lucarelli et al. (2018) hanno evidenziato l’utilità di tale approccio in ambito cantieristico soprattutto in termini di digitalizzazione per fini preventivi e di ottimizzazione dei tempi in presenza di varianti (Rotilio et al., 2019). Questo crescente interesse nei confronti dei processi di digitalizzazione anche per la gestione delle varianti si accompagna con un notevole avanzamento normativo su tale tematica, sia a livello europeo con la European Union Public Procurement Directive (EUPPD 2014/24), sia nazionale con il cosiddetto “Decreto BIM” (D.M. n. 560.2017). Allo stesso tempo però, lo studio dello stato dell’arte ha evidenziato una notevole arrestratezza in termini di iter autorizzativi e di finanziamento. Tale situazione determina ritardi e slittamenti temporali soprattutto nei cantieri di restauro poiché questi, molto più di altri, sono luogo di continui “imprevisti”, scenario di sperimentazione permanente, dove dovrebbe vigere la regola del modus operandi “caso per caso”. Di conseguenza dunque l’attività progettuale non potrà mai essere interpretata in maniera definitiva o “chiusa” poichè essa dovrà costantemente “plasmarsi” alle vicende che attimo dopo attimo si avvicendano nel cantiere stesso. Una concezione dell’iter progettuale così definita non dovrebbe causare problematiche al processo realizzativo, in quanto la variante in corso d’opera dovrebbe essere considerata come strumento necessario per il conseguimento della qualità esecutiva non come “elemento di disturbo”, pretesto per contestazioni e riserve. Tale riflessione appare ancor più significativa in riferimento a quei beni culturali che sono siti in contesti di rischio, quali ad esempio le zone sismiche, e sono pertanto spesso oggetto di “offese” da parte degli eventi naturali. In tali contesti è evidente la necessità di adottare procedure snelle e semplificate abbandonando i lunghi e complessi processi amministrativi tradizionali. Alla luce di tali premesse, nel presente articolo si intende illustrare le vicende che hanno caratterizzato il cantiere di restauro della chiesa di San Benedetto Abate in Arischia (Aq), Italia, che, durante l’esecuzione delle opere resesi necessarie a seguito del sisma del 2009, è stata ulteriormente danneggiata dall’evento tellurico che nel 2016 ha colpito il centro Italia.
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Marianna Rotilio Fig. 1 Planovolumetrico della Chiesa di San Benedetto in Arischia. Fig.2 Diifferenti fasi del rilievo realizzato con laser scan.
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Il caso di studio Inquadramento e notizie storiche La chiesa di San Benedetto in Arischia (Antonini, 2012) è collocata all’interno dell’omonima frazione, tra le più isolate appartenenti al Comune di L’Aquila. Essa è collocata in corrispondenza della piazza principale dalla quale si accede al monumento mediante breve scalinata (fig. 1). La fabbrica presenta una pianta rettangolare a sviluppo longitudinale di dimensioni pari a circa 43 metri per 25 metri. L’altezza massima della struttura si ha in corrispondenza della cupola centrale ed è pari ad oltre 19 metri, mentre le quote relative alle coperture sono pari a circa 15 metri in relazione al colmo del tetto della navata centrale ed a circa 10 metri in corrispondenza delle navate laterali. La zona del transetto è caratterizzata da murature con un’altezza superiore rispetto a quella delle navate mentre l’elemento svettante oltre la copertura della fabbrica è la cella campanaria, di altezza pari a circa 22 metri. Da un punto di vista strutturale l’edificio è costituito da una struttura mista in muratura e pilastri in pietra a conci sbozzati. Tale sistema è connesso ad una copertura a telaio composto da travi e setti in calcestruzzo armato. In particolar modo, in corrispondenza delle colonne in muratura sono presenti dei setti triangolari trasversali in c.a. di spessore pari a circa venti centimetri, che si ripetono lungo tutta la navata, collegati da travi longitudinali. Le strutture verticali delle navate sono costituite da quattro file di pilastri in muratura di cui quelle perimetrali tamponate con muratura in pietrame. La facciata principale è stata realizzata con conci di pietra squadrata, i prospetti laterali con tessitura incoerente in laterizio e pietra. Da un punto di vista architettonico e stilistico la chiesa ha subìto nel corso dei secoli numerosi processi di trasformazione, addizioni e sostituzioni ma non ha mai perso la sua identità rendendo riconoscibile il suo impianto compositivo e prospettico. Il principale elemento di distinzione è la maestosa facciata cuspidata, realizzata in blocchi isodomi in pietra squadrata e dotata di tre fornici lunettati di cui il centrale piuttosto ricco impreziosito da due capitelli, quelli laterali più semplici con stipiti rettangolari. Tale facciata riprende quella di Santa Maria Assunta in Bominaco e di altre abbazie benedettine abruzzesi realizzate nei secoli XI-XII. Altri elementi distintivi sono il tiburio chiuso in sommità dalla lanterna e la torre campanaria a pianta quadrata dotata di pareti di spessore oltre 1.5 metri. All’interno la chiesa è suddivisa in tre navate mediante i già citati pilastri a cui sono addossate
lesene in stile corinzio, ricollegate mediante un cornicione continuo che corre lungo tutto il perimetro dell’edificio. La documentazione storica inerente il monumento è piuttosto esigua ma si ritiene che la sua edificazione risalga al XII secolo in quanto in un documento del 1303 essa veniva già citata tra i monasteri dei cistercensi (Archivio diocesano (a)) oltreché nel Catalogus Baronum in riferimento all’anno 1157. La chiesa originaria era molto più piccola dell’attuale, probabilmente di ingombro pari alla navata centrale e fu in seguito ingrandita. Tale ipotesi spiegherebbe la presenza della data iscritta sulla porta sinistra della facciata “1786”. Dalla fine del secolo XVI Arischia conobbe un periodo di crescita economica e demografica, e ciò determinò la costruzione di molte abitazioni in pietra lavorata, l’edificazione del palazzo baronale e la fornitura alla chiesa di tele, altari ed arredi sacri. Nel 1703 il devastante terremoto che interessò l’aquilano distrusse gran parte del paese e della chiesa di San Benedetto causando numerose vittime. La ricostruzione avvenne nel 1715, come da iscrizione nello spigolo della torre campanaria (Archivio diocesano (a)) . Ma la natura sismica del territorio nel quale la chiesa è stata edificata ne ha determinato nuovamente danni molto gravi nel 1915, a seguito del noto e devastante evento tellurico. In particolare si annovera il crollo parziale della volta della navata centrale e di parte di quella laterale destra, gli ingenti danni subiti dalla cupola, da due arconi laterali, dalla muratura esterna e dalla sagrestia (Archivio diocesano (b)). I lavori di riparazione iniziarono negli anni Venti con la ricostruzione della volta della navata centrale ed il ripristino e il rafforzamento di tutto il complesso dell’edificio. In quella occasione la chiesa fu arricchita da dodici altari (Archivio diocesano (c)). Tra gli ultimi lavori di ripristino e consolidamento rilevanti documentati prima del sisma 2009, ci sono quelli di ripristino per i danni provocati dai bombardamenti del 2 novembre 1945. Unitamente a detti interventi si manifestò la necessità di consolidare le strutture interne che apparivano fortemente danneggiate dai sismi succedutisi negli anni precedenti al bombardamento (Archivio diocesano (d)). In particolare l’intervento riguardò la copertura, gli orizzontamenti piani e voltati ed il campanile (fig. 2). Invece non si ha traccia degli interventi eseguiti in facciata, anche se dall’analisi degli elaborati si è rilevato un innalzamento della quota finale che ha determinato la costruzione di fasce di ricorsi in pietra sia nella citata facciata che nella navate laterali.
Fig. 3 Immagini del progetto di restauro della Chiesa di San Benedetto in Arischia del 1959. A sinistra lo stato pre-bellico, a destra lo stato futuro.
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Marianna Rotilio Fig. 4 In evidenza la gravità del quadro fessurativo rilevato all’interno della fabbrica.
Il sisma del 2009 A seguito del sisma che dal 6 aprile 2009 e giorni seguenti si è verificato nella Regione Abruzzo, in particolare nel territorio in Provincia di L’Aquila, la chiesa di San Benedetto Abate ha subito notevoli danni (fig. 3). In particolare, il rilievo geometrico, strutturale e materico e la lettura del quadro fessurativo, hanno consentito di rilevare l’attivazione dei seguenti meccanismi di collasso: • cinematismo della facciata con ribaltamento fuori dal piano nel suo complesso e in particolare delle due vele triangolari laterali; • quadro fessurativo diffuso su tutte le murature perimetrali con piccoli crolli localizzati per azione di taglio nel piano; • fessure passanti per azione di taglio nel piano localizzate in prossimità dei pannelli murari del transetto e dell’abside; • lesioni di taglio sulla maggior parte dei pilastri, localizzate in particolare nel lato perimetrale sud alla stessa quota rispetto all’andamento del profilo del terreno esterno; • lesioni sugli archi trionfali dovuta alla rotazione dei piedritti; • lesioni sul tamburo della cupola di taglio amplificate dalla presenza della struttura di copertura pesante superiore; • lesioni angolari per azione sismica fuori dal piano delle murature della sagrestia. Il progetto di restauro L’elaborazione progettuale si fonda su un approccio metodologico che ha alla base una importante campagna conoscitiva. Entrando nel merito, si è proceduto alla analisi delle forme di degrado presenti, delle apparecchiature murarie e degli orizzontamenti nonché all’individuazione dei macro elementi strutturali componenti l’organismo architettonico oltreché alla definizione dei meccanismi di collasso in atto precedentemente citati. Tale percorso ha consentito di individuare le criticità in funzione delle quali è stato elaborato il progetto, calibrando al meglio le operazioni di consolidamento, restauro e di miglioramento sismico. Tra le principali criticità strutturali è possibile annoverare: • interazione torre campanaria volumi sotttostanti, così come tra le differenti murature di contatto chiesa/casa canonica e chiesa/altra proprietà; • struttura disposta su livelli diversi a causa del naturale declivio del terreno; • telaio di copertura pesante in c.a. posto al di sopra delle antiche strutture in muratura; • presenza di cavità al di sotto del piano di posa della pavimentazione della navata; • rilievo di superfetazioni e rimaneggiamenti della geometria originale della fabbrica.
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E’ stata inoltre rilevata la presenza di numerose forme di degrado superficiale (fig. 5). Definite le criticità, la fabbrica è stata suddivisa in macroelementi per i quali sono stati previsti specifici interventi di consolidamento e restauro tendenti a ripristinare la continuità strutturale e ad incrementare la risposta scatolare dell’edificio. In particolare, gli interventi strutturali si sono concentrati sulla facciata e sulle navate centrale e laterali. In facciata sono state previste limitate opere di scuci-cuci, smontaggio e rimontaggio localizzato al fine di recuperare la verticalità, ricostruzione delle due vele laterali mediante l’inserimento di fasce in tessuto unidirezionale in fibra di acciaio, verifica delle catene esistenti ed inserimento di nuove, stuccatura e risarcitura di lesioni, anche a mezzo di iniezioni localizzate. Analoghe operazioni di riparazione sono state progettate anche in corrispondenza delle navate (fig. 5), nelle quali è stato contemplato il consolidamento dei pilastri mediante fasciatura, rinforzo degli archi ed eliminazione dei solai piani in laterocemento posti in corrispondenza delle navate laterali. Le opere progettate sono state di tipo di riparazione e miglioramento sismico, nel rispetto del comportamento strutturale della fabbrica, della normativa vigente e nei limiti del finanziamento concesso. Contestualmente è stata prevista la riparazione del manto di copertura nonché definiti gli interventi maggiormente idonei per l’eliminazione delle principali forme di degrado. Le opere progettate hanno interessato l’avancorpo della fabbrica, ovvero le tre navate ed il sagrato, in quanto la zona absidale del transetto oltreché la casa canonica saranno demandate alla realizzazione di un secondo lotto di intervento con un differente canale di finanziamento.
Fig. 5 Rilievo critico del degrado materico in corrispondenza delle superfici della facciata.
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Marianna Rotilio Fig. 6 Mappatura di alcuni dei principali interventi strutturali progettati.
Il sisma del 2016 Concluso l’iter autorizzativo del progetto, approfondito in ogni aspetto, sono state espletate le procedure di gara per l’individuazione dell’esecutore dell’opera nonché dei tecnici per la fase esecutiva. Così i lavori di restauro sono iniziati nel febbraio del 2016 e sono proceduti speditamente fino alla fine di agosto dello stesso anno. Purtroppo il 24 di quel mese un altro terremoto devastante ha interessato il centro Italia, causando nuovamente danni e problematiche anche in Arischia. Per questo motivo, con il coinvolgimento di tutti gli attori portatori di interessi nel processo di restauro della chiesa di San Benedetto Abate, sono stati compiuti numerosi sopralluoghi e verifiche, tali da portare alla definizione di un primo assestamento progettuale, formalizzato nel mese di febbraio 2017 che prevedeva una contenuta rivisitazione progettuale senza alcun aumento di spesa. Con tale assestamento sono state progettate delle opere inerenti i semitimpani in c.a., alcuni elementi strutturali in c.a. di collegamento ed una porzione di solaio di copertura parzialmente crollato. Nonostante la riprogrammazione delle lavorazioni, la modifica del diagramma di Gantt, dell’istogramma addetti e diagramma di flusso dei materiali, la necessità della redazione dell’assestamento progettuale ed il completamento dell’iter autorizzativo ha comportato un primo slittamento del tempo contrattuale pari a tre mesi. Durante la ripresa dei lavori, a causa del perdurare dello sciame sismico in atto dall’agosto del 2016, è emersa la necessità di redigere una perizia suppletiva e di variante al fine di eseguire alcune opere non previste in progetto e non prevedibili, ad esso complementari.
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Fig. 7 Dettagli costruttivi dei principali interventi strutturali integrativi progettati.
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Marianna Rotilio Fig. 8-9 Intervento di messa in sicurezza degli arconi. Fig. 10-11 La facciata restaurata e la scalinata recuperata. La navata centrale restaurata e sullo sfondo la messa in sicurezza degli arconi che saranno oggetto del secondo lotto di intervento.
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Infatti la continua attività tellurica aveva fortemente aggravato la condizione di danno della zona absidale e della navata laterale sinistra in corrispondenza del transetto, ovvero proprio due porzioni della fabbrica non oggetto dell’attuale appalto poiché, come detto, demandate alla realizzazione di un secondo lotto di intervento. Quella determinata dal sisma era quindi una condizione di elevata pericolosità data l’impossibilità di definire con certezza quando sarebbero stati eseguiti i lavori del secondo lotto. Pertanto nel dicembre 2016 è stata inoltrata formale richiesta all’ente finanziatore, al fine di utilizzare il ribasso d’asta per la redazione della perizia di variante e l’esecuzione delle opere integrative, rimanendo all’interno del cosiddetto “quinto” contrattuale. La citata autorizzazione all’utilizzo delle economie di spesa è stata concessa formalmente nel gennaio del 2018. Entrando nel merito, le opere previste nella perizia consistono nell’aumento delle opere provvisionali, nell’integrazione ed adeguamento degli interventi di consolidamento strutturale, nella previsione di opere di miglioramento della funzionalità e della manutenibilità, protezione e salvaguardia mediante la fornitura e posa in opera di opere provvisionali a perdere (struttura a tubo giunto) (figg. 8, 9). Per la redazione della perizia di variante sono stati concessi centodieci giorni ed anche tale condizione ha determinato un aumento del tempo contrattuale. In conclusione, le opere di restauro di cui al primo lotto dei lavori sono state concluse nel mese di giugno del 2018 (fig. 10,11) ed attualmente è in corso di svolgimento l’iter amministrativo necessario per dar seguito al secondo lotto. Conclusioni Lo studio dello stato dell’arte ha evidenziato la necessità del superamento dell’attuale apparato normativo ed autorizzativo nel caso in cui sia necessario eseguire un intervento di restauro su un bene culturale. Ciò in quanto in questa tipologia di interventi il cantiere diviene luogo di continue scoperte e mutamenti, in costante divenire, ricco di stratificazioni in cui la conoscenza non si ferma alla fase metaprogettuale ma prosegue nel corso di tutto l’iter esecutivo. Tale necessità appare ancor più evidente quando i beni culturali oggetto di interesse sono siti in contesti fragili, di rischio, in cui la natura potrebbe determinare improvvisi cambi di scenario. E’ ciò che è accaduto nella chiesa di San Benedetto di Arischia (Aq) che, durante l’esecuzione dei lavori di restauro post sisma 2009, è stata ulteriormente danneggiata dallo sciame sismico che dall’agosto del 2016 ha colpito il centro Italia. Tale evento ha determinato la necessità di sviluppare un primo assestamento progettuale seguito poi dalla redazione di una variante vera e propria. L’iter burocratico che ne è seguito per l’ottenimento delle autorizzazioni sia in termini progettuali che di finanziamento ha causato un notevole slittamento dei tempi contrattuali con successivo ritardo nella riconsegna del bene. La descrizione di questo caso di studio avvalora l’ipotesi di una revisione dell’apparato normativo in relazione agli interventi di restauro sui beni culturali.
Bibliografia Antonini O. 2012, Le Chiese extra moenia del Comune dell’Aquila prima e dopo il sisma, Verdone Editore, Castelli (Te). Archivio di Stato di L’Aquila, Antinoriana (a). Archivio diocesano, L’Aquila – busta 814, fasc. 3.3 (b). Archivio diocesano, L’Aquila – busta 1056, fasc. 7.5 (c). Archivio diocesano, L’Aquila – busta 652 (d). Brusaporci S. Trizio I. Ruggieri G. Maiezza P. Tata A. Giannangeli A. 2018, AHBIM per l’analisi stratigrafica dell’architettura storica, “Restauro Archeologico”, vol. 26, n. 1, pp. 112-131. Capone P. 2006, Il Cantiere Di Restauro Negli Edifici Storici, “OPD Restauro”, n. 18, pp. 227–234. Fiorani D. Acierno M. Cursi S. Simeone D. 2017, Architectural Heritage Knowledge Modelling. An ontology-based framework for conservation process, “Journal of cultural heritage”, vol. 24, pp. 124-133. López F. J. Lerones P. M. Llamas J. Gómez García Bermejo J. Zalama E. 2018, A Review of Heritage Building Information Modeling (H-BIM) “Multimodal Technologies and Interaction” vol. 2. Lucarelli M. Laurini E. Rotilio M. De Berardinis P. 2018, Metodo BIM: gestione dei cantieri edilizi nei centri colpiti da calamità naturali, in F. Minutoli, ReUSO 2018, L’intreccio dei saperi per rispettare il passato interpretare il presente salvaguardare il futuro, Gangemi Editore Spa International, Roma, pp. 2531-2542. Rotilio M. Laurini E. Lucarelli M. De Berardinis P. 2019 The maximization of the 4th dimension of the building site, “International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences”, Vol. XLII-4/W17, pp. 15-20. Simeone D. 2018, BIM and Behavioural Simulation for existing buildings re-use design “Tema”, vol. 4, pp. 59-69. Vitiello V. Castelluccio R. 2019, Dal dettaglio costruttivo alla ricostruzione storica: la conoscenza attraverso il cantiere di restauro, in A. Conte, A. Guida, ReUSO Matera, Patrimonio in divenire, conoscere, valorizzare, abitare, Gangemi Editore S.p.a. International, Roma, pp. 1271-1284.
Credits Committente: Ente Parrocchia San Benedetto Abate, Arischia (Aq) Responsabile Unico del Procedimento: Ing. Marianna Rotilio Supporto al RUP: Arch. Christian Rubino Progettisti: Ing. Giorgio Olori, Arch. Fabio Marcelli Impresa Affidataria: “Il Cenacolo S.r.l.” con sede in Roma Direttore dei Lavori: Arch. Simona Turilli Coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione: Ing. Francesco Sarcina Funzionario della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città dell’Aquila e i Comuni del Cratere di competenza della chiesa: Arch. Gianfranco D’Alò Ente finanziatore: L’opera è stata finanziata mediante i fondi dell’otto per mille dell’Irpef devoluti alla diretta gestione statale di cui al D.P.R. 10.03.1998, n. 76 - d. P.C.M. 10.12.2010 - “Recupero statico e restauro conservativo del complesso - Chiesa parrocchiale monumentale San Benedetto in Arischia (Aq)”. Rif. n. 334/2010
Fonte delle illustrazioni Le figure n. ri 1, 2, 4 e 5 sono state rielaborate dall’autore a partire dal materiale fornito dai progettisti Ing. Giorgio Olori e Arch. Fabio Marcelli; analogo discorso anche per la fig. 6, fornita dal Direttore dei Lavori Simona Turilli; le foto di cui alle fig. n. ri 3, 7 e 8 sono state scattate dall’autore. L’immagine di apertura è stata elaborata dall’autore sulla base del materiale precedentemente citato.
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L’insegnamento del restauro, della conservazione e delle discipline afferenti
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L’insegnamento del restauro dei giardini e dei parchi storici nella Scuola di specializzazione in beni architettonici e del paesaggio di Roma Maria Letizia Accorsi
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Massimo de Vico Fallani Maria Letizia Accorsi Massimo de Vico Fallani
Scuola di specializzazione in beni architettonici e del paesaggio, Sapienza Università di Roma.
Abstract Teaching restoration of old gardens and parks at the School of specialisation in architectural heritage and the landscape in Rome The contribution will illustrate the training course in ‘Restoration of old parks and gardens’ which has been held at the School of Specialisation in Architectural Heritage and the Landscape, Sapienza University of Rome, since the Academic Year 2013-2014. The course objective is to provide students the tools required to develop excellent professional expertise in a field in which Italy lags behind other European countries. The course is considered as the core of a cultural system which includes the gradual development of a specialised library, research activities, the translation of specialist texts, and the creation of an international network. The theoretical and practical training focuses on fifteen fundamental subjects: these disciplinary fields help students gain the knowledge required by a designer to develop a sustainable product, in other words a product that does not loose its characteristics when verified during specialist collaborations. As part of a carefully planned and structured didactic course, the goal of each educational field is to always safeguard the freedom of the student who, after learning the necessary skills, knowledge and techniques, is able to make his own choices regarding a restoration project. Keywords Giardini storico-artistici, parchi storici, restauro
Ragioni e storia del corso (M.d.V.F.) Fin dal 2006 la Scuola di specializzazione in beni architettonici e del paesaggio per lo studio e il restauro dei monumenti (Sapienza Università di Roma) aveva dato avvio ad una serie di traduzioni di testi riguardanti il tema della conservazione dei parchi e giardini storico-artistici (Gothein 2006, Rohde 2012). Le ragioni che motivarono tale scelta sono le stesse dell’idea proposta e a lungo sostenuta dal professore Giovanni Carbonara che hanno infine portato, sette anni or sono, a costituire, all’interno della Scuola, un percorso biennale dedicato al restauro dei parchi e giardini storico-artistici. È apparso infatti necessario e utile fornire gli strumenti per una rigorosa preparazione professionale su un tema nel quale l’Italia si è mostrata in parte attardata rispetto ad altre nazioni europee.
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La cultura dei giardini, che fu così rimarchevole in Italia almeno dal Rinascimento e sino alla fine del Settecento, perse infine la sua fase vitale nel corso del XIX secolo. Successivamente inoltre né lo stile inglese, né le Società di orticoltura, nate dall’esperienza di quelle inglesi e francesi, ebbero la forza di trasformare il giardinaggio in cultura diffusa. L’arte dei giardini, che la si voglia intendere come progetto o come coltivazione, come architettura o come giardinaggio, fu tenuta in vita più da singole personalità che da una cultura condivisa. Si pensi alla dinastia dei Roda a Torino, a quella dei Pucci a Firenze, a quella dei Formilli a Roma. Dopo questi protagonisti, solo pochi personaggi interpretarono ad alti livelli l’arte dei giardini, e tra questi alcuni, in tempi moderni, come Pietro Porcinai, che proveniva da una tradizione famigliare vivaistica, e Raffele de Vico, che si era inizialmente formato ad una scuola di perito agrario, avevano seguito una formazione non scolastica. Maria Teresa Parpagliolo si era formata in Inghilterra. Al contempo, alcune fra le più prestigiose e preziose sedi di conoscenza e d’istruzione, fra le quali si distinguevano per eccellenza la Scuola di Pomologia di Firenze e quella Comunale di Roma, furono trasformate in istituti tecnici o in scuole materne. Per quanto attiene alla Scuola, l’osservazione dello stato dell’arte relativo al tema è stato il luogo concettuale ed empirico dal quale sono germogliate l’idea del corso di restauro di parchi e giardini storico-artistici attivo da sette anni presso l’Università di Roma “Sapienza” e la regola che ne armonizza le parti. In sostanza, ormai quasi un luogo comune, si sono notate da un lato la progressiva perdita di una disciplina tecnica, chiamata ‘giardinaggio’, e della sua forma artistica, chiamata ‘arte dei giardini’, e dall’altro la mai nata – in Italia – professione dell’architetto dei giardini, quale esiste nella maggior parte delle altre nazioni. Vedremo in seguito quale possa essere la sua identità. In tale vuoto si generano diversi equivoci. Uno è quello tra paesaggista e architetto di giardini, soprattutto a causa di quest’ultimo, per la sua latitanza. Le sempre più pressanti problematiche ambientali e conservative dei nostri giorni indirizzano giustamente sul paesaggio un’attenzione prevalente, e da tempo le università hanno istituito corsi di laurea per la formazione del paesaggista, della quale non vi è qui spazio per trattare; però paesaggio e giardini, seppur condividendo molti aspetti, sono due cose diverse, e non vi è ragione che lo spazio e l’interesse egemonizzato dal primo rubi posto al secondo, come è da rifiutare che attualità e tecnica escludano storia e arte. Allora – anche questo è stato detto più volte – accade che nel progetto dei giardini travasino varie professionalità, ognuna delle quali, per qualche sua specificità, gravita attorno al tema senza che nessuna di esse centri in pieno l’obbiettivo. In pratica, a parte la citata professione del paesaggista, la progettazione del nuovo viene svolta da architetti civili, i quali poi per le piante sono costretti a rivolgersi alle professionalità tecniche mettendo a rischio in tale trasferimento l’unità compositiva e la chiarezza delle idee estetiche; oppure agiscono le imprese, o agronomi, o botanici, o artisti di arte contemporanea, questi ultimi tanto incisivamente che spesso li vediamo comparire indifferentemente come artisti o come paesaggisti. Nel progetto di restauro agiscono anche storici dell’arte o archeologi, paleobotanici, fitopatologi. I prodotti finali possono essere validi e anche validissimi, ma solo aleatoriamente si avranno prodotti di qualità che invece debbono diventare prassi professionale. In particolare, per il progetto del nuovo appare evidente quella diluizione delle
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identità che oggi caratterizza un po’ tutte le discipline artistiche classiche. Il termine ‘artista’ può significare paesaggista, architetto, scultore, pittore ecc. con un meccanismo di plurima reciprocità. Se questo sia un bene o un male per la progettazione del nuovo, è cosa che verrà compresa con il tempo, ma non sembra idoneo per i giardini storico-artistici, quando li si debbano restaurare o manutenere. Lì il giardino deve conservare l’identità che ci è stata consegnata da millenni di storia. Sono innumerevoli e colte le interpretazioni con le quali dai diversi punti di vista intellettuali viene interpretato il giardino. Ognuna di esse è preziosa, però quando si progetta esistono delle priorità inderogabili. Una definizione minimalista ma abbastanza scevra da eccezioni è considerare giardino una qualsiasi area in pien’aria artisticamente coltivata a piante, permeabile per almeno l’ottanta per cento della sua superficie e ubertosa per almeno il sessanta per cento. Una tale definizione può sembrare generica e forse banale, al contrario, è specifica e significativa. Salvo speciali eccezioni l’espressione ‘artisticamente coltivata’ di cui sopra non ha valore esclusivo, in quanto, soprattutto se pubblico, un giardino partecipa di svariate funzioni. Però significa due cose: la prima è che in essa l’arte prevale sulla natura. Se la fisiologia di un determinato albero chiede che il sesto d’impianto fra due individui della stessa specie sia di dodici metri, l’arte può esigere invece che i due alberi siano posti uno accosto all’altro nella medesima buca. Dopo tutto piantagioni che contrastano con la fisiologia degli organismi vegetali sono consuete nelle coltivazioni utili: dai boschi – si pensi alle fustaie o ai cedui – ai frutteti – si pensi alle moderne coltivazioni a spalliera – ecc. In passato perfino lo stile inglese, che intese la natura come espressione della perfezione divina, perseguiva una naturalità obbligata dal progetto che non potrebbe essere più opposta alla crescita spontanea degli alberi. Per avere un’idea abbastanza fedele di un architetto di giardini e di un restauratore di parchi e giardini storico-artistici si pensi al giardinaggio o all’arte dei giardini come aspetto distintivo rispetto al quale riferire le altre conoscenze, artistiche, scientifiche e tecniche, come l’edilizia o l’idraulica. Come accade per altre professionalità, il grado di conoscenza delle diverse discipline deve essere tale da permettere al progettista un prodotto definitivo sostenibile che non perda le proprie caratteristiche nelle successive verifiche di collaborazione specialistica. In particolare, il progetto di un giardino o il progetto di restauro di un parco o di un giardino storico-artistico è un prodotto multidisciplinare che risulta dalla collaborazione di diverse professionalità specializzate. Un esempio molto interessante di come far funzionare efficacemente il gruppo di lavoro è dato da Jellicoe (1969). In tutto questo il giardinaggio o l’arte dei giardini forniscono al progettista la padronanza delle qualità fenomeniche delle piante: vita, dimensioni, forma, colori, mutamenti stagionali, accrescimento e permanenza delle foglie, ecc. La Scuola di specializzazione in beni architettonici e del paesaggio (Sapienza Università di Roma) è stata fondata nel 1957 da Vincenzo Fasolo e Guglielmo De Angelis d’Ossat come Corso di perfezionamento per lo studio ed il restauro dei monumenti. Fin dalla sua istituzione ha divulgato nel mondo la cultura italiana del restauro architettonico. Con la riforma del 2006 (Riassetto delle Scuole di Specializzazione nel settore della tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale) è stata aggiunta nell’ordinamento degli studi la componente del restauro del paesaggio. Infine, a partire dal 2013, è stato istituito un nuovo percorso destinato alla formazione
professionale di laureati magistrali specializzati nel restauro dei parchi e dei giardini storici. In ragione di questo ampliamento del campo disciplinare sin dal 2016 si è ritenuto opportuno chiedere la modifica del Decreto MIUR n.147 del 31 gennaio 2006 per consentire l’accesso alla Scuola anche ai laureati in Architettura del paesaggio (classe LM3); l’istanza è stata accolta dal Decreto 1° agosto 2019 (Modifica al decreto 31 gennaio 2006, concernente il riassetto delle Scuole di specializzazione nel settore della tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale, Gazzetta ufficiale-Serie generale, anno 160°, n° 236, pp. 45-46). Struttura didattica del corso (M.L.A.) Per gli allievi interessati al tema del restauro dei giardini storici la Scuola si pone come il referente naturale e privilegiato a livello nazionale ed internazionale. Il corso è concepito come il cuore di un sistema culturale cui si collegano la progressiva costituzione di una biblioteca specializzata, l’attività di ricerca, la traduzione di testi specialistici e l’istituzione di rapporti internazionali. Un sistema così concepito garantisce il miglioramento e l’attualità dell’insegnamento, ma getta anche le basi del recupero di una tradizione culturale in parte trascurata rispetto all’Europa e al mondo. Il corso ha un carattere teorico-pratico. La formazione parte dall’acquisizione della grammatica del giardino e del paesaggio, operando con un’attività di supporto agli studi sostanziata anche da traduzioni di testi classici – soprattutto francesi, inglesi e tedeschi – un’operazione fondamentale per la conoscenza delle grandi culture orticole europee e che viene valutata con la massima attenzione. Il carattere internazionale del corso va considerato sotto due opposti punti di vista, come immediatamente utile al corso stesso e come futuro ritorno culturale. Si prevede infatti di acquisire, da subito, le conoscenze derivanti da altre culture per utilizzarle operativamente, nella convinzione che l’innovativa coniugazione tra la specifica cultura italiana e quella estera sul restauro dei giardini storici porterà una fruttifera sintesi. Anche per tale ragione nel mese di aprile 2016 la Scuola – in collaborazione con il Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura e con la partecipazione del Polo Museale del Lazio – ha organizzato il Convegno internazionale di studi La conservazione del giardino storico. Teoria e Prassi. Il progetto, realizzato con il contributo della fondazione Nando ed Elsa Peretti, ha inteso porre a confronto le esperienze italiane e straniere (Italia, Germania, Francia, Spagna, Cina, Turchia, Grecia) in merito alla teoria e alla prassi del restauro, per offrire un’occasione di riflessione sulla rapida evoluzione del significato della conservazione dei parchi e dei giardini storico-artistici che si è registrata negli ultimi anni, anche rispetto all’ambito culturale nel quale si è formata, nel 1980, la Carta del Restauro di Firenze, mentre il tema della valorizzazione, oggi molto attuale non solo in Italia, è stato l’argomento della tavola rotonda che ha concluso i lavori. Il percorso formativo si articola in 15 insegnamenti fondamentali e rivolge particolare attenzione all’organismo vegetale in quanto materiale costruttivo distintivo dei giardini, uniformando la materia ai criteri e ai metodi condivisi dell’architettura e del restauro architettonico di cui è una specificazione. All’interno di una struttura didattica accuratamente programmata, ciascun insegnamento mira a salvaguardare costantemente il libero esercizio della facoltà criti-
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Maria Letizia Accorsi Massimo de Vico Fallani Fig. 1 Roma, giardino di palazzo Barberini: a) masterplan del progetto, base cartografica O.S.M. 2019; b) progetto di restauro, particolare (tesi di specializzazione in Restauro dei giardini e dei parchi storici, Scuola di specializzazione in beni architettonici e del paesaggio, specializzando Bruno Di Gesù, relatore Maria Grazia Turco).
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ca degli allievi nel rapporto fra le conoscenze acquisite e le scelte per il progetto di restauro (fig. 1). Il corso contempla due gradi di apprendimento storico: generale e specifico. Per il generale si utilizza come libro di testo la Storia dell’arte dei giardini di Marie Luise Gothein (2006). L’opera pubblicata una prima volta nel 1916 e una seconda volta nel 1926 è stata tradotta in Inghilterra e in America attorno agli anni Cinquanta del secolo scorso, e in Italia nel 2006 a cura di Massimo de Vico Fallani e di Mario Bencivenni, entrambi docenti del percorso Restauro dei giardini e dei parchi storici. L’impostazione critica, ispirata alle teorie della scuola viennese di Alois Riegl, è ancora oggi la più moderna. Il periodo preso in considerazione va dall’antichità mediorientale ed egiziana fino ai tempi vissuti dall’autrice. Nell’edizione del 2006 è stato aggiunto un aggiornamento relativo alle vicende italiane del Novecento. Il secondo grado di apprendimento concerne l’analisi storico critica del giardino o parco assegnato come tema della tesi di diploma. Lo studio analitico del monumento ha sempre ricoperto un ruolo fondamentale nella disciplina del restauro. Conoscere il manufatto è indispensabile per comprendere i valori da salvaguardare e trasmettere al futuro. Nel caso di piazza re di Roma – una delle poche piazze a stella realizzate rispetto alle molte che furono progettate dal Piano Regolatore del 1909 – l’acquisizione delle fonti bibliografiche e della documentazione archivistica e il rilievo geometrico e botanico hanno permesso di ripercorrere l’intera vicenda storica della piazza (Accorsi 2017). La pianta a stella è definita dalla penetrazione delle arterie circostanti che si attestano sul rettifilo centrale ritagliando sei spicchi sistemati a verde (fig. 2a). Questo impianto che contraddistingue la piazza dal processo formativo alla formulazione prima (1909-1922) viene arbitrariamente sostituito, negli anni Settanta del Novecento, da una nuova configurazione a giardino che occupa l’intero sedime circolare reso libero dalla rimozione della rete tramviaria. Le aiuole vengono ridisegnate ad andamento reniforme e ricomprendono in parte i filari preesistenti assorbiti entro gruppi arborei di nuova piantumazione, disposti in associazioni naturali. Le nuove geometrie smaterializzano i cunei verdi pertanto si perde quel senso di continuità tra costruito, infrastrutture e architetture vegetali (fig. 2b). Oggi le quinte urbane fanno da sfondo ad uno spazio in sé concluso governato da altri criteri compositivi come avviene nella vicina piazza di villa Fiorelli, realizzata
Fig. 2 Roma, piazza Re di Roma: a) veduta prospettica, 1928 (ICCD Aerofototeca, volo AM). Le aiuole, delimitate da siepi, sono concepite come spazi chiusi alla fruizione. La funzione di sosta e di riposo è suggerita dalle panchine collocate lungo i viali; b) aerofoto, 2007 (S.A.R.A. NISTRI).
da Raffaele de Vico in ottemperanza alle direttive del piano del 1931 che intende conservare entro un perimetro ellittico il nucleo centrale dell’antica villa, convertito in piazza-giardino, tuttavia, in questo caso, l’estraneità rispetto al contesto urbano ha una precisa ragion d’essere. Dal punto di vista della fruizione, poi, l’area, prima destinata all’attraversamento e alla sosta, è stata convertita in giardino ed ospita attività ricreative non compatibili con la qualità dello spazio considerato. Parallelamente allo studio indiretto dell’opera, sul piano della conoscenza, viene affrontato il tema del rilievo e della rappresentazione del verde. Gli studenti approfondiscono l’utilizzo di tecniche di rilievo digitale integrato (Paris 2016) (fig. 3a) e applicano un sistema rappresentativo di tipo logico concettuale (fig. 3b) proposto da Peter Jordan (1985) e rielaborato da Massimo de Vico Fallani nel corso delle ricerche ed esperienze condotte, presso la Soprintendenza ai monumenti di Firenze e Pistoia (1980-1986) e di Roma (1986-2008), come direttore dei parchi e giardini storici (de Vico Fallani 1984, Id. 2012). Questo tipo di rappresentazione avvalendosi di simboli e riferimenti numerici serve a comunicare le informazioni tecniche quantitative e qualitative riguardanti la posizione e l’identità dei singoli esemplari o delle associazioni vegetali identificati con un numero individuale e progressivo (classe giardiniera, genere e specie), nonché a mappare le condizioni dello stato storico architettonico (pertinenza, forma e appartenenza) e dello stato fitofisiologico (stato fitosanitario, vigore e posizione) (fig. 4, a, b, c) (Negro, in stampa). Il sistema logico concettuale viene adottato anche negli elaborati di progetto. Certamente poi la descrizione grafica di un giardino si avvale anche di altre tecniche, non meno importanti, come il disegno dal vero e la raffigurazione imitativa. In riferimento all’analisi degli elementi costitutivi i giardini sono una composizione mista di materiali minerali o inerti di origine organica e di materia viva. Non è
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Maria Letizia Accorsi Massimo de Vico Fallani Fig. 3 Roma, giardino di palazzo Barberini, particolare della sistemazione ad aiuole con broderie realizzata, nel 2002, sulla base dell’iconografia sette-ottocentesca all’interno di uno spazio ridotto rispetto alle dimensioni originarie: a) la nuvola di punti (rilievo eseguito con scanner laser 3D); b) restituzione grafica del rilievo secondo il modello logico concettuale (tesi di specializzazione in Restauro dei giardini e dei parchi storici, Scuola di specializzazione in beni architettonici e del paesaggio, specializzando Bruno Di Gesù, relatore Maria Grazia Turco).
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specifico della disciplina di restauro di parchi e giardini storico-artistici il primo aspetto, mentre è specifico il secondo e quello della relazione tra i due. Questo ultimo argomento è sviluppato nel corso Componenti artificiali dei giardini e parchi storici, che analizza in particolare il comportamento e la conservazione di materiali minerali o inerti costantemente a contatto con umidità e organismi vegetali, quindi il tema delle muffe, dei licheni, ecc. L’aspetto dei materiali vegetali è importante nella misura in cui è distintivo dei giardini, e responsabile principale della sua forma, nel giardino cosiddetto ‘formale’ ma in alcuni casi, sebbene possa apparire un paradosso, ancor di più in quello ‘informale’ o giardino paesaggistico di stile inglese. Si tratta di capire in quale misura e con quale modalità un determinato organismo vegetale, specialmente legnoso, può sopportare tagli e modellazioni per conseguire una determinata forma voluta dal progetto. Tale aspetto è abbastanza noto ai contadini e ai giardinieri in base alla loro pratica, ma nel caso del restauro, senza trascurare tali preziose conoscenze non può rinunciare all’apporto scientifico e tecnico. Le materie specifiche per l’aspetto scientifico sono la botanica e la fitofisiologia. La fonte utile per l’aspetto tecnico è la trattatistica storica. I trattati di orticoltura hanno origini molto antiche, però è possibile restringere il lasso temporale tra il XIV e il XIX secolo1. Esistono poi trattati moderni dedicati al restauro dei giardini storico-artistici. Alcune di tali pubblicazioni particolarmente approfondite di argomentazioni teoriche e di esempi pratici non sono di produzione italiana. Tutto questo introduce il tema delle traduzioni. Oltre al testo, già citato, di Marie Luise Gothein (2006), nel 2012 è stata pubblicata l’edizione italiana a cura di Massimo de Vico Fallani del manuale di Michael Rohde, Pflege historischer Gärten, Theorie und Praxis, edito in Germania nel 2008. Si tratta di un’ampia illustrazione, senza precedenti, di esperienze esemplari di restauro e di manutenzione di trenta parchi e giardini tedeschi, descritti secondo quattro categorie genuine: piante legnose, piante erbacee, idraulica e percorsi pedonali e carrabili. Inoltre, sono in preparazione le traduzioni del trattato di Antoine Joseph Dézallier d’Argenville (1747), e del manuale di Dieter Hennebo (1985). Una volta concluse le indagini individue i dati andranno ricomposti entro un quadro unitario dal quale possano scaturire le linee guida degli interventi: strategie volte a declinare in modo armonico azioni conservative e azioni innovative che tengano nel debito conto anche le problematiche relative alla gestione e alla fruizione degli orgasmi presi in esame. I valori da salvaguardare saranno posti in relazione con le esigenze di sviluppo di realtà complesse e strettamente legate al divenire del contesto di riferimento. Pertanto, nella redazione delle proiezioni operative, finalizzate alla conservazione valorizzazione, si terranno presenti due obiettivi fondamentali: rivelare i dati storici e ‘governare le modificazioni’, per conservare i caratteri identitari dei luoghi. Il giardino di Donna Olimpia Pamphili a Trastevere (fig. 5) così come il giardino di palazzo Barberini (fig. 1) hanno subito delle pesanti mutilazioni, alla fine del XIX secolo, in seguito alla realizzazione del Lungotevere, in un caso, e all’espansione edilizia e urbana del quartiere nell’altro. All’interno di questi nuovi spazi le preesistenze vivono come casuali disseminazioni che il progetto di restauro cerca di ricomporre entro un nuovo assetto compositivo incardinato sui segni del passato.
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Fino al XVIII secolo i trattati riguardano il giardino formale, dal Medioevo, al Rinascimento al Barocco, dapprima con autori italiani quali Pietro de’ Crescenzi (1233-1320) e Giovanvittorio Soderini (1527-1596), poi con i francesi quali Jacques Boyceau (15601633), Jean De La Quintinie (1624-1688), Antoine Joseph Dézailler d’Argenville (16801765); successivamente, in conseguenza della nascita del giardino informale, o naturalistico, intervengono autori diversi, quali il tedesco Christian Hirschfeld (17421792), l’inglese Humprhry Repton (1752-1818) e il francese Edouard André (1840-1911). In tempi più recenti, in Italia, il fiorire di una colta manualistica ad opera di eccellenti giardinieri e disegnatori di giardini quali furono tra gli altri i Roda a Torino e i Pucci a Firenze, permette un avvicinamento alla realtà italiana del XIX e primi anni del XX secolo che è tanto più preziosa per la gamma delle specie utilizzate e per le tecniche di coltivazione in quanto è piuttosto difficile che un giardino da restaurare oggi, magari di epoca rinascimentale o seicentesca, conservi ancora il patrimonio arboreo ed arbustivo originale, mentre più probabilmente le piante che vi si trovano oggi, ripiantate più volte, non superano i due o tre secoli.
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Maria Letizia Accorsi Massimo de Vico Fallani Fig. 4a) Ideogrammi con l’individuazione dello stato architettonico (compositivo), del grado e della qualità delle fitopatologie (Negro, in stampa). Fig. 4b) Esempio dimostrativo dello stato architettonico di una pianta legnosa: a partire dall’esterno verso l’interno si rappresenta una pertinenza corretta, una forma corretta, e il cinquanta per cento delle possibilità di appartenenza alla redazione originale del giardino; c) esempio dimostrativo dello stato fitofisiologico di una pianta legnosa: a partire dall’esterno verso l’interno si rappresenta una pianta sana di medio vigore e una posizione corretta (Negro, in stampa). Fig. 5 Roma, rione Trastevere, giardino di donna Olimpia Pamphili: a) restituzione grafica del rilievo; b) progetto di restauro. “Il progetto ricompone, a livello percettivo, l’equilibrio compositivo alterato dal taglio per il Lungotevere ‘governando’ le visuali di percorrenza” (tesi di specializzazione in Restauro dei giardini e dei parchi storici, Scuola di specializzazione in beni architettonici e del paesaggio, specializzanda arch. Marta Pileri, relatore prof.ssa Maria Letizia Accorsi).
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Bibliografia Accorsi M. L. 2017, Piazza Re di Roma. Il ruolo del verde nella definizione dello spazio urbano, in La città, il viaggio, il turismo. Percezione, produzione e trasformazione, Atti del Convegno internazionale (Napoli, 7-9 settembre 2017), a cura di G. Belli, F. Capano, M. I. Pascariello, Cirice Edizioni, Napoli, pp. 1899-1903. de Vico Fallani M. 1984, Osservazione sulla manutenzione dei giardini storici, in «Bollettino ingegneri», febbraio, pp. 12-19 de Vico Fallani M. 2012, La raffigurazione delle piante legnose nei progetti di manutenzione e restauro dei giardini e parchi di interesse storico-artistico, in «Bollettino d’Arte», fasc. 13. gennaio– marzo, pp. 59-80. Dézallier d’Argenville A. J. 1747, La théorie et la pratique du jardinage et un traité d’hydraulique, Minkoff, Ginevra 1972 (Ristampa dell’edizione di Parigi del1747). Gothein M. L. 2009, Storia dell’arte dei giardini, edizione italiana a cura di M. de Vico Fallani e M. Bencivenni, Leo S. Olschki, Firenze. Hennebo D. (a cura di) 1985, Garten-denkmalplege. Grundlagen der Erhaltung historischer Gärten und Grünanlagen, Eugen Ulmer, Stoccarda. Jellicoe G. A. 1969, L’architettura del paesaggio, Edizioni di Comunità, Milano. Jordan P. 1985, Zur Behandlung von Gehölzbeständen in historischen Freiräumen, in Hennebo D. (a cura di), Garten-denkmalplege. Grundlagen der Erhaltung historischer Gärten und Grünanlagen, Eugen Ulmer, Stoccarda, pp. 254-281. Negro G. (in stampa), Note illustrative di una procedura relativa ad alcuni aspetti della rappresentazione grafica per il restauro, in Giardini e parchi storici, elementi ‘portanti’ del paesaggio culturale. Pluralità di aspetti e connotazioni, a cura di M. L. Accorsi, G. Lepri, M. de Vico Fallani, Strumenti 4, «L’Erma» di Bretschneider, Roma. Paris L., Metodologie di rilievo digitale integrato applicate al verde storico, in Il verde nel paesaggio storico di Roma. Significati di memoria, tutela e valorizzazione, a cura di M. P. Sette con la collaborazione di M. L. Accorsi, Edizioni Quasar, Roma, pp. 109-118. Rohde M. 2012, La cura dei giardini storici. Teoria e prassi, edizione italiana a cura di M. de Vico Fallani, Leo S. Olschki, Firenze.
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Restoration and History of Architecture role in international courses: Master’s Degree in Architecture (Restoration) learning experience, at Sapienza University of Rome. Nicola Santopuoli Nicola Santopuoli Antonio Russo Barbara Tetti
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Antonio Russo Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Barbara Tetti
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Abstract The paper shortly illustrates the Master’s Degree in Architecture (Restoration), managed by Sapienza University of Rome, whose main purpose is imparting to students a general and unitary method in approaching architectural heritage. Developing the “critical sense” is firmly based on specific knowledge such as history, survey, conservation, restoration and construction techniques, technology, physics, and management of regeneration and urban recovery, in order to manage the whole environment transformation process. Teaching is addressed to students coming from the five continents, from the most diverse regions, so that each student, already partially trained in country of origin, can develop a common basic method in approaching architectural heritage. In this frame, international courses offered by Master’s Degree in Architecture (Restoration), in addition to the main education goal, generate important opportunities in meeting and integrating students from very different backgrounds. Keywords restoration, history of architecture, university education, international courses
Introduction The Master’s Degree in Architecture (Restoration), managed by Sapienza University of Rome an LM4 class degree (Italian regulation for Faculties: Architettura e Ingegneria Edile Architettura as in Ministro dell’Istruzione, dell’Universita e della Ricerca -decreto ministeriale n.47 del 30 gennaio 2013) over time has increasingly emphasized its international vocation -through an ad hoc path, notably rich in educational possibilities-, welcoming and accompanying students coming from five continents and, therefore, characterized by different backgrounds. Basing on this consideration, Master’s Degree in Architecture (Restoration) main purpose is imparting to students a general and unitary method in approaching built heritage, valid in any context, at least initially. Starting from this principle, supported by a strong theoretical and technical-practical groundwork, each student is progressively encouraged to acquire those skills to independently de-
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veloping projects and works. Including in-depth critical analysis of a wide range of significant and representative architectures, the Programme aims at training professionals able to competently coordinate specialists and operators in many fields, such as architectural restoration, building renovation, reuse, re-development, urban regeneration and protection of environmental assets. On these premises, Master’s Degree course constitutes the second stage of the “3 plus 2” educational path in Architecture, offered by the Faculty of Architecture- Sapienza University; the English language Programme provides the same training of the course traditionally carried out in Italian language, integrating humanistic, technical and artistic knowledge. As mentioned above, the Course primarily aims at preparing professional figures in dealing with complex cognitive, creative and hands-on processes peculiar to Architecture, with a distinctive reference to new building construction, as to conservation, restoration and requalification of historic buildings, including the so-called widespread building pattern. For instance, students are called to reach the professional maturity in integrating, in a balanced way, historical, critical, compositional morphological, constructive, technical, issue, as urban planning, regulatory, and economic-managerial, respecting historical -architectural and environmental- values. Brief historical outline The main bottom lines distinguishing the Master’s Degree Course are a natural fulfillment -with regulatory adjustment- of the two Courses activated during the academic year 2002-2003 by Sapienza University of Rome: a) Specializing Degree Course in Architecture and Restoration, managed by Faculty of Architecture Valle Giulia; b)Specializing Degree Course in Architecture - Restoration of Architecture, managed by Faculty of Architecture Ludovico Quaroni. After the teaching system modification (Ministerial Decree 509), during the academic year 2004/2005, the current Master’s Degree in Architecture (Restoration) was established. The new Programme was the result of an intense meditation on Restoration as a discipline, lively debated in Italy, and especially in Rome. Over the years, a continue effort has been carried out in making the course even more qualified to meet the professional world, also including agreements with firms and companies, and collaboration with field stakeholders. Moreover, during the academic year 2016-2017 with all the courses imparted in English, the international course was opened; it is constantly growing in the number of candidates. After the running-in period, on 2017-18, 267 applications were submitted, on 2018-19 the applications were 526, and on 2019-20 the conspicuous number of 1092 has been reached. Candidates applications are submitted from five continents; most of them are originate from Asia (85%), then by Africa, Europe, North and South America and, Australia and New Zealand. Since the year 2019-2020 the educational is managed by Sapienza on an international pre-selection platform, hosting both English and Italian language course -promoted by Embassies and Cultural Institutes, receiving requests from foreign candidates also interested in the Italian language course. Currently, teaching staff commitment is promoting the interaction between the two courses -Italian and English-, both to facilitate the insertion of off-site students in Rome, and to promote and spread Italian architectural culture, and, in particular, that of Restoration, in its autochthonous language.
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Nicola Santopuoli Antonio Russo Barbara Tetti Fig. 1 Graduation thesis; Syria From Dusk till Dawn Reconstruction after War; student R. Saade, supervisor N. Santopuoli.
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Closing this brief excursus, it is worth mention that, among many, three significant figures of teachers, who strongly contributed in improving the Master’s Degree Course, step by step, from its institution, until today. First names are Profs. Paolo Fancelli and Giovanni Carbonara, Monuments Restoration full professors and Restoration Roman School reference figures; they hold the chairs of Restoration Studio, now passed to the full Professor Daniela Esposito, lively training and updating the School, maintaining a close contact with the professional field, constantly changing. At the same time, “Strumenti e metodi della ricerca storica” courses held by Profs. Paola Zampa, and Alessandro Viscogliosi and Guglielmo Villa, are to be mentioned; for three years now, it corresponds to the English language course “Tools and Methods for Historical Research”. Actually, in the live debate, more intense in the last years, about the usefulness of History, and specifically of History of Architecture, the need to conclude the teaching action towards a methodology aimed at achieving an interdisciplinary approach emerges; History teaching is not imparted as a self-referential subject, dissociated from the process of disciplines inter-connection [Bollettino, 2018; Bruschi 2009.]. Therefore, the course aims at providing students with a strong training base in the field of History, namely addressed to establish a dialogue with the architectural design field. Moreover, teaching historical awareness contributes in preserving the material heritage of the past, to be safeguarded by specialized figures trained to play this specific role, in the more general context of the architect’s profession. Providing students, future architects, with the tools of historical processes recognition, allows them to act in the conservative and restorative field with consciousness, according to the significative indication expressed by Prof. Augusto Roca De Amicis,
Fig. 2 Graduation thesis; The Future of the Past: Towards Conservation of Archaeological Sites and Buildings: The church of San Primitivo in Gabii (Rome); student S. S. Chamarti, A. Maduri, supervisor R. Mancini.
that is looking at the intentio operis [Roca De Amicis, 2015] of architecture, having understood its language, its shape, as structure, construction, function, and its role in the space; therefore, historical sensibility can guide the action projected towards the future, with firm awareness, looking innovative and respectful solutions in conservative and restorative terms. Teaching a method The two-year Master’s Degr ee course aims at deepening the skills acquired in the previous three-year degree course, not only in quantitative but -above all- qualitative terms, supporting the development of a strong critical skill in the architectural field, both historical and technical. The training course programme has been carefully designed, aiming at ensuring that future specialist architects can gradually acquire the right cognitive and methodological tools, namely regarding the conservative and restorative field, in order to:
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Nicola Santopuoli Antonio Russo Barbara Tetti Fig. 3 Graduation thesis; Lo Sgraffito a Viterbo. Analisi murature Ex Scuderie di Palazzo Nini a Viterbo: studio storico e proposta per la conservazione e il restauro; student D. Ricciardello, supervisor D. Esposito.
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a) deeply understand architecture by critical conscience (Prof. Carbonara would speak of “autoptic historical-critical reading”) -for example, being able to recognize historical phases and stratifications of material, both the individual artifact and the whole building, historical and modern, up to the urban, and landscape scale; b) design and carry out cutting-edge projects, keeping in mind awareness and respect for Heritage. Achieving a “critical conscience” means to get a conscious look at the city and at architecture composing it, as the result of the increasing adoption of appropriate cognitive and methodological tools that allow architects to express an opinion regarding architecture. The described goals are obtained by an analytical method, in order to understand the historical phases and the linguistic and material stratifications of which architecture is made, up to achieving the ability to know how to recognize the components of an architecture and its context -that is to manage the tools to understand different constitutive levels of which a building is composedand to operate on it, and on the context with the awareness and knowledge that the theme requires, in its convolution. The skills to develop the “critical sense” are firmly based on History of Architecture specific knowledge such as survey, conservation, restoration and construction techniques, technology, physics, and management of regeneration and urban recovery -including in historical centers-, necessary to manage the whole environment transformation processes. Besides, integrated subjects concerned the acquisition of further competences namely in the following sectors: diagnostics, traditional and new materials, and construction science. Regarding Restoration, special lessons are included, such as Structural Performance in Seismic Area, Atelier of Structural Masonry, and Technological Design for Architectural Requalification. The considerable effort to offer students an increasingly multi and inter-disciplinary methodological approach, also through the planning of appropriate synergies between the different subjects, has to be underlined.
Fig. 4 Graduation thesis; Architectural Design of conference/tourist facilities in a remote archaeological and landscape area of Iran; student S. Fotovat, supervisor A. I. Del Monaco.
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Observing in a wider view, the disciplines imparted include both characterizing teachings, and integrative ones: the characterizing are particularly focused on the ability to read and interpret architecture, and urban plans, primarily about Heritage conservation and restoration. In order to provide students with specialized tools, the following disciplines are given: Architectural Design (first and second year), Methods of Architectural History, Survey, Technical Physics, Construction Technique, Building Technology Architecture (first year), Restoration Project (second year) and Management of Regeneration, Building and Urban Recovery in Historic Centers (second year). Over the years, diversified origins of the students have been increased: not a few of them belong to countries where dramatic conflicts have severely damaged significant parts of the cultural heritage, especially architectural; some come from regions where many historical structures are traditionally maintained through continuous substitution of parts or complete replacement; others originate from territories where many problems arise from the material consistency of the built heritage, perishable for its own nature. Therefore, considering such a varied cultural audience, each student has the opportunity to customize the educational path, by choosing optional credits and degree dissertation theme, supported by tutors, figures playing a crucial assistance and orientation role, all long the duration of the academic path. Excellency path, and professional work. The students enrolled in a LM4 Degree Course in Architecture (Restoration), notably worthy and interested in a specific study path, can accede the Excellency Path established by the Council of the Didactic Area of Architectural Sciences and Landscape. The Excellency Path training activities -consisting of disciplinary and interdisciplinary insights, seminars and traineeships- are shared in advance with each student, supported by a teacher or tutor, also regarding the organization and practical information. Furthermore, to encourage professional establishment of all students, all long the course, and more in the last phase, apprenticeships and internship outside the university are frequently organized. Students can come directly in contact with a wide range of professionals, from institutional bodies, public and private companies, and design studios, operating in the fields of construction, transformation, restoration and conservation, from the scale of the individual building to urban space. So that, completing the path, at the same time students have acquired knowledge and experience, and touched many of the professional tasks they are going to face: from theoretical to practical issues or economic-managerial, social and cultural. Didactic experiences: some examples. Some particularly significant didactic experiences, among the many, can be briefly mentioned. Master’s Degree Course help students in developing the autonomous capacity of critical consideration, together with an interdisciplinary approach, facing questions characterizing real situations -such as conservation and restoration projects, redevelopment management, building recovery in historical centers, planning and monitoring urban and local transformations. A first experience can be represented by the numerous training courses, including international univer-
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Fig. 5 Graduation thesis; La casa delle culture e la riqualificazione di piazza dei Cinquecento di Roma; student G. Pinci, supervisor M. Raitano.
sity stays; exemplifying the experience carried out at the University of Edinburgh offering, among others, History and Theory of Conservation, Building Analysis, Culture and Performance in the History of Construction, Urban Conservation, Building Description, Conservation Technology. A second one includes the project proposals related to Design studio 1 and Design Studio 2, concerning new architecture design and monuments restoration, elaborated in Conservation Design Studio course through a careful critical analysis and the drafting of multiple plates, with a special attention to an efficient communication. In addition to the study of significant buildings, from a historical and artistic point of view, in many cases, architectures related to the geographical and cultural context of the candidate were deliberately chosen. So was for the dissertation dedicated to the Syrian heritage, damaged by recent war events. Looking at this, the project can help student to face his future professional activity.
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Actually, History of Architecture teaching is increasingly directed towards students coming from the most diverse regions. To develop a ‘critical’ awareness of each student, already partially trained in the country of origin -where he obtained the title of junior architect, as in the case of the course of Sapienza aimed at students of the specialist degree- is a main goal. By means of critical conscience, is to obtain the ability to know how to recognize the components of an architecture and its context, which can be summarized in the always valid utilitas, firmitas and venustas expressed by Vitruvio. These conceptual categories represent the valid basis of the historical knowledge for a building: knowing how to interpret the plan according to its functions; the structure according to the construction systems, and the architectural expression according to the forms, allows the simple observer to be transformed into an architectural technician, and into an expert analyzer of the historical processes that led to the creation of a specific constructed object. The teaching aims at equipping students, characterized by strongly differentiated backgrounds, primarily with common tools, and consequently with a general method. To achieve the first intent, to choose a common thread joining the architectural experience almost uninterruptedly is necessary, as to equip students with a specialized vocabulary allowing them to use an appropriate lexicon, both constructive (firmitas ) and expressive (venustas), also understand the usefulness of the building, its functions, and consequently to gain the necessary mastery for a subsequent hands-oh approach, and on the state of conservation addressed at the restorative work. Conclusion The present contribution aimed at describing, even if briefly, the evolution over time of the Master’s Degree in Architecture (Restoration) managed by Sapienza University of Rome, above all in order to stimulate a constructive consideration regarding the current educational path quality, improving the educational system in architects, specialists and restorers training. In this frame, new choices are emerging in a short term, both because in recent decades, considering the constant cultural and social growth, the problem of the architectural heritage protection in Italy and in the world, has become increasingly felt and actual, and of current world crisis due to the ongoing pandemic. Certainly, looking at the road taken, not only at Sapienza but in Italian academic institutions, despite having a clear awareness of various critical issues, we are conscious the education has been moving in the right direction for some time. Considering the foundation of the first Italian School of Architecture (Rome, 1919-20), disciplines as Restoration and the historical-technical Stylistic and Constructive Features of the Monuments have been promptly introduced. In this regard, the training system based on a dual level, strictly academic within each Faculties or Departments (especially Letters and Architecture), and post-degree within the Specialization Schools, has also proved to be positive. Further investigating these general reflections in not possible in a brief paper but , as a summary, Christoph L. Frommel, authoritative art and architecture historian (various other authors could be remembered) can be quoted, regarding the Italian education: “has, in the context of Cultural Heritage, the structure by far better […]
Already starting from Adolfo Venturi, the study has been increasingly completed by the School of Specialization […] Compared to Germany, the chairs and lessons of architectural restoration are anchored more permanently and frequently in the program of the Faculty of Architecture” [Vaccaro, 2001]. Furthermore, Master’s Degree in Architecture (Restoration) institution allowed an inter-exchange environment, in which disciplines related to the field of Restoration, closely interacting with all the others mentioned above (in particular, Design and History), contributes in training young architects, teaching students a mature relationship with existing buildings, imbued with knowledge, understanding skills and respect for Heritage. At least, as mentioned, peculiar historical moment we are living, characterized by epochal changes, also between our old Europe and the countries of the Middle and Far East and South America, is to be taken in account. In any case, we believe that Europe plays a crucial role in supporting other countries, especially in developing country, to achieve an effective awareness of the value of their cultural heritage, that can become an opportunity for social growth, as well as an economic resource. In this consideration, we are sure that the opening of international courses generates, in addition to the main issue of training, important opportunities in meeting and integrating students from very different countries and, unfortunately, sometimes in war between them.
Bibliografia «Bollettino del centro di studi per la storia dell’architettura», 2, 2018. Bruschi A. 2009, Introduzione alla storia dell’architettura: considerazioni sul metodo e sulla storia degli studi, Mondadori Università, Milano-Roma. Roca De Amicis A. 2015, Intentio operis: studi di storia nell’architettura, Campisano editore, Roma. Frommel C. L. 2001, L’esperienza italiana in un’ottica internazionale, in W. Vaccaro (editor), La formazione per la tutela dei Beni Culturali, Conference proceedings, 2000 May 25-26, Graffiti editore, pp. 141-146. Di Biase C., Albani F. (a cura di), The Teaching of Architectural Conservation in Europe, Santarcangelo di Romagna (RN), Maggioli Editore, 2019.
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La conoscenza del patrimonio come premessa indispensabile alla sua corretta conservazione
Levantamiento y documentacion digital para la conservacion. El area arqueologica de la ciudad de Cassino Michela Cigola
Dipartimento di Ingegneria Civile e Meccanica, Università degli Studi di Cassino e del Lazio Maeridionale.
Arturo Gallozzi Michela Cigola Arturo Gallozzi Rodolfo Maria Strollo
Dipartimento di Ingegneria Civile e Meccanica, Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale
Rodolfo Maria Strollo
Dipartimento di Ingegneria Industriale, Università degli Studi di Roma Tor Vergata
Abstract Focus of this article is the documentation, interpretation, valorisation and communication of Roman city of Casinum, particularly thriving near the end of the republic and later in the imperial era of Rome. This archaeological area, despite the interest and the importance of its monuments, was studied from a primarily archaeological point of view and is still without a structured survey, in order to exploit the site in its entirety. We will start from the description of the various moments from a historical point of view with the support of drawings and surveing of some great architect of the Renaissance. Then we will move on to the analysis and documentation phase with an integrated digital survey that brings together three distinct methodologies: topographic, laser scanning, photogrammetric: since each of these techniques has distinct characteristics in terms of costs, methods of acquisition, processing and management of the data. Infact this archaelogical area is strongly integrated with the existing urban center of Cassino, and also has archaeological emergencies of different type, size, state of conservation and construction features. Keywords Survey, Digital documentation, Built Cultural Heritage, Casinum
Introducción El argumento de este artículo es la documentación, interpretación, valorización y comunicación de la ciudad romana de Casinum, particularmente próspera cerca del final de la república y más tarde en la era imperial de Roma. Esta área arqueológica, a pesar del interés y la importancia de sus monumentos, fue estudiada desde un punto de vista principalmente arqueológico, y sigue sin un estudio estructurado mediante un levantamiento total de su monumentos y de su área. Del antiguo plan urbano emergen los restos de un importante camino romano (probablemente la Vía Latina), el anfiteatro, el teatro y el mausoleo atribuido a la matrona romana Ummidia Quadratilla (Coarelli, 2007). Recientemente ha habido algunos descubrimientos muy interesantes relacionados con una villa romana del período imperial, que necesitan un análisis más profunda. (fig.1).
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Fig. 1 Zona arqueológica de la ciudad romana de Casinum. 1. Teatro (27 a.C.-14 a.C.). 2. Anfiteatro (I siglo a.C.). 3. Tumba de Ummidia Quadratilla (I siglo a.C.-I siglo d.C.). 4. Àrea del Foro. 5. Nymphaeum (I siglo a.C. - I siglo d.C.). 6. Camino romano.
Nuestra investigación incluye varias metodologías integradas; la parte principal consiste en un levantamiento escáner láser de toda la zona. Hay muchos otros pasos que incluyen el procesamiento digital sobre documentación, interpretación y comunicación de la Zona Arqueológica de Casinum. Otro objetivo de nuestro trabajo es integrar los datos analíticos procedentes del láser con todo los otros datos. La ciudad romana de Casinum. La ciudad de Casinum, después de convertirse en una ciudad romana alrededor del siglo I a. C., comenzó un proceso de consolidación de su estructura urbana que necesariamente tuvo en cuenta la topografía particular del sitio y las condiciones existentes, así como un circuito de murallas prerromanas. Una primera e importante transformación urbanística tuvo lugar en el período republicano y tuvo como eje principal el camino de Latina Nova, que conectaba directamente Casinum y Aquinum hacia la ciudad de Roma. La organización de la ciudad se dividió principalmente en tres terrazas situadas en la orografía montañosa del sitio expandiendo la ciudad hacia el este, fuera de las murallas, en el área más empinada. En el período del emperador Augusto (a fines del siglo I), la ciudad alcanzó un área de aproximadamente 10 hectáreas, y los restos arqueológicos muestran una conformación de la red urbana establecida en un módulo cuadrado de dos actùs (un actus es un quadratus 120 × 120 pies o 35.5 × 35.5 metros). Ciudadanos importantes contribuyeron a las monumentales intervenciones y manifestaciones arquitectónicas de Casinum, incluido el político y soldado Cayo Ummidius Durmius Quadratus (12 a. C. - 60 d. C.), gobernador de Siria, y especialmente su hi-
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Michela Cigola Arturo Gallozzi Rodolfo Maria Strollo Fig. 2 Dibujos de levantamiento del Anfiteatro por Emanuela Chiavoni.
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ja Ummidia Quadratilla (27-28 d. C. - 107 d. C.). Ummidia fue una figura importante en su tiempo, y fue mencionada por Plinio el Joven en sus Epístolas (Epist. VII, 24). La estructura monumental de la zona arqueológica actual, conserva rastros del período descrito en algunos hallazgos importantes que fueron objeto de un levantamiento que fue una de las fases mas importantes de nuestro proyecto de investigación. El anfiteatro (fig. 2) data de la segunda mitad del siglo I d. C., tiene una forma elíptica de pequeñas dimensiones. Creado en los suburbios cercanos de la ciudad, se construye solo parcialmente sobre el suelo, utilizando la pendiente del sitio para limitar el trabajo de construcción de las terrazas. La ubicación, aunque fuera de la ciudad, tiene el eje transversal alineado con la cuadrícula del plan Augustano. El anfiteatro tiene cinco arcos, dos alineados con el eje principal y tres mirando hacia abajo, rodeados de entradas arqueadas redondas, algunas sin revestimiento de piedra caliza, retiradas para ser utilizadas en la puerta de los leones de la Abadía (Carettoni, 1940). Entre sus diversas representaciones, también se conservan algunos dibujos de Francesco di Giorgio Martini, quien en 1494/95 viajó a Cassino y también incluyó el anfiteatro entre sus bocetos, acompañado de algunas notas en los márgenes que aclaran funciones y características constructivas y tipológicas (fig. 3) La llamada tumba de Ummidia (siglo I a.C. - siglo I d.C.), es un edificio de cruz griega, con la parte central cubierta por una cúpula hemisférica intersectada por cuatro brazos. A finales del siglo XI, la estructura se convirtió en una iglesia, luego se abandonó y luego se restauró y se dedicó al Crucifijo, dando también el nombre (Crucifijo) al área arqueológica. Después del bombardeo de la Segunda Guerra Mundial, la restauración eliminó casi por completo las últimas etapas de la iglesia, restaurando la connotación romana original del edificio. La estructura, parcialmente sótano, está hecha en su totalidad con grandes bloques de piedra caliza seca acabada en su interior, pero rugosa hacia el exterior con estructuras de terminación de ladrillo (fig. 4). El ninfeo llamado Ponari por el nombre de la familia propietaria del sitio en el momento del descubrimiento, también data del siglo I d. C., eso tiene un plan rectangu-
lar con techo en forma de barril, cerrado por tres lados y completamente abierto en el frente. El edificio está conectado a la planta bien estructurada de un rico domus que presenta mosaicos de piso valiosos, así como fragmentos de las paredes de las habitaciones, conservadas por más de 2 m de altura, con decoraciones de paredes articuladas en esquemas arquitectónicos con pequeños pinturas de temas mitológicos simbólicos o temas idílico-naturalistas (fig. 5). El teatro es el núcleo del plan de la ciudad del epoca de Augusto, fue descubierto por los excavaciones del arqueólogo Gianfilippo Carettoni en los años 1935-36 (Carettoni, 1939). Al igual que otros monumentos del Casinum romana, el teatro estuvo marcado por un fuerte despojo, con la eliminación de los escalones del auditorio y las canicas de la escena alrededor del siglo XI durante la construcción de la nueva basílica de Montecassino (Maiuri, 1938). Este monumento fue dañado por los bombardeos de 1944, y fue restaurado alrededor de la década de 1950, mientras que solo en el último cuarto del siglo pasado fue liberado de varias granjas que ocupaban sus alrededores, particularmente en la parte detrás de la escena, invadidas por gallineros y varias superfetaciones. Una campaña de excavaciones y una restauración adicional en 2001 permitieron encontrar en los tres lados de la plaza post scaenam el área de las arcadas, con tramos dobles e individuales con pilares y columnas, y un tramo adyacente de camino pavimentado. El edificio, típicamente de diseño romano, tiene una cueva semicircular parcialmente apoyada contra la pendiente natural de la colina con la escena de planta rectangular (fig. 6). Al igual que Francesco di Giorgio Martini, Antonio da Sangallo también nos dejó testimonios de la zona arqueológica de Cassino. De hecho, los hermanos Antonio y Battista da Sangallo fueron varias veces a Montecassino para el proyecto de la tumba de Piero de ‘Medici, hermano de Leo X y tío del Papa Clemente VII. Piero murió en 1503 en la batalla de Cassino y fue enterrado provisionalmente en el basílica de la abadía (Cigola, 1999). De la estancia de los hermanos Sangallo tenemos algunos dibujos del proyecto para Montecassino y un dibujo del teatro romano de Cassino datable entre 1507 y 1512 (fig. 7). El dibujo presenta el teatro en un bosquejo rápido en dobles proyecciones ortogonales. Que se trata del teatro de Cassino queda claro por la escritura que aparece en el dibujo que indica que son los “pasos de un teatro en Montecassino al lado de un anfiteatro”. El plan es muy sintético y debe haberse insertado solo para aclarar la forma gene-
Fig. 3 1490-1495. F. di Giorgio Martini. Firenze, Uffizi. Fig. 4 Sección de la tumba de Ummidia Quadratilla en Giovannoni 1928.
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Michela Cigola Arturo Gallozzi Rodolfo Maria Strollo Fig. 5 Dibujos de levantamiento del Ninfeo por Emanuela Chiavoni.
ral de la curva del edificio. En cambio, la elevación está mucho más definida, probablemente se refiere a la perspectiva de la galería en la summa cavea, que en el momento que Sangallo lo dibujó aún no estaba parcialmente intacta. La atención al detalle nos hace pensar en un dibujo de levantamiento realizado en frente al monumento, tanto más valioso como muy pocos son los testimonios de esta parte del teatro. Levantamiento digital y modelos de representación del área arqueológica El uso de técnicas de levantamiento y representación digital hoy representa una herramienta válida para la preservación y mejora de los sitios arqueológicos (Ippolito, 2015) La tecnología digital ha producido, en los últimos años, una convergencia sustancial e una integración de varios métodos instrumentales; en el campo de 3D shape acquisition, el levantamiento digital integrado se configura como una interacción e integración entre: topografía, escaneo láser y fotogrametría, ya que cada una de estas técnicas tiene características distintas en términos de costos, métodos de adquisición, procesamiento y gestión de datos (Ottati, Bertacchi & Adembri, 2018). La experiencia iniciada por nuestro team en Cassino es significativa precisamente por la particularidad del sitio, fuertemente integrada con el tejido urbano existente y con una orografía de piedemonte que hace que el estudio estratigráfico de las diferentes fases arqueológicas sea más complejo, pero que también presenta emergencias arqueológicas de diferentes tipos, tamaños, estado de conservación, características constructivas. Por lo tanto, es esencial poder adoptar las mejores estrategias de adquisición y procesamiento de datos también de acuerdo con las especificidades de los elementos arqueológicos individuales. Los datos digitales iniciales son una nube de puntos, que es un conjunto más o menos denso de puntos discretos, cada uno marcado por valores posicionales (coordenadas X, Y, Z) y valores relacionados con la característica del material detectado (como el valor del reflectancia en el caso del láser o valor de color RGB en el caso de la fotogrametría). La característica principal de una nube de puntos es su resolución, es decir, la cantidad de puntos en la unidad de volumen. En el estudio arqueológico, estos datos son particularmente importantes porque existe la necesidad de documentar no solo la mor-
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Fig. 6 Teatro romano de Casinum, nube de puntos. (Elaboración por R. Di Maccio). Fig. 7 1512/31. Antonio da Sangallo, Planta y elevación del teatro romano de Casinum, Firenze, Uffizi.
fología, sino también las texturas de las paredes, las secciones estratigráficas, el estado de conservación de los materiales, etc. Por lo tanto, en primer lugar, es necesario diseñar campañas de adquisición de datos con el objetivo de procesar nubes de puntos con una alta resolución, cuyos files son de grandes dimensiones y pueden ser difíciles de administrar, por lo que puede ser necesario desarrollar modelos interpretativos. Una fase importante de elaboración que ha comenzado en el sitio arqueológico de Cassino es definir modelos de representación adecuados para la documentación desde la escala territorial hasta la de detalle de todo el complejo, agregando la información que se procesa gradualmente en concierto con arqueológicos e históricos. Las actividades de adquisición llevadas a cabo hasta ahora se han referido a puntos de la red topográfica global, escaneos láser y tomas fotográficas con sistemas APR (drones). En algunos casos, se ha adoptado una metodología integrada de adquisición de escáner láser / fotogrametría en aquellos casos en los que ha habido la posibilidad concreta de realizar vuelos con drones, y la necesidad de realizar estudios precisos desde posiciones terrestres fijas, hasta la integración de datos. Fotogramétrica. En otros casos, solo se realizaron exploraciones con láser, ya que no había condiciones practicables para vuelos de drones. En cuanto a la fase de elaboración de los modelos, se obtuvieron planos generales (fig. 8) y secciones a diferentes escalas, desde la general que incluye toda el área descubierta del foro (fig. 9), hasta los detalles de los monumentos individuales. Conclusiones El estudio del área arqueológica de Cassino ha estado entre los principales de nuestro grupo de investigación (Cigola, D’Auria, Gallozzi, Paris y Strollo, 2016; Cigola, Gallozzi, Paris y Chiavoni, 2018; Gargaro, Gallozzi, Zordan y Cigola, 2019). Lo estudiamos desde varios puntos de vista y con un grupo multidisciplinario que reúne diversas habilidades: levantamiento, mecánica, informática, etc. Este equipo ha llevado a aplicaciones de levantamiento tradicional, levantamiento de escáner láser, levantamiento rápidas y también robótica aplicada al conocimiento de Bienes Culturales. La actividad más amplia es ciertamente la detección, digitalización y modelado de Bienes Culturales (Attenni, Bartolomei, Hess e Ippolito, 2017). En los últimos tiempos, la tendencia que más estamos desarrollando es la de la gamificación para el análisis de Bienes Culturales a través de aplicaciones de levantamiento expedito (Fontanella, 2019).
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Michela Cigola Arturo Gallozzi Rodolfo Maria Strollo Fig. 8 Vista en perspectiva desde el modelo digital del complejo de la zona arqueológica. (Elaboración por R. Di Maccio).
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Todas estas actividades tienen un objetivo común: el análisis, el conocimiento y la mejora de la ciudad romana de Casinum en su integridad y en detalle en sus emergencias, contextualizada en un paisaje complejo entre el área urbana y arqueológica. Para hacer esto, hemos elegido ilustrar nuestra investigación utilizando principalmente dibujos, ya sean levantamientos de grandes arquitectos del Renacimiento o dibujos de estudio por Gustavo Giovannoni de principios de la década de 1920, hasta acuarelas realizadas en el sitio durante una campaña de levantamiento que dio lugar a otros dibujos ejecutados digitalmente.
Bibliografía Attenni M., Bartolomei C., Hess M. and Ippolito A. 2017. Survey and modeling: from the process to a methodology, «SCIRES-IT - SCIentific RESearch and Information Technology», vol. 7, n. 1, pp. 57-72.
Fig. 9 Sección transversal de la zona arqueológica. (Elaboración por R. Di Maccio).
Cigola M., D’Auria S., Gallozzi A., Paris L. and Strollo R.M. 2016. The archaeological site of Casinum in Roman era, in S. Bertocci, M. Bini (a cura di), Le ragioni del Disegno, Gangemi, Roma, pp. 201-208. Cigola M., Gallozzi A., Paris, L. and Chiavoni E. 2018. Integrated methodologies for knowledge and valorization of the Roman Casinum city, in M. Matsumoto, E. Uleberg (a cura di), CAA 2016: Oceans of Data. Proceedings, 44th Annual Conference on Computer application & Quantitative Methods in Archaeology, Archaeopress, Oxford, pp. 121-134. Cigola M. 1999. La Capilla Medici en Montecassino: dibujos y diseños de una obra nunca construida, «EGA. Revista de Expreción Gráfica Arquitectónica», vol. 5, n. 5, pp. 51-55. Carettoni G.F. 1939. Il teatro romano di Cassino, in Notizie degli Scavi di Antichità. Serie 6, fascicoli 4, 5 e 6, vol. 15, Giovanni Bardi, Tipografo Regia Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, pp. 99-141. Caretton G. 1940. Casinum (presso Cassino). Regio I, Latium et Campania, Istituto di Studi Romani, Roma. Coarelli F. 2007. Casinum. Appunti per una storia istituzionale, in E. Polito (a cura di), Casinum Oppidum. Atti della giornata di studi su Cassino preromana e romana, Cassino 8 ottobre 2004, University Press, Cassino, pp. 37–41. Fontanella F., Molinara M., Gallozzi A., Cigola M., Senatore L.J., Florio R., Clini P., and Celis D’Amico F. 2019. HeritageGO (HeGO): A Social Media Based Project for Cultural Heritage Valorization, in Adjunct Publication of the 27th Conference on User Modeling, Adaptation and Personalization, NY ACM, New York, pp. 377-382. Gargaro S., Gallozzi A., Zordan M. and Cigola M. 2019. Un approccio metodologico per la conoscenza e la gestione di un’area archeologica, in A. Conte, A. Guida (a cura di), ReUso 2019. Patrimonio in divenire. Conoscere, valorizzare, abitare, Gangemi, Roma, pp. 1663-1674. Giovannoni G. 1928. La tecnica della costruzione presso i romani, Soc. Editrice di Arte Illustrata, Roma. Ippolito A. 2015. Digital documentation for archaeology. Case studies on etruscan and roman heritage. «SCIRES-IT - SCIentific RESearch and Information Technology», vol. 5, n. 2, pp. 71-90. Maiuri A. 1938. Passeggiate Campane-Cassino romana e Ummidia Quadratilla, Hoepli, Milano. Ottati A., Bertacchi S. and Adembri B. 2018. Integrated methods for documentation and analysis of archaeological heritage: the residential building along the western side of the Canopus at Hadrian’s Villa. Initial results and research perspectives, «SCIRES-IT - SCIentific RESearch and Information Technology», vol. 8, n. 2, pp. 85-106.
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Le indagini archivistiche e la valorizzazione del paesaggio storico urbano: dalla sicurezza ambientale alle caratterizzazioni cromatiche Federica Angelucci
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre.
Lorenzo Fei Federica Angelucci Lorenzo Fei Antonio Pugliano
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre.
Antonio Pugliano
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre.
Abstract Archive studies and enhancement of the city’s urban landscape: from environmental safety to chromatic characterization Documents are fundamental cultural resources for the study of changes in the fabric of a city. In particular the building applications of the Fondo Titolo 54 and the Ispettorato Edilizio (Building Inspectorate) contained in the Archivio Storico Capitolino (Capitoline Historical Archive) provide unique evidence of the processes which gave Rome’s historical architecture a new face over just a few decades. Building extensions, elevations and restorations provide precious information about building types and technology, and about the use of materials. Collection, critical analysis and mapping of the applications aims to develop knowledge of the buildings or of entire areas whose durability may be at a greater risk. If added to other factors, the modifications made to buildings, whether slight modifications or substantial changes to the entire fabric, may increase the fragility of the structures and their potential for suffering damage. These documents prompted an interesting study concerning the colour of façades which is precisely shown in these drawings and constitutes an essential source for knowledge about the colour of the city within a specific time frame. Keywords Historical roman building, City color, Environmental safety, Earthquakes, Enhancement of heritage
Premessa (A.P., F.A., L.F.) La tutela e la valorizzazione del paesaggio storico urbano trovano nella conoscenza puntuale degli elementi che lo compongono una base scientifica indispensabile al fine di compiere le scelte più appropriate e intraprendere azioni di vigilanza e potenziamento del patrimonio edilizio. L’indagine condotta su alcuni fondi contenuti nell’Archivio Storico Capitolino e nell’Archivio di Stato di Roma ha permesso di conoscere approfonditamente le sensibili trasformazioni subite dal tessuto storico urbano in uno specifico arco temporale. I fenomeni ricorrenti di mutazione tipologica e costruttiva e di caratterizzazione ‘stilistica’ architettonica e cromatica dell’edilizia seriale sono d’interesse per la sicurezza am-
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bientale in ambito di prevenzione sismica alla scala dell’edificio ed estesamente della città, e per il restauro nel quale la qualificazione architettonica del tessuto connettivo di edilizia storica di base gioca un ruolo fondamentale nell’apprezzamento estetico dell’ambiente di vita. Entrambi questi scenari di ricerca sono trattati nella presente memoria che descrive l’interazione sinergica tra un sistema di produzione e comunicazione di dati storico-archivistici come il Webgis Descriptio Romae e un sistema di produzione e ri-generazione critica a carattere processuale di informazioni storiche finalizzate. Con questa ricerca il Web Gis Descriptio Romae è stato ampliato nella documentazione d’archivio e sono state poste le premesse affinché questa preziosa banca dati si saldi con l’Atlante Dinamico DynASK1 generando un sistema integrato di elevata versatilità, utile per molteplici fini, che si estendono dalla ricerca storica archivistica alla sintesi critica processuale finalizzata alla fruibilità turistica in sicurezza, al restauro, alla governance della città e del territorio. Le fonti d’archivio come strumento indispensabile alla conoscenza della città storica (F.A.) L’imponente repertorio archivistico romano costituisce un riferimento imprescindibile per lo studio delle trasformazioni dell’edilizia storica; a tal fine sono ineludibili i fondi legati a quello che oggi chiamiamo ‘permesso di costruire’, ossia tutti quei documenti da cui si comprendono, analizzandole criticamente, le alterazioni perpetrate sugli edifici; attraverso tali modifiche è possibile conoscere approfonditamente molteplici aspetti del tessuto storico urbano. L’apertura di nuovi vani, il restauro della facciata, le sensibili manomissioni alla struttura per ampliare o accorpare un edificio, la totale ricostruzione del fabbricato o la trasformazione di un solaio di copertura a falde in una terrazza, costituiscono solo alcuni esempi delle possibili mutazioni. L’indagine documentaria si è avvalsa dei seguenti fondi: ‘Titolo 54’, ‘Notai del tribunale delle acque e delle strade’, ‘Chirografi Pontifici’ e ‘Lettere Patenti’, analizzati e confrontati insieme alla cartografia di G.B. Nolli e all’utilizzo del Catasto Pio-Gregoriano di Roma (Catasto urbano) digitalizzato e georeferenziato. Tra i fondi esaminati indispensabili alla conoscenza dell’edilizia storica romana, il più antico è quello dei ‘Chirografi Pontifici’, risultato delle decisioni del Pontefice di trasformazioni di parti molto consistenti della città, quindi interventi che possono essere definiti pubblici. Questo fondo si trova presso l’Archivio di Stato di Roma (ASR) e riguarda le piazze principali della città. Il fondo ‘Lettere Patenti’ (‘permessi di costruire’) comprende i documenti composti da uno o più fascicoli contenenti l’istanza del proprietario e l’approvazione o il diniego dell’approvazione del progetto e, quindi, l’intera descrizione dell’intervento. Particolarmente interessanti per la ricerca sono le istanze presenti nell’Archivio Storico Capitolino (ASCR) raccolte nelle serie archivistiche Titolo 54 (1848 – 1922) e Ispettorato Edilizio (1887-1930); esse danno luogo alla più coerente e copiosa fonte di documenti, disegni, immagini e foto per lo studio delle vicende edilizie e dello sviluppo urbanistico di Roma per oltre un ottantennio: 1848-1930. Questa epoca di grandi trasformazioni inizia con il motu proprio di Pio IX del 2 ottobre 1847 con il quale si delega il Municipio Romano ad attuare un certo controllo sull’iniziativa edilizia privata e di tutela dell’‘ornato e comodo’ cittadino. Oltre alla supervisione delle trasformazioni sull’edilizia romana ottocentesca al Comune moderno competeva la modernizzazione amministrativa divenuta più pressante dopo il 1870 con le nuove leggi dello sta-
Piano Straordinario di Sviluppo della Ricerca di Ateneo. Azione sperimentale di finanziamento a progetti di ricerca innovativi e di natura interdisciplinare. CALL4IDEAS. Il WebGis Descriptio Romae ampliato. Un Atlante dinamico per la conoscenza, la prevenzione del rischio sismico e idrogeologico, la fruizione della città storica. Responsabile Antonio Pugliano, Dipartimento di Architettura UniRoma3. Gruppo di ricerca: Maria Grazia Cianci, Corrado Falcolini, Francesca Geremia, Massimo Mattei, Anna Laura Palazzo, con Federica Angelucci, Asia Barnocchi, Luca Menegatti (assegnisti), Lorenzo Fei (dottorando), Giorgia Cecconi, Claudio Impiglia, Giulia Lopes Ferreira, Stefano Merola (borsisti). Con il contributo di Paolo Micalizzi, Giorgio Ortolani, Elisabetta Pallottino, Francesca Romana Stabile.
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to sabaudo e gli interessanti accadimenti fino al 1930 quando il regime mussoliniano al potere decide, con il Governatorato di Roma, di ratificare il nuovo piano regolatore della città del 1931. Peraltro, il fondo ‘Titolo 54’ dell’Archivio Storico Capitolino (ASCR), si basava su una legge che consentiva ai proprietari che volessero trasformare il proprio edificio di sottoporre il progetto all’approvazione del Tribunale delle strade, in tal caso potevano usufruire di benefici economici, come l’esenzione fiscale dalla tassa della ‘dativa Reale’. Questo fondo contiene l’istanza del proprietario con relazione tecnica sugli interventi, il rilievo dello stato attuale e il progetto di trasformazione, il tutto, nella maggioranza dei casi, acquerellato e ciò offre un’importante informazione sul colore degli edifici romani in un intervallo temporale ben definito; in ultimo il fondo ‘Notai del tribunale delle acque e delle strade’ (contenuto nell’ASCR fino all’anno 1870 e poi nell’ASR) è quasi sempre legato alle istanze del ‘Titolo 54’: una volta conclusa la pratica, consentiva la stipula di un atto notarile tra il proprietario e l’ente pubblico. Questo fondo è importante perché non tutte le richieste presenti nel ‘Titolo 54’ venivano approvate, mentre il fondo Notai accerta l’approvazione del progetto e, inoltre, riporta magnifici documenti grafici. I documenti scelti per lo studio critico sono stati precedentemente censiti tra le migliaia presenti per il loro interesse storico-architettonico-urbano. Il WebGis Descriptio Romae e l’aggiornamento dei dati archivistici ai fini dell’Atlante Dinamico DynASK Per sua natura un sistema GIS, lungi dal potersi considerare concluso una volta per tutte, si presta invece a continue forme di aggiornamento di dati e funzionalità. Nell’ambito della produzione dell’Atlante Dinamico DynASK si è proceduto all’implementazione del WegGIS Descriptio Romae la cui documentazione conta ad oggi circa 4000 documenti. Si è proceduto all’aggiornamento dei documenti presenti nel ‘Titolo 54’, in particolare del periodo successivo all’avvento di Roma come capitale, documenti finora inseriti solo per gli anni 1871-1872 e dei relativi brogliardi. Sono state realizzate n. 452 schede partendo dall’anno 1873. Avendo dovuto acquisire le istanze relative ai 14 rioni presenti a Roma relativi al Gregoriano (estendentisi a n. 22 ossia con istanze relative ad esempio a particelle appartenenti a Castro Pretorio, Stazione Termini, Rione Prati ecc.) si è operato per mezzo della delimitazione delle aree iniziando a schedare le istanze relative al rione Parione per poi proseguire con i rioni limitrofi e coprire tutto l’anno 1873. Del rione Parione, area altamente stratificata, sono state schedate tutte le istanze fino all’anno 1930, ossia l’anno in cui termina l’acquisizione, da parte dell’ASCR, delle pratiche edilizie nel fondo ‘Ispettorato Edilizio’. Con l’intento di implementare il repertorio di dati storico-critici per l’uso nell’ambiente DynASK, si è posta in atto una lettura inedita del repertorio archivistico ampliato ponendo finalmente attenzione al censimento, catalogazione e vettorializzazione dei dati relativi alla tipologia di richiesta amministrativa e, di conseguenza, ai tipi di azioni delle quali si richiedeva la legittimazione. Sono stati catalogati quindi i progetti di Accorpamento, Ampliamento, Costruzione; Demolizione; Fusione di più edifici in un unico fabbricato; Modifica; Restauro, Ricostruzione; Riedificazione; Sopraelevazione; Sopraelevazione interna; Sostituzione di tetto in terrazza, concentrando l’attenzione sulla individuazione dei caratteri ricorrenti di mutazione degli organismi architettonici. Chi scrive si augura che tale tipologia di informazione, presente nell’implemento prodotto dal DynASK, possa essere resa standard anche in occasione delle future manutenzioni
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culturali del WebGis Descriptio Romae. Gli elaborati progettuali schedati e vettorializzati costituiscono un database di carattere scientifico che un fruitore del DynASK potrà analizzare criticamente. Lo studioso potrà osservare lo stato dei luoghi in un determinato periodo storico di riferimento, avendo contezza delle stratificazioni urbane definite dall’insieme delle cartografie storiche vettorializzate e rese comparabili, e con i disegni perlopiù acquerellati e di buona fattezza e con lo stato ante e post operam, percepirà un quadro esauriente dell’edificio e dunque spesso del prospetto di un tracciato viario e del suo profilo (Angelucci, 2017). Nell’implemento del DynASK sono stati sono stati inclusi gli ‘aggiornamenti’ del Catasto Gregoriano attinenti agli anni di poco precedenti al passaggio di Roma dall’amministrazione pontificia a quella del Regno d’Italia. Nelle tavole di aggiornamento, oltre alle demolizioni e ricostruzioni sopra citate, sono sempre indicati i numeri civici degli edifici (adeguati alle relative trasformazioni), mancanti invece nelle tavole del Gregoriano, cosa questa che le rende di grande interesse. Avendo voluto delineare un’area specifica con caratteristiche omogenee, il rione Parione, e approfondire il più possibile la sua conoscenza si sono schedati i disegni non solo del ‘Titolo 54’ ma si è effettuata una cernita di istanze del fondo ‘Ispettorato Edilizio’ (sempre contenuto nell’ASCR). Inoltre, è stato coinvolto l’ASR per il fondo ‘Disegni e Piante’. L’intera documentazione censita ed acquisita è stata ad oggi in buona parte collegata agli oggetti grafici che compongono la cartografia vettoriale e ai grafici di progetto allegati al singolo documento. Particolarmente rilevante concettualmente la metodica di predisposizione dei documenti all’inserimento nel ‘Web Gis Descriptio Romae’, provenienti dall’elaborazione e vettorializzazione del DynASK, che ha previsto la trattazione di tutti i dati relativi ai progetti selezionati: con questi dati, anche iconografici, si possono conoscere di ogni particella e di ogni ‘subalterno’ il numero dei piani di ogni edificio, la superficie, la destinazione d’uso, la rendita catastale. I documenti archivistici, in particolare inerenti ai
Fig. 1 Atlante Dinamico DynASK. Mappa della vettorializzazione dei dati relativi alle tipologie di intervento architettonico associabili alle istanze del fondo ‘Titolo 54’, ASCR. Il Filtro raccoglie in numerosi layers caratteristici i dati tipologici, associandoli alle rispettive particelle del Catasto urbano PioGregoriano digitalizzato e georiferito sulla base grafica CTR 2014 (Federica Angelucci, 2020).
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cosiddetti ‘aggiornamenti’ preunitari, sono collegati ad ogni singola particella oggetto di interventi di trasformazione, per l’ampliamento dell’iconografia storica acquisita.
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La conoscenza delle manomissioni e delle sensibili trasformazioni subite dagli edifici del centro storico di Roma al fine della tutela dai rischi sismico e idrogeologico (L.F.) L’acquisizione degli accadimenti edilizi avvenuti in un delimitato arco temporale ha come obiettivo la conoscenza di edifici o di intere aree metropolitane che possano essere oggetto di una maggiore percentuale di rischio per la loro durabilità. Da questo punto di vista la vettorializzazione delle fonti storiche proposta dalla metodologia del DynASK rappresenta una importante evoluzione concettuale e culturale a fondamento di importanti sintesi critiche di ampio respiro. L’iter processuale adottato per la vettorializzazione del repertorio archivistico ha previsto il Censimento delle pratiche riguardanti i rioni romani, la schedatura delle istanze scelte e l’acquisizione delle domande edilizie nella loro interezza; ciò ha significato acquisire la domanda di permesso, la relazione tecnica e le preziose immagini relative allo stato di fatto del fabbricato (ante operam) e di progetto (post operam). Il medesimo procedimento è stato adottato per le pratiche relative ai danni causati agli edifici storici dai terremoti. Ogni istanza edilizia richiesta da parte dei proprietari immobiliari prevede una o più tipologie di intervento sull’edificio. Queste tipologie, in genere in numero di due, sono state scisse per essere cartografate sul Catasto Urbano Pio-Gregoriano. Ogni mutazione tipologica e costruttiva (Accorpamento, Restauro, Sopraelevazione, ecc.) è stata cartografata agganciando l’istanza alla relativa particella della mappa del Catasto Gregoriano. Ad ogni tipologia di intervento corrisponde un layer. Se l’istanza prevede due o più azioni da eseguire contemporaneamente la relativa particella vedrà più layers sovrapposti; la medesima cosa avverrà nel momento in cui una stessa particella è stata oggetto di più interventi in anni differenti. Questo lavoro pone le basi per lo studio e l’analisi critica del tessuto urbano potendo ad esempio evidenziare con estrema facilità ‘tutti gli edifici oggetto di Sopraelevazione’ in tutti i rioni di Roma (per ora relativamente all’anno 1873) e più specificatamente nel rione Parione, dal 1873 al 1930, ossia tutti i documenti di interesse architettonico-urbano del fondo ‘Titolo 54’ postunitario contenuti nell’ASCR. Le mutazioni subite dagli edifici, siano esse lievi manomissioni o sensibili trasformazioni dell’intero organismo, se sommate ad altri fattori possono incrementarne la potenziale danneggiabilità. La conoscenza della casistica delle mutazioni pone le basi per il confronto degli interventi edilizi con problematiche pregresse, ad esempio di natura idrogeologica, orografica, ecc., che possano meglio far comprendere il rischio sismico di particolari edifici, rischio, come detto, aumentato dalle manomissioni introdotte agli immobili. Ad esempio, con questo metodo, si possono palesare le criticità di alcuni edifici nel rione Parione dove la sopraelevazione dei fabbricati (anche di tre piani su medesime fondamenta) si somma allo stato del terreno poco coerente e con elevata presenza di acqua. Nei fatti, nel corso dell’Ottocento e dei primi del Novecento la quasi totalità degli edifici della città storica sono stati sopraelevati di uno o più piani (anche di quattro) in assenza delle necessarie opere di consolidamento delle murature dei piani inferiori. Si tratta di una criticità diffusa, già di per sé problematica, destinata ad aggravarsi ulteriormente nei casi in cui agli edifici interessati da dette sopraelevazioni corrisponda-
no nel sottosuolo criticità aggiuntive, per la presenza di cavità/discontinuità naturali o artificiali, dovute, in un caso, alle preesistenze archeologiche, nell’altro, alla struttura geologica del sottosuolo. A esempio si potranno osservare particolari ambiti del territorio urbano nei quali la sovrapposizione di più criticità come, a titolo di esempio, una cavità naturale, alla quale nel tempo si sia sovrapposta una cisterna romana e una sopraelevazione edilizia sia tale da delineare in quello stesso sito significative condizioni di rischio di danneggiamento sotto azione sismica. Sono state quindi condotte indagini documentarie presso l’Archivio Storico Capitolino al fine di raccogliere dati ed informazioni necessari a definire l’effettivo risentimento degli edifici di alcuni terremoti a Roma. In particolar modo si sono svolte ricerche sulla documentazione presente nel ‘Titolo 54’, nel ‘Titolo 62’ e nell’’Ispettorato Edilizio’, ricerca in itinere che già dimostra di poter svolgere un ruolo di spiccato interesse nella definizione dei danni puntuali; in questo caso l’utilizzo del patrimonio archivistico diviene un originale strumento di valutazione dei rischi sismico e idrogeologico in relazione alla interazione fra le caratteristiche degli edifici realizzati o trasformati nei secoli precedenti, prima e in assenza di qualsivoglia normativa antisismica, con le caratteristiche delle stratificazioni archeologiche e geologiche del sottosuolo. Le manomissioni tardo Ottocentesche, in particolare subito successive all’Unità d’Italia, prevedevano delle sensibili trasformazioni degli edifici. Questo accadeva nel momento in cui la mancanza di abitazioni nel centro della città, cresciuta in modo esponenziale dopo che Roma diviene Capitale, vede i proprietari immobiliari, spinti dalla allettante possibilità di ottenere un copioso guadagno dagli affitti, desiderare il massimo profitto possibile dai loro immobili. I proprietari decidono di sopraelevare gli immobili per costruire più appartamenti. Tra le molteplici operazioni che i proprietari immobiliari intraprendono sugli edifici quelle che riguardano più dettagliatamente lo studio circa la danneggiabilità di un fabbricato nei confronti di un ipotetico sisma concerne in particolar modo tutte quelle operazioni che vanno a modificare gli elementi strutturali dell’edificio. Non da meno devono essere considerate l’abbattimento di tramezzature o l’apertura di vani in determinate posizioni che con la loro attuazione possono avere indebolito l’intero organismo. Le tipologie di intervento più pericolose riguardano le seguenti diciture: Accorpamento, Ampliamento, Modifica, Restauro, Ricostruzione-Riedificazione, Sopraelevazione (interna e/o esterna). Ognuno di questi interventi implica delle mutazioni radicali dell’organismo originario. Con alcune di queste diciture si operavano pesanti e diversificate modifiche all’assetto originario della proprietà immobiliare. Valga l’esempio della tipologia di intervento ‘Restauro’ si potevano trasformare facciate, si mutava il tetto in terrazza, si ampliavano i vani di porte e finestre, si regolarizzavano le bucature per una composizione ordinata del prospetto (con grande attenzione per la simmetria e l’assialità cielo-terra); si spostavano i tramezzi, per la diversa distribuzione interna dei vani, ed i solai per aumentare l’altezza degli ambienti per una maggior salubrità delle stanze (luce ed aria). Gravosi interventi si nascondono anche sotto la dicitura ‘Accorpamento’. In questo caso una serie di case di tipologia a schiera, (le case della tradizione dell’edilizia minore medievale) anche in numero di 10, ad un piano, sono unite insieme sopraelevando di 4 piani l’organismo su medesime fondamenta. Si demoliscono i corpi scala divenuti in numero eccessivo per posizionarne un unico in area centrale. Si modificano i solai
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interpiano per ottenere una medesima quota, si abbattono e ricostruiscono i tramezzi, si spostano i vani delle aperture, si ampliano i vani delle porte di ingresso per renderli adatti all’uso di bottega e lasciare un unico portone di accesso ai piani superiori. Queste descritte sono solo alcune delle operazioni eseguite sull’edilizia storica romana in circa un ottantennio (1848-1930). Insieme all’incremento spregiudicato dell’altezza degli edifici, come se non bastasse, si assiste al mutamento delle tecniche costruttive che vede l’impiego di altri materiali rispetto al legno, ad esempio il ferro che per i solai viene utilizzato insieme al mattone. È ormai dunque ovvio che la conoscenza di tutti questi accadimenti sia un elemento fondante per analizzare le eventuali criticità di un edificio o di un’intera area del tessuto urbano. La scientificità del metodo adottato che vede l’utilizzo di specifica documentazione storica censita, studiata e cartografata pone le basi per una corretta metodologia di indagine. Il colore delle facciate e la ricerca documentaria archivistica. L’analisi critica delle istanze edilizie del fondo ‘Titolo 54’ negli anni 1848-1930 (A.P.) L’acquisizione dell’iconografia a corredo delle istanze edilizie del fondo ‘Titolo 54’ ed in particolare l’ottenimento dei disegni delle pratiche stesse, ha permesso di osservare il colore degli edifici oggetto di trasformazioni. Ciò è stato possibile solo per quei disegni che, acquerellati, presentano una colorazione sul prospetto del fabbricato. Si ricorda che nelle istanze edilizie l’edificio oggetto della pratica veniva rappresentato sia nel suo stato ante operam che di progetto. Sebbene alcuni di questi disegni siano a china e non presentino dunque alcun dato circa la tinteggiatura, molti sono invece gli episodi in cui il progettista definisce il colore ed i materiali costruttivi utilizzati. I disegni hanno perlopiù una buona qualità grafica e proprio questa puntuale definizione dei prospetti permette di trarre delle ipotesi sia circa il colore che circa il gusto ottocentesco che si andava diffondendo in una Capitale appena creata. Il gusto rifletteva non solo l’esigenza di adeguare i prospetti dei fabbricati mutati dalla tipologia a schiera (di una secolare edilizia minore) all’imitazione del palazzetto nobiliare, ma anche quella propensione, quella tendenza della classe borghese (che proprio in questi anni si affacciava e si inseriva nella società romana), a fare propri i colori dei materiali della tradizione costruttiva gentilizia. C’è da dire che i disegni del fondo ‘Titolo 54’ non necessariamente documentano lo stato finale dell’opera; questo è possibile se si ricorda che non tutte le istanze furono approvate dal Comune moderno e non tutte le richieste ebbero un seguito positivo da parte del proprietario immobiliare. Nei casi di disegni ben dettagliati sarà consigliabile acquisire il colore delle tinteggiature degli edifici come testimonianze iconografiche che abbiano un valore indiziario. Le tonalità di colore utilizzate nei disegni delle istanze variano dal grigio, al bruno, al rossiccio, al color pozzolana, al giallo e all’arancio e restituiscono l’idea di un tessuto edilizio policromo. In particolare nella tipologia di intervento che comprendeva il totale rifacimento della facciata (passando dal prospetto di un’abitazione ad uno o due piani ad uno a quattro o a cinque) ad imitazione dei palazzetti nobiliari, prevedeva la possibilità di imitare l’uso di materiali lapidei (travertino o peperino) nella fascia basamentale o nei cantonali con stucco, colori e velature evitando l’utilizzo dei dispendiosi materiali lapidei. Anche il mattone a faccia vista, costoso per la sua prerogativa di elemento regolare e per l’attenta posa in opera con filari precisi, veniva imitato mediante l’utilizzo di un colore rossiccio o giallo come nel colore del sottile mattone di tradizione romana. Le istanze scelte a rappresen-
tare le differenti colorazioni utilizzate per definire le facciate denotano un’ampia qualità dei disegni presenti nel fondo sopracitato permettendo di osservare nei progetti più ambiziosi i materiali utilizzati ed i dettagli del bugnato basamentale, dei cantonali, delle fasce marcapiano e marcadavanzale, dei timpani per finire con le decorazioni e le balaustre del terrazzo di copertura (Angelucci, 2017). Questa ricerca che si è soffermata sull’aspetto cromatico della città Ottocentesca e dei primi tre decenni del Novecento, pone le basi per catalogare i molteplici casi di coloritura di edifici presenti nelle istanze e consente di sperimentare il reale permanere della composizione linguistica tradizionale di ascendenza antica nel processo di mutazione tipologica dell’edilizia urbana. Un aspetto di preminente interesse nelle attività di documentazione e, conseguentemente, di analisi critica delle fonti della cultura edilizia di ambiente romano messo in luce dall’Atlante Dinamico DynASK, ha riguardato la mutazione tipologica cui è stato esposto nel tempo il patrimonio architettonico storico; detta mutazione ha riguardato la compagine materiale, con implicazioni come si è detto al riguardo della vocazione acquisita al danneggiamento sismico, ma si è anche tradotta nel veicolo di espressioni di composizione linguistica a valere sulla qualificazione cromatica dei fronti urbani. L’osservazione del repertorio di soluzioni compositive proposte al riguardo dei colori di progetto presenti nei disegni delle istanze edilizie consente di evidenziare il sussistere della propensione per una semantica del colore della città Ottocentesca che si faccia carico di antichi indirizzi consolidati. Questi ultimi sono basati sull’intenzione di assumere come strutturazione linguistica della qualificazione cromatica, rappresentazioni artisticamente evolute, a vocazione imitativa dei materiali costitutivi dell’architettura tradizionale. Il repertorio documentario indagato mostra come a componenti architettoniche costruttivamente omogenee per uso di materiali, si associava la qualificazione coloristica allusiva del repertorio congruo di materiali nobili che si sarebbero posti in opera se non si fosse fatto ricorso al palliativo dell’imitazione. Proprio per il ruolo imitativo, l’esercizio della semantica del colore, attenta ad alludere al materiale ‘altro’ rispetto al supporto, guadagna un forte connotato di autonomia, ‘per artisticità’, nell’economia della composizione architettonica complessiva e finisce per svolgere un ruolo condizionante nella stessa formulazione dell’impianto materico che connota le facciate. Questa è una condizione storicamente costante nell’ambiente romano: per brevità si indicano i capisaldi storiografici estremi nell’antica architettura residenziale ostiense e nell’edilizia vernacolare ICP. Ove, nel primo caso, capita di osservare in edifici di epoca imperiale, redatti sul sedime di artefatti apparentemente precedenti all’edificazione del castrum, intonaci su supporto laterizio lavorati in superficie per imitare blocchi di pietra tufacea. Per il secondo caposaldo storiografico, valga l’esempio di alcune architetture residenziali redatte nei primi venti anni del Novecento, con l’esempio ‘recente’ delle architetture ‘vernacolari’ dell’architetto Camillo Palmerini, segnatamente nei casi dei blocchi residenziali della Via La Spezia in Roma (Intervento ICP Appio II 1923). Detti edifici sono composti con intonaci modanati, stesi e segnati, a formare partiti architettonici di bugnati, di ordini, di cornici, di marcapiani, di tabelle e campi di riquadri. Gli elementi compositivi mostrano una lavorazione superficiale che allude alle caratteristiche di lavorabilità dei materiali imitati: le ordinanze architettoniche e le incorniciature alludono a superfici ‘polite’ come possono essere quelle ottenute dalla posa in opera di una pietra nobile lucidabile a grana finissima, come il marmo di Carrara, i bugnati di diversa ‘rusticità’ superfi-
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ciale alludono al travertino e al peperino, il connettivo tra le partiture architettoniche appare destinato alla cortina laterizia fine di pianelle, che circonda campi di arriccio di intonaco ‘a gretoncino’. Chi scrive lascia il Lettore riflettere sull’esito cromatico straordinariamente attrattivo di una siffatta composizione: il bianco abbacinante del marmo di ordini e cornici sommitali, compone la struttura verticale e orizzontale dell’impaginato del fronte nel quale si associano i toni pallidi color carne dei ‘bugnati lisci’ di travertino e i toni cupi del grigio a radice ocra del peperino nei ‘bugnati rustici’ che digradando compongono, peraltro utilmente, l’attacco a terra dell’edificio; le superfici di intonaco del color del mattone, rosato, compongono il connettivo nel quale spiccano sia le cornici delle aperture e i parapetti murari dei balconi color del travertino nei toni chiaro e scuro per modanature e intavolati, sia i campi violacei, vibranti luministicamente, degli arricci color della pozzolana. Tra i due capisaldi storiografici citati si svolge l’intera narrazione della dinamica evolutiva della tipologia edilizia e della corrispondente espressione linguistica della cultura costruttiva, oggetto di rievocazione attraverso la composizione cromatica; di tale rapporto si occupa l’Atlante Dinamico DynASK ponendo a sistema, per l’edilizia residenziale minuta, i segni permanenti nelle mutazioni tipologiche rappresentati cromaticamente attraverso l’attribuzione leggibile di forme e funzioni alle componenti introdotte dalle nuove fisionomie. L’intento è ricomporre, con la razionalità filologica che deriva da pratiche restaurative autenticamente consapevoli, la leggibilità del sistema linguistico dell’architettura tradizionale oggi sovente malinteso e compromesso. Conclusioni (A.P., F.A., L.F.) È possibile delineare un primo bilancio del lavoro sin qui svolto. Il nostro gruppo di ricerca ha sviluppato un metodo di analisi che getta le basi per la comprensione e la conoscenza necessarie alla conservazione e alla valorizzazione del paesaggio storico urbano. L’analisi storico-documentaria del patrimonio archivistico costituisce un primo indispensabile tassello di quella fitta trama di informazioni che possono interessare particolari ambiti tematici. Le fonti documentarie censite, schedate, cartografate ed analizzate costituiscono nei fatti un fondamentale giacimento culturale per lo studio delle trasformazioni del tessuto della città. In rapporto ai fenomeni di drastico cambiamento culturale della società civile, al mutamento dei contesti normativi e di progetto politico per il governo del territorio, alle mutate destinazioni d’uso del patrimonio immobiliare, è possibile intrecciare i dati nelle differenti tematiche ma tutte di elevata potenzialità: dalla sicurezza degli edifici, alla vulnerabilità sismica, al rischio idrogeologico per concludere con la valorizzazione della ricchezza linguistica espressa dalla cromia dell’edilizia storica romana, oggi purtroppo drammaticamente malintesa. La perdita di alcuni brani di tessuto abitativo o di specifiche emergenze architettoniche pone le basi per un futuro studio che potrebbe essere intrapreso con la modellazione tridimensionale di parti significative della città storica non più in esistenza, da offrire in forma virtuale per farle assurgere al ruolo di testimonianza culturale e di espressione attrattiva ed eloquente dei valori e significati del linguaggio dell’architettura tradizionale e del gusto estetico a essa attribuibile.
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Bibliografia Angelucci F. 2017, La Spina dei Borghi (1848-1930). Trasformazioni e restauri attraverso i fondi dell’Archivio Storico Capitolino, Steinhäuser Verlag, Wuppertal. Buonora P., Le Pera S., Micalizzi P. 2014, Descriptio Romae, un Web Gis sul centro storico di Roma, in M. Pompeiana Iarossi (a cura di), Ritratti di città in un interno, Bononia University Press, Bologna, pp. 3746. Pugliano A. 2009, Elementi di un costituendo Thesaurus utile alla conoscenza, alla tutela, alla conservazione dell’architettura, il riconoscimento, la documentazione, il catalogo dei beni, Prospettive Edilizie, Roma. Micalizzi P. 2003 (a cura di), Roma nel XVIII secolo, Atlante Storico delle Città italiane, Roma 3, vol. I-II, Kappa, Roma. Pugliano A. 1998, Sulla qualità nel recupero dell’edilizia storica. La Guida ai Colori di Roma, «Roma Moderna e Contemporanea», n. 3, Roma, pp. 551-560.
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Cornicioni e sistemi di smaltimento delle acque meteoriche nell’architettura tradizionale mediterranea. Conoscenza, durabilità e recupero compatibile nella Sicilia Occidentale Tiziana Campisi Tiziana Campisi Simona Colajanni
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Palermo.
Simona Colajanni
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Palermo.
Abstract The essay explores the construction aspects of cornices that, from elements of protection, they can also become elements of degradation and instability due to their shape. We would analyse formal and material values of a cornice: it presents complex characters and summarizes problems deriving from construction requirements of building envelope, due to the double value of ornamentation (crowning of building) and functional component (removal system of meteoric water from façade). This study suggests a repertoire of “rules of art”: deriving from treatises and manuals and constituting points of reference for historical construction. We would indicate the main degradations that the shape of cornice can produce on façade, supported by an experimental study conducted at the University, through an experimental model, according to the most recurrent forms of cornices founded in the historical centre of Palermo, comparing the obtained data with the pathologies identified by the rule UNI11182/2006. This study wants to provide specific indications that allow the technical element to be brought back to a configuration compatible with its pre-existent characteristics. Keywords Sicilia, cornicioni, caratteri costruttivi, durabilità, recupero compatibile
Pillole di Architettura e Tecnica per un repertorio dei sistemi di smaltimento delle acque meteoriche Trattati e manuali descrivono le ‘regole dell’arte’ relative ai sistemi costruttivi più diffusi, in contesti sovranazionali e negli esempi di maggiore livello; per quelle soluzioni tecniche tipiche, invece, di archi temporali e aree limitate nella estensione e nel confinamento geografico, definite ‘minori’ ma non per questo meno importanti nella formazione dell’identità di un luogo, l’occhio attento del tecnico deve applicare un giudizio di valore più restrittivo, pena la perdita definitiva di questi labili componenti. (Campisi, Fatta, 2013) (Breymann, 1885; Donghi, 1905) Per avvicinarci al tema dei cornicioni andrà prima precisato che i sistemi di raccolta dell’acqua nella porzione altimetricamente più depressa della falda erano considerati – in passato così come oggi – opere costose e di una certa complessità: raramente l’architettura monumentale ne faceva a meno (fig. 1), mentre l’edilizia rurale e corrente
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Fig. 1 Smaltimento delle acque meteoriche, con canale di gronda interno al muretto d’attico. (da Formenti C., Cortelletti R., 1893); vista dall’alto nella chiesa di Santa Caterina dell’asola interna contenente il canale di gronda, del muretto d’attico e dello sporto esterno del cornicione lapideo. (Foto: Tiziana Campisi, 2020).
usava i cosiddetti ‘tetti a stillicidio libero’, che però di frequente provocavano evidenti forme di degrado sulle superfici murarie. Diffusamente, l’acqua veniva convogliata in un più ragionato sistema di gronde e pluviali; la maniera più semplice per realizzare un canale di gronda era quella di giustapporlo all’esterno, lungo il bordo della falda e ben visibile in facciata. Si usavano prima coppi laterizi, posti in sequenza e in leggera sovrapposizione per raccogliere l’acqua di falda e convogliarla ai discendenti pluviali e poi si preferì la lamiera sagomata in ferro, sostenuta da supporti metallici così come lo zinco e il rame, con saldature a stagno (fig. 2) (Fatta et al., 2007). In area mediterranea le coperture a tetto concorrono in modesta misura alla caratterizzazione dell’ambiente urbano e dunque i cornicioni con soprastanti muretti d’attico rappresentano la terminazione superiore più evidente e di qualità delle architetture: una gronda interna era sovente nascosta alla vista, con conseguente difficoltà tecnica ma anche statica dovuta alla formazione di un’asola continua e profonda nel cornicione, proprio nel nodo tecnologico-strutturale dove l’orditura lignea della copertura poggiava sui muri d’ambito: la quota della gronda non doveva interferire col cornicione stesso, formato da grossi blocchi lapidei incastrati profondamente per tutto lo spessore del muro. Per i tetti non spingenti, se si era in presenza di un sottotetto, si optava per scelte tecniche con gronde poste all’interno, sospese su chiodi metallici, mensoline lapidee o laterizie, mentre per i tetti spingenti o in presenza di capriate a sostegno degli arcarecci o ancora allorché la gronda, correndo parallelamente al muro di facciata intercettava i muri trasversali, si costruiva un canale meno profondo, alloggiato in uno scasso praticato all’interno dello spessore murario (fig. 1). La gronda, a leggera pendenza, convogliava l’acqua piovana verso un punto di scarico a terra, diretto o indiretto e talvolta si optava per i doccioni, ma tale sistema di scarico si poteva proporre per gli edifici bassi e con notevoli sporti, perché l’acqua in caduta sarebbe precipitata al suolo con notevole impatto, disturbo per i passanti e possibili danni in corrispondenza del basamento degli edifici, ovvero si utilizzavano discendenti pluviali. In Sicilia, il sistema più diffuso per condurre a terra l’acqua raccolta dalla gronda utilizzava degli elementi tronco conici in laterizio impilabili, detti ‘catusi’ (fig. 3), poi via via sostituiti nei primi decenni dell’Ottocento con discendenti in lamiera o in ghisa, connessi stabilmente con ganci e staffe alla muratura e particolare attenzione al raccordo tra la gronda e il discendente. Per le gronde poste all’interno dei muretti d’attico, al di sopra dei grossi cornicioni di coronamento, il collegamento col di-
Fig. 2 Smaltimento delle acque meteoriche con canale di gronda sul prolungamento della copertura (G. A Breymann, 1885).
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scendente esterno necessitava di una vera e propria canalizzazione nascosta entro la struttura muraria con relativo imbuto, raccordato con la testa del discendente verticale (Campisi, Fatta, 2013).
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La costruzione del cornicione nell’architettura tradizionale siciliana La definizione ‘materiale’ del cornicione è riconducibile – per la maggior parte dei casi – ai lapidei impiegati e per la Sicilia occidentale alla biocalcarenite conchiliare, messa in opera con malta di calce idraulica con specifici additivi. Si conformavano i ‘pezzi’, conci fuori misura utili a configurare il cosiddetto ‘sporto esteriore’, a vista, e si sbozzava, lasciandolo aggettante sul filo interno del setto murario di imposta, lo ‘sporto interiore’, che controbilanciava il primo, entrambi sormontati da un muretto d’attico che stabilizzava ulteriormente il sistema (fig. 4). La sbozzatura iniziale dell’elemento lapideo richiedeva la realizzazione di un ‘quartobuono’, prima immagine geometrico-dimensionale dell’elemento tecnico, da rifinire o lasciare grezzo poiché occultato da intonaco. Si ricordano accorgimenti tecnici quali l’interposizione di piombo in lamine per l’appoggio dei pesanti pezzi del cornicione che, se imponente, veniva supportato da grandi mensole destinate a sorreggere i massicci lastroni di pietra, intagliati e modanati in opera, difficili peraltro da sollevare e collocare in quota, soprattutto per i cosiddetti ‘pezzi di angolata’, unici, resi stabili a mezzo di retrostanti contrappesi lapidei, utili a bilanciare lo sporto (Formenti, Cortelletti, 1893) (fig. 5). Il discriminante che consente al cornicione di materializzarsi è quello che supera l’idea di una copertura a stillicidio libero, per consentire – altresì – al canale di gronda di essere occultato alla vista, attraverso la creazione del cornicione stesso e del muretto d’attico; ma anche questa affermazione, seppur vera, risulta riduttiva o quantomeno poco perentoria, in quanto innumerevoli sono gli esempi, in letteratura e nella pratica esecutiva, di cornicioni realizzati ad hoc proprio per proiettare la copertura ben oltre il paramento murario e consentire, così, al tegumento di smaltire l’acqua a stillicidio libero o raccolta da grondaie non attestate sul filo della facciata, parimenti a puntelli e travicelli ‘passafuori’ lignei, ‘mensoline’ laterizie e tanti altri espedienti, quali ‘embriciati’ aggettanti, lunghi doccioni, ecc. (fig. 6) (Campisi, Fatta, 2013). Nelle aree interne montane a forte piovosità, cornici e cornicioni proteggono i paramenti, spesso in pietra a faccia vista in accordo a numerose varianti, tra cui in area siciliana la più frequente è quella definita ‘alla cappuccina’ o con ‘coppata’, che impiega mattoni di esiguo spessore detti ‘pianelle’ o mattoni di cotto e coppi siciliani, progressivamente aggettanti dal filo della fronte, con possibilità di messa in opera da due a ben sette/nove filari sovrapposti di elementi laterizi, diversamente orientati, con aggiunte di piccole mensole sottili poste ad intervalli utili a sorreggere il ‘pianellato’ orizzontale o lastre lapidee di esiguo spessore, o ancora queste semplici lastre infisse nella muratura, da sole, costituiscono utile sporto e protezione su cui si imposta la parte di falda aggettante o il canale di gronda, ora a soddisfare la statica e ora l’estetica (Fatta et al., 2007). Laddove presente, accorgimento tecnologico non indifferente all’efficace smaltimento delle acque meteoriche è la realizzazione della adeguata ‘acquatura’ da conferire alla porzione estradossale del cornicione, ottenibile sagomando stereotomicamente in pendenza i conci di pietra compatta, ovvero riportando un nucleo debitamente inclinato di malta in cocciopesto o altrimenti idraulicizzata (con pozzolana, cenere di combustione, ecc.), eventualmente rifinita con mattoni di semplice fattura o maiolicati, lastre di ardesia, al pari della porzione di facciata prossima all’attacco a muro del cornicione (Campisi, 2018).
Di successo e forte impatto visivo le riuscite dei cornicioni, impietosi i crolli, dovuti a imperizia tecnica, alla scelta erronea dei materiali costitutivi, a scarse conoscenze statico-strutturali, ancora a eventi calamitosi, soprattutto i terremoti, parimenti alla caduta di altri sporti, fra i quali quelli di mensole e suoli lapidei di balconi, che innescarono nei secoli una forte riflessione nella cultura tecnica di ogni tempo, suggerendo alle istituzioni locali di prevedere provvedimenti per cautelare l’incolumità pubblica, influenzando le modalità costruttive che dovettero adeguarsi alla sicurezza statica in primis e antisismica in seconda battuta, per abbattere l’incidenza dei crolli di ‘vasi ornamentali, statue, cornicioni e alte cimase di case e palazzi’. I cornicioni lapidei, in tal senso, subirono una vera e propria ‘rivisitazione strutturale’, con diffusa introduzione di tiranti e staffature di sostegno, occultate se possibile alla vista, utili a implementare la stabilità statica dell’elemento costruttivo ritenuto maggiormente a rischio di parzializzazione e crollo. In tante situazioni non era più il caso di definire l’ambito compositivo, ma di chiarire – invece – quello più propriamente ingegneristico-strutturale, fruttuoso di sperimentazioni e tecnicismi legati alla padronanza delle leggi della statica di chi operava o a mezzi di fortuna improntati per adeguarsi all’immediatezza di una inderogabile esigenza di sicurezza: la tecnica si rinnovava e migliorava, imponendosi una auto-verifica continua rispetto alle condizioni iniziali (Campisi, Mutolo, 2003). Degradi e dissesti, prove sperimentali, durabilità e manutenzione per i cornicioni di Palermo Il cornicione esplica nella commistione fra l’istanza ornamentale e quella tecnologica le sue problematiche legate al degrado e al dissesto; è proprio questa porzione apicale del sistema ‘involucro esteriore’ che costituisce una potenziale causa di danno per la facciata, poiché se l’allontanamento dell’acqua battente non è ben realizzato o ancora se risulta inefficace la pendenza realizzata nella parte apicale del cornicione stesso, si possono verificare ristagni, infiltrazioni, imbibizioni e fenomeni di umidità, nonché il ruscellamento di acqua e agenti patogeni (polveri, guano, sali solubili, ecc.) lungo l’articolazione delle modanature della sagoma piana/concavo-convessa dell’aggetto, con conseguente dilavamento della porzione di facciata sottostante (fig. 7) (Colajanni, 2018). Oltre a ciò, la rottura delle lastre della copertina, soluzioni di continuità nei giunti di malta o, ancora peggio, fessurazioni e lesioni gravi dei conci costituenti lo sporto esterno del cornicione e distacco dal filo murario per ribaltamenti, accelerano ulteriormente il processo di degrado e dissesto, in aggiunta alla presenza di sostanze inquinanti, l’azione eolica o l’esposizione ai raggi solari che concorrono ad aumentare i cicli evaporativi dell’acqua (Carbonara, 1996; Zevi, 2007). Ogni patologia rilevata è stata riconosciuta per il tramite delle raccomandazioni UNI11182/06, distinguendo due categorie: l’alterazione e la degradazione, in relazione alla presenza o meno di un peggioramento delle caratteristiche del materiale, sotto il profilo conservativo. L’intervento di recupero può avvalersi di due diversi percorsi di conoscenza: quella analitica tramite ricerca d’archivio, consultazione dei trattati e manuali che hanno codificato i dettami della regola dell’arte oppure un approccio sintetico-scientifico che parta da dati reali come il rilievo geometrico-dimensionale, materico-costruttivo, delle forme di patologia e anche attraverso analisi/prove di laboratorio volte alla riproduzione e simulazione delle cause per la verifica degli effetti.
Fig. 3 Discendenti pluviali in elementi tronco conici in laterizio impilabili nell’edilizia elencale palermitana (Foto: Tiziana Campisi, 2019). Fig. 4 Conci aggettanti di un cornicione (sporto interiore), vista dall’interno di un sottotetto (Foto: Tiziana Campisi, 2018). Fig. 5 Intradosso di cornicione a forte aggetto e sistema di ancoraggio dei conci in pietra alla muratura di facciata (Formenti C., Cortelletti R., 1893).
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Questo saggio intende perseguire entrambe le strade, analizzando il caso di studio dei cornicioni del centro storico di Palermo; nei primi due paragrafi si è esposto il primo percorso, in questo paragrafo si vuole esplicitare quello invece più sperimentale. Si è effettuato un preliminare rilievo conoscitivo, condotto su una vasta casistica di cornicioni tipici dell’architettura palermitana tra il XV e il XIX secolo, identificando la sagoma e il modellato plastico delle modanature degli stessi, maggiormente soggette a degrado. Nel centro storico di Palermo (Marconi, 1997), infatti, l’uso dei cornicioni, e in particolar modo quelli realizzati con grondaia interna al muretto d’attico, trova larga diffusione sia per le notevoli possibilità decorative della tradizione costruttiva isolana che per il clima poco piovoso e la scarsa resistenza dei materiali lapidei disponibili, che non permettevano aggetti pronunciati. Solo raramente, troviamo edifici con sistemi di smaltimento con grondaia esterna, supportata da una struttura lignea fortemente aggettante e che simulavano modelli di riferimento nazionali o sovranazionali (Blondel, 1777; Musso, Copperi, 1884). La sintesi grafica del rilievo geometrico-dimensionale è stata ottenuta tenendo conto sia delle forme più ricorrenti, sia delle diverse patologie di degrado rilevate in situ tramite osservazioni dirette o cantieri di restauro e recupero avviati. La iterazione delle sagome più diffuse e significative ha permesso di rintracciare un profilo ideale di sintesi, da cui poter ricavare forme di modellato più semplici da rappresentare e più utili ai fini della modellazione con programmi di calcolo usati nella simulazione di fenomeni idraulici. Questi modelli, in numero di sei, non sono la riproduzione di modanature reali, ma rappresentano la sintesi e l’esemplificazione di un repertorio abbastanza ripetitivo, fornito dall’architettura storica palermitana e ricalcano le forme in scala dell’andamento verticale, orizzontale o sub-orizzontale, di parti con curvatura concava e convessa (fig. 8). Questa schematizzazione ha costituito la base di partenza per la verifica nei laboratori di ingegneria idraulica e strutturale dell’Università di Palermo dell’adesione del flusso idrico alle diverse forme plastiche del modellato. La forma, infatti, riveste un aspetto molto importante in relazione alla velocità di scorrimento del fluido, poiché al variare della giacitura dei piani e delle curvature, varia il rapporto fra le forze in gioco (gravità, adesione, coesione, attrito, tensione superficiale) e, di conseguenza, il distacco e l’adesione del fluido alla superficie. Si può, pertanto, istituire un confronto tra la forma della modanatura, la complessità dell’apparto morfologico-decorativo e la ricorrenza dei degradi presenti, in relazione all’adesione e allo scorrimento dell’acqua piovana (Colajanni, Termini 2002). Nella fase iniziale della sperimentazione non è stato riprodotto l’effetto della porosità (aperta o chiusa), e quindi del conseguente fenomeno di capillarità: questo perché, a meno di una prima fase iniziale di maggiore adesione, dovuta alla forza di attrazione della superficie asciutta dei cunicoli dei pori, il fenomeno di tensione superficiale risulta analogo a quello che si verifica con un materiale dove la porosità è quasi nulla. Pertanto, le modanature dei modelli sono state costruite con una lamiera zincata liscia, che potesse simulare uno stato di adesione dell’acqua piovana più avanzato. Diversa è invece la situazione per l’effetto prodotto dalla scabrezza, poiché un materiale scabro presenta una superficie maggiore su cui si sviluppa la tensione superficiale che è uno dei fattori più importanti ai fini del fenomeno dell’adesione. Per tenere conto dell’effetto del materiale, in tal senso, le sperimentazioni sono state svolte in due modi: con superficie in lamiera liscia e con sabbiatura a granulometria media.
Nella prima è stato possibile valutare l’azione delle forze esterne che agiscono sull’importanza della forma della modanatura, a prescindere dalle caratteristiche intrinseche del materiale; nella seconda si è simulato l’effetto che la scabrezza esercitava sul fenomeno di adesione (Van Krevelen, 1990). Ciò è stato ottenuto incollando uno strato molto sottile di sabbia a granulometria piccola e media in modo da simulare la superficie esterna del materiale lapideo che costituisce i cornicioni. Il primo ciclo di prove è stato realizzato ipotizzando solamente l’azione delle tensioni prodotte dallo scorrimento dell’acqua e dalla forma della modanatura dei modelli a superficie liscia, il secondo ciclo è stato effettuato confrontando la scabrezza del materiale dei modelli con superficie sabbiata. Per ciascuno dei cicli sono state eseguite quattro diverse prove al variare della portata stimata fra 0,2 l/s e 1,5 l/s (Colajanni, Termini, 2002). La portata che definisce la quantità d’acqua che defluisce nell’unità di tempo, è stata fatta variare per simulare la diversa consistenza delle precipitazioni meteoriche che danno origine allo scorrimento dell’acqua sui cornicioni. Per ogni singola prova è stato portato il modello a regime, avendo cura che lo sfioro del tirante avvenisse in modo uniforme e contemporaneo per tutti i sei modelli. Il valore della portata in entrata, per ogni singola prova, è stato stimato mediante un misuratore di portata elettronico, mentre in uscita le misure di portata sono state eseguite con metodo volumetrico. Le misure di velocità, non disponendo di mezzi adeguati ai piccoli tiranti idrici, sono state condotte con dei traccianti. Il percorso dell’acqua è stato segnato da un tracciante costituito di materiale galleggiante, che ha permesso di rintracciare l’andamento del fluido e il momento in cui la goccia marcata si distaccava dalla superficie della modanatura. Pertanto, la velocità della particella fluida è stata stimata come il rapporto tra lo spazio percorso, valutato sulla modanatura con un l’uso di un riferimento graduato, e l’intervallo di tempo stimato. Dall’analisi dei risultati delle esperienze condotte sui modelli, si sono effettuate alcune considerazioni di carattere qualitativo, relative al modo in cui l’adesione del fluido alla superficie del modello varia in relazione alla forma e all’orientamento delle superfici interessate e in base all’azione delle diverse forze presenti. Nel corso delle diverse prove svolte sono stati eseguiti dei rilievi riguardanti le modalità con cui si sviluppa il deflusso dell’acqua (adesione, distacco, gocciolamento, ristagno, ecc.) (Cigni et al., 1987). Il ciclo di prove a cui sono stati sottoposti i modelli di laboratorio in metallo, hanno permesso di valutare una forte corrispondenza tra i fenomeni osservati nei casi reali e le simulazioni effettuate in laboratorio (fig. 9). È chiaramente emerso come, nel caso di degradi dipesi dell’acqua piovana, è possibile agire su alcuni fattori come la velocità di scorrimento del film idrico, l’altezza del tirante idrico e la forma della modanatura. Nel caso del fenomeno di adesione (Sienko, Plane, 1980), sono stati individuati due comportamenti al variare della forma dei profili: in presenza di superfici orizzontali e concave, il flusso idrico aderisce solo nella parte iniziale superiore del modello permanendo sulla superficie per il tempo necessario alla formazione di degradi che necessitano dell’assorbimento dell’acqua, con il conseguente rilascio di sali solubili e formazione di cripto efflorescenze ed efflorescenze. Se, invece, la superficie è convessa, il flusso idrico tende ad aderirvi uniformemente, distaccandosi solo nel tratto finale inferiore; a questo fenomeno si accompagna un aumento della velocità di scorrimento e quindi un minor tempo di permanenza del fluido sulla superficie stessa. Tra gli effetti riscontrati,
Fig. 6 Gronda a filo esterno dell’edificio con ‘embrici’ sostenuti da lunghi chiodi in ferro battuto (Foto: Tiziana Campisi, 2019.
Fig. 7 Cornicione con sagoma a forte modellato plastico (Donghi D., 1925); cornicione barocco di Ortigia, a Siracusa, con elementi a forte rischio sismico svettanti sul muretto d’attico (Foto: Tiziana Campisi, 2020).
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Tiziana Campisi Simona Colajanni Fig. 8 Profilo “tipo” di cornicione nel centro storico di Palermo, ottenuto dalla sovrapposizione dei rilievi dei profili più ricorrenti (Simona Colajanni, 2018). Fig. 9 Confronto tra i tipi di degrado più diffusi nei cornicioni lapidei e il comportamento dei nn.6 modelli ipotizzati e sottoposti ad una portata idrica di 1,5 l/s, rappresentativa di una forte pioggia battente (Simona Colajanni,2018).
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si rileva il fenomeno del dilavamento, che può trasformarsi da un effetto positivo di pulitura a uno negativo di erosione delle parti superficiali della superficie più esterna della modanatura. Si è inoltre riscontrato che la presenza di una maggiore articolazione in modellato della modanatura, produce un rallentamento dello scorrimento del flusso idrico; se il risalto è netto, esso interrompe le linee di flusso della corrente e si verifica un distacco dalla superficie; se, viceversa, la forma della modanatura accompagna le linee di flusso della corrente, questa vi aderisce ristagnando nei punti in cui l’unione di più modanature formano un compluvio (fig. 10) (Colajanni, Termini, 2002; Colajanni, 2018). Si rileva come l’apertura dei giunti di dilatazione delle lastre della copertina producono un fenomeno di adesione localizzato, perché in corrispondenza della sconnessione si genera un’infiltrazione del flusso idrico che aumenta di velocità ed in alcuni casi produce dei moti vorticosi, che agevolano l’infiltrazione dell’acqua anche al di sotto della copertina stessa. Questa situazione è particolarmente diffusa perché le alte temperature che si raggiungono soprattutto nel periodo estivo a Palermo concorrono alla dilatazione termica dei diversi materiali (Lazzarini, Tabasso, 1986) (lastre di pietra, fogli di rame o piombo, maioliche) che, essendo sigillati con malta, avrebbero bisogno di un continuo controllo e manutenzione. La rottura delle lastre della copertina produce una concentrazione del flusso idrico nei punti di rottura, con il conseguente aumento della velocità di scorrimento dell’acqua (la portata idrica rimane costante ma passa in un tratto più stretto) che, in alcuni punti, raggiunge anche la parte inferiore della modanatura. Questa condizione non è legata alla mancanza di manutenzione, ma al tipo di materiale utilizzato per la realizzazione della parte, infatti, materiali come il laterizio o le maioliche non hanno particolari caratteristiche di resistenza ed è facile che si scheggino e si fratturino. Il gocciolatoio costituisce la parte più importante per l’allontanamento del flusso idrico, perché la scanalatura operata nella lastra della copertina serve per interrompere la continuità del flusso, che così gocciola distaccandosi dalla superficie del materiale. La sua assenza pertanto fa sì che il flusso idrico, pur non raggiungendo velocità di scorrimento molto elevate, produca un’adesione costante
e uniforme, che facilita l’assorbimento lento sul materiale lapideo e quindi la formazione di degradi anche interni alla pietra. L’evento si manifesta, in genere, in concomitanza con il lento scorrimento del fluido che, però, non è sempre legato al non corretto funzionamento del sistema di allontanamento delle acque meteoriche ma che, nella maggior parte dei casi, è determinato dalla forma della modanatura (Colajanni, 2018). Salvaguardia e valorizzazione, per un recupero compatibile Come spesso accade nelle fasi di conoscenza tecnologica, l’acquisizione di informazioni dirette o sperimentali deve essere ritenuta ‘intervento’ tanto quanto i processi ideativo-operativi che permettono – nel recupero edilizio o nel restauro – di progettare ed intervenire sul patrimonio architettonico esistente. ‘Conoscere per intervenire’ diventa un motto, un precetto, una istanza inderogabile. Rispetto alle fasi costruttive originarie e alla stratificazione di interventi sedimentati, la riabilitazione funzionale o statica costituiscono un passaggio di testimone all’interno dell’iter progettuale e per il progetto. Questo è il virtuoso processo da intraprendere e quando si può disporre di linee guida o strumenti bibliografici, quali i numerosi ‘codici di pratica’ di centri storici di città italiane pubblicati negli ultimi decenni (Addleson, 1992; Giuffrè et al., 1993; Marconi, 1997), utili ad avanzare senza dubbi o incertezze, nella capacità e versatilità di essi di mettere a sistema le conoscenze, dal sapere più antico alle conoscenze sperimentali più avanzate, con uno sguardo sia allargato che puntuale al problema, sicuramente la strada da percorrere per studiosi e progettisti risulta ben tracciata e più facile. A partire dalle cause individuate, è possibile prevedere differenti livelli di intervento (Rocchi, 1991; Zevi, 2007), in relazione all’adesione dell’acqua alla modanatura e alla presenza o meno del sistema di allontanamento delle acque meteoriche. Si possono ipotizzare le seguenti azioni di intervento su un cornicione, per un recupero compatibile, utili al miglioramento del sistema di smaltimento delle acque meteoriche e dunque alla salvaguardia dell’elemento tecnico: - realizzare un efficace sistema di smaltimento, per quei casi che non ne sono stati dotati sin dall’origine; - intervenire, modificando in tutto o in parte il sistema di smaltimento, e quindi la configurazione funzionale dell’elemento, in modo tale che sia la sua forma stessa a preservarlo da possibili manifestazioni patologiche, agendo, quando presente, sull’inclinazione dell’acquatura sotto la copertina, per evitare ristagni e colature da dilavamento; - eseguire modesti interventi su alcuni elementi del cornicione per migliorarne le prestazioni, secondo soluzioni più adatte all’allontanamento dell’acqua, quali la realizzazione di un rompigoccia qualora non sia presente, l’aumento della sporgenza della copertina, inserimento di uno strato di tenuta all’acqua, il rivestimento parietale all’attacco del cornicione al muretto d’attico (se presente) ecc.; - agire periodicamente con azioni manutentive che lascino immutate le condizioni morfologiche, riparando o sostituendo solamente quelle parti, in particolar modo copertina e giunti, che si sono deteriorati per effetto del tempo, lasciando, quindi, invariato l’apparato decorativo. Queste indicazioni generali di intervento possono fornire possibili soluzioni in relazione alle differenti situazioni, spaziando dalla semplice manutenzione fino al caso della totale trasformazione del sistema di convogliamento/allontanamento delle acque meteoriche.
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Tiziana Campisi Simona Colajanni Fig. 10 Tavola sinottica di valutazione delle cause che producono efflorescenze, croste e soluzioni di continuità, disconnessioni, fratture, ecc., rispetto alla modanatura delle cornici (Simona Colajanni, 2018).
Ciò permette di stabilire l’incidenza dei fenomeni di degrado per poter proporre soluzioni di intervento possibili, per l’intero sistema tecnologico che per parti di esso, o ancora per quegli elementi non direttamente interessati da manifestazioni di degrado ma che producono effetti indotti. Acknowledgment This research supports the Smart Rehabilitation 3.0- Innovating Professional Skills for Existing Building Sector project, co-funded by the EU Erasmus+ Program, Key Action 2: Strategic Partnership for Higher Education (2019-1-ES01-KA203-065657), T. Campisi (contact person and scientific supervisor) and S. Colajanni are part of the staff for University of Palermo. (www.smart-rehabilitation.eu; Instagram profile: @ smart_rehabilitation)
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Studi preliminari per la ricostruzione virtuale della chiesa tardo cinquecentesca della Certosa di Serra San Bruno Brunella Canonaco
Dipartimento di ingegneria Civile, Università della Calabria.
Giuseppe Fortunato Brunella Canonaco Giuseppe Fortunato Michele Pietro Pio Gerace
Dipartimento di ingegneria Civile, Università della Calabria.
La prodigalità di Ruggiero aveva, anche, un significato politico. Era finalizzata da una parte a incentivare un razionale sfruttamento dei suoi possedimenti e dall’altra a rivolgere attenzione al ruolo svolto sul territorio dai centri abbaziali e ai consolidati rapporti tra Bruno e la Santa Sede, utili a superare gli iniziali conflitti tra i normanni e il papato. 2 La parte più orientale dei territori donati a S. Bruno corrispondeva all’attuale piano della Lacina, dove sono situati “i ruderi di quel castellum erroneamente identificato con il castello posto sulla sommità del monte Consolino che sovrasta l’abitato di Stilo denominato Castello della Baronessa, (dove la Baronessa non è altro che la Certosa)” (Principe, 1990, p. 233). 1
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Michele Pietro Pio Gerace
Dipartimento di ingegneria Civile, Università della Calabria.
Abstract The essay explores the construction aspects of cornices that, from elements of protection, they can also become elements of degradation and instability due to their shape. We would analyse formal and material values of a cornice: it presents complex characters and summarizes problems deriving from construction requirements of building envelope, due to the double value of ornamentation (crowning of building) and functional component (removal system of meteoric water from façade). This study suggests a repertoire of “rules of art”: deriving from treatises and manuals and constituting points of reference for historical construction. We would indicate the main degradations that the shape of cornice can produce on façade, supported by an experimental study conducted at the University, through an experimental model, according to the most recurrent forms of cornices founded in the historical center of Palermo, comparing the obtained data with the pathologies identified by the rule UNI11182/2006. This study wants to provide specific indications that allow the technical element to be brought back to a configuration compatible with its pre-existent characteristics. Keywords Certosa, Serra S. Bruno, architectural survey, 3D modeling, photogrammetry
Cenni storici sul complesso certosino La storia della Certosa di Serra San Bruno è ben nota, nasce a opera di Bruno di Colonia, che già nel 1084 aveva fondato l’istituzione, con la costruzione di un monastero in un’area montuosa di Chartreuse sulle Alpi Francesi in Val d’Isére a nord di Grenoble, simbolo di una vita povera, anacoretica e cenobitica. In seguito, per altrettante vicende conosciute, Bruno riceve in dono da Ruggiero d’Altavilla1 alcuni territori boschivi, in Santa Maria della Torre, tra Arena e Stilo2, ricadenti nelle Serre calabresi dove nel 1091 realizza l’Eremo di Santa Maria e successivamente, nei pressi, sorgerà l’insediamento religioso di S. Stefano del Bosco, che diventerà il primo monastero certosino in Italia. L’identità dell’Ordine trova corrispondenza nell’architettura delle certose, nei caratteri insediativi, tipologici, compositivi, esse sono intese come centri spirituali in cui si pratica la contemplazione in solitudine, la povertà, la vita eremitica.
Fig. 1 Immagine di ciò che resta della chiesa tardocinquecentesca all’interno del complesso certosino.
Il monastero è inteso nella sua composizione formale e funzionale come una città spirituale autosufficiente dove si persegue la preghiera, il lavoro manuale, esso rappresenta perciò il luogo della “contemplazione e dell’azione” (Sisinni, 1988, p. 19), il rifugio dell’anima e nel contempo si carica di un significato di uguaglianza sociale. Mumford, afferma che è “l’attuazione dell’ideale di Aristotele: una società di eguali che aspiravano a vivere nel miglior modo possibile […] Qualunque fosse la confusione del mondo esterno, il monastero era un’isola di serenità e ordine” (Mumford, 2002, p. 319). L’eremo è dunque un modello insediativo complesso, retto da una forma di governo essenziale e severa a cui i religiosi si attestano, regole e Ordine sono rintracciabili nella sua stessa struttura architettonica. Le fabbriche dell’Ordine sono diffusamente costituite da un insieme di edifici aggregati in differenti modi, dovuti essenzialmente alla conformità con il territorio su cui sorgono e influenzati dalle caratteristiche morfologiche e orografiche del luogo.
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Brunella Canonaco Giuseppe Fortunato Michele Pietro Pio Gerace Il primo ambiente è detto Ave Maria, un’anticamera intesa come stanza di lavoro, il secondo è il cubicolo destinato alla preghiera, al riposo e al pranzo.
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La composizione della Certosa a Chatreuse, infatti, derivò dall’aderenza al sito montuoso che condizionò la struttura formale e funzionale dell’organismo, diviso per questo in due parti altimetricamente separate, la domus superior che costituiva il nucleo principale della Certosa e la domus inferior o correria dove dimoravano i conversi, distanziata dal monastero vero e proprio. L’impianto tipologico della fabbrica religiosa è più o meno costante, con alcune mutazioni relative al luogo ma che manifestano comunque i caratteri di identità dell’Ordine, presenta alcuni elementi costitutivi ripetibili: il grande chiostro, fulcro del sistema su cui si affacciano le celle dei religiosi, le cui porte, a intervalli regolari, sono prospicienti i lunghi corridoi dello spazio scoperto, nel chiostro può trovare collocazione il cimitero; uno spazio a cielo aperto di dimensioni minori con differenti edifici destinati alla vita associata, la chiesa ad un’unica navata in muratura. La corte segna il momento di raccordo tra le celle e gli spazi dedicati alla vita comunitaria. Questo tipo di impianto permette ai religiosi di condurre una vita eremitica nei propri ambienti, intervallata da episodi di cenobitismo. Le celle rimandano alla tradizione camaldolese e rappresentano il fondamento della Certosa, sia nella concezione ideale e simbolica sia nella composizione architettonica. Sono pensate per garantire la preghiera in solitudine e si presentano come unità indipendenti le une dalle altre. La cella è costituita da più ambienti3 ed è dotata di orto. I sistemi complessi in origine si presentavano cintati con una palizzata in legno che con il tempo divenne una protezione in muratura, spesso dotata di torri di avvistamento. Nella struttura bruniana si ritrovano molti di questi caratteri invarianti. Con molta probabilità il primitivo insediamento era costituito da strutture lignee, a Serra San Bruno come a Chatreuse. Esigue sono le notizie circa l’impianto originario, gli scavi condotti tra il 1968 e il 1973, voluti dal Priore del tempo Willibrord Pijnemburg non hanno prodotto grandi esiti anche se hanno attestato la presenza di fondazioni di epoca normanna (Puntieri, 2009, p. 593). Certo è che la Certosa diventò un feudo ecclesiastico, basato sul lavoro e sullo sfruttamento laborioso del territorio, e i certosini fautori di una nuova politica agraria con attività varie, non a caso l’archeologo F. Cuteri evidenzia come il territorio della Certosa sia il più antico riferimento all’attività mineraria (ferro, rame e altri metalli), svolta in ambito monastico in Calabria (Cuteri, 2012, p. 403). La Certosa assunse sul territorio anche un carattere di slancio urbano, l’abitato di Serra infatti ebbe origine, come spesso accade per monasteri e conventi, intorno alla fabbrica ecclesiale e la popolazione traeva sostentamento dal lavoro dell’Eremo. Dalle ipotesi di ricostruzione effettuate la domus superior doveva essere costituita dalla chiesetta della torre dedicata a Santa Maria, realizzata in pietra e consacrata nell’agosto del 1094 in occasione della festività dell’Assunta. Le celle dei padri trovavano collocazione nel luogo denominato Giardino di Santa Maria o prato di Squillace, mentre a ridosso del fiume Ancinale era sito presumibilmente il cimitero. La domus inferior era posta ad un livello più in basso rispetto all’Eremo di Santa Maria, a circa 2 km di distanza, oltre il ponte di Santo Stefano, nei pressi dell’odierna Certosa. Nella domus inferior, si evidenzia dal manoscritto del certosino Benedetto Tromby vi erano: la chiesa dedicata a Santo Stefano, il chiostro dei padri, la foresteria, i laboratori, il reparto dei conversi e probabilmente il palazzo del conte Ruggero (Tromby,1983, p. 209), infatti nel documento si legge: “un picciolo palazzotto attaccato al medesimo monistero”. Relativamente al palazzo del Normanno, lo studioso Onda
propone una ricostruzione immaginaria della Certosa con lateralmente la casa nobiliare (Onda, 2015 p. 97). Dopo quasi un secolo dalla sua fondazione Celestino III affidò il monastero ai cistercensi di Fossanova, che vi rimasero fino circa a metà del XV secolo. Il ritorno dei certosini, per intercessione presso la Santa Sede di Luigi e Giacomo d’Aragona, avvenne con bolla di Leone X in un periodo compreso tra il 1513-1514 (Bianchini, 2002, p. 730). Successivamente nel 1530 Carlo V confermerà i privilegi ottenuti dal monastero nel tempo, richiedendo la stesura di una Platea (ultimata nel 1534) che quantificasse le proprietà certosine eventualmente sottratte4. Le più significative modificazioni dell’impianto religioso risaliranno all’arco temporale compreso tra il XVI e il XVII secolo ad iniziare dalla riorganizzazione del sistema di protezione con una cinta muraria quadrangolare dotata di quattro torri angolari, successivamente la difesa fu ampliata nel lato sud con un andamento trapezoidale, delimitato da tre torri circolari, al quale fece seguito una ulteriore addizione in età barocca. Alcune di queste torri dovettero essere costruite presumibilmente tra il 1534 e il 1535 mentre quella posta lungo il lato nord-est sembra essere preesistente, di derivazione normanna. Il monastero, dunque, si presentava come un luogo protetto, una città fortificata, nota che si evince da più testimonianze tra cui quella dell’abate Pacichelli che nel 1693 soggiornò nella Certosa descrivendone alcune parti con entusiasmo e dovizia di particolari. Prima del sisma del 1783 che devastò il complesso monastico rendendolo inabitabile, la fabbrica probabilmente, dalle poche fonti iconografiche rinvenute, doveva presentarsi costituita da più parti con il claustrum maior quadrato (circa 80 metri per lato) con annesso il cimitero, circondato dalle venticinque celle dei padri claustrali e altre tre corti di dimensioni minori: il chiostro della foresteria maggiore, il chiostro piccolo, e quello dei padri Procuratori. Il complesso ancora una volta autosufficiente era dotato, oltre alle funzioni religiose, di spazi di servizio e di lavoro per il sostentamento dei padri con la presenza di mulini e forni, cucine, pozzo, granai, depositi per cereali, concerie, stalle, pollai, farmacia5. Sul chiostro dei padri Procuratori, dotato di fontana centrale con figure ermafrodite e terminante con pigna augurale, era prospiciente la chiesa, posta lateralmente a questo ma perpendicolare al muro di cinta e posizionata al centro delle due torri d’avvistamento (Puntieri, 2009, p. 597). L’acquaforte settecentesca a opera di Schiantarelli mostra i tre lati del grande chiostro con la fontana centrale e parte della sommità della fabbrica religiosa di cui si intravedono le gugliette terminali della facciata. Gli studi condotti da Puntieri, evidenziano l’aderenza del portico della Certosa al lessico serliano. Si legge, infatti, nella composizione dell’ordine inferiore, la successione ritmica di archi inframmezzati da colonne binate che accolgono nicchie con al disopra riquadrature, mentre al secondo ordine si raffigurano tra le paraste le aperture rettangolari. Della chiesa tardo cinquecentesca, luogo simbolico della fusione tra vita anacoretica e cenobitica, si evincono notizie dalla visita apostolica del 1629. La chiesa, rappresentava e rappresenta oggi con i suoi superstiti ruderi, una fabbrica architettonicamente significativa con la facciata in granito rinviabile presumibilmente al lessico Michelangiolesco attraverso l’operato dell’allievo Jacopo Del Duca da Cefalù, operante nella città di Messina alla fine del XVI secolo. Nel documento del 1629 relativamente al fronte della chiesa si legge: “…costruita da grandi artisti in modo splendido”. Attualmente del prospetto della chiesa resta la porzione inferiore, scandita in cinque campate da sei paraste che danno vita ad altrettanti cinque parti modulari in cui sono inserite bucature riquadrate ed edicole con timpano (che accoglievano le statue di S. Bruno e S.
4 Nella Platea si evidenzia l’estensione dei possedimenti dei certosini e l’organizzazione di questi in grange, in più, sottolinea Bianchini, dal documento si evincono note su parte del territorio della Calabria Ultra al XVI secolo. 5 La ricostruzione è data dallo studio in sovrapposizione della planimetria dell’ACSSB di autore anonimo, da quella a opera dell’arch. Gritella e dall’analisi della facciata della chiesa di D. Puntieri.
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Brunella Canonaco Giuseppe Fortunato Michele Pietro Pio Gerace Fig. 2 Raffigurazioni del complesso certosino: a) Anonimo, particolare della “Carta topografica della Lega dov’è situata la Real Certosa di S. Stefano del Bosco”,1772-73; b) Anonimo, particolare de “La Certosa di S. Stefano del Bosco e il territorio circostante”, c.1770; c) Anonimo, “Prospetto della Real Certosa di S. Stefano del Bosco, XVII sec.; d) Anonimo, “Chartreuse de Saint-Etienne et Saint Bruno”, XIX sec.; A. Zaballi su disegno di P. Schiantarelli, particolare de “Rouine della Certosa di S. Bruno”, 1784.
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Stefano) alternate tra loro. La fascia centrale accoglie il portale d’ingresso anch’esso sormontato da timpano. In accordo con D. Puntieri si evidenziano anche sulla facciata della chiesa le regole serliane sulla riduzione degli ordini superiori, e a questo proposito lo stesso studioso redige una significativa ricostruzione grafica dell’intera facciata. Nella stratificata storia della Certosa il terremoto del 1783, causò sul monastero ingenti danni, mentre i consistenti beni del feudo furono espropriati. Lo stato in cui versava la Certosa dopo il sisma si evince da alcune descrizioni tra cui quella dettagliata di Sarconi il quale nel 1784 documenta i danni subiti dal perimetro di clausura, dalle torri d’avvistamento, dalla cupola, dal campanile, dal chiostro dei Procuratori, dei conversi, dalla chiesa e ancora dalla foresteria, dalla spezieria, dalle officine, e da tutte le fabbriche costruite nel XVI secolo “…ove affatto ruinate, oltre altamente magagnate e ove discretamente lese”. Dalle ipotesi avanzate sulle permanenze dopo l’evento tellurico, si possono presupporre, oltre alla presenza dei ruderi della chiesa e della navata centrale, tracce del chiostro dei Procuratori, del capitolo, parti del Priorato e del relativo giardino, parti del refettorio, tracce del corridoio del chiostro maggiore e resti del tracciato difensivo. L’opera di ricostruzione fu portata avanti con estrema lentezza, iniziò tra il 1888 e il 1899, su progetto preliminare dell’architetto certosino F. Pichat. Il progetto prevedeva la costruzione di nuovo chiostro inserito nel perimetro originario ma di dimensioni minori, la demolizione e ricostruzione della chiesa costruita nel 1856 da Nabantino, il restauro del refettorio, della sala del capitolo e del quarto Priorale, la costruzione di una torre campanaria. Nel 1894 l’impianto religioso è quasi ultimato. Il chiostro dei Procuratori viene liberato dalle macerie e si demoliscono i muri a rudere delle celle posteriori e del corridoio perimetrale. Le più significative modificazioni interessarono la ricostruzione del grande chiostro e delle celle claustrali conferendo alla Certosa l’aspetto monumentale tuttora visibile. A partire dal 1993 verrà realizzato il museo che rappresenta, per la comunità laica, una porta sulla vita della Certosa.
Le principali fonti scritte ed iconografiche sulla chiesa tardo cinquecentesca Le fonti documentarie sulla architettura della Certosa si presentano frammentarie e lacunose ed ancor più rare sono le raffigurazioni che descrivono lo stato dei luoghi e le sue evoluzioni negli anni. Nonostante il progetto di ricostruzione della Certosa ricominci, con il reinsediamento della comunità certosina nei primi del ‘500, bisogna arrivare al XVII secolo per avere la prima raffigurazione del complesso religioso; altre apparterranno soprattutto alla fine del ‘700, anni in cui aveva raggiunto il suo apogeo prima del suo brusco arresto a seguito del terremoto del 1783. Ci riferiamo ad alcune incisioni raccolte nell’opera, redatta in più volumi, del certosino B. Tromby. La carta topografica della Lega che il Conte Ruggiero dona a S. Bruno, è arricchita da una rappresentazione ‘assonometrica’ (fig. 2, a) più attenta ad illustrare gli assetti distributivi del complesso piuttosto che alla cura dei caratteri architettonici che la compongono. Stesse considerazioni nel disegno anonimo presente nel volume IV dell’opera (fig. 2, b, particolare) in cui le attenzioni sono riservate al territorio attorno alla Certosa ed alle sue dipendenze, piuttosto che alla descrizione fedele delle fabbriche presenti. Le architetture illustrate nella ‘prospettiva’6 dall’alto dell’incisione seicentesca di un anonimo (fig. 2, c), anch’essa avente poca attinenza con la situazione reale, verranno riproposte molto similmente nella veduta assonometrica (fig. 2, d) il cui autore si è limitato a riprodurre la stessa descrizione cambiandone solamente il tipo di proiezione. Un riferimento più attendibile è la veduta (fig. 2, e) del 1784 che mostra il complesso ormai diroccato, con parte del tamburo ancora in piedi, dove possiamo leggerne il profilo poligonale e l’altezza della cornice d’imposta della cupola. Purtroppo non si conoscono vedute interne della chiesa. Per avere una sua descrizione bisogna far riferimento alla relazione della Visita Apostolica curata da mons. A. Perbenedetti il quale, su mandato del 1629 da parte della Sacra Congregazione (De Leo, 2017) che operava sotto il pontificato di Urbano VIII, si reca alla Certosa per documentare lo stato del complesso e delle sue dipendenze, (Calabretta, 2017, pp 13-14). Il documento, è l’unico pervenutoci in cui si riporta, tra le altre cose, una descrizione puntuale della chiesa e dei locali annessi. Descrive un impianto a croce latina, a navata unica e con coperture voltate. Una serie di possenti pilastri cruciformi sormontati da archi a tutto sesto, quattro per lato, dividono l’aula dalle cappelle laterali. Su di un lato accolgono gli altari dedicati all’Immacolata Concezione, a S. Francesco di Paola, a S. Bruno e a S. Marco mentre, sul lato opposto, troviamo gli altari dedicati a Sant’Anna, S. Maria Maddalena, alla B. V. Maria e a S. Francesco di Assisi. Delle transenne lignee delimitano il loro accesso diretto dalla navata, consentito invece da aperture comunicanti tra cappelle adiacenti ed infine con i bracci del transetto, che accolgono, opposti tra loro, l’altare di S. Bruno e quello di S. Stefano. La fabbrica era dotata di una imponente cupola che svettava all’incrocio tra la navata principale e il transetto, affrescata internamente e rivestita all’esterno con lastre di piombo. I possenti piloni che ne sorreggevano il tamburo, presentavano quattro nicchie dove trovavano posto le pregevoli statue marmoree delle B. V. Maria, di S. Giovanni Battista, di S. Stefano e di S. Bruno, oggi custodite presso la Chiesa Madre di Serra S. Bruno. Le figure di quattro evangelisti decoravano, infine, i pennacchi sferici. Perbenedetti descrive brevemente l’altare maggiore, collocato al margine della campata, che consentiva anche la celebrazione delle funzioni nel coro retrostante dal quale si aveva accesso tramite due portali marmorei collocati ai lati dell’altare stesso e sopra di essi, le statue della B. V. Maria e di S. Gabriele Arcangelo. La macchina dell’altare, mira-
Tali rappresentazioni prospettiche, così come quelle assonometriche, non rispondono ancora a regole codificate ma piuttosto a rappresentazioni intuitive.
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Brunella Canonaco Giuseppe Fortunato Michele Pietro Pio Gerace Fig. 3 In alto i ruderi della navata centrale prima dello smantellamento (1893) ed in fondo, oltre la zona presbiteriale, la chiesa dei Fratelli in fase di ultimazione. In basso, vista del lato meridionale dei ruderi durante le fasi di demolizione (1898). Fig. 4 Anonimo, pianta ricostruttiva del complesso religioso raffigurante lo stato dei luoghi anteriori al 1893, alcuni realizzati e altri di progetto non eseguiti.
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colosamente risparmiato dal crollo della fabbrica, è stata smontata dalla sua sede a fine ‘800 e rimontata nella chiesa della Confraternita dell’Addolorata a Serra S. Bruno (Gritella,1991, p. 79), ancora presente. La struttura e la composizione dell’altare, commissionate a Fanzago, è tipica dei cibori certosini, segno di riconoscibilità dell’Ordine (Spiriti, 2009 p. 392). Nella stessa chiesa sono stati rimontati i due altari, originariamente collocati nelle testate del transetto della chiesa della Certosa. Oltre questi, per la sua realizzazione, sono stati adoperati numerosi elementi provenienti dai ruderi del monastero e tra questi ricordiamo il pavimento, riadattato con le tessere marmoree rosse, bianche e nere. Lo stato precario del monastero conseguente ai danni del terremoto del 1783 e il suo abbandono nel 1807, con la soppressione degli ordini religiosi, hanno purtroppo portato alla disgregazione e alla dispersione del materiale librario e documentario, solo in minima parte rientrato in Certosa. Da lì in poi il monastero sarà utilizzato come cava per l’edilizia privata e cultuale del territorio serrese; alcuni pezzi erratici sono riconoscibili e documentati. Dopo un lungo periodo di espoliazione ai danni della chiesa, arriva, nel 1897 (Gritella,1991, p. 121), la decisione del priore di Grenoble di demolire completamente quel che rimane dell’antica chiesa (fig. 3) ad eccezione della facciata e delle sole arcate interne ad essa collegate per non comprometterne la stabilità. La grave decisione fu assunta per consentire il proseguimento dei lavori di ricostruzione della Certosa avviati nel 1888, su progetto dell’architetto dell’Ordine F. Pichat, forte promotore di questa scelta. Quel che restava della Certosa è documentato dalle preziose lastre fotografiche conservate nell’archivio certosino, scattate in più fasi durante lavori di demolizione condotti tra marzo e aprile del 1898. La chiesa aveva già perso le sue cappelle laterali, i bracci del transetto ed il coro a seguito dei lavori di ricostruzione ripresi a partire dal 1856 da D. V. Nabatino, Vicario della Certosa di S. Martino a Napoli e poi Priore della Certosa di Serra S. Bruno. Per avere un’idea degli ambienti già demoliti allora, bisogna far riferimento ad uno schema planimetrico del 1904 che mostra l’organizzazione degli spazi della chiesa e degli ambienti adiacenti. Lo schema è completato da una legenda che comprende tre elenchi numerati che identificano lo stato dei luoghi prima del 1893; le opere realizzate su progetto di Nabatino riprendono gli ambienti elencati nell’incisione del Tromby (fig. 2, c). Lo schema verrà successivamente messo
in pulito in una nuova pianta ricostruttiva del monastero (fig. 4) che metterà assieme le fabbriche esistenti, quelle dedotte dalle descrizioni del Tromby e quelle del primo progetto di Pichat, successivamente modificato. La campagna di rilevamento dei ruderi della chiesa cinquecentesca e prime riflessioni per una ricostruzione virtuale della fabbrica prima del suo crollo Come noto, se la conoscenza di un’opera architettonica non può prescindere dalla esplorazione e dalla lettura critica delle sue fonti documentarie non può nemmeno fondarsi su rilievi imprecisi o lacunosi. Ogni attività di rilevamento è legata ad una serie di operazioni soggettive tramite le quali il rilevatore risponde, con operazioni grafiche mirate (allineamenti, sintesi/enfatizzazione dei segni grafici, parzializzazione dei temi, …), alle sollecitazioni promosse dall’opera e alle finalità per cui sono state condotte. Col disegno il rilevatore prende posizione rispetto alla realtà dell’opera, la interroga e la discretizza. Col rilievo si cercano le logiche formali, materiali e funzionali di un’opera architettonica e mentre si disegna si sperimenta e si crea un contesto di stimoli e di attenzioni capaci di evocare interrogativi e soluzioni non prefigurati all’inizio del processo di conoscenza. Il risultato di un rilievo è sempre una interpretazione del suo autore, condizionata dal suo bagaglio culturale, dagli strumenti a sua disposizione, dai condizionamenti indotti dalla tecnica. Per tali ragioni si è ritenuto indispensabile condurre una nuova campagna di rilevamento finalizzata ad ottenere un modello tridimensionale molto accurato da cui trarre informazioni utili per la comprensione dell’opera e per pianificare le azioni future (fig. 5). Il rilievo è stato condotto cercando di sfruttare al meglio le offerte dalla fotogrammetria digitale ed ha consentito di fare esplorazioni tridimensionali dell’opera e di analizzarne meglio la forma e le sue logiche compositive (fig. 6). Il passo successivo è stato quello di costruire un modello 3D di alcune parti della fabbrica non più esistenti, il più possibile coerente con le fonti fin qui studiate. La costruzione del modello tridimensionale, si sottolinea, è stata un importante strumento cognitivo per le continue questioni che ha stimolato nella ricerca delle sue generatrici, delle logiche compositive e della sua coerenza formale e strutturale. Per la sua realizzazione ci si è avvalsi soprattutto dello studio meticoloso delle lastre di fine ‘800. Con l’applicazione delle regole della prospettiva inversa, tenute conto di alcune deformazioni delle foto, e col continuo confronto con le parti rilevate, si sono potute ricostruire alcune parti crollate ed avanzare nuove ipotesi sulle parti non ancora documentate. La tipologia della copertura dell’aula, ad esempio, è stata proposta analizzando alcuni suoi attacchi che hanno portato alcuni studiosi precedenti a considerarla come voltata a crociera. Seppur non supportate da documenti del periodo7, l’analisi della curvatura dell’elemento di attacco della volta con la controfacciata, che effettivamente può indurre a pensare ad una crociera (indicata in rosso nella sezione longitudinale in fig. 7), porta invece a supporre ad un’altra tipologia di copertura. L’attendibilità delle misure 3D ha consentito di risalire alle geometrie di progetto e ad ipotizzare una copertura con volta a botte e lunette sferoidiche. La pianta e la sezione ottenute presentano un progetto molto simile a quello che si stava edificando a Roma nello stesso periodo per la chiesa di S. Andrea della Valle. Quest’ultima ha in comune con la chiesa della Certosa alcune soluzioni progettuali riconducibili al progetto della chiesa del Gesù a Roma, commissionato nel 1554. Per la ricostruzione della parte crollata della facciata si è fatto riferimento alla soluzione proposta da D. Puntieri che ravvisa, proprio in quest’ultima, diversi punti di tangenza con
Fig. 5 Il flusso di lavoro eseguito per la ricostruzione del modello virtuale.
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Brunella Canonaco Giuseppe Fortunato Michele Pietro Pio Gerace Fig. 6 Alcuni elaborati eseguiti per il rilievo dello stato di fatto dei ruderi della chiesa cinquecentesca dedotte da nuvole di punti ottenute con tecnica fotogrammetrica. L’attendibilità delle misure ha fornito un importante contributo alle ipotesi di ricostruzione. Gli elaborati sono stati realizzati da M. P. P. Gerace e coordinati da G. Fortunato. Fig. 7 Ipotesi ricostruttiva, in fase di completamento, della chiesa cinquecentesca basata principalmente sull’analisi delle lastre di fine ‘800 e sui risultati del rilievo digitale; la facciata è stata ricostruita seguendo le ipotesi di D. Puntieri. Le soluzioni architettoniche che ne derivano presentano forti analogie con la chiesa di S. Andrea della Valle realizzata a Roma negli stessi periodi. Gli elaborati sono stati realizzati da G. Fortunato e da M. P. P. Gerace.
7 Perbenedetti, nella Visita Apostolica si limita a dire che era tutta voltata, “fornax tota contegitur” (De Leo, 2017, p. 9).
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la chiesa certosina. Il rilievo ha visto anche la modellazione della statua di S. Bruno, oggi custodita nel museo, per ricollocarla virtualmente nella nicchia originaria della facciata. I risultati finora ottenuti sono riassunti in fig. 7. Gli studi proseguono con il rilievo delle parti dislocate per una loro ricomposizione all’interno del modello tridimensionale, per arrivare a restituire l’immagine della chiesa prima del suo crollo. Conclusioni Il rilievo dei ruderi della chiesa cinquecentesca ottenuto con tecnica fotogrammetrica ha restituito un modello attendibile sia dal punto di vista metrico che morfologico ed ha consentito una lettura più fedele delle parti che la compongono suggerendo, al contempo, alcune soluzioni per la ricostruzione delle parti non più esistenti. Il contributo pone le basi per la ricostruzione virtuale del monumento il cui modello viene impiegato, oltre che per la sua valenza comunicativa, anche per la sua valenza significativa nella formazione delle strategie per la ricostruzione del progetto architettonico originario. Tale modello, ancora in via di definizione, offre inoltre la possibilità di operare una anastilosi virtuale, tramite la quale è possibile individuare e/o verificare l’appartenenza al monumento delle parti smembrate per ricollocarle virtualmente nella loro posizione originaria. *Si ringrazia la Comunità Certosina e il Priore don Ignazio Iannizzotto per la disponibilità offerta nella ricerca delle fonti e per il consenso ad effettuare le riprese sul campo.
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L’importanza della ricerca d’archivio per un’analisi dello stato di fatto degli edifici storici e delle cause dei fenomeni di degrado: il caso dell’anfiteatro romano di Catania Santi Maria Cascone Santi Maria Cascone Lucrezia Longhitano
Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura, Università degli Studi di Catania.
Lucrezia Longhitano
Dottoressa in archeologia, Università degli Studi di Catania.
Abstract The imperial roman amphitheatre of Catania nowadays located in the Square Stesicoro, for the most part of its extension is incorporated by buildings constructed during medieval times and after the earthquake of 1693, that destroyed the city. This particular stratification has created a lot of problems related to the static character and the conservation of the monuments needed for a broad multidisciplinary survey overview which includes different fronts of analysis: historical, archaeological, diagnostic, plant engineering, urban planning and static. Among the various areas of investigation, with this contribution is presented the study of the archival documentation. This is an important means of study that allows us to expand our knowledge and to add informations about the conditions of the amphitheatre the relationship between the amphitheatre and the urban and the history of problems that today we must tackle. This study is a piece to add to the research to ensure a solid knowledge base on which any restoration project must be based. Keywords Archeology- archives- urban stratification- diagnostics
Introduzione al caso studio L’anfiteatro romano di Catania giace inglobato dalla stratificazione urbana postuma al sisma del 1693 nell’area dell’attuale piazza Stesicoro. Di 56 settori ne restano oggi 22 divisi tra un’area aperta allestita nel 1906 presso la piazza ed un’altra ipogea, inglobata da strutture di varie epoche. Quest’ultima area accusa i problemi dati dall’anomala posizione e che sono sia strutturali, essendo i ruderi usati come sostruzioni, che conservativi dati i degradi da infiltrazione. La godibilità dell’area è da anni compromessa e per ovviare all’aggravio e disporre azioni manutentive, si rende d’obbligo un rilievo della struttura e dell’urbano che vi grava con approcci multidisciplinari. Bisognerebbe indagare le condizioni e le cause dei degradi con mirate analisi ambientali e materiche, monitoraggi e studi di tipo storico- archeologico per capire le fasi di vita, le trasformazioni, i possibili restauri senza eludere lo studio del rapporto nel tempo tra
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Fig.1 Inquadramento (da Google Earth).
l’anfiteatro e l’urbano che vi grava, cogliendo di quest’ultimo l’evoluzione e i sistemi impiantistici, oggi cause concorrenti ai problemi. Qualsiasi intervento è inerte se non retto da questa base di studi ed è importante andare a ritroso e capire come le cause si siano evolute nei secoli senza astrarre, oltre allo studio diretto dell’edificio, lo studio della documentazione. Inquadramento scoperta e scavi Quel che rimane dell’anfiteatro di Catania, datato al I e II secolo, giace sotto della settecentesca piazza Stesicoro, un’area ai piedi della collina di Montevergine, che costituiva, in epoca romana, il limite settentrionale della città lambito dalle mura. Sebbene, a partire dall’XI secolo, il fulcro religioso-politico della città si spostò a Sud con la costruzione della Cattedrale, l’area rimase d’interesse data la presenza della chiesa di S. Agata la Vetere. L’attuale impianto che inglobò i resti dell’anfiteatro e delle mura si deve alla ricostruzione diretta dal duca di Camastra G. Lanza all’indomani del sisma del 1693 e si inquadra tra la via dei Cappuccini a Nord, le vie Penninello e Cerami a Sud, la via Alessandro Manzoni ad Est e la via Gallo ad Ovest (fig.1). Non è chiaro se la zona fu pianificata, è più probabile che quanto oggi vediamo si costituì naturalmente come risulta della crescita urbana (Dato, 1983, pp. 37-44). Di certo, però, rimase un punto nodale tra intra moenia ed extra moenia. Agli inizi del XVIII secolo, la città si espanse oltre i limiti murari ormai abbattuti dal sisma e l’interesse all’area crebbe. Il ceto nobiliare per primo incentivò la costruzione di palazzi (palazzi della Borsa, Tezzano, del Toscano e la villa Cerami1) ma agì anche l’ordine dei Benedettini facendo ricostruire la chiesa di S. Agata la Vetere ed ex novo le chiese di S. Agata al Carcere e di S. Biagio (o S. Agata la Fornace) sfruttando i bastioni delle mura cinquecentesche e le volte dell’anfiteatro (Cantone, 1964, pp. 79-120). La liberazione delle parti superstiti di quest’ultimo fu graduale ed iniziò dall’area ad Ovest sino a quella visibile dalla piazza (fig.2). Durante le prime liberazioni fatte da Ignazio Pa-
La villa, inizialmente era semplici “casaleni” costruiti sfruttando parti dell’anfiteatro e delle mura, venne acquistata dai principi di Cerami intorno al 1720 (cfr. Cosentini 1993); dal 1957 divenne sede del Dipartimento Seminario Giuridico dell’Università di Catania ex facoltà di Giurisprudenza.
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Santi Maria Cascone Lucrezia Longhitano Fig.2 Mappatura, sulla base dei dati storici, delle parti liberate dell’anfiteatro nel corso del tempo (rielaborazione grafica a cura di L. Longhitano tratta da Beste, Becker, Spigo 2007, p. 600)
Negli anni 70 e 80 si documentano restauri e consolidamenti nell’area sotto la villa Cerami, costruita sulle arcate dell’anfiteatro; nel 1996 si svolse una campagna di studi interdisciplinari, con scavi, sondaggi geognostici e puntellamenti; nel 1997 in via Penninello, a seguito di lavori, affiorarono parti che indussero nuove indagini favorendo l’apposizione del vincolo di tutela; al 2006 risalgono gli ultimi interventi e studi.
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ternò Castello V principe di Biscari (1748 e 1768); si scoprirono parti del corridoio esterno e del fronte verso la collina di Montevergine. Nel 1841 sotto la direzione di F. Saverio Cavallari e D. Lo Faso Pietrasanta, si fecero saggi per collegare gli ambulacri, raggiungendo gli ingressi all’arena. Seguirono, nel 1875, ritrovamenti fortuiti sotto le case in via Penninello. Agli inizi del XX secolo si ebbe la quarta fase di scavi ad opera di Filadelfo Fichera che riguardò la cavea ed il podio (Fichera 1904, pp. 119-121; Fichera 1905, pp. 66-72). Per tutto il XX secolo fino al 2006 l’edificio subì interventi2 e scavi ma non si aggiunsero nuove parti (Sciuto Patti, 1913; Gentili, 1950; Branciforti, 1987, Giordano 2002; Sposito, 2003; Beste, et al., 2007). La ricerca archivistica La condizione che si mostra oggi risulta ardua da indagare essendo l’anfiteatro ormai un sistema di parti in condizioni eterogenee e soggette ad articolate stratificazioni. Data tale situazione, da anni si sono avviati progetti per valorizzare e assicurare la parte ipogea (Sposito, 2003; Amara, 2016; Malfitana, et al., 2018; Malfitana, Mazzaglia, 2018). Con il presente contributo si mira ad esporre una fase di indagine che riguardante le fonti archivistiche relative ai beni storico artistici della città di Catania ed in specie all’anfiteatro. La ricerca si è svolta nell’intento di ampliare il quadro delle condizioni e delle vicende nei secoli, dimostrando come i problemi che oggi dobbiamo affrontare hanno una lunga storia. I documenti presi in esame fanno capo soprattutto alla sezione dell’Intendenza Borbonica e della Prefettura di Catania, presso l’Archivio di Stato di Catania, e si datano dagli inizi del XIX secolo, momento in cui la città, ma in generale la Sicilia, oltre ad essere oggetto di riorganizzazione amministrativa, vede disporre nuovi sistemi di control-
Fig.3 Ipotesi di identificazione delle aree dell’anfiteatro oggetto di scarichi e infiltrazioni citate nelle fonti d’archivio (rielaborazione grafica a cura di L. Longhitano tratta da Beste, Becker e Spigo 2007, p. 607).
lo delle antichità. A partire dal 1827 si istituì una Commissione di Antichità e Belle arti di Sicilia, per centralizzare un sistema di tutela gestito dal 1778 in modo slegato da Regi Custodi che in autonomia facevano scavi e restauri; dal 1830 ca. si aggiunsero delle Commissioni locali, nonché organi collegiali. Per Catania, in specie, dal 1829 si istituì una Deputazione delle antichità che accertasse lo stato dei monumenti Catanesi ritenuti molto deturpati (Oteri 2002, pp.49-55). Dal XIX secolo, dunque, si ebbe più interesse al controllo ed alla cura dei beni a cui seguirono scambi tra i poteri centrali e gli organi locali. Maggiori informazioni sui monumenti catanesi, infatti, si colgono da lettere tra vari organi quali: l’Intendenza del Vallo di Catania, il Patrizio di Catania, il Commissariato di Polizia e la Deputazione delle Antichità di Catania, oltreché dagli atti delle sedute di tale Deputazione. Informazioni e dati ricavati attraverso la ricerca d’archivio Il tema dei danni che l’anfiteatro di Catania subisce a causa dell’urbano soprastante è un tema che caratterizza la vita dell’edificio già da molti secoli. I problemi si palesano già nel XIX secolo3 e sono imputabili alle infiltrazioni, all’uso come discarica ed alla mancanza di una rete fognaria che smaltisca le acque piovane che scorrendo dal livello stradale settecentesco ristagnano negli ambulacri sottostanti. La più antica notifica si data al 1832, quando il custode sollecita l’intervento delle autorità contro una serie di problemi dati dall’uso dell’anfiteatro come immondezzaio dagli edifici costruiti sopra e attorno. In particolare, si denuncia che i sacrestani della chiesa di S. Agata al Carcere (costruita nei pressi dell’area occidentale dell’anfiteatro) disfacevano di continuo immondizie4 nei “luoghi delle antichità”, così come usavano fare le botteghe. Si cita quella del mastro C. Pulvirenti, dalla quale si gettavano acque presso l’ambulacro interno (Intendenza, Busta 643, cc. 695-696). Non è chiaro però, ad oggi, dove si collocasse tale attività, dato questo utile per capire quale punto specifico dell’ambula-
Dagli atti del 1830 apprendiamo che i resti dell’anfiteatro a quel tempo erano “ruderi, corridoi, cavee e parte di portico” (Intendenza, busta 643, cc. 587).
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Santi Maria Cascone Lucrezia Longhitano 4 La stessa situazione si documenta, in una lettera del 1878 dell’Ispettore degli scavi e monumenti, anche nel teatro, segnalando in una volta la presenza di aperture usate come scarichi (Catania 5 dicembre 1878, Archivio della Prefettura elenco 14, busta 258, fascicolo 8). 5 Si ricordano: La parrocchia di S. Agata al Carcere, la settecentesca villa Cerami, le case del professore Ardizzone, etc. 6 Dal 1875 si avviò la riforma accentratrice del Ministro R. Bonghi. La Sicilia viene divisa in tre aree archeologiche, la Commissione di Antichità e Belle Arti esistente viene soppiantata da un Regio Commissariato Speciale per gli Scavi e Musei del Regno con sede sempre a Palermo, le Commissioni locali si sciolsero e sostituiscono con nuove Commissioni consultive conservatrici; solo l’organo centrale, però, aveva competenze sui monumenti archeologici più antichi e sugli scavi, comportando un forte accentramento e problemi operativi (Regio decreto del 1876).
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cro risentisse degli scarichi; se ne indicano, comunque, in pianta le aree forse coinvolte in quanto sopra si trovavano casupole o botteghe (fig. 3). Pochi anni dopo, sempre il custode scrisse all’Intendente per denunciare come nell’anfiteatro vi fossero inconvenienti dati da caduta di acqua ed altre sporcizie stavolta dal giardino di proprietà del Sig. Cappellano Cosentino. Si sollecita ad agire visto che la situazione danneggiava non solo all’anfiteatro ma anche ai visitatori (Intendenza, busta 643). Il 13 febbraio 1844 l’architetto Mario Musumeci, chiamato a fare lavori d’urgenza negli antichi edifici, informò in una relazione che la più astrusa questione da gestire per l’anfiteatro continuava ad essere il legame con il piano stradale sovrastante. Per fronteggiarla, l’architetto suggerì di costruire muri di ostruzione (Intendenza, busta 643, cc. 678-683) ma i problemi non si arrestarono. Si segnano, infatti, nella stima dei lavori per i restauri datata al 1854 (Intendenza, busta 643, cc. 554) si documenta come sulla volta lesionata dell’ambulacro esterno si hanno continui trapelamenti di acqua dal giardino appartenente al principe di Cerami. Stessi guai compaiono anche nella volta dell’ambulacro interno sita sotto le case del signor Carlo Ardizzone a causa dell’acqua corrente di uso delle stesse. Come interventi, si consiglia di deviare l’acqua sistemando l’acquedotto e di spostare il materiale caduto in un altro vano murandolo con pietrame a secco. Purtroppo, dall’analisi diretta dell’edificio, non è individuabile il vano in affare essendo molti i settori dell’anfiteatro così occlusi. Tra le soluzioni si avanza anche quella dell’espropriazione e demolizione delle abitazioni che provocano danni. Questo tema, di non poco conto, viene trattato sia per l’anfiteatro che per il teatro romano come dimostrano alcune lettere della metà del XIX secolo con le quali il Real Governo sollecita la Commissione di Antichità e Belle arti locale a demolire le case che ingombravano il teatro e danneggiavano l’anfiteatro. La Commissione, in seguito a ciò, iniziò una stima delle case e degli indennizzi da corrispondere, ma si limitò ai fabbricati sopra il teatro. I lavori, comunque, dovettero tardare, più volte, infatti, si sollecita l’Intendente ad agire. Sembra che sul tema dell’espropriazione la situazione era d’interesse più per il teatro piuttosto che per l’anfiteatro. Diversi sono i rimandi alle cause intentate verso i proprietari delle abitazioni sopra il primo monumento effettivamente poi abbattute, cosa che non avvenne per l’anfiteatro. Tra i motivi che spiegano questa distinzione potrebbe includersi il valore dell’edificato sopra i siti archeologici. L’anfiteatro, infatti, rispetto al teatro, sottostà a residenze nobiliari ed ecclesiastiche5 di grande qualità architettonica non inferiore al peso politico degli abitanti. I problemi, però, proseguirono anche dopo l’unità ampliati da cambi degli organi amministrativi e da una maggiore centralizzazione a discapito della vigenza locale6. I riceventi delle lettere cambiano ma i contenuti restano uguali, lo mostra la minuta del prefetto destinata al Ministero della Pubblica Istruzione, in cui si marca come l’anfiteatro presenti ancora gravi impaludamenti per le acque che vi accorrono. Nel 1875, scrivendo dei ritrovamenti nella parte dell’anfiteatro sotto le abitazioni nella salita Penninello, si notifica come in un corridoio (probabilmente quello sotto le proprietà Ardizzone) si siano aperti pozzi di scarico a perdere (Prefettura, elenco 14, busta 258), pratica usuale sino a tempi recenti; si ricordano come esempi simili i fori nelle volte del teatro e delle romane terme Achilliane di Catania sottostanti la piazza Duomo. Si è molto discusso sulla funzione di tali fori spiegandoli come scarichi, accessi scavati durante le esplorazioni dei secoli XVI e XVIII o ponti di luce e aria che magari sono divenuti naturali canali per le acque sotterranee.
Più utili risultano poi gli scritti dell’Ispettore Carmelo Sciuto Patti molto attento alla tutela dei beni catanesi e che in varie occasioni documenta la situazione. Nel 1881, edotto dei danni presenti nell’anfiteatro scrisse al Prefetto onde sollecitasse l’amministrazione ad agire con urgenza per delle infiltrazioni presso l’ambulacro interno a causa di una chiavica nella salita dei Cappuccini sotto il campanile della chiesa di S. Agata la Fornace, nella quale defluivano anche le acque piovane da vari acquedotti. Va considerato che la parte della città in esame, essendo ai piedi della collina di Montevergine, è per morfologia in declivio proprio verso la piazza Stesicoro, favorendo un flusso naturale verso l’anfiteatro. I problemi, poi, vi erano anche nell’ambulacro esterno, sotto le case del professore Ardizzone, in cui confluivano le “acque immonde dei lavatoi” delle case stesse e nella porzione sottostante la villa del principe Cerami. Si denuncia che quest’ultimo aveva costruito di sua iniziativa, un canale che raccoglieva le acque dei vari tetti per riversarle proprio sull’anfiteatro (Prefettura, busta 258, serie I, elenco 14). D’interesse è, poi, la lettera sempre dello Sciuto Patti, del 1885, nella quale localizza e dettaglia i danni presenti ragionando sulle cause e sugli interventi. Si parla di due inconvenienti ben distinti, quello più grave era l’infiltrazione di acqua, durante l’inverno presso le volte dell’ambulacro esterno, tanto da ostacolare il transito. L’altro inconveniente era l’inondazione perenne del corridoio interno. Le cause nel primo caso, sono attribuite dalle piogge che battendo sulle varie case affluendo poi sull’anfiteatro e alla casa degli eredi di Giovanni Ardizzone (parente di Carlo) dalla quale continuano a scolare acque sporche che vengono assorbite dal suolo e tramandate alle volte del corridoio superiore e ai vomitoria. Con tale nota non solo si indica l’area delle perdite, ma si conferma che, in tale sezione, l’anfiteatro si conservava per più livelli. Come intervento risolutivo l’Ingegnere propone di condurre le acque in appositi canali per smaltirle in un largo attiguo all’anfiteatro. Le infiltrazioni nell’ambulacro interno vengono, invece, ricondotte alla cattiva costruzione o “mal curata manutenzione” degli acquedotti municipali, sotto il lastricato della via dei Cappuccini, a Nord di piazza Stesicoro. Bisogna considerare che l’area oggi visibile dalla piazza, ai tempi in cui scrive l’Ispettore, non era ancora stata scavata, la scoperta dell’anfiteatro arrivava all’entrata dell’arena sull’asse maggiore ed è, dunque, in quest’area che vanno posti gli inconvenienti. A riguardo gli amministratori furono più volte sollecitati ad un intervento che però mai avvenne. L’Ispettore, anche per questo caso, suggerì di aprire un pozzo nella parte più depressa del corridoio al fine di liberarlo (Prefettura, sezione I, elenco 14, busta 257). Nonostante il grande interesse, non si venne mai ad un’effettiva soluzione e ciò si mostra quando nel 1899 ancora si denunciano continui usi dell’anfiteatro come discarica. Tali scarichi si conducono sempre ai fabbricati soprastanti e di preciso alla villa Cerami ed alla cappellania della chiesa di S. Agata la Fornace (Prefettura, Sezione I, elenco 33, busta 59). Nel 1913, dopo la liberazione della porzione visibile dalla piazza, lo Sciuto Patti torna a informare come si stesse ancora “studiando la maniera più opportuna per liberare radicalmente il grandioso monumento dalle infiltrazioni che vi si avverano in diversi punti” (Sciuto Patti 1913, p. 313), ma il problema continua a essere arduo. Giunti a tal punto, un tema d’interesse è l’attribuzione delle case ai proprietari citati dai documenti e capire con quali fabbricati attuali coincidono. Nei rilievi del 20157, con più chiarezza, rispetto alle carte precedenti8, si distinguono i lotti e gli immobili gravanti sull’area critica (fig.4).
7 Fonte: sito webgis del Comune di Catania, Layer degli edifici catastali e lotti. 8 Carte del: 1876, 1884, del 1897, 1916, 1925, 1978, aggiornata al 1990.
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Santi Maria Cascone Lucrezia Longhitano Fig.4 a: Cartografia catastale del 2015, in grigio i lotti; b: Cartografia catastale del 2015, in arancione i fabbricati.
Invariati rispetto alle cartografie ottocentesche ed indicati con la medesima numerazione.
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È ravvisabile l’edificio (n.4112) affacciato su via Manzoni ad angolo con la via Penninello, in quanto noto palazzo settecentesco della famiglia Ardizzoni più volte citata nelle carte. Proprio la porzione dell’anfiteatro posta al di sotto è, ancor oggi, quella che ha maggiori problemi. Con stessa facilità si conosce l’area dell’ex villa Cerami (n.32639), della quale la terrazza è interamente sorretta dai settori Sud-occidentali e dall’ambulacro oggi oggetto di perenni infiltrazioni e conseguenti fenomeni di degrado. Resta più dubbia l’identificazione delle altre abitazioni. Indizi possono trarsi dalle fonti che segnano nel 1875, il rinvenimento di parti del rudere presso la casa del signor Puglisi e presso l’adiacente casa Nicosia, entrambe costruite dopo il 1693 in via Penninello, sopra l’anfiteatro (Prefettura, serie I, elenco 14, busta 258). È possibile ritenere, per logica di sovrapposizione, che tali proprietà rientrino nei lotti n.4115 e 41139. Non eludibile, poi, la citata presenza di altri giardini oltre a quelli dei Cerami, accanto l’anfiteatro. In particolare quello del Signor Cappellano Cosentino (Intendenza, busta 643) dal quale si denuncia, nel 1838, la caduta di acqua e rifiuti e la citazione, nel 1885, tra le case concorrenti ai danni, di quella del cavaliere Nigo (Prefettura, sezione I, elenco 14, busta 257). Resta più dubbia l’attribuzione dei lotti per quest’ultimi casi. Non si esclude, però, che la casa possa locarsi nei restanti isolati sopra l’anfiteatro (lotti 4014, 4106, 4108), mentre il giardino potrebbe coincidere con il lotto oggi n. 4107, nonché unica area verde nella zona, dalla quale è possibile immettersi nei settori XXXVII-XXXIX dell’anfiteatro. Si riassumono nella fig.5 tutte le notizie in merito ai danni, restauri subiti dall’anfiteatro e connessi all’edificato soprastante. Conclusioni Dal vaglio dei documenti è osservabile come le vicende dell’anfiteatro illustrino bene il cambio di ruolo dei monumenti dalla ricostruzione dopo il terremoto del 1693 ai primi del Novecento. Dopo la catastrofe, la cultura del tempo attribuiva ai resti, specie se frammentari come quelli dell’anfiteatro, alcuno specifico valore, li si poteva, anzi, coprire o usare come fondazione perché riedificare era prioritario. Gli studi archeologici sviluppatisi progressivamente nel corso del Settecento, condivisi dall’élites siciliane e dal Governo, restituirono all’anfiteatro la sua identità nel quadro cittadino, come riflesso di un più vasto movimento che coinvolgeva l’intera Europa. In concreto le azioni restavano sporadiche, affidate al buon volere di illustri mecenati o a iniziative estemporanee del potere regio.
Fig.5 Principali notizie sull’anfiteatro (danni, denunce, interventi) in connessione all’edificato soprastante.
Durante la Restaurazione, una burocrazia competente si affiancò all’élites cittadine e con il nuovo stato, si sviluppò la tutela su doppio registro: nazionale (la Direzione Generale di Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione) e locale (Commissione Conservatrice) coinvolgendo i poteri locali e il Comune (Iozzia 1998, pp. 138140; Oteri 2002, pp. 49-64). Nel secondo Ottocento, nonostante la vecchia aristocrazia giocava ancora un ruolo importante, se ne poté superare l’influenza o negoziarne con discrezione il consenso10. Questo gioco delle parti spiega come azioni poco visibili ma necessarie in termini di interventi come quelle descritte di fatto non si concretassero. Nonostante l’interesse all’intervento dimostrato dai responsabili istituzionali, si nota una prevalenza dell’azione privata abusiva visti gli interventi fatti eseguire sulle volte dell’anfiteatro dal principe di Cerami, la libera realizzazione di canali o l’uso dei vani antichi come luoghi di scarico. Pratiche queste usuali anche in altri siti archeologici catanesi come dimostra la realizzazione di una latrina in un’abitazione costruita sopra un corridoio del teatro romano (Prefettura, elenco 33, busta 59). Ciò che la ricerca d’archivio dimostra è che i problemi che oggi si devono fronteggiare già da secoli connotano la vita dell’anfiteatro e vanno ricondotti all’articolato sistema di stratificazione che unisce un edificio nato per essere sopra terra ad un contesto urbano e impiantistico che in modo spontaneo vi si stratifica sopra. Oltre ad uno studio, dunque, che unisca l’archeologia all’analisi dell’evoluzione urbana, un ambito da indagare riguarda gli impianti degli abitati e dell’urbano soprastanti l’anfiteatro. Su questo tema dalle fonti, non si deduce una precisa disposizione, tuttalpiù si nota un uso provato illecito del sottostante anfiteatro con scarichi ad esso diretti. Gli scarichi, come quelli della casa Ardizzone o delle sa-
10 Non mancarono contenziosi tra le parti, come ad esempio quello sfociato in un processo e nell’espropriazione dell’area del teatro ai principi Paternò Castello di Biscari e di Valsavoia quegli stessi Paternò Castello cui si doveva in gran parte la riscoperta delle antichità catanesi (Archivio Paternò castello, busta 632).
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Santi Maria Cascone Lucrezia Longhitano Il centro storico è attraversato dai 488 km di tubi che da Ognina-Picanello arrivano al depuratore di Panta d’Arci, di questi ne usufruisce è meno del 30% dell’utenza; si ultimarono nel 2005 i lavori per una nuova rete fognaria, nel 2016, però, a seguito di diatribe tra Comune e Regione, i lavori risultavano ancora sospesi 11
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crestie, sfruttavano spesso vuoti del terreno secondo un sistema a perdere molto diffuso nella città e visto in più monumenti. Intorno al 1870 si annota la costruzione di una fognatura municipale presso l’area dell’anfiteatro (Iozzia 2015, p. 36) rientrante forse tra quelle poste sotto via Cappuccini e piazza Stesicoro e che nel 1875 causarono altrettanti problemi di infiltrazione alla struttura che vi sottostava. È credibile che ad oggi le cose non siano cambiate, così come è difficile credere che tutti gli impianti siano stati deviati rispetto all’area archeologica. Al presente le condizioni del sistema impiantistico della città risultano assai complesse anzitutto date le varie vicende dell’ultimo ventennio e che ancora nel 2016 frenavano i lavori per l’avvio di un nuovo sistema che servisse interamente la città e la periferia (Murabito 2016)11. Senza scendere nei dettagli, risulta arduo capire come i singoli complessi edilizi che toccano l’area dell’anfiteatro si siano impostati; è assiomatico però, che tale situazione così come in generale lo sviluppo nel tempo di un sistema urbano che ingloba uno più antico, porti condizioni di difficile indagine. Oltre, poi, alle perdite a causa dei condotti (o della loro assenza) non vanno sottovalutati i sistemi di deflusso delle acque piovane e gli interri addossati all’anfiteatro, ancor più difficili da gestire rispetto all’impiantistica. Qualsiasi intervento di restauro dunque mirato a bloccare il processo in corso non può escludere un’analisi attenta di tutte queste situazioni. Prescindendo i risultati ottenuti e il caso studio in esame, ciò che la presente ricerca ha voluto mostrare è come l’analisi delle fonti d’archivio sia uno dei mezzi di analisi storica, nonché diagnostica, che aiuta ad ampliare la conoscenza dello stato di fatto attuale, proiettandolo indietro nel tempo, tracciando una sorta di “storia delle cause e delle problematiche” che può essere d’aiuto oggi nell’indirizzo della ricerca e degli interventi da fare.
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Castrum Petrae. El patrimonio herido de “San Valentino in Abruzzo Citeriore”. Stefano Cecamore
Stefano Cecamore
Dipartimento di Architettura dell’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara.
Abstract The architectural heritage in most of the historic centres in Abruzzo is characterized by traditional building techniques related to the use of stone. A building style culture dating back to the classical era up to the most recent times with very few significant disruptions. San Valentino in Abruzzo Citeriore has a number of buildings where the use of the traditional stone building method is found in both the constructions of monuments and in the other buildings in general. Churches, palaces, suburban villas and ‘minor’ buildings are made with local material through consolidated building systems, reworked and improved during an incredibly long time-span. The castrum, originating in San Valentino, preserves traces of changes and adaptations consequent to the local and foreign dominations which have affected the historic centre and its surrounding territory. Each period has been able to conveniently reduce the use of local stones, and in particular the compact limestone of the Maiella mountain, and allowing to admire important architectural remains such as the Castle-Palace of the Farnese, the church of Regia dei Borbone, and the Palace and Villa Baiocco, which are today burdened by communal dynamics of neglect and abandonment. The limited number of consolidations and restorations arranged for after the earthquake in 2009 are emergency actions which result to be inadequate to prevent the loss of a significantly important heritage. The preliminary study of the most common and typical buildings and of their state of preservation opens a path of knowledge and awareness of the community towards a much wider framework of the safeguarding of the buildings and dynamic efficiency of protection. Keywords Traditional construction, earthquake, state of neglect, historic centres
Introduccion El territorio Abruzzese se caracteriza por una naturaleza morfologicamente accidentada y por una marcada vocación rural además de una red de asentamientos estructurados mediante un equilibrio frágil entre hombre y naturaleza. La voluntad de ocupar valles y laderas montañosas y de superar los reiterados traumas ocasionados por eventos de calamidad, que desde siempre padecen los cascos antiguos
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Fig. 1 Los primeros cercos castrenses; torre amuralladas aún visible en la parte sur (Foto: Stefano Cecamore).
de la franja apeninica, definen la sucesión de las construcciones regionales, en los cuales el repertorio tradicional enlazado a fenómenos edilicios “de larga duración” (Varagnoli, 2008a), ofrece una alianza entre técnicas constructivas y recursos naturales. En particular modo la “civilización de la piedra” determina las características urbanas del sector de Abruzzo Citeriore con una preponderancia de elaboración de la piedra calcarea compacta conocida como piedra “gentile” de la Maiella” utilizada sin solución de continuidad desde la época clásica hasta principios del siglo XX. El patrimonio arquitectónico del municipio de “San Valentino in Abruzzo Citeriore” confirma a pleno estas costumbres constructivas; el panorama edilicio del casco histórico y de su territorio son, en efecto, determinados por construcciones civiles y religiosas –ampliamente estratificadas- y por situaciones aisladas que se asemejan debido a la utilización casi exclusiva de los litotipos locales empleados en una amplia ga-
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ma de soluciones constructivas: desde paredes almohadilladas en bloques y lastras, en agulares y perforaciones, hasta las elaboraciones más finas en vista o detalles decorativos de puertas y ventanas.
Archivio di Stato di Pescara (ASPe), Affari ecclesiastici, 1852-1860, lettera del Vicario all’Intendente di Chieti, 28 novembre 1852
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Castrum Petrae, desde el castillo hasta la ciudad. Una aglomeración urbana, constituida por emergencias arquitectónicas, construcciones globales y rurales tipológicamente diferenciadas, con una percepción de conjunto urbano entrelazado con los mismos materiales y encerradas físicamente dentro una muralla. Esta es la imagen del Castrum de piedra citado en los documentos históricos, entendido en su complejidad de perímetro habitado y luego fortificado; el mismo que podemos ver en la pintura de S. Giannini (1848) que se conserva en la iglesia de los Santos Valentìno y Damiano y que al final del siglo XIX nos brinda una visión idealizada pero sustancialmente fiel en las distintas estratificaciones sucedidas en los siglos en el diseño de una ciudad-castillo. A pesar de las numerosas variaciones sufridas en un tiempo relativamente reciente por las fortalezas y el diagrama urbano, es posible, sobreponiendo la cartografía actual a la documentación iconográfica disponible (Chiarizia, Latini, 2002), distinguir el diseño de los antiguos aparatos defensivos que daban al pueblo una dirección de desarrollo caracterizado por ampliaciones concéntricas a lo largo de la ladera oriental del núcleo primitivo fortificado. El resultado es el burgo torreado rodeado de murallas que alude a la descripción del Giustiniani del 1797 y en algunos documentos y mapas de final del siglo XVI en adelante como la extraída del “Summario dell’Intrate che’l Serenissimo Signor Duca di Parma e Piacenza tiene nella provincia d’Abruzzo. Aquila ultimo gennaro 1593” (resúmen de las llegadas que el serenisimo Señor Duca de Parma y Piacenza hace en la provincia de Abruzzo. L’Aquila fines de enero 1593), muy difícil de localizar en los diferentes tratados arquitectónicos de la construcción, pero comprensibles a nivel urbano en los lugares aislados que ocupan las áreas de los cimientos señalados por los trazados de carretera longitudinales y que dibujan un tejido urbano fusiforme interrumpido por una viabilidad secundaria formada por rampas y recorridos de remonte. Las operaciones de demolición relativamente recientes logran transformar, en algunos casos, los trazados transversales de la estructura de base en anchos recorridos y escaleras monumentales; capítulos escenográficos de los años mil ochocientos o mil novecientos vinculados a la modernización funcional y formal de los cascos históricos concentrados cerca de la iglesia Matrice y de algunos edificios urbanisticamente importantes como el edificio Bottari. En general, la actualización tipológica de la construcción, sigue el camino de la refundición de los núcleos edilicios originarios del tejido compacto de los edificios en bloque, (principalmente sin patio) con cuerpos de fabricación más amplia (con estructura de dos o tres niveles), proponiendo como nuevo las fachadas ya más coherentes en léxico arquitectónico, a través de la búsqueda de simetrías y la homologación de los elementos decorativos. En cambio el circuito fortificado resulta mayormente comprometido ya que las murallas casi no se conservan, y modificado en su trazado original por la expansión más allá del limite perimetral de los bloques de construcción de la iglesia Matrice y del edificio de Pietro Troiano1 en el oeste, como también del edificio Baiocco situado en el lugar opuesto.
Fig. 2 Edificio Baiocco, fachada externa y detalle con dintel y “radiciamenti lignei “(Foto: Stefano Cecamore).
El edificio Baiocco, ubicado al final del centro habitado y cerca del Lago San Nicola, posiblemente sea el resultado de la unión, hacia el final del siglo XIX, de más núcleos edilicios elementales fundidos en un organismo único que responde a las reiteradas exigencias de representancia de la nueva clase dirigente. El edificio, estructurado en dos cuerpos de fabricación conectados por una ala transversal en la parte posterior, ennoblece su estructura volumétrica con la preferencia del acercamiento del basamento, terraza y bloque compacto con patio central, siguiendo la natural pendencia del lugar entre la calle Umberto I y calle Duca degli Abruzzi. También la estructura externa introduce elementos nuevos con respecto a las características urbanas que lo circunda: la fachada principal, organizada en dos registros, aparece definida en su linea por pilastras salientes, fajas decorativas que marcan pisos y cornisas, y permite el acceso directo al nivel residencial mediante un portal almohadillado con balcones en la parte superior En la parte frontal opuesta presenta una larga fila de arcadas con dinteles en piedra, alternadas por pilastras salientes almohadilladas que definen el cuerpo de fabricado cubierto con una terraza que, colmando el desnivel del terreno, eleva el edificio con respecto al eje vial anterior. El arco con terminación superior a frontón y la amplia verja de acceso definen el perímetro de la construcción original, alterado por la introducción de locales comerciales, fabricados menores de servicio y un distribuidor de gasolina. La construcción con patio central resulta ser una excepción en el panorama de la construcción tradicional local y contradistingue también al palacete suburbano familiar (Varagnoli, 2008b) construido alrededor de la segunda mitad del siglo XIX en la localidad de Cannafischia; la fábrica, que se encuentra en un estado total de abandono, está ubicada en correspondencia de una amplia área hidrográfica, utilizada muy probablemente para le distribución hídrica y para los trabajos agrícolas o tal vez en función de “villa di delizie” (palacete de las delicias) al cual el edificio podría haber sido destinado en base a la definición “casino di villeggiatura” o sea “circulo de veraneo”, según la denominación en la Revisión General del Catastro de 1890. Los ambientes son rigurosamente especulares entre ellos y se articulan en catorce espacios cubiertos en cada nivel, en el primero con arcadas a bóveda con aristas de encuentro, arcadas a vela y de crucero, en el segundo nivel con bóvedas realizadas con cobertura de ladrillos. El muro estructural, ya sin revoque original, muestra la superficie lateral de la estructura a almohadilla colocada con ritmo de avanzamiento horizontal con cunas de refuerzo y la amplia utilización de dinteles y “radiciamenti” lignei (Fig. 2). La decoración, en gran
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parte perdida a raíz de los derrumbes de coberturas y entarimados, resulta fácil de interpretar en los frentes externos, encuadrados geometricamente por pilastras salientes adosadas en toda su altura que terminan en capiteles y festones con inspiración del Renacimiento, además de la presencia de franjas marca niveles que delimitan zonas de pared sobre las cuales se abren ventanas con perfilado peraltado rebajado y definido por bloques de piedra cuadrados y bordes delimitantes.
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La “civilización de la piedra”. De castrum a castillo, de castillo a edificio. Los edificios públicos y de edilicia menor están acomunados por una característica: las técnicas constructivas y los materiales utilizados pertenecen a la tradición y se atienen a la tipologia del lugar. La piedra de cava, presente en zonas en las laderas rocosas de la Maiella, es utilizada sea en las superficies externas de las paredes, para los cuales se utilizan fragmentos más grandes que se colocan con la parte más plana a la vista, como en el núcleo de la cumbrera con esquirlas de rocas y trozos residuos de la elaboración de la piedra. Encontramos un mayor cuidado en las tramas de los cantonales, para los que, los bloques calcáreos se preparan con forma paralelepipeda; el material utilizado, ya de distintos tamaños y unido con malta en forma abundante en secuencia discontinua, se coloca generalmente con ritmo horizontal. El uso de las técnicas tradicionales y de materiales locales se afirman también con la utilización de elementos de descarte, en gran parte recuperados sucesivamente a la caída debida a eventos sísmicos e incorporados al interno de la construcción y en las superficies laterales externas; una gran cantidad de fragmentos perfilados y decorados aparecen en las fachadas principales de los edificios, completando y ennobleciendo paredes, repisas y arquitrabes. Los elementos constructivos de mayor interés pueden ser encontrados en la zona más elevada del extremo sudoeste del poblado, actualmente ocupado por el edificio Farnese, por la iglesia de los Santos Valentino y Damiano y por el edificio Troiani. El área se identifica como el núcleo que genera el antiguo burgo fortificado; la base primitiva atribuible a la época normanda de la comarca de Manoppello, sucesivamente se ha evolucionado hasta el actual San Valentino cuyo origen puede unirse a los hechos narrados en el Chronicon Casauriense y al hallazgo de los restos mortales de los santos Valentino y Damiano en el siglo XI (Di Luzio, 1990); (Varrasso, 1992). La compleja cuestión inherente la fundación del castillo de San Valentino podría llevarnos a la incorporación de edificios de diversas naturalezas (eclesiastica y feudal) circundados por una muralla, de este modo puede explicarse la heterogeneidad que todavía diferencia el conjunto, resultado de numerosas estratificaciones que se sucedieron a través de los siglos y de las cuales no podemos saber el periodo. Uno de los primeros cercos castrenses podría ser individuado por un corte inclinado en los intervalos norte y oeste del actual complejo Farnese, dotado en la parte sur, de una torre amuralladas aún visible (Fig. 1). El perímetro ha debido ser interrumpido y modificado con la construcción de otra torre en la parte oeste, posiblemente agregada para resolver una zona derrumbada de la muralla primitiva o para sustituir una estructura ya existente de flanqueamiento a la puerta principal del burgo. La posteridad de la torre oeste respecto a las partes amuralladas adyacentes se confirman con diversos espesores y en la continuación de edilicias organizadas en forma horizontal evidenciadas por los huecos creados para sostener el andamiaje, co-
Fig. 3 Castillo-palacio “Farnese”; elevación norte dañado por el terremoto de 2009 y elevación sud (Stefano Cecamore).
munes a los aparatos de edilicia “de obra” conocidos en el área de la región de Campania, mientras que la geométrica regularidad de la estructura y la configuración a forma de “telescopio” nos lleva a una fase en pleno periodo del siglo XII y época angevina (Romalli, 2008), momento en el cual la voluntad de inspección y modernización de los puestos de defensa se concentran en las tierras de frontera en el oeste y norte del reinado. La torre oeste del castillo de San Valentino puede ser considerada un primer núcleo de feudalismo permanente, un bloque compacto, agregado a un circuito amurallado dotado de corte inclinado y guardia defensiva en los lados más expuestos, y que posiblemente tenían función de defensa y residencial. Lo acompañan la capilla de los Santos Valentino y Damiano y algunas estructuras de servicio, conectadas a la parte poblada y a los sucesivos recintos amurallados por medio de la apertura a arco agudo todavía presente en la parte este. Sea en los casos de Popoli y Pacentro, ambos inicialmente dependientes a la comarca de Manoppello, como San Valentino, el pasaje de castrum a residencia noble se manifiesta paralelamente al fervor del poder central a favor del feudo local. En los primeros dos casos resulta fácil, debido a la estabilidad politica identificar a los Cantelmo y a los Caldora como promotores respectivamente, de tal transformación, San Valentino en cambio pasa por las cambiantes situaciones de los Acquaviva, de los Orsini y de los Della Tolfa y solamente a estos últimos es posible atribuirles en forma cierta una propuesta sustancial de modernización del producto, gracias a la dedicatoria del 1507 presente en la entrada norte. En el volumen situado a este, encontramos las propuestas arquitectónicas más interesantes: el portal y la amplia sala en la planta baja evidenciada por arcos diafragma y el biforo amurallado en la pared externa del correspondiente volumen superior. La puerta de entrada, evidenciada por cepos que adentellan con la edificación alternando trozos de piedra de distintos anchos, se muestra como una versión simplificada de
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Stefano Cecamore Archivio Comunale di Penne, Acta super pertinentia iuris Patronatus Ecclesie Archipresbiterialis et aliorum beneficio rum et Cappellarum. Bacucco 1617. Nota di tutte l’intrate che sono in lo contado de San Valentino delle pruinzie di Apruzzo Citra et Ultra lo quale se fa per memoria dell’Illustrissimo S.or Carlo Moderno, cavato da li cunti visti per me Fabio de li Frangi de Palma nel mese di aprile 1562 in San Valentino 3 Archivio di Stato di Napoli, Farnesiano, b. 1284,” Catasto de beni gentileschi fatto l’anno MDCXXXIX che si possede in territorio di san Valentino e Abbategia”. 4 Archivio Diocesano di Chieti, Visite pastorali, 1932, busta 561; ASPescara (ASPe), Governatorato, Affari comunali 1851-1861, fasc. I, busta 8 5 Archivio Diocesano di Chieti, Visite pastorali, 1846, busta 542. 6 Archivio Diocesano di Chieti, Atti parrocchiali di s. Valentino, fasc. I, “Carte riguardanti il desiderio di stabilirvi una chiesa ricettizia”, 17 ottobre 1831. 2
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las tipologías “durazzesche” experimentadas en numerosos trabajos de edilicia civil en la ciudad de Sulmona del siglo XIV y XV (Madonna, 2008). El biforo, recientemente dañado por el sisma del 2009 (Fig. 3 -Fig. 6), se propone como un probable trabajo de reutilizo: los trabajos de edilicia externa del volumen superior, en el cual se insertaron con el fin de caracterizar la fachada principal del edificio en prospectiva de la plaza urbana, ha revelado una estructura inadecuada en el momento del sismo del 2009: la superficie lateral de la estructura con piedras cuadradas no sujetadas en modo correcto con elementos colocados a perpiano y con el núcleo interno, ha sido parcialmente expulsada, causando el derrumbe del biforo y la columna salomónica. La calidad de la edilicia de las paredes denuncia claramente la debilidad intrínseca de las estructuras de base que la obra en construcción ha tratado de remediar con la introducción de guarniciones anti sísmicas como la “catena lignea” halladas durante los trabajos de consolidación de la bóveda realizados después del sismo del 2009 (Fig. 3). Es probable que haya sido agregada durante los intervenciones de refuerzo anteriores a los numerosos episodios sísmicos del pasado, la “catena lignea” cadena de madera ha contribuido a la contención de la rotación fuera de la base de la pared externa ya profundamente dañada y que afecta la entera bóveda de entrada (Fig. 4). La precariedad de algunos cuerpos de los edificios van aparejados a las continuas adaptaciones padecidas por las estructuras originarias en respuesta a la progresiva transformación de fortaleza a edificio de nobleza y completada en el 1562 cuando el complejo se describe como “castillo compuesto por distintos y más miembros, torre principal, lugar cómodo de fortificación”2. Una estructura heterogénea donde ni siquiera Margherita podrá conferir la vestidura de palacio porque morirá tres años después de la adquisición del feudo, y que, en primer lugar bajo el gobierno de los Duques de Parma (1583-1732) y de los Borbones luego, acogerá como “Roca en el Palacio”, los Gobernadores y los funcionarios enviados desde Nápoles3. La iglesia de los Santos Valentino y Damiano El actual edificio de la Matrice surge en el sitio donde precedentemente había una iglesia, de la cual quedaban las bases de piedra cuadradas, probablemente del siglo XIII. Resulta difícil establecer si se trata del edificio sacro citado en las donaciones del siglo XI o de una construcción nueva. Es probable que los sismos del 1703 y 1706 hayan dañado profundamente la iglesia, y que no haya sido posible ocuparse de la reconstrucción durante el periodo farnesiano4, hasta llegar a una nueva edificación patrocinada por los Borbones después de haber heredado de Elisabetta Farnese la comarca de San Valentino. No se ha tratado de una normal adecuación al lenguaje barroco. La voluntad de dotar al feudo, quienes formaban parte de los estados Allodiales, de una
Fig. 4 “Catena lignea” encontrada durante los trabajos de restauración en la bóveda (Stefano Cecamore.). Fig. 5 Profunda lesión que afecta la bóveda de entrada. (Stefano Cecamore).
Matrice digna de ser considerada entre los bienes personales de la Corona y de cual culto los reyes parecerían estar fuertemente atados (Natarelli, 1990) se sitúa al origen de una estructura cuyas dimensiones y el relativo compromiso técnico-constructivo acaban en un lento proceso de reconstrucción y ajuste que se arrastra desde la mitad del siglo XVIII hasta casi la mitad del siglo XX: la única fecha referenciada de inicios de los trabajos, es el año 17905, durante una visita pastoral, pero es significativa para evaluar la persistencia del lenguaje barroco tardío en el área de Abruzzo y para clasificar la obra en construcción en una óptica de larga duración. No poseemos ni un nombre ni una fecha cierta que podamos dar al proyecto y a los comienzos de los trabajos. La asignación a Vanvitelli, a quien la tradición refiere la estructura original en común con la SS Annunziata de Nápoles (1760-1782), se afirma sobre una información de Raffaele Colucci en su diario de viaje (1861) (Colucci, 1861), válido para estudios y publicaciones sucesivos que confirman la presencia o al menos el interés de Vanvitelli por el Abruzzo (Magni, 1901); (Lehmann-Brockhaus, 1983). Textos contemporáneos o sucesivos a la publicación de Colucci recurren al nombre de Vanvitelli para valorizar pedidos de subsidios y contributos para la manutención de la iglesia, pero estudios recientes demuestran que esta asignación es carente de fundamento e individúan la homonimia de San Valentino con un centro presente en el Salernitano como fundamento de tal equivocación (Battistella, 1989). Construida en base a un proyecto solo con proveniencia partenopea6 o sobre la experimentación de matriz regional, la documentación de la Matrice respeta la posición de la iglesia precedente, pero sigue un desarrollo longitudinal que pasa el límite amurallado proyectando el ábside y la sacristía realizada entre el 1844 y el 18517, superando el perímetro del burgo antiguo fortificado. Quedaba en cambio inconclusa la fachada situada de lado a la casa del arciprete y bien visible desde el valle de Pescara: solamente el portal era consecuencia de la restructuración barroca, debido a que era visible la base medieval preexistente. La falta de documentos reales sobre la obra en construcción de la Matrice, hace que se busquen afinidades y analogías con otras fabricaciones proyectadas o reconstruidas seguidamente a numerosos sismos que caracterizaron el Abruzzo del siglo XVIII. La estructura resuelta con el acercamiento de núcleos edilicios espaciales diferentes, nave, crucero a cúpula y ábside profundo, refuerza el eje longitudinal y la secuencia espacial encuentra en la introducción de una pausa en la arcada transversal que anticipa un empalme del crucero y permite la abertura de los ingresos laterales. La presencia de espacios transversales puestos para remarcar la lectura de la estructura se refleja en muchos ejemplos del barroco de Abruzzo, desde San Filippo en L’Aquila, a San Fran-
7 Archivio Diocesano di Chieti, Visite pastorali, 1846, busta 542. 8 Archivio di Stato di Napoli, Farnesiano, b. 1299, fasc. 9.
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Stefano Cecamore Fig. 6 Daňos causados por el sisma de 2009. Expulsión de la estructura externa y del ajimez (Foto: Stefano Cecamore).
cesco de Città Sant’Angelo y, en la alternancia entre capillas laterales y espacios menores a la Santa Maria de Paganica en L’Aquila, o en la cercana iglesia parroquial de Caporciano que muestra una solución de la parte oriental de la planta que se acerca a la de los Santos Valentino e Damiano. Muy distantes ya sea por dimensiones y tipologia resultan en vez los otros edificios religiosos del pueblo. El aula de San Nicola de Tolentino representa, con sus caracteristicas de los años setescientos, la fase final de la evolución del más antiguo Monasterio de los Agostinianos (Sigismondi, 2012) englobados en el organismo constructivo de los Olivieri de Cambacérès. Resultan en cambio, objeto de un tentativo de integración entre un esquema central y longitudinal la iglesia de S. Donato, como testigos los diseños conservados en el Archivo de Estado de Nápoles en referencia a un arquitecto “Giani” probablemente Giovan Battista Gianni8 La serie de intervenciones sustanciales de modernización y revisión formal del casco antiguo se concluye con la nueva fachada de la Matrice, construida entre el 1916 y 1931. La primera versión de la nueva fachada aparece como una evolución de temas ya experimentados por el diseñador Antonino Liberi entre el 1897 y el 1899 en la Torre Civica de Casalbordino: tres tipos de columnas subdividen la fachada en una secuencia de nichos, estatuas, balaustres y marcos a multilineas. Redactado por Liberi probablemente luego de su estadía en Roma (1915) (Di Tizio, 2009), el proyecto definitivo reemplaza la solución anterior con un cuerpo rectangular con coronamiento horizontal que concluye con dos campanarios gemelos. En los cuatro registros de fachada, la sucesión de superficies laterales almohadilladas de tipo manierista, entablamento dórico con metopas y triglifos, arcadas sobre columnas jónicas y ventana crea un episodio que, más allá de las ya conocidas referencias clásicas, trata por un lado de unirse al medido lenguaje vanvitelliano; por otro lado constituye una sólida referencia visual en el paisaje que sube hacia el macizo de la Maiella. Conclusiones La dificultad de trazar lineas de guía operativas universalmente válidas en el ámbito de la conservación y recuperación de los cascos históricos de la ladera apeninica, confirmada nuevamente por las contingencias de la reconstrucción sucesiva al terremoto de L’Aquila de 2009 y de los episodios sísmicos recientes en el centro de Italia – terremotos constatados calculados por el INGV con un número de 23.180 entre el pasado año y el año corriente- evidencia la importancia de conocer y tutelar los valores identificativos que nos conducen a contextos específicos territoriales y a la cultura material que se une a ella.
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En San Valentino como también en otros centros de la Maiella la forma y la estructura fortificada y de los grupos poblados más antiguos, cuyas recintos amurallados constituyen organismos arquitectónicos continuos y colaborativos diseñados para resistir a los eventos sísmicos también a traves de expedientes constructivos puntuales, indican el caminos a seguir y privilegiar respecto a otros a fin de efectuar una correcta recuperación de la edilicia histórica. Estudiar y considerar un patrimonio constructivo profundamente radicado en el territotrio pedemontano a nivel de experimentación y praxis operativas a seguir como el de la piedra angular o los presidios antisísmicos tradicionales, representa la posibilidad de moderar la necesidad del mejoramiento sísmico de las construcciones unidas al riesgo de reiterados terremotos continuos seguidos de demoliciones o intervenciones invasivas e incompatibles con las construcciones históricas que comprometen en modo inevitable el natural equilibrio de los cascos históricos junto al contexto de su paisaje y ambiental al cual participan. Bibliografia (Battistella, 1989) - Battistella F. 1989, Note su alcune fabbriche attribuite a Francesco Di Sio architetto napoletano attivo in Abruzzo tra il settimo e il nono decennio del XVIII secolo, «Rivista Abruzzese» 1989, p. 98, nota 13. (Chiarizia, Latini, 2002) - Chiarizia G., Latini M. 2002, Atlante dei castelli d’Abruzzo. Repertorio sistematico delle fortificazioni, Carsa, Pescara, pp. 45-228, fig. 387. (Colucci, 1861) - Colucci R. 1861, Abruzzi e Terra di Lavoro, Stamperia dei classici italiani, Napoli, p.173. (Di Luzio, 1990) - Di Luzio C. 1990, Atti della vita e del martirio dei Santi Valentino e Damiano. Cenni storici sulla fondazione della città di San Valentino tradotti dal latino in lingua volgare. Chieti, 1865 (edizione 1990). (Di Tizio, 2009) - Di Tizio F. 2009, D’Annunzio e Antonino Liberi, carteggio 1879-1933, Pescara, p. 155. (Lehmann-Brockhaus, 1983) - Lehmann-Brockhaus O. 1983, Abruzzen und Molise. Kunst und Geschichte, München, p. 307. (Madonna, 2008) - Madonna A. 2008, Edilizia civile a Sulmona nel quattrocento: la fortuna del portale durazzesco, in F.P. Pistilli (a cura di), Universitates e Baronie, Zip, Pescara, pp. 140-150. (Magni, 1901) - Magni B. 1901, Storia dell’arte italiana dalle origini al secolo XX. Roma, p. 221. (Natarelli, 1990) - Natarelli A. 1990, San Valentino, in G. Chiarizia (a cura di), Centri Storici della Val Pescara, dall’Evo Medio ai nostri giorni, Carsa, Pescara, pp. 245-246. (Romalli, 2008) - Romalli G. 2008, Da Guardigrele a Pacentro, dagli Orsini ai Caldora: castelli o residenze baronali?, in F.P. Pistilli (a cura di), Universitates e Baronie, Zip, Pescara, pp.11-52. (Sigismondi, 2012) - Sigismondi M.E. 2012, Eremi urbani: per una storia dell’architettura agostiniana in Abruzzo, Centro Culturale Agostiniano, Roma. (Varagnoli, 2008a) - Varagnoli C. (a cura di) 2008, La Costruzione tradizionale in Abruzzo. Fonti materiali e tecniche costruttive dalla fine del Medioevo all’Ottocento, Gangemi, Roma. (Varagnoli, 2008b) – Varagnoli C. (a cura di) 2008, Abruzzo da salvare/1, Tinari, Villamagna (CH). (Varrasso, 1992) - Varrasso A. 1992, Il territorio di San Valentino nell’alto medioevo, Vecchio Faggio, Chieti, p. 25, nota 14; p. 31, nota 20.
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“Restauro” del “Moderno”: un ossimoro concettuale divenuto procedurale. La DOcumentazione del modernismo a Messina fra 1930 e 1965 Alessandra Cernaro Alessandra Cernaro Ornella Fiandaca
Dipartimento di Ingegneria, Università di Messina.
Ornella Fiandaca
Dipartimento di Ingegneria, Università di Messina.
Abstract The research about the expression of Modernism in Messina has been undertaken retracing the criteria widely adopted by the association DOCOMOMO (DOcumentation and COnservation of buildings, sites and neighborhoods of the MOdern MOvement), which recognises the unavoidable need to document and preserve the 20th century architecture, from the Modern Movement to the subsequent stylistic tendencies, however starting from a “revolution” of lexicon paradigms in relation to the tradition. This has to be highlighted for Messina, fully re-built after the earthquake of 1908 since the 1920s and then completed/repaired after the mid-1940s. The first phase concerned the critical DOcumentation to identify the features that made the buildings of Mazzoni, Libera, Autore, Rovigo, Pantano, Samonà, Calandra from the coeval works of Piacentini, Bazzani, Puglisi Allegra, Zanca, Peressutti distinguishable. In a related paper, a theoretical and operative study on the topic of COnservation was undertaken, verifying all legislative methods about protective restrictions for Modern architecture, the attitudes adopted in Messina and the consequent approaches to protection interventions1. Keywords Cultural Heritage, Register of Modern Architecture, Conservative Restoration, Messina
Vedi Cernaro A., Fiandaca O., “Restauro” del “Moderno”: un ossimoro concettuale divenuto procedurale. La COnservazione del modernismo a Messina dal 1945 a oggi
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La DOcumentazione dell’Architettura Moderna La relazione fra DOcumentazione e COnservazione è da sempre ritenuta imprescindibile. L’illusione che il patrimonio a noi più vicino sia proprio per questo noto e meno sfuggente deve essere immediatamente smentita dalla carenza di dati verificati e comunque da una presunzione di consapevolezza che può ingannare. La prima significativa incertezza riguarda proprio l’individuazione di un ambito cronologico e geografico dell’accezione moderna da attribuire all’architettura: occorre chiarire se vi sono compresi unicamente gli esempi riconducibili al Movimento Moderno, o si deve estendere a quanto consente un “distacco storico” definendo una data oltre la quale si entra nel contemporaneo, o ancora se si può estendere a tutto il Novecento con discriminanti stilistiche; e ancora se queste assunzioni sono da ritenersi
Immagine introduttiva 1930-65. Il repertorio del Moderno a Messina nei quartieri interni al Piano Borzì
sincroniche quando ci si sposta geograficamente dal territorio regionale al nazionale o a quello internazionale o bisognerebbe introdurre opportuni distinguo. L’indagine condotta su Messina, interamente ricostruita nel Novecento con declinazioni stilistiche dal Neoclassico al Razionalismo, compresenti certamente nel periodo 1930-45 ma anche oltre, ha mostrato l’urgenza di queste istanze che hanno costretto a riflettere, sulla base di uno scenario internazionale, intorno a limiti e specificità da adottare per perimetrare un dominio assai insidioso e dispersivo, con confini non sempre nitidi. Una prima fase dello studio ha quindi riguardato la focalizzazione del tema in questo spaccato territoriale contraddittorio, individuando il patrimonio di architettura moderna che a Messina, per la comparazione con parallele scelte espressive tradizionali di riconosciuto valore storico-architettonico, è stato sottostimato e sottoposto a trasformazioni spesso irreversibili. La testimonianza delle tappe più significative è stata
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Alessandra Cernaro Ornella Fiandaca Fig. 1 Messina, Stazione Centrale, Repertorio fotografico del Moderno 1930-65. Per la COnservazione confronta con Fig. 2 del paper correlato [Cfr. CO-Fig. 2]. (foto: Antica Messina; FS Compartimento di Palermo-Sezione Lavori, 1947; Collezione A. Lanzafame)
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ricostruita nell’ambito della DOcumentazione e successivamente illustrata attraverso una rassegna fotografica, quale indispensabile supporto per poter riflettere a partire da un approdo raggiunto, diverso dall’originario, su quali potrebbero essere i paradigmi della COnservazione. La modernità a Messina declinata dalla ricostruzione Riflettere sulle azioni di tutela del patrimonio architettonico compreso in una ampia accezione “moderna”, che può essere cronologicamente individuata nello spazio temporale 1930-65, è un’operazione che con alterne fortune è stata oggetto di dibattito a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso (Salvo, 2016). Ci si è accorti che bisognava ancora ampliare il “territorio” culturale del restauro aprendosi a edifici e complessi urbani realizzati con espressione architettonica declinata come Movimento Moderno, cronologicamente riconducibile al Novecento, geograficamente distinta per estensione temporale ed espressioni stilistiche. Un primo atto importante in tal senso deve riconoscersi all’organizzazione internazionale no-profit DOCOMOMO (DOcumentation and COnservation of buildings, sites and neighbourhoods of the MOdern MOvement) e, per quel che riguarda il panorama nazionale, alla formazione di un gruppo italiano costituitosi in associazione culturale nel 1995 per promuovere conoscenza e documentazione, conservazione e valorizzazione del patrimonio architettonico realizzato in quel frangente cronologico. Si affermava con questa assunzione di responsabilità, già a partire dalla sua denominazione, che la confidenza con l’opera è indubbiamente una fase fondamentale e propedeutica per qualsiasi azione di intervento che voglia salvaguardarne la memoria. In tale direzione la redazione di un registro internazionale delle architetture più rilevanti è stata promossa dal 1992. E qui si possono rilevare i primi ostacoli all’ideale ricognizione del patrimonio architettonico moderno che hanno riguardato l’individuazione di criteri uniformi per il riconoscimento del valore emblematico e che proprio per non escludere, in un campionamen-
Fig. 2 Messina, Stazione Centrale, Repertorio fotografico del Moderno 1930-65. Per la COnservazione confronta con Fig. 2 del paper correlato [Cfr. CO-Fig. 2]. (foto: Antica Messina; FS Compartimento di PalermoSezione Lavori, 1947; Collezione A. Lanzafame)
to iniziale, nessun bene è stato articolato in tre livelli: locale e inclusivo; internazionale e selettivo; globale e correlato al WORLD Heritage dell’Unesco (Docomomo, 2020). Quindi un’ulteriore difficoltà si è manifestata nel confronto con ambiti cronologici ampi e distinti per linguaggi espressivi con conseguenti incidenze sui parametri di giudizio per l’accoglienza o meno entro tale registro. Una risposta prevalente anche se non omogenea ha individuato per l’Italia almeno due intervalli temporali, contraddistinti da caratteri prioritari riconoscibili: dal 1930 al 1945, con qualche strascico fino agli anni ’50, e da questo lustro alla metà degli anni ’60. Per il primo periodo i caratteri delineati per l’omologazione, influenzati in modo non sempre evidente - con qualche reticenza e grande desiderio di libertà e di difficile presa di distanza - da un’“Arte di Stato” richiesta/imposta quale propaganda dal Regime Fascista, possono essere sintetizzati, in un costante equilibrio fra tradizionalismo e modernità, nei seguenti: • volumi imponenti distribuiti con irregolarità e asimmetria; • ricorso al rigore e alla chiarezza di un classicismo semplificato per conferire un aspetto aulico e retorico; • prospetti modulati dalla ripetizione di aperture rettangolari; • rappresentatività dei “portali”, caratterizzati da colonnati, bassorilievi, fregi; • adozione di rivestimenti lapidei, e comunque di materiali di tradizione, con finalità autarchiche, come espressione identitaria dell’attività politica. Una diversa individuazione ha riguardato le opere del secondo dopoguerra (anni 1950-65) più esplicitamente rivolte al Razionalismo nazionale ed europeo, con un rap-
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Alessandra Cernaro Ornella Fiandaca
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porto stringente fra costruzione e architettura, in cui emerge il ruolo preponderante delle strutture in calcestruzzo armato a faccia vista e alla ricerca di nuovi materiali sperimentali di finitura, e che si distinguono per: • impianti planimetrici definiti con rigore funzionalista; • telai stereometrici e volumi puri; • materiali costruttivi portati ad assoluta evidenza espressiva; • spazio interno gestito con continui rimandi visivi e di trasparenze. In Italia nel 2014 si è avviato un lavoro di selezione e schedatura di 100 esemplari, a cui sono stati riconosciuti caratteri di unicità e innovazione sotto il profilo urbanistico, architettonico e tecnico-costruttivo. A oggi sono consultabili sul sito del DOCOMOMO solo 38 schede che coprono un arco temporale dal 1930 al secondo dopoguerra, illustrando emblematicamente le espressioni moderne lungo il territorio nazionale e con riferimento a differenti tipologie edilizie, non solo legate ad attività governative ma anche residenziali, industriali, ospedaliere, religiose e cimiteriali. Rivolgendo uno sguardo analitico a Messina, con la volontà di documentare il patrimonio moderno, si comprende che cronologicamente ci si dovrebbe confrontare con l’intera città, ricostruita a seguito del terremoto del 1908, in prevalenza dopo il primo dopoguerra ed estesamente negli anni del Regime Fascista. Se pure per cronologia avrebbe potuto adottare le sperimentazioni legate al Movimento Moderno nazionale ed europeo, la scelta ricadde sui linguaggi architettonici “accademici” che attraversarono tutte le rivisitazioni stilistiche - neoclassiche, neomedievali, neorinascimentali, eclettiche e nelle punte più “avanzate” liberty - fino ad attestarsi solo negli anni ’30 a un’accezione più tangibilmente “moderna”, se pure ancora in coesistenza con il completamento di innumerevoli edifici in “stile” (Palazzo di Giustizia di Marcello Piacentini neogreco, Palazzo Municipio di Antonio Zanca eclettico, le chiese di Cesare Bazzani neobarocche, quelle di Carmelo U. Angiolini neogotiche, ecc.). Un approccio esperito fra tradizionalismo e modernità, quello del decennio ’30-’40, al quale si allineano Camillo Puglisi Allegra, Enrico Calandra, Camillo Autore, Giuseppe Samonà, operanti a Messina come progettisti, e qualcuno nella formazione accademica, con linguaggi di sintesi fra la reinterpretazione della storia e il richiamo dell’innovazione stilistica. “Guardiamo all’antico ma corriamo audacissimi verso il futuro” (Di Natale, 2006, 1° vol., pp. 96-97) Un’evoluzione stilistica verso un razionalismo più consapevole e libero da retaggi stilistici tradizionali si registra muovendosi verso gli anni ’50, alimentata dall’influenza di ispirazioni internazionali in Samonà o da una intrinseca capacità di comprensione e rielaborazione originale del respiro stilistico contemporaneo in Rovigo o ancora da una formazione coeva e libera in Pantano. Premettendo che l’intera eredità culturale è ovviamente meritevole di essere salvaguardata, ci si è rivolti al patrimonio più prossimo alle declinazioni riscontrate nel registro del DOCOMOMO Italia e che affonda le sue radici a partire “da una fervida stagione di concorsi a cui partecipano architetti messinesi, siciliani, e provenienti da altre parti d’Italia e d’Europa” (Farina, 2010). Assumendo quali capisaldi i progetti presentati - non soltanto quelli vincitori - ai concorsi per la Palazzata, del 1929, e per le chiese della Diocesi, del 1931, il linguaggio moderno fa il suo debutto in città, mettendo in mostra stilemi immediatamente allineati a quanto proposto contestualmente nel panorama italiano. Si confrontano accanto a Camillo Autore e Giuseppe Samonà altri giovani architetti – Mario Paniconi e Giulio Pediconi, Giuseppe Marletta ed Ernesto La Padula – che propongono, in risposta ai due bandi tematici, progetti
Fig. 3 Messina, Cittadella Fieristica, Repertorio fotografico del Moderno 1930-65 [Cfr. COImmagine introduttiva]. (foto: Antica Messina; Cardullo, 1996; planimetrie elaborate dalle autrici)
in equilibrio tra novecentismo e modernità. Solo verso la fine degli anni ‘30, un linguaggio originale via via più libero da riferimenti tradizionali, spesso divenuto audace solo in fase esecutiva, si afferma a Messina con il complesso della Stazione Centrale e Marittima ad opera di Angiolo Mazzoni (1934-40), con la prima espressione della cittadella fieristica di Libera e De Renzi (1938-39), con la produzione tipologicamente variegata di Filippo Rovigo (1945-1960), con le residenze di Mario Ridolfi e Michele Raffo (1949-52) per citare gli esempi più noti. Questo repertorio di architettura moderna è stato selezionato mediante un’indagine diretta accompagnata da riscontri su fonti bibliografiche, archivistiche, sitografiche per produrre intanto sintetiche schede identitarie per un’Anagrafe del Moderno. La ricognizione intrapresa, ancora non esaustiva, ha già individuato un sistema “organico” per futuri propositi di approfondimento analitico, nell’ottica di un Registro/Atlante del Moderno, che è divenuto da subito per questo studio il campo di indagine per riscontrare quali azioni di conservazione sono state adottate. Pur accogliendo una ripartizione temporale nei periodi 1930-45 e 1945-60, si è proposta un’esplicita correlazione laddove gli stessi complessi architettonici, progettati nel primo periodo, sono stati oggetto di rielaborazioni e ampliamenti cogliendo “l’occasione” dei danni bellici o quando, realizzati per lotti, si sono inoltrati nel secondo periodo rispettando il progetto originario. Una prima osservazione, che si è sottoposta a verifica, denuncia quanto distanti dai principi ortodossi del “restauro” siano gli interventi di manutenzione, riuso, consolidamento per non dire delle demolizioni che hanno interessato le architetture in elenco (Tab. 1).
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Alessandra Cernaro Ornella Fiandaca Tab. 1 Il repertorio del Moderno a Messina nei quartieri interni al Piano Borzì
La panoramica sul patrimonio moderno a Messina non ha trascurato un capitolo sicuramente importante per le ricadute progettuali su modelli funzionali e standard minimi, linguaggio espressivo e riferimenti europei, innovazione tecnologica e sincerità costruttiva: l’edilizia sia economica che popolare, chiamata a soddisfare esigenze abitative nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale, realizzata dal Genio Civile (anni 1936-43) e da INA CASA, INCIS, UNRRA, CEP (anni 1949-63). Si è ritenuto tuttavia di includere nel Registro/Atlante unicamente i “quartieri” interni al Piano Borzì, tralasciando temporaneamente i complessi edilizi localizzati nelle periferie nord (Giostra e Annunziata) e sud (da Gazzi a San Filippo) in prossimità dei fondi rurali, già occupati per questa esigenza residenziale negli anni ’20, o in sostituzione degli insediamenti baraccati post terremoto (AGI-IACP-Me). Denominazione
Destinazione d’uso
Stazione Centrale Edilizia infrastrutturale e Marittima
Data
Progettista
PO_1934-37 Es_ 1938-40 RDB_1943-47
Angiolo Mazzoni Ufficio Tecnico Ferrovie dello Stato
RI1 <1982 Ufficio Lavori Compartimento di Palermo Ferrovie dello Stato RI2/Ma_2001 Zona territoriale insulare Direzione Comp.le Infrastruttura, Palermo S. O. Tecnico, Ferrovie dello Stato Palazzata Isole I-II ACSLP_1935 Guido Viola Concorso nazionale INA (Istituto Nazionale delle Assicurazioni) Es_1937-41 per il progetto della [Edilizia residenziale e commerciale] RDB_1944-50 facciata Vincenzo Vinci Isola III PO1_1925-26 28.08.1930 Es1_1927-29 Banco di Sicilia Vincitori PO2_1931 Camillo Autore Es2_1934-36 Camillo Autore Raffaele Leone RDB>1943 Vincenzo Vinci Giuseppe Samonà Isola VII ACSLP_1936 Giuseppe Samonà Guido Viola Casa del Fascio Es_1939-40 Guido Viola RDB_1944-51 RI_sd Ufficio del Catasto Ma_’70 Isola VIII PO_1940 Giuseppe Samonà INFAIL (Istituto Nazionale Fascista per l’Assicurazione ACSLP_1940 Guido Viola contro gli Infortuni sul Lavoro)/Edilizia residenziale Es_>1940 RDB_1947-48 Ri_sd Uffici INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) Isola IV-V-VI-XI Edilizia residenziale e commerciale
PO_>1952
Isola IX INPS (Istituto Nazionale Previdenza Sociale)
PO_>1952
Isola X Jolly Hotel
Es_1955-57 PO_1952 Es_>1953 Vr1_1957 Vr2_1963
Giuseppe Samonà Collaboratori: Giuseppe De Cola (IV, V, XI); Vincenzo Cacopardo (VI) Giuseppe Samonà Giuseppe De Cola Giuseppe Samonà
RI2_2017 Edilizia residenziale e commerciale Cittadella fieristica
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Adalberto Libera e Portale di ingresso: Libera-De Renzi, >1938; Rovigo, 1946; PO1_1938-39 Mario De Renzi Pantano, >1947, 1951; Calandra >1956. Padiglione centrale: Libera-De Renzi, >1938; Rovigo, 1946; RDB/PO2_1946 Filippo Rovigo PO3_1947-49 Vincenzo Pantano Pantano, >1950; Calandra, >1956. Vincenzo Pantano Uffici e Padiglione di ingresso: Rovigo, 1946; Pantano PO4_1950-56 Roberto Calandra >1947, >1950 (Padiglione di ingresso); Calandra, >1956 (Uf- PO5_1956-63 fici). Padiglione dell’Ente Provinciale del Turismo (delle Mostre d’Arte e del Turismo dopo il 1950): Libera-De Renzi, 1938; Rovigo, 1946; Pantano, >1950; Calandra >1956. Bar-Ristorante Irrera a Mare: Libera-De Renzi, >1938; Rovigo, 1946; Pantano, >1950; Calandra >1956. RI/Ma_1970-2020: Giuseppe Arena, 1970-74; Vittorio Podestà, 1975-83; Salvatore Geraci, 1985-90; Franco Purini-Laura Thermes-Massimo Lo Curzio, 2017-(in corso)
Case economiche Isolato 11 bis zona Provinciale Edilizia residenziale Isolato 12 bis Edilizia residenziale Isolato 14 bis Edilizia residenziale e commerciale Case economiche Isolati 107a-107b-107c su via Santa Ceci- Edilizia residenziale e commerciale lia e Piazza Trombetta Case INCIS (Istitu- Isolato 276 to Nazionale per le Edilizia residenziale e commerciale Case degli Impiegati Statali) Case IACP (Istitu- Isolati 494-495-505b-506 to Autonomo Case Edilizia residenziale e commerciale Popolari) su Piazza Castronovo Casa Ballo Isolato 453 Edilizia specialistica/residenziale Vr_1968 [Edilizia residenziale e commerciale] RI parziale_2001[Edilizia sanitaria] Palazzo Rotino Isolato 154 comparto IV Edilizia residenziale e commerciale Civile abitazione Isolato 136 comparto non identificato Edilizia residenziale e commerciale Cinema Apollo Isolato 295 comparto I Edilizia per lo spettacolo RI >1996 [Edilizia per lo spettacolo/turistico-ricettiva]
1936-39*
Genio Civile
1942*
Genio Civile
PO_1949 Es_1949-52
Mario Ridolfi Michele Raffo
PO_<1950
Filippo Rovigo (consulente IACP)
Cinema Odeon
Es_1952-56 PO_1955 Es_1956
Filippo Rovigo
1955*
Filippo Rovigo
1965*
Filippo Rovigo
PO_1950 Es_1951-53
Filippo Rovigo
Isolato 136 comparto non identificato Edilizia per lo spettacolo RI>2007 [Edilizia commerciale]
Es_1951
---
Cinema Olimpia
Isolato 242 comparto II Edilizia per lo spettacolo RI1_2013; R2_2017 [Edilizia per la ristorazione]
PO_sd Es_1951-55
Filippo Rovigo
Casa Donato
Isolato 270 comparto II Edilizia residenziale e commerciale RI1_sd [Banca] RI2_>2000 [Banca] Isolato 168 comparto non identificato Edilizia per lo spettacolo [Edilizia per lo spettacolo /commerciale] Isolato 458 comparto non identificato Edilizia per lo spettacolo [Edilizia commerciale] RI_’80
Es_1953
Filippo Rovigo
Es_1954
---
PO_ 1956 Es_1957-58
Aldo Indelicato (MAC siciliano)
Cinema Lux Cinema Metropol
Note alla tabella La destinazione d’uso degli edifici, quando mutata, è stata riportata tra parentesi quadre; La storia della costruzione è stata dettagliata nelle diverse fasi laddove le fonti consultate ne hanno consentito una critica ricognizione; *Date non supportate da prove documentarie. Acronimi ACSLP (Approvazione Consiglio Superiore Lavori Pubblici); Es (Progetto Esecutivo); Ma (Manutenzione); PO (Progettazione Originaria); RDB (Riparazioni Danni Bellici del 1943); RI (Rifunzionalizzazione/Integrazione); sd (senza data); Vr (Variante). Fonti bibliografiche (Ojetti et al., 1931); (Tentori, 1959); (Cardullo, 1996); (Indelicato, 1999); (Cortese et al., 2003); (Farina, 2010); (Cucinotta, 2011); (Fera, 2011); (Palazzotto, 2011, 2013); (Messina, 2015); (Di Benedetto, 2018); (Cernaro, Fiandaca, 2019). Fonti archivistiche: Fondo Ricostruzione edilizia (AGC-Me); Fondo Genio Civile-Danni Bellici (ASMe); Fondo Ridolfi-Frankl-Malagricci (ANSL); Fondo Storico Immobiliare (AS-INA). Fonti sitografiche artefascista.it; lescalinatedellarte.com.
Le ragioni di questa scelta derivano sia dall’esigenza di rimanere in ambito urbano “storicizzato”, delineato per la realtà messinese dal Piano Borzì, sia perché, se pure espressione di una ricerca stilistica coltivata da architetti di rilievo - da Giuseppe Samonà a Filippo Rovigo, da Calandra con un gruppo di professionisti locali (I. Giordano, N. Cutrufelli, G. De Cola, A. Barone, A. D’Amore) a Michele Valori - i quartieri periferici, più di quelli centrali, sono stati interessati da un inedito processo di “autocostruzione”. Con interventi minuti e diretti gli abitanti hanno occupato spazi di pertinenza, modificato finiture e colori per unità edilizia autonoma, sostituito infissi, balaustre e ringhiere, affastellato verande e superfetazioni, collocato antenne, climatizzatori, tende parasole. Per non dire del degrado mai risolto che ha contribuito a rendere difficilmente riconoscibile il loro disegno originario, rintracciabile unicamente negli elaborati di progetto. A supporto dell’Anagrafe del Moderno è stato concepito un repertorio fotografico (rielaborato dalle autrici) che, distinto per complessi edilizi o per analogie tipologiche,
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Alessandra Cernaro Ornella Fiandaca
consente di testimoniare iconograficamente le mutazioni subite dagli edifici tra il 1930 e il 1965, nel periodo “di esercizio” del lessico moderno, ripercorrendo le tappe più significative dalla progettazione originaria, alle riparazioni postbelliche, alle prime esigenze di rifunzionalizzazione o integrazione (figg. 1-5). Le problematiche aperte per la COnservazione Affrontata la tematica principale riferita alla mancanza di una documentazione organizzata in inventari, schedari, database che accolgano e consentano agevole consultazione dei progetti originari e di tutte le trasformazioni subite a causa di varianti in fase esecutiva, danni bellici e riparazioni, manutenzioni e restauri recenti, sono state analizzate le problematiche più direttamente correlate alla COnservazione. Due in particolare: una procedurale, l’altra progettuale. La prima riguarda l’assenza di un testo unico per la tutela dell’architettura moderna, non necessariamente dedicato e distinto dal più generale patrimonio dei Beni Culturali e Ambientali, ma con principi chiari e riuniti in un solo codice. Per il riconoscimento dell’interesse culturale con conseguente apposizione di un vincolo, attualmente occorre fare difficile e confuso riferimento a Diritti d’Autore (L.N. 633/1941, art. 20), al Codice dei Beni Culturali e Ambientali (D.Lgs. 42/2004) con varianti contraddittorie dal 2004 al 2017, nonché all’appellativo di un non meglio specificato “eccezionale interesse identitario”. La seconda ne consegue poiché nelle more di una politica normativa di salvaguardia ha fatto difetto anche la sensibilità di chi avrebbe dovuto gestire, pubblico o privato, questo patrimonio culturale, che in nome di esigenze funzionali, di revisionismo storico, di mancato giudizio di valore, ha consentito trasformazioni irrimediabili impedendo a ritroso la possibilità di un intervento conservativo. Le istanze originatesi a livello nazionale hanno trovato anche a Messina una necessità di trovare risposte condivise, sia pure con le sfumature determinate dalle specificità locali. Per l’approfondimento dell’approccio metodologico adottato in una seconda fase di questo studio, strettamente correlata a quella qui descritta, si rinvia al contributo correlato “Restauro” del “Moderno”: un ossimoro concettuale divenuto procedurale. La COnservazione del modernismo a Messina dal 1945 a oggi. Bibliografia Accademia Nazionale di San Luca (ANSL), Fondo Ridolfi-Frankl-Malagricci, Case INCIS a Messina 1949-1952, <https://www.fondoridolfi.org/FondoRidolfi/92_5/periodo/case-incis-a-messina.htm> (06/20). Antica Messina (Stazione, Palazzata, Cittadella Fieristica, Case INCIS, Piazza Castronovo, Cinema) <https://www.facebook.com/AnticaMessina.it> (06/20). Fig. 4 Messina, Edilizia residenziale, Repertorio fotografico del Moderno 1930-65 [Cfr. COFig. 4]. (foto: Antica Messina; Farina, 2010)
Archivio di Stato di Messina (AS-Me), Fondo Genio Civile-Danni Bellici, Banco di Sicilia (Busta 68, Posizione 4082); Casa del Fascio (Busta 12, Fascicolo 30; Busta 13, Fascicolo 32); Palazzo INAIL (Busta 14, Posizione 140). Archivio Genio Civile di Messina (AGC-Me), Fondo Ricostruzione edilizia, Palazzata-Isola X, Jolly Hotel Archivio Gestione Immobiliare Istituto Autonomo Case Popolari (AGI-IACP-Me), Edilizia economica e popolare nei quartieri Gazzi e Annunziata, a nord, e da Gazzi a San Filippo, a sud. Archivio Storico INA Assitalia (AS-INA), Fondo Storico Immobiliare, Sottoserie Complesso di via I Settembre n. 54-84 (Cortina Del Porto) Messina. Architettura & Arte in Italia durante il Fascismo, <http://www.artefascista.it/> (06/20).
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Fig. 5 Messina, Cinema, Repertorio fotografico del Moderno 1930-65 [Cfr. CO-Fig. 5]. (foto: Antica Messina; Collezione Michelangelo Vizzini)
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“Restauro” del “Moderno”: un ossimoro concettuale divenuto procedurale La COnservazione del modernismo a Messina dal 1945 a oggi Alessandra Cernaro Alessandra Cernaro Ornella Fiandaca
Dipartimento di Ingegneria, Università di Messina.
Ornella Fiandaca
Dipartimento di Ingegneria, Università di Messina.
Abstract
The research about the expression of Modernism in Messina has been undertaken retracing the criteria widely adopted by the association DOCOMOMO (DOcumentation and COnservation of buildings, sites and neighborhoods of the MOdern MOvement), which recognises the unavoidable need to document and preserve the 20th century architecture, from the Modern Movement to the subsequent stylistic tendencies, however starting from a “revolution” of lexicon paradigms in relation to the tradition. This has to be highlighted for Messina, fully re-built after the earthquake of 1908 since the 1920s, then completed/repaired after the mid-1940s, and “restored” from the 1980s. After a critical DOcumention phase1, to identify the features that made distinguishable the buildings of the “modern” designers from the coeval works of the traditionalist ones, we faced a theoretical and operative study on the topic of COnservation, verifying legislative modalities about protective restrictions for Modern architecture, attitudes adopted in Messina and consequent approaches to protection interventions with the aim of determining the state of cultural progress on this theme and what should be done for the lacks. Keywords
Modernism, Unified information system (Vincoli in Rete), Conservative Restoration, Messina
La COnservazione dell’Architettura Moderna
Vedi Cernaro A., Fiandaca O., “Restauro” del “Moderno”: un ossimoro concettuale divenuto procedurale. La DOcumentazione del modernismo a Messina fra 1930 e 1965
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La relazione fra COnservazione e DOcumentazione è da sempre ritenuta imprescindibile. Conoscere le vicissitudini che hanno contraddistinto la storia della costruzione nel caso dell’architettura moderna permette di focalizzare le mutazioni resesi necessarie a seguito di danni, obsolescenza o degrado dalle quali ripartire per una riflessione che debba orientare ulteriori interventi di restauro. Una valutazione che, per la recente e immatura consapevolezza della problematica, avviene quasi sempre in assenza di una verifica/dichiarazione di sussistenza dell’interesse culturale, formulata da organi competenti, che abbia concluso il suo procedimento con esito definito al quale assoggettare le scelte di tutela.
Fig. 1 Messina. Cittadella Fieristica – Declinazione degli interventi di “COnservazione” in itinere “Restauro conservativo” del Portale d’ingresso e del Padiglione centrale “Demolizione/ricostruzione” del Teatro in Fiera (foto: Antica Messina; Cardullo, 1996; Gazzetta del Sud, 2019; Normanno, 2020; Strettoweb, 2020).
Nei riguardi di questo “nuovo” scenario si sono colti, a livello nazionale e internazionale, e riportati in sintesi, alcuni atteggiamenti ormai consolidati per poterli comparare con quanto avvenuto a Messina. • per le architetture più rappresentative, ritenute “iconiche”, la tendenza è stata quella di una riproduzione “all’identico”, assecondando la prassi del ripristino per mantenerne viva l’immagine originaria, rifiutandone la storicizzazione quale valore; • per altre meno rappresentative, ma comunque ritenute “funzionali”, alla conservazione si è fatta perlopiù prevalere la rilettura secondo le contemporanee conoscenze ed esigenze, con poca o nessuna attenzione alla salvaguardia di valori storici, formali, tecnici e materiali; • per tante, appartenenti a qualsiasi categoria valoriale, ma non coinvolte dal vaglio della considerazione storica, si è assistito al disinteresse generale che ha assunto le forme dell’abbandono o del riuso, fino a giungere nei casi più estremi alla demolizione. Nel dibattito, anche questo di antica memoria, fra ripristino, recupero o diniego, solo alcuni casi si sono distinti per l’equilibrio intravisto fra i possibili antagonismi, attraverso una complessa operazione di restauro, atto di reinterpretazione storico-critica dei molteplici valori attribuiti all’opera da preservare, dall’esordio compositivo all’innovazione costruttiva, dalle competenze professionali alle specificità produttive, dalla contestualizzazione politica al contributo socio-economico (Carbonara, 2018; Salvo, 2016). A valle della DOcumentazione del patrimonio architettonico messinese (cfr. nota 1) incluso in un Registro del Moderno, una seconda fase di studio ha preso origine dalla considerazione che gli assunti teorici sul cosa e come restaurare sembra debbano ripercorrere, in chiave contemporanea, le complesse riflessioni attraversate per l’approdo al restauro critico del patrimonio storico-architettonico pre-moderno, individuando tuttavia le differenze in virtù delle quali giungere a integrazioni o modifiche di metodo. Pertanto sono stati individuati gli approcci adottati in presenza o meno di un regime vin-
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colistico, di qualsiasi natura, su un campione emblematico di opere del Moderno, per costituire una trama culturale possibile sulla quale ordire i principi guida per gli interventi di conservazione futuri.
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Gli strumenti di tutela e la salvaguardia possibile La principale valutazione di culturalità di un bene è regolamentata dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 42/2004 e ss.mm.ii.) secondo cui la procedura di apposizione del vincolo può attuarsi se coesistono per i beni immobili - a valle di una verifica di sussistenza, se appartenenti al pubblico demanio, oppure di una dichiarazione d’interesse culturale, se a soggetti privati - due requisiti: opera di autore non più vivente eseguita da almeno settant’anni (cinquanta per le LL.NN. 364/1909, 1089/1939, 490/1999). Questa esplorazione è stata condotta attraverso “Vincoli in Rete”, piattaforma digitale realizzata dall’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (interno al MiBACT), che consente di verificare le azioni di tutela intraprese, incrociando i dati presenti nelle Soprintendenze, dai Segretariati Regionali e inserite, a livello centrale, in quattro sistemi informativi con obiettivi diversi ma complementari: • Beni Tutelati (BT) - Direzione Generale Belle Arti e Paesaggio, per instradare e registrare (D.Lgs. 42/2004) le procedure di interesse culturale dei beni mobili e immobili (MIBACT-DGABAP, 2020); • Carta del Rischio (CdR) - Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, per stimare la vulnerabilità del patrimonio architettonico e comprendere i decreti di vincolo derivanti da regolamentazioni normative precedenti al 2004 (MiBACT-ICR, 2020); • SITAP, sistema WEB-GIS - Direzione Generale Belle Arti e Paesaggio, per la localizzazione delle aree vincolate (MiBACT-DGABAP, 2020); • SIGEC Web - Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, per uniformare e riunire le descrizioni dei beni culturali (MiBACT-ICCD, 2020). Con riferimento all’intero patrimonio architettonico del Comune di Messina, dagli esiti dell’interrogazione di “Vincoli in Rete” emerge l’attuale livello di sussistenza dell’interesse culturale per i beni immobili, con un consistente numero di edifici ancora da sottoporre a verifica (155 su 409); la vulnerabilità di questi ultimi, denunciata dalla presenza nella Carta del Rischio, potrebbe compromettere la salvaguardia dei connotati storico-artistici che ne decretano l’appartenenza ai beni culturali (fig. 2). I dati acquisiti sono stati analizzati e selezionati con l’obiettivo di valutare l’impegno sinora profuso nella tutela dell’architettura moderna “registrata” per Messina. In realtà, solo una parte del repertorio analizzato soddisfa il requisito di anzianità imposto dalla normativa ed è dunque esclusa la possibilità di ritrovare iter procedurali di verifica/dichiarazione di interesse culturale per gli immobili costruiti dopo il 1950. Tuttavia, il numero dei beni per i quali avremmo dovuto rilevarli, conclusi o ancora in corso, poteva essere superiore a quello riscontrato. Dalla piattaforma digitale emerge che il vincolo è stato apposto solo sulla Stazione Marittima; due edifici, Casa del Fascio (oggi Ufficio del Catasto) e Palazzo dell’INFAIL (oggi INAIL), sono stati inseriti nella Carta del Rischio con l’etichetta beni immobili “di interesse culturale non verificato”. Per ciò che concerne l’edilizia residenziale si è riscontrato un maggior numero di istanze: una presentata per le Case INCIS di Mario Ridolfi con iter in corso e altre relative all’edilizia economica degli isolati 11bis, 12bis e 14bis, progettate dal Genio Civile, esitate in una dichiarazione di non interesse culturale (tab.1).
Fig. 2 Dati desunti dal Sistema Informativo Unificato (SIU) “Vincoli in Rete” in data 06/20.
Edifici
Ente schedatore Verifica/Dichiarazione di sussistenza
Data
Misure
Is. VII Casa del Fascio Palazzata (FL 1940) Is. VIII INFAIL (INAIL) Palazzata (FL 1948) Stazione Marittima (FL 1940) Case INCIS is. 276 (FL 1952) Case economiche is. 11bis (FL 1939) Case economiche is. 12bis (FL 1939) Case economiche is. 14bis (FL 1939)
SBCA-ME
Di interesse culturale non verificato
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CdR:ID/101636
SBCA-ME
Di interesse culturale non verificato
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CdR: ID/75564
SBCA-ME
Di interesse culturale dichiarato
SBCA-ME
Verifica di interesse culturale in corso
SBCA-ME
Di non interesse culturale
SBCA-ME
Di non interesse culturale
SBCA-ME
Di non interesse culturale
19.06.2002 CdR: ID/211817 (D. Lgs. 490/1999) --CdR: ID/53153 BT: ID/38278 --CdR: ID/62613 BT: ID/37168 --CdR: ID/173841 BT: ID/47873 --CdR: ID/173852 BT: ID/49833
Tab.1 Verifiche/Dichiarazioni di sussistenza presenti per Messina nel SIU “Vincoli in Rete” Per segnalare l’epoca di realizzazione si è scelta la data di ultimazione lavori (FL)
Una più assidua attività vincolistica sarebbe stata doverosa almeno per gli edifici pubblici. Il Codice dei beni culturali e del paesaggio prevede infatti all’art. 10 comma 1 per i beni mobili e immobili “appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico” un iter procedurale di verifica della sussistenza dell’interesse culturale che, secondo l’art. 12 comma 2, è avviato su esplicita richiesta degli organi ministeriali competenti o dei soggetti proprietari. È quindi abbastanza allarmante verificare quanto deficitaria sia l’attenzione rivolta al repertorio del Moderno, problema non solo locale, e quanto, in assenza di un controllo delle azioni d’intervento consentite, l’intero patrimonio abbia subito prevaricazioni che vanno dalla trasfigurazione alla demolizione, indifferenti alla memoria storica rappresentata. D’altronde la valutazione della culturalità non può essere ratificata da un periodo di costruzione così anteriore, ma più arditamente potrebbe interessare anche beni molto più “giovani” la cui tutela è necessaria forse più della storicizzazione. Anche perché il rischio è di non trovare più alcun “interesse culturale” per sopraggiunta estrema demolizione.
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Nella prima formulazione, la scelta del D.Lgs. 42/2004 è stata quella di recepire da testi normativi precedenti i due requisiti ritenuti imprescindibili per procedere all’apposizione del vincolo, accettando per l’anzianità dell’opera la soglia dei cinquant’anni, fissata sin dalla L.N. 185/1902, “Tutela del patrimonio monumentale”, ricordata come la prima disposizione in materia di beni culturali dell’Italia Unita. L’innalzamento a settant’anni, avvenuto con disposizioni abrogative introdotte dal 2011 al 2017 interessando in modo discriminatorio prima l’edilizia pubblica e poi anche quella privata, ha in realtà ritardato l’applicazione delle politiche di tutela sulle architetture del secondo dopoguerra, nelle quali si è espressa una modernità libera dai condizionamenti ideologici avuti nella fase immediatamente precedente. Dal momento che concettualmente non si può prescindere da un distacco storico e che normativamente questo si traduce definendo una soglia, per architetture di particolare rilevanza culturale che hanno manifestato esigenze di salvaguardia prima del raggiungimento del requisito di anzianità è consentito il ricorso a due espedienti: • l’articolo 11 del D.Lgs. 42/2004 (ss.mm.ii.), dedicato a “Cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela”, al comma “e” prevede che misure eccezionali possano essere intraprese per “le opere dell’architettura contemporanea di particolare valore artistico”; • l’articolo 20 della L.N. 633/1941, intitolata “Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”, garantisce all’autore il diritto di decidere come condurre eventuali modifiche che dovessero rendersi necessarie per l’opera, alle quali però non può opporsi. Provvedimenti straordinari da adottare per un numero limitato di casi di comprovata eccezionalità. Esiste ancora una categoria di interesse “per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione”, tutelata dall’articolo 10 comma 5 del D.Lgs. 42/2004 (ss.mm.ii.), alla lettera d-bis introdotta con L.N. 124/2017, per cui continua a valere la soglia dei cinquant’anni. Alla luce del panorama normativo, le strategie di tutela percorribili non contemplano la produzione architettonica successiva, oggi, al 1950, anche quando si è in grado di apprezzarne la qualità stilistica oltre che distributivo-funzionale, tecnico-costruttiva, socio-economica, con caratteri di innovazione su più profili. È quindi necessario capire come preservare un’eredità culturale che si candida a incrementare quella storico-culturale “convenzionale” e ad affiancare quella “moderna” già ufficialmente riconosciuta. Circoscrivendo le riflessioni al contesto messinese, i pochi risultati di riconoscimento della sussistenza dell’interesse culturale, congiunti a non sempre adeguate scelte di riparazione/manutenzione/restauro, manifestano una limitata consapevolezza della portata del patrimonio edilizio inscrivibile nel Moderno e non è detto che la sua acquisizione avverrà a breve. Entro un decennio tutte le testimonianze architettoniche individuate e inserite nel “registro” raggiungeranno i requisiti normativi e quindi saranno beni di cui poter confermare la presunzione legale di culturalità. Occorre comprendere cosa è accaduto o accadrà in questo periodo di oblio. L’esercizio della tutela sarà demandato alla sensibilità del proprietario o del progettista che dovranno accompagnare l’edificio verso l’anzianità legislativa richiesta; se da un lato ciò consente quel distacco temporale ritenuto necessario per maturare la consapevolezza sul presunto valore culturale, dall’altro aumenta il rischio di impoverimento o, negli scenari più critici, di perdita delle esemplificazioni stilistiche e tecnico-costruttive moderniste, come già purtroppo verificatosi in diversi casi.
La “conservazione” in assenza di vincolo Prima di intraprendere una riflessione su quel che sia possibile fare per i beni architettonici appartenenti a questo spaccato temporale, diversi fra loro e dagli antecedenti (per i quali le carte del restauro hanno segnato un percorso evolutivo giunto a correlare i principi teorici al giudizio storico-critico), si è analizzata la “conservazione” in assenza di vincolo per il campione messinese interrogato, al fine di scoprire se gli approcci adottati seguissero o meno linee condivise o se per ciascun caso l’azione fosse determinata dalla contingenza. Occorre fare una distinzione di approccio fra gli edifici realizzati nel periodo 1930-45 e quelli eretti dopo la seconda guerra mondiale, in quanto i primi hanno richiesto interventi di riparazione “prematuri”, se rapportati alle età delle costruzioni, e di inevitabile distanziamento culturale per ragioni di revisionismo storico, che non ha invece interessato i secondi semmai coinvolti dalle trasformazioni urbane degli anni ‘70. Per gli esordi architettonici del linguaggio Moderno, ancora intrisi di un’eco tradizionalista, può dirsi che la realizzazione si è inoltrata spesso fino alle soglie della guerra e che per sanare i danni prodotti dai bombardamenti del 1943 sono stati condotti interventi di ripristino di tipo “conservativo”, a meno della necessaria elusione dei richiami testuali, simbolici o allegorici all’ideologia fascista. La consultazione di fonti archivistiche, di testimonianze bibliografiche coeve e il riscontro nella documentazione fotografica dell’epoca hanno evidenziato la volontà di riparare i casi repertoriati mantenendone immodificata l’essenza costruttiva quanto l’immagine stilistica, certamente in assenza di vincolo e in continuità naturale con quanto era stato realizzato non oltre un decennio prima. Atteggiamento riscontrato per la Casa del Fascio (AS-Me Fondo Genio Civile-Danni Bellici), la Stazione Centrale e Marittima (FS Compartimento di Palermo-Sezione Lavori, 1947), e il Palazzo dell’INA (AS INA). Sempre più blanda è apparsa la cura emersa via via che ci si allontana dagli anni ‘50. L’assenza di un riconoscimento culturale (giunto solo per la Stazione Marittima nel 2002) ha consentito alle proprietà, pubbliche e private, di adeguare gli edifici alle esigenze funzionali maturate nel tempo o a sanarne il degrado con azioni prive del doveroso rispetto al valore storico-architettonico di ciascuno. Dall’analisi svolta, ancora in corso, è emerso che i diversi interventi di manutenzione (ordinaria o straordinaria), ristrutturazione e restauro che hanno interessato la Casa del Fascio (anni 1960-70), la Stazione Centrale e Marittima (anni 1970-2001), sembra siano stati improntati a uno stato di emergenza con documentazione progettuale sommaria, quando non assente, e scelte governate dalla massima economia. In apparenza differente il caso della Cittadella Fieristica, laddove agli interventi degli anni ‘30 se ne sono affiancati, previo concorso, altri di sostituzione o integrazione ad opera di progettisti autorevoli e con l’intento di rispondere alla flessibilità richiesta da un complesso sistema espositivo che esigeva una nuova immagine a ogni edizione, stratificando così architetture d’autore: dopo Libera e De Renzi, Rovigo nel decennio 1940-50 e Pantano dopo gli anni ‘50, chiamati, anche ma non solo, a sanare i danni prodotti dalla guerra. A partire poi dagli anni ‘80 è stata oggetto di piani di restauro, ipotesi di riqualificazione e da ultimo si sta conducendo un intervento di riqualificazione con approcci differenti: demolizione/ricostruzione per il padiglione d’ingresso (Teatro in Fiera); consolidamento, integrazione e rifunzionalizzazione per il padiglione delle mostre d’arte e del turismo e per il bar-ristorante Irrera a mare, mentre per il portale d’ingresso e per il padiglione centrale realizzato da Libera-De Renzi negli anni ‘40, ristruttu-
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Alessandra Cernaro Ornella Fiandaca Fig. 3 Messina. Stazione Centrale e Marittima - Demolizione del Fabbricato G.V.A. (Grande Velocità Accelerata) e cessione dell’area alle Poste e Telegrafi per la realizzazione di una sede negli anni Settanta. (foto: Antica Messina; scatti delle autrici).
rato da Rovigo negli anni ‘50 e integrato da Pantano negli anni ‘60, “di riconosciuto interesse culturale” è stato dichiarato si tratti di un “restauro conservativo” che appare tale solo con riferimento a un ripristino della fisionomia raggiunta a valle delle progressive mutazioni “d’autore”. Osservando le loro strutture in calcestruzzo armato d’altronde si attesta una condizione di degrado talmente avanzato da non consentire un’accezione semantica del termine. La restante parte del repertorio del Moderno della città, rappresentata dai cinema e dalle residenze costruite in ambito urbano dal secondo dopoguerra, sollecita ulteriori riflessioni che, se da un lato evidenziano una migliore gestione del bene quando la proprietà è privata, dall’altro ripropongono la problematica della diversa, quasi carente, cura prestata allo spazio interno rispetto a quella riservata alla fisionomia esterna: infatti, se per questa si è riscontrato uno stato di conservazione pressoché “immutato”, le specificità compositive e distributive degli ambienti sono state variate per assecondare destinazioni d’uso differenti da quelle native: i cinema, a parte qualche rara eccezione sono diventati centri commerciali o supermercati, le residenze sono state adeguate a modelli funzionali contemporanei. Ancora diverso è il caso dell’edilizia economica e popolare insediata nella prima periferia urbana per cui l’assenza di manutenzioni di qualsiasi natura e le frequenti superfetazioni hanno reso irriconoscibili i caratteri del progetto originario. Le prassi osservate nel contesto messinese potrebbero essere una distorta interpretazione della Carta Europea dei Monumenti Moderni del 1991 secondo la quale: L’unico strumento di tutela pienamente efficace è il progetto, che può anche prevedere la parziale modificazione della permanenza trattata quando la modificazione stessa sia condizione per mantenere, o recuperare, significati di centralità culturale e sociale altrimenti minacciati di dispersione (Carbonara, 1991).
Occorre domandarsi se questa consapevolezza, volta alla tutela estrema che può giustificare un compromesso, non abbia, in assenza di vincoli e tutele, legittimato la trasformazione parziale o totale dell’architettura moderna, rendendola da manipolata a trasfigurata, ingenerando interferenze anche profonde coi livelli di riconoscibilità del suo valore storico. Dai casi esaminati emerge chiaramente che la conservazione in assenza di vincolo per gli immobili candidati a divenire beni culturali non è una strada percorribile, perché non si ha alcuna garanzia di salvaguardia delle specificità sulle quali dovrebbe basarsi la valutazione di culturalità. Per gli edifici già compromessi bisognerà capire quali interventi di de-restauro andrebbero eventualmente condotti per riportare ciascuna opera nelle condizioni congruenti ai principi del restauro che si intendono applicare e per ricercare le ragioni della con-
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servazione, più che nel progetto originario, nella storia della costruzione per documentarne, se opportuno, lo stato in cui ci è pervenuta. Il repertorio fotografico (rielaborato dalle autrici) è teso a evidenziare gli approcci riscontrati con maggiore assiduità (figg. 3-5): Le conseguenze sul “restauro” del Moderno depurate da alcuni fraintendimenti Se è pur vero che bisogna cogliere l’anima dell’architettura moderna nel legame biunivoco istituito fra cifra stilistica e sperimentazione tecnologica, quasi a riconoscere nelle soluzioni costruttive della cultura architettonica quel valore aggiunto da preservare, una riflessione va fatta con riferimento alle declinazioni che questo stile assume in Italia, prima e dopo la seconda guerra mondiale, e ancor più a Messina. Osservando le costruzioni qui realizzate dal 1930 alla fine del Regime, non ci si può sottrarre dalla valutazione del costante ricorso a materiali autarchici e tradizionali: rivestimenti marmorei per interni ed esterni; serramenti lignei; arredi “artigianali” di design, per sottolineare almeno quelli che ne caratterizzarono l’estetica. La preferenza accordata a una monumentalità “classica” dovrebbe influenzare l’accezione stessa del termine restauro: la pelle dell’edificio, tra tradizione e minimalismo, è un valore da preservare poiché i rivestimenti lapidei, rappresentativi di una costante costruttiva nazionale di quel periodo, qui dissimulano tipi antisismici molto particolari, e indiscutibilmente “sperimentali”. Vocazione che non è stata presa in considerazione in nessuno degli interventi condotti nel decennio 1990-2000, interpretati come mera manutenzione ordinaria di sostituzione/manomissione che ha privilegiato costi e funzionalità. Sorte non migliore è capitata ad alcune opere realizzate a partire degli anni ‘50, quando il cemento armato, che altrove vive la sua stagione più felice connotata da capolavori di Morandi, Nervi, Musmeci, Zorzi, a Messina incontra Rovigo, Pantano, Samonà, Calandra, nella cittadella fieristica, nei cinema o in esempi di edilizia residenziale in ambito urbano e in quartieri periferici, con soluzioni tecniche “moderne” di diversa gerarchia economica, sottratte a specifiche politiche di salvaguardia. Sul campo si sono stratificati, in assenza di un riconosciuto regime di vincolo, approcci diversi riferibili alla sensibilità del progettista, alle esigenze della committenza, a un riconoscimento di valore talvolta strumentale. Manca una consapevole cultura della tutela; sono inadeguati i paradigmi per riconoscerne un valore differente dall’antico; difetta l’approfondimento tecnico poiché si ritengono le varianti costruttive assimilabili alle attuali; si dà per scontata la conoscenza del progetto e delle sue peculiarità linguistiche e tecnologiche. Il tema del restauro dovrebbe piuttosto essere affrontato con atteggiamento libero e aperto alla sperimentazione di procedure operative in grado di garantire l’organicità dei rapporti tra scelte figurative e soluzioni tecnologiche reinterpretate in chiave di “soluzioni tecniche congruenti” (Carbonara, 2018). Non è quanto fatto nella Stazione Centrale di Messina laddove per intervenire su elementi degradati, sanare guasti funzionali, prevedere ampliamenti, la scelta delle lastre di rivestimento è stata condotta nel più completo disinteresse di ciò che era stato previsto con dovizia di particolari quasi maniacale nel progetto originario. Non può annoverarsi come adeguato il rifacimento del rivestimento della Casa del Fascio, dove il travertino è stato sostituito da un intonaco segnato a finta cortina, senza che le dimensioni delle lastre e le giunzioni corrispondessero in alcun modo alle lastre originarie. Nessuna soluzione congruente con l’immagine originaria sta
Fig. 4 Messina. Casa del Fascio Riproduzione “all’identico” per ripristini danni bellici contigui al bassorilievo e sostituzione degli anni ‘60‘70 del rivestimento lapideo della torre con intonaco a fasce orizzontali. (foto: Antica Messina; scatti delle autrici).
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Alessandra Cernaro Ornella Fiandaca Fig. 5 Messina. Casa Donato Ristrutturazione per la riconversione dell’edilizia residenziale in sede del Monte dei Paschi di Siena agli inizi degli anni ‘80 e manutenzione straordinaria alla fine degli anni ’90. (foto: Antica Messina; Indelicato, 1999; scatti delle autrici)
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supportando il consolidamento del padiglione principale della cittadella fieristica ma un placcaggio ordinario da occultare con coltri di intonaco. Non possono essere annoverate con tale accezione gli sventramenti di alcuni cinema resi illegibili da adeguamenti funzionali e impiantistici. A valle di questa indagine si è compreso che le conseguenze di un approccio metodologico, che ponga al centro le opere del Moderno, non si possono confinare al concetto di tutela e valorizzazione del singolo bene. Occorre scongiurare l’asetticità di simili atteggiamenti promuovendo azioni con le quali si possa: restituire autorevolezza e dimensione storiografica agli autori: Mazzoni da funzionario ministeriale osservante delle disposizioni del Regime a visionario futurista e grande conoscitore di raffinate soluzioni tecnologiche; Samonà per cui la Palazzata, dal concorso del 1930 passando per il progetto della Casa del Fascio della fine degli anni ‘30 e per i palazzi degli anni ’50, è occasione di sperimentazione stilistica, con una modernità inizialmente sottaciuta, successivamente vincolata ma poi liberamente espressa; Rovigo e Pantano non ancora affrontati con studi sistematici da cui emerga lo spessore professionale e il contributo alla storia della città; comprendere quali specificità tecnico-costruttive hanno caratterizzato la grammatica compositiva e costruttiva del Moderno messinese e le loro interferenze: il sistema dei rivestimenti lapidei (1930-40); i telai strutturali in vista (1950-60); le specchiature colorate in litoceramica, l’uso del vetrocemento, fra le maglie strutturali a facciavista; delineare per ciascun edificio il contesto socio-economico, politico-strategico, tecnologico-produttivo in cui è stato concepito per evitare che le scelte di conservazione siano legate unicamente al loro valore di “icone”, se riconosciuto, o altrimenti, come sta già capitando, siano rinnegate da decisioni orientate ad abbandono e demolizione: attraversare le vicende che hanno coinvolto/influenzato/determinato la storia della Stazione Centrale e Marittima, della Casa del Fascio e dell’intera Palazzata, della Cittadella Fieristica, dell’edilizia urbana e dei quartieri INA Casa, INCIS, GESCAL; supportare la ricerca tecnologica relativa alla produzione di materiali e componenti, la storia economica che ha caratterizzato la formazione di maestranze specializzate, le ragioni di una peculiarità stilistica influenzata dalla ricostruzione post-terremoto o derivata dalla migrazione di architetti nazionali dal continente a Messina: l’influenza delle sanzioni autarchiche del cemento armato in una città che doveva essere “inevitabilmente” antisismica; il riscatto nel dopoguerra, la sperimentazione di prodotti intermedi e di materiali nuovi; valutare se non sia la stessa deperibilità contenuta nella ragion d’essere di queste architetture a rendere difficilmente praticabile la tradizionale nozione di “restauro” quale intervento rigorosamente conservativo: l’uso del cemento armato, a facciavista o placcato e la scelta di materiali non più in produzione o rivisitati anche quando tradizionali, posti all’origine del rinnovamento linguistico, non consentono la riproducibilità dell’immagine ma richiedono la sperimentazione di “soluzioni tecniche congruenti”(Dal Falco, 2002). Invece ci troviamo davanti a una realtà ben diversa. L’attenzione nei riguardi del Moderno è deficitaria e non può addursi tale carenza all’assenza di un “distacco storico” individuato nei settant’anni dalle attuali prescrizioni di salvaguardia perché dopo gli anni ’50 sono comunque riconoscibili opere che meriterebbero di non essere demolite o snaturate come è capitato per quelle di Samonà, Rovigo, Pantano, Ridolfi. Oggi, sarebbe possibile tutelare soltanto la Stazione Marittima di Angiolo Mazzoni, vincolata dal
Fig. 6 Messina. Cinema Metropol e Cinema Olimpia - “Restauri conservativi” condotti dalla fine del Novecento a oggi con ripristini figurativi e ristrutturazioni d’interno per destinazioni commerciali. (foto: Antica Messina; Collezione Michelangelo Vizzini; Farina, 2010; Indelicato, 1999; scatti delle autrici).
2002 perché ha maturato i requisiti normativi ma, ironia della sorte, dopo che sono state travisate molte delle valenze funzionali, compositive e tecnologiche che avrebbero meritato ben altro approccio conservativo. Riferimenti Antica Messina (Stazione, Casa del Fascio, Cittadella Fieristica, Casa Donato, Cinema Olimpia) <https://-www.facebook.com/AnticaMessina.it> (06/20). Ranaldi A., Novecento da tutelare, in «Abitare», <http:www.abitare.it/it/ricerca/pubblicazioni-/2019/12/12/antonella-ranaldi-novecento-da-tutelare/>, (06/20). Carbonara G. 1996, Trattato di restauro architettonico, IV vol., UTET, Torino, pp. 450-452, punto 7. Carbonara G. 2018, Perché restaurare il “moderno”?, A. Morelli, S. Moretti (a cura di), Il cantiere di restauro dell’architettura Moderna. Teoria e prassi, Nardini Editore, Firenze, pp. 13-17. Collezione Michelangelo Vizzini, disponibilità privata. Dal Falco F. 2002, Stili del razionalismo: Anatomia di quattordici opere di architettura, Gangemi, Roma. FS Compartimento di Palermo 1947, Messina 1943-1947, la ricostruzione ferroviaria. Pezzino & F, Palermo. Indelicato A. 1999, Architettura e dintorni a Messina, «Città e territorio», n. 8 (1), pp. 46-50. Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro - MiBACT, Sistema informativo «Vincoli in Rete», Messina <http://vincoliinrete.beniculturali.it/VincoliInRete/vir/bene/listabeni>, (06/20). MiBACT, Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio (DGABAP), <http://www.iccd.benicultu-rali.it/it/sigec-web>, <http://www.sitap.beniculturali.it/>, (06/20); MiBACT, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD), <http://www.iccd.beniculturali.it/-it/sigec-web>, (06/20); MiBACT, Istituto Centrale per il Restauro (ICR), <http://www.cartadelrischio.it/>, (06/20). Salvo S. 2007, Grattacielo Pirelli, cronaca di un restauro, Estratto da: Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura, fascicoli 44-50, Bonsignori Editore, Roma, pp. 571-580. Gazzetta del Sud 2019, Fiera di Messina, pronto il portale, <https://rtp.gazzettadelsud.it/programmi/telegior-nale/2019/04/26/fiera-di-messina-pronto-il-portale-3dd84b67-40ad-4359-b02e-971ef8413ebd/>, (06/20). Normanno 2020, Addio al Teatro in Fiera, aggiudicati i lavori di demolizione, <https://normanno. com/at-tualita/addio-teatro-fiera-messina-lavori-demolizione/>, (06/20). Strettoweb 2020, Restyling della Fiera di Messina, <http://www.strettoweb.com/2020/02/fiera-messina-autorita-portuale-stretto-lavori-ex-teatro-demolito-ricostruito-dettagli-progetto/972078/>, (06/20).
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Il Parco archeologico di Porto (Fiumicino): conoscenza, conservazione e fruizione Emanuela Chiavoni
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Daniela Esposito
Emanuela Chiavoni Daniela Esposito
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Abstract The archaeological park of Porto is a particularly rich area from a naturalistic point of view. The site is entrusted to the direction of the Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma and Soprintendenza per i Beni Archeologici di Ostia. After the construction of the Port of Claudio, in 64 d.C, a new port basin was built wanted by the Emperor connected with a new canal to the Tiber river to facilitate the transfer of goods to Rome.Currently the coast, which is located in a strategic position with respect to Fiumicino Airport, is about three kilometers from the ancient plant. Most of the eastern sector is occupied by a large space that reproduces the dimensions of the large entrance canal to the exagonal port and the remains of the Trajan’s department stores. This archaeological area is a heritage of singular value to be explored in an interdisciplinary way with new and more sophisticated tools and technologies of analysis and relevant for knowledge, conservation and use, together with the construction of models that allow you to store a large amount useful information to understand the complexity of these places. Keywords Porto, parco archeologico, conoscenza, valorizzazione, fruizione
Uno studio visivo e nuovi strumenti per la conoscenza Ostia e Porto ebbero grande sviluppo in età imperiale per poi subire una decadenza irreversibile dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente. Singolare in ambedue i casi sono state le rifondazioni, in posizione tangente gli antichi resti degli insediamenti romani di Ostia e di Porto, di piccoli borghi altomedievali (Gregoriopoli e un tentativo di riportare a Porto abitanti che ne ripopolassero una parte dell’abitato abbandonato dopo la chiusura del canale di Fiumicino nel IX secolo) e quindi, nel pieno medioevo e nel rinascimento, la creazione del castello di Traiano in una zona periferica dell’abitato di Porto, dove aveva posto la dogana romana nei pressi del canale e lungo la via Portuense, e del borgo di Ostia, sugli edifici di Gregoriopoli e con l’integrazione di due fabbriche rinascimentali: la chiesa di S. Aurea e il castello di Giulio II. L’area di Porto rimase spopolata fino all’epoca moderna; nel primo decennio del XIX secolo, in prossimità della Torre Clementina, fu costruito un borgo su progetto di Giuseppe Valadier – il c.d. Borgo Valadier – dal quale si sviluppò poi la città di Fiumicino. Passata in proprietà nel 1856 ad Alessandro Torlonia, che avviò la bonifica dell’intero territorio, alla fine del secolo, la tenuta passò in proprietà alla famiglia Sforza Cesarini che, nel 1933, fondò l’Oasi faunistica di Porto (fig. 1). Nella seconda metà del Novecento, le politiche di sviluppo territoriale e insediativo non ebbero un controllo programmato e, scontando anche i danni di guerra, non
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furono capaci di contrastare iniziative di integrale sostituzione edilizia, abbandono, degrado, distruzione di testimonianze significative del territorio portuense e ostiense (Impiglia, 2017a; Borsato, 2003) Nell’Oasi faunistica di Porto è stata svolta una lettura critica attraverso il disegno dal vero; una campagna grafica che si è posta l’obiettivo di riconoscere e registrare l’identità dell’area archeologica interpretandone gli aspetti che più la caratterizzano. La complessità del reale distinta da molteplici linguaggi diversi può essere colta attraverso il disegno, strumento critico per eccellenza con forte capacità espressiva e grandi potenzialità di comunicazione. La rappresentazione dal vero consente di ripercorrere la storia esaltando le diverse valenze archeologiche, naturalistiche ed ambientali del parco. La consapevolezza del luogo che ne risulta influisce favorevolmente sulle proposte dei progetti di manutenzione e conservazione stimolando il processo di reinterpretazione della storia e consente di sostenere il dibattito, sempre aperto, legato alla gestione e alla valorizzazione del patrimonio. Dopo il primo avvicinamento percettivo al parco archeologico vi è stata una fase di studio svolta attraverso il rilievo speditivo, con l’obiettivo di acquisire dati con i quali rappresentare la realtà complessa. Il progetto di rilievo prevede l’integrazione di metodologie tradizionali per il rilevamento diretto insieme alle metodologie low cost per il rilevamento non a contatto (fotomodellazione). Vengono analizzati i caratteri formali e strutturali del sito partendo dal rilevamento metrico dell’esistente. La principale finalità è il raggiungimento di elevati livelli di precisione metrica e di restituzione fotorealistica dei modelli analizzati, sfruttando le capacità offerte dalle attuali tecnologie in termini di rapidità di acquisizione ed elaborazione dei dati. L’integrazione delle informazioni derivate dalle operazioni di rilevamento, dalle documentazioni storiche e dall’indagine fotografica produce significative rappresentazioni del luogo sia nell’aspetto più generale che nelle singole parti. L’indagine, iniziata dall’analisi attraverso i fondamentali strumenti e metodi di lettura documentaria e diretta nella prospettiva teorica e operativa, ha consentito di attuare un processo sistematico adoperando metodi integrati per la lettura del territorio. I confronti tra i materiali documentari storici e i dati attuali, la campagna fotografica, il rilevamento alle diverse scale; tutto ha contribuito alla definizione di rappresentazioni critiche. È stato importante identificare le tracce e le persistenze delle modificazioni della percezione del contesto storico architettonico-urbano e il rapporto tra le varie componenti: il costruito, la vegetazione e l’acqua. Quest’ultima è uno degli elementi che contraddistingue l’Oasi di Porto in quanto la sua presenza condiziona il paesaggio anche dal punto di vista percettivo, appare infatti, con i suoi riflessi e le sue trasparenze in ogni parte del sito. Anche se il paesaggio è in continuo cambiamento, i suoi aspetti originari con le successive trasformazioni subite appaiono, quasi sempre, ben impresse nel terreno ed il loro riconoscimento avviene, spesso, a grande scala attraverso le immagini satellitari. Lo stato di fatto della realtà territoriale, contraddistinta sempre da espressioni il più delle volte eterogenee, viene scoperta anche attraverso un’indagine grafica diretta. Queste rappresentazioni possiedono grandi potenzialità di comunicazione che risultano efficaci anche per la loro divulgazione. Il disegno interpreta sia ciò che è visibile sia le parti invisibili, ad esempio è possibile trarre spunti che rimandano ai mutamenti avvenuti nel luogo nel corso del tempo dalle testimonianze esistenti. Il procedimento grafico avviato consente di ritrovare e riconoscere l’identità culturale del paesaggio e di conseguire consapevolezza sulle difformità leggibili. I disegni più efficaci per anno-
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tare le relazioni tra le diverse parti sono schizzi prospettici, cannocchiali visivi, scorci prospettici del contesto, profili che consentono di relazionare più parti del territorio e i rilevamenti a vista per ciò che riguarda le emergenze architettoniche e archeologiche. Importanti anche tutte le raffigurazioni cromatiche che comunicano con rigore questa straordinaria realtà. Lo studio proposto analizza il luogo con metodologie integrate speditive al fine di definire una rappresentazione coerente per esprimerne la complessità. Sono state previste integrazioni tra le metodologie tradizionali usate per il rilevamento diretto e le operazioni con tecnologie avanzate per il rilevamento non a contatto1. Il progetto di ricerca Il contributo che si presenta riporta parte del lavoro che si sta sviluppando dal 2016 nell’ambito di uno studio proposto dalla Fondazione Portus inerente a “La Manutenzione di un parco Archeologico e Ambientale, analisi delle criticità e aspetti legati alla conservazione e fruizione “. Il sito di Portus, paesaggio fra archeologia e natura, si presta come progetto pilota privilegiato per tale scopo. Il progetto mira alla realizzazione di un libretto di manutenzione per il mantenimento del parco archeologico. Lo studio indaga aspetti che partono dalla conoscenza dell’area e puntano alla valorizzazione tentando di riconoscere le molteplici valenze che la caratterizzano ed è proprio tramite le capacità delle diverse competenze coinvolte che questa analisi viene affrontata in modo particolarmente ampio e differenziato. Infatti, nello studio, sono coinvolti; ricercatori, archeologi, economisti, architetti, geologi, architetti del paesaggio, restauratori. Tra le finalità vi è quella di individuare una metodologia condivisa con un programma di lavoro definito e quella di creare un sistema vivo di archiviazione e diffusione interattiva delle notizie raccolte. Uno degli obiettivi, che occupa gran parte del lavoro, è anche quello di cercare di comprendere come si rapportano su siti come l’area archeologica di Portus e come operano gli enti coinvolti alla loro salvaguardia tra cui, in questo caso specifico, la Riserva del Litorale e il Comune di Fiumicino e Maccarese. A tal fine sono state svolte specifiche analisi tematiche, elaborate sintesi interpretative e proposte azioni di intervento. Nell’analisi rientrano; raccolta e catalogazione dei rilievi delle presenze faunistiche, rilievo botanico e vegetazionale, studio paleobotanico del sito, l’evoluzione storica dell’architettura dei luoghi e il rilievo dei dati della consistenza, l’evoluzione del paesaggio, l’analisi economica della sostenibilità e della manutenzione, l’analisi degli aspetti normativi e autorizzativi. L’obiettivo è quello di riuscire a comprendere le trasformazioni che il territorio ha avuto nei diversi ambiti naturalistico, storico-architettonico, ambientale e come possa la tutela del bene archeologico relazionarsi con l’aspetto naturale. Un’importante riflessione affronta la problematica relativa alla mappatura dei beni culturali; quali si considerano beni paesaggistici e quali beni diffusi, quali beni monumentali archeologici e architettonici e su come venga realizzata la descrizione dei dati raccolti, infatti il paesaggio è un sistema vivo e sempre mutevole e questo rende molto complessa la sua rappresentazione. Tra i temi di sintesi si segnalano i confronti tra i diversi aspetti della metodologia con le analisi tematiche; l’individuazione delle criticità, la realizzazione delle matrici di interazione e l’attribuzione dei valori di specificità per i livelli di tutela. Con i temi e le azioni di intervento si propongono invece le azioni più idonee da svolgere, tra cui la manutenzione ordinaria del sito, la manutenzione straordinaria program-
mata o la manutenzione per cause accidentali e di forza maggiore, i progetti di miglioramento, il programma per la fruizione e la programmazione economica della gestione del parco. La fase operativa Nella fase della conoscenza è stata prevista la ricerca materiale con la costituzione di una banca dati dedicata a raccogliere informazioni e materiale esistente relativo al parco tra cui una base cartografica condivisa comune aggiornata. Di grande importanza un’analisi conoscitiva sui progetti svolti nel sito negli anni; questi, riportati anch’essi nella banca dati, costituiscono un prezioso patrimonio di suggerimenti e idee legate al parco. Presupponendo che il progetto sia condiviso d’intesa con gli enti preposti alla tutela del bene, alla banca dati dovrebbero poter accedere tutti le istituzioni coinvolte nel territorio per poter avere un dialogo diretto e condiviso. Dopo la raccolta dei dati si è proceduto con la loro messa a sistema con una preliminare registrazione del luogo al sistema GIS (Geographic Information System), sistema progettato per ricevere, conservare, elaborare, analizzare, gestire e rappresentare dati di tipo geografico. Il procedimento consente di unire cartografie, eseguire analisi statistiche e gestire i molteplici dati attraverso tecnologie database. Previa una preliminare selezione delle principali e più significative emergenze storiche che si ritrovano nel parco, vengono poi predisposte le operazioni di rilievo architettonico, viene programmato il rilievo botanico e pianificato l’intervento finalizzato all’integrazione dei dati in ambito faunistico. La difficoltà di raccogliere e gestire i molteplici dati relativi al sito con differenti caratteristiche materiali e immateriali è uno degli aspetti più problematici della ricerca dato che la sovrapposizione delle informazioni non è solo riferita allo stato di fatto attuale, ma è anche basata sulle diverse condizioni storiche. Molti sono i materiali che partecipano a delineare la situazione odierna del parco; tra questi i piani di gestione dal punto di vista naturalistico e le varie schedature realizzate nel tempo (tipo quelle della Scuola di Specializzazione in restauro dei Monumenti di Roma, il data base dell’ICCD con le schede di catalogo del Ministero…), i piani paesaggistici, gli atlanti del paesaggio. Particolarmente importante è risultata l’analisi delle emergenze architettoniche e archeologiche, la lettura delle unità stratigrafiche murarie (realizzata dagli archeologi), le unità stratigrafiche orizzontali e, da non sottovalutare, la conoscenza ecologica, la scienza della vegetazione e la fito-sociologia. Non si possono omettere le criticità e le conflittualità che ogni singolo aspetto scatena ed anche le soggettive richieste che vengono individuate da ogni area. Tra le aspirazioni del parco archeologico di Porto, ad esempio, c’è quella di mantenere la darsena, viene segnalato che sul bordo del lago ci sono gli Eucalipti (zone a protezione speciale ZPS) che vanno attentamente salvaguardati, si avverte che sarebbe opportuno realizzare un collegamento tra i diversi luoghi e la zona umida e di coinvolgere la riserva del litorale per farlo diventare una forza attiva e non passiva del territorio. Inoltre, si segnala di concentrare l’attenzione sul laghetto per i trampolieri, di monitorare il brano della palude, le bordure e i lecci, si indica che la vegetazione ha coperto anche grandi alberature con vegetazione cespugliosa ed anche di porre particolare attenzione alla visibilità delle mura di Porto. Riguardo alle emergenze architettoniche si segnalano i resti, tuttora visibili, di grandi magazzini severiani probabilmente utilizzati come sistemi di stoccaggio.
Per favorire una collaborazione tra istituzioni pubbliche e private e un approccio multidisciplinare a temi così complessi il 22 giugno 2015 tra la Fondazione Portus e il Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Università la Sapienza di Roma è stato firmato un accordo di collaborazione scientifica per l’avvio di ricerche storiche, rilievi grafici e progetti di restauro architettonico riguardanti tutti quei manufatti di elevate qualità paesaggistiche, archeologiche, architettoniche e tecnologiche all’interno delle aree di proprietà Sforza Cesarini. I referenti per il Dipartimento sono le prof. Annarosa Cerutti Fusco, Daniela Esposito, Emanuela Chiavoni, per la fondazione sono l’arch. Paolo Zucconi e l’arch. Claudio Impiglia. Nell’ambito di tale collaborazione la codifica di una metodologia finalizzata alla formulazione di un piano di gestione per il parco archeologico rappresenta attualmente uno degli impegni più importanti. Sull’argomento si segnala anche un Progetto di Ricerca Sapienza 2015 dal titolo: “Metodologie integrate per la conoscenza, la valorizzazione e la riqualificazione dell’immagine urbana. L’area dell’Isola Sacra a Fiumicino”, a cura di Emanuela Chiavoni (Responsabile), Luca Ribichini, Marina Docci, Alfonso Ippolito, Paolo Di Pietro Martinelli, Francesca Pola, Nausicaa Della Corte, Silvia Garrone, Monica Filippa.
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Studiando il sito, si nota che l’immagine della porzione del territorio dell’isola sacra adiacente al parco archeologico è stata profondamente modificata dopo la bonifica, passando un aspetto agreste ad uno fortemente costruito con strutture massive. Tra gli aspetti significativi della ricerca vi è stato quello di organizzare uno schema concettuale aperto e duttile accompagnato da una proposta di metodologie di interazione delle diverse valenze, suggerimenti operativi che tenessero conto dei fattori determinanti che caratterizzano nei secoli il parco, permettendone la conservazione e la valorizzazione.
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Come è vissuto il parco oggi: le funzioni Si parte sempre dal presupposto che è la fruizione che sostiene il parco e che bisogna tutelare i paesaggi culturali, valorizzare i vari tipi di colture tenendo sotto controllo i diversi aspetti urbanistico, ecologico, archeologico, architettonico e altro, puntando ad una pianificazione sostenibile, eticamente responsabile e consapevole. Molte sono le idee che, da tempo, vengono proposte per questo parco; una è quella mirata alla riqualificazione dell’ingresso dalla città e il suo collegamento. Molte sono state già le iniziative proposte, ancora però non attuate, tra le quali un intervento artistico finalizzato alla caratterizzazione di alcuni degli elementi strutturali presenti all’ingresso del parco (piloni in cemento armato). Per questo motivo, un gruppo di ‘artisti di strada’ ha presentato un progetto per dipingere questi piloni di cemento che risultano estranei ed anche invasivi alla vista di chi frequenta il parco, durante passeggiate nel verde e nella natura lacustre, fra strutture archeologiche e architetture vissute e abbandonate. Nell’area di Porto il godimento di un paesaggio così fascinoso con una forte mutevolezza anche cromatica, soprattutto al cambiare delle stagioni e durante le diverse ore del giorno, potrebbe essere una diversa proposta per farlo conoscere. Articolato è anche il ventaglio di possibilità e occasioni didattiche che offre il luogo insieme anche ad una particolare fruizione per un pubblico adulto con un interessante laboratorio didattico organizzato in maniera modulare che spiega il sistema del parco stesso. Inoltre, sempre per far vivere l’area e per sensibilizzare i più giovani alle bellezze della zona sono stati organizzati alcuni centri estivi. L’obiettivo, oltre ai laboratori didattici è anche quello di sponsorizzare differenti visite naturalistiche secondo percorsi che consentano di acquisire consapevolezza di tutti gli aspetti del parco aiutati da una struttura organizzata con pannellatura specifica, una serie dei quali dedicata alla flora e alla fauna, oppure con punti di avvistamento naturalistici. Il Progetto Portus, diretto da Simon Keay avviato nel 2015 si è posto due obiettivi principali: il primo è stato volto a creare una conoscenza approfondita del luogo e della sua relazione con Ostia, con la città di Roma e con il resto del Mediterraneo. Il secondo obiettivo è stato quello di sperimentare diverse tecniche per migliorare le metodologie in cui le aree complesse di epoca classica, come quella di Porto, possono essere indagate e studiate, valutandone anche l’impatto delle stesse tecnologie applicate. Il progetto ha favorito scambi di conoscenze derivanti dal coinvolgimento di organizzazioni, enti pubblici e privati, università e singoli studiosi che hanno un interesse specifico per il sito e per il suo contesto territoriale. La collaborazione infatti si è svolta tra i colleghi del mondo accademico dell’Università di Southampton, la British School di Roma, la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (Ostia Antica), la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (Roma), e il Duca Sforza Cesarini e con studiosi degli Atenei romani.
Fig. 1 Porto, Fiumicino, Il Lago di Traiano nel suo stato attuale. Fig. 2 Fotografie del parco Disegno del sito archeologico del Porto di Traiano (Foto: Chiavoni E.) Fig. 3 Acquarello, studio dei Magazzini del sito del Porto di Traiano (Foto: Chiavoni E.) Fig. 4 Acquarello, studio del Lago di Traiano (Foto: Chiavoni E.)
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Emanuela Chiavoni Daniela Esposito È possibile scoprire l’area archeologica del Porto di Traiano, l’unico bacino portuale romano giunto intatto al nostro tempo. A disposizione di bambini e ragazzi, un intenso programma di laboratori didattici e naturalistici per viaggiare, giocando e divertendosi, nell’Antica Roma. I materiali e le indicazioni dell’iniziativa sono reperibili sul sito www. navigareilterritorio.it
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Attualmente vi è un altro progetto in atto sul territorio; Il progetto navigare il territorio, nato per indagare la complessa relazione che esiste tra il territorio e l’aeroporto di Fiumicino, sponsorizzato dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche, di Aeroporti di Roma e del Parco archeologico di Ostia Antica del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo in collaborazione con la Città di Fiumicino e la Rete scolastica “Progetto Tirreno – Eco-Schools” di Fiumicino. Tra gli obiettivi del progetto vi è la promozione di esperienze condivise con la cittadinanza, la promozione della cultura e la valorizzazione e tutela per il territorio (nello spirito dell’articolo 9 della Costituzione). Navigare il territorio ha lo scopo di interessare la comunità locale, partendo dalle istituzioni scolastiche in un processo di riformazione dei legami tra le persone, la comunità e il patrimonio culturale, che elogia le grandi possibilità della collaborazione tra il pubblico e il privato, tra il mondo dei servizi pubblici e quello del settore archeologico2. Il progetto Navigare il territorio si pone in maniera sperimentale per la conoscenza e la fruizione del territorio e, come la Rete scolastica “Progetto Tirreno – Eco-Schools” di Fiumicino, si pone anche l’obiettivo di incrementare e trasmettere ai più giovani l’importanza della salvaguardia del bene comune. Tutto ciò implica la sensibilizzazione al luogo sia per sviluppare un senso di responsabilità utile per il futuro del bene comune, attivando attività ecosostenibili per lo sviluppo del territorio attraverso la sua conoscenza storica, archeologica e naturalistica. Conservazione, Valorizzazione e Fruizione Il territorio è costituto da segni materiali naturali e indotti dall’opera dell’uomo, come nel caso dei monumenti. Esso è caratterizzato dalla sua immagine che, per essere trasmessa e percepita, ha comunque bisogno di un tramite fisico che è la materia in ogni sua manifestazione, naturale o elaborata per mano dell’uomo. L’immagine del territorio corrisponde a quello che per molti studiosi è il ‘paesaggio’, ossia la sintesi degli ‘aspetti visivi del territorio’, secondo un’appropriata definizione di Gaetano Miarelli Mariani, basata sul concetto di ‘immagine’ dell’opera d’arte compresa nella Teoria del Restauro di Cesare Brandi e ripresa da Giovanni Carbonara nelle sue riflessioni sul rapporto fra il restauro e il paesaggio alcuni anni dopo. Il paesaggio è dunque manifestazione del territorio con connotazioni di cultura in quanto manifestazione figurale del territorio e come tale deve essere considerato e tutelato; ne deriva comunque che, se la tutela del territorio deve necessariamente articolarsi con azioni diverse ma tutte ascrivibili all’ambito della conservazione (e prima ancora della salvaguardia) e del restauro, non deve però dimenticare il confronto diretto con le esigenze e le logiche dello sviluppo e della trasformazione che coinvolgono territorio, infrastrutture, i fattori ambientali. Un’opportuna strategia di tutela di un territorio deve così essere guidata dalla consapevolezza della presenza di valori caratteristici (si potrebbe anche dire in questo caso ‘identitari’ di un determinato ambito territoriale) che possono, attraverso la loro permanenza, qualificare lo spazio e convivere con eventuali trasformazioni quando queste ultime siano inserite e siano guidate da strategie destinate a controllare le modifiche e volgerle verso obiettivi culturalmente positivi. Lo strumento più efficace e attinente al fine di rendere operativa una strategia attenta alla coesistenza fra conservazione e innovazione riguarda comunque l’ambito della pianificazione, nel quale il tema della tutela territorio sia presente e affermato con fermezza nelle disposizioni del piano territoriale, secondo quanto già affermato nella Dichiarazione di Amsterdam del 1975 (“Dichiarazione della Conservazione integrata”
allegata alla “Carta europea del Patrimonio architettonico”, Congresso di Amsterdam, adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 26 settembre 1975) nella definizione del concetto di “Conservazione integrata”. Secondo queste indicazioni, lo studio del territorio dell’Oasi di Porto e dell’area archeologica di Claudio e Traiano deve comprendere, nella lettura complessiva il sistema territoriale anche Ostia, i due porti di Fiumicino e di Ostia nonché l’area dell’aeroporto di Fiumicino. La valorizzazione del territorio portuense richiede ogni tipo di intervento sulle e per le preesistenze: dalla riqualificazione, alla valorizzazione, dal recupero al restauro. Il programma deve dunque tenere conto delle vocazioni che ne sostanziano la realtà architettonica, ambientale, territoriale, per indurre un cambiamento di tendenza e risolvere l’attuale degrado e abbandono dell’area. Gli insediamenti esistenti non hanno qui avuto uno sviluppo nel tempo ma sono stati piuttosto abbandonati e affiancati da trasformazioni edilizie e rifondazioni urbane (come Pomezia). Appare dunque evidente quanto sia importante conoscere le caratteristiche e i valori che rendono unico il territorio ostiense e portuense nelle sue qualificazioni storico-artistiche, archeologica, economica, naturalistica e ogni altro aspetto rappresenti un fattore identitario. Una conoscenza che si attua attraverso la rilettura del territorio in generale e delle sue emergenze come l’ampia area archeologica costituita dal sistema delle aree ostiense e portuense. Le aree archeologiche coincidono anche con i principali settori di interesse ecologico e naturalistico dell’ambito territoriale: Ostia antica e Porto, Castel Fusano e Castel Porziano. La rilettura ha dunque ricadute sulla comprensione interdisciplinare del territorio nella sua interezza e soprattutto comporta ricadute importanti ed essenziali in campi come il settore turistico-terziario, dell’artigianato, del recupero e in genere dell’edilizia e della tutela ambientale e della valorizzazione. Porto e l’area archeologica di Claudio e Traiano hanno una particolare relazione col fiume Tevere, il canale di Fiumicino e lo sbocco nel mar Tirreno e rappresentano a pieno titolo un esempio molto significativo del paesaggio culturale del litorale laziale fra storia, arte, paesaggio e natura. La valorizzazione è un processo connesso con la conservazione del Litorale Romano, da intendersi come parte di un processo di tutela attiva e dinamica del paesaggio che presenta molte componenti articolate fra loro, come quella storico-artistica, architettonica, archeologica, urbanistica, in cui gli aspetti economici e di gestione rappresentano una conseguenza e una ricaduta nella realtà operativa, ma mai un fine della conservazione e tutela. Altro aspetto di grande importanza avrà inoltre la manutenzione nel tempo di tutte le componenti naturalistiche, paesaggistiche, architettoniche e archeologiche. Tutela e valorizzazione potranno avere effetti sulla possibilità di una rigenerazione urbana e del territorio intorno alle strutture emergenti, favorendo così anche la partecipazione della cittadinanza alle azioni conservative e di tutela del paesaggio e del Patrimonio culturale del comune di Fiumicino e dei centri abitati limitrofi. La tutela e la conservazione infine dovranno occuparsi anche e soprattutto di un’attenta campagna di manutenzione programmata che andrebbe prevista coinvolgendo tutte le parti coinvolte istituzionalmente nella tutela.
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Il ruolo delle fonti per la conoscenza, la storia e il restauro dell’ex chiesa di Santa Maria del Carmine a Piacenza Anna Còccioli Mastroviti
Anna Còccioli Mastroviti
Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Parma e Piacenza, Parma.
Abstract The recent restoration of the Gothic church of S. Maria del Carmine in Piacenza, which was promoted by the Municipality of Piacenza and carried out under the oversight of the Archaeology, Fine Arts, and Landscape Superintendence of Parma and Piacenza (arch. Patrizia Baravelli, Cristian Prati), was an opportunity to study and deepen the researches. It allowed the reconstruction of the multiple phases of the construction site, and it completely restored the illusionistic decoration of the apse wall. The stages of the realisation of fresco and sculptural decoration had developed over four centuries and this research issue needs a professional profile that deepens the role of individual artistic personalities, which are also cited in archival documents and payment notes, times and methods of circulation of the models, and the role of client. This paper focuses on the important role of sources for knowledge, on history, protection and restoration of a long-abandoned cultural asset, that proves to be identity heritage of the history of Piacenza. Keywords Piacenza, storia, tutela, architettura, restauro.
Fonti per la storia della chiesa di santa Maria del Carmine Le fonti ci informano infatti che i Carmelitani, documentati in Piacenza dal 1270 circa, avviarono la costruzione dell’attuale chiesa e dell’annesso convento nel 1334 (Fillia, Binello, 1995), su un impianto a tre navate, di cui quella centrale composta da sei campate quadrate, larga il doppio di quelle laterali, tutte voltate a crociera. Questa cronologia non è però condivisa dalla storiografia locale di inizio Novecento, che fissa l’inizio dei lavori al 1305 (Cerri, 1924; Dodi,1935). Il cantiere subì una notevole accelerazione all’epoca del vescovo Pietro da Cocconate, a Piacenza nel 1354, grazie al quale i Carmelitani ottennero cospicui finanziamenti per il completamento della chiesa, avvenuto nel 1371 (Dal Verme, 1828-1829). Pietro Ricorda, vicario generale di Piacenza, vescovo di Sebaste, la consacra il 27 agosto 1525.
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Anna Còccioli Mastroviti Fig. 1 Piacenza, ex chiesa di santa Maria del Carmine, planimetria con le fasi trasformative. Fig. 2 Ex chiesa di santa Maria del Carmine, retrofacciata.
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Sulla base della ricca documentazione d’archivio – mi riferisco al fondo Conventi e Confraternite soppressi, conservato all’Archivio di Stato di Parma e al manoscritto del carmelitano padre Angelo Maria Vantini, del 1722 – è possibile ricostruire sia la cronologia del cantiere dell’edificio sia le vicende della dedicazione degli altari e dell’arredo plastico e pittorico, promosso dalle principali casate nobiliari della città: Paveri Fontana, Radini Tedeschi, Arcelli, Fontana da Nibbiano. Gli stemmi di queste casate ancora ornano le cappelle della chiesa. I documenti ci informano che inizialmente la chiesa era dotata del solo altare maggiore e di due altari laterali: uno dedicato a S. Apollonia, a ovest dell’abside, l’altro a S. Elena, e che nei secoli successivi furono aggiunti altri sette altari lungo il lato est che costeggia il chiostro: il primo, entrando in chiesa, era dedicato a S. Lucia, il secondo era l’altare della nobile famiglia Bilegni (estinta nella seconda metà del Seicento), il terzo, nella cappella Scotti, era dedicato a S. Francesco, il quarto, presso la cappella della famiglia Arcelli, era l’altare dei SS. Pietro e Paolo apostoli; gli ultimi tre rispettivamente dedicati a S. Daniele, S. Luca, S. Orsola, quest’ultimo “lo fece fare” la nobildonna Orsolina Malaspina Malvicini. L’antico casato dei da Fontana, cui appartenevano i rami dei Paveri e dei Malvicini, investì parecchi denari nell’arredo plastico della chiesa che sorgeva proprio nel quartiere a nord ovest della città, quello dei Fontana, ove questo potente casato possedeva case e torri. Il padre Vantini però non è particolarmente eloquente sulle cappelle del lato ovest della chiesa. Dai documenti d’archivio, sappiamo che nel 1579, il paratico dei falegnami, fabbri e muratori fece erigere sul lato ovest della chiesa, la cappella di San Giuseppe, ove fu collocato l’altare dedicato all’omonimo santo. La cappella, tuttora esistente, adiacente a quella di S. Alberto dei conti Radini Tedeschi, ha impianto poligonale. In quello stesso anno, la visita pastorale di mons. Giovan Battista Castelli (19 luglio 1579), registra lo stato di conservazione della chiesa e delle cappelle. Relazione di grande interesse, dalla quale si evincono non solo lo stato conservativo del monumento, i materiali, la qualità dei singoli altari e dei rispettivi arredi: siano essi pittorici o plastici, ma anche le raccomandazioni impartite, fra le quali l’obbligo di demolire, perché in cattivo stato conservativo, gli altari in legno, fra questi l’altare di S. Caterina, di S. Margherita, di S. Apollonia, di S. Giovanni, di S. Martino. Gli interventi di restauro delle cappelle sarebbero stati a carico delle famiglie che vi avevano eretto l’altare. Il Seicento fu un secolo di importanti lavori nella chiesa, nonostante l’epidemia di peste del 1630 che colpì duramente anche il convento del Carmine, riducendone il numero dei religiosi da 39 a soli 8. Risalgono ai primi anni del Seicento i lavori per l’altare maggiore con l’incarico conferito (1607) ai mastri Giovanni e Francesco Chiodi, cui seguì l’accor-
Fig. 3 Ex chiesa di santa Maria del Carmine, la “volta delle done”, affresco sulla navata centrale, seconda metà secolo XIV. Fig. 4 Ex chiesa di santa Maria del Carmine, decorazione a quadratura della parete absidale, inizio secolo XVIII.
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Anna Còccioli Mastroviti Fig. 5 Ex chiesa di santa Maria del Carmine, facciata
do (1608) con i mastri Francesco e Lodovico Chiodi per la realizzazione dell’ancora con 24 figure, quindi, nella seconda metà del secolo, ha avvio un nuovo cantiere. Su ordine del priore Leodoro Bassiano, la chiesa fu interamente imbiancata dai Andrea, Carlo e Pietro Patroni, “cominciando dal suolo andando fino alle volte…” con esclusione delle cappelle “dove sono e stucco e pitture”, mentre “cornisoni…colonne e piedestalli non dovranno esser imbiancati, ma bensì, dovranno dargli un colore di pietra”. Sul volgere del Seicento la chiesa del Carmine fu interessata da importanti lavori di ristruttu-
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Fig. 6 Ex chiesa di santa Maria del Carmine, part. decorazione a stucco prima del restauro. Fig. 7 Ex chiesa di santa Maria del Carmine, una delle statue della navata centrale, dopo il restauro.
razione, registrati nel secondo decennio del Settecento da Carmelitano padre Vantini, ma ricordati anche dalla grande lastra incisa, in marmo nera, posta sulla retrofacciata in asse alla porta principale (le due laterali sono state tamponate) sormontata dagli stemmi in stucco della città di Piacenza, dell’ordine Carmelitano, dei Farnese (figg.1,2). Le varie fasi del cantiere della decorazione, sviluppatasi nel corso di quattro secoli, attendono tuttora un profilo circostanziato che approfondisca il ruolo delle singole personalità artistiche, peraltro registrate nei documenti e nelle note di pagamento, i tempi e i modi della circolazione dei modelli e il ruolo della committenza. Nell’economia di queste pagine e nell’impossibilità di affrontare tutti questi aspetti, mi limito a segnalare il rinvenimento di alcuni straordinarie testimonianze della civiltà figurativa quattrocentesca recuperate nel corso dei lavori: l’affresco tardo trecentesco della “Volta delle done”, come recita la scritta sulla quarta campata della navata centrale, il profilo di un giovane uomo biondo lungo la navata destra, riferibile ad un artista di cultura lombarda del XVI secolo, l’apparato illusionistico (figg.3,4) che orna la parete absidale della chiesa, molto verosimilmente realizzato nell’ambito degli importanti lavori di ristrutturazione che interessarono l’edificio sul volgere del Seicento e nei primi decenni del secolo successivo, registrati dal già citato padre Carmelitano Angelo M. Vantini. Mi riferisco all’erezione della facciata, avvenuta nel 1699 su progetto dell’architetto Giacomo degli Agostini (1642-1720 c.) (Cattadori 1979) (fig.5) già progettista (16891691) della facciata della chiesa dei SS. Nazaro e Celso, su commissione del cardinale Giulio Alberoni. Nel contratto si specificano i materiali (“miarolo e buona calcina di Lodi”) oltre naturalmente i tempi di consegna dei lavori. Materiali solo in parte utilizzati come ci confermale relazioni di sopralluogo del 1709 e 1713 di due periti, Antonio Bazzini e Francesco Seramele, dalle quali apprendiamo che erano stati realizzati in laterizio tutti quegli elementi che da contratto dovevano essere in pietra viva: in particolare i cornicioni, le basi e i capitelli delle colonne ioniche, le cantonate e i piedistalli dei vasi ornamentali e della croce che svettavano sulla sommità del fron-
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Anna Còccioli Mastroviti Fig. 8 Ex chiesa di santa Maria del Carmine, cappella di san Giuseppe durante i lavori
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tone. Le relazioni dell’epoca segnalano patologie di degrado in atto che, dalla lettura attuale del palinsesto murario della facciata si evince che non fu in seguito messa a punto alcuna miglioria. Alla decorazione della facciata concorsero stuccatori e plasticatori pavesi e ticinesi. In un primo momento (1704-1705) erano stati incaricati dell’esecuzione delle tre statue della Madonna del Carmine, di S. Alberto e di S. Angelo gli scultori pavesi Siro e Gaetano Zanelli (Parma, Archivio di Stato, Conventi e confraternite, b. Monistero di S. Maria del Carmine +, vol. X, n. 37, “Accordo fatto tra li Rev. Padre Eleodoro Bassiani Carmelitano ed il Sig. Siro Zanelli e suo Sig. figlio Gaetano Zanelli scultori, per la fattura
di tre statue di Maro Cieppo gentile da condursi, e mettersi in opera in Piacenza sulla facciata della chiesa de Padri del Carmine di Piacenza”, 19 set. 1704), incarico però revocato e conferito qualche anno dopo, nel 1709, al più celebre stuccatore di Arosio Francesco Cremona (1675-1712), già noto a Piacenza ove è documentato nei cantieri di S. Savino (1695), di S. Agostino (1706), delle Carmelitane Scalze sullo stradone Farnese (1708) (Longeri, Pighi, 2003). A lui si devono le statue della Vergine, del profeta Elia e di S. Simone Stock patrono dell’Ordine, nel cui contratto, ancora una volta, si dettagliano tempi di esecuzione, materiali e costi. Da questa data si registra un vuoto nella documentazione, fino al 1774 anno in cui il priore Pietro Antonio Ponti commissiona all’imbianchino cremonese Giovanni Genestrini la tinteggiatura della chiesa e di alcuni ambienti conventuali. L’accordo, sottoscritto il 18 marzo 1774, ci informa che erano escluse dall’intervento di imbiancatura tutte quelle parti ove “vi sono pitture o sia in coro o sia per tutta la chiesa” verso le quali si sarebbe dovuta “usare ogni maggior diligenza per ben conservarle”. Questo documento ci conferma la presenza, a quella data, della decorazione della zona absidale della chiesa. Auspicando di potere diffusamente argomentare sul ricco apparato plastico e pittorico della gotica chiesa del Carmine emerso dal restauro, si indicano di seguito le principali fasi dell’intervento. L’intervento di recupero dell’ex chiesa di Santa Maria del Carmine Il lungo stato di abbandono della chiesa aveva favorito l’ingresso di volatili che hanno contribuito al degrado con l’accumulo di guano e depositi organici; a ciò si aggiungano incrostazioni e biodeterioramenti, disgregazione e perdita di materiale in più punti dell’apparato pittorico e plastico che ha provocato, in alcune parti del ricco apparato decorativo, l’interruzione del modellato plastico (fig.6,7). Pertanto, vista la complessità di lettura dell’opera, dovuta all’articolata situazione stratigrafica e alla criticità dello stato di conservazione, è stata eseguita una campagna diagnostica che ha affrontato tutte le problematiche presenti e analizzato i vari materiali e tecniche pittoriche utilizzati nella chiesa. Gli accertamenti analitici e diagnostici hanno infatti evidenziato i meccanismi che hanno innescato il degrado consentendo d’intervenire su di essi con soluzioni più mirate, nel rispetto delle procedure previste. Le analisi, inoltre, non si sono limitate alla fase d’indagine preliminare, ma sono state parte integrante del progetto di restauro. Nell’impossibilità di dettagliare in questa sede le complesse e articolate fasi del cantiere, all’interno del quale hanno operato contemporaneamente più squadre dedicate a interventi edili e strutturali, nonché le maestranze dedicate agli interventi di pulitura e eliminazione dei depositi superficiali, al preconsolidamento di quelle parti di materiale disgregato, al ristabilimento della coesione della pellicola pittorica e degli intonaci, al consolidamento degli stucchi, alle integrazioni cromatiche minime che hanno ridotto il disturbo visivo causato dalla perdita del colore. Il cantiere del Carmine conferma che una approfondita conoscenza dello stato di fatto e delle fasi storiche dell’opera su cui si interviene, costituisce la base dalla quale trarre gli elementi necessari ad una programmazione corretta e adeguata della strategia di manutenzione e/o di restauro. È ormai sempre più condivisa l’opinione che una conoscenza storica e scientifica delle opere si possa raggiungere solo con l’interazione fra più figure professionali che, lavorando in sinergia, come nel caso del cantiere piacentino, apportano conoscenze diverse per la realizzazione di uno studio realmente utile e completo. L’organic collective, il progetto che nasce dal lavoro di un gruppo, è sempre
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più frequentemente la strategia seguita nel campo della tutela e della valorizzazione, e non solo dell’architettura. La conoscenza delle fonti e le indagine archeologiche propedeutiche allo studio del progetto si sono rivelate indispensabili e, per molti aspetti, determinanti, per un corretto intervento di recupero e restauro dell’ex chiesa di Santa Maria del Carmine, a cominciare dalla documentazione relativa alla costruzione delle cappelle laterali, quella del paratico dei muratori e “maestri da legname”, lungo la navata ovest, eretta nel 1579, e intitolata a san Giuseppe (fig. 8). Nell’atto di commissione si forniscono numerose indicazioni sui materiali e i tempi della costruzione, argomento che potrò affrontare in seguito. Documenti successivi informano del rinnovamento dell’altare e dell’apparato decorativo in stucco realizzato nel 1690-1691. La cospicua documentazione dell’archivio del Carmine ci fornisce inoltre notizie molto importanti sui numerosi interventi intrapresi nel corso del XVII secolo sia sulla chiesa, sia sul convento (quest’ultimo poi parzialmente distrutto). Un materiale documentario di indubbio interesse per quanto attiene all’apparato decorativo mobile, ma anche e soprattutto relativo alla decorazione in stucco nell’ambito della campagna di lavori realizzati dal 1695: a cominciare dalle colonne fasciate in modo da assumere un assetto a pilastro con lesene addossate, alla posa in opera di capitelli e trabeazione in stucco, al ricco apparato plastico affidato a festoni, stemmi e cartigli che tuttora arricchisce le pareti della navata e delle cappelle laterali, elementi decorativi sui quali sono state messe a punto strategie d’intervento dedicate (fig. 9). In questo contesto, determinante è stata l’interdisciplinarietà, che sempre più va configurandosi come una metodologia operativa indispensabile al buon esito del progetto. Ogni azione di tutela richiede infatti un complesso lavoro di lettura del bene, fondata su campagne conoscitive, su ricerche archivistiche e documentarie, sulle necessarie operazioni di rilievo, di studio, di analisi ecc. (Pigozzi, 2010; Doglioni, 1997). Sulla base di questi elementi, a fronte della ricca documentazione d’archivio e bibliografica relativa al monumento sul quale si interviene, la gotica ex chiesa del Carmine, sono state effettuate scelte di metodo e di lavoro, tenendo conto della specificità del cantiere e del bene culturale, del suo stato conservativo e dei dati risultanti dalle stratificazioni storiche. Il recupero dell’edificio, che in età napoleonica con la soppressione dell’ordine dei Carmelitani e del loro stesso convento fu destinato ad usi impropri con la conseguente dispersione di tutti gli arredi e del ricco patrimonio mobile, abbandonato da decenni pur essendo in proprietà al Comune di Piacenza, è stato uno degli obiettivi dell’Amministrazione comunale nell’ambito della valorizzazione di un’area strategica della città, compresa fra la storica piazza Cittadella, sulla quale prospetta il cinquecentesco palazzo Farnese, e la piazza Sandro Casali, delimitata su un lato da una parte del cinquecentesco convento di san Sisto, attuale sede della caserma Nicolai. Fonti Archivio di Stato, Parma Conventi e confraternite, LXXXI, buste varie Monistero di S. Maria del Carmine.
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‘Realtà poetica o realtà oggettiva’: il recupero dei sassi di Matera Daniela Concas
Daniela Concas
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Abstract Since its origins, Photography has been an important aid for the study, the documentation and the knowledge of cultural heritage as a premise for its correct conservation. The photographs by Augusto Viggiano (1938-2020) took in the first half of the Seventies in the Twentieth century at the end of the ‘emptying’ that took place from the Fifties of the same century and kept in the ICCD archives will highlight what has changed in the rocky landscape of the Sassi of Matera due to the works of the last few years. The theme ‘poetic reality or objective reality’ in the recovery of the Sassi of Matera shouldn’t make us forget that the works (often due to the functional adjustments required by the legislation) should still preserve the historical, artistic and architectural values of the cultural heritage and guarantee respect of the inherited landscape features, to answer to the needs of contemporary living as only use safeguards historic building. Keywords Sassi, Matera, architettura, paesaggio, fotografia
Introduzione L’invenzione dell’immagine fotografica sintetizza meglio di ogni altra cosa il senso e il cammino della cultura occidentale in quanto noi fondiamo una parte fondamentale del nostro sapere sulle immagini; è qualcosa da cui non possiamo separarci, tanto che, se improvvisamente dovessimo fare a meno del mezzo fotografico e delle fotografie che abbiamo accumulato nella nostra vita, vivremmo una sorta di perdita della memoria (Mormorio, 1997). Infatti fin dalle sue origini la Fotografia nell’ambito della conservazione ha rappresentato un utile ausilio per lo studio, la conoscenza e la documentazione degli interventi all’inizio dei singoli monumenti e con il passare degli anni dell’architettura storica in genere. In molti casi, inoltre, le immagini fotografiche sono le uniche testimonianze pervenuteci degli edifici andati distrutti, totalmente o parzialmente, a causa di eventi catastrofici naturali o antropici. La Fotografia è ritenuta uno strumento in grado di documentare non solo in modo obiettivo e oggettivo sia avvenimenti sia beni, ma anche il mezzo per riuscire a preservare almeno l’aspetto del patrimonio culturale dalle problematiche di degrado del tempo o dalla mano distruttrice dell’uomo (Nadalin, 2017). Già Charles Baudelaire affermava nel 1859 che la Fotografia doveva salvare “dall’oblio le rovine pericolanti, i libri, le stampe e i manoscritti
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Fig. 1 Sasso Caveoso (foto Augusto Viggiano 1970-75 su autorizzazione dell’ICCD del MiBACT – Gabinetto Fotografico Nazionale, Fondo Viggiano, M011039).
che il tempo divora, le cose preziose la cui forma va scomparendo e che esigono un posto negli archivi della memoria” (Baudelaire, 1859 citato in Cavanna, 1991, p. 45). Nel campo del restauro modernamente inteso E.E. Viollet-le-Duc nella voce Restauro del suo Dizionario ragionato dell’Architettura francese dall’XI al XVI secolo, scritto tra il 1854 e il 1868, considera la Fotografia una valida tecnica per individuare sul monumento gli elementi che non si percepiscono a occhio nudo, grazie alla quale l’architetto potrà intervenire successivamente in modo più scrupoloso per ottenere l’unità stilistica (1854-1868, p. 33). Parimenti John Ruskin si avvale della Fotografia nei suoi studi sull’architettura storica per il valore di strumento e di dimostrazione nel processo visuale e ottico d’indagine ed esaltazione del vero (Harvey, 1985). Mentre Pietro Selvatico Estense asserisce che il beneficio maggiore che la fotografia porterà all’arte, quello sarà (e già comincia) di rendere inutili i tanti riproduttori materiali della natura, vale a dire i fabbricatori di vedutine e di ritrattini. Così essa verrà risparmiando alla società una miriade di mediocri che l’assediavano; e rialzerà nel concetto di questa, l’arte propriamente tale, l’arte cioè che si giova della verità per manifestare un’idea grande, e s’innalza a quella poesia di concetti ch’è seggio del vero artista, non del servile imitatore della natura […] La fotografia potrà fornire le esatte apparenze della forma, ma non sprigionare dall’intelletto l’idea; deve ogni paura esser quieta, che non verrà danno nessuno all’arte vera e grande per tale mirabile invenzione, anzi invece soccorso grandissimo (1859 citato in Canali, 1999, pp. 267-268).
Ma sarà Camillo Boito che per primo le darà un ruolo centrale nel testimoniare le diverse fasi degli interventi di restauro sui monumenti: ante operam, stati di avanza-
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Daniela Concas
mento e post operam, raccolta d’immagini da depositare con relativa documentazione tecnica presso il monumento stesso e presso l’organo di tutela competente (Documento III Congresso degli ingegneri e architetti, 1883). Da qui poi si svilupperà l’idea degli archivi fotografici per “conservare una memoria sicura dei tesori che una sventura improvvisa ci può per sempre rapire” (Toesca, 1904 citato in Costantini, 1990, p. 59). Infatti a Milano alla fine degli anni Novanta dell’Ottocento, Camillo Boito, presidente dell’Accademia di Belle Arti, insieme a Corrado Ricci, direttore della Pinacoteca di Brera, e Giuseppe Fumagalli, direttore della Biblioteca Nazionale, si attiverà per la costituzione dell’Archivio Fotografico Lombardo, che nel 1892 confluirà nel Gabinetto Fotografico della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti nell’ambito del Ministero della Pubblica Istruzione (Nadalin, 2018, p. 81; Nadalin, 2019, p. 886). Da questo momento in poi la documentazione fotografica si afferma come mezzo indispensabile per la tutela del patrimonio italiano riallacciandosi alle esigenze d’inventario e di catalogazione. Il recupero dei Sassi di Matera I Sassi di Matera sono stati da sempre i protagonisti di tanti artisti (letterati, fotografi, registi, ecc.) in quanto qui il genius loci (insieme delle caratteristiche naturali, architettoniche, sociali e culturali) trova una sua espressione aulica di grande empatia (Norberg-Schulz, 1979). Infatti, molti fotografi hanno ripreso questo paesaggio straordinario per esaltarne l’identità e celebrarla. In particolare per esporre le seguenti brevi riflessioni sul recupero dei Sassi, avvenuto in questi ultimi anni a seguito della nomina di Matera a Capitale Europea della Cultura, si propone il confronto tra le fotografie di Augusto Viggiano (1938-2020) conservate negli archivi dell’ICCD e l’esito degli interventi effettuati (Nadalin, 2019; Nadalin, in stampa). Le immagini di Viggiano permettono di evidenziare cosa è cambiato in questo paesaggio rupestre, rispetto a quelle degli altri fotografi, perché sono state scattate nella prima metà degli anni Settanta del Novecento a conclusione dello ‘svuotamento’, iniziato dal 1950, e perché rappresentano un corpus unico spazio-temporale (Concas, in stampa). Il costruito nei Sassi è stato raramente un’operazione unitaria, essendo composto da aggiunte, rimaneggiamenti e ampliamenti nel tempo che vanno a influire su questo straordinario contesto paesaggistico (figg. 1-2). Esso è il risultato di una sommatoria di fasi di trasformazione dovuta a fattori funzionali che ne hanno determinato il paesaggio rupestre che osserviamo nelle fotografie di Viggiano. Per esempio la copertura dei Grabiglioni (i torrenti dei due Rioni che fungevano da canali di scolo delle acque piovane e reflue e che confluivano nel torrente Gravina), realizzata nel 1934 per ottenere dei nuovi percorsi pedonali e carrabili, oggi appare sostanzialmente uguale. Oppure le costruzioni addizionali poste su ballatoi, tetti o terrazze per ottenere nuovi ambienti di servizio e ovviare al sovraffollamento d’inizio Novecento sono evidenti negli scatti di Viaggiano, mentre oggi non sono più presenti e l’edificio appare nel suo stato originario. Viggiano riprende i Sassi subito dopo la conclusione del loro ‘svuotamento’ e in un periodo in cui non esisteva una logica di conservazione per questo patrimonio considerato all’epoca solo edilizio, ossia privo di alcun valore (né storico, artistico, architettonico, paesaggistico né culturale). Bisognerà passare dalla fase di abbandono a quella di sensibilizzazione che ci ha aiutato a percepire questi luoghi diversamente facendoci riscoprire il senso d’identità e di appartenenza prima di vedere gli interventi di recu-
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Fig. 2 Sasso Caveoso (Foto: Roberto Nadalin 2019).
pero nei Rioni Barisano e Caveoso favoriti dalla Legge n. 771 Conservazione e recupero dei rioni Sassi di Matera dell’11.11.1986. Il riconoscimento del valore culturale dei Sassi ha portato a operare su questo ‘patrimonio culturale, edilizio storico ed estraniato’ secondo due modalità differenti: la prima, valutandolo patrimonio edilizio storico ma alla stregua di quello esistente, mediante interventi consistenti (manutenzione, trasformazione, sostituzione, rinnovamento, ripristino e raramente recupero) per renderlo idoneo alle necessità del nostro tempo per ragioni economiche e d’uso; la seconda, considerandolo patrimonio estraniato, attraverso operazioni di vero e proprio restauro congiunte all’attribuzione di nuove funzioni compatibili per motivi culturali e scientifici, ossia la cosiddetta conservazione integrata (Carta Europea del Patrimonio Architettonico, Amsterdam 1975, p.to 7; Convenzione per la salvaguardia del patrimonio architettonico dell’Europa, Granada 1985, p.to 11). Così oltre al ritorno di alcuni abitanti nelle loro case sono prevalse nella rifunzionalizzazione le destinazioni d’uso turistico-ricettive e culturali quindi sia Bed&Breakfast, bar, ristoranti, ecc. sia sale espositive, sedi di fondazioni, di circoli e di associazioni, ecc. Tutto ciò sicuramente ha contribuito a conservare gli ambienti rupestri e rivitalizzare la scena culturale materana e la vita diurna e soprattutto notturna. Inoltre molti edifici religiosi, come per esempio Santa Maria dell’Idris e San Pietro Barisano, sono stati restaurati permettendone la riapertura al culto e la loro fruibilità per i turisti. Le fotografie di Viggiano testimoniano l’unitarietà dell’ambito urbano dei due Rioni Barisano e Caveoso, oltre la cultura costruttiva trasmessa nel corso dei secoli dalle maestranze locali, spesso gli stessi abitanti. In queste immagini ritroviamo un’ampia catalogazione del costruito e i minimi dettagli di un’architettura rupestre che doveva risultare prima di tutto funzionale: le abitazioni a corte e a ballatoio, le chiese, ecc., le aperture per il passaggio della luce agli ambienti interni e per il ricambio dell’aria naturale, i sistemi dei canali di scolo delle acque piovane e le vasche di raccolta, gli abbeveratoi per gli animali, ecc. Grazie agli scorci del fotografo materano si comprendono anche l’organizzazione urbana dei Sassi con gli spazi privati (vicinati) e quelli pubblici (piazze) e con i collegamenti orizzontali e verticali, che nelle tracce della loro usura
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Daniela Concas Fig. 3 Sasso Caveoso (Foto: Roberto Nadalin 2019).
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permettono di seguire gli itinerari della vita quotidiana dei contadini. Pertanto rappresentano una documentazione fondamentale per comprendere lo stato di questi luoghi in un preciso momento storico, del loro degrado e del loro nuovo connubio con la natura che in breve si è riappropriata dei suoi spazi. Entrando nel dettaglio dei contesti edilizi si nota subito che oggi è avvenuta un’alterazione macroscopica di alcuni caratteri costruttivi. Per esempio molte bucature sono state allargate per rispondere ai requisiti igienico-sanitari richiesti dalla normativa (dimensionamenti in base ai rapporti aero-illuminanti); alcune porte sono state trasformate in finestre e viceversa; molti sopraluce sono stati chiusi e sono state realizzate tante nuove aperture a causa della variazione della distribuzione interna nel riuso degli ambienti. Inoltre spesso sono stati aggiunti degli abbaini che contribuiscono ad alterare in modo significativo lo skyline dei tetti e la percezione dell’insieme del paesaggio dei Sassi. Anche i davanzali modanati, gli stipiti e gli architravi sono stati modificati o sostituiti con elementi in contrasto con quelli tipici della tradizione locale e sono stati inseriti infissi dalle più variate fogge, materiali e colori. In alcuni edifici si riscontra la radicale modificazione della tradizionale tipologia a padiglione o a due falde inclinate delle coperture che sono state sostituite dalle terrazze ‘preferite’ per la destinazione d’uso ricettiva. Questa funzione ha naturalmente comportato di conseguenza un largo uso e abuso di gazebo, ombrelloni e tende che, pur essendo strutture rimovibili, hanno sicuramente un impatto invasivo e inadeguato per un paesaggio rupestre (fig. 3). In altri edifici l’orditura del tetto è stata riproposta ruotata di 90° con il manto di copertura nel migliore dei casi con i coppi di recupero e nel peggiore dei casi con tegole nuove oppure la terminazione a timpano scalettato della facciata è stata rialzata o regolarizzata in piana. Invece le nuove murature a sacco sono state realizzate con paramenti in conci squadrati di calcarenite e riempimento in calcestruzzo, tecnica costruttiva solo in apparenza simile a quella tradizionale, e parimenti le lacune murarie reintegrate con conci squadrati che pur mantenendone il profilo entrano in contrasto con la morbidezza dell’alveolizzazione, degrado tipico di questo materiale. Inoltre spesso le murature
Fig. 4 Palazzo del Casale nel Sasso Barisano (Foto: Roberto Nadalin 2019).
sono state protette da intonaci con tinteggiature che vanno dalle tonalità del bianco, al giallo e fino al rosa denotando più una scelta di gusto personale che una valutazione basata sulla lettura del contesto urbano. Infine generalmente i piccoli portali d’ingresso al piano superiore posti all’inizio del ballatoio sono stati spesso demoliti, i parapetti delle scale ricostruiti e inseriti nuovi cancelli per delimitare gli spazi privati, in qualche caso però avanzati rispetto alla posizione originaria. Al contrario però bisogna sottolineare alcuni interventi di pregio come quelli al Palazzo del Casale, ora sede della Fondazione Matera Basilicata 2019, dove tra l’altro sono state riaperte tutte le logge e le finestre in accordo con la tipologia dell’edificio (fig. 4). Oppure in molti edifici le cornici e gli elementi decorativi, realizzati con materiali più resistenti, sono stati conservati nella compagine dei prospetti e i balconi reintegrati nelle parti mancanti come al Palazzo Pomarici, che oggi ospita il Museo della Scultura Contemporanea Matera (MuSMa, fig. 5). Naturalmente alcuni edifici, non ancora oggetto d’interventi, risultano in uno lo stato di degrado più avanzato rispetto a quello che si rileva nelle fotografie di Viggiano. Il confronto tra la situazione attuale e le immagini di Viggiano evidenzia che il recupero dei Sassi è soprattutto una questione paesaggistica. Purtroppo bisogna rimarcare che spesso non è stata considerata la relazione con il contesto urbano limitrofo, il corso principale del Piano di Matera, la Gravina, la visione d’insieme dall’altopiano delle Murge, ecc. Infatti il rialzamento di volumetrie non più esistenti a causa di crolli a volte sono state effettuate come scelte importanti per le relazioni urbane e paesaggistiche, altre volte come risoluzioni puntuali superflue senza valutazioni globali. Il paesaggio ereditato è appunto formato anche da grandi assenze come qui il Palazzo Dubla in piazza San Pietro Caveoso abbattuto per agevolare il traffico automobilistico. Al contrario si notano anche l’abbassamento di un piano di alcuni edifici o addirittura la demolizione completa, dettata da una futura ricostruzione, che genera momentaneamente nuovi ‘vuoti’ che saranno ricolmati con imitazioni per ridare congruità al contesto urbano. Inoltre i percorsi pedonali (in origine formatisi seguendo il sistema dei canali di scorrimento delle acque) sono stati potenziati tramite l’inserimento
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Daniela Concas Fig. 5 Palazzo Pomarici nel Sasso Caveoso (Foto: Roberto Nadalin 2019).
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di nuove scale. Per di più non sono più percepibili le tracce dei varchi dei ponticelli e delle passerelle che superavano i Grabiglioni. Infine la messa in sicurezza dei camminamenti con nuove pavimentazioni, raccordi, parapetti e ringhiere da semplice problema normativo diventa rilevante questione al contempo tecnica ed estetica. Innanzitutto i selciati tradizionali in scapoli di calcaree sbozzato incassati nel terreno, che facilitavano l’assorbimento della pioggia e grazie alla naturale accidentalità evitavano le cadute delle persone, sono stati sostituiti da lastricati in scapoli o in lastre in calcarenite dalla lavorazione superficiale liscia collocati su alti massetti in calcestruzzo che favoriscono lo scivolamento, l’accelerazione del decorso dell’acqua e la formazione di torrentelli. Poi alcune scale sono state ‘migliorate’ con raccordi curvilinei rispetto alle tradizionali terminazioni lineari e per adeguamenti normativi sono state inserite ringhiere metalliche e rialzati i parapetti esistenti in muratura conformandoli a coronamento lineare o scalettato piuttosto della tradizionale ‘schiena d’asino’ (fig. 6). Invece la ricostituzione di alcuni giardini pensili risulta sicuramente una nota interessante in quanto ripristina una caratteristica per realizzare il verde urbano tipica del paesaggio dei Sassi. Dal parallelo passato-presente si constatano evidenti inserimenti tecnologici negli edifici destinati oggi ad attività turistico-ricettive, mentre piccoli aggiustamenti in quelli residenziali. Il pluviale è l’elemento modificato che maggiormente emerge; infatti oltre alla sua trasformazione nella conformazione e nel materiale risulta spesso cambiato di posizione e soprattutto cresciuto nel numero con il risultato di ottenere un prospetto pieno di discendenti esteticamente preminenti rispetto al fondo (fig. 7). Inoltre si nota un incremento delle canne fumarie dovuto alle nuove destinazioni ricettive mentre in quelle abitative sono state integrate in facciata in piccoli vani tecnici esterni, oltre delle parabole satellitari la cui presenza ha però diminuito quella delle antenne per la ricezione tv. Al contrario le nuove linee delle reti tecnologiche sono state razionalizzate a differenza delle precedenti collocate per singoli aggiustamenti. Infine le necessità legate allo sviluppo turistico-ricettivo hanno portato alla proliferazione, prevalentemente di grande impatto visivo, di nuovi arredi urbani dalla conformazione contemporanea in acciaio oppure viceversa in arte povera
Fig. 6 Sasso Caveoso (Foto: Daniela Concas 2019).
lignea. In particolare le delimitazioni con fioriere o recinzioni in muratura, che a loro volta si trasformano in sedute per i turisti spossati, hanno alterato gli ambiti privati a uso semipubblico (vicinati) e quelli propriamente pubblici andando a snaturarli nel loro utilizzo tradizionale e a limitarli nella fruibilità e nella godibilità del bene stesso. Infatti a volte sono stati fusi non facendone più comprendere i limiti urbani, altre volte separati a scapito però della fruibilità pubblica e altre volte ancora interi vicinati sono stati chiusi modificandoli in ambiti di pertinenza esclusiva di un servizio privato (locali o B&B). Conclusioni La fotografia quale “specchio fedele delle cose” (Mormorio, 1996, p. 27) si rivela mezzo di riproduzione oggettivo e imparziale adoperabile nella ripresa dei monumenti, delle architetture e delle opere d’arte in genere e strumento indispensabile per la loro conoscenza come premessa indispensabile per una corretta conservazione. Così la singola immagine, non più solo ricordo di un tempo concluso, diventa documento storico e fonte d’archivio per lo studioso perché il passato ci dimostra qualcosa del nostro presente attraverso la Fotografia che diventa custode della nostra memoria. Essa conserva il passato e nello stesso tempo lo ricrea. Inoltre le fotografie storiche ci aiutano a comprendere che la dimensione temporale di una immagine è variabile nel tempo e si discosta, a volte, anche dalle intenzione stesse del suo autore. A distanza di anni ogni osservatore può scoprire in una foto nuovi dettagli, significati e valori a causa di una diversa cultura del vedere e a causa di una propensione dell’uomo, evolutasi nel tempo, ad analizzare sempre più i beni secondo i propri interessi. Così alcuni aspetti non ci colpiranno perché in alcuni casi non li sapremo più riconoscere, altri invece richiameranno la nostra attenzione, anche involontariamente, perché siamo attratti da qualcosa nello specifico. Infatti, anche le immagini di Viggiano, effettuate all’epoca con la volontà di documentare lo stato di abbandono dei Sassi, esaminate accuratamente con un altro sguardo hanno portato a una nuova interpretazione diventando un importante documento di un tempo passato e un fondamentale mezzo di confronto per effettuare le analisi sopra esposte.
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Daniela Concas Fig. 7 Sasso Barisano (Foto: Roberto Nadalin 2019).
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Il tema ‘realtà poetica o realtà oggettiva’ nel recupero dei Sassi di Matera non dovrebbe farci dimenticare che gli interventi (spesso dovuti agli adeguamenti funzionali richiesti dalla normativa) dovrebbero comunque preservare i valori storici, artistici e architettonici propri del patrimonio culturale e garantire il rispetto dei caratteri paesaggistici ereditati, pur nella costante necessità di rispondere alle esigenze del vivere contemporaneo in quanto solo l’utilizzo salvaguardia il bene. I Sassi di Matera rientrano nella definizione specifica di ‘patrimonio culturale, edilizio storico ed estraniato’ che comprende al suo interno più significati: ‘culturale’ in quanto espressione dell’identità di una popolazione e sua memoria materiale avente valore di civiltà (D. LGS. 42/2004, art. 2, c. 1 e 2 e artt. 10 e 11); ‘edilizio storico’ in quanto edifici testimonianza dell’attività umana e formatisi nel corso dei secolari processi di trasformazione di un tessuto urbano nei quali s’indentificano particolari valori storici, artistici, architettonici e paesaggistici; e infine ‘estraniato’ in quanto oggi avulso dalla realtà storica in cui è stato concepito. Questo riconoscimento dovrebbe pertanto sempre portare a un approccio metodologico di tipo conservativo negli interventi di conservazione integrata affinché i Sassi possano essere tramandati alle generazioni future (Carta Europea del Patrimonio Architettonico, Amsterdam 1975, p.to 7; Convenzione per la salvaguardia del patrimonio architettonico dell’Europa, Granada 1985, p.to 11). Inoltre le operazioni tecniche dovrebbero consentire una loro lettura diacritica volta comunque a ricomporre l’immagine dei Sassi senza snaturarli (Carta italiana del restauro, 1972, art. 4). Pertanto un po’ più di attenzione nella qualità degli interventi (rispetto dei caratteri costruttivi, scelta dei materiali, inserimento degli impianti tecnologici, ecc.) porterà a una conservazione più sensibile e consapevole della preziosa povertà dei Sassi in quanto rappresentano una unità di componenti che concorrono insieme a formare la loro immagine iconica che tutti amiamo (Concas, 2014; Concas, 2016; Concas, 2018). Grazie alle fotografie di Augusto Viggiano abbiamo avuto informazioni importanti e testimonianze uniche anche in relazione al senso dell’identità culturale e alla comprensione dei luoghi. Ci auguriamo che per gli interventi futuri saranno tenute presenti dai tecnici che si cimenteranno negli interventi in questi due Rioni nei prossimi anni.
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Il sistema cava-concimaia nella Fossa della Garofala a Palermo Rossella Corrao
Dipartimento di Architettura, Università di Palermo.
Calogero Vinci
Rossella Corrao Calogero Vinci
Dipartimento di Architettura, Università di Palermo.
Abstract During the 60s and 70s of the 20th century, the widespread construction of new buildings in the agricultural areas around the city centre of Palermo have changed the original landscape. A rare exception is represented by an area called Fossa della Garofala; in this place the topic of “stratification” creates a connection between the geological history and the most recent anthropogenic interventions. Here, one of the places of greatest interest where the signs of a very distant past and a very recent past gather and the epigeal and hypogeal dimensions are put in an immediate relationship is certainly the original system consisting of a quarry and a so called concimaia. If on one hand, the complex of the concimaia in particular of its underground parts has been preserved thanks to the difficulties to access that prevented its vandalization, on the other hand, this partial inaccessibility limited the possibility of maintenance and verification of its static conditions, functional to the use. The study of the underground cavity-concimaia system presented in this paper has been aimed at identifying potential risks for its safety, also with a view to its possible use by citizens. Keywords Underground heritage, iron construction, Palermo
La Fossa della Garofala: un’incisione fossile Se ancora in un passato recente il riconoscimento di caratteri di monumentalità in opere di grande pregio, sia da parte del sentire comune che delle Istituzioni, non sempre è riuscito a preservarle dal degrado o dalla distruzione, a maggior ragione sono stati spesso trascurati, dimenticati e perduti edifici, architetture e in alcuni casi interi centri storici o brani di territorio periurbani che - per le dimensioni modeste, la localizzazione, per il venir meno delle funzioni e dei presupposti per i quali erano stati pensati, realizzati e tramandati fino ai nostri giorni - non sono stati considerati un patrimonio da tutelare. In questo panorama, che ha visto nel corso degli anni ’60 e ’70 del XX secolo la sistematica saturazione delle aree agricole prossime alla città, una rara eccezione è rappresentata dall’incisione costituita dall’alveo del torrente Kemonia, la cosiddetta Fossa
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Fig. 1 Il sistema spazi ipogeiconcimaia nella Fossa della Garofala a Palermo.
della Garofala, a sud ovest delle antiche mura di Palermo ed attualmente delimitata a Nord-Ovest da Corso Pisani, l’antica strada per Monreale, a Sud-Est dalla cittadella universitaria, a Sud-Ovest da viale Regione Siciliana. In questo luogo privilegiato, il tema della stratificazione assume una concretezza tangibile, richiamando sia la dimensione più remota della storia geologica della Piana di Palermo, sia quella più recente degli interventi antropici che hanno, più intensamente a partire dai primi anni del XIX secolo, sapientemente trasformato il paesaggio naturale. La storia di Palermo, Πανoρμος, la città “tutta porto”, come quasi sempre accade per gli insediamenti urbani, è strettamente correlata alla presenza dell’acqua ed alla disponibilità di materiali adatti per la costruzione. Spesso, infatti, l’attività estrattiva, sia a cie-
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lo aperto che ipogea, ha trasformato, soprattutto nei momenti di maggiore espansione urbana, vaste aree che in passato si trovavano all’esterno delle mura. D’altra parte, le acque, affioranti sotto forma di sorgenti o che scorrevano in superficie in piccoli fiumi e torrenti, hanno determinato l’orografia del suolo, prima attraverso la loro azione diretta e poi in relazione all’operato dell’uomo che, a partire dal X secolo, ha profondamente trasformato il territorio sia con interventi di protezione idraulica che hanno deviato i corsi dei torrenti, sia per ottimizzare la captazione ed il trasporto di questa fondamentale risorsa anche attraverso opere ipogee ed epigee di ingegneria di notevole interesse. Il primo nucleo della Palermo murata si trovava infatti fisicamente limitato tra due corsi d’acqua, il Kemonia ad ovest ed il Papireto ad est, che con i loro alvei e le sorgenti hanno profondamente influito sullo sviluppo della città. La memoria di questi torrenti, il cui percorso, soprattutto in ambito urbano, è stato più volte deviato nel corso dei secoli, è stata cancellata definitivamente dalle opere eseguite per il livellamento stradale degli assi viari principali e dall’incauta prassi della tombatura degli alvei che li ha sottratti alla vista e alla memoria. In tal senso, l’area della Fossa della Garofala, parte superstite del tratto intermedio del torrente Kemonia, può essere considerata quasi una testimonianza fossile: è infatti uno dei rari casi in cui risulta ancora leggibile la storia geologica del luogo attraverso i segni della rete idrografica che ha modellato in superficie la copertura calcarenitica della Piana di Palermo. Una storia che, a partire dalle vicende tettoniche e climatiche del Pleistocene Medio, è scritta attraverso i segni dell’ultima glaciazione, durante la quale si è verificato il massimo abbassamento del livello del mare; ciò ha provocato importanti processi di erosione ed il conseguente l’approfondimento dell’alveo del Kemonia. Questo luogo racconta anche delle trasformazioni antropiche intervenute in tempi più o meno recenti: già nel X sec. d.C., durante la dominazione islamica, il geografo Ibn Hawqal riporta che il Kemonia, ovvero Torrente d’inverno o del Maltempo, attraverso la Fossa della Garofala, entrava in città dalla attuale Via Porta di Castro, causando in occasione delle piene frequenti distruzioni e numerose vittime. Solo a partire dalla metà del XVI secolo furono avviati diversi interventi di protezione della città che portarono alla deviazione del Kemonia attraverso un sistema canali e di fossati. A seguito di questi interventi l’alveo del Kemonia, prosciugatosi, venne ricolmato nella parte corrispondente all’attuale Fossa della Garofala con detriti e terreno vegetale al fine di consentire la coltivazione degli agrumi. Da questo momento, oltre alle trasformazioni derivanti dall’attività agricola, il banco calcarenitico della Fossa è stato intensamente scavato e coltivato per estrarre materiali da costruzione e per la captazione delle risorse idriche; nel corso del tempo, come spesso accade, le cavità sono state adattate a funzioni diverse: semplici ripari, stalle, cisterne, fino ad arrivare a trasformazioni più complesse – spesso non del tutto decodificabili, che vanno oltre l’aspetto puramente funzionale. In quest’area sono presenti numerose cave in galleria ed a cielo aperto ed un complesso sistema di gestione e distribuzione delle acque che, come permanenza delle antiche opere idrauliche per l’irrigazione, in parte ancora in esercizio, comprendono oltre alla rete superficiale, un qanat. I qanat, a differenza degli acquedotti, possono essere considerate sia opere di captazione che di trasporto delle acque. Negli ultimi anni, un rinnovato interesse nei confronti della costruzione ipogea ha consentito di individua-
re assonanze ed elementi di originalità di molti manufatti conosciuti, o scoperti solo di recente, e di inquadrarli in un ambito geografico, culturale e temporale più vasto. Un contributo di fondamentale importanza è stato certamente fornito da alcune recenti traduzioni ed edizioni di antichi testi e trattati arabi e persiani finora inaccessibili a causa delle barriere linguistiche; si cita per tutte l’edizione di Ferriello (2006) del trattato tecnico-scientifico di Karaji “L’estrazione delle acque nascoste” che ha permesso la diffusione e la conoscenza del testo del matematico-ingegnere persiano vissuto intorno all’anno mille. Come sottolineato dall’autrice, il trattato dimostra come, già intorno al Mille, la cultura del tecnico fosse il risultato di un’ibridazione tra tradizione mediorientale e occidentale, prova di ciò sono i riferimenti nel testo, anche se indiretti, alla cultura greca e romana. La presenza all’interno di un unico contesto, inglobato all’interno della città, di un’ampia porzione del paleoalveo del torrente Kemonia, di cave ed altre cavità artificiali, di un qanat - che ribadisce i legami tra la cultura locale e quella mediorientale - rendono la Fossa della Garofala un luogo privilegiato; qui sembra ancora possibile cogliere in modo immediato la continuità tra la dimensione epigea e quella ipogea, tra il passato geologico ed il tempo estremamente limitato che ha visto l’operare umano, parte quest’ultimo di un processo di trasformazione che, come accade raramente, appare coerente con i luoghi. Le trasformazioni antropiche nella Fossa della Garofala Se l’attestazione più antica riguardante l’area della Fossa della Garofala è riportata in un diploma di Guglielmo II del 1166, notizie più precise possono riscontrarsi solo a partire dalla fine del XV secolo, quando il mercante Onorio Garofalo acquista i terreni della valle del Kemonia che da questo momento saranno denominati “Valle di Onorio” e successivamente, fino ai nostri giorni, “Fossa della Garofala”. Nel 1801, il principe d’Aci Giuseppe Reggio impianta in queste fertili terre, che prende in enfiteusi, una moderna stazione agricola sperimentale. Nel 1810 Luigi Filippo, duca d’Orléans, acquista il palazzo Oliveri, gli edifici adiacenti nel piano di Santa Teresa ed i terreni retrostanti; in questi verrà realizzato il grande Parco, nel quale verrà attuata una radicale trasformazione dell’originaria configurazione orografica attraverso l’eliminazione delle parti più depresse e di quelle maggiormente emergenti. Nel 1857 anche il fondo nel quale Giuseppe Reggio aveva impiantato all’inizio dell’Ottocento la stazione agricola sperimentale, viene preso in enfiteusi dall’erede di Luigi Filippo, Enrico Eugenio Borbone d’Orléans duca d’Aumale, per attuare il progetto di ampliamento del parco del Palazzo d’Orléans. In seguito il duca d’Aumale amplia ulteriormente la proprietà verso ponente fino al “Fondo Forno”. Gli Orléans mantengono la proprietà fino al 1940, momento in cui viene requisita come bene straniero. Nel 1950 Enrico Roberto, conte di Parigi, vende quaranta ettari del fondo all’Università per la costruzione della cittadella universitaria e, nel 1954, il palazzo e una parte del parco vengono acquistati dall’Amministrazione Regionale. Il sistema cava-concimaia All’interno della Fossa della Garofala, uno dei luoghi di maggiore interesse - in cui si addensano i segni di un passato lontanissimo e di uno molto recente e si confrontano in un rapporto immediato la dimensione epigea e quella ipogea - è certamente l’originale sistema costituito dalla cava e dalla cosiddetta concimaia (fig. 1). Certamente uno
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Rossella Corrao Calogero Vinci Fig. 2 Planimetria del parco d’Orléans e della Fossa della Garofala (Documento conservato presso la Facoltà di Agraria di Palermo).
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dei luoghi più emblematici che informano il paesaggio della Fossa della Garofala, questo sistema si trova in corrispondenza del rialzo di perriera che, con un dislivello di circa sei metri, definisce attualmente il confine fisico tra la cittadella universitaria e l’area libera sulla quale si attesta a nord-ovest l’alto sbarramento edificato di Corso Pisani. Quest’area è ciò che ancora oggi permane del vasto fondo dei Padri conventuali di San Francesco di Paola in Sant’Oliva. La definizione compiuta di questa parte della Fossa della Garofala si può fare probabilmente risalire a dopo il 1857, anno in cui Enrico Eugenio Borbone d’Orléans prende in enfiteusi il fondo del principe d’Aci (fig. 2). Nello stesso anno si avvia la trasformazione del vasto comprensorio, sulla base del capitolato delle opere per la sistemazione agricola redatto dall’architetto Carlo Giachery. È probabilmente ascrivibile proprio a questa fase e all’opera dell’architetto la riconfigurazione del complesso sistema spaziale, artificialmente naturale, costituito dalla cava/grotta con corridoi a pettine, dallo spazio concluso circolare e a cielo aperto, dalle stanze che si affacciano su quest’ultimo e dalla tettoia circolare in ferro. La perizia dell’architetto riguardo alla costruzione in ferro è testimoniata dal fatto che proprio Giachery - subentrato nella cattedra di architettura ad Antonino Gentile, che per primo aveva introdotto nel suo corso lo studio delle strutture in ferro traendo spunto dagli articoli comparsi sul Journal du Génie Civil - nel 1824 era riuscito ad assemblare la stufa di ferro per le piante esotiche costruita in Inghilterra per il giardino inglese di Caserta e donata da Maria Carolina, consorte del Duca d’Aumale, al Real Orto Botanico di Palermo. Questa serra è la prima struttura in ferro e vetro conosciuta a Palermo ed il riferimento, certamente, anche per altri esempi palermitani di stufe, di padiglioni da giardino e, probabilmente, anche della copertura in ferro della concimaia. Se nella Fossa della Garofala la vocazione agricola si ibrida con quella di giardino di-
lettevole ed il linguaggio neoclassico di alcuni elementi (l’urna della torre dell’acqua, la gebbia, le archeggiature del passaggio sopraelevato) si compone con le forme libere di un impianto informale, nel sistema della concimaia si ritrovano in più altri temi del giardino romantico: simbolismo, ruinismo, ma anche il gusto per l’orrido (la dimensione ipogea e dell’oltretomba). In tal senso la cava con pianta a pettine può considerarsi, più che un richiamo ad una grotta naturale - come spesso accade nei giardini progettati in quel periodo, nei quali si riproducevano anche stalattiti e stalagmiti - una citazione dell’impianto catacombale; le catacombe di Porta d’Ossuna, scoperte nel 1739, erano già piuttosto note ai viaggiatori e radicate nell’immaginario comune tanto da essere valorizzate nel 1785 dall’intervento di realizzazione di un vestibolo di ingresso voluto da Ferdinando I di Borbone. I fronti di scavo lasciati a vista nella cava, nelle stanze, ma anche nel recinto della concimaia rimandano al tema delle rovine. I segni dell’erosione delle pareti di calcarenite, esasperando e segnando con l’orizzontalità delle stratificazioni il trascorre del tempo geologico, rimandano all’idea della consunzione delle opere dell’uomo e diventano costante riferimento per tutte le parti di questo sistema. Pur trattandosi di elementi esclusivamente funzionali (depositi, stalle, concimaia), questi sono inseriti in un evocativo spazio architettonico e naturale (fig. 3), con richiami espliciti o sottintesi del giardino romantico: vengono infatti reinterpretati alcuni temi ricorrenti - oltre alla grotta, il tempietto e la rupe artificiale - che si ritrovano in molti parchi pubblici e privati della Palermo del tempo (Casina cinese, Villa Belmonte all’Acquasanta, Villa Tasca, Parco Florio all’Olivuzza) come riflesso di una cultura europea citata con qualche anno di ritardo. Il tema del tempietto circolare monoptero coperto con calotta sferica, ricorrente a partire dalla fine del ‘700 nei giardini pubblici e privati - anche nella versione meno aulica dei padiglioni colonnati effimeri, viene reinterpretato nel colonnato e nella copertura della concimaia. La raffinata struttura in ferro è costituita da dodici colonne rastremate alte 2,70 metri, con basi e capitelli in ghisa (fig. 4). La calotta, con una monta pari all’altezza delle colonne, è realizzata con membrature costituite da dodici semiarchi collegati da nove paralleli poligonali. I semiarchi convergono su un anello sommitale di 1,20 metri di diametro che consente una connessione agevole in un punto distante dal colmo. L’azione cerchiante, in corrispondenza della parti superiori delle colonne è garantita da travi tralicciate realizzate con ferri piatti. L’attuale stato di degrado, che ha quasi totalmente privato la calotta della lamiera che la ricopriva, evidenzia paradossalmente la leggerezza della struttura e, in particolare, della copertura (fig. 5). L’effetto è ancora più accentuato dall’assenza dell’apparato ornamentale, spesso in ghisa, che ancora in quegli anni appesantiva molte costruzioni metalliche, volendo dissimulare quella snellezza da alcuni considerata eccessiva e poco rassicurante. L’esecuzione artigianale delle parti in ferro, probabilmente di fonderie locali, è testimoniata dall’uso di ferri non specializzati: le sezioni più articolate (archi, travi tralicciate, paralleli poligonali) sono ottenute connettendo con chiodatura ferri piatti di diverse dimensioni; le parti strutturalmente più complesse - il collegamento tra pilastro, trave tralicciata e semiarco sono in ghisa – sono risolte con nodi in ghisa. La forma circolare che richiama i tempietti peripteri, definita attraverso la leggerezza e l’esilità delle strutture metalliche, viene riconfermata dal possente scavo circolare che racchiude la concimaia e che richiama le camere dello scirocco di alcune ville palermitane.
Fig. 3 Il sistema cava-concimaia (disegno C. Vinci).
Fig. 4 Struttura in ferro della concimaia (disegno C. Vinci).
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Rossella Corrao Calogero Vinci Fig. 5 Stato attuale della copertura della concimaia. Fig. 6 Sezione del sistema cavaconcimaia (disegno C. Vinci).
Richiamando quasi l’idea dei calchi di fossili, quest’architettura diventa anch’essa l’impronta di qualcosa non più esistente, rafforzando l’idea di rovina ricorrente nella cultura del giardino romantico. Il “tempietto” in ferro non si trova su una collina, ma all’interno di un “cratere”. La rupe si riflette, come volume in negativo, in questo “cratere”. Seguendo lo stesso principio di positivo-negativo, lo stilobate circolare sprofonda ulteriormente e viene scavato per diventare una vasca quadripartita profonda 1.90 metri, negando l’accesso allo spazio sotto la vela metallica e la visione privilegiata dal centro (fig. 6). La copertura metallica, che traspone un’architettura classica come il tempietto circolare con l’uso del materiale simbolo del nuovo, il ferro (fig. 7), diventa un’espressione efficace di questa contaminazione tra l’interpretazione romantica del giardino e le istanze utilitaristiche del tempo. Conservazione e valorizzazione degli ambienti ipogei. Sicurezza primaria e secondaria Se da una parte il complesso della concimaia, in particolare delle parti ipogee (fig. 8), sono stati preservati dalla difficoltà di accesso che ne ha impedito la vandalizazione, dall’altra, proprio questa parziale inaccessibilità ha reso più difficoltosa la possibilità di una manutenzione o anche della verifica delle condizioni statiche nel momento in cui questi spazi non sono più stati utilizzati.
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Se infatti la tutela del patrimonio architettonico “visibile” è spesso promossa da un’opinione pubblica che percepisce nell’evidenza del degrado materiale dei manufatti il rischio di una perdita irrimediabile, al contrario, la salvaguardia di tutto ciò che è occultato alla vista risulta spesso di più difficile attuazione. Lo studio del sistema cavità ipogee-concimaia è stato finalizzato inoltre all’individuazione di potenziali rischi in relazione alla sicurezza primaria e secondaria, anche nell’ottica di una eventuale possibilità di fruizione. Nel corso degli ultimi anni, infatti, la maggiore frequenza di dissesti antropogenici dovuti alla presenza di cavità in ambito urbano e la complessità d’interpretazione di questi fenomeni dimostrano quanto siano spesso inadeguate le competenze di tecnici ed operatori riguardo le forme ed i modi della costruzione ipogea. Il diffuso disinteresse per il “patrimonio cavo” è certamente riferibile, oltre alle oggettive difficoltà di accesso, anche ad una insufficiente conoscenza che non consente di riconoscere ed inquadrare le frequenti e quasi sempre fortuite scoperte di opere ipogee all’interno di un più vasto contesto tipologico. La questione della sicurezza dei siti ipogei risulta tuttavia estremamente attuale: la riproposizione e l’attualizzazione del mito di una Palermo multiculturale, ribadito con l’inserimento nel 2015 del “percorso arabo-normanno” nella World Heritage List UNESCO, ha anche portato un notevole incremento dei visitatori nei siti sotterranei (catacombe, qanat, camere dello scirocco) che risultano ancora accessibili. Per la tutela di questo patrimonio millenario, quasi sempre sconosciuto perché invisibile, si pone pertanto con maggiore evidenza l’improrogabilità di un’azione che riesca a conciliare valorizzazione, fruizione e messa in sicurezza. In quest’ottica, oltre a garantire la sicurezza secondaria, finalizzata alla salvaguardia e conservazione materiale delle opere ipogee (riferibile fondamentalmente alla stabilità strutturale delle stesse), è necessario tener conto delle questioni ben più complesse riguardanti la sicurezza primaria. In merito alla questione della sicurezza secondaria, a scala urbana, sempre più numerosi risultano i dissesti dovuti alla presenza di cavità antropiche ed opere ipogee sconosciute o delle quali non è stato valutato opportunamente lo stato di conservazione. Nel corso dell’ultimo secolo, la frequenza di dissesti antropogenici può certamente essere correlata alla maggiore intensità delle precipitazioni e, paradossalmente, alle
Fig. 7 Particolare della colonna in ferro e ghisa. Fig. 8 Galleria principale della cava di calcarenite.
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opere di risanamento urbano ed agli interventi prescritti in modo sistematico a partire dalla fine del XVIII secolo dai “Regolamenti di igiene e polizia urbana” che portarono alla progressiva tombatura dei torrenti e delle acque superficiali, riducendo la possibilità di controllo su eventuali dispersioni. Se i numerosi studi sui manufatti ipogei palermitani restituiscono un quadro piuttosto esaustivo delle tipologie ricorrenti in ambito urbano – che in relazione alla valutazione della stabilità strutturale possono essere classificate in opere che prevedono scavi con ampio sviluppo planimetrico come le cave, ed opere ad andamento lineare (verticale o orizzontale) come pozzi, canali e cisterne - rispetto alla definizione costruttiva ed alle modalità di dissesto ricorrenti, la ricerca presenta ampi margini di approfondimento. Alcune considerazioni preliminari rispetto ai dissesti ed alla sicurezza secondaria di questi manufatti possono essere fatte già in relazione alla tipologia di appartenenza; per tale ragione il riconoscimento delle finalità di realizzazione o della funzione d’uso prevalente forniscono indirettamente indicazioni sulla stabilità e sui conseguenti livelli sicurezza, informazioni indispensabili sia in fase di esplorazione delle cavità antropiche che nelle successive fasi di intervento ed eventuale fruizione. Infatti, anche per le opere ipogee, come per qualsiasi manufatto, i modi della costruzione ed i materiali utilizzati sono ottimizzati in funzione della vita utile prevista e delle modalità d’uso: per tale ragione cave coltivate per brevi periodi e finalizzate esclusivamente all’estrazione dei materiali presentano in genere livelli di sicurezza inferiori rispetto ad opere che potremmo definire infrastrutturali come cisterne ed acquedotti, progettati e realizzati per durare “in eterno”. A conferma di ciò basti pensare come già la morfologia dello scavo e le modalità di esecuzione possano essere differenti. Nelle cave, in genere, la tendenza ad ampliare lo scavo fino a dimensioni appena compatibili con i limiti di resistenza della roccia presente imponeva spesso l’uso di opere provvisionali in legno anche molto complesse che, se non manutenute, si deterioravano in breve tempo. Ovviamente, conclusosi lo sfruttamento delle cave si interrompeva anche la manutenzione delle opere provvisionali, anche per tale ragione le cave sono in genere tra gli ambienti ipogei a più alto rischio. Inoltre, le cave abbandonate continuavano spesso ad essere depredate cavando materiale e riducendo progressivamente anche le sezioni degli elementi portanti come i piloni di sostegno. Un’ulteriore considerazione riguardo la minore sicurezza delle cave riguarda l’ubicazione: cave nell’ambito della città storica presentano quasi sempre accorgimenti strutturali finalizzati a rendere più solida la cavità (dimensione minore delle gallerie e delle stanze, numero e sezioni maggiori degli elementi di sostegno, configurazione del cielo, ecc); al contrario, nelle antiche cave in aree extraurbane, oggi spesso densamente urbanizzate, si riscontra una minore attenzione nell’attuazione di strategie e nella realizzazione di elementi atti a garantire una duratura stabilità. Conclusioni La scarsa conoscenza ed il limitato interesse per le forme ed i modi della costruzione ipogea, certamente ascrivibili anche alle oggettive difficoltà di accesso, sono in primo luogo riferibili alla carenza di studi organici che consentirebbero di riconoscere ed inquadrare ogni singolo caso in un più vasto contesto tipologico e di valorizzare di conseguenza anche manufatti “minori”. Oltre alla necessità di tutela e conservazione, l’ur-
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genza di uno studio approfondito è imposta da problematiche correlate alla sicurezza; sempre più numerosi risultano infatti i casi di dissesti statici dovuti alla presenza di cavità antropiche ed opere ipogee delle quali non si è valutato opportunamente lo stato di conservazione. In tal senso, lo studio avviato, ed attualmente in corso, sul sistema della concimaia della Fossa della Garofala, ed in particolare sulle parti ipogee, rappresenta un caso emblematico rispetto alla possibilità di attuare una valorizzazione dei manufatti attraverso una fruizione compatibile degli stessi. Bibliografia Ferriello G. 2006, L’ estrazione delle acque nascoste. Trattato tecnico-scientifico di Karaji. Kim Williams Books, Torino. Mortillaro V. 1854, Intorno alla misura delle acque correnti in Palermo, Palermo. AA.VV. 2002, Qanat – Arte e cultura. Antiche tecniche di approvvigionamento idrico, Istituto Statale d’Arte di Palermo, Palermo. La Duca R. 1964, Sviluppo urbanistico dei quartieri esterni di Palermo, Istituto di Elementi di Architettura e Rilievo dei Monumenti, Palermo. Longo C., Tortorici M. 2003, Il Parco d’Orleans. La cultura del giardino siciliano d’età contemporanea, Officine grafiche riunite, Palermo. Todaro P. 1988, Il sottosuolo di Palermo, Dario Flaccovio Editore, Palermo. Todaro P. 2002, Palermo. Guida di Palermo sotterranea, L’Epos, Palermo. Cristiano M. 2017, La conoscenza del sottosuolo di Napoli per la mitigazione del rischio di crolli e dissesti, in Proceedings of Colloqui.AT.e 2017. Demolition or reconstruction, EdicomEdizioni, Monfalcone.
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Geomateriali e paesaggio nell’architettura spontanea del casertano Gigliola D’Angelo
Dipartimento di Ingegneria Civile Edile ed Ambientale, Scuola Politecnica delle Scienze di Base, Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Luisa Di Nardo
Gigliola D’Angelo Luisa Di Nardo Giovanni Forte
Dipartimento di Ingegneria Civile Edile ed Ambientale, Scuola Politecnica delle Scienze di Base, Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Giovanni Forte
Dipartimento di Ingegneria Civile Edile ed Ambientale, Scuola Politecnica delle Scienze di Base, Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Abstract The approach to the traditional building techniques together with the definition of local raw materials is an indispensable tool to understand, qualify and distinguish a civilization or a historical period. Using the materials present in the area, is a construction strategy that today could be seen as an innovative practice for km0 construction, instead it is the starting point; the real zero-km of the development of a technique in a particular area. Therefore, starting from geological considerations, we can affirm that the high Caserta area sees in the limestone and ignimbrite campana, grey tuff, yellow Caserta tuff and piperno, the materials most used in local constructions. Furthermore, by careful analysis and in-depth studies, it appears that the province of Caserta is also distinguished by having provided precious natural stone materials used for the construction of the building elements of the Royal Palace of Caserta and important monumental buildings in Naples, such as the Pietra di Bellona, a marble in shades of grey-green, still easily identified in the facade elements of the architectural works mentioned. Keywords Geomateriali, Architettura rurale, Tecnologie Costruttive, Tradizione, Innovazione.
Il contesto Chiara, logica, lineare e funzionale, l’architettura rurale costituisce da sempre la vera tradizione autoctona dell’architettura italiana. Sono diversi decenni ormai che l’architettura rurale rivive un fiorente momento di recupero e valorizzazione dello stile e delle tecnologie costruttive che l’ha riportata alle vette delle ricerche e degli studi scientifici. Non più storia dell’architettura basata quasi senza eccezioni su un’architettura stilistica e pragmatica ritenuta meritevole di attenzione per il suo valore intenzionalmente estetico ma storia dell’architettura basata sulle ragioni pratiche del costruito funzionale, di un’architettura nata da necessità vere, pratiche, di pura risposta alle esigenze produttive e domestiche in diretto rapporto con il territorio ed il paesaggio in cui esse si inseriscono in totale armonia. La provincia di Caserta, area dal carattere geologico e geomorfologico di rilevante importanza, noto per aver fornito in passato materiali lapidei di preziosa natura per la realizzazione di elementi costruttivi della Reggia di Caserta e di importanti edifici monu-
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Fig.1 Muro di contenimento in loc. Triflisco, Bellona (CE)
mentali di Napoli, come la Pietra di Bellona, marmo dalle tonalità grigio-verde, costituisce una interessantissima area di studio e ricerca per la ricchezza dei giacimenti minerari di cui è costellata e la abbondanza di costruzioni a secco quali muri di contenimento, bastioni, case rurali, masserie, tutte costruzioni realizzate con materiali reperiti o direttamente estratti in loco con sapiente conoscenza tramandata di generazione in generazione fin dai tempi dei Romani (Carfora P., Guandalini F., Mataluna S., Quilici Gigli S., Renda G., Salerno M., 2014). Inquadramento geologico dell’area di Caserta L’area del Casertano può essere suddivisa in quattro zone da un punto di vista geologico – geomorfologico: versanti calcarei, colline terrigene, piane alluvionali ed il vulcano del Roccamonfina. 1. I versanti calcareo – dolomitici del Mesozoico, che comprendono i Monti del Matese, i Monti di Caserta, di Durazzano, Maddaloni, Castelmorrone ed il Monte Tifata. Essi sono costituiti da blocchi monoclinalici separati da faglie con direzione appenninica (NW-SE), che quasi sempre si raccorda alla piana senza una falda detritica alla base dei versanti. Il fenomeno carsico non risulta molto vistoso, ma si segnalano alcune doline nei pressi dell’abitato di Monte Morrone e Valle di Maddaloni, localmente note come “commole”. 2. I versanti collinari sono costituiti da depositi terrigeni del Miocene e bordano i massicci carbonatici; dove prevalgono i termini marnoso – argillosi i pendii si presentano più dolci, mentre risultano più acclivi se affiorano arenarie, in particolare nella zona di Caiazzo e Limatola. 3. Le pianure alluvionali sono rappresentate della media e bassa valle del Volturno e la piana di Alife. Esse sono costituite da depositi alluvionali di varia granulometria e terreni piroclastici, depositatisi dal Pleistocene inferiore. Inoltre, intercalato ai depositi di piana si rinviene un continuo livello di tufo grigio campano, quest’ultimo lo si ritrova anche addossato ai versanti calcarei. In particolare, la media e bassa valle del Volturno è costituita da sedimenti limoso sabbiosi e terreni umificati e delle colmate di bonifica del Clanio e del Volturno stesso. Invece, la piana di Alife rappresenta il relitto di un vecchio lago di sbarramento prodotto nella piana del Volturno dai prodotti eruttivi del vulcano Roccamonfina. 4. Nel settore più a Nord, si ritrova l’edificio vulcanico del Roccamonfina.
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Gigliola D’Angelo Luisa Di Nardo Giovanni Forte Fig. 2 Reggia di Caserta
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L’area della Provincia di Caserta risulta fortemente interessata da attività estrattiva di cava sia nei fondovalle, con cave a fossa che al bordo dei rilievi carbonatici, con cave a fronte unico o a gradonate. Gran parte sono ubicate ai piedi dei versanti dove la vicinanza con la rete stradale rendono più conveniente lo sfruttamento. Le tipologie di materiali estratti riguardano sia i calcari che i prodotti piroclastici sciolti e litoidi. Le cave di calcare si aprono prevalentemente nelle litologie del Cretacico inferiore e superiore. Nell’intorno di Sant’Angelo in Formis e Bellona si estrae la “Pietra o Marmo di Bellona”, ovvero un calcare dolomitico grigio-verdognolo utilizzato sia come materiale da costruzione che come pietra ornamentale, impiegata anche nella Reggia di Caserta e in alcuni edifici monumentali di Napoli. L’ignimbrite campana è sicuramente tra i materiali da costruzione più caratteristici della Campania, esso viene estratto ed impiegato in tutte le sue facies, ovvero tufo grigio, tufo giallo casertano e piperno. La facies sciolta viene impiegata come pozzolana. Queste cave sono particolarmente concentrate a ridosso dei versanti dove si ispessisce lo spessore di materiale, si rinvengono nei pressi di Maddaloni e San Nicola La Strada. Tecniche costruttive nel casertano L’approccio alle caratteristiche delle tecniche costruttive tradizionali insieme con la definizione delle materie prime locali, costituisce uno strumento indispensabile per comprendere, qualificare e distinguere una civiltà piuttosto che un periodo storico. L’utilizzo dei materiali presenti nel territorio, che oggi potrebbe essere vista come una pratica innovativa per le costruzioni a km0, è invece il punto di partenza; il vero chilometro zero dello sviluppo della tecnica in una particolare area. Partendo quindi dalle considerazioni di carattere geologico, presentate nel presente contributo, possiamo affermare che l’area del casertano vede nei calcari e nell’ignimbrite campana, tufo grigio, tufo giallo casertano e piperno, i materiali più usati nelle costruzioni locali, spesso combinati con i prodotti dell’attività vulcanica del Roccamonfina. Dall’analisi della letteratura emergono le preferenze di impiego dei vari materiali, talvolta dovute alle caratteristiche fisiche intrinseche degli stessi, talvolta alla destinazione d’uso dell’opera da realizzare. L’utilizzo dei calcari, ad esempio, è particolarmente frequente in tutta l’area regionale, sia sotto forma di grandi blocchi, sia in pezzature più piccole; quest’ultime meno diffuse e comunque limitatamente alle zone sommitali. Frammenti, scarti e granulometrie minori, come vedremo, vengono principalmente utilizzate come riempimento e orizzontamento. Il tufo, invece, presente in larga parte nella zona di Roccamonfina, (Guerriero, Miraglia, 2010) viene adoperato nelle costruzioni fortificate e in particolare per la realizzazione dei cantonali. Relativamente alle costruzioni fortificate, un tipico allestimento murario di età federiciana è quello in pietre rustiche di tufo giallo casertano associato al calcare locale, il quale si trova in misura sempre minore all’aumentare dell’alzato, con orizzontamenti che seguono l’altezza dei filari del cantonale di circa 20 cm di spessore (D’Aprile M., 2008a). È infatti diffuso l’uso degli elementi calcarei in grossi blocchi nelle zona inferiori del corpo di fabbrica, seguendo la cosiddetta apparecchiatura “a cantieri”. Il nucleo del paramento murario ha una tipologia a sacco con materiali provenienti dalle lavorazioni, scarti di cava e pietrame di granulometria e forma varia. Questa tipologia costruttiva “a cantieri”, abbastanza diffusa, è costituita da elementi di pietra calcarea locale grezza, costipata in modo irregolare con orizzontamenti periodici di due o tre filari di pietre, caratterizzante le costruzioni già dal XIII secolo e senza so-
Fig. 3 Vista aerea, Reggia di Caserta
stanziali variazioni fino al XIX. Questo tipo di conformazione apparentemente grossolana e casuale, realizzata senza attenzione per gli sfalsamenti, in realtà necessità di attente valutazioni sia relativamente alla pezzatura delle pietre irregolari, sia alla loro disposizione che deve tenere conto delle necessità statiche e dei vari elementi di fabbrica costituenti la costruzione. Nel corso dei secoli, ed in particolare fino al finire del XVIII, l’altezza dei cantieri aumenta progressivamente per poi diminuire attestandosi sui due palmi napoletani, di circa 50 cm, oltre a regolarizzare le pezzature che iniziano a risultare quasi standardizzate, seguendo le necessità operative delle maestranze. Non si sono poi registrati notevoli cambiamenti nella tecnica costruttiva. Il motivo è principalmente di carattere organizzativo: le difficoltà nel recepimento di nuovi materiali hanno portato al consolidamento delle tecniche costruttive locali utilizzando i materiali reperibili nelle aree di costruzione (D’Orta, 2008). Il tipo di muratura realizzato vede un largo uso di elementi sbozzati o squadrati, direttamente scelti e messi in opera dalle maestranze, senza attenzione alla levigazione a “mano di scalpellino”. Questo tipo di realizzazione consentiva, tra l’altro un notevole risparmio in termini di costi e tempi di esecuzione. Il ricorso a materiali di rapido approvvigionamento si vede non solo in quelli di grossa pezzatura per gli elementi murari “tagliati” direttamente dalla cava, ma anche nella produzione dei leganti nei quali venivano utilizzati oltre agli scarti di cava, anche scorie e ceneri vulcaniche tipiche dell’area Nord dov’è presente il Roccamonfina. Come anche negli elementi in tufo delle volte, completati da massetti in battuto di lapillo. Inoltre l’accostamento del tufo giallo o del calcare con il tufo grigio o il materiale vulcanico, conferisce la tipica bicromia delle costruzioni dell’area. Le stesse motivazioni sono alla base della tecnologia costruttiva che riguarda gli ambienti interni, come nel caso degli orizzontamenti realizzati in legno con una semplice orditura di travi di castagno lasciate allo stato grezzo (D’Aprile, 2008b).
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Il reimpiego dei materiali provenienti da crolli, lavorazioni, demolizioni etc. non è in questa zona sviluppato quanto nelle aree Laziali, ciò nonostante l’evidente tendenza all’uso di materiali locali ci fa riscontrare l’utilizzo di queste risorse, soprattutto nella fase di orizzontamento dell’apparato nelle zone di discontinuità dovute alla conformazione dei blocchi; si riscontra infatti il reimpiego di elementi in cocciopesto e scaglie di laterizi. C’è da dire che le caratteristiche meccaniche dei materiali locali, ben si prestano all’utilizzo degli stessi in ogni forma e conformazione, dal grande blocco fino a scapoli e scaglie. Da quanto analizzato, la tipicità non risulta tanto nel carattere dimensionale o geometrico degli elementi messi in opera, ma piuttosto nella tecnica, da un punto di vista assolutamente operativo, nella sua conformazione a cantieri. Risultano particolarmente interessanti le motivazioni che hanno tenuto in vita questa tecnica costruttiva che nel corso dei secoli, nonostante i naturali cambiamenti socioeconomici e politici, non ha subito rilevanti variazioni; motivazioni che ancora oggi risultano essere elemento determinante nelle scelte progettuali e operative: il binomio costo-tempo. In effetti, l’assoluta praticità data dall’utilizzo delle pietre non sbozzate, o delle travi in legno al grezzo, sta sicuramente nel risparmio di tempo, nella messa in opera delle lavorazioni, e di costo, potendosi avvalere di manodopera non specializzata; inoltre, come già specificato, le grandi e varie dimensioni di questi elementi, costringevano all’utilizzo di tutto il materiale disponibile in loco, spesso riutilizzando quello risultante da demolizioni e crolli, naturali e non. Questa linea di azione, per quanto mossa da scopi prettamente pratici, risulta essere perfettamente in linea con i criteri che oggi si cerca di riportare nell’industria delle costruzioni. La Pietra di Bellona, dalle architetture rurali alla Reggia di Caserta e Monumenti di Napoli Gli aggregati rurali costituiscono la struttura portante del paesaggio in quanto centro di sviluppo ed organizzazione della vita agricola. I materiali utilizzati nelle architetture spontanee e le forme dettate dalle necessità d’uso e dalla morfologia del terreno, testimoniano le caratteristiche identitarie di un luogo. Le architetture realizzate con tecniche tradizionali e geomateriali reperiti in loco, dunque, dal momento che fanno parte del paesaggio, rappresentano elementi di riconoscimento di un territorio in maniera a dir poco inequivocabile fino ad essere parte integrante della memoria storica del luogo. In questo modo, un fabbricato rurale, diventa segno di appartenenza collettiva, il suo rapporto con il paesaggio, i materiali e le tecniche costruttive assumono valore patrimoniale sociale (Branduini, 2014). Al patrimonio materiale dei fabbricati rurali e della loro dimensione di memoria e identità, si associa il patrimonio immateriale delle tecniche che hanno permesso la costruzione dei fabbricati e nel contempo la creazione dei paesaggi rurali e non. Come per le architetture realizzate con materiali lapidei reperiti in loco, infatti, gli stessi effetti delle tecniche di reperimento ed estrazione di materiali sono elemento identificativo di un territorio, si pensi ad esempio alle cave di estrazione sui versanti calcareo – dolomitici che comprendono i Monti di Maddaloni, in provincia di Caserta, sui quali è stata effettuata una fitta campagna di estrazione durata quasi un secolo a partire dalla fine del XIX sec. Più dolce e meglio armonizzato è invece il rapporto materie prime – costruito – paesaggio che caratterizza il territorio casertano a Nord del Volturno in particolare lungo la
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dorsale di Monte Maggiore, nelle aree comprese tra il Monte Rageto e la collina di S. Iorio appartenenti ai Comuni di Bellona, Capua e Sant’Angelo in Formis. Sviluppati come centri rurali a ridosso di aree già abitate ai tempi dei Romani come Sicopoli, Cales, Janus, oggi rispettivamente Triflisco, Calvi Risorta, e Giano Vetusto i piccoli aggregati funzionali erano inizialmente caratterizzati prevalentemente da manufatti realizzati in pietra sbozzata direttamente reperita in loco con tecniche di estrazione così poco invasive che, ad oggi, la localizzazione de visu delle cave risulta molto difficile. Muretti a secco, masserie, stalle, portali e persino interi palazzi della nuova Capua, inizi del XVIIIsec, sono stati realizzati o rifiniti con la pietra estratta a Km 0 e denominata La Pietra di Bellona. I siti estrattivi della Pietra di Bellona ricadono nel Foglio 172 “Caserta” della Carta Geologica d’Italia (Allocca, 2004). Utilizzata come pietra da taglio e da costruzione in architettura per le sue caratteristiche estetiche e fisico-meccaniche, la Pietra di Bellona ha visto sempre un uso limitato ad un impiego pressoché locale in un’edilizia ai tempi ritenuta di scarsa valenza architettonica. (de Gennaro, Calcaterra, Langella, 2013) Si trattava inizialmente di una edilizia semplice, locale, realizzata da artigiani e contadini del posto il più delle volte per autocostruzione di nuovi ambienti abitabili o produttivi a basso costo e facili da realizzare e manutenere nel tempo. È con l’arrivo di Carlo III di Borbone a Napoli, nella prima metà del ‘700, che si avvia una fase completamente diversa per gli artigiani e imprenditori locali che vedono una rivitalizzazione delle proprie attività estrattive e costruttive nel forte interesse del Re a realizzare importanti opere architettoniche. In un’ottica definibile avanguardistica si pensò al reperimento di materie prime provenienti da zone prossime ai cantieri o comunque da aree facenti parte del Regno in modo da ridurre i tempi di approvvigionamento e i costi (Aveta, 1987). Era in programma il grande progetto del Vanvitelli, La Reggia di Caserta, che vede nella sua facciata la massima espressione della Pietra di Bellona. È notevole ancora oggi il contrasto cromatico del rosso dei mattoni in facciata con gli elementi decorativi in Pietra di Bellona dai colori variabili tra il bianco ed il grigio con venature verdastri. Negli anni successivi la Pietra di Bellona diventa uno dei materiali lapidei ad uso ornamentale più utilizzato in Campania. Molti i siti e gli edifici di interesse storico ed architettonico in cui è possibile apprezzarne ancora oggi la presenza, in particolare: a Napoli, nella Basilica di S. Francesco di Paola, utilizzata per i tamburi delle cupole e per la pavimentazione in contrasto con i Marmi di Mondragone; la facciata del Duomo di Napoli e la facciata del Santuario di Pompei (Penta, 1935), nonché architetture dell’epoca fascista come parte della pavimentazione della sala della Corte di Appello (Fed. Naz. Es. Ind. Est., 1939) ed in diverse scalinate monumentali del nuovo Palazzo delle Poste a Napoli (Penta, Ippolito, 1937). La Pietra di Bellona è esposta al Real Museo Mineralogico di Napoli ed è citata in molti cataloghi di materiali da costruzione come pietra di gran pregio per la sua elevata resistenza e per il peso specifico non elevato (Ferrero, 1879). È interessante vedere come la sensibilità all’utilizzo di materie prime reperibili in loco e la ottimizzazione dell’uso delle risorse a propria disposizione avuta da Carlo III di Borbone abbia notevolmente influenzato lo sviluppo economico e sociale di una intera area territoriale. Tuttavia, dal momento in cui le attività estrattive della Pietra di Bellona si sono intensificate è cambiato l’assetto socio-economico del territorio in cui si trovavano le cave ma
Fig. 4 Crollo muro di contenimento in blocchi di cls; Rifacimento di muro di contenimento con tecnica a secco; Reperimento materiali in loc. monticello, Bellona, proprietà Di Nardo; Fase di realizzazione di muretto a secco con materiali reperiti in loco.
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non il paesaggio, il costruito, l’identità territoriale che ha visto nelle proprie risorse naturali un momento di forte identità collettiva tutelata con fierezza e forte senso di appartenenza ancora oggi molto sentito. Le cave riportate nel Foglio 172 “Caserta” della Carta Geologica citata, non sono più attive in maniera produttiva come fino a qualche ventennio fa ma ci sono testimonianze del continuo uso che i locali fanno delle proprie materie prime e dove possibile ancora basandosi sul principio dell’autocostruito sul luogo nel pieno rispetto del luogo. I muretti a secco del casertano, nel gergo dialettale sono chiamate “murecene” e sono realizzati, ancora oggi, con forma trapezoidale, a scarpa spingente verso il terrazzamento da contenere, o a forma troncoconica se fanno da muro di divisone dei confini. La disposizione delle pietre in filari prevede la collocazione di quelle più grandi alla base, sufficientemente infossate nel terreno, per poi digradare verso l’alto con blocchi più piccoli con interposti degli elementi a cuneo indispensabili per migliorare l’aggrappo al terreno e/o tra i blocchi stessi. La sensibilità al patrimonio rurale collettivo è oggigiorno la salvezza della stessa identità nazionale, l’attività agricola infatti è in continuo fermento, continua evoluzione e con essa gli edifici e le strutture annesse. La riscoperta del costruito tradizionale, il preservare la leggibilità della evoluzione di una struttura, ha trovato proprio nel concetto di patrimonio rurale collettivo un ottimo punto di incontro con la necessità di diversificare la destinazione d’uso dei manufatti preesistenti riportandoli a nuova vita e a più apprezzato valore architettonico e sociale. Cenni sui caratteri fisici e meccanici de La Pietra di Bellona Relativamente la caratterizzazione fisico chimica e meccanica effettuata per La Pietra di Bellona, il lavoro più imponente risulta essere quello svolto da Penta e Ippolito in cui si tratta in modo esaustivo la mineralogia, la petrografia e l’indice di usura del materiale. I valori medi del peso specifico oscillano tra 28,6 e 27,3 KN/mc. La porosità è molto bassa con valori compresi tra 1,43 e 3,74 %. La compattezza presenta valori variabili tra 0,962 e 0,986 (Penta, Ippolito, 1935). I valori riportati, in combinazione con i valori di assorbimento dell’acqua, di risalita capillare e delle prove UCS registrate indicano nel complesso una buona resistenza a compressione uniassiale della pietra con valori variabili tra 112 MPa e 144 MPa a seconda della cava di estrazione (Primavori, 1999) La Pietra di Bellona risulta nel complesso un calcare di buona qualità con scadimento trascurabile delle proprietà indice del materiale anche in condizioni ambientali molto aggressive. Le patologie di degrado più diffuse sono: patine e macchie superficiali dovute agli agenti atmosferici e all’inquinamento, fratturazione dovuta ad atti vandalici, fessurazione superficiale ed esfoliazione (de Gennaro, 2000). Conclusioni L’osservazione delle relazioni che intercorrono tra le tecniche, i materiali e il contesto geomorfologico, ci racconta la storia di questi luoghi, delinea il quadro socioeconomico e ne costituisce l’identità. Oggi, immersi in città sempre più industrializzate e nuovi quartieri che si conformano come dei luoghi “non luoghi”, si sente il bisogno di recuperare e ritrovare quel senso di appartenenza e di legame con lo spazio che ci circonda. L’articolo 1 della Carta di Venezia (1964), in tal senso ci ricorda che quando parliamo di monumento storico ci stiamo riferendo tanto alla “creazione architettonica isolata
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quanto l’ambiente urbano o paesistico” come “testimonianza di una civiltà particolare, di un’evoluzione significativa o di un avvenimento storico”, ma soprattutto tenendo in considerazione anche “le opere modeste che, con il tempo, abbiano acquistato un significato culturale”; la nozione di monumento quindi si amplia e comprende sia l’opera architettonica sia il paesaggio urbano, naturale, rurale di cui per la prima volta si apprezza il valore storico culturale da tutelare. Ancora della Carta di Venezia è considerevole anche l’art. 10: “Quando le tecniche tradizionali si rivelano inadeguate, il consolidamento di un monumento può essere assicurato mediante l’ausilio di tutti i più moderni mezzi di struttura e di conservazione, la cui efficienza sia stata dimostrata da dati scientifici e sia garantita dall’esperienza”. Risulta, quindi, chiaro e determinante l’invito ad assumersi responsabilità nella tutela delle varie strutture storiche sopravvissute a distanza di centinaia di anni in quanto memoria storica dei luoghi. Bibliografia AA.VV., 1971 Carta geologica d’Italia 1:100.000, Foglio 172 Caserta. APAT, Roma, 2004 Abbolito E. 1935, Il calcare di Bellona in provincia di Napoli. Boll. Soc. Geol. It., 54, pp 272-276. Branduini P. 2014, Il ruolo dell’architettura rurale nella valorizzazione del paesaggio agricolo periurbano, Maggioli Editore, Milano. Carfora P., Guandalini F., Mataluna S., Quilici Gigli S., Renda G., Salerno M. 2014, Carta archeologica e ricerche in Campania, Fascicolo: Comuni di Bellona, Marcianise e Sturno, L’Erma di Bretschneider, Roma. Chouquer G., Clavel M., Favory F., Vallat J.P. 1987, Structures agraires en Italie centro-meridionale. Cadastres et paysage ruraux, CollEFR, Roma. D’Aprile M. 2008a, Murature tardomedievali in calcare di Terra di Lavoro, in G. Fiengo, L. Guerriero (a cura di), Atlante delle tecniche costruttive tradizionali. Napoli, Terra di Lavoro (XVI-XIX), Tomo I, Murature, solai, coperture, Arte Tipografica Editrice, Napoli, pp 55-84. D’Aprile M. 2008b, Solai e coperture in legno a Napoli e in Terra di Lavoro, in G. Fiengo, L. Guerriero (a cura di), Atlante delle tecniche costruttive tradizionali. Napoli, Terra di Lavoro (XVI-XIX), Tomo I, Murature, solai, coperture, Arte Tipografica Editrice, Napoli, pp 297-298. D’Orta L. 2008, Strutture in calcare di età moderna in Terra di Lavoro, in G. Fiengo, L. Guerriero (a cura di), Atlante delle tecniche costruttive tradizionali. Napoli, Terra di Lavoro (XVI-XIX), Tomo I, Murature, solai, coperture, Arte Tipografica Editrice, Napoli, pp 92-100. de Gennaro M., Calcaterra D., Langella A. 2013, Le pietre storiche della Campania, Luciano Editore, Napoli. de Gennaro M., Calcaterra D., Cappelletti P., Langella A., Morra V. 2000, Building stone and related weathering in the architecture of the ancient city of Naples. Journal of Cultural Heritage, pp 334-414. Ferrero L.O. 1879, Contribuzione allo studio del materiale litologico della provincia di terra di Lavoro. Esposizione regionale di Caserta. 2 vol in 8°, Caserta, pp 296. Guerriero L., Miraglia F. 2010, Materiali del Roccamonfina nell’architettura medievale di Terra di Lavoro: Pontelatone, Formicola, Castel Volturno, in A. Panarello (a cura di), Conoscere il Roccamonfina. 2. L’architettura, Atti del Convegno e catalogo della Mostra, Roccamonfina, pp.107-124. Pagano G., Guarniero D., 1936, Architettura rurale italiana, Quaderni della triennale, Hoepli Editore, Milano. Penta F., Ippolito F. 1937a, La Pietra di Bellona. Marmi, Pietre e Graniti. a.XV n.2, Carrara, pp 3-30. Penta F., Ippolito F. 1937b, Marmi ornamentali adoperati nel nuovo palazzo delle poste di Napoli. Marmi, pietre e Graniti. a.XV n.1, Carrara. Primavori P. 1999, Planet Stone, Zusi Editore, Verona.
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Il giardino di Palazzo Barberini a Roma. Storia e ipotesi di restauro Gilberto De Giusti
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Marta Formosa
Gilberto De Giusti Marta Formosa
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Abstract The essay examines some restoration proposals for the garden of Palazzo Barberini in Rome. This historic garden was in origin a big park hierarchically linked to the building and constituted by two terracings adorned by sculptures and fountains. The garden was used in early XVII century by the cardinal Francesco Barberini for his botanical interests and afterwards the obelisk, called ‘guglia’, was to be erected there on a project by Carlo Fontana. In recent times, the garden has been gradually reduced because of the urbanistic renovation of the city between the XIX and the beginning of the XX century. Although much of the ancient layout has been lost, some archival documents, books and drawings are precious to read in the correct way this space. To date, there is a need to develop a new and unitary figurative image, recovering the suggestions of the first garden from historical representations and documents, respecting the value of the monument. Two design solutions are presented which are based on the re-enactment of the past events of the site and the figures that animated it, using contemporary and current ways. Il presente saggio trae origine dalle tesi degli autori discusse presso la Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio dell’Università di Roma “Sapienza” nell’A.A. 2018/2019. Relatore: prof. arch. Massimo De Vico Fallani; Correlatori: prof.ssa arch. Maria Letizia Accorsi, arch. Dario Aureli, prof. ssa arch. Roberta Maria Dal Mas. Si esprime un sincero ringraziamento al relatore e ai correlatori per il supporto nell’esecuzione della ricerca storica e degli elaborati grafici. I disegni qui pubblicati sono stati svolti sulla base del rilievo laser scan eseguito con il prof. arch. Leonardo Paris nel mese di dicembre 2018. Le note storiche, nella fase iniziale di studio, sono state redatte insieme all’arch. Bruno Di Gesù.
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Keywords Palazzo Barberini, restauro, giardino storico, progettazione, Giovanni Battista Ferrari
Il giardino di palazzo Barberini allo stato attuale Il giardino di palazzo Barberini è un interessante tema di studio per le trasformazioni strutturali subite dall’impianto architettonico e vegetale1. Questo spazio verde, molto ridotto rispetto all’assetto originario, costituisce un’importante traccia della storia del complesso, testimoniando l’unione solidale che legava l’edificio al suo parco. Attualmente, il giardino si sviluppa su due livelli: il primo è sito alla quota d’ingresso da via delle Quattro Fontane, con l’ampio cortile a esedra di fronte alla facciata; il secondo è alla quota più alta, a cui si accede dalla rampa in asse con l’atrio che ha per sfondo il villino Savorgnan di Brazzà con la statua dell’Apollo citaredo (Figg. 1-2). Alla fine della cordonata, a destra si estende il secondo giardino con il padiglione ligneo e la serra, mentre a sinistra sono presenti delle aree recintate private, tra cui il verde dei Barberini. L’area sul lato destro, di pertinenza del palazzo, è distinguibile in due ambiti tra loro non comunicanti ed entrambi lambiti dal muraglione. Il primo ambito, ap-
prossimabile a un quadrato, è delimitato a monte dal muro controterra del terrazzamento superiore e dalla recinzione degli edifici circostanti; il verde è quadripartito e nell’incrocio è posta la vasca circolare; a ridosso del muraglione verso il palazzo, corre il viale fiancheggiato da due filari di Quercus ilex. Il prospetto del salto di quota superiore è ritmato da paraste rustiche che inquadrano due finestroni; a metà del prospetto è collocata la scala a due rampe ortogonali, aggettivata centralmente dall’esedra con la fontana rustica. La seconda area, invece, è accessibile dal viale che partendo dal fianco sinistro della serra circonda il primo giardino e confluisce nella strada condominiale verso la via XX Settembre. Questa zona, di forma irregolare, è delimitata dall’inferriata e vi si entra dal cancello in asse con il Ponte Ruinante; sulla destra del percorso che congiunge il ponte al cancello, in parte definito da edifici, è presente il piazzale rettangolare con erme, mentre sulla sinistra l’area presenta uno spartito di aiuole a quote leggermente diverse, con alberature ad alto fusto e statue. Note di studio storico del giardino Lo stato del giardino negli anni 1625-1630 Realizzato sul sito della vigna e del giardino di statue di Rodolfo Pio da Carpi (1500-64), il complesso è comprato nel 1578 dagli Sforza, che realizzano l’ala di sinistra, e, dopo successivi passaggi di proprietà, nel 1625 dal cardinale Francesco Barberini (Magnanimi, 1983, p. 51; Eiche, 1987). La campagna di lavori che porta alla definizione a scala urbana del complesso coinvolge ampiamente il lotto e le strade limitrofe, innestandosi sulla piazza Grimana (piazza del Tritone) e sulla via delle Quattro Fontane culminante nel quadrivio2. Da questa via si accede alla proprietà mediante i passaggi ricavati in due muri consecutivi e dall’ingresso dalla piazza Grimana (Waddy, 1990, p. 207). Il palazzo, con impianto ad ‘H’, presenta nella parte centrale al piano terra il portico che, in profondità, si riduce da sette a cinque e tre campate ed è concluso dalla fontana a esedra; il giardino si sviluppa sul retro su due gradoni ed è raggiungibile dal salone ovale del primo piano e dall’ala sinistra degli Sforza (Fig. 4). L’impianto dell’edificio, progettato da Carlo Maderno, riprende in pianta e in alzato le soluzioni architettoniche adottate in area suburbana, accentuando la valenza agreste del luogo (Wittkower, 1993, p. 95). In questa fase, la sistemazione del lotto è raffigurata nella planimetria della Biblioteca Apostolica Vaticana, datata al 1628 da Waddy, in cui si distinguono i tre giardini segreti, allineati lungo il muro di cinta verso l’odierna via Barberini, e il giardino grande in direzione delle Quattro Fontane (Waddy, 1990, p. 178). Questo assetto richiama le soluzioni progettuali suggerite per il giardino nel documento Barberiniano latino
Fig. 1 Palazzo Barberini, Roma. Architettonico della planimetria del palazzo e del giardino, scala rapporto 1:200 (elaborazione grafica: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019). Fig. 2 Palazzo Barberini, Roma. Architettonico delle sezioni sul giardino longitudinale (in alto) e trasversale sul giardino (in basso), scala rapporto 1:200 (elaborazione grafica: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019).
Nel crocevia delle Quattro Fontane, il muro di confine del giardino Barberini è sottolineato dal prospetto attribuito a Pietro da Cortona, caratterizzato dalla statua della ninfa dormiente al di sotto della finestra che in origine consentiva la vista verso l’interno della proprietà (Blunt, 1958).
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Gilberto De Giusti Marta Formosa Fig. 3 Palazzo Barberini, Roma. Rilievo architettonico del muro del terrazzamento superiore (in alto) e del prospetto della cordonata (in basso), scala rapporto 1:50 (elaborazione grafica: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019).
Sull’identità dell’autore del manoscritto, nel corso degli anni sono stati ipotizzati diversi nomi, da Cassiano del Pozzo (Magnanimi, 1983, pp. 60-61), a Carlo Maderno, a Giovanni Battista Ferrari (Campitelli, 2004, p. 574), senza però essere giunti a una identificazione certa.
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4360, in cui l’anonimo autore prevede la realizzazione di un “giardin segreto de’ fiori”, la cui esposizione ottimale è sulla sinistra del lotto per via del “sole à tutte l’hore”, e di un “giardin grande”, di cui è “assai più alto il piano […] dal piano nobile, e del pian del giardin segreto”. Di questo spazio più ampio, si legge che “dunque converrà, che una parte ne sia aprica, et una parte ombrosa; una amenissima, et una alquanto rustica”, destinando la zona più soleggiata alla messa a dimora di melangoli e quella più ombrosa alla piantagione di olmi o platani, secondo uno schema geometrico di riquadri (senza data citato in Magnanimi, 1983, pp. 230-262)3. Alcune note descrittive redatte tra il 1626 e il 1630 registrano la presenza di statue, epigrafi e rocchi di colonne antiche, mentre le essenze vegetali consistono in gelsomini e melangoli (Lavin, 1975). Dal confronto con le fonti documentarie, che seppur approssimativamente consentono di estrapolare un’idea dell’originario impianto, si osserva che a oggi i giardini segreti si conservano parzialmente in pianta a sinistra della cordonata, coincidendo con il verde privato della famiglia Barberini, mentre dell’area grande si è serbato il livello inferiore, seppur fortemente ridotto. Per quel che riguarda l’uso del giardino nei primi anni del Seicento, è bene ricordare il vivo interesse per la floricoltura del cardinale Francesco, alimentato presso la corte barberiniana dallo studioso Giovanni Battista Ferrari, autore di importanti trattati botanici (Ferrari, 1638, 1646). Tale passione per gli argomenti naturalistici è largamente trattata nelle Aedes Barberinae di Teti, dove un’illustrazione raffigura dei recinti rettangolari di fiori bordati di bosso (Teti, 1647, p. 41), coerentemente con la partitura a scacchiera rappresentata nella Pianta di Roma di Falda del 1676. Trasformazioni degli anni 1630-1700 Alla morte di Carlo Maderno nel 1629, Gian Lorenzo Bernini subentra alla direzione del cantiere. Dal 1673 al 1678 è intrapresa la costruzione del Ponte Ruinante per volontà del cardinale Francesco Barberini. Negli stessi anni è realizzata la cordonata alla cui estremità, nel 1677, è collocata la statua dell’Apollo Citaredo, restaurato da Giuseppe Giorgetti e Lorenzo Ottoni, su di una vasca circolare in travertino con un supporto di finti scogli (Montagu, 1970). Dal punto di vista funzionale, cambia la connessione al giardino con la rimozione della fontana dall’atrio d’ingresso e con l’apertura del passaggio che introduce alla nuova cordonata in asse con il palazzo (Fig. 4). Al terrazzamento superiore si accede con il viale in prosecuzione della rampa. Il piano nobile comunica con il giardino mediante il Ponte Ruinante, che unisce la sala del trono al viale alberato verso l’ingresso dalla via Pia (oggi via XX Settembre).
Fig. 4 Palazzo Barberini, Roma. Restituzione delle fasi di trasformazione sul rilievo dello stato attuale, scala rapporto 1:250. A sinistra anni 1625-1630; a destra anni 1630-1700 (elaborazione grafica: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019).
Questa sistemazione è descritta nella pianta di Nolli del 1748, che riporta anche lo schema ad aiuole rettangolari del terrazzamento superiore culminante in una parte più boschiva con una fontana ovale e l’esedra nel muro di contenimento del dislivello. Alcune illustrazioni del XVII e XVIII secolo restituiscono il carattere prevalentemente naturalistico del sito: poche statue sono immerse in una rigogliosa vegetazione, confermando la predilezione per gli scorci paesistici (Fig. 5). Rispetto alla fase precedente, sembra qui sviluppato in maniera più ampia il tema del giardino inteso quale scenografia, atta a ospitare statue di figure mitologiche e allegoriche, colte citazioni del mondo classico (Tagliolini, 2006). In questi anni si progetta di innalzare in asse con il ponte l’obelisco, ossia la ‘guglia’, rinvenuto presso il ‘circo di Eliogabalo’, per cui sono avanzate proposte da parte di Bernini, di Giuseppe Giorgetti e Lorenzo Ottoni, e infine nel 1700, di Carlo Fontana, senza però giungere all’effettiva esecuzione dell’opera (Del Bufalo, 1982; Spila, 2013)4. La configurazione del piazzale avrebbe così assunto una potente valenza simbolica che lascia tuttora aperte svariate ipotesi interpretative, preannunciando inoltre il gusto per le finte rovine come espressione del senso di incertezza dell’epoca (Magnanimi, 1983, p. 88). Perdita dei caratteri identitari e riduzione del giardino dal XIX secolo Nel 1814, a opera dell’architetto Prospero Mallerini, è realizzato lo sferisterio dal lato della via XX Settembre, in corrispondenza del terrazzamento inferiore, riducendo significativamente lo spazio, come si evince dalla mappa catastale del 1818 (Negro, 1980). Le successive planimetrie di Roma concordano tutte sulla presenza della fontana nel muro controterra, mentre non è mai presente la scala attuale né la casina di sughero; scompaiono anche le aiuole rettangolari alla quota più bassa, che appare priva di caratterizzazione. Diversamente, la pianta di Létarouilly del 1851 (Létarouilly, 1851, p. 141) raffigura delle aiuole con quattro viali perpendicolari e fontana nell’incrocio, che non trova conferma in nessun’altra planimetria dell’epoca o precedente, a esclusione della raffigurazione di Specchi del “giardino della Guglia” (Specchi, 1699, tav. 20).
4 L’obelisco fu innalzato sul Pincio durante il pontificato di Pio VII (Spila, 2013).
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Gilberto De Giusti Marta Formosa Fig. 5 Viste del giardino di palazzo Barberini da Baltard L.P. 1806, Lettres ou voyage pittoresque dans les Alpes et vues de Rome, Imprimerie de Crapelet, Parigi.
Nel 1883, è inserita la serra in vetro e ghisa e nel 1886 sono demoliti lo sferisterio e il viale dei lecci; l’anno seguente, il piazzale antistante il palazzo è modificato con la realizzazione della corte a emiciclo a cui si accede dalla cancellata progettata dall’architetto Francesco Azzurri (De Guttry, 2006). Con la ridefinizione urbanistica del quartiere, il lotto di palazzo Barberini subisce una forte riduzione con l’aggregarsi lungo i suoi bordi di nuovi edifici (Cherubini, 2013). Ormai del giardino non resta che la parte più interna, destinata comunque a perdersi con la costruzione nel 1937 della villa Savorgnan di Brazzà, che reca memoria del sito con la statua dell’Apollo in facciata. Lettura morfologica e problemi di restauro Alla luce dell’analisi delle vicende storiche del giardino Barberini, è evidente la necessità di rendere leggibili quei valori storico-artistici attualmente compromessi. Sebbene non sia possibile, allo stato attuale degli studi, ricavare dai documenti un’immagine precisa del giardino antico, le testimonianze pervenuteci e il loro riscontro con un accurato rilievo sono degli strumenti significativi per l’individuazione dei caratteri identitari. Mentre la parte antistante il palazzo, frutto della sistemazione ottocentesca, trova nel giardino paesaggistico inglese il suo riferimento principale, diversamente, la zona superiore è fortemente disomogenea ed è da leggersi come il lacerto del giardino seicentesco, di cui conserva pochi elementi puntuali e segni degli assi principali. L’area quadrangolare di fronte alla serra, a seguito del restauro del 2008, si ispira alla rappresentazione di Létarouilly, replicando lo schema quadripartito con fontana al centro (Cherubini, 2010, p. 76). Questo impianto però, oltre a non sopperire alle esigenze funzionali del palazzo, appare slegato rispetto all’intorno, facendo emergere la possibilità di un rinnovamento, anche in funzione della recente acquisizione da parte del palazzo del piazzale in asse con il ponte, precedentemente gestito dal Ministero della Difesa. Si pone così la problematica di definire spazialmente questo sito poco organico, stabilendone un’immagine coerente e funzionalmente organizzata. Sulla base di quanto espresso da Belli Barsali (Belli Barsali, 1983) sull’analogia di metodo tra il restauro architettonico e quello dei giardini storici, occorre pensare criticamente a un allestimento contemporaneo che, però, citi e mantenga la memoria del vissuto del luogo, senza interferire con i suoi valori. Secondo questa logica, sono stati elaborati due pos-
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sibili interventi progettuali che, reinterpretando le conoscenze documentarie e iconografiche mediante un approfondito confronto con le permanenze storiche, danno come risultato diverse letture dello spazio verde. Il giardino della Guglia Il primo progetto consiste in precise operazioni definite in base ai valori del luogo, percepibili dalla sua fruizione, dallo studio storico e dalle ‘linee guida interne’ che emergono dal rilievo (Fig. 6). Si vuole ottenere la ricomposizione figurativa ideale di tutti i livelli che danno conto del giardino nella sua interezza, senza voler replicare fasi non più esistenti, ma intervenendo in maniera critica e progettuale per mezzo di suggestioni, generando un insieme armonico di parti distinte che dialoghino fluidamente tra loro. L’obiettivo del progetto, di matrice dichiaratamente contemporanea, è la riconfigurazione dei diversi lacerti presenti nel giardino ricucendoli spazialmente sia dal punto di vista distributivo che visivo, anche in relazione alle possibili viste dall’interno del palazzo. Si interviene inizialmente con opere di manutenzione straordinaria per risolvere i problemi statici riguardanti il muraglione che circonda il palazzo, dovuti all’interramento degli originari sistemi di deflusso delle acque, che ora si accumulano nel paramento. Gli alterati rapporti geometrico-proporzionali causano una contrazione spaziale che genera un’immagine ancora più opprimente degli edifici confinanti con il giardino: infatti, il punto focale individuato nella fontana è decentrato e posizionato arbitrariamente distogliendo l’attenzione dal piano orizzontale verso quello verticale. Si propone tramite l’individuazione di nuovi assi, la proiezione del modulo generato tra la scalinata e la serra, e la ricostituzione dei diversi filari sagomati di lecci, di correggere tali questioni scenografiche, frammentando le immagini non pertinenti e focalizzando l’attenzione sulla spazialità interna al giardino anziché sulle moli che lo circondano. Queste nuove direttrici di progetto metteranno in luce gli allineamenti prospettici, così da ricostituire l’unità figurativa tra l’ambito principale e quello prospiciente il Ponte Ruinante. In corrispondenza del ponte si suggerisce di inserire un elemento che reinterpreti in chiave attuale la ‘guglia’ descritta nella rappresentazione di Specchi: essa costituirebbe nella sequenza visiva, oltre che il punto di fuga tra il viale d’ingresso da via XX Settembre e il Ponte Ruinante, una meta e riferimento spaziale per l’insieme del giardino. Il giardino dei fiori La seconda idea progettuale si ispira alle disposizioni contenute nel Barberiniano latino 4360 e negli scritti di Ferrari, evidenziando cioè il legame del luogo con la coltivazione di fiori da bulbo e accentuando l’organizzazione dell’area per settori verdi differenziati (giardino dei fiori, zona soleggiata con agrumi, zona d’ombra con alberi ad alto fusto), ma tra loro fluidamente connessi con decisi assi di percorrenza (Fig. 7). La proposta ha per obiettivo quello di restituire unità figurativa e funzionale al giardino superiore, considerando la stretta relazione con il palazzo, grazie anche allo studio delle visuali e alla separazione dei percorsi veicolari e pedonali. Si ipotizza la riunificazione dei due diversi ambiti del giardino mediante una bassa recinzione che delimiti lo spazio di pertinenza del palazzo da quello condominiale, riutilizzando anche il cancello in ferro battuto attualmente presente. L’area antistante la serra, suddivisa in direzione longitudinale dal prolungamento
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Gilberto De Giusti Marta Formosa Fig. 6 Palazzo Barberini, Roma. Progetto del giardino della Guglia: planimetria generale post operam, scala rapporto 1:200 (in alto); prospetto e sezione dell’installazione della Guglia (a sinistra); sezione della fioriera e dei viali (al centro); dettaglio ante e post operam dell’antico sistema di smaltimento delle acque (elaborazione grafica: Gilberto De Giusti, 2019). Fig. 7 Palazzo Barberini, Roma. Progetto del giardino dei fiori: planimetria generale post operam (in alto), scala rapporto 1:200; dettaglio della lastra in travertino (a sinistra); dettaglio dell’aiuola circolare con schema della disposizione dei bulbi (a destra); dettaglio delle bande fiorite con schema della disposizione dei bulbi (in basso) (elaborazione grafica: Marta Formosa, 2019).
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dell’asse che va dalla fontana rustica al Ponte Ruinante, ospita da un lato la zona coltivata a bande di prato e fioriere di bulbi e dall’altro quella con agrumi, atti a schermare in parte gli edifici insistenti sul giardino. Secondo un’ottica di sostenibilità, la coltivazione e la vendita dei bulbi è affidata alla serra. Il giardino d’ombra è da ubicarsi nella parte in asse con il Ponte Ruinante, valorizzando così le alberature presenti e aggiungendone delle nuove, insieme a rosai di rose antiche e a un gazebo. Dall’analisi dei percorsi, si nota che questo piazzale è strettamente legato alle sale dell’ala destra del palazzo, attualmente sede delle collezioni d’arte contemporanea: pertanto si prevede l’inserimento di una lastra marmorea nella pavimentazione che conservi memoria del progetto dell’obelisco e sulla quale possano essere esposte a rotazione delle installazioni artistiche. Conclusioni Il restauro di un giardino, inteso quale bene effimero e facilmente soggetto ad alterazioni, è spesso occasione di confronto con spazi che hanno perso il loro originario assetto. È pertanto doveroso basarsi su una ricerca storica approfondita, dettagliata, che analizzi documenti e fonti iconografiche note, per poi effettuare un confronto con la realtà attuale del bene oggetto di studio. Il rilievo circonstanziato e le vicende del luogo, oltre a definirne i valori spirituali e identitari, determinano le linee d’indirizzo per i percorsi, gli accessi, la scelta delle essenze da conservare o da rimuovere, nonché per la destinazione d’uso. In definitiva, il progetto è il risultato di una lettura tesa a rendere manifesti quei valori che le superfetazioni e gli interventi incongrui eseguiti nel tempo avevano precedentemente nascosto, mettendo in luce mediante un’equilibrata valutazione critica la specificità e l’unicità dell’opera d’arte.
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Il complesso dell’ex Stazione Trastevere a Roma. Studio storico-critico per un possibile re-uso (restauro e uso) Chiara Frigieri Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Oliva Muratore Chiara Frigieri Oliva Muratore
Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma
Abstract The complex of the first Trastevere railway station today represents an episode of industrial archeology. The ‘passenger building’ is considered a representative example of great urban ambitions for the city of Rome which, starting from the second half of the nineteenth century, decided to invest in a system of public, urban and interurban transport, converging on the city, in order to determine a growing economic and social development. The resulting architecture throughout Europe takes on distinctive constructive and stylistic caracters, recognizable by the diffused use of modern materials such as iron and glass, used in vaults, cantilever roof and construction details through semi-industrial engineering productions. The reality of architecture, after changes of the building use, conserve its late nineteenth century aspect. This has been studied through archival documents, historical iconography and direct analysis, with the aim of planning its restoration and, above all, a new public use that is also compatible with the renewed needs of the community. Keywords Conoscenza; Studio storico-critico; Restauro; Uso compatibile; Architettura
Premessa L’ex stazione ferroviaria di Roma Trastevere, nell’attuale piazza Ippolito Nievo, è stata inaugurata il primo luglio 1890. Tuttavia, già nel primo decennio del Novecento, questa perde la funzione di cerniera strategica del settore urbano occidentale della città. Nel 1905 infatti, a seguito della nazionalizzazione della rete ferroviaria si decide di impiegare il fabbricato viaggiatori della stazione Trastevere come sede dell’Istituto di Dinamica Sperimentale delle Ferrovie dello Stato, avviando così un processo di delocalizzazione della funzione ferroviaria. A conferma di un diverso orientamento dello sviluppo urbanistico, economico e sociale della città di Roma e in particolare della riva destra del Tevere, fra il 1907 e il 1910 si realizza una nuova stazione nel quartiere Trastevere, in una posizione più strategica per i collegamenti con le altre tratte esistenti sul territorio.
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Immagine introduttiva Stazione Trastevere, divenuta sede dell’Istituto Sperimentale del Ministero delle Comunicazioni Sezione Ferroviaria, in esercizio solo per le merci, 1935 (Il Regio Istituto Sperimentale, 1938, p. 9).
L’originaria sede ferroviaria conserva per alcuni anni il servizio merci, fino a quando l’Amministrazione Pubblica decide di collocare nell’area del complesso ferroviario le ‘Officine di Roma’, originariamente inserite all’interno della stazione Termini. Il complesso è definitivamente dismesso nel 1950. Dai primi anni Novanta del secolo scorso, e ancora oggi, il grande edificio e l’antistante giardino, un tempo distinto dalla presenza di aiuole e arbusti di media altezza, appaiono abbandonati e privati di un’adeguata funzione, in attesa di un progetto di restauro e di nuova destinazione d’uso, che sia compatibile con i caratteri stilistici e costruttivi dell’organismo edilizio. Infatti solo attraverso un uso ‘consapevole’ del patrimonio architettonico diffuso è possibile assicurare la trasmissione di questo alle generazioni future, valutando, caso per caso, una funzione rispettosa dei valori storico-artistici e di autenticità della preesistenza storica. I beni culturali non necessitano di essere ‘valorizzati’ o ‘rivitalizzati’, termini questi diffusi negli ultimi decenni e non sempre interpretati correttamente da coloro i quali investono nel patrimonio storico-artistico; piuttosto deve essere loro concessa la possibilità di essere impiegati in modo ‘compatibile’, facilitando attraverso l’uso la lettura della loro storia e manutenuti attraverso una programmazione continua nel tempo (art. 4 della Carta Italiana del Restauro, 1972). Allo stato attuale la fabbrica di fine Ottocento, modificata in parte nei primi decenni del Novecento, si mostra agli occhi dei cittadini romani privata della sua dignità architettonica, con le grandi arcate al piano terra tamponate e la variegata vegetazione del giardino antistante circondata da cumuli di immondizia. È dunque aperto il dibattito relativo ad una più appropriata destinazione d’uso; una nuova funzione compatibile non solo con il carattere architettonico distintivo del grande lotto urbano, ma anche con le rinnovate esigenze culturali e sociali degli abitanti del quartiere. In questo scritto si intende delineare una sintesi storico-critica delle vicende costruttive vissute dalla fabbrica nel tempo, resa possibile attraverso lo studio dei documenti d’archivio, dell’iconografia storica, delle fonti edite e l’analisi della realtà dell’architettura allo stato attuale.
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Chiara Frigieri Oliva Muratore
Questo al fine di acquisire le conoscenze necessarie per un progetto di restauro e nuovo uso di un episodio di architettura tardo ottocentesca, progettato per la risoluzione di problematiche connesse alle principali infrastrutture della città e allo sviluppo economico, sociale e urbano nella seconda metà del XIX secolo. Tale architettura oggi meriterebbe, a parere di chi scrive, di essere restaurata e resa fruibile dalla collettività, a memoria di una parte della storia di Roma che non deve essere dimenticata, anche se troppo spesso è trascurata dalla storiografia diffusa.
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Inquadramento storico-urbanistico La realizzazione della stazione Trastevere è legata allo sviluppo dei servizi ferroviari di Roma e alle problematiche connesse con la sua espansione urbanistica nell’ultimo quarantennio del XIX secolo. Questo periodo è distinto da una sensibilità crescente rispetto al tema del trasporto pubblico in tutta Europa e da un rapido incremento delle linee ferroviarie convergenti sulla città. Papa Pio IX nel 1846, a pochi mesi dall’inizio del suo pontificato, sollecita la progettazione di nuove strade ferrate tra lo Stato Pontificio e l’estero, e il 7 novembre dello stesso anno delibera la costruzione di due linee ferroviarie: la Roma-Frascati e Roma-Velletri-Ceprano, sino al confine col Regno di Napoli, detta ‘Pio Latina’ e la Roma-Civitavecchia e Roma-Ancona, detta ‘Pio Centrale’ (Londei, Glielmi, 2009). Il Governo Italiano si dimostra favorevole, fin dal 1878, alla realizzazione di una stazione ferroviaria nella zona di Trastevere e nel 1880 ne commissiona il progetto all’Amministrazione delle Ferrovie Romane, proponendo un nuovo polo ferroviario nell’area di San Cosimato (Società italiana per le strade ferrate del Mediterraneo, Servizio delle Costruzioni, 1897, p. 5). Si intende “eseguire una stazione in Trastevere con un braccio di strada ferrata che staccandosi dall’attuale stazione di San Paolo […] raggiunga i prati di San Cosimato” (ASC, Titolo post unitario; Titolo 51 Strade ferrate, busta 3, fasc. 6, 1880 prot. 21853). Il nuovo impianto aveva anche l’obiettivo di decongestionare il nodo di Termini, sovrautilizzato. Si voleva realizzare uno scalo viaggiatori e merci per la parte occidentale della città, un punto di arrivo e partenza delle linee per il nord e per il sud lungo il litorale tirrenico. La collocazione del nuovo polo ferroviario all’interno delle mura seicentesche realizzate da Papa Urbano VIII, in un terreno della famiglia Sciarra, nei pressi del complesso conventuale di San Cosimato (Betti Carboncini, 1998, p. 95), aveva tuttavia creato incertezze circa la fattibilità della sua realizzazione (ASC, Atti del Consiglio Comunale del 1883). Nel progetto originario la stazione avrebbe dovuto essere l’elemento di testa per la linea verso Civitavecchia e sarebbe stata collegata, con un nuovo ponte metallico, a quella di Testaccio. Il Piano Regolatore di Roma del 1883 descrive questa prima ipotesi: tuttavia nei grafici non risulta l’asse di viale del Re, il collegamento fra il Rione Trastevere e l’area a sud delle mura, fuori Porta Portese. Nel settembre del 1883, a causa dei rallentamenti dovuti ai difficili accordi tra il Comune e i proprietari dei terreni, il primo progetto viene superato e si propone una soluzione alternativa. Si prevede di posizionare la stazione lungo il prolungamento di via di Porta Portese, fuori dalle mura, in un’area non edificata, da connettere con la città consolidata (Pianta topografica di Roma, pubblicata dalla Direzione Generale del Censo e aggiornata a tutto il corrente anno MDCCCLXVI, 1866, ASC, zona di Trastevere).
Questo progetto prevede anche la possibilità di sostituire con un tratto di nuova costruzione la linea tra San Paolo e Termini (Betti Carboncini, 1998, p. 95) e, soprattutto, di realizzare un ponte che permettesse di attraversare il Tevere all’altezza di Porta Portese (ASR, Collezioni di disegni e mappe, 21492, Progetto di sistemazione ferroviaria della città di Roma, arch. F. Mazzanti, 1888). Dalla disamina delle fonti d’archivio è possibile comprendere la processualità con la quale si giunge, nel 1889 alla realizzazione della stazione, oggetto di un vivace dibattito (ASC, Ufficio V, Piano Regolatore, posizione 8, fasc. 9a; Semenza, 1879; Frontini, 1883). La pianta del Genio Militare del 1900 descrive l’assetto urbano dell’area di Trastevere dopo la realizzazione del complesso ferroviario (Frutaz, 1962). La costruzione del nodo di scambio, con i binari nella parte retrostante verso il Tevere, conferisce una nuova connotazione a questa porzione di territorio, destinato a divenire un importante polo ferroviario per l’intera città di Roma. L’architettura delle stazioni nella seconda metà del XIX secolo in Europa L’episodio progettuale del complesso ferroviario a Trastevere deve essere inserito all’interno di un più ampio fenomeno socio-economico sviluppatosi in Europa alla metà del XIX secolo. Fra il 1839 e il 1859 sono realizzati un grande numero di poli ferroviari, simili nei caratteri costruttivi, stilistici e nella scelta dei materiali costitutivi all’architettura dell’edificio di Trastevere. Prende forma in questi anni un nuovo tipo architettonico, progettato sulla base di specifiche esigenze funzionali. Le stazioni di testa diventano alternative porte di accesso alla città e sono oggetto di una progettazione attenta e raffinata, diversamente dalle stazioni secondarie e di transito. Nella maggior parte dei casi i fabbricati viaggiatori sono costruiti in legno, con un’unica sala d’aspetto, distinti dalla presenza di una pensilina a protezione del marciapiede adiacente ai binari. Si assiste nei decessi ad una maggiore articolazione degli spazi interni, dovuta alla specializzazione delle funzioni e alla differenziazione delle classi di viaggiatori. Fra il 1869 e il 1874 a Roma si avvia un ambizioso progetto per la nuova Stazione Termini. L’architetto Salvatore Bianchi, professore e accademico di San Luca, in accordo con gli orientamenti culturali del periodo, prevede di collegare i due corpi di fabbrica, dal carattere neorinascimentale, distinti da un linguaggio eclettico, attraverso una grande pensilina in ferro e vetro a copertura dello spazio centrale. L’uso diffuso di materiali moderni e di tecniche e tecnologie innovative per la progettazione delle stazioni ferroviarie trova riferimenti nelle realizzazioni dei grandi edifici pubblici nei paesi oltre confine. In Europa, dalla seconda metà dell’Ottocento, si diffonde l’impiego di ampie superfici vetrate con sostegni metallici, a partire dall’inaugurazione del 1850 della biblioteca di Sainte-Geneviève progettata a Parigi dall’architetto Henri Labrouste. Anche l’esposizione di Londra del 1851, con la struttura in ferro e vetro del Crystal Palace, opera di Joseph Paxton, conferma la diffusione della tecnologia del ferro, protagonista delle avanguardie del periodo. Grandi tettoie metalliche vengono impiegate nelle principali realizzazioni di stazioni ferroviarie europee: l’edificio della stazione di Budapest, progettata dall’ingegnere Gustave Eiffel; la Gare de l’Ouest del 1874-77; la ricostruzione a Madrid del grande atrio della stazione di Atocha, realizzata nel 1888 dall’ingegnere Alberto del Palacio Elissagne, con la collaborazione di Gustave Eiffel (Barucci, 2004; Mignot, 1983).
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La fabbrica di Trastevere s’inserisce a pieno titolo in questo clima culturale. L’elegante volta in ferro e vetro a copertura dei primi binari sul prospetto interno è tra i principali episodi di architettura del ferro della capitale, risultato di una integrazione fra tecniche innovative e sperimentali e tradizione costruttiva della Roma di fine Ottocento. La fabbrica, distintiva dell’eclettismo ottocentesco europeo, assume nei suoi caratteri architettonici e stilistici un respiro internazionale. Fig. 1 Planimetria della stazione Trastevere. Si nota la volontà progettuale di proseguire la linea verso Termini attraversando il Tevere con un nuovo ponte (Società Italiana per le Strade Ferrate 1898, Album, tav. LXI).
La tavola LXI illustra la stazione di Roma-Trastevere. Nella successiva edizione, del 1900, ampliata fino a 134 tavole, sono riportati anche i dettagli costruttivi della ‘Tettoia metallica della Stazione di Roma Trastevere’ (tav. 116) e i ‘Magazzini sotterranei della stazione Roma-Trastevere’ (tav. 117).
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Il ‘fabbricato viaggiatori’ su viale del Re (1889-1940) Nel 1898 la Società Italiana per le Strade Ferrate del Mediterraneo pubblica una ‘Relazione sugli studi e sui lavori svolti dal 1885 al 1897 con una raccolta di 71 tavole grafiche che illustrano i dettagli tecnici della realizzazione’. L’album contiene le planimetrie d’insieme, le piante, i prospetti e le sezioni, oltre che i particolari costruttivi, delle fabbriche realizzate dall’Istituto per le Ferrovie nei dodici anni di attività1. I grafici del progetto a Trastevere sono raccolti in due tavole: nella prima ci sono la planimetria generale con l’inserzione del complesso ferroviario nello spazio urbano compreso tra il fiume Tevere e viale del Re; la pianta del piano terreno; il prospetto del fabbricato viaggiatori ‘verso il Piazzale esterno’; una sezione trasversale in corrispondenza dei binari coperti dalla tettoia in metallo, della quale si rappresenta anche la ‘pianta generale dell’ossatura’. La seconda tavola è dedicata ai particolari costruttivi degli elementi metallici della volta sui binari e delle pensiline, disegnati alle opportune scale di dettaglio. L’osservazione critica di questi documenti fornisce informazioni utili ai fini della comprensione del progetto originario e dei caratteri architettonici e costruttivi distintivi dell’architettura di fine Ottocento, alcuni dei quali rimossi nel tempo. L’impianto planimetrico del fabbricato viaggiatori, ai vari livelli, è rimasto sostanzialmente invariato, a meno dell’inserzione di alcune tramezzature e di nuove scale realizzate nei primi decenni del Novecento. Anche il prospetto principale si mostra oggi simile ai disegni del progetto originario, caratterizzato da una partizione architettonica di tipo seriale, generata sulla base di un asse di simmetria centrale sottolineato dalla presenza, sul corpo aggettante, di un orologio sormontato da un timpano curvilineo. Diversamente sono andati perduti alcuni degli elementi architettonico-decorativi in ferro degli spazi esterni, come la grande volta sui binari destinati al trasporto dei passeggeri e la pensilina sul prospetto principale, rimossa dopo il 1920.
Le tavole, pubblicate nel 1898 e nel 1990 con preziosi disegni di dettaglio, rappresentano dunque un documento storico di grande valore, testimonianza di un’espressione di arte, architettura e ingegneria oggi non più esistente, riconducibile ad un periodo storico del quale l’organismo edilizio oggetto di questo studio ne è episodio rappresentativo. L’area destinata ai servizi ferroviari era composta da undici binari; i primi quattro erano riservati al traffico dei viaggiatori di linea (fig. 1), coperti dalla tettoia metallica sul fronte verso via Portuense (fig. 2). Il fabbricato viaggiatori presenta uno sviluppo longitudinale prevalente. È caratterizzato da un corpo centrale avanzato e due ali laterali più piccole e di minore altezza, leggermente arretrate. Gli spazi interni sono organizzati intorno ad un ampio atrio che accoglieva, in posizione centrale, il bancone della biglietteria, inserita all’interno di una boiserie in legno. Attraverso questa grande sala a doppia altezza, con soffitto a cassettoni, finemente decorata da partiti architettonici classici con lesene e cornici modanate che si alternano alle grandi porte vetrate a tutta altezza, è possibile accedere ai diversi ambienti dei corpi laterali, distribuiti lungo due corridoi simmetrici. Le sale di aspetto di seconda e terza classe sono sul lato destro, sulla sinistra invece gli uffici del capostazione e l’ufficio telegrafico. Alle estremità dell’atrio di ingresso sono collocate due scale simmetriche di collegamento con i piani superiori, rimosse in occasione della modifica d’uso da stazione ferroviaria a Istituto Sperimentale. Il piano primo della stazione è adibito a uffici e abitazioni per il personale di servizio. L’edificio è realizzato in muratura continua, con fondazioni ‘a pozzo’, profonde circa quattro metri; ai livelli superiori lo spessore dei setti murari si riduce. Gli orizzontamenti sono realizzati con strutture lignee e metalliche. La copertura del corpo centrale, allo stato attuale in discrete condizioni di conservazione, è realizzata a falde, sostenuta da incavallature lignee. Le capriate presentano un passo non regolare, in accordo con la sottostante struttura portante. Il prospetto principale del fabbricato viaggiatori mostra, negli elaborati di progetto di fine Ottocento e ancora in alcune immagini fotografiche degli anni Trenta del Novecento, un’articolazione dei caratteri linguistici e costruttivi fondata sulla riproposizione di elementi uguali secondo un ritmo prestabilito, governato da una forte simmetria centrale, resa meno evidente dallo sviluppo longitudinale della fabbrica, che raggiunge circa 175 m di lunghezza.
Fig. 2 Prospetto laterale, fianco verso la città (Op. cit., Album, tav. LXI). Fig. 3 Sezione della tettoia metallica (Op. cit., Album, tav. LXI).
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Chiara Frigieri Oliva Muratore Figg. 4-5 Particolari costruttivi della tettoia metallica Op. cit., Album, tav. 116).
La porzione centrale dell’edificio, aggettante rispetto alle altre, coincide con la funzione principale e più rappresentativa della stazione: l’accoglienza dei passeggeri e la biglietteria. Due sono i livelli dichiarati in facciata: il piano basamentale continuo, che corrisponde alla doppia altezza del grande atrio, e un livello superiore, articolato da una serie di bucature rettangolari, di cui quelle corrispondenti alle cinque campate centrali sono sormontate da timpani neocinquecenteschi, curvilinei e triangolari. Sul piano stradale si ripetono, con ritmo regolare, una serie di aperture ad arco con cornice modanata a partire da un basamento liscio in stucco. Il trattamento superficiale del piano terra e della porzione centrale del piano primo è a bugnato liscio, anch›esso in stucco. Una serie di risalti e lesene bugnate scandiscono il disegno architettonico del prospetto principale, creando diversi piani e interessanti vibrazioni di luci e ombre. Dall’iconografia storica si nota come le finestre quadrangolari corrispondenti al mezzanino siano state modificate in tradizionali bucature rettangolari, in occasione del successivo’adeguamento funzionale degli ambienti interni. Una preziosa pensilina in ferro, anch’essa continua sino alle estremità dei corpi di fabbrica più bassi, conferiva al complesso architettonico un carattere distintivo e al contempo identificativo rispetto ai numerosi altri esempi di stazioni ferroviarie e grandi complessi pubblici costruiti in quegli anni in Europa. La volta di copertura dei primi quattro binari rappresenta un raffinato episodio di progettazione ingegneristica, distinto dall’uso di materiali moderni come il ferro e il vetro (fig. 3). La ‘tettoia’ si poggiava da un lato sulla muratura del prospetto interno del fabbricato, in corrispondenza del marcapiano, e sul lato opposto su esili colonnine in ghisa. Queste presentavano le tipiche caratteristiche dell’epoca: basamenti solidi sostenevano snelle colonnine che terminavano con piccoli capitelli corinzi, su cui poggiava la copertura, caratterizzata da nervature in ferro e chiodature ben visibili (figg. 4-5). La struttura della tettoia metallica è realizzata delle Officine Cottrau di Napoli (Betti Carboncini 1998, p. 101), una tra le principali imprese italiane specializzate in strutture metalliche per grandi opere, ponti e stazioni ferroviarie, spesso decorate con pensiline. Il trasferimento della stazione e il suo adattamento a sede dell’Istituto Sperimentale (1911-1940) Nel 1885 il Governo italiano incarica la Società per le Strade Ferrate del Mediterraneo di progettare il collegamento fra la stazione Trastevere e la fermata presso San Paolo e, qualche anno dopo, fra la prima e San Pietro, in direzione di Viterbo (Londei, Pompero, 2009, pp. 135-137). La realizzazione di questi due nuovi tratti ferroviari rappresentava
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il completamento dell’originario progetto di trasporto ferroviario, urbano e interurbano, del quadrante nord ovest della città, del quale il nodo di Trastevere era la cerniera strategica per la riva destra del fiume. Tuttavia nel 1887, a progetto quasi ultimato, è approvata la legge, ‘Passeggiata Archeologica’, a tutela delle aree comprese fra il Colle Aventino, il Circo Massimo, l’asse di collegamento con la Piramide Cestia e Porta San Paolo, che, attraverso una serie di vincoli, rende inattuabile la proposta originaria di connessione tra Trastevere e Termini. Dallo studio delle vicende connesse con lo sviluppo urbanistico della Roma di quegli anni, emerge come la stazione Trastevere, pensata quale principale nodo di scambio ferroviario della città e quindi progettata con grande perizia e attenzione ai particolari costruttivi e linguistici, fosse in realtà, a pochi anni dalla sua inaugurazione, già fuori dalle principali direttrici dello sviluppo urbano. Nel 1905 è fondato l’Istituto Ferrovie dello Stato e l’Istituto Sperimentale per la ricerca e lo sviluppo tecnologico delle attività del ramo ferroviario. Si individua nel fabbricato viaggiatori di Trastevere la sede più opportuna per l’Istituto di ricerca, programmando, pochi anni più tardi, la progettazione di una stazione alternativa a quella ormai in dismissione, inaugurata nel 1911 e ancora oggi in funzione. Fra il 1922 e il 1923 l’Istituto di Ricerca entra a far parte del ‘Regio Istituto Sperimentale delle Comunicazioni’ e si procede, sino al 1931, ad un generale adeguamento degli ambienti e degli spazi architettonici della sede romana. Nel 1938 è pubblicato il volume “Il Regio Istituto Sperimentale del Ministero delle Comunicazioni Sezione Ferroviaria”, attraverso il quale si intende sottolineare l’importanza dell’ente di ricerca nazionale di tipo sperimentale. Vi si trovano utili informazioni circa le modifiche distributive della fabbrica attuate in quegli anni, con l’inserzione di tramezzature per la definizione di nuovi ambienti di rappresentanza e di nuove scale. In questa revisione generale sono coinvolti anche i prospetti; in particolare sulla facciata principale sono ampliate le bucature quadrangolari del mezzanino, rispettando la partizione architettonica delle campate esistenti; anche il giardino antistante continua a conservare la sua naturale funzione di filtro vegetale tra l’edificio e la strada (fig. 6). Il grande atrio di accesso dell’originaria stazione è conservato nella sua articolazione spaziale e decorativa, impiegato per ospitare le strumentazioni tecniche. Le attività dell’Istituto proseguono fino alla metà degli anni Quaranta del Novecento. Durante il secondo conflitto mondiale una parte del complesso è adibita a ricovero per gli sfollati di guerra. Negli anni della ricostruzione post-bellica le attività di ricerca riprendono fino alla definitiva ricollocazione della sede dell’Istituto all’interno di un edificio di nuova costruzione ad Anguillara Sabazia.Per decenni quindi, e sino ad oggi, l’ex complesso ferroviario attende la possibilità di una sua riconversione, compatibile con i valori storico-artistici dell’organismo architettonico. Linee guida per il progetto di restauro e nuovo uso La sintesi della processualità storica della fabbrica nel tempo sin qui proposta trova riscontro anche nell’analisi della realtà dell’architettura allo stato attuale. Infatti all’interno del lotto originariamente occupato dalla stazione Trastevere, con il giardino sul fronte principale e i binari sul retro verso il Tevere, sono oggi riconoscibili gli elementi architettonici distintivi delle diverse fasi storiche vissute dal complesso in un periodo relativamente breve d’uso, tra la fine dell’Ottocento e la seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso.
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Oggi il fabbricato viaggiatori, in buona parte nascosto da grandi alberi, si mostra in uno stato di conservazione critico, soprattutto perché privo di un uso compatibile, quindi inevitabilmente destinato a continuare a subire un lento processo di degrado delle superfici esterne e dei materiali costitutivi. Le modifiche apportate negli anni non hanno compromesso la leggibilità della composizione architettonica ottocentesca, soprattutto nel disegno della facciata principale su piazza Ippolito Nievo, all’interno della quale si conservano alcuni dei caratteri costruttivi distintivi del progetto originario, a meno delle notevoli inserzioni degli elementi in ferro, andate perdute già nei primi decenni del Novecento. In tempi a noi più vicini sono stati realizzati interventi sul colore delle superfici esterne del fabbricato della stazione, non del tutto convincenti sia per le scelte cromatiche, che per i materiali impiegati. Tuttavia, come per qualsiasi preesistenza storica inserita all’interno di un tessuto urbano consolidatosi nei secoli, la mancanza d’uso si può rivelare il maggior pericolo per la trasmissione alle generazioni future dell’opera del fare umano. La scelta di un uso coerente con l’architettura e con la sua storia, oltre che con le esigenze provenienti dal contesto culturale, sociale ed economico nel quale questa vive, risulta essere, al pari di un intervento di restauro critico-conservativo, di primaria importanza. Utili riflessioni in questo senso devono essere condotte a partire dallo studio storico, che si pone quale imprescindibile fondamento per il progetto di restauro e nuovo uso, al fine di restituire dignità e utilità ad un episodio di architettura di fine Ottocento, dal respiro internazionale, unico nel suo genere. Di sostanziale importanza il percorso di conoscenza metodologica: è stata quindi condotta un’indagine indiretta, basata sullo studio bibliografico e delle fonti edite, una ricerca delle fonti inedite, attraverso la consultazione della documentazione d’archivio e dell’iconografia storica. Nello stesso tempo, attraverso il rilievo, è stato possibile acquisire la conoscenza diretta della preesistenza, della sua consistenza geometrica, architettonica e materica. Questo al fine di giungere alla definizione delle fasi costruttive principali vissute dall’organismo architettonico nel tempo, anche attraverso lo studio dei materiali costitutivi, del loro stato di conservazione, delle tecniche esecutive, delle aggiunte e delle trasformazioni dell’impianto originario. La sintesi critica delle informazioni derivanti dall’analisi diretta e dallo studio della realtà dell’architettura diviene il fondamento per un corretto intervento di restauro, orientato al rispetto degli elementi autentici della fabbrica nella sua interezza, quindi della sua identità architettonica. Si dovranno prevedere sulla base della mappatura dello stato di conservazione delle superfici esterne e interne, una serie di operazioni di consolidamento preventivo, pulitura, rimozione delle aggiunte improprie, consolidamento, protezione e aggiunte tecniche, con particolare riguardo agli elementi architettonici del primo impianto e in relazione ai materiali impiegati. Di fondamentale importanza sarà la capacità di progettare, con garbo ed equilibrio, eventuali inserzioni, necessarie alla progettazione di un nuovo uso compatibile, in continuità con la storia del manufatto, senza lederne i caratteri ‘tipologici’. Sempre attraverso un processo metodologico di tipo scientifico. Si potrebbe valutare la possibilità di proporre nuovamente una funzione pubblica, che ben si adatta all’impianto planimetrico modulare originario della fabbrica e degli ambiti spaziali esterni.
Il grande patrimonio costituito dai disegni delle inserzioni in ferro e vetro che hanno reso il complesso dell’ex stazione Trastevere un episodio unico a Roma, assimilabile alla prima stazione Termini di fine Ottocento, meritano di diventare testimonianza della peculiarità del progetto originario, attraverso un’esposizione che potrebbe essere realizzata nella grande sala della biglietteria. Si ritiene utile ripensare l’area del giardino antistante il fabbricato, che oggi rappresenta quasi un impedimento al godimento della composizione architettonica della facciata. Un accurato progetto del verde potrebbe rendere più convincente la riappropriazione da parte della collettività di uno spazio pubblico, nella direzione di una generale riqualificazione del paesaggio urbano. Mai come in questo periodo storico di grandi stravolgimenti sociali, culturali ed economici determinati da una crisi sanitaria a livello mondiale, è necessario compiere importanti ragionamenti sull’uso di beni culturali in stato di abbandono, che rappresentano la memoria di episodi di architettura da conservare e che offrono altresì spazi da impiegare diligentemente per offrire nuove opportunità alla collettività. Un ingente patrimonio di edifici monumentali, caserme e spazi demaniali sparsi sul territorio italiano può diventare una risorsa per il futuro, che potrebbe e dovrebbe in molti casi essere reimpiegata al fine di rispondere ad emergenze sanitarie come quella dell’attuale pandemia. Bibliografia Semenza G. 1879, Roma e il mare: il caro dei viveri, difesa militare, urgenza della stazione in Trastevere, Roma. Frontini G. 1883, Stazione di Trastevere. Di capolinea oppure di transito?, Roma. Strade Ferrate Romane 1885, Capitolato per l’appalto della prima serie di lavori occorrenti all’impresa della nuova stazione di Trastevere con binari di transito, Civelli, Firenze. Gatti G. 1889, Regione XVI, nei prati detti di S. Cosimato, per i lavori per il grande collettore sulla destra del Tevere, in Notizie degli scavi di antichità comunicate alla R. dell’Accademia dei Lincei per ordine di S.E. il Ministro della Pubb. Istruzione, Roma, pp. 242-243. Società italiana per le Strade Ferrate del Mediterraneo, Servizio delle Costruzioni 1897, Relazione sugli studi e lavori eseguiti dal 1885 al 1897, Roma. Businari F. 1931, L’Architettura delle Ferrovie dello Stato, Società anonima poligrafica italiana, Roma. 1938, Il Regio Istituto Sperimentale del Ministero delle Comunicazioni Sezione Ferroviaria, tipo-litografia Ferrovie dello Stato, Roma. Collenza E. 1996, Stazione Trastevere, in Le stazioni ferroviarie a Roma. La tipologia del fabbricato viaggiatori, Roma, pp. 49-55. Betti Carboncini A. 1998, La Maremma. Storia della ferrovia Roma-Pisa dalle origini ai giorni nostri, Cortona, pp. 95-102. Barucci C. 2004, Architetture ferroviarie romane tra Stato pontificio e Stato unitario, in Godoli E., Cozzi M. (a cura di), Architettura ferroviaria in Italia. Ottocento, Palermo, p. 284. Goitom L., Pino F. 2011, Ferrovie per l’Italia Unita. Origini e sviluppo delle Rete Mediterranea nell’Archivio Storico Mittel, 1885-1905, Milano.
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Percorsi conoscitivi per una proposta di restauro e valorizzazione della basilica-propileo del Parco Archeologico di Tindari Giorgio Ghelfi
Giorgio Ghelfi
Dipartimento di Architettura, Università egli Studi di Firenze.
Abstract Tindari is a city of Greek origin, located in northern Sicily, in the province of Messina. It has been founded in 396 a. C. on a promontory 200 meters above sea level. The city goes through many vicissitudes to reach its maximum splendor as Colonia Augusta, under Roman rule. After two earthquakes in the 1st and 5th centuries AD the city began a period of decline, and then regained value at the end of the 18th century with the myth of the Grand Tour. The greatest interest is reached after World War II with an important intervention by the Superintendency of Syracuse, which carried out excavations and restorations on various artifacts, including the basilica-propylaum. The research conducted had as its central theme the study of this building and was largely carried out in the archives of the Superintendency of Syracuse. The extensive documentation found allowed us to investigate the three anastyloses that the basilica underwent between the fifties and seventies and discover the intervention, unknown to date, of some figures such as: Guglielmo De Angelis d’Ossat, Riccardo Morandi and Ferdinando Forlati. The knowledge path also made use of the most modern survey technologies, in order to formulate a possible restoration proposal. Keywords Tindari, anastilosi, consolidamento, cemento, fili pre-tesi.
Introduzione La città di Tindari, dopo la sua fondazione nel 396 a. C. attraversa molte vicissitudini per raggiungere il suo massimo splendore come Colonia Augusta, sotto il dominio romano. La decadenza della città fu causata prima da una rovinosa frana, testimoniata da Plinio Il Vecchio sulla fine del I secolo a.C., poi da un importante terremoto nel 365 d.C. Come è avvenuto per città simili, anche per Tindari l’impianto urbano ed alcuni monumenti hanno subito diverse modifiche durante i domini di popolazioni diverse, il cui risultato odierno è una lettura stratigrafica non sempre chiara. L’interesse verso Tindari come sito archeologico di studio è andato crescendo dalla fine del settecento, toccando il punto più alto nel secondo dopoguerra con le figure emblematiche del Soprintendente di Siracusa Luigi Bernabò Brea e l’ingegnere veneto Ferdinando Forlati. Il percorso di ricerca si è occupata di studiare il significativo edificio monumentale
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con funzione di propileo al foro romano, definito basilica durante gli attenti studi della seconda metà del novecento. È inserito nel suggestivo Parco Archeologico di Tindari, il quale raccoglie altri manufatti emergenti, come il teatro greco-romano e l’insula IV oltre a innumerevoli zone ancora in fase di scavo. La basilica rappresenta un unicum nel suo genere, sia come edificio antico, infatti non ci sono altri casi simili se non pochissimi in Africa o in Asia, un esempio è l’arco di Palmira, sia per le tecniche di restauro utilizzate nel secondo dopoguerra. La basilica tra gli anni cinquanta e settanta è stata oggetto, da un lato di avanguardistiche operazioni di scavo condotte dall’archeologo Nino Lamboglia, dall’altro di tre attente anastilosi che hanno portato a conferire l’aspetto con cui si presenta oggi. Se le prime due anastilosi hanno utilizzato un metodo più tradizionale, la terza è stata realizzata con un particolare sistema di cavi in acciaio pre-tesi. Questa tecnica è stata progettata dalle brillanti menti degli ingg. Riccardo Morandi e Ferdinando Forlati per il consolidamento dell’ala dell’Arena di Verona e poi utilizzata qualche anno dopo anche a Tindari, con l’importante supporto di Guglielmo De Angelis d’Ossat che al tempo era membro e poi presidente del Consiglio Superiore delle Antichità e Bella Arti. È interessante osservare come l’Arena di Verona e la Basilica di Tindari non abbiano avuto bisogno, ad oggi, di un ulteriore restauro, a differenza di quanto è successo con moltissimi manufatti, anche siciliani, che hanno subito anastilosi o consolidamento strutturale durante il novecento che sono poi risultati incongrui.
Fig. 1 Vista del prospetto principale della basilicapropileo del Parco Archeologico di Tindari (ME)
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Giorgio Ghelfi Soprisr, Archivio storico, Div_ II Fal_5 Tindari Basilica consolidamento Ginnasio_009. 2 Soprisr, Archivio storico, Div_ II Fal_5 Tindari Basilica consolidamento Ginnasio_009. 1
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Anastilosi 1956 Come riporta la relazione1 di Bernabò Brea relativa alla prima anastilosi, tra il 1949 e il 1956 erano stati fatti degli importanti scavi con i finanziamenti della Regione Siciliana e della Cassa per il Mezzogiorno. Si era scavato e riportato alla luce gran parte dell’Insula V e sebbene nel gennaio-marzo del 1956 la situazione non fosse diversa da quella documentata nel 1951, costituita da blocchi crollati e posizionati in ordine sparso sul terreno, di lì a pochi mesi si sarebbe fatta un’importante anastilosi. Le motivazioni di tale operazione le spiega chiaramente il Soprintendente di Siracusa nella relazione tecnica già citata2. Il tratto della parete sud che formava il piedritto di tale arco, aveva però subito una rotazione, lo strapiombo raggiunto era di circa m. 0.40 e il movimento era evidentemente progressivo. Infatti pochi anni addietro verso il 1950 la chiave di volta di questo arco sollecitata da pressioni ineguali incominciò a sgretolarsi. La Soprintendenza pertanto con le previdenze della Cassa del Mezzogiorno nel 1956 provvide allo smontaggio di tutta questa parte sconnessa e alla sua ricostruzione a piombo in solide fondazioni cementizie spinte fino alla roccia. In tale occasione si provvide anche a risollevare la rimanente parte della parete nord, che nel crollo dei secoli VI e VIII si era adagiata sul sottostante pendio conservando una notevole regolarità nell’allineamento dei singoli filari. Tutti i blocchi caduti fino alla prima cornice poterono ritrovare il loro posto originario. D’altronde le porzioni ancora in piedi della parte a monte davano il preciso modello della struttura – L’anastilosi eseguita nel 1956 si limitò dunque a questo limite costituito dalla prima cornice per il quale non esistevano dubbi. A scopo statico fu necessario allora ricostruire anche l’arco frontale, di facciata della Basilica onde legare il tratto di muro ricostruito della parete a valle; con quella ancora in piedi della parete a monte. Restava allora oscurissimo che cosa vi fosse originariamente al di sopra della volta di questa galleria e della prima cornice ad essa corrispondente. Di questo elevato infatti nulla si conservava in situ neppure sul lato a monte e d’altronde mentre il crollo della parte inferiore era avvenuto in modo che i filari di blocchi avevano conservato nella caduta un certo ordine, il crollo della parte superiore era stato, com’è logico, assai più disordinato.
Relazionando la descrizione di Bernabò Brea con lo stato finito della basilica dopo i lavori della prima anastilosi nel novembre del 1956 è possibile constatare che la relazione si concentri molto sui problemi e sui conseguenti restauri della parete longitudinale a nord e dell’arcone trasversale a suddetta parete, giustificando la ricostruzione del prospetto nord come un’operazione con sola finalità statica. È interessante vedere come un’operazione col solo fine funzionale abbia fatto recuperare all’edificio quella che doveva essere anticamente la sua immagine, andando a ricostruire i tre arconi attraverso i blocchi squadrati trovati sul luogo. Guardando il prospetto, e procedendo con ordine da destra verso sinistra si nota che: il primo arco da destra, come si evidenzia dalle fotografie del 1950, non presentava i conci superiori ed era completamente sommerso dal terreno, sia nella porzione esterna, sia in quella interna. Durante gli scavi dello stesso anno, riportando alla luce la cisterna, di cui abbiamo già parlato, è possibile vedere come l’arco presentasse un tamponamento tra i piedritti. Inoltre, dalle fotografie dello stesso periodo è possibile, dal lato della cisterna, vedere dei blocchi antistanti l’arco, che sembrano assomigliare a dei possibili conci crollati. Dalle immagini del 1956 è evidente che sia l’arco che gli spazi limitrofi siano stati ricostruiti e puliti. L’arco successivo, il secondo da destra, è rimasto il medesimo dallo stato del 1950; è uno dei pochi archi non crollati ed è presente in molte vedute storiche. Il terzo arco da destra, quello della navata centrale, è possibile vedere come sia stato ricostruito quasi nella sua
Fig. 2 Fotografia storica della basilica risalente al 1950. Il prospetto e la parete laterale risultano crollati. (Soprisr, Archivio storico, 136, n°020). Fig. 3 Fotografia della basilica risalente al 1956. I lavori della prima anastilosi si erano conclusi. (Soprisr, Archivio storico, 136, n°028).
Fig. 4 Tavola di studio dell’anastilosi del 1956. (Soprisr, Archivio storico, Div_ II Fal_5 Tindari Basilica consolidamento Ginnasio_063).
interezza: nella parte di destra, viene ricomposto fino alla prima cornice, nella parte di sinistra, poco sopra l’estradosso delle reni. Dalle fotografie d’insieme trovate in archivio si percepisce bene quale sia la parte ricostruita e quella invece trovata al momento del restauro. La prima, preservandosi sotto al suolo e avendo subito un’azione di pulitura durante lo scavo, si presenta di colore più chiaro, invece la seconda, rimanendo all’intemperie per secoli, presenta uno strato di degrado superficiale che gli conferisce un colore decisamente più scuro. Questa differenza è maggiormente visibile tra il secondo e il terzo arco, in prossimità dell’ammorsamento dei blocchi riposizionati e quelli già presenti. Il quarto arco, quello più a sinistra guardando il prospetto, è stato ricostituito dei conci originali, attraverso la ricostruzione del piedritto di sinistra. Il piedritto, prima del restauro, sembra essere integro fino alla terza fila di blocchi. Riallacciandosi alla dettagliata descrizione fornita della parete nord della navata centrale, a novembre del 1956 troviamo il completamento dell’anastilosi, avvenuta utilizzando in gran parte blocchi originali, fino al raggiungimento della prima cornice. Attraverso la tavola3 di progetto è possibile vedere come il paramento sia stato risollevato in gran parte con blocchi originali crollati, e in piccola par-
Soprisr, Archivio storico, Div_ II Fal_5 Tindari Basilica consolidamento Ginnasio_061.
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te con blocchi di calcestruzzo e blocchi raccogliticci. Sebbene sia stata ricostruita quasi tutta la parete, comprendendo paraste e capitelli, tuttavia rimase una lacuna nella parte sommitale sinistra. Le motivazioni di questa scelta le spiega Bernabò Brea nell’articolo del bollettino d’arte di Sicilia “si era lasciata al centro della parete una ampia lacuna comprendente la parte superiore e il capitello di una parasta dato che gli elementi di essa non erano ancora stati messi in luce dallo scavo” (Bernabò Brea l. 1966). Come vedremo, la lacuna rimasta venne completata nel 1965. Un altro elemento menzionato nella relazione tecnica è l’arco presente nella navata centrale, unico rimasto in piedi, ma con gravi dissesti in atto. Già nelle vedute dell’800 sono evidenti: un’inflessione verso il basso, maggiormente accentuata nella parte centrale, e la mancanza, soprattutto nella parte sommitale, della malta tra i giunti. Nel 1956 si eseguì lo smontaggio e il rimontaggio dell’arco, inserendo dei blocchi in calcestruzzo dove quelli lapidei non erano ritenuti più idonei. Gli elementi sostitutivi venivano realizzati a terra per poi essere messi su paramento. Furono sostituiti il concio in chiave dell’arco e altri blocchi vicini all’ammorsamento della parete nord. Anastilosi 1965 Gli studi condotti dal 1956 portarono nell’estate del 1965, come riporta la relazione, a completare la lacuna corrispondente alla seconda parasta, lasciata appunto nel 1956. Questo gli permise di ricostruire “almeno un campione del piano ammezzato fino alla seconda cornice, in corrispondenza dell’arco trasversale superstite, che forniva un appoggio statico della parete” (Bernabò Brea l. 1966). Il dato fotografico storico ha permesso di ricostruire con buona certezza le operazioni che portarono alla realizzazione della seconda anastilosi. Le fotografie mostrano come nel mese di luglio del 1965, sul lato nord-est, venissero rimossi e spostati i blocchi emersi durante una gli scavi del 1957, al fine di iniziare una nuova campagna di scavo finalizzata a mettere in luce il resto dei blocchi crollati presenti ancora nel terreno. Nel mese di Ottobre del 1965 si ha, in contemporanea con gli scavi della porzione a Nord-Est, l’anastilosi della porzione fino ad ora citata. Sempre nello stesso periodo furono fatti dei sondaggi nelle fondazioni con lo scopo di consolidarle. Per accedere alla struttura di fondazione furono rimossi i blocchi di pietra a ridosso del paramento murario e furono fatti degli scavi attraverso l’asportazione di materiale. Dalle fotografie sembrerebbe che la fondazione fosse composta da uno strato di pietre di taglio medio, legate insieme forse da malta. L’operazione veniva realizzata con cura, infatti i blocchi rimossi venivano segnati prima di effettuare i saggi, per poi essere reinseriti nella posizione corretta. Nel mese di novembre iniziano gli interventi sul paramento murario. Per prima cosa vengono rimossi i tre blocchi posizionati erroneamente nel 1956 sopra la cornice nella parte a nord della parete. Successivamente si ricompose filare per filare il paramento fino al raggiungimento della prima cornice. Sopra di essa fu costruito con fine didattico un accenno dei filari superiori che viene definito da Bernabò Brea “un campione del piano ammezzato fino alla seconda cornice” (Bernabò Brea l. 1966). È bene tener presente che durante gli scavi degli anni precedenti, come riporta il Bollettino d’arte di Sicilia del 1966, erano stati ritrovati “parecchie centinaia di blocchi crollati, i quali erano stati riposizionati in opera solo in minima parte” (Bernabò Brea l. 1966).
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Fig. 5 Fotografia della basilica risalente al 1965. I lavori della seconda anastilosi si erano conclusi. (Soprisr, Archivio storico, 136-1, n°028).
Fig. 6 Progetto definitivo per la terza anastilosi. Il progetto prevedeva l’inserimento di 16 trefoli verticali. (Soprisr, Archivio storico, Div_ II Fal_37 Tindari Ginnasio_018).
La motivazione di tale scelta risiede nell’impossibilità statica di alzare il livello della parete di altri sette metri. Si scelse così di realizzare ugualmente la ricostruzione dei blocchi rinvenuti, non sulla parete, ma su di un cordolo in calcestruzzo costruito ad hoc. Sulla fine del 1965 la lacuna e il cordolo ex novo erano stati completati, ma le centinaia di blocchi ritrovati non erano ancora stati ricomposti. Corrispondenza 1966-68 La ricerca in archivio ha permesso di reperire numerose lettere scambiate tra: Luigi Bernabò Brea, Guglielmo De Angelis d’Ossat, Ferdinando Forlati, la ditta Zerbo-Francalancia e la ditta ELSE, di cui Riccardo Morandi era consulente. Lo studio di queste corrispondenze ha permesso di scoprire le motivazioni che portarono la Soprintendenza di Siracusa a realizzare l’anastilosi sul paramento originale e non sul basamento a valle appena realizzato. L’inizio di questo cambiamento di tendenza si ebbe con un incontro tra Luigi Bernabò Brea, Guglielmo De Angelis d’Ossat e Ferdinando Forlati, durante il quale le ultime due figure proposero alla prima la possibilità di compiere l’anastilosi sul paramento originale e non sul basamento, attraverso la tecnica dei fili-pretesi. Questa tecnica era già stata utilizzata da Forlati e Morandi per il consolidamento dell’Ala dell’Arena nel 1955 (Sorteni, 2017) e consisteva nel far lavorare a compressione la muratura. Questo era possibile attraverso l’utilizzo di cavi di acciaio collegati a due cordoli, uno sommitale e l’altro fon-
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Giorgio Ghelfi
dale, messi in tensione attraverso martinetti idraulici. Questa soluzione, attraverso un iter che vide la partecipazione anche delle due ditte sopra menzionate, venne presentata al Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti ed accettata.
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Anastilosi 1970-72 I lavori della terza anastilosi iniziarono nell’aprile del 1970 con l’arrivo di Ferdinando Forlati a Catania in data lunedì 27 aprile. Sul cantiere di restauro della basilica come prima cosa vennero fatti dei saggi sulle fondazioni attraverso la rimozione in più punti delle lastre di pietra originale poste alla base della parete, le quali contenevano le canaline di scolo per l’acqua meteorica. Gli elementi prima di essere rimossi furono accuratamente numerati con lo scopo di riposizionarli esattamente dove erano. Dopo i primi saggi nel mese di maggio, i quali furono numerati con delle lettere, nell’agosto si rimosse tutta la fila di lastre di pietra alla base della parete. Inoltre in prossimità di ogni saggio si era scavato da entrambe le parti della parete in modo da creare un vero passaggio da parte a parte. È ben evidente che l’incolumità della parete fosse garantita dalla presenza di cavi in acciaio in tensione, i quali avvolgevano verticalmente la parete passandovi sotto. Successivamente fu realizzato un cordolo cementizio continuo sul lato esterno del paramento. Su questo elemento è possibile vedere come fossero stati lasciati dei punti di accesso alla parte sottostante la parete. Questi accessi avevano interasse costante, lo stesso dei trefoli di acciaio che sarebbero stati inseriti successivamente; servivano infatti per collegare i fili verticali con i ferri orizzontali, una volta che i primi sarebbero stati fatti passare all’interno del paramento. Con il restauro del 1965 si era provveduto a colmare la lacuna rimanente al centro della parete orientale, ma rimaneva ancora quella presente nello spigolo nord. Il completamento della lacuna avvenne nel 1970, dove si ricostruì il paramento attraverso il solo utilizzo di calcestruzzo. Le fotografie mostrano la presenza di una cassaforma costruita sopra al paramento lapideo, contenente un’armatura in ferro. È ben evidente che la gabbia costruita avesse una forma simile a quella utilizzata oggi per i pilastri in cls armato e fosse inserita alla base, nei blocchi lapidei sottostanti, attraverso perforazioni. La gettata si fermò, nel prospetto nord, poco prima della chiave dell’arco e in quello est, subito dopo l’angolo. Una volta completato il paramento fino alla prima cornice si creò, come da progetto, un cordolo doppiamente armato alto trenta centimetri che percorreva tutta la parete orientale e parte di quella settentrionale. Il cordolo, primo dei quatto previsti da progetto, aveva la funzione da un alto di intercettare i trefoli di acciaio verticali, dall’altro di distribuire il carico in modo uniforme sulla struttura sottostante. Molto importante fu l’idea di far continuare il cordolo sul prospetto nord e in minima parte sull’arcone trasversale, poiché permise di creare un solido controventamento della parete. Successivo fu il consolidamento dei blocchi lapidei con miscele cementizie nel mese di dicembre. Come prima lavorazione si eseguì una pulitura generale dei giunti tra i blocchi lapidei, poi servendosi di tubetti in gomma posizionati tra di essi, si iniettò della malta cementizia attraverso una pompa a bassa pressione. Nei mesi di dicembre e gennaio si continuarono i lavori fino ad arrivare ai primi di febbraio del 1971, dove si trovano i primi sei filari già costruiti. Come è evidente dalle fotografie, non essendo stati ritrovati tutti i blocchi necessari per avere una continuità muraria, si fece un largo uso del cemento, che in molti casi fu modellato in modo da ricreare le principali linee geometriche degli
Fig. 7 Tavola di studio della anastilosi del 1956 e 1965. (Soprisr, Archivio storico, Div_ II Fal_5 Tindari Basilica consolidamento Ginnasio_061).
elementi originali mancanti. L’operazione successiva, datata 23 marzo, fu il perforamento verticale delle murature. Per questa lavorazione si rese necessario il sollevamento di un’ulteriore piano i ponteggi, affinché la perforatrice potesse agire nel modo piú corretto possibile. Dopo le prime perforazioni, si proseguì con l’inserimento dei trefoli, e al loro tensionamento. Il progetto prevedeva che poco prima di tensionare ogni trefolo, si colasse nei cavedi creati del latte di cemento. Nei mesi successivi si continuò la ricostruzione dei filari superiori alla seconda cornice. Le operazioni venivano ripetute per ognuno dei tre cordoli che prevedevano l’inserimento dei trefoli. L’aspetto interessante è che sopra ogni cordolo armato si scelse di posizionare altri filari di modestissime dimensioni con lo scopo di proteggere dalle intemperie i coni superiori di ancoraggio. La tecnica per collocare gli ultimi filari consiste in barre in acciaio inserite all’interno dei blocchi fermate nella parte sommitale con agganci meccanici. Nell’ultimo periodo furono eseguite, come riportano le fotografie, ulteriori iniezioni di cemento liquido tra i giunti attraverso tubetti, al fine di garantire ulteriormente che la parete lavorasse come un unico blocco monolitico, evitando che si innescassero reazioni dall’imperfetta adesione dei blocchi lapidei una volta che si fossero messi in tensione anche gli ultimi trefoli. Nel mese di agosto i lavori riguardanti la parate orientale si erano conclusi e si iniziò a consolidare gli archi del prospetto nord attraverso dell’inserimento di barre di acciaio. L’operazione consisteva in perforazioni a sezione ridotta, eseguite in modo che la zona interessata fosse condivisa da due conci; successivamente si inseriva della resina all’interno della sezione, seguita da barre d’acciaio ad aderenza migliorata; si concludeva risigillando la foratura. Questo intervento migliora notevolmente il comportamento della struttura sottoposta ad azioni di sisma, evitando possibili slittamenti di conci, che avrebbero potuto far venire meno l’importante controventamento svolto dagli arconi del prospetto nord.
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Giorgio Ghelfi Fig. 8 Dettaglio del tensionamento dei trefoli di acciaio. (Soprisr, Archivio storico, 136-1, n°144). Fig. 9 Fotografia della basilica risalente al 1972. I lavori della terza anastilosi si erano conclusi. (Soprisr, Archivio storico, 136-1, n°173).
Conclusione Dopo l’anastilosi degli anni settanta la basilica non ha subito ulteriori restauri. Ad oggi presenta alcuni degradi superficiali, ma nessun sintomo di possibili problemi strutturali. La prima operazione da compiere risulterebbe la medesima che è già stata adottata per l’Ala dell’Arena di Verona; un sistema di monitoraggio dinamico che permetterebbe di conoscere possibili spostamenti o accelerazioni della struttura. L’applicazione di un sistema tecnologicamente avanzato come quello appena citato deve essere attuato con la consapevolezza che potrebbe non essere risolutivo. La parete, infatti, potrebbe avere delle rotture di tipo fragile che si attivereb-
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bero senza preavviso e che risulterebbero molto pericolose per l’incolumità dei visitatori e della struttura. In tal senso, sarebbe utile procedere con la verifica diretta dello stato di degrado degli elementi strutturali attraverso lo smontaggio graduale degli elementi ricomposti nell’ultima anastilosi. Forti del percorso di conoscenza intrapreso, non si andrebbe a danneggiare del materiale antico, ma semplicemente a smontare e ricollocare della materia costituita negli anni settanta. Bibliografia Arlotta G. 1996, Patti prima di Patti, Ass. B. Joppolo, Patti. Barreca F. 1957, Tindari colonia dionigiana in XII. Bernabò Brea l. 1966, Restauro della Basilica, Sicilia, Bollettino d’arte, V serie fascicolo I-II, Gennaio-Giugno. Carbonara G. 1982, Restauro e cemento in architettura 1, AITEC, Roma Carbonara G. 1984, Restauro e cemento in architettura 2, AITEC, Roma. Carbonara G. 1996, Trattato di restauro architettonico, vol. I, Torino. Fasolo M. 2013, Tyndaris e il suo territorio.v. 1. Introduzione alla carta archeologica di Tindari, Roma. Ferrara F. 1814, Memorie sopra l’antica distrutta città di Tindari. Lamboglia N. 1953, Gli scavi di Tindari, La Giara, II, 1. La Torre G.F. 2004, ll processo di romanizzazione della Sicilia. Il caso di Tindari in «Sicilia Antiqua, International Journal of Archaeology». Sorteni S. 2017, Le stagioni dell’ingegnere Ferdinando Forlati, Il Pilografo, Padova. Spigo U. 2005, Tindari. L’area archeologica e l’antiquarium, Milazzo, Rebus edizioni.
Note L’estratto riportato fa parte di un percorso di ricerca più ampio condotto dal professore Giovanni Minutoli e supportato dal Direttore del Parco Archeologico di Tindari Salvatore Gueli.
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María Teresa Gil-Muñoz Laura López-González
Diagnosis de humedades en el lado norte de la girola de la Catedral de Palencia. Afectación de las intervenciones antiguas y recientes
Massari G., Massari, I. 1993, Damp buildings, old and new, International Centre for the Study of the Preservation and the Restoration of Cultural Property, Rome. 2 García Morales S. 1995, Metodología para el diagnóstico de humedades de capilaridad y condensación higroscópica en edificios históricos. Tesis Doctoral, Universidad Politécnica de Madrid, Madrid. 3 Aznar Mollá J.B. 2016, El diagnóstico de las humedades de capilaridad en muros y suelos. Determinación de sus causas y origen mediante una metodología basada en la representación y análisis de curvas isohídricas. Tesis doctoral, Universidad Politécnica de Valencia. 4 BRE Digest 245: 2007, Rising damp in walls. Diagnosis and treatment. 1
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Moisture diagnosis on the north side of Palencia Cathedral ambulatory. Impact of old and recent interventions María Teresa Gil-Muñoz
Departamento de Pintura y Conservación-Restauración, Universidad Complutense de Madrid.
Laura López-González ARTfabrick, Madrid.
Abstract In this communication a simple and economic working method, applied to a real case, is exposed to achieve a first diagnosis of capillary humidity in historical buildings, which serves as a guide for its rehabilitation and maintenance over time. Special emphasis is placed on the procedure, data collection and analysis, analyzing how important is the justification and evaluation of each one of the interventions made in the building and its environment, the functionality of the construction elements, as well as the building maintenance and its context. A one-year methodology is described in which data has been compiled in order to understand changes and fluctuations of the building as a constantly changing system, and not as an isolated and static element. This method allows to get specific results for each building in particular, being of special interest, to obtain humidity diagnoses and specific and concrete studies of each building, which depends on various factors. Keywords Cathedral of Palencia Diagnosis, Capillary humidity, Old interventions, Maintenance, Heritage.
Introducción Sobre el diagnóstico de la patología de humedad en muros se tienen distintas referencias, como los métodos ensayados en casos reales por Massari y Massari1, García-Morales2, y Aznar Mollá3. La norma BRE Digest 245 de 1981, revisada en 20074 [4], propone un método de toma de muestras para determinar la distribución del contenido de humedad en el muro, en contraste con la humedad de equilibrio del material. Por ejemplo, Massari y Massari (1993) aplican el método representando estos valores en alzados y secciones.
Fig. 1 Capilla de San Isidro, vista interior (fuente: Florentino Díez Sacristán, arquitecto).
García Morales S., López González L., Collado Gómez A. 2012, Metodología de inspección higrotérmica para la determinación de un factor intensidad de evaporación en edificios históricos, «Informes de la Construcción», vol.64, pp.69-78, <https:// doi.org/10.3989/ic.11.073> (09/04)
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Basada en la norma BRE Digest 245, García Morales (1995) propone una herramienta de diagnóstico para la “humedad de capilaridad en edificios con materiales higroscópicos”, Consiste en ábacos que describen el comportamiento hídrico de los materiales. También desarrolla un método de inspección higrotérmica5 para detallar la posición e intensidad de evaporación de los muros.
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María Teresa Gil-Muñoz Laura López-González Fig. 2 Capilla de San Isidro, vista exterior.
García Morales S., Dini D. 2004, Estudio de humedades. Catedral de Palencia. No publicado, Unidad de Archivo de la Consejería de Cultura y Turismo, Junta de Castilla y León, Valladolid.
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Aznar Mollá (2016) expone “una metodología basada en la representación y análisis de curvas isohídricas” para diagnóstico de la humedad de capilaridad. Define una malla virtual sobre el paramento objeto de estudio, mide la humedad en cada punto de la malla con un humidímetro (Protimeter, en modo capacitivo), extrae varias muestras de una selección de puntos, las ensaya en laboratorio para obtener el contenido de humedad y la humedad higroscópica, y extrapola los datos medidos a los datos calculados. En la Catedral de Palencia, la profesora García Morales ensayó el método descrito en 2004, en la capilla de los Reyes6. En ese trabajo también recoge los aspectos históricos
relevantes en cuanto a las lesiones de humedad del edificio y analiza los resultados de un estudio geotécnico y de los niveles de agua del terreno que afectan al conjunto del edificio. En aquel momento, recomienda varios tipos de intervención para resolver los problemas de filtraciones de los que adolece la Catedral, especialmente en la girola: sobre el zócalo de piedra por el que se filtra agua de lluvia; en el encuentro de la acera y el muro; en la cubierta solventando el vertido de agua y filtraciones; y sobre la plaza en las acometidas de las redes. En esta comunicación se parte de los estudios de García Morales. La finalidad es mostrar cómo conseguir un diagnóstico objetivo sobre la patología de humedad de los muros, aplicado a las capillas de San Isidro y La Virgen Blanca en el lado norte de la girola de la Catedral de Palencia, observando cómo las intervenciones antiguas y recientes han afectado a la conservación de la envolvente de las capillas por acción de la humedad capilar.
Fig. 3 Capilla de San Isidro, lesiones en el revestimiento y arcosolio.
Metodología La metodología seguida busca determinar el régimen de evaporación de la base de los muros de las capillas de San Isidro y La Virgen Blanca y su relación con otros espacios de referencia de la Catedral; realizar una lectura cualitativa de sales solubles en la base de los muros de las dos capillas; tomar pequeñas muestras de material en las dos capillas para su ensayo en laboratorio; y medir la posición del freático en el perímetro de los muros. Antes que nada se parte de una documentación y observación en campo exhaustivas. Caso de estudio El presente estudio7 está enmarcado en el proyecto Actuaciones de restauración en bóvedas de nave y capillas, y en cuerpo central de la fachada occidental de la Catedral de Palencia, promovido por la Diócesis de Palencia, cofinanciado por la Junta de Castilla y León, dentro del programa de Conservación del Patrimonio Histórico Español (1,5% Cultural del Ministerio de Fomento, Gobierno de España), redactado por los arquitectos Florentino Díez Sacristán e Ignacio Vela Cidad, y ejecutado por la U.T.E. Catedral de Palencia (Cabero Edificaciones, S.A. y Sabbia, Conservación y Restauración, SL.), entre marzo de 2019 y marzo de 2020. El análisis de humedades se ciñe a las capillas contiguas de San Isidro (Figs. 1 y 2) y La Virgen Blanca en el lado norte de la girola de la Catedral de Palencia, en cuyos paramentos interiores se aprecian deterioros presuntamente vinculados a la humedad capilar, sin certeza clara de su grado de afectación. Los paramentos interiores son de mortero de cemento gris en la capilla de San Isidro o de piedra vista en la capilla de La Virgen Blanca. La cota del suelo de las capillas está 90cm más baja que la cota del pavimento de calle. Las lesiones de ambas capillas son similares, más acentuadas en los morteros de la capilla de San Isidro. Los enfoscados de la capilla de San Isidro están muy alterados, especialmente en los tres paños que dan al exterior, donde se distinguen innumerables capas y grandes desconchones. En su parte inferior están completamente desprendidos y arenizados. En el lado oeste hay un arcosolio, con una profundidad de 43cm que alberga un sarcófago, y muestra una gran mancha de humedad, que ha afectado en alto grado a las columnas del arco y al sarcófago (Fig. 3).
7 Gil-Muñoz M.T., López-González L. 2020, Estudio de humedades de las capillas de San Isidro y la Virgen Blanca en la girola de la catedral de Palencia. No publicado, Unidad de Archivo de la Consejería de Cultura y Turismo, Junta de Castilla y León, Valladolid.
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María Teresa Gil-Muñoz Laura López-González Fig. 4 Capilla de La Virgen Blanca, cubierta con sumideros obstruidos.
En la capilla de La Virgen Blanca no se observa tanto deterioro en los paramentos, a excepción del lado derecho del sarcófago que se sitúa en el arcosolio del paño oeste. Los zócalos no están disgregados, y en las basas de las columnas aún se aprecia el tallado, aunque en algunos tramos existe mortero de cemento gris que los recubre. Los zócalos parece que han sido rejuntados en diversas épocas y algunos sillares han sido restituidos al menos parcialmente. En la capilla de San Isidro el suelo es de madera y en su encuentro con las paredes está podrido y roto, mientras que en la capilla de La Virgen Blanca es de losas de piedra. En ambas capillas las bóvedas están recubiertas de varias capas de mortero, con manchas de humedad que recorrían los arcos y tracerías de las vidrieras así como diversas grietas en la capilla de San Isidro. Al exterior los muros de las capillas tienen un zócalo de piedra adosado, con rellenos antrópicos y cubierta inclinada de losas de piedra, que regulariza el perímetro de la planta, con una altura que varía entre los 1,4m y los 4,2m por encima de la cota de calle. Bajo las losas inclinadas quedan incluidas las bajantes de pluviales de la cubierta de las dos capillas (obra realizada a comienzos de 2019 con relleno de cal), que van pegadas a ambas esquinas del paño central de cada capilla con los contrafuertes. Este tramo oculto es de PVC, y sale al exterior de la cara vertical del zócalo, en dónde queda encajado un tramo de bajante de cobre, con vertido del agua a ras de la acera. En días de lluvia, este zócalo recibe además el agua de las gárgolas de cubierta y de los rebosaderos de las bajantes de cubierta. En este zócalo se aprecian sillares nuevos de restauraciones recientes. El acerado contiguo a estas capillas presenta ligera pendiente hacia la Catedral. El pavimento de piedra muere en el zócalo con la junta abierta. El bajocubierta de la girola es un espacio transitable en el que se observan el trasdós de las bóvedas de las diferentes capillas de sillares de piedra y tierra. La cubrición de este ámbito está realizada con una estructura de madera laminada que se apoya en pilares intermedios y en los muros perimetrales, sobre la que se dispone una cubierta de planchas zinc engatilladas, atravesada en distintos puntos por las bajantes de PVC (cada capilla evacua aproximadamente 125m2 con dos bajantes) provenientes de la recogida de aguas de la cubierta (mediante una rejilla perimetral sin mantenimiento, que produce acumulación de palomina que atora la rejilla y crea balsas de agua, Fig. 4). Estas bajantes, tras uno o varios codos, dependiendo de su posición, atraviesan el tramo superior del muro para aparecer en las fachadas, por donde bajan y de ahí verter directamente a la calle. Se ven lesiones por humedad en la madera en su encuentro con los muros y especialmente alrededor de las bajantes. El régimen de mantenimiento del edificio queda sujeto a intervenciones puntuales en respuesta a situaciones sobrevenidas de carácter urgente. Ensayos Y Resultados Durante un año completo, a fin de analizar el comportamiento del agua en las diferentes estaciones, se procede a realizar los siguientes estudios: a. Sobre el contexto hidrogeológico y urbano se recaba información en fuentes como el Instituto Geográfico Nacional y se realizan mediciones en campo. Se evalúa in situ la incidencia del agua en las capillas: evacuación de pluviales, zócalo entre contrafuertes, acerado del entorno urbano y recubrimientos en la cara interior de los muros. También se analiza el régimen de mantenimiento de la capilla y de su envolven-
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te. Todos estos aspectos quedan descritos en el apartado anterior. b. La auscultación higrotérmica se lleva a cabo con un termohigrómetro (Testo 625), tomando lecturas en tiempo real de la lámina de aire de la superficie del muro, del ambiente de las capillas y del tiempo local (valor de referencia), para identificar los “focos” de evaporación del muro [5]. Se realiza en distintas estaciones meteorológicas para distinguir los valores estacionales de las fuentes continuas. Un mallado de los datos permite observar la distribución e intensidad de la evaporación en los muros en distintos momentos del año. Las mediciones siempre se toman en los mismos puntos. Gracias a este procedimiento, se elaboran planos de focos de humedad a lo largo del tiempo, que facilitan el estudio de su evolución y permiten llegar a conclusiones más certeras. Los datos de mayor interés se corresponden con la época más seca y calurosa del año, momento en que se aprecia claramente cómo el enfoscado de la capilla de San Isidro impide la evaporación del muro. En las zonas en que se ha perdido este revestimiento existe cierto flujo de humedad, como es el caso de los desconchones, pero si se mide en alguna oquedad la evaporación aumenta, lo que indica que el muro está reteniendo humedad tras este recubrimiento, que no permite una correcta transpiración. En la capilla de La Virgen Blanca, al no existir este revestimiento, se miden mucho más fácilmente los focos de evaporación, que se distribuyen de forma más homogénea. Aun así, en esta capilla también aumenta el valor de las mediciones en oquedades, lo que demuestra que, al igual que en la capilla de San Isidro, el muro contiene una cantidad de humedad que intenta evaporar. En las dos capillas se localizan los mayores focos de evaporación en los dos paños laterales a ambos lados del paño central (que no ha sido posible medir en ninguna de las dos capillas por tener un retablo adosado) que linda con el exterior. Igualmente, en ambas capillas los focos de evaporación alcanzan una cota máxima de 3,30m, manteniéndose en un rango medio de entre 1,5m y 2m. Esta altura, en sección, coincide con los tramos de relleno del añadido perimetral existente en toda la cabecera, que alcanza unas cotas de hasta 4,2m en su punto más elevado y de 1,4m en su punto inferior, respecto de la cota de calle (equivalentes a 5,1m y 2,3m desde la cota del suelo interior). Para interpretar los datos, se realizan planos de focos de humedad de los paramentos de ambas capillas de cada día de medición (Fig. 5) Y a posteriori se elabora un plano global de cada capilla, en donde se representa el valor de evaporación que prevalece, y si este cambia el valor promedio de los focos de humedad a lo largo del tiempo, con el fin de discernir con mayor exactitud su evolución (Fig. 6). c. La presencia de sales higroscópicas o estudio cualitativo de eflorescencias (nitratos, nitritos y cloruros) se efectúa mediante varillas reactivas (MN Quantofix). Estas se aplican sobre el mortero o revestimiento, siendo coincidentes los puntos de
Fig. 5 Cartografía de foco de evaporación de las capillas de San Isidro y La Virgen Blanca. Primera medición abril 2019. Grado de humedad medido en g/kg. Leyenda: de rojo a verde de mayor a menor grado de humedad, la trama indica la presencia de bienes muebles que impiden la auscultación de muro. Fig. 6 Cartografía de foco de evaporación de las capillas de San Isidro y La Virgen Blanca. Compendio anual. Grado de humedad medido en g/ kg. Leyenda: de rojo a verde de mayor a menor grado de humedad, la trama indica la presencia de bienes muebles que impiden la auscultación de muro.
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María Teresa Gil-Muñoz Laura López-González Fig. 7 Cartografía de sales en el arcosolio de la capilla de San Isidro. Leyenda: nitratos en verde, nitritos en rosa y cloruros en marrón; el color más intenso indica mayor concentración de sales.
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medición con los puntos de auscultación higrotérmica. A través de un mallado se evalúa su distribución en la superficie del muro y se superponen sobre los datos del ensayo anterior. Se observa una correspondencia clara entre la alteración de los materiales de revestimiento y la presencia de sales. Se percibe la existencia generalizada de nitratos en ambas capillas, aunque nitritos y cloruros se encuentran de manera puntual. La aparición de cloruros en determinados puntos, nos indica una vinculación con la entrada de agua desde el exterior, especialmente en encuentros de acera, paño central y base del sepulcro de la capilla de San Isidro (Fig. 7). d. La extracción de 7 muestras tiene lugar en los morteros de rejuntado o en los enfoscados, para su ensayo en laboratorio. Se sacan mediante raspado con espátula o a través de un escoplo percutido con martillo, previa limpieza de la superficie. Se acomete de manera disimulada, aprovechando desconchones ya existentes. El peso de cada muestra es inferior a 50g. Al retirar la muestra se introduce en una bolsa, convenientemente sellada para minimizar su pérdida de humedad. Se trata de ensayos consecutivos, de peso seco en estufa a 40ºC e higroscopicidad al 100%HR, con el objeto de determinar si la cantidad de humedad existente en los materiales del muro es normal y cuál es la capacidad de adsorción de humedad de estos en condiciones ambientales de humedad extrema. En el ensayo de peso seco, primero se pesa la muestra húmeda, después se introduce en un horno a 40ºC y se hacen pesadas sucesivas a intervalos de 1h hasta que estas no difirieren entre sí más del 0,1%. En el ensayo de higroscopicidad se parte de la muestra en estado seco y se somete a una humedad del 100% en recipiente estanco (con una temperatura promedio de 20ºC). Primero se pesa la muestra en seco y después se realizan pesadas sucesivas a intervalos de 7-9 días, hasta que las pesadas no difirieren entre sí más del 0,1%. Respecto del ensayo de peso seco, la muestra con mayor contenido de humedad se corresponde con el lado derecho del zócalo del paramento frontal de la capilla de San Isidro (M2, bajo enfoscado). El revestimiento impide la transpiración del muro. Además el zócalo se sitúa bajo la cota del suelo de calle, y en la cara exterior del muro acomete un pavimento duro que frena la transpiración del terreno y del muro bajo rasante, aunque el encuentro del acerado con el muro es de junta abierta, que por el contrario posibilita la entrada de escorrentías de no estar bien estudiadas las pendientes del acerado. Los aportes de humedad también pueden proceder de las bajantes de cubierta o del vertido directo de la bajante sobre el zócalo recrecido (hasta ene-
Fig. 8 Contenido de humedad cedida (ensayo A de peso seco) y adsorbida (ensayo B de higroscopicidad) por cada muestra. Los valores se asocian a una escala de grises, según se indica debajo de la tabla.
ro de 2019, momento en que se alarga el recorrido de estas bajantes para verter al suelo de la acera; en julio de 2019 quedan hidrofugadas las losas inclinadas del zócalo). La muestra extraída bajo el arcosolio de la capilla de San Isidro (M1, mortero bajo enfoscado) no está en equilibrio con el ambiente de la capilla, y justo debajo hay una mancha de humedad focalizada, probablemente estacional y vinculada a pluviales o escorrentías superficiales, aunque parece que no está activa. En cuanto al ensayo de higroscopicidad al 100%, en comparación con el ensayo de peso seco, las muestras de los morteros de junta del paño este de la capilla de San Isidro (M3) y de la diagonal izquierda de la capilla de La Virgen Blanca (M6) son las más ávidas de humedad; y en menor medida las muestras del mortero bajo enfoscado del frontal de la capilla de San Isidro (M2) y del mortero de junta del paño derecho de la capilla de La Virgen Blanca (M7). Esto corrobora la situación de equilibrio de las muestras M3, M6 y M7, y los aportes de humedad a que está expuesto la muestra M2 del zócalo frontal de la capilla de San Isidro, probablemente vinculados a las pluviales de cubierta o de escorrentía del entorno (Fig. 8). e. La lectura de los niveles piezométricos se efectúa en los sondeos 1 y 6, situados al norte y sur del perímetro exterior de la girola ejecutados en 2004 con motivo de un estudio hidrogeológico del suelo de la Catedral [5], que se tienen como valores de referencia. En comparación con el año 2004, se advierte que con respecto de la cota 0 (cota del suelo interior de la Catedral) los niveles apenas han variado (0-0,10m más) en el sondeo 1 norte, y han bajado 0,20-0,27m en el sondeo 6 sur. Pero esta variación no se considera significativa. Diagnóstico El análisis e interpretación de toda la información y los datos referidos en conjunto, gracias a la toma de datos a lo largo de un año y siempre sobre los mismos puntos, representados todos ellos mediante esquemas de aportes de humedad, mapas de lesiones en paramentos, isolíneas de evaporación en muros, mapas de distribución de sales, tablas de valores de contenido de humedad, higroscopicidad de los morteros y fluctuación del freático, permiten alcanzar un diagnóstico global de la problemática de humedades en las capillas. Se observan focos de evaporación activos y continuos a lo largo del año en la capilla de San Isidro en el zócalo del sepulcro, en el banco de apoyo del retablo central, en el paramento central y en el paño derecho contiguo al central.
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Los muros de la capilla de La Virgen Blanca parecen estar en equilibrio con las condiciones ambientales de la capilla, existiendo un foco de evaporación en el paño derecho exterior. La mayor evaporación se produce alrededor de la pila, a una altura de 1,5m del suelo. En ambas capillas, los focos de humedad se localizan en los muros de los tres paños que dan al exterior, y siempre a una altura que no rebasa el zócalo adosado al exterior. Se mide mayor cantidad de humedad en oquedades, en morteros tras revestimientos, o en el contacto del suelo con la pared. La humedad se relaciona respectivamente o con el hecho de situarse el muro bajo la cota de calle o/y con un foco de humedad con origen probable en las bajantes de cubierta hasta el zócalo. En el primer caso el suelo impermeable de la calle no deja transpirar el terreno, tampoco el muro en la parte que tiene adosado un recrecido a modo de zócalo, y es factible que se produzca la entrada de agua en el encuentro del suelo con el zócalo o contrafuertes. En el segundo caso el foco de humedad se supone estacional, probablemente vinculado con la filtración de agua de pluviales a través del encuentro del recrecido del zócalo con el muro, por vertido directo de las bajantes (aspecto corregido en enero de 2019) o por caída del agua desde el rebosadero de las mismas o las gárgolas de metal. Los enfoscados del zócalo de la capilla de San Isidro, de naturaleza impermeable, impiden la transpiración del muro, y favorecen un deterioro acelerado de la piedra. Parece que hay una correlación entre la existencia de sales y la alteración de los materiales. En la capilla de San Isidro es más clara, pues los revestimientos, mayormente de cemento gris, están muy deteriorados. En la superficie de los muros de ambas capillas la presencia de nitratos en concentración elevada es generalizada, probablemente vinculada a antiguos enterramientos. Sin embargo, la existencia de nitritos es más puntual. Del mismo modo, los cloruros también se encuentran de manera muy localizada, y aunque su origen puede estar en el uso de la sal como fundente en las vías urbanas circundantes, en ocasiones la relación física de acerado exterior y paramentos interiores afectados no es tan directa (por ejemplo en el zócalo del sepulcro oeste de la capilla de La Virgen Blanca). De las muestras de mortero analizadas, las que tienen un mayor contenido de humedad se sitúan en la capilla de San Isidro, tanto en el paramento frontal como en el zócalo del sepulcro. Son morteros bajo el enfoscado gris bufado y desprendido (el segundo con menor grado de humedad). Por tanto, está claro que este revestimiento es impermeable y no deja transpirar el muro de manera natural. El resto de las muestras son de enfoscado, piedra o mortero de junta y estos materiales parece que se encuentran en equilibrio con las condiciones del ambiente de las capillas respectivas. De los tres morteros de junta analizados, dos son muy propensos de adsorber la humedad del ambiente, pero tras la extracción de muestras los tres tenían un contenido de humedad bajo, acorde a las condiciones del medio. En cuanto al revestimiento del arcosolio o al material pétreo del recercado del arcosolio no son ávidos de humedad. Respecto de los morteros bajo el revestimiento, en el caso del zócalo del sepulcro apenas adsorbe humedad, lo que corrobora la impermeabilidad del enfoscado y el contenido de humedad alto del mortero cuando se extrajo la muestra, y en el caso del zócalo del paramento frontal es medianamente ávido a adsorber humedad, lo que explica el elevado contenido de humedad de la muestra si el mortero está expuesto a aportes de agua.
Las variaciones de los niveles piezométricos en 2004 y en 2019 no son especialmente significativas en el sondeo 1 norte y sí más relevantes en el sondeo 6 sur. Pero en ningún caso, la presencia de agua en el subsuelo es la causante de la humedad en la base de los muros, que a su vez quedan bajo rasante. Conclusión La relevancia de la presente investigación radica en la importancia de realizar un diagnóstico preciso para dirigir la intervención hacia unas recomendaciones de actuación concretas y fundadas que permitan la resolución del problema. Este diagnóstico ha de entender el edificio como un sistema en constante cambio, interrelacionando todos los ensayos mediante elementos gráficos que posibiliten su estudio de manera global. Se demuestra que el uso de ensayos, ya utilizados con anterioridad, unidos a nuevos enfoques de representación gráfica es un método fiable y concreto para el estudio de humedades. También se pone de manifiesto la trascendencia de las distintas actuaciones a las que queda expuesto el edificio y su contexto a lo largo del tiempo (revestimientos interiores impermeables, zócalo exterior adosado, evacuación de pluviales, encuentro del acerado con el edificio), así como la ausencia de mantenimiento. Agradecimientos A Soledad García Morales (arquitecta especialista en diagnóstico de humedades). A la dirección facultativa de la obra, Florentino Díez Sacristán (arquitecto) y Juan Carlos Sánchez Rodríguez (arquitecto técnico). Y a la U.T.E. Catedral de Palencia, Indalecio Martín Gavilán (jefe de obra).
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Il rilievo per la conservazione degli elementi costruttivi e di finitura: il caso studio delle residenze di Torviscosa (NE Italia). Giovanna Saveria Laiola
Giovanna Saveria Laiola
Dipartimento Politecnico di Ingegneria e Architettura, Università degli Studi di Udine.
Abstract In 1937, the Snia company built a factory town in Torre di Zuino, then Torviscosa, a swampy area located in the south of Friuli-Venezia Giulia for the exploitation of cellulose. The industrial settlement and the activity in the countryside will employ, in the following years, up to 5000 people. The need to accommodate workers and families led to the construction of a residential fabric that today needs articulated works of conservation in respect of its specificity. The following work shows the relief activity of the construction and finishing elements for the correct conservation of the original ones, mitigating the incompatible works of transformation interventions that have compromised the identity of a strongly connoted place. The survey activity has involved four types of buildings: le case degli impiegati, le case operaie 4-4 bis, le case operaie 01M e le case dei funzionari. The archive documentation and the direct carried out surveys made it possible to highlight original components, such as windows and doors, front doors, flooring and colouring of facades preserved over time and elements replaced without quality as a result of inconsistent transformation processes. Keywords Torviscosa, Movimento Moderno, Rilievo, Conoscenza, Conservazione.
Introduzione Dagli inizi del ‘900 fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’architettura moderna sperimenta idee innovative nella concezione formale, nello studio e nella realizzazione degli elementi costruttivi, nella scelta dei materiali, che oggi necessitano di un articolato piano di intervento di conservazione. La conoscenza del manufatto rappresenta la fase essenziale e imprescindibile per avviare interventi di conservazione dell’opera. Rappresenta quel delicato processo che parte dall’osservazione preliminare e diretta dell’edificio, si concretizza con la ricerca della documentazione storica e termina con il rilievo. Il rilievo non è solo un’operazione di conoscenza passiva ma una interpretazione profonda dell’opera stessa, che pur avvalendosi di tecniche di misurazione diretta, mira a una conoscenza critica dell’opera frutto di un legame profondo che si crea tra rilevatore e opera da rilevare. (Docci, 1986).
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Fig. 1 13 Tipologie di case residenziali.
Parte integrante del restauro è l’analisi dei dettagli, che solitamente è affrontata in maniera frettolosa e superficiale, ma che rappresenta l’elemento essenziale per immedesimarsi e per “penetrare l’architettura” (Dal Falco, 2002, p. 2). L’azione del restauratore mira a creare uno stretto legame con l’anima dell’opera d’arte anche se a volte, nel corso del tempo, i vari interventi hanno determinato un nuovo soggetto poco attinente con l’immagine iniziale. (Carbonara, 1976). Quindi, è essenziale lo studio dei componenti originali che devono consentire al restauratore di mantenere e cogliere l’essenza dell’opera. Inoltre, risulta opportuno, calibrare gli interventi di conservazione e di restauro per evitare una standardizzazione degli interventi come nel caso del Manuale del recupero della Città di Castello (Giovanetti, 1998) e i successivi testi importanti allo stesso modo, come il Manuale del recupero del Comune di Roma (Giovanetti, 1997) e il Manuale del recupero della regione Abruzzo (Ranellucci, 2004), che se da un lato offrono uno strumento di conoscenza del patrimonio originario dall’altro rischiano, con gli interventi di conservazione proposti, di uniformare un territorio ricco di varianti originarie. Nello stesso tempo, qualora non sia possibile ripristinare l’opera originale è auspicabile conservare anche piccoli frammenti della stessa purché gli elementi siano in armonia con la nuova struttura, rispondendo alla funzionalità del momento e che possano essere fruiti dall’osservatore come elementi del passato. (Carbonara,1976)
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Giovanna Saveria Laiola
La città-fabbrica di Torviscosa Torviscosa, inserita nel vasto programma di bonifica integrale sia come città di fondazione (Peghin, Sanna, 2009) sia come città fabbrica (Gasparoli, 2015), rappresenta un caso particolare di insediamento industriale realizzato a partire dagli anni ’30 per la produzione di fibre tessili artificiali all’interno del programma di autonomia del Fascismo legata all’autarchia. (Bortolotti, 1988; Baldassi, 2004; Biasin, 2003; Frangipane, Santi, 2019; Frangipane, Santi, 2020; Kargon, Molella, 2008; pag. 47-66). Negli anni ’30, la società SNIA-Viscosa (Società Nazionale Industria Applicazioni-Viscosa), impiegata nella realizzazione delle fibre tessili, per ottenere l’indipendenza economica dai paesi nordici, avvia un programma di espansione per la produzione della cellulosa e individua, in diverse zone italiane, terreni fertili per la coltivazione della canna gentile ‘‘arundo donax’’ (Ufficio Propaganda SNIA Viscosa, 1941). Franco Marinotti, imprenditore di prestigio e amministratore delegato della SNIA, nel 1937, con l’acquisto delle più grandi aziende agricole situate nella località di Torre di Zuino, propone un ambizioso progetto agricolo-industriale di grande valenza a livello nazionale. La progettazione del primo nucleo della città, iniziata a novembre del 1937, viene affidata a Giuseppe de Min (1890-1962), importante architetto milanese (Frangipane, 2019). Il 21 settembre 1938, dopo il completamento della bonifica agraria, nella Bassa Friulana, a Torre di Zuino, in soli 10 mesi di ininterrotti lavori di costruzione viene inaugurato il nuovo stabilimento industriale per la produzione della cellulosa. In particolare, nel Piazzale antistante gli edifici della produzione vengono costruiti il Teatro e il Ristoro per attività ricreative, a ovest gli Uffici Municipali e a sud la Mensa Operaia (Bortolotti, 1988). Successivamente, a partire dagli anni ’40 il territorio viene suddiviso in sette aziende agricole, denominate “Agenzie”, le quali sono in grado di provvedere alla coltivazione industriale del proprio terreno di pertinenza, ma anche di soddisfare le esigenze primarie degli uomini e del bestiame. Le residenze a servizio della fabbrica di Torviscosa L’architetto De Min progetta, a partire dagli anni ’40, la parte residenziale a servizio della fabbrica che accoglie gli operai dello stabilimento e le rispettive famiglie (Bertagnin, 1985; Bortolotti, 1988; Baldassi,2004). Una prima ricognizione dettagliata è stata svolta grazie al lavoro di rilievo architettonico realizzato dagli studenti del modulo “Conservazione e Recupero degli Edifici” /della LM in Ingegneria civile negli anni accademici 2014-2015, 2015-2016 e 2016-2017 (docente prof. ing. Anna Frangipane) all’interno di una convenzione di sperimentazione didattica realizzata in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Friuli-Venezia Giulia. Il lavoro degli studenti, che comprende la rielaborazione di piante, sezioni, prospetti, fotoprospetti, rilevamento del degrado superficiale, descrizione tipologica e materica, è stato presentato nel 2019 presso il CID (Centro Informazione e Documentazione) del comune di Torviscosa all’interno di una mostra espositiva (Santi, 2019). La consultazione delle fonti provenienti dall’archivio virtuale del Comune di Torviscosa, dall’Inventario Patrimoniale Fabbricati e l’attività di rilievo svolta attraverso sopralluoghi ripetuti hanno consentito di individuare 13 tipologie abitative (fig. 1).
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Fig. 2 “Case degli impiegati” _ Blocco fronte nord prospetto sud _ foto: archivio CID, FFSC_A33-03, 1942 (sinistra); foto: G.S.L, 2018 (destra).
Fig. 3 “Case degli impiegati” _ Abaco degli elementi originali.
Le abitazioni vengono concepite sulla base della gerarchia degli incarichi della fabbrica: ad esempio, la tipologia a “schiera” e in “linea” è destinata agli operai, la tipologia del “villino” ai funzionari, la tipologia “palazzina” agli impiegati. Nell’ambito della ricerca sono state selezionate 4 tipologie di interesse: “case degli impiegati”, “case operaie 4-4bis”, “case operaie 01M” e “case dei funzionari”. Rilievo degli elementi costruttivi e di finitura Il lavoro effettuato per ogni tipologia costruttiva si divide in due fasi di analisi. La prima si focalizza sull’individuazione e sulla mappatura degli elementi originali esistenti che sono stati preservati nel tempo. La consultazione di riviste e testi relativi al periodo del Movimento moderno hanno consentito di risalire ai materiali utilizzati nelle abitazioni delle case operaie (Griffini, 1932; Diotallevi, Marescotti, 1944; Grassi 1975), mentre la raccolta fotografica, conservata presso il CID di Torviscosa, ha fornito la documentazione necessaria per l’individuazione di infissi, elementi oscuranti, intonaci esterni, pavimentazione e soglie d’ingresso originali. La seconda, invece, mira a identificare i componenti che sono stati sostituiti nel tempo in maniera incontrollata in mancanza della conoscenza del valore storico del luogo.
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Giovanna Saveria Laiola Fig. 4 “Case operaie 4-4bis” _ Blocchi fronte est _ foto: archivio CID, FFSCN_TV0643, 1948 (sinistra); foto: G.S.L, 2019 (destra). Fig. 5 “Case operaie 4-4 bis” _ Abaco degli elementi originali.
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Le “case degli impiegati” Disposte simmetricamente a delimitare la parte nord e sud di Piazza del Popolo, con il Municipio a ovest e la scuola a est, le “case degli impiegati” definiscono il nucleo centrale di Torviscosa (fig. 2). Costruite nel 1941, sono realizzate su due piani con sottotetto, al piano terra sono collocate le attività commerciali a cui si accede tramite due porticati, mentre attraverso tre vani scala indipendenti si accede al primo piano, dove sono disposti gli alloggi per gli impiegati e al secondo piano, dove si collocano i ripostigli. Nel 1954, gli edifici hanno subito ampliamenti lungo i fronti est e ovest da cui sono stati ricavati ulteriori locali: garage al piano terra e terrazzi al primo piano. Per le “case degli impiegati” si evidenziano: al primo piano quattro tipologie di finestre rettangolari a due ante, che differiscono solo per dimensioni, e una porta finestra, mentre al piano terra una tipologia di porta d’ingresso ai vani scala e due tipologie per le attività commerciali. Gli infissi e le porte finestre originali presentano un telaio in legno tinteggiato bianco e vetro singolo, la porta d’ingresso in legno presenta un telaio chiaro e pannelli scuri con sopraluce in vetro e intelaiato bianco, le vetrine delle attività commerciali sono realizzate con listelli in legno nella parte inferiore mentre nella parte superiore è presente un sopraluce in vetro e intelaiato bianco (fig. 3). Le facciate esterne si presentano in parte intonacate in parte rivestite in mattone faccia a vista. L’uso del mattone, a scopo decorativo, è riservato al rivestimento delle colon-
Fig. 6 “Case operaie 4-4 bis” _ Varietà infissi ed elementi oscuranti.
ne e del portico al piano terra, ai pilastri che delimitano le balconate di testa, agli stipiti e ai timpani delle finestre al piano superiore. Le balaustre e le colonne situate al piano inferiore vicino ai pilastri poste alle estremità sono realizzate in pietra artificiale. La pavimentazione del portico risulta in cotto a spina di pesce mentre le soglie delle porte d’ingresso sono in cemento. Negli anni, la maggior parte degli infissi e delle porte di accesso alle attività commerciali sono stati sostituiti con infissi performanti in parte in alluminio e in parte in pvc. Le porte d’ingresso così come le facciate esterne presentano un buono stato di conservazione ad eccezione di alcune sostituzioni dei blocchi in mattoni faccia a vista al piano terra. Dai sopralluoghi effettuati, emerge che la pavimentazione situata sotto il portico risulta quella originale, ma al momento presenta sconnessioni e deterioramenti. Pertanto, è necessario attivare interventi di ripristino per consentire l’accesso in sicurezza ai luoghi pubblici. Gli elementi oscuranti, originariamente realizzati in legno, sono stati parzialmente sostituiti con avvolgibili in pvc. Inoltre, i proprietari delle attività commerciali hanno aggiunto elementi oscuranti, tipo tendaggi, che se pur mobili e facilmente rimovibili, deturpano l’assetto originale delle facciate sulla piazza principale. Le “case operaie 4-4bis” Note come “case gialle” per la particolare coloritura dell’intonaco delle facciate, situate a sud-est del Municipio, consistono in 12 blocchi di edifici in linea, disposti parallelamente su tre file, ciascuna di quattro blocchi, orientate est-ovest. Costruite a partire dal 1941 fino al 1944 e gravemente danneggiate in seguito ai bombardamenti e ricostruite dal 1945, gli edifici di testa sono realizzati da un corpo centrale che si eleva su due piani, con otto alloggi a cui si accede attraverso due vani scala, mentre le parti laterali sono sviluppate su un piano unico, con quattro appartamenti con accessi indipendenti. I blocchi centrali si elevano su due piani per un totale di dodici appartamenti a cui si accede attraverso tre vani scala indipendenti (Canciani, 2007) (fig.4). Il rilievo ha consentito di identificare due tipologie di finestre, a una e a due ante, in legno tinteggiate di bianco con elementi oscuranti sempre in legno, una finestra di ridotte dimensioni per le cantine ubicate al piano interrato, una portafinestra situata sui fronti strada e due tipologie di porte d’ingresso, a un’anta per gli appartamenti indipendenti e a due ante per gli accessi ai vani scala condominiali (fig. 5).
Fig. 7: “Case operaie 4-4 bis” _ Coloritura e degrado dei prospetti _ foto: G.S.L., (2019).
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Giovanna Saveria Laiola Fig. 8 “Case operaie 01M” _ Abaco degli elementi originali. Fig. 9 “Case operaie 01M” _ Blocchi fronte nord _ foto: archivio CID, FFSCN_TV-0611, 1948 (sinistra); foto: G.S.L., 2019. (destra).
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Gli elementi oscuranti e le porte d’ingresso presentavano originariamente il telaio in legno tinteggiato scuro e i pannelli di colore chiaro. Le soglie di ingresso agli appartamenti e le scale collocate in corrispondenza delle porte finestre sono realizzate in cemento granulato mentre i muretti laterali delle scale sono in mattoni faccia a vista. Infine, i prospetti sono in parte intonacate e in parte rivestite con mattone faccia a vista, mentre la zoccolatura è interamente rivestita in mattoni faccia a vista. Le “case gialle”, in seguito, hanno subito diversi interventi che hanno interessato in particolar modo gli infissi, sostituiti con altri di materiale differente, tipo alluminio bianco, pvc, pvc finto legno, alluminio anodizzato ecc.., e gli elementi oscuranti rimpiazzati con persiane in alluminio verde, alluminio anodizzato (fig. 6). Anche le soglie d’ingresso e le scale di accesso secondarie sono state rivestite con materiali diversi tipo piastrelle. Sui prospetti si riscontrano una variazione della coloritura originale, dove il bianco in alcuni casi ha sostituito il giallo originale, e deterioramento della superficie dovuto ad alterazione cromatica, macchie, umidità (fig. 7). Le “case operaie 01M” Conosciute anche come “case colombaie” per la particolare conformazione dei prospetti, contigue alle “case gialle”, le “case operaie 01M” consistono in 10 blocchi di case a schiera su due piani disposti a coppie secondo l’asse est-ovest, ciascuno composto di 5-6 alloggi ad eccezione dei due blocchi di testa con 7-6 alloggi collegati da un arco. Realizzate tra il 1943 e il 1946 e tra il 1951 e il 1963, le “case colombaie” presentano a nord archi a tutto sesto, attraverso cui si accede all’ingresso principale, sovrastati originariamente da terrazzini, che creavano una gradevole successione di pieni e vuoti. Questi, in seguito a interventi di ristrutturazione, vennero chiusi per consentire la creazione di nuovi vani (fig. 9). Il prospetto sud presenta archi a tutt’altezza, attraverso cui si accede nella zona privata retrostante realizzata con piccoli appezzamenti di terreno adibiti a orti privati, recintati con graticci in muratura. I prospetti risultano intonacati ad eccezione del mattone faccia a vista utilizzato con funzione decorativa per gli stipiti dell’arco d’ingresso e per le cornici dei vani finestra.
Fig. 10 “Case Operaie 01M”: confronto tra l’unità centrale frontale rivolta a nord con terrazzino (sinistra) e quella con chiusura terrazzino (destra) _ foto: G.S.L., 2018.
Gli infissi originali sono in legno tinteggiati di bianco e con vetro singolo. Sul prospetto orientato a nord, a piano terra è presente una finestra a forma quadrata, mentre sotto l’arco a tutto sesto, sono inserite la porta d’ingresso e una finestra ad oblò, tipologia che si ritrova nel periodo del razionalismo. Le uniche due abitazioni con il terrazzino presentano al piano superiore un’altra finestra ad oblò, una porta finestra in corrispondenza di quella al piano terra e una finestra rettangolare con arco superiore presente anche in facciata. Sul lato esposto a sud, sono presenti due tipologie di serramento entrambe rettangolari a croce che differiscono solo per la larghezza. (fig. 8). Lo spazio esterno, esposto a sud, presenta delle recinzioni costituite da graticci in muratura laterizia e mattoni faccia a vista sui quali si sviluppano quinte arboree che chiudono le corti interne, dove trovano posto giardini od orti. Il mattone faccia a vista viene utilizzata anche con funzione decorativa limitato alle cornici delle finestre ed agli stipiti dell’arco di ingresso. A partire dagli anni ’80, quando gli inquilini diventano proprietari, i blocchi delle “case colombaie” subiscono un processo di trasformazione che modifica l’assetto originario. Per aumentare gli spazi funzionali, il piano superiore subisce un ampliamento con la rimozione dell’infisso a oblò, della porta finestra e della finestra rettangolare ad arco, sostituendo il terrazzino con due finestre di piccole dimensioni in alluminio (fig. 10). Per quanto riguarda le rifiniture esterne, l’intonaco originario è stato conservato solo sui prospetti sud delle arcate costituito da intonaco rustico con rifinitura ruvida, mentre a nord negli anni è stato sostituito e tinteggiato. Con lo sviluppo di nuove tecnologie per la realizzazione dei nuovi serramenti, gli infissi originali vengono sostituiti con altri a elevate prestazioni energetiche. Gli elementi di finitura esterni situati sotto l’arco a tutto sesto antistante l’ingresso assumono un aspetto personalizzato e rispondono solo alle nuove proposte del mercato dell’edilizia. Inoltre, si evince una varietà di materiali e tinteggiature sia per le porte d’ingresso che per la pavimentazione esterna rivestiti con materiali diversi, tipo piastrelle, marmo-cemento, cotto, pietra naturale a mosaico (fig. 11). La documentazione fotografica acquisita mostra l’assenza sia di recinzioni sul lato nord in corrispondenza dell’ingresso aggiunti successivamente sia di elementi oscuranti sul lato sud. Le “case dei funzionari” Sono due ville bifamiliari, che ripropongono il tipo del “villino” di inizio ‘900, situate nella zona nord-ovest del Municipio, realizzate dopo la Seconda Guerra Mondiale nel 1948 (fig. 12). Ciascun edificio ospita due alloggi e si eleva su tre piani fuori terra con scantinato, intonacate su tutti i fronti e dispongono di ingressi laterali. Il loro particolare orientamento le dispone in maniera che la congiunzione dei loro assi formi un angolo di 90° (Canciani, 2007).
Fig. 11 “Case Operaie 01M” _ Varietà pavimentazioni d’ingresso _ foto: G.S.L., 2019.
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Giovanna Saveria Laiola Fig. 12 “Case dei funzionari” _ Blocco nord-est _ foto: 1950, archivio CID, FFSC_A22-065 (sinistra); Blocco nord-ovest _ foto: 2018, G.S.L. (destra). Fig. 13 “Case dei funzionari” _ Abaco degli elementi originali.
Le “case dei funzionari” presentano, per i due livelli fuori terra, un’unica tipologia di infisso a due ante battenti. Il serramento è costituito da un telaio in legno bianco così realizzato: una divisione orizzontale crea una parte rettangolare inferiore di dimensioni maggiori rispetto alla parte superiore suddivisa ulteriormente da tre traverso verticale crea quattro parti rettangolari di dimensioni minori. Gli elementi oscuranti esterni, come per le “case gialle”, sono costituite da un telaio in legno scuro mentre i pannelli che chiudono la persiana sono in legno chiaro. Il terzo livello presenta due porte finestre sempre in legno tinteggiato bianco con due ante battenti suddivise in tre quadranti vetrati e con parapetto in ferro (fig. 13). Inoltre, anche nelle “case dei funzionari” è presente l’uso a scopo decorativo dei mattoni faccia a vista, in maniera limitato rispetto alle altre, riservato esclusivamente alle zoccolature. Le “case dei funzionari” sono tutt’ora abitate e rispetto alle abitazioni descritte precedentemente preservano un buono stato di conservazione. Tuttavia, negli anni, i proprietari hanno apportato alcune modifiche come la ritinteggiatura degli elementi oscuranti di colore verde smeraldo e l’inserimento di tendaggi parasole. L’intervento più evidente è l’ampliamento del vano al piano terra ottenuto con il tamponamento dei portici e degli archi per aumentare il vano soggiorno. Infine, per quando riguarda la coloritura delle superficie esterne, una delle due abitazioni ha preservato il colore bianco originale, mentre l’altra è stata tinteggiata con colore giallo (fig.14). Conclusioni L’insediamento di Torviscosa rappresenta un esempio di città-fabbrica rilevante nel quadro storico del ‘900. L’analisi delle abitazioni descritte si è basata su ricerche d’archivio e consultazione della documentazione del periodo, essenziali per ricostruire la storia del luogo. L’osservazione diretta, attraverso sopralluoghi effettuati sul campo, e la comparazione tra la documentazione fotografica originale e attuale hanno consentito di analizzare in dettaglio gli elementi che compongono i manufatti, distinguendo gli elementi originali da quelli che, negli anni, sono stati sostituiti. Inoltre, l’approfondimento dello stato dell’arte, parte integrante del lavoro svolto, ha portato alla luce i prin-
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cipali materiali che caratterizzano le tipologie abitative analizzate. L’analisi ha messo in evidenza come il rilievo è strumento imprescindibile per conoscere l’opera che si vuole esaminare. Dal rilievo, eseguito non in maniera passiva ma attento allo studio dei dettagli, è possibile definire azioni di interventi coerenti per indirizzare azioni di conservazioni appropriati e impedire in futuro che la scarsa conoscenza degli edifici causi ulteriori interventi impropri che rischierebbero di deturpare l’immagine dei manufatti. Credits L’analisi descritta è parte del lavoro di dottorato di ricerca con la supervisione della prof. Anna Frangipane, docente dell’Università degli Studi di Udine, in collaborazione con il Comune di Torviscosa e la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Friuli-Venezia Giulia. Bibliografia Baldassi E., Bazzoffia A., Regattin P. 2004, Torviscosa: architettura e immagine fotografica della nuova città industriale del Novecento, Guarniero, Udine. Bertagnin M., Burelli A., Dolcetti G., Grandinetti R. 1985, Progetto integrato Torviscosa. Elaborati del Comitato tecnico-scientifico, Amministrazione Provinciale di Udine, Udine. Biasin E., Canci R., Perulli S. 2003, Torviscosa: esemplarità di un progetto, Forum, Udine. Bortolotti M. 1988, Torviscosa: nascita di una città, Casamassima, Udine. Carbonara G. 1976, La reintegrazione dell’immagine: problemi di restauro dei monumenti, Bulzoni, Roma.
Fig. 14 “Case dei funzionari” _ Tinteggiatura elementi oscuranti (sinistra); ritinteggiatura superficie esterna (centro); chiusura portico al piano terra (destra) _ foto: G.S.L., 2019.
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Modi costruttivi comuni fra centro e periferia nell’architettura militare dell’Impero Romano nel III secolo: i casi di Roma e della Gallia nordoccidentale Rossana Mancini Rossana Mancini
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Abstract From a constructive point of view, the walls of North-western Gaul, built at the end of the third century, have common characteristics that can be compared with the contemporary city wall of Aureliano in Rome (271-279 AD). The result of this comparison is that despite the fortifications of Gaul and the walls of Rome have a very different aspect (the decoration of the walls of Le Mans represents the most spectacular example of this difference), from the construction point of view, some common features can be observed. First of all, the propensity to reuse the materials, widespread in the foundations, in the cores in opus caementicium and in the external layers of all the city walls investigated. The reused material comes from pre-existing buildings which can be traced back to the Roman world. The reuse of structures, which presents many cases along the walls of Rome, seems more limited in Gaul, although the example of Tours, with the incorporation of the large amphitheatre, has significant common features, still in part to be investigated, with that of the Castrense Amphitheater in Rome. Keywords Cinte murarie, tecniche costruttive romane, Mura Aureliane.
Introduzione La seconda metà del III secolo ha rappresentato un periodo insolitamente difficile e tumultuoso in molte aree dell’Impero Romano. Il rapido susseguirsi dei diversi imperatori fu affiancato da un ancor più rapido avvicendamento dei ‘pretendenti’ e la pressione dei popoli all’esterno dell’impero crebbe causando alcuni ‘sconfinamenti’. Questa situazione si accompagnò, in misura molto diversa nelle varie aree dell’impero, a una serie di problemi sociali quali la povertà, anche dovuta a un’inflazione dilagante, e il degrado urbano. In questo clima difficile va inquadrata la costruzione di numerose cinte murarie, in diverse città dell’impero sul finire del III secolo, fra cui Roma. Le mura urbiche, per loro stessa natura, sono il risultato di una scelta politica, che ha un grande impatto sulle collettività. Si tratta di una cesura sul territorio, che divide un esterno da un interno, che difende i cittadini ma che, allo stesso tempo, permette di controllarne gli spostamenti, modifica il valore delle aree edificabili, stravolgendo situazioni politiche ed economiche preesistenti.
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Fig. 1 Le Mans, Francia. La cinta muraria.
Molti aspetti della rapida accelerazione nella fortificazione urbana tardo imperiale sono ancora da approfondire, fra questi le modalità costruttive, l’organizzazione dei cantieri e di tutto ciò che ruota intorno ad essi cogliendo le differenze rinvenibili nelle diverse regioni dell’impero e fra queste e il suo centro, Roma. Sono ancora necessari approfondimenti e nuove ricerche sull’influenza dell’ambiente fisico, sulla disponibilità di risorse naturali, sull’ibridazione fra tecniche costruttive locali e tecniche costruttive importate, tenendo presente l’esistenza di fenomeni confinati a livello regionale, in parte studiati, e il loro rapporto con la grande cinta muraria di Roma. Specificità regionali Un’accresciuta sensibilità verso le variazioni regionali, per ciò che riguarda le caratteristiche architettoniche, nella vasta estensione dell’Impero, è condivisa dagli studiosi delle varie discipline, che, però, si sono prevalentemente concentrati sinora su singoli casi di studio, su piccoli gruppi di cinte fortificate o su particolari regioni, mentre una comparazione più ampia e articolata può avere ulteriori sviluppi. Una vera difformità fra l’oriente e l’occidente dell’impero, ad esempio, non è comunemente riconosciuta, anche perché la paternità di queste architetture può farsi risalire, almeno in parte e probabilmente in percentuali differenti nei diversi casi e nelle diverse regioni, a maestranze militari, che si spostavano all’interno dell’impero. Quanto la costruzione delle cinte murarie fosse di competenza dell’esercito, d’altronde, è ancora una questione aperta, che non può prescindere dall’analisi dei diversi casi locali. In questo senso, non bisogna ignorare che in epoca tarda divennero sempre più accentuate le differenze tra i diversi exercitus regionali che componevano l’apparato militare romano nel suo insieme. La scelta della Gallia nordoccidentale, con particolare attenzione a quella Lugdunense, si deve alla presenza, nell’area, di diverse cinte murarie riconducibili alla fine del III secolo, ossia coeve alla costruzione della grande cinta muraria di Aureliano, realizzata a Roma dal 271 d.C. Le circostanze che condussero all’edificazione di queste fortificazio-
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Rossana Mancini La datazione della cinta muraria di Tours varia, a secondo degli autori, fra la fine del III e l’inizio del IV secolo d.C.
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ni vanno ricollegate al tema più vasto della difesa dell’Impero e delle sue Province in quell’epoca. L’argomento è stato affrontato, sotto diversi aspetti, prevalentemente da storici e da archeologi (Johnson, 1983; Lander, 1984; Gregory, 1995-1997). Lo studio delle strutture fortificate tardoromane, suddiviso per aree geografiche, ha avuto un’accelerazione in Europa negli anni Ottanta del Novecento, producendo alcuni lavori di ampio respiro come quelli di Johnson (1983) e di Lander (1984), il primo incentrato su fortificazioni urbane nel settore occidentale dell’Impero, il secondo in quello orientale. Anticipatore di questi approfondimenti e autore di un quadro generale di riferimento è il testo di Blanchet Les enceintes romaines de la Gaule pubblicato a Parigi nel 1907, che a sua volta ricorda come gli studi sulle fortificazioni ‘romane’ in Gallia presero l’avvio dal lavoro di Arcisse de Caumont, che aveva intenzione di scriverne ma, alla sua morte, nel 1893, lasciò solo alcuni appunti. Come Blanchet numerosi altri studiosi, sulle orme di Arcisse de Caumont intrapresero ricerche monografiche sull’argomento. Taillefer si occupò delle mura di Périgueux, Lallier di quelle di Sens, Daniel scrisse su Beauvais, Ledain su Poitiers, Boyer e Buhot de Kersers su Bourges, Hucher e Charles su Le Mans, Pelet e Germer-Durand su Nimes, Roidot su Autun (Blanchet, 1907, p. 2). Avanzamenti recenti nella conoscenza sui singoli casi di studio si devono anche ai convegni tenutisi ad Atene, nel 2012, sull’area mediterranea e sul Vicino Oriente (Frederiksen et al. 2012), e a Roma nel 2018, quest’ultimo organizzato da The British School at Rome e dallo Swedish Institute of Classical Studies, dal titolo Constructing City Walls in Late Antiquity: an empire-wide perspective, i cui atti sono in corso di stampa, concentrato sulle mura tardoantiche di alcune città in Oriente (Resafa, Afrodisia, Antiochia, Palmira) e in Occidente (Treviri, Londra, Sens). Le mura della Gallia nordoccidentale Il quadro storico all’interno del quale le città si fortificarono, nel settore occidentale dell’Impero, si delineò bruscamente a partire dal 260 d.C., con il collasso del limes fra il Reno e il Danubio, a seguito di una serie d’incursioni di popolazioni germaniche all’interno della Gallia, che portò al saccheggio di quasi 60, città inclusa Parigi. È in questo periodo che alcune città galliche si fortificarono, tra queste Grenoble (285-305), Bordeaux (ultima decade del III secolo), Marsiglia (ultima decade del III secolo) e, nella Gallia nordoccidentale, tutte negli ultimi decenni del III secolo, Nantes, Rennes, Sens, Senlis, Le Mans, Tours1. Proprio in questa fase di fervore fortificatorio, fra il 260 e il 274, la Gallia, insieme alla Spagna e alla Britannia, aderirono alla sollevazione di Postumo e si governarono autonomamente, fronteggiando, solo con i propri eserciti provinciali, la minaccia esterna. L’analisi archeologica sembra suggerire che la dispersione dei presidi lungo le strade interne delle province e nelle città nuovamente fortificate, e non più solo in corrispondenza delle arterie militari e degli accampamenti del limes, sia iniziata in Gallia proprio negli ultimi decenni del III secolo (Cleary 2020). Da un punto di vista costruttivo, le cinte murarie della Gallia nordoccidentale condividono, oltre alla relativa vicinanza nello spazio e soprattutto nell’epoca di costruzione, alcune caratteristiche tali da suggerire la presenza di un’area ‘omogenea’ e fanno pensare che alcuni dei costruttori possano aver lavorato su diversi circuiti. L’esempio più conservato in questo gruppo di mura è quello di Le Mans, su cui sono attualmente
in corso indagini da parte di archeologi e storici dell’antichità, anche finalizzate al loro inserimento nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità UNESCO. La bibliografia sulla cinta è ancora scarsa, se si eccettua la monografia di Guilleux (1998). Un confronto con le Mura Aureliane di Roma Il termine di paragone con cui s’intende confrontare le cinte della Gallia è il circuito di Aureliano di Roma (271-279 d.C.), su cui la letteratura, dopo i volumi di Nibby (1820) e di Richmond (1930), si è ampliata a partire dagli anni Ottanta del Novecento, soprattutto grazie ai fondamentali articoli di Lucos Cozza, pubblicati su «Analecta Romana Instituti Danici» e sui «Papers of the British School at Rome» fra il 1987 e il 2008. Due monografie hanno trattato il tema da punti di vista diversi, nel 2001 (Mancini) e nel 2011 (Dey) e due convegni, recentemente, si sono tenuti sul tema presso l’Università di Roma tre, nel 2015 (Le Mura Aureliane 2017), e nel 2017, offrendo un panorama delle ricerche in corso sul tema. Analogamente a quanto avvenuto lungo il limes fra Reno e Danubio, nel 271 d.C. gruppi di guerrieri germanici, Alemanni e Marcomanni, superarono l’arco alpino discendendo la penisola. Sconfissero l’esercito di Aureliano a Piacenza, che a sua volta li sconfisse a Fano. Per la prima volta la capitale dell’Impero temette per la propria incolumità. A Roma come in Gallia, dunque, alla base della decisione di costruire una cinta muraria, vi furono ben delineate motivazioni di sicurezza, ma non mancarono motivi politici, in parte riconducibili a programmi regionali più vasti ma talvolta legati all’influenza delle singole personalità che governarono le diverse provincie dell’Impero. Oltre alle ragioni più evidenti, infatti, esistevano contesti più complessi, in cui fattori economici, politici e sociali si affiancarono a quelli più strettamente militari, a Roma come a Le Mans e nelle altre città della Gallia nordoccidentale, che comprendevano la volontà di controllare e militarizzare la città, secondo un modello tipicamente tardoantico. In questo senso le mura di Le Mans rappresentano il caso più eclatante, per la presenza di paramenti decorati difficilmente giustificabili in un ambito strettamente funzionale e militare (Dey, 2010) (fig. 1). Anche a Roma la minaccia immediata da parte delle truppe straniere era già stata sventata definitivamente prima dell’avvio del nuovo cantiere, per cui risulta difficile sostenere che le Mura venissero costruite con fini strettamente difensivi, per far fronte ad un pericolo incombente (Dey 2017, p. 30), o almeno questo non fu il solo motivo. Il circuito di Roma rappresentò, di fatto, il segno visibile del potere di Aureliano sulla città, necessario anche in vista della partenza di gran parte delle truppe d’Occidente per la riconquista di Palmira. Il riuso dei materiali e delle strutture Nella gran parte dei casi, i cantieri di costruzione delle cinte murarie di III secolo crearono cesure urbane e demolizioni di edifici esistenti, producendo grandi quantità di materiali di risulta che rappresentarono, per i costruttori, un’importante fonte di approvvigionamento. Molte di queste fortificazioni tagliarono fuori dalla città ampie aree di tessuto urbano, provocando espropri e demolizioni lungo una striscia di terreno che raggiunse anche i 100 metri di larghezza intorno alle cinte. Le demolizioni legate alle costruzioni di mura urbane sono documentate nelle città della Gallia ma anche a Roma, dove grandi edifici, come il Circo Variano, furono tagliati dalla cinta muraria e demoliti, almeno per quel che riguarda la parte rimasta all’esterno del circuito.
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Rossana Mancini Fig. 2 Tours, Francia. Le fondazioni della cinta muraria. Fig. 3 Tours, Francia. La cinta muraria.
Anche la buona qualità delle malte di III secolo può essere una diretta conseguenza dell’ampio utilizzo di materiali lapidei pregiati per realizzare le calci.
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Il risultato di queste opere di demolizione è la presenza, nei nuclei e nei paramenti delle mura urbane di questo periodo, di numerosi frammenti di epigrafi onorarie e funebri, di pezzi di statue e di elementi architettonici, di pietre miliari o semplicemente di pietre e mattoni reimpiegati. Molto materiale di fattura gallo-romana precedente al III secolo è stato rinvenuto nel corso delle demolizioni delle mura di Sens, tanto da fornire 500 reperti per una collezione conservata presso il Museo gallo-romano della città. A Roma un crollo lungo le Mura Aureliane, avvenuto durante il pontificato di Innocenzo XI (1676-1689), fra Porta Asinaria e Porta Latina, portò al ritrovamento, fra le rovine, di numerosi frammenti di statue provenienti dal nucleo del muro2. Da edifici ‘smontati’ provengono le fondazioni delle mura di Le Mans, Tours, Senlis, Rennes e Nantes, costruite con grossi conci di recupero, alcuni posti in opera senza alcuna lavorazione. A Tour si possono riconoscere, nelle fondazioni, pezzi appartenenti a basi, a cornici e a capitelli (fig. 2) (Wood, 1983). Le strutture fortificate della Gallia nordoccidentale furono costruite con un nucleo in opera cementizia, secondo la tradizione costruttiva romana, con paramenti esterni in petit appareil, segnati orizzontalmente dalla presenza di corsi di laterizi. Alla base dei muri in elevato, due o più filari di blocchi lapidei reimpiegati, messi in opera nell’intero spessore del muro, costituiscono lo spiccato (due filari a Le Mans, cinque a Tours) (fig. 3). I conci sono talvolta uniti con cura, anche rilavorati superficialmente, per formare un opus quadratum. Il materiale che compone il petit appareil deriva dalla rilavorazione di blocchi più grandi, com’è evidente dalla diversità di colore e dimensione dei singoli elementi. A Tours si tratta prevalentemente di calcare marnoso grigio, di tuffeau, proveniente dalla valle della Loira, e di pietra silicea. I singoli elementi hanno dimensioni assai variabili (lunghezza 9-13 cm, altezza 5,5-9 e profondità 7-15; Wood 1983, p. 30). Nelle mura di Nantes, Le Mans e Senlis il petit appareil è attraversato da tre corsi di mattoni rossi, posti a intervalli regolari (fig. 4). A Tours i filari sono due. I laterizi (tegualae e lateres), sono quasi sempre di reimpiego. I corsi di laterizi hanno la funzione di collegare i paramenti esterni con il nucleo e, solo in piccola parte, di migliorare la distribuzione dei carichi nella sezione, perché non attraversano completamente il muro ma penetrano nel nucleo di conglomerato per circa 70-120 cm, talvolta anche meno. Le mura di Roma hanno anch’esse un nucleo in opera cementizia, ma hanno paramenti esterni in laterizio. Come negli esempi della Gallia i mattoni sono di riuso. Non si hanno notizie, infatti, di fornaci aureliane; secondo Lanciani gli unici bolli che possono essere attribuiti all’epoca di Aureliano sarebbero quelli di Pomponia Bassilla, ma
non se ne è trovata traccia lungo le mura. Da uno studio condotto sulle macerie del crollo del 1902, che aveva interessato le cortine fra le torri 5 e 6 del tratto compreso fra porta Prenestina e porta Asinaria (numerazione elaborata da Richmond) Pfeiffer, Van Buren e Armstrong ottennero una interessante sintesi dalla raccolta di 464 bolli laterizi. La maggioranza di essi è risultata appartenere ad epoca adrianea, ma il diagramma completo testimonia anche percentuali, minori, risalenti alla prima metà del I secolo d.C., del tempo dei Flavi, di Traiano di Antonino Pio, di Marco Aurelio, di Commodo, dei Severi e di Teodorico (Mancini, 2008). Mentre questi ultimi documentano un restauro teodoriciano, gli altri, tutti precedenti ad Aureliano, provengono probabilmente da edifici demoliti per la costruzione delle mura o per liberare lo spazio immediatamente esterno ad esse. I paramenti delle Mura Aureliane non presentano corsi di orizzontamento così evidenti e regolari come quelle galliche, ma lungo il circuito, nelle murature appartenenti alla fase di III secolo, è possibile riconoscere corsi orizzontali di laterizi di grandi dimensioni con funzione di collegamento fra cortine e nuclei e di ripartizione dei carichi (fig. 5). Oltre al materiale, alcune cinte murarie di III secolo reimpiegarono interi edifici o porzioni di questi, inglobandoli interamente o parzialmente. Nell’economia generale di un’operazione edilizia, l’inglobamento di strutture esistenti comportava minor quantità di murature da costruire, riduzione del materiale da approvvigionare e del tempo destinato alla demolizione di costruzioni che si trovavano lungo il tracciato. Per quanto concerne il circuito di Roma, va tenuto presente che nel III secolo la città possedeva un apparato monumentale così imponente da condizionare tutte le iniziative edilizie, rendendo pressoché impossibile prescindere dagli edifici esistenti. Lo spazio attraversato dal cantiere delle nuove mura era densamente urbanizzato, soprattutto in alcuni settori. Interi quartieri residenziali e commerciali, alcuni dei quali fittamente costruiti, furono tagliati dalla cinta. All’esterno del muro le costruzioni, o le porzioni di queste che fuoriuscivano dal tracciato, furono smantellate, come avvenne per il Circo di Variano, che restò all’interno della fortificazione per solo un quinto della sua estensione, mentre la parte rimanente fu demolita. Nei pressi della congiunzione fra la cinta muraria e i Castra Praetoria, la fortificazione ha attraversato un’elegante residenza, risalente al I secolo d.C., reimpiegandone i mattoni e sotterrando ogni cosa che non fosse utile al cantiere, compresi pavimenti lastricati e preziose colonne di marmo (Dey, 2011, pp. 164-165). Alcune sepolture, lungo le vie consolari, furono incorporate nelle torri delle porte urbiche (Porta Salaria, Porta Nomentana) e tombe di vario genere furono inglobate nei tratti di cinta che attraversarono aree destinate a sepolcreti. Alcuni edifici, immediatamente all’interno del circuito, furono parzialmente sotterrati dai terrapieni realizzati con il terreno rimosso per lo scavo delle fondazioni. Alcune costruzioni furono inglobate quasi senza modifiche, se non nell’immediato intorno, come nel caso del sepolcro di Caio Cestio. Solo demoliti in modo molto limitato, per essere inclusi nelle mura, furono, fra gli altri, i sepolcri di Cornelia Vatiena e di Quinto Sulplicio Massimo nelle torri di Porta Salaria, quello di Eurisace nella torre di Porta Prenestina e quello di Quintus Haterius nella torre meridionale di Porta Nomentana. Alcune strutture furono modificate per divenire parte del fronte del muro, come il castellum aquae, nelle vicinanze di Porta Tiburtina, i Castra Praetoria e l’Anfiteatro Castrense. Quest’ultimo, probabilmente costruito da Elagabalo, si trovava nel
Fig. 4 Nantes, Francia. La cinta muraria, particolare del paramento. Fig. 5 Roma, Italia. Le Mura di Aureliano, particolare.
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Rossana Mancini Fig. 6 Roma, Italia. L’Anfiteatro Castrense inglobato nelle Mura Aureliane. Fig. 7 Giacomo Lauro, Vestigia Amphitheatri Statilii Tauri, Anfiteatro Castrense, XII sec., particolare.
Le sue dimensioni sono abbastanza ridotte: 75,80 metri l’asse minore e 88 metri il maggiore.
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punto più alto della grande e lussuosa residenza dei Severi, di cui faceva parte (figg. 6, 7)3. Il paramento esterno presenta una cortina laterizia molto regolare, a formare un prospetto costituito da fornici inquadrati dall’ordine corinzio. Quando fu inglobato nel circuito, a partire dal 271 d.C., i fornici furono tamponati con una muratura assai diversa da quella originaria, con caratteristiche comuni ad altre strutture coeve, fra cui l’uso di mattoni di reimpiego e gli alti giunti di malta. L’Anfiteatro Castrense, inglobato nelle mura di Roma, ha un omologo nell’anfiteatro di Tours, anch’esso divenuto, in parte, fronte dalla cinta urbana (fig. 8). Quest’ultimo risale alla seconda metà del I secolo d.C. La sua ampiezza, e la posizione dominante su un ampio spazio, in quanto costruito su una piccola altura, sembrano essere state le ragioni per la scelta di racchiuderlo nel circuito. L’anfiteatro è molto vasto, i suoi assi misurano 143 e 124 metri mentre l’altezza originale stimata è di circa 20 metri o più (Grenier, 1958, p. 683; Dubois, Sazerat, 1974, p. 72). Per includerlo nella fortificazione fu in parte modificato, chiudendo tre vomitori. Fu rafforzata la porzione meridionale, inglobata nella fortificazione, raddoppiando la parete esterna. La porzione superiore, forse troppo alta e troppo fragile per servire efficacemente come difesa, potrebbe essere stata demolita (Wood, 1983, p. 12). È stato calcolato che il risparmio di tempo, di materiale e di manodopera che queste operazioni d’incorporamento hanno generato, sia stato, nel caso di Roma, intorno a circa il 10% del totale (Lanciani, 1892; Richmond, 1931; Mancini, 2008), mentre a Tours l’anfiteatro inglobato rappresenta circa il 20% dell’intera fortificazione (Wood, 1983, p. 12). Conclusioni Le fortificazioni di III secolo in Gallia e a Roma hanno un aspetto assai diverso. I paramenti decorati di Le Mans, in particolare, rappresentano l’esempio più spettacolare e anche più lontano dall’immagine ‘sommessa’ della cinta di Aureliano. Al di là dell’aspetto esteriore, però, si possono osservare alcune caratteristiche comuni. Prima fra tutte la propensione al reimpiego dei materiali, operato diffusamente nelle fondazioni, nei nuclei e nei paramenti di tutti gli esempi indagati. Il materiale reimpiegato provenne da edifici preesistenti e riconducibili essi stessi al mondo romano. Il reimpiego di intere strutture o parti di esse, invece, abbastanza frequente lungo le Mura di Roma, sembra più limitato nella Gallia, anche se l’esempio di Tours, con l’inglobamento del grande anfiteatro, ha notevoli punti in comune, ancora in parte da indagare, con quello che interessò l’Anfiteatro Castrense di Roma.
Fig. 8 Tours, Francia. Pianta dell’anfiteatro inglobato nella cinta muraria (Blanchet 1907, p. 40).
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El conocimiento astronómico en el urbanismo de los Austrias: la Puerta del Sol de Madrid y las Huertas de Picotajo de Aranjuez. Josep Adell Argilés
Escuela Técnica Superior de Arquitectura. Universidad Politécnica de Madrid.
Josep Adell Argilés Magdalena Merlos-Romero Javier Alejo Hernández-Ayllón Arturo Martínez García
Magdalena Merlos-Romero
Patrimonio Histórico, Ayuntamiento de Aranjuez. Centro Asociado Madrid, Universidad Nacional de Educación a Distancia.
Javier Alejo Hernández-Ayllón
Escuela Técnica Superior de Arquitectura. Universidad Politécnica de Madrid.
Arturo Martínez García
Escuela Técnica Superior de Arquitectura. Universidad Politécnica de Madrid.
Abstract Determining astronomical aspects of urban planning, such as solar cycles, are today fully revealed in the light of science. Since the Neolithic, man set the annual cycles for agricultural development; for some cultures the sun was a God or a symbol of the creative force of the universe. This awareness opens a new reflection on the incidence of astronomical knowledge in the history of urban planning. Specifically, actions from the Spanish Renaissance such as the Plaza de la Puerta del Sol in Madrid -the new capital since 1561- and the configuration of the Royal Site of Aranjuez can be understood, suggest possible connections and enroll them in a programmatic project of the Spanish monarchy that it connects the observation of nature with the representation and symbolism of power, and chooses the sun as the image of the world hegemony of the Habsburgs. Finally, the meaning and the early chronology of these Spanish innovations forces us to propose a new evolutionary thread and recreate the influence and survival in the urban design of later cities, centers of power of the Modern Age. Keywords Renaissance urbanism. Garden History. Cultural Landscapes. Puerta del Sol (Madrid, España). Aranjuez (España).
Introducción Carlos V y Felipe II replantearon el modelo político y cortesano urbano heredado de la Corona de Castilla para adaptarlo al nuevo modelo monárquico. El hecho más destacado fue la declaración de Madrid como capital del Reino en 1561 y la organización de un sistema de reales sitios alrededor de la urbs regia, un proyecto de repercusión política, económica, social, cultural y representativa. En Madrid la plaza denominada Puerta del Sol adquirió su protagonismo iconográfico en la imagen de la ciudad; en Aranjuez, el más complejo de los reales sitios, el espacio se ordenó como forma de re-
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Fig. 1 Solsticios y equinoccios sobre la Plaza de la Puerta del Sol (Madrid) y la Plaza de las Doce Calles (Aranjuez) (Adell, Merlos, 2020).
presentación de un microcosmos. Ambos escenarios se descubren hoy como complementarios, mientras que el Madrid renacentista hubo de asimilar su legado medieval en su adaptación a la nueva condición cortesana en 1561, en Aranjuez se pudo desarrollar un proceso de ordenación territorial modélico, en un espacio no edificado y por tanto abierto a la experimentación sobre las premisas de la ciudad ideal. Del mismo modo la investigación permite identificar coincidencias temporales, conceptuales y simbólicas: en ambos casos el sol y concretamente los solsticios de verano e invierno dejaron la impronta de la urbs en la traza y el sentido de la civitas en la vida cotidiana: en la Villa y Corte en la entrada y salida a la urbe; en Aranjuez, en el control de las plantaciones y los cultivos de los jardines y huertas (fig.1). La Plaza de la Puerta del Sol La Plaza de la Puerta del Sol mantiene el nombre de dos sucesivas puertas que abrían la ciudad al Este y que se ubicaban en el actual espacio urbano, investigadas recientemente por Adell (2017; 2020). Su nombre, aunque pudo provenir del relieve de un sol en la segunda de ellas (López de Hoyos, cit. Mesonero, 1861, pp. 265-266), sencillamente se debe a su orientación hacia Oriente y el impacto de la luz estelar sobre ella y sobre quien la atravesaba al salir de la ciudad (fig. 2). La cronología de estas puertas puede sintetizarse en dos respectivas fechas, 1438 y 1539, a partir de diversos estudios fundamentados principalmente en los libros de Acuerdos de la Villa de Madrid (Navascués, 1968; López Carcelén, 2004; Malalana, 2011). La puerta más antigua, probablemente sobre un portillo anterior, se levantó durante el reinado de Juan II por una epidemia de peste que obligó, además, extramuros y frente a ella, a la construcción de un hospital. De esta puerta ya hay noticias precisas a partir de 1452 (Malalana, 2011, p. 138). En 1497 el tramo de calle, llamada Calle de la Puerta del Sol (desde la antigua puerta de Guadalajara) fue adecentado en 1497 a fin de que “se ennobleciera” con “portales huecos”. Este sentido representativo se acentúa en 1502, cuando se reforma con un paso más amplio (Malalana, 2011, p. 138), con motivo de la entrada ceremonial de Juana y Felipe el Hermoso; e incluso cuando se derriba en 1520, según Pinelo, para ampliar el acceso a la villa (cit. Goitia, 2007, p. 472) o, como señaló López de Hoyos en 1572 “para ensanchar y desenfadar una tan principal salida” lo que hace pensar que debió convertirse en la más grande y principal de los accesos a la villa, “un lugar harto espacioso” (cit. Mesonero, 1861, p 362). La segunda puerta, que tuvo que emplazarse unos 15 metros más al Este por el crecimiento urbano y el nuevo cierre amurallado, fue levantada en 1539, por decisión de Carlos V. Debió ser destruida antes de 1570; López de Hoyos (cit. Mesonero, 1861, p. 229)
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Josep Adell Argilés Magdalena Merlos-Romero Javier Alejo Hernández-Ayllón Arturo Martínez García Fig. 2 Las Puertas del Sol (Adell, 2020). Emplazamiento sobre la Topographia de la villa de Madrid de Pedro Teixeira (1656). Instituto Geográfico Nacional (IGN).
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afirmaba que ya no existía en esa fecha, lo que ha sido interpretado por ciertos autores como la data del derribo (Íñiguez Almech, cit. Goitia, 2007, p. 472). El derribo permitió conformar una auténtica plaza de forma rectangular y mayor tamaño, un único espacio que integraba zona interior y exterior de la ciudad. Esta fecha es significativa, pues la plaza de la Puerta del Sol fue el lugar donde se erigió un arco triunfal efímero para el recibimiento de Ana de Austria, la cuarta esposa de Felipe II (López de Hoyos cfr. Mesonero, 1861, pp. 361-362). Todo el proceso de reformas de las puertas para dignificar el principal acceso a la ciudad tomó su pleno significado en el espacio de la plaza sin puerta, de la que heredó su nombre “Puerta del Sol”, intensificando de ese modo la presencia del astro rey. Lo que fuera el ámbito limítrofe de la ciudad pasó a ser una plaza de mayores dimensiones y el nuevo núcleo representativo de la capital, la carta de presentación al llegar por el camino de Alcalá. En esta plaza rectangular, alargada de Oeste a Este, confluían calles de la trama urbana con caminos extramuros como el citado de Alcalá y el del monasterio Jerónimo. Es en esta encrucijada donde se identifican dos ejes y una disposición radial en la zona norte (Adell, 2017; 2020). De alguna manera la tradicional iconografía del sol semiesférico y rayos iba asimilándose en la forma de la plaza, que se consolidó definitivamente con la reforma de 1858 (Adell, 2017), que mantuvo las dos ‘V’ formadas al Este (Alcalá-Jerónimos) y al Oeste (Mayor-Arenal). Ahora bien, la apertura del espacio y la orientación de las calles trae por otra parte el recuerdo de las más antiguas construcciones solares. De hecho, la referencia que con mayor fidelidad permite la comparación es Stonehenge (Reino Unido) (Adell,2017; 2020). La sintetizada geometría y orientación del monumento británico ha sido trasladada virtualmente en su tamaño real sobre la superficie rectangular de la antigua plaza de la Puerta del Sol, según la Topographia de la villa de Madrid de Pedro Teixeira (1656), en el punto donde las puertas daban paso a la originaria plaza rectangular intramuros. Lógicamente, la trasposición contempla en esta nueva ubicación un pequeño giro, disminuyendo el ángulo respecto a la horizontal este-oeste, debido a que la latitud de Madrid varía 10º con respecto a la de Stonehenge, lo que no impide comprobar cómo en la antigua Puerta del Sol (aun no siendo un monumento astronómico exacto) se reproducían y marcaban los dos efectos de la orientación del monumento británi-
Fig. 3 El Ojo del Sol (Adell, 2020). Solsticios de verano (rojo) e invierno (amarillo). Puerta del Sol, 2 de mayo de 2020, 10:00 horas (Montaje sobre fotografía El Mundo, EFE).
co: el amanecer del solsticio de invierno por la Carrera de San Jerónimo y su atardecer por la calle Mayor, y el amanecer del solsticio de verano por la calle Alcalá y su atardecer por la calle Arenal. En otras palabras, en cualquier época del año el sol era en la propia Puerta del Sol, cuyo trazado desconocemos, aunque de su ubicación precisa no hay ninguna duda y de ahí, precisamente, su nombre tan popular mantenido a lo largo de los siglos por el impacto de la luz solar, inclusive cuando desde hace siglos no existe la mencionada puerta física. Todo ello confluye en el ojo de la plaza de la Puerta del Sol, de la que se decía con razón que en ella se veía el sol (estuviese o no esculpido en su clave), sin una exactitud astronómica, pero con enorme realismo ciudadano. La importancia del recorrido solar sobre el entorno fue tal que creó una denominación específica en relación con el astro y en correspondencia con la geometría urbana en (fig. 3). Las huertas de Picotajo de Aranjuez La conformación de Aranjuez, 50 km. al Sur de Madrid no tuvo los determinantes medievales de la capital, la urbs regia. El ámbito de la naturaleza no edificada fue idóneo para plasmar las teorías renacentistas urbanas y las novedades en la representación del cosmos (Merlos, 1998), proceso que coincidió con la elección de Madrid como capital del reino y respondió a un idéntico ideario de exaltación del poder de Felipe II, pues como Madrid, estaba en el epicentro del territorio peninsular y de un imperio expandido por todo el globo terrestre-. (Merlos, 1998). La traza de Picotajo, la zona al norte del palacio y del jardín de la Isla, supuso una ordenación a gran escala de los espacios naturales, determinada por la junta de los cauces de los ríos (Merlos, Soto, 2020) y el movimiento solar y solucionada con el hábil empleo de la perspectiva, la geometría y la ciencia astronómica (Fig. 4). La primera de las calles, la de Entrepuentes (1553), se trazó perfectamente orientada Este-Oeste, con los pasos sobre el Jarama y el Tajo en sus extremos. En 1560 fue remodelada por Juan Bautista de Toledo, mediante la incorporación de una plaza cuadrada en medio y dos plazas semicirculares frente a los puentes (Merlos, 1998). Estas dos plazas determinaron el desarrollo geométrico de la zona, como puntos de partida de cinco calles radiales,
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Josep Adell Argilés Magdalena Merlos-Romero Javier Alejo Hernández-Ayllón Arturo Martínez García La división en 12 horas de los relojes no era frecuente (los astronómicos tenían 24), pero sí conocida por Felipe II, quien poseía varios relojes de candil (alguno conservado por Patrimonio Nacional) pautados con la división que más tarde caracterizaría los relojes mecánicos.
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nódulos para la geometrización del territorio mediante triángulos equiláteros, subdivididos en seis partes por sus bisectrices. La primera de estas calles se abrió en 1561 “a squadria de la puente [] del Tajo”, es decir, perpendicular a Entrecalles, con exacta orientación Norte-Sur (cit. Merlos, 1998). Destaca el gran eje a 30º de SO a NE, desde el puente sobre el Jarama hacia la plaza radial de las Doce Calles, la cual atraviesa hasta llegar al punto denominado el Caracol. Su orientación marca en el SO la puesta del sol en el solsticio de invierno, y al NE la salida del sol en el solsticio de verano. Pero lo más novedoso de estas avenidas arboladas es que no conducían a ningún sitio. Por una parte, tuvieron función estructural, de parcelación de huertas y cultivos y, por otra, fueron una expresión conceptual de la consideración del triángulo equilátero como la forma más perfecta, origen de la creación del mundo. Esto llega a su máximo exponente en las Doce Calles, traza de Juan Bautista de Toledo, posiblemente ejecutada y plantada tras su muerte. Es una plaza con forma de circunferencia completa (a diferencia de las semicirculares de los los puentes) situada al oriente de Picotajo de la que parten, como subraya su nombre, doce avenidas separadas por ángulos de 30º (la división de los 360º), siguiendo el patrón de los triángulos equiláteros. Doce Calles no es el punto generador del trazado, ni es el centro distribuidor del territorio, es un símbolo en sí misma, la plasmación terrestre de la ciudad celestial y la síntesis de la ciudad ideal a imagen del Paraíso (Merlos, 1998), un sistema radial perfecto soportado en la orientación geográfica (cuatro calles orientadas a los puntos cardinales) pero también cosmográfica: los doce sectores establecerían un calendario astronómico mediante los vínculos entre los astros, los ciclos agrícolas y la medida del tiempo. La perfecta orientación de las Doce Calles y la horizontal que la atraviesa derivan de la traza de aquella calle seminal este-oeste de Entrepuentes. La ordenación cosmográfíca y la orientación solar de Picotajo y Doce Calles sobre el aparente movimiento del astro E-O y sobre el trazado coincidente con los equinoccios son potenciadas por la orientación geográfica y por la geometría, a partir del vértice de un triángulo equilátero. La línea que atraviesa Picotajo desde la plaza del puente sobre el Jarama hasta las Doce Calles y el Caracol, encuentra en las Doce Calles su inversa: una diagonal a 30º de SE a NO marca la salida del sol en el solsticio de invierno y la puesta de sol en el solsticio de verano. Llegado a ese punto, parece que la referencia de Stonehenge de Adell (2017; 2020) para la Plaza de la Puerta del Sol es evocable en Aranjuez: círculo, orientación, líneas del sol, hitos centrales. Por ello nos parece muy significativa la descripción de Picotajo del pintor Zuccaro durante su estancia en España y su asombro ante Doce Calles “en cuyo centro se alza un árbol muy alto y bello. Con no poca dificultad lo van protegiendo, por ser todavía nuevo, para mantener su fuste enhiesto y dirigido hacia las estrellas” (Checa, Santos, 1992, pp. 273-278), dato que por ser del final del siglo XVI habría de relacionarse con Juan de Herrera. Resulta tentador conectar las doce divisiones de la plaza con esta perpendicular y evocar un gigantesco reloj solar, con el árbol como gnomon, perfectamente visible el avance de la proyección de su sombra desde cualquiera de las vías que convergen en el círculo y especialmente desde el punto del dominio visual del territorio, los altos de Mira el Rey a donde conduce la calle que apunta al norte y marca las doce del mediodía. En este supuesto reloj de la gran plaza, las calles más cortas del sur coincidirían con las horas no medidas, las nocturnas1.
Fig. 4 Huertas de Picotajo. Aranjuez (Merlos, 2020). Restitución del trazado sobre fotografía aérea actual. IGN.
Contextualización histórica de las trazas renacentistas de Madrid y Aranjuez La traza de la plaza de la Puerta del Sol formó parte de la adecuación de la Villa a Corte. La capital aprovechó y reinterpretó la herencia medieval para conformar un espacio abierto de entrada con una clara intencionalidad representativa y emblemática, usando el sol como símbolo de poder. Si bien la capital de Carlos V, Toledo, había sido ennoblecida con la nueva puerta de Bisagra (del mismo modo que la Puerta del Sol de Sevilla, erigida por Felipe II en 1591), el caso madrileño procedió de modo inverso, terminando por derribar la puerta y ensalzar la entrada a la capital mediante una plaza, con calles radiales, en la que el reclamo fue y hoy es la inundación solar que pervive en la herencia del nombre de la puerta. La incorporación urbana del sol en Madrid parece desarrollarse plenamente en Aranjuez (a partir de 1560), y desde Aranjuez inspirar en sentido inverso, el derribo de la puerta, y la apertura de la plaza en cuya toponimia pervive su origen geográfico y semántico: la Puerta del Sol. Este sol madrileño de la urbs regia, que hubo de amoldarse a un núcleo rectangular en cuyo centro convergían las calles radiales Norte y las diagonales Este-Oeste, tuvo su desarrollo pleno espacial y simbólico en la traza de la urbs rustica de Aranjuez, en una escala territorial sin precedente histórico. La historiografía más reciente admite el valor simbólico que Felipe II confirió a Aranjuez (Wilkinson, 1998; Merlos, 1998; Luengo, 2008). De modo concreto, las Doce Calles, “la gran estrella de doce puntas” fue la “alegoría figurativa del poder” en un paisaje transformado “a la escala de un dominio señorial” (Wilkinson, 1998, p. 150). Esta afirmación puede extrapolarse al caso de la plaza de la Puerta del Sol de Madrid, donde la presencia solar se identifica iconográficamente con el nuevo status de la ciudad. Ahora bien, Aranjuez (a partir de 1560) no se puede comprender sin su relación con la capital (desde 1561): el mismo símbolo preside dos lugares bajo el control real, con una coincidencia temporal que no parece casual. Y aquí es donde la monarquía tiene su importante papel director, la formación cultural e intereses científicos de Felipe II
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Josep Adell Argilés Magdalena Merlos-Romero Javier Alejo Hernández-Ayllón Arturo Martínez García La reconvertida torre medieval, llamada Herrerías, cambió su nombre en el siglo XVIII debido a la pintura de un sol y una luna, confirmando la cotidiana realidad vecinal. 3 El rey Sol casó una hija de Felipe IV, pudo tener acceso al plan de Aranjuez a través de sus embajadores en la corte española. Pero anteriormente hubo otras muestras de un posible viaje del modelo a Francia, como el ejemplo del bosque de Saint Germain, lugar en el que nació y creció Luis XIV. El patrón formal además fue transportado a Flandes por la misma hija de Felipe II. 2
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y sus aficiones personales algunas heredadas de su padre Carlos V, como la cartografía y la cosmografía; pero al servicio de la emblemática y la iconografía (Mínguez, 2001). Hércules, el héroe de la Península, asimilado por los Austrias, tiene por arquetipo el Sol. Felipe, en cuyo imperio “nunca se puso el sol”, se hacía representar con una orla estrellada, voluntad programática que pervivió en el tiempo: su nieto Felipe IV, además de Rey Planeta se hizo llamar Rey Sol, sobrenombre que significativamente le tomaría prestado su yerno Luis XIV. Los antecedentes han de buscarse en el medievo peninsular. La referencia al sol quedó manifiesta en las mismas ciudades, ajenas a planificaciones previas, regidas por la orografía y la luz. En la misma capital una calle Mira el Sol, orientada hacia el sol naciente del solsticio de verano, se ubica en el recinto medieval (Adell, 2017). Distintas puertas del sol se abrieron en murallas y castillos musulmanes y cristianos, como la mencionada de Sevilla, las de Valencia y Salamanca y la más famosa de Toledo2. Todo este sustrato peninsular conduce a los ejemplos renacentistas de Madrid y de su versión modélica e innovadora, Aranjuez. Para Wilkinson (1996) Aranjuez fue el mayor paisaje intervenido antes de Versalles y su diseño original y único, opinión compartida por Geoffrey Parker (2014, p. 108). Otros ejemplos de geometrización a escala urbana, como La Vecinet (el bosque junto a Saint Germain en Laye, Francia) o la Roma de Domenico Fontana fueron trazados décadas después (Merlos, 1998). Llegados a este punto lo que cabe es revisar la impronta de los modelos españoles en el urbanismo de la Edad Moderna y trazar posibles vías de expansión a partir de los ejemplos españoles. Duarte (2018) ha insistido en nuestra interpretación de Aranjuez como el espejo del imperio español en el siglo XVI (Merlos, 1998), y además en su posible función como modelo y fuente de inspiración de Versalles3. Versalles parece dibujarse como un intercambiador de las ideas recibidas del urbanismo áulico español. Por eso resulta convincente y esclarecedor el reciente vínculo de la planta de la ciudad de Washington con Aranjuez (San-Antonio et al., 2019) y no con Versalles, pese a la autoría francesa (L’Enfant). Un nuevo ejemplo a ubicar en este hilo es la parisina Place de l’Etoile, cuyo origen se remonta a 1777 de la mano del arquitecto real de Luis XV, Marigny, doce calles que Napoleón decidió estuviesen presididas por un arco triunfal y conmemorativo. Conclusiones Se hace evidente la necesidad de estudiar bajo un mismo foco Madrid y Aranjuez para comprender el urbanismo áulico renacentista español y su carácter innovador, considerando en primer lugar la simultaneidad temporal durante el reinado de Felipe II; en segundo lugar, la relación territorial, la jerarquía establecida entre Madrid y los reales sitios, ubicados alrededor de la Villa y Corte, significativamente en el centro geográfico peninsular; en tercer lugar, la relevancia de los factores astronómicos y en concreto solares en la conformación urbanística desde un punto de vista formal y también simbólico. Un primer aspecto a constatar es la persistencia, a lo largo de la historia, de la luz solar como factor determinante de la arquitectura y el urbanismo. En el Renacimiento español la Puerta del Sol muestra la asimilación del trazado medieval y Aranjuez el modelo experimental sobre las teorías de la ciudad ideal. Un segundo aspecto es la complementariedad de ambos enclaves, ubicados en el centro del territorio peninsular: Madrid, como urbs y civitas regia, representa la primera utilización de la simbología
universal del sol como marca del punto neurálgico de la capital de un estado, en este caso el Imperio hegemónico español del siglo XVI; Aranjuez reproduce un microcosmos, símbolo de la creación y del paraíso, presidido por Helios. Estamos ante una intervención urbana conceptual y formal sin precedentes al servicio del poder, concebida no de modo cortoplacista, sino con la proyección necesaria para sostener la pervivencia y perpetuidad de la monarquía española, capaz de acometer grandes empresas. Estas innovaciones culturales, formales y simbólicas de Madrid y Aranjuez trascendieron y se transmitieron, vía directa o indirecta, hacia Europa y el Nuevo Mundo. Todo parece indicar que este hilo tuvo una sobresaliente primera escala, casi cien años después, en el Versalles del segundo Rey Sol de la Edad Moderna. Bibliografía Adell, J. M. 2017, En busca del arco perdido, Universidad de Mayores de Experiencia Recíproca, Madrid. <https://madridarcosolar.wordpress.com> (05/20) Adell, J. M. 2000, MADRID-Stonehenge: de la Puerta del Sol al Arco Solar, Madrid. (en prensa) Checa, J. L., Santos, J. A. (eds). 1992, Madrid en la prosa de viaje: Siglos XV, XVI, XVII, Comunidad Autónoma de Madrid, Madrid. Duarte, A. 2018, Book Reviews. Aranjuez y Felipe II. Idea y forma de un Real Sitio, «Gardens and landscapes» (De Gruyter), vol. 5, pp. 71-72. Goitia, A. 2007, Efímero y perdurable. Entradas triunfales en el Madrid cortesano: las puertas de Alcalá y de Atocha, «Anales del Instituto de Estudios Madrileños», vol. 47, pp. 465-493. López Carcelén, Pedro. 2004, Atlas ilustrado de la historia de Madrid, La Librería, Madrid. Luengo, A. 2008, Aranjuez. Utopía y realidad. La construcción de un paisaje, CSIC-IEM-Doce Calles, Madrid. Malalana, A. 2011, Génesis y evolución de la muralla del siglo XII, La Librería, Madrid. Merlos, M. 1998, Aranjuez y Felipe II.Idea y forma de un Real Sitio, Comunidad de Madrid, Madrid. Merlos, M., Soto, V. 2020, Aranjuez and Hydraulic Engineering: Public Utility, Leisure Utility, in Duarte, A. and Toribio C. (eds.), The History of Water Management in the Iberian Peninsula Between the 16th and 19th Centuries, Springer Nature Switzerland, Cham, pp. 281-308. Mesonero Romanos, R. 1861, El antiguo Madrid: paseos histórico-anecdóticos por las calles y casas de esta villa, F. de P. Mellado, Madrid. Mínguez, V. L. 2001, Los reyes solares: iconografía astral de la monarquía hispánica, Universitat Jaume I, Castellón. Navascués, P. 1968, Proyectos del siglo XIX para la reforma urbana de la Puerta del Sol, «Villa de Madrid. Revista del Excmo. Ayuntamiento», vol. 25, pp. 64-68. Parker, G. 2014, Imprudent King: a New LiIfe of Philip II, University Press, Yale. San-Antonio, C., Velilla, C., Manzano, F. 2019, Similarities between L’Enfant’s Urban Plan for Washington, DC, and the Royal Site of Aranjuez, Spain, «Journal of Urban Planning and Development», vol. 145(2), 05019001 (1-11). Wilkinson, C. 1996, Juan de Herrera, arquitecto de Felipe II, Akal, Madrid, 1996. Wilkinson, C. 1998, Construcción de una imagen de la Monarquía Española, in Navascués P. (ed.), Philippus II Rex, Lunwerg, Barcelona, pp. 325-353.
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Ricerca storica e analisi dell’edificato per la valorizzazione dei centri storici: l’esempio di palazzo Piccolo detto ‘di Macalda’ in Ficarra Monica Lusoli
Monica Lusoli
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze.
Abstract Palazzo Piccolo, known as ‘di Macalda’, located in Ficarra in the Messina area, is one of those buildings that, belonging to minor urban centers’ heritage, probably will never be presented in History of Architecture texts although it represents an important part of the local cultural identity. The original building is not documented, even though regarding structural aspects it might differ little from the current one which is instead characterized by vertical increases and changes in the organization of the interior spaces. Changes in ownership and some interventions of the last century, when the building was one of the properties of the influential Piccolo family, are instead well testified. The building, following the contour line, is distributed in three floors, among which the lower one is partially below grade and retains some artistic and architectural features that make its protection and enhancement particularly important; the conservation of the rooms and some machinery that belonged to the historic “oil mill” located in the “large warehouse” justify the Municipal Administration will to redevelop the building, favouring its touristic use and promoting its educational value. Keywords Ficarra, research, knowledge, enhancement, material culture.
Introduzione Ficarra è un paese dei Nebrodi che è stato oggetto di studi, rilievi e analisi da parte di un gruppo di ricerca del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze e i cui risultati editoriali (Van Riel (a cura di), 2011; Farneti, Van Riel (a cura di), 2020) trovano completamento nel presente contributo. L’edificio analizzato, palazzo Piccolo o ‘di Macalda’, collocato nel centro storico, si sviluppa lungo una delle vie più importanti del reticolo urbano, via Casalotto, si affaccia su piazza Umberto I già piazza del Rosario quando su di essa prospettava la chiesa omonima demolita dopo il 1909, e fronteggiando via San Marco, costeggia vicolo Zinzolo, uno stretto asse che nel lessico rimanda alla vocazione agricola del paese in cui giuggioli, aranci e olivi si collocano negli ‘orti’ delle case, andando ad occupare parte dei terrazzi che le curve di livello determinano.
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Fig. 1 Vista aerea del centro storico di Ficarra, particolare di piazza Umberto I (Google Earth). Planimetria del centro urbano, 1920, particolare con indicazione di palazzo Piccolo detto ‘di Macalda’ (Archivio Busacca, Ficarra).
I diversi rami della famiglia Piccolo risiedono in Ficarra ma anche nella vicina Naso. “In Naso la famiglia si propaga in varie diramazioni, imparentandosi con altre nobili famiglie del luogo e più volte contraendo matrimoni con persone appartenenti ai collaterali rami [dimoranti?] in Ficarra”. Capo d’Orlando, Archivio Fondazione Piccolo di Calanovella (=AFPC), fasc. 62, Appunti vari, foglio 1. 2 AFPC, fasc. 59, Foglio contenente registrazioni spese varie sostenute nel periodo, 28-5-1883. 1
Nato dall’aggregazione, l’integrazione e l’accrescimento di edifici preesistenti, il palazzo è documentato almeno dal 1919 tra le “case” della famiglia Piccolo, i diversi rami genealogici della quale possedevano numerose proprietà in paese1 (Van Riel (a cura di), 2011; Farneti, Van Riel (a cura di), 2020; Farneti, 2012); queste erano distribuite lungo gli assi viari principali e si collocavano in prossimità dei centri religiosi più importanti in cui i Piccolo mantenevano “soggiogazioni” e “pegni”2. Al momento non è stata rinvenuta nessuna documentazione che leghi il palazzo alla figura di Macalda, sposa di Guglielmo d’Amico e insignita della baronia di Ficarra per volere di Carlo d’Angiò. Donna “vana e superba” (Di Blasi Gambacorta, 1816, p.40), venne accusata di “fellonia” e imprigionata. Alla sua morte re Giacomo d’Aragona concedette Ficarra a Ruggiero di Lauria nipote di Guglielmo d’Amico e sposo di Margherita Lanza. Per successione, la baronia rimase ai Lanza fino al 1757 quando passò a Pie-
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tro di Napoli principe di Resuttano che nel 1758 la cedette ad Ignazio Vincenzo Abbate marchese di Lungarini per 28000 onze (Castelli di Torremuzza, 1820, p.349; Sacco, 1799, p.299).
Fig. 2 Le due volticciole a crociera in laterizio che sostengono il pianerottolo e la prima rampa della scala esterna.
AFPC, fasc. 106 (?) Rivendizione del R. D. Francesco Piccolo Grasso contro D. Basilio Milio. La casa era di proprietà di Francesco Vitali che l’aveva acquistata da D. Andrea Ricciardo per dodici onze. 4 S. Angelo di Brolo, Archivio Gaetano Piccolo del ramo Piccolo Lipari (=AGP), Successione Piccolo Giovanni del dottor Salvatore, 7 febbraio 1919 3
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Il palazzo dei Piccolo Come accade per la maggior parte dei palazzi di Ficarra, originatisi dall’accorpamento di più edifici elementari acquisiti nel tempo e poi trasformati con operazioni successive tese a dare omogeneità ai prospetti esterni e continuità ai percorsi interni, il palazzo di piazza Umberto I nasce dall’aggregazione di più “case” sviluppatesi su tre curve di livello contigue, ben visibili da una mappa del 1920 e percepibili dallo sviluppo in verticale dell’edificio (fig. 1). Interventi successivi, distribuiti nel tempo, hanno incrementato il volume edificato con accrescimenti localizzati ben riconoscibili nel quarto piano che caratterizza porzione del prospetto posteriore, su via Zinzolo. Ciò che contraddistingue questo palazzo rispetto agli edifici tipologicamente affini è la divisione degli ambienti in più appartamenti con accessi separati ma distribuiti sulla chiostrina interna, al piano della piazza o su via Casalotto, attraverso una scala a due rampe. I vani interni sono stati trasformati per rispondere alle esigenze dei fruitori che si sono susseguiti nei diversi periodi di utilizzo; nonostante ciò, si leggono delle permanenze che ne fanno intuire le caratteristiche originarie: le pareti esterne, realizzate con la tradizionale tecnica costruttiva ficarrese in muratura mista a pietrame e laterizio, mostrano per lo più uno spessore notevole in cui si collocano aperture con davanzali in conci lapidei lavorati a subbia e architrave ligneo. Nell’appartamento del piano inferiore, lacerti di un solaio con struttura e tavolato in legno fanno intuire la natura degli orizzontamenti originari e degli elementi portanti che si celano sopra alcune volte a ‘cannizze’ che si sono mantenute; due volticciole a crociera in laterizio (fig. 2) vanno a coprire un piccolo vano di servizio e costituiscono il sistema portante per la rampa e il pianerottolo della scala esterna che immette all’appartamento del piano superiore, con una soluzione tecnica che si ritrova anche nell’ex monastero delle benedettine di Ficarra (Farneti, Van Riel, 2020, pp. 44-65). Osservando le piante ai vari piani, dal seminterrato al secondo, si leggono le probabili unità edilizie che sono state aggregate per formare il nucleo originario del palazzo e che si distinguono per lo spessore murario che al seminterrato raggiunge i 100cm sia nelle pareti perimetrali che in quelle divisorie (fig. 3). È difficile accertare con sicurezza se la “casa solerata” sita nel quartiere del SS. Rosario, confinante con una casa degli eredi di Pietro Manzano, con due vie pubbliche e con la casa degli eredi di Francesco Vitali, acquistata dall’arciprete D. Francesco Piccolo Grasso nel 1807, sia uno di questi edifici preesistenti; comprata dal barone Don Rosario Felice Milio, per 12 onze si compone anche di un magazzino con “porta in legname” e “incantina dell’olio”, “rotta in varie parti”3. Si deve considerare che anche attualmente uno dei cinque ambienti seminterrati conserva le attrezzature di un frantoio e storicamente, nelle mappe catastali, viene definito “oleificio” (fig. 4); inoltre gli spazi limitrofi presentano partizioni e finiture tipiche dei magazzini destinati alla conservazione delle olive e dell’olio prodotto. Più facile, nonostante i cambiamenti della toponomastica, è riconoscere la proprietà tra i beni elencati nel febbraio del 1919 nella successione di Giovanni del dottor Salvatore Piccolo in cui vengono elencate due case confinanti: la prima, proveniente dall’eredità paterna, è una “casa in Ficarra, quartiere Piazza”4 posta in via Garibaldi e consistente in due piani e 5 vani, catastata all’art. 249 con
Fig. 3 Planimetria del piano terra del palazzo con il rilievo dei locali seminterrati. Fig. 4 Planimetria dei locali seminterrati con l’indicazione del frantoio o “oleificio” (Archivio Storico Ufficio Tecnico, Ficarra), anni ’70 del XX secolo.
un valore imponibile di £.30, confinante anche con la strada e una proprietà di Pietro Piccolo, comprendente due magazzini nel vicolo Zinzolo; l’altra è una casa in via Umberto o Garibaldi, consistente in due piani e 8 vani, coll’imponibile di £.72, proveniente dalla successione del fratello Gaetano. Sempre attraverso lo studio dei documenti della famiglia Piccolo è possibile seguire le trasformazioni subite dall’immobile nel corso degli anni. Al figlio Pietrino, Salvatore Piccolo, nel maggio 1926, lascia una casa sita in via Casalotto con i magazzini sottostanti, ad eccezione “di quello con la cisterna”5 che sarà destinato invece al figlio Giovannino con la clausola che quest’ultimo debba murare la “porta interna di comunicazione con i magazzini assegnati a Pietrino” e con la condizione di non “occupare l’area soprastante alla di lui cucina”. Nel confronto con la situazione attuale, si nota che uno dei locali presenta un’apertura con architrave in legno tamponata con elementi in laterizio, anche se la muratura di chiusura sembra essere molto recente. Secondo le disposizioni testamentarie, Pietrino e il nipote Salvatore di Giovanni si divideranno in parti uguali l’orto adiacente alla casa: la metà inferiore al secondo, quella superiore al primo. Ancora, nel 1930 nel “prospetto di valutazione”6 della successione vengono ulteriormente specificati i beni posseduti e il loro valore, così apprendiamo che l’orto di 12,57 are in via Casalotto è coltivato ad “alberi fruttiferi”, che il testatore possedeva un magazzino in via Casalotto individuato catastalmente con l’articolo 422, uno in via La Marmora con all’articolo 264, di valore maggiore, e un altro sempre accatastato allo stesso articolo, 264. Con uguale riferimento numerico sono individuate due case in via Casalotto, la prima con imponibile di £. 1687, la seconda, con un piano e 5 vani, di imponibile £.180; in via Rosario e Teatro, Salvatore possedeva una casa con 3 piani e tre vani. Entrambe le case su via Casalotto, contrassegnate dallo stesso articolo, 264, sono destinate a Pietro. Quest’ultimo muore il 28 aprile 1966 a Sant’Angelo di Brolo lasciando i suoi beni in eredità al nipote, l’architetto Gaetano Piccolo che possedeva già una parte del palazzo, quella che nel 1965, con una scrittura privata, aveva concesso in affitto a Carmelo Bucale e che era “al di sopra del Frantoio, limitatamente alle tre camere prospicienti, 2 sulla via Zinzolo e 1 sul Frantoio”7. L’ingresso era in comune con il retrostante appartamento e il signor Bucale veniva autorizzato a entrare, da quello che era definito “atrio grande”. Successivamente, dopo la realizzazione della porta sul prospetto laterale, lungo vicolo Zinzolo, avrebbe avuto accesso da quella. L’”atrio grande” corrisponde all’attuale volume terrazzato su piazza Umberto I, caratterizzato da un portale in conci lapidei scolpiti che, in origine, era probabilmente lo spazio di collegamento e distribuzione degli ambienti abitativi: la corte, in cui, generalmente, negli altri palazzi di Ficarra, trovano collocazione la scala che immette al piano superiore e un pozzo (Farneti, Van Riel, 2020, pp. 126-157). L’ambiente nel tem-
AGP, Testamento pubblico 12 maggio 1926 del dott. Salvatore Piccolo fu Giovanni Possidente. La maggior parte dei palazzi di Ficarra possiede una cisterna o un pozzo collocati generalmente nel baglio poiché è documentato che fino agli inizi degli anni ’60 del Novecento i privati non potevano usufruire della rete idrica cittadina. 6 AGP, Prospetto di valutazione. Successione di Piccolo Salvatore den. N. 59 Vol. 127. 7 AGP, Scrittura privata: Gaetano Piccolo e Carmelo Bucale, 14.6.1965 5
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Monica Lusoli 8 AGP, Atto datato 15 settembre 1965. 9 I Gullà sono strettamente legati ai vari esponenti della famiglia Piccolo, in particolare Pietro è campiere della baronessa Teresa e in varie lettere, negli anni Venti del Novecento, espone la situazione delle proprietà che la stessa deteneva anche in Ficarra. AFPC, fasc. 68, Lettere alla Baronessa Teresa Piccolo da parte di Pietro Gullà (1924 – 1928) 10 AGP, Atto datato 8 agosto 1965. 11 AGP, Atto datato 2 dicembre 1965. 12 AGP, Atto datato 10.7.1966. 13 AGP, Atto datato 19.12.1966.
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po ha subito molte modifiche cambiando anche destinazione d’uso: da corte d’accesso, atrio principale all’edificio, viene destinato a magazzino e bottega, soppalcato e distinto dalla restante parte dell’edificio. Nel 1965, proprio come bottega lo spazio viene concesso in affitto da Gaetano a Giuseppe Gullà8; si trattava in quel momento di un unico vano da destinare alla vendita di generi alimentari e vini. Il Gullà9, fu Pietro, era residente in Ficarra, in piazza Vittorio Veneto e il 15 settembre del 1965 aveva anche affittato dallo stesso locatario un quartiere sito in via Zinzolo, al primo piano con “4 vani, 2 retrostanze, accessori, per uso abitazione”10. L’architetto aveva agito da procuratore dello zio, quando, nel 1965, aveva concesso in locazione a Giuseppe Marchese e Tredicino Pizzino l’appartamento sito in via Casalotto e composto di due piani, di cui Pietro Piccolo era usufruttuario, quale Ufficio della Camera del Lavoro per il Partito Comunista11. Dal 10 luglio 1966 anche la parte dell’edificio appartenente allo zio Pietro Piccolo, viene affittata; in ottimo stato, situata al secondo piano e composta da “5 vani ed accessori”, è utilizzata dal dottor Pietro Ferraloro di Giuseppe quale studio medico12. Nello stesso periodo anche i locali posti al piano terreno su via Zinzolo e destinati a magazzini vengono locati a Pietro Calabrese: qui, l’architetto Piccolo si impegna a sostituire parte del solaio realizzato a terzere di legno con uno nuovo in travi di ferro e tavelloni. Il 19 dicembre 196613 il notaio Pericle Giuffrè stipula l’atto di vendita con cui l’architetto Piccolo vende ai fratelli Gullà, Giuseppe e Laura, una parte del palazzo, con una rendita di £.400, consistente nell’appartamento con ingresso da via Vittorio Veneto e sito al primo piano, dal lato valle, e seminterrato, dal lato monte; composto di otto vani oltre accessori, include il “vano terraneo con relativo gabinetto, in atto adibito a bottega, ed un tempo ad androne di ingresso al suddetto fabbricato”, con accesso dalla piazza Umberto I. La porzione confina con la piazza suddetta, con via Vittorio Veneto, con via Zinzolo, con una stradella privata, con la proprietà di Pietro Tumeo, con i sottostanti magazzini in parte di Pietro Calabrese e in parte del venditore e con il soprastante fabbricato ancora appartenente all’architetto. Nell’atto “si conviene che tutta l’area soprastante il suddetto fabbricato resti di piena ed assoluta proprietà di Gaetano Piccolo che potrà disporne a suo piacimento, con facoltà di procedere ad ulteriori sopraelevazioni”. Gli acquirenti ottengono il permesso di coprire la chiostrina di accesso al portone interno dell’appartamento, con “ondulato di plastica oppure con soletta” anche se non possono arrivare oltre la quota del primo pianerottolo della rampa della scala che immette all’appartamento superiore, al quale si accede da via Casalotto e che resta di proprietà di Gaetano Piccolo. Quest’ultimo era tenuto invece a non sopraelevare il piccolo fabbricato adibito a deposito delle olive prospiciente la “stradella privata”, limitrofa al palazzo, e originatesi da via Zinzolo, a meno di mantenersi al di sotto di “metri lineari quattro e centimetri novantadue” altezza corrispondente al piano dei balconi dell’appartamento acquistato dai Gullà. Il prospetto posteriore, affacciato sugli oliveti e gli agrumeti della vallata a nord-est, nel secolo scorso contiguo al “vicolo padronale” o “stradella privata”, è caratterizzato da cinque balconi posti al primo piano, di cui quattro con piano in marmo sorretto da sei mensole metalliche e uno, quasi in angolo con via Zinzolo, realizzato in elementi lapidei, con quattro mensole in conci sagomati a volute che sorreggono il piano. Nonostante le condizioni di degrado in cui versa, causate soprattutto dall’azione degli agenti atmosferici, la monumentalità della struttura portante, le dimensioni e la sua plasticità, rendono questo balcone un unicum nel panorama architettonico ficarrese (fig. 5).
Fig. 5 Particolare del balcone con mensoloni e piano di calpestio in pietra locale.
Come accade nella maggior parte dei palazzi del paese, nei prospetti lungostrada, riorganizzati per dare uniformità alle unità elementari accorpate, in asse con i balconi si collocano le aperture d’accesso; archivoltate e contraddistinte da semplici stipiti lapidei lisci, qui immettono ai magazzini seminterrati. Cornici in laterizio, solo parzialmente intonacate, completano quattro delle cinque portefinestre, richiamando la preesistenza di una trabeazione modanata, soluzione decorativa che ricorre spesso sulle aperture dei prospetti degli edifici più importanti del luogo, arricchita da mensole lapidee scolpite o da una finitura in piastrelle ceramiche (Farneti, Van Riel, 2020, pp. 126-157). L’assenza della cornice terminale sull’apertura più orientale si giustifica nel confronto con un’immagine storica che documenta il palazzo all’inizio del XX secolo quando solamente le prime quattro campate erano uniformate in un prospetto intonacato e concluso da un cornicione in aggetto, mentre l’ultima, ad est, così come accade anche attualmente, era, in parte, appartenente alla proprietà limitrofa e presentava un ulteriore piano residenziale che all’inizio del Novecento non era presente su questo lato del palazzo (fig. 6). Da notare che, nonostante le modifiche apportate negli interventi più recenti e la mancanza di manutenzione adeguata e costante, il prospetto tergale, con un cantonale in conci squadrati di medie-grosse dimensioni che caratterizza l’angolata su vicolo Zinzolo, è quello che conferisce maggiore unitarietà e omogeneità formale all’edificio; gli altri fronti stradali presentano l’eterogeneità morfologica tipica del susseguirsi dei cambiamenti di proprietà e d’uso degli spazi. Nell’atto del 1966 Gaetano Piccolo si riservava il diritto di “asportare il portale in pietra da taglio” che connotava il portone di accesso all’ex atrio, effettuando i lavori a sue spese, quando e se lo avesse ritenuto necessario. In realtà l’elemento architettonico, una vera e propria emergenza scultorea, è ancora collocato a decorare l’apertura dell’ambiente che si apre su piazza Umberto I, al limitare di vicolo Zinzolo. Dall’iconografia storica (fig. 1) si nota che, fino a quando non venne demolita, modificando la topografia urbana, il palazzo fronteggiava la chiesa del Rosario continuandone idealmente il prospetto e aprendosi sulla piazza omonima, proprio con quel portale che l’architetto Piccolo avrebbe voluto togliere e reimpiegare in altro spazio (fig. 7).
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Monica Lusoli Fig. 6 Veduta storica (Archivio privato).
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Frutto probabilmente di una bottega di intagliatori e lapicidi piuttosto che di scultori, il portale in pietra da taglio presenta conci scolpiti in pessimo stato di conservazione a causa dell’elevato degrado materico: fessurazioni e lacune caratterizzano i conci in cui esfoliazione e erosione hanno portato alla perdita di frammenti dei motivi decorativi originari. I conci in bugnato a cuscino, scolpiti con figure zoomorfe, volatili, nei sette della ghiera dell’arco, pesci, nei quattro ancora leggibili tra quelli dei piedritti, sono decorati a bassorilievo e presentano una modanatura perimetrale in aggetto decorata a foglie lisce o a ghirlanda in quelli della ghiera e a squame in quelli degli stipiti. Visivamente i conci che compongono l’arco appaiono meno degradati di quelli inferiori e il materiale che li compone sembra appartenere ad un litotipo diverso; anche le forme di degrado li differenziano dagli inferiori, predominando il dilavamento. Il concio in chiave con stemma decorato a cartocci, inserito a forza tra i due laterali, di cui uno risulta leggermente adattato, sembra non appartenere alla composizione generale ed essere stato impiegato a completamento. L’erosione dello scudo non ne lascia interpretare con sicurezza la decorazione che mostra lacerti di un doppio cerchio o di una ruota. Il primo concio di sinistra, l’unico con decorazione fitomorfa, presenta due foglie di acanto che racchiudono un elemento verticale, frammento di qualcosa non più leggibile. La sua unicità fa ipotizzare che potesse essere il concio in chiave di una preesistente composizione, quasi a richiamare l’iconografia dell’albero della vita, collocato centrale rispetto alle colombe, qui rappresentate secondo il repertorio della scultura medievale con calice o ramoscello d’olivo. Anche il grifone è scolpito su uno dei conci del portale; costretto dalla modanatura perimetrale, ha la testa piegata all’indietro ed è mancante della porzione posteriore caduta a seguito del degrado della pietra. All’inizio del XX secolo, la quota di calpestio dell’intorno urbano era diversa e ciò è testimoniato, nel confronto con le immagini storiche, dai due conci basamentali che risultano aggiunti, uno a destra, l’altro a sinistra del portale (fig. 7). All’interno della chiostrina, realizzata probabilmente per agevolare la distribuzione negli ambienti nello spazio di risulta tra le unità elementari originarie aggregate, un
Fig. 7 Portale su piazza Umberto I. Fig. 8 Portale interno alla chiostrina.
altro portale, di accesso all’appartamento del primo piano, costituisce ulteriore elemento di pregio del palazzo (fig. 8). Il portone in legno trova alloggio in una doppia cornice lapidea di cui quella interna, leggermente aggettante, ha conci perimetrati da nastrino e lavorati a gradina mentre l’esterna, maggiormente interessata da fenomeni di erosione ed esfoliazione degli stipiti, è completata da una trabeazione con fregio scanalato e rudentato in evidente similitudine a quello che caratterizza il finestrone centrale della chiesa della SS. Annunziata e il portale rimontato della chiesa di S. Maria del Gesù. Alcuni frammenti di elementi architettonici scanalati sono inseriti nelle pareti della restaurata chiesa di San Biagio, allettati nella muratura mista a lasciare intuire un riuso dei lacerti lapidei non estraneo alla cultura materiale ficarrese in cui questo utilizzo non sempre tiene conto del valore storico-artistico del frammento reimpiegato. L’architrave è sostenuto da due mensole laterali che costituiscono i conci terminali della cornice più esterna e che presentano volute con balteo e balaustro profondamente scanalati; foglie di acanto con fogliette e bocciolo completano le due mensole. In corrispondenza degli appoggi la cornice presenta dei risalti richiamando la soluzione architettonica che caratterizza le aperture dei prospetti dei palazzi ficarresi. Il portale fronteggia l’ingresso principale del palazzo anche se non è immediatamente visibile dall’accesso su piazza Umberto I a causa dell’andamento delle pareti laterali della chiostrina che, dopo aver assecondato via Casalotto, si incurvano andando a perimetrare lo spazio aperto su cui insiste la scala che immette al secondo piano. Questa è in parte sostenuta da una profonda arcata in laterizio impostata, verso via Casalotto, sulla muratura perimetrale esterna in conci lapidei di media-grossa pezzatura murati a corsi sub-orizzontali, verso vicolo Zinzolo, su un pilastro in pietra, concluso da un semplice capitello, con toro, più listelli e un abaco, e allettato in una muratura in laterizio. Le pareti della chiostrina si differenziano per essere in muratura mista, conci lapidei e rinzeppatura in laterizio, quelle perimetrali esterne o quelle interne appartenenti al nucleo originario del palazzo e in mattoni quelle di tamponamento dei volumi aggiunti nel corso del tempo.
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Monica Lusoli 14 Archivio Storico Comune Ficarra, Ficarra, Atto con planimetrie datato 12 maggio 1979. 15 Archivio Storico Ufficio Tecnico, Ficarra, Concessione edilizia n. 28 del 29/08/1980, I unità, particella n.391 - Ferraloro Cappotto.
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Nell’atto del 1966 gli acquirenti assumono l’obbligo di rifare un solaio soprastante il “vano magazzino grande”, di proprietà del sig. Pietro Calabrese e sottostante all’appartamento venduto, con tavelloni e travi in ferro, ciò in conformità all’impegno assunto dall’architetto Gaetano Piccolo nell’atto di vendita del giugno 1965 intercorso con il signor Calabrese; quest’ultimo sarà costretto a ricorrere contro il Piccolo poiché i fratelli Gullà non adempieranno all’obbligo preso. L’immobile venduto, pervenuto a Gaetano Piccolo in virtù del testamento olografo del 3 maggio 1951 dallo zio Giuseppe fu Salvatore, versa in un pessimo stato di conservazione e perciò il prezzo pattuito per la cessione è fissato in £.1000000. A distanza di tredici anni, il 12 maggio 1979, i fratelli Gullà dividono la proprietà in due parti, in due appartamenti le cui porte di comunicazione verranno chiuse (fig. 9)14. La porzione di Giuseppe corrisponde all’appartamento al primo piano con accesso da piazza Umberto I, composto da sei vani oltre il gabinetto e il corridoio e confinante con il fabbricato di Giuseppe Spiccia, con il terreno di Nunzio Ricciardo, con via Casalotto e con la restante porzione attribuita alla sorella. A lui è assegnato anche il vano terreno con soprastante piccolo ammezzato adibito a sgombro e destinato in precedenza ad atrio e bottega. Laura Gullà diventa proprietaria del rimanente appartamento: con medesimo ingresso, è composto da cinque vani, oltre due piccoli ripostigli e un “giardinetto” ed è confinante con via Zinzolo, con il terreno di Nunzio Ricciardo, con la parte di fabbricato e l’ammezzato di Giuseppe. Il corridoio di ingresso alla chiostrina e la stessa rimangono in comune. La parte di Giuseppe presenta una maggiore estensione rispetto quella della sorella ma, nel documento viene spiegato che i due appartamenti hanno lo stesso valore poiché gli ambienti del fratello sono stati gravemente danneggiati a seguito del sisma del 1978, tanto da essere in parte inagibili (Farneti, Van Riel, 2020, pp. 194-285); inoltre patiscono delle infiltrazioni di acqua che provengono dal terreno di Ricciardo e da via Casalotto. Molto danneggiato dal sisma è anche l’appartamento superiore per cui nell’agosto del 1980 viene ottenuta una concessione edilizia che permette alcuni rifacimenti e delle modifiche strutturali15. Conclusioni Nonostante i rifacimenti e le integrazioni, che raramente hanno tenuto conto del valore del fabbricato e delle sue caratteristiche, il palazzo mantiene alcuni dei suoi caratteri identitari; in particolare conserva, al piano terra, i vasti ambienti definiti nei documenti “magazzini” e destinati alla conservazione delle olive, alla loro lavorazione e al temporaneo deposito dell’olio, come è testimoniato dalla dizione “oleificio” in una delle mappe catastali del palazzo. Questi spazi che si aprono su ciò che rimane del “vicolo padronale”, un percorso a terrazzo sul sottostante parcheggio, sono contraddistinti da un’elevata altezza e da un microclima particolare dovuto senz’altro anche all’essere seminterrati, scavati nella roccia. Questa caratteristica che accomuna molti degli edifici di Ficarra, costruiti direttamente sul substrato roccioso, ben si confaceva alle esigenze ambientali delle lavorazioni che vi venivano effettuate: in uno spazio naturalmente fresco si preservano maggiormente le caratteristiche qualitative e organolettiche delle olive e dell’olio. Le spesse murature in conci sbozzati di pietra locale con poche e limitate riprese in laterizio, in cui si aprono grandi arcate di collegamento tra gli ambienti o quelle leggermente strombate che preesistevano agli attuali accessi esterni e che sono state in parte tamponate per il loro inserimento, caratterizzano
questi spazi intonacati con la stessa malta che riempie i giunti, stesa abbondantemente sulle pareti senza riuscire a livellarle. Nel 1929 in paese erano attestati solamente due trappeti, uno di Rosario Milio, l’altro di Giuseppe Piccolo, il primo con un reddito di 1500 il secondo di 104 come risulta dall’Elenco dei contribuenti possessori di redditi delle categorie B e C della Provincia di Messina redatto dal Ministero delle Finanze e pubblicato a Roma nel 1930. Il trappeto o frantoio era il locale adibito alla produzione dell’olio; posto abitualmente a qualche metro sotto il livello stradale, manteneva una temperatura costante, maggiore di 6°C ma comunque bassa. Si trattava in generale di un grande vano dove era collocata la macina con base in pietra per frantumare le olive. In genere i frantoi si trovavano all’interno dei centri abitati perché potevano essere ben raggiunti da chi li doveva utilizzare, al momento del deposito delle olive o della consegna dell’olio. In Sicilia, fino al 1785, quando il Viceré marchese Caracciolo emanò una serie di lettere circolari, gli abitanti delle baronìe come Ficarra potevano macinare le olive solamente nei trappeti dei baroni. (Franchetti, 1877). Attualmente il territorio ficarrese riveste particolare importanza nella produzione dell’olio in Sicilia e numerosi sono i piccoli imprenditori che si dedicano alle lavorazioni e alla promozione; in questo contesto trova spazio la volontà di aprire alla fruizione e alla conoscenza del turismo e delle scuole, l’oleificio di palazzo Piccolo che ben rappresenta la commistione che nelle città storiche esisteva tra vita privata, sociale e lavoro, tra residenza e commercio o produzione, tra abitazione, botteghe, magazzini e stalle. I palazzi di Ficarra sono testimonianze di questa pluralità di destinazioni racchiuse in un unico fabbricato ma pochi sono gli edifici che ancora la mantengono e che possono documentarne la presenza. Nell’insieme di un vasto progetto di studio, conoscenza, valorizzazione e tutela che l’amministrazione comunale sta da tempo cercando di attuare in questo territorio, altrimenti soggetto allo spopolamento e all’abbandono, la prevista riqualificazione di questo opificio nel suo contesto storico, architettonico e urbano e il suo utilizzo a fini didattico-educativi, è un’operazione legata alla conoscenza del patrimonio culturale, materiale e immateriale, ma anche e soprattutto, alla sua conservazione e valorizzazione al fine di stimolare la frequentazione e la vita del paese.
Fig. 9 Planimetria dei locali seminterrati con indicazione dei diversi appartamenti: in azzurro quello di Giuseppe Gullà, in rosso quello di Laura (Archivio Storico Ufficio Tecnico, Ficarra), anni ’70 del XX secolo.
Bibliografia Castelli di Torremuzza V. 1820, Fasti di Sicilia, volume 2, presso Giuseppe Pappalardo, Messina. Di Blasi Gambacorta G.E., 1816, Storia civile del regno di Sicilia scritta per ordine di SRM (D.G.) Ferdinando III re delle Due Sicilie, Tomo VII, dalla Reale Stamperia, Palermo. Farneti F. (a cura di) 2012, «Naso, terra grande, ricca e antica». Tessuto urbano e architettura dal Cinquecento al Novecento, Alinea Editrice, Firenze. Farneti F., Van Riel S. (a cura di) 2020, Ficarra. Studi e analisi per la riqualificazione e la valorizzazione del centro storico, Altralinea Edizioni, Firenze. Franchetti L. 1877, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, Tipografia di G. Barbèra, Firenze. Sacco abate F. 1799, Dizionario geografico del Regno di Sicilia composto dall’abate Francesco Sacco della provincia di Salerno dedicato alle principesse reali D. Maria Cristina, D. Maria Amalia e D. Maria Antonia Borbone, Tomo I, dalla Reale Stamperia, Palermo. Van Riel S. (a cura di) 2011, Ficarra, identità urbana e architettonica. Ricerche e materiali per la valorizzazione e il restauro, Alinea Editrice, Firenze.
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The Building Stratigraphic Analysis supporting the structural strengthening and conservation design: a case study in Lebanon Laura Nicolini
Laura Nicolini
Dipartimento di Architettura,Università degli Studi di Firenze.
Abstract The case study is an amazing trip to understand an Ottonian Lebanese Caravanserai to outline a holistic conservation proposal including the structural strengthening design. The paper delaines the historical contest when the khan was built and the intense relations established by the old city with an extended territory. The study explains how the khan is the result of a particular intent to develop the trading of the old city of Sidone during its period of reborn under the Ottonian empire. The construction of the Waqfi block which includes the khan, was used by his promotor as a parallel opportunity to show his power. The study of the Khan’s construction revealed several modifications on the building structures to the point of showing that the Khan is a completely different building compared to the assumption based on the information contained in the Arabic inscription located on the arched portal. The inscription, in fact, states that the Khan had been built in 1721 by a member of the Hammud family, but the study of the building components revealed that the building is the result of a progressive constru Keywords stratigraphic analysis, archaeological architecture, conservation, caravanserai, heritage
Introduction The effective conservation of built heritage is linked to a deep knowledge of the building, both of in terms of significance of the monument and its structural, architectural, and decorative features. The first aspect, which includes the relation with the urban and external context, influences the choices of the design for future uses. The second aspect influences the structural and architectural restoration design. This paper has two key objectives. The first is to encourage historical research for conservation projects in order to reconstruct all the roles and significances the building has acquired over the centuries. The second is to serve as a recommendation to be used in a systematic manner the building stratigraphic analysis for as a scientific method able to unify and verify all information and data as resulting from the historical researches and from the on-site investigations. The paper examines the historical-constructive analysis of a khan in the territory of Lebanon, linking the considerations on the development of the architectural complex to the socio- geographical
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events that characterize the cultural heritage of the region. The study has been conducted through the Stratigraphic Masonry Units and illustrates a particularly complex application case for the interpretation of the evolutionary phases in relation to the structural stratification of the masonry. The ancient city of Sidon and its glorious past The old city of Sidon, currently known as Sayda or Saida, the third largest city in Lebanon, is located on the Mediterranean coast in the South Governorate. With its historical urban center on the hill overlooking the sea, Sidon has been a key city in the past for its role in the trade relation on the Mediterranean countries. The origins of Saida date back to the Canaanite-Phoenician civilization and span the Persian (550-332 BC), Hellenistic (332-64 BC), Roman - Byzantine (64 AD - 638) periods, medieval including the Mameluke period (638-1516 AD) and Ottoman (1516-1918). At the beginning of the XVII century during the Ottoman period, Saida acquired considerable importance under the princedom of Emir Fakhr Eddine II, and it became an important merchant city and center for silk trade due to a strong relationship with Europe. The overly autonomous attitude and the growing power of Prince Eddine worried the Ottomans, who decided to attack Saida, and following a series of battles, they succeeded in deposing Prince Eddine. The Ottomans made Saida a Wilayat political center to control the emirs of Mount Lebanon until the end of the 19th century. In 1920 Saida was detached from Syria and annexed to Lebanon.
Fig 1 a) Internal Eastern Elevation, May 2010 b) Internal court, May 2010 (the figures are licensed under http:// creativecommons.org/ licenses/by/3.0/it/); c) Localization on a Google map of the Ottoman khans built in different periods as per the urban study on the 1864 Renan’s Map by David Rodier; d) Elaboration based on the urban documentation as in Weber 2010.
Saida and its role in the Mediterranean region After a robust and long period of commercial relations on the Mediterranean Sea and the hinterland of near East, during which Saida was one of the most important centers for the diffusion of a common culture, the old city experienced a period of severe decline. This was due to the defense strategy carried out by the Mameluke who decided to abandon the coasts due to their high exposure to attacks by Crusaders, and to create and consolidate an internal network of streets and buildings to protect their kingdom and activities. During this period, from 1291 to 1516 (when the Mamelukes were defeated by the Ottoman Turks), the population of Saida decreased and the inhabited coastal areas abandoned. The main building built in this period was the Mountain Castle. Sidon, together with Tripoli, was the most important port city of the Ottoman caliphate of Bilad al-Sham. Its decline began in the late eighteenth century, when the center of the province shift from Sidon to Acre.
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Laura Nicolini
Sidon’s commercial fortune through the Ottoman period Only with the conquest by the Ottoman did Saida begin again to play a central role in the trade routes and maritime trades. During this period Sidon became the main maritime outlet of Damascus (the capital of the empire). The evident signal of this economy revival was reflected in several new caravanserais built in the first and second Ottoman periods. These impressed the urban character of the city, which remains intact today. Particular importance was assigned to the role played by three individuals or families at three levels of actions, respectively trans-regional, regional and local levels, which had particular impact on Sidon’s urban form (Weber, 2010). I. At the trans-regional level, a Waqf of the Grand Vezir Sokollu Mehmed Pasha (married to Ismihan Sultan, the daughter of Sultan Selim II) has been a key investment in Saida. In fact, Khan al-Franj deemed it to be the most important motive for the development of Sidon in the late sixteenth century. This caravanserai connected to the waqf in Aleppo, including its famous complex of Khan al-Jumruk. The economic revival of Sidon as the harbour for southern Syria seems to have been an outcome of conscious planning on a grander scale. Mehmed Pasha was, in fact, an extensive promoter of such utilitarian structures as caravanserais and bridges which would facilitate traffic and communications. His main contribution to the architectural culture is the Sokollu Mehmed Pasha Mosque, which he wanted as his wife’s main mosque in Istanbul (dated 979/1571–72), a masterpiece created by the architect Mimar Sinan. II. At the regional level, but not limited to it, Fakhr al-Din consolidated his commercial and political relations with many states of the Mediterranean basin in the extensive estates. The waqfiyya in Saida of the Damascene governor Küçük Ahmed Pasha, dated from the seventeenth century, has been the expropriation result of extensive estates which were previously properties of Fakhr al-Din. During the period of Faḫr al-Dīn II of the Maʿan family (1590-1634), who held the office of mültezim (tax collector and Ottoman feudal lord), Sidon’s commercial fortunes increased alongside his power. Ruling from Sidon, Fakhr al-Din established an open regime for French and Tuscan merchants, founding a profitable commercial enterprise for trade between France and Syria. He gradually extended his territory at the expense of the chiefs of other regions to the point that the governor of Damascus resolved to send a punitive campaign from Istanbul against him. Fakhr al-Din sought refuge in Tuscany in 1611 AD, where he established strong and amicable contacts with the Medici, in particular Cosimo II. III. At the local level, the focus is on the history of the Hammud family, the most important family in the city during the first half of the eighteenth century, and donated several estates, of which only the waqfiya of Mustafa Agha al-Hammud is known. As better explained further on, our case study Khan el-Echle, is a caravanserai built by Alī Āghā, an ambitious member of this family. The role of the Khans in defining the urban layout of the city: perimeter walls and gates From what has been said, it is no surprise that all Sidon’s khans date back to the Ottoman period (1516-1918). They are located near the port and underline its importance for the commercial life of the city. They are configured as head buildings towards the
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port of the main medieval streets of the city which is developed in a north-south direction. The most important khans built in this period include: Khan al-Franj (around 1560), Khan al-Ruzz (around 1600), Qaysariyya / Khan al Shakrieh (around 1600), Khan Dabbagha (around 1640/50, which no longer exists) and finally our case study Khan al-Hummus or even al-Qishle (1721-1722). After the seventeenth century, namely during the hegemonic period by the Hammond’s family, the construction and localization of a new Khan played a completely new role in the transformation and completion of the urban layout of the city. For this phase, as we will see, we would prefer to talk about the redefinition in architectural and functional terms of previous passages of the urban fabric: this materializes into the creation of our Khan el-Echle and other buildings, all strategically positioned close to the defensive walls of the western sector. The analysis of the existing cartography and in particular of the map of 1864 by E. Renan (Latif 2007) shows how a profound change was made in the western sector of the city (fig. 1 c. and d.), that delimited by the walls interspersed with the three gates which, succeeding one another from the sea towards the mountain, constituted respectively the access door for those coming from Beirut, (Beirut Gate) then the Sakerieh Gate and then the Akka Gate very close to the Mountain Castle. The Khan al Quishle building as part of the Hammoud family’s economic strategy To understand the value of the khan, it is also important to consider the main buildings operated by the Hammud family in Saida and in particular its waqf. The rise of the Hammud family was closely connected to the commercial life of the city with its khans and souks. A family member, Mustafa Katkhuda, had already held an important position as a tax collector during the early decades of the seventeenth century. The tax reform of 1695 granted them a long-term right to collect taxes (malikane) which was then passed to a number of descendant families. The wealth that the family had acquired was invested in large houses, schools and commercial buildings which denoted the role of the owners in the local social context. According to current knowledge (Al-Harithy 2016), the most active patron of the Ḥammūd family was Alī Āghā. According to Weber reports (Weber 2010), he built his first house (Dār Debbané) and the Khān al Hummuṣ (namely Khan al-Ishle or Khan el-Echle, the current name) at the beginning of his career as a tax collector, and we believe that the sūq under his first house up to Khān al-Ḥummus must have been at least partially owned by him. The complex of the new buildings built prevalently near to the Beirut Gate, constitutes more properly a “redefinition in architectural and functional terms of previous passages of the urban fabric”. All of them are strategically positioned close to the access doors of the western sector and the defensive moat still remaining along the walls was transformed into beautiful gardens. The analysis of these two main buildings built by Alī Āghā drives us to consider them as a part of his strategy to consolidate his economic power and, at the same time, promote his own leadership. The buildings of Alī Āghā were highly prestigious works of architecture, concepted as visual confirmation of his important role in the city. With their full spatial and architectural configuration, the patron of the works, Alī Āghā, achieved the aim of strategically strengthening a sensitive and main access point. The caravanserai, in fact, conceived as a reception place for merchants in need of protection, was a fortified place to protect people and merchandise contained there-
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Laura Nicolini Fig. 2 Partial of the Eastern Internal Elevation and relevant PP2 Matrix showing the stratigraphic relationships of the Eastern Internal Elevation
in and therefore also the city itself. The access, placed next to the Beirut Gate, made it an obligatory path of passage and preferential parking and, at the same time, its structures strengthened the function of the walls, becoming an integral part of it. The wall circuit had to be articulated in alternately recessed and protruding towers and it would seem that the plan of the Khan was born from one of these perimeter joints of the wall circuit. The southern side of the building appears to be particularly relevant, largely altered over time, which does not seem to show signs of openings on the rear. This part of the building should be investigated with greater attention to clarify the reason for a widening between the back of the Khan and the wall circuit. On the other hand, Dar Debanné is the exceptional result of the intent to show the refined architectural sensitivity of its founder and his considerable economic power, i.e. the two elements able to spread his reputation (Weber 2002-2003). The construction of Khan el-Echle and its transformations As attested by the Arabic inscription upon the entrance, at the beginning of the XVIII century (1721), the Hammoud family built the Khan named el Hommos, as it was dedicated to the trading of chickpeas. The inscription is engraved in a decorative frame and states: The heirs of Alī Āghā Hammoud built this Khan in the center of Saida. It was made to ask the satisfaction of God because it has become a place where foreigners find refuge. A Khan was built in 1721.
From the inscription the building seems to be part of a Waqf, but Weber’s opinion (Weber 2000) is that a part of the building was a property of its promoter. According to this historical documentation, the construction of the khan would appear as a construction from one only concept and built in 1721. The study of the main architectural features of the monument and the results of the building stratigraphic analysis, carried out according to methodology for the architectural archaeology (Brogiolo 2012), revealed that the Khan is the result of the progressive addition of construction parts to the previous ones, often without mutual connection (fig. 2). During the subsequent history from this date, the building hosted the Ottoman, French and Lebanese troops and served a Prison; in fact, the current name used to identify the Khan, el-Eshli or el-Echle, means Caravanserai of the Prison. Unlike other Khans, normally composed by two floors, Khan El-Eshli is a building composed by three floors, where the top floor was a later addition. Internally, the Khan El-Echle mostly preserves the traditional structure of the Caravanserai: the rooms at the ground floor which originally was all leading to the central courtyard; the second floor, characterized by a covered gallery, all along the entire perimeter of the court-
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yard, connecting the rooms all around. During the subsequent use phases, the original accesses of the rooms at the ground floor of the eastern side were closed and new doors have opened along the road so that part of the Khan’s rooms would been used as shops along the road. These and other changes were carried out during the first half of the XIX century, under the on Chehab’s emirate, when the Kahn was extensively reshaped. Finally, a third floor was added to the building during the Ottoman Empire. Khan al-Qishla is one of the most important Ottoman Khans left in the city of Saida. The Khan is owned by the Lebanese government and the building is an important monument, listed as a national heritage of Lebanon for its national historical value as enshrined in two ministerial decisions: No. 29 of 3 July 1996, and No. 24 of 8 May 1997. Currently, the Khan is under rehabilitation thanks to a grant from the Italian Government to support the Lebanese Government CHUD program following the 2006 conflict. The stratigraphic analysis and the present study benefited from the in-depth observations of the building’s structures during the ongoing works. As well known, the caravanserais were traveler inns diffused in the Muslim world as part of the ancient overland trade route system, connecting the Middle East and Central Asia, Europe, North-Africa, Indian Continent and China. Two types of caravanserai can be distinguished. The first is the “road caravanserai” type, which is a building or set of buildings intended to accommodate travelers and merchandise on the commercial roads of caravans that crossed the desert. This type has a single access large enough to allow the entry of pack animals, a defense wall circuit and generally includes a drinking pool for the livestock. The animal stables were located in the four corners of the building. The other type is the “urban caravanserai” which could be either the point of arrival or storage of goods near or within cities. This building has no stables, as the animals remained outside the city. In general, the caravanserai is a building consisting of a wall that encloses a large courtyard and an arcade. It could also include rooms for wayfarers used freely by travelers. Other special rooms like rooms for prayer, libraries and the ḥammām allowed for deep cultural exchanges between people of different latitudes. Khan el-Echle seems to mix the two mentioned types since it is unequivocally within the perimeter walls of the Saida as an urban caravanserai, but some rooms seem to have been used as stables. In particular, a very high concentration of soluble salts only in some rooms could be an effect of the presence of animal excrement.
Fig. 3 a) Analysis of the building components and relevant BCs Matrix; b) Table of the Masonry Typologies of the Southern External Elevation
Stratigraphic survey methodology applied to the architecture The method derives from the principles of stratigraphic relationships (Harris, 1979); it takes into account the different problems existing in the buildings, and pays attention
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to building materials and construction techniques which are considered as change indicators. Like the archaeological stratigraphy, the building stratigraphy must be based upon a series of fundamental axioms or laws so that a stratigraphic sequence is created by the interpretation of the stratification of a site according to the Laws of Superposition, Original Horizontality and Original Continuity. The stratigraphic relationships thereby discovered are translated according to the Law of Stratigraphic Succession. The first step to apply the stratigraphic methodology to the architecture is to define the architectural complex which is constituted by an aggregation of several buildings (body of the building). They can be alone or within an urban context, but in either case, they must be well identifiable and distinguishable from the others. Moreover, they have to be a result of several buildings together. At the end of this phase of investigation, the exact number of the “body of the building” has been defined including information and documentation about relevant localization and limits of their development, state of conservation, original and current use, etc. Finally, a matrix of the all building bodies (here named CF Matrix) has been outlined. The second step is to concentrate the study on any single part of the body of building and subsequently, step by step, extend the stratigraphic survey to the remaining ones. The focus for the study is to individuate the Stratigraphic Masonry Units, aimed at outlining the complexity of the spatial relations. The identification of an SMU is based on two types of actions that can cause a deformation: the events causing build-up and the events causing take-out. The practical way to describe the quality of the SMU’s relationships is to map them and connect one to the other using a symbology corresponding to the following possible conditions: a) an SMU covers or leans against another SMU; b) an SMU is cut by another SMU; and c) an SMU is related to another SMU. Additional symbology distinguishes the SMUs adding materials to one which resulted from a removal action. The study of the direct relationships between the various units implies the selection of the stratigraphic units according to the law of the stratigraphic sequence, that is, combining the oldest among the most recent ones and the most recent among the oldest ones, in addition to the contemporary SMUs. Based on these relationships, the stratigraphic diagram of the prospect and / or of the analyzed building is subsequently processed. On the ground floor, the openings are particularly significant: there is a sequence of four visible external passages arched with carefully finished ashlars; two passages side by side and two other lateral passages positioned respectively on the right and left. There are interposed windows clearly obtained by cutting and carefully inserting the stone segments in continuity. All these openings were then filled. On the first floor there are the typical triads of windows by typical pointed arches with three centers forming the characteristic counter-curves as is typical of Ottoman architecture. The observation of the Eastern Internal Elevation PP2, with a sequence of openings which have been modified many times, reveals several structural and functional changes that have been carried out in the building. We can appreciate the Ground Floor and its clear composition for archivolted openings that originally had to be six in number, with single openings to the opposite ends of the wall and with binary openings in the middle part of the elevation. Today, the reinforced concrete stairwell located on the left limit conceals part of the openings and prevents an immediate overview of it.
The closure of the three windows placed in the portions of the original wall is very interesting. The squared stones have been inserted taking care to realize a good balance with elements of the same size and types of finishes. The windows have a lowered arch and the lintels are formed by three ashlars which are rectilinear in the upper surface; they reveal the insertion forcing at their ends. The accuracy of the technique used to build the masonry seems to confirm our hypothesis that the wall had been designed to be seen. The upper floor, however, with the access staircase located next to the entrance to the courtyard, reveals a new intention, although in continuity: the sequence of the pointed arches does not follow the syncopated rhythm of the ground floor but proposes them in uninterrupted sequence. In addition to the observation on the PP2 Elevation supported by the stratigraphic sequence organized in the Matrix, further information from the observation of the construction technique used for the masonries in the Southern Elevation clarify that the khan is the result of a sum of different buildings added to the others without anchoring and finally organized as a unique caravanserai promoted by Ali Agha Hammoud. Role of the stratigraphic analysis in the structural strengthening conceptual design This dissertation is aimed to support an extensive use of the stratigraphic analysis as a complementary source to the structural assessment as well as on-site and during laboratory analysis campaign to collect all information to be used for the structural strengthening design. In fact, this kind of study is able to restitute an overview of the building providing information about its construction phases. The overview is particularly effective in terms of structural knowledge of the building which cannot be provided in a complete manner by the on-site assessment and tests. In the event that historical documentation is absent, the stratigraphic survey is the only one able to provide in depth information on the building. On the other hand, when the archive research is productive, this type of survey allows to confirm or amend the collected data. The value of this scientific method of investigation is that all information collected by the stratigraphic survey shall to be organized in a controlled sequence according to its rules and no any significant element can be inserted without accuracy or excluded without compromising the result. Therefore, the use of this methodology is a guarantee to take into account all traces in the building so that no final rough assessment could be provided. On the other hand, the above integrated investigation method is in accordance with the recommendations for a “knowledge path” as per the Guidelines by the Italian Ministry of Cultural Heritage and Activities. As stated by the Guideline, knowledge can be achieved by different levels of depth, according to the accuracy of the relevant operations, historical research, and experimental investigations. The study of the characteristics of the building is aimed to define an interpretative model that could allow, in the different stages of its calibration, both a qualitative interpretation of the structural functioning, and structural analysis for a quantitative evaluation. The structural strengthening conceptual design for the caravanserai The stratigraphic methodology includes also the supporting value to the structural strengthening conceptual design since the interpretative model generated by implementation of this methodology enables the improvement of the usual structural strengthening measures, which may not have been the best options in the context
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of the current building. For example, the result from the stratigraphic analysis which informs by a missing anchoring between two masonries could be solved by a simple structural measure, such as connecting like with like replacement (“scuci e cuci”) or by a more performant measure like the confinement of the walls with application of glass or carbon fibers capable of enveloping the entire building. This is the most suitable proposal for structural strengthening conceptual design of the Khan, which involves both of the external and internal rooms of the second storey. This measure does not exclude the previous, but integrates the stitching method for the masonry. In fact, this structural measure is to solve the discontinuity of the masonry apparatus of the southern walls and the need to give continuity of structural behavior to the perimeter walls considering that the reuse of the building will imply new uses and functions. In addition, a two directional system of tie bars was considered in order to add resistance to the structural masonry and improve the restraint of the wooden slabs. Moreover, the conceptual design for a reuse proposal of the khan implied the reorganization of the vertical connections and the subsequent need to insert an elevator internally to the building. The specific structural measures foreseen for the insertion of the elevator in a portion of the building included the cutting of the vaults of all rooms involved and the restraint from the abutment of the pressure generated by the interrupted sequence of vaults. Role of historic research extended to urban and regional horizons to support a suitable proposal for building reuse and relevant restoration conceptual design One of the most important issues in the restoration of old vacant buildings is related to which use to propose and the relevant vision which should guide all the project phases from the concept design to the management phase. This case study offers the opportunity to demonstrate that deep knowledge not only focused on the building in terms of material elements but also on its space/time relations, can enable the identification of a suitable proposal for a new role for the building. In this context, the history of architectures can become a privileged path for a more general reconstruction of the society of the past. These types of historical studies can tell a story based on the cultural and symbolic aspects of the architecture and, secondarily the links to the economic and social changes. The proposal for the reuse of the Khan is based on the knowledge that these caravanserais are like a symbol of a successful multicultural exchange platform, for the connection of cultures, which we can still use, and probably more than ever, that we need today. Since these historic buildings symbolize the crossing of international borders, multicultural exchange and mutual benefit, Khan el-Echle was proposed as Multi-cultural Centre to promote exhibitions of arts and handcraft, workshops and an artists’ residency programme. Conclusion Applying Stratigraphic analysis to architecture offers not only the opportunity to pursue the historical knowledge goal but also to explore synergies with other disciplines that attend to the architecture. In particular, the challenge to use the SMUs as the items on which to base a BoQ and the detailed Technical Specifications could reinforce bilateral cooperation between the restoration designer and who is in charge to carry out transformations of the architecture in order to promote a common responsibility to conservation.
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Special thanks We would like to extend particular thanks the Council for Development and Reconstruction of the Lebanese Government which allowed us to benefit from the pictures showing the situation of the Khan El-Echle before the intervention. In fact, the results of the present study were possible thanks to the deep assessment of the pictures and all parts of the building inspected during the ongoing restoration works. The CDR, as the contracting authority for the mentioned restoration project, is the owner of the relevant images, to the benefit of the DGA (Directorate General of Antiquities) in the framework of the ARS Progetti SpA consultancy service with financing by the Italian Government. Bibliographical References Al-Harithy H. 2016, The Ottoman Hamman al-Ward in Saida, Lebanon. In Jurnal of Islamic architecture, vol. 4, n.2, P-ISSN: 2086-2636 E-ISSN: 2356-4644. Bachy E. 1997, La forme urbaine de la médina. Perceptions et analyses (XIXème - XXème siécle). In MADINA Saida Cité du Monde n.3, p. 44. Bachy E. 1997a, De Sagette à Seide. L’emergence des grandes composantes urbaines de la médina (XIème - XVIIIème siècle). In MADINA Saida Cité du Monde n.3, p. 24. Beltramo S. 2009, Stratigrafia dell’architettura e ricerca storica, Carocci, Roma. Brogiolo G. P., Cagnana A. 2012, Archeologia dell’architettura. Metodi e interpretazioni, All’Insegna del Giglio, Firenze. Cerasi M., Petruccioli A., Sarro A., Weber S. 2007, Changing cultural references architecture of Damascus in the Ottoman period (1516-1918), Multicultural urban fabric and types in the south and eastern Mediterranean. Ergon Verlag Wurzburg in Kommission, pp. 189-223. Chahine R., Chahine P. L. 1997, La cité dans l’imaginaire des Orientalistes. In MADINA Saida Cité du Monde n.3, p. 6. Harris E. C. 1979, Principles of Archaeological Stratigraphy, Academic Press, London. Kalash A. 2001, Saida 1873-2001, Fondation Hariri, Saida. Latif Z. A. 2007, Reconstructing the Eastern Sector of Old Saida Based on the 1864 Map by Ernest Renan. In Journal of Asian Architecture and Building Engineering, vol. 6, pp. 25-31. Parenti R. 1978, Una proposta di classificazione tipologica delle murature postclassiche. In Biscontin G, Angeletti R. (a cura di), Conoscenze e sviluppi teorici per la conservazione di sistemi costruttivi tradizionali in muratura, Atti del Convegno di Studi, Bressanone. Rodier D. 2005, Saida : Histoire et Société, Chaire Unesco, Paysage et environnement, Saida. Sarkis H. 2003, Circa 1958. Le Liban à travers les photos et plans de Costantinos Doxiadis. Dar An-nahar, Beyrouth. Veinstein, G. 1997, Sokollu Mehmed Pash. In Encyclopaedia of Islam2, IX, Clifford Edmund Bosworth (2nd ed.), Leiden, pp. 706–711. Weber S. 2002-2003, An Agha, a house and the city. The Debbané Museum Project and the Ottoman City of Saida. In Beiruter Blatter Mitteilungen des Orient-Instituts. Beirut, pp. 10-11. Weber S. 2010, Syria and Bilad al-Sham under Ottoman Rule: Essays in Honour of Abdul-Karim Rafeq. Part Three: Space, Urban institutions and society in Ottoman bilad Al-Sham - The making of an Ottoman Harbor Town: Sidon / Saida from the sixteenth to the eighteenth centuries. Leiden, Boston, Brill, pp.191, 201.
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Da comune autonomo a fragile ‘ospite’ della periferia urbana di Milano: il caso di cascina Sella Nuova. Studi e documentazione per la conservazione e il riuso Daniela Oreni Daniela Oreni Gianfranco Pertot
Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito, Politecnico di Milano.
Gianfranco Pertot
Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano.
Abstract Cascina Sella Nuova is located in the south-west suburbs of Milan, on the borders of the Parco Agricolo Sud, in a flat area, historically with an agricultural vocation. Bibliographic sources attest the presence of a first nucleus of the farmhouse already in the fifteenth century, but many were the extensions and transformations that affected the farmhouse over the centuries. Abandoned for decades, the complex is now in a very poor state of conservation and many of the agricultural structures have partially collapsed. In order to recover the farmhouse, owned by the municipality, between 2019 and 2020 the Politecnico di Milano conducted a series of studies and surveys aimed at supporting the design of a conservation and reuse of the building that would also take into account the context in which the farmhouse is located today, which is profoundly different from what it was until the first half of the twentieth century. The results of the studies are mainly related to the Casa padronale and the adjoining porticoed building. Keywords Reuse, conservation, survey, documentation, HBIM.
Cascina, ovvero Comune: storia e cartografia, dal Seicento ad oggi. Cascina Sella Nuova si trova nella periferia sud ovest di Milano (fig. 1), ai confini del Parco Agricolo Sud, in un territorio pianeggiante, storicamente a vocazione agricola; in questa zona la produzione di cereali e foraggio per gli allevamenti era garantita in passato dalla fertilità dei campi, costellati di fontanili e di cavi irrigui naturali e artificiali. Le fonti bibliografiche attestano la presenza di un primo nucleo della cascina già nel Quattrocento, quando la “Sala Nova”, con tutti i suoi terreni di pertinenza, era di proprietà di Gian Galeazzo Visconti. Alla fine del Cinquecento passò ai Ghilio, che possedevano altre proprietà a Baggio, e quindi ai Conti Archinto, proprietari anche delle vicine cascine Barocco e Cassinazza, per giungere infine, nell’Ottocento, ai Bagatti Valsecchi. La cascina era stata edificata a sud della strada che da Baggio conduceva a Milano (oggi via delle Forze Armate), ed è rappresentata in maniera schematica nel “disegno della Pieve di Cesano” del 1566-67 (fig. 2), ad un miglio circa dalla chiesa della Pieve, a est della “Casinat.a”, a ovest della “Cassina Crea” e a sud delle cascine “Baroco” e “del’Inferno”. A partire dal XIV secolo, in queste zone erano state introdotte le coltivazioni del riso
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Fig. 1 Cascina Sella Nuova (in basso, nell’immagine), nel contesto urbano del quartiere di via Forze Armate (Google Italia 2020). Fig. 2 Dettaglio del Disegno della Pieve di Cesano, 1566-67 (Archivio Storico Diocesano Milano, Visite pastorali, sez. X, Pieve di Cesano, 156667). Sulla sinistra il borgo di Baggio, con la chiesa di S. Apollinare; procedendo sulla destra, lungo la strada che collega Baggio con Milano, le cascine “Baroco” e “del’Inferno a nord, la “Casinat.a”, la “Cassina di Corposanto di Cesano” (Sella Nuova) e, più a est, la “Cassina Crea”, in direzione della Chiesa di S. Maria di Garignano.
e la bachicoltura. Ciò aveva comportato un progressivo cambiamento dell’impianto delle cascine per adattare gli spazi esistenti alle nuove esigenze funzionali e di lavoro; in particolare, la continua crescita del numero dei contadini e degli stagionali, così come dei capi di bestiame allevati, aveva reso spesso necessario l’ampliamento o la modifica delle strutture esistenti. Ciò era avvenuto anche alla Sella Nuova, caratterizzata fino al Settecento da un impianto isolato e aperto e poi progressivamente ampliata con la costruzione di edifici rurali accessori a costituire un impianto a corte chiusa. È la mappa del Catasto di Carlo VI (fig. 3) a restituirci una prima immagine planimetrica dettagliata, seppur semplificata nelle forme degli edifici, di quella che doveva essere all’epoca la “Cascina Sella Nova”, di proprietà del conte Carlo Archinto, e di tutti i terreni di pertinenza, la cui descrizione è riportata nei registri catastali: tutto intorno vi erano appezzamenti di aratorio, pascolo arborato, bosco forte da taglio con piante
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da cima, prati con salici, terra da lino, aratori avidati con moroni e con alberi da frutto. A quella data, nell’impianto planimetrico della cascina si riconosce un primo nucleo della Casa padronale ancora oggi esistente, con annesso edificio porticato e una piccola cappella esterna, poi demolita, dedicata a Sant’Antonio. Più a destra si trovava un corpo di fabbrica a “L”, collegato ai precedenti e costruito sullo stesso sedime sul quale si troveranno un secolo dopo le case dei salariati e le stalle per le vacche da latte; un altro corpo di fabbrica a nord completava la “Sella Nova”. Due grandi orti (mappali n. 42 e 44), un grande giardino all’italiana a ovest e due cortili aperti circondavano il complesso su tutti i lati. L’accesso dei carri avveniva da sud, da un percorso che, da un lato consentiva un collegamento diretto con la Cassinazza e la cascina Garegnano, verso Cesano Boscone, dall’altro immetteva a nord sulla strada principale che da Baggio portava a Milano. Il sistema dei cavi, delle rogge e dei fontanili che irrigavano i territori della cascina è ben rappresentato nella mappa “Lombardy, Venice, Parma, Modena - Second military survey of the Habsburg Empire (1818–1829)”(fig. 4), in cui la Sella Nuova viene disegnata ancora senza sostanziali modifiche planimetriche rispetto a quanto riportato nel catasto settecentesco. Unica eccezione è l’apertura di un accesso diretto a nord verso le cascine Interno e Barocca. Le consistenti modifiche della Sella Nuova che avvennero successivamente sono state registrate puntualmente nei fogli di mappa del Catasto Lombardo Veneto del 185557 e 1865 (figg. 3, 5), che evidenziano il progressivo passaggio ad una tipologia a corte chiusa, con la costruzione di una serie di edifici rurali a completamento della corte grande, a trasformare la cascina in una azienda agricola per la produzione e prima trasformazione dei prodotti. A questa data si registra anche l’avvenuto ampliamento verso sud della Casa padronale, con l’aggiunta di una porzione di fabbricato oggi ben riconoscibile nelle due stanze poste a sud dell’edificio e di cui risultano evidenti i mancati ammorsamenti della muratura preesistente rispetto a quella di nuova edificazione e il tentativo di legare le stesse tramite l’uso di catene metalliche (i cui capochiave di chiusura sono visibili sulla facciata sud). Allo stato attuale degli studi non è però possibile indicare con esattezza le trasformazioni dei fronti che presumibilmente vennero apportate per ottenere una complessiva e unitaria riconfigurazione dell’edificio. La lettura delle geometrie della casa ha messo infatti solo parzialmente in luce le caratteristiche di un primo impianto della casa, in cui al primo terreno dominava la grande sala con camino, che forse diede il nome al primo nucleo della cascina: “Sala Nova”. Osservando le carte catastali ottocentesche appare poi evidente la divisione tra due corti, una più privata, antistante la Casa padronale e il porticato, e una rurale, accessibile dall’ingresso a sud; la targa apposta sul lato dell’ingresso riporta ancora la scritta “Comune di Sellanuova distretto II di Milano”. In quell’epoca venne aggiunto un altro percorso a ovest della cascina, la strada consorziale che mette a Sella Nuova. Questo impianto planimetrico rimase pressoché invariato fino all’ultimo decennio del Novecento, ad esclusione di alcune aggiunte e modifiche dei corpi di fabbrica rurali per esigenze funzionali. Porticati e barchesse servivano per ricoverare attrezzi, fieno e legna, parcheggiare i carri e ospitare attività di varia natura. Accanto a questi vi erano lo stallino dei buoi, la scuderia dei cavalli e la stalla delle bovine, tutte con abbeveratoi in pietra riempiti da acqua pompata dal suolo. La porcilaia si trovava a nord della corte, in posizione isolata e defilata rispetto alle altre stalle. La Casa padronale con annes-
Fig. 3 A sinistra: dettaglio del foglio di mappa del Catasto di Carlo VI, 1722 (Archivio di Stato di Milano – ASMi); a destra: dettaglio del foglio di mappa del Catasto Lombardo Veneto, 1865 (ASMi).
Fig. 4 Dettaglio del foglio di mappa “Lombardy, Venice, Parma, Modena - Second military survey of the Habsburg Empire”,1828 (www.mapire.eu).
Fig. 5 A sinistra: dettaglio del Catasto Lombardo Veneto. Allegati alla Mappa rettifica fabbricati prima copia, Sella Nuova, comune censuario, 1855-57 (ASMi). A destra: dettaglio del Nuovo Catasto Terreni. Mappe impianto, Sella Nuova, Comune censuario, 1897-1901 (ASMi).
so edificio porticato (nel Novecento usato come deposito del grano) e le case dei salariati (demolite nel 1995) completavano la corte. L’abbandono, nella “città che sale”. Il comune di Sella Nuova venne unito a quello di Baggio nel 1869. Nel 1923 Baggio venne aggregato al comune di Milano ma mantenne intatto il suo assetto territoriale, senza innovazioni, fino al dopoguerra. L’area fu solo sfiorata dagli interventi per la realizzazione della nuova cittadella militare progettati dal Genio militare fra 1926 e 1929 e che portarono nel 1931 alla costruzione della Caserma Annibaldi (poi Ospedale militare) e della più interna Caserma Santa Barbara, rispettivamente a sud e ad est della nuova piazza d’armi qui collocata dal piano regolatore Pavia Masera (redatto nel 1909, adottato nel 1910, approvato nel 1912), che andò a inglobare l’aerodromo per i dirigibili, operativo dal 1913 e le officine Leonardo da Vinci dell’ingegner Enrico Forlanini (andate distrutte durante l’ultimo conflitto)1. Altri magazzini furono edificati più tardi sul lato ovest della piazza d’armi, lungo l’odierna via Olivieri, ma la prima “prova di città” in prossimità di cascina Sella Nuova fu la costruzione delle case minime di Baggio, dieci corpi di fabbrica di tre piani, disposti a pettine lungo via delle Forze Armate, a circa
Le due caserme sono oggi interessate da un progetto di riconversione sostenibile, nell’ambito della più ampia iniziativa “Caserme verdi”, promossa dal Ministero della Difesa, che mira a destinare alcuni spazi ed edifici a funzioni legate al tempo libero e a servizi per l’infanzia, a disposizione del personale delle Forze armate ma anche della cittadinanza, nell’attesa che venga definito il destino della piazza d’armi.
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Daniela Oreni Gianfranco Pertot Il quartiere Baggio I venne progettato dallo Studio Sociale di Architettura con la collaborazione di Franco Albini. Il quartiere Baggio II fu costruito sulla base di un piano urbanistico messo a punto da Franco Marescotti e Ezio Cerutti (1950-53). Al centro del nuovo quartiere venne realizzata la chiesa della Madonna dei Poveri progettata da Luigi Figini e Gino Pollini (1952-54). 3 Il primo nucleo, denominato quartiere Domus Forze Armate (via Nikolajevka 1,3 e 5), sorse fra 1961 e 1964; nel biennio 1964-65 venne realizzato il quartiere Siqua 2 (via Mar Nero 6 e 8) mentre fra 1968 e 1971 il Ministero del Tesoro e l’Immobiliare Castello edificarono una trentina di edifici nell’ampia area compresa fra i suddetti quartieri. Due edifici in linea furono costruiti dall’Ente Fiera di Milano in via Mar Nero 3 e 5 fra 1968 e 1970. A ridosso del Siqua 2, verso Baggio, sono stati successivamente costruiti cinque edifici con 5 o 7 piani (1973-75, via Mar Nero 2 e via Cividale 3), e altri cinque edifici con 6 o 9 piani, per 270 appartamenti (198588, via Cividale 11-15). 2
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500 metri di distanza dalla cascina. Furono costruiti negli anni Trenta, insieme ad altri insediamenti simili, per ospitare i più poveri fra gli abitanti delle case del centro abbattute dagli sventramenti di regime. Non furono invece attuate le previsioni del piano regolatore redatto dall’ingegner Cesare Albertini (entrato in vigore nel 1934) che anche qui, come altrove, disponeva uno sviluppo pressoché indifferenziato della città fino ai confini comunali, in termini di mera nuova ragnatela stradale. Questo schema fu ridimensionato dalla revisione operata nel 1945 da Luigi Lorenzo Secchi, che limitò le urbanizzazioni alle aree in fregio a via delle Forze Armate, intorno alla quale si sarebbe dovuta insediare una zona residenziale semi-intensiva. Né il piano Secchi né il successivo Piano Venanzi, adottato nel 1948, e il PRG approvato nel 1953 portarono a consistenti urbanizzazioni, malgrado l’invasiva previsione di una nuova zona industriale (poi realizzata solo in parte), che avrebbe dovuto estendersi dal Naviglio Grande fino a pochi metri dalla cascina (su queste vicende si rimanda a Pertot, Ramella 2016). Si trattava di una scelta figlia delle indicazioni del Piano A.R., che in quest’area collocava il “porto commerciale” di Milano. Le commissioni che studiarono il piano del 1948 mantennero l’idrovia commerciale, ma spostarono il “Porto di mare” presso Rogoredo. L’area divenne zona industriale, ma fabbriche e capannoni non superarono via Kuliscioff e la cascina Garegnano, dove già si trovava una cava di ghiaia trasformata in seguito in redditizia discarica e oggi oggetto di una problematica bonifica. La trasformazione del carattere agricolo dell’area in tessuto residenziale era però iniziata. I primi insediamenti residenziali, di carattere economico-popolare a fabbricazione semintensiva, furono i quartieri del primo settennato INA-Casa denominati Baggio I e Baggio II, realizzati fra 1950 e 19532. L’area compresa fra la cascina e il quartiere Baggio II venne occupata negli stessi anni da altre costruzioni residenziali, senza un progetto organico, ma fu negli anni Sessanta che si realizzò la saturazione delle aree a ridosso di via Forze Armate fra la cascina e il quartiere Baggio I. A nord, verso le cave di ghiaia, venne edificato il complesso di abitazioni “La Viridiana” (l’unico in questa zona destinato a ceti medio alti) e progettato da Vico Magistretti e Luigi Caccia Dominioni. A sud fu invece costruito, in tre riprese, un quartiere di edilizia economico-popolare, costituito da case in linea di cinque-dieci piani3. Gli interventi sancirono l’abbandono di ogni attività agricola in questo settore di città e la cancellazione del reticolo storico viario e idrico. Pur privato dei suoi caratteri originari, venne però mantenuto un ampio corridoio verde a sud di questi nuovi quartieri e della cascina, oltre il quale vennero costruiti il quartiere Assisi, verso il centro, e le “case bianche” del fondo Gescal (1973-75), con quasi ottocento appartamenti, fra via Viterbo e via Parri, dove nel 1992 si è attestata la fermata Bisceglie, capolinea della linea 1 della Metropolitana. Sull’area delle demolite case minime sono sorti in momenti diversi, dopo il 1972, edifici in linea di dieci piani e, a breve distanza, i due edifici in linea progettati in via Creta per l’IACP da Carlo De Carli (1975-77). Nello stesso periodo, a ridosso della cascina (in via Sella Nuova 10) sono stati costruiti da Poste Italiane tre incombenti edifici, in parte per i propri dipendenti e in parte destinati a casa-albergo, uno dei pochi esempi di questo tipo nel milanese, mentre nelle immediate adiacente (via Val Devero 19) è sorta nel 1979 la cosiddetta Torre Sella Nuova, uno fra i più alti edifici residenziali della periferia occidentale di Milano, con i suoi sedici piani fuori terra. L’evoluzione urbanistica dell’area (schematizzata nella fig. 6) ha fatto dell’odierno quartiere Forze Armate - Sella Nuova un’area ad alta densità demografica, con edilizia
quasi esclusivamente di tipo sovvenzionato o convenzionato, di bassa qualità costruttiva, con pochi servizi ed esercizi commerciali, e considerevoli problematiche sociali. Alla rimozione dell’intero millenario impianto territoriale si sono uniti le demolizioni o l’abbandono degli insediamenti rurali. Cascina Sella Nuova è disabitata, molti edifici sono crollati, altri sono pressoché irrecuperabili. Nelle stesse condizioni versa la cascina Isolino Lombardo, mentre Cassinazza, cascina Creta e cascina Isolino Creta sono state demolite, e cascina Barocco è ormai irriconoscibile, dopo essere passata attraverso una radicale ristrutturazione (sopravvive unicamente il portale romanico con bardellone e una bella croce greca sulla serraglia). Solo cascina Linterno, grazie alla posizione defilata, nei pressi del Parco delle Cave e soprattutto all’impegno di associazioni di cittadini che si sono prodigate per il suo recupero, mantiene intatti i suoi caratteri, dopo un attento intervento conservativo (per una disamina delle fonti e una schedatura delle cascine della zona, comprese quelle demolite, si veda Uberti 2013). Indagini conoscitive sulla Casa padronale e sul portico annesso: dal rilievo ad un modello BIM per il progetto di conservazione. Nel mese di marzo del 2019 ha preso avvio una serie di studi, analisi e attività di documentazione e rilievo tridimensionale della Casa padronale e dell’annesso portico. In questa occasione il Politecnico di Milano4 ha proceduto, in primo luogo, ad un accurato rilievo geometrico dell’edificio, ad una scala di dettaglio compresa tra 1:50 e 1:10, impiegando diversi strumenti e metodi di rilievo integrati tra loro: laser scanner, fotogrammetria e rilievo diretto. In questo modo è stato possibile restituire in maniera accurata la complessa articolazione spaziale e costruttiva dell’edificio e dei suoi elementi costitutivi. La casa è composta da due piani fuori terra (piano terra e primo piano) e da un piano mezzanino in corrispondenza dei due ambienti a nord dell’edificio, a testimoniare forse un nucleo più antico del fabbricato (fig. 7). Non esiste invece un piano cantinato e le scale risultano esterne al corpo della casa, elemento di cerniera e raccordo con l’adiacente edificio porticato a due piani fuori terra, caratterizzato da quote interne di
Fig. 6 Schema dell’evoluzione urbanistica del settore urbano Forze Armate - Sella Nuova. 1: quartiere Ina Casa Baggio I (1950-53); 2: quartiere Ina Casa Baggio II (1950-53); 3: aree edificate nel periodo 1946-56; 4: aree edificate nel periodo 1950-65; 5: quartiere Domus Forze Armate (1961-64); 6: aree edificate prevalentemente nel periodo 1956-65; 7: quartiere Siqua 2 (1964-65); 8: quartiere Viridiana e servizi annessi (1968-69); 9: case Ente Fiera (1968-70); 10: quartiere Mar Nero (1968-71); 11: aree edificate nel periodo 1965-72; 12: quartiere Gescal (1973-75); 13: case di via Cividale 3-5 (1973-76); 14: sede CDI (1975); 15: case di via Creta (197577); 16: area case minime, riedificata fra 1972 e 1990; 17: Torre Sella Nuova (1979) e costruzioni 1972-90; 18: case Poste Italiane (dopo il 1972); 19: aree edificate nel periodo 1972-90; 20: case di via Cividale 11-15 (1985-88).
Scuola di Architettura Urbanistica e Ingegneria delle costruzioni, Laboratorio di progettazione finale, docenti G. Pertot, D. Oreni, S. Cattaneo. 4
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Daniela Oreni Gianfranco Pertot Fig. 7 Piante e immagini della Casa padronale e dell’annesso edificio porticato (originali con rapporto dimensionale 1:100; fotografie scattate nel 2019).
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calpestio completamente diverse rispetto a quelle della casa stessa (fig. 8). Le murature perimetrali in laterizi, di dimensioni e tessiture varie, presentano nel complesso uno spessore piuttosto costante, ad eccezione dei tramezzi più recenti di divisione di alcuni locali al primo piano; anche l’altezza degli ambienti interni è uniforme. Pavimentazioni in cotto e in pietra completano le finiture interne delle stanze, ad oggi prive di elementi decorativi, se si escludono alcuni camini. Le analisi su materiali, patologie di degrado, strutture e stratigrafia muraria hanno fornito un quadro complessivo dello stato di conservazione dell’intero edificio, molto compromesso per quanto riguarda i solai lignei di orizzontamento del primo piano e del piano mezzanino. Il recente crollo di una porzione del tetto e le conseguenti abbondanti infiltrazioni di acque meteoriche nell’edificio hanno poi provocato una serie di danni agli intonaci interni e alle pavimentazioni in cotto. Le attività di studio condotte sull’edificio hanno portato alla completa documentazione dello stato di fatto dell’edificio, con la creazione di rappresentazioni tematiche bidimensionali e di un modello HBIM (Historic Building Information Modelling) dell’intero edificio (fig. 9), pensato quale possibile strumento di progettazione e gestione del cantiere di restauro che verrà avviato nel prossimo futuro. Il modello tridimensionale ad elementi parametrici è stato realizzato tenendo presente le specifiche caratteristiche geometrico-formali di ogni elemento costruttivo e le connessioni tra le parti. All’interno del modello sono infine confluite tutte le informazioni precedentemente raccolte nelle schede di dettaglio, organizzate per ambienti, nella forma di un “libro delle stanze” (raumbuch).
Prospettive per il recupero Cascina Sella Nuova è divenuta proprietà dell’ente pubblico nel 1980, quando è stata espropriata dal Consorzio intercomunale milanese per l’edilizia popolare (CIMEP), che l’ha ceduta al Comune di Milano due anni dopo. Nel 1995 ospitava ancora ottanta mucche da latte. È disabitata dal 2003. Alcuni edifici sono stati demoliti in seguito a un incendio, gli edifici rustici sono per lo più pericolanti e in parte crollati, e non sono accessibili. Per evitare ulteriori danni alle strutture il Comune ha dotato la Casa padronale di una copertura provvisoria di protezione, ed è ancora possibile un intervento conservativo. Questo contesto è stato oggetto di esercizi progettuali per delineare, sulla base delle azioni conoscitive descritte in precedenza, un possibile futuro di vita e di uso del complesso. L’attività progettuale si è voluta confrontare, sia pure in ambito didattico, con i programmi messi a punto dal Comune di Milano per il recupero delle 61 cascine di sua proprietà. Programmi che hanno preso avvio nel 2012 con una preventiva indagine esplorativa su sedici cascine (fra cui Sella Nuova), per le quali sono stati definiti i caratteri degli interventi, ipotizzando la cessione del diritto di superficie delle stesse per un periodo compreso fra 30 e 90 anni, per l’insediamento di funzioni di carattere pubblico (come, fra gli altri, servizi sociali per anziani/adulti/disabili/minori, incubatori di imprese, centri aggregativi o polivalenti, residenze protette o per studenti, strutture ospedaliere e ambulatoriali, sedi espositive, mercati di prodotti ortofrutticoli) e private (attività in grado di generare reddito così da rendere l’intervento e la successiva manutenzione economicamente sostenibili), purché in percentuale non
Fig. 8 Rappresentazioni scatolari delle singole stanze della Casa padronale (originali con rapporto dimensionale 1:50,), rilievo diretto con trilaterazioni, sezioni longitudinali e trasversali dell’intero edificio, dettagli costruttivi.
Così si specifica nel bando per “Indagine esplorativa per il recupero e la valorizzazione di 16 cascine comunali” pubblicato il 22 ottobre 2012 dal Comune di Milano.
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Daniela Oreni Gianfranco Pertot Fig. 9 Il modello HBIM della Casa padronale ricavato a partire dall’elaborazione delle nuvole di punti laser scanner.
Si tratta degli interventi di recupero di cascina Cuccagna (2008-12), cascina Nosedo (2015, con contributo del Fondo europeo di sviluppo regionale, nell’ambito del programma OpenAgri), cascina Linterno (2015, progetto finanziato con gli oneri versati per l’intervento di iniziativa privata di nuova edificazione nel vicino comparto Calchi Taeggi - Bisceglie), cascina Torrette di Trenno (2016, recuperata nell’ambito dell’intervento di costruzione del complesso di housing sociale di via Cenni) e cascina Casottello (2016-18, con finanziamento Cariplo). Per i caratteri di questi interventi si veda Laviscio, 2018.
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prevalente rispetto alle attività pubbliche. E chiamando gli assegnatari a garantire a proprie spese la conservazione di ogni cascina in quanto deposito “di patrimonio materiale e immateriale di esperienze, pratiche e tecniche costruttive”5. Solo cinque bandi sono stati finora aggiudicati (cascine Cotica, Monlué, San Bernardo, Sant’Ambrogio e, a fine gennaio 2020, Sella Nuova), ma solo a cascina Cotica sono già stati effettuati interventi significativi. Il bando per cascina Monterobbio è andato ripetutamente deserto. Per le altre dieci cascine non vi sono state iniziative (cascine Brusada, Campazzino, Carliona, Casanova, Case Nuove, Colombé di sopra, Lampugnano, Taverna, Torchiera e Vaiano Valle). Altri cinque interventi su altrettante strutture rurali storiche di proprietà pubblica sono stati invece nel frattempo realizzati al di fuori del programma, per lo più grazie a finanziamenti esterni6. Risulta difficile delineare un bilancio dell’attuazione dei programmi di recupero delle cascine di proprietà comunale, che ha visto risposte concrete solo in casi sporadici. Il che si spiega certamente con la bassa redditività garantita agli investimenti, in un contesto imprenditoriale (quello milanese e lombardo in genere) che da più di un secolo e mezzo considera l’edilizia esclusivamente come un ambito speculativo da cui trarre il massimo del profitto. La portata sociale connessa ai programmi di intervento e la sensibilità richiesta ai progetti li pone al di fuori di questa logica. Il che però non può che confermare che deve essere l’iniziativa pubblica a svolgere un ruolo cruciale di bilanciamento. Il caso di cascina Sella Nuova è in questo senso emblematico. Si trova in un settore di città dove – come in tanti altri quartieri di Milano – il livello della qualità urbana è ormai irrimediabilmente compromesso da svariati decenni. Una spinta verso sensibili miglioramenti non può che giungere da una maggiore consapevolezza dell’identità dei luoghi e dalla creazione di sistemi di relazioni. Le letture e le esercitazioni didattiche svolte su cascina Sella Nuova hanno restituito proprio la portata delle possibili implicazioni di una progettazione che si fondi su questi asserti. Una volta delineate, sulla base di un attento quadro conoscitivo, le soluzioni per la conservazione integrale della compagine materiale del bene, sostegno anche dei suoi portati immateriali, e per i necessari adeguamenti, si è cercato di tessere nuove e antiche connessioni con il contesto, senza le quali l’intervento resterebbe irrimediabilmente chiuso in sé stesso. Il percorso metodologico si fonda sull’approfondita conoscenza – estesa, beninteso, al contesto territoriale - della stratigrafia storica. Alla ricerca delle tracce ancora riconoscibili dei reticoli geografici, e dei manufatti o delle opere per la gestione del territorio, si unisce l’identificazione degli insediamenti e la loro storicizzazione, così da definirli e da spiegarne le ragioni, in modo da metterli in relazione alla compagine sociale che li abita.
Ciò che più interessa non è la definizione formale di questi “nuovi fatti”, ma la messa a punto del percorso che dalle operazioni di lettura delle fonti indirette e dirette porta verso la formazione di nuove possibilità di attenzione e di fruizione consapevole dei luoghi. Ciò può avvenire attraverso la costruzione di sistemi di riferimento che connettano i luoghi, rendano manifeste le informazioni, creino occasioni di inciampo e indichino un percorso di formazione di una identità sociale e di una appartenenza, in ambiti urbani fino ad oggi vissuti come tapis roulant della vita quotidiana, della circolazione e del consumo. Ringraziamenti Si ringrazia il comune di Milano (arch. L. Re Sartò, geom. R. Cataldo) per aver concesso agli studenti del Politecnico di Milano di accedere alla cascina Sella Nuova. Bibliografia Bianchi A., Bianchi G. (a cura di) 2003, Vita di Cascina, I quaderni delle cascine: zona 7, Comune di Milano, Tipolitografia Pavia s.r.l., Milano. Bianchi A., Bianchi G., Sella Nuova e Cascinazza, in Ad Ovest di Milano. Le cascine di Porta Vercellina, pp. 253-278, <http://cascinevercellina.xoom.it/index.htm> (8-20). Brumana R. et al. 2020, Survey and Scan to BIM Model for the Knowledge of Built Heritage and the Management of Conservation Activities. Digital Transformation of the Design, Construction and Management Processes of the Built Environment, Springer, Cham., pp. 391-400. Laviscio R. 2018, Il punto sul recupero delle cascine di Milano, «‘ANAΓKH», n. 83, pp. 42-45. Pertot G., Ramella R. (a cura di) 2016, Milano 1946. Alle origini della ricostruzione. La città bombardata, il Censimento urbanistico, gli studi per il nuovo piano, le questioni di tutela, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo. Uberti G. 2013, Insediamenti e luoghi di culto in un’area suburbana di Milano. Origine e dinamiche della proprietà: il comune di Baggio, in Cafaro P. (a cura di), Spazi. Economie, comunità, archeologie, numero speciale di «Rassegna gallaratese di storia e arte», n. 133, pp. 119-146.
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Ricerca umanistica e diagnostica per il restauro. Bologna: Girolamo Curti e Lucio Massari in San Martino (1629) Marinella Pigozzi
Marinella Pigozzi
Dipartimento delle Arti, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna.
Abstract The investigation into the documents and testimonies of artistic literature will help us to know the historical and economic dimension that leads to the intervention of Girolamo Curti quadraturist and the figurist Lucio Massari in the Carmelite library of San Martino Maggiore in Bologna. The historical and documentary method, urged by Adolfo Venturi since the end of the 19th century, will be joined by the “technical” method of Morellian origin and updated several times with the progress of knowledge and conservative investigation strategies, understood as two components equally indispensable for approaching us to knowledge. Keywords Bologna; San Martino Maggiore; Girolamo Curti; Lucio Massari; Restoration.
Sarà l’indagine sui documenti presso l’Archivio di Stato di Bologna e sulle testimonianze della letteratura artistica ad aiutarci nella conoscenza della dimensione storica ed economica che porta all’intervento di Girolamo Curti quadraturista e del figurista Lucio Massari nella biblioteca dei Carmelitani di San Martino Maggiore, la grande sala di studio appena realizzata dall’architetto Giovanni Battista Falcetti. Nell’indagine, al metodo storico e documentario, sollecitato sin dalla fine del secolo XIX da Adolfo Venturi, si unirà quello «tecnico» di origine Morelliana, ma più volte aggiornato col procedere delle conoscenze e delle strategie d’indagine conservativa, intesi l’uno e l’altro come due componenti ugualmente indispensabili per avvicinarci alla conoscenza (Agosti, 1993, I, pp. 253-278; Anderson, 1994, pp. 25-39). Ogni restauro, è un percorso strettamente connesso alla storia dell’arte, della critica d’arte e dei mutamenti di gusto. Le scelte di intervento dovrebbero restare sempre intimamente connesse con la stratificazione storica del manufatto, con i mutamenti della ricezione, della fortuna critica e dell’avanzamento delle conoscenze sull’opera presa in esame, dovrebbero essere sempre reversibili. Abbracciare e sostenere politiche di restauro e di conservazione significa diventare consapevoli dell’identità culturale e artistica di un manufatto, di una città, di un territorio e incoraggiarne la memoria, aperta anche allo sviluppo di consapevoli flussi turistici, non al suo svilimento esclusivamente commerciale.
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Preciso subito che l’affresco in esame non è stato coinvolto dalla strategia degli strappi adottata in più occasioni a Bologna negli anni Cinquanta con Antonio Sorrentino, responsabile dello stacco degli affreschi di Vitale degli Equi a Mezzaratta, nella chiesetta di Sant’Apollonia (Longhi, 1950, p. 24; Cammarota, 2007, pp. 589-592; Ciancabilla, 2005, pp. 139-154; Boni, 2002, pp. 6-27), e continuata sino agli anni Ottanta con il restauratore mantovano Otorino Nonfarmale, protagonista indiscusso accanto prima a Cesare Gnudi, quindi ad Andrea Emiliani, entrambi alla guida della Soprintendenza a Bologna. Alla chiesetta di Mezzaratta, all’abbazia di Pomposa, al recupero di Vitale anche in Santa Maria dei Servi si accompagnarono i restauri dei cicli di affreschi nei palazzi delle famiglie senatorie al tempo di Bologna Pontificia. Ma non possono essere dimenticati i lavori in Sant’Agostino a Rimini, a Santa Chiara di Ravenna, in San Pietro in Sylvis a Bagnacavallo e ancora al protiro della cattedrale di Ferrara e a palazzo Schifanoia, al portale di San Mercuriale a Forlì, in Santa Cecilia, alla Commenda di Forlì, alla facciata di San Petronio con le sculture di Jacopo della Quercia, di Aspertini. Il distacco di opere murali ha di solito trovato giustificazione nelle cattive condizioni conservative delle stesse e nel rischio di crollo delle superfici murarie cui erano addossate. In molte occasioni, non sempre, si è cercato di ricostruire il contesto, l’insieme. Tutti conosciamo l’invasività del metodo, eppure si è continuato a estrarre pitture murali anche quando le strategie d’intervento sui supporti erano di gran lunga migliorate e capaci di assicurarne, con la sanificazione dei muri per annullare quell’umidità infiltratasi che risulta fortemente invasiva e origine di degrado, la conservazione in loco. Sono prevalsi in molti casi mutati orientamenti di gusto, sono intervenute spinte politiche, economiche, turistiche, mascherate da finalità conoscitive e critiche. Oggi sappiamo che una manutenzione effettuata regolarmente può evitare di dover ricorrere a interventi di restauro più invasivi. Inoltre abbiamo acquisito la consapevolezza che nessun restauro è da considerare risolutivo, non esclude un eventuale ritorno d’intervento sull’opera, la finalità del restauro è di estendere il più possibile la lunghezza dei periodi fra un intervento e quello successivo. È necessario mantenere l’equilibrio che ha permesso all’affresco di arrivare sino a noi, minimizzando i rischi della sua precarietà attuale, nel rispetto di chi lo ha commissionato e realizzato e di chi vi ha riconosciuto un valore identitario. Messo in sicurezza e valorizzato l’affresco e il luogo che lo ospita possono diventare un’occasione di attrazione culturale e turistica.
Fig. 1 Esito della scansione laser, della fotogrammetria digitale, della termografia agite sull’affresco della Lezione di Pier Tommaso dal gruppo del DICAM, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna
La chiesa di San Martino Maggiore Fondata nel 1217, la chiesa fu riedificata dai Carmelitani nel XIV secolo e tuttora la guidano. Voglio ricordare alcuni passaggi storici per meglio mettere a fuoco l’importanza del luogo carmelitano e il suo sistematico contatto con la cultura della città. Diversi interventi hanno caratterizzato la sua storia in vari momenti: il campanile romanico-gotico fu rinnovato nel 1728; la facciata è del 1879, nel portale laterale il cinquecentesco rilievo con San Martino è dello scultore Francesco Manzini (1531) (Lamo, 1996). Ancora cinquecentesco è l’organo di Giovanni Cipri (1556), fra i più importanti della città. Anche lungo le navate interne le testimonianze d’arte sono di epoche diverse, tutte di notevole qualità e significative non solo dell’arte bolognese, anche del dialogo operato in città con l’arte delle regioni vicine. Meritano di essere ricordati gli affreschi frammentari di Vitale da Bologna e del fiorentino Paolo Uccello (Volpe, 1980); i dipinti di Francesco Francia, Lorenzo Costa, Amico Aspertini, Bartolomeo Cesi, Girolamo da Carpi, Girolamo Siciolante da Sermoneta, Alessandro Tiarini, Ludovico Carracci, C.
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Gennari, Vittorio Maria Bigari. L’unico chiostro sopravvissuto, erano cinque in origine, chiamato dei Morti, fu ricostruito sul primo chiostro romanico (1217) della chiesa più antica. Nel 1360 i Carmelitani lo fecero ampliare e rialzare di un piano dai fratelli Stefano e Borso Jelmi, originari di Capugnano nel bolognese, mentre il lato su via Mentana, più tardo (1454-1461), è opera di Tommaso da Imola (Masini, 1666; Guidicini, 1972). Fino al 1947 al centro aveva una cisterna sormontata da un arco con ornamenti in ferro battuto. Questi, con il santo che dona parte del suo mantello, oggi si trovano, trasformati in cancello, ai piedi della rampa di scale che conduce al piano superiore e alla biblioteca. Sulle pareti al piano terreno sono murate numerose lapidi sepolcrali, in qualche caso dotate di bassorilievi. Il secondo piano fu costruito nel 1503-1510 dall’architetto comasco Giovanni da Brensa, responsabile nel 1506 anche della prima armoniosa cappella della navata sinistra su commissione della famiglia Paltroni. A seguito della soppressione napoleonica del 1798, gran parte del convento, come accadde alla maggior parte delle realtà religiose, fu venduta a privati per risanare la finanza pubblica e trasformata (Colombo, 2004); i libri della importantissima biblioteca furono spartiti tra la Biblioteca Universitaria e quella dell’Archiginnasio; molte opere d’arte non sono più presenti. L’architetto Giuseppe Modonesi (1821-1891) ha restaurato la facciata quattrocentesca inserendovi elementi d’imitazione trecentesca. Si è trattato in realtà di un vero e proprio rifacimento (Zucchini, 1959, p. 36). Il fianco della chiesa su via Marsala sarà invece restaurato nel 1919 dall’architetto Edoardo Collamarini (Laraia, Quatrocchi, 1981, pp. 73-93; Orsi, 1999, pp. 16-21). Tutto nella vita di San Martino di Tours, il santo cui la chiesa è intitolata, fu miracoloso, così esordisce Gregorio di Tours, lo storico dei Franchi, cronista e agiografo, accingendosi a comporre la storia dei miracoli compiuti dal santo (Gregorio di Tours, 2020). Vedremo se per l’antica biblioteca dei Carmelitani il santo può ancora fare miracoli. La Biblioteca e l’affresco La biblioteca del convento carmelitano, che si estende sopra la cappella da tempo usata quale sagrestia, fu costruita tra il 1625-1629 per opera dell’architetto Giovanni Battista Falcetti, più volte coinvolto nei contemporanei cantieri cittadini, sia laici sia religiosi. Nella parete di fondo c’è il più grande affresco di Bologna, misura mq 104 (13×8 m). Vi vediamo persone, giovani e non, molti, non tutti, ascoltano la lezione del francese Pier Tommaso, Pierre de Salignac de Thomas (Oretti B 127, cc. 21 ss). Il carmelitano è stato il fondatore dello Studio Teologico di Bologna e fu tra i primi ad insegnarvi (1364). Presso i carmelitani si preparavano gli studenti della Facoltà di Teologia annessa allo Studio di Bologna. Parla dalla sua cattedra situata al centro di un loggiato scandito da alte colonne doriche e concluso dal soffitto cassettonato, mentre ariose serliane lo collegano al cortile porticato che si apre sullo sfondo. Girolamo Curti, detto il Dentone, ha strutturato l’illusiva architettura come su un palcoscenico, arricchendola di boccascena, quinte in diagonale, principale, fondale. Gli effetti di spazialità in altri suoi interventi sono suggeriti e rafforzati da chi si affaccia, persone o animali, talora ha preferito il fuoco decentrato e la sola impaginazione architettonica. Qui vediamo uditori seduti a terra o sul gradino in primo piano, dietro di loro alcuni ascoltano, altri parlano e gesticolano, la loro disposizione aiuta a suggerire profondità alla scena. Curti ha ricercato sempre, oltre all’inquadramento prospettico, il variare delle fonti luminose, la relativa graduazione di ombre e lumeggiature, è intervenuto a rafforzare i bianchi a calce introducendovi polvere di marmo (Pigozzi, 2007; Ead., 2020). La gam-
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ma cromatica, scura ai lati e chiara in primo piano, accentuata in altre occasioni dagli aggetti delle decorazioni in oro, la luce variata e l’inserimento delle ombre lo hanno aiutato a configurare gli spazi e la relativa illusiva profondità dell’architettura. Ha confermato nel tempo l’attenzione all’uso della serliana, segno ricorrente nell’architettura bolognese, alla dimensione tecnica e scientifica della sua arte, agli esiti teatrali. Innalzate le impalcature, strumento indispensabile nell’affresco, strutture necessarie ai pittori per raggiungere le parti alte della superficie destinata ad accogliere la realizzazione del soggetto, il lavoro è cominciato nel livello superiore della parete e le diverse giornate lo hanno scandito sino al pavimento in mattoni della biblioteca (Pigozzi, 2010, pp. 1-22). Le oltre sessanta figure, sono opera di Lucio Massari (1569-1633), scolaro ricco di ingegno di Bartolomeo Passarotti e poi di Ludovico Carracci, inserito da questi nell’Accademia degli Incamminati e membro della Compagnia dei Pittori. Non solo bravo copista, è stato riconsegnato all’attenzione degli studiosi dall’indagine monografica di Carlo Volpe nel 1955 e poi di Arcangeli (Volpe, 1955, pp. 3-18; Idem 1959, pp. 85-90; Arcangeli, 1958, pp. 236-254). Il pittore, anche nell’occasione dell’intervento nella biblioteca, adotta un linguaggio equilibrato, arcaizzante, severo, consapevole delle esigenze sollecitatrici la devozione e il pathos propri della pittura postconciliare, molto praticata a Bologna e sollecitata dal cardinale Gabriele Paleotti. Vi aderirono anche i riformati toscani, Santi di Tito, Poccetti, Passignano, conosciuti dal Massari durante i suoi lavori fiorentini. In territorio mediceo, in particolare nella Certosa di Saluzzo, Massari ha lavorato alle storie e ai martiri dei protomartiri nel 1612. In San Martino ha ricercato un ordine compositivo simmetrico nel collocare gli uditori sotto il portico, cercando di variarne gli atteggiamenti. Sappiamo che i lavori nella biblioteca del monastero carmelitano sono pagati nel 1629. La struttura della sala ha subito nei secoli, ma soprattutto nel secolo XX trasformazioni arbitrarie e incontrollate. Dopo molte traversie, la biblioteca fu trasformata in teatro e poi in cinema parrocchiale, per finire come aula universitaria dal 1984 al 1990. Oggi presenta uno stato di gravissimo degrado. Di recente, dopo le insistite sollecitazioni di chi scrive per porre fine alle gravi infiltrazioni d’acqua piovana, è stato rifatto il coperto del tetto. Non si è ancora intervenuti all’interno per rimuovere il sottotetto novecentesco che ha nascosto l’originaria copertura. I pochi sondaggi compiuti fanno pensare all’esistenza di una pittura di quadratura anche nella volta originaria. Oltre ai lavori per riportare alla luce la volta della biblioteca con la sua decorazione, occorre intervenire per restaurare l’affresco di Curti e di Massari ammalorato dalle infiltrazioni piovane e dai sali conseguenti. Il loro lavoro sul muro della biblioteca ci conferma la presenza di entrambi nel luogo, probabilmente in tempi diversi. Specificità indiscussa del dipinto su parete è la connessione diretta con la sua ubicazione; un affresco o una tempera, o un olio su muro, fra le altre informazioni offerte, contiene quella che il suo autore, o i suoi autori, è stato materialmente lì, in quel tempo e in quel luogo, e ci regala parametri conoscitivi straordinariamente significativi per la cultura del tempo. Il mancato intervento aumenta il rischio di annullamento dell’intero soggetto e la perdita di un significativo frammento della cultura religiosa carmelitana e della prassi pittorica bolognese. Ricercata la documentazione archivistica e fotografica, si faranno conoscere nell’occasione del simposio lo stato di fatto, le proposte per una corretta modalità d’intervento e la mitigazione dei rischi senza procedere all’allontanamento dell’affresco dalla sua
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Marinella Pigozzi Fig. 2 Analisi di laboratorio, Studio Leonardo, Bologna.
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sede storica, le possibili e auspicabili riutilizzazioni per fini culturali della struttura. Nella biblioteca, grazie alla collaborazione di Rossana Gabrielli dello Studio Leonardo, di Diego Cauzzi e di Gian Carlo Grillini, la conoscenza della situazione reale dell’affresco si è affrontata una prima volta nel 2010, e l’indagine è proseguita nel tempo, con l’ausilio di mezzi tecnici: è stato eseguito un fotopiano attraverso il fotomosaico di otto immagini. Si è usato il software “MSRRollei”: si tratta di una metodologia che in tempi brevi consente di ottenere rilievi vettoriali utilizzando delle immagini fotografiche dell’oggetto da rilevare e le coordinate di una serie di punti noti di tale oggetto ottenute mediante una stazione totale con misuratore laser. Questi dati sono stati elaborati da un software di fotogrammetria che, sulla base delle coordinate inserite e dell’identificazione dei punti noti ha eliminato le normali distorsioni prospettiche delle immagini fotografiche e ha permesso di ottenere dei “fotopiani”, vale a dire dei rilievi fotografici dell’oggetto. Il prospetto fotografico in scala è stato quindi utilizzato per documentare tutte le fasi di analisi dei materiali, delle tecniche e dello stato di conservazione, sempre più drammatico, oltre che per definire anche graficamente il progetto di restauro. Attualmente il lavoro si è limitato alla fase diagnostica, ma sarebbe auspicabile agire con un intervento conservativo quanto prima visto lo stato di degrado di questo affresco. Sono state eseguite indagini preliminari di tipo chimico-stratigrafiche e mineralogico-petrografiche finalizzate alla caratterizzazione dell’intonaco, per definirne il rapporto legante/aggregato, la composizione mineralogico-petrografica della sabbia, la granulometria, per specificare l’area geologica e geografica di provenienza. Sono state inoltre definite: la composizione delle efflorescenze saline, dei pigmenti, la tecnica pittorica e la natura del fissativo presente sulla superficie. Oltre al buon fresco, è stata usata dai pittori la tecnica della “tempera ausiliaria” che permette di dipingere sull’intonaco ancora fresco, con colori e leganti compatibili con l’alcalinità della calce, come latte e caseina, ma anche con uovo e colla (Danti, Matteini, Moles, 1990; Doglioni, 1997; Felici, 2006). In particolare, assicurando sperimentazione, attuazione e documentazione degli esiti con la collaborazione delle varie professionalità sopra ricordate, si sono eseguite (fig. 2): 1. analisi microstratigrafiche su sezione lucida al microscopio ottico in luce riflessa;
2. microanalisi in fluorescenza X accoppiata al microscopio elettronico (SEM – EDS); 3. analisi mediante spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier (FTIR); 4. esame al microscopio stereoscopico degli intonaci per un’analisi qualitativa dell’ggregato e del legante, identificazione dei componenti accessori, grado di cementazione. Si sono individuate sull’affresco tre fasi di lavoro: le prime due corrispondenti alla zona dipinta dal Curti con gli elementi architettonici, l’ultima eseguita dal Massari in cui si concentra la rappresentazione della Disputa caratterizzata da un folto numero di personaggi. Il cantiere ha utilizzato comunque, nelle differenti fasi, la stessa sabbia, prelevata dal fiume Reno o Savena e la medesima calce aerea (figg. 3-6). Inoltre il gruppo di Geomatica del Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali (DICAM) dell’Università di Bologna, coordinatore prof. Gabriele Bitelli con Valentina Alena Girelli, Giulia Vannucci, ha effettuato un rilievo integrato di alta precisione sulla parete affrescata, utilizzando in modo combinato e coordinato le tecniche della scansione laser (per un modello tridimensionale della superfice), della fotogrammetria digitale (con la produzione di una ortofoto ad elevata risoluzione), della termografia (generando una immagine termografica numerica ad alta risoluzione) (fig. 1). Il mondo dei Beni Culturali ha bisogno di nuove soluzioni per gestire in modo oggettivo ed efficiente la grande quantità di informazioni, solitamente in formato immagine o nuvola di punti, relative alla documentazione e all’analisi del nostro patrimonio. Ora sarebbe fondamentale: 1. Procedere quanto prima ad una messa in sicurezza per evitare altri danni al dipinto. 2. Completare la campagna di analisi per valutare scientificamente le problematiche conservative ad oggi.
Fig. 3 Lucio Massari, Particolare degli uditori, Biblioteca del convento di San Martino Maggiore, Bologna
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Marinella Pigozzi
3. Effettuare dei test per la messa a punto dell’intervento conservativo e completare lo stato del degrado con la definizione di una puntuale mappatura degli interventi. 4. Procedere al restauro quanto prima per evitare che altro tempo comprometta ulteriormente la conservazione di questo capolavoro identitario della prassi pittorica e della cultura cittadina. Sarebbe opportuno intanto pianificare e organizzare le operazioni di recupero dei decori della volta e delle pareti, togliendo le improprie sovrastrutture novecentesche, accompagnando il tutto da opportune documentazioni fotografiche e progettare la nuova destinazione d’uso aperta alla città e alla cultura.
Fig. 4 Lucio Massari, Particolare degli uditori, Biblioteca del convento di San Martino Maggiore, Bologna Fig. 5 Girolamo Curti, detto il Dentone, e Lucio Massari, Le architetture illusive, alcuni uditori e Pier Tommaso in cattedra, Biblioteca del convento di San Martino Maggiore, Bologna
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Fonti Manoscritte Bologna, Archivio di Stato, Corporazioni religiose soppresse, San Martino Maggiore, carmelitani, bb. 129 (1227-1797). Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Oretti M., Notizie de’ professori del disegno, ms. B 127, cc. 21 ss.
Fig. 6 Girolamo Curti, detto il Dentone, e Lucio Massari, La lezione di Pier Tommaso, Biblioteca del convento di San Martino Maggiore, Bologna
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La ricerca documentale per la conoscenza strutturale. Gli edifici popolari dell’isolato 14/A del rione Giostra di Messina Francesco Pisani
Francesco Pisani
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze.
Abstract Messina was destroyed by the earthquake of 1908 and the Allied bombings of 1943, was rebuilt by the offices of the Civil Engineers and a series of original documents have been preserved to date. Today, any intervention aimed at the safe conservation of the built heritage, must be based on a thorough knowledge of the building, in addition to direct relief and objective analysis is also essential a thorough documentary research. The study of the original projects helps the understanding of the building both from the architectural point of view, but especially from the structural point of view. The aim is to illustrate the results of the research carried out on a series of popular buildings built in the immediate post-war period but designed in the early 1940s. From the documentation it is clearly understandable the structure of the building, formed by the set of reinforced concrete frames and brick walls. From the graphic drawings of 1941 we can understand the architectural articulation of the buildings, today compromised by the various successive additions. The results of the critical analysis of the documentary information are useful to be able to work on the similar building of which there is no original documentation. Keywords Messina, Rione Giostra, indagine strutturale, strutture miste, edilizia popolare.
Un qualsiasi intervento volto alla conservazione di un manufatto alle future generazioni deve partire da una conoscenza accurata dell’oggetto stesso. In particolare se vogliamo attuarla sull’edificato esistente dobbiamo condurre uno studio preventivo del fabbricato conducendo studi e analisi sotto diversi punti di vista. Si dovranno condurre indagini e analisi dirette ed indirette; rilevi morfometrici, studio dei materiali e l’analisi dello stato di conservazione in maniera diretta, mentre uno studio della documentazione d’archivio, della letteratura tecnica e l’analisi attraverso di modelli strutturali in modo indiretto. Questa serie di ‘operazioni’ conoscitive non sono svincolate le une dalle altre, anzi devono essere messe a sistema, per implementarsi e correggersi, vicendevolmente, al fine di ottenere una piena coscienza critica dell’oggetto, su cui poi si andrà ad operare con piani e progetti di conservazione.
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Fig. 1 Vista assonometrica di progetto della palazzina B vista da piazza S. Matteo, in APCR, Div. XXIV, p. 1006.
L’analisi degli edifici attraverso un’accurata ricerca documentale è una prassi ben consolidata nella ‘scuola italiana’ del restauro e della conservazione; infatti dal ‘Discorso’ di Piero Sanpaolesi al ‘Trattato’ di Giovanni Carbonara, lo studio dei documenti è illustrato come un passo propedeutico e necessario per la redazione di un progetto di conservazione e restauro (Sanpaolesi, 1973; Carbonara, 1996). Inoltre anche l’attuale normativa tecnica italiana, nella sua evoluzione ha fatto propri i metodi conoscitivi attuati dai conservatori, prescrivendoli per operare anche sotto il profilo strutturale sull’edificato esistente (Van Riel, 2013); infatti al secondo paragrafo del capitolo ottavo delle NTC “Nella definizione dei modelli strutturali si dovrà considerare che sono conoscibili, con un livello di approfondimento che dipende dalla documentazione disponibile e dalla qualità ed estensione delle indagini che vengono svolte, le seguenti caratteristiche: la geometria e i particolari costruttivi; le proprietà meccaniche dei materiali e dei terreni; i carichi permanenti. Si dovrà prevedere l’impiego di metodi di analisi e di verifica dipendenti dalla completezza e dall’affidabilità dell’informazione disponibile e l’uso di coefficienti legati ai “fattori di confidenza” che, nelle verifiche di sicurezza, modifichino i parametri di capacità in funzione del livello di conoscenza (v. §8.5.4) delle caratteristiche sopra elencate”1. In questo breve scritto si illustreranno le risultanze dell’indagine documentale, resa possibile dal reperimento presso l’archivio della protezione civile di Roma dei documenti originali, che si legano strettamente all’analisi strutturale, volta alla definizione della vulnerabilità sismica dell’edificio, per progettare i più adeguati interventi di riduzione della stessa, prendendo in esame tre edifici del rione Giostra di Messina edificati nell’immediato dopoguerra. L’attuale schema urbano della città di Messina non è frutto dell’evoluzione storica dell’abitato, ma di un progetto urbanistico realizzato dopo il terremoto del 28 dicem-
D.M. 17 gennaio 2018. Aggiornamento delle «Norme tecniche per le costruzioni». § 8.2
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Francesco Pisani Il 5 luglio 1940 la R.A.F. fa la prima incursione notturna sulla città di Messina senza intaccare il tessuto urbano, gli attacchi notturni proseguono per tutto il 1941, questi bombardamenti si limitano ad obbiettivi militari. Nel 1942 le incursioni sono più violente, improvvise e devastanti, ma il peggio avviene nell’anno successivo l’offensiva delle M.A.A.F. sposta l’attenzione sulle strade di ingresso alla città, Messina subisce 4 bombardamenti navali e 2805 bombardamenti aerei con la conseguenza che vengono colpiti e danneggiati edifici pubblici, quartieri residenziali, ospedali, chiese, impianti industriali. 3 APCR, Div. XXIV, p. 1006. 4 Ivi, Relazione 19 agosto 1941 e Relazione 29 luglio 1943. 2
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bre 1908 in cui Messina venne completamente distrutta e si registrò la morte di decine di migliaia di persone. Non solo il terremoto ma i conseguenti incendi e il maremoto distrussero completamente il tessuto urbano; secondo il Regio ufficio tecnico delle Finanze il numero delle case civili crollate o da demolirsi raggiunge il 98%, stessa sorte toccò agli edifici pubblici e di pubblica utilità come il Duomo, la fontana del Montorsoli, il palazzo Municipale, gli ospedali civico e militare, il palazzo universitario, la Dogana, la scuola militare, la “Palazzata”, la stazione ferroviaria, l’ufficio postale ed altri fabbricati pubblici e religiosi. (Baratta, 1910; Riccobono, 2007). Il parlamento italiano nella seduta del 12 gennaio 1909 approvò la legge n. 12 che assegnò al governo del Re poteri straordinari in materia di amministrazione, pertanto la ricostruzione viene regolamentata e controllata dal Ministero dei Lavori Pubblici. Il 27 maggio 1909, con delibera d’urgenza n. 384, l’amministrazione comunale affida all’Ing. Luigi Borzì, direttore dell’Ufficio tecnico comunale da prima del terremoto, l’incarico di preparare il nuovo piano regolatore, approvato con Regio Decreto il 25 giugno 1910. Lo strumento di governo del territorio, dimensionato per circa 90000 persone, si propone di rispettare rigorosamente le norme igieniche e sismiche stabilite dalla legge 18 aprile 1909 n. 193 e mantenere l’assetto distributivo e la sagoma della vecchia città, dividendo la superficie in isolati dentro una maglia a scacchiera, seguendo la direzione e la posizione dei maggiori tracciati stradali esistenti; inoltre impone allineamenti, distanze delle strade, modi di costruire cancellate, coltivazioni di giardini, coperture e parapetti. La ricostruzione fu rallentata da due ordini di problemi: l’ingombro delle macerie che impedivano qualsiasi operazione e l’occupazione delle zone di espansione per buona parte dalle baracche. È solo nel 1923 che avviene la svolta nell’opera di ricostruzione della città; infatti, dopo la visita di Mussolini il 22 giugno 1923, seguiranno una serie di provvedimenti legislativi che daranno grande impulso ai lavori che dureranno, anche a causa degli eventi bellici2, fino agli anni Cinquanta (Minutoli, 2012; Riccobono, 2007; Cardullo, 1993; Campione, 1988). L’oggetto del nostro studio fa parte dell’edilizia “minore”, cioè di quel gruppo di immobili che servivano come abitazioni per le classi meno abbienti e piccolo borghesi. Questi edifici si distinguono in case popolari e ultrapopolari, di norma di ridotte dimensioni e poste in periferia, frutto dell’esperienza e delle conoscenze degli ingegneri del Corpo Reale del Genio Civile, sezione di Messina, che ne hanno realizzato i progetti e seguito la realizzazione (Minutoli 2012, pp. 109-115). Ed è proprio nell’agosto del 1941 che l’ufficio del Genio Civile redige il progetto per la “costruzione di case popolari sull’isolato 14a del Rione Giostra”3 (fig.1), compreso tra piazza S. Matteo e il torrente Giostra. Il progetto generale vede la costruzione di quattro palazzine: la palazzina A con una forma planimetrica a C, una superfice di circa 550 mq e un volume di 7800 mc; due palazzine B e D con pianta ad L, di circa 300 mq di superficie e 5000 mc di volume ed infine una palazzina C ad andamento lineare, di 200 mq e 3200 mc c.a.. Tutti gli edifici si compongono di quattro piani adibiti ad abitazioni coperti a terrazza. La distribuzione degli alloggi avviene attraverso ballatoi aggettanti sul cortile interno, disimpegnati dai vari corpi scala a pozzo (figg. 2, 4). La maggior parte delle unità abitative si compone di un solo vano di 4 x 4,5 m con cucinotto di 1 x 1,5 m ed un servizio igienico di 1 x 1 m; solo negli angoli e in prossimità dei vani scala vengono ricavati alloggi di due vani, con i medesimi servizi degli altri. Gli alloggi previsti sono in tutto 1404.
Fig. 2 Palazzina B, pianta del piano terreno, in APCR, Div. XXIV, p. 1006.
Fig. 3 Palazzina B, pianta delle Fondazioni e dei pilastri, in APCR, Div. XXIV, p. 1006.
I lavori di costruzione, il 22 settembre 1941, furono affidati all’impresa In. M. Campanella e F.lli Caputo e, nel giugno del 1942, viene chiesto dalla ditta appaltatrice l’autorizzazione, poi concessa, per la sostituzione nelle murature del piano terra dei mattoni pieni di laterizio previsti, con blocchetti di conglomerato cementizio magro. Nel luglio dello stesso anno viene concessa anche una proroga alla fine dei lavori, cosicché il termine è stato prorogato al marzo del 1943. Gli eventi bellici portarono ad un’interruzione dei lavori, con le palazzine C e D ultimate al rustico e la palazzina B interrotta alle travi del solaio contro terra. Il 30 gennaio del 1948 l’intero progetto viene rivisto dal punto di vista distributivo; gli alloggi di un solo vano vengono accorpati a formare unità abitative con almeno due stanze e vengono ampliati i cucinotti e i servizi igienici, trasformandoli in piccole sale da bagno (fig.2). Le strutture non subiscono alcuna variazione e si rinuncia alla costruzione dell’edificio A. I documenti conservati illustrano anche le caratteristiche strutturali degli edifici e il modo con cui sono stati verificati “Per ragioni di economia ed anche per considerazioni afferenti alla difesa antiaerea e alla sismicità della zona (1° categoria) si propone la costruzione di edifici a quattro piani, coperti a terrazza, con leggera intelaiatura di cemento armato. Poiché tutti i telai saranno irrigiditi con muri di mattoni pieni o di
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Francesco Pisani Ivi, Relazione 29 luglio 1943; n. b. nella relazione vi è un refuso, il R.D. 16 novembre 1939 n. 2230 “Norme per l’accettazione delle pozzolane dei materiali a comportamento pozzolanico”, mentre si dovrebbe fare riferimento al R.D. 16 novembre 1939 n. 2229 “Norme per l’esecuzione delle opere in conglomerato cementizio semplice o armato”. 6 APCR, Div. XXIV, p. 1006, Pianta delle fondazioni e dei pilastri e Sezione AB. 7 Ivi, Sezione tipo. 5
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blocchi di conglomerato di pomice, si è provveduto alla verifica con mensole incastrate al piede e sono state adottate per i ferri dei pilastri sezioni che consentano sollecitazioni unitarie prossime ai limiti massimi stabiliti dal D.R. 16 novembre 1939/XVIII n. 2230. Le murature saranno di mattoni pieni e malta cementizia al piano terreno e di blocchetti pieni di conglomerato di pomice e malta cementizia ai piani superiori. I solai sono previsti con elementi cavi di conglomerato di pomice, solettine e nervature incrociate di cemento armato”5. Dalle piante delle fondazioni (fig. 3) e dalla sezione trasversale dell’intero edificio6 (fig. 4) riusciamo a capire che le travi rovesce con ali a sezione variabile poggiano su un getto di conglomerato cementizio spesso un metro, ad una profondità di due metri dal solaio del piano terra, composto da un vespaio in pietrame su cui è posata la pavimentazione. Le murature hanno uno spessore che varia dai 45 cm del piano terra ai 40 cm del piano primo, per diminuire al piano secondo a 30 cm e assumere lo spessore di 26 cm al terzo ed ultimo piano. I telai hanno una campata di luce pari a 5,95 m allo spiccato di fondazione e un interasse di 4,30 m, fanno eccezione i corpi scala, dove l’interasse si riduce a 3,15 m e la luce si spezza in due campate di 4,5 m e 3 m c.a. Nell’angolo, per correggere la differenza di ampiezza tra il passo longitudinale e trasversale, viene introdotto un telaio supplementare con un interasse di 1,7 m che va ad allinearsi con la facciata trasversale. Ai fini del nostro studio l’elaborato con maggiori dettagli è la “sezione tipo”7 (fig. 5) dove vengono illustrate le armature in acciaio dei telai e le geometrie di pilastri e travi. In fondazione le travi rovesce nelle ali sono dotate di staffe e reggistaffe ϕ 8 mm, mentre nella porzione centrale i reggistaffe sono 4 ϕ 14 con 3 barre longitudinali sagomate ϕ 18. Tutte le travi in prossimità del nodo aumentano l’altezza della sezione resistente, vengono aggiunti degli spezzoni e raffittite le staffe. Per quelle di fondazione si passa da un’altezza di 70 cm a 100 cm con l’aggiunta di 3 spezzoni ϕ 18. I pilastri del piano terra hanno una sezione di 45 x 45 cm armati con 4 ϕ 22 e staffe ϕ 6 ogni 25 cm, che si raffittiscono ad ogni 20 cm in prossimità dei nodi. Le travi del primo impalcato hanno una sezione di 45 x 45 cm con 4 reggistaffe ϕ 14, 3 barre sagomate ϕ 18 e staffe ϕ 6 ogni 20 cm, che raffittiscono in prossimità dei nodi, dovesi passa da un’altezza di 45 cm a 60 cm con 3 spezzoni ϕ 14. I pilasti del primo piano hanno una sezione di 40 x 40 cm armati con 4 ϕ 18 e staffe ϕ 6 ogni 25 cm. Le travi del secondo impalcato hanno una sezione di 30 x 45 cm con 4 reggistaffe ϕ 14, 2 barre sagomate ϕ 18 e staffe ϕ 6 ogni 25 cm, che raffittiscono in prossimità dei nodi, dove si passa da un’altezza di 45 cm a 70 cm con 2 spezzoni ϕ 14. I pilasti del terzo piano hanno una sezione di 30 x 30 cm armati con 4 ϕ 12 e staffe ϕ 5 ogni 25 cm. Le travi del terzo impalcato hanno una sezione di 20 x 45 cm con 4 reggistaffe ϕ 12, 3 barre longitudinali ϕ 14 nel lembo inferiore e staffe ϕ 6 ogni 25 cm, che raffittiscono in prossimità dei nodi, dove si passa da un’altezza di 45 cm a 60 cm con 2 spezzoni ϕ 12. I pilastri del terzo piano hanno una sezione di 26 x 26 cm armati con 4 ϕ 12 e staffe ϕ 5 ogni 33 cm. Le travi del quarto impalcato hanno una sezione di 20 x 45 cm con 4 reggistaffe ϕ 10, 2 barre sagomate ϕ 12 in zona tesa e staffe ϕ 6 ogni 25 cm, che raffittiscono in prossimità dei nodi, dovesi passa da un’altezza di 45 cm a 55 cm con 2 spezzoni ϕ 10. Le travi di ogni impalcato hanno la medesima sezione e armatura nelle due direzioni, inoltre le barre longitudinali dei pilastri inferiori vengono prolungate per 1m oltre l’estradosso del solaio superiore. Dal contratto di appalto stipulato nel novembre 1949 dall’impresa Sciacca Giovanni, che si assume l’onere di terminare i lavori, riusciamo ad avere anche alcuni dettagli
Fig. 4 Sezione AB (tipo) degli edifici B, C, D, in APCR, Div. XXIV, p. 1006. Fig. 5 Sezione costruttiva (tipo) degli edifici B, C, D, in APCR, Div. XXIV, p. 1006.
inerenti i materiali e le tecnologie utilizzate per la costruzione dell’edificio B; infatti sono riferite indicazioni relative alle “Opere in cemento armato”8 e viene prescritto che “Nella esecuzione di tali opere l’impresa deve attenersi alle norme contenute nel D.R. 16 novembre 1939 n. 2229 e si dovrà utilizzare conglomerato cementizio a dosatura normale”9, che “Il carico di rottura per i conglomerati non dovrà risultare inferiore a 130 kg / cmq”10 ed infine che “I solai saranno formati da solette aventi uno spessore non inferiore a nove centimetri rinforzate da nervature”11; nell’autunno del 1952 i lavori sono conclusi. Con i dati ricavati dall’analisi documentale sopra illustrati, è possibile modellare l’organismo strutturale originario, su cui andranno riportate le modifiche subite dai fabbricati. Infatti nel corso dei quasi sessant’anni trascorsi dall’ultimazione dei lavori, i diversi edifici sono stati modificati, per non dire stravolti (fig. 6), da quei fenomeni di autocostruzione, che hanno visto trasformare in veri e propri vani i terrazzi e ballatoi e persino sopraelevare alcune unità immobiliari degli ultimi piani. Andranno anche valutate le trasformazioni alle aperture esistenti; infatti nella concezione generale della struttura i tamponamenti dovevano irrigidire i telai strutturali. Infine l’indagine documentale sarà utile per decidere dove eseguire i diversi saggi conoscitivi, distruttivi e non, che completino quel percorso della conoscenza, prescritto dalle norme tecniche, premessa indispensabile per un corretto progetto di riabilitazione strutturale e di recupero. La riqualificazione di questo complesso edilizio è fortemente auspicabile, poiché il rione Giostra già afflitto da un forte degrado sociale, può trovare un aiuto in un tessuto edilizio riqualificato che dia un supporto oggettivo alla popolazione insediata.
Ivi, Appalto lavori di costruzione e completamento di case popolari (palazzine B,C,D.) sull’isolato 14a del rione Giostra in Messina. 9 Ibidem. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 8
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Francesco Pisani Fig. 6 Palazzina B vista da piazza S. Matteo allo stato attuale, Messina, Italia.
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Raffaele Pontrandolfi Manuel Castellano Román Jorge Moya Muñoz
Metodologie HBIM e strumenti per l’analisi conoscitiva del patrimonio residenziale moderno nei borghi della riforma agraria in Italia e Spagna. I villaggi rurali di La Martella e Cañada de Agra Raffaele Pontrandolfi
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre.
Manuel Castellano Román
Departamento de Expresión Gráfica Arquitectónica, Universidad de Sevilla.
Jorge Moya Muñoz
Departamento de Expresión Gráfica Arquitectónica, Universidad de Sevilla.
Abstract The topic of the rediscovery and knowledge of the modern architectural heritage, through the aid of digital approaches and methodologies for the survey and documentation of examples of historical-testimonial value, today plays a fundamental role both for the systematization of the historical-documental archival apparatus and for subsequent hypotheses of recovery and regeneration compatible with the original settlement fabrics. In this frame of reference, the public housing settlements built after World War II in Italy and in other Mediterranean countries such as Spain, in relation to the critical reinterpretation both of the functionalist precepts of the modern movement and of the relationship with the vernacular tradition, could take on wide interest. Specifically, the proposed contribution aims to develop cognitive analysis in the comparison of two emblematic cases of Italian and Spanish rural villages. La Martella in Matera and Cañada de Agra near Albacete, built respectively by UNRRA Casas and INC in the middle of the last century in the context of the related agrarian reform policies, represent the focus of the cognitive analysis developed through the use of digital tools and multiscale methodologies related to the field of HBIM. Keywords Heritage Building Information Modeling, edilizia residenziale moderna, rilievo e analisi conoscitive, metodologie e strumenti ICT, recupero e valorizzazione
Metodologie digitali per la sistematizzazione della conoscenza del patrimonio architettonico moderno Il contributo proposto è riferito al tema della conoscenza di esempi di valore storico-testimoniale relativi al patrimonio architettonico moderno residenziale, attraverso la strutturazione e la gestione di apparati informativi digitali atti alla sistematizzazione delle fonti d’archivio e dei rilievi diretti e indiretti dell’esistente, ai fini del-
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Fig. 1 Foto aerea d’epoca del borgo rurale UNRRA Casas La Martella a Matera (in alto) e del pueblo de colonización INC Cañada de Agra ad Hellín (in basso).
la loro valorizzazione e la diffusione culturale. Sviluppare analisi conoscitive con metodologie e strumenti digitali afferenti all’ambito dell’ICT (Information and Communications Technology) – per la sistematizzazione della conoscenza, la valorizzazione e la successiva gestione di esempi emblematici del patrimonio architettonico moderno – riveste oggi un ruolo di fondamentale importanza, sia dal punto di vista della loro riscoperta e divulgazione, sia dal punto di vista delle possibili strategie di recupero e riqualificazione dei tessuti insediativi esistenti (Volk et al., 2014). L’utilizzo di queste tecnologie digitali, in particolare i sistemi GIS (Geographic Information System) e BIM (Building Information Modeling), possono dunque svolgere un duplice compito: da un lato la sistematizzazione delle fonti storiche e documentali d’archivio, spesso tra loro eterogenee, in un database olistico e implementabile per la conoscenza e la divulgazione scientifica di questi esempi di valore storico-testimoniale; dall’altro fornire strumenti utili per sviluppare ipotesi e strategie per il recupero e la valorizzazione di questi insediamenti (Vacca et al., 2018; Gigliarelli et al., 2019). Un tale approccio, rispetto ai metodi conoscitivi tradizionali, consente di generare nello specifico un differente e distinto tipo di conoscenza: da un lato la sistematizzazione dei dati e delle informazioni reperibili sui tessuti insediativi esistenti, per valutarne la loro evoluzione storica e le successive addizioni o espansioni; dall’altro lo sviluppo di modelli digitali permette di generare analisi conoscitive, attraverso l’interpolazione dei suddetti dati raccolti, capaci di individuare relazioni, a scala urbanistica e architettonica, non conosciute a priori.
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Raffaele Pontrandolfi Manuel Castellano Román Jorge Moya Muñoz
Approcci integrati e strumenti ICT per la gestione degli insediamenti residenziali Le tecnologie GIS e BIM rivestono un ruolo decisivo per quanto concerne la sistematizzazione della conoscenza alla base di possibili strategie di recupero urbano ed edilizio costituendo un ambito d’indagine attualmente in continuo sviluppo. Tali approcci e strumenti informatici sono caratterizzati però da evidenti analogie e da altrettante differenze alla base del loro impiego e diffusione (Matrone et al., 2019). Pur nascendo in differenti momenti e con differenti finalità, i due sistemi si basano entrambi sul concetto di ‘informazione’ e sono accomunati dalla connessione di un database geometrico-semantico riferito ad una rappresentazione di entità geometriche: nel GIS punti, linee e poligoni; nel BIM gli oggetti parametrici. Tale differenza nella digitalizzazione, sviluppo e gestione delle ‘informazioni’ è relativa soprattutto al differente approccio alla base dei due sistemi in esame, alle diverse finalità e scale d’intervento, alla differente tipologia di utenza. In particolare, la gestione del flusso delle informazioni geometriche e degli attributi (metadati) tra le due tecnologie analizzate differisce in funzione anche del diverso grado di dettaglio raggiungibile e dell’implementazione dei rispettivi modelli semantici di riferimento (Dore, Murphy, 2012; Vacca et al., 2018). Mentre infatti il GIS, impiegato già da diversi decenni, nasce e si sviluppa principalmente per la gestione dell’esistente attraverso una rappresentazione prevalentemente bidimensionale e successivamente una restituzione in tre dimensioni, il BIM invece nasce negli ultimi dieci anni e si sviluppa per la gestione dei processi edilizi alla base delle nuove costruzioni attraverso una rappresentazione parametrica tridimensionale, con differenti gradi di dettaglio e sviluppo dei modelli infografici (Eastman et al., 2008; Chiabrando et al., 2016). Inoltre, mentre i sistemi GIS consentono una maggiore gestione e implementazione degli attributi non geometrici a discapito di una minore precisione e sviluppo in dettaglio dei modelli geometrici, le tecnologie BIM permettono una maggiore elaborazione geometrica, mediante l’ausilio dei diversi LOD (Level Of Development), riscontrando invece maggiori difficoltà nella gestione dei parametri ed attributi informativi non riferiti alle geometrie. Recenti ricerche e studi di settore hanno evidenziato la possibile integrazione ed interoperabilità tra le due tecnologie, in funzione soprattutto della sistematizzazione delle fonti documentali d’archivio e delle analisi a differenti scale d’intervento degli insediamenti esistenti (Dore, Murphy, 2012; Barazzetti, Banfi, 2017). L’ambito di riferimento: i borghi rurali della riforma agraria in Italia e Spagna a metà del XX secolo In relazione agli obiettivi della ricerca, la scelta dell’ambito d’indagine è circoscritto nello specifico ad alcuni esempi di valore storico-testimoniale presenti tra gli insediamenti rurali italiani e spagnoli realizzati a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, a seguito delle rispettive politiche di riforma agraria. Mentre già sono stati evidenziati i molteplici riferimenti diretti esistenti tra l’opera di colonizzazione agraria dell’ONC (Opera Nazionale Combattenti), nella bonifica integrale del Ventennio fascista, e la successiva politica colonizzatrice iberica del regime franchista (De Nito, 2000; Rabasco, 2011), ancora pochi studi di settore hanno mostrato le diverse relazioni presenti tra gli insediamenti rurali di entrambi i paesi nel corso del secondo dopoguerra (Calzada Pérez, 2006; Tordesillas et al., 2010; Basiricò, 2018). L’interesse per questi nuclei residenziali extraurbani – costruiti rispettivamente dall’UNRRA Casas e dall’Ente Riforma Fondiaria di ciascuna regione, in Italia, e dall’INC (Instituto Nacional
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de Colonización) e dall’INV (Instituto Nacional de Vivienda), in Spagna – nasce soprattutto dalla loro similare ricerca nella rilettura critica dei precetti funzionalisti del modernismo anteguerra in chiave locale e vernacolare, nel comune riferimento ai modelli anglosassoni di città giardino e nelle reciproche influenze e relazioni intercorse tra i due paesi nell’ambito del dibattito architettonico europeo sulle nuove tipologie insediative e sul loro rapporto col contesto, preponderante in particolare negli ultimi CIAM dal 1951 (nascita del TEAM X) fino all’ultimo di Otterlo nel 1959. Allo stesso tempo è interessante rintracciare anche rapporti e contatti diretti tra gli ingegneri agronomi di entrambi i paesi nell’ambito delle rispettive riforme agrarie. Gomez Ayau e Alejandro de Torrejòn ebbero certamente contatti con Nallo Mazzocchi Alemanni e altri colleghi italiani (Calzada Pérez, 2006). Nei due casi però, le ricerche di una pianificazione su scala territoriale coniugata con la sperimentazione di nuovi nuclei rurali in riferimento ai modelli insediativi di tipo concentrato o diffuso, porteranno a differenti risultati, conseguenza dei diversi ambiti politici, culturali e socio-economici di riferimento (Basiricò, 2018). Nello specifico, i borghi rurali italiani come La Martella (1951-53) e Venusio (1954-57) a Matera, Orto Novo (1950-51) a Cutro, Porto Conte (1953-55) in Sardegna e i borghi del Fucino (1952-56) in Abruzzo sono tra gli esempi più emblematici di questa breve e circoscritta stagione di riforma agraria, durata poco più di un decennio. I pueblos de colonización iberici, invece, realizzati a seguito della politica propagandistica del regime franchista nell’arco di quasi quarant’anni, rientrano in un’opera di appoderamento agrario e di infrastrutturazione a livello territoriale, secondo una struttura amministrativa di tipo gerarchico. Vegaviana (1954-59) e La Bazana (1954) in Extremadura, Esquivel (1952-55), La Vereda (1963) e Miraelrio (1964) in Andalusia, San Isidro de Albatera (1953-56) e El Realengo (1957) ad Alicante, Cañada de Agra (1959-62) ad Albacete costituiscono solo alcuni esempi di valore dei circa trecento insediamenti rurali realizzati nel corso di circa quattro decadi. I casi di studio: il villaggio Unrra Casas La Martella a Matera e il Pueblo Inc Cañada de Agra ad Albacete In questa cornice storica di riferimento, il lavoro di ricerca in corso d’opera è finalizzato alla comparazione dei due casi studio scelti: il borgo rurale UNRRA Casas La Martella a Matera e il pueblo de colonización dell’INC, Cañada de Agra, in provincia di Albacete (fig. 1), attraverso la messa a punto di analisi conoscitive mediante l’ausilio di modelli digitali multiscalari HBIM (Heritage Building Information Modeling). La scelta di questi due insediamenti, di riconosciuto valore storico-testimoniale a livello europeo, nasce soprattutto dal considerare in entrambi i casi la forte relazione esistente tra paesaggio e spazio urbano costruito in riferimento alle comuni influenze dell’architettura organica di matrice anglosassone rilette in chiave locale (Centellas Soler, 2010; Tordesillas et al., 2010). Il villaggio italiano, nato a seguito dello sfollamento degli abitanti dai Sassi al principio degli anni Cinquanta del secolo scorso, promosso dall’intellettuale Adriano Olivetti e inserito all’interno del Piano generale di bonifica e trasformazione fondiaria della Media valle del Bradano redatto tra il 1949 e il 1955 dal prof. Nallo Mazzocchi Alemanni, ha costituito il primo modello di riferimento per le politiche di riforma agraria su scala nazionale (Talamona, 2001; Raguso, 2010). Dopo un incarico iniziale affidato all’architetto materano Ettore Stella, prematuramente deceduto, il progetto venne delegato ad un gruppo di architetti del Centro Studi per l’Abitazio-
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ne, guidato da Ludovico Quaroni, la maggior parte dei quali – Federico Gorio, Michele Valori, Piero Maria Lugli – aveva preso parte pochi anni prima all’esperienza d progettazione del quartiere neorealista del Tiburtino a Roma (Bilò, Vadini, 2013). A differenza però del precedente esperimento urbano capitolino, caratterizzato da un uso sovrabbondante di ricorsi linguistici pseudo vernacolari e da un’eccessiva ‘partecipazione’ da parte degli stessi progettisti nelle scelte urbanistiche e tipologiche, nel caso materano il collettivo incaricato cerca invece di relazionare il nuovo insediamento al territorio attraverso un rapporto simbiotico con i bisogni dei futuri abitanti, mediante uno stile sobrio e asciutto (Raguso, 2010). Nel nuovo borgo trovano così spazio, oltre alle aggregazioni residenziali destinate ai contadini e agli artigiani, una chiesa, un centro civico, servizi collettivi (forno comune, ufficio postale, ambulatorio medico, caserma dei carabinieri, due edifici scolastici, un cineteatro ecc.). L’insediamento fu realizzato dall’UNRRA Casas in collaborazione con l’Ente Riforma Fondiaria. Le forti divergenze di approccio tra i due enti promotori, unite ai cambiamenti socioeconomici, portarono però al non completamento e al progressivo abbandono del borgo (Gorio, 1954; Raguso, 2010; Bilò, Vadini, 2013). Il caso di studio iberico – progettato nei pressi del canale di Hellín ubicato nella Sierra de los Donceles, regione di Castilla-La Mancha, dall’architetto José Luis Fernández del Amo al principio degli anni Sessanta – si inserisce invece nell’ampia e sistematica strategia colonizzatrice del territorio rurale spagnolo promossa dall’INC nella fase di apertura internazionale, seguente a quella dell’autarchia. Si decise, secondo la prassi del programma dell’Istituto, di costruire in questo territorio tre nuovi nuclei rurali – Nava de Campana, Cañada de Agra e Mingogil – a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro. Dei tre insediamenti realizzati, certamente quello di Cañada de Agra costituisce il più interessante e di maggior valore architettonico e urbano (Cordero Ampuero, Gutiérrez Mozo, 2020). L’uso infatti di un linguaggio sobrio che mira alla rilettura delle tipologie edilizie tradizionali, unito ad una pianificazione attenta degli spazi pubblici e della struttura viaria, risulta essere un’evoluzione del modello d’insediamento del celebre pueblo di Vegaviana, di poco antecedente, nonché dell’iniziale progetto non realizzato del villaggio di Torre de Salinas (1951) vicino Toledo (Fernández del Amo, Centellas Soler, 2015). A differenza di tutti i dodici insediamenti costruiti per conto dell’INC durante la sua ventennale permanenza, l’architetto madrileno adotta in Cañada de Agra delle precise scelte stilistiche in relazione al contesto paesaggistico. Vengono eliminati tutti i rivestimenti d’intonaco bianco in favore di un’esibizione reale dei materiali impiegati. Questo processo di astrazione formale, unito all’integrazione tra il tessuto insediativo e la topografia, hanno rappresentato gli elementi più importanti per dichiarare il pueblo come Bene d’Interesse Culturale (BIC) nel 2015 e per inserirlo nel registro iberico DoCoMoMo dell’edilizia moderna. Analisi comparative degli insediamenti Nonostante la differente ubicazione geografica e gestazione realizzativa dei due esempi scelti, sono diversi gli elementi e gli spunti di comparazione possibili tra gli insediamenti oggetto della ricerca. Innanzitutto per quanto concerne l’estensione dei rispettivi tessuti insediativi originari: circa 275.000 mq. per La Martella e circa 250.000 mq. per Cañada de Agra. Elemento interessante, oggetto principale dell’analisi comparativa svolta, è certamente il rapporto tra le differenti tipologie abitative previste in origine. Quattro tipi per contadini, uno per artigiani e tre per operai nel
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Fig. 2 Analisi comparative di una tipologia residenziale destinata in origine ai contadini con relativo annesso agricolo nel borgo rurale La Martella (2a) e nel pueblo di Cañada de Agra (2b).
caso spagnolo; undici varianti tipologiche per contadini ed una per artigiani nel caso italiano. Relativamente agli annessi agricoli e alle stalle, nel borgo materano si riscontra la presenza di locali interconnessi con le residenze contadine, seppur da esse funzionalmente separate per motivi igienici (Gorio, 1954; Raguso, 2010). Nel caso spagnolo, invece, le singole abitazioni sono nettamente distinte e separate dai rispettivi locali adibiti a deposito e ricovero del bestiame, ubicati ad una quota differente (Fernández Del Amo, 1967). Inoltre si evidenzia una differenza relativa alla superficie utile per le differenti destinazioni d’uso. Nel caso del borgo materano l’edificio abitativo è di circa 115 mq. e l’annesso agricolo di circa 80 mq.; nel villaggio iberico, invece, la tipologia residenziale è mediamente di 90 mq. e il deposito di 100 mq (fig. 2). Un altro aspetto è costituito dalla differente dimensione della parcella tipo tra i due insediamenti (circa 800 mq. nel caso studio italiano e circa 300 mq. nel caso spagnolo), in riferimento anche alle diverse politiche di colonizzazione della terra (tutti gli insediamenti dell’INC erano basati sulla parcella tipo e sul ‘modulo carro’ di 2 km di distanza tra terre coltivate e residenze). Importanti analogie e differenze sono inoltre riscontrabili nelle tipologie edilizie impiegate, nel linguaggio architettonico e nell’uso dei materiali. Elemento comune ad entrambi è sicuramente l’articolazione organica degli insediamenti con la separazione del traffico carrabile e pedonale, così come la presenza di servizi e attrezzature ad uso collettivo e di spazi pubblici di pertinenza (chiesa, centro civico, scuole, ambulatorio medico ecc.). La gestione del processo informativo dell’edilizia originaria: il modello digitale integrato BIM A partire dalle analisi conoscitive sull’esistente, i rilievi diretti e indiretti e la loro successiva restituzione digitale in ambiente cad 2D, le fonti d’archivio e la documentazione fotografica reperita, si è proceduto allo sviluppo dei rispettivi modelli informa-
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tivi su piattaforma BIM Autodesk Revit. Il processo gerarchico del sistema, alla base di questa metodologia proposta, ha previsto l’uso di regole interne ai modelli e una strutturazione del database 3D semantico olistico ai fini della sintesi conoscitiva proposta. A partire da uno strato informativo generale (‘master’), realizzato attraverso un sistema di coordinate condivise, di livelli e griglie di riferimento in un apposito file template (.rte), è stato possibile collegare e visualizzare, separatamente o simultaneamente, i diversi modelli informativi locali predisposti in relazione ai differenti livelli di riferimento e al rispettivo grado di sviluppo delle informazioni (i LOD). Tale processo informativo è stato sviluppato attraverso una metodologia di ‘disarticolazione architettonica’ e ‘ricostruzione digitale’ (Norma UNI 8290: Classificazione e scomposizione del sistema edilizio). Lo sviluppo dei modelli è stato realizzato attraverso la predisposizione di apposite librerie di oggetti parametrici (le ‘famiglie’) in una successione gerarchica (di ‘tipo’ e di ‘istanza’) finalizzata alla descrizione semantica e geometrica dei principali elementi del lessico architettonico nei due casi studio scelti. Metodologie multiscalari: dal sistema insediativo, agli aggregati urbani, al singolo manufatto edilizio I differenti livelli informativi, in corso di definizione ed elaborazione, sono riferiti a due tipologie edilizie destinate in origine ai contadini. Il primo strato informativo generale di sintesi conoscitiva (livello 0) è riferito all’ambito della pianificazione a scala territoriale (Piano Regolatore Generale o varianti di esso ecc.), caratterizzato da un livello di sviluppo delle informazioni definito dal LOD A (UNI 11337: 2017 – Gestione digitale dei processi informativi delle costruzioni) attraverso la predisposizione di un contenitore di informazioni georeferenziate nel quale poter collegare i rispettivi modelli, separatamente o contemporaneamente. Il secondo strato di questa gerarchia di sistema (livello 1, LOD B) è relativo al tessuto insediativo urbano (scala macrourbana) o a parte di esso, ascrivibile all’ambito della pianificazione urbana di dettaglio (ad esempio il piano particolareggiato), nel quale si prevede l’inserimento e la gestione dei metadali (modelli non geometrici) attraverso l’uso dello strumento ‘massa concettuale’ e successive interrogazioni mirate attraverso apposite schede tematiche, filtri di visualizzazioni (2D e 3D) e set di parametri condivisi. Oltre alla modellazione basica delle distinte masse edilizie, viene introdotto il contesto topografico semplificato attraverso un apposito strumento presente nell’ambiente digitale. In questo primo livello gerarchico è possibile finalizzare alcune analisi insediative in riferimento ad esempio all’evoluzione storica dei singoli nuclei rurali o allo stato manutentivo degli edifici presenti. Il terzo strato (livello 2, LOD C), riferito alla scala degli isolati ed aggregati urbani (scala microurbana) e all’ambito d’intervento della progettazione/restauro urbano (ad esempio il Piano di Recupero Urbano ecc.), prevede l’introduzione delle librerie di oggetti parametrici di base (muro, solaio, aperture, copertura ecc.) per identificare i principali elementi tipologici presenti, contraddistinti da un’apposita etichetta, e approntare analisi estimative generali. Questo livello intermedio consente ad esempio di approntare analisi inerenti la scala dei comparti urbani, attraverso l’introduzione di un possibile secondo livello topografico più definito e relazionato agli elementi parametrici di base. L’ultimo strato previsto (livello 3, LOD D) è riferito al singolo manufatto edilizio (scala architettonica) e all’ambito della progettazione/restauro esecutivo dell’intero edificio o di una sua parte, attraverso l’implementazione e sviluppo delle componenti parametriche precedentemente introdotte, ai fini della sistematizzazio-
Fig. 3 Il sistema informativo multiscalare alla base del processo di gestione digitale proposto. Lo strato ‘generale’ di sintesi conoscitiva (A); il primo livello ‘macrourbano’ (B); il secondo livello ‘microurbano’ (C); il terzo livello ‘architettonico’ (D). Fig. 4 Il lavoro di ricerca proposto in corso di sviluppo. I modelli digitali ‘macrourbani’ (B) e ‘microurbani’ (C) delle residenze per contadini con annesso agricolo del borgo rurale La Martella (4a) e del pueblo di Cañada de Agra (4b).
ne delle informazioni in apposite schede tecniche digitali. Quest’ultimo livello gerarchico consente infine lo sviluppo in dettaglio dei singoli elementi architettonici, attraverso una quantificazione specifica ed una caratterizzazione costruttiva e materica. Conclusioni e prospettive di ricerca: il rilievo e la conoscenza per il recupero dei caratteri tipologici e urbani degli insediamenti il presente lavoro di ricerca, ancora in corso, è frutto di una collaborazione tra una tesi di dottorato in Architettura: innovazione e patrimonio del Dipartimento di Architettura dell’Università di Roma Tre e il gruppo d’indagine PAI/HUM 799 (Estrategias de Conocimiento Patrimonial) dell’ETSA dell’Universidad de Sevilla. Tale indagine ha consentito la messa a punto e l’elaborazione di un workflow integrato attraverso cui sviluppare metodologie finalizzate alla digitalizzazione del patrimonio architettonico esistente e allo sviluppo di un duplice tipo di conoscenza ai fini della valorizzazione degli insediamenti. La metodologia informativa precedentemente esposta ha permesso una strutturazione della conoscenza attraverso analisi mirate sul patrimonio architettonico esistente, mediante la messa a punto di un workflow integrato e costantemente aggiornabile (fig. 3). A partire dal reperimento delle fonti documentali d’archivio, spesso tra loro eterogenee e contraddittorie, si è proceduto ad analisi dirette ed indirette sull’edilizia originaria degli attuali insediamenti in esame, attraverso un processo di restituzione digitale, finalizzato alla costruzione di un primo livello conoscitivo relativo all’evoluzione insediativa e allo stato di fatto dell’edilizia origi-
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naria presente (Volk et al., 2014; Gigliarelli et al., 2019). Si è successivamente proceduto ad un’analisi mirata del tessuto urbano e residenziale attraverso la predisposizione di appositi modelli informativi georeferenziati in ambiente GIS (software ArcGIS) per l’elaborazione dei dati precedentemente reperiti attraverso mappature e queries mirate sul tessuto insediativo esistente. In una seconda fase di ricerca, ancora in atto, si è proceduto allo sviluppo dei modelli informativi, sia a scala urbana che a scala architettonica. Attualmente sono stati predisposti e sviluppati per entrambi gli insediamenti i primi due livelli di analisi, attraverso la messa a punto dei rispettivi modelli informativi ‘macrourbano’ e ‘microurbano’ (fig. 4). In particolare, la predisposizione di strati semantici – attraverso un’apposita gerarchia di sistema all’interno di un database olistico ed implementabile nel tempo – consentirà da una parte una conoscenza più strutturata dell’evoluzione dei casi di studio analizzati e, dall’altra, permetterà lo sviluppo di azioni integrate per la riqualificazione e il ripristino dei caratteri tipologici e insediativi di entrambi i nuclei rurali, immaginando scenari compatibili di rigenerazione urbana degli insediamenti anche in funzione delle istanze della popolazione attualmente insediata e della vocazione agraria originaria. Il secondo livello conoscitivo consente di generare un nuovo tipo di conoscenza mediante il quale è possibile indagare relazioni, dal punto di vista urbanistico, territoriale ed architettonico, non conosciute a priori: analisi conoscitive sugli elementi tipologici, morfologici e funzionali dell’edilizia residenziale e dei servizi collettivi. Gli elementi informativi prodotti potranno essere finalizzati anche allo studio delle relazioni tra la struttura insediativa e la topografia: in particolare la geometria dei tracciati urbani originari, i valori paesaggistici del contesto esterno circostante e quelli urbanistici interni ai rispettivi borghi rurali. Bibliografia Barazzetti L., Banfi F., 2017, BIM and GIS: when parametric modeling meets geospatial data, «ISPRS Annals of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences», vol. IV-5/W1, pp. 1-8, < https://doi.org/10.5194/isprs-annals-IV-5-W1-1-2017> (04/17) Basiricò T. 2018, Progetti e costruzioni per la colonizzazione agraria del ‘900. Italia Spagna Portogallo, Aracne, collana “Dal progetto alla costruzione alla città”, Ariccia (RM). Bilò F., Vadini E. (a cura di) 2013, Matera e Adriano Olivetti, Collana Intangibili, Fondazione Adriano Olivetti, Roma. Calzada Pérez M., Pérez Escolano V. 2006, La colonización interior en la España del siglo XX agrónomos y arquitectos en la modernización del medio rural, Unpublished PhD dissertation, Departamento de Historia, Teoría y Composición Arquitectónicas. ETSA, Universidad de Sevilla. Centellas Soler M. 2010, Los pueblos de colonización de Fernández del Amo: arte, arquitectura y urbanismo, Fundación Caja de Arquitectos, Barcelona. Chiabrando F., Sammartano G., Spanó A.T. 2016, Historical Building Models and their handling via 3D survey: from points clouds to user-oriented HBIM, «International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences - ISPRS Archives», vol. XLI-B5, pp. 633-640, <https://doi.org/10.5194/isprs-archives-XLI-B5-633-2016> (02/20). Cordero Ampuero A., Gutiérrez Mozo M.E. (Aprile) 2020, Cañada de Agra, componer con la topografía y el paisaje, «VLC arquitectura», vol. 7, n. 1, pp. 123-143, <https://doi.org/10.4995/vlc.2020.10991> (05/20). De Carlo G. 1954, A proposito di La Martella, «Casabella Continuità», n. 200, pp. 5-8. De Nito L. 2000, L’architettura dei nuevos pueblos di José Luis Fernández del Amo. Fondazioni agrarie in Spagna: 1953-1964, Unpublished PhD dissertation, Dottorato di Ricerca in Progettazione Architet-
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Tecniche edilizie in area romana: il Castello di Bracciano in una perizia del 1803 Nicola Santopuoli
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Cecilia Sodano
Nicola Santopuoli Cecilia Sodano
Settore Museo, Biblioteca, Comune di Bracciano.
Abstract Bracciano’s Orsini Odescalchi castle is an important example of Renaissance stronghold and so it is become is the subject of an agreement among Rome’s Sapienza University, Bracciano’s Administration and its owner, Princess Odescalchi. In particular, the goal of this research is the study of the Castle from an architectural and historical point of view. A historical analysis, based on huge amount of data from Rome’s archives has emphasized some interesting unknown news. In 1803 the dukedom of Bracciano was sold to Marquis Giovanni Torlonia in accordance with a jus redimendi agreement. Sometime later, therefore, it was purchased by Odescalchis again. We are going to analysis the evaluation report of the Castle, since it exhaustively describes the fortress as it was on 31 March 1803. This is a very relevant document gives us not only significant historical data, but also several informations about the building techniques mainly used throughout the Roman area. Keywords Tecniche edilizie, perizia, castello, Odescalchi, Bracciano.
Per lo studio del manufatto è stata stipulata una convenzione tra la facoltà di Architettura, la Scuola di specializzazione in Beni architettonici e del paesaggio della stessa Università, il settore Beni culturali del Comune e la principessa Maria Pace Odescalchi proprietaria del maniero, particolarmente attenta alla sua conservazione e valorizzazione. Responsabili scientifici del progetto sono i due autori.
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Introduzione Il castello Orsini-Odescalchi di Bracciano, situato a circa 40 km da Roma, rappresenta un interessante esempio di palazzo-fortezza, di particolare qualità architettonica ed artistica. Fondato su un nucleo medievale ed ampliato nella seconda metà del XV secolo esso, nonostante i numerosi interventi che vi sono stati realizzati nel corso dei secoli, conserva i caratteri della sua fase rinascimentale e parte delle finiture dello stesso periodo. Il manufatto, visitabile virtualmente utilizzando l’applicazione Google Arts & Culture, è attualmente oggetto di studio da parte dell’Università Sapienza insieme al Comune di Bracciano1 . Storia Il castello ha origine dalla rocca compresa nel castrum di Bracciano, fondato per volontà della famiglia dei Prefetti di Vico all’inizio del XIII secolo su un sito dove era preesistente, fin dalla seconda metà del XII, una torre semaforica, costruita forse dalla prefettura romana per il controllo della via Clodia e del territorio circostante.
Fig. 1 Vista del castello con il centro storico di Bracciano (foto di Stefano Del Giaccio).
Il primo documento che attesta l’esistenza del castrum Brachiani risale al 10 gennaio 12342 . All’interno del castrum, difeso da una cinta muraria, si trovavano la rocca in posizione dominante sulla collina, le due piccole chiese di Santo Stefano e di San Clemente e le residenze dei contadini, distese sul pendio collinare. L’ampliamento della rocca medievale si deve agli Orsini, una delle più potenti ed importanti famiglie di baroni romani, insediatisi nel territorio braccianese nella prima metà del XV secolo. La costruzione ebbe inizio intorno al 1470 per volontà di Napoleone Orsini e fu completata da suo figlio Gentil Virginio intorno al 1490. [1] L’edificio si colloca nell’ambito dell’architettura sistina; alcuni autori, tra i quali gli scriventi, ipotizzano che abbia lavorato a Bracciano Giovannino de Dolci, uno degli architetti di Sisto IV della Rovere (1471-84), papa strettamente legato agli Orsini. [2] Come per i palazzi della Roma sistina si può tuttavia immaginare che il castello di Bracciano non sia opera di un solo artefice, ma che sia piuttosto frutto della collaborazione di molteplici maestranze e che sia Napoleone che suo figlio Gentil Virginio abbiano avuto, in qualità di committenti ed esperti condottieri, un ruolo nella sua concezione e progettazione. Il palazzo, in linea con la più raffinata ed aggiornata cultura del Quattrocento, era improntato alla magnificenza, intesa come la manifestazione dello splendore del signore, che fu un significativo fenomeno del Rinascimento legato al nuovo atteggiamento culturale dell’Umanesimo3 . Il castello di Bracciano doveva mostrare la magnificenza del suo proprietario, celebrare le sue virtù e rendere immediatamente visibile ai visitatori l’identità e lo status della famiglia. [2] Nel 1696 il ducato di Bracciano fu acquistato dalla famiglia Odescalchi, che è ancora oggi proprietaria del castello. Successivi e molteplici interventi furono compiu-
Fig. 2 Castello, pianta del piano terra con la corte d’onore al centro (restituzione ottenuta dalla scansione laser 3D).
Una copia manoscritta del documento, non datata ma ascrivibile al XVII secolo, è conservata presso la biblioteca dell’Università della Californa di Los Angeles (UCLA), che detiene parte dell’archivio della famiglia Orsini. Collcazione: Box 61, Folder 2, S. Pupa (Manziana). 3 Il tema della magnificenza, già affrontato da Aristotele che ne aveva esposto le finalità, fu poi oggetto di alcuni trattati rinascimentali che hanno le radici in un testo di Giovanni Pontano del 1498 intitolato Libri delle virtù sociali. Lo status elitario dell’uomo magnificente si esprimeva attraverso la costruzione di splendidi palazzi e l’acquisto di oggetti di lusso. 2
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Nicola Santopuoli Cecilia Sodano 4 Si tratta di un corposo registro di oltre 350 pagine conservato presso l’Archivio di Stato di Roma, fondo Famiglia Odescalchi, collocazione 9 C 5, n. 2.
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ti sull’edificio nel corso dei secoli; tra questi i più significativi risalgono alla seconda metà del XVI secolo, quando esso fu rinnovato a più riprese per rispondere alle esigenze di Paolo Giordano I Orsini e della sua corte. Alcune stanze furono affrescate da Taddeo Zuccari e furono realizzati, tra gli altri, una galleria per esporre le opere d’arte del signore, uno spazio coperto per il gioco della pallacorda ed un giardino con sculture e giochi d’acqua, purtroppo rimasto incompiuto. Nel marzo del 1803 il principe Livio II Odescalchi, in difficoltà economiche, vendette il feudo braccianese al marchese Giovanni Torlonia con clausola jus redimendi, cioè con la possibilità di riacquistarlo entro cinquant’anni allo stesso prezzo di vendita di 400.000 scudi. Ciò avvenne nel 1848 per volontà di Livio III, che riuscì a ricomprare il feudo grazie alla cospicua dote di sua moglie, la contessa polacca Zofia Katarzyna Branicka. Tra il Settecento e l’Ottocento il castello, per essere adattato alle esigenze dei proprietari, subì pesanti modifiche senza alcun rispetto per i suoi caratteri architettonici e per la materia antica; fu il principe Baldassarre Odescalchi a volerlo riportare alle sue forme originarie. Il restauro, in stile neorinascimentale, iniziò nel 1890 e durò circa sei anni; fu affidato all’architetto Raffaele Ojetti e seguito personalmente dal principe, che dette precise istruzioni per i lavori. L’architetto e don Baldassarre fecero demolire tutte le parti considerate stilisticamente incongrue e, discostandosi dai nuovi orientamenti del restauro che volevano che le aggiunte fossero riconoscibili, fecero in modo che i rifacimenti in stile si uniformassero perfettamente alle parti originali. L’abilità degli artigiani ottocenteschi rende difficile, oggi, riconoscere le parti originali da quelle ricostruite in stile. La perizia del 1803 Nel corso dello studio è emersa una significativa quantità di documenti d’archivio inediti, conservati soprattutto presso la biblioteca dell’Università della California a Los Angeles, presso l’Archivio Storico Capitolino e presso l’Archivio di Stato di Roma, che hanno permesso di delineare con sufficiente chiarezza le fasi costruttive del monumento. Tra questi uno dei più importanti è costituito dalla perizia redatta per la vendita del feudo nel 1803. Il documento, stilato dall’architetto Francesco Belli incaricato dalle due parti contraenti, descrive tutte le fabbriche urbane oggetto della vendita alla data del 31 marzo di quell’anno4. E’ un documento di estremo interesse perché fornisce la minuziosa descrizione di diverse fabbriche di Bracciano dando informazioni sulle tecniche edilizie utilizzate, sul degrado degli edifici e sulle tipologie esistenti. La perizia si pone quindi come significativa fonte di conoscenza del patrimonio edilizio urbano locale, del quale fornisce una sorta di ‘fotografia’ al 1803, dando anche, indirettamente, notizie su alcune delle attività produttive più importanti del luogo, come la lavorazione del ferro. Tra le fabbriche, oltre naturalmente al castello, sono descritte le sei ferriere con le loro macchine ed ‘ordigni’, la mola da grano, la piccola chiesa detta del Riposo, l’osteria, la residenza dell’arciprete, l’edificio dove aveva residenza l’Uditore generale, la Cancelleria e le carceri oltre a molte case d’abitazione che il principe affittava. Tra i fondi rustici sono descritte la chiesa parrocchiale della frazione di Pisciarelli e le varie fattorie del principe come Vigna Orsini, Vigna Grande ed altri. Ci limiteremo qui a considerare la sola parte del documento che descrive il castello e gli edifici di pertinenza, oggetto della nostra ricerca, che consta di oltre cento pagine manoscritte. Lo stile del documento è asciutto e sintetico, tipico delle perizie, con descrizioni ripetitive e standardizzate. Ogni frase è numerata in modo da avere un riferimento preciso per ogni piccolo gruppo di elementi descritti. L’intestazione della perizia è la seguente:
«Descrizione e consegna di tutte le fabbriche esistenti tanto nella città di Bracciano, quanto nei predj rustici dentro il territorio della medesima, quali vengono comprese nella vendita del feudo fatta da Sua Eccellenza il signor Don Livio II Odescalco all’illustrissimo Signor Marchese Giovanni Torlonia, come dall’istromento rogato per gli atti del Sacchi notaro cap(itoli)no in solidum col Derossi notaro a. c., e della Congregazione de Baroni, unitamente al Ruggeri altro notaro a.c. li 15 marzo 1803 e questa descrizione si è fatta da me infrascritto Architetto Perito eletto di commun consenso in virtù dell’articolo ottavo di detto istromento, avvertendosi, che lo stato in cui nell’attuale consegna si sono ritrovate le suddette fabbriche viene distinto col titolo di ottimo, mediocre, e cattivo, intendendo in buon stato tutto ciò che non è con alcuno dei suddetti termini espresso».
Come si vede l’atto di compravendita del feudo braccianese fu rogato anche da un notaio della Congregazione dei Baroni dello Stato pontificio; la transazione era infatti soggetta all’approvazione dell’autorità ecclesiastica, che aveva concesso il beneficio del feudo, ed in particolare di quella Congregazione, istituita da Clemente VIII nel 1596 per tutelare gli interessi dei creditori dei baroni. La Congregazione poteva prendere possesso e mettere all’asta i beni dei baroni morosi, così come era successo nel 1696 quando il feudo passò di proprietà dalla famiglia Orsini alla famiglia Odescalchi. La descrizione ha inizio dal portale in pietra del recinto esterno del castello, dal quale si entra nel grande piazzale situato prima dell’ingresso, oggi mantenuto a prato, chiamato nel documento ‘Piazzone’. Di lì si accedeva al ‘Granarone’, oggi sala per eventi, al giardino che affaccia sul paese e ad un fascinaio non più esistente. Il portico d’ingresso al castello è così descritto:
Fig. 3 Castello, portico d’ingresso nella sua condizione attuale.
«21 Volta parte a botte, e parte a crociera stabilite, con una piccola mancanza nella stabilitura, mura a piombo stabilite con diverse sgrugnature nella stabilitura, sotto l’imposte dell’arco vi sono due colonne di macigno con suoi capitelli intagliati. 22 Il pavimento con lastre di macigno, selciata, e coltellata a spina con lastra al di dentro all’ingresso, quale raccoglie li scoli degli accessorj superiori […] 24 Incontro il portone in angolo vi è il parapetto di macigno in squadra, che racchiude la cisterna con base scorniciata, e due armi scolpite negli specchi con targa e corona col numero 4 spranche di ferro piombate, ed una campanella, segue sopra il suo telaro maestro con fusto ordinario in mediocre stato ferrato con due para di maschietti da tavolato, numero 4 codette a punta impiombate e ribattute, ed a piombo della medesima in alto vi è il modello di Manziana con suo bugo passatore per la ganassa della girella. 25 La medesima cisterna è coperta da volta a botte, è grande quasi come il portico, ripiena sempre di acqua cattiva […] 26 Al vano della cunetta dov’è l’immagine di Maria Santissima vi è il telaro con due sportelli con tavoletta a piedi, fregio, cimase scorniciata non sua ferratella di legno a spigolo vivo con una serratura, e frontespizio traforato, il tutto in mediocre stato. 27 Lapide di marmo bianco murata con iscrizione Elemosina per la Madonna, e telaretto al di dentro con sportello di ferro per prendere l’elemosina proveniente da detta lapide, con serratura e chiave. 28 Incontro il portone d’ingresso vi è un vano di porta, che conduce al primo appartamento nobile, quale si descriverà col medesimo piano.»
La descrizione corrisponde, in parte, al portico attuale, salvo che per la parte riguardante la nicchia della Madonna e per la stabilitura, cioè l’intonacatura, che oggi non c’è più. Il gusto per la pietra a facciavista si diffuse nell’ultimo quarto dell’Ottocento parallelamente alla diffusione delle teorie di John Ruskin; è quindi possibile che l’intonaco sia stato rimosso tra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento. Il documento continua descrivendo tutti gli ambienti del castello, interni ed esterni, con la stessa modalità. E’ interessante notare come l’architetto si dilunghi nella descri-
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zione dettagliata delle ferramenterie degli infissi mentre sorvoli sugli affreschi e le decorazioni pittoriche, anche pregevoli, dedicando loro poche righe e dimenticando addirittura di riportare nella perizia il grande affresco attribuito ad Antoniazzo Romano allora situato sotto l’arco di ingresso al cortile principale, che ancora oggi costituisce una delle opere più importanti del castello. Ciò può essere determinato dal fatto che gli affreschi, diversamente dagli infissi e dalle ferramenterie, non potevano essere facilmente rimossi o sostituiti; vale ricordare che il contratto prevedeva che il castello potesse essere riacquistato dal venditore entro 50 anni e che doveva quindi essere restituito nelle stesse condizioni. Tale modalità, tuttavia, indica anche il poco apprezzamento e la scarsa considerazione che, nell’ambito della compravendita, devono aver avuto le decorazioni pittoriche. Molto interessante è la descrizione del cortile principale, perché dà sostanziali indicazioni sulla pavimentazione e sullo stato di alcuni elementi architettonici prima della loro modifica alla fine dell’Ottocento: tra questi il grande scalone loggiato, che fu sostanzialmente modificato da Ojetti, che vi aggiunse la rampa esterna. La descrizione della scala del 1803 ha fornito alcune informazioni che hanno permesso di ipotizzare la sua originaria conformazione. La perizia descrive, inoltre, le pitture graffite della corte, citate da alcune fonti ottocentesche ma delle quali non vi è più traccia, dando evidenza della loro reale esistenza: «169 Il terzo prospetto incontro l’ingresso principale è ben stabilito con colla, mancante di stabilitura nella quantità di circa canna una, sotto la gronda vi sono quattro pitture graffite in colla istoriate di stile antico, e sopra tre finestre vi sono a chiar’oscuro giallo altre pitture a fresco con figure e trofei, ed a piedi il medesimo prospetto vi sono numero 7 colonne di macigno con base e capitello intagliato, ed altro capitello in angolo in cui non si può vedere se vi sia l’ottava colonna.»
Il fatto che sia descritto un solo ordine di colonne a pian terreno fa ipotizzare che nel 1803 il loggiato superiore fosse stato già murato: in una foto del 1890 il loggiato appare completamente tamponato. E’ ipotizzabile che parte delle decorazioni pittoriche descritte in perizia si trovassero nella porzione di muratura che costituiva la tamponatura del loggiato superiore, eliminata dall’architetto Ojetti nel corso dei restauri del 1890-96. Il documento descrive altre pitture che oggi non esistono più: ad esempio, nella ‘Stanza del tinello grande dove pranza la famiglia’ è descritta una «270 Volta in piano a cameracanna dipinta di buona mano con balaustra in prospettiva di sotto in su con aria ucelli, ed animali, vasi de fiori nei mezzi, e negl’angoli di detta balaustrata numero 4 orzetti a chiar’oscuro, la detta volta è in buona parte crepacciata, sotto la medesima vi è l’imposta reale scorniciata con fregio, e collarino in ottimo stato.»
L’orso (i citati ‘orzetti’) e la rosa a cinque petali che ricorrono in molti elementi architettonici del castello erano i simboli araldici della casa Orsini. Tecniche edilizie Per ragioni di spazio ci limiteremo ad analizzare solo alcuni degli elementi architettonici indicati in perizia, scelti tra di quelli che più frequentemente si ritrovano nell’edilizia di area romana.. Solai lignei In perizia sono descritti orizzontamenti di più tipi: volte a botte, volte a schifo, a schifo lunettate, solai rustici, a regolo, a cassettone, soffitti a cameracanna piani o a volta, soffitti ‘morti’, cioè non portanti. Una significativa parte di essi sono solai in legno, ru-
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Fig. 4 Il cortile d’onore oggi e, a destra, in una foto del 1890; entrambi gli ordini del loggiato appaiono tamponati (immagine tratta dal libro di Sofia Crifò Raffaello Ojetti architetto nei primi cinquant’anni di Roma capitale, Firenze, Pagliai, 2004).
stici o a regolo. Anche i solai dei grandi saloni di rappresentanza sono della tipologia a regolo con trave incamiciata, dipinti con raffinati disegni geometrici che includono i simboli araldici di casa Orsini. La descrizione dei solai lignei data in perizia include sempre il loro stato conservativo e il numero di travi portanti. Solai rustici e solai a regolo sono le due tipologie più diffuse in area romana fin dal Medioevo e conservano caratteristiche pressoché identiche nel tempo; solai a regolo si trovano anche in altri edifici di Bracciano, come ad esempio nell’ex convento agostiniano oggi di proprietà comunale. Le essenze utilizzate per le orditure di sostegno potevano essere castagno, pino o abete. Le tavole potevano essere di essenze diverse: nel braccianese erano in genere utilizzati il castagno, l’albuccio (pioppo), l’olmo, l’abete. Solai rustici Il documento descrive solai rustici solo nei locali di servizio del castello, in genere di piccole dimensioni: sono stanze destinate a cucina, dispensa, corridoio, magazzino o usi vari come ‘stanza ad uso di gallinaro’, ‘stanza della piccionara’; in qualche caso sono utilizzati solai rustici per realizzare piccoli soppalchi (‘panchettoni’). Solai rustici erano anche utilizzati negli appartamenti nobili quando venivano coperti alla vista da volte a cameracanna o da altro tipo di controsoffitti dipinti. Valadier descrive il solaio rustico con orditura di travicelloni rustici, cioè piccole travi che potevano avere spessore variabile (da 15 a 19 cm circa), piallate solo dalla parte superiore perché vi si potesse posare il tavolato in piano. Le tavole venivano addrizzate con la piana sui lati per permettere che nel montaggio battessero perfettamente una all’altra. In alcuni casi, per evitare che, dopo il ritiro del legname in opera, cadessero frammenti di materiale dall’allettamento del mattonato soprastante, le tavole potevano essere battentate, oppure potevano essere posti in opera nella parte inferiore dei regoli a coprire i giunti. Solai a regolo Si tratta di un tipo di solaio a vista con elementi di finitura montati in modo da rendere la struttura in una modalità decorativa. Valadier chiama i solai a regolo ‘Solari a regolo per convento’, intendendo con la parola convento il giunto, che veniva appunto coperto da regoli. A seconda dell’ampiezza della luce il solaio a regolo può essere sostenuto da soli travicelloni o avere una doppia orditura di travi portanti. I travicelli sono squadrati a spigolo così come i regoli, che sono posti alla stessa distanza fra loro secondo la larghezza delle tavole; queste devono essere perfettamente spianate e pulite. In presenza di
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Nicola Santopuoli Cecilia Sodano Fig. 5 Solaio a regolo con trave incamiciata in una delle sale del castello, XV secolo. Fig. 6 A sinistra, solaio rustico, tav. LXXIII; a destra, solaio a regolo, tav. LXXIV. Da G. Valadier, L’architettura pratica dettata nella scuola e cattedra dell’insigne Accademia di San Luca, tomo II, ed. Accademia di San Luca: Roma, 1828-39.
Nel corso della ricerca è stato possibile consultare, nel fondo Orsini conservato nell’archivio Capitolino di Roma, diverse ‘Misure e stime’ riferite a lavori di muratura compiuti al castello tra l’ultimo quarto del XVI secolo e la prima metà del XVII che indicano i tre strati della lavorazione dell’intonaco come ‘raboccatura, ricciatura e colla’. Nel caso di muri già intonacati, essi venivano preventivamente spicconati per eliminare l’intonaco esistente; non sempre era necessaria la rabboccatura.
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«travi maestri che separino l’ambiente della stanza, galleria o altro in più passine, a questi vi dovranno essere applicate le bussole e bastoni». [4] Le sale del castello sono caratterizzate alla presenza di solai a regolo costituiti da un’orditura portante di grosse travi principali incamiciate, cioè coperte con fodere di rivestimento che conferiscono loro un aspetto regolare, collocate su mensoloni lapidei o i lignei finemente decorati, sui quali poggia l’orditura secondaria ortogonale di travicelli con soprastante assito. Nella perizia si parla di solai ‘ingessati’ o ‘ingessati e venati’, perché i delle sale di signorili erano finiti a gesso e dipinti. L’incamiciatura della trave ne evita la rifilatura ma, come osserva anche Valadier, essa non permette di controllare lo stato del legno nel tempo, impedendo di cogliere i segni di un eventuale ammaloramento. Finiture delle superfici verticali Nelle descrizioni degli ambienti interni del castello una parte significativa è rappresentata dalla caratterizzazione delle finiture delle superfici verticali. La perizia riporta le diverse tipologie di finiture distinte per lavorazioni, materiali e stato conservativo, descrivendone anche le forme del degrado come, ad esempio, ‘crepacci’ e ‘pelati, ‘corrusione’, ‘nitrati’, ‘cedimenti’, ‘scampatezza’, ‘rottura’, ‘muri inerbiti’, ‘ripieno di roghi’, ‘getti di fichi’, ‘sgrottato in varie parti’. In alcuni casi sono riportate anche le cause del deterioramento: il perito parla di deflusso delle acque piovane, di gelate, di deposito di materiale incoerente, ecc. Vengono inoltre descritte le opere di messa in sicurezza, evidenziando la presenza di puntellature con saettoni, di tiranti e catene di ferro e segnalando le ‘stabiliture recentemente ristorate’. La gran parte delle murature del castello sono ‘stabilite’, cioè intonacate, e in qualche caso ‘incollate’, ad indicare una finitura con malta più fine. La stabilitura, così come si rileva dai computi metrici relativi ai lavori realizzati nel castello fin dal XVI secolo5, era ordinariamente costituita da tre strati: il rinzaffo o rabboccatura, composto da calce ed inerti a grana grossa quali ghiaie, mattoni in pezzi e sabbia e pozzolana non vagliata; l’arriccio o ricciato, lo strato intermedio con il quale si lisciava lo strato di rinzaffo per avere una superfice piana più regolare, usualmente composto da una parte di calce e da tre parti di pozzolana a grana grossa, ma comunque più fina di quella impiegata per il rinzaffo; e infine la colla, l’ultimo e sottile strato destinato a qualificare esteticamente la superfice con impasto costituito da calce fina, ottenuta dalla cottura di calcari senza impurità quali travertini o marmi, sabbia bianca o polvere di pietra vagliata.
«[…] Quando sarà il muro o volta costruito a secco... si spicconerà ben bene la parete generalmente e si stabilirà in piano o in centina a seconda dell’opera, che sarà da farsi, e si lascerà asciugare; quando sarà così in ordine si prepareranno li ponti, e si darà l’ultima mano di stabilitura, o sia come si chiama in arte di colla, che altro non è che la calce, composta di calce bianca e pozzolana sottilissima.» [5]
In alcuni locali di servizio, come ad esempio le stalle, sono descritte murature rustiche, cioè con pietra a faccia vista, o solo ricciate, cioè finite con uno strato rustico. Le murature ricciate potevano essere ‘grezze’ o ‘ricciate fratazzate’, lavorate cioè con il fratazzo:
Fig. 7 Bracciano, mattonati arrotati e tagliati, XV secolo. A sinistra: mattonato con fascia perimetrale di ottagoni e campo centrale a scacchiera. A destra: mattonato con campo centrale di mattoni bicromi. Fig. 8 Bracciano, il mattonato con decorazione ottagona.
«[…] un attrezzo di legno chiamato il fratazzo col quale si spiana la stabilitura e si appareggia appresso le fasce o siano guide che sulle pareti si fanno col ‘filo e regolo’, e serve ancora per lasciare le stabiliture rustiche, ma bene spianate e strette, quando col fratazzo si ripassano con dell’acqua a stabilitura alquanto insodata; per cui si chiamano stabiliture fratazzate, e, quando le pareti si vogliono incollare, asciutta alquanto la stabilitura fratazzata col medesimo fratazzo attaccata la colla colla cucchiara, si stende e si pareggia ripassandola più volte, e finalmente con una cucchiara ben pulita si dà l’ultima spianata ripassandola ed incrociando le passate.». [6]
Pavimentazioni Le caratteristiche delle pavimentazioni sono puntualmente riportate per tutti gli ambienti interni ed esterni del castello. È interessante osservare come dalla descrizione emergano sintetiche ed efficaci valutazioni a proposito di molteplici aspetti, come lo stato conservativo, il montaggio e la lavorazione degli elementi, la presenza di decorazioni, l’utilizzo di lavorazioni particolari come il ‘coccio pisto’ incollato e lavorato in pendenza. Pavimentazioni esterne Gli spazi esterni del castello erano caratterizzati da diverse tipologie di pavimentazioni. Vi si trovavano, in particolare: pavimentazioni in lastre di macigno, realizzate con la tipica pietra grigia locale; coltellate di mattoni, quasi sempre ‘a spina’; selciate ‘ordinaria’ o ‘bastardona’, a seconda della dimensione dei selci. Il selciato e le coltellate di mattoni erano in qualche caso rifinite con guide di materiale lapideo; selciato con guide di macigno era, ad esempio il grande cortile centrale. Lastre di macigno sono descritte all’interno della grande cucina che affaccia sul cortile, dove ancora si trovano: lì venivano uccisi i piccoli animali o portati grandi pezzi di animali da cucinare e veniva usata l’acqua: la pavimentazione, leggermente in pendenza, permetteva il deflusso dei liquidi ed una facile pulizia. Sono poi descritti nel documento vari tipi di astricato: a breccia, di ‘coccio pisto’, irregolare ripreso in sassi e calcinacci. L’astrico, o astricato, era un massetto di malta magra che poteva essere costituito di detriti, pietre, cocci, cretoni e sabbia, con spessore da 4 a 7 cm, ed era ordinariamente
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utilizzato come sottofondo alle pavimentazioni, posato sul riempimento delle volte o sui solai in legno. In questo caso, steso su un sottile strato di sabbia o di paglia, isolava le assi dall’azione corrosiva della calce dello strato superiore e assorbiva gli effetti delle deformazioni elastiche e plastiche dei solai lignei. Composto di inerti via via più sottili dal basso verso l’alto, veniva poi ragguagliato con uno strato di circa 2 cm di malta più fina, che costituiva il vero e proprio allettamento della pavimentazione. Esso, ben assestato, costipato ed incollato, cioè ricoperto da uno strato di conglomerato più fino, poteva costituire da solo la pavimentazione dei locali di servizio, come ad esempio la ‘stanza della piccionara’. Un particolare tipo di astrico era quello in coccio pesto, realizzato cioè con calce, frammenti e polvere di mattone; esso, per le sue caratteristiche impermeabilizzanti, veniva utilizzato nelle cisterne, negli spazi esterni con opportune pendenze o nei locali a piano terreno. Pavimentazioni interne Le stanze del castello erano pavimentate con mattonati di vario tipo: mattonato ordinario, mattonato rotato, mattonato a tutto taglio o rotato e tagliato. La pavimentazione era posata su astrico o letto di calce. Il mattonato ordinario era realizzato con pianelle o con mattoni ordinari (27,9 x 14 x 3,7 cm ca.), che venivano in genere arrotati a secco alla fornace sulla costa e sulla faccia a vista. Il mattonato arrotato poteva essere realizzato con mattoni ordinari, mattoni grossi o mattoni quadri; l’arrotatura era fatta in opera strofinando i mattoni con un altro mattone, interponendo rena ben bagnata. I giunti venivano stuccati. Il mattonato arrotato e tagliato era quello più pregiato. I mattoni erano ‘capati’, cioè venivano scelti tra quelli di qualità migliore, arrotati fuori opera, segnati con una punta metallica e poi tagliati con la martellina secondo la forma del modine, uno stampo metallico che poteva avere forme diverse: triangolo, ovale, losanga, esagono ecc. Le coste del mattone venivano tagliate in modo da ottenere una sezione tronco piramidale, che permetteva l’accostamento perfetto dei giunti e rendeva quasi invisibile la stuccatura, realizzata con polvere di mattone. La pavimentazione veniva arrotata in opera con il procedimento descritto sopra o mediante orsatura: dopo che il pavimento aveva fatto presa si strofinava sulla sua superficie, con acqua e sabbia, un attrezzo chiamato ‘orso’, che levigava perfettamente la superficie turandone i pori. Gli ammattonati potevano essere poi trattati con sostanze grasse, tipo olio di lino, per lucidarli e per aumentarne l’impermeabilità. [7] Uno dei mattonati più belli del castello è realizzato con mattoni quadri della dimensione di circa 12x12 cm e riporta al centro una decorazione ottagona. In perizia è descritto, al n. 212, come «mattonato rotato, e tagliato a quadrelli con fascia doppia all’intorno, e nel mezzo a figura ottagona.» Conclusioni Bracciano si trova circa a metà strada tra Roma e Viterbo, uno dei centri più importanti della Tuscia romana. La zona della Tuscia e l’area romana sono state storicamente caratterizzate dall’uso di tecniche edilizie in parte diverse, che sono andate definendosi in epoca medievale. Bracciano, contesa nel XIV secolo tra i Di Vico e il comune capitolino che la rivendicava parte del suo Districtus urbis, si trova al limite dell’area di influenza tra le due zone.
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Lo studio del castello ha evidenziato come la costruzione della rocca del castrum medievale sia stata realizzata, nel XIII secolo, con materiali e tecniche edilizie tipici della Tuscia. Ciò perché chi la fece costruire, la potente famiglia dei Prefetti di Vico, era radicata nell’area a nord del Lazio, il Patrimonio di San Pietro in Tuscia, dove aveva i suoi feudi ed i suoi interessi, e di lì fece venire sia le maestranze che il materiale da costruzione. Le residenze del castrum tuttavia, costruite negli stessi anni della rocca ad opera della popolazione insediata, mostrano murature a tufelli tipiche dell’area romana, indicando che gli insediati provenivano dai centri limitrofi o dall’agro romano e non dalla Tuscia. Gli Orsini, che vennero in possesso del feudo di Bracciano nel XV secolo, erano legati alla corte papale ed avevano a Roma il centro dei propri interessi. Per questo per la costruzione rinascimentale del castello sono state usate tecniche edilizie tipiche dell’area romana, confermate dalla perizia del 1803: solai a regolo, muri stabiliti, finestre ‘crociate’ di macigno, infissi ‘alla gesuita’, pavimenti selciati eccetera, segno della diretta influenza di Roma sul luogo. Lo studio di questo importante documento si è rivelato sostanziale non solo per la puntuale descrizione delle tecniche edilizie ma anche perché, raccontando lo stato del castello prima dei restauri ottocenteschi e, quindi, prima delle ricostruzioni in stile e dando testimonianza di parti delle quali oggi non rimane altra traccia, ha contribuito significativamente alla sua conoscenza, che potrà costituire una importante base per la sua corretta conservazione e per la sua valorizzazione. Riferimenti [1] Borsari, L. Ojetti, R., Il castello di Bracciano. Guida storico artistica, Roma, Stab. Tipografico Pe-
rino, 1895. [2] Alei, P. Grossman, M., Building Family Identity. The Orsini Castle of Bracciano from Fiefdom to
Duchy (1470-1698), Bern (CH), Peter Lang, 2019. [3] Sodano, C. Castello Orsini Odescalchi di Bracciano. Progetto di ricerca e prime ipotesi inter-
pretative, in «Recupero e Conservazione Magazine», 2017, 143 settembre-ottobre, pp. 15-26 e 144 novembre-dicembre 2017, pp. 24-35. [4] Valadier, G. L’architettura pratica dettata nella scuola e cattedra dell’insigne Accademia di San
Luca, tomo II, Roma, ed. Accademia di San Luca, 1828-39, pp. 54-67. [5] Ivi, tomo V, pp. 3-18. [6] Ivi, tomo III, pp. 153. [7] Marconi, P. Giovannetti, F. Pallottino, E. (diretto da), Manuale del Recupero del Comune di Ro-
ma, Roma, Edizioni DEI, Tipografia del Genio civile, 1989. [8] C. Sodano, Dal castrum al palazzo: storia e sviluppi del castello di Bracciano tra Medioevo e Ri-
nascimento [tesi di dottorato]. Roma, Università Sapienza, 2020.
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Rilievo digitale per la costruzione della memoria. Insediamenti rupestri. I Caforchi di S. Elia il Giovane a Seminara Francesco Stilo
Francesco Stilo
Dipartimento di Architettura e Territorio, Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria.
Abstract This document refers to a study experience carried out on a rock settlement of probable hermitic character, located in a narrow valley of Monte S. Elia, in the municipality of Seminara (RC). Of probable Byzantine origin, it does not appear that scientific investigations of the site have been conducted to date. The intervention is focused on the restoration of a memory that today appears rather rarefied and referable only to the interest of some hikers and some attentive citizens. The tools of the architectural survey lead the investigation, integrated through historical references and interpretative hypotheses of what has been observed. The place has a discreet charm, and an aura of mystery, fueled by the presence of suggestive graffiti, envelops the space. The observer can see between the abundant and green vegetation, the signs of a distant and forgotten presence, characterized by detachment and a strong asceticism. Keywords Bizantini, ipogei, rupestrian settlements, Seminara, Calabria.
Introduzione La memoria è un elemento fragile e imprevedibile: ciò che era solida presenza svanisce, ciò che appare perduto, a tratti, riemerge senza ragione dall’abisso. Questa investigazione si apre allora con una leggenda, tramandata oralmente, ultima reminiscenza di un ricordo popolare collettivo su di un luogo dimenticato, accolta adesso tra queste righe per scongiurarne un definitivo ed inesorabile oblio. Con l’intento di gettare luce su di un sito misterioso, affascinante, e poco indagato, si fa proprio ogni prezioso indizio, nella ricerca di un’inafferrabile verità che si nasconde in una stretta e suggestiva insenatura della Calabria meridionale, in un tempo a cavallo tra il primo ed il secondo millennio, quando schiere di santi eremiti popolavano le spelonche di quel lembo meridionale della penisola per mezzo secolo terra di Bisanzio (Musolino, 2002). Percorrendo un antico sentiero che dal centro abitato di Seminara conduce alla valle dei Caforchi, in uno tra i tanti e bellissimi boschi popolati da ulivi secolari, i cui tronchi scultorei superano spesso i dieci metri di altezza ed assumono le sembianze della quercia, incontriamo, in compagnia delle sue pecore, il pastore Costagrande. Egli, ap-
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Fig. 1 La valle. Stampa 3D.
presa la nostra destinazione ed il nostro intento curioso di ricercatori, così, subito ci allerta e ci ammonisce, mettendoci al corrente dei fatti: Raccontavano una volta, mio padre, mio nonno, mio zio, che qui anticamente viveva un monaco, che un giorno, mentre passava con il carro delle vacche, ad un certo punto scomparve senza lasciare traccia alcuna, come se fosse stato inghiottito dalla terra. Una notte fu udito da alcuni abitanti di Giambarelli1, che, sentendo suonare un tamburo accorsero presto sul posto. Raggiunto il luogo non videro però nessuno, ed il suono si interruppe. Tuttavia, non appena voltarono le spalle e si inoltrarono tra le fronde, il suono riprese, come prodotto da un invisibile spettro. Si dice che il monaco ricompaia una volta all’anno tutto vestito di nero, e che, suonando il tamburo, percorra cinquanta metri, avanti e indietro, di fronte alle grotte. Fu da allora che il popolo rimase impressionato e nessuno si recò più da solo sul posto, e neanche in coppia, ma sempre in un gruppo costituito da un minimo di tre persone… Voi siete tre, dunque, potete proseguire tranquilli2.
Il sito La valle dei Caforchi3 è un solco che dai fianchi sud-orientali del monte S. Elia scende giù verso Seminara. Scavata dalle acque del Torrente Galena, si caratterizza per la presenza di diverse pareti di morbida roccia sedimentaria, e per l’abbondanza di una rigogliosa e avvolgente vegetazione che a tratti rimanda a scenari giungleschi, e che prolifera grazie ad un microclima umido e temperato. Nella sua porzione iniziale, la valle si
Frazione di Seminara. Intervista al pastore Costagrande registrata in data 18/04/2020. 3 Il vocabolo caforchio ha valore di passo stretto, via stretta, ma anche di grossa buca. La parola, è un composto di cata più un derivato del latino foris (apertura, porta, entrata, accesso, passaggio). Nel gergo dialettale il significato di caforchio è interpretabile in diversi modi, tra i quali: casa oscura, tugurio, spelonca, catapecchia, caverna, nascondiglio, insenatura stretta, etc. Nel caso specifico, il termine, si riferisce, più che alle caratteristiche morfologiche della valle, alla presenza di piccoli ipogei scavati nell’arenaria detti appunto caforchi. 1
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Francesco Stilo Fig. 2 Carta dei percorsi e del sistema insediativo. Individuazione del sito e del percorso rurale.
Autostrada Salerno-Reggio Calabria. 5 Tra gli altri si ricordano: il Monte S. Elia con il suo affaccio sullo Stretto di Messina; l’antico tracciato costiero del Tracciolino ed i suoi terrazzamenti; la spiaggia di Cala Janculla; il sito rupestre di S. Elia lo Speleota a Melicuccà. 6 Di cui il T. Galena è affluente. 7 Si è potuto riscontrare che tale materiale, può offrire un risultato che si discosta dal consueto effetto lucido e semitrasparente delle plastiche, avvicinandosi all’effetto pieno e cromaticamente regolare del gesso. 4
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presenta come uno strettissimo canyon, che comincia ad aprirsi proprio dove è collocato l’insediamento eremitico, o la porzione di esso sopravvissuta alle continue frane e smottamenti che segnano l’orografia del sito. Raggiungibile a piedi, attraverso sentieri rurali di indubbio fascino che dal centro abitato seminarese conducono ai Piani della Corona, o più comodamente dallo svincolo S. Elia/Bagnara del vecchio tracciato autostradale4 (Fig. 2), il sito si colloca in un contesto ad alto valore paesaggistico/ambientale e culturale5. Nella tabella dei beni identitari – siti rupestri e grotte – allegata al QTRP della Regione Calabria, il sito è stato censito con il nome di Grotte di S. Elia il Giovane. Vissuto tra l’823 e il 903, Elia da Enna, che secondo il suo sconosciuto biografo ebbe una vita avventurosa, di ritorno dalla Grecia insieme al suo discepolo Daniele, fondò un monastero in quel luogo chiamato Saline (Musolino, 2002). Tale località è identificata con la valle del fiume Petrace6 (Falkenhausen, 1993), ma l’esatta collocazione dell’antico monastero risulta ad oggi ignota. Sebbene il luogo in questione si presti a rappresentare quel topos dell’agiografia monastica che vuole il sito della fondazione dei monasteri remoto, poco accessibile e povero (Falkenhausen, 2018), allo stato attuale, a nostro avviso, non esistono prove che il Santo abbia realmente abitato la spelonca. Tuttavia, l’impronta spirituale di segno monastico e bizantino del sito emerge non soltanto rispetto al mondo della superstizione popolare, ma soprattutto rispetto all’osservazione di diverse tracce, tra le quali la presenza di svariati graffiti rupestri a carattere devozionale. Con l’intento di giungere ad una corretta interpretazione territoriale e morfologica, rispetto cioè ad una contestualizzazione spaziale del manufatto, si è fatto ricorso a strumenti di analisi GIS quali shapefile e DTM (Digital Terrain Model) reperibili presso il portale cartografico della Regione Calabria. In particolare sono state elaborate attraverso l’uso del software Autodesk Autocad Map, le isoipse con passo di 5 m, il suolo edificato, la rete viaria principale. Rispetto al modello digitale del terreno, open access per l’intero territorio regionale ad una risoluzione di metri 5, si è scelto di procedere alla stampa 3D della porzione dello stesso relativa alla valle, per una superficie proietta-
Fig. 3 Nuvola di punti del sito rupestre.
ta sul piano di ca. 550 ettari. La stampa è stata eseguita in scala 1:15000 mediante l’impiego di filamento PLA premium bianco di Polaroid7 e stampante a estrusione. Il rilievo. Metodologia e intenti Di fronte ad una quasi totale assenza di studi mirati ad indagare l’oggetto, e con l’obiettivo di voler fornire una base di conoscenza, tanto alla comunità scientifica, quanto alla comunità politica e sociale del luogo, si è scelto di muovere i propri passi partendo da quella materialità solida ed indubbia, fatta di roccia e di aria, di quei pieni generati dalla natura e quei vuoti sottratti dall’uomo che rendono la rupe un’architettura. L’era della digitalizzazione ha influenzato grandemente il campo dell’architettura e del rilievo (Bertocci et al., 2019), in particolare la fotomodellazione architettonica si è inserita con forza tra le metodologie di rilievo a basso costo, grazie alla rapida evoluzione delle capacità di calcolo dei personal computer ed al progressivo sviluppo della fotografia digitale. Lo strumento fotografico si presta straordinariamente al rilievo di tutte quelle superfici incerte, morbide ed irregolari, riducendo le approssimazioni tipiche del rilievo tradizionale eseguito in tali condizioni, inoltre, la leggerezza e la maneggevolezza dello strumento consentono agevolmente il trasporto dello stesso in qualsiasi contesto. I rischi legati all’utilizzo di dispositivi più impegnativi, anche sotto il profilo economico, si abbattono drasticamente, ed i sentieri più lunghi ed accidentati possono essere percorsi senza il peso di ingombranti e delicati strumenti. L’elasticità del metodo è notevole, infatti, nel caso dei Caforchi di S. Elia il Giovane, si è potuto procedere ad una buona acquisizione fotografica già contestualmente al primo sopralluogo, pur nella totale assenza di documentazione di riferimento8. Misure fondamentali sono state prelevate con longimetro laser Leica, e, nella stessa occasione, è stata eseguita la geolocalizzazione del sito ed il tracciamento del percorso con dispositivo GPS. A seguito dell’elaborazione dei dati raccolti si è potuta pianificare una più approfondita campagna di rilievo. Tra le considerazioni registrate rispetto agli intenti, si può dire che l’indagine si è posta tre obiettivi fondamentali, e cioè: 1) Restituire un’immagine geometricamente corretta degli ambienti ipogei realizzati a scalpello e naturali, producendo simultaneamente un database digitale costituito da immagini fotografiche, nuvole di punti e mesh TIN (Triangular Irregular Network); 2) Produrre documentazione specifica rispetto ai graffiti individuati; 3) Stimolare, attraverso la conoscenza del sito, interventi di salvaguardia e valorizzazione.
Fatte salvo alcune fotografie messe a disposizione del pubblico dall’associazione Barrittieri Indietro Tutta. 9 Per l’acquisizione è stata utilizzata fotocamera mirrorless Fujifilm con sensore APS-C ed ottica Fujinon da 18 mm (27mm eq. rispetto al formato full frame). 8
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Francesco Stilo Fig. 4 Rilievo del sito.
Per l’elaborazione si è utilizzato Agisoft Metashape Pro. ver. 1.5.1. 11 L’iscrizione, che è stata individuata durante il sopralluogo del 24 aprile 2020 da Mek Den Gaudioso, studente del dipartimento di Storia e Filosofia all’Università della Calabria, si caratterizza per essere stata eseguita con una certa perizia tecnica. I caratteri sono con grazie ed il fondo è livellato. 10
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Esiti A seguito di un’acquisizione complessiva di 503 immagini fotografiche9 è stata elaborata10 una nuvola dell’area costituita da 15.060.213 punti (Fig. 3). Le successive elaborazioni hanno portato all’ottenimento di un modello TIN composto da 1.004.013 facce che è stato successivamente texturizzato. Rispetto a quest’ultimo punto è utile notare che, in special modo nel caso di ambienti ipogei dove la mancanza di luce naturale può essere totale, il necessario uso del flash o di altri dispositivi di illuminazione influenza la resa cromatica delle superfici, così come accade con le mutevoli condizioni luminose offerteci dalla natura nei comuni rilievi open air. È stato riscontrato, a seguito di diverse prove sperimentali effettuate sul campo, che l’illuminazione artificiale non influisce sensibilmente sulla resa geometrica del risultato, e che un suo utilizzo quindi, deve essere particolarmente ponderato e progettato, caso per caso, se il risultato atteso consiste nella ricerca di una perfetta ed omogenea resa cromatica delle superfici. Spesso, lavorare con una o più fonti di illuminazione ausiliaria, è preferibile ad utilizzare alti ISO o lunghi tempi di esposizione. I dati acquisiti hanno permesso l’elaborazione di schemi di rilievo (Fig. 4). L’attenzione si è concentrata sulla parete rocciosa esposta ad est, ovvero quella in cui è più forte il segno dell’operato umano, dove cioè sono presenti gli ipogei ricavati a scalpello ed i graffiti di maggiore interesse. La cavità più grande, a forma di T, ha dimensioni di 3,90 m dalla soglia al fondo e 4,40 m di lunghezza rispetto alla porzione più interna, ed un’altezza massima di metri 2. Sembra essere stata pensata per il ricovero di due uomini e non presenta al suo interno alcun elemento particolare se non una sagomatura sul piano di calpestio che genera una pendenza pensata probabilmente per contrastare l’accesso delle acque. La seconda cavità si sviluppa ortogonalmente alla prima ed ha forma di L. Profonda 3,60 m ed alta soltanto 130 cm presenta al suo interno un’iscrizione costituita da quattro lettere puntate. Sopra al foro d’accesso è presente una croce greca, ormai dilavata dall’azione degli agenti atmosferici, insieme ad altri segni incomprensibili.
Fig. 5 L’iscrizione nello stretto Canyon.
I graffiti La presenza dei graffiti, è forse uno tra gli elementi più suggestivi del luogo. In merito ad essi si riscontra la pubblicazione dell’unico contributo a stampa che lo riguardi, apparso nel 1984 sul periodico Calabria Sconosciuta. Gli autori scrivono: Particolarmente una delle umide muraglie di tufo, il cui profilo curvo fu forse artificialmente ricavato per essere adibito a simbolica abside cultuale, conserva, logorata, dal tempo e dalle mani degli accidentali visitatori, la ipotizzabile testimonianza del passaggio di monaci basiliani. Vi sono dieci piccole nicchie in cui probabilmente gli eremiti poggiarono le offerte o le icone votive, quasi tutte disposte orizzontalmente. Il reperto più singolare sembra essere rappresentato da alcune epigrafi anch’esse incise sulla parete ricurva e munite di cornice ricavata dal tufo stesso (due delle quali, le più alte, appaiono conservate meglio) (Gioffrè, Roccabruna 1984, 33).
Gli autori avanzano alcune ipotesi circa l’origine dei graffiti ed ipotizzano un loro collegamento con la vita di S. Elia il Giovane. Se come già accennato in precedenza, le prove decisive di tale ipotesi sono ancora tutte da verificare, il fatto che il luogo abbia attratto pellegrini anche in epoche successive, è testimoniato da un paio di incisioni settecentesche, riprese da D. Minuto et al. in alcune annotazioni del 1988 in appendice ad uno scritto sulle chiesette medievali calabresi, e da un’epigrafe rinvenuta nel corso dei nostri sopralluoghi, inoltrandoci in direzione sud nella stretta gola11, datata 1529 (Fig. 5). L’iscrizione riporta: A.D. 1529 D 2A C GIO:BAT. TA …… ARZANO
Difficile ipotizzare al momento chi sia stato il Giovanni Battista (Marzano?) che il giorno 2 aprile del 1529 ha voluto lasciare impressa la testimonianza del proprio passaggio in maniera così precisa e chiara, certamente si sarà trattato di una personalità illustre, magari con al seguito qualcuno capace di realizzare materialmente l’iscrizione, alla destra della quale, in una maniera molto più approssimativa e incerta, direttamente sulla superficie irregolare della roccia si legge: Abb Panara12. Chi era l’abate Panara, e quando e perché abbia inciso il suo nome al fianco dell’iscrizione principale, rimane un altro degli irrisolti enigmi del caso, enigmi che si infittiscono riportando l’attenzione sulla parete ove si trovano i due ipogei oggetto di rilievo.
Abbreviazione per troncamento del termine abbas, ovvero abate.
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Francesco Stilo Fig. 6 Individuazione delle incisioni sulla parete degli ipogei. Fig. 7 Nuvola di punti e ridisegno delle incisioni A e B.
Minuto et al. riportano: D.U.J.D. Vitalis/ Gius. Zinzio/ (terzo rigo illegibile). 14 Monogramma di Cristo, simbolo di derivazione solare. 13
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Nello schizzo (Fig. 6) vengono individuate con le lettere, dalla A alla F, le sedi di alcune incisioni costituite da caratteri o da simboli. Le più interessanti, a prima vista, sono le iscrizioni indicate con le lettere A e B. L’epigrafe A, realizzata con un sistema ad incisione incorniciata riporta in caratteri romani, su due righe, il nome di DANTO CADOFO e, sulla terza riga la dicitura AIOD AS… che sta ad indicare una datazione. Al momento appare arduo formulare ipotesi rispetto all’Anno Salutis in cui l’epigrafe è stata realizzata, visto il cattivo stato di conservazione dell’incisione nella sua ultima parte. Sulla destra, l’iscrizione B, appare ancora più enigmatica e frammentaria, scritta in un carattere corsiveggiante non permettere la formulazione di credibili ipotesi essendo la sua parte superstite poco leggibile e la sua porzione inferiore del tutto distaccata13. La porzione di manufatto appena descritta, proprio per la sua fragilità e per l’interesse che riveste, è stata oggetto di rilievo SFM ad alta risoluzione, risultante in una nuvola densa costituita da 7.004.107 punti che fotografa tridimensionalmente lo stato di fatto, in prospettiva della conservazione di una memoria ad alto rischio di definitiva scomparsa (Fig. 7). Nelle immediate vicinanze della cavità a L rovesciata, abbiamo poi individuato un’incisione non censita (Fig. 8G). Appare in essa un interessante disegno simbolico così interpretabile: in alto, se pur parzialmente eroso dall’azione della pioggia e del muschio, sembra esserci un chi rho14, in basso, una figura che suggerisce la posizione del monaco in grotta. La rispettiva collocazione dei due simboli fa pensare al momento della preghiera, nell’attimo in cui il monaco rivolge la propria attenzione e il proprio sguardo interiore a qualcosa di esterno, collocato in cielo nella posizione del sole. In tal senso, la spelonca e il cielo – il dentro e il fuori – rappresenterebbero due reciproci inscindibili di una stessa unità spirituale.
Rispetto al già accennato graffito, costituito da quattro lettere puntate (Fig. 8H) e posto internamente alla stessa cavità, il quale, per la posizione e per l’omogeneità della patina con il fondo, appare verosimilmente essere contemporaneo alla realizzazione dell’opera stessa, non ci sentiamo al momento di poter formulare ipotesi. Come ultima ipotesi, infine, non si può escludere che il sito, sia divenuto luogo di sepoltura di qualche monaco santo, magari dello stesso Juniore, e che per tale motivo sia stato meta di pellegrinaggio. Tuttavia viene da chiedersi perché a differenza dell’ipogeo di S. Elia lo Speleota, il quale dista circa 3.500 m in linea d’aria, e che è ancora oggi è adibito al culto, su questo luogo sia caduto il quasi totale oblio, e addirittura, come testimoniato dalla leggenda citata, sia diventato un sito da cui tenersi alla larga. Conclusioni e prospettive Scopo di questo contributo è diffondere la conoscenza per stimolare la salvaguardia del sito indagato, tassello di uno studio più ampio sugli insediamenti ipogei rupestri nella Calabria meridionale. Estrarre valore da luoghi apparentemente poco significativi, e pertanto poco attrattivi se considerati in maniera isolata e puntuale, ma che assumono delle grandi qualità se inseriti all’interno di percorsi integrati, dal valore paesaggistico/culturale, significa riconoscere e ricostruire la genesi di una Calabria ancora oggi in larga misura sconosciuta, la cui anima più intima, conservando ancora l’influsso esercitato dai monaci eremiti che abitarono le sue spelonche, si cela tra i solchi dei suoi monti. Gli anacoreti15, i cenobiti16, gli esicasti17 orientali che abitarono le terre di Calabria hanno lasciato le loro tracce fisiche e spirituali su questo territorio fragile e incerto, una tela di Penelope dove le forze della natura si esprimono con grande carattere frantumando ciclicamente la materialità storica, in un puzzle dall’interpretazione complicata e a tratti ambigua. Il tema dell’ipogeo come luogo di culto dall’alto valore simbolico, archetipo universale che ha origini preistoriche18, è declinato nel contesto delle aree omogenee della “civiltà rupestre” nell’ambito dell’impero Bizantino, ed in particolare, lo studio avviato, si propone di fornire un quadro complessivo del fenomeno nella Calabria meridionale, attraverso un’indagine condotta principalmente con gli strumenti del disegno e del rilievo architettonico. Il disegno, che è visto come strumento di analisi e di progetto, e quindi capace tanto di far comprendere il mondo quanto di far agire su di esso, è il nucleo centrale della ricerca, la quale, parallelamente ad una fase investigativa, si propone di sviluppare degli aspetti progettuali rispetto alla proposta di percorsi pensati per la fruizione e la valorizzazione dei paesaggi culturali calabresi. Bibliografia Venuti da Cortona M. F. 1578, Dittionario volgare et latino nel quale si contiene come i vocaboli italiani si possono dire et esprimere latinamente, in trino appresso Gio. Francesco Giolito De Ferrarii. Dorsa V. 1876, La tradizione greco-latina nei dialetti della Calabria Citeriore, Tip. Migliaccio, Cosenza. Di Muro A. 2011, Il popolamento rupestre in Calabria, in Menestò E. (a cura di), Le aree rupestri dell’Italia centro-meridionale nell’ambito delle civiltà italiche: conoscenza, salvaguardia, tutela. Atti del IV convegno internazionale sulla civiltà rupestre, Savelletri di Fasano (BR), 26-28 novembre 2009, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto, pp. 181-215. Musolino G. 2002, Santi eremiti italogreci. Grotte e chiese rupestri in Calabria, Rubbettino ed., Soveria Mannelli.
ἀναχωρητής, ritirato. Indica lo stato di colui che ha abbandonato il consorzio degli uomini, ritirandosi in solitudine, al fine di condurre vita ascetica. 16 κοινοβίτης. Monaco che, ritirandosi a far vita religiosa in contesti discreti, condivideva spazi importanti della propria vita con altri monaci. In contrapposizione alla def. di anacoreta, in cui l’eremitismo è da intendersi più spinto. 17 ἡσυχαστής. Tranquillo di mente e di corpo. Monaco eremita, storicamente appartenente ai seguaci di una dottrina ascetico-mistica diffusa nel cristianesimo orientale, che si prefigge di giungere all’estasi ed alla mistica unione con il divino attraverso vita contemplativa e pratiche ascetiche. 18 Recente è la scoperta di un sito che presenta pitture parietali raffiguranti soggetti umani ed animali sull’isola di Sulawesi in Indonesia. Secondo la datazione delle concrezioni minerarie depositatesi sulle figure, l’opera sarebbe databile tra i 42000 e i 33000 anni a.C., andando così a classificarsi come il più antico disegno ad oggi conosciuto. 15
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Francesco Stilo
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Fig. 8 Disegno dei graffiti G e H fino ad ora non censiti.
I taccuini per il disegno del territorio e del paesaggio. Documenti grafici del XVIII secolo Enza Tolla
Scuola di ingegneria, Università degli Studi della Basilicata.
Giuseppe Damone
Enza Tolla Giuseppe Damone
Scuola di ingegneria, Università degli Studi della Basilicata.
Abstract The map tells about territory and it establishes an appropriation process of what it describes: symbolic appropriation as it happens to everyone who takes possession of dates and functional connections between represented elements by examining a map and physical appropriation built through social, economic, political and military control. In Basilicata, region of southern Italy, iconographic evidences of landscape and territory before the XVIII century are poor. It is from the following century that the material come down to us was more considerable. Special graphical documents are represented by notebooks of land surveyors from Venosa kept in the State Archive of Potenza, they represent an important instrument to understand techniques used by land surveyors to survey and so to describe the territory throughout drawing. They are notebooks where were annotated measures and sketches which became basis for later re-elaborations of stalls of universities and religious orders. Starting from a direct analysis, portions of territory are represented by using little symbols which allow to describe in a simple way cropped species, architectures on- site and specific features of the landscape. What has been said allow to compare these geometric drawings to the most famous landscape views by Grand tour travelers since the XVIII century in the Kingdom of Naples and so also in Basilicata, they add paintings or graphic views to a textual description of their explorations. Keywords Disegno del territorio, paesaggio, documenti d’archivio
Introduzione (E.T.) La carta del territorio non solo ‘racconta’ il territorio, ma stabilisce un processo di appropriazione di ciò che descrive, appropriazione simbolica, come succede a chiunque esaminando una carta si impadronisca di alcuni dati e nessi funzionali e relazionali che legano gli elementi raffigurati, o di appropriazione fisica istituita attraverso il controllo sociale, economico, politico o militare. La carta è utilizzata per organizzare il territorio e predisporne le infrastrutture, per controllare contribuzioni e imposte, per fare la guerra, per seguire le rotte marine, per accatastare enti e persone, per organizzare e giustificare l’occupazione di terre ricche e lontane.
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Fig. 1 Schizzo del ‘Lago Zaccheo’ attribuito al regio agrimensore Giuseppe Pinto (ASPZ, Raccolta cartografica di agrimensori venosini XVIII-XIX secolo, vol. 6).
La mappa, dunque, garantisce il possesso attraverso la descrizione; inoltre, una carta è quasi sempre l’elemento precursore del possesso, e dalla quantità e dalla qualità delle carte, si può dedurre la qualità e lo spessore di quel possesso. Riflette, dunque, l’ambito sociale e le capacità produttive di un particolare momento storico che può dirsi culturalmente più o meno ricco se riesce a esprimersi anche attraverso le carte geografiche, che possono essere catalogate come storiche proprio perché frutto di riflessioni storicamente sedimentate.
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Enza Tolla Giuseppe Damone
L’analisi della cartografia come ‘rappresentazione della storia’, presuppone dunque, un ampliamento delle coordinate culturali da analizzare, poiché nella carta sono fuse, in un complesso organico, conoscenze geografiche, astronomiche, matematiche, letterarie, e tutte le altre che generalmente caratterizzano una cultura. La carta evidenzia, dunque, lo sviluppo intellettuale di un popolo ma anche la concezione che il popolo ha di se stesso e i rapporti con chi lo governa.
Archivio di Stato di Potenza, d’ora in poi ASPZ, Raccolta cartografica di agrimensori venosini, volume 2. 2 “Nell’inventariazione l’agrimensore, che è sempre un libero professionista o un ecclesiastico autorizzato all’esercizio, ha una posizione subordinata, poiché è l’intervento di un notaio che conferisce al documento valore giuridico; tuttavia le operazioni geometriche ne costituiscono la sostanza e a volte non sono limitate a semplici misurazioni e riduzioni di scala, ma contengono anche ipotesi per una più razionale conduzione delle terre: impianto di masserie, ridefinizione dei contratti, destinazione colturale” [Angelini 1987, pp.199-200]. 1
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Appunti grafici per il disegno del paesaggio e del territorio (G.D.) In Basilicata, regione al sud dell’Italia, scarse sono le testimonianze iconografiche del paesaggio e del territorio precedenti al XVII secolo. È dal secolo successivo che il materiale giunto sino a noi diventa più cospicuo, tanto da consentire, almeno per alcune aree geografiche della ragione, di poter leggere le mutazioni del territorio e trovare un riscontro grafico di quanto più facilmente è riportato nei documenti scritti. La quantità e la qualità del materiale prodotto e conservato è disomogeneo per i diversi ambiti territoriali regionali. Infatti, “la capacità di raffigurare geometricamente il territorio [...] discende da tradizioni locali che si sviluppano in rapporto alla grande proprietà fondiaria e alle consuetudini feudali. Nelle terre dove i baroni e la chiesa esigono la decima, cioè una prestazione proporzionale al prodotto, l’agrimensore non serve all’organizzazione sociale e il disegno non raggiunge mai livelli accettabili; nelle terre dove l’uso è quello di riscuotere il terraggio, una prestazione commisurata alla superficie coltivata dal colono, le esperienze sono precoci e più elevate” (Angelini, 1989, p. 267). Mappe e cabrei, attraverso il disegno geometrico, ci restituiscono una regione diversa da quella attuale, prima della diffusione del latifondo. Particolari documenti grafici sono costituiti dai taccuini degli agrimensori venosini, conservati presso l’Archivio di Stato di Potenza, che rappresentano uno strumento fondamentale anche per comprendere le tecniche adoperate dagli stessi agrimensori per rilevare e, quindi, restituire il disegno del territorio. Si tratta, infatti, di quaderni dove sono annotate misure e raccolti schizzi di campagna che diventano la base per successive rielaborazioni finalizzare al disegno delle platee degli ordini religiosi, delle università e del clero secolare. Il carattere strettamente personale dei diversi quaderni su cui annotare informazioni è sottolineato dalla presenza negli stessi anche di dati che esulano dagli appunti per il disegno del territorio. Infatti, a schizzi su cui sono riportate le misure rilevate, si aggiungono pagine con annotazioni di diversa natura. È il caso, per esempio, del volume in cui sono raccolti i disegni del territorio dall’agrimensore Vito Montesano prodotti tra il 1758 e l’anno successivo. In questo, oltre a piccoli appunti per il rilievo dei possedimenti del monastero di San Domenico, della Dogana delle Pecore e delle Università di Lavello e Montemilone, le prime pagine sono occupate da annotazioni sulla nascita dei figli dello stesso agrimensore, oltre a contenere in altri fogli successivi i computi di spesa per la costruzione di alcuni edifici e l’elenco dei costi sostenuti per “lo mantenimento fraccappellani, sacristano chierici, oblato, cera ingenzo, olio, ed altro occorrente per le funzioni, e mantenimento di detta chiesa”1. L’agrimensore rappresenta la figura che ha conoscenze giuridiche – diritto civile, feudale e consuetudinario – e tecniche, con un potere riconosciuto dall’ordine giuridico. Le mappe del territorio da loro prodotte diventano lo strumento per risolvere questioni in materia di confini, usurpazioni, servitù di passaggio o per l’inventariazione di beni appartenenti agli ordini religiosi e al clero secolare2.
Va anche detto, però, che nell’agrimensura napoletana non si assiste a un progresso tecnologico tra il XVI e il XVIII secolo, come invece avviene altrove, ma si ricorre ancora al solo impiego di strumenti come lo squadro, il compasso, la bussola e la catena anche quando sono ormai introdotti il cannocchiale distanziometro e la tavoletta pretoriana. Mediante elementari conoscenze di geometria piana le superfici da rilevare sono ridotte a figure semplici, come triangoli, rettangoli e trapezi, al fine di poter procedere alla loro misurazione mediante una strumentazione ancora rudimentale e forse più adatta per piccole estensioni territoriali (Angelini, 1989, p.267). Partendo da un’analisi a vista, porzioni di territorio sono restituite inserendo anche piccole icone-simbolo che consentono di descrivere in maniera intuitiva la specie coltivata, eventuali architetture presenti o anche peculiari aspetti paesaggistici, ricorrendo al ribaltamento del piano di rappresentazione. Inoltre, si assiste spesso all’inserimento, nei piccoli disegni del territorio, di schizzi dal vero per annotare particolari conformazioni morfologiche di rilievi o di corsi d’acqua, al fine di averne memoria nella fase successiva di rielaborazione della mappa. La sintesi grafica adottata punta all’esemplificazione della realtà visiva rendendo complessa la possibilità di scindere il disegno dal simbolo. In altri casi l’agrimensore annota l’uso del suolo e correda il disegno di piccole descrizioni, dei toponimi delle diverse aree rappresentate, dei confini e delle proprietà. L’orografia del territorio è invece segnata ricorrendo al disegno dei rilievi montuosi visti frontalmente – seppur l’estensione territoriale è resa con una vista dall’alto – o ricorrendo all’utilizzo del colore per sottolineare l’acclività del suolo. È quanto ritroviamo nei quaderni dei regi agrimensori Angelo Antonio Monaco3 o Giuseppe Pinto. Quest’ultimo, soprattutto negli anni Settanta del XVIII secolo, studia e annota porzioni di territorio appartenenti al convento di Santa Maria la Scala (1773)4, della SS. Trinità (1774)5 e della Commenda di Santa Marinella dell’Ordine di Malta (seconda metà del XVIII secolo)6 di Venosa. Quanto detto avvicina questi disegni geometrici alle più conosciute vedute paesaggistiche realizzate, soprattutto a partire dal Settecento, nel Regno di Napoli dai viaggiatori del Grand Tour. Anche in questo caso, partendo da piccoli schizzi fatti sul campo, il viaggiatore rielabora in seguito delle tavole più complesse dove, a volte, assembla anche disegni fatti da angolazioni diverse, alterando così la percezione reale dei luoghi, per perseguire una maggiore capacità ‘narrativa’ del disegno prodotto.
Fig. 2 Schizzi per il disegno di alcuni fondi appartenenti al convento di Santa Maria la Scala di Venosa disegnati dal regio agrimensore Giuseppe Pinto nel 1773 (ASPZ, Raccolta cartografica di agrimensori venosini XVIII-XIX secolo, vol. 3). Fig. 3 Disegni della seconda metà del XVIII secolo, attribuiti al regio agrimensore Giuseppe Pinto, di alcuni possedimenti della Commenda di Santa Marinella di Venosa dell’Ordine di Malta (ASPZ, Raccolta cartografica di agrimensori venosini XVIIIXIX secolo, vol. 6).
ASPZ, ibid., vol. 3. ASPZ, ibid., vol. 3. 5 ASPZ, ibid., voll. 4-5. 6 ASPZ, ibid., vol. 6.
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Nelle sedici tavole che riguardano la Basilicata, tra schizzi, disegni preparatori e incisioni, “l’elemento naturalistico è molto forte e il paesaggio rappresentato non è solo uno sfondo ma caratterizza e connota l’intera immagine, contribuendo a rafforzarne il carattere” (Tolla, 1997, p. 285), spesso enfatizzandone l’aspetto pittoresco e sublime. Alle peculiarità delle vedute dei viaggiatori è possibile avvicinare anche le ormai celebri incisioni di Giovan Battista Pacichelli, che traggono la loro origine dai disegni di Francesco Cassiano de Silva, edite nell’opera Il Regno di Napoli in prospettiva (Napoli, 1703) e le diverse venute di città e paesi lucani affrescate nel Salone degli stemmi, nell’episcopio di Matera, della prima metà del XVIII secolo. In entrambi i casi, si ricorre a una scelta di punti di vista privilegiati mediante i quali l’intera realtà costruita è disegnata nel paesaggio, lasciando cogliere le complesse relazioni che tra questi intercorrono, nonché una semplificazione della realtà urbana mediante la quale è dato rilievo a particolari architetture – principalmente religiose o simboli del potere – rispetto al tessuto urbano minore. Altra traccia del paesaggio lucano storico è spesso individuabile nello spazio che fa da fondale ad alcune pitture parietali lucane, realizzate a partire dal XVI secolo, da artisti che spesso ritraggono ambienti naturali o antropizzati a loro familiari e li pongono come scenario nel tentativo di ‘sfondamento’ delle quinte architettoniche nelle scene cristologiche o di episodi legati alla vita dei santi. Pur non essendosi conservate tracce dei loro disegni di studio e appunti, è possibile ipotizzare la produzione di taccuini da parte di questi artisti sui quali erano annotati aspetti della realtà che osservavano, per essere poi riprodotti in affreschi realizzati in chiese e conventi spesso a molti chilometri di distanza da quel determinato angolo ritratto. Lo studio sulle testimonianze iconografiche del territorio e del paesaggio lucano si colloca in un ampio progetto di conoscenza della Basilicata, finalizzato alla documentazione delle trasformazioni che hanno interessato la regione negli ultimi secoli. In particolare l’accento è posto tanto sull’individuazione delle peculiarità dei singoli territori rappresentati, operando una comparazione con lo stato attuale quando è possibile individuare la loro esatta collocazione geografica, quanto sullo studio iconografico delle testimonianze architettoniche, inserite nei diversi disegni geometrici e vedute pittoresche che diventano dei veri riferimenti nello spazio rappresentato, per la loro documentazione e l’analisi delle trasformazioni che le hanno interessate. Non mancano poi considerazioni sulle tecniche grafiche adoperate dai diversi agrimensori e pittori che osservano la realtà e la rappresentano enfatizzando degli aspetti e omettendo degli altri. Ne emerge uno scenario, a tratti inaspettato, su importati contesti antropici lucani oggi scomparsi e su paesaggi naturali e agrari mutati nel corso dei secoli. Gli elementi del territorio e i codici grafici di restituzione: note conclusive (E.T) Nella produzione cartografica esaminata i modi della rappresentazione sono sicuramente caratterizzati da una maggiore discontinuità e disomogeneità rispetto alla cartografia di Stato e questo non solo in relazione alle diverse epoche storiche, ma soprattutto in relazione all’ambito culturale che quelle carte ha prodotto, alla cultura personale dell’esecutore, agli scopi particolari per cui si redigevano le mappe. È possibile riscontrare alcune costanti come l’uso della doppia proiezione, verticale per le montagne, i boschi, le colture e in alcuni casi per gli insediamenti, orizzontale per le strade e i fiumi. La doppia proiezione garante di una più certa riconoscibilità
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Fig. 4 Disegni della seconda metà del XVIII secolo, attribuiti al regio agrimensore Giuseppe Pinto, di alcuni possedimenti della Commenda di Santa Marinella di Venosa dell’Ordine di Malta (ASPZ, Raccolta cartografica di agrimensori venosini XVIIIXIX secolo, vol. 6).
delle cose rappresentate, affida la leggibilità della carta a un’immagine che non garantisce la certezza di misure e distanze ma istituisce un diretto rapporto con l’utente. L’esigenza di riconoscibilità degli elementi rappresentati, induce molto spesso all’enfatizzazione di alcune caratteristiche specifiche, come la larghezza di un corso d’acqua o l’altezza dei rilievi o all’isolamento degli elementi del territorio resi riconoscibili proprio perché rappresentati come soggetti rivelatori dell’identità di quella specifica porzione di terreno, è il caso, ad esempio, delle colture e dei simboli adottati per rappresentarle. Un discorso a parte merita la rappresentazione dei centri abitati visti sempre e soltanto in funzione del territorio nel quale sono localizzati, e mai nella loro reale consistenza urbanistica, anche in questo caso si scelgono alcuni elementi di identificazione come il campanile, le chiese, etc., privilegiando in tutti i casi le vie di accesso, e più in generale gli elementi fisici, ma anche politici e amministrativi che istituiscono un legame con il territorio circostante. L’evoluzione delle norme grafiche adottate per la rappresentazione, porta a una lenta trasformazione dal ‘realismo figurativo’ proprio delle carte rinascimentali, all’astrazione via via sempre più spinta dei modi della rappresentazione dalla metà del ‘700 in poi. Il ‘realismo figurativo’ con cui sono rappresentati gli elementi del territorio, riguarda, tuttavia, la rappresentazione del singolo elemento: l’elemento albero o monte per esempio, ma non la maniera di assemblarli. Anche nella cartografia rinascimentale si fa ricorso, dunque, all’astrazione proprio nell’assemblaggio degli elementi. Ripetendo l’elemento albero si indica il bosco, con la sommatoria dell’elemento monte si ‘allude’ a una catena montuosa, senza alcun riferimento preciso alla scala della carta e più in generale alla realtà territoriale che si vuole rappresentare. Un discorso a parte meriterebbe la rappresentazione delle colture; in alcune carte è, infatti, riscontrabile una perfetta corrispondenza tra la disposizione delle piante e degli alberi rappresentati e quelli realmente esistenti.
Fig. 5 Minute delle mappe per il cabreo della SS. Trinità di Venosa disegnate dal regio agrimensore Giuseppe Pinto nel 1774 (ASPZ, Raccolta cartografica di agrimensori venosini XVIII-XIX secolo, vol. 5).
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La volontà di restituire l’identità del territorio passa attraverso l’uso di una quantità di scelta grafiche e di espressioni figurative tutte tendenti a esemplificare la specificità e l’unicità di una parte di territorio in relazione ad un dato problema, dall’analisi dei codici grafici in uso nella cartografia esaminata risulta evidente come questa sia spesso frutto di una sintesi tra rigore geometrico e capacità figurative, in particolare la cartografia prodotta dalla fine del ‘700 in poi documenta le notevoli capacità interpretative raggiunte anche in ambito regionale. Gli esempi riportati in relazione alle diverse forme di rappresentazione indicano il percorso seguito nella scelta dei codici grafici in relazione a particolari elementi del territorio rappresentato. Bibliografia Angelini G. (a cura di) 1988, Il disegno del territorio. Istituzioni e cartografia in Basilicata. 1500-1800, Edizioni Laterza, Roma-Bari. Angelini G. 1987, Agrimensori-cartografi in Basilicata tra l’Antico Regime e l’Unità d’Italia, «Bollettino Storico della Basilicata», n. 3. Edizioni Osanna, Venosa, pp.189-203. Angelini G. 1989, Un’altra cartografia: il disegno geometrico e topografico a grande scala tra ‘500 e ‘800, in I. Principe (a cura di). Cartografia storica di Calabria e di Basilicata, Edizioni Monografiche, Vibo Valentia. Angelini G. 2000, La cartografia storica, in A. Cestaro (a cura di). Storia della Basilicata. L’età moderna, Edizioni Laterza, Bari-Roma, pp.114-138. Angelini G., Di Vito L., Groia A. 1990, Venosa: saggio per una carta storica del territorio comunale, «Storia della città. Rivista internazionale di storia urbana e territoriale» n. 49, Electa, Milano, pp.89-124. Biscaglia C. 2010, Tursi in Basilicata. Città e territorio nella veduta da Monte San Martino: il mostrato, il taciuto, in P. Micalizzi, A. Greco (a cura di), I punti di vista e le vedute di città. Secoli XVII-XX, Edizioni Kappa, Roma, pp.19-33. Boriani M. 1998, Rilievo, tutela e conservazione del paesaggio antropico, «XY dimensione del disegno» I(XII) nn. 32-33. Brusatin M. 1978, Disegno/progetto, in Enciclopedia. Einaudi: Torino, vol. IV. Capano F. 2004, Iconografie urbane di centri lucani tra XVII e XVIII secolo, in C. De Seta (a cura di), Tra oriente e occidente. Città e iconografia dal XV al XIX secolo, Electa, Napoli, 2004, pp. 209-214. Cardone V. 2008, Modelli grafici dell’architettura e del territorio, Edizioni Cues, Fisciano. Cardone V. 2014, Viaggiatori d’architettura in Italia. Da Brunelleschi a Charles Garnier, Salerno, Università degli studi - libreriauniversitaria.it. Caserta G. (a cura di) 2005, Viaggiatori stranieri in terra di Lucania Basilicata. Osanna Edizioni, Venosa. Colletta T. 2010, Le “innovazioni” dell’iconografia urbana del Cinquecento europeo nella scelta dei punti di vista, in U. Soragni, T. Colletta (a cura di), I punti di vista e le vedute di città. Secoli XIII-XVI, Edizioni Kappa, Roma. Empler T. 1995, Il rilievo del paesaggio, «XY dimensione del disegno», I (IX) nn. 23-25. Iannizzaro V. 2006, Dalle Mappae mundi alle immagini satellitari. Rappresentazione del territorio e cartografia tematica, Edizioni Cues, Fisciano. Ludovico A. 1991, Rilevamento architettonico e topografico metodi e strumenti nei secoli XVIII e XIX secolo. I catasti geometrici preunitari e la misura generale del Granducato di Toscana, Edizioni Kappa, Roma. Mazzoleni D. 2005, Il valore iconologico, in D. Mazzoleni, M. Sepe (a cura di), Rischio sismico, paesaggio, architettura: l’Irpinia, contributi per un progetto, Università degli Studi di Napoli Federico II, Napoli, pp.31-39. Pacichelli G. B. 1703, Il Regno di Napoli in Prospettiva, Tip. D. A. Parrino, Napoli. Principe I. 1991, Atlante storico della Basilicata, Capone, Cavallino (Lecce).
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Fig. 6 Schizzi per il cabreo della SS. Trinità di Venosa disegnati dal regio agrimensore Giuseppe Pinto nel 1774 (ASPZ, Raccolta cartografica di agrimensori venosini XVIII-XIX secolo, vol. 4). Fig. 7 Schizzo disegnato dal regio agrimensore Giuseppe Pinto nel 1773 (ASPZ, Raccolta cartografica di agrimensori venosini XVIII-XIX secolo, vol. 3).
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Il patrimonio costiero tra storia e paesaggio: ri-conoscere per valorizzare Maria Grazia Turco
Maria Grazia Turco
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Abstract The aim of the current contribution, through the study of archival and iconographic sources, is to deepen typological characters and construction techniques, as well as the recovery and enhancement actions of some towers located in the Lazio coast, today mostly abandoned and disused. The study analyzes deepens the diversified anthropization processes of the Lazio coastal landscape, on the Tyrrhenian Sea, between Civitavecchia, to the North, and Terracina, to the South, focusing attention on the defensive towers on the coast. It is a rich and unique heritage, still mostly intact, within a territory widely modified by spontaneous urbanization of the past century which has caused the uncontrolled expansion of illegal settlements and the construction of important infrastructures, such as the international Fiumicino airport. A complex overview that should be protected by involving cultural and environmental assets, now closely related to each other to determine the characteristics and quality of the current landscape. Keywords Coastal towers, Papal States, architectural restoration, enhancement, landscape
Introduzione Il territorio costiero laziale tra Toscana, dal Monte Argentario, fino alla Campania, a Terracina, è caratterizzato, lungo 361 km, da una compagine compatta di strutture turrite che nei secoli hanno rappresentato una solida difesa, per il territorio dell’ex Stato Pontificio, dalle incursioni e dagli attacchi provenienti dal mare. Si tratta di sistemi architettonici, sguarniti a partire dalla metà del XIX secolo, ancora possenti e di grande fascino che nell’attualità rappresentano un patrimonio di elevato interesse storico, culturale, architettonico nonché paesaggistico; la conoscenza di tali manufatti, e del contesto naturalistico in cui si trovano, è alla base del presente contributo, comprensivo di alcune proposte per la conservazione e la valorizzazione di queste uniche e peculiari costruzioni, attualmente allo stato di rudere e di abbandono. Nella fase antica, il litorale tirrenico, limitrofo a Roma, è caratterizzato, per lo più, da vasti ambiti paludosi a ridosso della costa dotata, peraltro, di diversi punti di approdo e insediamenti antropici (Ardea, Lanuvium, Antium, Torre Astura); non meno interessanti i piccoli abitati fortificati, disposti tra monti e mare, collegati tra loro e con
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Fig. 1 Ladispoli (Roma), torre Flavia (foto dell’autore).
la costa da un articolato sistema stradale: la Via Pedemontana Lepina, la Setina anticipazione della consolare Via Appia nei collegamenti tra Roma e Terracina, la Via Aurelia, la Portuense, l’Ostiense e la Severiana, percorso totalmente litoraneo che attraversa l’Isola Sacra superando la Fossa Traianea e il ramo principale del Tevere di Fiumara Grande. Una struttura viaria rappresentata nella Tabula Peutingeriana dove sono indicati, con grande precisione, anche i nuclei urbani costieri: Hostia, Laurentum, Lavinium (Pratica di Mare), Antium, Astura, Clostra, Ad Turres Albas (torre di Fogliano), Circeii (torre Paola), Ad Turres (torre Vittoria), Tarracina, oltre che le numerose torri destinate al presidio dei centri produttivi e commerciali che segnavano il litorale. Emerge, quindi, un panorama ricco e diversificato da ri-conoscere e salvaguardare, comprensivo anche di un compatto sistema difensivo e di presidio del territorio, una compagine turrita che ha origine a partire dal I secolo d. C., quando sul litorale sorgono comunità costiere e piccole colonie con una valenza per lo più militare e commerciale. Le torri e la storia Da Nord a Sud, da Civitavecchia a Terracina, si contano oltre trenta torri: alcune intatte altre allo stato di rudere, altre ancora distrutte, come quelle di Paterno e di Capo d’Anzio, ‘abbattute’ nel 1812-1813 dalla flotta inglese, o quelle di Corneto, Bertalda, Clemen-
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Maria Grazia Turco Il castello di Santa Severa viene edificato su un preesistente castrum romano datato al III secolo a. C.
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tina, del Vajanico e Materno ‘rovinate’, invece, durante la Seconda Guerra Mondiale. Numerose sono ancora le testimonianze (fig. 1): da nord, la torre di Montalto, avamposto difensivo cinquecentesco a confine con il Granducato di Toscana; la torre Saracena, all’interno dell’insediamento fortificato di Santa Severa1, inserita da papa Leone IV nel sistema di controllo del litorale per contrastare le scorrerie dei Saraceni (metà IX secolo); la torre di Fiumicino (o Niccolina) che insieme alla Gregoriana, ricavata dal campanile romanico della basilica di S. Ippolito, alla Alessandrina, alla Clementina e a quella di San Michele rappresentano un vero sistema fortificato edificato tra XVI e XVII secolo dalla Camera Apostolica per tutelare sia i territori interni dello Stato Pontificio sia la cuspide deltizia del Tevere dalle incursioni provenienti dal mare; più a sud, le torri Paterno, Vajanica, Sant’Anastasio, Caldara, Materna, di Capo d’Anzio e il sistema turrito del promontorio del Circeo, per chiudere la frontiera pontificia, sul Regno di Napoli, con la torre Gregoriana, impostata direttamente sulla testata della Via Appia, in corrispondenza di Terracina (Concas, Crova, 2017; Crova, 2018). Molte di queste strutture fortificate, edificate durante la fase medievale, spesso non sono giunte sino ai nostri giorni nel loro impianto originario a causa dei continui interventi e aggiustamenti che ne hanno permesso l’utilizzazione durante il corso dei secoli. Per arginare, infatti, le invasioni e i saccheggi via mare vengono adottate vere e proprie misure difensive attraverso la dislocazione di torri di controllo, ma soprattutto di avvistamento, lungo tutto il litorale, veri e propri avamposti con la funzione di segnalare lo stato di allarme e consentire alle popolazioni nelle aree limitrofe di trovare rifugio nei vicini centri fortificati (Castrum Fusani, Castrum Pratica, Castrum Neptuni). Un lungo periodo storico contrassegnato da continui conflitti tra terra e mare che hanno ampiamente condizionato l’impostazione antropica di questo territorio, favorendo il fenomeno dell’incastellamento, nell’entroterra, e la costruzione di numerose torri costiere sul litorale, spesso direttamente su ruderi di preesistenti edifici romani che, oltre a costituire vere e proprie sostruzioni fondali, hanno fornito anche materiale di recupero per la loro edificazione. Un’impostazione costruttiva medievale, che reimpiega elementi di spoglio e utilizza le risorse locali, caratterizzata, quindi, da apparecchiature murarie irregolari con filari impostati con materiali diversi, anche secondo le caratteristiche geologiche dei luoghi: mattoni di recupero, scaglie di selce, frammenti di marmo, bozze di pietra calcarea o travertino, blocchetti di tufo di vari colori (Isgrò, Turco, 2018). Ne sono casi esemplari: torre Olevola o Clementina (San Felice Circeo), da impianto di vedetta romana a fortilizio medievale, fino al ‘rifacimento’ settecentesco attribuito a Carlo Fontana e Giovanni Battista Contini; torre Boacciana costruita, nel XII secolo, su preesistenze di epoca romana (II secolo d. C.) poste a difesa del delta del Tevere, e ulteriormente ‘rimaneggiata’ tra XV e XVI secolo per essere poi definitivamente abbandonata a causa della continua progradazione della foce tiberina e del conseguente avanzamento della linea di costa verso il mare aperto. Il punto della fascia costiera tirrenica laziale più debole, per la continua mutazione del litorale, è stato, nei secoli, proprio il territorio ostiense mettendo così a dura prova la stessa città di Roma dalle incursioni provenienti dal mare; la foce del Tevere, pertanto, è stata sempre oggetto di grande attenzione difensiva iniziata con la trasformazione della torre Boacciana e seguita dalla costruzione di altre strutture che hanno accompagnato nel tempo tale cambiamento, con la sequenza delle torri: Niccolina (Fiumicino, 1450), San Michele (Ostia, 1559) e Alessandrina (Fiumicino, 1660).
Si tratta di manufatti, per lo più isolati e piuttosto elevati in altezza, localizzati lungo la costa in aree prive di vegetazione, ma con un’evidente concentrazione che costituisce un vero e proprio sistema difensivo, in corrispondenza di alcune lievi ‘sporgenze’ del litorale che potevano rappresentare un’opportunità di controllo verso il mare, mentre si diradano in compattezza lungo i cordoni sabbiosi (De Rossi, 1971). Elementi architettonici semplici, quindi, per lo più a pianta quadrata e con un’ampia piazza d’armi superiore utilizzata per le comunicazioni attraverso segnali visivi e acustici – fumate, fuochi, suoni – con altri manufatti posti, a costituire un vero sistema protettivo, lungo il litorale e con le numerose torri dell’entroterra, collegate tra di loro da un articolato impianto viario. Singole strutture spesso localizzate, soprattutto durante la riorganizzazione pontificia del XVI-XVII secolo, in corrispondenza dei numerosi corsi d’acqua che segnano il territorio, come torre Bertalda sulla foce del Mignone, torre Flavia vicino al fiume Vaccina, torre di Maccarese limitrofa all’Arrone; nel tratto di costa tra Pratica di Mare e Anzio, zona ricca di paludi, si localizzano la torre di Sant’Anastasio, attigua alla laguna il cui emissario sfocia direttamente a mare, la torre di Vajanico prossima allo stagno di Pratica; a seguire il complesso di torre Astura, che prende il nome dal corso d’acqua limitrofo, e più a sud le due strutture di Olevola, sulla foce dell’Ufente, e di Badino in prossimità del canale Portatore, presso la località di Ponte Maggiore. Dalla metà del XV secolo, poi, lo Stato Pontificio, caratterizzato da frontiere soprattutto marittime, intraprende una sostanziale revisione di tali apparati difensivi sia dal punto di vista architettonico sia gestionale, nonché l’integrazione e la costruzione di un rinnovato sistema militare e costiero, per lo più affidato a singoli proprietari terrieri che ne impostano l’organizzazione e la manutenzione; un sistema questo non confrontabile con l’organizzazione turrita del limitrofo Regno di Napoli dove anche la gestione è centralizzata (Russo 2009; Santoro, 2012). Un totale rinnovamento dovuto anche dall’abbandono degli schemi di difesa piombante, verticale e ortogonale, delle strutture medievali a favore di un apparato difensivo radente, così come richiesto dall’introduzione dell’impiego delle armi da fuoco. Ne consegue una significativa attività lungo tutto il litorale pontificio, come testimonia il caso della torre di Caldano, impianto che rientra nell’ambito delle fortificazioni costiere erette a seguito della sconfitta, a Gerba nel 1560, della flotta spagnola da parte degli Ottomani, quando ormai l’invasione turca è imminente anche sulle coste del Mare Tirreno. Pio IV (1559-1565), infatti, sostiene, sino dal 1562, la totale fortificazione del promontorio del Circeo con la costruzione di quattro torri: Paola, Cervia, Fico, Moresca, a cui si aggiunge, successivamente, torre Vittoria2 (fig. 2). Nel circuito, a difesa di questo punto particolarmente debole, viene inserita anche torre Olevola benché questa sia stata edificata, dai signori di Sermoneta e San Felice Circeo, in una fase antecedente (XV secolo).
Fig. 2 Sistema turrito del litorale laziale: rosso: torri I-III sec. d. C.; verde: torri VIII-IX sec. d. C.; celeste: torri Pio IV; blu: torri Pio V; giallo: torri XVI sec.; cerchio: torre con pianta circolare; quadrato: torre con pianta quadrata; quadrato vuoto: torre allo stato di rudere; quadrato tratteggiato: torre distrutta; doppio colore: rifacimenti (grafico di: Miriam Di Matteo, Patrycja Dziadowiec, A. A. 2018-2019).
Le quattro torri alla base del promontorio sono di forma rotonda, quelle di pianura a base quadrata o rettangolare, orientate con uno spigolo verso il mare, in modo di offrire maggiore protezione alle cannonate provenienti dal naviglio nemico. Le strutture vengono edificate a spese dei Caetani, signori dei luoghi, mentre il munizionamento e il mantenimento delle guarnigioni sono a carico dello Stato Ecclesiatico.
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Maria Grazia Turco Fig. 3 Ladispoli (Roma), torre Flavia. Rilievo, scala 1:50 (Guglielmo Armillei, Stefano Ciprigno, Andrea Franco, A. A. 2012-2013).
Il 15 settembre 1753, con Motu Proprio, Benedetto XIV emana il primo regolamento per la custodia delle torri, cui seguono, il 30 maggio 1772, a opera di Clemente XIV, il Piano per L’armamento delle Torri della spiaggia romana e il successivo Regolamento per la custodia delle torri (27 novembre 1772).
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Ben poco viene, però, realizzato visto che, non molto tempo dopo, Pio V (1566-1572) emana la Constitutio de aedificandibus turribus in oris maritimis (9 maggio 1567) con cui affida al console Martino de Ayala il compito di organizzare un compatto sistema militare del territorio costiero compresa non solo l’edificazione di nuove strutture difensive, ma anche la riparazione e l’aggiornamento di quelle preesistenti (Coppola, Broccoli, 1994). Nel corso del XVIII secolo si assiste a un’ulteriore evoluzione del sistema di controllo dovuto a un diverso momento storico che introduce anche nuove riforme in campo economico: non si tratta più di effettuare la totale vigilanza del territorio ma, essenzialmente, d’impostare la sorveglianza dei confini dello Stato, anche attraverso un rinnovato organismo doganale (Curcio, Zampa, 1990). In tale contesto, nel 1773, torre Alessandrina, nell’area ostiense, viene trasformata in ufficio daziario, mentre viene edificata, presso la foce del Tevere, la torre Clementina che, pur riprendendo la consolidata tipologia turrita, testimonia una rinnovata impostazione caratterizzata da manufatti più imponenti con un’articolata organizzazione degli interni3 (De Rossi, 1990). Nel 1802, è Pio VII a tentare di regolamentare la vigilanza lungo il margine dello Stato Pontificio, fino a quando nel 1870, con l’Unità d’Italia, le strutture del litorale vengono affidate al nuovo Stato che intraprende, tramite il Regio Esercito, un’attiva operazione di controllo e verifica, documentando, con rilievi e disegni acquerellati, le fortificazioni esistenti lungo la costa tirrenica. Obiettivi e articolazioni di uno studio L’approfondimento delle fonti d’archivio e della ricca iconografia storica che riproduce nel dettaglio la situazione dei luoghi prima dell’urbanizzazione e delle bonifiche
Fig. 4 Ladispoli (Roma), torre Flavia. Nella sequenza fotografica sono evidenti le trasformazioni del litorale a partire dagli anni Venti del Novecento fino all’anno 2000.
pontine, oltre che l’impostazione di rilievi diretti4, hanno permesso di evidenziare significative peculiarità costruttive tra i diversi manufatti analizzati, in un territorio dai caratteri morfologici e dai giacimenti litici molto simili, oltre che di ricostruirne il paesaggio circostante. Vengono, dunque, proposti alcuni casi studio che contemplano brevi cenni sulle caratteristiche architettoniche-costruttive, sulle questioni inerenti allo stato di degrado, che ormai minaccia molti di questi manufatti, e sulle potenzialità progettuali di tali contesti. È il caso di torre Flavia a Ladispoli, vicino Roma, struttura di avvistamento e difesa medievale che insiste su preesistenze romane (una probabile residenza padronale) ancora individuabili nei primi decenni del secolo scorso. Un disegno datato al 1601, conservato presso l’Archivio della famiglia Orsini, documenta i numerosi lavori intrapresi dal cardinale Flavio Orsini (1532-1581), feudatario del terreno5, per la riorganizzazione e il potenziamento della struttura turrita nell’ambito del piano difensivo del confine costiero pontificio. Il manufatto, delimitato nella parte basamentale da un cordolo in pietra calcarea, presentava due livelli collegati da una scala interna in muratura; inizialmente, l’accesso avveniva dal primo piano, raggiungibile tramite una scala lignea esterna, ma solo successivamente veniva praticata un’apertura direttamente nella muratura della scarpa inferiore (fig. 3). La conoscenza diretta dell’organismo architettonico ha evidenziato un apparato murario costituito da un impianto laterizio, con elementi ceramici sottili e ‘tegolozze’ di colore ocra ricavate da preesistenti edifici, con apparecchiatura interna a sacco, con pezzame lapideo eterogeneo immerso in malta di calce e pozzolana. I cantonali presentano pietre angolari di ‘macco’, un calcare conchiglifero di provenienza locale, lavorate in conci bene squadrati, disposti a filari regolari legati sempre da un’ottima malta idraulica. Anche il ‘cordone’ marcapiano, che separa la parte basamentale, è realizzato con lo stesso materiale lapideo, disposto in elementi, con profilo tondeggiante a toro, legati con impasto di calce e pozzolana. Si tratta di caratteri costruttivi e tipologici che identificano grande parte delle torri costiere laziali, come evidenziato anche da Alberto Guglielmotti, domenicano erudito nella storia della marina pontificia, il quale, nel 1880, descrive i sistemi difensivi del litorale: “Torri di figura quadrata … [con] scarpata dal cordone in giù, porta alta sul cordone, scala esterna, e ponte tra la scala e la soglia sui bolzoni” (Guglielmotti, 1880, p. 446); corrisponde anche l’impiego di materiali particolarmente resistenti, quali l’uso di ‘tegolozza’ “da stuccarsi con la cortina all’uso di Roma”, di travertino o “altra pietra forte”, di cocciopesto per le pavimentazioni oltre che “pozzolana di Conca e buona calce”6 (De Rossi, 1971, pp. 81-82). La torre è ormai oggetto da alcuni anni di significativi problemi strutturali visto che le sue pareti sono frammentate in diverse porzioni a causa delle continue mareggiate che ne hanno minato il già provato strato fondale, costituito da un terreno argilloso-limoso legato alla presenza del limitrofo fosso Vaccina e di una palude. All’interno dell’arenile, negli ultimi quindici anni, si sono susseguiti numerosi interventi che hanno riportato la torre, rimasta isolata per molti decenni nel mare a circa 80 metri
Lo studio condotto dall’autore del presente contributo nell’ambito del Corso di Restauro architettonico con laboratorio progettuale, Corso di Laurea di Ingegneria Edile-Architettura, Facoltà di Ingegneria Civile e Industriale, Sapienza Università di Roma. 5 UCLA, Library Special Collections, Orsini Family Papers, Collection 902, “Torre Flavia. Pianta dell’incastro da farsi al fosso di Vaccina per lo Stagno di Torre Flavia”; a inchiostro e acquerello su carta. 6 Le indicazioni sono riportate da un capitolato d’appalto, trascritto da De Rossi stilato per l’edificazione della torre di Foce Verde; il riferimento al tipo di pozzolana è da riferire, probabilmente, alla cittadina di Conca in Campania, centro urbano noto per la presenza di pozzolana, nella frazione di Cave. 4
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Maria Grazia Turco Fig. 5 Latina, torre Olevola. Rilievo, scala 1:50: a) sezione con ipotesi muraria e della palificata lignea; b) esploso assonometrico con indicazione delle funzioni ai diversi livelli (Riccardo Aprea, Claudia Bacchi, Manuel Corradini, A. A. 2014-2015).
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dalla spiaggia, nuovamente sulla terraferma, attraverso la realizzazione di un molo di origine artificiale (fig. 4). Un progetto questo che ha avuto come obiettivo quello di garantire l’accessibilità alla torre e la fruibilità dei luoghi, di potenziare la protezione dal mare del manufatto e di mantenere il carattere di questo tratto del litorale caratterizzato dall’alternanza di aree asciutte a contesti umidi, quelle Zone di Protezione Speciale (ZPS) in cui è previsto il mantenimento di habitat idonei alla tutela di comunità animali e vegetali (Enei, 2006); la palude, infatti, anche per la presenza di canneti e giuncheti, nel 1997, è stata dichiarata Monumento naturale. Torre Olevola o Clementina, perché riedificata da Clemente XI, è posta a poco più di 2 km a sud dal promontorio del Circeo; la sua presenza viene attestata per la prima volta in un documento del 1469, riportato da Giovanni Maria De Rossi, che menziona, all’interno del piano di rafforzamento del litorale voluto da Pio IV, una “Turris Evole provintiae Juxta Terracinam” (De Rossi, 1984, p. 197). Nell’aprile del 1681, la Camera Apostolica, sotto il pontificato di papa Clemente XI, focalizza l’attenzione sullo stato di conservazione della struttura costiera inviando un ispettore per controllarne la solidità; ma a seguito delle pessime condizioni in cui versa il manufatto, ne viene prontamente decretata, per ordine del Tesoriere Generale Monsignore Lorenzo Corsini, come riporta l’incisione sull’architrave della porta, la sua completa riedificazione, secondo il progetto degli architetti camerali Carlo Fontana e Giovanni Battista Contini (1701). È interessante osservare che, come in altre strutture litoranee pontificie, si ricorre, proprio per la natura sabbiosa dei terreni, a specifici accorgimenti fondali come l’impostazione di una sostruzione profonda costituita da una palificata lignea collegata a una soprastante platea di base (fig. 5); anche in questo caso si ricorre alla consolida-
Fig. 6 Anzio (Roma), tor Caldara. Rilievo, scala 1:50: pianta, prospetto e sezione con ipotesi muraria (Olga Avitabile, Edoardo Calvani, Ludovica Di Martino, Giorgia Palma, A. A. 2014-2015).
ta tecnica muraria in laterizio, con nucleo interno in opera cementizia e malta di calce con pozzolana, materiali proveniente dai vicini centri di Norma e Sermoneta e trasportati via fiume fino alla foce dell’Olevola (Mori, Redi, 2000). Negli angoli della scarpa così, come nelle cornici di porte e finestre, è stato impiegato il travertino, materiale probabilmente proveniente dalle vicine cave del Circeo, di Quarto Caldo o di Monticchio, territori della famiglia dei Caetani. La torre oggi versa in uno stato di abbandono anche per un’evidente inaccessibilità del sito, visto che si trova, così come la torre di Foce Verde, al di fuori dei confini e della gestione del Parco Nazionale del Circeo, istituito nel 1934. La torre di Caldano, individuata anche come torre delle Caldane o torre Caldara, è localizzata in prossimità del centro di Lavinio, nel comune di Anzio, su un piccolo promontorio; la denominazione porta a ipotizzarne la presenza a difesa delle ‘caldare’ delle miniere di zolfo impostate, in questa zona, a partire dal 1569 (Nibby, 1829). Dopo pochi anni dallìrdificazione, questo manufatto presenta problemi statici, forse a causa delle condizioni critiche del terreno sabbioso della spiaggia romana. Per questi motivi, nel 1565, papa Pio IV sollecita Marcantonio Colonna di provvedere alla ricostruzione della torre nell’ambito del sistema difensivo della costa contro gli attacchi dei pirati; tuttavia, nessuna notizia risulta prima del XVII secolo, lasciando supporre un eccessivo ritardo nei lavori o un secondo cedimento della struttura. Tor Caldara si presenta come un tronco di cono alto nove metri, con un diametro di circa dieci metri, come molte torri edificate in età rinascimentale ha, infatti, pianta circolare con basamento a scarpa. L’ingresso, al piano sopraelevato, è raggiungibile attraverso una rampa di scale munita di ponte levatoio. La torre presenta un apparecchio murario costituito da bozze di tufo legate con un impasto di calce e sabbia, mentre in alcune parti con malta pozzolanica; in molti punti il paramento murario esterno denuncia la presenza di laterizi di reimpiego, probabilmente proveniente dalla villa romana che sorge nei pressi, fatto salvo alcune porzioni di cortina laterizia attribuibile a un recente intervento di restauro (fig. 6). La fortificazione ha subito gravi danni durante un bombardamento delle navi inglesi, nel 1813, per essere in seguito parzialmente rovinata durante il cosiddetto ‘sbarco di Anzio’, nella Seconda Guerra Mondiale (1944), un momento bellico questo devastante per la costa anziate che ancora conserva tracce di bunker e di trincee degli alleati (Bonifazi, Giacopini, Mantero D., Mantero F. M., 1995).
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Maria Grazia Turco Fig. 7 Anzio (Roma), tor Caldara. Proposta di valorizzazione dell’area della Riserva Naturale Regionale (Olga Avitabile, Edoardo Calvani, Ludovica Di Martino, Giorgia Palma, A. A. 2014-2015).
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La struttura attualmente rientra nell’ambito dell’area della Riserva Naturale Regionale di torre Caldara, istituita con legge regionale del 26 agosto 1988, n. 50; inoltre, la zona delle solfatare e dei fossi è individuata come Sito di Interesse Comunitario (SIC), ai sensi del Decreto del 25 marzo 2005, predisposto dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare in base alla direttiva della Comunità Europea. Un’attenzione documentata dalla presenza di sorgenti di acqua sulfurea, stagni, dune e falesie, di un ricco patrimonio di flora e fauna oltre che dai resti archeologici di una villa romana di età imperiale, probabilmente dotata di un approdo stagionale. La proposta di valorizzazione della struttura, oggetto nel 1997 di un intervento di conservazione con numerose reintegrazioni murarie, elaborata da giovani studiosi è stata impostata attraverso il riconoscimento dei valori e l’analisi delle criticità rappresentate da una carenza di adeguate segnalazioni, dalla mancanza di manutenzione, da una scarsa visibilità e dalla totale assenza di percorsi attrezzati; il progetto, quindi, punta all’individuazione di facili accessi oltre che alla realizzazione di spazi pavimentati con materiali compatibili, come terra stabilizzata, la creazione di percorsi alternativi accessibili direttamente dalla spiaggia per riattivare il rapporto, non più esistente, tra torre e mare (fig. 7). Un’ulteriore soluzione, volta a ricostituire l’‘unità potenziale’ della struttura, oggi molto più bassa che in origine, ha elaborato una sorta di telaio in acciaio, totalmente reversibile, con l’intento di ‘riacquistare’ la percezione che si aveva dalla costa, prima che la torre venisse distrutta dai bombardamenti. La torre di Foce Verde rientra, insieme a quella di Fogliano, nel piano di riorganizzazione costiero voluto da Pio V anche se la sua costruzione, riferibile alla prima metà del XVII secolo, subisce un notevole ritardo dovuto al disinteressamento e alla negligenza costruttiva della famiglia Caetani, signori e amministratori del territorio, che porterà la struttura a essere completamente riedificata già nel 1681 (fig. 8). Il programma di valorizzazione dell’area, elaborato anche in questo caso da giovani progettisti, ha inteso restituire alla struttura storica il suo ruolo di riferimento della costa, attraverso l’impostazione di itinerari turistici, la riorganizzazione della limitrofa area destinata a campeggio, che oggi ‘annulla’ l’immagine della torre, oltre che attraverso l’ottimizzazione degli spazi limitrofi e dell’area fronte mare, dove si prevedere di predisporre un grande spazio pubblico, rispettando gli standard necessari per garantire la fruibilità totale da parte di un’utenza allargata (fig. 9). La ‘rigenerazione’ dei luoghi prevede: la piantumazione della vegetazione caratteristica, prevalentemente cespugliosa che con l’apparato radicale riesce a fissare la sabbia e a impedirne l’erosione, la rievocazione del sistema delle dune del litorale e la riconnesione visiva con le altre strutture del litorale, torre Paola e Astura. Particolarmente interessante il richiamo progettuale al sistema dunario con elementi artificiali in sabbia, articolati e inclinati secondo logiche che mirano a riproporre tale peculiarità morfologica e geoambientale del contesto marittimo laziale.
Fig. 8 Latina, torre di Foce Verde. Prospetto nord, scala 1:50 (Laura Nisco, Giorgia Reginato, Benedetta Serangeli, A. A. 2019-2020).
Conclusioni Molte delle torri del litorale laziale fanno parte di un sistema di straordinaria varietà paesaggistico-ambientale e rientrano a pieno titolo all’interno di Riserve naturali, come torre Caldara; di Parchi Regionali come quello del Circeo; oppure in contesti definiti Monumenti naturali, come torre Flavia e le sue secche. Si tratta, infatti, di un prezioso patrimonio architettonico che appartiene alla storia e al paesaggio, un riferimento culturale di grande importanza che deve essere ri-conosciuto per essere tutelato; obiettivo questo raggiungibile solo attraverso un’impostazione strategica, unica e sistematica, caratterizzata da interventi coerenti e organici, rivolti alla tutela e alla valorizzazione sia dell’architettura sia dei contesti naturalistici e ambientali, in un progetto volto all’incremento di un turismo culturale, archeologico, architettonico, sostenibile e compatibile, vale a dire “qualsiasi forma di sviluppo, pianificazione o attività turistica che rispetti e preservi nel lungo periodo le risorse naturali, culturali e sociali e contribuisca in modo equo e positivo allo sviluppo economico e alla piena realizzazione delle persone che vivono, lavorano o soggiornano nelle aree protette”7 (Carta del Turismo Sostenibile, 1995, p. 3). Negli esempi analizzati i singoli progettisti hanno sempre ricercato, e in gran parte realizzato, una reale saldatura tra le singole strutture e il contesto, nel rispetto dello spirito dei luoghi. Si tratta di proposte sicuramente molto diverse fra loro ma che hanno in comune giovani studiosi che con grande sensibilità hanno saputo affrontare scelte progettuali complesse perché a contatto con preesistenze architettoniche e paesaggistiche di riconosciuto valore, cercando di mantenerne la leggibilità e contestualmente di favorirne l’inserimento all’interno di nuovi percorsi culturali e naturalistici.
Il documento viene definito durante la Prima Conferenza Mondiale sul Turismo Sostenibile svoltosi a Lanzarote, nelle Canarie, il 27-28 aprile 1995. 7
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Maria Grazia Turco Fig. 9 Latina, torre di Foce verde. Proposta di valorizzazione dell’area antistante il mare (Laura Nisco, Giorgia Reginato, Benedetta Serangeli, A. A. 2019-2020).
Un programma, quindi, volto alla valorizzazione delle valenze culturali e storiche delle torri costiere, dopo secoli di dismissione e abbandono, strutture che devono rientrare nell’assetto territoriale, attraverso il riconoscimento delle potenzialità e dei valori, in una visione ampia e sistemica quale possibilità per uno sviluppo locale e regionale.
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Preservare la memoria di una comunità. Restauro e riuso del monte di prestiti di Piazza Armerina (Enna) Antonella Versaci
Facoltà di Ingegneria e Architettura, Università degli Studi di Enna ‘Kore’.
Alessio Cardaci Antonella Versaci Alessio Cardaci Luca Renato Fauzia Angela Scandaliato
Facoltà di Ingegneria e Architettura, Università degli Studi di Enna ‘Kore’.
Luca Renato Fauzia Facoltà di Ingegneria e Architettura, Università degli Studi di Enna ‘Kore’.
Angela Scandaliato
Facoltà di Ingegneria e Architettura, Università degli Studi di Enna ‘Kore’.
Abstract Rediscovering and highlighting the architectural traces that testify to the past of a community does not necessarily translate into the recovery of large monumental complexes. Frequently, the imprint of history can be found in more ‘humble’ public buildings which, once ceased their original functions went out of use and then gradually abandoned. This fate unites numerous Monti di Pietà: public establishments that developed throughout Europe since the Renaissance period. In Sicily, until the first decades of the 20th century, together with numerous charitable practices, these institutions carried out lending activities on the pledge of precious and non-precious objects, offering an indispensable service to the less wealthy population. Of these bodies, today remains the memory of the social task covered, certainly not without its shadows, but essential for the suffering class, often cruelly exploited by the phenomenon of the loan sharking. A role whose implications appear to be of great interest, not only in ethical, economic and socio-anthropological terms but also as a tangible presence, still often full of cultural features and genius loci. Focusing on the Monte di Prestiti of Piazza Armerina, in the province of Enna, this paper intends to show how reuse can be useful to preserve not only the material values but also the processes, ideas, prejudices, inclinations and tastes of a whole society. Keywords Historic town, conservation, reuse, memory
Introduzione Riscoprire e mettere in luce le tracce architettoniche che testimoniano il passato di una comunità non si traduce necessariamente nel recupero di grandi complessi monumentali. Spesso, l’impronta della storia è da ricercarsi in edifici pubblici più ‘umili’ che, sebbene abbiano ricoperto un ruolo centrale nella società, con la cessazione delle funzioni che assolvevano sono entrati in disuso e, perdendo il loro valore di utilità, sono stati progressivamente abbandonati. Tale destino accumuna numerosi Monti di Pietà: manifestazioni ‘quasi rivoluzionarie’ di assistenziato create nel periodo rinascimentale, in risposta ad un’esigenza sociale comune all’insieme della penisola italiana, poi replicate in tutta Europa.
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Anche in Sicilia – regione contraddistinta da grandi ineguaglianze tra i ceti aristocratici e le classi popolari e da una evidente limitatezza di quel “tessuto connettivo intermedio” costituito dalla borghesia (Di Matteo, Pillitteri, 1973) –, seppur in ritardo e con qualche evidente difficoltà, si assiste alla nascita e all’ampia diffusione di tali istituti, veri e propri strumenti di bene pubblico. Al di là di qualche iniziativa isolata è, verso la metà del Cinquecento, in un panorama economico complessivo segnato da situazioni estreme di miseria e decadenza e grazie al fervore di congregazioni religiose e laiche, che i Monti di Pietà sorgono e prosperano sul territorio isolano, per compiere una vitale attività di assistenza e soccorso. Mantenendo quello spirito francescano a cui si può ricondurne l’istituzione, la loro finalità primordiale rimarrà quella di sottrarre la povera gente alle grinfie dell’usura. A differenza delle similari esperienze condotte in altri Stati italiani, i modelli siciliani saranno, in effetti, incapaci di assolvere la funzione di istituto di credito e “di alimentare
Fig. 1 Il Palazzo del Senato, largo Santa Rosalia e il Monte di Prestiti: dal rilievo per la conoscenza alla modellazione 3D per la comunicazione della proposta progettuale.
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Antonella Versaci Alessio Cardaci Luca Renato Fauzia Angela Scandaliato Atto testamentario del notaio Felice Giusto, f. 22, in Archivio di Stato di Enna.
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l’economia siciliana con quei servizi bancari che le mancavano totalmente da quando nei primissimi anni del 600 era scomparso l’ultimo banchiere privato” (Trasselli, 1968). Fino ai primi decenni del XX secolo, essi svolgeranno sostanzialmente – insieme a numerose altre pratiche di beneficenza – l’attività creditizia su pegno di oggetti preziosi e non, offrendo un servizio indispensabile alle fasce meno abbienti della popolazione. La disciplina giuridica introdotta dal regio decreto n. 1396 del 14 giugno 1923 con cui si suddividono i Monti di Pietà in due categorie – una prima in cui rientrano quelli che avevano assunto, nel tempo, il carattere di istituti di credito e una seconda in cui transitano tutti gli altri a carattere filantropico – e poi la legge n. 1236 del 13 giugno 1935 con cui il governo sostituisce la – significativamente e volutamente meno empatica – denominazione di Monti di credito su pegno a quella storica di Monti di Pietà “smagliante di classica bellezza e di cristiano sentimento” – porta ad un progressivo ma impietoso declino degli enti siciliani, fino alla loro definitiva chiusura. Di tali istituzioni rimane oggi il ricordo dello storico compito sociale da esse rivestito, certo non privo di ombre, ma nondimeno essenziale per la classe sofferente o sfruttata crudelmente dal fenomeno (mai, ahinoi, risolto) dello strozzinaggio. Un ruolo i cui risvolti appaiono di grande interesse, non soltanto in termini di evoluzione del pensiero etico-economico e socio-antropologico, ma anche in qualità di presenza tangibile grazie alle tracce architettoniche e urbane superstiti, ancora sovente pregne di memoria culturale e genius loci. La loro conservazione, se supportata da un progetto basato su processi conoscitivi opportunamente approfonditi e metodologicamente corretti, può generare proposte di rifunzionalizzazione sostenibili ma, soprattutto, rispettose delle valenze materiali e immateriali insite in tali beni. Un progetto di ‘rivelazione’ e riuso che sa parlare il linguaggio delle emozioni ed è volto a ridare senso a “documenti dotati di intrinseca dignità, capaci di evocare grappoli di ricordi e una messe di informazioni utili alla conoscenza non solo della storia materiale, ma della storia tout court” (Bodei, 2011; 2014, pp. 159-160). Questi i presupposti su cui si fonda la ricerca sul c.d. Monte di Prestiti (o Monte di Prestami) di Piazza Armerina, in provincia di Enna, che questo lavoro riassume. Un’opera architettonica di sicuro interesse, rimasta silente per un lungo interregno d’oblio, ma che ancora “manifesta sia le tracce dei processi naturali e sociali che lo hanno prodotto, sia le idee, i pregiudizi, le inclinazioni e i gusti di una intera società” (Bodei, 2011; 2014, p. 160). Carità e benevolenza a Piazza: nascita ed evoluzione dei Monti di Pietà Un antico Monte di Pietà viene costituito, tra i primi in Sicilia, nel 1486, presso l’antica chiesa di Santa Maria degli Angeli dalla Confraternita omonima e posto sotto il governo di un Rettore, nominato dai giurati della città (Roccella, s.d.). Dopo aver beneficiato a lungo di cospicue donazioni, alla metà del XVI secolo, forse a causa di un’amministrazione inadeguata, l’istituzione affronta un periodo di grandi difficoltà. Nel 1571, su proposta del frate cappuccino Francesco da Scicli, l’onere della sorveglianza e della gestione del “Monte costituito in sollievo dei poveri” (Amico, 1759) viene, pertanto, trasferito alla Compagnia dei Nobili detta dei Bianchi. Tale sodalizio, composto da sacerdoti e notabili del luogo ne manterrà la responsabilità – dedicandosi, al contempo, ad altre numerose opere pie – fino al 1815, anno della sua soppressione. Annesso alla Pubblica Beneficenza nel 1818 e alla Congregazione di Carità dal 1862, il Monte manterrà in essere le sue attività sino ai giorni nostri (Villari, 1987; 1988).
Se le informazioni relative a questo primo ente sono purtroppo carenti e contraddittorie, documentazione molto più ampia ci è invece pervenuta riguardo alla nascita ed evoluzione di un secondo istituto di credito denominato Monte di Prestiti. Come risulta da un atto testamentario del 22 gennaio 17711, esso fu fondato sotto il titolo dello Spirito Santo, insieme all’ospedale civile, da padre Michele Chiello, con lo scopo di prestare denaro ad artigiani, operai, contadini e braccianti che più difficilmente potevano impegnare ori o corredi. Per la sua sede, egli destinò la sua «casa grande» e una cifra pari a 1649 onze al fine di permetterne l’avviamento. Come altre strutture analoghe, la dotazione patrimoniale del Monte di Prestiti si arricchì, verso la metà del XIX secolo, di una donazione importante da parte di un notabile del luogo, Vespasiano Trigona, duca di Misterbianco, erede della nobile casata nobiliare siciliana di derivazione sveva. L’opera dell’istituto a favore dei poveri del luogo fu a lungo così florida da richiedere, nel 1857, l’utilizzo di due nuove stanze da adibire a deposito del rame e, più tardi, la creazione di una succursale in un immobile vicino. Infine, nel 1881, allo scopo di eliminare i costi della locazione e le spese per il mantenimento di un secondo custode, si rese necessaria l’edificazione di un secondo piano dell’edificio nel quale aveva sede. L’attività pegnoratizia proseguì senza soluzione di continuità per circa un trentennio, con un impegno finanziario non indifferente da parte dell’istituto, tanto da obbligarlo, nel 1888, a far ricorso al sistema bancario per contrarre un mutuo dell’importo di 12.000 lire (Di Matteo, Pillitteri, 1973). Le operazioni istituzionali seguivano schemi già consolidati: la durata del pegno dipendeva dal tipo di oggetto depositato (tre anni per gli oggetti preziosi e in rame, due anni per la biancheria, sei mesi per la seta e quattro mesi per la lana), previo eventuale rinnovo. Anche le cartelle di rendita del debito pubblico erano ammesse a pegnorazione, per la durata di un triennio. Verso la fine del secolo, il Monte fu dotato di un nuovo assetto istituzionale che, tuttavia, non lo risparmiò da una grave crisi operativa e, dunque, da un forte decremento delle attività che sancirà l’avvio del suo declino. Malgrado lo snellimento delle successive procedure e la riduzione del tasso di interesse, non si registrò in seguito alcun sintomo di ripresa; al contrario, fu necessario accendere nuovi mutui. Incapace di conseguire le finalità e gli scopi per cui era stato creato, in larga parte anche grazie al miglioramento del tenore di vita della popolazione, l’avvento del primo conflitto mondiale decretò il definitivo tracollo dell’istituzione, che la riforma statuaria emanata con regio decreto 17 aprile 1924, n. 626 non riuscì ad impedire. Costretto nei limiti di un’attività del tutto marginale e non remunerativa, operò per pochi anni, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e, poi, dopo un quindicennio di sostanziale inattività, fu posto in liquidazione con decreto del Presidente della Regione 5 luglio 1957, n. 674. Il Monte di Prestiti nel contesto delle trasformazioni urbane ottocentesche La sede del Monte di Prestiti sorge in un punto della città interessato da rilevanti trasformazioni urbane compiutesi tra la fine del XVI e il XIX secolo, con un forte incremento nel corso dell’Ottocento. L’antico nucleo medievale che aveva il proprio fulcro intorno al palazzo della Loggia Comunale viene modificato nel suo assetto urbano. La vastità del patrimonio architettonico religioso di Piazza e la sua rilevanza nell’ambito del tessuto urbano cittadino, nella stessa misura con la quale ha dato un’impronta allo sviluppo della città, ha anche in larga parte risentito delle conseguenze derivanti dall’applicazione delle leggi eversive dell’asse ecclesiastico del 1866 e 1867.
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Antonella Versaci Alessio Cardaci Luca Renato Fauzia Angela Scandaliato Archivio Storico del Comune di Piazza Armerina, faldone Atti S. Rosalia, delibera di Giunta municipale del 3 ottobre 1892 A’-III-23. 3 Archivio Storico del Comune di Piazza Armerina, Registro delle deliberazioni del consiglio dal 10 ottobre 1903 al 18 ottobre 1904, delibera di Consiglio comunale n. 295 del 25 novembre 1903, Z-II-4. 2
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Il confronto tra le mappe catastali di epoca pre e post-unitaria, permette di comprendere come l’esteso patrimonio immobiliare ecclesiastico sia stato incamerato dallo Stato per ospitare nuove funzioni pubbliche, acquistato da privati frazionando la proprietà dei manufatti o, ancora, distrutto per far spazio a opere di allargamento stradale o alla costruzione di nuovi edifici. Nel caso specifico, proprio il contesto urbano nel quale sorge il Monte di Prestiti è stato protagonista di una rilevante modifica del tessuto cittadino, fortemente voluta dall’amministrazione comunale alla fine del XIX secolo, che ha condotto alla demolizione del convento di Santa Rosalia, ormai soltanto ricordato nella denominazione della piazza sulla quale si affaccia il prospetto settentrionale dell’edificio. Il convento di Santa Rosalia fu costruito durante il XVII sec. a partire dall’omonima chiesa eretta nel 1624 ma, il 28 agosto 1884, il Consiglio Comunale deliberò che il complesso fosse in parte destinato ad asilo infantile e demolito nella parte orientale per consentire l’allargamento della via Cavour. La vicenda, che solo in un primo momento troverà l’opposizione della locale Prefettura, porta nel corso di circa un decennio alla completa demolizione del convento per far spazio alla piazza Santa Rosalia, destinata ad accogliere il mercato del pesce e alcune botteghe precedentemente localizzate nella vicina piazza Garibaldi (Nigrelli, 2019). La principale motivazione che ha guidato tali scelte urbanistiche risiede nel fatto che, da quando negli anni Sessanta dell’Ottocento l’amministrazione comunale si insedia in piazza Garibaldi, presso i locali dell’ex convento dei Benedettini Cassinesi di Fundrò, tale slargo doveva assolvere un ruolo istituzionale e, pertanto, non poteva più essere destinato a sede di mercato per via degli eccessivi schiamazzi e delle inadeguate condizioni igienico-sanitarie connesse a tale attività. Nacque così l’ampio spazio triangolare di piazza Santa Rosalia, situato a nord del complesso architettonico del Palazzo del Senato e del Monte di Prestiti, fulcro del commercio alimentare della città fino agli anni Ottanta del XX secolo. In seguito alla dismissione di tale funzione d’uso, si provvide a una sua più decorosa sistemazione, attraverso la demolizione di alcune baracche presenti, la ripavimentazione in mattonelle di cotto, l’inserimento di panchine e altre opere di decoro urbano. Il lato occidentale dell’invaso è limitato da due edifici pubblici che nascono proprio in seguito alle operazioni di demolizione del convento di Santa Rosalia. Il primo, definito nelle delibere comunali dell’epoca come ‘edificio di Santa Rosalia’, posto nella parte settentrionale della piazza, nasce dalla volontà dell’amministrazione, già manifesta nel 1892, di realizzare botteghe di prodotti alimentari in sostituzione del diruto convento. L’inizio dei lavori subirà diversi ritardi; questi saranno, infine, aggiudicati nel 1896 e ultimati nel 1898 con la realizzazione di un edificio costituito da sette negozi, di cui due più piccoli, ognuno dei quali dotato di mezzanino2. I locali saranno sgomberati e impiegati per ospitare la prima centrale elettrica a gasolio della città, in funzione dal 1904 fino al secondo dopoguerra. Tra gli anni Cinquanta e Ottanta, tali locali saranno adibiti a palestra e, in seguito, ristrutturati per ospitare, sino al 1998, la locale Prefettura. L’edificio diverrà, quindi, una sede distaccata dell’Università di Catania sino al 2009 e, poi, dal 2013 albergherà il Centro regionale per l’occupazione (Nigrelli, 2019). L’altro edificio, posto a meridione, è la pescheria progettata nel 1903 dal tecnico comunale Giacomo Pastorelli3 e realizzata l’anno seguente, in concomitanza con lo sgombero dei locali commerciali dell’edifico di Santa Rosalia per far spazio alla centrale elettri-
ca. Unico esempio di architettura liberty tra gli edifici pubblici presenti a Piazza Armerina, il manufatto mantiene la sua funzione fino gli anni Settanta del XX secolo; più tardi ospiterà l’ufficio turistico comunale e numerose associazioni di volontariato e del comitato del quartiere Castellina. Dal 2014, l’edificio risulta inutilizzato. Il complesso del Palazzo del Senato e del Monte di Prestiti L’intero complesso architettonico del Monte di Prestiti si contraddistingue per una particolare dualità. La porzione meridionale della fabbrica, prospicente la Piazza Garibaldi, accoglie il Palazzo del Senato – detto anche Palazzo di Città – e mostra un fronte monumentale di età tardo barocca eretto su disegno dell’architetto catanese Francesco Battaglia (1701-1788). La facciata si caratterizza per un felice accostamento tra la locale pietra arenaria e mattoni a cortina a faccia vista: una novità costruttiva, per questi territori, importata dall’architetto romano Orazio Torriani, – chiamato a Piazza per completare la Chiesa Madre (1626) –, destinata a rivoluzionare i caratteri costruttivi delle fabbriche contemporanee e successive della città. La parte nord del complesso, che si affaccia sui larghi di Santa Rosalia e di Sant’Onofrio corrisponde, invece, all’antica sede del Monte di Prestiti ed è contraddistinta da facciate in muratura di pietra a vista di pezzatura e disposizione irregolare, “rincocciate” con elementi in laterizio, prive di modanature e apparati decorativi e scandite da cantonali composti da grandi conci squadrati, sempre di pietra arenaria locale. Nel prospetto nord è anche evidente la sopraelevazione realizzata nel 18814 quando l’incremento dell’attività del Monte rese necessaria la costruzione di un nuovo livello. Il fronte su piazza Garibaldi si presenta su due ordini modulati da lesene realizzate con elementi in pietra da taglio e che racchiudono dei paramenti in mattoni crudi. In quello inferiore, interposti tra le lesene, si aprono l’imponente portale in arenaria sormontato da un frontespizio recante lo stemma della città e due finestroni a frontespizio arcato. L’ordine superiore è arricchito da tre ampi balconi tra loro collegati per mezzo di un ballatoio con ringhiera in ferro battuto che si estende lungo tutto il prospetto. Un timpano arcuato, contenente al centro un orologio, sovrasta la cornice di coronamento della facciata. Il portale principale conduce ad un salone pavimentato in marmo, caratterizzato dalla presenza di quattro grandi colonne su basamento che definiscono una zona centrale aperta a botte lunettata, separandola da due zone laterali delimitate da archi e coperte con volte a crociera. Un secondo ingresso posto lungo la via Cavour permette di accedere, tramite una scala a due rampe, al primo piano costituito da cinque ambienti tra loro comunicanti. Il maggiore di essi si affaccia con tre grandi balconi sulla Piazza Garibaldi e con uno sulla Via Cavour; la copertura dell’aula ha un’ampia volta a padiglione interamente affrescata dal pittore palermitano Gioacchino Martorana. Si evince chiaramente come la porzione dell’isolato destinata ad albergare il Monte di Prestiti, manifesti uno stile architettonico delle facciate distintamente più umile rispetto al prospetto meridionale. Il suo ingresso si apre su un largo che era un tempo il sagrato della chiesa di Sant’Onofrio e oggi un parcheggio recintato. L’antico prospetto principale era, quindi, posto in continuità con l’edificio che completa l’isolato sull’allineamento di una preesistenza ancora leggibile, forse un’antica torre medievale. Il fronte nord – ora apprezzabile nella sua interezza grazie alla nuova piazza – era, infatti, visibile solo di scorcio, a differenza di quello ovest che si riusciva a cogliere nella sua totalità.
Catasto fabbricati, registro delle partite, part. n° 885 e n° 2609, in Archivio di Stato di Enna. 4
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Il visitatore che giungeva a Piazza dal contado per impegnare i suoi averi – dopo aver raggiunto la Piazza Garibaldi costruita come una quinta scenica di cui il Palazzo del Senato costituiva insieme alla chiesa di San Rocco il fondale – si avventurava per stretti vicoli, passaggi coperti e spazi angusti che si aprivano improvvisamente. Il piccolo varco, non enfatizzato con paraste e decori, permetteva l’accesso agli ambienti interni, piccoli nelle dimensioni ma ben progettati nella distribuzione funzionale. Nonostante i decenni di incuria e abbandono, essi tuttora conservano, in buono stato, elementi mobili e scaffalature lignee di grande pregio, testimonianza della perizia delle maestranze locali. L’edificio del Monte di Prestiti si sviluppa su un piano seminterrato a cui si accede da via Cavour e tre piani fuori terra il cui accesso avviene, attraversando piazza Santa Rosalia, da largo Sant’Onofrio. Il piano seminterrato rappresenta l’unica porzione dell’edificio attualmente fruibile. In questi ambienti, infatti, grazie a un finanziamento ottenuto dal Comune di Piazza Armerina, è stato possibile eseguire un progetto di restauro che ha previsto la realizzazione di un centro espositivo, inaugurato nel giugno 2009. Questo spazio, un tempo destinato a deposito delle derrate alimentari e dei beni più voluminosi messi in pegno, si compone di cinque sale voltate – connesse tra loro da ampie arcate – e, all’interno di una di esse, un antico pozzo. Gli ambienti degli altri tre piani si presentano in precario stato di conservazione. Dell’antica pavimentazione permangono solo piccole porzioni realizzate in cementine disposte secondo un motivo a losanga; inoltre, il libero accesso a piccioni e altri animali, seppur parzialmente contrastato attraverso la presenza di reti metalliche alle finestre, ha comportato l’accumulo di guano e sporcizia, accentuando lo stato di degrado e l’insalubrità degli ambienti. Negli anni 2008-2009, sono stati eseguiti degli ingenti lavori di messa in sicurezza, che hanno previsto la demolizione delle scale e dei solai lignei del piano primo e secondo, perché instabili e fatiscenti, sostituiti con catene metalliche al fine del mantenimento delle connessioni strutturali. Quest’intervento ha, quindi, riconfigurato tale porzione dell’edificio, trasformandola in un unico ambiente a tripla altezza, che reca chiaramente i segni degli abbattimenti e sul quale si affacciano gli accessi agli altri vani dei livelli superiori, attualmente irraggiungibili. Il piano terra si sviluppa ad una quota rialzata rispetto alla quota d’ingresso; accedendo dal portone prospicente largo Sant’Onofrio sono, pertanto, presenti alcuni gradini. Dall’ambiente di ingresso si accede verso la sala che era destinata al pubblico, oppure verso la stanza che oggi definiremmo del front office, dove gli impiegati si interfacciavano con gli utenti attraverso uno sportello con tre piccole aperture chiuse da grate in ferro battuto, tuttora presenti. Da quest’ultimo ambiente, una porta conduce a due sale tra loro collegate, che ospitavano i depositi dei pegni più preziosi: oggetti in oro o argento, ma anche biancheria con ricami. In questi spazi voltati a botte, si rimane colpiti dalle strutture lignee delle scaffalature ancora pressoché intatte, decorate da eleganti trabeazioni e colonne a base quadrata finemente modanate. Gli impalcati si sviluppano lungo il perimetro delle sale-deposito su due elevazioni; essi presentano, nella parte centrale, una scala a due rampe, che costituisce un tutt’uno con il resto della struttura e consente l’accesso al ballatoio che affianca il piano soprelevato degli scaffali. Nella prima sala-deposito è stato installato, nel 2008-2009, un controsoffitto in tavolato sostenuto da elementi metallici ancorati nella scaffalatura, a protezione di eventuali distacchi dell’intonaco. La volta della seconda sala-deposito è stata di recente puntellata, poiché presenta alcune lesioni; inoltre, sul lato nord della stanza, un’aper-
tura un tempo finestrata, risulta tamponata con blocchi di calcestruzzo. Risalgono, infine, al 2019 gli ultimi interventi di manutenzione della copertura e di una porzione del prospetto est, che ha previsto anche la sostituzione di alcune grondaie e pluviali e la sistemazione di parte dei muretti d’attico. Restauro e riuso di un monumento-documento Il rilievo ha portato alla comprensione dell’edificio nella sua evoluzione costruttiva e facilitato l’attenta valutazione dei materiali costituenti e delle patologie di degrado; fasi necessarie alla formulazione un progetto di conservazione e ri-funzionalizzazione del manufatto. Un’approfondita conoscenza metrico-geometrica e morfologica, ottenuta attraverso l’impiego combinato di acquisizioni realizzate sia con sensori attivi (3D laser scanner) che con sensori passivi (fotogrammetria digitale), ha facilitato la lettura delle trasformazioni avvenute nel corso dei secoli, fornendo nuovi importanti indizi o delucidando le informazioni ottenute attraverso l’indagine archivistica e bibliografica. Una documentazione grafica, sino ad oggi mancante, che le normali tecniche di rilievo diretto non erano riuscite a colmare. L’apprezzamento e l’analisi, sia del fuori piano di pochi centimetri degli alzati, sia delle variazioni di pochi gradi negli allineamenti, hanno permesso di interpretare le preesistenze e di valutare la convenienza di soluzioni costruttive altrimenti inspiegabili, nonché di sovrapporre con precisione e continuità gli elevati in mancanza di fili fissi di riferimento. I rilievi esistenti, frutto dell’indagine diretta e viziati dai preconcetti del disegno degli eidotipi (uno schizzo di pianta e/o alzato su cui andare a sovrapporre le informazioni di misurazioni mirate e, quindi, costruito non sulla reale geometria ma sull’interpretazione del disegnatore), non erano stati in grado di cogliere delle peculiarità la cui importanza si è dimostrata basilare per la ricostruzione storico-evolutiva dell’architettura (Cardaci et al, 2013). Nel dettaglio delle operazioni è stata costruita una rete interno-esterno materializzata dalle posizioni delle stazioni dello strumento a scansione; alcune acquisizioni sono state condotte a quote più elevate rispetto al livello del terreno grazie all’impiego di un’asta telescopica controventata di oltre cinque metri di altezza. Questo ha permesso di realizzare una nuvola di punti densa e di elevata precisione, su sui è stato successivamente sovrapposto il modello fotogrammetrico, al fine della produzione di proiezioni ortografiche delle planimetrie, degli alzati e dei profili di pianta. Una accuratezza che si è rivelata indispensabile per il progetto di conservazione e riuso degli interni perché ha permesso di creare un modello BIM degli arredi e delle pregevoli opere in legno intarsiato con modanature. Un’architettura in miniatura nascosta dentro l’architettura del palazzo; un gioiello che era necessario comprendere nelle sue proporzioni e nei suoi rapporti, per poter intervenire con un restauro – sapiente e cosciente – delle sue componenti materiche. Una scrupolosa mappatura dei fenomeni di alterazione e degrado ha guidato la progettazione di specifiche modalità di intervento finalizzate soprattutto alle operazioni di pulitura e di rimozione di elementi impropri presenti sulla facciata tardo barocca. La determinazione delle opere conservative più idonee ed efficaci, è stata ponderata in misura dell’alto valore architettonico insito nella fabbrica, tenendo conto delle sue caratteristiche materiche, morfologiche e della scarsa resistenza ad azioni meccaniche ed erosive dei suoi elementi decorativi più significativi. Analogamente si è proceduto con lo studio del complesso del Monte; quest’ultimo caratterizzato, come antici-
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pato, da un fronte meno articolato rispetto al precedente, ma non per questo da considerare di ridotta valenza. La proposta di riuso è nata dallo studio delle sale in cui sono contenute le ‘scatole’ lignee dei depositi: scrigni preziosi di memorie immateriali che si sono trasformate in pretesto per un nuovo allestimento, ricco di antiche suggestioni. L’attuale tripla altezza del vano nord-ovest si è rivelata un’opportunità per la realizzazione di una nuova struttura che sfrutta la spiccata verticalità di questo spazio, divenendo allo stesso tempo un richiamo alla tipologia costruttiva dei depositi lignei dei Monti di Pietà. Il progetto prevede, altresì, la costruzione di un telaio in acciaio da inserire all’interno dell’involucro esistente, articolato da scale e ballatoi, atto a condurre il fruitore in piani nei quali alloggiano le librerie di un caffè letterario. I locali dei depositi saranno, invece, destinati ad allestimenti temporanei. Le scelte progettuali sono state costruite sulla base di un lungo filone di ricerca che ha per oggetto il tema della ‘scatola nella scatola’, per il quale sono stati esaminati numerosi edifici che al loro interno, come in una ‘matrioska’, contengono la complessità. L’intervento su Palazzo Branciforte di Palermo dell’architetto Gae Aulenti, per le affinità evidenti nella funzione originaria ma anche per l’indubbia qualità del progetto di restauro, è stato fortemente determinante nelle scelte proposte. Al suo interno è, in effetti, possibile visitare una vastità di ambienti dell’antico Monte Santa Rosalia, magistralmente recuperati e riconfigurati nella nuova veste di polo culturale, in un connubio armonioso tra spazi ritrovati e ambienti nuovi destinati all’arte e alla cultura, tra cui una zona espositiva, una biblioteca, una sala conferenze e altri spazi di rappresentanza (Puglisi, 2012). Il progetto di conservazione e riuso del complesso del Monte di Prestiti ha posto una specifica attenzione sul largo Santa Rosalia attraverso una riprogettazione della piazza, impiegando materiali tradizionali, quali la pietra arenaria, voce ricorrente nel lessico architettonico locale e proponendo nuovi innesti realizzati in acciaio Cor-Ten, “inteso come uno strumento semiotico in grado di connotare l’aggiunta contemporanea senza sbilanciare il rapporto antico-nuovo, cifra distintiva che impronta di sé l’intero progetto” (Ercolino, 2017, p. 53). Il Cor-Ten è stato riproposto per la realizzazione di scatole da giustapporre alle cornici delle finestre al fine di ridefinire e caratterizzare il disegno del prospetto, senza mai stravolgerlo e, ancora, per rivestire la struttura a scaffali del ‘caffè’, mediando un continuum tra esterno ed interno. Conclusione Questo lavoro, muovendo da una vasta attività di studio e ricerca, ha permesso di far emergere il ruolo ancora potenzialmente attivo di un ambito importante di Piazza Armerina, ricco di stratificazioni ed elementi di pregio da riscoprire e valorizzare. Dall’analisi storico-urbana si evince come l’antico quartiere, interessato nel corso dei secoli da rilevanti trasformazioni e altrettante rifunzionalizzazioni degli edifici pubblici che lo compongono, abbia via via perso l’importanza e la centralità che la comunità locale vi riconosceva, riducendosi a uno spazio privo di una destinazione specifica e poco frequentato. Nell’ambito della proposta di riuso del Monte di Prestiti si è, quindi, tenuta in grande riguardo tale criticità, dando rilievo al rapporto con la limitrofa piazza: un vuoto urbano che però tanto ha ancora da raccontare sui caratteri e sullo sviluppo della città. In tal senso, è apparso auspicabile ridare all’edificio nuova linfa vitale, permettendo-
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gli così di fornire il suo positivo apporto al mantenimento della qualità architettonica complessiva del quartiere, riguadagnando quel ruolo centrale di vita e aggregazione sociale, un tempo, rivestito. Il progetto di conservazione e rifunzionalizzazione del complesso si è proposto di ricollegare lo spazio estetico al suo significato simbolico, nell’obiettivo di dare innanzitutto leggibilità all’opera nel suo contesto ambientale (Choay, 1965, p. 72). Esso è stato, quindi, strutturato sul filo della dialettica ricordo-oblio, memoria-dimenticanza nell’idea di “usare il passato per la vita e di trasformare la storia passata in storia presente” (Nietzsche, 1972, p. 267), ovvero quale strumento di riscoperta di elementi tangibili e intangibili, tutti rappresentativi di una realtà socioeconomica, storica e culturale, che ha profondamente segnato la Sicilia del XVIII e XIX secolo. Luci e tenebre del passato, la speranza e la disperazione della povera gente desiderosa di riscatto, le loro storie intrise di miseria e di oppressione ma, al contempo, di voglia di affrancamento e liberazione sono, dunque, stati considerati quali componenti essenziali di un processo di recupero foriero di opportunità, in una visione del domani più concreta, solidale e condivisibile. Bibliografia Amico V.M. 1858, Dizionario topografico della Sicilia (tradotto dal latino ed annotato da Gioacchino Di Marzo), voI. II, Tipografia di Pietro Morvillo, Palermo [ed. orig. 1757-60]. Bodei R. 2011 (ed. digitale, 2014), La vita delle cose, Laterza, Bari. Cardaci A., Gallina D., Versaci A. 2013, Laser scanner 3D per lo studio e la catalogazione dell’archeologia medievale: la chiesa di Santa Croce in Bergamo, «Archeologia e Calcolatori», n. 24, pp. 209-229. Choay F. 1965. L’urbanisme, utopies et réalités. Une anthologie, Éditions du Seuil, Paris. Di Matteo S., Pillitteri F. (a cura di) 1973, Storia dei Monti di Pietà in Sicilia, Cassa di risparmio V. E. per le province siciliane, Palermo. Ercolino M.G. 2017, Restauro e Cor-Ten: un’intesa possibile?, «Materiali e strutture. Problemi di conservazione», n.12, pp. 47-62. Nietzsche F. 1972, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (traduzione italiana di S. Giametta), in Colli G., Montanari M. (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, vol. III, tomo I, Aldephi, Milano. Nigrelli F.C. 2019, Lo spazio perduto. Trasformazioni urbane e modernizzazione a Piazza Armerina nel XIX secolo, Franco Angeli, Milano. Puglisi G. 2012 (a cura di), Palazzo Branciforte, Sellerio Editore, Palermo. Roccella A. 1878, Storia di Piazza dalla sua fondazione al 1878, vol. 3, in Chiese, conventi e istituti di filantropia in Piazza, manoscritto inedito. Ruotolo F. 1987, Fra Andrea da Faenza of m. obs. († 1495) e i primi monti di pietà in Sicilia, «Schede medievali. Francescanesimo e cultura in Sicilia (secc. XIII-XVI). Atti del convegno internazionale di studio nell’ottavo centenario della nascita di S. Francesco d’Assisi. Palermo, 7- 12 marzo 1982», Officina di Studi medievali, n. 12-13, pp. 149-179. Sutera D. (2008). I conventi francescani a Piazza Armerina: architettura e trasformazione, in C. Miceli C. (a cura di), Francescanesimo e Cultura nelle provincie di Caltanissetta ed Enna, Officina di Studi medievali, Palermo, pp. 283-293. Trasselli C. 1968, Problemi di credito a Palermo nella seconda metà del secolo XVII, «Economia e credito», n. 1, pp. 51-76. Villari L. 1987, Storia della città di Piazza Armerina (ed. riveduta e ampliata), La tribuna, Piacenza. Villari L. 1988, Storia ecclesiastica della città di Piazza Armerina, Società Messinese di Storia Patria, Messina.
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La conoscenza dei territori danneggiati dal sisma. Catalogazione e rappresentazione dell’interscalarità dei valori paesaggistici. Prime risultanze Maria Vitiello Maria Vitiello
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Abstract La ricerca ha inteso sviluppare un progetto per la conoscenza delle risorse territoriali, paesaggistiche, urbane e architettoniche sopravvissute al disastroso terremoto che tra il 2016 e il 2017 ha toccato l’entroterra appenninico mutando profondamente l’assetto di quei luoghi. Fra i molti possibili strumenti per l’ascolto e la sistematizzazione della complessità delle informazioni da raccogliere, quello della catalogazione è apparso quello che con maggiore coerenza consentiva la conservazione e il confronto dei dati, oltre che una loro più efficace messa a sistema ai fini della comprensione delle direttive da stabilire ai fini della ricostruzione post sisma e alla valorizzazione dell’esistente. Ciò ha comportato la formazione di un’articolata architettura della conoscenza che si è reso esplicita attraverso la composizione di un database e della relativa piattaforma di georeferenziazione, che è diventato il perno della ricerca. L’elaborazione della scheda di raccolta dei dati si è basata sulle esperienze pregresse nel campo della catalogazione e si è confrontata con gli studi più aggiornati, ma soprattutto ha cercato un confronto serrato con i frammenti dei centri storici e degli edifici intorno ai quali è necessario incentrare un programma di ricomposizione materiale e culturale di quelle terre. Keywords Accumoli, Amatrice, paesaggio, centri urbani, catalogazione.
Introduzione La sequenza sismica avviata con il terremoto del 24 agosto del 2016 e conclusa con l’ultima scossa di magnitudo 5.3 del 18 gennaio del 2017, dopo aver colpito fortemente Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto, ha danneggiato, con una serie di repliche, 140 comuni tra cui si ricordano: Preci, Castelsantangelo sul Nera, Ussita, Norcia. L’estensione di questo ‘cratere sismico’ è di circa 8000 kmq localizzati a cavallo tra le regioni Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo. Si tratta delle terre del centro Italia in parte già toccate dalle violente scosse del 1997 e del 2009, ma oggi segnate da una perdita grave e ampia del patrimonio architettonico. Lo sciame tellurico, durato oltre un anno, ha rovinato gradualmente chiese, case, palazzi e poi ha guastato anche ciò che di questi restava, consumando a poco a poco, tutta la storia custodita in quei muri, segnata da quelle strade, scritta in quei paesaggi (fig. 1).
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Oltre al collasso delle architetture più note e illustri, come la basilica di San Benedetto, dei palazzi municipali e delle torri civiche, questo terremoto ha portato alla lenta distruzione di quel patrimonio architettonico ‘diffuso’ disegnato dai piccoli centri abitati, dai borghi cresciuti nelle frazioni dei comuni montani nei quali era raccolta la geografia storica e culturale dell’Appennino centrale. In aggiunta a ciò, dove il sisma aveva risparmiato edifici l’uomo non ha lesinato la sua furia, portando a termine con azioni dettate, forse, dal timore di nuovi crolli, l’opera di disintegrazione avviata dal terremoto. È così che sono finiti per sempre borghi come Amatrice, Pretare, Pescara del Tronto, distrutti irrimediabilmente dalla violenza della terra e dalle ruspe dell’esercito, dei Vigili del fuoco e della protezione civile. Per arginare questo impeto distruttivo indotto dalla seduzione della ‘messa in sicurezza’, la Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio per le province di Frosinone, Latina e Rieti ha stipulato con la Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio dell’Università Sapienza di Roma un protocollo d’intesa con il quale si dava avvio ad una ricognizione dei beni sopravvissuti a questo furore, avviando, in parallelo, le procedure per la predisposizione di un vincolo ‘socio-relazionale’ dei territori di Amatrice e Accumoli1. Da qui la necessità di predisporre uno specifico metodo di conoscenza del territorio che consentisse l’acquisizione e la messa a sistema, attraverso la predisposizione di un nuovo strumento catalografico, della storia dei luoghi e dei valori, soprattutto paesaggistici, che legano i due borghi alle loro molteplici frazioni.
Fig. 1 Mutazioni del paesaggio urbano. Amatrice, Italia. Corso Umberto I. a) Caratteri dell’edilizia seriale. b) Cumuli e macerie. c) La città rasa al suolo (photo: M. Vitiello, 2013 e Alessandro Scotti, 2017-19 da #ricominciamo https:// www.donnamoderna.com/ dossier-terremoto/).
Luoghi della conoscenza La vastità dei danni accorsi al patrimonio architettonico edificato presente in queste terre ha subito lasciato intuire che il problema della conoscenza per la ricostruzione fosse legato non al restauro dei monumenti più importanti, nemmeno alle problematiche della singolarità di ogni edificio, ma alla corretta valutazione del patrimonio architettonico diffuso ed al suo essere un insieme sistemico con il territorio e il paesaggio. La maggioranza dei fabbricati crollati a seguito del sisma è, infatti, costituito da case costruite secondo il vernacolo locale senza una storia costruttiva raccontata da documenti archivistici o descritta dalla letteratura artistica, ma le cui vicende devono essere colte nella coralità dell’insieme, nel valore paesaggistico del borgo, nella specifica qualità costruttiva e tipologica che ciascun edificio esprime. Questo patrimonio architettonico diffuso esige di essere conservato “non per sofisticate ‘ragioni culturali’, ma per genuina affezione ai vecchi siti danneggiati”, per le memorie che in questi sono riposte, oltre che per la tradizionale ‘qualità urbana’ dei borghi, “spontaneamente capace di favorire le relazioni di vicinato e gli scambi sociali” (Carbonara 2018), tuttavia ha bisogno di un modo nuovo di essere decodificato.
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Un modo che consenta la corretta lettura delle forme e una altrettanto corretta ricomposizione dei valori, perché l’azione di restauro, a cui questi beni devono essere sottoposti per essere correttamente trasmessi al futuro, sia equilibrata e realmente rispettosa dell’identità dei luoghi. Per tale ragione si è pensato di dover ripartire dalla comprensione delle architetture, degli spazi e, quindi, del paesaggio che nella sua complessità sistemica li contiene.
Al protocollo d’intesa, siglato in data 7-11-2018 tra la Soprintendenza e la Scuola di Specializzazione (per essa da Daniela Esposito, Maria Piera Sette, Maria Letizia Accorsi, Daniela Concas e Maria Vitiello, con Fabrizio de Cesaris e Cesare Tocci), nel corso dei lavori si è aggiunto Michele Zampilli del Dipartimento di Architettura dell’Università di Roma Tre.
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Architetture Il primo interrogativo a cui è sembrato doveroso dare una risposta è legato alla giusta interpretazione delle architetture che si sarebbero dovute spiegare e proteggere. Il patrimonio con il quale ci si doveva confrontare, infatti, non era costituito da grandi opere, ma da piccole case, prive di aggettivazioni formali, quasi insignificanti per la loro semplicità. Si tratta, infatti, di quel patrimonio diffuso, generalmente appellato come “architettura minore”, che ha cominciato a suscitare interesse per gli studiosi fin dagli anni Venti del Novecento, in stretta connessione sia con le riflessioni giovannoniane sull’ambiente dei monumenti (Giovannoni 1925, Stabile 2017), sia con gli studi avviati da Roberto Pane sui caratteri di quella che egli definisce “letteratura architettonica” (Pane 1959, Lenza 2008, Picone 2008). Un interesse che, tuttavia, non ha ricevuto un’eco sostanziale neanche nel secondo dopoguerra. Solo con l’avvento degli anni Sessanta si ha il primo riferimento esplicito all’importanza del patrimonio edilizio minore in se stesso e non solo per essere elemento corale. Ma la Carta di Venezia del 1964 ha avuto poca influenza e, per quanto il dibattito in Italia sul restauro dei centri storici possa essere stato serrato e sostenuto culturalmente da importanti architetti come Guglielmo de Angelis D’Ossat e Gaetano Miarelli Mariani, il ‘monumento’ ha sempre ricevuto un’attenzione preminente. Solo recentemente, sollecitato forse dall’attenzione inquadrata dall’ICOMOS con la redazione della Carta del Patrimonio Vernacolare del 1999, si assiste ad un rinnovato interesse per queste architetture “senza nome” (Gomez 2019), informali, ma ‘ordinate’ e ‘utilitaristiche’, che possiedono una bellezza che va oltre la valenza estetica e deve essere ricercata non solo nei nodi della storia delle tecniche costruttive, ma anche in quella della società e dell’antropologia culturale. L’architettura minore, quale letteratura architettonica è l’espressione fondamentale della cultura costruttiva di una comunità, del suo rapporto con il territorio, con la geografia, con il sistema climatico, con l’ambiente. È identità e, al contempo, è diversità, poiché costituisce l’espressione dei molteplici modi con i quali l’uomo riesce a legare un rapporto fecondo con i luoghi e per questo rappresenta un “continuing process including necessary changes and continuous adaptation as a response to social and environmental constraints”(Carta Icomos, 1999). L’architettura vernacolare, dunque, come ci ha insegnato Pane può essere conosciuta attraverso la dimensione della rappresentazione fotografica e del disegno, strumenti intuiti come sintesi percettiva del paesaggio, ma può essere ricomposta anche attraverso il mosaico dei singoli caratteri costruttivi, stilistici e tipologici. Se il paesaggio si dà come segno all’interno dello spazio, i caratteri molteplici di cui si compone possono essere studiati attraverso una lettura analitica, che trova della catalogazione lo strumento d’elezione, non solo per raggiungere una efficace scomposizione degli stilemi, ma per poter raggiungere una comprensione minuziosa delle varianti, del-
la loro diffusione nel territorio, oltre che per raggiungere comparazioni tra i modi di costruire di un determinato ambito territoriale, al fine di riconoscere quale, tra i tanti sistemi osservabili, possa essere effettivamente quello caratterizzante e realmente condiviso dalla comunità, sia per competenza artigianale, sia per tradizione continuata nel tempo. Al fine di riuscire ad effettuare una analisi sistematica del ‘carattere locale’ delimitabile nel particolare ambito geografico segnato dalle terre devastate dal sisma del 2016, si è pensato di dover immettere nella valutazione posta alla base dell’analisi una serie di parametri, quali la coerenza di stile, di forma, di aspetto, oltre che la verifica inerente l’uso di specifiche tipologie edilizie comuni, interpretate in termini di efficace connubio, oltre che di risposta immediata ai bisogni funzionali, sociali e ambientali di un determinato luogo e di una precisa organizzazione della comunità. Spazi Se il patrimonio costruito in vernacolo costituisce una parte integrante del paesaggio culturale, questa stretta relazione che posseggono le architetture all’interno dei luoghi, non può essere ignorata, sia nel processo di conoscenza, sia nel successivo sviluppo delle corrette attività necessarie alla loro conservazione. Ed in rapporto a questa relazione è necessario giungere a considerare la conformazione strutturale degli spazi, ovvero la forma fisica delle strade e delle piazze, insieme al tessuto degli edifici. Ma non solo, poiché di questi andrebbero valutati anche i modi in cui vengono utilizzati e sono percepiti e sperimentati dalle comunità, anche in relazione alle ritualità, alle tradizioni, quindi ai beni immateriali che sono il patrimonio della collettività, che vive in un luogo ed è legata ad esso dall’uso di uno spazio. Tali analisi dovrebbero rilasciare non soltanto le categorie formali degli insediamenti urbani e rurali che si materializzano nelle molteplici frazioni che Accumoli e Amatrice presentano nei loro rispettivi territori, ma consentire di comprendere quelle relazioni di vicinato, quegli scambi sociali che, in un approccio di studio interdisciplinare, possono aiutare a ricomporre anche gli aspetti antropologici, economici e culturali di quei luoghi. In altri termini, lo studio di queste terre dovrà consentire, prima di ogni altro aspetto, la conservazione e la ricomposizione dell’identità locale. Paesaggi Effettivamente, come emerge con chiarezza dalle precedenti considerazioni, sia nella lettura per la conoscenza, sia nella conoscenza per la conservazione e per la ricostruzione post sisma, il tema è “primariamente paesaggistico”, come afferma anche Giovanni Carbonara (Carbonara 2018). Sotto questa particolare prospettiva il paesaggio da analizzare ai fini del restauro è prima di tutto un “costrutto culturale”, come sostiene Taylor: landscape is a cultural construct, a mirror of our memories and myths encoded with meanings which can be read and interpreted (Taylor 2017).
Questa idea del paesaggio come un palinsesto culturale si lega perfettamente con la processualità che è alla base della interpretazione del tempo come generatore di forme e dell’uso come creatore di spazi e identità sociali e soggettive (Sloghel; Mitchell 2002). Si tratta di concetti espressi anche da David Lowenthal quando sostiene che “il paesaggio è come un arazzo, in gran parte è fatto dall’uomo, il quale vi incorpora tutti gli altri artefatti... e dà loro il senso del luogo” (Lowenthal 1985).
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Partendo da queste brevi riflessioni che evidenziano il vincolo di relazionalità che vi è tra il paesaggio e l’identità, la memoria e il pensiero, si può sinteticamente affermare che nello studio del paesaggio culturale dell’entroterra laziale, ai fini della sua comprensione per la qualificazione dei sistemi per la definizione dei criteri di ricostruzione post sismica, sia necessario considerare il patrimonio architettonico non come un elemento a se stante, piuttosto come un’immagine composita nella quale vivono le interrelazioni fra luoghi, eventi e persone nel tempo e nel quale si rivela la storia sociale. Il patrimonio e il paesaggio, scrive Taylor, “are two concepts that appear to have sat comfortably together within academic, policy and popular imaginations for some time” (Taylor 2019), è giunto oggi il momento di ripartire da queste considerazioni per cominciare a leggere con più attenzione i villaggi storici all’interno dei loro contesti paesaggistici, così che il restauro del paesaggio possa diventare diventa un fecondo tratto d’unione tra sviluppo economico e conservazione dell’ambiente ecologico e naturale, cultura tradizionale e lo sviluppo delle aree interne sia in termini di turismo, sia di nuova vita urbana. Metodi e strumenti della conoscenza La pianificazione della conoscenza del territorio ha rappresentato il primo concreto atto della ricerca. Si è cercato, difatti, fin da subito uno strumento che avrebbe dovuto raccogliere tutte le complessità che erano emerse dalle prime riflessioni sulla scalarità del sistema delle architetture, degli spazi e dei paesaggi. Un dispositivo capace non solo di contenere i molti dati necessari alla elaborazione delle analisi connesse alla conservazione dei frammenti architettonici e urbani sopravvissuti alle distruzioni, ma di consentire la restituzione della dinamicità del sistema paesaggistico, attraverso verifiche incrociate e multidisciplinari. Inoltre, è stato immediatamente chiaro che sarebbero stati molti i segni da trascrivere; lemmi che avrebbero dovuto esprimere sia gli aspetti statici del territorio, identificabili con i caratteri statuari dei luoghi, quali l’assetto geografico, il sistema normativo e vincolistico, sia quelli dinamici, dati dalle mutazioni storiche degli assetti, dal variare dell’uso del suolo nel corso degli anni e gli sviluppi dei nuclei urbani. Il sistema catalografico, organizzato per moduli ed associato ad un data base geografico, contenente una serie di elementi cartografici adeguatamente georeferenziati è apparso come il modello ottimale attraverso il quale sperimentare la conoscenza del territorio al fine di ottenere una corretta valutazione dei danni ai manufatti e ai paesaggi e di supportare azioni mirate alla conservazione dei beni stessi, oltre che per dedurne indirizzi per la ricostruzione post sisma. Tale apparato, infatti, oltre a consentire la gestione ottimale dei molti dati da censire, trova nella scheda di rilevamento un vero e proprio programma ordinato di lettura guidata della regione oggetto di studio; una traccia che rende omogeneo lo sguardo su quelle terre, consentendo l’applicazione di un medesimo criterio di osservazione dell’esistente da parte di tutti i componenti del gruppo di lavoro. Il prototipo informativo adottato deriva da una serie di studi antecedenti, in particolare da una ricerca elaborata nel 2012 per analizzare i centri storici attraverso le componenti ambientali ed edilizie in rapporto all’efficientamento energetico della struttura urbana (Vitiello 2012) e con la quale si era avviata la sistematizzazione di un modello schedografico capace di raccogliere le molte sollecitazioni derivanti sia dalla ne-
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cessità di predisporre una lettura scalare dell’insediamento urbano, sia dal bisogno di confrontare le componenti ambientali con i caratteri energetici delle diverse componenti edilizie che formano il variegato mosaico urbano. La matrice del catalogo, invece, sia nel prototipo di partenza, sia nella scheda aggiornata per la sperimentazione del protocollo sottoscritto dalla Scuola nel novembre del 2018, deriva in prima istanza dagli standard impostati dall’ICCD nei tracciati di cui alla normativa A del 2014 e alle maschere per la pre-catalogazione dei centri storici, dei settori urbani ed extraurbani (Cavagnano Puntuale 1983), dalle quali provengono i primi livelli di indagine, quindi anche i tratti di maggiore somiglianza. Altresì il modello schedografico elaborato a seguito del terremoto di Marche e Umbria del 1997 è stato attentamente studiato, facendo caso alle specificità per le quali il sistema era stato svolto in origine (Benetti, Guccioni, Segnalini 1998; Segnalini 2000). Da questa elaborazione sono stati presi spunti per la caratterizzazione insediativa e per la lettura della consistenza dell’aggregato storico. Ovviamente la struttura delle informazioni presente nella scheda finale legata al protocollo del 2018 tiene conto dell’insieme dei riferimenti citati, ma è soprattutto il frutto di una continua azione di revisione, attuata per una migliore adesione dell’apparato di raccolta dei dati alle caratteristiche intrinseche dei beni da rilevare, sia nella tipologia dei dati ricercati, sia nella struttura dell’informatizzazione, per questo si discosta dalle precedenti. Nel modulo sperimentato, infatti, non sono presenti solo dei campi chiusi, oggettivi e computabili, necessari per l’effettiva interrogabilità del sistema, ma è stato dato ampio spazio a campi semantici nei quali è richiesta una descrizione storica delle cose attraverso la narrazione, la fotografia o la sintesi grafica. Si tratta di campi aperti testuali e grafici i quali non lasciano il sistema catalografico esposto ad una serie di vulnus, poiché costituiscono la finestra aperta all’immissione dei dati chiusi certi, derivanti da uno studio urbano fondato su una metodologia rigorosa, non su una impressione visiva più o meno attendibile e legata alle sensibilità sviluppate da ciascuno studioso. In tal modo, ogni elemento rappresentato nel catalogo riceve non solo una traduzione informatica processata quale legame tra inventariazione e georeferenziazione, ma anche una caratterizzazione storica e una qualificazione dei valori e dei legami che ogni elemento stringe con il contesto architettonico, paesaggistico e ambientale al quale è collegato. Il processo di revisione dell’intera architettura catalografica, come si è detto, è stato continuo, poiché si è cercato di rendere l’apparato conoscitivo un concreto strumento di indagine. Pertanto, a seguito delle verifiche speditive sono state rimosse talune eccessive specificazioni, che in origine caratterizzavano delle sezioni, mentre si è sentita l’esigenza di incrementare la lista degli elementi da indicizzare, i quali avrebbero dovuto essere a loro volta trascritti dal data base alfanumerico a quello geografico. A questa evoluzione hanno partecipato sia i giovani specializzandi, impegnati nel protocollo i quali hanno per primi testato l’efficacia del tracciato con la mole di dati effettivamente reperibili dalla lettura diretta dei luoghi, sia i ricercatori della scuola occupati nel gruppo di studio che con apporti diversi hanno contribuito all’affinamento dei parametri caratterizzanti l’organigramma della scheda. Inoltre, nel corso dell’elaborazione del modello schedografico, si è tenuto conto della divulgazione gli studi svolti nel medesimo campo, con i quali si è cercato, ovviamente,
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un confronto diretto. Spesso si è potuta verificare un’impalcatura generale non dissimile a quella già impostata per lo studio del territorio di Amatrice e Accumoli nell’ambito del protocollo. Le affinità sono date dal comune riferimento allo studio dei centri storici di media e piccola dimensione, mentre le sostanziali differenze sono dovute ai diversi obiettivi con i quali il sistema di rilevamento informatizzato nasceva: l’uno, quello sviluppato per i territori toccati dal sisma del 2016, incentrato sulla conoscenza storico-percettiva dei paesaggi, ai fini dell’individuazione di un sistema di protezione attivo volto alla ricostruzione dei sistemi insediativi, l’altro sulla catalogazione dei nuclei urbani letta nella prospettiva della vulnerabilità ai fini dell’implementazione della Carta del Rischio (Fiorani 2019). La scheda di lettura dei centri storici L’architettura del catalogo è stata ordinata sulla base di una ossatura a cascata, composta da una scheda principale alla quale fanno seguito una serie di sottoschede a questa materialmente e concettualmente relazionate attraverso una serie di codici di individuazione. Queste consentono un graduale approfondimento degli aspetti oggettivi da rilevare alle diverse scale, a partire dalla dimensione ampia dell’assetto paesaggistico, a quella più contenuta dell’architettura e dei suoi dati costruttivi. All’interno di questa struttura ad albero la scheda madre inquadra, dunque, l’organismo amministrativo comunale nella dimensione più ampia. All’interno della schermata iniziale, infatti, compaiono i richiami ai dati generali del sito, ai perimetri geografico-amministrativi del comune, a quelli delle frazioni urbane che lo compongono, ciascuna individuata attraverso cifrari indicizzati, denominazioni e grafici che consentono sia una relazione più stretta con il GIS, con cui il database alfanumenrico si completa, sia un collegamento visivo diretto tra descrizione narrativa dei luoghi e illustrazione grafico-fotografica degli stessi. In questo modo è possibile accedere alle informazioni della piattaforma attraverso la denominazione, la località, il tipo, oppure tramite un codice che a questi è associato. I livelli successivi di approfondimento riguardano la scheda dedicata alla lettura del Territorio, quella relativa al Sistema Urbano, poi, per una comprensione sempre più ravvicinata al costruito, è stata predisposta anche la scheda denominata Isolato, infine quella dedicata alla catalogazione dell’Edificio. Ogni livello è essere corredato da una appendice fotografica e iconografica, nella quale è possibile raccogliere ordinatamente le illustrazioni più significative dell’oggetto d’indagine, oltre che da cartelle di analisi di tipo storico e percettivo. La capacità del sistema ad essere implementato consente, inoltre, l’estensione del catalogo ad ulteriori approfondimenti, legati ad eventuali analisi aggiuntive, quali, ad esempio, quelle relative dalla mappatura dei caratteri costruttivi delle murature. Ed è ciò che si prevede di effettuare in un successivo approfondimento. All’interno di ciascuna sezione il rilevamento dei dati segue la logica della consequenzialità delle operazioni di osservazione effettuabili sul campo. In particolare, per l’unità denominata Sistema Urbano le questioni nodali che emergono dalla impostazione della scheda possono essere ricomposte intorno a quattro tematiche principali, le quali costituiscono altrettanti paragrafi di approfondimento, ciascuno riconducibile all’interpretazione delle caratteristiche principali della dimensione urbana del patrimonio culturale. La prima riguarda la compilazione dei classici campi presenti all’interno di un catalogo, dedicati alla denominazione e, quindi, alla delimitazione o perimetrazione
del tessuto in analisi, che può essere quella inerente il cosiddetto centro storico della città nella sua unitarietà o una parte della stessa nel caso in cui il nucleo urbano sia esteso e si componga, quindi, in più quartieri, oppure anche l’individuazione di zone rurali, quali sono le molte frazioni che caratterizzano gli insediamenti di Accumoli e di Amatrice che contano l’uno 17 l’altra 93 aggregati rurali ciascuno dei quali trova una sua propria indicizzazione attraverso l’attribuzione di un codice univoco assegnato dal catalogo. Di queste frazioni è richiesta innanzitutto ricognizione amministrativa delle indicazioni della pianificazione generale e specialistica alla scala urbana, quindi la puntualizzazione degli eventuali regimi vincolistici indiretti areali; conoscenze che difficilmente hanno travato espliciti riferimenti all’interno dei sistemi schedografici fin qui realizzati ed oggi possibili poiché il grado di approfondimento della lettura del costruito predisposto dalla nuova scheda è tale da poter consentire una tale specificazione. Il secondo paragrafo riguarda la conformazione dell’impianto edilizio, ovvero la lettura tipologica dello stesso in rapporto alla morfologia dei luoghi, attraverso l’individuazione di uno schema grafico ideale e sintetico che evidenzi il legame che la città stringe con il sistema orografico del territorio. Si ha, quindi, in continuità con i modelli schedografici messi a punto con il terremoto del 1997, la possibilità di selezionare opzioni diverse tra insediamento di crinale, di promontorio, di controcrinale, di fondovalle; come pure di individuarne la morfologia prevalente attraverso la selezione di caratteri tipologici quali il fuso, la scacchiera, il concentrico, il dedalo, il radiale, e così via. Tuttavia, poiché la lettura morfo-tipologica è un’azione complessa, oltre all’indicazione schematica troppo fredda e poco dirimente se l’obiettivo non è solo una valutazione di vulnerabilità bensì la ricerca dei caratteri della ricostruzione, si chiede al compilatore uno sforzo interpretativo a cui è dedicato un paragrafo a se stante. In questa parte della scheda è richiesta la ricomposizione del processo genetico del sistema urbano attraverso una sequenza campi descrittivi e grafici nei quali sono inseriti i tematismi inerenti le letture del sistema viario, del tessuto urbano e l’individuazione delle polarità urbane ed extraurbane, qualora rappresentino delle tensioni per una particolare linea di accrescimento dell’abitato, oltre all’elencazione degli edifici specialistici, religiosi e civili oltre che di qualunque altro sistema caratterizzante il nucleo urbano in osservazione. La sintesi storica, infine, è completata da una sezione legata ai caratteri diacronici dell’abitato, nella quale è richiesto l’inserimento delle mappe catastali storiche e delle rielaborazioni grafiche a queste legate. Tra l’analisi alla scala del settore urbano e quella dell’architettura è stata inserita la lettura dell’insediamento ad un livello intermedio, quello dell’Isolato. Questo livello intermedio di osservazione dell’abitato, già sperimentato nel modello elaborato per la valutazione energetica dell’edilizia storica (Vitiello 2012), consente la decodificazione del sistema di aggregazione delle unità edilizie ‘di base’. Nella processualità urbana, infatti, la conformazione dei luoghi è determinata da regole associative di unità pressoché similari, legate tra loro o giustapposte ad elementi specialistici civili o religiosi, i quali, al loro volta possono essere frutto di ulteriori processi di aggregazione e trasformazione. Così, se nella scheda di settore urbano si è cercato di rappresentare, attraverso l’individuazione di elementi oggettivabili, il sistema formativo nel nucleo insediato, in questo modello intermedio si ha l’obiettivo di comprendere le regole associative dell’edilizia seriale e le eccezioni date dai sistemi trasformativi ottenibili per sempli-
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Maria Vitiello
ce adduzione, riconfigurazione, sostituzione o di inserimento autonomo di elementi specialistici o nodali L’importanza dell’indagine sull’isolato, quale scala intermedia fra la città e l’architettura, è stata messa a fuoco dagli studi più recenti. Questo rappresenta, infatti, una “unità urbana” (Fiorani 2019) e non semplicemente una porzione dell’edificato. Ed è proprio all’interno di questa unità dimensionale della città che possono essere osservate con maggiore precisione le regole associative del tessuto edilizio. Tali principi normano i legami non appartengono solo alla qualità tipologica dell’architettura ‘di base’, alla configurazione dei fronti, all’articolazione delle cromie, ma al legame strutturale generato dall’aggregazione delle diverse cellule attraverso la condivisione o il raddoppio dei setti murari. Il comportamento strutturale degli edifici, parimenti a quello energetico, deve essere letto attraverso il legame strutturale che ciascuna cellula edilizia stringe con la precedente e la successiva. È solo nella serialità chiusa dell’isolato che è possibile comprendere le dissipazioni energetiche e il quadro dei dissesti. La posizione di una unità edilizia non è indifferente rispetto alla sua risposta prestazionale espressa in termini di trasmissione del calore e di stabilità rispetto alle onde sismiche, ma muta in funzione della sua posizione all’interno dell’isolato, dei legami che questa intrattiene con le unità edilizie che la contengono, dei vuoti generati tra unità edilizie contigue, o del suo essere elemento di confine, nel qual caso è il rapporto libero con la strada che influisce sulle risposte alle sollecitazioni esterne. La traduzione di questi parametri in lemmi oggettivabili attraverso la definizione di specifici campi attivi nel catalogo non è stata lineare e, anche in questo caso, si è chiesto il sostegno all’apparato grafico il quale, ancora una volta non ha avuto il compito di sostituire la certezza di un dato con la vaghezza di una descrizione, ma di sostenere, attraverso un ragionamento imposto all’operatore, il valore delle scelte di volta in volta compiute. Conclusioni Il fermo imposto dalla diffusione in ambito nazionale del virus pandemico Covid-19 non ha consentito ulteriori verifiche speditive nei territori di Accumoli e di Amatrice, quindi non è stato possibile procedere ad ulteriori accertamenti sull’effettiva capacità descrittiva dei lemmi disposti nelle schede. Tuttavia, dalle prime verifiche effettuate sulle frazioni di Terracino, Cornillo, Cesaventre, Fonte del Campo e Libertino è possibile intuire una ottima risposta del sistema catalografico. Ovviamente ciò che qui si è voluto presentare costituisce una prima risultanza di una ricerca in fieri, perciò ancora densa di nodi da sciogliere e di aspetti da precisare, soprattutto alla grande scala del paesaggio che mai fino ad ora aveva raccolto interesse nel campo dell’informatizzazione dei valori storici e percettivi, interpretati in una visione di lunga durata legata alla conservazione dinamica degli assetti. Tuttavia, seppure con i limiti descritti, l’impianto metodologico alla complessa architettura catalografica fin qui narrata rappresenta, ancor prima d’essere uno strumento di raccolta ed elaborazione di dati, una lettura guidata delle valenze storico-paesaggistiche dei territori dell’entroterra appenninico, il cui ricco patrimonio vernacolare è stato duramente danneggiato dal sisma.
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Uso e “vita” del Patrimonio Strumenti per la conservazione e la valorizzazione
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Il sito altomedievale di Svač in Montenegro. Recupero strutturale e conservativo* Agostino Catalano
Agostino Catalano
Dipartimento Scienze Umanistiche, Sociali e della Formazione, Università degli Studi del Molise.
Abstract The archaeological site of Svač is located in the Republic of Montenegro, a small nation of the former Yugoslavia. The region, little known, is rich in natural resources and poorly maintained historic sites and buildings that have only attracted scholars’ attention for a few years. The contribution concerns, in particular, the early medieval site that sees the remains of three churches and a wall that constituted, from the reliefs made, a religious area located at the highest point of the hill that overlooked the town below. The site was designed by the writer downstream of an agreement between the CNR and the Ministry of Culture of Montenegro which intends to intervene for the conservation of the ruins of the buildings still visible and in conditions of extreme structural degradation so as to make them fear their collapse. No different destination is foreseen given the ruin condition but only the conservation of the surviving building which however denotes the function of the area and constitutes an important testimony of a past rich in religious architecture present in Svač as reported in historical documents. For the structural recovery, intended respectful of the historical character and therefore of the non-invasiveness, it tended towards nanotechnological mortars with performance criteria of structural resistance and durability given the exposure of the churches. Keywords Svač, Montenegro, nanotechnology, early medieval architecture, structural recovery
* Il contributo rientra nella convenzione tra l’Istituto per le Tecnologie Applicate ai beni Culturali del Consiglio Nazionale delle Ricerche, l’Istituto Storico del Montenegro e il Ministero della Cultura della Repubblica del Montenegro per l’attività di ricerca per i siti di Svač e di Doclea di cui l’autore ha curato la parte strutturale e tecnologica.
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Premessa storica Svač è una località posta all’interno della regione meridionale del Montenegro a pochi chilometri dal lago Shkodra e dall’Albania settentrionale. Ha una storia antichissima testimoniata dalle sue rovine che appartengono al periodo medievale; fra queste si segnalano in particolare ruderi di edifici religiosi. Svač è il principale sito archeologico della regione le cui rovine visibili appartengono perlopiù al periodo medievale con resti di chiese (due basiliche e altre sei di dimensione ridotte) di cui una romanica e altre in chiaro stile gotico, oltre che tracce di fortificazioni. Ciò è in pieno accordo con i documenti storici che indicano come nel 1067 Svač fosse sede di Vescovado. La città fu distrutta dai mongoli nel 1242 e ricostruita sempre nel XIII secolo dagli Anjou ser-
bi per passare poi sotto il dominio veneziano prima e quello turco successivamente. Importante la testimonianza di Papa Alessandro II che, in un suo scritto su Svač, cita le rovine della Cattedrale di San Giovanni e della Chiesa di Santa Maria ancora oggi visibili oltre alcune chiese ‘di legno’ nella parte bassa della città. Nel periodo romano, che seguì quello della dominazione degli Illiri che sfruttarono questo territorio per fini di difesa della costa, il territorio di Svač faceva parte della Dalmazia e vi è una totale mancanza di documenti fino al basso medioevo quando si fa riferimento ad un’invasione ostrogota e poi al dominio di Bisanzio confermato dai ritrovamenti di gioielli bizantini e di artigianato veneto [Pettifer e Cameron, 2008]. Con la conquista ottomana del Montenegro la città venne completamente distrutta dai turchi nel 1571 e cadde in rovina restando solo la leggenda che raccontava come Svač ‘…possedeva una chiesa per ogni giorno dell’anno…’. Attualmente la zona archeologica situata su una collina si affaccia su un piccolo villaggio rurale dedito all’agricoltura e all’allevamento, impreziosito dalla presenza del piccolo lago prima richiamato.
Fig. 1 Sito archeologico medievale di Svač. Ruderi della chiesa romanica.
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Agostino Catalano Fig. 2 Sito archeologico medievale di Svač. Particolare della muratura della chiesa romanica. Fig. 3 Sito archeologico medievale di Svač. Campione di malta della chiesa di S. Giovanni.
1 La Cattedrale di Termoli fu costruita fra il XII ed il XIII secolo ed è attribuita ad Alfano da Termoli che lavorò, come sembra, anche alla costruzione del Duomo di Bari. Negli anni ‘40 del XX secolo vennero altresì rinvenute le reliquie di S. Timoteo occultate dal Vescovo dell’epoca in seguito ad un’incursione dei Veneziani alleati del Papa contro l’imperatore Federico II. Ciò confermerebbe in ambito adriatico un possibile, seppur labile, rapporto stilistico con le chiese del sito di Svac che rientrò per un periodo nei domini di Venezia come indicato anche dai ritrovamenti archeologici.
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Analisi storico-tecnologica delle chiese Chiesa romanica I sistemi costruttivi degli edifici religiosi dell’alto medioevo e del medioevo hanno caratterizzato l’architettura romanica e gotica. La tecnologia adoperata vede un importante e forse unico salto qualitativo in senso strutturale che non si è più verificato nelle successive epoche costruttive. Si può affermare come il modo di costruire secondo i dettami dell’architettura gotica sia stata una fantastica parentesi di ordine squisitamente statico–strutturale tra la tecnologia romanica e quella rinascimentale caratterizzate dalla compattezza strutturale delle forme esattamente all’opposto dell’arditezza della compagine strutturale gotica. Tale concezione ‘progettuale’ nel contesto delle architetture rilevabili a Svač non è da considerare esercizio intellettuale ma scelta necessaria per la migliore interpretazione delle modalità costruttive e consentire di spiegare l’evolversi dei fenomeni di degrado che stanno ancora oggi compromettendo l’integrità dell’impianto strutturale delle chiese. Occorre precisare che il movimento architettonico sia romanico che gotico viene comunemente fatto iniziare, come genesi, da quella zona d’Europa compresa tra gli attuali territori di Germania e Francia con una apertura verso l’Inghilterra. La ricaduta del nuovo stile, che è compreso nelle sue varie evoluzioni dal X al XIV secolo, vide poi una forte influenza in Italia e nei paesi del Nord Europa nonché in Spagna dove venne a compromessi con lo stile arabo. Tale situazione storica vide altre regioni come la penisola balcanica e tutta la zona slava in qualche modo attardate nei canoni conoscitivi della nuova tecnologia e raggiunte solo dall’eco del nuovo stile con applicazioni locali poco addentro all’approccio costruttivo e stilistico, sebbene non manchino esempi di un certo rilievo. Si può ragionevolmente pensare come lo stile romanico prima e gotico poi siano giunti in Montenegro anche per influenza di quanto si sviluppava nel territorio italiano che si affaccia sull’Adriatico ed in particolare in Puglia. Infatti, in questa regione si trovano vari schemi di architettura romanica tra cui quello a navata unica coperta con capriate in legno o anche con volte. Quello che maggiormente si avvicina all’unico edificio romanico attualmente rilevabile a Svač è del primo tipo per cui è ipotizzabile la presenza di capriate lignee in alternativa alla tipica volta a crociera. Oltre il territorio pugliese, importante segnalare, per contiguità territoriale, la cattedrale romanica di Termoli [Calò Mariani, 1979] che rappresenta un edificio meno complesso di quello di San Nicola a Bari e più prossimo a quelli rilevabili a Svač1. Qui, allo stato attuale, si individua una sola chiesa in stile romanico posta immediatamen-
te dopo la porta di ingresso della murazione di cinta del sito. La pianta, pavimentata con lastre di pietra, è ad aula rettangolare e termina con un’abside circolare che forse è stata realizzata in epoca successiva (figura 1). Per quello che è di maggior interesse per la nostra analisi si nota una muratura a doppia fodera (a sacco) particolarmente incoerente e realizzata con pietre appena sbozzate a contenere un getto di completamento in pietrame grezzo legato con poca malta (figura 2). La stessa malta legava in origine le pietre disposte in maniera incoerente con il conseguente effetto arco tra elementi lapidei di strati successivi per la cattiva lavorazione della pietra, prima richiamata, e la scarsa presenza della malta stessa. In sostanza, dal punto di vista statico i pannelli murari fin dall’origine dell’edificio devono essere considerati poco resistenti per la eccessiva presenza di sforzi concentrati e non distribuiti con conseguente debolezza dell’insieme della struttura di basso livello esecutivo. Di scarsa consistenza anche i cantonali che non presentano la necessaria ammorsatura a conci lapidei stratificati perpendicolarmente ai fini della buona tenuta della scatola muraria riducendo di molto anche la resistenza alle azioni taglianti del sisma e del notevole vento che spira. La malta è realizzata con inerti di grande diametro (figura 3) non rilevandosi, inoltre, volume di inerte sabbioso sostituito da un volume di terreno e la imperfetta coesione tra malta e pietra dovuta alla assai probabile mancata bagnatura della pietra stessa. Infine, le analisi condotte su campioni prelevati in situ hanno evidenziato una porosità della pietra locale molto ridotta il che ha contribuito alla mancata migliore penetrazione della malta nei pori degli elementi lapidei. La consistenza della tecnica esecutiva muraria descritta conferma l’ipotesi di escludere una copertura a volta della chiesa essendo più leggera e staticamente più tollerabile una copertura a capriata in legno a doppia falda. Inoltre, la manovalanza non era, probabilmente, preparata per una realizzazione più complessa quale un elemento voltato.
Fig. 4 Sito archeologico medievale di Svač. La chiesa di San Giovanni. Fig. 5 Sito archeologico medievale di Svač. La chiesa di Santa Maria.
La chiesa di San Giovanni e la chiesa di Santa Maria Le due chiese del sito che presentano ancore strutture in alzato sono la chiesa di San Giovanni, che si trova sulla sommità della collina, e la chiesa di Santa Maria che è collocata ad un livello inferiore. Sono entrambe in puro stile gotico e quindi successive
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Agostino Catalano Fig. 6 Sito archeologico medievale di Svač. Ortofoto della chiesa di San Giovanni. Fig. 7 Sito archeologico medievale di Svač. Ortofoto della facciata principale della chiesa di San Giovanni.
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a quella romanica prima descritta (figure 4, 5). Tali edifici sono caratterizzati da una maggiore consistenza geometrica sia in pianta che, soprattutto, in verticalità, quasi a salire metaforicamente verso il cielo secondo il messaggio insito in tali architetture. Proprio per raggiungere tale effetto si rileva la presenza di archi a sesto acuto, mentre non vi è traccia di contrafforti per bilanciare le forze maggiori dovute alla citata forte verticalità degli edifici né di archi rampanti per bilanciare le spinte laterali quali quelle sismiche. In effetti l’organizzazione strutturale appare abbastanza semplificata rispetto a quella ben più complessa caratterizzante una cattedrale gotica e in ciò si evince ancora una volta la distanza esistente da Svač dalle zone di maggiore diffusione della nuova tecnologia. Di sicuro le maestranze impegnate non conoscevano direttamente le tecniche adoperate nelle zone di maggiore diffusione del gotico limitandosi quindi a soluzioni più semplici anche, occorre sottolinearlo, per le minori dimensioni delle costruzioni. Anche per queste chiese la tecnica muraria adottata è quella della muratura a sacco con doppia fodera, interna ed esterna, a contenere un misto di inerte grosso legato debolmente con malta [Doglioni e Parenti, 1993]. Tale tecnica porta i carichi a scaricare gli sforzi unicamente sulle fodere di minore spessore facendo lavorare la muratura stessa solo sui bordi, essendo trascurabile il contributo del nucleo centrale. Tale condizione riduce di molto le possibilità di resistenza della struttura muraria il che ha condotto ai crolli che hanno ridotto le chiese allo stato di rudere. In sostanza si può af-
fermare come la muratura, oltre la debolezza citata, abbia visto ridurre ulteriormente la propria resistenza per la pressoflessione relativa all’azione dei carichi sui bordi inducendo alla genesi di sforzi di trazione, condizione questa non idonea per una muratura di pietra. Da qui la crisi, manifestata oltre che dai crolli anche dal quadro fessurativo rilevabile sui pannelli murari, con lesioni dello spessore fino a 2,50 cm, sia di tipo statico che dinamico oltre che dalla scarsa azione della malta confezionata come descritto precedentemente (figure 6, 7). Data la certa individuazione dello stile e della tecnica costruttiva gotica per le chiese presenti si può ipotizzare che, così come per la chiesa romanica, per la copertura sia stata utilizzata la stessa struttura a capriata lignea data la sagomatura della muratura dei timpani di chiusura. Tutte le coperture sono crollate per il cattivo funzionamento statico dei pannelli murari che non hanno contenuto la spinta esercitata dalle capriate. Queste, con ogni probabilità, sono state realizzate con i soli puntoni prive dell’elemento orizzontale (catena) a contenere gli sforzi da sisma e del vento. Sulla scorta delle considerazioni esposte, l’analisi del dissesto viene agevolata partendo da una prima classificazione dei meccanismi di rottura. Essi infatti possono distinguersi in meccanismi causati dallo spostamento relativo delle imposte e da meccanismi imputabili a fenomeni di instabilità. Nella prima categoria di dissesti si osservano tre tipi associati alle singole componenti di spostamento: l’allontanamento delle imposte, il cedimento differenziato, lo scorrimento. L’allontanamento dei muri di imposta è la tipologia di dissesto che appare più pericolosa perché è direttamente condizionata dalla spinta della capriata sui muri creando le condizioni dello sfilamento dagli appoggi. Tale ipotesi è suffragata dalla mancanza di contrafforti esterni a contenere gli effetti spingenti prima indicati. Tale condizione conferma l’approssimazione delle manovalanze che sembra essere una delle maggiori cause dei crolli visibili (figura 8).
Fig. 8 Sito archeologico medievale di Svač. Interno della chiesa di San Giovanni.
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Ipotesi di intervento Per quanto riguarda le possibilità di intervento si sottolinea come per le condizioni a rudere degli edifici del sito archeologico altomedievale di Svacˇ esso possa essere teso unicamente a consolidare la muratura ancora rilevabile ai fini dei carichi agenti come peso proprio e, soprattutto, ai fini dei livelli prestazionali di durabilità. Oltre alla totale mancanza di manutenzione delle strutture, infatti, sono proprio le condizioni ambientali a costituire uno dei motivi delle condizioni di degrado dei pannelli murari, unitamente alla più volte citata deficienza tecnologica di base attribuibile alla scarsa qualità costruttiva. A tal fine sono stati prelevati sul sito, dallo scrivente, campioni di malta e di pietra per meglio analizzare le caratteristiche dei materiali. La condizione di buona resistenza della pietra e, al contrario, della scarsa qualità della malta, oltre che come legante anche per un volume di vuoti abbastanza elevato (uso di inerti di grande diametro), è manifestata dalla entità dei crolli e dal quadro fessurativo che non riguarda gli elementi lapidei quanto i comenti di malta. Stante tale situazione sembra opportuno procedere tramite posa in opera di malta per ripristinare l’azione legante tra i conci onde innalzare i livelli prestazionali di resistenza meccanica anche in funzione delle azioni sismiche e dei principi di durabilità legati alla mancanza di intonaco protettivo sulle superfici parietali. Occorre quindi adoperare malte che possano esplicare tali requisiti ed in particolare si possono adoperare materiali innovativi prodotti dalla più recente attività di ricerca che viene sviluppata in tal senso: in particolare è utile la applicazione di materiali nanotech. Le analisi sulla matrice cementizia condotte a questa scala permettono di adoperare malte cementizie realizzate con leganti additivati che in scala micrometrica posseggono prestazioni nettamente superiori a quelle tradizionali, identiche per morfologia ma con differenze strutturali ottenute chimicamente [Addington e Schodek, 2005]. In questo modo è possibile consolidare le murature con miscele innovative tra leganti non tradizionali e polimeri speciali con prestazioni reologiche, elastiche, meccaniche e di durabilità elevatissime con forti ricadute prestazionali ingegneristiche nell’ambito dei materiali da costruzione [Scalisi, 2010]. La capacità di produrre materiali che hanno le dimensioni del miliardesimo di metro (nanotecnologie) offre forti possibilità di conservare strutture murarie come quelle degli edifici del sito di Svacˇ. In particolare, sembrano indicate le malte composte con nanoparticelle di calce (chimicamente idrossido di calcio – Ca(OH)2 –) definite comunemente nanocalci. La calce, in soluzioni o sospensioni (acqua e latte di calce), viene da sempre impiegata nei trattamenti protettivi o consolidanti di superfici architettoniche lapidee con risultati ottimali per la compatibilità con i materiali trattati per la trasformazione del Ca(OH)2 in CaCO3 ad opera dell’anidride carbonica CO2. L’uso della nanocalce è ottimale per il consolidamento e la protezione dei pannelli murari presenti a Svacˇ, perché migliora fortemente i fattori negativi dei trattamenti a base di calce tradizionale come la scarsa profondità di penetrazione raggiungibile all’interazione pietra – malta e l’alterazione cromatica delle superfici. Con materiali nanotech è possibile raggiungere una maggiore profondità e una maggiore conversione calce-carbonato consentendo un superiore rapporto superficie/volume per una più elevata interazione con la CO2 e un miglioramento del processo di carbonatazione. Sembra opportuno sottolineare come sia possibile ottenere profondità di penetrazione nell’elemento lapideo da 1 mm a 30 mm.
Conclusioni Premettendo come l’analisi rigorosa di una struttura integralmente muraria sia molto complessa, è bene precisare come l’ipotesi di assoluta incapacità di resistere a trazione si riferisca ad una condizione limite teorica a cui tende la struttura e, in realtà, possono esistere zone di muratura tesa nell’ambito della resistenza limite. Ciò capita soprattutto, e quasi esclusivamente, nel primo periodo di vita di un pannello murario. Nel tempo successivo si sovrappongono agli effetti iniziali dei carichi esterni gli assestamenti lenti del piano di posa, le coazioni dovute ai cicli termici stagionali, gli effetti del ritiro, del vento e questo mix fa sì che le zone che risultavano tese nel primo periodo, o per fatica o per superamento della resistenza a trazione, finiscono in gran parte per cedere o per fratturarsi. Inoltre, gli archi e i sostegni verticali si parzializzano riducendo la loro rigidità e le deformazioni iniziali crescono; in tal modo la struttura dallo stato iniziale di completa integrità passa attraverso nuovi stati caratterizzati da sempre più ampie parzializzazioni delle sezioni che progressivamente risultano tese al di là della resistenza limite. Il passaggio è graduale e lo schema statico della struttura, corrispondente all’evoluzione del quadro fessurativo, si modifica con variazione delle caratteristiche geometriche ed elastiche tendendo al limite (teorico) di struttura completamente priva di zone tese. Si giustifica, quindi, a vantaggio di sicurezza, la formulazione e l’adozione dell’ipotesi limite finale di parzializzazione ‘a priori’ di tutte le sezioni trasversali della muratura supponendo questa costituita da un insieme di conci ‘scabri’ tra loro idealmente separati. Il contatto puntuale tra i singoli blocchi è assicurato dalla malta che sposa la scabrosità dei conci lapidei ma anche questa può vedere lo scadimento prestazionale contribuendo, in maniera anche consistente, al degrado del sistema costruttivo. La capacità portante complessiva di questo schema è di certo inferiore a quella effettiva e quindi essa è accettata a vantaggio di statica. Queste condizioni, aggravate da una totale mancanza di manutenzione, si sono verificate per le chiese del sito di Svacˇ. È stato ben scritto che la conoscenza storica assicura, anzi garantisce, il migliore approccio per il migliore operare riguardo la conservazione della materia. Tale assunto, che condividiamo pienamente, ha però un limite che è quello dell’identità nel senso che la storia non garantisce l’origine di quel particolare manufatto che si guarda e si ammira in quanto nulla ci dice su ciò che esso ‘è stato’ ma esprime solo quello che ‘ora è’. Per ovviare a tale pesante contraddizione occorre approcciarsi all’opera stessa in modo che essa parli con chi la sta studiando onde consentire la migliore tecnica di intervento per la sua conservazione. Questa non deve limitarsi unicamente all’indagine di tipo diagnostico ed esecutivo ma deve raggiungere quei livelli anch’essi artistici, cioè quella ‘téchne’ che essendo un dono degli dei agli uomini racchiude arte oltre abilità tecnica e manuale. La tecnica deve essere, pertanto, coerente con il materiale e con la modalità con cui essa è stata concepita: a questo consegue la destinazione del sito archeologico medievale di Svacˇ a museo archeologico della pietra e del territorio. La destinazione è suggerita anche dall’idea sempre più pressante di ‘musei di storia’ che hanno lo scopo di presentare in maniera complessiva la cultura di un territorio. Forte è, evidentemente, una profonda riflessione sui riferimenti tradizionali del territorio, sulla cultura locale e sulle molteplici interrelazioni che la legano ad ambiti più ampi come nel caso delle chiese e del sito naturale di Svacˇ.
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Partendo da tale presupposto è necessario che il primo obiettivo di una società organizzata sia “conoscere” e “far conoscere” il luogo in cui essa si è evoluta. Ciò vale sia per le comunità più grandi che per quelle dei piccoli centri in cui le notizie storiche sono più vaghe per cui occorre meglio capire cosa ci sia dietro l’insieme costruito per definire una realtà umana e soprattutto l’operatività che si è resa necessaria alla sopravvivenza e alla difesa. Tale tutela tende a manifestare il territorio nella propria identità non solo nella sua singolarità ma anche attraverso la creazione di un distretto culturale ovvero una rete di musei, esposizione e luoghi di interesse storico-artistico-archeologico diffuso creando itinerari eco-sostenibili per produrre un sistema innovativo per la realizzazione di ambienti di apprendimento interattivi. Inoltre, ciò è stimolate per i residenti del luogo che sono spinti a tutelare i propri beni culturali e a farli conoscere. In tale organizzazione gli itinerari funzioneranno all’interno di un “museo aperto” in cui i visitatori potranno meglio comprendere l’archeologia, l’architettura, il paesaggio, saper fare, le testimonianze orali della tradizione attivando itinerari volti a ottimizzare le risorse storico-culturali, archeologiche e naturalistico-ambientali oltre la valorizzazione dei prodotti tipici dell’enogastronomia e dell’artigianato artistico. Questa organizzazione può essere definita ECOMUSEO nella specificazione che esso appartiene ad un territorio appartenente alla comunità che lo vive come lo è il sito di Svač. Un ecomuseo non sottrae beni culturali ai luoghi dove sono stati creati, ma si propone come strumento di riappropriazione del patrimonio culturale da parte della collettività a cui esso appartiene. L’obiettivo generale del progetto è quello di fornire quegli elementi di conoscenza scientifica delle peculiari risorse del territorio, che possano essere validamente utilizzate per la sua crescita culturale, sociale e economica. Le ricerche si potranno concentrare, quindi, sui temi maggiormente coerenti con le strategie di sviluppo locale quali i settori agro-alimentare, ambientale e del turismo sostenibile. Al tempo stesso, possono svilupparsi attività di carattere trasversale per sviluppare opportune conoscenze e mettere a punto procedure e metodiche (anche di tipo informatico) per la valorizzazione delle risorse allo studio. Data la complessità delle relazioni esistenti tra tutti gli specifici settori di indagine, le attività dovranno essere caratterizzate da un forte carattere interdisciplinare e, dove possibile e necessario, nel contesto di collaborazioni nazionali e internazionali allo scopo di proiettare le singolarità locale in un contesto di studio e di valorizzazione superiore. Nella valorizzazione delle risorse ambientali si procederà alla valutazione del capitale naturale e dei servizi eco-sistemici che esso consente a tutti i portatori di interesse coinvolti. Si porrà poi particolare attenzione alla redazione di strumenti operativi di gestione e pianificazione del territorio in relazione alle esigenze di sostenibilità economica, ambientale e sociale dei processi di piano. Saranno svolte ricerche sulla storia, struttura e dinamica del paesaggio allo scopo di fornire ulteriori elementi oggettivi di valorizzazione del paesaggio naturale, rurale e culturale del sito. In questo ambito saranno svolte attività per verificare le prestazioni strutturali e funzionali del patrimonio costruito al fine di valutare l’impatto dei rischi naturali, come quello sismico, sui beni oggetto di tutela. La regione di Svač possiede un ricco patrimonio culturale in gran parte ancora da indagare con le più aggiornate metodologie che vedono interagire fonti materiali, letterarie e storico-artistiche nell’intento di ricostruire in maniera dettagliata le fasi del sito-monumento. La quantità e qualità dei dati, raccolti nel corso delle ricerche, per-
metteranno non solo di ricostruire le dinamiche insediative e l’evoluzione della committenza nel corso dei secoli, nelle aree urbane come negli insediamenti rurali, ma potranno determinare una significativa ricaduta occupazionale e turistica grazie all’allestimento di esposizioni museali e percorsi di visita. Bibliografia Scalisi F., 2010, Nanotecnologie in edilizia, Maggioli Editore Pettifer J., Cameron A., 2008, The enigma of montenegrin history. The example of Svač, Botashqiptare, Tirana Addington M., Schodek D., 2005, Classificazione dei materiali avanzati. Smart materials and technologies, Elsevier, Oxford Doglioni F., Parenti R, 1993, Murature a sacco o murature a nucleo in calcestruzzo? Precisazioni preliminari desunte dall’osservazione di sezioni murarie, in Calcestruzzi antichi e moderni. Storia, cultura e tecnologia, Atti del IX Convegno ‘Scienza e beni culturali’ (Bressanone 6-9 luglio 1993), Libreria Progetto, pg. 137-156 Calò Mariani M.S., 1979, Due cattedrali del Molise: Termoli e Larino, Pizzi Editore
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Las vías verdes en Asturias. La reutilización de una infraestructura ferroviaria obsoleta como parques lineales urbanos y regionales Marina Bargón-García
Departamento de Arte y Ciencias del Territorio, Universidad de Extremadura.
Pedro Plasencia-Lozano Marina Bargón-García Pedro Plasencia-Lozano
Departamento de Construcción e Ingeniería de Fabricación, Universidad de Oviedo.
Abstract Greenways are paths for pedestrians and cyclists with universal accessibility built on the platforms of abandoned railways. In Spain, more than 2.900 km has been executed with the technical supervision of the Spanish Railways Foundation. The text analyzes the greenways built in the region of Asturias, by collecting data in three areas: the origin of the different railways has been tracked; moreover, the main characteristics of the reuse projects has been defined; finally, the role they play as linear parks in their context is evaluated by estimating the number of people who lives in their catchment area. The conclusions shows that greenways are elements of great interest, as they exemplifies the transformation of obsolete infrastructures into new amenities for citizens; furthermore, some weakness are observed: some projects do not maintain the memory of what the ancient infrastructures were, and many stations are now abandoned buildings, waiting for any kind of reuse project. Keywords Greenways, QGIS, catchtment area, linear park, engineering heritage.
Introducción En 1950, España alcanzó la cifra más alta de kilómetros de vías ferroviarias construidas en su territorio, con más de 18.000 km. Desde entonces, las vías en servicio han ido disminuyendo de forma continua hasta 1992, año en que se inauguró la línea de alta velocidad, Madrid-Sevilla. La Guerra Civil española, la posguerra, la emigración y el fenómeno de la España vacía (Del Molino, 2017), así como la irrupción de nuevos modos de transporte (el automóvil en pequeñas distancias y el avión en las largas) provocaron el cierre de numerosas líneas ferroviarias. Por otra parte, los ferrocarriles abandonados son vistos, con frecuencia, como espacios incómodos en su ámbito territorial, pues se asocian con barrios o entidades de población venidos a menos, y suelen convertirse en lugares donde lo marginal -pobreza, drogas, etc.- cobra fuerza (Ferretti y Degioanni, 2017). Una de las medidas posibles para revertir la situación es convertir las líneas ferroviarias degradadas en vías verdes.
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Fig. 1 Las nueve vías verdes asturianas (elaboración propia).
La reutilización de los ferrocarriles mejora la calidad del medio ambiente y la red peatonal de los barrios atravesados, y es un elemento fundamental para revertir la dinámica negativa de los entornos atravesados por la nueva infraestructura (Ahern, 1995; Pena et al., 2010). El término “vía verde” proviene del vocablo inglés greenway, que fue definido por Turner como “una senda agradable desde un punto de vista medioambiental” (Turner, 1995) (Forestieri, Marseglia and Galiano, 2019). Lla Asociación Europea de Vías Verdes fijó en la Declaración de Lille de 2000 (AevvBoss, 2016) una definición más precisa: (…) vías de comunicación autónomas reservadas a los desplazamientos no motorizados, desarrolladas en un marco de desarrollo integrado que, valorando el medio ambiente y la calidad de vida y cumpliendo condiciones suficientes de anchura, pendiente y calidad superficial, garantizan una utilización en convivencia y seguridad a todos los usuarios de cualquier capacidad física.
El fenómeno de la reconversión de vías ferroviarias obsoletas en sendas para peatones puede encontrarse en numerosos países: en EEUU la organización Rails to Trails Conservancy, fundada en 1986 tuvo un papel clave para la conversión de vías ferroviarias en espacios públicos, con más de 31.000 millas reconvertidas a lo largo de todo el país. En Australia destaca la East Gippsland Rail Trail, una vía verde de 96 km construida en 2006 sobre una línea de ferrocarril abandonada. En Reino Unido es célebre la Bristol and Bath Railway Path, un recorrido ciclista que recuperaba otra línea ferroviaria ya en desuso (Ferretti and Degioanni, 2017), y en Italia se han realizado intervenciones en lugares como Calabria (Forestieri, Marseglia and Galiano, 2019). En lo que se refiere a España, la introducción de vías verdes se inicia en 1993, fecha en la que se elaboró un Inventario de Líneas Ferroviarias en Desuso por parte de la Fundación de los Ferrocarriles Españoles (FFE), y que cifraba en más de 7.600 los km de vías abandonadas. Basándose en el Inventario se elaboró el Programa Vías Verdes para coordinar las tareas de reconversión de las vías abandonadas en vías verdes (Aycart Luengo, 2001); desde entonces y hasta 2020 se han reconvertido más de 2.900 km de vías (Programa Vías Verdes. Presentación, 2020). Las vías verdes son realizadas por parte de distintas administraciones -desde ayuntamientos a diputaciones o comunidades autónomas- y la FFE ofrece su apoyo y asesoramiento para lograr una cierta homogeneidad en toda la red (por ejemplo, hay un Manual de Señalización redactado por la FFE); del mismo modo, realiza campañas de difusión de todo el sistema. La FFE
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garantiza además unos estándares mínimos de calidad, y se ha dado el caso incluso de retirar el sello de “vía verde” a algunos trazados que no cumplían con dichas pautas (Programa Vías Verdes. Presentación, 2020). En la región de Asturias, desde los albores de la historia del ferrocarril en España, se han construido un elevado número de kilómetros de vías (Nárdiz Ortiz, 1996). Muchas de las líneas asturianas están ligadas a la actividad minera del carbón: así, eran infraestructuras de escasa longitud, ancho métrico, parámetros geométricos estrictos y actividad comercial enfocada al transporte de mercancías y no de pasajeros. La mayor parte de líneas mineras fueron clausurándose conforme iba disminuyendo la actividad industrial que las justificaba; por ello en la geografía asturiana hay un elevado número de itinerarios de escasa o mediana longitud abandonados que han ido restaurándose como vías verdes. En este texto pretendemos recabar datos sobre el conjunto de vías verdes asturianas en tres direcciones. Por un lado se ha rastreado el origen de los ferrocarriles reconvertidos en vías verdes en la prensa histórica. Por otro se repasan las principales características de los itinerarios. Finalmente, se aborda el papel que ejercen en la actualidad, en tanto que parques lineales insertados en el territorio, y se investiga el número de habitantes a los que ofrece servicio. Origen de las sendas verdes asturianas En Asturias, atendiendo a la web oficial www.viasverdes.com, hay nueve vías verdes (fig. 1). Se trata de una red variada en cuanto a longitud o estado actual. En general, discurren por trazados ferroviarios de ancho métrico con origen minero, si bien hay alguna excepción. El ferrocarril de La Camocha tiene origen en la mina de carbón del mismo nombre (La Voz de Asturias, 1932). La construcción del ferrocarril minero de Veriña a La Camocha se inició en 1943 (Boletín Oficial de La Provincia de Oviedo, 1944), tras iniciarse el procedimiento en 1942, y en él intervino el Ingeniero de Caminos Canales y Puertos Carlos Roa Rico (Boletín Oficial de La Provincia de Oviedo, 1943). Fue inaugurado por el dictador Francisco Franco el 26 de agosto de 1949 (Garza, 1949). Su último viaje se realizó en 1986 (Fernández López, 2004), y tras distintos proyectos de recuperación como tren turístico, se transformó en vía verde en 1994, ejecutándose las obras durante cuatro años e inaugurándose el primer tramo en 1998, con un presupuesto de setenta millones de pesetas (Roces Felgueroso, 2003). La Vía Verde Oviedo-Fuso de la Reina tiene origen en la línea Oviedo-Pravia, proyectada en 1904 por la General de Ferrocarriles Vasco Asturiana, y que formaba parte de un sistema complejo que enlazaba la cuenca hullera del Caudal con el puerto de San Esteban de Pravia. En 1972 la empresa pública FEVE asumió la explotación de la línea hasta 1999, año en que se clausura y se proyecta una vía verde. Junto a un puente espectacular, destaca la estación de Fuso, de notable arquitectura (fig.2) (Díaz Rubín, 2020). La Senda del Oso recorre el antiguo trazado utilizado por el ferrocarril minero Trubia-Teverga. Fue construido por la Compañía de Minas y Fundiciones de Santander y Quirós e inaugurado en 1884 (Rodríguez Muñoz, 2002, p. 720). La infraestructura se mantuvo en servicio hasta 1963, cuando la empresa explotadora, la Sociedad Anónima de Fábrica de Mieres, la cerró por la baja rentabilidad de las minas (Fernández Álvarez, 2013). En lo referente al Tranqueru, su origen se remonta a la línea Aboño-Candás, cuya concesión fue otorgada en 1902 a la Sociedad Minas de Hierro y Ferrocarril de Ca-
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Fig. 2 Estación de Fuso de Reina. La planta baja es usada como cafetería y las superiores como viviendas.
rreño (Peris Torner, 2012a), que controlaba las minas de Coyanca, Geueral o Piedelcoro (Serrano, 2013). El proyecto, suscrito por Valentín Gorbeña y Eduardo Castro (Fernández López and Gómez, 2005, p. 105 y ss.), se puso en marcha en 1905, y destaca de él lo impactante de sus paisajes cuando el tren pasaba el borde de los acantilados. La línea comenzó a transportar más pasajeros que material minero (El ferrocarril de Carreño cumple 100 años, 2010) y se mantuvo en servicio tras el declive minero. En 1975 se decidió desviar parte de la traza por un túnel, y años después el tramo abandonado sería aprovechado como vía verde. La vía verde del Valle del Turón se realizó aprovechando el antiguo trazado ferroviario que la empresa Hulleras del Turón construyó para recoger y transportar el carbón extraído en las minas del valle. La infraestructura fue presentada en Cortes en 1890 (El Atlántico, 1890) y autorizada dos meses después (Peris Torner, 2012b). Fue desmantelada en los años 1970. La vía verde del Ferrocarril Estratégico discurre sobre un antiguo trazado ferroviario que nunca llegó a ponerse en uso, en la línea Ferrol-Gijón; esta línea sufrió diversos avatares históricos, conociendo proyectos diversos (Meirás Otero, 1919; Boletín Oficial de La Provincia de Oviedo, 1922), con cambios de trazado continuos entre las décadas de 1920 a 1940, hasta su inauguración en 1972 (González Muñiz, 1972). El tramo recuperado es parte de un trazado explanado que discurre por el valle de Carreño (Boletín Oficial de La Provincia de Oviedo, 1937). La ruta del Valle de Loredo recorre la vía que unía La Pereda, en Mieres, y La Foz, en Morcín (Fernández Gutiérrez and Álvarez Espinedo, 2005). El proyecto se firma en 1914 a instancias de la empresa Hulleras de Riosa (Cambrina, 2018), y fue redactado por los ingenieros José Vigil Escalera y José García Lago. La tramitación reglamentaria se produjo en 1921 (Boletín Oficial de La Provincia de Oviedo, 1921), entrando en completo funcionamiento en 1922. La ruta cayó en desuso en 1969, y ya en la década de los 1990 se produciría su transformación en vía verde. La vía verde de Rioturbio aprovecha el trazado de una infraestructura construida para transportar el carbón extraído en la mina Baltasara por el Batán, donde se unía con el ferrocarril de El Barredo hasta alcanzar la Fábrica de Mieres, impulsora del proyecto. La línea estaba ya operativa en 1883 (La Opinión de Asturias, 1983) y las primeras vagonetas eran arrastradas por caballerías (Peris Torner, 2012c). La vía se abrió al transporte
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Marina Bargón-García Pedro Plasencia-Lozano Fig. 3 Detalle de puente en Senda del Oso. El apoyo del puente previo se emplea ahora como pila de una tubería; se ha construido un puente nuevo en madera
de pasajeros a partir de 1922, y se mantendría en uso hasta los años 1970 (Pistono Favero and Burgos Fernández, 2003). Por último, la vía verde del Eo transcurre por comarcas colindantes entre Lugo y Asturias, aprovechando el antiguo trazado de la vía que daba servicio a la Mina de Villaodriz, explotada por la Sociedad Minera de Villaodriz desde 1900 (Gómez Martínez, 2004). El proyecto ferroviario fue planteado en 1901, siendo aprobado ese mismo año y concluido en 1903 (Archivo General de la Administración 28.219). Aunque en un principio sólo se usaba para transportar materiales mineros, a partir de 1905 se abrió al tráfico comercial de viajeros. La línea estuvo activa hasta 1965, fecha en que FEVE desmantela sus instalaciones. Conjunto actual de vías verdes en Asturias Descripción de la restauración La restauración de los tramos ferroviarios consiste en la retirada de la superestructura (carriles, aparatos de vía, balasto, etc.). Sobre la plataforma, ya libre de elementos, se ejecuta el firme. Éste puede ser de aglomerado, zahorra, hormigón o suelo-cemento, y está concebido para soportar el paso de peatones y ciclistas. La anchura debe ser al menos de 2,50 m (VV.AA., 2013). Para garantizar el drenaje suele reaprovecharse el drenaje previo de la vía, si bien en ocasiones es preciso incorporar cunetas y desagües debido a la ruina de las existentes. Las plataformas de los túneles se suelen ejecutan con hormigón de hastial a hastial, a lo ancho de toda la sección transversal; en los de gran longitud suele incluirse una iluminación permanente. En algunos casos se señalizan para marcar la singularidad de estas obras: debemos pensar que los túneles son obras de ingeniería usualmente caras, y por ello es raro el caso de vías concebidas en su origen como peatonales que tengan en su traza un túnel excavado en roca para solventar un obstáculo natural. Sin embargo, los túneles son obras habituales en los ferrocarriles trazados en zonas montañosas, y cuando estos ferrocarriles se convierten en vías verdes es relativamente sencillo adaptarlos al uso peatonal y ciclista. Se ha observado que los viandantes agradecen estos túneles, precisamente por ser elementos poco comunes en los itinerarios peatonales que se realizan a diario en zonas urbanas o rurales. En el caso de viaductos y puentes, pueden darse dos casos. Algunas estructuras han pervivido en buen estado de conservación hasta nuestros días, y se han aprovechado
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para dar servicio a las vías verdes. En otras ocasiones los puentes habían desaparecido, y se ha procedido a la ejecución de una nueva estructura que puede aprovechar (o no) los estribos o apoyos de la estructura antigua (fig. 3). El criterio de mantener los puntos de paso originales permite dar continuidad al suave perfil de los itinerarios. Además, las estructuras minimizan los cruces a nivel con las carreteras, garantizando así una mayor seguridad. En general, los puentes y viaductos -nuevos o restaurados- son magníficos miradores para contemplar el paisaje: precisamente por ello se recomienda en ocasiones a los peatones que no detengan la marcha al atravesarlos, quizá para evitar sobrecargar estas estructuras. Otro elemento destacado de los proyectos ferroviarios son las edificaciones. Al respecto, en los trazados recorridos se observan pocos edificios reacondicionados. Por último, sorprende la variada reutilización de elementos de la vía, como traviesas o carriles (fig. 4).
Fig. 4 Reutilización de elementos de la vía: como malla de contención del terreno (Senda del Oso); como elementos artísticos (Rioturbio); como tapajuntas en un puente (Río Turbio); como hito kilométrico (Rioturbio)
El uso actual como parques Las vías verdes reacondicionadas pueden ser entendidas como parques lineales o como infraestructuras de transporte de peatones y ciclistas. Los ferrocarriles mineros, origen de la mayoría de las actuales sendas verdes, presentaban unos parámetros geométricos bastante estrictos, ya que la velocidad era una variable poco relevante (Plasencia-Lozano, 2019). Tanto la anchura de la plataforma como los radios reducidos o las pendientes limitadas favorecen la accesibilidad universal. En general, la longitud de la vía determina el servicio prestado y los usuarios potenciales que puede llegar a tener. Pueden establecerse así dos grupos: • Vías de gran longitud (más de 10 km). Son infraestructuras que unen pueblos a lo largo de un territorio determinado. La función ejercida para los ciudadanos que habitan en sus proximidades es de parque de carácter lineal para peatones y ciclistas; además, son vías integradas en la malla ciclista a escala comarcal. En paralelo, estos itinerarios son recursos turísticos capaces de captar usuarios que habitan a gran distancia, y que acuden en vehículo particular al inicio de la ruta para recorrerla en bicicleta o a pie a lo largo de un día (Forsberg, 1994). • Vías de escasa longitud (entre 1 km y 10 km). Son infraestructuras ubicadas habitualmente en zonas urbanas; es frecuente encontrarlos en periferias industriales degradadas y rodeadas por zonas residenciales. Tras la restauración, las nuevas vías verdes se convierten en caminos que cosen el tejido urbano y en espacios de gran calidad medioambiental dentro de la ciudad -alterando al alza incluso el mercado inmobiliario (Noh, 2019)-. En la práctica, pueden asimilarse a parques lineales usados por los habitantes locales, ya que por su limitada longitud carecen de atractivo turístico para senderistas y ciclistas (Ahern, 1995; Pena et al., 2010).
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Marina Bargón-García Pedro Plasencia-Lozano Fig. 5 Detalle de la densidad de población en las áreas de influencia. Se sombrea el área situada a un máximo de 500 m de las vías verdes (elaboración propia)
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Las vías asturianas pueden ser agrupadas en tres grandes bloques (tabla 1): una senda de gran longitud: la Senda del Oso, con 35,7 km; cuatro sendas de longitud media: La Camocha (7,4 km), Fuso (8,9 km), Vía del Eo (11,2 km) y Valle de Turón (13,1 km); y cuatro sendas de longitud pequeña: El Tranqueru (1,4 km), Estratégico (4 km), Valle de Loredo (4 km), Río Turbio (2,8 km). La Senda del Oso es por longitud un itinerario que trasciende a los municipios atravesados. En cuanto a las sendas de longitud media, creemos que Fuso y la Vía del Eo sí pueden ser consideradas recurso turístico, pues discurren por Espacios Naturales Protegidos. Se ha llevado a cabo un estudio que evalúa los habitantes potenciales que pueden aprovechar las vías verdes como parques lineales mediante el software libre QGIS. Partiendo de los datos del censo de 2011 se han estimado los habitantes que viven en una determinada área de influencia (o catchment area, en la literatura inglesa). Más allá de otras variables que sin duda influyen en el poder de atracción de un parque (su estado de conservación, el paisaje, las opciones de recreo que pueden ofrecer, etc.) (Liu, Chen and Dong, 2017), el uso de los parques de carácter urbano está condicionado por la distancia a pie que debe recorrer el usuario potencial desde su domicilio (Rundle et al., 2008). Algunos autores proponen que esta distancia debe ser menor a 500 m o a 400 m para los parques de barrio y de 1.000 m para los periurbanos (Perry, 1966; Oh and Jeong, 2007; Rossi, Byrne and Pickering, 2015). Se ha llevado a cabo el análisis de los habitantes de la región de Asturias situados a ambas distancias. El resultado permite deducir que las vías verdes hacen la función de parque de barrio para más de 46.000 personas, siendo más de la mitad las pertenecientes a la senda de Fuso, que discurre en parte por la ciudad de Oviedo y su entorno. Además, pueden ser consideradas como parques periurbanos para unas 103.000 personas; en este caso los valores más relevantes se observan en aquellas sendas situadas en las inmediaciones de grandes núcleos de población: Fuso, La Camocha (en la zona periurbana de Gijón) y la de Rioturbio (Mieres).
Fig. 6 Puente Arnizo. Valle del Turón, con unas vagonetas sobre los carriles foto: www.mieres.es)
Discusión y conclusión Las vías verdes son elementos de gran interés desde el punto de vista de la reutilización de una infraestructura obsoleta. Gracias a unas inversiones que no son muy relevantes, se logra dotar de zonas de paseo con accesibilidad universal a amplias zonas del territorio, y se recuperan para la ciudadanía el empleo de unas infraestructuras que carecían de interés. Las vías son también ejemplo de la eficaz colaboración entre distintas administraciones: usualmente, el espacio ocupado antiguamente por la infraestructura ferroviaria (de titularidad estatal) es recuperado gracias a las inversiones de ayuntamientos y comunidades autónomas, con un asesoramiento de un organismo de carácter nacional que facilita el desarrollo de las obras. Al mismo tiempo, cabe pensar si hubiera sido más interesante restituir las vías ferroviarias a su uso original, definiendo un ferrocarril turístico o un servicio comercial eficiente. El debate puede ampliarse al trazado ferroviario de la rampa de Pajares, uno de los itinerarios más singulares y de mayor historia dentro de los ferrocarriles españoles. La vía sigue aún en servicio, pero están en marcha las obras para completar el nuevo acceso ferroviario Asturias-León, y entonces podría plantearse un nuevo uso para el recorrido histórico. En este caso, debe considerarse que el quebranto de su carácter ferroviario podría implicar la pérdida de la posibilidad de ser catalogado como Patrimonio Mundial de la Unesco, una iniciativa que está promoviéndose desde la Universidad de Oviedo y algunos municipios. Una de las carencias detectadas en algunas vías verdes asturianas es la falta de información relacionada con su pasado ferroviario; la referencia al pasado de las infraestructuras para promover el conocimiento del patrimonio de la ingeniería es una de las características que debería tener toda vía verde (Forestieri, Marseglia and Galiano, 2019). Sí existen elementos puestos en valor en algunas vías verdes, como las vagonetas en el puente Arnizo del Valle del Turón (fig. 6). Al respecto, y sin salir de Asturias, citamos los ejemplos del puerto de Avilés o de San Esteban de Pravia, magníficos museos al aire libre que informan sobre el pasado de ambos enclaves. Asimismo, está aún pendiente la restauración de muchas estaciones, que podrían acoger recursos turísticos y culturales. Estos equipamientos podrían impulsar la creación de nuevos servicios para los visitantes, fomentando el empleo y la dinamización de los territorios
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atravesados; además, su uso como centros de interpretación contribuiría a la difusión de las vías ferroviarias como patrimonio de la ingeniería civil. Agradecimientos La investigación ha sido llevada a cabo en el seno de los Proyectos PAPI-19-EMERG-23, El paisaje de las infraestructuras de Transporte en la cuenca alta del Nalón, y PID2019105877RA-I00, Análisis y definición de estrategias para la caracterización, recuperación y puesta en valor del patrimonio de las obras públicas. Una aproximación desde la escala territorial. Referencias AevvBoss 2016, Declaración para una Red Verde Europea, ‹https://www.aevv-egwa.org/es/declaracion-para-una-red-verde-europea/› (05/20) Ahern J. 1995, Greenways as a planning strategy, «Landscape and Urban Planning», n. 33(1–3), pp. 131–155. Aycart Luengo C. 2001, ‘Greenways’ to reuse disused mil-wais line for non motorised itineraries, leisure and tourism, «Informes de la Construcción», n. 53(475). Boletín Oficial de la Provincia de Oviedo 1921, Cuerpo Nacional de Ingenieros de Minas. Distrito de Mieres de Oviedo, 3 Junio, Oviedo. Boletín Oficial de la Provincia de Oviedo 1922, Dirección General de Obras, 7 Julio, Oviedo. Boletín Oficial de la Provincia de Oviedo, 1937, Consejería de Obras públicas. Ferrocarriles- Acuerdos, 24 Mayo, Oviedo. Boletín Oficial de la Provincia de Oviedo, 1943, Administración provincial. Gobierno Civil. Minas, 11 Septiembre, Oviedo. Boletín Oficial de la Provincia de Oviedo, 1944, Jefatura del distrito minero, 1 Junio, Oviedo. Cambrina A. 2018, Tras las huellas del viejo tren minero, El Comercio, 9 Julio, Gijón. Del Molino S. 2017, La España Vacía. Viaje Por Un País Que Nunca Fue, Turner, Madrid. Díaz Rubín G. 2020, El último tren del Vasco-Asturiano, El Comercio, 8 Junio, Gijón. El Atlántico 1890, Sección de notas, 5 May, Oviedo. Fernández Álvarez J.M. 2013, El ferrocarril minero de Teverga en Asturias (1884-1963), ‹https://www. vialibre-ffe.com/noticias.asp?not=11579&cs=hist› (06/20). Fernández Gutiérrez M.F. y Álvarez Espinedo R. 2005, Aula de interpretación del ferrocarril minero de Loredo y Senda Verde de la Pereda a Peñamiel: recuperación de Patrimonio Industrial en el Municipio de Mieres, Asturias, «De re metallica», n. 4, pp. 75–86. Fernández López J. 2004, El ferrocarril minero de Veriña a La Camocha, «Revista de historia ferroviaria», n. 1, pp. 35–91. Fernández López J. y Gómez J.A. 2005, Capitulo III. Asturias, en «Historia de Los Ferrocarriles de Vía Estrecha En España», Fundación de los Ferrocarriles Españoles, Madrid. Ferretti V. and Degioanni A. 2017, How to support the design and evaluation of redevelopment projects for disused railways? A methodological proposal and key lessons learned, «Transportation Research Part D: Transport and Environment», n. 52, pp. 29–48. Forestieri G., Marseglia G. and Galiano G. 2019, Recovery and optimization of a former railway transport track, «WIT Transactions on The Built Environment» n. 186, pp. 47–57. Forsberg M. (1994) Rails-to-trails, «NEBRASKAland», n. 72(5), pp. 44–55. Garza L. 1949, Triunfal jornada del Caudillo en Asturias. Inauguró el primer grupo de la central térmica de La Felguera, un ferrocarril minero y un lavadero de carbón, Imperio: Diario de Zamora, 27 Agosto, Zamora. Gómez Martínez J.A. 2004, El ferrocarril de Puente Nuevo a Ribadeo, tren minero en Galicia, «Vía libre», n. 477, pp. 63–67.
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Piani e progetti per la valorizzazione del tessuto urbano de La Habana Vieja a Cuba Cristiana Bartolomei
Dipartimento di Architettura, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna.
René Gutiérrez Maidata
RESTAURA, Oficina del Historiador de la Ciutad de La Habana, Cuba.
Cecilia Mazzoli Cristiana Bartolomei René Gutiérrez Maidata Cecilia Mazzoli Caterina Morganti Giorgia Predari
Dipartimento di Architettura, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna.
Caterina Morganti
Dipartimento di Architettura, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna.
Giorgia Predari
Dipartimento di Architettura, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna.
Abstract The conservation project of the historic center of La Habana Vieja is a singular model, whose results have been achieved by preserving the authenticity of the historical heritage and integrating it with current livability standards. The historic center was and still represents a place full of opportunities, thanks to the interventions that Oficina de l’Historiador has carried out in over thirty years of work and which will continue until 2030 according to its plan, whose objective is the preservation of the tangible and intangible cultural heritage and the environment. The paper aims at describing the fundamental steps and prerogatives that led to the redevelopment of La Habana Vieja, highlighting its particularities and singularities. The historic center of La Habana has a very limited size when compared to the whole city; it covers only 4.5 square kilometers of its total area and has 3,370 buildings, including 551 high-value architectural monuments. The buildings have an important environmental value, offering a very varied overview of styles and eras, which makes the image of the city suggestive and unique. Keywords Cuba, Patrimonio culturale, Recupero tipologico, Rilevamento, PEDI
Introduzione La città dell’Habana Vieja, grande metropoli caraibica, ha mantenuto la sua personalità originaria e già da qualche anno sta intraprendendo una fase di rinnovamento che si concluderà nel 2030. L’obiettivo di questo paper è quello di illustrare gli obiettivi che sono alla base del rinnovamento e riqualificazione dell’Habana Vieja attraverso il piano PEDI (Plan Especial de Desarrollo Integral), che possono essere sintetizzati in questi termini: abitabilità, sostenibilità e competitività. Obiettivi che sono perseguiti attraverso metodologie nuove per la realtà dell’Habana Vieja: decisioni politiche locali con partecipazione della popolazione e delle amministrazioni comunali alla gestio-
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Fig. 1 Il centro storico dell’Habana Vieja, Cuba (fotografia: Caterina Morganti, 2018).
ne dei processi territoriali, lettura del territorio come una risorsa strategica importante, nuovo uso di tecniche di gestione urbana, affermazione dell’Habana come destinazione turistica mondiale attraverso un miglioramento dell’immagine urbana e lo sviluppo dell’offerta turistica. La riqualificazione dell’Habana Vieja si basa sulla vitalità del suo tessuto sociale e urbano. Lo storico tracciato di strade strette e blocchi densi è ben conservato poiché non ha subito i paradigmi della crescita urbana della seconda metà del XX secolo (fig. 1). Gli immobili situati nel centro storico della città presentano un importante valore culturale, offrendo una panoramica assai varia di stili architettonici ed epoche che rendono suggestiva ed unica la sua immagine. Gli aspetti morfologici legati alla volumetria, ai rivestimenti di facciata, al ritmo di davanzali e colonne, al chiaroscuro creato da balconi e cornicioni sporgenti, alla bellezza delle opere in ferro sono gli elementi che ne caratterizzano la valenza estetica. Ciò rende possibile la rivalutazione di un’attività precedentemente stigmatizzata. Anche se sotto stretto controllo statale è possibile inserire armoniosamente l’attività turistica nella struttura urbana, sviluppando quindi le potenzialità del territorio che possono generare opzioni di attrazione turistica, in pieno accordo con la conservazione e la valorizzazione della scena turistica dell’Havana. Questo andrà a vantaggio sia
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Cristiana Bartolomei René Gutiérrez Maidata Cecilia Mazzoli Caterina Morganti Giorgia Predari Fig. 2 I livelli di protezione del centro storico dell’Habana Vieja (disegno: Caterina Morganti).
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della società cubana nel suo insieme sia, di conseguenza, all’intero catalogo di potenzialità legate al patrimonio costruito e culturale. Il piano previsto fino al 2030 è finalizzato proprio alla conservazione di questo patrimonio culturale e dell’ambiente urbano da esso creato. Grazie a campagne di rilevamento, già 500 edifici, ad oggi, sono classificati con grado di protezione I e II, associato al più alto valore patrimoniale e altri 2.500 sono classificati con grado di protezione III (fig. 2). I gradi di protezione sono stati introdotti dal Decreto n. 55 “Reglamento para la Ejecución de la Ley no. 2 de los Monumentos Nacionales y Locales” che determina le seguenti definizioni sulla protezione delle proprietà immobiliari: a. Grado di protezione I: le proprietà di valore elevato che devono essere completamente conservate. b. Grado di protezione II: proprietà la cui conservazione è subordinata a precedenti alterazioni parziali o alla sua natura non eccezionale e che, pertanto, possono subire modifiche o adattamenti controllati. c. Grado di protezione III: Proprietà di relativa rilevanza locale, o che stabiliscono relazioni ambientali, armoniose con quelle di primo o secondo grado di protezione, la cui conservazione è subordinata a precedenti alterazioni praticamente irreversibi-
li che possono subire, previa approvazione, modifiche, adattamenti o demolizioni parziali o totali. d. Grado di protezione IV: proprietà la cui conservazione non è auspicabile, poiché stabiliscono, in termini ambientali, relazioni disarmoniche con quelle classificate di primo e secondo grado di protezione. Possono essere adattate, modificate o addirittura demolite. I diversi stili e codici architettonici susseguitisi nel tempo, come lo spagnolo-mudéjar, il barocco coloniale, il neoclassico e l’eclettismo della metà del XX secolo, l’Art Nouveau e l’Art Deco declinati in tutte le loro varianti, fino all’inclusione del movimento Moderno, coesistono in una unità formale che ne decreta l’impronta architettonica. Progetti per il recupero del L’Habana L’Habana fu la prima città di Cuba a raggiungere caratteristiche urbane specifiche. A partire dalla Plaza de Armas, sito di fondazione, in cui inizialmente coesistevano i poteri politici e religiosi, furono realizzate le strade secondo una maglia tendenzialmente ortogonale, dando vita a un tessuto urbano costituito da blocchi di varie forme e dimensioni, integrato in un territorio delimitato da una linea di costa irregolare, che ha conferito all’Habana il suo carattere policentrico. L’Habana Vieja, infatti, non ha mai avuto un nucleo che concentrasse tutte le funzioni urbane e tale è rimasta fino ad oggi. La sua crescita è stata caratterizzata dall’aggiunta, piuttosto che dalla sostituzione, di edifici per lo più bassi, di massimo due piani. Durante gli anni ’40 e ’50, con l’aumento della popolazione, ci fu un progressivo abbandono dell’Habana Vieja che ha portato a un conseguente degrado architettonico, dovuto alla costruzione di nuovi quartieri in un’area urbanizzata più vasta, ben collegata dalle nuove gallerie e autostrade appena costruite. Nel 1940, fu creato dal sindaco del comune dell’Habana, con decreto n° 116 del 26 novembre, la “Comisión de monumentos, edificios y lugares Históricos y artísticos habaneros, asesora de la Oficina del historiador de la ciudad”, il cui articolo 1 riporta: “Crear una Comisión que se denominará de Monumentos, Edificios y Lugares Históricos V Artísticos Habaneros, asesora de la Oficina del Historiador de la Ciudad en todo cuanto se refiera a la defensa, conservación y restauración de monumentos, edificios, plazas, calles, barriadas, rincones y demás lugares de valor histórico o artístico del Término Municipal de La Habana” e questo fu un primo segnale di attenzione verso il restauro del patrimonio. Nel 1978 l’Habana Vieja venne definita Monumento nazionale e nel 1982 ottenne il riconoscimento del centro storico, con il suo sistema di fortificazioni, come patrimonio dell’umanità da parte dell’UNESCO. Con il programma UNDP/UNESCO, istituito in collaborazione con il Ministero della cultura cubano, venne promossa la creazione del Centro nazionale per la conservazione, il restauro e la museologia (CENCREM) per formare il personale tecnico necessario per la protezione del patrimonio culturale cubano (fig. 3). Iniziò così una stagione di restauri che riportarono l’attenzione mondiale su questa città straordinaria, attraverso un lavoro complesso messo in atto dall’Oficina de l’Historiador de La Habana, istituzione fondata nel 1938 da Emilio Roig de Leuchsenring, che aveva un grande prestigio nella promozione della cultura dell’Habana sia a livello locale che nazionale.
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Cristiana Bartolomei René Gutiérrez Maidata Cecilia Mazzoli Caterina Morganti Giorgia Predari Fig. 3 Patrimonio culturale cubano, La Habana, Cuba (fotografia: Caterina Morganti, 2018).
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Venne sviluppato così un modello sostenibile nei settori del restauro, della conservazione e del rinnovamento culturale che non si limita solo al patrimonio architettonico ma mira a migliorare la qualità della vita e la fruizione collettiva del patrimonio culturale, con l’obiettivo di essere un volano per lo sviluppo futuro della città, dove il turismo diventa “settore prioritario” dell’economia cubana. Si riprendono così le strategie già adottate nella metà del Novecento, volte a creare prodotti turistici adeguati alla domanda internazionale, aggiornando e migliorando vecchie infrastrutture e attrezzature e creandone di nuove. In sostanza il turismo diventa il modello dei cambiamenti fisici operati nell’immagine urbana. I redditi generati da questa attività sono quelli che consentono il recupero del patrimonio costruito, in un processo di retroazione, secondo il quale, il miglioramento dello scenario si traduce nella promozione dell’attrazione turistica della stessa. L’interesse per il patrimonio e per il tema della valorizzazione e restauro nasce e affonda le radici, però, in un passato più remoto. Già nel 1964 fu creata la Commissione nazionale dei monumenti, che rappresentò un primo sforzo per riconoscere e inventariare le valenze presenti sul territorio. Nel 1977 l’Assemblea nazionale dello Stato cubano approvò le sue prime leggi sulla tutela del patrimonio (Ley n.1 e Ley n.2 - Ley de los Monumentos Nacionales y Locales), seguite nel 1978 dall’istituzione della Commissione Provinciale dei Monumenti, che fu incaricata di realizzare indagini e studi sul sito storico dell’Habana Vieja (Lapidus, 1983). Promotore di questa volontà di attenzione al patrimonio fu la figura di Eusebio Leal Spengler, che nel 1980 diventò direttore dell’Oficina de l’Historiador e che insieme a un gruppo di giovani professionisti elaborò piani quinquennali per la salvaguardia dell’Habana Vieja, lavorando in concertazione con il Ministero della Cultura. Il Piano 1980-2000 si ispirava alle idee del costruttivismo funzionalista che illuminava i modelli urbanistici dell’Habana nei decenni centrali degli anni ‘60, per spostarsi verso il concetto dell’Habana come città-regione, concepito come un sistema complesso e gerarchico, dove le parti dovevano essere integrate, anche con l’ambiente, in un insieme adattabile e flessibile, in conformità con i cambiamenti che inevitabilmente sarebbero avvenuti. Il restauro della Casa dei Conti di Jaruco in Plaza Vieja, promossa da Eusebio Leal Spengler, fu propulsore della campagna di salvaguardia di Plaza Vieja avviata dal direttore generale dell’Unesco M’Bow. Il motto di Eusebio Leal Spengler era “Non svuotare l’Habana Vieja”: egli voleva infatti evitare la desertificazione della città in funzione del turismo, e la sua trasformazione in museo e attrazione turistica senza identità e senza vita. Dal sito di fondazione, Plaza de Armas, nelle strade Obispo, Mercaderes e Tacón (che collegano le strade alla Plaza de la Catedral) vennero riabilitati importanti palazzi con funzioni culturali e gastronomiche, per ripristinare il prestigio e la centralità nell’area degradata. Iniziò così un processo di trasformazione e l’immagine recuperata iniziò a sviluppare una coscienza collettiva sulle vere potenzialità che sarebbero state portate avanti dal restauro. Negli anni seguenti, alcuni edifici in Plaza Vieja vennero recuperati e l’antico convento delle Clarisse fu sottoposto a lavori di riabilitazione per diventare nel 1982 sede del Centro Nacional de Conservación, Restauración y Museología (CENCREM). Sempre di questo periodo sono i restauri delle fortificazioni più importanti dell’Habana: il Castillo de los Tres Santos Reyes del Morro e la Fortaleza de San Carlos de la Cabaña.
Negli anni ‘90, a seguito del crollo del comunismo nei paesi dell’Europa Orientale, Cuba subì una forte crisi economica e il governo cubano, lungimirante, adottò una misura di vitale importanza per il proseguimento dei lavori di restauro del centro storico: trasferì non solo le risorse, ma anche il potere finanziario all’Oficina de l’Historiador per garantire uno sviluppo socialmente ed economicamente sostenibile. Come dire: le crisi estreme portano alla loro antitesi, l’opportunità. Va tenuto in conto che l’Habana Vieja è una zona in emergenza continua che soffre di un rapido ed elevato deterioramento dei suoi edifici, sia a causa della stagione dei cicloni, ma anche per via della sovrappopolazione e delle condizioni di vita povere (fig. 4). Nel 1994 iniziò il Masterplan per la riabilitazione integrale dell’Habana Vieja, che comprende una serie di solide strategie per il restauro del patrimonio di edilizia diffusa, per la valorizzazione del turismo con attenzione agli spazi pubblici, per incentivare l’economia, lo sviluppo sociale e la partecipazione e per potenziare le infrastrutture (Rojas, Daughters, 1998). Vennero così strutturate le aree a vocazione turistica e residenziale con l’obiettivo primario di ripresa fisica, sociale ed economica del centro storico, conservandone l’identità culturale. I piani erano quinquennali, e non è questa la sede per dettagliarli nello specifico, ma ci preme sottolineare come proprio il Piano del 1997 sia stato determinante per sottolineare il binomio tra vocazione turistica e residenziale. Nel piano si opta per la specializzazione nel turismo e dell’edilizia abitativa di alto livello sul litorale della città, riequilibrando così il territorio urbano per evitare migrazioni interne quotidiane tra le diverse parti funzionali della città. Si distingue la funzione residenziale del centro, dove prevale l’uso terziario, e si realizzano maggiori attrezzature e servizi nei grandi quartieri periferici, con l’obiettivo di progettare aree comunitarie ben servite a scala pedonale. Compito del Masterplan è quello di preservare i valori del patrimonio tangibile e intangibile; le caratteristiche architettoniche e tipologiche, nonché l’eterogeneità funzionale e sociale, sono le premesse fondamentali di questa valorizzazione, pertanto i fondi furono suddivisi in fondi per il restauro monumentale e risorse da impiegare per interventi sul sociale, come ad esempio le scuole, o la creazione di nuovi posti di lavoro (Gutiérrez Maidata, 1984). Questo Masterplan è così diventato un modello esemplare perché ogni azione intrapresa è stata motore per stabilire le direzioni future per il restauro e per garantire il proseguimento di tale processo. L’autofinanziamento del processo di recupero è un aspetto fondamentale quando si parla della sostenibilità economica di un progetto. L’autorità centrale è stata in grado di procurarsi fondi comuni privati e pubblici attraverso attività turistiche e servizi associati. Dal 1994, lo sfruttamento delle risorse culturali, turistiche e terziarie del territorio ha prodotto circa 216,8 milioni di dollari, che, insieme ad altre fonti di reddito, ha prodotto un totale di 248,1 milioni di dollari, reinvestiti nuovamente nel recupero di circa un terzo del territorio. Il decentramento economico ha consentito il reinvestimento immediato di queste risorse, con il concetto di cash-cow, che ha innescato l’ottenimento di risultati evidenti a breve termine, percepibili in un miglioramento urbano e sociale e, quindi, nella generazione di esternalità positive per attirare più investimenti e interessi, con il corrispondente aumento di visitatori e persone che richiedono servizi. L’affidabilità del processo stesso ha stimolato la Banca Nazionale, che ha anticipato crediti per 61,9 milioni di dollari da investire in opere molto costose, e allo Stato, che ha contribuito con 321,3 milioni di pesos dal bilancio centrale. L’introduzione di politiche sociali ben definite e la riabilitazione di edifici destinati a servizi ad uso pubblico
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Cristiana Bartolomei René Gutiérrez Maidata Cecilia Mazzoli Caterina Morganti Giorgia Predari
hanno mobilitato in un decennio 16,1 milioni di dollari dalla cooperazione internazionale che, in un concetto di co-finanziamento, ha reso possibile aumentare il numero di investimenti con questo scopo. Il processo, iterandosi, ha fatto recuperare il carattere polifunzionale che ha contraddistinto l’Habana Vieja nel corso della sua storia, facendola tornare ad essere nuovamente il luogo della città in cui è concentrata la maggiore densità di offerte culturali (Martin Zequeira, Rodriguez Fernandez, 1995). Sono state recuperate 4 delle 5 piazze: Plaza San Francisco, Plaza Vieja, Plaza de la Catedral, Plaza de Armas (rimangono esclusi dal processo solo Plaza del Cristo e le strade adiacenti). Questa riqualificazione ha ripristinato il senso di centralità del quartiere, soprattutto con la rivitalizzazione dell’asse Obispo-O’Reilly, accesso pedonale al centro storico e collegamento diretto tra le piazze principali e il Parque Central dell’Habana (fig. 5). Il Masterplan era costituito da un lavoro multidisciplinare che includeva studi urbani, architettonici, demografici, sociologici, strutturali, tecnici, storici, archeologici e stratigrafici. L’area scelta era di nove blocchi che occupano un’area di circa 8 ha e contava 122 edifici. Nella sua prima fase di esecuzione fu considerato lo spazio urbano di Plaza Vieja e i 20 edifici che costituiscono i suoi limiti fisici, perché rappresentativi di diversi momenti storici di costruzione, di diverse influenze stilistiche e tipologiche dell’architettura dell’Habana (fig. 6). Il cuore della città: la Plaza Vieja Plaza Vieja è l’unica piazza in cui non è mai esistita una costruzione rappresentativa del potere politico o religioso ed è stata sempre invece il luogo di rappresentanza del potere economico dell’oligarchia creola (Leal Spengler, 2000). Sorta nel 1584 con il chiaro intento di diventare luogo per tutte le attività pubbliche di carattere civile (mercati, corride, ecc.), la piazza può essere definita come una delle opere architettoniche più rappresentative della sintesi innovativa nata dall’incontro di molte culture sotto il sole delle Antille. Il luogo destinato alla sua ubicazione era situato in un’area ancora non costruita, collocata lungo le strade Mercaderes e San Ignacio. Benché prevista di forma regolare, Plaza Vieja fu costruita invece di forma trapezoidale di circa 40 per 80 m e la sua forma spicca all’interno del tessuto urbano centrale, caratterizzato principalmente dalla regolarità. Plaza Vieja è l’unico spazio nel centro storico i cui quattro lati sono circondati da portici ampi che corrono per tutto il piano terra e da un gruppo di logge ai piani superiori, dominato dalla funzione abitativa senza nessun edificio civile o religioso, e che si caratterizza per la qualità degli eleganti edifici che vi si affacciano (fig. 7) (Mutal, 1996). Agli inizi del XX secolo, Plaza Vieja non sfuggì però al rinnovamento indiscriminato causato dall’introduzione della prefabbricazione, che introdusse nella costruzione degli edifici pannelli in cemento armato con la tecnologia “Grand Panel 4”, interamente sviluppata a Cuba, per edifici fino a cinque piani, e dall’utilizzo di un repertorio decorativo storicistico che portarono alla demolizione del mercato e alla costruzione di due edifici imponenti all’angolo della strada Mercaderes: l’ufficio postale, di eclettismo indefinito, e un hotel in stile Art Nouveau. Benché fosse alta la consapevolezza della conservazione del patrimonio architettonico a Plaza Vieja, non fu data però in tempi passati l’attenzione che fu riservata a la Plaza de Armas e a Plaza de la Cattedral, che avevano edifici coloniali di pregio e merita-
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rono azioni per la loro conservazione. Già negli anni 1943-1947 si tentò senza successo di realizzare un progetto per la sua valorizzazione (Mesías González, 1994). Tuttavia, l’aumento dell’automobile condannò nel 1952 la piazza a parcheggio e tale rimase fino a che la piazza entrò nei piani di restauro del centro storico con la realizzazione di un progetto sostenuto da una campagna di riqualificazione lanciata dall’Unesco (Mutal, Pantacovic, 1996). Solo in questo momento Plaza Vieja divenne parte delle linee guida generali stabilite nel Masterplan per il Centro storico. Nel gennaio del 1999 è stato introdotto a Cuba il Programma di Sviluppo Umano Locale (PDHL) con il proposito di mettere a disposizione delle istituzioni nazionali e locali del Paese e dei differenti attori della cooperazione internazionale, una strategia di riferimento programmatico, operativo e di gestione capace di articolare l’azione della cooperazione internazionale ai processi ed alle strategie di sviluppo locale avviate dal Paese (Arjona, 2003). Questo ha contribuito a dare un impulso ai nuovi progetti nel centro storico dell’Habana. In particolare, il progetto su Plaza Vieja, che all’inizio comprendeva gli otto blocchi nei dintorni della piazza, ha condotto, da un lato, al recupero dell’intera area della piazza, eliminando il parcheggio sotterraneo e ripavimentando la piazza con i ciottoli, e dall’altro ha garantito la conservazione della funzione abitativa nei piani superiori degli edifici e la rifunzionalizzazione dei piani terra con nuove funzioni culturali, gastronomiche e commerciali. Questa dovrebbe diventare una filosofia di intervento – in relazione allo spazio pubblico, all’uso del suolo e alla funzione abitativa – da tenere ad esempio per ciò che sarà programmato per il futuro.
Fig. 4 Le aree di recupero dell’Habana Vieja (disegno: Caterina Morganti). Fig. 5 Le cinque piazze dell’Habana Vieja (disegno: Caterina Morganti).
Conclusioni Sebbene siano state intraprese azioni davvero forti e determinanti, attualmente solo un terzo delle residenze nel centro storico risulta in buone condizioni. La situazione è in continuo peggioramento per l’assenza di azioni capillari di conservazione e per le trasformazioni radicali, dovute all’uso intensivo che nel tempo hanno subito gli edifici tradizionali. Le condizioni sono più critiche nei locali commerciali e di servizio convertiti in residenze, dove ci sono problemi seri dovuti alla mancanza d’illuminazione
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Cristiana Bartolomei René Gutiérrez Maidata Cecilia Mazzoli Caterina Morganti Giorgia Predari Fig. 6 Le fasi del recupero del centro storico dell’Habana Vieja (disegno: Caterina Morganti). Fig. 7 Il recupero Plaza Vieja (disegno: Caterina Morganti).
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e ventilazione naturale. Attualmente il 46% del totale degli edifici richiede interventi di emergenza, il 21% interventi di riabilitazione, il 3% interventi di demolizione ed il restante 30% interventi di manutenzione. Per questa ragione, il piano PEDI (Plan Especial de Desarrollo Integral) previsto fino al 2030 riguarda il consolidamento delle zone residenziali con cambi di funzionalità, rafforzando la centralità con la creazione di nuovi poli di attrazione culturale e terziario, tenendo conto della vocazione del territorio. In particolare, il programma prevede di completare la riabilitazione degli edifici che si trovano nelle quattro piazze già recuperate e di iniziare il recupero dei fabbricati perimetrali di Plaza del Cristo e la riabilitazione della stessa piazza. Il piano prevede inoltre il completamento del recupero degli edifici che si trovano a Tacón, Oficios e Mercaderes, la conservazione della funzione residenziale ai piani alti e l’ubicazione delle funzioni culturali, gastronomiche e commerciali e delle attività ricreative nei piani bassi. È altresì previsto di sviluppare e promuovere la creazione di laboratori di piccole e medie dimensioni per la produzione speciale di elementi relativi al restauro (fabbri, vetrerie, falegnamerie) da localizzare principalmente in Calle Muralla, Amargura, Teniente Rey e San Ignacio e Calle Cuarteles (Leal Spengler, 2001). Il piano impedisce interventi che compromettano la tipologia originaria, la stabilità strutturale e l’immagine urbana espressa da facciate e coperture. Inoltre, nei prossimi cinque anni sono in preparazione e implementazione i programmi relativi alle pratiche sulla costruzione tradizionale ed in particolare: Programma “Produzione di materiali tradizionali”, Programma “Produzione
di componenti di costruzione tradizionali” e Programma “Recupero di tecniche tradizionali”. In termini più specifici, le parole chiave che conducono e guidano i piani e i progetti per la valorizzazione del tessuto urbano dell’Habana Vieja sono: recupero tipologico e modernizzazione. Da queste esperienze emerge infatti la volontà di mantenere le strutture originali, sostituendo le componenti danneggiate e riproducendo gli elementi incompleti o andati distrutti, eliminando elementi aggiunti dannosi per l’integrità e l’interpretazione dell’edificio e cercando di realizzare una relazione armonica tra il suo valore storico-architettonico e le condizioni di vita che mutano continuamente (Lobo Montalvo, 2000). Il recupero dell’immagine si avvia quindi al futuro, conservando la predominanza degli elementi del diciannovesimo secolo presenti negli edifici coloniali, rispettando in essi la stratificazione storica. Tutti i piani e progetti sono finalizzati alla salvaguardia e alla conservazione dei valori architettonici, mantenendo la distribuzione e l’articolazione spaziale degli edifici, con una visione multiscalare, che va dall’ambiente fisico, all’ambiente costruito, al tessuto sociale, al fine di migliorare la qualità della vita dei residenti e l’efficienza delle attività economiche. Sicuramente L’Habana Vieja è la parte più preziosa della città ma non è però l’unica. Il suo restauro, in atto, è un esempio da seguire per proteggere e salvare il resto del patrimonio, sia dalle incurie del tempo che dall’azione dell’uomo, che come in altre parti dell’Habana inducono ad una perdita testimoniale di valenza universale. Bibliografia Arjona M. 2003, Patrimonio cultural e identidad, Editorial Boloña, La Habana. Gutiérrez Maidata R. 1984, Manpower Equirements and Job Opportunities in Historic City Preservation Programs, UNDP-World Heritage Center-UNESCO, Lima, Buenos Aires. Lapidus L. 1983, La Plaza Vieja, Ediciones Plaza Vieja, La Habana. Leal Spengler E. 2000, Para no olvidar, Editorial Boloña, La Habana. Leal Spengler E. 2001, Desafío de una utopía. Una estrategia integral para la gestión de salvaguarda de La Habana Vieja, Editorial Boloña, La Habana. Lobo Montalvo M. L. 2000, Habana: History and Architecture of a Romantic City, Monacelli Press, New York. Martin Zequeira M. E., Rodriguez Fernandez E. L. 1995, Guía de Arquitectura, La Habana Colonial, Junta De Andalucia, La Habana- Sevilla, Cuba. Mesías González R. 1994, Iroducción y rehabilitacion del hábitat participativo y autogestionable, Red Vivienda y Construyendo, Habana Vieja. Mutal S. 1996, Desarrollo Humano Sostenible en Áreas Urbanas. El Caso de Habana Vieja, PNUD, La Habana. Mutal S. Y., Pantacovic D. 1996, Fragments of Lost Language: Architecture-Shapes-Functions in Historic Cities, Milano. Rojas, E., Daughters R. 1998, La ciudad en el siglo XXI. Buenas prácticas en gestión urbana en América Latina, BID, New York.
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Il Tempio di Portuno a Fiumicino. Conoscenza per la salvaguardia del Patrimonio Archeologico Anna Boscolo
Anna Boscolo
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Abstract Italy is rich in peripheral abandoned monuments, which would represent, if restored, an enormous potential both from a historical and cultural point of view, and for the recovery and valorisation of the urban environment in which they are located. One can take as an example an architecture located in the suburban landscape of Rome, a ruin on a private property, next to a public archaeological park, but unconnected with it, left to abandonment and in need of restoration. What was it originally, what is its historical value, and what is the purpose of investing in a restoration now, other than for mere preservation? How shall one revive it? Why, and for whom? The same questions can be asked for other ruins in similar conditions, each with its own particular history. Several analysis, such as historical ones, cartographic ones and detailed surveys lead to the choice of a new intended use of the abandoned monument. The Temple of Portuno, in Fiumicino, offers itself as a medium to explore possible guidelines of interventions that will lead to the rebirth and, above all, to the fruition of the ruin, even centuries after its construction, in relation to the population and to the landscape and archaeological context in which it lies. Keywords Ricostruzione storica, valorizzazione, rinascita.
L’Italia è ricca di monumenti periferici in stato d’abbandono, che rappresenterebbero, se restaurati, un enorme potenziale sia dal punto di vista storico-culturale, che di recupero e valorizzazione del tessuto urbano in cui si trovano. A pochi chilometri dall’aeroporto di Fiumicino, avanzando verso l’Isola Sacra, s’incontra l’area archeologica del Porto di Claudio e Traiano, risalente al I secolo d.C., caratterizzata dalla presenza di un grande bacino esagonale. Il sito nasceva come nuovo polo portuale della capitale, inizialmente legato alla vicina Ostia, poi indipendente con il nome di Porto, e garantiva a Roma il convoglio delle merci attraverso la via fluviale del Tevere. Era composto dal porto di Claudio, iniziato
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Fig. 1 Il Tempio di Portuno, facciata sud ed ingresso all’ambiente ipogeo, (foto: Anna Boscolo, 2017).
nel 42 d.C., e successivamente dal bacino esagonale di Traiano (100-112 d.C.), circondato dagli insediamenti di tutti coloro che erano coinvolti in qualche modo nelle attività commerciali. Tra le numerose testimonianze archeologiche di Porto, si erge imponente, a sud-est dell’attuale via Portuense, la rovina del cosiddetto Tempio di Portuno. Si tratta di un monumentale rudere del tessuto periferico della Capitale, all’interno della proprietà privata della famiglia Sforza-Cesarini, lasciato all’abbandono e con necessità di restauro. Un monumento in prossimità di un parco archeologico pubblico, ma con il quale non esiste, al giorno d’oggi, un vero rapporto. Che cos’era in origine, qual è il suo valore storico? Come farlo rinascere? Perché, e per chi?
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Gli stessi interrogativi possono essere posti rispetto ad altri ruderi in condizioni analoghe, ognuno con la sua particolare storia. Il Tempio di Portuno si offre allora come veicolo per sperimentare possibili linee guida d’intervento che portino alla rinascita del rudere, in rapporto con la popolazione e con il contesto paesaggistico ed archeologico in cui giace. Il percorso per la ricostruzione storica Per essere in grado di definire un progetto di restauro adeguato, occorre prima di tutto conoscere la storia del rudere, scoprirlo ed analizzarlo in modo critico. La ricerca storica, il rilievo, l’analisi delle fonti, sono tutti passaggi indispensabili e funzionali al restauro stesso. Il rudere allo stato attuale Nonostante l’esigua porzione di architettura giunta fino a noi, dalla sagoma è chiaramente riconoscibile la forma circolare che caratterizzava in origine il Tempio di Portuno. Il piano principale presenta oggi solo due arcate, una con nicchia circolare, ed un’altra in origine con una nicchia rettangolare, ora però sfondata (fig. 1). Il mattone che caratterizza la struttura (opus latericium), e ricopre il nucleo in opera cementizia, è tipico dell’epoca severiana (193-235 d.C.), periodo a cui se ne associa dunque la realizzazione. Ciò che difficilmente si può notare ad un primo sguardo dalla via Portuense, è la presenza di un piano interrato: addentrandosi attraverso l’unica apertura nel terreno che lo consente, ci si ritrova immersi in un sistema di nicchie e corridoi coperti da volte a botte e a crociera, non percepibili dalla superficie esterna. Le condizioni del piano ipogeo sono di totale abbandono, ma nonostante la terra franata che ricopre gran parte dell’ambiente e ne chiude le principali aperture, è perfettamente riconoscibile la forma originaria della pianta a croce, e perfino del corridoio circolare che avvolgeva ad anello i quattro bracci. Tutt’attorno al Tempio di Portuno, si scorgono tra l’erba numerose cavità nel terreno che creano dei naturali, seppure non praticabili, collegamenti con l’ambiente ipogeo, e diversi residui murari risalenti all’epoca severiana. Questi elementi permettono di avere una prima ipotetica ricostruzione del perimetro complessivo dell’edificio e delle corrispondenze tra piano interrato e piano superiore. Sia di fronte al rudere, in corrispondenza di quello che doveva essere il centro dell’edificio, che non molto distante da esso, vi sono inoltre degli elementi in cemento armato in ottime condizioni, riconducibili alla Seconda Guerra Mondiale: una scala utilizzata probabilmente come base per le mitragliatrici, ed un bunker, oggi non accessibile. Rilievo e restituzione grafica del manufatto Il rilievo della pianta del monumento e dell’ambiente circostante, comprese le bucature del terreno ed i residui murari, è il primo passaggio fondamentale per ottenere una chiara comprensione della struttura a cui ci troviamo davanti. Tramite l’uso della stazione totale (modello Leica TS 02), le misure sono state rilevate sezionando la pianta del rudere a tre altezze diverse per avere una più completa riproduzione del monumento; per quanto riguarda la pianta dell’ambiente ipogeo invece, il rilievo tramite stazione totale è stato integrato con il rilievo diretto (fig. 2). La riproduzione grafica dei prospetti è stata realizzata grazie ad un rilievo fotogram-
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Fig. 2 Il rilievo dell’ambiente ipogeo, (riproduzione AutoCAD, Anna Boscolo, 2017).
metrico e all’elaborazione dei dati tramite l’uso del software Agisoft PhotoScan, che ha permesso di ricreare un modello tridimensionale ed i successivi disegni architettonici. Con una successiva elaborazione dei prospetti tramite il software per la gestione dei dati 3D Geomagic, è stato possibile ottenere la stampa di un modello tridimensionale in plastica, in scala 1:100. L’analisi delle fonti storiche Numerose carte storiche, dal XII secolo ai giorni nostri, evidenziano le variazioni territoriali subìte nei secoli da Porto e dai siti dei porti di Claudio e Traiano, e permettono di definire la posizione del Tempio di Portuno all’interno del contesto portuale e cittadino. La più antica rappresentazione conosciuta del cosiddetto Tempio di Portuno è quella di Giuliano da Sangallo, che per primo riprodusse nel 1484, oltre al monumento, la pianta dell’intero porto ostiense (Codice Vaticano Barberiniano Latino 4424). La riproduzione del Tempio, seppure altamente interpretativa, consente la lettura dello stato nel quale avrebbe potuto presentarsi il monumento agli occhi di Sangallo: il vano principale è composto da quattro nicchie circolari e tre rettangolari, ed arricchito da otto colonne interne, che sorreggono una cupola riconducibile al modello del Pantheon, con un oculo a cielo aperto. In corrispondenza delle colonne, la trabeazione superiore è aggettante, mentre la cupola è costolonata. Esternamente, il Tempio è circondato da una balaustra. Sangallo rileva accuratamente la pianta del piano superiore, ma non accenna alla presenza di un piano interrato. In seguito, tra il 1582 ed il 1621, anche Giovanni Battista Montano riproduce pianta e prospetto, parzialmente sezionato, del Tempio di Portuno (Indice de due Tomi d’Intagli Tempietti ed altro, relativo ai tomi V e VI del collezionista lucchese Giacomo Sardini): ritroviamo qui le otto colonne corinzie interne ai lati delle sette nicchie, e la cupola che termina con apertura oculare. Montano disegna tre gradini d’accesso al tempio, che l’avvolgono per l’intero perimetro. Secondo la storica Lynda Fairbairn, il riferimento per questo disegno è la ricostruzione di Giuliano da Sangallo, con l’aggiunta del portico circolare che sostituisce la balaustra, degli intradossi a cassettoni della cupola, e delle statue tra le nicchie. Una delle rappresentazioni più complete di pianta, prospetto e sezione è quella ottocentesca di Luigi Canina, risalente ai rilievi svolti a Porto nel 1827. Quest’ultima ricostruzione permette una chiara lettura comprensiva di quello che
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Anna Boscolo Fig. 3 Ricostruzioni storiche del rudere del Tempio di Portuno. Da sinistra: Giuliano da Sangallo, 1484; Giovanni Battista Montano, tra 1582 e 1621; Luigi Canina, 1827.
poteva essere il Tempio di Portuno: il piano che ad oggi si presenta come interrato, è in questo caso accessibile dal livello della strada, com’è chiaramente evidenziato dalla presenza di due ingressi perpendicolari rispetto a quello che invece conduceva al piano superiore. Quest’ipotesi è inoltre confermata dalla mancanza di un collegamento interno tra i due livelli. Ancora una volta, ritorna la cupola con oculo a cielo aperto, le otto colonne interne al piano superiore, e come nel disegno di Montano, ventiquattro colonne esterne, più alte (fig. 3). L’attribuzione al dio Portuno Fu l’architetto e studioso Pirro Ligorio (1513-1583), il primo ad identificare i resti dell’edificio presso l’antica porta orientale della città di Portus come appartenenti al Tempio di Portuno, dio dei porti e delle porte. Tale attribuzione nacque in seguito allo studio di alcune epigrafi ritrovate nella zona tra il 1553 ed il 1555, dal cardinale Jean du Bellay, allora vescovo di Porto, in cui si parlava infatti di un tempio dedicato a Portumno e alla Fortuna Tranquilla. Successivamente, lo storico e archeologo Antonio Nibby (1792-1839), nel suo Viaggio antiquario ne’ contorni di Roma del 1819, confermò l’ipotesi di Pirro Ligorio: Conoscendo essere Portumno il dio de‘ porti, essendo certi per la sua pianta che l’avanzo in questione appartiene ad un tempio, sembra non potersi dubitare dopo la scoperta delle lapidi surriferite, che fosse sacro a Portumno ed alla Fortuna Tranquilla, e perciò come tale dee riconoscersi […]
Nibby aggiunse, inoltre, che nelle bolle papali di Benedetto VIII e Leone IX si menzionava spesso una chiesa distrutta nella città costantiniana dedicata a S.Pietro e S.Paolo: È molto probabile che ad esempio di altri tempi, ancora questo pre-esistente al recinto di Costantino, venisse o da lui, o da’ suoi successori cangiato in chiesa dedicata a s.Pietro e s.Paolo.
È invece a fine ‘800 che il tedesco Hermann Dessau (1856-1931), storico dell’antichità ed epigrafista, definisce false le iscrizioni pubblicate dal Ligorio, privando il monumentale rudere di quella sacra attribuzione.
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Il confronto dei caratteri tipologici con architetture coeve Secondo l’analisi della struttura del rudere e dell’ambiente ipogeo, si può teorizzare che l’architettura fosse in origine, anziché un tempio in onore del dio Portuno, un monumentale sepolcro. In epoca severiana, le tipologie di tombe che venivano realizzate erano principalmente a tempietto. Queste strutture erano solitamente dedicate ai membri di una stessa famiglia, e si presentavano su due piani: un piano inferiore, spesso interrato, in cui si trovava la camera sepolcrale, con i sarcofagi o le urne cinerarie, ed un piano superiore, dedicato invece alle cerimonie funebri in onore dei defunti. Nel II secolo i sepolcri a tempietto erano principalmente in laterizio, spesso di mattoni rossi e gialli, differenziandosi dai sepolcri realizzati invece con murature a sacco rivestite in marmo o stucco. L’affaccio diretto del sepolcro in esame sulla via Portuense rispecchia l’obiettivo di essere ammirato dai viandanti che giungevano a Porto da Roma, a testimonianza dell’importanza e della ricchezza della famiglia proprietaria. Confrontando i caratteri morfologici del rudere (la pianta circolare, la tipologia di sepolcro su due piani, la copertura a cupola, la costruzione in opus latericium, gli archetti pensili e la doppia ghiera in laterizio) con altri sepolcri della stessa epoca, come ad esempio il sepolcro di Annia Regilla (via Appia Antica, II sec. d.C.), il sepolcro di Largo Preneste (II sec. d.C.), ed il Mausoleo di Gallieno (via Appia Antica, III sec. d.C.), l’attribuzione a sepolcro – invece che a tempio – appare evidente. Le ipotesi ricostruttive L’analisi delle descrizioni raccolte nei secoli del Tempio di Portuno e degli elementi decorativi o strutturali che sono rimasti come testimonianza, ha affiancato i rilievi attuali per avvicinarsi ad una possibile interpretazione conclusiva dell’aspetto e della funzione che l’architettura doveva avere in origine. Di seguito sono riportate porzioni di testi che citano il Tempio di Portuno, e le caratteristiche che ne aiutano la ricostruzione. Antonio Nibby, nel descrivere il rudere del Tempio, nel suo Viaggio antiquario ne’ contorni di Roma del 1819, narra: un tempio che per costruzione laterizia non può dirsi anteriore ai tempi settimiani. Il Ligorio e il Du Perrach lo restaurano giustamente per un tempio peristilo, giacché rimangono esteriormente tracce molto visibili della volta che era sostenuta dalle colonne, e che copriva il portico: il tempio sorgeva sopra gradini che ricorrevano intorno: dagli indizi esistenti si riconosce che il peristilio era formato da 16 colonne, probabilmente di ordine corinzio, e del diametro di 3 piedi. Un pezzo di architrave appartenente alla decorazione interna di questo tempio si vede a piccola distanza, e per la rozzezza del lavoro è corrispondente alla costruzione materiale, ed alla epoca alla quale questo tempio è stato di sopra assegnato. Nell’interno appaiono ancora tracce di festoni grossolani ricoperti di stucco che ricorrevano intorno presso all’imposta della volta. Fra le nicchie sporgono in fuori colonne forse sostenenti statue.
Nel 1842, Luigi Canina riporta in L’architettura antica descritta e dimostrata coi monumenti, che sono ancora visibili: ...tre delle grandi otto nicchie, e parte della volta, nella quale appariscono tracce di festoni ed altri ornamenti di stucco, con cui era la stessa volta adornata. Parimenti si vedono ivi indicazioni di colonne, che stavano situate tra le stesse grandi nicchie a poca distanza dal muro. Un pezzo dell’architrave, appartenente alle stesse colonne interne, fu ritrovato non lungi dal tem-
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pio. Del peristilio esterno ora rimangono solo le attaccature della volta che girava all’intorno della cella, e che doveva essere esternamente sostenuta dalle colonne sovraindicate.
Fig. 4 Gli elementi caratteristici del Tempio di Portuno. Da sinistra: l’impronta dei lacunari ed uno dei costoloni rimasti; gli archetti pensili della facciata nord a confronto con la riproduzione di Giuliano da Sangallo (foto: Anna Boscolo, 2017).
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Giuseppe Lugli, ne Il porto di Roma imperiale e l’Agro portuense, Roma 1935, descrive la presenza originaria di un periptero con 24 colonne, testimoniato da “tracce delle basi sul pavimento”, a sostegno dell’ipotesi di un colonnato esterno. Sono rimaste oggi tre porzioni di costoloni a testimonianza della correttezza della riproduzione del Sangallo e del Canina. La regolarità con cui mancano i laterizi tra i costoloni, invece, indica la presenza in origine di lacunari in alleggerimento della cupola, come riportato da Sangallo. Né festoni né altri elementi decorativi in stucco sono giunti dalle descrizioni degli storici fino ai giorni nostri, impedendo una ricostruzione degli ornamenti interni. Anche l’architrave rinvenuto nell’800 nei pressi del rudere, secondo le fonti citate, è assente. Sia il Nibby che il Canina riportano di resti di colonne poste tra le sette nicchie e la porta del piano superiore, e trovano conferma nell’accurato rilievo della pianta di Giuliano da Sangallo. Sia esternamente che internamente, il rudere presenta degli archi a doppia ghiera che sovrastano le nicchie: il laterizio di cui sono composti riporta visibilmente i fori dei puntelli che sostenevano le lastre di marmo che rivestivano in origine l’architettura. Il Lugli scrive infatti che il monumento doveva essere in origine rivestito in marmo fino ad una certa altezza, poi sostituito con intonaco dipinto a finto marmo. I sei archetti pensili, o attacchi di volta, evidenti sulla facciata nord del rudere, smentiscono l’affermazione del Nibby riguardo la presenza di un peristilio composto da sedici colonne. Mantenendo costante il ritmo delle arcate, si può infatti facilmente ricostruire il perimetro esterno contandone un totale di ventiquattro. Si è cercato di dare un’interpretazione alla struttura muraria del perimetro esterno che sovrasta gli archetti, ipotizzando che i vuoti tra un blocco di muratura e l’altro potessero essere finalizzati ad accogliere travi di supporto ad un solaio, come nella rappresentazione di una balaustra sorretta da travetti lignei del Sangallo, o più probabilmente ad un cornicione (fig. 4). Dal momento che le tracce delle basi di colonne esterne citate dal Lugli non sono oggi rintracciabili per poterne verificare l’effettiva esistenza, anche se quest’ipotesi non si può escludere completamente, si può ipotizzare che il Tempio di Portuno fosse in origine caratterizzato, invece che da un colonnato, da archetti pensili che fungevano da base ad importante cornicione (fig. 5). Il restauro Le analisi dello stato attuale e le ricostruzioni storiche hanno permesso di ridefinire le origini del monumento, generando la base delle ragioni che portano a volerlo conservare e valorizzare. Lo studio procede quindi con la definizione d’interventi di restauro conservativo, grazie ai quali il rudere inizierà a rinascere. Analisi dello stato di degrado del rudere ed interventi di restauro conservativo Lo studio dello stato di conservazione del Tempio di Portuno ha evidenziato numerose tipologie di degrado, localizzate in differenti porzioni del monumento, causate innanzitutto dalla mancanza di manutenzione. La parte superiore è coinvolta nel fenomeno di disgregazione ed erosione, dovute
principalmente alla presenza di radici di piante infestanti, ad infiltrazioni d’acqua, nonché alle azioni eoliche e alle oscillazioni termiche. L’umidità e la presenza d’acqua hanno fatto sì che si formasse anche una patina biologica che deteriora ulteriormente lo stato della muratura del rudere. La porzione del monumento in cui prevale ancora il rivestimento in mattoni è attaccata da muschi e licheni, oltre a presentare una visibile mancanza di laterizi e di malta nei giunti, e numerose incrostazioni calcaree dovute a migrazioni d’acqua e all’umidità di risalita in corrispondenza degli ambienti ipogei. La nicchia circolare si presenta invece con importanti mancanze che vuotano la muratura in quattro diverse localizzazioni, mentre l’arcata al suo fianco manifesta una delle tre importanti lesioni che attraversano il rudere da parte a parte, compromettendo pericolosamente la sicurezza e la stabilità della doppia ghiera. Le tipologie di degrado evidenziate richiedono diverse fasi d’intervento: in alcuni tratti della superficie muraria un trattamento di preconsolidamento, necessario a causa della compromessa coesione dei materiali, precede i successivi interventi di pulitura, che mirano invece alla rimozione di materiali estranei depositati sulla superficie. Con un intervento di consolidamento si rende possibile, poi, ripristinare la solidità della superficie, con particolare attenzione alle porzioni di muratura maggiormente lesionate e pericolanti, su cui verrà realizzato un intervento di ancoraggio. In seguito a verifiche meccaniche, è stato possibile dimostrare che il rudere del Tempio di Portuno non è interessato da meccanismi di collasso, e che le lesioni che lo attraversano sono dovute al crollo della cupola avvenuto in epoca passata, probabilmente durante lo spoglio di marmi e colonne. Sulle lesioni s’interviene quindi con iniezioni di miscele leganti di calce idraulica e pozzolana nella muratura, per evitare successivi degradi causati dalle infiltrazioni di acqua piovana. Attraverso un’integrazione delle malte e dei laterizi in corrispondenza delle mancanze riscontrate in facciate, si punta invece a restituire continuità alla superficie del monumento. In corrispondenza della nicchia circolare e delle quattro aperture nella muratura, per restituire unità visiva all’insieme, si propone una reintegrazione muraria riproducendo un nucleo cementizio analogo a quello originale, composto da scaglie di tufo di forma irregolare. Il nucleo sarà poi rivestito con laterizi dalla superficie rigata per rendere riconoscibile, ma non di forte impatto, la differenza tra la muratura originale ed il moderno intervento di restauro (fig. 6). Infine, l’ultima fase d’intervento consiste in un trattamento finale preventivo di protezione, che possa assicurare maggior durata agli interventi conservativi effettuati sul degrado.
Fig. 5 Ipotesi ricostruttiva del Tempio di Portuno, (riproduzione AutoCAD, Anna Boscolo, 2017).
Il Tempio di Portuno in rapporto con il contesto Studiato quindi lo stato di degrado e proposto un progetto d’intervento di restauro conservativo, tra le possibili soluzioni nell’ottica di una sua valorizzazione all’interno della proprietà della famiglia Sforza Cesarini, si è immaginato il Tempio di Portuno come monumentale scena di un teatro a cielo aperto. Il contesto in cui si trova il Tempio è ricco di potenzialità, ma al giorno d’oggi si presenta come carente d’interesse, di strutture ricettive, di cura e di reali ragioni che possano spingere la popolazione a recarvisi. La proprietà degli Sforza Cesarini è avvolta dal verde, caratterizzata dal grande lago esagonale, da un’oasi naturale, in contrasto con la distesa di campi agricoli che invece
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Prospetti nord e sud degli interventi di reintegrazione muraria e di consolidamento
Fig. 6 Schemi di interventi di restauro, (riproduzione AutoCAD, Anna Boscolo, 2017).
Sezione A-A’, prima e dopo l’intervento di reintegrazione muraria
Sezione B-B’, i perni di ancoraggio. In dettaglio: barra e piastre in acciaio di tenuta e sospensione (400×300×10mm)
circondano il rudere, oltre alla via Portuense, fortemente trafficata e inospitale per un visitatore. L’esigenza conservativa del rudere non coinvolge più allora solo il monumento stesso, ma ecco che diventa occasione per il contesto circostante di essere anch’esso valorizzato e rivitalizzato. Una destinazione d’uso, sebbene temporanea, che ne permetta la fruizione da parte soprattutto di un pubblico locale, può far nascere un nuovo fulcro d’interesse che non solo restituisca una nuova vita al rudere, ma che stimoli la comunità di un quartiere periferico con nuove attività, attrazioni, e cultura. L’intera ricostruzione della pianta del Tempio ottenuta con i rilievi e l’analisi storica, ha suggerito il perimetro per una cavea lignea, rimovibile per ogni evenienza, che completi il disegno del rudere richiamando la forma circolare originaria. Il Tempio di Portuno diventa in questa proposta una quinta teatrale, a cui si accede percorrendo una gradinata posta in corrispondenza dell’originale ingresso al monumento, dal lato opposto rispetto all’attuale via Portuense. Questo percorso obbliga inoltre gli spettatori a passare davanti all’apertura che conduce ai corridoi ipogei, così da permettere il riconoscimento di un ulteriore ambiente sotterraneo, ed invogliarne la visita (fig 7). La famiglia Sforza-Cesarini, già impegnata tramite la Fondazione Portus in attività di coinvolgimento di un pubblico esterno, da adulti a bambini, avrebbe l’occasione di condividere la conoscenza di un meraviglioso monumento ricco di storia integrando le visite dell’Oasi di Porto, oltre che con gli spettacoli teatrali, con percorsi culturali guidati anche al di là della via Portuense, presso il Tempio di Portuno, offrendo così ai visitatori un quadro più completo di quella che era la città di Portus. Il coinvolgimento di un pubblico non solo grazie al teatro, ma anche alle visite culturali allargate dall’Oasi al Tempio di Portuno, garantirebbe una rinascita di un contesto per troppo tempo ignorato. Conclusione Lo studio ed il restauro del monumento possono rendere il Tempio di Portuno, ed in modo analogo altri monumenti in situazioni critiche simili, veicolo di coinvolgimento di un pubblico esterno che lo mantenga vivo anche a secoli di distanza dalla sua realizzazione. Il riallacciamento con il contesto, con il vicino parco archeologico, concede alla storia del luogo di ricordarne la passata identità, e d’imporsi nuovamente sul territorio.
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Fig. 7 Progetto di valorizzazione: la sezione del nuovo teatro, (riproduzione AutoCAD, Anna Boscolo, 2017).
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Chi fu Isaia? Una riflessione sul patrimonio culturale e identità Vanessa Brasileiro
Escola de Arquitetura, Universidade Federal de Minas Gerais, Brasile
André Dangelo Vanessa Brasileiro André Dangelo Mariana C. Fernandes Pinto
Escola de Arquitetura, Universidade Federal de Minas Gerais, Brasile
Mariana C. Fernandes Pinto
Escola de Arquitetura, Universidade Federal de Minas Gerais, Brasile
Abstract In the relationship between users and artistic goods present in the space they attend, it is assumed, at the very least, that it should be based in the knowledge of their history and the recognition of their value. But relationships between subjects and objects, especially in the ephemeral contemporaneity context, do not always reflect the expectations introduced by specialists, sometimes showing their conflicts in depredations. Through the narrative about a case study - the collection of the Museum of the School of Architecture of the Federal University of Minas Gerais - we intend to bring to light the debate about the complex relationships between cultural heritage and collectivity, about participation and belonging. We propose to rethink the cultural heritage education currently practiced, frequently based on limited products from the educational, dissemination and training points of view, in opposition to examples that take advantage of technology, and even by low cost but highly accessible alternatives. It is inferred that the role of individuals become important as it enables collective transformations, since they become more critical and aware of their own reality and of the consequences of their actions facing the past. Keywords Cultural heritage education, participation, identity.
Il Museo dell’Aleijadinho Il Museo della Scuola di Architettura (MEA) fu creato nel 1966 e si compone di cinque collezioni: la Collezione di Repliche di Opere dell’Arte Mondiale, la Collezione di Pittura, la Collezione di Design, la Collezione Architettura, Strumenti e Sviluppo, e il Laboratorio di Foto Documentazione Sylvio de Vasconcellos, dove sono custodite più di 50.000 pellicole sull’architettura e le città in Brasile, oltre alla Collezione di Memoria ed Opere Rare, custodita presso la Biblioteca Raffaello Berti. L’obbiettivo iniziale del museo era salvaguardare le repliche eseguite dal professore Aristocher B. Meschessi per la disciplina di Modellistica. Soprattutto dopo i cambiamenti del curriculum scolastico avvenuti con la riforma universitaria del 1968, quando “[le repliche] smettono di costituire materiali accademici nell’ambito dell’insegnamento per la formazione degli architetti, e acquisiscono valori storici ed artistici” (Rodrigues, Rocha, 2019, p. 3), si inizia a pensare di creare uno strumento col fine di con-
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Fig. 1 Profeta Isaia, riproduzione in gesso. Museo della Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: Marcelo Silva Pinto, 2020).
servare e preservare questa collezione significativa per la storia della Scuola di Architettura. Tra le riproduzioni si trovano diverse opere prodotte da Antonio Francisco Lisboa, come i profeti di Congonhas, insieme a diverse altre sculture da lui eseguite, presenti nelle chiese di Ouro Preto, Mariana e Sabará, che conferiscono al MEA il soprannome “Museo dell’Aleijadinho”. Anche una replica della Venere di Milo fa parte della collezione (fig. 2). Le riproduzioni sono distribuite in diversi spazi della Scuola di Architettura: nel giardino pubblico davanti al palazzo; nell’ingresso monumentale a doppia altezza, dedicato alla Venere, circondato da vetrate e da colonne rivestite in acciaio; nel cortile interno, riservato agli studenti che ogni anno mettono sulla copia del profeta Abdia una diversa caratterizzazione con dipinti colorati (fig. 3). Tuttavia la maggior parte della collezione si trova in una piccola stanza e lungo un corridoio, caratterizzandosi come un luogo di passaggio più che di permanenza e riflessione sull’arte e sul patrimonio (figg. 4-5). Infatti, non si può percepire un’attenzione significativa della comunità accademica nei confronti della collezione, vista come insieme di elementi antichi e senza significato – tanto che, qualche anno fa, parte delle pareti furono ‘bersaglio’ per graffiti (fig. 6). Oltre al profeta Abdia, considerato dagli studenti in forme diverse – c’è qualcuno che vede in questo atto una forma di vandalismo –, si percepisce chiaramente la mancanza di rapporti tra il museo e la comunità accademica, un atteggiamento che mette in evidenza la necessità di intraprendere azioni di ‘Educazione Patrimoniale’, con l’obbiettivo di modificare le circostanze attuali. La stranezza è visibile nelle manifestazioni anonime sui social che accusano “l’ostentazione nostalgica e la rifiuta delle problematiche contemporanee” (@spottedvsfead, 2019), lamentandosi della scarsa appropriazione degli spazi. La nostalgia alla quale si riferiscono i critici del MEA risiede nel fatto che le repliche in grande parte riproducono dodici profeti, originalmente eseguiti in pietra ollare (una steatite) per il Santuario del Buon Gesù di Matozinhos alla fine del Settecento da Antonio Francisco Lisboa (1738-1814), soprannominato Aleijadinho, il più grande protagonista del Barocco in Brasile. La collezione è percepita come rinchiusa in un passato po-
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Vanessa Brasileiro André Dangelo Mariana C. Fernandes Pinto Fig. 2 Venere di Milo, replica in gesso. Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: MEA/UFMG, c.1960) Fig. 3 Profeta Abdia, replica in gesso. Cortile, Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: Atletica, 2010)
co significativo per la comunità, allontanata dai problemi urbani su cui devono rivolgersi gli architetti brasiliani nella attualità. Il Santuario del Buon Gesù (fig. 7), sito a Congonhas do Campo, è un bene culturale composto dalla chiesa del Buon Gesù, dal sagrato lungo il quale si dispongono le statue dei dodici profeti, e da un gruppo di sei cappelle che illustrano la Via Crucis, anch’esse ornate da sculture dell’Aleijadinho, in questo caso eseguite in legno policromato. Considerando il complesso delle opere artistiche e architettoniche del cosiddetto Barocco Mineiro, questa grandiosa opera ci dà l’impressione di una danza statica sulla cima delle montagne di Minas, secondo le parole dello storico dell’arte Myriam Andrade Ribeiro de Oliveira (1984, 2006). Dal punto di vista artistico è la traduzione di uno dei più alti punti di religiosità e devozione popolare in Minas Gerais, testimonianza dell’assimilazione del tardobarocco europeo nella colonia, in modo innovativo e con degli episodi di grande qualità artistica, come riferito dal critico e storico dell’arte Germain Bazin (1971). Il riconoscimento della rilevanza artistica di quest’opera è arrivato nel 1939, quando il governo brasiliano – subito dopo aver definito la prima legge di protezione del patrimonio storico ed artistico – dichiarò il santuario e gli elementi artistici circostanti beni nazionali, istituendo il vincolo. Nel 1985, l’UNESCO nominò il santuario Patrimonio dell’Umanità. Dalle critiche possiamo evincere sia la mancanza di conoscenza storica riguardo alla qualità artistica delle opere, sicuramente paragonabile alla produzione artistica europea eseguita nel secolo precedente, che la storia e i suoi strumenti come la presa di coscienza, in questo caso dell’agire artistico: Se gli riconosciamo un valore dobbiamo inserirlo e giustificarlo nel nostro sistema di valori; se no, dobbiamo liberarcene facendo finta di non vederlo, rimuoverlo o addirittura (come tante volte è accaduto ed accade) distruggerlo. (Argan, 1994, p.15).
La proposta qui presentata è parte della tesi di laurea sviluppata da Mariana Fernandes a partire dal 2019, seguita dalla prof.ssa Vanessa Brasileiro come tutor, insieme al collega Cristiano Cesarino Rodrigues.
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A partire da questa situazione, proponiamo di portare alla luce una discussione sul ruolo dell’Educazione Patrimoniale attraverso un caso di studio: una proposta di intervento sul MEA1 che considera il museo come luogo di apprendimento, capace di mettere in evidenza il coinvolgimento della comunità nel godimento dell’esperienza estetica e nella preservazione. Museo, luogo di conoscenza partecipativa Innanzi tutto, occorre presentare e comprendere l’Educazione Patrimoniale nel contesto storico della preservazione dei beni culturali in Brasile, il suo concetto e gli svol-
Fig. 4 Stanza principale. MEA/ UFMG, Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: Mariana Fernandes, 2019) Fig. 5 Corridoio. MEA/UFMG, Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: Mariana Fernandes, 2019) Fig. 6 Graffiti. MEA/UFMG, Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: Vanessa Brasileiro, 2015)
gimenti ottenuti dopo la Costituzione del 1988. Il dibattito sul patrimonio storico ed artistico nazionale risale agli anni trenta del Novecento, quando Mario de Andrade scrisse un documento che stabilì i lineamenti per l’organizzazione di un istituto responsabile della tutela dei beni, appunto lo Istituto del Patrimonio Storico ed Artistico Nazionale (IPHAN), non trascurando il ruolo dei musei: “nella sua concezione, i musei comunali dovrebbero essere versatili, con collezioni eterogenei, e i criteri di raccolta degli elementi dettati dai valori che rappresentano la comunità locale” (Florêncio et al., 2012, p. 5). Purtroppo l’idea di partecipazione presente nel documento non si afferma che alla fine del secolo, e in pratica la preservazione fu eseguita dai dipendenti dell’IPHAN in modo abbastanza distanziato dalle ‘comuni’ e dai suoi cittadini, per non dire in modo totalitario. I cambiamenti arrivarono soltanto quando l’articolo 216 della Costituzione, promulgata nel 1988, sostituì il termine ‘patrimonio storico ed artistico’ con ‘patrimonio culturale brasiliano’, coinvolgendo i beni immateriali che riguardano elementi della cultura, come le forme di espressioni; i modi di creare, fare e vivere; le creazioni scientifiche, artistiche e tecnologiche; le opere, oggetti, documenti, edifici e altri spazi destinati alle manifestazioni artistiche-culturali; gli insiemi urbani e siti di valore storico, paesaggistico, artistico, archeologico, paleontologico, ecologico e scientifico. (BRASIL, 1988).
In conseguenza delle diverse pratiche favorite ed incoraggiate a partire degli anni Novanta, è possibile osservare una significativa crescita nel riconoscimento del patrimonio; secondo Paraízo e Silva (2017, p. 96), “in Brasile, l’educazione patrimoniale è ancora un settore in sviluppo, ampio, diverso e contradditorio”. Una delle più grandi sfide è la risignificazione, ossia il riconoscimento del valore del bene dalla comunità, esattamente la questione messa in evidenza al MEA. I musei, inizialmente idealizzati con un profilo collezionista (figura che tante volte persiste nell’immaginario collettivo), cercano di risignificare la relazione soggetto-oggetto, dove “da spettatori, passano ad attori, e ai musei tocca la responsabilità dello sviluppo di mezzi che possano legittimarli come agenti educatori, induttori di sociabilità” (Borba, 2017, p.72). La ristrutturazione dei musei avviene in parallelo ai movimenti di democratizzazione della cultura che domandano la ‘rivisitazione’ degli spazi museali a partire da un cambiamento nel carattere fino a quel momento esistente: da una prospettiva di élite dove la raccolta degli elementi della collezione era eseguita esclusivamente da esperti, ad una prospettiva attraverso la quale sia stimolata la costruzione collettiva di quello che è il patrimonio comune. Il museo diventa così “un luogo di produzione di conoscenza,
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Vanessa Brasileiro André Dangelo Mariana C. Fernandes Pinto Fig. 7 Santuario del Buon Gesù di Matozinhos, Congonhas do Campo, Brasile. (photo: André Dangelo, 1998).
di lotte simboliche, luogo di ibridazione, di confronto di culture e molteplici voci” (Veloso, 2003 citato in Borba, 2017, p.72). Allora, come trasfigurare i nuovi concetti dell’Educazione Patrimoniale e il ruolo dei musei nell’avvicinamento tra individui e collezione, trasformandoli in personaggi della loro storia, raccontata a partire dagli oggetti lì presenti? Come condurre i visitatori-attori attraverso gli spazi, assicurando nuove esperienze cognitive? Una risposta probabile è stata elaborata dalla tecnologia. Ogni giorno lo sviluppo e la disponibilità di accesso alle nuove tecnologie crescono esponenzialmente nel campo del patrimonio culturale, sia in Brasile che nel mondo. Come conseguenza, il dibattito tra gli esperti si è intensificato, anche se in modo più lento riguardo lo sviluppo tecnologico. In gran parte degli esempi studiati, la metodologia consiste in un primo momento nella digitalizzazione della collezione attraverso fotografie, fotogrammetrie e rilievi con l’uso di laser scanners. Oltre a permettere soltanto la visualizzazione digitale – impiegata da diversi musei in tutto il mondo come visita digitale durante il periodo di isolamento sociale, esigenza dell’affrontamento della pandemia Covid-19 – questa prima tappa consente allo spettatore di relazionarsi con l’opera attraverso strumenti diversi come cellulari, tablets, occhiali per realtà virtuale oppure schermi interativi. Come dimostrano gli esempi raccolti dalle ricerche di Sarah Kenderdine (2000), il visitatore può scegliere tra gli elementi della collezione del museo le sue categorie di interesse, determinando così il proprio percorso museologico (figg. 8-10). Se da un lato la ricerca per istituzioni museali, che fanno uso della tecnologia come strumento di agevolazione della comunicazione, porta ad un numero crescente di casi, da un altro osserviamo ancora un uso limitato giustificato dalla mancanza di risorse disponibili, di pianificazione oppure di una relazione critica e riflessiva davanti alle nuove possibilità. Guardate Isaia! La proposta per il MEA si appoggia nell’obbiettivo di sviluppare degli strumenti tecnologici capaci di dare supporto all’Educazione Patrimoniale e, indirettamente, contribuire al coinvolgimento della comunità accademica con i beni integranti del patrimo-
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nio della Scuola di Architettura, tenendo conto che “Il design dell’informazione ha il ruolo di costruire, insieme ai soggetti, lo sviluppo di un processo attivo di conoscenza, appropriazione e valorizzazione della sua eredità culturale” (Paraízo, Silva, 2017, p. 98). Sono state provate tecniche diverse: la fotogrammetria, con scatti di circa 70 fotografie e l’utilizzo del software Recap Photo di Autodesk, ha permesso di generare una maglia digitale ed una ulteriore testura, rappresentando tridimensionalmente il Boudha di Agnkor Vat (fig.11), una delle repliche della collezione MEA, custodita dalla Biblioteca della Scuola di Architettura, scelta a causa delle sue ridotte dimensioni. In seguito è stato realizzato un esperimento di creazione applicativa utilizzando i software per la realtà aumentata Unity e Vuforia, di solito impiegati per giochi digitali e, nel campo dell’architettura, per la visualizzazione virtuale di progetti. Purtroppo, anche se il processo si è dimostrato relativamente semplice, per una situazione più complessa come quella della collezione MEA sarebbe necessario una programmazione più approfondita. Si è sollevato, dunque, qualche problema: con le poche possibilità di sviluppare, durante un solo semestre accademico, tutti i rilievi necessari, difficoltà che si aggiunge alle scasse risorse finanziarie, come sarebbe possibile presentare le ricerche già realizzate ma anche di suscitare la curiosità del pubblico e farlo partecipare al processo di conoscenza? La prima proposta inizia con delle provocatorie immagini: “cosa sai di quest’opera?” domanda la proiezione (fig. 12). Altre immagini inseriscono virtualmente i profeti nel sagrato della chiesa del Buon Gesù (fig. 13). Purtroppo, la struttura fisica richiesta per questa istallazione sarebbe di difficile applicabilità poiché è limitata dalla disponibilità di proiettori. Sarebbe necessario un impianto che rendesse difficile l’accesso all’attrezzatura tecnologica per motivi di sicurezza e che non danneggiasse gli spazi, tenendo conto che l’edificio è protetto da un vincolo. Così e considerando il principio pertinente alle tecnologie studiate, che sono definite come un mezzo di apporto di informazioni con l’ausilio di qualche elemento digitale, è stato progettato un prototipo low tech, artigianale, un semplice attrezzo capace di fornire ai passanti informazioni sulle opere, in modo semplice ed interattivo, trasformandoli in visitatori-attori. Lo strumento (figg. 14-15) si compone di un tripode che appoggia su una scatola in legno, prodotta con una stampante laser, pensata come degli occhiali per la realtà virtuale. Davanti a questa scatola possono essere inserite dall’utente delle trasparenze informative, scelte a seconda del suo interesse (figg. 16-18). Un QR-code stampato sul tripode invia l’utente ad un sito, dove si trovano delle informazioni complementari sulle opere, costituendo la triade: esperienza spaziale, conoscenza visiva, conoscenza accademica. Il progetto – ancora in sviluppo – indica quanto si possa raggiungere con pochi mezzi e risorse. Il recupero dello sguardo, il recupero dell’identità I risultati del progetto convalideranno possibili strategie di Educazione Patrimoniale, assumendo che, attraverso l’uso degli strumenti, il soggetto potrà indagare, riflettere e comprendere il patrimonio attorno a sé. Inoltre, prevede un intervento nello spazio e sull’arredamento del MEA, in modo da convertirlo da un luogo di passaggio ad un ambiente che invita alla permanenza e all’apprezzamento delle opere. In questo senso è lecito considerare l’inclusione di utenti esterni alla comunità accademica, poiché il carattere delle università pubbliche garantisce l’accesso alla società.
Fig. 8 Sarah Kenderdine, Divine Comedy Ar. Hong Kong, Cina. (photo: Sarah Kenderdine, 2018). Fig. 9 Sarah Kenderdine, Pure Land: inside the Mogao Grottoes at Dunghuang. Hong Kong, Cina. (photo: Sarah Kenderdine, 2012). Fig. 10. Sarah Kenderdine, Scanlines. Sidney, Australia. (photo: Sarah Kenderdine, 2016).
Pagina seguente Fig. 11 Boudha di Agnkor Vat. Fotogrammetria realizzata con il software Recap Photo di Autodesk. Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: Mariana Fernandes, 2019).
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Vanessa Brasileiro André Dangelo Mariana C. Fernandes Pinto
Possiamo affermare che in parte gli elementi della collezione del MEA sono riconosciuti dalla comunità. Una breve situazione, accaduta durante l’isolamento dovuto alla pandemia COVID-19, ha messo in evidenza Isaia, il profeta nominato nel titolo di questo contributo. Dinanzi alla domanda di produrre 2500 face shields per un grande ospedale sito a Belo Horizonte, il professore Marcelo Silva Pinto, docente del corso de Design, ha proposto un prototipo che assecondasse le necessità dell’ospedale, subito presentato all’Istituto Nazionale della Proprietà Intellettuale (INPI) per l’ottenimento di un brevetto. La soddisfazione per il risultato ha spinto ‘l’imprenditore’ a scattare fotografie delle visiere protettive appena prodotte su qualche scultura poste dentro lo spazio scolastico, pubblicandole sui social (fig. 1). L’immagine, scattata dal professore senza alcune pretese, ha messo in evidenza il gioco tra valore artistico intrinseco all’oggetto, riconoscibile dagli strumenti particolari della Storia dell’Arte, e le possibilità di evidenziarne il valore attraverso strumenti disponibili al ricercatore nell’ambito dei musei. Giulio Carlo Argan insegna che: Con l’atto del giudizio qualifico la cosa come cosa avente valore, oggetto; e parallelamente mi qualifico come colui per il quale la cosa ha valore, soggetto. Quanto maggiore è il valore che si riconosce nell’oggetto, tanto maggiore è il valore del soggetto che lo capisce, lo recepisce in sé, lo fa proprio. Il valore è, ovviamente, un plus di esperienza della realtà o della vita, per cui l’oggetto trascende la propria strumentalità immediata; e questo plus non trapassa dall’oggetto al soggetto se la coscienza, nel momento in cui lo recepisce, non riconoscesse ch’esso si situa, al di là della sfera della contingenza, in quella dei valori permanenti della civiltà, della storia. (Argan, 1994, p.11).
Il caso studio presente in questo contributo porta con sé qualche riflessione: la protezione urgente del patrimonio ormai screditato dalle politiche pubbliche, la necessità di ripensare la relazione tra oggetti e soggetti, l’importanza della collettività nella conservazione delle tradizioni, il ruolo della scienza e della tecnologia – più o meno avanzata – come strumento di rapporto tra comunità e opera d’arte. Insomma, la necessità di approfondire il rapporto soggetto-oggetto non dipende esclusivamente da elementi spettacolari, ma da azioni effettive consapevoli che Fig. 12 Mariana Fernandes, intervento MEA. Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: Mariana Fernandes, 2019). Fig. 13 Mariana Fernandes, intervento MEA. Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: Mariana Fernandes, 2019).
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la permanenza dell’ambiente e della memoria non deve gravare soltanto sulla materia, come di solito, ma sul soggetto che prende cura di questa permanenza perché lui non comprenda la memoria come unica e non escluda l’ambiente nella vita futura, togliendo dal bene [culturale] la sua capacità formativa e la sua apertura per nuove possibilità di trasformazione. (Carsalade, 2015, p. 191).
Bibliografia @spottedvsfead, Instagram, maggio 2019, ‹ https://bit.ly/34FtCsz› (12/19). Argan G.C. 1994, La storia dell’arte, in J. Ackerman (a cura di), Riediziozione negli Studi in onore di Giulio Carlo Argan, La Nuova Italia, Firenze, pp.9-38. Bazin G. 1971, O Aleijadinho e a escultura barroca no Brasil, Record, Rio de Janeiro. Borba F. 2017, Educação Patrimonial como salvaguarda: alguns processos didáticos da mediação cultural em museus, in IPHAN, Caderno Temático 6 - Educação Patrimonial: práticas e diálogos interdisciplinares, IPHAN, João Pessoa, pp. 70-81. Brasil. 1988, Constituição da República Federativa do Brasil, Imprensa Oficial, Brasília. Carsalade F. 2015, Permanência e transformação na memória e no ambiente, in IPHAN, Cadernos do Patrimônio Cultural: Educação Patrimonial, Secultfor, Fortaleza, pp. 185-192. Florêncio S. 2017, Educação Patrimonial: histórico, conceitos e processos, IPHAN, Brasília, ‹http://portal.iphan.gov.br/uploads/publicacao/EduPat_EducacaoPatrimonial_m.pdf› (11/19). Kenderdine S. 2000, Sarah Kenderdine, ‹https://sarahkenderdine.info/› (11/19). Oliveira M. 1984. Aleijadinho: passos e profetas, Edusp, São Paulo. Oliveira M. 2006, O Aleijadinho e o Santuário de Congonhas, IPHAN, Brasília. Paraízo A., Silva F. 2017, Jogo do Patrimônio 2.0: uma ação colaborativa de estímulo ao reconhecimento do patrimônio cultural sob a ótica da educação patrimonial e do design da informação, in IPHAN, Caderno Temático 6 - Educação Patrimonial: práticas e diálogos interdisciplinares, IPAHN-PB, João Pessoa, pp. 94-104. Rocha G. 2016, Tecnologias Digitais e Patrimônio Cultural Móvel: Propostas de aplicação da digitalização tridimensional e da fabricação digital à coleção de escultura da Faculdade de Belas-Artes da Universidade de Lisboa, Unpublished PhD dissertation, Universidade de Lisboa, Lisboa. Rodrigues C., Rocha M. 2019, Digitalização 3d de acervo museológico: Um estudo de caso do Museu da Escola de Arquitetura da UFMG, Escola de Arquitetura da UFMG, Belo Horizonte, non pubblicato.
Fig. 14 Mariana Fernandes, intervento MEA, schema del tripode. Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: Mariana Fernandes, 2019). Fig. 15 Mariana Fernandes, intervento MEA, elementi stampati della scatola. Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: Mariana Fernandes, 2019). Fig. 16 Mariana Fernandes, intervento MEA, tripode con inserzione delle schede. Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: Mariana Fernandes, 2019). Fig. 17 Mariana Fernandes, intervento MEA, esempio di scheda. Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: Mariana Fernandes, 2019) Fig. 18. Mariana Fernandes, intervento MEA, esempio di scheda. Scuola di Architettura, Belo Horizonte, Brasile. (photo: Mariana Fernandes, 2019).
UNESCO. 2015, Recommendation concerning the Protection and Promotion of Museums and Collections, their Diversity and their Role in Society, in UNESDOC: Digital Library, ‹https://unesdoc.unesco. org/ark:/48223/pf0000247152› (11/19).
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Beni architettonici, storico-artistici e miglioramento sismico Giandomenico Cifani CNR – ITC a riposo L’Aquila
Biancamaria Colasacco
Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici dell’Abruzzo a riposo
Alberto Lemme Giandomenico Cifani Biancamaria Colasacco Alberto Lemme Antonio Mignemi Carmenzo Miozzi
Libero Professionista
Antonio Mignemi Mimarc srl
Carmenzo Miozzi
Ufficio Speciale per la Ricostruzione dell’Aquila
Abstract Architectural, historical-artistic heritage and seismic improvement : The restoration of the historical and artistic apparatuses, the consolidation of the structures and the monitoring are interventions that must be designed in an integrated way and for the protection of the valuable building heritage, it is necessary to deepen the knowledge of the structural interaction to obtain an effective protection from seismic risk. In this work, a methodology has been developed for the evaluation of safety with respect to seismic actions together with the identification of the most significant seismic vulnerability indicators, the causes of degradation taking into account the intrinsic characteristics of the Heritage and the structural support with which they interact. The work has been integrated with a multi-parametric monitoring plan of the structures and elements of historical and artistic interest foreseen by the 2011 BBCC directive. Keywords Vulnerabilità sismica restauro beni artistici
Premessa Il restauro degli apparati storico artistici e il consolidamento delle strutture sono interventi che devono essere progettati in modo integrato e per la loro tutela, occorre approfondire la conoscenza dell’interazione strutturale per ottenere una efficace protezione dal rischio sismico. In questo lavoro è stata messa a punto una metodologia per la valutazione della sicurezza rispetto alle azioni sismiche insieme alla individuazione degli indicatori di vulnerabilità più significativi tenendo conto delle caratteristiche intrinseche dei Beni e del supporto strutturale con il quale interagiscono. E’ stato seguito un percorso basato su alcune schematizzazioni che consente di analizzare e di classificare gli elementi per funzione, inoltre, per ciascuna tipologia è stato individuato il modo di danno e i meccanismi associati sia essi propri dell’apparato decorativo che della struttura di supporto inoltre è stato previsto la correlazione con un piano di monitoraggio multiparametrico.
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Il percorso prevede: l’analisi degli apparati per tipologia, materiale e stato di conservazione, l’analisi del danno dei meccanismi propri degli apparati storico artistici e della struttura di supporto, di individuare la interazione meccanica tra gli apparati decorativi e il supporto strutturale, la valutazione della vulnerabilità sismica con un approccio tipologico e meccanico nel rispetto della direttiva Mibac 2011, di individuare la strategia di intervento per la tutela dal degrado e la protezione dal rischio sismico, l’integrazione con il piano di monitoraggio multiparametrico. Fasi del percorso Analisi degli apparati per tipologia, materiale e stato di conservazione e contesto che coinvolgono Per esaminare l’interazione tra la struttura e gli apparati decorativi viene proposta una classificazione in funzione del contesto che coinvolgono e della collaborazione con la struttura di supporto. Gli apparati decorativi generalmente possono essere inseriti nel contesto di un edificio in più modi; infatti, alcuni di essi interessano l’aspetto architettonico, altri quello storico artistico e, in casi isolati, anche quello archeologico come indicato nello schema.
Fig. 1 Loggia in pietra e mattoni, Palazzo Andrighelli, L'Aquila
Analisi degli apparati decorativi e storico artistici per materiale I Beni Storico artistici sono realizzati con materiali diversi: Opere in lapideo con funzione portante come colonne, architravi, paramenti di pareti, volte e archi, scale o essere soltanto parti decorative come cornici, rivestimenti per imbotti, portali, statue, rivestimenti, decorazioni, statue, etc. Opere in ferro o altro metallo con uno stato di conservazione eterogeneo per via della posizione in cui sono inseriti e per la tecnica di lavorazione : superficie compatta e di conseguenza meno aggredita dagli agenti atmosferici, presenza di alterazione con crateri e forme più marcate ed estese, dovute probabilmente ad una tecnica di forgiatura più veloce o ad un surriscaldamento differente tra le varie fasi di lavorazione. Altro aspetto rilevante è la verifica dei punti di connessione con le strutture murarie o talvolta con le decorazioni lapidee adiacenti. In alcuni casi si potrà presentare la necessità dello smontaggio per riparare i danni del sisma. Opere realizzate in materiale assimilabile allo stucco che decorano le strutture verticali e orizzontali ubicate all’interno degli edifici. In molti edifici di L’Aquila si riscontrano decorazioni in stucco di epoca settecentesca nella forma di modanature, rilievi modellati posti all’interno su strutture voltate, pareti, camini, decorazioni di altari, nonché in ambienti esterni su cornicioni specchiature di finestre e similari. In alcuni edifici si riscontrano decorazioni tipiche della produzione artistica aquilana della tradizione di Teofilo Patini come le decorazioni parietali e pavimentali con scagliola, tecnica decorativa, sviluppatasi alla fine dell’800 nell’aquilano, attribuita alla scuola arti e mestieri dell’Aquila. Intonaci interni ed esterni di pregio che ricoprono le facciate esterne e interne con la funzione di nobilitare le superfici che rivestono una muratura mista di pietra e laterizi, non lavorata. In alcuni interventi della ricostruzione aquilana del post sisma 2009, parte di intonaci storici sono stati recuperati mediante uno studio tecnologico guidato da indagini scientifiche per individuarne la qualità e composizione al fine di ripristinare le lacune con prodotti compatibili. Opere realizzate in Pitture Murali che decorano le pareti interne ed esterne. Realizzate su intonaci ad affresco o a secco, non assol-
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Giandomenico Cifani Biancamaria Colasacco Alberto Lemme Antonio Mignemi Carmenzo Miozzi Fig. 2 Cornici in pietra con pittura muralePalazzo Andrighelli, L'Aquila Fig. 3 Cornicione in pietra e stucco, Palazzo Andrighelli, L'Aquila Fig. 4-5 Particolare delle grate apposte sulla balconata e sulle finestre della corte interna. Al centro particolare di ringhiera in ferro del 1894 con applicazioni di foglie in piombo dorato, esempi di ringhiere metalliche poste nei palazzi storici di L’Aquila Fig. 6 Ringhiera posta su un affaccio della loggia interna al palazzo, esempi di ringhiere metalliche poste nei palazzi storici di L’Aquila
vono ad una funzione strutturale ma decorano supporti quali pareti, soffitti e volte di valenza statica per l’edificio, o sono collocate su parti che architettonicamente lo compongono. In molti casi, soprattutto nelle chiese, sono state riscoperte pitture murali antiche (dal ‘300 all’‘800) spesso ricoperte da superfetazioni o modifiche strutturali di edifici che in passato avevano riportato danni da terremoto come ad esempio nel caso della chiesa della Misericordia a L’Aquila dove sono state ritrovate alcune nicchie del ‘500 che, a causa di un “miglioramento funzionale” avvenuto nel ‘700, sono state tamponate con la sovrapposizione della struttura settecentesca su quella cinquecentesca. Su edifici che riportano modifiche o riqualificazioni della fine dell‘800 fino ad inizi del secolo successivo si possono riscontrare Materiali membranacei e cartacei di notevole pregio: in alcuni edifici tutelati possono essere presenti decorazioni parietali realizzate con carta da parati policroma e talvolta dorata, arricchimenti con apparati tessili e similari. Questa tipologia decorativa non ha valenza strutturale e oltre ad impedire una corretta analisi del degrado della muratura è problematica per le scelte del consolidamento murario. Apparati lignei: nella maggior parte dei casi costituiscono elementi strutturali secondari come le balaustre e i pulpiti o apparati scollegati dalla struttura come organi, confessionali e decorazioni delle strutture verticali e orizzontali con cassettonati e rivestimenti. In alcuni casi l’apparato ligneo decorativo potrebbe fungere da catena di collegamento fra una parete ed un’altra. Pavimenti di pregio in pietra, laterizio storico talvolta policromo con tecniche varie. In molti degli edifici storici è facile riscontrare pavimenti in battuto di graniglia ed in casi eccezionali anche realizzati in scagliola, quest’ultima tecnica utilizzata nell’aquilano dalla scuola arti e mestieri del Patini. Analisi dello stato di conservazione Lo stato di conservazione va esaminato per ogni tipologia di materiale anche ad esempio per il materiale lapideo, lo stucco e gli intonaci va tenuto conto del degrado fisico, chimico, biologico e delle alterazioni superficiali presenti in tutte le sue forme.
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1 - Architettonico
2 - Storico artistico
3 - Archeologico
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Apparato decorativo architettonico
Apparato decorativo
Reperti rinvenuti durante scavi di fondazioni; durante lo svuotamento di volte Etc…
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Decorazione architettonica coadiuvante con la struttura; Decorazione applicata sul supporto murario/architettonico; Decorazione scultorea applicata sul supporto murario che causa elemento di rischio per i fruitori
Lapideo Stucchi Pittura murale conosciuta Pittura murale nascosta Metalli Opere fittili Dipinti su tela Tessuti, Etc..
Lapideo
Tab. 1 Classificazione dei Beni Storico Artistici
Pittura murale Metalli Opere fittili Etc…
Per i metalli la corrosione è la causa principale del degrado favorita da fenomeni atomosferici, dall’umidità, dall’acqua marina, dall’inquinamento ambientale, a contatto con materiali igroscopici e in condizioni di aerazione differenziale. Questi fenomeni portano alla formazione di prodotti di corrosione con fenomeni di alterazione, che in assenza di interventi adeguati, possono rivelarsi inarrestabili degradando completamente la materia. Per il legno le cause del degrado sono molteplici in base all’esposizione interna o esterna. Queste cause sono da imputare alle radiazioni solari con ingrigimento del materiale, alle variazioni climatiche e alle aggressioni biologiche come l’alternanza sole-pioggia, la presenza di umidità che favorisce la formazione di funghi e muffe e l’aggressione di insetti xilofagi oltre ai depositi atmosferici o danni antropici. Per le pitture murali le cause principali sono dovute ai danni ripercossi dalla struttura architettonica, ai movimenti dell’edificio e quant’altro meccanismo di tipo indiretto. Mentre la cause che interessano il degrado della materia sono da imputare ad esempio all’umidità con il trasporto di sali solubili, all’attacco microbico, alla solfatazione e alla conseguenza di interventi di cattiva manutenzione. L’analisi del danno, dei meccanismi propri degli apparati storico artistici e della struttura di supporto La struttura intesa nella sua globalità può essere scomposta in macroelementi caratterizzati da un comportamento d’insieme e locale e per ciascuno di essi possono attivarsi uno o più meccanismi di collasso con i relativi modi di danno associati; inoltre, “la scarsa resistenza a trazione dei pannelli murari e il comportamento per parti, come emerge dall’analisi dei quadri fessurativi dopo un evento sismico, favorisce lo spunto per una scomposizione dell’organismo edilizio in porzioni elementari.” Elementi caratteristici di tale tipo di analisi sono il macroelemento, il modo di danno e il meccanismo di collasso così definiti. Dall’analisi dei danni alle murature Aquilane a seguito del sisma del 2009 e dai risultati delle prove effettuate su murature consolidate è possibile ottenere utili indicazioni per individuare le modalità di collasso degli edifici in muratura con la seguente gerarchia di attivazione : disgregazione, primo modo fuori da piano e secondo modo nel piano. La direttiva del 2011 per i BBCC del 2011 propone una metodologia per il rilievo del danno e della vulnerabilità in emergenza individuando i meccanismi di collasso attivabili. L’analisi dei meccanismi di collasso consente di individuare il comportamento della struttura e di mettere in rela-
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Giandomenico Cifani Biancamaria Colasacco Alberto Lemme Antonio Mignemi Carmenzo Miozzi Tab. 2 Riepilogo di alcune delle cause del degrado per il materiale lapideo
Degrado fisico
Stress termico di gelo e disgelo, Presenza di Sali per risalita capillare, Presenza di Sali di provenienza dalle malte, Aumento della quantità di Sali per accumulo, Aumento della quantità di Sali per evaporazione dell’acqua, Presenza di cristallizzazione salina, Presenza di efflorescenze sulla superficie esterna (i Sali cristallizzano sulla superficie esterna), Presenza di sub efflorescenze nella parte interna (i Sali cristallizzano nella parte interna), Presenza di Sali pericolosi (solfati, cloruri, carbonati, nitrati)
Degrado chimico
Inquinanti atmosferici, Dissoluzione, Idratazione, Ossidazione, Solfatazione, Croste nere, Idrolisi
Degrado biologico
Batteri Alghe verdi Licheni Muschi Piante superiori Funghi Eumiceti Attivomuceti depositi di avifauna etc..
Alterazioni superficiali
Alterazioni macroscopiche (Modificazioni senza peggioramento delle condizioni, Perdita di materiale dalla superficie, Perdita della morfologia del manufatto, Perdita e/o formazione di prodotti secondari, Colonizzazione biologica Riduzione della resistenza meccanica); Modificazione senza peggioramento delle condizioni (Alterazione cromatica, Macchie Patine); Perdita di materiale dalla superficie (Erosione, Alveolizzazione, Pitting); Perdita della morfologia del manufatto (Distacco, Mancanza, Lacune, Polverizzazione, disgregazione Scagliatura); Deposizione e/o formazione di prodotti secondari (Concrezione, incrostazione, Depositi superficiali, Croste, Pellicole, Efflorescenze, Patina biologica, Colonizzazione biologica); Riduzione resistenza meccanica (Deformazione, Rigonfiamento, Fratturazione, fessurazione).
zione il danno alle strutture e agli apparati decorativi che può essere collegato al meccanismo strutturale ovvero ad un meccanismo di collasso dell’apparato decorativo. Nel caso del ribaltamento composto della facciata di una chiesa, in presenza di decorazioni nelle pareti laterali, il meccanismo principale può causare il danno per trazione lungo la lesione nelle decorazioni laterali (foto Misericordia pareti laterali). Nel caso della risposta trasversale di un edificio, ed in particolare di una chiesa, gli apparati decorativi, caratterizzati da un comportamento rigido, possono essere oggetto di un meccanismo autonomo secondario collegato al meccanismo principale come, ad esempio, il ribaltamento di un altare addossato alle pareti laterali. Tutto ciò evidenzia l’interazione tra la struttura e gli apparati decorativi e consente di impostare un metodo per l’analisi in quanto l’apparato è collegato alla struttura e segue l’evoluzione dei meccanismi. “Leggo il meccanismo e associo il danno o il meccanismo dell’apparato.” Interazione meccanica tra gli apparati decorativi e artistici e il supporto strutturale. Per quanto riguarda la collaborazione e l’interazione con la struttura di supporto sono state individuate, in generale, tre macrocategorie : 1 – apparati decorativi che collaborano con la struttura architettonica (lapideo, metalli, legno ecc). Negli edifici sono presenti elementi di decoro realizzati durante la costruzione che assolvono, oltre alla funzione estetica, anche quella strutturale facilmente individuabili sia all’esterno che all’interno come ad esempio: cantonali, stipiti di portoni e finestre, pilastri di loggiati, colonne, scale, capitelli, travi lignee, ballatoi e solai lignei, grate in metallo. Essi possono influenzare il comportamento della struttura per massa significativa e per il contributo di resistenza/vulnerabilità, come ad esempio colonne, travi, cantonali e paraste oppure soltanto per resistenza dotate di massa poco significativa come catene in legno o acciaio, elementi di pregio con funzione di controvento delle strutture orizzontali e di copertura come i cassettonati. Gli interventi di restauro e consolidamento di questi beni sono previsti nell’ambito del consolidamento della struttura con particolari accorgimenti tecnici per la salvaguar-
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dia del bene sia da un punto di vista estetico e decorativo e sia della risposta strutturale dell’edificio. Per fare alcuni esempi, nel caso degli stipiti di portoni e finestre, va curato l’inserimento nella muratura, nel caso della presenza di grate in metallo dovranno essere curati i collegamenti alla struttura.
Fig. 7 Chiesa delle Misericordia (Aq) danno agli apparati delle nelle pareti laterali
2 - Decorazione applicata “semplicemente” sulla struttura muraria (pitture murali, affreschi, carta parati, tessuti, ecc) Sui prospetti e negli ambienti interni sono presenti decorazioni che non assolvono esse stesse funzione strutturale ma che, essendo applicate su pareti e soffitti (esempio: volte), decorano porzioni dell’edificio che hanno valenza statica e portante. La decorazione può presentarsi su singole pareti oppure rivestire due facce di una parete che svolge funzione portante. In questi casi saranno da mettere a punto gli interventi ottimizzando le tecniche di consolidamento strutturale con le esigenze di conservazione del bene storico artistico.
Fig. 9 Altari parete laterali
3 - Decorazione scultorea applicata sulla muratura avente massa significativa e senza contributo alla resistenza. Sono elementi che influenzano negativamente il comportamento della struttura aumentandone la vulnerabiltà per taluni meccanismi. Possono avere grossa massa ed essere connessi debolmente alla struttura (organi, cornici di grosse dimensioni, grosse statue, ..) ubicati all’esterno e all’interno dell’edificio. Si possono trovare decorazioni all’interno di sale prestigiose con camini in stucco, cornici vicino a porte e finestre, elementi scultorei sia in esterno che in interno caratterizzati da un notevole aggetto ecc. All’esterno i cornicioni sotto gronda realizzati in stucco, gesso o materiale lapideo realizzati a terra ed assicurati alla parete successivamente tramite semplici elementi in legno, mattoni o chiodi in ferro per il collegamento alla struttura muraria. In molti casi gli elementi di collegamento tra modellato scultoreo e muratura portante hanno perso la loro funzione poiché, a causa del deperimento dei materiali (legno) o per la rottura degli stessi (mattoni). Questi elementi decorativi possono talvolta collaborare con la struttura per la loro rigidezza e resistenza e connessione con l’apparato murario. Ad esempio un apparato decorativo costituito da stucchi collabora in modo limitato con la struttura e l’intervento di restauro può essere previsto in modo tale da ri-
Fig. 14 Modello del porticato di Palazzo Ardinghelli
Fig. 8 Palazzo Ardinghelli (Aq) danno agli stucchi del salone
Fig. 10 Risposta trasversale aula Fig. 11 Ribaltamento altari Fig. 12 Sconnessione paramento esterno del rosone Fig. 13 Ribaltamento del porticato di Palazzo Ardinghelli con crollo
471
Giandomenico Cifani Biancamaria Colasacco Alberto Lemme Antonio Mignemi Carmenzo Miozzi Fig. 15 Rosone e portale lapideo – Chiesa della Misericoerdia (Aq) Fig. 16 Grata metallica e imbotti in pietra - Palazzo Ardinghelli (Aq) Fig. 17 Portale e imbotti in lapideo nella facciata di Palazzo Ardinghelli (Aq)
Fig. 18 Affreschi su muratura Fig. 19 Decorazioni su muratura
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sultare parzialmente collaborante con la struttura muraria. Altro elemento da tenere in conto è la qualità della connessione alla struttura muraria: • sono connessi efficacemente quando fanno parte del macroelemento come ad esempio un rosone inglobato in una facciata, quando sono applicati direttamente sulle murature come le pitture o gli stucchi o quando sono collegati con elementi in acciaio come le inferriate e altre decorazioni in metallo, … • sono connessi in modo poco efficace quando il collegamento è realizzato con elementi di scarsa resistenza come ad esempio i cornicioni collegati con elementi lignei o mattoni, gli stucchi di grosso volume applicati sulla muratura senza dispositivi di ancoraggio; • gli apparati sono semplicemente appoggiati, senza connessioni strutturali, alle pareti come ad esempio gli altari addossati alle pareti laterali di una chiesa, le sculture in elevazione poggiate su altari, mensole collegate alla struttura con elementi deboli. La vulnerabilità sismica degli apparati decorativi Le linee guida per i BBCC del 2011 hanno introdotto la valutazione della sicurezza sismica dei Beni Artistici per un terremoto di intensità minore a quello preso in considerazione per le strutture nella ipotesi che i beni artistici possono danneggiarsi per una azione sismica di intensità inferiore al quella che potrebbe mettere in crisi le strutture portanti. Seguendo lo stesso approccio della parte strutturale degli edifici monumentali sono stati individuati alcuni indicatori per una valutazione tipologica della vulnerabilità che rappresenta un primo passo per la individuazione della strategia di intervento per la tutela e il restauro e può essere utilizzata anche nella fase dell’emergenza. Il passo successivo è quello di valutare la capacità sismica con livelli di sicurezza opportunamente graduati con riferimento alla rilevanza culturale e all’uso e funzione svolti. Per tale verifica si tiene conto di una “vita nominale VN” a cui viene riferita la valutazione della sicurezza e viene progettato l’intervento di miglioramento sismico (numero di anni nel quale la struttura, purché soggetta alla manutenzione ordinaria, deve potere essere usata per lo scopo al quale è destinata) e di una classe d’uso CU, coerentemente alle classi definite nelle NTC 2018 (I – uso saltuario o non utilizzato; II – uso frequente con normali affollamenti; III – uso molto frequente e/o con affollamenti significativi; IV – edificio strategico e uso molto frequente e/o con affollamenti). Le azioni sismiche sono quindi valutate per un periodo di riferimento VR = VN CU con una probabilità di eccedenza del 63% assumendo come riferimento una
Elemento
Materiale
Contesto
Epoca
Rosone facciata
Lapideo
Architettonico
1500
Portale facciata
Lapideo
Architettonico
1500
Putti
Stucco
storico artistico
1700
Ghirlande
Stucco
storico artistico
1700
Altare
Stucco
storico artistico
1700
Organo
Legno
storico artistico
1700
Confessionili
Legno
storico artistico
1700
Decorazioni volta aula
stucco
Storico artistico
1700
Affreschi cappelle
pittura
Storico artistico
1500
Tab. 3 Classificazione apparati decorativi nella chiesa della Misericordia (Aq)
Vita nominale pari al numero di anni nel quale la struttura, purché soggetta alla manutenzione ordinaria, deve potere essere usata per lo scopo al quale è destinata, individuando il periodo di tempo nel quale ha valore la verifica di sicurezza. L’obiettivo è garantire un livello di rischio accettabile ed omogeneo per il patrimonio culturale sul territorio nazionale considerando pericolosità (sismicità del territorio), vulnerabilità (propensione della fabbrica ad essere danneggiata dal sisma), esposizione (rappresentata non solo dalle persone che fruiscono della costruzione ma anche dai beni di valore artistico in essa contenuti). Tuttavia le stesse linee guida prevedono la possibilità di ridurre la vita nominale fino a 20-30 anni migliorando il livello di sicurezza teorico del bene a condizione che sia previsto un piano di monitoraggio. La condizione di un piano di monitoraggio parametrico dovrebbe comunque diventare prassi per simili interventi. Per la valutazione della vulnerabilità tipologica degli apparati decorativi si è seguita la classificazione che tiene conto del materiale, esaminando la collaborazione con la struttura, il contesto in cui sono collocati gli apparati, lo stato di conservazione e il degrado, fornendo inoltre indicazioni per definire la strategia di intervento. Gli indicatori rilevati consentono di effettuare una analisi di rischio, ottenuta come combinazione degli indicatori di vulnerabilità dell’esposizione dell’apparato, intesa come numero di persone esposte al rischio, del valore del Bene Storico Artistico e, della pericolosità del sito considerata a parte in quanto costante per lo stesso bene. Nella tabella è riportata l’analisi svolta per la chiesa della Misericordia ubicata nel centro storico dell’Aquila. Verifica alle azioni ordinarie e sismiche di alcuni apparati decorative artistici In base a quanto richiesto dalla direttiva Mibac del 2011 si riporta la verifica effettuata, in modo semplificato, per alcuni beni storici artistici contenuti nella chiesa della Misericordia (Aq) che possono essere facilmente generalizzati per altri contesti architettonici : gli altari sulle pareti laterali, la ghirlanda in stucco sopra la trabeazione con statue raffiguranti angeli. Gli altari, presenti nelle pareti laterali, ricchi di stucchi e le due paraste in mattoni pieni, che li inquadrano, appoggiate direttamente alla muratura cinquecentesca, risultano in alcuni punti, costruiti su muretti di tamponatura posti ad occludere le nicchie preesistenti. In corrispondenza dei punti di contatto, soprattutto in corrispondenza delle tamponature, si sono manifestate lesioni e principi di distacco degli elementi decorativi in stucco. I comportamenti di distacco/ribaltamento delle porzioni di stucco sono avvenuti in modo sistematico e simile su tutti gli altari; in alcuni casi i distacchi sono più evidenti mentre in altri si evidenzia la fase ini-
Tab. 4
Fig. 20 Decorazioni a stucco con statue, Chiesa della Misericordia (Aq) Fig. 21 Decorazione a stucco, Chiesa della Misericordia (Aq) Fig. 22 Cornicione Prima intervento, Palazzo Ardinghelli (Aq) Fig. 23 Dopo l’intervento, Palazzo Ardinghelli (Aq)
473
Indicatore
Individuazione
Materiale
Stucco in gesso
Localizzazione
Pareti laterali
Tipologia
Rosone
Epoca di realizzazione
1700
Dati
Consistenza Fenomeni di alterazione
Presenti
Fenomeni di degrade
Assenti
Modificazione senza peggioramento delle condizioni
No
Perdita di materiale dalla superficie
No
Perdita della morfologia del manufatto
No
Deposizione e/o formazione di prodotti secondari
Si
Riduzione resistenza meccanica
No
Livello di danno
Medio grave
Tipologia fessure e lesioni (compressione, trazione, taglio)
Taglio
Meccanismi propri di collasso
Assenti
Meccanismi di collasso della struttura associati
Meccanismo di taglio della facciata
Collaborazione con la struttura
Partecipante, porzione di elemento strutturale, rivestimento, …
Partecipante
Connessione con la struttura
Efficace, poco efficace, buona, …..
Efficace
Giandomenico Cifani Biancamaria Colasacco Alberto Lemme Antonio Mignemi Carmenzo Miozzi
Stato di conservazione
danno sismico
Coesione tra gli strati Umidità Dimensioni
474
Assente Sezione principali
30 * 30 elementi sul diametro
Forma
Circolare composta da conci ad arco
Rapporto dimensioni maggiore e minore su proiezione orizzontale
30/20
Rapporto dimensioni maggiore e minore su proiezione verticale
30/30
Massa
Peso specific
20kN/mc
Qualità materiale
Proprietà meccaniche
Posizione
A terra, in elevazione inglobato, in elevazione non inglobato, …
In elevazione inglobato
Presidi antisismici specifici
Assenti
Indicatori di vulnerabilità specifica
Strato intermedio incoerente
ziale del degrado. A seguito del sisma del 2009 gli altari si sono parzialmente distaccati dalla parete perimetrale ma non hanno ricevuto danni significativi nella struttura interna; questi, realizzati in mattoni pieni, hanno evidenziato un buon comportamento come corpo rigido pertanto è possibile ipotizzare l’attivazione di uno o più meccanismi di ribaltamento, con cerniera alla base, conseguenti alla risposta trasversale dell’aula (foto n.12-13-14). Per la verifica, dopo aver utilizzato un laser scanner a tempo di volo prodotto dalla FARO modello Cam2, è stata effettuata la restituzione grafica in un modello 3D ed è stata eseguita una verifica locale con analisi cinematica lineare e non lineare. In particolare è stato esaminato il meccanismo di ribaltamento con cerniera alla base nella situazione dello stato di fatto dopo il sisma del 2009 e nella situazione con l’intervento previsto nel progetto schematizzato con due connessioni, una per lato, di 10 mm ciascuna con 4kN di tiro. Nella situazione in assenza di intervento il cinematismo non risultava verificato sia allo SLD-SLA che allo SLV, con l’intervento di progetto il meccanismo si è verificato nei confronti sia dello SLA con Indice di sicurezza Is (SLA) = 1.17 e sia dello SLV con Is(SLV)=1.066. Statue Sugli altari, a sostegno delle ghirlande floreali sono presenti due statue raffiguranti degli angeli che, insieme a cornici e mascheroni, fanno da cornice allo strombo della finestra. Gli apparati decorativi della parete laterale, sopra la trabeazione, sono costituiti da un volume di
Apparato
Materiale
Danno
Vulnerabilità
esposizione
Valore
Ir – Indicatore di rischio
Portale facciata
Lapideo
Limitato
Media
Elevata
Elevato
Medio-alto
Rosone facciata
Lapideo
Grave
Elevata
Elevata
Elevato
Elevato
Altari
Stucco e mattoni
Moderato
Media
Media
Medio
Medio
Ghirlande
Stucco
Grave
Elevata
Elevata
Medio
Medio-alto
Statue
Stucco
Moderato
Media
Elevata
Medio
Medio-alto
Cornicione
Stucco e mattoni
Grave
Elevata
Elevata
Medio
Medio-alto
Paraste
Stucco, mattoni
Moderato
Elevata
Elevata
Medio
Medio-alto
Intonaci pareti, Laterali
Mederato
Media
Media
Medio
Medio
Intonaci volte aula
Grave
Elevata
Elevata
Medio
Medio.alto
Pitture murali, nicchie, pareti lat
Moderato
Media
Bassa
Medio
Medio
Pitture cappelle
Grave
Media
Bassa
Medio
Medio-basso
Struttura lignea, Organo
Legno
Gravissimo
Elevata
Media
Elevato
Elevato
Ballatoio in legno
Travi lignee
moderato
Media
Elevata
Medio
Medio
lieve
Bassa
Elevata
Medio
Medio
Confessionili in legno
Tab. 5 Analisi di rischio prima dell’intervento Danno : scala ems 98 : 0 nullo, 1, lieve, 2 moderato, 3 medio , 4 grave , 5 gravissimo - Vulnerabilità : 1 bassa , 2 media , 3 alta - Indicatori di rischio : 1 basso, 2 medio basso, 3 medio, 4 medio alto, 5 alto
stucco di spessore variabile che comprende statue e decorazioni a rilievo. Ad esempio la statua raffigurante l’angelo è immersa nello stucco per circa metà del suo spessore ed è collegata al supporto per adesione del materiale e da perni in legno. Anche le ghirlande nel grembo della statua e le ghirlande ad arco nella parte superiore sono collegate allo stesso modo, adagiate, alla base, per aderenza al supporto murario, e non sono stati rilevati dispositivi di ancoraggio tra l’apparato decorativo e la muratura. Tuttavia tale conformazione costruttiva rende poco possibile il distacco del singolo elemento decorativo (statua, ghirlanda, .) mentre è favorito il comportamento rigido e il conseguente meccanismo di distacco con ribaltamento dell’intero pannello. L’intervento di messa in sicurezza prevede la esecuzione di ancoraggi puntuali nelle zone di maggiore rilievo (statue, ghirlande, stemmi, …) con barre in acciaio inox elicoidali con una rondella in acciaio di 2-3 cm di diametro saldata alla estremità. In alternativa è possibile prevedere un dispositivo ad espansione di lunghezza pari a circa 2/3 lo spessore della muratura in modo da ancorare in profondità l’apparato decorativo. Ad integrazione è previsto il miglioramento della adesione tra il supporto murario e l’apparato decorativo con iniezioni di malta a base calce superfluida. Inoltre la muratura cinquecentesca sarà consolidata con iniezioni di malta a base calce superfluida e connessioni trasversali con barre elicoidali in acciaio inox. Progetto di monitoraggio Il Progetto di monitoraggio può esser articolato su più livelli: monitoraggio statico convenzionale per verificare eventuali stati fessurativi, monitoraggio dinamico per valutare la risposta dell’edificio alle azioni ordinarie e sismiche e un piano di monitoraggio che consenta di tenere sotto controllo una molteplicità di fattori da quelli propri del degrado e di conservazione che dello stato di deformazione delle strutture e degli apparati decorativi.
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Giandomenico Cifani Biancamaria Colasacco Alberto Lemme Antonio Mignemi Carmenzo Miozzi Fig. 24-25 Connessioni previste sull’altare
Fig. 26 Altare laterale Fig. 27 Cinematismo altare laterale attivato
476
Ad esempio, per controllare se un quadro lesivo è in evoluzione o meno possono essere messi in opera semplici fessurimetri graduati a cavallo della lesione per poi misurarne l’ampiezza della lesione e l’integrità del fessurimetro ovvero dei fessurimetri più complessi con possibilità di controllo a distanza. Il monitoraggio dinamico si basa sull’analisi di segnali provenienti da vibrazioni naturali o indotte costituita da accelerometri triassiali che forniscono le accelerazioni dovute ad eventi ambientali che restituiscono in tempo reale le storie temporali dell’accelerazione indotta da una azione sismica. E’ possible inoltre prevedere un monitoraggio che si basa su una rete di sensori a fibre ottiche a bassa invasività che permettono il controllo di numerosi parametri, critici per la sicurezza ed utili per una pianificazione efficace degli interventi di manutenzione. Si pensi in particolare alle deformazioni degli elementi strutturali e storico artistici causate, da temperature, pressioni, penetrazioni di agenti chimici nocivi, inizio di prime fessurazioni, variazione degli stati tensionali, qualità dei materiali…… I sensori a fibra ottica sono di costo limitato, consentono di rilevare numerosi parametri, sono insensibili ai campi elettromagnetici (linee ad alta tensione, treni, temporali) ed alla corrosione, hanno dimensioni ridotte, sono flessibili nell’utilizzo e nell’impiego e controllano con soluzione di continuità lo stato fisico-chimico del materiale e ne evidenziano in tempo reale l’innesco di crisi statiche fessurazioni in parte delle membrature, inizio della corrosione degli acciai, deformazioni nella geometria nelle sezioni del costruito ecc... Il monitoraggio può essere realizzato in corso d’opera inserendo i sensori nei manufatti ovvero fissati sul manufatto restaurato e in esercizio. L’utilizzo della fibra nei sensori nasce da alcune caratteristiche che possono essere vantaggiose per specifiche applicazioni: la fibra è molto piccola, non richiede alimentazione elettrica nel punto di acquisizione, più sensori possono trovare posto lungo la stessa fibra (multiplexing), è immune alle interferenze elettromagnetiche, sopporta alte temperature e ambienti corrosivi. L’applicazione più naturale della fibra ottica è l’estensimetro a fibra ottica. Gli estensimetri a fibra ottica possono essere realizzati attraverso l’incisione sulla fibra di un reticolo di Bragg. Se si immette luce nella fibra e si osservano i fenomeni che influenzano il percorso della luce è possibile determinare alcune caratteristiche della fibra in diversi punti della sua lunghezza, ad intervalli definiti. In questo modo una fibra singola diventa una serie di sensori distribuiti nello spazio. Risultati e conclusioni Partendo dalla direttiva per i BBCC del 2011, che prevede per gli apparati storico artistici una verifica per una capacità sismica coincidente con lo stato limite di danno, è stato seguito un percorso che:
Fig. 28 Statue nella parte alta delle pareti laterali Fig. 29 Statua nelle pareti del presbiterio
propone una classificazione dei Beni Storico Artistici con una chiave di lettura nuova, utile per una analisi con un approccio tipologico speditivo che consente di apprezzare in modo quantitativo e qualitativo la vulnerabilità e il miglioramento sismico conseguito con l’intervento di restauro; la verifica sismica con analisi cinematiche locali in linea con la direttiva e la NTC 2008. La proposta di questo metodo di analisi, tenuto conto delle difficoltà connesse alla verifica sismica di tali apparati, si è posta l’obiettivo di fornire uno strumento nuovo di facile applicazione e rapida valutazione da utilizzare anche a scala territoriale e di programmazione nazionale. Bibliografia Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti – DM 14.1.2008; Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti – Circ. 2-2-2009 n. 617. Istruzioni per l’applicazione delle “Norme tecniche per le costruzioni”. DPCM 09.02.2011, Linee Guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale, allineate con le Nuove Norme Tecniche per le costruzioni 2008 (NTC 2008). Intesa tra il comune dell’Aquila e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ai sensi della OPCM 3917/2012.
Fig. 30 Statua dell’angelo con ghirlanda nel grembo Fig. 31 Ribaltamento statua dell’angelo con ghirlanda nel grembo
Lemme A., Podestà S., Cifani G. 2006, Sisma Molise 2002 Beni Monumentali e Terremoto, Dei Roma. Indicazioni per la esecuzione degli interventi, Ufficio Speciale per la Ricostruzione dell’Aquila, 2014; Di Vincenzo D., Colasacco B.M., Meduri G. 2015 – Progetto di restauro e consolidamento della chiesa della Misericordia, L’Aquila. De Vitis et al. 2013, Progetto esecutivo per il restauro e il consolidamento di Palazzo Ardinghelli. Università degli studi di Bologna 2, Il degrado e la conservazione dei dipinti murali. Barbara Sacchi, Istituto per la Conservazione e la valorizzazione dei Beni Culturali, Fenomeni di degrado fisici, chimici, e biologici dei materiali lapidei.
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L’acquedotto Claudio, disfacimento o manutenzione programmata Fabrizio De Cesaris
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Liliana Ninarello
Fabrizio De Cesaris Liliana Ninarello
Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma.
Abstract The attendance at conservation works on the Claudio Aqueduct has allow profound knowledge of the monumental structure in the ”Agro romano”. The construction shows significant problems which prove a lack of maintenance planning. The Aqueduct size with a length of 60 km, 15 of which are emerging, certainly have effect on complexity of the maintenance management divided between several local authorities. This state offers food for thought about the requirement to approach at logical maintenance practice. The main focus of the essay follows the paths recommended by Giovanni Urbani about the maintenance as planning activities, which are developed intensely in the last decades and found a significant support in the technology evolution. The widespread planning maintenance of exceptional size construction allows the supervision and the quick response to act if necessary and can change the current attitude where the late intervention is the normal attitude. This focus put the attention on the requirement of higher-level procedure at DPP in which the different institutions and local authorities can set common planning maintenance, purpose and strategy on which organize focused interventions. Keywords Acquedotto, manutenzione, planned maintenance, architettura civile
A cura della Soprintendenza, cui gli autori hanno partecipato come consulenti per gli aspetti strutturali e del restauro. 2 L’Acquedotto, iniziato da Caligola (37-41) e reso funzionante nel 47 da Claudio (41-54), attraversa le colline e la pianura dell’Agro romano, portando acqua sorgiva dall’area sublacense al bacino del Tevere, affiancando con un percorso artificiale (lungo 45 miglia) quello naturale dell’bacino idrico dell’Aniene. 1
478
Introduzione L’occasione di molteplici recenti interventi conservativi1 su alcuni tratti dell’Acquedotto Claudio ha offerto lo spunto per una riflessione su questo monumento bimillenario che naturalmente continua a invecchiare e a degradarsi, ma con fenomeni più gravi rispetto a quello che potremmo auspicare se fosse sottoposto a cure sistematiche2. Si tratta di considerazioni ripetibili per ogni monumento ma che per l’acquedotto, quale tipologia edilizia, e per questo Acquedotto in particolare, si esaltano per le specifiche condizioni del bene. A tal riguardo, si rammenta la particolare conformazione della struttura in oggetto: una costruzione estesa per quasi 60 km di cui circa 15 emer-
Figg. 1,2 Segmenti dell’Acquedotto in immagini recenti: a sinistra i resti in negativo di antichi consolidamenti, conservati poiché disdegnati dalla spoliazione cinquecentesca dei soli blocchi in peperino della costruzione originaria, a destra si intravedono gli elementi di un ponteggio per un intervento d’urgenza su un breve tratto della struttura (foto degli autori)
genti dal terreno nell’ultimo tratto verso Roma3. I lunghi segmenti ipogei, distanziati da porzioni emergenti in elevato solo in occasione degli attraversamenti delle valli, risultano pressoché abbandonati e tuttavia preservati proprio dalle limitazioni di intangibilità che la condizione sotterranea comporta. Le parti fuori terra invece spiccano per le dimensioni considerevoli (in media 20 m, oscillanti in relazione alla quota del piano di campagna ma tenendo quasi costante la copertura dello speco) che comportano un ruolo centrale nel paesaggio già dell’Agro romano e oggi del parco dell’Appia Antica. Raggiunta l’area urbana, a Porta Maggiore l’Acquedotto è assorbito per tratti consistenti nelle mura urbiche, opera successiva iniziata da Aureliano (270-275 d.C.), per proseguire poi ancora all’interno dell’Urbe con molteplici diramazioni. Le condizioni attuali del monumento Per l’edificazione dell’Acquedotto Claudio è stata utilizzata solo muratura a blocchi. La teoria di arcate si conserva in ragguardevole percentuale nonostante le condizioni di abbandono secolare4. La durevolezza di tale tipologia muraria potrebbe giustificare la longevità, anche se le stesse caratteristiche di feribilità e la disomogeneità del materiale litico spiegano parte del degrado, recente e passato. Non tutta l’estensione dell’antica infrastruttura risulta conservata per via delle vicende storiche che l’hanno vista subire gli effetti delle intrinseche criticità costruttive, dei danneggiamenti delle invasioni barbariche e di un lungo periodo di abbandono dopo l’XI secolo. A tali circostanze seguì la definitiva capitolazione del monumento in conseguenza del saccheggio dei materiali, reimpiegati nel XVI sec. per la realizzazione del vicino Acquedotto Felice, e del degrado causato dai successivi secoli di abbandono. Ciò nonostante, le porzioni conservate sono sufficienti e rievocare l’eccezionale importanza dell’Acquedotto come infrastruttura e come retaggio di un’epoca ormai tanto lontana e straordinaria (figg. 1-2).
Figg. 3,4 Dettagli costruttivi e definizione delle diverse articolazioni murarie (Comentario 1805) e il percorso dell’Acquedotto Claudio, che raggiunge Roma trasportando le acque delle due sorgenti site nella valle dell’Aniene, ricadente nei territori di competenza del Comune Capitolino (azzurro), del Parco dell’Appia (viola) e della provincia di Roma (verde) (rielaborazione di L. Ninarello su cartografia IGM).
Il tratto inferiore è completamente emergente rispetto al piano di campagna che, avvicinandosi a Roma e al Tevere, si mantiene quasi pianeggiante; lo speco venne quindi mantenuto ad una quota alta sulla Città (a circa 20 m di altezza), sfruttando solo 5 dei 30 m di dislivello del piano di campagna percorso, per facilitare la successiva parcellizzazione e diramazione urbana. 4 Delle 758 campate originarie stimate ne rimangono 252. Il numero di piloni originali del Claudio o di monconi tuttora in situ, è 324. 3
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Fabrizio De Cesaris Liliana Ninarello Non si possono escludere danni nel passato per sismi e cedimenti fondali, anche se non sembrano confermati da notizie documentali o letterarie. D’altra parte, almeno per i primi mille anni, nonostante i sismi verificatisi, l’Acquedotto è stato conservato funzionale e sostanzialmente integro.
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La sovrabbondanza dimensionale della struttura e la durevolezza della muratura a blocchi hanno consentito tuttavia ai tronconi residui di resistere, nonostante le condizioni siano localmente più impegnative per i pilastri all’estremità, sollecitati dalla spinta terminale non contrastata. L’evoluzione del degrado tende però ad annullare i margini di sicurezza che possono essere troppo modesti soprattutto per le arcate di maggiore elevazione. In linea generale, la matrice costruttiva accomuna tutti gli elementi residui del lungo percorso dell’acquedotto, dimensionalmente e costruttivamente omogenei, anche nel processo di deterioramento progressivo, differenziato per gravità ma all’interno di un tipico sviluppo evolutivo (fig. 3). Le manifestazioni di degrado del materiale si concentrano, soprattutto, sui paramenti esterni e visibili, sollecitando dubbi sull’affidabilità dell’intero elemento strutturale. Le porzioni residue presentano infatti un deterioramento pronunciato e diffuso, legato alla feribilità specifica della pietra; degrado che assume la consistenza di una patologia degenerativa del materiale con due diverse scale di manifestazione: una sorta di frammentazione, diffusa e minuta, che si palesa negli spessori superficiali; una fessurazione profonda, isolata e diretta, che spezza i macigni e mina la continuità dell’apparecchiatura. Le altezze significative lasciano intravedere un’evidente vulnerabilità sismica, rilevante non tanto se la costruzione fosse in buono stato ma in relazione all’attuale grado di conservazione, in un’area che risente ancora, nei tremori del suolo, dell’antica origine vulcanica5. Si può temere soprattutto il coinvolgimento in meccanismi di quelle porzioni parzialmente fratturate o distaccate che facilmente potrebbero raggiungere condizioni limite; ipotesi che tuttavia non ha trovato riscontri sostanziali nei sopralluoghi successivi agli ultimi terremoti. Decisamente, molti dei manufatti residui presentano un aspetto preoccupante, soprattutto per la superficie torturata e lacunosa da cui automaticamente si è portati a presagire, talvolta erroneamente, un analogo stato di degrado anche per la parte interna delle sezioni resistenti. Certamente, i processi degenerativi sono aggravati dallo smembramento della originaria continuità, ridotta, in relazione alle diverse vicissitudini, a porzioni segmentate di diversa estensione: dalle arcate isolate alle serie di tre, quattro, sei arconi e, raramente, alle schiere composte da un numero maggiore di archi, anche superiori alle decine. I raggruppamenti con minor numero di arcate isolate appaiono più vulnerabili, soprattutto nelle porzioni d’estremità, prive delle controspinte stabilizzanti. Condizione di frammentarietà che costituisce l’effetto inevitabile dell’enorme estensione originaria della struttura su cui hanno interferito le vicende locali, e le specifiche peculiarità costruttive come gli antichi presidi di rinforzo, distinguibili per le disomogenee caratteristiche murarie, rispetto alla costruzione originaria, che li fanno riferire ad un ampio arco temporale (primi dieci secoli dopo Cristo ma soprattutto tra secondo e quinto secolo). Inoltre, si annotano due problematiche strutturali proprie dello speco ovvero della porzione superiore, ben distinguibile costruttivamente nella sezione trasversale dell’acquedotto: la fratturazione diffusa delle lastre di copertura e l’affidabilità dei montanti murari rispetto a sollecitazioni sismiche normali all’asse del condotto. Questioni che, in passato, hanno portato all’introduzione dei sostegni verticali presenti nei diversi tratti, disposti per assicurare la stabilità delle lastre soggette al loro peso e a quello delle masse soprastanti.
Infine, non può evitarsi di annotare il rischio derivante dalla presenza di vegetali infestanti, di varie specie (maggiormente alianto e fico) che producono un’azione devastante per l’effetto di cuneo causato dallo sviluppo delle radici e per le vibrazioni trasmesse dall’oscillazione delle chiome, qualora lasciate sviluppare. Le problematiche della manutenzione Siffatti resti monumentali, talvolta magnifici anche nei soli consolidamenti laterizi (grandi masse rimaste come negativi dopo l’asportazione sistematica delle murature a blocchi originarie), tuttavia non si inquadrano nell’appartenenza a un sito archeologico specifico. Alcuni ricadono, infatti, sotto la competenza di tutela del Comune di Roma, altri del Parco regionale dell’Appia antica e del Parco Archeologico dell’Appia antica (istituto di tutela del MIBAC), altri ancora sotto la gestione della Soprintendenza per l’area metropolitana di Roma6 (fig. 4). La stessa appartenenza maggioritaria al Parco regionale dell’Appia Antica, se si considerano le sole porzioni fuori terra dell’Acquedotto, non risulta essere assolutamente prioritaria, in termini di obiettivi di tutela del territorio gestito dal Parco regionale e dal corrispondente Istituto di tutela del Parco Archeologico, per la contemporanea presenza, nella medesima area di riferimento, di altri acquedotti e di altri resti eccezionali. Si tratta di un territorio particolarmente ampio in cui sono presenti numerose importantissime vestigia; prima fra tutte la Via Appia Antica con le molteplici emergenze da essa lambite, antiche e medioevali. Alle complesse incombenze per il governo delle attività conservative di quest’area si aggiungono le necessità di attenzioni dovute a un territorio in cui le incursioni del privato, nelle differenti realtà frammiste alle proprietà demaniali, devono essere quotidianamente e attentamente gestite. In altri termini, la realtà delle attività sul monumento è caratterizzata da una perpetua corsa ai ripari a cui sono chiamati i funzionari, normalmente impegnati in altri, pur necessari, doveri d’ufficio, improntata alla risoluzione di criticità che vengono avvertite come tali solo quando il rischio è per la pubblica incolumità e consente di invocare l’intervento di somma urgenza. Va sottolineato come il semplice potenziamento di questo tipo di attività non può certamente essere individuato quale rimedio risolutivo al complesso insieme di cause di deterioramento della infrastruttura antica; sembra invece evidente la necessità di un programma generale con obiettivi a lungo termine. Viene alla mente, per con-
Figg. 5,6 Porzione di Acquedotto interessata da recenti consolidamenti eseguiti dalla Soprintendenza Archeologica di Roma. L’intervento ha coinvolto maggiormente le prime arcate a sinistra (già sottoposte al consolidamento murario in età antica) e attende il completamento sulle arcate a destra, rafforzate dalla tamponatura/ contrafforte di fine secolo XIX. Nel consolidamento (realizzato intorno al 2016) sono state affrontate diverse criticità strutturali che avrebbero portato in breve a ulteriori perdite di materiale originario con notevoli rischi per il vicino percorso ferroviario.
Il Parco regionale dell’Appia Antica (1988) è costituito da un’area naturale protetta dell’Agro Romano estesa nei territori comunali di Roma, Ciampino e Marino che include molti siti di interesse. La tutela archeologica, monumentale e paesaggistica di parte dell’area è soggetta al Parco archeologico dell’Appia Antica (2016) che promuove la tutela e la valorizzazione del territorio attraversato dalla Via Appia.
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Fabrizio De Cesaris Liliana Ninarello 7 Si fa riferimento, ovviamente, al chiarissimo assioma di Adolphe Napoléon Didron “En fait de monuments anciens, il vaut mieux consolider que réparer, mieux réparer que restaurer, mieux restaurer qu’embellir; en aucun cas, il ne faut ajouter ni retrancher”, che venne nel tempo ripreso da gran parte dei teorici del restauro ma che è costantemente disatteso dalla pratica in cui di frequente è più appagante l’intervento complessivo e spesso fortemente invasivo alla pratica umile della manutenzione, preziosa ma poco vistosa. 8 Nel definire il concetto di conservazione il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio specifica che “per manutenzione si intende il complesso delle attività e degli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell’integrità, dell’efficienza funzionale e dell’identità del bene e delle sue parti”. 9 Urbani sviluppò i contenuti metodologici del suo pensiero innovativo sul restauro e la conservazione del patrimonio durante l’elaborazione del Piano Pilota per la Conservazione programmata dei Beni Culturali in Umbria (1975). La grande innovazione consistette nel porre alla base del processo di conservazione del patrimonio culturale, un’accurata e approfondita conoscenza dello stato di degrado e di
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trasto, l’intervento effettuato dal commissario straordinario Roberto Cecchi che in prossimità del Giubileo ebbe la possibilità eccezionale di agire sull’area producendo anche azioni operative (alcune sullo stesso Acquedotto e in particolare sulla torre del Fiscale) evidenziando, con altri contributi, la necessità di sviluppare azioni di carattere preventivo di grande respiro per la conservazione dei valori architettonici, archeologici, paesaggistici e urbani (Cecchi, Gasparoli, 2011). In particolare, in quell’occasione fu elaborato (da un team guidato dal prof. Carlo Baggio) l’unico strumento di sintesi sulla consistenza dell’Acquedotto in cui era condensato un rilievo geometrico e una prima analisi autoptica delle condizioni strutturali e di conservazione. Purtroppo, tale documento, che avrebbe dovuto costituire una base paradigmatica per i successivi interventi, è rimasto chiuso in qualche archivio, non sviluppato in un successivo piano programmatico e non più consultato. Il concetto di manutenzione, individuato e definito, già nel XIX secolo, da alcuni dei grandi maestri del restauro francese (soprattutto in ambito archeologico), evidenzia l’opportunità di preferire la pratica del ben manutenere, piuttosto che del restaurare7. Indirizzi ripresi nel concetto di “restauro preventivo”, elaborato da Cesare Brandi nella “Teoria del Restauro”, per il quale si invita a condurre un’attività ben più ampia di prevenzione del processo di degrado da concretizzarsi attraverso il controllo dell’ambiente, del territorio, mediante la manutenzione programmata del bene. Certamente il mondo scientifico riconosce il maggior valore conservativo della manutenzione rispetto all’intervento di restauro, il vantaggio di un’attività contenuta ma continua rispetto alla grande azione diretta e spesso maggiormente invasiva8 (art.29, c.3, D.Lgs. 42/2004 e succ. mod.; Cecchi, Gasparoli, 2011, p.19). In effetti, non si può trascurare il fatto che dopo le iniziative di Giovanni Urbani e dell’ICR (oggi ISCR) siano stati fortemente sviluppati strumenti, ormai variamente articolati sulle molteplici evoluzioni delle tecniche informatiche, che riversano benefici sulle attività conservative9 (Segala 2012). D’altra parte, la gestione informatizzata sembra costituire il prossimo approdo delle pratiche edilizie che tentano l’estensione di tali protocolli anche al restauro; non può evitarsi di considerare che nel prossimo futuro le tecnologie informatiche saranno per norma applicate anche agli edifici tutelati e, di conseguenza, riflettere su come rendere massimamente positiva tale adozione: in particolare, nell’ambito della manutenzione si evidenziano già le maggiori potenzialità10. Si tratta dunque di un tema non nuovo che in questi anni assume sempre maggiore concretezza; eppure ancora non sufficientemente presente nelle programmazioni degli strumenti di tutela, costrette in troppo limitati piani di programmazione triennale, spesso travolte dalle riorganizzazioni istituzionali e geografiche. Attualmente, nonostante la direzione degli sforzi per un ampliamento delle attività di cura preventiva, appare tuttavia evidente che emergano realtà, quale quella dell’Acquedotto Claudio, in cui non è previsto uno specifico programma manutentivo (figg. 5-6). Né, tantomeno, può assumersi un piano prestabilito e dettagliato di operatività, individuato dal ‘Piano di Manutenzione’ e concretizzato nel ‘Programma di Manutenzione’ che definisca le modalità operative degli interventi. Ipotesi che non trova concretizzazione anche per le annose difficoltà finanziarie e gestionali delle Soprintendenze che presumibilmente non sembra possano trovare risoluzione in un futuro prossimo. Si ritiene opportuno sottolineare come la norma, che prevede per i lavori pubblici un Piano di Manutenzione, consenta una sorta di declassamento di tale strumento
in quanto riferito non agli interi edifici oggetto dei lavori, ma limitato a definire gli indirizzi di manutenzione alle sole opere progettate (spesso, nel restauro, non coincidenti con l’intera costruzione)11. Ne deriva che solo le opere strutturali risultino strettamente soggette a manutenzione da attuarsi peraltro con fondi non indicati nel quadro economico; quindi con una incongruenza evidente, forse necessaria per non produrre conflitti e complicazioni amministrativamente irresolubili. D’altronde le strumentazioni generali, benemerite quali la Carta del rischio, ancora non entrano nel merito dettagliato di problematiche come quella dell’Acquedotto, caratterizzato dalla dimensione del singolo monumento ma anche da una scala geografica maggiore, sovraordinata a quella circoscritta del tipico edificio o manufatto localizzato e forse anche allo stesso territorio paesaggisticamente delimitato (figg. 7-8). Dal punto di vista gestionale, sembra poi piuttosto indefinibile uno strumento che consenta alle soprintendenze di ampliare la prospettiva programmatica oltre ai periodi consueti triennali o quinquennali con i quali assegnare compiti progettuali e realizzativi. In tal senso sembrerebbe opportuno riflettere su quali strumenti possano adottarsi per migliorare tematiche critiche come quella dell’Acquedotto. Uno strumento coerente con le necessità di controllo delle problematiche e d’indirizzo alla successiva operatività potrebbe individuarsi nel DPP, Documento Preliminare alla Progettazione12 (Della Torre, 2014, p.109). Esso costituisce il testo in cui possono o devono essere fissati i punti essenziali dell’approccio al monumento, sia di progettazione sia di attuazione degli interventi che tuttavia sono contenuti nei limiti di una specifica intenzione operativa, all’interno ad esempio di un particolare bando per l’affidamento. Per un monumento come l’Acquedotto, soggetto a tutela di più uffici e troppo grande per poter essere affrontato unitariamente con un unico affidamento, sarebbe necessario un documento in grado di sopraordinarsi ai DPP, che possa cioè costituire una sorta di protocollo operativo in grado di allineare gli interventi eseguibili dai diversi Uffici. Si tratterebbe di episodi manutentivi legati in una trama logica cui far ripetutamente riferimento nell’analizzare le potenzialità fattibilità e nella verifica della congruità conservativa. Quindi una sorta di protocollo d’intesa e di linea guida cui far riferimento per dare continuità, progressività e coerenza a tutti gli interventi che vi possono trovare spazio, siano essi di urgenza o, finalmente, di manutenzione stavolta contemplata in un piano programmato, se possibile condiviso anche dalle diverse Soprintendenze demandate alla sua tutela. Prendendo come punto di partenza il tema della conservazione preventiva, si intravvede in tal modo una possibile soluzione all’attuale stato di abbandono ideale in cui versa l’Acquedotto, che potrebbe essere riscattata dall’applicazione di metodologie scientifiche capaci di mettere a frutto le nuove tecnologie (sia per il monitoraggio sia per l’operatività) dirette alla realizzazione di una opportuna manutenzione preventiva, contrapposta alla soluzione urgente talvolta estemporanea e non esaustiva (fig. 9). Di fatto debbono coesistere le attività di controllo dell’evoluzione del degrado accanto all’applicazione di pratiche manutentive tempestive. In effetti, come anticipato da G. Urbani, a sostegno dell’attività di manutenzione programmata deve attivarsi una vigilanza continuativa dello stato di conservazione del bene; nella fattispecie dell’Acquedotto estesa alle diverse porzioni sotterranee e fuori terra, attraverso indagini preventive sui materiali costruttivi e sul comportamento delle strutture, volta, se non all’abbattimento, alla riduzione, anch’essa programmata,
danno in cui versa la materia costitutiva dell’opera da preservare inserita però nel contesto generale di appartenenza per un più vasto piano preventivo. 10 Ci si riferisce in particolare, dal punto di vista operativo, al BIM che può già essere applicato agli aspetti realizzativi dei progetti di restauro e alle operazioni di gestione e manutenzione degli immobili esistenti; ma anche al Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale. La gestione di quest’ultimo è stata affidata all’ICCD (dal D.M. 21.01.2017), che deve costituire il quadro generale di riferimento, elaborare i criteri di programmazione nazionale, gli obiettivi di miglioramento e le attività per raggiungere una base di conoscenza dei beni, fruibile nel tempo e nello spazio, da implementare continuamente. 11 In base al D.Lgs 50/2016 (art. 23, co. 8) “il progetto esecutivo deve essere, altresì, corredato da apposito piano di manutenzione dell’opera e delle sue parti in relazione al ciclo di vita”. Risulta inoltre necessario che il processo realizzativo dell’intervento risulti condotto in modo unitario in relazione alla manutenzione programmata. Il piano di manutenzione dell’opera e delle sue parti è incluso tra gli elaborati costitutivi il progetto esecutivo che prevede, pianifica e programma l’attività di manutenzione, al fine di mantenerne nel tempo la funzionalità, la qualità, l’efficienza ed il valore economico. Il piano di manutenzione è costituito dai documenti operativi, quali il manuale di manutenzione e il programma di manutenzione. Per quanto concerne il patrimonio culturale il piano di manutenzione dell’opera è tra gli elaborati del progetto definitivo e del progetto esecutivo. I lavori di manutenzione, in senso più stretto, sono eseguiti anche sulla base di una perizia di spesa contenente la descrizione del bene, corredata da sufficienti elaborati grafici e amministrativi.
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Fabrizio De Cesaris Liliana Ninarello Figg. 7,8 Stralci progettuali relativi a interventi di consolidamento sui piloni e sulle arcate dell’Acquedotto Claudio. Il differente approccio, più invasivo nella soluzione del XIX secolo (a sinistra) rispetto a quella adottata recentemente (a destra), rende evidente come nel corso del tempo sia aumentato il riconoscimento di valore attribuito alla struttura ma anche l’invarianza degli interventi essenziali, ripetuti concettualmente con diverse declinazioni tecnologiche.
12 Si tratta di un documento diretto alla definizione strategica e programmata dell’intero processo edilizio. Viene elaborato all’avvio della progettazione e contiene approfondimenti tecnici e amministrativi a cui vengono allegati precisazioni di natura procedurale e in cui sono modulati le integrazioni e i livelli di approfondimento progettuale. Attraverso il DPP è possibile tenere sotto controllo la corrispondenza tra quanto si realizza e gli obiettivi e requisiti iniziali, stabiliti per le diverse fasi di progettazione, rilievo, diagnostica e cantiere.
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delle cause di degrado nel più breve tempo possibile rispetto alla loro comparsa. Un’azione compiuta attraverso le forme della manutenzione ordinaria progettata, pensata e declinata rispetto alle esigenze del caso per caso, ma attuata attraverso pratiche concrete preordinate dall’invocato protocollo d’intesa, rese, pertanto, di facile approvazione e condivisione, sostenute da sufficienti finanziamenti resi disponibili per la programmazione nel tempo. Il tema dell’efficienza nell’agire attorno e sul patrimonio si inserisce quale elemento cardine nell’epoca attuale in cui la razionalizzazione informatica si intravvede all’orizzonte e deve essere supportata da una parallela definizione degli obiettivi programmatici e dalla collaborazione delle strutture istituzionali. Conclusioni In sintesi, le complesse e talvolta preoccupanti condizioni conservative di questo particolare monumento, per le sue eccezionali dimensioni necessitano di un particolare strumento di pianificazione e gestione in cui diversi enti di tutela devono coordinarsi. Per esso e per altri monumenti simili, si deve progettare la conservazione con strumenti che travalicano la scala dell’intervento di restauro, ad esso sopraordinati, che consentano un respiro simile a quello preconizzato con il concetto di manutenzione programmata. Sembrano cioè necessarie strategie di programmazione che prevedano una fase conoscitiva dello stato di consistenza del bene che possa essere continuamente implementata e fungere da supporto indispensabile per l’articolazione di un Piano di Manutenzione, elasticamente adattabile ma rigidamente impostato su concetti e obiettivo di indirizzo generale. Nel testo, scorrendo tra le pieghe dei dispositivi attualmente in vigore, è sembrato opportuno segnalare il DPP (purché propedeuticamente condiviso dai diversi uffici interessati) come il documento in grado di unificare gli sforzi conservativi e gli stessi progetti che si susseguiranno nel tempo. Una sorta di guida per le operazioni manutentive che quasi costituisce un documento di manutenzione programmata anche in assenza di un cronoprogramma, quest’ultimo auspicabile ma spesso non definibile a priori. In tale prospettiva, i singoli programmi di controllo e monitoraggio troverebbero un maggior respiro e la conseguente manutenzione una possibilità di razionale efficientamento, specialmente se supportata dagli strumenti informatici.
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Figg. 9 Tratto iniziale della parte emergente dell’Acquedotto, in prossimità di Capannelle, in cui appare evidente l’invasività dei vegetali infestanti (in particolare, l’alianto, a sinistra) che si sono sviluppati insinuandosi nella muratura a blocchi, dislocando e fratturando gli elementi litici delle arcate e dello speco, causando danni ingenti che potevano essere facilmente evitati con un idoneo programma di controllo (foto degli autori).
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Gela e polo petrolchimico: Tra antichità gloriosa, presente difficile e futuro… green Giuliana Di Mari
Dipartimento di Ingegneria Strutturale, Edile e Geotecnica , Politecnico di Torino.
Emilia Garda Giuliana Di Mari Emilia Garda Omar Scicolone Alessandra Renzulli
Dipartimento di Ingegneria Strutturale, Edile e Geotecnica , Politecnico di Torino.
Omar Scicolone
Dipartimento di Ingegneria Strutturale, Edile e Geotecnica , Politecnico di Torino.
Alessandra Renzulli
Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale, Sapienza Università di Roma.
Abstract “On the sand of Gela, colour of straw, I lay down child by the sea, ancient of Greece with many dreams, in my fists, tight in my chest.” With these words Salvatore Quasimodo describes the beaches of Gela, a town that saw him as a guest for a short time, following his father, a railwayman. The term “ancient” is more than apt, since the foundation of Gela dates back to 689 BC. Around that year a group of Greek settlers from the islands of Rhodes and Crete disembarked with their ships near the river Gela where they founded the town of the same name. Under the tyranny of Hippocrates of Gela, the city reached splendour and power, was rich and flourishing above all other cities on the island, admired and feared by all. Many battles over the centuries reduced Gela to a village of fishermen and farmers. The main evidence of this history is in the subsoil that, with periodic frequency gives the city finds of all kinds: from the very important Timoleontee walls to the Hellenistic Baths, from the entire Acropolis of Gela until the discovery of three Greek ships, and then again helmets, vases, coins, etc… But among these jewels that show us wonderful postcards of the past, other kinds of underground finds projected Gela directly into the future. We are talking about oil fields, discovered in 1956, which led to the construction of a petrochemical pole, in 1963. In the following pages, we will deal with the context in which an industry of this magnitude is born and develops and the consequences to which its presence in the territory leads. Forward will be briefly dealt with the theme of Industrial Archaeology and the solution to be adopted to ensure that a mammoth work such as that of the Gela Refinery does not become an ‘industrial artefact’. Keywords Industrial heritage, Gela, Oil, Bio-refinery, Eni.
Uno sguardo al passato Sul finire della guerra, la città ebbe un ruolo determinante, infatti fu il 10 luglio del 1943, che avvenne il così ricordato “Sbarco in Sicilia” e Gela fu così la prima città d’Europa ad essere liberata (Mulè, 2013). Dal dopoguerra all’inizio degli anni Cinquanta, la città iniziò un processo di rinnovamento e una trasformazione sociale ed economi-
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Fig. 1 In sequenza: Sbarco degli americani sul Pontile di Gela; Lido “La Conchiglia” in una cartolina dell’epoca; Enrico Mattei (Foto di Robert Capa, 1943; Ediz. Cartolibreria S. Trainito, Gela, 1961; data sconosciuta, Eni)
ca, grazie all’azione promotrice di Salvatore Aldisio (1890-1964). A lui, durante l’incarico di Ministro e di Alto Commissario per la Sicilia, oltre al completamento della Diga Disueri si devono altre importanti opere pubbliche quali il municipio, il porto rifugio, l’acquedotto, l’ospedale civile e il lungomare. Fino a quel momento l’economia gelese si basava sulla produzione agricola, portando alcune produzioni a livelli molto elevati1. Oltre al settore agricolo, la presenza del turismo era importante, soprattutto grazie alla bellezza e alla balneabilità delle spiagge. Durante il periodo estivo la popolazione vedeva almeno raddoppiare il suo numero. Anche se la maggior parte di queste persone erano ex-cittadini trasferiti al nord Italia e in Europa per lavoro, non mancavano di certo turisti da ogni parte d’Europa. Tra i tanti hotel e lidi balneari, diventò presto simbolo della città il “Lido La Conchiglia”, uno chalet costruito alla fine degli anni Cinquanta che, oltre per le attività balneari, divenne conosciuto per gli eventi mondani che ospitava: qui si esibirono i cantanti e i gruppi musicali più in voga dell’epoca, presentarono serate grandi personaggi dello spettacolo e si svolsero le finali regionali dei concorsi di bellezza o canori. La costruzione venne chiusa nel 19802 (Aiuti, 2018). Una grande svolta all’economia si ebbe con il rinvenimento di giacimenti petroliferi nel ’56 e la conseguente costruzione della raffineria. I lavori di questa imponente opera iniziarono nel 1960 e si conclusero tre anni dopo con lo stabilimento “isola dopo isola”, in riferimento alle unità costruttive in cui era diviso. La raffineria si estendeva su un’area di cinque km2, suddivisa, appunto, in isole e percorsa da trenta km di strade interne. In pratica al momento della conclusione dei lavori, lo stabilimento era più grande della città stessa. Oltre l’area gelese, si sfruttò anche il petrolio grezzo scoperto nel vicino ragusano, quello proveniente da altri siti dell’area del Mediterraneo nonché le riserve di gas naturale scoperte nel territorio di Gagliano Castelferrato (En); da ciò si può facilmente intuire il rilievo di tale opera (Costa, 2014). Il progetto naque da un’ambiziosa iniziativa di Enrico Mattei e venne realizzato dall’ANIC (Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili) del gruppo Eni (Ente Nazionale Idrocarburi) con un investimento iniziale di 120 miliardi di lire. Molti anni prima Mattei venne scelto dalla Commissione Centrale per l’Economia del Comitato di Liberazione Nazionale come commissario liquidatore dell’AGIP (Azienda Generale Italiana Petroli), ma, convinto delle potenzialità di sviluppo della compagnia, invece di seguire le istruzioni impartitegli dal governo, non liquidò la società; anzi diede nuovo impulso alle perforazioni nella pianura padana e riuscì a riorganizzarla e a farla crescere sul mercato internazionale (Turco, 2018). Uno sguardo al territorio Il territorio di Gela è in parte pianeggiante e costituito dalla piana di Gela, la seconda della Sicilia per estensione, e in parte collinare. È compreso tra la fascia costiera meri-
Il cotone. ‹http://www.gelacittadimare.it/cotone%201. htm› 2 La conchiglia - spiaggia di gela. ‹https://www.fondoambiente.it/luoghi/la-conchiglia-spiaggia-di-gela?ldc› 1
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Giuliana Di Mari Emilia Garda Omar Scicolone Alessandra Renzulli Fig. 2 Vista su mappa e aerea di Gela e del Polo Petrolchimico (Rielaborazione degli autori, 2020)
dionale e i territori di Butera, Mazzarino, Niscemi, Caltagirone ed Acate. Il golfo di Gela, ampio e poco pronunziato, è il più vasto della Sicilia. Lungo la costa sono presenti tre formazioni collinari di un certo rilievo; in una di queste sorge la città storica. Lo stabilimento del polo petrolchimico sorge in un’area che confina a sud-ovest con il mar Mediterraneo, a ovest con l’abitato di Gela, a nord-ovest con il fiume Gela, la SS115 e la ferrovia a Gela-Siracusa e, infine, a sud-est con l’aria SIC (Sito di Interesse Comunitario) ovvero Torre Manfria, Biviere e Piana di Gela. Nelle vicinanze della raffineria, le principali infrastrutture presenti sono la superstrada Gela-Caltagirone-Catania, la strada a scorrimento veloce Gela-Caltanissetta e le linee ferroviarie Gela-Palermo e Gela-Catania. La posizione favorevole della raffineria fa sì che la movimentazione delle merci possa avvenire, oltre che via terra, anche via mare attraverso il pontile, la diga foranea ed il campo boe. Al momento della costruzione lo stabilimento superava per dimensioni la città. Molti dei quartieri limitrofi al polo non esistevano ancora alla nascita di quest’ultimo e la loro creazione è stata una conseguenza della presenza dello stabilimento. La richiesta crescente di abitazioni fu mal gestita, tanto da creare un tessuto urbano incoerente. Quartieri come Macchitella, Settefarine, Cantina Sociale, Modernopoli, Cittadella, Albani Roccella, Fondo Iozza, Piano Notaro e Scavone nacquero e si ampliarono in parallelo alle esigenze dello stabilimento. Il Polo Petrolchimico: cause ed effetti Il polo petrolchimico di Gela comprende contemporaneamente gli impianti tipici della raffinazione del greggio, dello stoccaggio dei prodotti finiti, della produzione di servizi ausiliari e di trattamenti ecologici garantendosi così un elevato grado d’indipendenza ed autonomia dal network nazionale e dai servizi esterni. Tra le centinaia di produzioni, vi erano principalmente: benzine, gasoli, oli combustibili, pet-coke, GPL, oli lubrificanti, carbone, materie plastiche, soda caustica, acido cloridrico, acido solforico e molti altri prodotti chimici. All’interno del sito hanno operato anche: un grande centro di imbottigliamento e distribuzione di gas, una centrale termoelettrica e grandi impianti per la dissalazione e la depurazione delle acque. Il ciclo di lavorazione del greggio inizia con una distillazione frazionata presso gli impianti di distillazione dedicati (impianti di Topping) in cui la miscela di idrocarburi che costituisce la materia prima, viene suddivisa in diverse frazioni caratterizzate per densità ed intervalli di ebollizione. Il frazionamento dà origine a gas, benzine, gasoli ed oli combustibili. Il residuo, che costituisce la frazione più pesante della distillazione, alimenta particolari impianti (di Coking), trasformandosi in gasolio, benzina, gas e coke di petrolio utilizzato come combustibile nella centrale termoelettrica. I gasoli subiscono trattamenti di desolforazione catalitica, finalizzati a ridurre il contenuto zolfo, e di cracking catalitico per ot-
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tenere benzina, GPL e gas. Le benzine, tramite ulteriori lavorazioni, quali reformer catalitici e desolforazioni catalitiche sono trasformate in benzina finita. Tutti i flussi gassosi provenienti dagli impianti di raffineria confluiscono all’impianto recupero gas, che separa le miscele di gas nei vari componenti. Si producono da quest’ultima lavorazione idrogeno solforato, etilene, etano, propano, butano, butadiene. Attraverso questa complessa struttura impiantistica, la raffineria è in grado, lavorando greggi pesanti, di realizzare prodotti finiti di alta qualità: benzene a bassissimo contenuto di zolfo e benzina e gasolio a bassissimo tenore di zolfo (Foster Wheeler, 2009). Inutile dire come l’avvento di questa nuova e ipertecnologica industria portò con sé una ventata di innovazione e sviluppo dal punto di vista economico e sociale. Il nuovo polo petrolchimico avrebbe dato lavoro, tra diretto e indotto, a circa 7.000 impiegati più gli operai addetti alla costruzione degli impianti. L’economia sostanzialmente mutò, numerosi furono gli artigiani e i contadini che abbandonarono il loro vecchio lavoro e, attraverso dei corsi specializzati, presero delle qualifiche per lavorare all’interno della raffineria. Oltre a ciò, furono create nuove scuole. A partire dagli anni ‘60, per far fronte alle richieste industriali di tecnici e maestranze specializzate, vedranno la luce istituti per chimici, geometri e ragionieri. Il mutamento non riguardò solo le famiglie di coloro che intrapresero un percorso lavorativo all’interno della raffineria, fu l’intera città a guadagnarne. Il crescente benessere portò una fase di espansione demografica (Moriani, 1986). Negli anni successivi alla costruzione dello stabilimento, vi è sostanzialmente il raddoppio della popolazione. Fu un periodo d’oro per l’edilizia, che dovette rispondere alla massiccia richiesta di abitazioni. In primis, fu costruito un intero quartiere dedicato allo stabilimento, realizzato per accogliere dirigenti, impiegati e lavoratori del polo petrolchimico. Fino alla seconda metà degli anni Settanta è stato, di fatto, una realtà urbanistica a sé stante con caratteristiche e servizi offerti usuali del Settentrione. Il nucleo storico del quartiere Macchitella, questo il nome della zona, è stato progettato da un gruppo di architetti con a capo Marcello Nizzoli (designer e architetto italiano, noto tra l’altro per le numerose collaborazioni con Olivetti). Il disegno del quartiere rappresenta sostanzialmente una revisione e semplificazione del complesso progetto iniziale di Edoardo Gellner. L’idea di dividere la nuova città, sulla base del dislivello topografico esistente, in due quartieri residenziali e di collegarli uno all’altro tramite un centro sociale che funge da cerniera, è la stessa. La realizzazione del progetto si limita però a circa due terzi del volume previsto, edificati in soli due anni, mentre la parte rimanente con il quartiere situato sulla collina, rimarranno sulla carta. Il quartiere residenziale presenta un efficiente sistema viario caratterizzato da ampie vie separate dai laterali percorsi pedonali attraverso aiuole occupate da siepi e alberi. Il sistema viario dà poi vita a delle isole urbane entro le quali sono collocate tre tipologie di edifici residenziali: le “torri” di sette elevazioni fuori terra; i condominii a schiera di tre elevazioni fuori terra e le villette a schiera con seminterrato e un unico piano rialzato. Gli edifici in pianta disegnano dei cortili interni, aperti rispetto alle vie di comunicazione mentre i prospetti sono caratterizzati dalla sola presenza di finestre. Nella zona sud-ovest vengono predisposti i servizi principali del quartiere e un’area verde attrezzata (Cassetti, 2005). A suo tempo, suscitò grande scalpore nell’opinione pubblica gelese la decisione di realizzare il quartiere distante dalla città storica: tra la vecchia periferia e il nuovo quartiere era ancora campagna aperta. Questa demarcazione era ulteriormente evidenzia-
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Giuliana Di Mari Emilia Garda Omar Scicolone Alessandra Renzulli D.L. 7 marzo 2002, n. 22 - Disposizioni urgenti per l’individuazione della disciplina relativa all’utilizzazione del coke da petrolio (pet-coke) negli impianti di combustione
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ta dalla differenza nell’offerta di servizi pubblici e privati e sembrò quasi rappresentare l’ipotizzata distanza dei dirigenti e impiegati provenienti dal Settentrione d’Italia. Oggi queste differenze sono state ripianate proprio dall’espandersi della città. Oltre a Macchitella, fino ad allora unica vera soluzione studiata per risolvere il problema della mancanza di abitazioni, cominciò una febbrile corsa all’edificazione selvaggia e abusiva, alla speculazione edilizia incurante di leggi e stratificazioni storiche, di bellezza paesaggistica e di norme di sicurezza, dell’igiene oltre che del decoro. La città in circa quindici anni vide quintuplicare l’estensione della propria area urbana in maniera assolutamente disomogenea. Uno dei cambiamenti sociali più forti di questo periodo è sicuramente connesso alla figura femminile. L’immagine della donna legata al focolare domestico e il cui compito era limitato alla cura della casa e della prole comincia a venir meno. Numerose furono le ragazze assunte all’interno dello stabilimento, ricoprendo le più svariate posizioni, dalla contabilità alla segreteria, fino ad arrivare a ruoli dirigenziali (Cordalonga, 2017). Purtroppo, quello che era a tutti gli effetti un miracolo industriale, si trasformò ben presto in disastro ambientale. Questo disastro si sviluppò ancor prima della nascita effettiva dello stabilimento. Infatti, la prima fase dei lavori fu il rasamento al suolo di una distesa di dune sabbiose ricoperta da macchia mediterranea secolare. Inoltre, fu rasa al suolo anche una grande area boschiva nei pressi dell’impianto, una delle tante zone della città con una grande importanza archeologica. Tra gli elementi naturali principalmente danneggiati vi furono sicuramente il mare e il fiume, a partire dai rischi derivanti dalle trivellazioni delle piattaforme in mare per la ricerca di idrocarburi che coinvolgono ben 12 punti nel canale di Sicilia (De Seta, Dodi, 1960), senza escludere i numerosi incidenti che nel corso degli anni colpirono i pozzetti di raccolta del greggio e le petroliere al largo della spiaggia gelese, che ebbero come conseguenza grandi sversamenti di petrolio nel mare. Un esempio risale al 2013, quando il greggio, riversatosi sul canale di scarico dell’acqua marina usata per il raffreddamento di apparecchiature della fabbrica, raggiunse la foce del fiume Gela. Si parla di almeno una tonnellata di petrolio. Dalle indagini emerse che il problema era da ricondurre ad una valvola che smise improvvisamente di funzionare. A questo si sarebbe aggiunto il mancato funzionamento di una ulteriore valvola di sicurezza, nonché il difetto, nel loro complesso, delle manovre di sicurezza. Solo il fermo totale dell’impianto, avvenuto a distanza di circa un’ora dal verificarsi del problema pose fine allo sversamento. Oltre al mare e alle falde acquifere, si ebbero serie ripercussioni sulla qualità dell’aria. Tutto si riconduce ad unico elemento: il pet-coke. In sostanza questo materiale è l’ultimo prodotto delle attività di trasformazione del petrolio e viene considerato lo scarto dello scarto dell’oro nero tanto da guadagnarsi il nome di “feccia del petrolio” (De Pace, 2008). È eclatante quanto successo a Gela nel 2002. Il sito industriale rimase chiuso per qualche tempo, generando proteste e blocchi stradali da parte dei lavoratori, a causa di un provvedimento di sequestro emanato dalla procura locale a causa dell’accertamento di sversamenti di sostanze idrocarburiche nel sottosuolo, con conseguente inquinamento della falda, ma soprattutto per l’utilizzo, per l’alimentazione della centrale termoelettrica, proprio del pet-coke, i cui scarti finivano nell’atmosfera. La situazione venne sbloccata con un decreto3 che “semplicemente” definiva tale rifiuto come combustibile, autorizzandone l’utilizzo nel sito gelese. Negli anni a venire gli studi sulla pericolosità del pet-coke usato come combustile furono decine. Il principale fu senza dubbio quello condotto dall’Università di Palermo nel 2004 che sottoli-
Fig. 3 In sequenza: La ferrovia che entra nel petrolchimico al tramonto; Un pesce morto in riva al mare di fronte al lido Conchiglia, sul lungomare di Gela, chiuso per inquinamento (Foto di Massimo Berruti per L’Espresso, 2015)
nea come un fattore di rischio per la popolazione che vive nei pressi dell’impianto petrolchimico di Gela “è rappresentato dall’utilizzo del pet-coke come combustibile, nonostante contenga notoriamente inquinanti e contaminanti chimici come arsenico, molibdeno, nichel, zolfo e vanadio” (Dorru, 2012). Il Polo Petrolchimico: la crisi Sia per la questione ambientale, sia per una crescente crisi del settore petrolchimico a partire dal 20004, negli anni recenti lo stabilimento si è trovato in parte, o completamente, fermo per periodi più o meno lunghi. Il caso più eclatante è sicuramente quello accennato già precedentemente, ovvero quando nel 2002 la raffineria fu chiusa temporaneamente da parte della procura. Lo stallo si risolse con una legge ad hoc che permise l’uso del pet coke. Comunque, lo stabilimento proseguì a regime ridotto fino ad un altro importante rallentamento, quello del 2008 quando fu completata la definitiva dismissione di tutti gli impianti di tipo chimico (Giannone, 2012). Nel 2012 fu presa da Eni la decisione di fermare per un anno due linee di produzione, questo stop fu giustificato con una “contrazione della domanda di prodotti petroliferi e del surplus di capacità di raffinazione”5. Dopo una breve e limitata ripresa delle attività nel 2014 è stata decisa una nuova fermata del ciclo produttivo in seguito, fra l’altro, ad un grave incendio. Da allora gli impianti della raffineria gelese, non sono mai più tornati in funzione. Oltre agli ovvi problemi di ricollocamento degli addetti ai lavori il problema fu capire cosa fare di questa enorme industria, che ormai aveva come unica “funzione” quella di rendere unico, a modo suo, il panorama urbano della città. Il problema appena posto per il caso specifico apre in realtà uno scenario immenso, almeno in Italia. Non esiste provincia italiana che non abbia, al proprio interno, stabilimenti industriali ormai obsoleti e deserti, capannoni lasciati alle intemperie del tempo, edifici fatiscenti, cantieri edili iniziati e mai terminati. Per definizione, un sito dismesso è un sito in cui sono cessate le attività produttive. Uno sguardo al futuro: la bioraffineria In riferimento ad una raffineria di petrolio generica, i costi di smantellamento degli impianti, bonifica totale dell’area e progettazione di una soluzione sono elevatissimi. Grazie a uno studio (Guerriero, Bianchi, Cairns, Cori, 2011) di Fabrizio Bianchi, dirigente di ricerca presso l’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR (Consiglio Nazionale di Ricerca), in collaborazione con la London School of Hygiene and Tropical Medicine, sono stati calcolati a Gela costi di circa 6,6 miliardi di euro per le opere di smantellamento e bonifica. Per Gela una speranza arriva da Venezia, dove, per la prima volta al mondo, una ex raffineria petrolifera sta subendo un processo di conversione. Una conversione bio. Precisamente nella località di Marghera, è presente una delle più grandi zone industria-
4 Elettricità Futura. 2017, Ascesa e declino del petrolio: quale sarà il contributo dei vari settori? ‹https://www.elettricitafutura.it/News/Tecnologia/ Ascesa-e-declino-del-petrolio-quale-sar-il-contributo-dei-vari-settori- _472.html› 5 R. Quotidiano 2012, Eni, chiude parte della raffineria di Gela per 12 mesi. Stop per 500 dipendenti. ‹https:// www.ilfattoquotidiano. it/2012/04/17/chiude-parte-della-raffineria-gela-mesi-stop-dipendenti/205033/›
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Giuliana Di Mari Emilia Garda Omar Scicolone Alessandra Renzulli La Repubblica. 2017, La trasformazione “verde” delle raffinerie. ‹https:// www.repubblica.it/native/ ambiente/2017/05/15/ news/la_trasformazione_verde_delle_raffinerie-164699237/?refresh_ce›
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li costiere d’Europa, Porto Marghera. Si estende su una superficie complessiva di oltre 2.000 ettari e ha vissuto nell’ultimo decennio una profonda trasformazione con numerosi processi di ristrutturazione e riconversione produttiva, ma anche pesanti crisi accompagnate da dismissioni di impianti produttivi. Porto Marghera si trovò frammentata, tanto che, a partire dal 2003, numerosi impianti petrolchimici videro la chiusura (Trevisan, Zazzara (a cura di), 2017). Per rispondere alla crisi del sito industriale nel 2014 Eni, insieme all’americana Elevance Renewable Sciences, ha avviato un polo per la chimica verde all’interno del Porto, con il progetto Green Refinery, diventando così il primo esempio al mondo di riconversione di una raffineria a ciclo tradizionale a bio-refinery, in grado di produrre green diesel, green nafta e green GPL. In sintesi, questa innovativa raffineria sfrutta la tecnologia Ecofining, che consente di convertire materie prime di origine biologica non convenzionali e a basso costo (come oli vegetali, biomasse, ecc.) in prodotti finiti ad alto valore aggiunto. Questa tecnologia è sviluppata da Eni stessa e promette di poter usare le materie prime di origine biologica di prima generazione (oli vegetali in competizione con la filiera alimentare), di seconda generazione (grassi animali, oli esausti di cottura e scarti dal ciclo agricolo) o di terza generazione (oli da alghe e rifiuti). Il prodotto finale, chiamato Hydrotreated Vegetable Oil (HVO) o Green Diesel, è un diesel con qualità superiori rispetto a quello tradizionale, con eccellenti proprietà cetaniche (il numero di cetano è il valore convenzionale che misura la facilità di autoaccensione di un carburante diesel; il gasolio ha normalmente valori del numero di cetano intorno a 50-52 mentre si conta che quello del biodiesel sia maggiore di 70), elevato potere calorifico e non contenente composti aromatici ed eteroatomi (zolfo, azoto, ossigeno). Il prodotto inoltre è miscelabile con l’acqua ed è assolutamente compatibile con il diesel derivato da petrolio (che può essere aggiunto nei limiti del 30%), garantendo che il carburante ottenuto rispetti le più severe normative e abbia le migliori prestazioni dal punto di vista motoristico e ambientale. Infatti, una delle grandi promesse dei bio-carburanti è quella di inquinare meno. Prima di tutto, questo carburante alternativo è privo di metalli pesanti, zolfo e altri idrocarburi quindi è del tutto biodegradabile, se disperso nell’ambiente non provoca alcun tipo di inquinamento. Inoltre, anche le emissioni di gas serra vengono ridotte dato che la quantità di anidride carbonica che viene liberata infatti si può considerare riassorbita dalle stesse colture destinate a produrlo. I dati, dopotutto, parlano chiaro: per ogni tonnellata di biodiesel ottenuto si vanno a risparmiare 2,5 tonnellate di CO2 rispetto ad altri carburanti. Come spiegato da Eni stesso, riutilizzare una struttura esistente invece di costruire un nuovo impianto ha consentito notevoli risparmi, con una notevole riduzione delle emissioni. A Venezia si conta di arrivare a 600mila tonnellate di capacità di lavorazione di oli vegetali ed una produzione di 420mila tonnellate all’anno di green diesel. Questa soluzione, che ormai è una realtà a Venezia, sarà presto anche la realtà gelese. Con una nota del novembre 2014, Eni ha fatto sapere che punterà al rilancio del sito industriale gelese, attraverso la trasformazione in raffineria “verde”, che avviene a seguito del Protocollo d’Intesa tra Eni, il Ministero dello sviluppo economico, le organizzazioni sindacali, la Regione Sicilia, l’Amministrazione Comunale di Gela, le istituzioni e Confindustria6. Con una capacità di lavorazione di circa 750mila tonnellate per anno e una produzione di 530mila tonnellate per anno di green diesel, green nafta e green GPL, la (nuova) raffineria di Gela costituisce il secondo esempio al mondo di riconversione. Inoltre, all’interno del polo industriale verrà realizzato da Syndial, società di ser-
Fig. 4 Vista dello stabilimento dal mare (Foto di Greco, 2018)
vizi ambientali di Eni, un impianto pilota con cui si sperimenterà la tecnologia di proprietà Eni denominata Waste to oil, per la produzione di bio-olio dalla lavorazione della frazione organica dei rifiuti urbani raccolti nell’area di Gela. Per quanto riguarda il recupero territoriale e sociale, il finanziamento previsto da Eni è di trentadue milioni di euro per attuare il Programma di riqualificazione delle risorse archeologiche, turistiche e artistiche del territorio, il Programma di valorizzazione urbana Centralità e Margini, il Programma per la costituzione della Fondazione di Comunità e la Riqualificazione urbana per il decoro delle facciate degli edifici e per l’efficientamento energetico. Un primo intervento ha riguardato la ristrutturazione dell’Ex Casa Albergo del quartiere Macchitella. Questa struttura fa parte del “Progetto Macchitella Lab” che prevede la creazione di un incubatore di impresa e di spazi di co-working. L’edificio prevede un piano terra, destinato ad ospitare attività commerciali e culturali, gestione degli accessi alla struttura e servizio informazioni, il primo, secondo e terzo piano prevedono attività didattiche e di formazione, con spazi di co-working, aule didattiche, laboratori, sale riunioni e uffici amministrativi. In ultimo, Eni si è impegnata anche sul fronte ambientale con il risanamento del polo industriale, dov’è stata allestita la più grande area di bonifica a livello europeo: 38 cantieri avviati, di cui 13 già completati, in circa 30 ettari e per un investimento, negli ultimi anni, di oltre 110 milioni di euro. Nell’estate 2019 sono state organizzate le prime visite guidate all’interno della raffineria e qualche visitatore giura di aver sentito, all’interno dell’ex polo petrolchimico, addirittura il profumo dei fiori (Goldini, 2017). Conclusioni La nuova raffineria viene ufficialmente avviata il 25 settembre 2019. Sul fronte ambientale, Eni e Sergio Costa, Ministro dell’Ambiente e della tutela del Territorio e del Mare, hanno firmato un accordo in cui il ‘cane a sei zampe’ si impegna a realizzare un programma di attività di decarbonizzazione, riqualificazione e valorizzazione delle aree del sito, oltre che allo smantellamento in dieci anni di tutte le aree in disuso del sito industriale e la loro restituzione a nuove funzioni, con una prima fase, nei prossimi tre anni, di demolizione degli impianti non più funzionali alle attività per la produzione di biocarburanti, in un’area totale di oltre venti ettari.
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Arrivati alla fine di questa panoramica sul polo petrolchimico siciliano, c’è da porsi la domanda: può questo considerarsi un lieto fine? La risposta più opportuna è ‘dipende’. Dipende sostanzialmente da chi si pone la domanda: probabilmente se la si ponesse ad un qualsiasi cittadino gelese, risponderebbe che avrebbe preferito veder scomparire completamente quell’industria all’ingresso della sua città e puntare su tutt’altro, il turismo ad esempio; probabilmente gli scienziati invece risponderebbero che la bioraffineria è l’unica via percorribile per un nuovo inizio e per far sì che sull’area dello stabilimento vengano effettuati interventi di bonifica che si aspettano ormai da tempo; probabilmente dirigenti e addetti ai lavori dell’Eni affermerebbero con certezza che questa è la miglior trasformazione avvenuta a Gela negli ultimi cinquant’anni. Tanti probabilmente ma una sola certezza: che un passo avanti è stato fatto e forse non nella direzione a cui molti auspicavano. Sarà dunque il tempo a darci tutte le risposte.
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Valorizzazione e catalogazione del patrimonio culturale tramite l’utilizzo di immagini a 360° per un’esperienza turistica consapevole ed immersiva Federico Ferrari Federico Ferrari Marco Medici Pietro Becherini
Dipartimento di Architettura,Università degli Studi di Firenze.
Marco Medici
Dipartimento di Architettura,Università degli Studi di Firenze.
Pietro Becherini
Dipartimento di Architettura,Università degli Studi di Firenze.
Abstract The enhancement of cultural tourism of Franciscan sites in Umbria is among the research goals to be achieved within the F-ATLAS EU project. In this paper, the use of immersive content for such purpose will be addressed. In particular, 360° images and videos allow a “virtual accessibility” not only to physical parts of the asset but also to historical/critical visions, developing a territorial valorization to be exploited by citizens and tourists. Let’s think about what happened during the lockdown imposed by the pandemic. These technologies can be used independently for on-line/off-line and on-life/off-life applications. VR technologies, based on such immersive content, have an easy access both in the edutainment sector and in touristic applications. A large amount of existing digital content can be indeed adapted to new environments, including VR. Furthermore, the next generation of hardware will allow to improve and simplify the use of this tecnologies and allow to realize even more engaging and interactive experiences. Simulated, modified, dreamed, invisible, future or past realities represent wide and far-sighted scenarios where VR can find a huge field of application. Keywords Patrimonio Culturale, Valorizzazione, Immagini 360, Turismo, Rilievo.
Introduzione La fotografia nasce come sistema per descrivere/conservare la realtà fisica spaziale in un’oggettiva rappresentazione bidimensionale, garantendo la mancanza di una interpretazione soggettiva, insita in tutte le “tradizionali” restituzioni, dove l’artista, il disegnatore o il tecnico ha da sempre applicato un suo “filtro” nel rappresentare la realtà (Newhall, 1984). Tuttavia la fotografia si è da subito dimostrata come un efficacie mezzo di interpretazione soggettiva della realtà, dove il fotografo, sfruttando i “difetti” strutturali degli strumenti fotografici, racconta in modo estremamente personale il mondo che lo circonda, focalizzando l’attenzione su determinati elementi, definendo un soggetto nell’immagine, sfruttando ad esempio la profondità di campo, o offrendo prospettive suggestive ed irreali tramite l’utilizzo di grandangolari spinti (Arnheim et al., 1974). Comunque sia, il suo ruolo nel campo della documentazione, conservazione, studio
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Fig. 1 Alcune delle scene di test della facciata e del chiostro del Convento di S. Bartolomeo. Le immagini sono state acquisite con Ntech iStar serviranno per il virtual tour raster based.
e valorizzazione è sempre stato fondamentale, vista la capacità di riproporci la realtà con una codifica formale, visiva e semantica analoga a quella con cui i nostri occhi percepiscono lo spazio e la realtà stessa (Zannier, 1999) Uno dei limiti nei suddetti ambiti è stata la sua evidente staticità rispetto al punto di vista, in parte sopperita dal video, ma che non mantiene il carattere di immediatezza dell’immagine stessa. Il video può raccontare lo spazio nel suo continuo, nella variazione della posizione della camera e del punto di vista, introducendo comunque elementi narrativi nello spazio/tempo (Bertelli, 1996). Negli ultimi anni nuove tecnologie sono andate a colmare questa mancanza in ambito fotografico e nell’acquisizione video, fornendo nuovi strumenti alla documentazione del patrimonio culturale (Cardaci, Versaci. 2013). In un trend che vuole trovare una collocazione socio-economica alla realtà virtuale (VR), non possono non esistere infatti strumenti adeguati affinché sia possibile catturare e riprendere tutto ciò che ci circonda per poterlo portare sui computer e sui nostri smartphone (Maldonado, 2005). Grazie ai Visori VR, occhiali 3D sempre più economici, che permettono di usare lo smartphone stesso come schermo tridimensionale, le fotocamere a 360° stanno riscuotendo sempre più interesse nell’utenza tecnica ma anche non specialistica, andando a rispondere ugualmente ad una domanda ludica del mercato, in quanto facili da usare, divertenti (le immagini e i video sono utilizzabili all’interno dei Social Network più diffusi) e soprattutto in grado di catturare tutto quello che le circonda. La presenza di più ottiche che puntano in diverse direzioni permette di riprendere lo spazio o eventi da più angolazioni, riproducendo immagini o video navigabili a 360°. Diventano inoltre strumenti per la catalogazione e le documentazioni molto utili nel rilevamento di spazi lunghi e stretti, nonché per ottenere un dato quantitativo da ambienti interni come piccole stanze. Si sono evoluti anche gli hardware che hanno così
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modo di sfruttare la potenza di calcolo dei processori di livello commerciale portando attivamente a una vasta diffusione di software di ricostruzione basati su immagini e alla loro applicazione in diverse discipline, di conseguenza si stanno esplorando nuove frontiere per quanto riguarda l’uso della fotogrammetria in una vasta gamma di attività di indagine (Bertocci, et al.,2018). Senza dubbi, quando parliamo di uno strumento di cattura immagini ci riferiamo sempre ad un dispositivo che sia dotato tanto di un sensore quanto di un obiettivo; un solo obiettivo e sensore tuttavia non sono sufficienti ad ottenere una riproduzione a 360°. Relativamente alla qualità del video ottenuto, questa dipende sempre dal numero di fotogrammi che la camera è in grado di registrare per secondo (si parla in tal caso del FPS, frame per second). Al fine di poter riprendere un avvenimento da più angolazioni, le fotocamere a 360° sono dotate di una molteplicità di lenti rettilinee (da 4 a 8 tipicamente) che ovviamente punteranno in direzioni diverse, riprendendo in tal modo non solo la posizione frontale ma nelle altre “n” direzioni. Oppure in maniera più semplice ed economica, possono utilizzare solo due ottiche di tipo fisheye che coprendo ciascuna poco più di 180° di FOV riesce a realizzare l’immagine equipanoramica completa a 360°. Esiste quindi una vasta scelta tra le varie tipologie di fotocamere fisheye e a obiettivi rettilinei, con prezzi diversi, in funzione della qualità di ripresa audio/video, implementazione di HDR (High Dinamic Rage), stabilizzazione alle vibrazioni, resistenza ad agenti atmosferici e urti eventuali. (Barazzetti, et al., 2018). Gli obiettivi fisheye sono straordinari per le immagini che riescono a riprodurre, in funzione del loro ampio campo visivo, caratteristica che da solo può essere un punto di svolta nel ridurre la quantità di dati richiesti (riprese), accelerando così il processo fotografico o fotogrammetrico quando necessario. Già da molti anni sono state utilizzate proprio per la realizzazione di immagini panoramiche e a 360° in maniera ‘manuale’ con le normali reflex 35mm (Baglioni, Inglese, 2015). Per i due casi studio utilizzati per questo paper, il Convento di San Bartolomeo, sito su un colle nelle immediate vicinanze di Foligno, e l’Eremo delle Carceri sul monte Subasio, in provincia di Assisi, sono state utilizzate entrambe le tipologie di fotocamere a 360°, la Insta360 ONE X fotocamera con due obiettivi fisheye e la iSTAR Fusion della NCTech con 4 obiettivi rettilinei. Differenza di obiettivo tra lenti fisheye e lenti rettilinee L’alta probabilità di ottenere risultati incompleti, deboli e incoerenti, conseguenza della considerevole distorsione radiale risulta essere il problema principale per quanto riguarda l’utilizzo di obiettivi fisheye. Lo svantaggio principale sembra essere la difficoltà di prendere il controllo delle variabili che potrebbero invalidare il processo di fotogrammetria, la non familiare correlazione tra la proiezione fisheye e il progetto della fase di cattura; questo accade quando si cerca di utilizzare la stessa pipeline consolidata progettata per le lenti di proiezione rettilinee su un modello fisheye. (Perfetti, et al., 2018) Un obiettivo fisheye non è rettilineo: è fondamentale comprendere la differenza tra le diverse proiezioni ottiche per evitare in primo luogo una pianificazione del rilievo errata. Un FOV molto ampio e un obiettivo focale molto corto non rendono un obiettivo un fisheye: è la particolare interazione tra i due, focale e FOV, che fa la differenza. La relazione tra i due parametri, che consiste nella funzione ottica, definisce le caratteristiche della lente. Per la stessa lunghezza focale, un diverso FOV può corrispondere a
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Fig. 2 Scene utilizzate per la verifica dei font e analisi visuali, relative agli interni della chiesa del Convento di S. Bartolomeo. Immagini acquisite con Ntech iStar con HDR a 9 Frame.
ciascuna proiezione ottica disponibile. Il vantaggio principale degli obiettivi fisheye è che il raggio di luce in entrata converge su una circonferenza di un raggio più corto sul sensore rispetto a una lente rettilinea a una data lunghezza focale. La prima è la classica proiezione “pin-hole1”, detta anche proiezione prospettica (quando il mezzo in cui viaggiano i fasci di luce rimane lo stesso sia all’esterno che all’interno della camera scura), gli altri sono tutti diversi tipi di proiezioni fisheye. Va quindi sottolineato che un FOV di 180 ° è possibile solo con le proiezioni fisheye. Le proiezioni angolari equidistanti possono teoricamente raggiungere i 360 ° (a seconda sia della lunghezza focale che delle dimensioni del sensore)2. Il vantaggio di un campo visivo più ampio da solo può essere cruciale per ottenere dati gestibili, dove un approccio con lenti rettilinee sarebbe proibitivo. Questo vantaggio ha però un prezzo: le problematiche riguardanti l’uso dell’ottica fisheye sono numerose e collegate al fatto che gli “occhi di pesce” seguono un diverso tipo di proiezione ottica. Trattando invece di quelle che sono le dirette applicazioni fotogrammetriche, ci sono stati diversi studi dove sono state testate e rese note le caratteristiche delle diverse tipologie presenti, già nel primo decennio degli anni 2000. Le procedure di calibrazione sono state riportate da Abraham e Förstner (2005), Schwalbe (2005), Van den Heuvel et al. (2006) e Schneider et al. (2009), tra gli altri. Nel particolare, i risultati presentati in Strecha et al. (2015) confermano il nuovo livello di automazione ottenibile per le diverse fasi del flusso di lavoro di modellazione delle immagini: calibrazione della fotocamera, corrispondenza densa e generazione di superfici. Un tale livello di automazione per le telecamere fisheye è abbastanza simile all’automazione già ottenibile nei progetti basati su telecamere prospettiche centrali (fotocamere stenopeiche). Tuttavia va calcolato anche il rischio di ricostruzioni digitali inaffidabili e “grezze” a causa della mancanza di esperienza nei concetti di base del rilevamento, già descritto in
Proiezione rettilinea mediante un foro stenopeico. 2 L’obiettivo fisheye più ampio mai progettato, sebbene mai spinto alla produzione di massa, è una proiezione basata su equidistanza che può raggiungere un campo visivo di 270 °: Nikon 5,4 mm f / 5,6 (brevetto USA 3.524.697). 1
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Federico Ferrari Marco Medici Pietro Becherini La Ground Sampling Distance (GSD) è un concetto fondamentale per pianificare il rilievo che esprime la risoluzione, nello spazio dell’oggetto, delle immagini acquisite e, di conseguenza, la potenziale accuratezza della ricostruzione 3D. (Nocerino, 2014). 4 F-ATLAS - FrAnciscan landscapes: the observance between iTaLy, portugAl and Spain. Project Leader: Università degli Studi di Firenze (prof. Stefano Bertocci) - principal investigators: ISCTE-Instituto Universitário de Lisboa, Universitat de Barcelona, Universidade Católica Portuguesa - associate partners: ICOMOS Portugal, SIMA Srls, Regione Umbria, Direção Regional de Cultura do Centro. The JPI Cultural Heritage project has received funding from the European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme under grant agreement No 6995237 - https://www.f-atlas.eu 5 Gli eventi sismici del Centro Italia del 2016 e 2017, definiti dall’INGV sequenza sismica Amatrice-Norcia-Visso, hanno avuto inizio ad agosto 2016 con epicentri situati tra l’alta valle del Tronto, i Monti Sibillini, i Monti della Laga e i Monti dell’Alto Aterno. 3
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Nocerino et al. (2014)3, in cui gli autori hanno presentato ricostruzioni imprecise ottenute da immagini pin-hole. Nel caso di un obiettivo fisheye, la breve lunghezza focale unita a una distorsione estrema rende più complicata la modellazione 3D automatizzata. Ciò potrebbe fornire modelli 3D imprecisi senza integrità metrica. L’incorporazione del modello di fotocamera fisheye nel software commerciale è un chiaro indicatore di come gli utenti stanno acquisendo maggiore familiarità con tali proiezioni distorte, non solo per scopi fotografici ma anche per applicazioni metriche. Oggigiorno, l’elaborazione automatica delle immagini fisheye è possibile senza dover trasformarle in immagini stenopeiche. Sviluppo dei casi studio Nell’ambito del progetto Europeo F-ATLAS4, sviluppato all’interno del programma JPICH (Joint Programming Initiative in Cultural Heritage), che propone una metodologia che combina tecniche tradizionali e innovative per valutare lo stato attuale della rete mendicante francescana italo-portoghese-spagnola (il cui obiettivo consiste nel definire un “Atlante” di documentazione e conoscenza per la conservazione, protezione e promozione dei Beni Culturali), è stata eseguita una campagna preliminare di lavoro sul territorio umbro. Nel particolare, mediante le due fotocamere a 360°, la Ntech iStar e la Insta360 One X, sono stati sviluppate due campagne di acquisizione fotografica spaziale e pre-fotogrammetrica di rilievo, complementari al fine di acquisire i dati del Convento di S. Bartolomeo e dell’Eremo delle Carceri di S. Francesco. Per quanto riguarda il processo di acquisizione dell’Eremo, sito tra le grotte naturali del monte Subasio, mediante la Insta360 One X sono state acquisite singole sferiche a 360° degli ambienti interni della fabbrica, comprensivi di celle dei frati, del refettorio e dei relativi uffici, della chiesa e dei corrispettivi passaggi interni, a volte decisamente angusti, che portano all’esterno nel bosco di lecci che circonda il sito. Processo analogo è stato affrontato all’interno del Convento di S. Bartolomeo, facente parte dell’Ordine dei frati minori, appartenente alla Diocesi di Spoleto-Norcia, nella provincia Serafica dell’Umbria dove le acquisizioni sono state effettuate nella fascia perimetrale al convento, negli interni della chiesa e nel chiostro. Se nel primo caso studio il modello bi-sensore della Insta360 One x è stato utile per la copertura fotografica, in special modo per quanto concerne gli ambienti ristretti in cui è costruito l’Eremo, si può dire che in maniera contrapposta è stata utile ai fini dell’acquisizione fotografica degli spazi ampi del Convento, dove, specialmente per quanto riguarda gli esterni, il territorio limitrofo pianeggiante, ha permesso riprese continue dei prospetti della fabbrica. A complemento di quanto sopra sviluppato, l’utilizzo della Ntech iStar è stato effettuato per l’acquisizione di postazioni determinate, ritenute di maggior rilievo, all’interno della chiesa, di stile barocco e in stato di degrado a seguito degli eventi sismici del 20165, come la copia della Sacra Sindone, piuttosto che la copia identica del Santo Sepolocro di Gerusalemme del 1676, opera di Frà Lorenzo da Foligno, allora guardiano del suddetto convento. Se per la campagna fotografica mediante la Insta360 One X sono state registrate 133 foto sferiche (equirettangolare da 6.080x3.040px, Hdr a 3 frame), 2 multi sequenze e 15 minuti di video a 360°, con la Ntech iStar sono state acquisite 33 immagini sferiche (equirettangolare da 10.000x5.000px, Hdr a 9 frame). Queste saranno utilizzate per la costruzione di un Virtual Tour del complesso per applicazioni off-site, principalmente legate al web-browsing.
Sviluppo ai fini divulgativo turistici Tutti i dati acquisiti nel Preliminary Fieldwork (Rilievi tridimensionali da terra e da drone e immagini panoramiche a 360°) serviranno alla definizione della campagna di studio e documentazione dei complessi monastici ma anche come elementi strutturali per la comunicazione, valorizzazione e fruizione anche a distanza dei siti e per effettuare i test e affinare successivamente gli elementi comunicazionali da utilizzare a fini turistici e divulgativi. Infatti, questi saranno tutti strutturalmente utili alla fruizione del sito, permettendo con diverse modalità, di costruire esperienze anche immersive, in maniera on-life o off-life, che rappresentano oggi importanti traiettorie per la fruizione dei beni culturali, come ha dimostrato in questi mesi la pandemia legata al Covid19. La scelta relativa allo sviluppo e all’implementazione dei principali media di comunicazione avanzata si appoggeranno in maniera rilevante proprio sulle immagini e sui video a 360°, rispetto all’utilizzo di strategie di interazione basate sulla modellazione tridimensionale pura per la realizzazione di scenari di realtà virtuale (Parrinello et al., 2016), principalmente per questi aspetti: • il dato fotografico, è formalmente la rappresentazione di più semplice codifica, come descrittore dello spazio, per tutte le fasce di età, considerando soprattutto l’infanzia e la terza età, permettendo una più facile e immediata esperienza di fruizione/immersione; • i contenuti raster richiedono meno risorse computazionali, rendendoli più adatti all’utilizzo su mobile devices (tablet o smartphone); • una maggiore semplicità e relativa economicità nel processo di acquisizione e authoring; • la possibile fruizione in maniera immersiva/interattiva di tali contenuti anche da mobiles devices senza la necessità del HDM (head mount device); • i contenuti realizzabili sono di facile porting su altre e più comuni piattaforme digitali utilizzabili per il progetto di comunicazione, come ad esempio la fruizione del Virtual Tour direttamente dal sito Web dei complessi monastici. Si procede con l’articolazione dei contenuti didattico/informativi e al montaggio di questi sulle immagini o video a 360° in modo che le informazioni testuali e grafiche, in sovrapposizione, guidino l’utente all’interno dei siti raccontandone la storia, i luoghi e le architetture francescane. Una strategia che verrà impiegata ai fini comunicativi, per le fasce più giovani, utilizzerà i video a 360° sfruttando il potenziale di interazione degli HDM o dei mobile device in modo che gli utenti siano liberi di navigare nello spazio, ma secondo una narrazione contenutistica/spaziale definita. In questa fase di sperimentazione ci si è avvalsi del software Affinity® che permette in maniera rapida di editare le immagini bidimensionali a 360° permettendo l’inserimento delle informazioni testuali e grafiche gestendo le proiezioni equi rettangolari, per i video si opera su Final Cut®. Dalle immagini raster 360° così prodotte ed elaborate o direttamente dai video a 360° si è eseguito un montaggio video non lineare per temporizzare e definire l’entrata e l’uscita delle informazioni esplicative. Al filmato esportato in altissima risoluzione (6000x3000px) sono stati “iniettati” gli specifici metadati per rendere il filmato leggibile dai player come navigabile a 360° (Ferrari, Medici, 2017). Particolare attenzione è stata prestata alla scelta dei font e alla sua dimensione, ai tempi di “sovraimpressione” e alle lunghezze medie dei periodi per permettere a tutte le
Fig. 3 Definizione degli start point del tour virtuale dell’Eremo delle Carceri di S. Francesco. Gli ambiti di partenza sono stati il piccolo chiostro, il conventino e Grotta di San Francesco. Immagini acquisite con Insta360 One X e Hdr a 3 frame.
Fig. 4 Strutturazione del percorso di visita virtuale della parte esterna del complesso dell’Eremo delle Carceri. I temi indagati di partenza per i tours sono la Cappella di S. Maria Maddalena e le tematiche della selva e della valle. Immagini e video acquisiti con Insta360 One X.
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tipologie di utente di leggere senza sforzi o condizionamenti le informazioni. Si è anche scelto di utilizzare un vocabolario ridotto a 6000 termini per rendere accessibile e comprensibile il testo anche a bambini in età prescolare6. Conclusioni Questo filone di ricerca sviluppato all’interno del progetto F-ATLAS è volto a trovare quel meccanismo virtuoso e strutturato per cui queste tecniche di documentazione, conservazione, studio e analisi possano diventare un forte catalizzatore a supporto del patrimonio culturale (Icomos, 2008), per la sua promozione e valorizzazione e permettano un’ “accessibilità virtuale” non solo alla parte fisica del bene ma anche a visioni storico/critico (Centofanti, Brusaporci, 2013), tramite una chiara definizione di indirizzo delle traiettorie di sviluppo specifiche (Sherman, Craig, 2018) anche nell’ambito turistico e di valorizzazione territoriale. Si indagherà in maniera analitica la relazione tra diverse tipologie di utenti in rapporto alla fruizione di differenti contesti/architetture/spazi per identificare come declinare la costruzione di percorsi immersivi specifici per la valorizzazione turistica dei siti (Denard, 2019). Le esperienze e i test effettuati hanno dimostrato come l’utilizzo anche di tecnologia VR possa avere realmente e facilmente successo sia nel settore dell’Edutainment e didattico, favorendo il porting in applicazioni ludico turistiche. Una grande quantità di contenuti digitali già esistenti può essere facilmente e rapidamente adattata ai nuovi ambienti anche VR. Sicuramente la prossima generazione degli hardware anche per i dispositivi mobili consentirà di migliorare e semplificare l’utilizzo di tali dispositivi e permettere di realizzare esperienze coinvolgenti e più interattive (Maietti et al., 2020). Realtà diverse, realtà simulate, realtà modificate, realtà sognate, realtà invisibili, realtà future o passate, realtà implementate rappresentano tutte ampi e lungimiranti scenari dove la VR può riscontrare enormi applicazioni. Un futuro prossimo già realtà. Bibliografia Abraham S., Förstner W., 2005. Fish-Eye-Stereo Calibration and Epipolar Rectification.. ISPRS Journal of Photogrammetry and Remote Sensing. Vol. 59 Issue 5. pp. 278-288. Arnheim R., Pedio R. 1974. Il pensiero visivo: la percezione visiva come attività conoscitiva. Einaudi, Torino. Baglioni L., Inglese C. 2015, Il rilievo integrato come metodo di studio: il caso di San Bernardino a Urbino. «Disegnare Idee Immagini», n. 51. Bertelli P. 1996, Contro la fotografia: il linguaggio sequestrato delle scimmie e l’incendio dell’impero dei codici: teoria, pratica e messa a fuoco della scrittura fotografica. Edizioni L’Affranchi, Salorino (Mendrisio). Bertocci S., Cioli F., Bordini E. 2018, Virtual models for the valorization and promotion of the business heritage in the historic center of Florence. «DISEGNARECON», vol.11, n.21.
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Il sistema dei forti militari di tipo Rocchi: il caso del Forte Venini a Oga (SO). Una valorizzazione consapevole Carla Galanto
Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio, Politecnico di Milano. Carla Galanto Antonetta Nunziata
Antonetta Nunziata
Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio, Politecnico di Milano.
Abstract In Lombardy there are several projects for the recovery of military forts. However, these interventions have often been improvised and uncoordinated, although implemented by several professionals with a wide range of resources and skills. Furthermore, the purpose of these interventions appears unclear and the methods are often unacceptable because they do not comply with the current legislation, both cultural and technical-scientific. After the sponsorship of the European Regional Development Fund 2014-2020, in 2019 the municipality of Valdisotto (So), as owner of the property, began the process of valorisation the fortification of the twentieth century Forte Venini, located in Oga (west of Bormio ). The intervention aims at the conservation and recovery of the building, as well as economic and social growth through the development of tourism. This intervention is linked to the recovery of other defence systems on the national territory, considered cultural infrastructures where to promote collaboration between various institutions. The purpose of this study is to define a set of criteria for the approach of conscious valorisation as well as the intervention methods that could be shared at the regional level. Keywords Patrimonio XX secolo, fortificazioni, conservazione.
L’ eredità del XX secolo In Italia negli ultimi decenni del secolo scorso si è diffuso un interesse sempre maggiore per le architetture belliche. Infatti, questi manufatti sono presenti in grande quantità sul territorio, e particolare attenzione, sia in termini di salvaguardia che di valorizzazione, è stata rivolta ai castelli e fortezze posteriori al XVI secolo. Al contrario, relativamente recente è lo studio dell’altrettanto importante patrimonio fortificato, dell’Ottocento e del Novecento, composto dalle strutture militari della Prima guerra mondiale che troviamo soprattutto in ambito montano e alpino. Queste costituiscono a tutti gli effetti le ultime opere costruite a difesa del nostro territorio, infatti, con la fine della Seconda guerra mondiale vengono definitivamente abbandonate poiché diventate obsolete e incapaci di fronteggiare l’azione delle nuove armi (bombe, missili e armi nucleari) (Battaino, 2006). Da un lato, i motivi di tale crescente interesse sono la conservazione degli elementi della cultura materiale in tutte le sue parti, beni mobili e immobili, e il recupero della memoria storica – sentita soprattutto con l’avvi-
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Immagine introduttiva Complesso del Forte Venini (W. Belotti, 2009, p. 106).
cinarsi del centenario della fine della Grande Guerra celebrato nel 2018; dall’altro si è riconosciuta l’indubbia potenzialità che queste imponenti strutture hanno nel campo del turismo di massa (AAVV, 2014). Agli inizi degli anni 2000, un sempre maggiore interesse per questi edifici, legato alla necessità di individuare alternative economiche per luoghi abbandonati oltre che alle esigenze di conservazione degli stessi (Battaino, 2006), ha dato vita ad una prima attività di studio e progettazione. Ciò nonostante, a distanza di un ventennio, oggi assistiamo ancora a molte strutture in stato di abbandono, mentre solo alcune sono state recuperate, restaurate e destinate a nuove funzioni (AAVV, 2014). Va specificato, però, che la questione del come “trattenere la memoria” si pose sin dall’immediato dopoguerra sebbene il dibattito fosse solo di natura tecnica. La questione non prevedeva azioni concrete per la tutela delle strutture militari come testimonianza da preservare, probabilmente in virtù della vicinanza temporale agli episodi bellici e alle tragedie umane che questi ultimi avevano causato (Isgrò, 2019). Il primo intervento di recupero del patrimonio sulle Alpi risale agli anni Ottanta del secolo scorso, per opera del colonnello viennese Walther Schaumann, che realizzò un lungo itinerario escursionistico conosciuto come Sentiero della Pace, oltre 520 chilometri dallo Stelvio fino alla Marmolada (Isgrò, 2019). Per una regolamentazione normativa si dovrà aspettare gli inizi degli anni 2000 con la legge n. 78 del 2001 che sottolinea l’importanza documentale, architettonica e culturale delle fortificazio-
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Carla Galanto Antonetta Nunziata Gli obiettivi del progetto sono: la conservazione degli elementi della cultura materiale (forti, opere campali, beni mobili ecc.), il recupero della memoria storica, la conservazione e la tutela del territorio. Le azioni programmatiche sono: la scientificità degli interventi, la creazione di una regia operativa, la valorizzazione del volontariato e la ricerca di risorse economiche” (Campolongo, 2018).
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ni della Prima guerra mondiale, specificando che “gli interventi di alterazione delle caratteristiche materiali e storiche delle vestigia relative a entrambe le parti del conflitto sono vietati”. La legge è preceduta dagli studi guidati dalla Soprintendenza dei Beni Architettonici e del Paesaggio della Provincia di Trento, che con lungimiranza tra gli anni 1991-1996, aveva già avviato un importante studio sotto la guida del’arch. Luciano Bardelli (Campolongo, 2018). In quegli anni è stato operato un censimento del territorio trentino, e il materiale raccolto ha costituito la principale base documentale per la programmazione dei lavori di recupero culminati nel più ampio Progetto Grande Guerra1 del 2014. Indubbiamente l’amministrazione trentina, in tale campo, ha rivestito il ruolo di precursore dello studio di tali fortificazioni, proponendo per prima un approccio sistematico attraverso la redazione di un piano pilota per il loro restauro e riuso (AAVV, 2014; Campolongo, 2018). I forti della Grande Guerra Il forte nella sua “essenza materica” è testimonianza di una prassi costruttiva propria degli anni della sua realizzazione (Isgrò, 2019). Infatti, fino dagli inizi del ‘900, mentre sul piano della tecnica e dei materiali si assiste ad una rivoluzione, dal punto di vista delle strategie militari si era ancora legati alle prassi delle epoche passate. Ingegneri e strateghi militari “continuarono a concepire una guerra fatta di assedi con eserciti nemici, spiati dalle feritoie e riparati dalle mura” (Battaino, 2006), con uno schema militare sostanzialmente invariato nella forma ma trasformato nella materia. Nonostante tali opere siano state realizzate con caratteristiche che avevano il fine principale della resistenza all’urto, non per questo si assiste alla rinuncia della cura estetica quasi a voler comunicare una “reazione umanistica” alle crudeltà che la guerra imponeva (AAVV, 2014). La collocazione geografica e la disposizione architettonica dei forti risultano fondamentali ai fini tattici: le opere militari erano costruite in luoghi strategici, sfruttando le caratteristiche dei terreni rocciosi (Belotti, 2009). Il calcestruzzo sostituisce la pietra come materiale da costruzione delle fortificazioni. Le pareti e coperture dei forti vengono costruite utilizzando spessi strati di calcestruzzo o calcestruzzo armato e rivestiti in pietra locale. Le fortezze austriache, che ora si trovano in territorio italiano come il Trentino, vengono costruite con le più avanzate tecnologie costruttive dell’epoca, armando ampiamente il calcestruzzo per resistere a granate di grosso calibro. Sul territorio austriaco sono state individuate due fasi successive di attività fortificatoria: la prima, che va dal 1860 al 1904, ha visto come protagonista i forti di tipo Vogl, caratterizzati da una pianta spezzata su due o tre blocchi o ali a ferro di cavallo, una seconda dal 1905 al 1915, che vede lo sviluppo dei forti di tipo Conrad. Questi ultimi dovevano essere autonomi in modo da resistere per lungo tempo in caso di un prolungato attacco avversario. Oltre al blocco delle batterie, ci doveva essere un fortino avanzato, detto controscarpa, che doveva resistere ad un bombardamento dai cannoni da montagna e di medio calibro (Bardelli,2003). Al contrario i forti all’italiana o di tipo Rocchi, modello architettonico progettato dall’ufficiale del genio militare Enrico Rocchi dal quale prendono il nome, pur realizzati con maggior spessore delle colate di calcestruzzo, non presentano armature in ferro, ma non per questo erano meno resistenti. Infatti, fattore che nel corso del conflitto si rivelerà risolutivo per la sorte dei forti italiani era rappresentato dalla particolare messa in opera del calcestruzzo. Il calcestruzzo era colato a strati compressi, privi di armature in ferro, ma spessi per una profondità tale da assicurare che i proiettili non attraversassero la parete (Mala-
Fig. 1 Rete forti del Trentino (fonte: www. trentinograndeguerra.it).
testa, 2003).Questa particolare tecnica costruttiva ha preservato i forti dalla distruzione e dal saccheggio durante il primo dopoguerra. Un destino diverso è toccato a molte fortezze austriache, le quali sono state ridotte in rovina in modo sistematico per recuperare le grandi quantità di ferro impiegate nella loro costruzione (Battaino, 2006;Belotti, 2009; Malatesta, 2003). Dal punto di vista spaziale, solitamente costituiti da un impianto a forma rettangolare, si sviluppano generalmente su due piani. I forti di tipo Rocchi sono composti da un lungo corridoio centrale, che funge da spina ad altri corridoi, ortogonali ad esso, e che danno accesso ai locali cellule. Questi ultimi, disposti in serie uno accanto all’altro, hanno proporzioni simili. Il collegamento tra i piani avviene dal corridoio centrale per mezzo di una scala. Le coperture sono dotate di cupole in acciaio per l’alloggiamento dei cannoni, precisi anche se non molto potenti e adatti quindi solo alle battaglie ravvicinate. Questi forti sono quasi sempre circondati da fossati, controllati da postazioni di mitragliatrici poste nelle caponiere (Battaino, 2006; Malatesta, 2003). La differenza sostanziale che caratterizza il forte all’italiana e lo differenzia dai forti di tipo ottocentesco e i suoi più contemporanei forti austriaci è la presenza di corpi accessori. Il forte non è concepito come un unico edificio fortificato, ma come un sistema di opere poste in relazione tra loro. La concezione che guidava la strategia fortificatoria teorizzata dal generale Rocchi si fondava sul fatto che gli sbarramenti dovevano essere organizzati intorno a una massiccia opera principale che era fiancheggiata e supportata da una serie di opere secondarie collaterali e minori. Così facendo si riuscivano a controllare ampi spazi con un numero minore di uomini e risorse (Donini, Ruffoni, 2015). Un esempio di fortificazione all’italiana di tipo Rocchi è il complesso del Forte di Oga in Alta Valtellina, il quale presenta tutte le caratteristiche proprie di questa tipologia (fig. 1). Il caso studio: il Forte Venini di Oga Il Forte Venini, costruito tra il 1909 e il 1912, fa parte di una vasta rete difensiva alpina del fronte occidentale2 avente lo scopo di difendere il territorio italiano da eventuali attacchi austro-ungarici. Il forte rappresenta la struttura principale di un insieme più ampio composto di casermetta, alloggi e magazzino, tutti originari del primo conflit-
Tratto Livigno, laghi Cancano, Bormio, Stelvio, Gran Zebrù, Ortles, Cevedale, Pizzo San Matteo, Passo del Tonale, Adamello/Brenta, Valle delle Chiese, Riva del Garda. 3 I reticolati a filo spinato e punte di ferro si collocano nel fossato, lungo la cinta muraria del complesso architettonico (Malatesta, 2003). 4 Decreto di vincolo ex lege 1089 del 1939, ora d.l. n. 42 del 22 gennaio 2004 Codice dei beni culturali e del paesaggio, in data 09-01-1990 ID 221184. 2
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Carla Galanto Antonetta Nunziata Fig. 2 Il sistema di Fortezza, esempio di forte austriaco (fonte: www. trentinograndeguerra.it)
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to mondiale, oltre che da numerosi sistemi di difesa esterni3 atti originariamente a rallentare o rendere molto difficoltosa l’avanzata del nemico, che costituiscono il sistema difensivo complessivo. Inoltre, il complesso del forte è incluso nell’area di rispetto della riserva naturale Paluaccio di Oga, istituita nel 1983 e gestita dalla Comunità montana Alta Valtellina. L’intero complesso è sottoposto a vincolo architettonico diretto4 . Il luogo è di eccezionale bellezza paesaggistica, sia per le vedute che offre, sia per la particolarità degli ambienti costruiti. L’accesso al complesso del Forte Venini è identificabile con il ponte in pietra che permette di oltrepassare il canale di scolo della torbiera e che conduce all’interno della Riserva Naturale del Paluaccio. Il forte venne costruito con lo scopo di ostacolare il transito di truppe nemiche sulla strada dello Stelvio durante la Prima guerra mondiale. Dal 1938 al 1943 vi fu un reparto del XII settore G.A.F (Guardia alla frontiera). Nel periodo della Repubblica di Salò la caserma fu occupata da fascisti e tedeschi (Belotti, 2009; Malatesta, 2017; Papetti, 2015). Come accaduto per la maggior parte di questi edifici, alla fine della guerra, il complesso è stato abbandonato dalle truppe, ma rimase custodito sino al 1958 quando l’esercito decise di abbandonare definitivamente la struttura ritenendo esaurita la sua funzione. Il primo edificio che si incontra nell’intraprendere il classico percorso di avvicinamento al forte è il magazzino, il quale si trova ai margini dell’area di pertinenza, non lontano dalla stazione di partenza di una seggiovia. Originariamente adibito per il ricovero dei mezzi militari, dal suo abbandono fino ai giorni nostri è stato usato come deposito dei mezzi impiegati per le attività di lavorazione dei tracciati sciistici. La circostanza ha purtroppo comportato parziali alterazioni della conformazione architettonica e una mancanza di manutenzione sull’intero edificio. Il magazzino è caratterizzato da un unico grande ambiente a pianta rettangolare; la struttura portante è in calcestruzzo con copertura in capriate lignee e manto in lamiera. Ha una unica apertura che funge da ingresso. Dal magazzino si dipartono due sentieri verso il complesso militare che conducono all’edificio adibito ad alloggi e alla casermetta. La casermetta, originariamente adibita a corpo di guardia, ha un impianto rettangolare con un solo piano fuori terra. La muratura portante e la copertura piana sono in calcestruzzo. Gli interventi di restauro eseguiti nel 2003 hanno permesso il recupero della casermetta adibendola a casa della riserva, comportando però pesanti manomissioni sull’impianto spaziale originario: tramezzature interne sono state demolite per lasciare spazio a più ampie aule didattiche, lo schema dei servizi (cucina, bagni) è stato completamente stravolto in favore di uno schema contemporaneo. Di fatti è stata cancellata qualsiasi traccia materiale della vita militare svolta in quel luogo, compresi arredi fissi e altre importanti testimonianze della materia storica. Gli alloggi, invece, costituivano gli ambienti abitativi per gli ufficiali del forte. Lo stato di abbandono ha comportato un progressivo degrado della struttura sottoposta al rigido clima invernale e completamente priva di manutenzioni. Essi hanno subito, inoltre, il trafugamento di materiali al quale si è cercato di far fronte murando alcune aperture. Si tratta di una semplice struttura ad un solo piano, a pianta rettangolare, con muratura portante in blocchi in calcestruzzo e copertura a capriate lignee e manto in lamiera. La particolarità di questi ambienti è il sistema di protezione alle basse temperature, infatti, le stanze adibite a camera da letto presentano un rivestimento ligneo con funzione di coibentazione. Superati gli edifici accessori si giunge al corpo principale: il forte vigila su tutta la valle del comprensorio di Bormio. È una struttura imponente, circondata da un fossato e controllata dalle postazioni di mitragliatrice e fucileria; esso conserva integral-
mente il suo possente impianto in calcestruzzo compatto e l’originaria distribuzione degli spazi interni ed esterni. È stato oggetto di lavori di valorizzazione e recupero nel 2003, riguardanti principalmente la messa in sicurezza, l’allestimento museale interno, l’impiantistica, oltre che interventi conservativi sul trattamento delle superfici e dei degradi presenti. La struttura è costituita da due grandi blocchi rettangolari divisi da un cortile centrale: il blocco meridionale, più piccolo e a un solo piano, era destinato a spazi di servizio; il blocco a nord presenta due piani ed accoglie ambienti destinati a svolgere tutte le funzioni militari. Il forte è attrezzato con 4 cannoni calibro 120/40 R.E coperti da cupole corazzate. La localizzazione del complesso e la sopraggiunta consapevolezza che la sola struttura del forte non è tale da far pensare ad un riuso come museo di se stesso hanno condotto l’amministrazione a richiedere un progetto che vada oltre il semplice intervento di restauro conservativo e che ricerchi invece il riutilizzo del monumento come attività culturale (Giunta Regione Lombardia, 2016). Il forte è l’edificio meglio conservatosi in tutti questi anni, un destino diverso è stato riservato agli edifici accessori che hanno subito numerose trasformazioni e per le quali non è mai stato progettato un intervento di restauro o semplice manutenzione. Infatti, lo stato dei luoghi in cui vertono gli edifici accessori ha spinto l’amministrazione a domandarsi se potessero addirittura essere demoliti per lasciare spazio a nuove costruzioni o a più ampio margine di azione in termini di spesa per il forte. Come fare dunque a rispondere alla richiesta dell’amministrazione perseguendo gli obiettivi della valorizzazione e della tutela del Bene?5 Il sistema del forte. Una lettura di scala Una prima e fondamentale azione è stata lo studio della storia delle costruzioni, le loro seppur limitate trasformazioni e i restauri che si sono susseguiti nel tempo. La ricognizione bibliografica non si è limitata solo allo studio del complesso del forte in oggetto, ma anche e soprattutto al più ampio tema delle fortificazioni italiane, delle loro caratteristiche costruttive, dei loro progetti di valorizzazione. La conoscenza derivata dall’osservazione diretta di questi manufatti e quella desunta dalle fonti indirette consente di pervenire ad alcune considerazioni. La bibliografia esistente ha ampiamente affrontato il tema della valorizzazione dei forti trentini (AAVV, 2014, 2018; Ballottari & Mari, 2012; Breda, 2011; Campolongo, 2018; Gatti & Cacciaguerra, 2019; Isgrò, 2019;). I programmi di valorizzazione perseguono generalmente due obiettivi: la lettura del territorio nella quale le opere fortificate (forti, trincee, vecchi stradoni militari, cippi di confine, lapidi, scritte incise, capisaldi, paracarri ecc.) si relazionano con il paesaggio, luogo di notevole interesse naturalistico, disseminato di tracce materiali e immateriali della guerra, e la lettura di più forti militari all’interno di una rete territoriale, realizzando un percorso tra le architetture militari, luoghi d’interesse storico e culturale. “I forti fanno parte di un sistema molto complesso e articolato dal quale non possono e non devono essere disgiunti”(Isgrò, 2019). Infatti, a partire dai primi anni del ‘900 vennero realizzati in tutto il territorio allora appartenente all’impero austro-ungarico un sistema di forti offensivi, capaci di radunare un gran numero di soldati. Sui vari altipiani erano dunque realizzati organismi unitari, strutture compatte in grado di provvedere sia alla sopravvivenza delle truppe all’interno, sia alle necessità belliche, dotate di collegamento ottico con gli altri forti. Ed è proprio in virtù di questa lettura che sono state compiute le azioni di valorizzazione in Trentino. Numerosi sono gli
È in via di sviluppo il Progetto di restauro conservativo e valorizzazione del Forte di Oga. Attualmente l’intervento è ancora in fase di elaborazione al livello di progetto definitivo. Gli autori vogliono ringraziare il Prof. Ing. Lorenzo Jurina, l’arch. Alberta Chiari, l’Ing. Edoardo Oliviero Radaelli, Dott. Geologo Diego Servida, l’Ing. Dario Compagnoni, professionisti impegnati nel progetto.
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esempi a riguardo, fra questi il Circuito dei forti del Trentino, dove è stata valorizzata la rete fra 15 forti del territorio. La rete di forti contemporanea riprende dunque l’originaria progettazione a scala territoriale effettuata dall’esercito austriaco sugli altipiani trentini, la quale era basata su forti strettamente vicini e connessi fra loro. In tempi più recenti si è posta attenzione alle fortificazioni di tipo Rocchi diffuse sul territorio italiano, tra le regioni del Friuli, Veneto e Lombardia (Battaino, 2006; Meneghelli, 2019). Per quanto concerne un esempio di riuso e valorizzazione, si è scelto di sottoporre all’attenzione il caso del Forte Bernardia, costruito in Friuli fra il 1908 e il 1913. Esso, analogamente al sistema del Forte di Oga, era composto da un insieme di casematte e batterie che ne costituivano il sistema difensivo complessivo. È possibile notare come questi edifici di servizio, posti a distanze variabili dal corpo principale, hanno subito numerosi danni o demolizioni e risultano privi di coperture. L’intervento si inserisce all’interno di un progetto più ampio di valorizzazione del territorio dei monti Bernadia. Il recupero del forte ha previsto la realizzazione di uno spazio didattico e museale. Il forte insieme al sistema di caserme e batterie secondarie è collegato da una rete interna di percorsi di tipo turistico-escursionistico (Battaino, 2006). Un altro esempio di sistema fortificato di tipo Rocchi è il Forte di Montecchio a Colico (LC) in Lombardia. Pur essendo fra le fortezze della Grande Guerra meglio conservata in Europa, con cannoni e ingranaggi militari ancora funzionanti, gli edifici accessori (alloggi e magazzino) presentano uno stato di forte abbandono e degrado che ne impedisce il contemporaneo utilizzo. Numerosi sono stati gli interventi di recupero e conservazione eseguiti sul forte, ma al contrario gli edifici accessori non sono stati mai sottoposti a manutenzione o restauro. Un esempio di valorizzazione dei forti di tipo Rocchi in territorio veneto è rappresentato dall’intervento progettato dall’arch. Fiorenzo Meneghelli per il Forte di Monte Tesoro sui Monti Lessinia (VR). Il complesso è caratterizzato dal forte, le caserme, la casa del custode, il tutto inserito in una vasta area boschiva. Il restauro del Forte di Monte Tesoro, iniziato nel 2016, si sviluppa in un più ampio contesto territoriale. Dalla lettura dei progetti fino ad oggi realizzati per queste tipologie costruttive si deduce che il programma di valorizzazione è articolato in più livelli: a scala territoriale nella quale il forte si relaziona col paesaggio in cui storicamente è stato inserito; a scala locale il forte è considerato quale fulcro del sistema di edifici che compongono il complesso e con i quali si deve necessariamente confrontare per rievocarne la funzione storica. Nel primo caso per questo tipo di lettura è possibile trovare un riscontro nelle operazioni di riuso e valorizzazione, nel secondo caso, invece, non vi è sempre una la lettura del forte come insieme di edifici, di conseguenza questi ultimi non risultano valorizzati in un progetto di riuso. Dalla conoscenza alla valorizzazione consapevole Alla luce dello studio condotto si evince una differenza di scala fra gli approcci dei forti trentini e il caso dei forti di tipo Rocchi. Questi ultimi, seppur inscrivibili in un contesto di rete territoriale (AAVV, 2014; Isgrò, 2019;), vanno ancor prima conservati e valorizzati in un contesto a scala locale nell’interezza del rapporto tra le loro parti. In risposta alla proposta avanzata dall’amministrazione di una eventuale demolizione degli edifici accessori appare necessaria l’azione di conservazione di queste opere presenti nel complesso di Oga. Infatti, per i forti di tipo Rocchi bisogna preservare la loro logica di insieme come complesso in relazione con il paesaggio e non è quindi pensabile riuscire a preservare e tramandare la memoria storica di questi edifici applican-
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Fig. 3 Schema di Campo trincerato a forti corazzati del Generale Rocchi (da Marinelli, 1915 tavola LVII). Fig. 4 Piante e sezioni del Forte di Oga (da Minola e Ronco,1998 p. 110).
do una logica di conservazione solo sul forte, tralasciando gli edifici accessori e la loro interazione. Di fatto è stato proprio il mancato riconoscimento nel tempo di un’entità storica e materica di questi edifici accessori che ne ha permesso il degrado e l’abbandono, oltre che l’assenza di manutenzione, come avvenuto nei casi precedentemente illustrati. Solo attraverso la conoscenza, infatti, si può affrontare un progetto di riuso consapevole e in questo caso l’informazione cardine ruota attorno alla coscienza che si tratta di un sistema e non di un singolo edificio. Il magazzino, così come l’alloggio o come qualsiasi altro edificio periferico nel sistema del forte di tipo Rocchi evoca nella loro essenza materica, seppur talvolta in uno stato di rudere, la prassi costruttiva propria degli inizi del Novecento; ricordano le diverse logiche progettuali, figlie dell’evoluzione dell’ingegneria, dei nuovi materiali da costruzione e delle tecnologie militari. Ma soprattutto riportano alla memoria l’elemento umano al pari del forte. Nel caso specifico del Forte di Oga, tale processo non è stato riconosciuto per la casermetta, dove gli interventi di valorizzazione del 2003 hanno completamente trasformato l’impianto militare, cancellando per sempre le tracce materiche e trasformandola di fatto in un contenitore muto e inerme, perdendo la relazione con il forte. Sebbene la Soprintendenza applichi il vincolo sull’intero sistema, spiace constatare che ad oggi non sia stata avviata in modo concreto un’attività di tutela degli edifici accessori intesa non solo in termini di conservazione materica, ma anche di una possibile trasformazione. Altrettanto spiacevole è il caso degli edifici annessi al complesso Forte di Oga, i quali pur non rientrando nel sistema ne coadiuvavano la difesa. Un esempio è l’opera difensiva al Monte alle Scale, una batteria di posizioni d’artiglieria in barbetta, cioè all’aperto. Collocata allo sbocco della Valle del Braulio grazie alle sue artiglierie ha costituito il fulcro di difesa dello Stelvio (Belotti, 2009). Queste opere ad oggi non risultano vincolate e per loro non è stato ancora avviato un progetto di valorizzazione. Conclusioni L’approfondimento condotto sul complesso del forte Italiano Venini di Oga ha permesso di evidenziare alcuni aspetti dei sistemi fortificati della Prima guerra mondiale, arricchendo le considerazioni elaborate dalle fonti e dai documenti fino a questo momento. Se i sistemi fortificati dei due conflitti mondiali sono stati già ampiamente
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Carla Galanto Antonetta Nunziata Fig. 5 Forte Venini di Oga, interno (foto degi autori). Fig. 6 Pianta stato di fatto, prima dell’intervento di restauro del 2003 (elaborazione Ing. Zazzi) e pianta stato di fatto, 2019 (elaborazione Arch. A. Chiari). .
A cura della Comunità Montana Alta Valtellina (con la compartecipazione del Parco Nazionale dello Stelvio).
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indagati dalla bibliografia esistente, in particolar modo i forti trentini, per quanto concerne il territorio italiano, quelli del tipo Rocchi offrono ancora elementi meritevoli di riflessione. Nello specifico, il presente contributo ha riletto il sistema fortificato di tipo Rocchi e come questo si colloca nel paesaggio e in relazione con gli edifici accessori che sono parte integrante del sistema stesso. Infatti, questo tipo di forte adotta soluzioni architettoniche e distributive inedite rispetto ai più noti forti trentini. In particolare, il forte non è concepito come un unico edificio fortificato, ma come un sistema di opere poste in relazione tra loro (Donini & Ruffoni, 2015).“I forti non sono elementi isolati, ma fanno parte dei sistemi più ampi, perciò i progetti architettonici non si limitano al singolo manufatto ma indagano le relazioni con altri luoghi, interessando direttamente, progettualmente, l’organizzazione complessiva di una parte di territorio, permettendo di valutare il quadro di coerenza fra le parti e l’insieme, in un quadro pianificato di riferimento” (Battaino, 2006). L’analisi condotta per la valorizzazione del complesso del Forte di Oga intende costituire una nuova opportunità per sviluppare un progetto attento alle peculiarità del territorio. Per questo sono state individuate le strategie da mettere in atto per una valorizzazione consapevole. Esse sono: • la valorizzazione sinergica del patrimonio fortificato della Valtellina e la costituzione di una rete locale dei luoghi di interesse storico culturale ed ambientale con programmi comuni di valorizzazione e fruizione. Tale obiettivo trova riscontro nel Progetto d’area Grande Guerra: valorizzazione delle testimonianze e recupero manufatti (itinerari e trincee) dal DGR n. 5259 Strategia nazionale per le aree interne: Alta Valtellina6; • il riconoscimento, progettazione e valorizzazione di una rete di forti nell’arco alpino-lombardo; • il recupero del forte, quale luogo della memoria della Grande Guerra e allo stesso tempo spazio espositivo per presentare i caratteri del territorio sotto l’aspetto storico-architettonico e paesaggistico, nel rispetto della funzione che ora riveste; • il recupero degli edifici accessori. Gli alloggi, attualmente inutilizzati, diventeranno il luogo dell’ospitalità restando fedeli alla loro funzione originaria; considerata la collocazione strategica del magazzino, esso diventerà un punto di accoglienza e informazioni per chi accede al complesso del forte e ai luoghi naturalistici della Riserva Naturale del Paluaccio. • la valorizzazione della Riserva Naturale del Paluaccio che comprende l’area boschiva e la torbiera, per la ricerca e la conservazione della biodiversità.
Il successo di una valorizzazione consapevole è figlio di una sinergica attuazione delle strategie proposte, che affrontano il problema alle diverse scale coniugando tutti i segni portatori della memoria bellica presenti nel territorio. Dopo una prima ed imprescindibile fase di studio, affinché le azioni di conservazione, valorizzazione e promozione del patrimonio e del territorio stesso possano avere una concreta attuazione, risulta importante l’azione sinergica degli enti sul cui territorio insistono i siti e i manufatti in oggetto. Queste strategie rappresentano un insieme di criteri unitari e procedure di approccio, che se attuate possono essere letti come progetti pilota e fungere da indirizzo per ottimizzare gli interventi successivi.
Fig. 7 Forti presenti in Lombardia (elaborazione degli autori)
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La componente trasparente nel costruito storico: innovazione e sperimentazione Raffaella Lione
Dipartimento di Ingegneria, Università di Messina.
Fabio Minutoli
Dipartimento di Ingegneria, Università di Messina.
Luis Palmero Iglesias Raffaella Lione Fabio Minutoli Luis Palmero Iglesias
Dipartimento de Construcciones Arquitectónicas, Universitat Politecnica de Valencia.
Abstract The aim of spatial continuity between indoor and outdoor environment entrusted to the glass panes is now of great importance also in historical contexts, where the use of materials other than those of traditional construction practice is not always positively accepted by the institutional bodies responsible for the environment protection, for subjective interpretations that are not always univocal of the regulatory corpus which limits to prohibit such interventions. The paper carried out is concretized in the definition of theoretical assumptions and operational references for the project intervention, restructuring or construction from scratch, in contexts and buildings that have historical or artistic values, through the use of the glazed component in building systems and technical elements of the casing capable of restoring, transforming and adapting the building organism in functional and performance terms. Keywords Curtain wall, glass panes, sustainability.
Introduzione L’impiego della componente trasparente, le cui identità e funzioni sono certamente espresse nel rapporto tecnico-costruttivo con l’elemento di fabbrica che la comprende e che essa stessa concorre a formare, nella definizione del linguaggio architettonico dell’involucro edilizio è diventato omai nel XXI° secolo un consolidato modus operandi che certamente non può suscitare il clamore ottenuto decenni prima quando i sigillanti strutturali, i vetri a controllo energetico (a lungo definiti “speciali”, mentre ben presto divennero di uso assolutamente “normale”), i sistemi di fissaggio puntiformi - come le cosiddette rotules - scandivano l’evoluzione tecnologica del curtain wall o alcune facciate si distaccavano – materialmente, concettualmente e compositivamente - dalla struttura portante diventando vere tende, diaframmi, specchi, schermi multimediali, rappresentazioni, quadri, fino a identificarsi spesso totalmente con l’intero organismo edilizio. Molti sono stati gli edifici, e non importa se realizzati o soltanto progettati, che proprio grazie al vetro si sono imposti all’attenzione della cultura tecnica e architettonica per la loro carica innovativa. Impossibile citarli tutti, e co-
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Fig. 1 Rifacimento facciate sede direzionale della Société Privée de Gérance, Ginevra, studio Vaccarini di Pescara, 2016.
munque fuori dalle intenzioni del presente lavoro, o stabilire delle graduatorie, ma altrettanto impossibile dimenticare la suggestione provocata da alcune opere. Evitando di andare a ritroso nel tempo oltre gli anni ‘70 del secolo scorso, vengono in mente la sede della Willis Faber and Dumas Ltd a Ipswich di Norman Foster (1975); la torre del complesso della Pittsburg Plate Glass di Johnson e Burgee (‘84); la Cité des Sciences et de l’Industrie a La Villette, e in particolare la serra, di Adrien Fainsilber (‘86); la Tour de l’Infini o Tour sans Fin progettata per Parigi da Jean Nouvel con J. Marc Ibos (1989, nel 2000 fu abbandonata l’idea di realizzarla); per non parlare di molteplici organismi architettonici di Jacques Herzog e Pierre De Meuron, associatisi nell’ormai lontano ‘78, che dello studio dell’involucro hanno fatto un cardine della loro ricerca e delle trasparenze hanno fatto un riconoscibile codice stilistico. Nel vasto panorama delle soluzioni costruttive le facciate continue in alluminio/acciaio e vetro non costituiscono più una tecnologia da potersi considerare recente né di nicchia neanche per il settore delle costruzioni italiane più lento, rispetto ad altri paesi, nel recepire le innovazioni del mercato. Il ruolo di continuità spaziale fra ambiente interno ed esterno affidato alle lastre di vetro, i cui valori estetico-funzionali sono rintracciabili tanto nelle celebri residenze Farnsworth di Mies van der Rohe (1945) o Glass di Johnson (1949) quanto nei moderni sistemi Pilkington e Saint Gobain, assume oggi grande importanza anche in contesti storici, laddove l’impiego di materiali diversi da quelli della tradizionale pratica costruttiva non sempre è positivamente accettato dagli organi istituzionali, responsabili della tutela e salvaguardia del territorio, per interpretazioni soggettive non sempre univoche del corpus normativo che limita fino a vietare tali interventi. Al fine di evitare “la messa in pericolo e l’integrità delle aree e degli immobili vincolati non alterando le condizioni di ambiente e di decoro”, espressioni che si ripetono in molti provvedimenti delle Soprintendenze, le prescrizioni fissate dalle competenti autorità conducono alla quasi immodificabilità dell’involucro ai sensi del D. Lgs. 42/2004 art. 45: infatti bisogna non interferire negativamente con le visuali del centro storico limitando o sovrapponendosi in modo incongruo allo skyline della città, mantenere i caratteri tipologici e architettonici dell’impianto esistente, usare cromie coerenti con il contesto urbano e con la consuetudine edilizia dei luoghi, impiegare materiali e tecniche tradizionali. Tali indicazioni porterebbero ad un’esclusione tout court del vetro come componente per il recupero non solo per gli edifici di interesse artistico o storico secondo il D.Lgs. 490/1999 ma anche per quelli residenziali che, pur non giudicati di particolare pregio, sono collocati in un centro storico o in una zona di
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interesse paesaggistico sottoposta a un vincolo di insieme, senza dimenticare la tutela de iure su beni immobili di autore non vivente risalenti a più di 70 anni che il sopra citato D.L. 42/2004 sancisce, consentendo anche (art. 37) di estendere il vincolo (su richiesta del proprietario) ad opere di architetti contemporanei. E, come se i lacci e lacciuoli delle normative non bastassero a creare una sorta di panico in molti progettisti, ogni intervento che tenta di esprimere con forza un nuovo linguaggio solleva di solito accese polemiche, i cui echi, fortunatamente, si esauriscono prima che qualche maître à penser sia arrivato a dirimere il dubbio tra mostruosità o prodigio… Dubbio, in fondo, inutile dato che a ben riflettere l’etimo dà ai due termini più sovrapponibilità che contraddizione! Talmente dirompente nel suo rapporto con il contesto disegnato dall’antico, la Haas Haus di Hans Hollein (1990) rappresenta ancora uno degli esempi più emblematici in tal senso, avendo diviso i commenti in due fazioni opposte tra chi ne lodava l’apparente “assenza” dovuta all’effetto specchio del vetro che riflette la cattedrale viennese di S. Stefano e chi ne criticava la “presenza” di eccessivo impatto moderno nel cuore del centro storico. Sorte condivisa dalla “piramide” del Louvre (aperta nel 1989) di I. M. Pei, a dimostrazione di quanto sia realmente complesso mettere mano a monumenti o comunque a contesti storici senza appiattirsi sulle posizioni, anch’esse peraltro criticatissime, che hanno visto in ViolletLe-Duc un testardo e irriducibile paladino dei rifacimenti in stile. Il passato e la contemporaneità, la funzionalità e la progettazione, la storia e la tecnologia, alla luce delle attuali esigenze inerenti l’accessibilità, l’efficientamento energetico, il comfort termo-igrometrico, l’integrazione delle fonti di energia rinnovabile, l’innovazione, …, premialità oggi richieste dai sistema di misura della sostenibilità ai fini dell’ottenimento di un elevato livello di certificazione dell’edificio, hanno reso la componente vetrata controversa protagonista dell’intervento: basti pensare alle torri di cristallo introdotte sulla facciata settecentesca del Museo Nazionale di Arte Contemporanea Reina Sofia, agli ascensori panoramici esterni nel complesso del Vittoriano a Roma o a quelli dell’Anfiteatro Flavio, diventati manifesto della reale possibilità di integrazione del vetro in edifici e contesti storici e monumentali. L’obsolescenza tecnologica del patrimonio storico, la necessità di ampliare i contesti esistenti con nuovi manufatti, per soddisfare esigenze abitative differenti, la voglia progettuale di far convivere e integrare elementi architettonici del passato con espressioni del mondo contemporaneo, le indicazioni delle direttive nazionali ed europee sugli standard da soddisfare per il risparmio e l’efficientamento energetico, pongono le basi per importanti considerazioni su come utilizzare l’ampia gamma di soluzioni offerte dal vetro nel rispetto del binomio “memoria storica” e “sperimentazione d’avanguardia”, ma anche nel rispetto di quella “riconoscibilità” degli interventi che insieme alla loro “reversibilità” rappresenta da molti decenni l’altra bandiera, tanto predicata quanto difficile da far sventolare veramente, del restauro e dunque, inevitabilmente, del re-uso. Metodologia applicativa nell’uso della componente vetrata Al fine di delineare la metodologia che può essere adottata per una “riqualificazione trasparente” dell’involucro in contesti di particolare pregio architettonico e strorico, secondo le specifiche necessità di rispristino fisico-tecnico e di adeguamento funzionale, sono stati esaminati una serie di interventi che identificano nel vetro una componente tecnologica in grado di esprimere l’evoluzione dell’architettura attraverso nuo-
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ve valenze morfologiche e di soddisfare i livelli prestazionali richiesti dalle normative. In molte delle osservazioni da parte della Soprintendenza, su richieste di intervento su edifici storici, viene evidenziata la “assenza di un valido progetto di sintesi” tra i problemi tecnici dell’esistente e soluzioni compatibili orientate alla conservazione dell’identità culturale del manufatto, della concezione costruttiva e tipologica. L’impiego di un materiale quale il vetro può contribuire a ripristinare la destinazione d’uso di un edificio, interrotta per vetustà dello stesso o per carenze di spazi, con l’ integrazione di nuovi volumi che, nel rispetto dell’eterogeneità e della specificità delle diverse situazioni contestuali, non danneggiano l’esistente nè alterano lo spirito progettuale dell’architetto costruttore ma ne preservano e assicurano la continuità nel tempo. L’azione del “costruire sul costruito” sarà suscettibile di un importante confronto con il passato sul quale il progetto dovrà inevitabilmente incidere apportando nuovi valori, input, materiali, interressi, flussi economici, …, tutti espressi o ottenuti attraverso i linguaggi dell’antitesi, del contrasto, della riconoscibilità materica del “nuovo rispetto al vecchio”, della trasformazione. Le svariate applicazioni della componente vetrata, indipendentemente dalla tipologia edilizia e dalla destinazioni d’uso, testimoniano di come l’elemento sia in grado di garantire resistenza, sicurezza, comfort visivo/termoigrometrico/acustico, razionalizzazione del bilancio energetico dell’edificio con riduzione delle dispersioni termiche invernali e dei surriscaldamenti estivi, nuove funzionalità di auto-pulizia, privacy e produzione di energia. La nuova generazione di vetri (selettivi, fotocromici, elettrocromici, fotovoltaici, strutturali, …) supplisce a tutte le problematiche del materiale tradizionale - che si caratterizza per prestazioni di resistenza meccanica e chimica, termiche e di controllo solare non sempre all’altezza delle aspettative del progettista – offrendo un’ampia scelta di soluzioni capaci di adattarsi tanto ai diversi contesti di applicazione quanto alle mutevoli esigenze di comfort dell’utente. Se nel caso specifico del dimensionamento del vetro c’è stato un continuo aggiornarmento delle normative, le ultime in ordine cronologico sono le UNI EN 16612:2019 eUNI EN 16613:2019 [1] in vigore dal 5 dicembre 2019, per soddisfare la prestazione termica di un edificio, tramite la scelta degli opportuni valori di Ug (cfr. Tab. 1), del fattore solare g e della trasmissione luminosa TL, non esistono invece linee guida in grado di indirizzare il progettista sul colore da usare per il costruito storico. Se il serramento storico va salvaguardato non soltanto nel suo insieme ma anche nei singoli elementi costituenti (telai, vetri e ferramenta), la colorazione del vetro costituisce un’ulteriore caratteristica fondamentale indispensabile per assicurare il corretto recupero. L’errore di condizionare la scelta del colore della vetrata alla superficie opaca esistente - così come l’utilizzo di vetri in bronzo, fumè, grigio, specchio, …, con effetti trasparente, sabbiato e satinato - può costituire motivi di deprezzamento dell’intero edificio, mentre, al contrario, il colore “giusto”, qualora sia possibile determinarlo, ne esalterebbe le caratteristiche, la bellezza architettonica, e riqualificherebbe l’intero ambiente in cui la componente vetrata è inserita. L’assenza di una “legge del colore”, che valga tanto per gli intonaci quanto per gli elementi trasparenti, da applicare sulle superfici murarie degli edifici della città storica e sull’apparato architettonico, ha favorito restauri autorizzati dalle Soprintendenze (e spesso contestati dalla “piazza”) in nome di un’applicazione normativa personale, forse veicolata da un giudizio estetico, che in casi simili ha negato il rilascio dell’apposito
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Raffaella Lione Fabio Minutoli Luis Palmero Iglesias Tab. 1 Valori Ug del componente vetrato più diffusi sul mercato in funzione degli spessori e del trattamento superficiale.
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nulla osta considerando le opere realizzate “detrattori”, da intendersi “nel linguaggio tecnico, come elementi di degrado e compromissione che qualificano negativamente un paesaggio o un manufatto posto in centro storico” [2]. Per poter individuare le caratteristiche che la componente trasparente debba possedere affinchè l’interazione con il costruito storico sia in linea tanto con le disposizioni delle Soprintendenze quanto con i livelli prestazionali si è pensato di analizzare alcuni interventi le cui soluzioni rispettano almeno tre dei seguenti quattro requisiti: 1) certificazione di ecosostenibilità (BREEAM, LEED, WELL, DGNB, HQE) dell’edificio o del singolo prodotto facciata; 2) comportamento termo-igrometrico ed acustico migliore o paragonabile a quello ottenuto con altri sistemi; 3) integrazione architettonica; 4) giudizio estetico. Il soddisfacimento del primo requisito è necessario per misurare la sostenibilità dell’edificio attraverso la certificazione di tipo base, argento, oro o platino raggiunta o dei componenti delle facciate continue (vetrazioni, isolanti, sigillanti, guarnizioni, …) ai quali è stato attribuito un punteggio. Il soddisfacimento del secondo requisito equivale alla conformità dell’intervento con il decreto dei requisiti minimi D.M 26/06/15 per quanto riguarda la trasmittanza della componente vetrata e del fattore di trasmissione globale di energia solare ggl+sh, dove sono indicati i contributi forniti dal vetro (ggl) e dalle schermature (gsh); tale parametro, che dovrà essere ≤ 0.35, non è previsto in nessun’altra disposizione normativa italiana né nelle norme armonizzate del vetro. Il terzo requisito è volto a valutare la compatibilità degli gli aspetti tecnici ed estetici del vetro con quelli dell’involucro, senza compromettere le caratteristiche funzionali di entrambi. Il quarto requisito equivale al giudizio estetico espresso dagli utilizzatori.
Occorre precisare che i principali contenuti dei protocolli per la certificazione della sostenibilità del sito, la gestione efficiente delle risorse, l’ottimizzazione delle prestazioni energetiche e ambientali, il comfort degli spazi confinati, l’adozione di materiali sostenibili, l’implementazione di adeguati modelli di gestione, sono tematiche che coinvolgono l’edificio solo in modo trasversale durante l’intero ciclo di vita. Esistono nuovi sistemi di valutazione [3], come GBC Historic Building [4], (il rating system si basa sul protocollo LEED® Italia 2009 Nuove Costruzioni e Ristrutturazioni, introdotto nel 2010 dall’associazione Green Building Council Italia a seguito di una attività di traduzione linguistica e trasposizione normativa dall’originale versione LEED® New Construction & Major Renovation del 2009, sviluppata da US Green Building Council), che si occupano più specificatamente della sostenibilità degli edifici costruiti prima del 1945 (oppure dopo il 1945 qualora si riconosca un processo edilizio pre-industriale e sussistano valori storici, testimoniali o culturali riconosciuti e dimostrati) per una porzione ad almeno il 50% degli elementi tecnici esistenti [5]. In particolare GBC Historic Building™ aggiunge la tematica relativa all’intervento sostenibile in ambito conservativo, denominata “Valenza storica” (VS) che, attraverso l’individuazione di precise metodologie d’indagine e specifici principi operativi, è caratterizzata dal fine ultimo di preservare tutto ciò che è riconosciuto quale “testimonianza avente valore di civiltà”. Negli esempi illustrati le nuove configurazioni dell’organismo edilizio ottenute tramite la componente trasparente sono ravvisabili attraverso non il “contrasto materico”, ma attraverso un velo che, nell’interporsi tra la vista dell’osservatore e l’oggetto osservato, nasconde o completa l’esistente, senza stravolgerne la forma, lasciando intravedere e percepire ciò che sta sotto. L’immagine ottenuta è una “coabitazione di dimensioni temporali, presenti e passate” [6] in cui il vetro è protagonista di un’architettura diafana e mutevole. Un intervento di riconversione e ampliamento dell’esistente attraverso la componente vetrata è quello realizzato dallo studio Vaccarini di Pescara che ha riguardato il rifacimento delle facciate (Fig. 1) - sottoposte ad un vincolo strutturale per il peso degli elementi progettuali che avrebbero dovuto ancorarsi alle strutture esistenti - della sede direzionale della Société Privée de Gérance, situata in prossimità del centro storico di Ginevra (2016). L’idea è stata quella di avvolgere l’edificio esistente, in struttura portante in c.c.a., con un doppio velo trasparente: al primo è affidato il compito di soddisfare i requisiti tecnico-prestazionali mentre il secondo conferisce alla facciata un aspetto mutevole durante l’intera giornata. La chiusura verticale, a doppia pelle, è costituita da tre ordini di vetrature che occupano uno spazio compreso tra 40-80 cm: lo strato più interno, al quale è demandata la prestazione termo-igrometrica, costituisce il curtain wall a cellule prefabbricate, in cui sono inserite lastre a triplo vetro a “camera calda”; un secondo strato è un vetro che contiene gli elementi oscuranti in veneziane di alluminio microforate per una migliore protezione dell’ambiente interno dall’irraggiamento diretto; infine le lame brise soleil, in lastre di vetro serigrafato di dimensioni differenti (200, 400 e 600 mm), disposte perpendicolarmente ai prospetti. La componente vetrata favorisce una particolare percezione del paesaggio circostante che diventa elemento dello spazio interno, una “finestra aumentata”, così la definisce il progettista, su Ginevra e sulle attività che si svolgono lungo le vie limitrofe. Il vetro triplo, che costituisce il primo velo trasparente, avvolge gli otto piani dell’edifi-
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Raffaella Lione Fabio Minutoli Luis Palmero Iglesias Fig. 2 Restauro biblioteca statale Beyazit, Istanbul, studio Tabanlioglu Architects, 2018
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cio e contribuisce all’isolamento acustico e termico mentre lo schermo mutevole alla schermatura solare degli ambienti interni. È stato inoltre estremamente importante arrivare a minimizzare i pesi per gestire le circa 100 tonnellate di vetro che sono state inserite su di un edificio pre-esistente sottoposto a vincoli di carico specifici. Soddisfacimento dei requisiti di scelta: 2-3-4; è presente una certificazione ma non è stato possibile visionarla. Lo studio Tabanlioglu Architects ha firmato il progetto di restauro della Beyazit State library (Fig. 2), tra le più grandi e antiche biblioteche di Instabul, fondata nel 1884 all’interno di un edificio del XVI secolo, costruito dagli Ottomani, e custode di oltre 25.000 volumi tra libri e rari manoscritti. Gli architetti hanno restituito valore all’edificio antico attuando una serie di interventi che sottolineano le qualità dello spazio storico e ne salvaguardano lo spirito. Gli spazi dedicati all’esposizione dei volumi e le sale di lettura sono raggruppati tutti intorno al cortile e distribuiti tra i diversi piani. Nel cortile, in cui vi è ora il nuovo ingresso della biblioteca, gli architetti hanno sostituito il tetto a falda latero cementizia, realizzato negli anni ‘80 del XX secolo, con con una struttura leggera e trasparente a membrana che lascia filtrare la luce naturale diurna e permette un’atmosfera controllata. Gli elementi che più di tutti sono emblematici dell’intervento di restauro sono le quatrro grandi “scatole” di vetro nero - sopraelevate rispetto al piano di calpestio quasi per distaccarsi e non sovrapporsi e all’esistente – espressioni del linguaggio della contemporaneità in cui il materiale utilizzato si accosta alle tamponature in pietra, agli archi e alle volte dello spazio circostante, in modo da non creare disturbo. I parallelepipedi in vetro, con dimensioni compatibili a quelle delle sale che li ospitano, sono dotati di impianto di condizionamento e illuminazione perimetrale a pavimento e a soffitto, e custodiscono i manoscritti ed i volumi più rari della biblioteca risalenti all’impero ottomano. Le lastre di vetro che formano la scatola, alte circa 400 cm e larghe 90, sono in vetro temprato ed hanno sezione tale da mantenere un soddisfacente comfort nella stagione estiva (in virtù delle massive tamponature che ospitano la scatola), mentre l’alto valore di Ug = 1,8 W/m2K non assicura nella stagione invernale lo stesso livello di benessere termo-igrometrico. Durante i lavori di restauro sono state ritrovate le rovine di una antica basilica bizantina resi visibili attraverso un solaio calpestabile vetrato che consente la loro visione dall’alto nel corso degli eventi ospitati dalla biblioteca.
Fig. 3 Facciata in vetro e particolare sale da bagno della V Tower, Praga, architetto ceco Radan Hubicka, 2017.
Soddisfacimento dei requisiti di scelta: 1-3-4. Differente è la soluzione progettuale dell’architetto ceco Radan Hubička per la V Tower (Fig. 3), nel centro storico di Praga. L’edificio di trenta piani con centoventi appartamenti di lusso, uffici e aree ricreative, si divide in due torri separate che si innalzano verso l’alto aprendosi gradualmente, secondo un determinato angolo, e assumendo la forma della “V”. Gli attici hanno una superficie di 300÷400 m2 con accesso a una piscina privata sul tetto e hanno finiture pregiate come il mogano, il marmo italiano, il granito dello Zimbabwe o l’onice verde dell’Iran. Le ampie finestre delle stanze da bagno consentono una vista suggestiva sul centro storico di Praga e sul verde del parco vicino. La vetratura esterna, in tonalità neutra di 10.000 m2, è iplus EnergyN, con rivestimento low E e doppio coating (pirolitico/magnetronico) che limita la formazione di condensa, prodotta e fornita da AGC Glass. La componente vetrata garantisce un isolamento termico di 1,5 W/m²K e Ug di 1.0 W/m²K , isolamento acustico fino a 39 dB, permeabilità all’aria di classe 4 , indice di selettività 1,78 dato dal minimo fattore solare di 41% e 42%, trasmissione luminosa 73%. Queste caratteristiche hanno consentito al curtain wall di ottenere la certificazione LEED Platinum. Soddisfacimento dei requisiti di scelta: 1-2-3-4. In questi ultimi anni anche in Italia cominciano ad intravedersi esempi in cui il passato e la contemporaneità, le esigenze estetiche e la funzionalità, la storia e la tecnologia convivono in modo armonioso grazie all’impiego della componente vetrata; non tutti gli interventi hanno comunque avuto la stessa fortuna a causa di polemiche sull’uso del vetro accostato ad edifici storici. Perfettamente riuscito, per integrazione architettonica e giudizio estetico, l’intervento di conservazione dell’architetto Marco Dezzi Bardeschi sul Tempio di Augusto a Pozzuoli, con la salvaguardia dell’ingresso attraverso pannellature in vetro che ricalcano la sagomatura delle colonne e ricostruiscono percettivamente i capitelli, la forma e la posizione delle colonne (in modo integrale o parziale), grazie al processo di satinatura del vetro; l’intervento però non soddisfa i requisiti di certificazione di ecosostenibilità e di comportamento termo-igrometrico ed acustico. Esempi positivi di integrazione in un tessuto edilizio storico li troviamo anche a Messina (Fig. 4) in cui l’inserimento di nuovi volumi in vetro è risultato particolarmente efficace anche se, non sempre, la scelta dei colori è risultata delle migliori. Se l’impiego del curtain wall con pannelli a specchio, utilizzato nel Palacultura Antonello da Messina, è efficace per riproporre l’immagine dell’adiacente chiesa di S. Francesco all’Immacolata, come da volere dei progettisti, il forte impatto con l’edificato cir-
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Raffaella Lione Fabio Minutoli Luis Palmero Iglesias Fig. 4 Esempi di uso della componente vetrata nel centro storico messinese: Palacultura, edificio residenziale, ritrovo Miscela d‘Oro.
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costante, per l’eccessivo numero dei moduli a specchio, avrebbe richiesto una soluzione diversa. Positivi gli interventi realizzati in prossimità del Duomo, con la “vela” in vetro verde azzurrato e la “scatola di architettura”, progettata da Lissoni, posta in aderenza ad un edificio liberty, non toccando l’originario apparato murario. Il pannello a sestuplo vetro La migliore combinazione sinergica tra innovazione tecnologica e sapere scientifico, nel settore della componentistica di vetro - orientata a garantire elevate prestazioni nell’ambito del risparmio energetico, del comfort, delle caratteristiche prestazionali in termini di selettività della radiazione solare – è espressa dalle innovative ricerche volte ad avvicinare il comportamento termo-igrometrico del vetro a quello dei materiali opachi e massivi, pur mantenendo inalterate le caratteristiche del bene oggetto di intervento. La direttiva 2018/844/UE del 30 maggio 2018 dispone che per ottenere “un parco immobiliare decarbonizzato e ad alta efficienza” entro il 2050 sia “opportuno promuovere la ricerca e la sperimentazione di nuove soluzioni in grado di migliorare la prestazione energetica degli edifici e dei siti storici, garantendo allo stesso tempo la protezione e la conservazione del patrimonio culturale”. In questa direzione si è mossa l’azienda slovena Reflex che ha prodotto dal 2017 tamponature prefabbricate multistrato a sestuplo vetro, denominate Q-Air, con Ug 0,27 W/m2K e Ucw 0,35 W/m2K (valori calcolati per lastre di mm 1250x2500, coefficienti di scambio termico interni ed esterni rispettivamente hi = 7,7 W/(m2K) e he = 25 W/(m2K), Te = 0° C e Ti = 20° C) in grado di soddisfare i limiti normativi e favorire, in virtù della possibilità di realizzare lastre alte fino a 6 m, con conseguente riduzione del numero dei giunti, una facile integrazione col costruito. Il sistema Q-Air (Figg. 5-6) è costituito da un vetro esterno selettivo, quattro intermedi con rivestimento basso emissivo, l’ultimo dei quali trattato termicamente per favorirne la dilatazione, e uno interno [7], capaci di mantenere la temperatura del sigillante al di sotto di 80° C, con un ΔT inferiore a 40° C tra ogni singola lastra. Delle cinque camere formate dalle vetrature, le prime quattro, dal lato esterno, sono riempite con argon e collegate tra di loro con fori da 3 mm per equalizzare la pressione del gas; l’ultima camera definita open chamber, riempita di aria, è di espansione e consente la stabilizzazione della pressione con quella atmosferica attraverso una valvola di sfiato. L’espansione del gas presente nelle quattro camere, in funzione dell’irraggiamento sola-
Fig. 5 Sezione verticale del pannello a sestuplo vetro con spessore 116,3 mm: indicazione degli elementi costituenti
re, causa la flessione dell’ultimo pannello intermedio, in vetro temprato, verso quello interno così da compensare la variazione di volume del gas posto nelle adiacenti unità isolanti. Poiché lo scambio d’aria con l’atmosfera circostante è consentito nell’ultima camera, la pressione all’interno di quest’ultima non aumenterà e, pertanto, la lastra interna non subirà alcuna deformazione. Per il corretto funzionamento del pannello a sestuplo vetro è importante che il sigillante primario conservi le sue basse permeabilità a gas e vapore (è stato dimostrato sperimentalmente che il sigillante primario aumenta significativamente la permeabilità al vapore con l’aumento della temperatura: a temperatura ambiente è circa 0,1 g/(m2d) e diventa quasi 10 g/(m2d) a 80° C) e il secondario una buona integrità meccanica quando è sottoposto ad una forte variazione termica. In questo modo sono superate le problematiche riscontrate nei vetri quadrupli dove le sollecitazioni termiche a cui vengono sottoposte le lastre interne determinano le perdite della capacità isolante, delle caratteristiche di tenuta del sigillante con migrazione del vapore acqueo e formazione di condensa [8] che entrerebbe a contatto con il film di natura metallica della lastra basso emissiva vanificandone le proprietà; la presenza di un essiccante protegge i rivestimenti basso emissivi delle lastre dall’eventuale corrosione causata dal vapore acqueo. E’ possibile ottenere diversi spessori del pannello variabili con la dimensione dei vetri esterni ed interni; inoltre, in funzione di ciò che è “celato” dal velo trasparente, è possibile variare il trattamento della lastra a controllo solare esterna scegliendo valori nominali di g compresi tra 0,11 e 0,30 e corrispondenti valori di trasmissione della luce visibile (LT) tra 0,17 e 0,48, calcolati con il software 7.4 del Lawrence Berkeley National Laboratory (LBNL WINDOW). LBNL WINDOW 7.4 è stato utilizzato per determinare le temperature delle singole lastre e quelle di picco nelle condizioni di temperatura dell’ambiente esterno di 40° C e interno di 24° C con 783 W/m2 di radiazione solare per sistemi assemblati rispettivamente con 3, 4, 5, 6 lastre, distanziate di 18 mm, e interposto gas argon al 90%; i valori sono stati ottenuti per lastre di dimensioni 1250 mm × 2500 mm aventi caratteristiche diverse: (a) vetro standard low-e; (b) vetro LT low-e; (c) vetro standard low-e a controllo solare; (d) vetro LT low-e a controllo solare. Il confronto ha evidenziato che il surriscaldamento delle lastre - con caratteristiche a, b, c - non è compatibile con quello del sigillante, mentre nel caso d il surriscaldamento è inferiore a 70° C, temperatura alla quale il sigillante continua a mantenere inalterate le proprietà meccaniche e di tenuta [9-10].
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Raffaella Lione Fabio Minutoli Luis Palmero Iglesias Fig. 6 Applicazioni del sistema a sestuplo vetro Q-Air dell’azienda slovena Reflex.
Allo stato attuale il sistema Q-Air, sostenuto dal programma Horizon 2020, è stato utilizzato sia in nuovi edifici sia in restyling come quello dell’edificio Wergelandsveien 7 a Oslo, dotato, prima della ristrutturazione, di facciate a triplo vetro (Ug= 2,2 W/m2K e intelaiatura in legno) con un consumo energetico specifico di 220 kWh/m2a, e, successivamente, del sistema Q-Air (la trasmittanza termica secondo EN ISO 12631: 2012 al piano terra vale U= 0,32 W/m2K con Ug= 0,26 W/m2K, Uf= 0,80 W/m2K, Ψ = 0,016 W/mK; ai piani superiori U= 0,36 W/m2K con Ug= 0,24 W/m2K, Uf= 0,80 W/m2K, Ψ = 0,016 W/ mK) con un consumo energetico specifico di circa 110 kWh/m2a [11]. Già da qualche anno diverse aziende studiano i vacuum insulated glass, un vetrocamera sottovuoto in grado di garantire alte prestazioni di isolamento termico a fronte di spessori ridotti (3-0,2-3), ma ancora diversi sono i problemi relativi ai costi, al posizionamento dei distanziali tra le lastre, al cappuccio di protezione sottovuoto, che ne hanno rallentato il mercato. Conclusioni I requisiti cui deve rispondere la componente vetrata, elemento costruttivo che, come abbiamo cercato di mostrare, risulta essere particolarmente impegnativo dal punto di vista architettonico, spesso estremamente fragile nella sua materialità ed esposto agli agenti atmosferici, sono completamente mutati nel corso degli ultimi decenni; di pari passo è mutata, e tuttora continua a evolvere, la risposta che i materiali e i sistemi trasparenti possono fornire, grazie all’impegno della ricerca scientifica e del comparto industriale e grazie anche a quella qualità, appunto la trasparenza, che i vetri (e alcuni materiali sintetici) possiedono intrinsecamente, per cui diventa possibile “stratificare” in insiemi complessi più lastre e più intercapedini senza compromettere affatto, o facendolo in misura minima, né il passaggio della luce né la visibilità, intesa sia nel rapporto interno/esterno sia nei termini - meno ovvi – di capacità di lasciar percepire gli oggetti e le facciate retrostanti. Questa tendenza ad alto contenuto di tecnologia, che ha trasformato ciò che un tempo era una semplice lastra in un vero e proprio “pacchetto plurifunzionale”, sta portando a risultati prestazionali tali da rendere la componente trasparente paragonabile a quella opaca e in certi casi persino migliore. Tutto ciò costituisce la base tecnica di partenza per poter proporre interventi sul costruito storico capaci di raggiungere gli standard previsti dalle norme sul contenimento dei consumi e dalle varie “Agende” orientate alla sostenibilità, istanza che a pieno titolo contempla la conservazione dell’esistente. Ma, se i presupposti applicativi non mancano e la sperimentazione non si ferma, resta ancora da dibattere il proble-
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ma più delicato, perché difficile o impossibile da “parametrizzare”, della congruenza e della compatibilità tra nuovo e antico. Referenze [1] UNI EN 16612:2019 “Vetro per edilizia – Determinazione della resistenza delle lastre di vetro ai carichi laterali tramite metodi di calcolo” e UNI EN 16613:2019 “Vetro per edilizia – Vetro stratificato e vetro stratificato di sicurezza – Determinazione delle proprietà meccaniche del’intercalare”. [2] Triolo. F. 2020, Una bruttura targata soprintendenza, Ingenio online. [3] Boarin P. 2014. Sostenibilità nell’intervento sul patrimonio storico. Il ruolo dei casi studio per lo sviluppo del protocollo GBC Historic Building®. Recuperoeconservazione.it, 111, 1-5. [4] Boarin P., Guglielmino D., Zuppiroli M. 2014a. Certified sustainability for heritage buildings: development of the new rating system GBC Historic Building™. REHAB 2014. Proceedings of the International Conference on Preservation, Maintenance and Rehabilitation of Historical Buildings and Structures. March,19th-21st 2014.Tomar, Portugal. 1109-1119. [5] Sistema di verifica GBC Historic Building. Edizione 2017. [6] Alberti G., Sacchetti G., Patti E. 2009, Per una materialità trasparente, Paesaggio Urbano, Maggioli, 2, pp. 55-58. [7] Kralj A, Hajdinjak R. 2015, Multi Chamber Gas Filled Construction Panel. EP2729635 (B1). [8] Almeida M., Barbosa R., Malheiro R. 2020, Effect of Embodied Energy on Cost-Effectiveness of a Prefabricated Modular Solution on Renovation Scenarios in Social Housing in Porto, Portugal. Sustainability, 12(4), pp. 1631-1633. [9] Kralj A., Drev M., Žnidaršic M., Cerne B., Hafner J., Petter Jelled B. 2019, Investigations of 6-pane glazing: properties and possibilities. Energy and Buildings, n. 190, pp. 61-68. [10] Roos A., Polato P., Van Nijnatten P.A., Hutchins M.G., Olive F., Anderson C. 2001, Angular-dependent optical properties of low-e and solar control windows simulations versus measurements. Solar Energy, n. 69, pp. 15–26. [11] Jelle B.P. 2013, Solar radiation glazing factors for window panes, glass structures and electrochromic windows in buildings – measurement and calculation. Solar Energy Mater. Sol. Cells, n. 116, pp. 291–323.
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Tendenze e strategie nei progetti contemporanei di riuso museale: spazialità, identità urbana e narrazione negli interventi sulle preesistenze Elisabetta Matarazzo
Elisabetta Matarazzo
Dipartimento di Architettura, Università di Firenze.
Abstract The transformation of historical buildings into modern museums has always been, and continues to be, very frequent into valorization projects. Therefore this research deals with the dialogue that takes place in these operations between restoration, reuse and museography. The convergence of the conservation project and the design of new architecture within the theoretical development of the restoration, as well as the necessity of an active protection of the cultural heritage that sees in the museum institution a territorial garrison, is compared with the deep changes that have invested the museum institution in recent years. And so it has been decided to start from these changes to identify three thematic areas - related to the museum’s spatiality, to new urban functions and identity and to ways of creating an internal narration - to be reported in the study of the experiences of current museum reuse. The overall picture that is drawn, starting from the changes in the issues identified, will ultimately define the design trends in progress in this increasingly rising phenomenon and outline the lines of development. Keywords Valorization, Reuse project, Conservation and Museography, Museum reuse .
Nel dibattito architettonico contemporaneo gli ambiti di tutela e le azioni di valorizzazione sono reciprocamente legate negli interventi sulle testimonianze storiche. Al concetto di espansione edilizia si va sempre più sostituendo quello di valorizzazione del patrimonio, dato dall’insieme di misure volte a garantirne la vitalità (Cangelli, 2015). L’importanza di attribuire una funzione al costruito storico ne assicura una conservazione e una re-immissione nella realtà contemporanea; una valorizzazione che
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Fig. 1 Rijksmuseum, Amsterdam. Dopo dieci anni di interventi di consolidamento, restauro ed espansione, il museo di Amsterdam riapre i suoi battenti nel 2013: l’edificio ottocentesco è stato trasformato dallo studio spagnolo Cruz y Ortiz in un luminoso e ampio museo del XXI secolo. (foto: ©Pedro Pegenaute).
deve essere compatibile, ovvero che mette al primo posto la protezione del bene, con le sue caratteristiche fisiche, tipologiche e formali. Si tratta di progettare un nuovo ruolo per l’edificio, un processo che comporta l’azione di ‘negoziare’ tra i caratteri spaziali che il luogo possiede e le necessità da soddisfare per la nuova funzione. Conservazione e uso si basano allora sull’equilibrio tra l’oggettività dell’analisi critica sull’esistente e la soggettività del progetto di valorizzazione (Carbonara, 2011; Fiorani 2011). Il presente saggio1 analizza il tema della valorizzazione dei beni architettonici attraverso l’attribuzione di una funzione museale e, in particolare, tratteggia gli scenari attuali della tematica e la complessità progettuale della conservazione e della riproposizione funzionale. Sono state valutate le principali trasformazioni dell’istituzione museale contemporanea, riportandole successivamente nello studio dei progetti di riuso museale delle preesistenze elaborati negli ultimi anni. Sono state in questo modo individuate tre aree tematiche, che costituiscono dei ‘livelli di lettura’ di tali progetti e che descrivono le problematiche a cui le soluzioni progettuali devono dare risposta, fornendo uno strumento per interpretare criticamente le realizzazione contemporanee prescindendo dalle diversità linguistiche di ogni opera analizzata. La forma del museo - la spazialità La prima area tematica, ‘la spazialità’, si concentra sull’analisi dell’articolazione volumetrica dell’edificio storico destinato a museo, e quindi sui caratteri formali e i modi linguistici dell’accostamento del nuovo nell’antico. Il punto di partenza della riflessione che ha portato a definire quest’area deriva dal primo dato emerso dall’analisi delle sperimentazioni dell’architettura contemporanea sulla tipologia museale e che riguarda l’attenzione rivolta appunto alla forma del museo, al suo aspetto e alla sua articolazione volumetrica. L’enfatizzazione della sua immagine esteriore, sempre forte e caratterizzata plasticamente, è correlata all’introduzione nell’architettura del museo di una modalità comunicativa della forma che diventa veicolo di segni e di messaggi, attrattore del nuovo e numeroso pubblico etero-
Il presente articolo costituisce la sintesi di un ampio lavoro di ricerca confluito nella tesi di Dottorato dell’autrice del contributo: E. Matarazzo, “Antichi edifici, nuovi musei. Storia e attualità del dialogo tra Restauro, Riuso e Museografia”, tutor Prof. Maurizio De Vita, Dottorato di Ricerca in Architettura – Strutture e Restauro (XXX ciclo), Università degli Studi di Firenze.
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Elisabetta Matarazzo Fig. 2 a) Punta della Dogana, Venezia. Nella riconversione dello storico magazzino navale in Centro per l’Arte Contemporanea, l’architetto Tadao Ando inserisce una variazione che diventa fulcro del progetto: un volume in cemento armato che articola il percorso. b) Castello di Novara. La ricomposizione della rovina, affidata all’architetto Paolo Zermani, si affida all’assonanza materica e cromatica del nuovo intervento che si inserisce a completare la trama discontinua della preesistenza. (foto: ©Mauro Davoli)
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geneo che accede alla cultura (Purini et al., 2008). In un museo con un aspetto già dato e storicizzato, come appunto la circostanza in esame dei musei in edifici storici, la modalità comunicativa appena accennata riguarda l’edificio storico in sé: affidare alla forma e al volume il compito di veicolare un messaggio comporta, in questo caso, la funzione di mostrare e raccontare la storia della fabbrica, delle sue stratificazioni finanche del suo restauro. Il progetto, quindi, è chiamato a trovare il giusto equilibrio tra l’architettura esistente e il nuovo uso destinatole raggiungendo, nelle realizzazioni migliori, la convinzione che l’architettura stessa sia la prima cosa da ‘mostrare’. Per raggiungere tale equilibrio sono state individuate delle specifiche azioni di progetto descritte di seguito, progredendo da una minore ad una maggiore interazione formale tra nuova e antica architettura. La prima azione di progetto è quella dello svelare le tracce, ovvero portare alla luce la complessità delle stratificazioni che si sono sovrapposte nel tempo, renderle leggibili, individuando ed enfatizzando il processo lento e frammentario di aggregazioni e mutamenti. Dallo studio delle realizzazioni progettuali si può vedere dunque come siano operazioni fondanti del progetto la sottrazione delle superfetazioni e delle modifiche successive sulla fabbrica originaria, per consentire ai vigorosi spazi di ritrovare il loro primitivo respiro; o ancora, il rendere evidente e comprensibile una determinata lettura stratigrafica, agendo sulle superfici per mettere a nudo la fisicità delle murature esistenti e omogeneizzandole, all’occorrenza, con scialbature e velature che donano un delicato equilibrio alle superfici, necessario alle finalità espositive delle opere (Carbonara, 2011). La seconda azione di progetto si concretizza nell’introduzione di una variazione nella spazialità originaria, con conseguente differenziazione degli elementi aggiunti. L’adattamento dell’edificio al nuovo uso presuppone quasi sempre l’inserimento di elementi contemporanei necessari all’articolazione del percorso, alla comprensione dell’edificio, alla realizzazione di un tracciato unificante. Attraverso segni autonomi e linguaggi moderni, l’elemento aggiunto si fa notare nella sua veste dichiaratamente contemporanea, esibendo la volontà di non rinunciare mai al contributo critico che il suo rapporto con l’antico può fornire. Si va dall’autonomia o dissonanza del linguaggio moderno rispetto alle forme antiche all’assimilazione o consonanza delle forme, fino alla dialettica reintegrativa dell’intervento contemporaneo che si pone al servizio dell’antico (Carbonara 2011; De Vita, 2012). Le variazioni spaziali introdotte, come ad esempio calcolati scostamenti dalle superfici preesistenti, profonde incisioni, leggere variazioni di livello, passerelle di collegamento e così via, diventano il fulcro compositivo del nuovo progetto, funzionali alla
Fig. 3 a) Moderna Museet, Malmö. Il volume aggiunto si distingue per l’autonomia delle forme e dei materiali. Il cubo con la facciata in metallo arancione si presenta come una presenza segnaletica del nuovo museo. (© Åke E:Son Lindman) b) Museo Bailo, Treviso. Il ridisegno del nuovo ingresso e della piazza antistante restituisce carattere e dignità al museo rinnovato. (© Marco Zanta)
distribuzione dei percorsi e all’introduzione di elementi che garantiscano il giusto ritmo all’itinerario. Si viene in questo modo a creare una coesistenza tra diversi livelli: l’edificio storico, l’intervento contemporaneo e il museo. Una compresenza di scala architettonica e scala espositiva nella quale l’aggiunta contemporanea funge da ponte che permette di collegare, sia letteralmente che simbolicamente, la dimensione dello spazio storico con quella dell’esposizione (Fig.2-a). La terza azione individuata consiste nella ricomposizione delle lacunee delle rovine, nella quale si distingue in maniera forte il rapporto progettuale tra forma nuova e forma antica. Un dato emerge su tutti: il desiderio di ricomporre l’unitarietà perduta e di rendere comprensibile ed eloquente la rovina. La reintegrazione dell’immagine, quel rapporto dialettico tra linguaggi temporalmente distanti, “svolge il tema proprio del restauro, dell’esaltazione della preesistenza in termini di qualità figurativa e di rigore metodologico del nuovo, posto al servizio dell’antico” (Carbonara, 2011, p. 118). Un lavoro di ricomposizione dell’unitarietà perduta per rendere comprensibile ed eloquente la rovina, nel quale il nuovo è posto al servizio dell’antico e si inserisce nel contesto urbano attraverso similitudini, analogie o anche prospettive contrastanti (Fig.2-b). Giunti, raccordi, nuove strutture che ne completano le superfici e i collegamenti, elementi accostati e indipendenti seguono la strada della differenziazione dei linguaggi; una strada didattica, di commento al testo antico ma anche di necessaria articolazione di elementi contemporanei funzionali al nuovo uso (De Vita, 2015). Dai progetti analizzati durante il periodo di ricerca è emersa, a conclusione di questa area tematica, una rinnovata capacità di dialogo tra linguaggio contemporaneo e segni del passato che rende percepibile la coesistenza di diversi livelli: il manufatto antico, l’intervento contemporaneo che vi si inserisce e il museo che racconta una collezione. Sono realizzazioni che si distinguono, quindi, per la caratteristica del mostrare l’architettura, con le sue vicende e i suoi cambiamenti, grazie ad un progetto di restauro e di riuso che costituisce un nuovo brano delle vicende dell’edificio. Nuove funzioni e nuova identità - La dimensione urbana La seconda area tematica, ‘La dimensione urbana’, analizza i cambiamenti delle funzioni e del ruolo del museo nell’ambiente urbano e sociale di appartenenza. Le nuove attività di produzione e trasmissione culturale influiscono sulla domanda di spazi del museo e sulle loro caratteristiche (Criconia, 2011), a volte conquistati all’interno della preesistenza, più frequentemente come volumetrie aggiunte. Da queste premesse si è sviluppato il fenomeno dell’addizione museale, particolar-
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mente diffuso e consistente nei musei di cultura anglosassone, con la realizzazione di innesti, sovrapposizioni e addizioni più o meno autonomi dalla preesistenza, caratterizzati da contrasti materici e formali o da un’assonanza più delicata tra l’aggiunta e la fabbrica storica (Fig. 3-a). La composizione esalta il dualismo tra le parti e a volte realizza un progetto a scala più ampia che consolida il profilo urbano dell’edificio storico (Ranellucci, 2013). E’ un fenomeno che “corrisponde alla necessità di adeguare l’architettura esistente alle esigenze di una contemporaneità diffusa e articolata dalle stesse regole” , dove le nuove forme aggiunte producono una “composizione che esalta la dicotomia tra le parti, in cui sono il contrasto e il dualismo a favorire l’integrazione tra vecchio e nuovo[...]” (Prati, 2007, p. 13). La seconda riflessione scaturita deriva dall’incremento del pubblico che ogni anno frequenta i luoghi della cultura e che è determinato proprio dall’aumento e dal cambiamento delle funzioni del museo. Questa circostanza ha prodotto come conseguenza nello spazio architettonico museale un aumento dell’importanza dei luoghi deputati all’accoglienza. Si parla delle superfici degli ingressi e degli atri, che conquistano un’inedita centralità nella conformazione spaziale dell’edificio. L’ingresso diventa una nuova porta urbana, evidenziato e sottolineato da elementi contemporanei; si presenta spesso come un elemento aggiunto, un segno della presenza del museo nella città. Si tratta di volumi annessi in contrasto o in dialogo con le facciate preesistenti, podi che si aprono sulle piazze antistanti, ampie vetrate permeabili, facilmente identificabili e dal linguaggio contemporaneo e attrattivo (fig. 3-b). Analogamente lo spazio dell’atrio acquista un’importanza centrale nell’architettura del museo, poichè tale luogo è chiamato a gestire importanti flussi di visitatori e porsi allo stesso come piazza urbana. L’atrio è il punto di snodo per orientare gli utenti del museo nella scelta del percorso o nell’introduzione alla visita ma anche un luogo di aggregazione e un filtro di passaggio tra ambiente urbano ed edificio museale. Le superfici interne vengono riorganizzate per dare maggiore importanza ai luoghi dell’accoglienza e, nel caso di una spazialità conclusa come quella appunto di un edificio storico, si ricorre ad alcuni espedienti come, ad esempio, la chiusura di corti interne, che trasformano tali superfici in nuove piazze urbane aumentando lo scambio tra l’istituzione museale e la città che lo accoglie (fig. 1). Un’ulteriore riflessione emersa nell’elaborazione della seconda area tematica riguarda l’evidenza che l’identità urbana del museo non si esaurisca esclusivamente nella dimensione dei suoi confini fisici, poiché i suoi spazi e i suoi influssi si estendono al di fuori e investono la città e l’ambiente circostante. Infatti il progetto di riuso museale diventa motore di forme di riqualificazione diffusa nella quale la valorizzazione e la tutela si espandono dall’edificio singolo al suo contesto. Molti dei progetti esaminati nel percorso di ricerca partono proprio dalla volontà di integrare la struttura museale con l’intero isolato urbano, attivando processi di rigenerazione urbana in parti periferiche e degradate della città, realizzando una permeabilità tra museo e quartiere ricca di stimoli produttivi e culturali. Basti solo pensare, a titolo esemplificativo, cosa sia significato per l’ex quartiere popolare londinese di Southwark il progetto di recupero e riuso della ormai popolarissima Tate Modern, ex centrale elettrica in disuso; oppure per l’area industriale abbandonata della ex Ansaldo a Milano, la riconversione in un grande polo culturale e creativo che oggi è il Mudec.
I musei nati dal riuso di edifici o complessi preesistenti che si pongono come centri di interpretazione del territorio di appartenenza, come “presidi territoriali di tutela attiva e centri di responsabilità patrimoniale”2, costituiscono un elemento fondamentale per un nuovo modello di gestione del patrimonio culturale. Attraverso la promozione e la diffusione di attività culturali, spesso legate alla trasmissione dei fattori identitari del paesaggio e della comunità di appartenenza, attivano quei processi di rigenerazione sostenibile che comporta un’equilibrata trasformazione della città compatibile con la conservazione del patrimonio esistente. Il nuovo uso culturale diventa, così, motore di forme di riqualificazione diffusa, soprattutto quando è frutto di “una trasformazione misurata e di una stratificazione della città che avviene assicurando la qualità del progetto. A strategie di conservazione tout court va, quindi, opposta una nuova visione del rapporto tra antico e moderno trovando un equilibrio tra costruire e preservare” (D’Eramo, 2014, p.143). 3. la comunicazione - Il percorso espositivo e la narrazione Infine, come terza area tematica troviamo ‘La comunicazione. Il percorso espositivo e la narrazione’: il problema relativo alla comunicazione deriva innanzitutto dalla maggiore attenzione che i nuovi studi pongono sul visitatore (Bollo, Dal Pozzolo, 2005): il percorso museale, infatti, deve mettere il pubblico nelle condizioni di comprendere la collezione esposta ma allo stesso tempo evitare quella che viene definita fatica museale, quel disagio fisico e psicologico derivato da una quantità eccessiva di stimoli o, al contrario, di stimoli monotoni. Inoltre la trasformazione del pubblico, sempre più eterogeneo e vario, richiede percorsi e linguaggi differenziati, a seconda del livello di istruzione e di interesse, generico o specialistico. Gli strumenti comunicativi devono, quindi, rendere espliciti i contenuti museali in modo eterogeneo e, al tempo stesso, coinvolgere nella narrazione lo spazio storico del museo senza annullarlo o trasfigurarlo. Nella formulazione di questa terza area tematica, si è evidenziato come la costruzione dell’itinerario riguardi in primo luogo lo spazio: per coinvolgere attivamente il visitatore, lo spazio deve produrre una serie di stimoli composti da accorgimenti attraverso i quali il percorso, da tracciato funzionale, può diventare un vero e proprio rito dove ogni movimento del visitatore nasce come risposta ad uno stimolo offerto dallo spazio e diventa, così, una risposta partecipata, ora privata ora collettiva (Borsotti, 2007; Eco, 2016). Tali stimoli sono indizi di un possibile movimento del visitatore in modo tale da innescare la strategia psicologica della curiosità, a cui segue una conquista che porta a un’assimilazione, la quale a sua volta stimola un’acquisizione e, quindi, un apprendimento. L’individuazione nello spazio di una possibilità da espletare, ad esem-
Fig. 4 a) Neues Museum, Berlino. La continuità degli elementi espositivi all’interno del percorso guida il movimento del visitatore, che asseconda il movimento al seguito di tali elementi consequenziali. b) MUDI, Firenze. La costruzione di un percorso che si fa rito, secondo una regola chiara e una progressione concatenata di eventi spaziali. Nella sequenza della galleria che porta alla sala del Ghirlandaio, Ipostudio disegna uno spazio allungato che, grazie anche ai diaframmi laterali, tende fortemente verso l’Adorazione dei Magi esposta alla fine del percorso.
2 Come recita la Carta di Siena su Musei e paesaggi culturali approvata il 7 luglio 2014 in occasione della 24° Conferenza generale di ICOM MIlano.
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pio, ha una fortissima carica attrattiva: un varco, un collegamento che conduce in una nuova sala da scoprire, un aggetto che si apre su una vista sconosciuta, sono elementi di richiamo. Anche una continuità nel percorso influenza il nostro itinerario: in assenza di elementi di interferenza o di richiamo, il visitatore tende a seguire quell’elemento, nello spazio, che conferma una continuità nel tempo e asseconda il movimento al seguito di tali elementi consequenziali (fig. 4-a). Per introdurre un cambio di direzione e far sì che sia non imposto ma suggerito, si ricorre all’invito: per esempio affacci sinuosi, nicchie, alcove, elementi che spezzano l’eventuale rigore spaziale dando una sensazione di accoglienza e introducono una variazione nel percorso che attrae il visitatore. Ma allo stesso modo dell’invito, può indurre a farci cambiare direzione un elemento ostile, un ostacolo. Infine la presenza di una evidenza, ovvero di un elemento dominante nell’ambiente, serve a richiamare l’attenzione del visitatore. Si tratta di un elemento che prevale nel campo visivo per posizione e misura, o per contrasto dato dal colore, dalla luce o dal materiale, che può catalizzare il fruitore del museo e dirigerne i suoi movimenti (Silvestri, 2006). Sono accorgimenti minimi, discreti, autonomi che permettono la costruzione di uno spazio narrativo, come appunto un museo contemporaneo richiede, senza però stravolgerne le caratteristiche interne e, al contrario, coinvolgerle nella narrazione. La costruzione dell’itinerario espositivo investe anche la ‘dimensione temporale’, in quanto la definizione spaziale di un ambiente ne determina i tempi di percorrenza e i tempi di sosta. Ogni luogo nasconde in sé una durata: il tempo speso dal visitatore in un determinato luogo dipende dalla capacità o meno dello spazio, o dell’oggetto, di trattenere l’attenzione. Perciò il percorso deve essere cadenzato da momenti di maggiore intensità alternati a momenti di pausa; allo stesso tempo la caratterizzazione dei diversi luoghi non deve ripetersi uguale nel tempo e tale differenziazione può interessare tanto l’involucro architettonico, per forma, colore e/o materiali, quanto il sistema allestitivo, per modalità o disposizione degli apparati (Bollo, Dal Pozzolo, 2005, p.7). La differenziazione è fondamentale per rispondere alle necessità percettive dell’uomo ma necessita di una sua misura, in quanto anche il susseguirsi eccessivo di stimoli e contrasti porta alla noia. Questa misura può essere trovata nel ritmo, cioè nella costruzione di un ordine interno, di una regola sottesa, che stabilisce la successione e la frequenza di successione nel tempo delle variazioni e dei movimenti nella differenziazione del percorso (Fig. 4-b). Dove viene a mancare l’oggetto esposto, l’architettura può sostenere l’attenzione del visitatore allestendo dei dispositivi architettonici impercettibili, dei tempi di respiro che si inseriscono nel ritmo dell’esposizione alternando movimento e soste. Può essere l’attesa generata da un passaggio che ci impedisce di vedere cosa c’è oltre e ci spinge ad accelerare il passo per soddisfare la nostra curiosità; oppure un passaggio, che rappresenta un gesto che si compie in un preciso luogo, quello della soglia. Attraverso la predisposizione di questi accorgimenti architettonici, oggetto esposto e volume spaziale si integrano armonicamente e realizzano un itinerario efficace ed emozionante. La dimensione della comunicazione non può prescindere da quelli che sono i nuovi linguaggi digitali e interattivi. Per poter far dialogare pubblico, storia e beni culturali è necessario utilizzare modalità comunicative tese alla divulgazione, promozione e valorizzazione del patrimonio e, quindi, bisogna conciliare le esigenze e le tecniche di apprendimento con un siste-
ma di comunicazione basato sul coinvolgimento, l’intrattenimento e l’emozione (Basso Peressut, 2015). I sistemi multimediali consentono di integrare in modo immediato il volume costruito che ospita il museo nella narrazione dell’esposizione: schermi, proiezioni, restituzioni tridimensionali plasmano gli ambienti e lasciano al visitatore la possibilità di interagire anche con il volume che le contiene. Gli spazi architettonici vengono percepiti nella loro interezza, non più occultati o trasfigurati dalla gravità di strutture espositive costruite; i volumi esistenti diventano spazi narranti nei quali la tecnologia è strumento al servizio dell’arte e del territorio, rispettivamente linguaggio e materia da trasmettere (Cirifino et al., 2011). Inoltre, si è visto come il dato comunicativo e antropologico venga ampliato: il museo diventa documentazione, interpretazione ed esibizione delle realtà territoriali, costruendo un ponte tra la storia e la comunità di oggi (Ruggieri Tricoli, Rugino, 2005; Ruggeri Tricoli, 2005). Si realizza così il passaggio dal museo di collezione al museo di narrazione, “una delle nuove linee di lavoro in un’istituzione che sempre più si rivolge alle storie di genti, popoli e luoghi, cioè ad una complessità di letture plurime e stratificate di vicende che richiedono la messa in opera di tecniche e anche tecnologie avanzate di comunicazione ai visitatori” (Basso Peressut, 2007, p.120); uno spazio evocativo, ricco di valenze comunicative che vanno al di là della didattica museale. Le possibilità di interazione tra l’ambiente esistente e i suoi contenuti - che si espandono dalla storia dell’edificio a quella del suo territorio - sono pressoché infinite. Viene così a realizzarsi un atto di rilettura critica dei significati dell’opera esposta, che si estende ai significati dell’ambiente architettonico fino a quello urbano, culturale e sociale di riferimento. Il pubblico, in sostanza, non si limita a visitare un museo ma entra in contatto con il passato e il presente di una cultura. Conclusioni Attraverso l’analisi delle problematiche connesse all’attribuzione di una nuova funzione, nello specifico museale, ad una preesistenza e delle conseguenti risposte date dall’architettura contemporanea, si è voluto fornire uno strumento interpretativo delle tendenze progettuali in atto nelle operazioni di riuso museale. Le aree tematiche individuate descrivono le criticità e le soluzioni, senza catalogarle in una sorta di manuale del progetto del nuovo definendo regole o codici prestabiliti, poichè ogni intervento costituisce un caso a sé e necessita di soluzioni critiche e originali. Piuttosto, per poter realizzare un disegno analitico e insieme unitario adatto alla lettura della complessità che il tema oggetto della ricerca mette in campo, si è cercato di stabilire quali fossero i parametri di riferimento per descrivere le caratteristiche e le qualità del progetto di nuovo uso museale, tracciandone l’evoluzione e concentrandosi in particolar modo sulla contemporaneità. La trasversalità della tematica, composta dal dialogo tra restauro, nuova utilizzazione e museografia, e nutrita dalle problematiche derivanti dall’inserimento di un linguaggio contemporaneo nella città consolidata, ha portato a tracciare un quadro d’insieme che analizza i cambiamenti principali dell’architettura museale e della sua identità e li riporta nel contesto storico, di conservazione e riutilizzo di complessi preesistenti. La finalità della ricerca svolta è stata quella di individuare un insieme di riferimenti critici e progettuali per comprendere come si stia evolvendo il fenomeno del progetto museale sull’esistente. L’individuazione delle tre aree tematiche qui descritte permette, in tal modo, un confronto tra concetti teorici ed esperienze operative, fornen-
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do uno strumento per interpretare criticamente le realizzazione contemporanee prescindendo dalle diversità linguistiche di ogni progetto analizzato. Le risposte progettuali analizzate mostrano come sia possibile sfuggire alla logica del ‘contenitore’ e trovare invece il punto di equilibrio tra tutela e valorizzazione. Attraverso la dimensione pluriscalare del progetto di restauro (De Vita, 2015) è possibile realizzare una composizione armonica data dalla compresenza di tre termini: la storia, il museo e l’intervento contemporaneo. Due narrazioni, quella dell’edificio con la sua storia e quella del museo con la sua collezione, nelle quali la nuova architettura funge da ponte.
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Lugares entre tierra y mar. Los faros y los lugares conspicuos costeros Michele Montemurro
Dipartimento Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale, del Territorio, Edile e di Chimica, Politecnico di Bari.
Nicola La Vitola
Michele Montemurro Nicola La Vitola
Dipartimento Ingegneria Civile e Architettura, Politecnico di Bari.
. La investigación es parte del mosaico de contribuciones sobre el tema de los faros, presentada en la primera conferencia nacional celebrada en el Politécnico de Bari el 28 de septiembre de 2018, de la que nació una red interuniversitaria nacional y en 2019 comenzó el proyecto del Camino de los Faros de Puglia , con la recuperación arquitectónica y funcional de tres faros y tres torres costeras. 2 El proyecto de interés nacional “Valore Paese Fari” introduce la sdemanializzazione (acto administrativo mediante el cual se transfiere un bien del dominio público al patrimonio del Estado o de otra entidad territorial, creando las condiciones para su venta a entidades privadas) progresiva de los faros italianos. 1
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Abstract The Lighthouses are an infrastructure of land navigation arranged in a linear sequence along the coast and elements of the measurement of marine space. Extraordinary artifacts from the technical point of view, introduce a narrative and descriptive dimension of their relationship through the concept of “journey” that gives value to the relationship between infrastructure, nature and territory, becoming integral elements of the landscape; they can assume a representative value for the place through the correspondence of the architectural forms with the physical forms of the land, building the landscape and marking places of extraordinary cultural value. The objective of the research is to experiment and verify a work method that considers the recovery of lighthouses as an opportunity to build a system of places of landscape and heritage value, marked by the presence of lighthouses that must be understood as the polarity of a system. territorial. Keywords Faros, Paisaje, Mediterráneo, Arquitectura, Camino
Un camino de los faros de Italia Este ensayo se refiere a una línea de investigación1 emprendida por el Politécnico de Bari, con motivo del lanzamiento del programa nacional “Valore Paese-Fari”, con el que la Agenzia del Demanio inició un proceso progresivo de concesión de los faros italianos2, para fomentar su reutilización como estructuras dedicadas a la hospitalidad, a las tradiciones locales, a los eventos, cuyo límite era la carencía de una visión orgánica de sistema para ser una iniciativa extendida a todo el territorio nacional. El objetivo de la investigación es identificar las herramientas metodológicas y de conocimiento necesarias para la construcción de un Camino de los Faros italianos entendido como instrumento capaz de reconocer y mejorar el potencial oculto de una importante parte de la historia de la arquitectura nacional. La dimensión narrativa y descriptiva del “viaje” puede, de hecho, unir a los faros en un sistema federativo de diferentes paisajes y culturas, asumiendo un papel clave en las estrategias de renovación de los territorios “en transición” considerados como el pa-
Fig. 1 Faro de Finisterre
limpsesto3 de la naturaleza, de las tradiciones, del patrimonio arquitectónico y cultural, que las nuevas / antiguas formas de movilidad lenta pueden revelar, siguiendo trayectorias entre la costa y los territorios internos. La interescalaridad del tema en la investigación se trató en dos planos paralelos: el primero es el de la arquitectura que plantea la necesidad de controlar las intervenciones de transformación que involucran principalmente la relación entre el suelo, el edificio y el cuerpo del faro, a través del identificación de los elementos constitutivos de la forma del faro y la definición de “reglas de derivación4” apropiadas, reconociendo en el podio, en el patio y en el recinto las formas de integración compatibles con los principios constitutivos del faro. El segundo es el del paisaje en el que el faro, confrontando la forma de la tierra y las preexistencias, jerarquiza la forma del lugar a menudo estableciendo una relación narrativa con las arquitecturas individuales. El objetivo de los proyectos es experimentar una herramienta metodológica para la renovación del ciclo de vida de los faros mediante la verificación de modelos de intervención capaces de poner en valor la singularidad de sus formas, la complejidad geográfica y la articulación topográfica de cada sitio, definiendo las estrategias compositivas apropiadas para la reconstrucción del asentamiento y la identidad paisajística de los lugares individuales en analogía con los principios de la gran arquitectura de la historia capaz de interpretar sitios de gran valor geográfico. En este sentido, cada proyecto, a partir de la construcción de un sistema de conocimiento, investiga las gramáticas compositivas apropiadas de las intervenciones transformadoras para gobernar las modificaciones5 sin alterar el valor formal y topológico del faro y su paisaje.
Corboz, A., Il territorio come palinsesto. En: Casabella, Mondadori, septiembre 1985, n° 516, pp. 22-27. 4 Es decir, las formas con las que es posible integrar el edificio - faro con los volúmenes necesarios para una nueva funcionalización sin cambiar o subvertir el reconocimiento de la forma, el paisaje y el valor urbano que tienen los faros, de una manera no prescriptiva pero indicativa y, por lo tanto, tipológica. 3
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Michele Montemurro Nicola La Vitola
Desde un punto de vista formal, el faro como paradigma se declina de acuerdo con las variaciones morfológicas de la costa, construyendo diferentes unidades de paisaje legibles a través del camino, pensado como una experiencia física de la distancia, tanto topológica como topográfica, del cruce lento de la costa, el espacio entre dos faros y el uso de los lugares que definen, los espacios que emanan y la historia evocada; “conocer las cosas lleva tiempo; es como construir una amistad”6 entre nosotros y los lugares a los que llegamos a través de espacios de la naturaleza.
Fig. 2 El sistema de los Faros Italiano, posición y portada
Gregotti, V., Patrimonio e Modernizzazione en: Andriani, C., (a cargo de) Il Patrimonio e l’abitare. Roma, Donzelli Editore, 2010, pp. 53-60. 6 Kagge, E., (2018) Camminare: Un gesto sovversivo. Torino, Einaudi, P. 18 7 Schmitt, C., (2002) Terra e mare, Una riflessione sulla storia del mondo. Milano, Adelphi, p.13 8 Para Aristóteles se consideró notable y solo se tiene en cuenta lo que está terminado, es decir, provisto de contornos y resaltados marginados, la distinción del resto del mundo, ya que la perfección de cada ser se manifiesta en tener un límite, una finitud (peras) opuesto a la negatividad del beeiron, del amorfo. Aristotele, (1974) Metafisica, V, 17, 1022, in Viano, C. A., (a cargo de). La Metafisica di Aristotele. Torino, Utet. 5
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El sentido del Faro para el lugar Los faros son elementos de orientación en el mar7, que miden la línea costera (figura2) y, como tal, también centralidades costeras y territoriales de valor geográfico, paisajístico y simbólico. Son arquitecturas que habitan el límite representado por la línea costera, convirtiéndose en figuras simbólicas de la finitud de los dos elementos ubicados en el territorio fronterizo y en correspondencia con lugares visibles, de los cuales destacan su singularidad geográfica8. Su valor topológico se manifiesta en las formas de la arquitectura que corresponden a las formas de la naturaleza9, combinando la razón técnica y los valores estéticos del paisaje. El significado físico y simbólico del límite implica y relaciona la percepción visual y la imaginación10, dos acciones que se activan en la condición del faro, cuya posición marca el extremo de la tierra más allá del cual no hay nada más que le pertenece11. El reconocimiento del valor arquitectónico y paisajístico de los faros, de su vocación de acercar distancias resalta su capacidad de construir relaciones a escala del territorio, a través de su posición recíproca, visibilidad diurna y distancia, vinculada a las características formales y dimensionales de la arquitectura, la medida de la tierra en la que se asienta y su posición con respecto a la línea costera; la visibilidad nocturna vinculada al alcance de la potencia de la luz, pero también a la altura de la fuente sobre el nivel del mar. Su distancia recíproca es una función de su percepción como sistema a la distancia de la navegación: “todos los objetos que existen en la superficie de la tierra interactúan entre sí, pero cuanto más cerca están, más fuerte es la interacción y más lejos están tanto la interacción es débil12”, porque” todos los fenómenos y objetos reunidos en un espacio terrestre dado están mutuamente conectados por alguna relación, es decir, por el hecho de que un principio explicativo está contenido en la vecindad”13. La relación entre la arquitectura y la forma en que establece relaciones significativas con los elementos geográficos del territorio14 describe el significado que asume el límite entre la tierra y el mar; relaciones “emanadas” por el faro en su entorno como referencia para la definición de las gramáticas de transformación/modificación. Forma de la arquitectura y forma física de la tierra “(...) El Atlántico o el Pacífico son los mares de las distancias, el Mediterráneo es el mar de proximidad, el Adriático es el mar de la intimidad15” , dos mares representativos de un espacio interior, entidades espaciales unitarias a la escala geográfica cuya forma se define por los límites de la costa que se propaga en profundidad, que construyen “salas territoriales”16 de gran escala medible a través de la luz del faro que construye lugares “definitivos”, extremos para la unicidad geográfica y el reconocimiento desde la larga distancia del sitio.
Fig. 3 Los faros y los lugares conspicuos costeros
La evidencia y la singularidad de las formas de la tierra en la visión a larga distancia siempre han sido de gran importancia durante la navegación, como referencia territorial del espacio costero, medida de la costa y representación simbólica de un peligro surgido y sumergido. Formas geográficas como el cabo, el promontorio, la isla, la laguna, la entrada y los caracteres morfológicos como la altura y la pendiente, la estratificación geológica, dan identidad a la costa al describir una especie de fisonomía por puntos del perfil costero, con el cual los faros establecen relaciones estables, declarando la razón de sus formas. La visibilidad, la altura, el vuelco de la forma geográfica, que es la identidad de su forma en la visión desde el mar, son condiciones electivas del sitio y, junto con la base, en relación con los diferentes tipos de navegación17 y la presencia de los puertos cercanos, a la altura del faro, a la potencia y al “código” de la luz, determinan la efectividad del faro, es decir, su capacidad de comunicar de forma remota la presencia de la tierra y la identidad de los lugares costeros. La relación entre la forma de la tierra y la forma de la arquitectura permanece en el centro de la investigación y experimentación del dibujo que se ha desarrollado a partir de un análisis taxonómico comparativo extendida a los 335 faros (eliminando linternas y soportes de luz) dispuestos a lo largo de las costas italiana y fronteriza de las dos cuencas (tirrena y adriática). A través de una catalogación completa basada en el conocimiento histórico, en el levantamiento de las obras, fue posible reconocer y clasificar 6 tipos de faros en función de algunos caracteres específicos, como la forma arquitectónica, la altura, la presencia de una vivienda, su tipo y relación con el marco del faro (central, perimetral, externo), su tipo de construcción y el rango. Se analizaron y compararon los contextos naturales y antrópicos con los que se enfrentaron, identificando 8 tipos de formas geográficas (figura3) (promontorio, cabo, isla, bahía, laguna, playa, ciudad) para describir las gramáticas constitutivas de la relación entre arquitectura y sitio. Por lo tanto, reconocemos las “afinidades electivas” entre los tipos de geografía y los tipos de faros. La construcción del lugar. El espacio “emanado” del faro. Asumiendo el valor del proyecto como un instrumento de conocimiento y parte de un proceso analítico-sintético circular, capaz de reconocer críticamente el significado
El espacio en el que vivimos nunca es “neutral”. Settis, S. (2010) Paesaggio, Costituzione, Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile. Torino, Einaudi. 10 Bodei, R., (2015) Il Limite. Bologna, Il Mulino, p.16 11 Aristotele in Viano (a cargo de), ibidem 12 Tobler, W. R., (1963) Geographic Ordering of Information, in The Canadian Geographer, II, n°4. Hoy en: Farinelli, F. (2003) (a cargo de). Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino, p.53 13 Biasutti, R., Il paesaggio terrestre, (1^ ed. 1947), ed.1962, p.7, en Farinelli F., (a cargo de), ibidem, 14 Martì Aris, C., (2006) La centina e l’arco. Milano, Christian Marinotti. p.87 15 Matvejevic, P., (1991) Breviario Mediterraneo. Garzanti, Milano. 16 Purini, F., (2008) La misura italiana dell’architettura. Roma-Bari, Laterza. 17 La apertura del canal de Suez en 1868 ha incrementado la presencia de grandes barcos en el Mediterráneo que cruzan en diferentes rutas, aviando el programa de construcción del sistema de los Faros Italianos. 9
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Michele Montemurro Nicola La Vitola Fig. 4 Unidad de paisaje
Marti’Aris, Ibidem, p.87 Bartolomei, C., (2005) L’ar chitettura dei fari italiani. Mar Adriatico e Mar Ionio. Firenze, Alinea Editrice, p. 48.
de las formas a través de las transformaciones que el proyecto mismo induce, la experimentación del diseño está dirigida a reconocer las características fundamentales de los sitios para reconstruir su identidad a través de la posibilidad de que las formas de la arquitectura tengan de adquirir significado a través de su capacidad de interpretar formas naturales, asumiéndolas como matrices18 de hechos urbanos y lugares públicos en la naturaleza. Reconocidos como valores la forma de la arquitectura, la forma geográfica de los sitios, la dimensión “extrema” del paisaje, el objetivo de la experimentación del diseño era definir un método de intervención, identificando las categorías apropiadas y las gramáticas compositivas correspondientes con las cuales reconstruir la identidad de estos lugares y la forma del paisaje, en armonía con la “tradición” del territorio, con la complejidad geográfica y la articulación topográfica de los sitios. Las opciones de diseño tienen como objetivo fortalecer y caracterizar el valor paisajístico y urbano de los caso de estudios identificados a través de intervenciones diversificadas de construcción / reconstrucción / integración aplicadas sobre todo a los contextos de los faros, de acuerdo con un enfoque de asentamiento con respecto al territorio, para dar forma a lugares individuales como parte de un sistema costero unitario (figura 4). El faro establece dos tipos de relación con el contexto: uno de tipo sintáctico y fundacional con el sitio, en relación directa y topológica con la unidad de paisaje a la que pertenece y que construye juntos, asumiendo el valor de polaridad territorial para el camino cuyas formas arquitectónicas interpretan formas geográficas, matrices de lugares conspicuos; la otra paratáctica entre arquitecturas autónomas, que establece una tensión espacial de diferente grado con los otros elementos, según la distancia recíproca mayor o menor, evidenciando la estructura formal de un espacio “emanado”, un lugar de valor colectivo en la naturaleza. Los casos de estudios tienen un valor paradigmático en el sentido de que tienen como objetivo definir modelos de intervención (figura 5) los lugares conspicuos del paisaje, los lugares de lo antiguo, dando a estos elementos un nuevo significado. Cada uno es representativo de una variación del paradigma formal del faro que establece una relación específica con la forma de la tierra, con el límite entre tierra y agua y con la altura del territorio, lo que requiere que el proyecto asuma una postura cada vez diferente medida específicamente en relación con las características de los lugares individuales para definir las intervenciones más adecuadas de reutilización/reciclaje/integración, respetando el sentido de la relación del faro con su contexto geográfico inmediato.
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El límite de la tierra. El faro de Santa Maria di Leuca El faro de S. Maria di Leuca ubicado en el extremo de la península de Salento, que se extiende hacia el este para dividir dos mares, el Jónico y el Adriático, marca el final del te-
Fig. 5 Esquemas interpretativos
rritorio continental italiano, desembarco en Europa y puerta de entrada al Adriático. La singularidad del lugar está confirmada por la estratificación histórica de eventos y símbolos de los cuales hoy tenemos tres arquitecturas monumentales, el Faro, el Santuario de Santa María de Finibus Terrae y la cascada monumental del acueducto de Apulia, cada una construida en la condición topográfica más adecuada para mejorar el significado espacial y simbólico del conjunto naturaleza-arquitectura. La parte superior de “Punta Meliso” se produce en una terraza desde la cual el territorio gira hacia el mar; en los lados este y sur, los tres monumentos se colocan paratácticamente: El faro de gran altura19, un símbolo del fin / comienzo del continente, centinela del Adriático, se encuentra en el límite entre la terraza natural y la pendiente que desciende hacia el mar, mirando hacia el este; la iglesia de Santa María de Finibus Terrae que se abre hacia el sur con un gran cementerio orientado hacia Leuca y limita al este con un pórtico arqueado más allá del cual se encuentra el faro; la fuente puesta al extremo del acueducto de Apulia està marcada por la presencia de las ruinas de la columna Scarciglia, al oeste del puerto de Leuca. Cada una de estas arquitecturas adquiere un valor formal autónomo a través de la relación entre su posición y las características topológicas del sitio, como la altura, la orientación y la conformación, pero establece una tensión espacial con los demás al asumir la punta como un lugar de valor colectivo en la naturaleza. El proyecto reconoce y asume esta condición del faro, dando forma y evidencia a la relación entre la arquitectura y el suelo a través de la construcción de una gran base habitada orientada hacia el mar, mejorando el valor topológico del faro a través de la orientación y el lugar, a través de caminos de conexión entre las arquitecturas aisladas y icónicas que definen el espacio de la punta (figuras 6 y 7). La base del faro enfatiza la forma del podio como una forma arquetípica interpretativa de la acción de fundación y nivelación, con el fin de completar la arquitectura de acuerdo con una gramática compositiva que, mirando la memoria de la arquitectura griega clásica, se expresa a través de la representación del acto de fundación, una condición de vínculo con la naturaleza.
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Bartolomei, C., Ibidem, p. 49
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Michele Montemurro Nicola La Vitola Figg. 6, 7 Proyecto para el faro de Santa Maria di Leuca
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Bartolomei, C., Ibidem, p. 48
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La naturaleza como soporte. El faro de Corfú El faro de Punta Sideros se encuentra en la cima de una pequeña isla fortificada frente a la ciudad que se extiende hacia el canal marítimo entre Grecia y Albania, fuera de la explanada de Corfú a la que se conecta con un puente, a lo largo de un eje oeste-este frente a la ciudad de Ksamil, en la costa albanesa. Es un faro de torre baja20, que consiste en una linterna modesta que utiliza toda la isla rocosa como base. La naturaleza, por lo tanto, es un elemento constitutivo de su entidad porque el sustrato natural no está separado de la arquitectura sino que se integra con él mediante la construcción de un paisaje unitario. La compleja morfología de la isla, tanto natural como artificial, ha asumido su configuración actual como una estratificación de intervenciones a lo largo del tiempo que han dado forma y evidencia a sus partes constituyentes que definen intervenciones admirables de integración interpretativa entre las formas de la arquitectura y las formas de la naturaleza. Los tres muros históricos rodean la isla en tres niveles diferentes, estrechándose gradualmente hacia la parte superior: el primero protege la parte inferior definiendo el límite hacia el mar; el segundo “soporta” el primer escalón de la isla correspondiente a las partes planas y habitables que consisten en una meseta y terrazas alrededor de la isla y hacia el exterior; la tercera parte delimita las dos colinas naturales alineadas en la parte apical de la isla, un lugar de observación y señalización a gran distancia, en uno de los cuales se encuentra el faro. El proyecto aborda la isla y el faro como una unidad, tomando como objetivo la reconstrucción del sistema de fructificación de la isla, desarrollando tres temas: el primero es el de la reconstrucción de esas arquitecturas / ruinas ubicadas en los lugares conspicuos de la isla, coincidiendo con espacios de valor colectivo; el segundo es construir la continuidad de los caminos que se elevan desde el mar hasta la cima de la colina, conectando narrativamente los lugares más importantes; el tercer tema es la reutilización de “espacios en la tierra”, lugares hipogeos que pertenecen al material del que está hecha la isla (figuras 8 y 9). Los elementos del camino, como escaleras, rampas, terrazas, dan forma visible a la conexión de los espacios y construyen un paseo arquitectónico como una secuencia de miradores que miran hacia el interior de los espacios urbanos o hacia el exterior del mar, mostrando la historia del aísla a través de su viaje, pero también exaltan los caracteres morfológicos. Medida del espacio del agua. El faro de Porto Ponte Romano El faro de Porto Ponte Romano se coloca para proteger el canal entre la isla de Sant’Antioco y la costa sarda, en un contexto de laguna que consiste en una alternancia de tierras bajas emergentes, llenas dispuestas en la boca sur del canal, en el que corre la caretera con el puente que conecta la Cerdeña y la isla de Sant’Antioco. Es un faro de torre mediana21, que marca las fauces de entrada al canal desde el Golfo de Palmas, señalando los bajos fondos arenosos y es parte de un contexto de edificios industriales en desuso pertenecientes a ese tipo de Portalidad generalizada en ese espacio marino. Cada una de estas arquitecturas adquiere un valor formal y plástico de acuerdo con la relación que establece con los diferentes tipos de base y los caracteres topológicos (altura, orientación y conformación) o topográficos (tipo de suelo, altura en el agua) del sitio. Existe una dialéctica evidente entre la horizontalidad del perfil marino y costero y la verticalidad de los elementos altos (faro y silo) que constituyen una centralidad en el fondo del golfo.
El faro está fundado casi al mismo nivel del mar y parece pertenecerle más que a la tierra; introduce el espacio dilatado del canal pero medido dentro de las orillas de la isla y la costa. Su forma, que consiste en el edificio alto que soporta una linterna baja, junto con los silos construye un grupo de elementos verticales polares, medidas visuales y destinos de orientación en el espacio ancho y horizontal del canal, pero también una referencia espacial, a la escala del paisaje capaz de centrar la atención en las características naturales del sitio, como la continuidad entre la tierra y el mar, la forma mudable de la tierra, la declinación de los humedales (laguna, garriga, salinas, etc.), inducida por las mareas y las corrientes. El canal se toma como “sala territorial” y espacio unitario, reconociendo su valor interno definido por las orillas. El proyecto recoge estas pistas dando forma a este espacio dilatado mediante la construcción de un sistema de relaciones con el paisaje del agua, natural (islas, bancos, costa, marismas) y construido (puertos, lugares de aterrizaje, torres, infraestructuras activo y en desuso) articulado en dos niveles: el del suelo, a través de intervenciones de modelado (excavación, puenteo, renaturalización), construcción de estructuras “duras” como áreas portuarias, cuencas, pero también “ligeras” como pasarelas, muelles belvedere (figuras 10 y 11); acciones que permiten relaciones paratácticas entre las formas de las arquitecturas autónomas que definen el interior de la cuenca, Son intervenciones que diseñan el campo dentro del cual se organizan las arquitecturas individuales, construyendo conexiones y elementos de fructificación y experiencia de la naturaleza (observación, baño, caminata) dentro de la condición de la laguna. Las arquitecturas individuales se organizan como “centinelas” puntualmente en las orillas interiores del área de la laguna y en la costa urbana de S. Antioco, señalando los cabos y entrando en tensión entre sí a través de relaciones visuales que recomponen las diferentes partes de la cuenca. Centinelas del archipiélago. El faro de Capo d’Orso El faro de Cabo d’Orso se encuentra en la costa norte de Cerdeña, más allá de Palau, al pie de un promontorio rocoso que domina el archipiélago de La Maddalena, cuyo valor estratégico se evidencia por la presencia de antiguas estructuras militares balísticas y fortificadas ahora en desuso. Es un faro, de torre baja22, aislado que se separa del edificio, identificando con su presencia el peligro del punto bajo en el que se asienta y que se proyecta plásticamente como una figura abstracta contra el fondo del muro rocoso del Capo d’Orso. La forma natural “fuerte” del promontorio, el perfil de su límite con el mar y las ruinas que realzan sus elementos orográficos y topográficos contribuyen a identificar un lugar unitario pero físicamente articulado que adquiere una nueva identidad precisamente a través del nuevo orden introducido por la presencia del faro. La estratificación de las arquitecturas a lo largo del tiempo ha dado forma y evidencia a las partes constituyentes de la morfología natural: el fuerte militar corona el área alta del sitio, delimitada por un sistema mixto artificial (paredes) y natural (rocas); las residencias, protegidas de la vista y de los vientos, están dispuestas a lo largo de la cresta de llegada y en la cuenca al sur del altipiano; el punto bajo, ocupado por el faro muestra su doble valor en la visión desde el mar o en su descubrimiento a lo largo del camino terrestre. El proyecto asume el cabo y el espacio acuático del archipiélago como una unidad de paisaje, en la cual el faro polariza un sistema territorial que consiste en elementos aislados correspondientes a islas, cabezas o promontorios, en una
Figg. 8, 9 Proyecto para el faro de Corfú
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Bartolomei, C., Ibidem, p. 48
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Michele Montemurro Nicola La Vitola Figg. 10, 11 Proyecto para el faro de Porto Ponte Romano
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Bartolomei, C., Ibidem,p. 49
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relación visual y espacial entre ellos, traídos de vuelta a la unidad a través del intercambio de la misma sala territorial y la relación topológica de cada arquitectura con las formas de la tierra. Las arquitecturas elementales, aisladas, arraigadas en el suelo, se convierten en una parte integral del paisaje, creando relaciones estables, paratácticas y orgánicas con las formas de la tierra (figuras 12 y 13). El proyecto consiste en la construcción de un sistema de relaciones físicas y visuales a través del camino, los elementos de la conexión (escaleras, rampas, puentes, terraplenes) y los lugares de observación (mirador y torres) para construir la continuidad narrativa a través de un paseo arquitectónico que se eleva desde el mar hasta la cima del altipiano, describiendo el sentido del lugar como una secuencia de lugares diferentes y identificativos. La ruta adquiere el valor de una herramienta de experiencia paisajística, capaz de ofrecer condiciones de visión interna y externa, del paisaje construido y del mar. La frontera. El faro de Capo San Vito El faro de Cabo San Vito identifica un extremo de tierra plana al pie del monte Cofano, alejándose del centro habitado. Es un faro de torre alta23 , ubicado en el centro de un edificio de patio, que contiene un espacio inmediatamente relevante: su altura relaciona su visibilidad en comparación con el mar y el territorio. El faro mejora las características de un lugar geográfico absoluto y estratificado (el valor estratégico del sitio también está subrayado por la presencia de búnkeres militares), casi separado del interior y aislado en un espacio umbral el plano del cabo media entre el horizonte del mar abierto y las zonas habitadas. Como arquitectura célibe el faro en este punto asume un reconocimiento formal a través de la relación entre el tallo alto y la vivienda del “patio” baja, de su topología (altura, orientación y conformación) y topográfica (tipo de suelo, altura sobre el agua) del sitio. El tema de proyecto es la reconstrucción de la relación significativa del faro con el paisaje, sus puntos conspicuos, el espacio natural del interior a lo largo de las secciones transversales que cortan la costa hacia los territorios internos, mejorando el uso del espacio natural y antrópico. El proyecto reconoce los valores morfológicos de la unidad de paisaje de la que forma parte el faro, tratando de establecer relaciones nuevas y más estables entre las partes urbanas y naturales dentro de un sistema espacial articulado, narrativo a lo largo de la costa, reconectando el sistema ubicandos elementos en lugares conspicuos. El proyecto se desarrolla en dos escalas, la del paisaje en el que introduce elementos como puntos de vista colocados para completar formas terrestres relevantes, construyendo un sistema de conexión perceptiva y medición física del territorio a una altura que le permita captar la unidad del espacio dentro del cual el faro adquiere una dimensión de referencia terrestre; la escala urbana que a través de un sistema de muros habitados y ubicados en las huellas topográficas de antiguas preexistencias perimetran, identificando y dando a espacios colectivos en la naturaleza que se convierten en una secuencia narrativa de lugares capaces de conectar la ciudad con el faro. Por lo tanto, las intervenciones del proyecto tienden a construir una nueva unidad sintáctica entre las partes a través de la construcción de nuevos espacios de relación, como caminos, plazas, jardines, terrazas que representan una forma interpretativa de los lugares naturales y su continuación natural (figuras 14 y 15). Los elementos polares como el faro y las torres protegen el cabo y los promontorios hacen que la naturaleza excepcional del sitio sea legible.Por lo tanto, el faro es la cumbre de un sistema de arquitecturas individuales y elementos geográficos que se desarrollan puntualmente a lo largo de la costa entre la
Reserva Zingaro al este y la “Torre Isolidda” al oeste, estableciendo relaciones visuales y topológicas entre las diferentes partes de la costa que se recomponen dentro de una unidad de espacio y forma de valor colectivo.Es una forma de construir la estructura de una sala territorial a través de la tensión que se establece a distancia entre arquitecturas autónomas de valor puntual pero también parte de un sistema territorial. Bibliografia Bartolomei, C. 2005, L’architettura dei fari italiani. Mar Adriatico e Mar Ionio, Alinea Editrice, Firenze. Bodei, R. 2015, Il Limite, Il Mulino, Bologna. Corboz, A. 1985 Il territorio come palinsesto. En: Casabella, Mondadori, septiembre 1985, n° 516,. Farinelli, F. (a cargo de) 2003, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo. Einaudi, Torino. Andriani, C. (a cargo de) 2010, Il Patrimonio e l’abitare, Donzelli Editore, Roma. Kagge, E. 2018, Camminare: Un gesto sovversivo, Einaudi, Torino. Kundera, M. 1995, La lentezza, Adelphi, Milano. Martì Aris, C. 2006, La centina e l’arco, Christian Marinotti, Milano. Matvejevic, P. 1991, Breviario Mediterraneo. Garzanti, Milano. Purini, F. 2008, La misura italiana dell’architettura, Laterza, Roma-Bari. Schmitt, C. 2002, Terra e mare, Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, Milano.
Figg. 12, 13 Proyecto para el faro de Capo d’Orso
Settis, S. 2010, Paesaggio, Costituzione, Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino. Viano, C. A. (a cargo de)1974, La Metafisica di Aristotele, Utet, Torino.
Procedencia de imágenes Las figuras 3-10-11-12-13 fueron tomadas por: De Luca D., De Giglio R., Dicarlo A., La Vitola N., Mannarelli S., Santamaria L. I Fari del Tirreno 1. Supervisor Montemurro M., Tesis de grado. Politecnico di Bari, Dipartimento Dicar, Giugno 2018. Las figuras 4-14-15 fueron tomadas por: Acciani P., Bruni V., Delmedico C., Gianfrate G., Lella C., Seccia A. I Fari del Tirreno 2. Supervisor Montemurro M., Tesis de grado. Politecnico di Bari, Dipartimento Dicar, Giugno 2019. La figuras 5-6-7-8-9 fueron tomadas por: Innamorato A., Masciopinto C., Mastrolonardo S., Montenegro A., Ricci A., I Fari dell’Adriatico. Supervisor Montemurro M., Tesis de grado. Politecnico di Bari, Dipartimento Dicar, Giugno 2017.
Figg. 14, 15 Proyecto para el faro de Capo San Vito
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Come il rischio idraulico ha influenzato la forma del centro storico di Cosenza. Il caso del quartiere di San Giovanni Gerosolimitano Giuseppe Palermo
Giuseppe Palermo
Dipartimento di Ingegneria Civile, Università della Calabria.
Abstract The study of the historic centre of Cosenza and its relationship with its rivers (Crati and Busento) gives the opportunity to reflect on how man has related to these natural elements though time, transforming its constructions to oppose the risks linked to them. This paper, though the typological study of the built fabric and urban shape, wants to identify the traces of this relationship and highlight the characters that need to be enhanced with conservation actions that are also aware of flood risk. In fact, these characters are the signs of an almost millenary coexistence of human being and these watercourses and become a testament of the identity of the city. In particular, these thoughts are materialized in the case study of the San Giovanni Gerosolimitano quarter which, located by the confluence of the two rivers, becomes symbolic of how the relationship of rivers and built centre has changed in time. Based on the outcome of this study, this paper suggests possible evolutions of this relationship in terms of flood risk mitigation while protecting and enhancing this historical asset. Keywords rivers, flood risk mitigation, built fabric, typology
Lo studio del centro storico di Cosenza in relazione ai suoi fiumi (Crati e Busento) rappresenta un’occasione per riflettere su come, nel tempo, l’uomo si sia relazionato con questi elementi naturali e come abbia modificato le proprie opere per far fronte ai rischi legati alla loro presenza. Il concetto di rischio è sempre stato legato alla quotidianità dell’esistenza umana e nel tempo si è cercato di rendere tale incontrollabile entità sempre più calcolabile e contenibile, giungendo in tempi recenti ad una definizione probabilistica del concetto. Prendendo atto che determinati rischi, soprattutto in ambito ambientale, possono essere solo in piccola parte previsti o annullati, ad oggi si cerca di far fronte agli eventi calamitosi con mirati interventi di mitigazione regolati dal punto di vista legislativo. Eppure da sempre l’uomo si è trovato a dover fronteggiare questo tipo di eventi, cercando con i mezzi a propria disposizione di modificare la propria opera in base a tale esigenza.
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Fig. 1 Confronto delle planimetrie del centro storico di Cosenza prima e dopo la costruzione degli argini.
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Le caratteristiche geologiche e morfologiche, abbinate ad una significativa antropizzazione del territorio, rendono l’Italia un paese ad elevato rischio idrogeologico sia per fenomeni franosi che alluvionali: le frane risultano estremamente diffuse, considerando che il 75% del territorio (Triglia, Iadanza 2015) è costituito da rilievi montano-collinari; i fenomeni alluvionali sono altrettanto presenti ed importanti perché vanno ad interessare alcune tra le zone più delicate del territorio nazionale. Intere aree produttive nonché le maggiori città d’arte italiane sorgono su corsi d’acqua che hanno rappresentato storicamente uno dei motivi fondamentali del loro successo, ma anche una minaccia importante per un patrimonio di valore artistico e testimoniale inestimabile. Nel Sud d’Italia gli insediamenti fluviali risultano più rari per la carenza di fiumi importanti, tant’è che le maggiori città sono solitamente collocate sul mare e la stragrande maggioranza dei centri storici sorge su rilievi lontani dal rischio di alluvioni e in siti storicamente più facilmente difendibili. Cosenza, i suoi fiumi e il suo territorio Il fiume Crati rappresenta il sistema fluviale più importante della Calabria. Il suo bacino imbrifero è costituito all’80% circa da sottobacini più piccoli che, caratterizzati da notevoli gradienti di quota, conferiscono al corso d’acqua principale spiccati connotati torrentizi (Niccoli, Arcuri, 2015). Tra gli insediamenti che punteggiano la valle del Crati, la città di Cosenza, l’unico capoluogo di provincia calabrese a sorgere nell’entroterra, presenta il centro storico a quota minore, a più stretto contatto con il fiume. In territorio cosentino al Crati si uniscono ben sei affluenti che vanno a segnare punti significativi dello sviluppo urbano; in particolare il Busento, l’affluente più importante, fa da cesura tra centro storico ed espansione moderna. La città storica, pur sviluppandosi principalmente lungo il Crati, sembra aprirsi ed infittirsi verso nord, in corrispondenza dell’estremità del colle Pancrazio, verso il Busento e, quindi, verso la valle del Crati. Il centro presenta dunque la conformazione tipica di una città di confluenza (Toschi, 1966), espandendosi tuttavia ad est oltre il Crati e a sud oltre il Busento, seminando storicamente i germi per l’espansione valliva avvenuta in modo definitivo soltanto a partire dal XX secolo. Per quanto concerne l’orografia, la Calabria del nord presenta un territorio prevalentemente collinare e montagnoso, accogliendo la parte terminale della Catena appenninica. La valle del Crati scava una cesura tra il sistema della Catena Costiera, che ricalca l’andamento del litorale tirrenico, e l’Altopiano della Sila, il cuore montuoso della Calabria settentrionale. Rispetto al rilievo, il centro storico di Cosenza occupa prevalentemente un promontorio di testata, il colle Pancrazio, che domina dal limite meridionale l’intera valle del Crati. Con riferimento alla teoria tipologica dei crinali (Caniggia, Maffei, 1993), che schematizza l’antropizzazione di un territorio attraverso successive fasi di percorrenza, Cosenza rappresenta l’insediamento di testata di un percorso di crinale secondario, gemmato dalla Catena Costiera, crinale principale. Inoltre, il sito su cui sorge il centro storico di Cosenza è posto a cavallo tra due sistemi vallivi che attraversano la regione da costa a costa: si tratta di un guado tra la valle del Crati a nord, che sfocia nello Ionio, e a sud la valle del fiume Savuto, il cui corso termina nel Tirreno. La particolare conformazione del sito occupato dal centro storico spiega l’importanza strategica del luogo ed esplicita i motivi per cui, storicamente, la città di Cosenza si sia sviluppata verso il fiume piuttosto che verso la sommità dei colli. Inoltre, questi stessi elementi ci danno idea di quali siano state le difficoltà affrontate dalle popolazioni
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che nel tempo hanno contribuito a creare il centro che oggi vediamo: da una parte un sistema orografico importante, dall’altra un quadro idrografico complesso. È proprio da quest’ultimo punto di vista che si intende indagare il tessuto storico di questo insediamento, per comprendere i caratteri specifici che questi elementi hanno impresso, nel tempo, nella forma urbana e nell’edilizia. Il tessuto urbano del centro storico di Cosenza Con le opere di edilizia l’uomo rende un territorio agevole ai fini dell’insediamento e in quanto tali sono il risultato di un agire processuale che porta l’oggetto edilizio a mutare nel tempo. La forma di un centro urbano nasce dalla giustapposizione di aggregati di edifici e sistemi di vuoti e percorsi che li servono, secondo schemi che sono lo specchio di influenze materiali e intellettuali di un determinato tempo e luogo. La composizione di questi elementi dà vita a tessuti che, relazionandosi con il paesaggio e con la concezione di spazio di un determinato popolo, fanno sì che ogni città rappresenti un unicum. Dallo studio dei caratteri morfologici e dei processi di formazione e trasformazione delle città, sono stati individuati caratteri di unitarietà e omogeneità formale nei vari insediamenti storici nell’intera area mediterranea, soprattutto in Italia. Tali principi sono stati delineati negli studi di Muratori prima, di Caniggia, Maffei e Giuffrè più tardi, contribuendo ad elevare queste teorizzazioni a rango di scienza. È stato evidenziato che i centri storici italiani possono essere concepiti come il prodotto di trasformazioni avvenute nel Medioevo e Cosenza dimostra, nella struttura degli spazi urbani, negli edifici e nei tipi di riferimento dell’edilizia, di rispondere perfettamente a tale definizione. I corsi d’acqua hanno da sempre condizionato, nel bene e nel male, lo sviluppo del centro urbano cosentino, rappresentando una risorsa indispensabile per le attività produttive e costituendo una minaccia per le abitazioni che si trovavano più esposte. Il carattere torrentizio dei corsi d’acqua calabresi e il clima dell’area mediterranea alternano periodi di magra prolungati a piene improvvise di potenza anche notevole (Fioriglio, Longo, 1989; Ferraro, 2001); i residenti, coscienti del pericolo, sono riusciti a modificare in modo rilevante le loro opere in funzione della presenza dei fiumi. Per comprendere i caratteri che il rischio inondazione ha impresso nell’edilizia a Cosenza, si conduce una lettura del tessuto urbano e quindi dell’edilizia dell’intero centro storico, identificando aree di uniformità formale, classificabili secondo caratteri omogenei. La lettura delle strutture edilizie rende possibile collocare storicamente un tessuto e risalire alle sue fasi evolutive, ricorrendo al concetto di tipo edilizio inteso come “sintesi a priori”, un progetto concettuale, sintesi della cultura edilizia di un luogo e di un’epoca (Caniggia, Maffei, 1993). Ogni tipo è portatore di storicità e, attraverso un’analisi a posteriori, ci permette di ripercorrerne storia formativa, individuando un processo tipologico, ovvero il susseguirsi di mutazioni temporali, di distinzioni e relative influenze spaziali che rendono possibile la differenziazione dei tipi edilizi nel tempo e nello spazio, permettendo al contempo di accomunarli. Il patrimonio edilizio del centro storico di Cosenza è il prodotto della trasformazione di un tessuto di derivazione quasi interamente medievale in cui è difficile o pressoché impossibile rintracciare i segni di un’urbanizzazione precedente. È d’altra parte possibile riscontrare, nei diversi comparti del centro, caratteri del costruito che portano una determinata zona a differenziarsi da un’altra. L’analisi tipologica compiuta ha evidenziato una massiccia presenza di edilizia minore che adatta modelli di derivazione rurale alle contingenze morfologiche del terreno e al contesto urbano. I principali tipi
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che Cosenza attinge dalle campagne sono la casa a profferlo e la casa su pendio, altresì definita come casa a torre (in vernacolo “’a turra”). Entrambe prodotte dal raddoppio della cellula elementare in verticale, presentano due ambienti indipendenti con la possibilità di un’utilizzazione differenziata. La casa a profferlo presenta un corpo scala esterno posto in facciata, con il quale si raggiunge il piano superiore; la casa su pendio, con piano inferiore parzialmente interrato, presenta ingressi su diversi livelli, solitamente posti su fronti differenti. Entrambi gli schemi si prestano alla ripetizione in serie in un contesto urbano, comportandosi in modo analogo alla schiera, anche nella successiva mutazione nel tipo in linea. È possibile rintracciare la presenza di tali tipi soprattutto nelle zone più popolose del centro, ossia nel tratto più basso del corso B. Telesio, nel rione Santa Lucia e nel borgo di Portapiana. Accanto ai tipi di derivazione rurale, frequente è anche il tipo della casa palaziata (Canonaco, 2007), come definita in molti documenti notarili, una variante della casa a corte, impiegato soprattutto per le residenze più ricche e nobiliari. È possibile riconoscerne due declinazioni nel tempo, la corte tardo-gotica e quella rinascimentale. Questo tipo diventa caratteristico dei quartieri posti a mezzacosta, più benestanti (via Giostra Vecchia, il Cafarone, la Giostra Nuova, Padolisi e il tratto più alto del corso B. Telesio), ma presenta anche alcuni esempi importanti nelle fasce più vicine al Crati. I tipi tradizionali presenti all’interno del centro storico bruzio assumono particolari varianti sincroniche per rispondere alla presenza di un corso d’acqua e, quindi, alla necessità di difendersi dalle frequenti inondazioni. Sono state riscontrate tre mutazioni dominanti: • Edifici del tipo a profferlo; presenti soprattutto sul terreno pianeggiante del greto fluviale, accoglievano le abitazioni della popolazione meno agiata che sfruttano il profferlo per sollevare i locali destinati alla residenza dal piano fluviale. Al piano terreno trovavano posto stalle o depositi. Abbattuti per fare spazio agli argini, ad oggi restano solo pochi esemplari. • Edifici del tipo a torre; il dislivello tra la quota dell’alveo fluviale e della strada più esterna all’abitato viene colmato da locali di servizio con accesso autonomo sul livello del fiume. Negli ambienti accessibili dal livello fluviale venivano poste stalle o locali accessori. Sfruttando la ripida costa dell’altura, sono presenti nella parte bassa del colle Pancrazio. • Edifici che presentano lo spazio di pertinenza interposto tra edificio e fiume; posto sul fronte posteriore dell’abitazione, lo spazio di pertinenza cinto da mura crea un franco di sicurezza prima che la piena arrivi all’abitazione. Edifici con queste caratteristiche erano diffusi lungo il Busento e tuttora sul Crati, nelle zone in cui la riva storicamente risultava più pianeggiante. L’analisi condotta si basa sulla diretta osservazione dello stato attuale del centro storico confrontato con la prima mappa catastale della città e il rispettivo registro delle partite, risalente al 1873. Al tempo i fiumi attraversavano il centro senza particolari opere di protezione; il rapporto tra gli edifici e il fiume era quindi diretto, pur nei limiti definiti dalla variabile portata di questo. Proprio per il suo carattere torrentizio, l’alveo fluviale veniva sfruttato alla stregua di un ampio spazio urbano, facilmente raggiungibile anche da chi non risiedeva in città. Fonti bibliografiche riportano che sul greto in secca veniva ospitato il mercato del bestiame con commercianti provenienti dai casali, i borghi presenti nel circondario che facevano capo al centro storico di Cosenza.
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La costruzione degli argini Le serie storiche riportano che a partire dal Settecento le esondazioni di Crati e Busento si fecero più frequenti, divenendo una costante della storia cosentina fino agli inizi del Novecento, quando si decise di regimentare i fiumi tramite la costruzione di argini. Un passo fondamentale dell’antropizzazione di un territorio è rappresentato dall’artificializzazione dei corsi d’acqua, al fine di renderne il meno dannoso e il più prevedibile possibile il comportamento. Un corso d’acqua si definisce artificiale quando presenta un alveo contenuto entro appositi argini: terrapieni artificiali atti a contenere le acque di piena di un fiume, proteggendo i territori circostanti dalle alluvioni. Il tratto urbano di un fiume deve necessariamente presentare l’alveo definito da argini artificiali che, oltre a contenere le acque di piena in circostanze straordinarie, definiscono quotidianamente l’interfaccia della città con il corso d’acqua che può assumere varie accezioni in base alla morfologia dell’argine stesso. Nella storia del rapporto del centro storico di Cosenza con i suoi fiumi è possibile segnare una cesura proprio in corrispondenza del volgere del XX secolo, allorché la bonifica n. 52 del Testo Unico 22 marzo 1900, indicò la città come parte dei lavori della bonifica idraulica delle pianure e delle aree a valle dei bacini idrici. Una relazione, datata 1905, del direttore dell’Ufficio Tecnico del comune di Cosenza, Francesco Camposano, espone dettagliatamente i lavori di inalveazione e i possibili sviluppi futuri della città. La dialettica tra Cosenza e i fiumi passa dunque da una totale assenza di argini, alla presenza di argini con strada lungofiume: le aste fluviali risultano oggi racchiuse entro barriere che accolgono all’esterno percorsi, pedonali e carrabili, ad una quota superiore rispetto a quella del corso d’acqua stesso; il rapporto tra gli edifici e il fiume risulta mediato dallo spazio della strada che, in quanto tale, accoglie tutte quelle attività che sulla strada si svolgono. I lavori di arginatura dei fiumi, hanno definito un alveo dall’andamento regolare e omogeneo, come oggi lo si apprezza, cambiando la morfologia del terreno nella fascia fluviale; talvolta si sono guadagnati spazi di risulta tra l’edificato e la sponda fluviale, altre è stata richiesta la demolizione di alcuni edifici, altre ancora l’innalzamento del livello del suolo rispetto alla quota fluviale. Queste modifiche all’assetto originario del terreno hanno indotto negli edifici nella fascia bassa del centro storico non pochi cambiamenti. Nel borgo dei Rivocati, il fronte verso il Busento era occupato principalmente da orti recintati a proteggere anche più edifici contemporaneamente; con gli argini e l’allontanamento del fiume, questi spazi furono occupati da edilizia di intasamento, formando nuovi isolati interamente costruiti, secondo le direzioni del Piano Camposano. Alcuni edifici della stessa area, tra cui anche la chiesa di San Domenico, si ritrovarono ad una quota inferiore rispetto a quella della nuova strada. Al contrario, lungo la riva sinistra del Crati, si possono ancora osservare i giardini cinti da mura prospicenti la strada lungofiume e non direttamente il fiume. In alcune zone la regolarizzazione del corso fluviale ha permesso di guadagnare notevoli spiazzi, successivamente occupati da nuova edificazione: nei pressi della zona cosiddetta dell’Arenella, laddove il fiume originariamente presentava una stretta ansa, lo spazio guadagnato ha ospitato dapprima l’edificio della centrale dei pompieri, ora demolito. Al fine di creare un più agevole passaggio al ponte verso la valle, alcune tra le abitazioni più modeste di Via Fontananuova, caratterizzata da modeste abitazioni, probabilmente rispondenti al tipo a profferlo, furono abbattute. La stessa sorte toccò all’area delle Concerie, dimora dei conciatori delle pelli, che sorgeva in una posizione di agevole accesso al fiume per attingere acqua durante il lavoro.
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Il quartiere San Giovanni Gerosolimitano, che prende il nome dalla piccola chiesa presente al suo interno, sorge nei pressi della confluenza tra Crati e Busento e rappresenta un caso particolarmente significativo del rapporto del centro storico di Cosenza con i suoi fiumi e di come sia cambiato con la costruzione degli argini.
Documento di cadenza venti-trentennale a partire da “Platea et inventarium Commendae Sancti Ioannis Hierosolimitani et Captis eius, Consentia a 1589 usque ad 1591”, citato da fonti bibliografiche e archivistiche. 2 Citati nelle Platee del 1726 e 1790 (Archivio di Stato di Cosenza). 1
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Il quartiere di San Giovanni Gerosolimitano Il quartiere in esame presenta una struttura composita che può essere imputata alla varietà di elementi che ne hanno condizionato lo sviluppo: la presenza del Crati che lo lambisce ad oriente e la confluenza con il Busento a nord; il corso Telesio che lo delimita dal lato interno con andamento ascendente e pressoché parallelo al fiume; l’asse di Via Galeazzo di Tarsia che si dirama perpendicolarmente da corso Telesio e conduce, tramite il Ponte San Francesco, al di là del Crati; la presenza di un edificio ecclesiastico al suo interno. In generale è possibile definire due zone che si differenziano in modo netto per la diversità di organizzazione del tessuto urbano e per quote altimetriche differenti. Adottando la toponomastica usata all’interno della “Platea seu Cabreo”1 della Commenda di San Giovanni Gerosolimitano di Cosenza, indichiamo le due parti del quartiere nell’area del “cortile di San Giovanni”, attorno alla chiesetta, e nella zona chiamata “Pontevecchio”2, adiacente il ponte di San Francesco, storicamente il primo attraversamento costruito sul Crati. Nella zona detta di Pontevecchio è possibile riconoscere una struttura urbana che appare ordinata da percorsi che si mantengono pressoché paralleli e perpendicolari al corso Telesio, asse nodale del centro storico; l’edilizia è disposta ordinatamente per fasce di pertinenza lungo i percorsi. Per quanto concerne la zona del Cortile di San Giovanni, gli edifici assumono un andamento avvolgente rispetto alla chiesetta, in parte inglobandola, e in parte facendole da barriera rispetto alla confluenza. Lo spazio lasciato attorno alla chiesa è poco più di un semplice percorso, ma rappresenta un passaggio obbligato per giungere al fiume. Un edificio specialistico di carattere pubblico costituisce una polarità che può diventare determinante per la forma urbana; un struttura ecclesiastica presuppone nelle sue adiacenze una zona adibita a sagrato e l’edilizia minuta sarà costretta a tenerne conto. La preesistenza della chiesetta rispetto all’edilizia che la circonda viene accreditata dal carattere antipolare dell’area, da attribuire alla vicinanza con confluenza dei due fiumi, e conseguentemente alla scarsa vocazione residenziale della zona. In riferimento al processo tipologico i punti antinodali si prestano ad accogliere edilizia specialistica con funzioni che non possono essere accolte all’interno del centro cittadino, come ad esempio un mattatoio o un’industria. In effetti, poco più ad occidente rispetto alla confluenza, era collocato il “macello vecchio”, il mattatoio cittadino. Sebbene poco appetibile per le residenze, la confluenza si rivelava ottimale per accogliere una chiesetta ad unica navata, che risponde ai caratteri delle chiese rurali calabresi. La presenza della chiesetta e gli annessi locali accessori, rappresentano un fattore nobilitante per l’area e funge da attrattore per la popolazione, specie nel fervore religioso del tardo medioevo. Sulla base di questo e nel rispetto delle direttrici date dai due fiumi, si viene a creare attorno alla chiesetta una cortina avvolgente di edifici con accesso direttamente dalla piazza e che sembrano voler proteggere lo spazio urbano dai fiumi. Lo spiazzo che ne deriva risponde allo schema delle piazze medievali ad L, con una percorrenza periferica, uno spazio raccolto, pochi accessi posti in posizione eccentrica, la chiesa in posizione angolare con edifici in parte legati ad essa. La posizione ango-
lare delle chiese è, inoltre, un carattere ricorrente nel centro storico cosentino, in cui risultano nella maggioranza dei casi lambite per un lato da un percorso (Santa Lucia; la chiesa dello Spirito Santo; il Duomo stesso). Nel caso di San Giovanni, la percorrenza non è principale e la piazza assume quasi i caratteri di un ambiente a cielo aperto, un cortile appunto. L’accesso al fiume avviene, come altrove nel centro storico, attraverso un percorso secondario che sfocia in modo parallelo al corso d’acqua, mostrando anche in questo caso la necessità di proteggersi dalle esondazioni. Al volgere del XX secolo, la costruzione degli argini ha interposto tra gli edifici del quartiere e il fiume la strada Lungocrati e proprio davanti alla confluenza si è guadagnato uno slargo di notevoli dimensioni. L’area, dominante la valle del Crati da un lato e il centro storico dall’altra, fu scelta negli anni ’50 del Novecento per la costruzione di un albergo appartenente alla catena di Hotel Jolly, ancora oggi disseminati sull’intero territorio nazionale. A partire dagli anni ’80, chiuso l’albergo, la travagliata vita dell’edificio è stata accompagnata dal continuo dibattito circa la sua estraneità in quella posizione: l’esigenza di restituire a Cosenza la “rotonda” alla confluenza di Crati e Busento era avvertita sia dalla cittadinanza che da associazioni ambientaliste (Stancati, 2002). Di recente tale edificio è stato dismesso e parzialmente demolito, restituendo al centro storico il suo profilo originario. La mitigazione del rischio idraulico nel centro storico di Cosenza Le mappature vigenti a livello nazionale, relative al rischio e alla pericolosità idraulica sono consultabili online sui siti dell’Autorità di Bacino della Regione Calabria (AbR), del Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico (PAI), ma anche sul sito del Comune di Cosenza. Il rischio idraulico rappresenta una minaccia seria per la città che, anche in tempi recenti, è stata oggetto di eventi alluvionali anche disastrosi. Il centro storico in particolare, rappresenta un punto delicato: i fiumi Crati e Busento lambiscono da entrambi i lati la città vecchia, e presentano in quest’area gli unici tratti realmente urbani. Entrambe le aste fluviali presentano argini con strade lungo fiume e sono numerosi gli attraversamenti (carrabili, pedonali, ferroviari). Benché la costruzione degli argini abbia segnato un punto fondamentale per il controllo delle piene, sono numerosi gli episodi di esondazione verificatisi anche in queste condizioni. Nella mappa del rischio idraulico redatta dal PAI (su cartografia 1:10.000), si evidenziano quali aree esposte a rischio molto elevato (classe R4) gli alvei fluviali di Crati e Busento. Le aree esposte a rischio elevato (classe R3) comprendono le fasce più basse del centro storico, soprattutto in diretta adiacenza al percorso del Crati. La confluenza presenta un quadro di particolare criticità in quanto punto di congiunzione dei due corsi d’acqua e per la densità di attraversamenti. In particolare, il quartiere di San Giovanni Gerosolimitano risulta in gran parte esposto a rischio R3 fino al vico Gaeta, laddove la quota guadagnata dal terreno permette di annullare totalmente il rischio. Per un’area come quella del quartiere di San Giovanni Gerosolimitano, inserito in un contesto storico fortemente inurbato, interventi incisivi, quali la costruzione di manufatti idraulici di notevole portata, devono essere scartati. Inoltre, la designazione dell’area come R3 vieta qualsiasi tipo di intervento che preveda una costruzione o la modifica della configurazione attuale degli argini. Tra le opere previste dalla legislazione vigente, vi è quella fondamentale di diradamento del costruito che, in un’area storica diventa un’operazione alquanto delicata. Sulla base di quanto teorizzato in materia di restauro architettonico da Gustavo Giovannoni (1913), un intervento di diradamento sul tessuto storico dovrebbe interessare quelle unità edilizie, o parti di
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esse, che risultano estranee, o di interferenza, al riconoscimento delle identità tipologiche dei manufatti. L’individuazione delle criticità dovrebbe partire dalla lettura tipologica, basata sullo studio delle piante dei piani terra e lo studio dei prospetti, e quindi dal confronto della situazione attuale con le rappresentazioni storiche a disposizione. Tale processo non deve prescindere dal riconoscimento di una effettiva utilità funzionale del diradamento, quale può essere un alleggerimento del carico sulle strutture, nel caso delle superfetazioni, o la creazione di spazi di passaggio o di sosta, nel caso del tessuto di intasamento. In quest’ottica, nel caso del quartiere San Giovanni Gerosolimitano è possibile individuare rilevanti opere di superfetazione e svariate unità prodotte dall’intasamento di aree residuali. In particolare lungo la strada lungofiume, a ridosso degli edifici storici, sono presenti una serie di magazzini commerciali, nati in seguito alla creazione della strada lungofiume; è inoltre possibile riconoscere, tra le unità di maggior pregio che delimitano la piazza, unità di intasamento di più scarso valore, la cui demolizione consentirebbe di rendere gli spazi della piazza più accessibili e visibili dal lungofiume. A questo tipo di intervento, che risponde alle regole del restauro urbanistico e permette al contempo di evitare l’affollamento di aree esposte a rischio, si devono affiancare opere che rispondano in modo più immediato alla necessità di maggiore difesa dalle inondazioni. Nell’area di studio, escludendo l’elevazione della quota arginale, poco indicato al fine della fruibilità e vivibilità del lungofiume che, in quanto tale, deve pur sempre garantire un rapporto con il fiume stesso, anche soltanto di tipo visivo. Nel caso del centro storico di Cosenza, si potrebbe immaginare quindi, sfruttando quella grande varietà di spazi conquistati dai lavori di arginatura, di proporre un sistema difensivo fisso che, posto ad una certa distanza dall’argine attuale, renda possibile la definizione di spazi destinati alla fruizione da parte della popolazione. Tale barriera potrebbe definire una passeggiata lungofiume delimitata dall’argine attuale e, all’interno, da un rilevato che raggiunga l’altezza massima di 2 metri, nel rispetto delle Linee Guida del PAI. Tali rilevati potrebbero assumere i connotati di collinette verdi, praticabili e scandite da percorsi pedonali, o, talvolta di setti di contenimento del rilievo stesso. Al fine di prevedere una completa opera di difesa al centro storico dalle esondazioni, ai presidi fissi si immagina di affiancare presidi mobili gonfiabili che, collocati nella sede stradale lungofiume, possano bloccare l’inondazione del centro storico. Tali barriere mobili, grazie ad una facile manovrabilità e messa in opera, non necessitano di modifiche strutturali permanenti, e sono largamente utilizzate in Europa e nell’Italia settentrionale, laddove la convivenza con i corsi d’acqua è resa anche più difficile dal clima umido e dalla presenza di numerosi corsi d’acqua. Sarebbe dunque opportuno implementare il piano di sicurezza della Protezione Civile della città di Cosenza con un sevizio di messa in opera di tali presidi temporanei. Tale intervento dovrebbe essere inserito nel piano, ancor prima della fase di allarme, dedicata essenzialmente alla salvaguardia della popolazione, e più preferibilmente nella fase di attenzione, ponendo particolare cura alle aree definite come maggiormente esposte al rischio esondazione dai modelli matematici di previsione. L’insieme di un sistema di previsioni delle piene, a monte, la presenza di barriere fisse e la messa in opera di barriere mobili lungo i tratti urbani dei fiumi, dovrebbe garantire un apparato di difesa completo per il centro storico e riuscire a sfruttare al meglio la presenza della strada lungofiume come una risorsa per la protezione del nucleo dal rischio esondazioni.
Conclusioni Il centro storico cosentino presenta una caratteristica unica nel meridione d’Italia: il sorgere a stretto contatto con un fiume o, come meglio esprime il caso particolare, con due fiumi. Il nome e la grandezza di Cosenza nel tempo risulta anche indissolubilmente legata ai fiumi che la attraversano: il Crati, il maggiore fiume calabrese, e il Busento, il suo affluente più importante. Compiendo una lettura tipologica del nucleo fondata sull’osservazione delle condizioni attuali confrontate con le carte storiche e i testi archivistici e bibliografici, sono stati rintracciati quei caratteri peculiari che la presenza dei corsi d’acqua e il timore di possibili alluvioni ha impresso nell’edilizia e nella forma urbana di questo centro storico. Ad oggi, molti di questi elementi storici risultano in parte falsati dalla presenza degli argini che, con lo scopo di difendere dalle esondazioni, definiscono in modo preciso l’ampiezza dell’alveo fluviale e segnano il perimetro inferiore del centro storico con una strada lungofiume. Riuscendo a rintracciare le caratteristiche di cui sopra, è possibile procedere con azioni di tutela ed esaltazione, attraverso possibili interventi di conservazione, successiva riqualificazione e prevenzione. Inoltre, considerando l’attenzione rivolta oggigiorno ai corsi d’acqua in termini di rischio idrogeologico e come luoghi di leisure, si possono prevedere per il centro storico di Cosenza, attraverso interventi puntuali sugli edifici e azioni più diffuse negli spazi pubblici, operazioni di valorizzazione delle aree lungo fiume al fine di trasformare una possibile minaccia in un elemento di potenzialità per l’intera città. Bibliografia Triglia A., Iadanza C. 2015, L’Italia, un Paese ad elevato rischio idrogeologico, «Ecoscienza», n. 3, p. 74 Niccoli R., Arcuri S., 2015, In Calabria un sistema basato sui dati pluviometrici, «Ecoscienza», n. 3, pp. 8-11 Toschi U., 1966, La Città, geografia urbana, UTET, Torino Caniggia G., Maffei G. L., 1993, Lettura dell’edilizia di base, Marsilio, Venezia Fioriglio B., Longo O., 1989, Crati e Busento: due idee attraversano la città, Italia Nostra, Cosenza Ferraro A. (a cura di), 2001, Crati e Busento dal mito alla storia, Pellegrini, Cosenza Canonaco B., 2007, Cosentia: il progetto della antica città calabra attraverso i documenti di archivio e le vedute storiche, Rubettino, Soveria Mannelli Camposano F., 1905, La inalveazione urbana dei torrenti Crati e Busento considerata nei rapporti all’abitato di Cosenza, Luigi Aprea Libraio-Editore, Cosenza Valente G., 1954, La Platea della commenda di Cosenza nel Sovrano Ordine di Malta, A. Chicca, Tivoli Stancati E., 2002, Cosenza nei suoi quartieri: i luoghi della nostra storia, Progetto 2000, Cosenza Giovannoni G., 1913, Il diradamento edilizio dei vecchi centri Il quartiere della “Rinascenza” in Roma, «Nuova Antologia», Roma
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Culture, tradition and innovation in the reuse of the monastic architecture of the city of Valencia Luis Palmero Iglesias
Universitat Politècnica de València.
Graziella Bernardo
Luis Palmero Iglesias Graziella Bernardo
Università della Basilicata, Matera.
Abstract From the 13th century, with the Christian reconquest, several monasteries were built within the original fortified perimeter of the city of Valencia. Over time, most of them were abandoned and demolished to make way for new buildings. Fortunately, some of them had several stratifications and uses that prevented their demolition. The work illustrates the transformations and reuses of two adjacent monastic complexes in the ancient Carmen district: the Real Monasterio de Nuestra Senora del Carmen dating back to 1281 and the Convent of St. Joseph and St. Theresa built at the end of the 16th century. In the 19th century, the firts one became the Museum of Fine Arts and the seat of the Royal Academy de Bellas Artes and the School of Fine Arts and Crafts. In 1983 the Carmen Monastery was declared a National Historical Artistic Monument and today it is the Carmen Centre, a centre of contemporary culture that hosts a wide range of artistic languages and practices. The convent of St. Joseph and St. Teresa was abandoned by monks in 2007 and currently houses the cultural and leisure center Convent Carmen. Both case studies show how the pre-existing religious architectural heritage can become containers of culture able to promote the sustainable development of metropolitan cities. Keywords Monastic architecture, constructive stratifications, contemporary structure, cultural and social containers.
Introducción Las nuevas propuestas de intervención, en relación a nuevos usos en lugares históricos, han significado una puesta en valor de muchas edificaciones de valor patrimonial que podrían pasar desapercibidas. Esta recuperación y puesta en valor del monumento, en numerosos casos con una nueva reinterpretación, va a significar un respeto y una difusión a nivel popular del patrimonio arquitectónico construido . A partir del siglo XIII, con la reconquista cristiana, varias órdenes monásticas se establecieron en la ciudad de Valencia, construyendo conventos dentro del núcleo fortificado original de la ciudad. Con el tiempo, los conventos del centro histórico fue-
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ron abandonados y muchos de ellos fueron demolidos para construir nuevos edificios. Frente a esta perversa práctica de demolición fácil, hay afortunadamente algunos ejemplos de reutilización de complejos monásticos que destacan y cuentan con la presencia de una estructura de claustro y grandes salas construidas para la vida monástica, y por lo tanto se prestan más que otros, a ser reutilizados para nuevas actividades dirigidas a la comunidad. La obra ilustra la reutilización de dos complejos monásticos adyacentes en el antiguo barrio del Carmen, el Real Monasterio de Nuestra Señora del Carmen y el Convento de San Josè y Santa Teresa. El primero, el más antiguo, construido en 1281 con la llegada de los monjes carmelitas de Francia, ha tenido a lo largo de los años numerosas ampliaciones y estratificaciones con diferentes usos que impidieron su demolición hasta convertirse en el actual centro cultural del Carmen. El segundo, construido durante el período de la reforma del Carmen a finales del siglo XVI, mantuvo su función hasta 2007, cuando los frailes, de los que quedaban pocos, decidieron abandonar el convento. En 2017 el convento se transformó con trabajos de restauración inspirados en criterios de mínima intervención, compatibilidad y reversibilidad, dando lugar a un nuevo espacio alternativo cultural y de ocio que se denominó Convent Carmen.
Fig. 1 Planta conjunto, S.XIV, Plano Padre Tosca,1704 (20/06/2020) juliocoblog2018
El Centre del Carmen en el ex Real Monasterio de Nuestra Senora del Carmen El conjunto monumental del antiguo convento del Carmen ilustra importantes etapas de la historia de la arquitectura valenciana. Desde el conocimiento obtenido en los estudios previos y las investigaciones realizadas en las últimas intervenciones, podemos conocer mejor las distintas secuencias constructivas. Fundado hacia 1280, momento de la llegada de los Carmelitas desde Francia, las obras iniciales se extenderían hasta mediados del s. XIV, y desde 1369 se realizaron reformas e intervenciones que llegaron hasta nuestros días. La parte más antigua (fig.1), es la conservada de finales del s. XIII o principios del XIV,es la que hace mención a el refectorio y el aula capitular, sobre los cuales se instalará el dormitorio, el claustro gótico finalizado en el XV y una parte de la iglesia actual que era la primera iglesia gótica del convento. Durante el s. XVI, dos son las obras más importantes: la sacristía y un segundo claustro, el llamado claustro renacentista. Con el arquitecto y escultor Fray Gaspar de Sent Martí se inicia otra etapa. Aparece un aire nuevo con la idea de dar un protagonismo a las partes más significativas del conjunto, así pues, se inician trabajos de adecuación y mejora y se inician las obras para la Capilla de la Comunión (1613), el trasagrario, la ampliación de la Iglesia con su renovación interior y portada, la torre campanario y la escalera principal. Obras terminadas antes de mediados del s. XVIII. Entre 1774-83 se ejecutan la capilla oval de Nª.Sª del Carmen del arquitecto Vicente Gascó siguiendo criterios académicos y la nueva fachada del Convento de José Gascó (1778-90). Tras la desamortización de Mendizábal, funcionario bajo la Regencia de María Crsitina de Borbón que dio lugar a la expropiación forzosa de los bienes de la Iglesia Católica se fracciona el convento; la iglesia, capillas de la Comunión y del Carmen con la torre-campanario, constituyen la nueva parroquia de la Santa Cruz, y en el resto de dependencias conventuales se instala desde 1838 el museo Bellas Artes y la sede de la Academia de Bellas Artes (1848). Se realizaron diversas intervenciones para su adaptación, algunas de ellas revertidas posteriormente. En 1882, Joaquín Mª Calvo y Joaquín Mª Belda realizan la cubrición del patio gótico, el acondicionamiento del refectorio y del aula capitular. En 1946, Museo y Academia
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son trasladados al convento de San Pio V, quedando únicamente destinado a Escuela de Bellas Artes y de Artes y Oficios Artísticos hasta 1983. Siendo ya propiedad de la Generalitat, se inicia su recuperación como centro cultural específicamente museístico y que se conocerá como Centro del Carmen. En 1985 la Consellería de Cultura del Gobierno Valenciano restaura la planta baja del claustro renacentista, (fig.2), el antiguo dormitorio, el aula capitular y las galerías de Ferreres y Goerlich para ubicar espacios expositivos vinculados al entonces recién creado IVAM (Instituto Valenciano de Arte Moderno, instituido por la Ley 9/1986) cuyo objeto principal es el desarrollo de la cultura valenciana en cuanto al conocimiento, tutela, fomento y difusión del arte moderno. A partir de 1994 se eliminan las divisiones y cubierta del claustro gótico recuperando su arquitectura. Son demolidas las edificaciones residuales existentes entre el claustro renacentista y la fachada de la calle Museo. Las excavaciones arqueológicas localizan estructuras del rabal3 musulmán que son en parte conservadas. El Convento del Carmen Con el arquitecto y escultor Fray Gaspar de Sent Martí se inicia otra etapa. Aparece un aire nuevo con la idea de dar un protagonismo a las partes más significativas del conjunto, así pues, se inician trabajos de adecuación y mejora y se inician las obras para la Capilla de la Comunión (1613), el trasagrario, la ampliación de la Iglesia con su renovación interior y portada, la torre campanario y la escalera principal. Obras terminadas antes de mediados del s. XVIII. Entre 1774-83 se ejecutan la capilla oval de Nª.Sª del Carmen del arquitecto Vicente Gascó siguiendo criterios académicos y la nueva fachada del Convento de José Gascó (1778-90). Tras la desamortización de Mendizábal, se fracciona el convento; la iglesia, capillas de la Comunión y del Carmen con la torre-campanario, constituyen la nueva parroquia de la Santa Cruz, y en el resto de dependencias conventuales se instala desde 1838 el museo Bellas Artes y la sede de la Academia de Bellas Artes (1848). Se realizaron diversas intervenciones para su adaptación, algunas de ellas revertidas posteriormente. En 1882, Joaquín Mª Calvo y Joaquín Mª Belda realizan la cubrición del patio gótico, el acondicionamiento del refectorio y del aula capitular. Entre 1900-1914, se intervino con la utilización de restos del Palacio del Embajador Vich, o la ampliación de salas museísticas realizadas por Luis Ferreres y Javier Goerlich. En 1946, Museo y Academia son trasladados al convento de San Pio V, quedando únicamente destinado a Escuela de Bellas Artes y de Artes y Oficios Artísticos hasta 1983. Siendo ya propiedad de la Generalitat, se inicia su recuperación como centro cultural específicamente museísticoy que se conocerá como Centro del Carmen. En 1997 se acometen obras de emergencia que afectan al claustro gótico y portería adjunta, a la cubierta del antiguo dormitorio y al saneamiento de cubiertas y piso superior del claustro renacentista. Posteriormente se concluye la restauración del claustro gótico que se destina a vestíbulo del museo, recuperándose el primitivo acceso conventual. El claustro se conecta con la calle mediante un nuevo cuerpo auxiliar de traza triangular y se construye una nueva edificación de dos plantas entre ambos claustros y la calle destinado a espacios expositivos: tres salas concatenadas y comunicadas donde también se pueden apreciar los restos arqueológicos del raval (del árabe hispánico arrabád), una agrupación de viviendas sin orden urbanístico, característico del crecimiento de las ciudades durante la Edad Media. En la planta superior se repite la misma estructura.
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Como edificación diferenciada también se proyecta otro cuerpo, (para alojar servicios), situado entre las nuevas salas y el edificio de la Antigua Escuela de Artes y Oficios, con acceso independiente y conexión con el claustro renacentista. En la actualidad, los claustros continuan presentando la misma elegancia arquitectónica de antaño y que acogen diferentes eventos culturales, ya que fue muy conocido como centro de arte, además de recepciones y conciertos, incluso celebraciones de interés como por ejemplo, la velada del cierre del Congreso Reuso 2015 de Valencia.
Fig. 2 Patio renancentista Convento del Carmen, foto de jdiezarnal (2020)
El Convent Carmen en el ex Convento de San Jose y Santa Teresa En el mismo conjunto urbano y adyacente al Real Monasterio de Nuestra Señora del Carmen, junto a la plaza del Portal Nou, al final del siglo XVI, se construyó otro convento sito entonces intramuros de la ciudad y muy cercano al lienzo de la muralla y al Portal de San José hoy desaparecido (fig.3). En 1609 el convento aunque no estaba terminado, fue ocupado por las monjas de la orden de las Teresianas. Este nuevo Convento de San José y Santa Teresa, aunque popularmente se le conoce simplemente como Convento de San José, cerrará la parte norte del lugar, suponiendo el límite, (ya que estaba junto a las murallas de la ciudad), del complejo religioso ya citado anteriormente. Las obras del convento fueron largas y no exentas de discusiones alargandose su finalización hasta el año 1628. La vivencia castellana y teresiana del fundador fray Ambrosio Mariano de San Benito, antiguo colaborador de Teresa de Jesús, en la fundación de los conventos de San José y de San Felipe Apóstol de Valencia, puede ser la clave de la introducción de los modelos arquitectónicos de los primeros conventos de la reforma carmelitana en Valencia, ya que dota al convento de un orden clasicista de raíces castellanas, además de ser proyectado con gran sencillez constructiva, (fig.4), consideración que la propia Santa Teresa de Jesús recomendaba en sus fundaciones. Su construcción se atribuye a Jeroni de Villanueva, maestro obrero de la ciudad fallecido en 1658 y enterrado en la iglesia. El convento de dimensiones reducidas disponía de iglesia, claustro, salas conventuales y jardín o huerto. La iglesia es la parte que mejor conserva su aspecto original a excepción de la decoración interior realizada en el siglo XVIII. El templo es de planta de cruz latina, una sola nave de tres tramos, coro alto de clausura a los pies, nave de transepto poco sobresaliente en planta y presbiterio o cabecera de testero plano. Las naves se cubren con bóvedas de cañón con lunetos, el crucero con cúpula semiesférica y cimborrio
Fig. 4 Planta de la iglesia según D.G. Hinarejos (2020)
Fig. 3 Vista del conjunto de San José y Santa Teresa. Fuente: Hemeroteca Municipal Ayuntamiento de Valencia www valencia blanco y negro (2020)
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cuadrado con pequeños vanos. Unido al testero de la nave del transepto por su lado del evangelio se levanta la sacristía de planta rectangular en dos tramos. En la segunda mitad del siglo XVIII se efectúa una gran reforma en el convento, principalmente en la iglesia. La Capilla de Santa Teresa pasaría a ser panteón de la familia de los Verdes-Montenegro, linaje de origen gallego afincados en Valencia. Tal vez sea de esta época la construcción de la cúpula que cubre la capilla y que representa el elemento de mayor representación de todo el conjunto. Con detalles de gran valor artístico en las pechinas se pueden ver cuatro bajorrelieves alusivos a la vida de Santa Teresa: Visión que tuvo la Santa en que la Virgen y San José la vestían con un manto azul y un collar. En 1965 la zona conventual fue derribada en parte por deterioro y en parte por los daños sufridos en la riada de 1957, uno de los episodios más trágicos acontecidos, sino que obligó a repensar el modelo de desarrollo urbanístico planteado hasta el momento, tal y como demuestra la ejecución del Plan Sur de la ciudad. Se volvió a levantar de nueva planta esta zona, quedando de su antigua fábrica solamente la iglesia. Las obras concluyeron en 1974. Es significativo mencionar que el deterioro vino dada la situacion cercana del conjunto al río, el cual desbordado a su paso por la zona supuso daños irreparables. La última gran reforma efectuada en el convento se realizó entre 1978 y 1979 consistente en obras de consolidación y saneamiento. Se retiraron los dos pequeños retablos que estaban en los brazos del transepto, también se retiro el retablo del Altar Mayor instalado después de la Guerra Civil y se renovó el piso de la iglesia y el coro alto. Las obras de reforma de la iglesia fueron supervisadas por el arquitecto local y experto en restauraciones Luis Gay Ramos. Durante la Guerra de la Independencia, una sobrina del Mariscal francés Suchet profesaba en el convento, y por intercesión de esta el convento fue respetado y no sufrió saqueo alguno. Las tropas francesas del general Suchet entraron en la ciudad de Valencia por el portal de San José situado junto al convento, sin ocasionar grandes desperfecos. No obstante, las precauciones nunca fueron suficientes ya que, el 13 de mayo de 1931 el convento fue asaltado e incendiado por milicias republicanas y el retablo mayor de Orliens quemado y destruido. No fue esto una acción aislada, ya que los republicanos cometieron acciones similares en diferentes lugares de la ciudad considerados igualmente patrimonio religioso. En el año 2007 el número de religiosas era mínimo. Estas se desplazaban hacia las afueras a conventos de la Orden en pueblos cercanos, por lo que el inmueble quedaba vacío y sin uso determinado. Fue por aquel entonces cuando hubieron algunas propuestas de intervención motivadas, (como ha sucedido en numerosos lugares), por su excelente ubicación, siempre en el centro histórico y muy cercanas a los sitios de interés a nivel turístico, por ello la orden fue vendida a un industrial valenciano para construir un hotel de lujo. Las monjas no tuvieron otra idea que vaciar las obras de arte del convento y arrancar de manera poco respetuosa parte de los zócalos cerámicos de todo el convento, lo que llevó a que muchos de ellos se rompieran, por lo que intervino el servicio técnico municipal de patrimonio para poder salvaguardar y catalogar estas piezas. Las monjas comenzaron su traslado fuera de la ciudad, al convento que la Orden del Carmen tiene en Serra, un pequeño y apacible lugar de veraneo para muchos valencianos. En la actualidad, la zona conventual, de escaso valor artístico permanece vacía.
El reuso como Convent Carmen En el año 2017, fueron unos emprendedores locales quienes decidieron iniciar una actividad cultural y de ocio que diera a Valencia un espacio alternativo diferente y accesible para un gran número de público. En este caso, el elemento más importante e impactante ante el nuevo visitante es la cupula, la cual recibe al visitante apenas entrar en el recinto y sirve de elemento bisagra para la organización de los espacios. Este elemento, se conecta con el conjunto patrimonial de forma independiente, por lo que no interfiere, (en rigor a las leyes de protección de patrimonio), al conjunto y resulta una intervención sin ninguna técnica invasiva. Tan solo se procedíó a trabajos de reintegración, saneado, limpieza y repintado en las zonas visibles y accesibles, sin cambiar ni tocar ningún elemento artístico de origen. Este elemento, impone una nueva lectura después de la intervención realizada. Su nueva imagen se presenta con un elemento “añadido” que repite el elemento constructivo original, pero con una interpretación novedosa que confiere al espacio de ingreso, (es el primer lugar que se encuentra el público desde el acceso de la calle), un ambiente muy especial, a su vez favorecido por una estudiada y ambientada iluminación, resultando una imagen muy sugestiva desde cualquier punto de vista. Se trata pues de una intervención minimalista, consistente en una estructura de acero lacada en color negro, que imita la cupula original y por lo tanto, recrea la forma ya existente, del edificio religioso del siglo XVII sin perder el estilo renancentista original. Se presenta como una escultura contemporánea, con una lectura del conjunto sorprendente (Fig.5). Además, el valor está en la idea y en su relación con el patrimonio existente, es una intervención discreta pero muy efectiva, sin caer en la realización de falsas apariencias, ni en soluciones exageradas al uso que al final pueden ocultar los elementos originales. Esta ligera pero aparente estructura, sostiene parte de las instalaciones, así como los elementos de soporte audiovisuales y utiliza una técnica denominada RGB, (red, green, blue), la cual consiste en representar un color mediante la mezcla por adición de los tres colores de luz primarios. El modelo de color, mediante esta técnica, no define por sí mismo lo que significa exactamente rojo, verde o azul, sino que la suma de los mismos, muestra colores diferentes a la hora de proyectarlos. En nuestro caso, el resultado es una atmósfera sugestiva a la vez que emotiva que recibe al visitante apenas accede al recinto, invitándole a realizar un recorrido ya predispuesto satisfactoriamente. Asimismo, este escenario, con las posibilidades de iluminación descritas, puede acoger otras actividades culturales que requieran mayor intimismo, como representaciones teatrales por ejemplo. Es un ambiente que muda con facilidad con resultados interesantes (Fig. 6). La cupula y su recinto da paso inmediato al resto del conjunto histórico y patrimonial. Mediante una zona internedia donde se alojan servicios y otras dependencias, y que continuan con una propuesta señalética moderna y unos materiales que marcan la diferencia respecto a quellos originales, se accede a un espacio abierto que queda limitado por los edificios de alrededor, y que hace que se entienda la parcela a efectos urbanos, así como su conexión al convento del Carmen antes citado. Este espacio abierto de cerca de 2000 metros cuadrados, sin obstáculos ni construcciones intermedias, puede ser distribuido con absoluta libertad, siendo esto una considerable ventaja para la actividad prevista, la de restauración gastronómica. Esto, sin duda, es un aliciente también para el barrio del Carmen, un lugar muy frecuentado los fines de semana por
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Luis Palmero Iglesias Graziella Bernardo Fig.5 Interior de la antigua iglesia de San Josè y Santa Teresa en el centro Convent Carmen (foto: David Zarzoso, 2018. Francesc Rifé Studio). Fig. 6 Actividades culturales y sociales en el centro Convent Carmen (foto: David Zarzoso, 2018. Francesc Rifé Studio).
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lo que incentiva al propio vecindario con una alternativa de uso en espacio patrimonial a la vez que mejora la oferta gastronómica de la zona. Asimismo los interiores (fig.7), están diseñados con un ambiente acorde a la nueva intervención por el estudio valenciano de diseño y arquitectura Francesc Rifé Studio con una gráfica acorde y adecuada para el lugar, realizada por el equipo Estudio Nueve, así como la colaboración del artista callejero LUCE y la fotografía de David Zarzoso. En esta ocasión, una vez más, se pone en práctica la relación entre diseño y arquitectura con un trabajo multidisciplinar, con un resultado final atrayente para públicos de diferente edad, donde los cuales podrán elegir desde, disfrutar simplemente de un espacio de ocio, hasta elegir alguna actividad cultural más intima en un entorno muy estudiado y acogedor. Como hemos citado anteriormente el nombre de Convent Carmen hace alusión directa al Barrio del Carmen donde se ubica y por la pertenencia al conjunto popularmente conocido como Convento del Carmen. En esta nueva puesta en escena, el monumento, aparece (como no podía ser de otra manera), con un diseño moderno, acorde a otras intervenciones que se hacen en la ciudad, pero en este caso aprovechando el espacio natural existente en el interior como un punto de encuentro y de relax en medio de la ciudad, una relación entre espacio natural y un lugar de valor histórico, que con acierto es una nueva propuesta a los modos convencionales existents para este tipo de intervenciones. La iglesia, (desacralizada), se presenta como una recepción imponente capaz de albegar con elegancia diferentes actividades, como pueden ser las musicales, recitales o gastronómicas. Pero, a su vez, sirve, también, de paso para encontrarte en un espacio natural y relajado de ocio muy interesante, donde la actividad pricipalmente se concentra en un modelo truck- food con participación y representación de varios países, lo que le confiere un atractivo más a nivel gastronómico. La arquitectura y mobiliario exterior tiene guiños a elementos alternativos, como por ejemplo, el uso de containers o también la posibilidad de distribuir el espacio para comensales mediante pérgolas, entarimados, y elementos divisibles horizontales y verticales que conforman los diferentes puestos o paradas de comidas, (fig. 8). Estos separadores, pérgolas, etc., son de materiales naturales que conviven perfectamente con la naturaleza verde que presenta el entorno. De manera estratégica a lo largo de todo el jardín se coloca el mobiliario diseñado a medida (zonas altas de taburetes, mesas corridas, mesas bajas, tumbonas y hasta asientos suspendidos en forma de columpio) adaptándolo a las zonas sin necesidad de modificar la morfología del lugar. Este mobiliario se ha diseñado a base de estructuras metálicas tubulares y superficies de tablero fenólico teñido en negro, que contrasta con el resto de elementos vegetales que emergen en el lugar. La idea de hace años de construir un hotel de lujo continúa latente dadas las dimensiones de la parcela, una propuesta interesante para el número de visitantes que recibe la ciudad y que está interesado en quedarse en el centro histórico. No obstante, la polémica municipal de permisos y concesiones mantenidas con el Ayuntamiento de Valencia desde hace tiempo, (parece ser, que la licencia solicitada para la actividad cultural era ampliamente superada por la oferta de restauracion en cuanto a capacidad y por lo tanto, a cuestiones normativas), ademas que parece ser que los promotores (Sánchez y Máñez), confirmaron que la licencia inicialmente era temporal, pero que presentaron la solicitud para que fuera definitiva; las quejas de las asociaciones de vecinos, quien
se lamentan de las condiciones acústicas de la zona y la actual situación de la Covid-19, puede crear una situación de incertidumbre que tal vez haga fracasar esta iniciativa. Conclusiones La reutilización de espacios que se encuentran en desuso o abandonados en centros históricos es siempre una oportunidad para crear nuevas sinergias y nuevas estrategias de uso. Estos espacios, en ciudades como Valencia que cuenta con una climatología excelente, dan oportunidades a nuevos negocios y actividades como es el caso que nos ocupa, un espacio religioso desacralizado donde el visitante es recibido con una atmósfera de recogimiento y de cierta intimidad, sugestivo, a la vez que nos encontramos en un lugar histórico con una intervención moderna atractiva y delicada. Un espacio donde se pueden representar espectáculos y actividades culturales muy personales, hasta pasar al otro extremo, un lugar de ocio y esparcimeinto organizado como contenedor gastronómico, que se puede disfrutar durante la mayor parte de las horas del día. Y todo ello, en un entorno patrimonial que garantiza el respeto y el conocimiento hacia lugares de la ciudad con un rico pasado histórico. Estas actuaciones hacen que el patrimonio arquitectónico existente de la ciudad sea el protagonista y revalorice no solo el espacio interior, sino que este tipo de acciones repercuta sobre el propio vecindario el cual ofrece de forma evidente una nueva propuesta creativa y beneficiosa para la comunidad. Además de la mejora exterior que siempre es bienvenida, ya que el barrio experiomenta una mejora de los accesos, de la accesibilidad entre otros. Este no es un caso aislado, ya que, por ejemplo, los antiguos restos de la muralla de la ciudad, (situadas muy cerca de nuestro entorno), ya fueron reutilizadas en otra intervención, (se trataba de un mercado alternativo), haciendo que, tanto los ciudadanos locales como los extranjeros se transportasen en un viaje al pasado, pero sobre todo, igual que ahora, este tipo de intervencions dan lugar a poder dar a conocer a todos los ciudadanos el importante y rico pasado social, histórico y arquitectónico de la ciudad.
Fig. 7 Detalle del interior (foto: David Zarzoso, 2018. Francesc Rifé Studio). Fig. 8 Detalle espacio exterior ajardinado (foto: David Zarzoso, 2018. Francesc Rifé Studio).
Bibliografia García Hinarejos, D., 1986, El convento de San José de Valencia y su patrimonio artístico. Trabajo constituye parte denuestra tesis de licenciatura, Investigaciones sobre arquitectura y arte en los carmelitas descalzos del siglo XVII en Valencia, leída en la Facultad de Geografía e Historia de Valencia. No publicado. Gómez-Ferrer, M., “Arquitectura en la Valencia del siglo XVI: El Hospital General y sus artífices”. Albatros, Valencia, 1988. Escolano, G., “Década Primera de la Historia de la Insigne y Coronada Ciudad y Reyno de Valencia”. Universidad, Valencia, 1972. Taberner, F. Et al “Guia de Arquitectura de Valencia” Colegio Territorial de Arquitectos de Valencia, 2007.
Publicaciones en red Diez Arnal, J., “Convento de San José y Santa Teresa” http://www.jdiezarnal.com (06/20) www.plataformaarquitectura.cl/cl/904484/convent-carmen-francesc-rife-studio (06/20)https://valenciablancoynegro.juliocob
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L’ausilio delle nuove tecnologie per la valorizzazione del patrimonio culturale Angela Parisi
Angela Parisi
Facoltà di Ingegneria e Architettura, Università degli studi di Enna “Kore”.
Abstract In the last decades we have attended to the technology progress which has revolutionized the world of communication in every part, even the cultural one. The cultural heritage, as custodian of history and identity, must be protected and enhanced to allow the transmission to the future generations. In 2008 the Ename Card underlines the importance of communication in the heritage preservation process. In the field of cultural heritage there are the smart technologies, such as the ICT Information and Communication Technology and the IOT Internet of Things. The cultural object acquires the connotation of smart object, and through ICT and IOT, exchanges data between users, becoming not only a source, but also a receiver of information. In addition, the introduction of the smart technologies marks the user role, in fact he abandons the simple nature of user to obtain a greater awareness of the visit experience. Therefore, the designers are called not only to answer to needs related to the space and protection, but also to the way in which cultural heritage can involve users, through the story of space and experience.
Keywords Patrimonio culturale, tecnologie smart, ICT, IOT, valorizzazione.
Introduzione Il territorio italiano si contraddistingue per la presenza di un sistema diffuso di beni culturali che, rappresenta un importante patrimonio non solo dal punto di vista culturale architettonico e archeologico, ma anche sociale ed economico. Il patrimonio giunto fino a noi custodisce la memoria, la storia e l’identità delle differenti civiltà che si sono succedute e fondamentale, diviene la scelta di cosa preservare e come, per garantirne la trasmissione alle future generazioni. Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dallo sviluppo tecnologico che ha interessato anche il settore dei beni culturali, in modo specifico nel campo dell’analisi, della conservazione, della valorizzazione e della fruizione del patrimonio, innescando una vera e propria rivoluzione. I nuovi si-
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Fig. 1 Cenacolo Vinciano App, l’appilicazione che permette di fruire di una visita del Cenacolo in realtà aumentata, Milano (Photo: New Media Agency, 2020)
stemi digitali funzionali all’interpretazione del patrimonio e le recenti strategie gestionali e di marketing hanno evidenziato la necessità di una strategia comune funzionale all’adeguata fruizione e comunicazione del bene (Colaianni). Le nuove tecnologie diventano il mezzo per le relazioni tra i saperi scientifici e umanistici, volte a concretizzare un piano integrato per la conoscenza, la valorizzazione e la comunicazione del patrimonio (Amodio, 2017). La nuova “vita” del patrimonio culturale. La comunicazione come mezzo per la tutela e la fruizione Negli ultimi decenni largo uso, o forse abuso, è stato fatto del termine riuso, riferito non solo agli oggetti architettonici, ma anche al paesaggio e ai centri storici. L’attenzione al recupero del patrimonio è stata senza dubbio accentuata dalla moltitudine di “oggetti culturali” presenti nel nostro territorio che funzionalmente non sussistono più. Provocatoriamente, anche se un bene di particolare interesse storico o artistico continua a mostrare la sua presenza materiale, se non tutelato, usato o ancora meglio vissuto, non esiste. Non esiste perché è stato dimenticato. L’assenza di fruizione ha fatto perdere al bene la sua identità e il suo uso, le ragioni per le quali è stato realizzato, è diventato uno spazio non più socialmente praticato, che mantiene in parte la propria forma, pur avendo perso la sua funzione. Il significato di un bene architettonico e la sua funzione non sono separabili, perché, la funzione stessa implica il rapporto con il significato. Il concetto di uso in architettura ha un’importanza maggiore rispetto all’utilizzo materiale o economico che può ridurre il bene al consumo distruttivo. Particolarmente importante appare la questione dell’uso in architettura in relazione alle tematiche del restauro. Il bene architettonico, anche se analizzato dal punto di vista formale ed estetico, è soprattutto legato all’aspetto funzionale e alle trasformazioni che ha subito durante i decenni. Un monumento conserva tutte le testimonianze storiche delle varie civiltà che si sono succedute, diventando quindi un importante strumento di cono-
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scenza storica, nonché custode di identità culturali precedenti. Esiste una dualità positiva-negativa sulla questione dell’uso di un oggetto architettonico, infatti se da un lato l’uso può determinare il deterioramento, dall’altro ne garantisce la manutenzione, poiché se la sua utilizzazione viene meno, il bene è destinato al danneggiamento. Il problema dell’uso diventa quello del ri-uso. Un bene può essere aggiornato nella sua possibilità d’uso, che ne garantisce non solo la sussistenza ma anche la conoscenza e la valorizzazione, ma questa operazione deve sempre tenere in considerazione i caratteri storici dell’opera stessa, conservando tutte le stratificazioni che il bene presenta (Bellini, 1990). Forse più che di riuso dobbiamo parlare di tutela e recupero del patrimonio, individuando, caso per caso, il giusto intervento di restauro e una funzione compatibile con la massima conservazione delle strutture fisiche, rispettoso del suo significato originario e della memoria storica che esso ci tramanda, per garantire la qualità dell’intervento e la vita futura del monumento (Attianese, Gatto, 2015). Fin dai primi anni del 1900 la tematica relativa alla messa in sicurezza del patrimonio artistico e culturale è stata oggetto di numerosi dibattiti e svariate leggi, che hanno cercato di normare gli interventi sui beni. L’importanza della tutela dei beni viene sancita nell’articolo 9 dalla Carta Costituzionale italiana “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, diventato la base per le successive norme redatte dal legislatore in merito alla conservazione, fruizione e valorizzazione del patrimonio. Secondo quanto affermato da Zane (2018), l’interesse per un bene e quindi la sua tutela si basa su tre elementi: la verifica, la protezione e la conservazione. Quest’ultima si realizza limitando tutte quelle attività che possono danneggiarlo mettendo in atto una serie di azioni come lo studio, la prevenzione, il restauro e la manutenzione. La valorizzazione, azione ampiamente trattata nel Codice di tutela dei Beni Culturali e del paesaggio, è “quell’attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione del patrimonio culturale, al fine di renderlo maggiormente fruibile da parte del pubblico e in maniera tale da trasmettere tutti quei valori dei quali il medesimo e portatore” (D.L. n. 42/2004). Per la conservazione di un bene non bastano solo gli interventi legati al progetto di restauro, ma indispensabile appare l’individuazione della congrua funzione che il bene deve avere e soprattutto l’adeguata gestione, supportata dal giusto progetto di fruizione che diventa l’elemento di sintesi tra la tutela e la valorizzazione (Barbati, 2002). L’ICOMOS ha promosso nel 2008 la carta del patrimonio culturale, nota come carta di Ename, nella quale viene esplicitata l’importanza della comunicazione (descritta in molti casi come diffusione, divulgazione, presentazione e interpretazione) quale parte essenziale del processo di conservazione del patrimonio. Nell’azione della conservazione non solo del bene, ma anche delle tradizioni, viene riconosciuta la natura comunicativa. L’obiettivo della carta è quello di identificare gli elementi fondamentali per l’interpretazione e la comunicazione dei beni, visti come elementi complementari per la conservazione del patrimonio, divenendo un mezzo per il miglioramento della comprensione per il pubblico. Data la varietà e la complessità dei beni presenti nel territorio, un’adeguata fruizione non può prescindere dalla messa a sistema del patrimonio, considerando sempre il contesto in cui sono inseriti (Amodio, 2017). Analizzando la rete del patrimonio culturale, è evidente come, le singole entità non siano distribuite in modo omogeneo. Esi-
stono differenti livelli, dai grandi centri che presentano una maggiore concentrazione di beni culturali, dove si concentrano non solo grandi flussi di fruitori, ma anche adeguate risorse finanziarie e comunicative, e i piccoli centri o i beni isolati, che soffrono la marginalità e l’inadeguatezza delle infrastrutture (Gaiani, Martini, 2013). Come mettere in connessione la grande rete del patrimonio, rendendola accessibile a tutti i fruitori? Le nuove tecnologie appaiono come un interessante strumento per favorire un’adeguata politica di conservazione e valorizzazione del patrimonio. Le nostre città, che si proiettano sempre di più verso il concetto di smart city, secondo quanto affermato da Maurizio Carta (2005) sono caratterizzate da tre elementi cruciali: la cultura, la comunicazione e la cooperazione. Il patrimonio culturale è inteso come l’insieme degli elementi fisici quali siti archeologici, beni architettonici, collezioni d’arte e soprattutto i caratteri identitari della comunità, ma anche le risorse naturali e paesaggistiche. L’adeguata comunicazione mira alla conoscenza da parte degli utenti e soprattutto alla condivisione con la comunità locale affinché si possa innescare un processo di partecipazione della fruizione e valorizzazione del patrimonio. In questo senso, la comunità acquista un importante ruolo nell’attività di comunicazione, poiché può offrire un supporto adeguato nel racconto e nella trasmissione del patrimonio culturale (Prescia, 2017). Sul tema della comunicazione appare fondamentale il ricorso alle nuove tecnologie che offrono un importante supporto per la conoscenza e l’accessibilità dei beni, anche di quelli che, a causa di vincoli e barriere fisiche non permettono una totale fruizione. La parola d’ordine diventa quindi la collaborazione, tra tutti gli attori del processo conoscitivo e di valorizzazione, quindi tra gli esperti del settore culturale, gli esperti informatici e comunicativi e la comunità locale (Prescia, 2017). La messa a sistema del patrimonio, con il supporto delle nuove tecnologie e di un’adeguata struttura di gestione, garantirebbe un’appropriata connessione tra i territori, le comunità locali e i fruitori (Gaiani, Martini, 2013). La tecnologia a servizio dei beni culturali. Le ICT e le IOT come strumenti per la valorizzazione del patrimonio Negli ultimi trent’anni, il progresso della tecnica, lo sviluppo di internet e di tutti gli applicativi ad esso collegati, hanno profondamente trasformato il mondo della comunicazione e della divulgazione culturale. Le nuove tecnologie nell’ambito dei beni culturali sono state utilizzare per la diagnostica, il restauro, la collocazione storica, ma soprattutto per la gestione e la fruizione del bene. L’applicazione delle nuove tecnologie nei contesti culturali può essere distinta in due grandi gruppi: le applicazioni che permettono la conoscenza, la tutela e la messa in sicurezza e quelle atte alla valorizzazione e fruizione del bene stesso. All’interno del panorama dei beni culturali accanto ai tradizionali metodi di comunicazione, si fanno strada anche nuove forme legate al progresso tecnologico, come le ICT Information and Communication Technology e le IOT Internet of Things capaci di raggiungere una sfera sempre maggiore di utenti senza limitazioni legate allo spazio o al tempo (Garofalo, Chiarelli, Novak, 2018). Il vantaggio dell’utilizzo delle moderne tecnologie è quello di diversificare l’offerta per la moltitudine di fruitori attraverso specifiche competenze e adeguati linguaggi. La facilitazione dello scambio di informazioni, attraverso i dispositivi elettronici, ha permesso una maggiore diffusione della cultura, della ricerca e della divulgazione a sco-
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po didattico. Le nuove tecnologie consentono di elaborare un’offerta ben definita per ogni singola realtà, una comunicazione interattiva, ricca di contenuti capaci di creare una relazione tra l’utenza e le informazioni relative al bene (Bonacini, 2013). L’utilizzo delle ICT e delle IOT hanno permesso l’instaurarsi di un prolifico rapporto tra le nuove tecnologie e le tradizionali competenze legate alla gestione del patrimonio culturale. I nuovi sistemi di diffusione del sapere possono essere distinti in due gruppi in riferimento alla modalità secondo cui avviene l’azione: a distanza mediante terminali disposti nelle abitazioni o diretta sul campo, con strumentazione installata direttamente all’interno del sito (T. Empler, 2014). In riferimento all’installazione dei terminali tecnologici per la fruizione del bene, bisogna fare una riflessione sulle implicazioni impiantistiche che questi possono avere. Bisognerà progettare in maniere adeguata la collocazione e realizzazione degli impianti per evitare problemi non solo alla struttura, ma soprattutto alla lettura stratigrafica delle differenti tracce storiche che il bene conserva. Il termine ICT è l’acronimo che identifica la tecnologia dell’informazione e della comunicazione. Queste sono formate da un sistema complesso nel quale interagiscono molti elementi tra cui hardware, software, dati e procedure che consentono all’utente, attraverso la manipolazione delle informazioni, di accedere, elaborare e archiviare i dati in suo possesso (SAEP ICT,2018). Alcuni esempi di tecnologie ICT applicati ai beni culturali sono le strumentazioni per la digitalizzazione 3D, la presentazione virtuale e interattiva, l’acquisizione digitale degli oggetti, il riconoscimento dei testi antichi, la gestione delle biblioteche o la georeferenziazione dei beni nel territorio. I settori in cui le tecnologie possono offrire il loro aiuto sono: catalogazione e archiviazione, analisi e restauro, fruizione e comunicazione. Ma il settore maggiormente interessato è quello della comunicazione, dove le applicazioni interattive, i siti web e le ricostruzioni virtuali con la grafica 3d (Naccarato, 2011) offrono maggiore interazione con il fruitore. Le IoT sono quelle tecnologie che designano la rete di oggetti che connessi tra loro, permettono il monitoraggio e la gestione dei dati ricevuti in remoto. Sono considerati IOT tutti quegli oggetti che, oltre a permettere la comunicazione tra uomo e macchina, consentono agli stessi oggetti di dialogare tra loro. In questo modo, anche senza la presenza dell’uomo, gli oggetti riescono ad acquisire dati che successivamente vengono elaborati da specifici software (Coppolino et al). Siamo nell’era in cui l’utilizzo delle IoT permette lo scambio non solo tra le persone e i singoli oggetti, ma anche tra gli oggetti stessi che, dotati di sensori possono inter-scambiare e sintetizzare i dati senza l’ausilio dell’uomo (Atzori et al., 2014; Höller et al., 2014). Il contributo delle IOT nell’ambito culturale consente di identificare i beni come smart cultural objest (Gaiani, Martini, 2013). L’utilizzo delle ICT nella sfera del Patrimonio culturale ha un ruolo importante per la valorizzazione, la conservazione, in particolar modo per il miglioramento della fruizione non solo fisica, ma anche dei dati per gli utenti. I campi di applicazione possono essere così identificati: tutti quegli strumenti utili all’archiviazione e alla conservazione dei dati di un determinato bene ad esempio i database, gli strumenti per la comunicazione all’interno del sito che permettono un dialogo con i fruitori e tutti gli strumenti capaci di migliorare l’esperienza durante e dopo la visita (Ioannidis, 2014). Fondamentale diviene il controllo, la manutenzione e il continuo aggiornamento dei dati, che dovrà essere effettuata da personale qualificato preferibilmente facente parte dell’organismo preposto alla gestione del bene.
Nell’era della rivoluzione tecnologica, i device e i software appaiono strumenti utili nel panorama della fruizione dei beni culturale. Negli ultimi decenni la figura del fruitore, non viene considerata come un normale utilizzatore finale del bene, ma viene data molta importanza all’esperienza che quest’ultimo ha durante la visita. I progettisti sono chiamati, non solo a rispondere alle esigenze legate alla spazialità, ma anche al modo in cui i luoghi della cultura possano coinvolgere i fruitori, attraverso il racconto, dello spazio e dell’esperienza. La parola d’ordine è il coinvolgimento del fruitore nello spazio e nella storia del luogo, attraverso un continuo scambio di informazioni, reso possibile mediante le nuove tecnologie, ad esempio con il digital storytelling o i contest digitali (Zane,2018). Il MIBACT sta supportando e incentivando l’utilizzo delle tecnologie informatiche nel settore della valorizzazione del patrimonio culturale, realizzando delle linee guida e supportando la promozione su differenti canali. Infatti, di recente, sono state lanciate differenti campagne pubblicitarie con protagonisti proprio i beni culturali, che attraverso una grafica accattivante e dei loghi appositamente realizzati, mirano alla riconoscibilità immediata dell’opera (Fig. 2-3). Anche sulla scia dei contest digitali, il MIBACT ha lanciato differenti campagne che promuovono non solo l’uso delle tecnologie in ambito culturale, ma rendono il visitatore protagonista della comunicazione dello stesso bene. Il continuo progresso porta a pensare all’uso della tecnologia nell’ambito dei beni culturali come un continuo work in progress. È cambiato il concetto di interazione tra le parti, ampliando gli orizzonti, pensando non solo al rapporto tra il singolo e l’oggetto, o tra l’utente e la tecnologia, ma all’interazione sociale che si potrebbe creare durante la visita del patrimonio (Bonacini, 2013). È in atto una sperimentazione tra gli oggetti culturali e i fruitori, che ha come obiettivo quello di instaurare nuovi livelli relazionali. Il visitatore non vive più in modo passivo l’esperienza di fruizione, ma diventa parte attiva, capace di segnalare non solo le criticità ma anche gli aspetti positivi della visita, innescando una continua partecipazione alla valorizzazione del bene stesso. La gestione delle informazioni e la loro fruizione è stata radicalmente cambiata dall’introduzione dello smartphone. Grazie a quest’ultimo, nell’ambito culturale, l’utente ha a disposizione non solo una grande quantità di dati, ma anche libertà di fruizione e movimento, rimanendo sempre aggiornato, indipendentemente dal luogo in cui si trova. Analizzando quella che potrebbe essere l’esperienza tipo di un fruitore possiamo supporre che l’utente utilizzi le tecnologie per la geolocalizzazione per recarsi in un determinato sito culturale, durante la visita viene guidato dai QRcode disposti lungo il percorso, condividendo sui social le foto del sito racconta la sua esperienza contribuendo alla pubblicizzazione del luogo. Quindi appare fondamentale l’esperienza di fruizione, durante la quale vengono scambiate informazioni tra oggetto culturale e fruitore, tra i fruitori e tra il personale, innescando un processo di interscambio di informazioni che, sommati ai dati proveniente dai professionisti o dagli studi condotti, accresce la conoscenza del bene (Solima, 2016). La prima fase di studio del patrimonio che si attua con la ricerca storica, diviene fondamentale per la raccolta di tutte quelle informazioni utili non solo alla conoscenza, per identificare il giusto intervento di tutela da realizzare, ma anche per tutte quelle operazioni volte alla valorizzazione e all’uso del bene. Un’adeguata attenzione merita la diversificazione dei livelli di trasmissione della conoscenza acquisita, che deve essere rivolta non ad un pubblico omogeneo, ma differente per età, finalità conoscitive e modalità di fruizione. Proprio su queste necessità, le tecnologie smart mostrano co-
Fig.2 “Gran virtual tour”, tour virtuali promossi dal MiBACT per esplorare il patrimonio culturale da casa, (Photo: Istituto Centrale per la Grafica, Roma, 2020) Fig. 3 “L’arte ti somiglia”, campagna di comunicazione promossa dal MiBACT per promuovere i musei italiani, (Photo: MiBACT, 2018)
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me sia possibile realizzare una fruizione differenziata, legata alle esigenze dei singoli (Attianese, Gatto, 2015). Queste tecnologie permettono di arrivare ad un nuovo livello di comunicazione e modalità di visita, rispetto ai tradizionali strumenti utilizzati. L’esperienza virtuale non può e non deve essere sostituita all’esperienza dal vivo, ma queste tecnologie possono allargare il bacino d’utenza, con una fonte di visibilità maggiore, rendendo la parte didattica legata alle visite sempre più interessante e attiva. I social si stanno rivelando degli strumenti molto utili per la comunicazione del patrimonio culturale, paragonando l’esperienza di visita ad un laboratorio creativo, dove ogni singolo utente può condividere la propria personale esperienza di visita. Le nuove tecnologie offrono una grande possibilità per la fruizione e la valorizzazione del patrimonio, mostrando la loro importanza per la divulgazione culturale del bene (Bonacini, 2011). Concentrandoci sull’esperienza che viene offerta al fruitore prima, durante e dopo la visita, La Rocca (2014) ha individuato tre tipologie di ICT capaci non solo di promuovere il bene, ma anche di migliorare l’esperienza che questo offerto ai fruitori, in particolare Information-centered ovvero quella applicazione a supporto del fruitore durante la visita, Tourist-centered che si occupano di personalizzare l’esperienza di visita e infine Tourist-engaging che, trasformano il fruitore in parte attiva nel monitoraggio del bene, non solo relativamente ai servizi offerti durante la visita, ma anche sullo stato di salute del bene stesso. Se prendiamo in considerazione un sito archeologico ci renderemo conto che su di esso gravitano non solo le attività inerenti alla ricerca scientifica, ma anche tutte quelle attività legate alla conservazione e manutenzione, ma in particolar modo alla fruizione. Se all’interno del sito sono presenti tante figure diviene fondamentale la collaborazione tra le parti e le ICT possono offrire il loro contributo nella fase di raccolta e gestione dati, attraverso una piattaforma che consenta la catalogazione e condivisione delle informazioni. L’oggetto culturale quindi può essere considerato come uno smart object, che grazie all’ausilio delle ICT e delle IOT, può scambiare dati tra gli utenti, diventando non solo sorgente, ma anche destinatario delle informazioni. Una riflessione deve essere fatta per quanto riguarda la gestione delle informazioni, in particolar modo nella fase di immissione dei dati da parte degli utenti che deve essere sempre verificata, per evitare la diffusione di dati errati o inesatti, garantendo la qualità conoscitiva e comunicativa per gli utenti (Gaiani, Martini , 2013). Se il sistema diffuso dei beni culturali fosse equipaggiato con dispositivi IOT, si potrebbe creare un modello di conoscenza attivo e dinamico, capace di scambiare dati non solo tra gli esperti, ma anche tra gli utilizzatori finali e gli oggetti stessi, generando un modello di conoscenza collettiva attiva. Bibliografia Amodio T. 2017, Nuove tecnologie per la fruizione dei beni culturali. L’iniziativa “Salerno in particolare. Beni culturali e innovazione”, «Bollettino della Associazione Italiana di Cartografia», n. 160, pp. 22-35. Attianese E., Gatto S. 2015, La valorizzazione della monumentalità pubblica in Campania attraverso l’impiego delle nuove tecnologie informatiche: l’esperienza del progetto Mito,«VIth Conference Diagnosis, Conservation and Valorization of Cultural Heritage» 10/11 December Atzori L., Iera A., Morabito G. 2014, From “smart objects” to “social objects”: The next evolutionary step of the internet of things, «Communications Magazine», IEEE, vol. 52, n. 1, pp. 97-105. Barbati C., 2002, Le forme di gestione, in C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, (a cura di) Il diritto dei beni culturali, Il Mulino, Bologna
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L’architettura del tessuto urbano del centro Storico di Corleone, analisi e valutazione per un progetto di restauro urbano Marco Ricciarini
Marco Ricciarini
Dipartimento di Architettura , Università degli studi di Firenze.
Abstract Negli ultimi decenni Il problema della salvaguardia della conservazione del patrimonio Dei centri storici In Italia è divenuto sempre più sentito e attuale Questa necessità di crescita culturale ha prodotto da un lato una matura riflessione teorica, e dall'altro grazie ad un accelerato sviluppo tecnologico caratterizzano dallo studio e dalla sperimentazione di molteplici metodologie e strumentazioni per l’anamnesi conoscitiva ed il restauro del patrimonio culturale. Il caso studio del centro storico di Corleone rappresenta l’occasione per analizzare complesse problematiche sia per la gestione della fruizione e manutenzione di un’area così carica di valenza storica, sia in caso di previsioni di recupero e restauro di importanti aree urbane. Corleone rappresenta un importante elemento per la ricostruzione delle vicende storiche dell’entroterra siciliano occidentale: le testimonianze storiche che sopravvivono ancora oggi a Corleone restituisco il quadro di secoli di storia, di tradizioni religiose e contadine e di relazioni sociali che dona il territorio un altro valore sia culturale sia paesaggistico.
Keywords Rilievo Urbano, Centri Storici Minori, Corleone.
Introduzione Facciate, scalinate, gronde, terrazze, parapetti e decori: gli edifici lungo le strade sono la manifestazione di esuberanti scenografie che caratterizzano uno dei periodi più fecondi della cultura artistica siciliana. Palermo, Catania, Messina, Caltagirone, Militello Val di Catania, Modica, Noto, Palazzolo, Ragusa, Avola, Scicli sono i principali centri che l’architettura barocca ha connotato con un forte senso di teatralità. Se da un lato la bellezza delle città costiere nel corso del tempo ha mantenuto una propria identità e vitalità, i centri minori dell’entroterra siculo hanno subito l’inesorabile processo di abbandono e la conseguente perdita di qualità dell’edificato. Le molteplici cause si ritrovano dalla contingente crisi economica, all’isolamento geografico, alla mancanza di lavoro che costringe i giovani ad allontanarsi, alla carenza di infrastrutture e servizi efficienti (istruzione, sanità, svago, sport, ecc.), ai cambiamenti degli stili di vita e di consumo che tendono ad omologarsi e sono condizionati dai grandi marchi commerciali, etc. Il rischio per i centri minori è che possano diventare
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luoghi dell’oblio, in cui si perdano i caratteri di una civiltà secolare e, con essi, l’identità non legata soltanto agli edifici o più in generale ai manufatti, ma alle tracce e agli elementi di cultura materiale e immateriale Un impegno imprescindibile è oggi approfondire l’analisi della struttura degli attuali sistemi urbani, per valutarne l’anonimato e la riconoscibilità dei tessuti. Questi compongono luoghi carichi di memoria, configurandosi nel tempo come struttura di rapporti sociali e culturali oltre che come struttura spaziale. Un’operazione necessaria per affrontare ipotesi di riqualificazione del costruito in grado di risolvere le principali criticità è quindi quella del reinsediamento di nuove attività e del mantenimento degli abitanti. Per rispondere a queste esigenze è opportuno parlare di accessibilità, mobilità urbana e recupero del patrimonio storico-artistico, in qualche caso da destinarsi a nuove funzioni. Il Dipartimento di Architettura di Firenze attraverso una collaborazione con l’Amministrazione di Corleone ha condotto una ricerca scientifica un una porzione di centro storico per valutare attentamente come questo si configuri come porzione di città all’interno della quale i caratteri di omogeneità (funzionale, morfologica e ambientale) sono molto forti e prevalgono sulle differenze1. Il “centro storico”: il quadro normativo Il processo di conservazione del patrimonio architettonico urbano interessa ciascuna comunità, che attraverso la propria memoria collettiva e la consapevolezza del proprio passato, è responsabile dell’identificazione e della gestione del proprio patrimonio. L’impegno messo in campo e le decisioni finalizzate alla conservazione del patrimonio architettonico, urbano e paesaggistico devono tener di conto del patrimonio
Fig. 1 Vista della città di Corleone
Riferimento al gruppo di lavoro. Il lavoro di ricerca sul centro storico di Corleone è stato coordina dallo scrivente, dall’arch. Giovanni Minutoli e dall’arch. Riccardo Rudiero del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. coadiuvati dall’architetto Salvatore Gentile e da Pierpaolo Lagani. Dagli studenti del Corso di Laboratorio di Restauro (terzo anno) Per l’amministrazione di Corleone l’assessore Luca Gazzara. 1
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Marco Ricciarini Fig. 2 Centro storico di Corleone inquadramento dell’area oggetto di studio.
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nella sua totalità, ponendo l’attenzione anche a quelle porzioni che nell’immediato non sono caratterizzate da un particolare significato, ma che nel tempo potrebbero assumerne. La Conferenza Internazionale sulla Conservazione “Cracovia 2000” apre il nuovo millennio consolidando la consapevolezza dei profondi significati connessi al patrimonio culturale, e con La carta di Cracovia vengono proposti i principi, in linea con la precedente carta di Venezia, in merito alla conservazione e al restauro nel nostro patrimonio costruito. Ferma, quindi, la necessità di considerare il patrimonio nella sua totalità, nel nostro contesto nazionale occorre sottolineare che i centri storici sono forse uno dei patrimoni più importanti e che in quanto tali devono ricevere particolare attenzione dalle istituzioni. Tuttavia, benché l’ultimo ventennio abbia significativamente contribuito a definire il concetto di “centro storico” in relazione al processo di cambiamento, trasformazione e sviluppo delle città storiche, ancora oggi c’è assenza di definizione e chiara previsione legislativa di “centro storico”. La protezione e la conservazione del patrimonio storico architettonico inteso come strumento necessario alla salvaguardia della città storica è, tuttavia, un tema che già da tempo è molto dibattuto: fin dal 1960 con la carta di Gubbio, emanata dall’ l’Associazione Nazionale Centri Storico-Artistici, si è posta l’attenzione sull’importanza del centro urbano nel suo insieme, optando, per la prima volta, per un’azione di risanamento del complesso di beni presenti nei centri storici. Dalla fine degli anni 60 in poi sono state emanate una serie di leggi a livello nazionale che gradualmente hanno sempre più tenuto di conto dell’importanza che riveste il centro storico nelle azioni di pianificazione urbanistica. Il primo vero momento di considerazione dei centri storici da parte del legislatore si è avuto con la legge-ponte, che chiese alle amministrazioni di perimetrare i centri abitati e mirò a limitare la costruzione di nuovi immobili, non proponendosi però come strumento per la conservazione del patrimonio edilizio esistente. Numerose regioni italiane, poi, negli ultimi decenni si sono dotate di strumenti legislativi che hanno come finalità la tutela, la conservazione e la valorizzazione dei centri storici, non ultima la Sicilia che il 10 luglio 2015 ha emanato la legge 13 “Norme per favorire il recupero del patrimonio edilizio di base dei centri storici”. Nei primi anni del duemila si sono, poi, fatti strada i piani colore, strumenti normativi che mirano a riqualificare i centri storici, senza però ampliare lo studio alle tipologie costruttive, alla storia e all’unicità dei singoli fabbricati, di fatto analizzando solamen-
Fig. 3 Quartiere analizzato
te le quinte urbane utilizzando le cromie più documentate senza valutare l’edificio come un unicum. Un approccio limitato se non implementato con lo studio della morfologia dell’urbano, dell’analisi tipologica dell’abitato e delle singole unità edilizie. Nonostante questi passi avanti, oggi di fatto le zone territoriali omogenee A, i c.d. centri storici, non rientrano tra le aree tutelate per legge neppure ai sensi del vigente art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (Cons. di Stato n. 855/2014), ma rientrano invece tra gli immobili e le aree di notevole interesse pubblico, ex art. 136 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, qualora sia stata effettuata la dichiarazione di notevole interesse pubblico nei termini e modalità prevista dalla legge. In assenza di apposito vincolo riguardante espressamente il centro storico cittadino, emanato ai sensi dell’art. 136 D.Lgs. 42/2004, non è ipotizzabile l’applicazione delle disposizioni del Codice dei beni culturali sul particolare procedimento autorizzatorio degli interventi edilizi che abbiano oggetto immobili ivi collocati. Un centro storico, per diventare oggetto di tutela e applicazione di vincolo paesaggistico per notevole interesse pubblico, deve essere vincolato con specifico provvedimento puntuale oppure oggetto di apposita previsione nel piano paesaggistico regionale. Il patrimonio urbano: comprenderlo per tramandarlo La consapevolezza di aver ereditato un contesto urbano di incommensurabile valore, composto da forme architettoniche che necessitano di uno studio sempre più approfondito per poterle conservare e valorizzare, invita alla conoscenza. Nonostante il quadro normativo, è, infatti, ormai ferma convinzione considerare i centri storici come “zone” da rivitalizzare e funzionalizzare nel contesto della pianificazione generale del territorio, sia a fini prettamente urbanistici, sia a fini socio-economici e di sviluppo. Il centro storico non deve essere considerato un qualcosa di statico da conservare per mettere in mostra, ma vanno considerati “opere in movimento”, un patrimonio vitale da proteggere. A questo scopo, la descrizione degli elementi morfologici, funzionali, tipologici e ambientali è la base da cui approfondire la qualità architettonica urbana e ambientale del contesto, utile all’attivazione di politiche di salvaguardia e valorizzazione del tessuto storico della città.
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Marco Ricciarini Fig. 4-5 Fronti urbani analizzati Fig. 6 Analisi dei Fronti edilizi del comparto oggetto di studio
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La definizione degli elementi fisici principali costituisce un primo livello di riconoscimento qualitativo e quantitativo del tessuto urbano e del suo intorno. L’approccio di un campionamento che analizza e l’architettura unità edilizia per unità edilizia è utile, per esempio, per valutare il linguaggio architettonico definito, nel rapporto tra misura e materia, attraverso la rappresentazione dei suoi caratteri. L’immagine urbana di un luogo, tuttavia, non è definita solamente dalle forme, dall’aspetto cromatico degli edifici, dai rapporti formali e spaziali dell’aggregato urbano nel suo complesso, ma deriva anche dalla sommatoria di fattori storico, sociali, economici e culturali che ne determinano l’identità. Consegue che le operazioni d’acquisizione delle caratteristiche del luogo finalizzate alla corretta comprensione del tessuto urbano devono tener di conto delle relazioni sociali che definiscono l’immagine urbana stessa. In questo modo si punta all’acquisizione di una comune consapevolezza da parte dell’amministrazione, degli abitanti, degli imprenditori e di chi fruisce quotidianamente il centro storico della necessità di attuare una linea di gestione che lo valorizzi e ne garantisca un’elevata qualità percettive. Un piano di recupero con la creazione di una buona rete di sottoservizi, la progettazione degli spazi pubblici o la messa in opera di un programma di restauro edilizio delle abitazioni sono elementi fondamentali per la valorizzazione di un centro storico, ma se questi non sono accompagnati e sostenuti da un progetto più ampio in cui tutti gli enti locali, gli abitanti, i fruitori e gli imprenditori lavorino affinché questa “nuova” entità diventi nuovamente vissuta e fruita tutti gli sforzi profusi per il recupero rimarranno vani, perché a pochi anni di distanza il degrado avrà preso il sopravvento e nulla sarà cambiato. Lo studio su Corleone Partendo da questo linea filologica abbiamo affrontato le fasi preliminari di analisi del centro storico di Corleone. Il rilievo del tessuto urbano campionato per le finalità d’indagine è frutto di una modalità procedurale strutturata per gradi e definita a partire da una prima fase d’indagine sensoriale percettiva del luogo per giungere alla descrizione di dettaglio dei vari fronti. L’analisi percettiva del contesto valuta sia le componenti ambientali sia i fattori di interrelazione, con particolare riferimento alla necessità di comprensione del livello di degrado urbano e architettonico. A fronte di tali considerazioni si è proceduto attraverso un processo analitico che, da un inquadramento generale, giungesse fino ad analizzare le varie scale di dettaglio attraverso modalità di rappresentazione e convenzioni grafiche definite al fine di dar luogo ad una comunicazione immediata. Per la lettura del centro storico di Corleone sono, quindi, stati individuati 30 comparti omogenei definiti da morfologia e tessuto viario. Questa suddivisione in specifiche aree ha facilitato la creazione di un piano d’azione strutturato per livelli: il centro storico e la relazione tra i comparti analizzati, le aree omogenee da poter escludere dalla perimetrazione del centro storico, gli elementi architettonici caratterizzanti i vari ambiti e i singoli edifici con individuati i caratteri distintivi dei fronti. Si è quindi proceduto ad un’attenta lettura dell’ambiente fisico grazie ai risultati ottenuti da una capillare indagine di rilevamento e acquisizione di dati metrici e fotografici delle unità presenti nell’area individuata e degli elementi caratterizzanti gli edifici e del contesto. La restituzione dei fronti stradali attraverso il disegno a fil di ferro e dei fotopiani ha definito un quadro restitutivo delle caratteristiche delle architetture esaminate. All’interno della logica metodologica che ha guidato le operazioni di rilie-
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Marco Ricciarini Fig. 7 Tecnologie costruttive locali
vo dell’edificato la conoscenza del luogo è stata possibile vivendo e catalogando le abitudini sociali e le caratteristiche relazionali con lo spazio e il luogo. Il comparto analizzato individuato tra Via Benivegna, Via Spadafora, Vicolo Quaglino e Via San Martino, area in fronte alla chiesa madre di San Martino e al Municipio, come tutto il centro storico di Corleone, è caratterizzato da piccole viuzze strette, vicoli di collegamento tra le strade principali e continui sali scendi definiti dalla morfologia del luogo. L’architettura costituita dall’apparato murario dell’edificio più o meno degradato è adornata da una moltitudine di elementi decorativi o di elementi tecnologici tipo cavi della luce che caratterizzano l’assetto composito dei fronti. Dal punto di vista della consapevolezza urbana, la rappresentazione dello stato di fatto della realtà dei fronti del comparto oggetto d’indagine mette in risalto due aspetti fondamentali, i segni dell’architettura e l’intento progettuale più o meno cosciente di chi nel corso del tempo ha modificato l’edificato. L’intento è stato di rendere il tessuto urbano leggibile ad ogni valore di scala necessario per valutare la qualità urbana che da ogni contesto è possibile dedurre per poi successivamente metterla in relazione col suo intorno. Un’azione quanto mai necessaria per poter leggere tutte le informazioni connesse alla documentazione grafica prodotta rappresentativa di uno specifico aspetto della realtà.
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Conclusioni L’identificazione di uno specifico tessuto urbano del centro storico di Corleone ha consentito la compressione delle condizioni strutturali dei differenti insediamenti (da quelle più evidenti di tipo funzionale utili per valutare lo stato di conservazione dei fronti degli edifici, a quelle necessarie alla comprensione di aspetti immobiliari e socioeconomici). La conseguente comprensione del tessuto per forma tipologica e morfologica delle architetture, l’analisi dei caratteri di formazione storica, lo studio dei rapporti che insistono fra i differenti tipi edilizi e le relative funzioni, intesi come fattori caratterizzanti il contesto urbano, sono stati indicatori fondamentali per comprendere e descrivere le modalità con cui esso si è venuto formando e come adesso funziona. La volontà di attuare un piano di conservazione e valorizzazione del Centro Storico di Corleone è stata, quindi, la finalità principale di questo studio, diretto alla definizione di strategie volte alla sensibilizzazione e alla consapevolezza del valore intrinseco del luogo. Le strategie per il riuso dell’edilizia esistente devono, poi, tener conto della consapevolezza che per rivitalizzare il nucleo antico di Corleone e rendere sostenibili gli interventi c’è bisogno di azioni sinergiche che prevedano l’inserimento di attività con finalità turistica quanto quelle residenziali, produttive, commerciali ecc. Bibliografia e sitografia A. Badami, M. Carta, Storia e Urbanistica della città di Corleone, Tipografia Bonfardino, Palermo,1997 N.T.A. - Modifiche D.D.G. n.273 - D.R.U. del 25.05.10 Regolamento Edilizio - Modifiche D.D.G. n. 273 - D.R.U. del 25.05 http://media.planum.bedita.net/97/f8/CartaMaurizio_paperSIU2009.pdf M.Carta, Il piano paesaggistico del partinicese, corleonese e dei monti sicani. armature e strategie, Università degli Studi di Palermo, Palermo, 2009 http://www.ecoplann.it/prg-del-comune-di-corleone.html
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La dinamica conoscitiva del paesaggio storico e il ‘restauro per la valorizzazione’: l’Atlante Dinamico DynASK (Dynamic AtlaS of Knowledge) Antonio Pugliano Antonio Pugliano Federica Angelucci Lorenzo Fei
Dipartimento di Architettura, Università Roma Tre.
Federica Angelucci
Dipartimento di Architettura, Università Roma Tre.
Lorenzo Fei
Dipartimento di Architettura, Università Roma Tre.
Abstract The University of Roma Tre, with the scientific responsibility of Antonio Pugliano, is developing a digital information system, on a geographical basis, referring to Lazio and Rome in particular. The focus of the work is the interaction between the digital culture and the design process of restoration and enhancement. The Research is carried out by investigating the most up-to-date tools and methods for the systemic structuring of knowledge of the territory, for the characterisation of buildings, fabrics and archaeological and geological substrates. The current objective of the work is to contribute to the fruition and security of the historical landscape through the dissemination, in an innovative and attractive digital key, information leading to the design of philological restoration and the prevention of seismic and hydrogeological risk. The method is based on the digital processing of information extracted from direct and indirect historical sources concerning monuments, urban structures and buildings. The Atlas actually consists of a collection of Gis in which the sources are made unpublished by their critical arrangement and their digital transcription and are prepared to express summary data useful to compose, for comparison and aggregation, the thematic informative scenarios useful both for the planning of the restoration and the valorization of architectures and sites, and for the governance of the territory. Keywords heritage, historical landscape, restoration, enhancement, Atlas.
Premessa (A.P., F.A., L.F.) L’Università di Roma Tre, con la responsabilità scientifica di Antonio Pugliano, sta elaborando un sistema informativo digitale, su base geografica, riferito al Lazio e a Roma in particolare. Focus del lavoro è l’interazione tra la cultura digitale e il processo progettuale del restauro e della valorizzazione, e si svolge indagando gli strumenti e i metodi più attuali per la strutturazione sistemica della conoscenza del territorio, ai fini della caratterizzazione dell’edilizia, dei tessuti e dei sostrati archeologico e geologico (Pugliano, 2018). L’obiettivo attuale del lavoro è contribuire alla fruizione e alla sicurezza del paesaggio storico attraverso la diffusione, in una chiave digitale innovativa e attrattiva, delle informazioni propedeutiche alla progettazione del restauro filologi-
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Fig. 1 Piattaforma Digitale dell’Atlante Dinamico. Sopra: Digitalizzazione e georeferenziazione della cartografia storica prodotta da Rodolfo Lanciani. Ricerca, elaborazione grafica, architettura del database a cura di Luca Menegatti, Asia Barnocchi. Al centro e sotto: Itinerari Museali Urbani. La ricomposizione dalle fonti dirette e indirette di monumenti e siti. Area Archeologica Centrale. L’organismo architettonico del portico Foro di Cesare: ricostruzione congetturale con finalità didascaliche dell’impianto e del linguaggio costruttivo antico al fine di comporre il repertorio di immagini per la fruizione in chiave ICT e per individuare le ‘primitive’ delle componenti costruttive antiche da applicarsi nel restauro filologico con metodiche HBIM. Ricerca storica, ricerca tecnologica, documentazione, elaborazione grafica e sintesi digitale di Marco Piccoli, Massimiliano Vita).
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co e alla prevenzione del rischio sismico e idrogeologico. Il metodo si basa sull’elaborazione digitale di informazioni estratte da fonti storiografiche dirette e indirette riguardanti i monumenti, i tessuti e l’edilizia. Il prodotto della ricerca è un ‘Atlante Dinamico’. Esso si compone di una raccolta di Gis nei quali le fonti sono rese inedite dalla loro sistemazione critica e dalla loro trascrizione digitale e sono predisposte per esprimere dati di sintesi utili a comporre, per comparazione e aggregazione, gli scenari informativi tematici utili tanto alla progettazione del restauro e della valorizzazione di architetture e siti, quanto alla governance del territorio (Pugliano 2019) (fig.1). La scelta del viatico più aggiornato per la comunicazione di tali contenuti impone l’utilizzo delle tecnologie informatiche; in tale scenario i prodotti digitali finalizzati alla documentazione e alla comunicazione del patrimonio culturale non possono sottrarsi alle istanze di una rapida e pressante richiesta di standard e di metodi al fine di creare best practices. In risposta a tali condizioni operative la progettualità della ricerca si allinea alle tendenze condivise a livello europeo ove si registra ormai da tempo un crescente interesse per la digitalizzazione del patrimonio culturale e per la creazione di banche dati in rete; si pensi per questo alle numerose esperienze maturate nella consapevolezza della centralità del tema della conservazione dell’autenticità dei dati scientifici, che anima la London Chart. Il WebGis Descriptio Romae e il suo ampliamento (F.A.) Il WebGis Descriptio Romae s’inserisce in questo contesto culturale al quale intende contribuire, scientificamente e metodologicamente, progredendo nel solco dell’attività del gruppo di ricerca interdisciplinare coordinato dal 1998 al 2010 da Paolo Micalizzi. Il WebGis Descriptio Romae è realizzato sulla base cartografica del primo catasto generale dello Stato pontificio su base particellare, il Catasto Pio-Gregoriano (Archivio di Stato di Roma 1818-1824). In esso l’insieme di dati sulla storia, l’architettura e l’archeologia della città trova una sistematica collocazione: ogni edificio o sito urbano, trasformato in ‘oggetto grafico’ è il ‘contenitore’ di una serie di informazioni documentate, selezionate e interpretate (Buonora et al., 2014). Il Sistema Informativo contiene dati diversi: catastali, progettuali, iconografici, tutti di agevole consultazione e si configura come il contesto di accoglienza ideale per un ampliamento concettuale che lo trascriva nella forma di un Atlante agito in chiave dinamica attraverso l’implemento e l’aggiornamento di dati utili a letture ‘trasversali’ su base comparativa. Valga l’esempio degli esiti conoscitivi della lettura relazionale tra la tipologia degli edifici considerata in chiave evolutiva, la loro consistenza materiale e la fisionomia tecnologica (numero di piani, sopraelevazioni, ampliamenti, trasformazioni d’impianto ecc.) e della condizione del sottosuolo dovuta alla geologia e alla stratificazione delle preesistenze. L’Atlante Dinamico, attraverso il trattamento delle informazioni ai fini della loro immissione nel sistema, l’introduzione della gerarchia di appartenenza tematica, l’uso di codifiche standard, si pone come un prodotto scientifico esportabile e metodologicamente efficiente. L’ampliamento attuale del sistema accoglie gli esiti di attività che l’Università Roma Tre ha sviluppato nel tempo: il Thesaurus per la conoscenza e la documentazione dell’architettura residenziale tipica della tradizione italiana, su richiesta del MiBAC-Iccd, che diffonde le conoscenze utili alla valorizzazione, alla conservazione e alla fruizione delle architetture e dei siti di interesse storico, artistico, antropologico, diffusi nel territorio nazionale (Pugliano,
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2009); il progetto strategico CNR-Miur ‘Diagnostica e salvaguardia dei manufatti architettonici con particolare riguardo agli effetti derivanti da eventi sismici e calamità naturali’, studio delle tecniche d’intervento tradizionale sull’edilizia storica. Le ricerche citate rappresentano l’ideale prosecuzione della produzione dei Codici di Pratica e dei Manuali del Recupero, alla produzione dei quali alcuni Ricercatori di Roma Tre si applicano da oltre 25 anni e dimostrano una solida vocazione applicativa in ambiti scientifici e operativi e si guardi per questo all’Atlante dei Centri Storici Italiani esposti al Rischio Sismico prodotto dall’Università Roma Tre per il Servizio Sismico Nazionale della Presidenza del Consiglio. La città storica di Roma costituisce un esemplare campo di applicazione per la documentazione, la caratterizzazione, la valorizzazione dell’ambiente urbano, tanto ricco quanto esposto a una crescente fragilità. L’attività di conoscenza sistematica della città storica di Roma è onerosa e complessa, resa problematica in ragione della straordinaria estensione del suo patrimonio e alla complessità del suo sedime naturale e antropico che annovera singolarità geologiche e notevoli stratificazioni archeologiche: è necessario un approccio tassonomico, selettivo in relazione alle tematiche e finalizzato. L’ambito di esercizio del WebGis Descriptio Romae ampliato, nella declinazione dell’Atlante Dinamico, dialoga con le istanze della fruizione turistica di qualità, con il sostegno alla visita diretta e virtuale, la programmazione delle iniziative di tutela e, con essa, di prevenzione del rischio ambientale, sismico e idrogeologico. Al fine descritto si è implementato il sistema attraverso lo sviluppo della ricerca documentaria di carattere iconografico-progettuale, indagando l’edilizia otto-novecentesca (Spagnesi 1974) ed estendendo l’ambito territoriale considerato all’intera città storica definita e perimetrata dal Piano regolatore; pertanto, la documentazione che attualmente si ferma all’Unità d’Italia è stata implementata attraverso l’individuazione, l’acquisizione, schedatura/codifica e inserimento nel Sistema anche dei progetti post-unitari, operando l’acquisizione di selezionati repertori documentali conservati nell’Archivio Storico Capitolino: il Titolo 54, il Titolo 62, l’Ispettorato Edilizio, il Piano Regolatore, e nell’Archivio Centrale dello Stato il Fondo Roma Capitale. L’utilizzazione dei dati documentali, letti in una nuova chiave processuale, si offre come supporto alla conoscenza propedeutica alla valutazione dei citati scenari di rischio, che possono essere considerati nella interazione fra le caratteristiche materiche e storico-processuali degli edifici e le caratteristiche delle stratificazioni archeologiche e geologiche del sottosuolo. In origine il WebGis Descriptio Romae era riferito ad oggetti grafici molto ampi che potevano ad esempio essere individuati nell’isolato, nella piazza o nella strada; attualmente i documenti sono riferiti non all’isolato, ma ad oggetti grafici più piccoli, quali le particelle catastali: ciò comporta maggior impegno l’incremento sensibile dell’onerosità della vettorializzazione. Le particelle catastali, infatti, oltre ad essere molto più numerose degli isolati, presentano ulteriori suddivisioni (che oggi chiamiamo ‘subalterni’) e, quindi, danno luogo ad un aumento esponenziale delle informazioni contenute nel database. Se consideriamo, inoltre, che le particelle catastali d’angolo dispongono spesso di due accessi, uno su una strada e uno sull’altra, le elaborazioni si moltiplicano, tuttavia con notevoli vantaggi in termini di puntualità delle informazioni. La scheda attributo di ogni documento quindi contiene numerosi campi, dove sono riportate varie informazioni (anno, autore, luogo ecc.) si possono effettuare delle interrogazioni trasversali, di tipo tematico. A esempio se si desidera conoscere quanti edifici erano in possesso di un determinato proprietario all’interno del perimetro della
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pianta del Catasto Pio-Gregoriano, utilizzando la funzione ‘cerca’, poi ‘proprietario’ e scrivendone il nome, si possono evidenziare tutti gli edifici che appartenevano ad un determinato possidente. Conseguentemente si illuminano sulla pianta della città gli oggetti grafici collegati a dette schede: quindi si può effettuare, in pochi secondi, una ricerca che potrebbe richiedere altrimenti molte settimane o mesi da trascorrere in uno o più archivi. Ovviamente si può interrogare il sistema sapendone gli estremi catastali, la tipologia, i documenti, il toponimo attuale della strada o il Brogliardo. Al fine della conoscenza dell’edilizia storica per la sua tutela e valorizzazione questo tipo di indagine diviene una indispensabile fonte scientifica dalla quale intraprendere il lungo percorso delle scelte per il restauro e la valorizzazione. La finalizzazione della ricerca storiografica: sinergia tra indagini documentarie e letture processuali nell’Atlante Dinamico DynASK (A.P.) Elemento fondante delle interpretazioni storiografiche circa lo sviluppo della città di Roma all’interno del sistema dell’Atlante Dinamico è il repertorio esteso di fonti cartografiche selezionate e rielaborate (cfr. Cartografia). L’elaborazione è consistita nella realizzazione di un geodatabase che accoglie la vettorializzazione delle informazioni cartografiche in riferimento a una base grafica unica e standard, la Carta Tecnica Regionale, affinché esse siano rese reciprocamente comparabili, a comporre un’inedita rappresentazione stratigrafica della città, esprimendo in chiave sincronica il carattere diacronico dei processi storici di mutazione. La compagine delle fonti cartografiche vettorializzate si compone di un vasto repertorio nel quale trovano luogo elaborazioni cartografiche ‘storiche’ come la pianta del Nolli, il Catasto Urbano Pio Gregoriano o la carta archeologica di Rodolfo Lanciani; a queste fonti storiografiche si associano elaborazioni contemporanee: si pensi all’Atlante della Roma Antica prodotto dal gruppo si ricerca di Andrea Carandini o agli interessantissimi studi di storia urbana condotti su Roma dalla scuola muratoriana e pubblicati agli inizi degli anni Sessanta del Novecento dal CNR, oppure agli studi sulle acque e gli acquedotti cittadini pubblicati da WentwortH Rinne. Le fonti consultate sviluppano ambiti tematici particolari che interessano la qualità del paesaggio storico al riguardo della naturalità antropizzata espressa dagli orti e giardini cittadini, o la sicurezza ambientale: aspetto questo affatto collaterale per la storia della città e per l’attuale fruizione dell’organismo urbano se si considerano l’assetto geologico e idrologico in relazione al danneggiamento sismico documentato o prevedibile per l’edilizia storica. Ciascun repertorio di fonti è stato analizzato e rielaborato affinché le informazioni di ciascuna fonte possano essere parte integrante dell’intero sistema di dati e, quindi, essere aggregate tematicamente in coerenza attraverso la codifica e la vettorializzazione in filtri e layers. Il database vettoriale, composto allo stato attuale di sedici ambiti tematici (filtri) che sviluppano complessivamente oltre milleduecento aggregazioni tipologiche di dati (layers) è stato strutturato per dare luogo a una selezione di Gis monografici interoperabili gestiti su sistemi Open Source, come prescrive la normativa in materia di servizi offerti dalla PA. L’implementazione della piattaforma documentaria esistente nel webGis Descriptio Romae ha reso possibile la saldatura dell’attuale repertorio di documenti già considerati con altra documentazione, anche relativa alla città moderna e contemporanea, consentendo lo sviluppo di inediti approfondimenti legati al censimento e caratterizzazione di processi di sviluppo e mutazione urbani ed edilizi peculiari; valgano gli
esempi del repertorio oggi poco noto dell’edilizia di base qualificata da facciate decorate, o delle architetture post-unitarie delle prime espansioni urbane e dei successivi insediamenti di edilizia economica e popolare. In questo contesto sono operati approfondimenti inerenti gli assetti tipologici, formali e funzionali, distributivi e il lessico della costruzione per componenti e superfici architettoniche; le fonti archivistiche (cfr. Documentazione Archivistica) sono state interpretate catalogando anche i dati deducibili dalle informazioni implicite ai contenuti dei documenti, e si guardi per questo alla definizione dei processi costruttivi insiti nelle intenzioni progettuali denunciate dalle Istanze edilizie raccolte nei fondi Titolo 54 e Ispettorato Edilizio dell’Archivio Storico Capitolino. A vantaggio dell’esportabilità del modello di interpretazione processuale del dato archivistico è stato assunto come riferimento per la produzione delle informazioni da inserire nella base dati, il linguaggio standard (e le eventuali codifiche relative) definito a tal fine dal MiBACT-Iccd con la serie dei Thesauri di Archeologia e Architettura curati negli anni dal medesimo istituto; per la geologia, l’archeologia e la sismica si è fatto riferimento comunque a linguaggi e repertori informativi standard prodotti da Istituzioni preposte al governo e tutela del territorio ed alla ricerca scientifica come l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Protezione Civile e a elaborazioni scientifiche validate (Funicello et al., 1995). Altro cardine del processo conoscitivo dell’Atlante Dinamico è la definizione approfondita degli organismi architettonici attraverso la modellazione virtuale, propedeutica all’uso della tecnologia di ‘realtà aumentata’ da applicarsi nell’allestimento museale dei percorsi di visita urbani e da destinare alla fruizione diretta on site o differita, online, da parte del turismo di qualità. La modellazione è utile a dimostrare assetti tipologici, fisionomie architettoniche, soluzioni tecnologiche in grado di illustrare la sedimentazione della cultura costruttiva di ambiente romano componendone una narrazione didascalica all’interno dei percorsi di visita suggeriti. Pertanto, l’Atlante è insieme il fondamento metodologico e il serbatoio, in continuo aggiornamento, d’informazioni da porre a sostegno di un Museo Virtuale della Città, che sia in grado di fornire molteplici modalità di fruizione, conoscenza storico-processuale, intervento, applicate a un’importante lettura culturale, site specific, dei luoghi interessati. La strategia di valorizzazione sottesa all’Atlante Dinamico DynASK intende, quindi, promuovere la condivisione della conoscenza ma anche favorire l’evoluzione dei diversi contesti economici e produttivi legati al turismo e all’industria culturale suggerendo modalità di fruizione altamente innovative che sperimentino modi di apertura verso il patrimonio regionale. Si tratta di produrre le premesse per ricondurre all’attrattività del cuore archeologico di Roma, contesti territoriali fertili ma sottoutilizzati: si pensi agli ambiti del suburbio innestati sulla antica consolare Appia, o del sistema fluviale Tevere-Aniene, dal sito storico di Tivoli, sino alle importanti presenze archeologiche della costa. Ivi, lo stesso sistema museale attuale, diffuso nel territorio di Roma e della Regione Lazio, può trarre giovamento dall’implemento dei collegamenti diretti offerti dalla messa in rete dell’Atlante, tra diverse realtà museali attraverso possibili ‘autostrade digitali’ che mettano in condivisione contenuti e luoghi a vantaggio dell’attrattività di questi ultimi. L’Atlante quindi contribuisce alla progettualità del MiBACT, concretamente orientata alla massima diffusione della conoscenza del Patrimonio Italiano attraverso l’esercizio dello strumento digitale dimostratosi un eccellente viatico di cultura in occasione della gestione del distanziamento sociale imposto
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dalla recente emergenza sanitaria. Esso consente d’interpretare in chiave sistemica la maturità digitale raggiunta dalla comunità durante il lockdown pandemico fornendo servizi alla fruizione che implementino, al contempo, la conoscenza ‘in remoto’ del patrimonio e l’interesse per la visita ‘in presenza’ dei luoghi di cultura; si tratta di consolidare, attraverso la metodica sperimentale di cross fertilization, la pratica della formazione di competenze e di abilità da incardinare nel mondo del lavoro e della ricerca storica, filologica e tecnologica. Questo scenario consente di rilanciare il ruolo delle Università attualmente in una fase critica, associando allo sviluppo e alla manutenzione culturale del sistema la pratica dell’alta formazione di figure professionali culturalmente evolute e specializzate nelle opere di valorizzazione del patrimonio attraverso lo strumento digitale; la finalità è dar vita a un serbatoio di competenze in grado di generare nuove centralità di sviluppo, nell’ambito dei servizi technology oriented a livello imprenditoriale e in relazione a nuove filiere produttive bottom up. Il corpus delle conoscenze organizzato nella forma descritta, inoltre, contribuisce al processo di produzione del restauro di valorizzazione, a carattere filologico, sul modello delle proposte culturali della manualistica del recupero che per prima fu sperimentata proprio nel contesto romano. Le ricadute operative di questo prodotto sono importanti e generali, ponendosi a fondamento dell’organizzazione di un sistema HBIM scientificamente controllato, nel quale l’osservazione diretta e la sintesi tipologica e storica determinano ‘librerie’ utili alle pratiche del restauro e della manutenzione, in una forma che associ funzionalmente il restauro filologico alla valorizzazione. La fruizione in sicurezza del patrimonio e del paesaggio storico urbano. L’Atlante Dinamico DynASK e la questione sismica (L.F.) Sono rilevanti le forme di utilizzazione scientifico-amministrativa dell’Atlante Dinamico. La medesima modellazione si presta, infatti, a definire negli artefatti le condizioni di esercizio meritevoli di essere considerate in relazione alla prevenzione dei rischi ambientali. Essa è il prodotto della ricognizione attuale sulle mutazioni volumetriche dell’edilizia residenziale ordinaria avvenute nel corso dell’Ottocento e dei primi del Novecento a valere su quasi la totalità degli edifici della città storica ove si registrano sopraelevazioni di uno o più piani attuate in assenza delle opportune opere di consolidamento delle murature. Detta diffusa criticità, già di per sé problematica, è destinata ad aggravarsi ulteriormente in occasione di sostrati caratterizzati da preesistenze archeologiche o da discontinuità naturali o artefatte. Simili peculiarità del territorio urbano si prestano a essere conosciute, in maniera assolutamente puntuale e dettagliata, nell’Atlante, attraverso il colloquio fra i diversi strati informativi ciascuno espressione cartografica originale di dati specifici relativi alle diverse criticità. Tale procedimento appare di estrema utilità in considerazione dell’inserimento del Comune di Roma in zona sismica: a far data dal 2009, la Città storica ricade in zona medio – bassa e bassa, dove il Tevere fa da divisore, ma la conoscenza dettagliata del fenomeno non appare a tutt’oggi esauriente posta anche la scarsa documentazione presente a livello generale e puntuale sui danni per effetto di sismi storici anche di rilevante intensità. L’Atlante Dinamico introduce quindi, come si è detto anche nei saggi precedenti, un cambio di prospettiva analitica fondamentale e in larga misura inedito, associando a dati storiografici di provenienza documentale (Guidoboni et al., 2018) dati storiografici di provenienza ‘altra’ a carattere deduttivo e processuale. Questi ultimi, nel sistema
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dell’Atlante Dinamico DynASK, possono consentire il riconoscimento di evidenze materiali interpretabili, plausibilmente, come le conseguenze costruttive insite nei processi di mutazione tipologica dell’edilizia dovute all’accrescimento. Anche nel caso della danneggiabilità sismica degli edifici storici di Roma, la documentazione d’archivio va interpretata e non solo acquisita nei dati palesi che siamo soliti ritenere gli unici attendibili. L’interpretazione parte dalla stessa tipologia di documentazione analizzata, dal fatto che per esempio una istanza richiesta per l’accorpamento di due unità edilizie limitrofe, se accolta dall’Amministrazione e portata a buon fine dal richiedente, implicitamente può aver comportato uno serie di attività edilizie peculiari, attribuibili a specifiche componenti architettoniche e strutturali. Di tali mutazioni di assetto si può valutare l’impatto conseguente alla manomissione della compagine originaria e quindi l’instaurarsi di un sistema di debolezze intrinseche corrispondenti alla vocazione al danneggiamento sismico. In considerazione della notevole estensione del centro storico di Roma, un ulteriore aspetto di rilevante importanza è rappresentato quindi dalla risposta sismica locale dell’area corrispondente, che può variare significativamente a seconda delle zone. Le condizioni geomeccaniche del terreno di sottosuolo del centro storico di Roma sono ritenute ragionevolmente elementi significativi nei confronti della danneggiabilità. Il sottofondo è composto infatti di diverse formazioni geologiche che possono essere raggruppate in complessi con caratteristiche simili. Ovviamente le condizioni più onerose dal punto di vista della sicurezza e danneggiabilità sono costituite dalle aree della città ove i terreni sono composti da unità sedimentarie continentali con caratteristiche meccaniche scadenti e riconducibili alle alluvioni recenti e attuali-oloceniche; queste ultime caratterizzano una buona percentuale dei rioni storici della città. In queste zone, poste generalmente nell’area individuata dal percorso segnato dal fiume Tevere, si osserva la presenza di notevoli spessori di terreni di riporto che costituiscono una coltre pressocché continua, spessa in genere 5-10 metri, che non fanno che peggiorare le caratteristiche dei terreni di fondazione. In merito a queste osservazioni, si consideri che la maggior parte dei danni causati dai terremoti storici sono infatti individuabili nei rioni caratterizzati da terreni alluvionali, come Borgo, Ponte, Parione, S. Eustachio, Pigna, Trastevere e Campo Marzio ove si osserva la sovrapposizione degli effetti causati dalla grande presenza di acqua nel sottosuolo a quote non profonde, peraltro in contesti edilizi segnati da forti mutazioni tipologiche; valga l’esempio dell’area della Vallicella, storicamente acquitrinosa e caratterizzata da falde poste a soli cinque metri dalla superficie. Il settore orientale della città è composto invece da unità vulcaniche-piroclastiti di ricaduta; l’eterogeneità di tali materiali di sedime porta a sensibili differenze nelle caratteristiche geotecniche dei terreni: il rione Monti, in particolare è segnato da un considerevole numero di danni puntuali, documentati e cartografati nell’Atlante. Anche i rioni di quest’area della città che hanno avuto uno sviluppo molto intenso a partire dal XIX secolo, hanno subito danni più o meno gravi in occasione di tutti i terremoti che si sono susseguiti fra Otto e Novecento. A conclusione della ricerca l’Atlante Dinamico potrà fornire, con precisione e immediatezza, un importante repertorio di dati utili alla pianificazione: il progetto occupa un settore d’indagine d’indiscussa utilità, originale nel novero degli studi su Roma e in grado di garantire notevoli potenzialità in bandi competitivi, con rilevanti effetti in materia di internazionalizzazione.
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Conclusioni (A.P., F.A., L.F.) Da oltre un ventennio l’utilizzo di sistemi informativi territoriali ha consentito avanzamenti conoscitivi all’interno delle scienze del territorio, per la possibilità del trattamento e della visualizzazione simultanea, orizzontale, di una quantità di informazioni puntuali trattate secondo standard condivisi. A tal riguardo, la direttiva europea INSPIRE recepita dall’Italia nel 2010, ha fornito un importante caposaldo nella definizione del trattamento dei dati territoriali di varia forma e provenienza in funzione di una loro validazione e condivisione. L’elemento qualificante del WebGis Descriptio Romae e della sua evoluzione l’Atlante Dinamico DynASK, interscalare e interoperabile, è la sua vocazione a costituire un ambiente per la raccolta, il trattamento e l’interrogazione di informazioni territoriali provenienti da studi tradizionalmente ‘separati’ relativi al suolo e sottosuolo della città di Roma. Sono in gioco le competenze dei settori della geologia, per la documentazione dei caratteri geologici e geofisici dell’area urbana, chiave di lettura irrinunciabile per la comprensione dei processi storici e di alcune delle più importanti problematiche archeologiche che hanno, di fatto assieme alle geologiche, un ruolo condizionante per la vita urbana nella misura in cui possono costituire motivo di intrinseca debolezza per le strutture soprastanti. Tutto ciò, in un senso più esteso, chiama in causa la rilevanza intrinseca di spazi e ambienti della Roma Sotterranea generalmente preclusi alla pubblica fruizione che potrebbero venire reimmessi nel flusso della storia e offerti alla fruizione della comunità in un doppio registro ove si ricerchi la coesistenza, seppure episodica, tra la città vissuta e percepita e la città immaginata, ipogea e invisibile. In questo scenario opera principalmente il restauro per quanto attiene alla lettura e all’interpretazione della realtà nelle dimensioni della cultura materiale e della processualità storica. Al restauro spetta infatti il compito di concepire la valorizzazione del patrimonio materiale come comunicazione dei valori immateriali dei quali è portatore, ma anche l’onere scientifico tanto dell’evocazione di spazi e luoghi oramai irreversibilmente perduti, quanto della definizione degli assetti architettonici ‘attesi’ in risposta alle istanze della prevenzione dei rischi ambientali. Con ogni evidenza, la predisposizione di un locus immateriale come recapito d’informazioni georeferenziate riferibili ai diversi orizzonti conoscitivi consente una più agevole trasferibilità dei risultati delle ricerche, gettando nuova luce sulle relazioni di solidarietà, interferenza o idiosincrasia tra sottosuoli e sedime urbano preordinate alla comprensione delle diverse dinamiche dello sviluppo insediativo nel tempo lungo. Queste forme d’interrogazione sistematica e condivisa consentono di mettere a fuoco la ricorrenza di espressioni della cultura materiale e insediativa non documentate da testimonianze scritte perché parte di un codice genetico tacito, tuttavia legate a regole d’arte che la consuetudine dell’abitare ha affinato nei secoli e che oggi vanno annoverate tra i valori immateriali del patrimonio. L’Atlante Dinamico DynASK si conferma quindi come una piattaforma aperta all’interrogazione di studiosi, studenti e alla cittadinanza tutta, in coerenza con la Cultura Europea e, segnatamente, con le acquisizioni del filone delle Convenzioni in materia di Diritti dell’uomo che assegnano all’educazione al Patrimonio il ruolo di collante per la formazione della cittadinanza europea.
Bibliografia Pugliano A. 2019, Design and experimentation of a Dynamic Atlas for historical knowledge and landscape planning, in World Heritage and Legacy. Culture, Creativity, Contamination. XVII International Forum ‘Le vie dei Mercanti’, Gangemi Editore International, Roma, pp. 983-992. Guidoboni E., Ferrari G., Mariotti D., Comastri A., Tarabusi G., Sgattoni G., Valensise G. 2018. CFTI5Med, Catalogo dei Forti Terremoti in Italia (461 a.C.-1997) e nell’area Mediterranea (760 a.C.-1500), Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), Roma. Pugliano A. 2018, Valorizzare i luoghi del territorio. Il progetto del paesaggio e il progetto del restauro, in Calderon Roca B. (a cura di), Valores e Identitad de los Paisajes Culturales: Instrumentos Para el Conocimiento y Difusiòn de una Nueva Categoria Patrimonial, Editorial Universidad de Granada, Campus Universitario de Cartuja, Granada, pp. 97-133. Buonora P., Le Pera S., Micalizzi P. 2014, Descriptio Romae, un Web Gis sul centro storico di Roma, in M. Pompeiana Iarossi (a cura di), Ritratti di città in un interno, Bononia University Press, Bologna. Pugliano A. 2009, Il Riconoscimento, la Documentazione, il Catalogo dei Beni Architettonici. Elementi di un Costituendo Thesaurus utile allaw Conoscenza, alla Tutela, alla Conservazione dell’Architettura, Prospettive Edizioni, Roma. Spagnesi G. 1974, Edilizia romana nella seconda metà del XIX secolo (1848-1905), Dapco, Roma.
Cartografia Archivio Cartografico della Regione Lazio 2016, Carta Tecnica Regionale Numerica scala 1:5.000 Provincia di Roma, Roma. Archivio di Stato di Roma 1818-1824. Catasto Pio Gregoriano, Catasto Urbano, Roma. Nolli G.B. 2016, Nuova Topografia di Roma, Intra Moenia, Roma. Wentworth Rinne K. 2016, Aquae Urbis Romae: the Waters of the City of Rome, IATH, University of Virginia, Charlottesville. Campitelli A., Cremona A. 2012, Atlante storico delle ville e dei giardini di Roma, Jaca Book, Milano. Carandini A., Carafa P. 2012, Atlante di Roma antica, biografia e ritratti della città, Mondadori Electa, Milano. Lanciani R. 2007, Forma Urbis Romae, Quasar, Roma. Funiciello R., Rosa C. 1995, La geologia di Roma: il centro storico, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma. Muratori S., Bollati R., Bollati S., Marinucci G. 1963, Studi per una operante storia urbana di Roma, Centro Studi di Storia dell’Urbanistica, CNR, Roma.
Documentazione Archivistica Archivio Storico Capitolino di Roma, Comune Moderno postunitario, Ripartizione V-Lavori Pubblici, Ispettorato Edilizio 1887-1930. Archivio Storico Capitolino di Roma, Comune Moderno Postunitario, Titolario postunitario 1871-1922, Titolo 41 1871-1922, “Ospizi e Beneficenza”. Archivio Storico Capitolino di Roma, Comune Moderno, Titolario preunitario 1848-1870 o postunitario 1871. 1922, Titolo 54 1848-1970 “Edifici e ornato, nomenclatura e numerazione civica”. Archivio Storico Capitolino di Roma, Comune Moderno, Titolario preunitario 1848-1870 o postunitario 1871. 1922, Titolo 62 1848-1921 “Acque, Strade, Licenze e Contravvenzioni”.
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Anfiteatri e contesti urbani: una riconciliazione necessaria. Il ‘Colosseo’ di Catania Giulia Sanfilippo
Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura, Università di Catania.
Laura Ferlito Giulia Sanfilippo Laura Ferlito Attilio Mondello Angelo Salemi
Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura, Università di Catania.
Attilio Mondello
Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura, Università di Catania.
Angelo Salemi
Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura, Università di Catania.
Abstract The archaeological remains of Roman amphitheatres constitute significant historical evidence. However, these ruins, if they are inside historic centres, can lose value due to urban transformation processes, which are almost never planned in an integrated way with archaeological stratifications. The archaeological areas often represent real cuts in the urban fabric, interrupting its continuity and complicating the road flows and, in the worst case, they are reduced to waste spaces. The Sicilian case of the Catania Amphitheatre, inside the historic centre, is one of the most representative examples of hypogeal monumental archaeology that suffers an evident unfinished integration, both physical and cultural, with its context. The paper presents the results of a complex cognitive process useful to provide the basis for a conservation and restoration plan for the monument. Finally, the research proposes a design solution for physical and cultural accessibility for visitors to involve, suggest and guide the local community in the experience of the stratified city within the archaeological site, both on the urban and architectural scale Keywords Historical centre, Archaeological remains, Accessibility, Conservation.
I grandi complessi archeologici in ambienti urbani Il patrimonio archeologico d’epoca classica è spesso mortificato da processi di trasformazione urbana che si sviluppano senza curare un’integrazione ragionata delle stratificazioni storiche. In particolare, le rovine degli edifici per lo spettacolo (teatri, anfiteatri e circhi), invece di costituire aree d’interesse culturale per la città, formano delle vere e proprie lacerazioni nel tessuto urbano, interrompendo la continuità e complicando i flussi viari; nel peggiore dei casi, esse si riducono a “non luoghi” (Augè, 2004) isolati e celati dalla vegetazione infestante, spesso chiusi da recinti che ne limitano la percezione ed ostacolano percorsi di visita fluidi, permeabili e culturalmente inclusivi. Del resto, la natura stessa del sito archeologico non consente una facile integrazione tra le istanze di protezione del bene e quelle dell’apertura al grande pubblico (Agostiano, Pane 2013). Il dibattito concernente la presenza di resti archeologici all’interno dei centri urbani trova un emblematico caso in uno studio sulla consistenza ed il relativo stato di con-
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Fig. 1 Iconografie e rilievi storici. In alto, da sinistra verso destra: incisioni di L. Bolano 1588, O. D’Arcangelo 1633, J. B. De Grossis 1723; primo rilievo geometrico di S. Ittar 1842; Veduta pittorica dei resti dell’anfiteatro: Duca di Serradifalco 1842. In basso: incisioni di J. R. Saint-Non 1782 e J. Houel 1795; Ortofoto 2006.
servazione delle vestigia degli edifici per lo spettacolo gallo-romani in Francia, il cui interesse rinasce in età moderna con gli studi ed i restauri di E. Viollet-le-Duc. Dallo studio è emerso come nonostante alcuni casi virtuosi, interventi di liberazione e restauro abbiano cancellato molte testimonianze stratigrafiche e stravolto le antiche architetture romane in nome di una valorizzazione turistica e ludica non sostenibile (Romeo 2015). Proprio a partire da tali considerazioni e da virtuose proposte di intervento scientificamente corrette, che puntano anche a favorire l’accessibilità del sito archeologico nell’ampio contesto dei centri storici europei (La Monaca, 2018), si è affrontato il caso dell’anfiteatro di Catania (soprannominato comunemente ‘Colosseo’). Inserito nel cuore del centro storico, questo monumento costituisce uno degli esempi più rappresentativi di sito archeologico ipogeo sofferente di un’incompiuta integrazione, sia fisica che culturale, con il proprio contesto. Le riflessioni condotte sulla condizione di ‘estraneità’ di tali evidenze archeologiche hanno portato alla luce le problematiche relative al complesso rapporto di convivenza tra l’anfiteatro e l’edilizia settecentesca di superficie, nonché il danno arrecato alla stessa area archeologica da interventi di trasformazione urbana susseguiti nel tempo senza un adeguato programma di conservazione delle architetture antiche, che hanno assunto sempre più un ruolo di realtà ‘marginali’ e ‘minoritarie’. Il presente contributo espone i risultati di un complesso iter conoscitivo utile a fornire le basi per un piano di conservazione e restauro del monumento catanese. Infine, considerata la complessità dell’area di studio, si propone una soluzione progettuale tesa a favorire l’accessibilità (fisica e culturale) di cittadini e visitatori per coinvolgere, suggestionare ed accompagnare la società civile nell’esperienza della città stratificata all’interno del più ampio sito archeologico del recente “Parco archeologico e paesaggistico di Catania e della Valle dell’Aci” (istituito nel 2019 dalla Regione Siciliana). Il ‘Colosseo’ di Catania L’anfiteatro romano di Catania, oggi visibile soltanto in alcuni brani in piazza Stesicoro, via del Colosseo e vicolo Anfiteatro, fu edificato tra la metà del I sec. d.C. ed il II sec. d.C., ai piedi della collina di Montevergine (attorno alla quale si strutturò progressi-
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vamente la città romana Catina) sul limite settentrionale delle antiche mura (Holm, 1925). Ancora oggi non è chiaro quale fosse l’originario rapporto del monumento con l’abitato romano esistente in quell’epoca. È certo che la fabbrica fu interessata da due differenti fasi costruttive nell’ambito di un’intensa attività edilizia che, a partire dall’età augustea, arricchì la città di numerosi edifici pubblici e di infrastrutture1. Secondo la classificazione tipologica degli anfiteatri effettuata da J. C. Golvin (1988), l’anfiteatro catanese è del tipo “a struttura scavata”, non formato da massicci terrapieni ma costituito esclusivamente da una serie di vani, delimitati da mura disposte a raggiera (fornici) e coperti da volte a botte. L’edificio, insieme ad altri due esempi esistenti in Sicilia (a Siracusa e Termini Imerese), può essere classificato tra gli anfiteatri ‘monumentali’, in virtù delle dimensioni e dell’articolazione planivolumetrica complessa, dotata di un ambulacro esterno periferico, elevato per due ordini e sormontato da un attico dotato di velario; la cavea, era invece articolata nella canonica suddivisione in ima, media e summa, grazie alla presenza di due passaggi anulari (precinzioni) che assicuravano una ordinata distribuzione del pubblico. Fasi e tecniche costruttive In funzione della diversità dei materiali impiegati e delle tessiture murarie, come già accennato, è possibile asserire che la costruzione dell’anfiteatro fu l’esito di più interventi diacronici. Ad una prima fase costruttiva appartengono: l’arena, il podio, l’ambulacro interno, il primo ordine e l’ima cavea. Gli altri due ordini, l’ambulacro esterno, la media e la summa cavea risalgono invece ad una fase di ampliamento, ottenuto con il prolungamento dei fornici e l’aggiunta di un ambulacro periferico a fronte pilastrata (Beste et al. 2007). Prevalente risulta essere il basalto lavico locale, adoperato in varie forme nelle strutture murarie, verticali e curve, apparecchiate secondo la consueta tecnica romana dell’opus caementicium, costituiti da un nucleo interno in conci irregolari di pietra lavica e malta di calce idraulica rivestiti da paramenti realizzati con diverse tecniche costruttive, cronologicamente classificabili. I paramenti che definiscono le superfici delle murature portanti della prima fase costruttiva sono in opus vittatum, dai grandi blocchi sbozzati disposti in corsi orizzontali fino all’imposta degli archi e delle volte, queste ultime realizzate in opus incertum; alla seconda fase, invece, appartengono i paramenti in opus africanum, caratterizzati da rinforzi di fasce murarie verticali tessute con diatoni e ortostati. Contrastano, con la scura pietra lavica, i mattoni (sesquipedales) impiegati nelle ‘costole’ delle grandi volte anulari e per formare le ghiere che definiscono la facciata del monumento. La scelta di un impianto interamente in spiccato e con tecniche di trazione romana, nel caso dell’anfiteatro di Catania, mostrano un atteggiamento altamente ricettivo nei confronti dei nuovi impulsi costruttivi provenienti da Roma – differentemente rispetto a quanto si è verificato per i casi di Siracusa e Termini Imerese – evidenziando, dunque, la forte capacità di adeguamento del territorio siciliano all’imagerie urbana romano-imperiale (Buscemi, 2007).
Tali notizie sono desumibili dai risultati delle indagini effettuate tra il 2006-2007 dall’Istituto Archeologico Germanico di Roma in collaborazione con la Soprintendenza dei BB.CC.AA. di Catania.
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Vicende storiche: dall’oblio alle campagne di scavo L’anfiteatro rimase in uso fino alla seconda metà del IV secolo d.C., in concomitanza con la cessazione degli spectacula che portò all’uso degli ambienti per attività commerciali e artigianali tra la fine del IV sec. e il VI sec. d.C. Contestualmente al fenomeno di contrazione dell’area urbana, in età tardo antica e alto medievale, ed alla progressi-
va diffusione del Cristianesimo, lungo i margini dell’anfiteatro si svilupparono alcuni nuclei cimiteriali (Beste et al. 2007); da allora il monumento subì un processo di destrutturazione imputabile ad un ampio quadro di trasformazioni politiche, culturali e urbane che comportò un repentino degrado sino al suo completo oblio. La più antica testimonianza oggi rinvenuta, attribuita allo storico Cassiodoro, conferma che già alla fine del V sec. d.C. l’anfiteatro versava in un tale stato di rovina da indurre il re Teodorico a concedere il permesso di utilizzarlo come cava di materiale edilizio per restaurare le mura della città medioevale. Ulteriori notizie sullo stato di conservazione del monumento, successive a quelle medioevali, sono desumibili dall’iconografia cinquecentesca che evidenzia come gran parte del monumento risultasse ancora visibile, seppur fortemente compromesso dalle trasformazioni urbane e dalle superfetazioni. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, si tratta di narrazioni fantasiose supportate da fonti apocrife; una prima testimonianza attendibile è quella dell’archeologo Lorenzo Bolano che, nel 1588, nell’opera “Chronicon Urbis Catinae”, propose una ipotesi di restituzione del monumento richiamando i caratteri del Colosseo. Da tale descrizione, seppur ricca di inesattezze, si evince come alla fine del XVI secolo l’anfiteatro risultasse ‘inghiottito’ dalle abitazioni, tra le vie Santo Carcere, Penninello e Neve, ad eccezione di una porzione di strutture antiche che rimanevano ancora libere nel cosiddetto Campo stesicoreo. Nonostante ciò, nel corso del XVI sec., il Senato cittadino decretò lo spianamento dell’edificio attraverso una vera e propria demolizione della parte più alta della struttura ed il riempimento degli ambienti inferiori con le macerie prodotte; tale scelta era dettata da ragioni di strategia militare, poiché il monumento, trovandosi a ridosso della cinta muraria medievale, ne indeboliva le funzioni difensive. Le rimanenti strutture subirono ulteriori crolli e danneggiamenti con l’eruzione vulcanica del 1669 ed il terremoto del 1693, a seguito dei quali il volto della città di Catania cambiò radicalmente. Con il piano di ricostruzione e la successiva espansione edilizia, le strutture del monumento furono definitivamente cancellate e non più considerate (Sposito, 2003, pp. 72-73). Nell’area occupata dall’anfiteatro, senza una adeguata considerazione dei resti archeologici, si costruirono alcuni edifici monumentali2. Nonostante questo, già a partire dal 1748 Ignazio Paternò Castello Principe di Biscari (nominato da Ferdinando IV di Borbone Regio custode delle antichità delle due valli orientali dell’isola) intraprese una serie di campagne di scavo, ufficialmente allo scopo di sponsorizzare ricerche archeologiche con finalità scientifiche e conservative, ma anche (come spesso accadeva all’epoca delle grandi scoperte archeologiche) per arricchire di inediti reperti le proprie collezioni private (Oteri, 2009; Pagnano, 2001). Successivamente, tra il 1831 e il 1845, altre porzioni dell’edificio romano vennero messe in luce a seguito di indagini effettuate dalla Commissione Antichità e Belle Arti della Sicilia. Sotto la direzione dell’arch. Francesco S. Cavallari prima e di Domenico Lo Faso di Pietrasanta (duca di Serradifalco) dopo, si intraprese un massiccio intervento di scavo, sgombrando per quasi più di due terzi il primo ambulacro e scoprendo i due ingressi principali disposti sull’asse maggiore e su quello minore (Tortorici, 2016). Infine, i resti attualmente visibili da piazza Stesicoro, da via del Colosseo e da vicolo Anfiteatro, furono riportati in luce con gli scavi condotti nel 1904 dall’architetto Filadelfo Fichera, che, in accordo con la Direzione Generale Antichità della Pubblica Istruzione, stabilì di lasciare visibili le strutture rinvenute facendo un primo tentativo di valorizzazione archeologica in armonia con le esigenze della pianificazione urbana (Oteri, 2009) (Fig. 1).
Tra questi, la Chiesa di San Biagio, l’Ospedale San Marco (oggi Palazzo Tezzano), il Palazzo Paternò-Bicocca, la Villa Cerami e, tra la fine XVIII secolo ed il XIX secolo, i palazzi che oggi formano gli isolati tra via Panninello, via Manzoni e Piazza Stesicoro.
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Giulia Sanfilippo Laura Ferlito Attilio Mondello Angelo Salemi Da relazione tecnica generale “Interventi urgenti ed indagini finalizzate alla redazione di un progetto esecutivo di restauro conservativo e valorizzazione dell’Anfiteatro di Catania”, M. G. Branciforti e U. Spigo, 2006 (Archivio del Parco Archeologico e Paesaggistico di Catania e della Valle dell’Aci).
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Rilievi diagnostici e geometrici dal XIX al XXI secolo Fino al XX secolo, l’Anfiteatro è rimasto privo di una effettiva analisi sistematica, e, dunque, sostanzialmente inedito. I primi approcci ad una ricerca interdisciplinare (anche se limitatamente al settore sud-occidentale) risalgono agli anni ’90, quando il monumento fu oggetto di due campagne di indagine (promosse dalla Soprintendenza ai BB.CC.AA di Catania) e di interventi di consolidamento a seguito dei crolli e dei cedimenti che avevano interessato la porzione sottostante la settecentesca Villa Cerami, già sede della Facoltà di Giurisprudenza. Nel 1998 fu avviata la seconda campagna di scavi che mise in luce alcuni tratti di strutture murarie relative al settore meridionale, a seguito di alcuni lavori effettuati per la rete telefonica cittadina. L’esito di tali indagini portò all’emanazione di un provvedimento di vincolo ai sensi degli articoli 1, 4 e 21 della Legge 1089/1939, il cui scopo fu quello di evitare (o comunque ridurre) l’impatto negativo della città moderna sul medesimo settore del monumento. L’ultimo ciclo di ricerche pluridisciplinari, effettuato tra il 2006 e il 2007, fu promosso dalla Soprintendenza dei BB.CC.AA di Catania in collaborazione con l’Istituto Archeologico Germanico di Roma, per valutare la natura e l’entità delle interazioni esistenti tra il tessuto settecentesco di superficie e le strutture ipogee del monumento3. L’IBAM-CNR dal 2014 conduce studi volti alla comprensione del monumento nel più ampio contesto topografico della Catania romana, al fine di facilitare la percezione figurativa e fornire utili strumenti per la valorizzazione e la fruizione (Malfitana et al.,2016). Il conflitto tra monumento e contesto urbano. Problematiche e inaccessibilità Piazza Stesicoro è un’area complessa, la cui stratificazione storica rende ardua qualsivoglia soluzione di trasformazione. L’attuale percezione degli spazi urbani privilegia la visuale della chiesa barocca di San Biagio rispetto a quella dell’anfiteatro (Sposito, 2003). La percezione delle antiche rovine è ulteriormente compromessa dalla commistione del traffico pedonale con quello veicolare, che cinge lo scavo archeologico non consentendo al passante la comprensione del sito. La fruibilità del monumento è limitata esclusivamente all’area di scavo sotto piazza Stesicoro, separata dalla restante porzione dei resti archeologici tramite due cancelli in ferro, che dividono l’ambulacro interno, potenzialmente percorribile nella sua totalità; tale cesura ne arresta il percorso circolare, alterandone la percezione spaziale. Al problema della fruizione e della pessima integrazione dell’anfiteatro romano con il proprio contesto si affianca quello dell’accessibilità: l’ingresso relativo al settore nord-orientale del sito archeologico, posto sulla piazza (attualmente l’unico aperto al pubblico), è servito unicamente da scale in acciaio a forte pendenza, che ostacolano la visita a tutti coloro che hanno difficoltà motorie. L’accesso al settore sud-occidentale potrebbe avvenire anche dal vicolo Anfiteatro, passando da uno spazio aperto oggi in stato di abbandono; una breve gradinata in acciaio collega il vicolo urbano con le rovine dei fornici (dal XXXVI al XLVII) ed i resti ipogei dell’ambulacro esterno. Oggi questa porzione del sito archeologico conserva ancora la suggestione della coesistenza tra antico e architettura settecentesca di superficie, percepibile visivamente in una sezione stratigrafica che dal giardino della Villa Cerami scende fino alla quota di calpestio del suolo romano; tuttavia, tale scorcio di rovina risulta essere inaccessibile, poco visibile e soffocato dal tessuto minore abusivo su via del Colosseo e separata dal contesto urbano da un’anonima cancellata in ferro (Fig. 2).
Lo stato di conservazione delle rovine La vulnerabilità intrinseca dell’area archeologica rappresenta certamente il fattore primario di deperimento, rendendo più complessa sia la gestione che la conservazione. Si possono distinguere una vulnerabilità naturale, dovuta alla presenza di terreni di riporto e acque disperse provenienti dal tessuto edilizio di superficie, ed una vulnerabilità indotta dal processo di urbanizzazione che ha profondamente modificato il paesaggio urbano della città, senza garantire un’adeguata tutela dell’archeologia sotterranea. Alla condizione sopra descritta va aggiunta la mancata attività di manutenzione programmata del sito, attribuibile ad una sostanziale riduzione del livello di percezione del rischio (tipica delle aree archeologiche) e ad una evidente difficoltà nella individuazione dei ‘centri di vulnerabilità’ e delle possibili azioni risolutive (Marino, 2016). In particolare, le analisi relative agli ambienti ipogei del ‘Colosseo’ di Catania hanno evidenziato il forte legame tra il sito e l’edificato post-antico che, nella maggior parte dei casi, ha sfruttato le strutture portanti del monumento come proprio piano di fondazione e, in assenza di allacciamento alla rete fognaria, come luogo di scarico dei reflui urbani. In questo scenario degenerativo, il settore sud-occidentale risulta essere quello maggiormente esposto a rischio sia dal punto di vista statico-strutturale che igienico-ambientale. Metodologia: dall’analisi alla pre-diagnosi Il quadro generale delle criticità, emerso al termine delle attività di pre-diagnosi condotte sulla porzione di rovina compresa tra il XXXIX e il XLIII fornice, ha messo in luce la coesistenza di una pluralità di problematiche inerenti sia allo stato di degrado sia alla fruizione ed all’accessibilità culturale, fisica e percettiva. In fase preliminare, nell’ambito del presente studio, è stata condotta una campagna di rilievo digitale mediante tecniche di rilevamento fotogrammetrico Structure for Motion (SfM)4 e un’analisi dei degradi tramite la redazione di mappe tematiche delle principali manifestazioni visibili degenerative, ottenute come sintesi incrociata dell’esame diretto in situ con i risultati forniti dalle indagini diagnostiche eseguite in precedenza. Nonostante la complessità del caso clinico generale, è stato possibile individuare sul rilievo fotogrammetrico, le specifiche manifestazioni patologiche e le correlazioni tra degradi, contesto fisico-ambientale e cause degenerative (naturali ed antropiche). Così, per quanto riguarda il quadro semiologico, facendo riferimento alla classificazione condotta da L. Marino (2016) in uno studio sistemico sui siti archeologici privi di protezione, è stato possibile valutare le alterazioni presenti nell’anfiteatro catanese5. Si è giunti a constatare in tal modo la compresenza di due principali fattori di degrado, imputabili prevalentemente alla pessima gestione dello smaltimento delle acque nere e bian-
Fig. 2 Planimetria generale delle aree fuori terra (a sinistra), dettaglio ingresso su vicolo Anfiteatro (al centro), dettaglio ingresso su piazza Stesicoro (a destra) (Laura Ferlito, 2019).
4 I modelli tridimensionali sono stati elaborati mediante il software Agisoft Metashape Professional. 5 Le manifestazioni visibili del degrado sono state individuate facendo riferimento alle prescrizioni della Normativa UNI 11182 del 2006.
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che del tessuto edilizio di superficie e al sovraccarico del terreno vegetale del giardino della villa soprastante, determinato proprio dalla continua imbibizione delle acque meteoriche ed irrigue (Fig. 3). Fig. 3 Analisi dei degradi: planimetria degli ambienti ipogei (a sinistra), vista interna del modello 3d SfM (al centro), mappe del degrado su fornice XXXIX e ambulacro esterno (a destra).
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Strategie integrate per un nuovo rapporto con il contesto urbano L’anfiteatro romano di Catania rappresenta un emblematico esempio di ‘memoria riemersa’, che dopo essere stata per un lungo tempo ignorata, nascosta alla vista e alla percezione dei cittadini, riemerge nello spazio della città contemporanea. Il monumento si configura come un “non luogo” relegato in un’area di risulta delimitata da un brano di tessuto urbano ed isolata rispetto a quest’ultimo dagli interventi pregressi che, nel tentativo di enfatizzare la presenza, hanno invece causato un effettivo allontanamento, recintandolo e definendolo come ‘altro’ rispetto alla città. Si suggerisce pertanto una serie di interventi che coinvolgano la struttura stessa del centro storico, attribuendo all’anfiteatro un nuovo ruolo all’interno delle odierne dinamiche urbane. Sono stati quindi analizzati criticamente i punti forza e le debolezze delle preesistenze archeologiche, architettoniche e dell’attuale contesto urbano, cogliendo i fattori di relazione che possano permettere il dialogo tra gli elementi e determinare così una più completa visione d’insieme. Il progetto mira ad agevolare la convivenza delle tracce del passato con le evidenze del presente, rendendo accessibili gli spazi archeologici ed integrandoli con il tessuto settecentesco. Una nuova pavimentazione delle aree limitrofe su Via Manzoni e via del Colosseo potrebbe migliorare i percorsi percettivi e la narrazione del monumento ipogeo attraverso l’alternarsi del basolato lavico e della calcarenite bianca di Siracusa. Le connessioni con la città potrebbero avvenire mediante un sistema di percorsi (ingresso-uscita) che metterebbero in relazione i due ingressi esistenti, posti su piazza Stesicoro e vicolo Anfiteatro e ad un terzo, previsto all’interno di palazzo Tezzano. Quest’ultimo, attualmente in stato di degrado, potrebbe essere valorizzato con uno specifico progetto di riuso, proponendo al suo interno un nuovo museo archeologico direttamente connesso all’anfiteatro con la realizzazione di un corpo ascensore (Barbera, 1998, p.350). In tal modo si verrebbe a formare una promenade culturale sotto il cuore del centro storico catanese; gli ambienti ipogei dell’anfiteatro restituirebbero così i segni della Catania antica alla memoria collettiva, stimolando interessi culturali, i valori identitari della comunità e incentivando turismo ed economia. Alcune caratteristiche morfologiche dell’area tra via Crociferi e via Manzoni determinano salti di
Fig. 4 Il progetto: Masterplan (a sinistra), planimetria e sezioni pre/post-intervento su vicolo Anfiteatro (a destra).
quota e pendenze pari a circa il 23%. Nell’ottica di una maggiore sensibilità ed attenzione verso i temi dell’inclusione del maggior numero di pubblico (comprese le persone con disabilità motoria e percettiva), è stato prevista la demolizione di alcune superfetazioni, aumentando così la sezione di vicolo Anfiteatro. In tal modo si otterrebbe un percorso urbano centrale che, partendo da via Manzoni, scenderebbe con una pendenza del 6% accompagnando i fruitori fino alla quota di scavo (Fig. 4). Conclusioni L’analisi preliminare, condotta sull’attuale stato di conservazione del settore sud-occidentale del monumento, ha messo in evidenza come (fino ad oggi) si sia intervenuto solo parzialmente attraverso interventi puntuali di manutenzione. La mancanza di un’indagine sistemica, condotta sul sito archeologico (nel suo insieme) e sul rapporto tra questo e l’edilizia storica di superficie, ha generato una condizione di decadimento e di abbandono tale da impedire ogni possibilità di fruizione e, quindi, di valorizzazione dell’intero bene. In particolare, le condizioni di agibilità del settore nord-occidentale, legate a fattori di sicurezza strutturale ed igienico-sanitaria, risultano altamente compromesse ed in alcun modo sottovalutabili ai fini della tutela del patrimonio edilizio esistente. Il percorso di ricerca svolto nell’ambito del presente studio ha messo in luce le problematiche relative al complesso rapporto di convivenza tra il patrimonio archeologico e architettonico del centro storico di Catania. Si propongono, dunque, opportune azioni tecnico-scientifiche, da effettuare nell’ottica di un efficiente “piano settoriale della conoscenza, tutela e conservazione” dei siti archeologici (azioni avviate dal CNR dal 2016), auspicando la nascita di sinergie (sia pubbliche che private) necessarie per la messa a punto di un programma operativo di conservazione e di restauro, coordinato in un organico sistema di protezione (in accordo con le direttive proposte dalle Linee guida per la costituzione e la valorizzazione dei parchi archeologici6), che attualmente appare carente e non adeguatamente integrato. Coerentemente con quanto dichiarato dalle Carte del Restauro e dalla Carta di Siracusa per la conservazione, fruizione e gestione delle architetture teatrali antiche del 2004, la conservazione e l’uso permanente dei luoghi antichi di spettacolo per ospitare attività culturali consente “l’incontro di molteplici culture, recuperando la memoria e la coscienza di una storia condivisa”. Gli studi preliminari ed il progetto proposto si muovono dunque nel quadro degli auspicati protocolli di conoscenza, fruizione e gestione proposti dalla Carta di Siracusa e declinati in base alle differenti specificità quali: l’organizza-
Ministero per i beni e le attività culturali, Decreto 18 aprile 2012, Adozione delle linee guida per la costituzione e la valorizzazione dei parchi archeologici.
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zione e la gestione delle conoscenze sullo stato di conservazione; la diagnostica, il monitoraggio, la conservazione ed il restauro; la salvaguardia dell’edificio archeologico e del suo contesto ambientale; la gestione del bene, lo sviluppo di reti culturali territoriali. Così, il caso qui presentato intende mostrare nuove strategie atte a migliorare la percezione delle rovine da parte della società contemporanea; lo studio suggerisce altresì un approccio progettuale capace di rendere comprensibili e realmente fruibili gli spazi archeologici, con meditate trasformazioni e misurati segni contemporanei, consegnando in tal modo alla città di Catania, un patrimonio storico che, pur trovandosi in uno status frammentario, interagisca con la comunità trasmettendo messaggi ricchi di significati culturali. Il contributo è stato scritto unitariamente; tuttavia, per ragioni redazionali, si attribuiscono a: G.S. i paragrafi 2.2, 3 e 4; a A.M. 1 e 5, a L.F. 2, 2.1 e 6. Le conclusioni sono a cura di tutti gli autori. Il lavoro è stato in parte finanziato dall’Università di Catania con i fondi del “Piano della Ricerca Dipartimentale 2016-2018” (Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura). Gli autori ringraziano il dott. F. Nicoletti, funzionario direttivo archeologo del “Parco Archeologico e Paesaggistico di Catania e della Valle dell’Aci”.
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Más que una lista: unas mesas de discusión para el proceso de acercamiento al nuevo catálogo del patrimonio arquitectónico y urbano de Barcelona Alessandro Scarnato
Alessandro Scarnato
Departament de Teoria i Història de l’Arquitectura i Tècniques de la Comunicació, Universitat Politècnica de Catalunya
Abstract The catalog of Barcelona’s architectural heritage has recently turned forty: it has been capable to survive the profound transformations that the city has undergone since 1979. However, the new global scenarios and a renewed cultural vision regarding the meaning of the patrimonial dimension, impose its in-depth revision, which has been recently undertaken by the municipality. The communication presents an important part of this process: the boards of discussion, which involve professionals inside and outside the administration. The themes of participation, of the neighborhood vision, of environmental sustainability and, above all, the intention of avoid a sterile confrontation between extreme conservationism and destructive interventionism led in the name of innovation, are the backbone of a work that wants to achieve a tool for environmental protection and improvement in an urban way that goes beyond the usual list of parts with more or less possibility of hosting manumissions. In this process, interdisciplinary working groups dedicate themselves both to understanding the current international scenario and in detecting the current local situation as far as technical and cultural evolution about heritage. The communication explains the criteria behind this process and triggers a discussion about a structural issue in contemporary urban making. Keywords Heritage, urban renewal, environmental sustainability, participation, Barcelona.
Antecedentes históricos El actual catálogo de protección del patrimonio arquitectónico de Barcelona corresponde a la evolución legislativa del documento aprobado en 1979, cuando la Corporación Metropolitana de Barcelona incluyó esta herramienta en el conjunto de disposiciones del PGM, Plan General Metropolitano, de 1976. El catálogo culminaba un proceso de que puede remontarse a la época de la enseñanza de Elies Rogent en la Escuela Provincial de Arquitectura de Barcelona entre 1871 a 1889, cuando surge aquel pensamiento conservacionista catalán que finalmente llevaría al primer catálogo de patrimonio arquitectónico de toda España, el compilado en 1962 bajo la dirección del arquitecto jefe municipal, Adolfo Florensa. Se trataba de una simple lista de edificios relevantes, cuyos valores eran interpretados esencialmente en el sentido de su correcta adhesión a unos caracteres tipológicos e históricos determinados. El centenar de construcciones protegidas respondía a la necesidad de otorgar un reconocimiento de
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Fig. 1 Barcelona, ocupación simbólica de la antigua capilla del convento de la Casa de la Caritat para que se convierta en centro de salud pública (CAP) del barrio del Raval Nord. (foto: Alessandro Scarnato, 2018).
monumentalidad y pedigree a aquellos episodios arquitectónico de la Ciudad Condal que habían sobrevivido a los duros acontecimientos urbanos que, a partir de 1714, habían modificado de forma sustancial morfología y materialidad de la capital catalana. Acorde al estado del debate de su época, Florensa no incorporaba los entornos urbanos, así como tampoco prestaba mucha atención a las arquitecturas menores, vernáculas o estilísticamente incongruentes o controvertidas. Además, la presencia de un edificio en la lista no garantizaba su conservación y muchos sucumbieron a la piqueta, tanto en ocasión de intervenciones públicas como en casos de operaciones privadas (Alexandre, 2000). En 1979, el nuevo catálogo buscaba precisamente una herramienta de protección más eficaz que rompiera el goteo de piezas, sobre todo modernistas, derribadas desacomplejadamente durante el llamado “desarrollismo” de la
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posguerra (Ajmt BCN, 1987). Gracias a la labor de Josep Emili Hernández-Cros, la lista de Florensa fue extendida hasta incorporar 860 edificios de todas las épocas, incluyendo arquitecturas menores, estilísticamente variadas y algunos entornos. A pesar de su potencial operativo, articulado en cuatro grados de protección, el catálogo de 1979 (que, con sus modificaciones, sigue vigente) tampoco salía de una tradición de pensamiento según la cual el patrimonio nunca puede suponer un obstáculo al desarrollo de la ciudad y, por lo tanto, la lista de edificios a proteger es esencialmente una herramienta para las constructoras para saber con anterioridad lo que se puede tirar al vertedero y lo que no de un edificio existente. A pesar de ser un instrumento progresista y buen nivel científico, aquel catálogo era muy débil frente a un planeamiento urbanístico indiferente a los valores patrimoniales. Fue con las grandes operaciones de reforma interior en el centro histórico llevadas a cabo en los 90 del siglo pasado, que se puso una vez más de manifiesto que el patrimonio era la gran asignatura pendiente en el debate arquitectónico de aquella Barcelona que vislumbraba el mundo por sus transformaciones olímpicas hasta llegar, como si de un arquitecto de carne y huesos se tratara, a ser galardonada con una medalla de oro del RIBA en 1999. Contextualmente, la ley autonómica 9/93, del patrimonio cultural catalán, había ratificado que el concepto de catalogación de piezas singulares ya se quedaba corto, frente a la necesidad de salvaguardar los rasgos esenciales de la identidad cultural de un territorio cuya armazón no está hecha solamente por los grandes monumentos romanos o de la Edad Media, sino por todo el conjunto de piezas y entornos que testimonian su evolución histórica y social. En el año 2000 se activa una reforma del catálogo que, aún sin modificar sus grados de protección, intenta romper el esquema de la lista única y se articula en diez planes especiales de protección (uno por distrito) que tienen que asumir una visión de conjunto y que sugieren las correcciones pertinentes a un planeamiento “de raya” que a menudo sentencia todo tipo de vestigio arquitectónico de forma inmisericorde (Busquets, 2003). Un catálogo débil Dos décadas después de su reforma, el catálogo sigue siendo una realidad imperfecta en el urbanismo barcelonés: se repiten una y otra vez las demoliciones controvertidas; muchísimas piezas de interés son desprotegidas y no tienen ni siquiera un reconocimiento a nivel de estudio; prácticamente dos tercios de los conflictos urbanísticos de la ciudad se vertebran alrededor de la vertiente patrimonial; el casco antiguo todavía no tiene su plan especial. Y es paradójico que el reciente éxito turístico de Barcelona, pasada en poco más de una década de medio millón a más de diez millones de pernoctaciones anuales (Palou i Rubio, 2012), haya inducido muchos inversores privados a hacer lo que la administración durante décadas no ha sabido ni siquiera imaginar: considerar el patrimonio como un activo en el posicionamiento global de la ciudad, no solamente en lo que a monumentos-postales se refiere, sino también en el sentido de una apuesta para la rehabilitación de todo tipo de inmueble, incluso reconociendo el atractivo de entornos menores y vernáculos de barrios otrora populares. Mientras tanto, la reflexión urbanística y cultural ha evolucionado, incorporando elementos hasta hace poco inusuales en el debate barcelonés: atención a la sostenibilidad ambiental; apertura a procesos participativos; reivindicación del derecho a la ciudad también en el sentido de su hábitat físico y de su morfología urbana histórica (fig.1); urbanismo de proximidad y peatonal (Borja, 2010).
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Criterios y estrategias para un nuevo catálogo Es en 2017 que el gobierno municipal de la coalición entre la izquierda progresista de Barcelona en Comú y el Partit dels Socialistes Catalans empieza una labor de revisión con la finalidad de llegar a un nuevo catálogo basado en el mismo marco legislativo del actual (difícil de cambiar, al requerir la aprobación del gobierno regional), pero mucho más ambicioso en términos de visión de ciudad. Sin salir del cauce de la reforma de 2000, la administración lanza unas medidas para ensanchar la mirada territorial y así incorporar nuevas sensibilidades disciplinarias. En esta dirección va la medida de gobierno “Barcelona arquitectura, ciutat patrimoni” de 2016, que identifica cuatro líneas estratégicas: reforzar arquitectura y paisaje urbano como factores de calidad de vida; impulsar la mejora de la calidad arquitectónica de la ciudad; diseñar herramientas para intervenir de forma cualificada en el paisaje urbano; mejorar la coordinación entre las distintas áreas municipales en el ámbito de arquitectura y patrimonio. A pesar de haber sido poco más de una carta de intenciones, la medida ha impulsado varias iniciativas mucho más abiertas a aportaciones interdisciplinarias sensibles a la realidad existente. En el marco de las acciones desencadenadas desde entonces, destacan las diez “auscultaciones de paisaje” y la organización de las taules de patrimoni (mesas de patrimonio, en catalán). Las auscultaciones, conducidas por funcionarios municipales, abordan el paisaje urbano incluyendo la historia, la biodiversidad y memoria local. Estos documentos ayudaran a definir una futura herramienta legal que permita pasar de una protección puntual a una de carácter más general. Las mesas de discusión como momento de reflexión plural Las taules, en cambio, se configuran como mesas de discusión que vayan mas allá del concepto de interdisciplinariedad, es decir, involucrando actores de todo tipo, incluso si en flagrante desacuerdo entre ellos como asociaciones vecinales y promotores inmobiliarios. Los resultados de las mesas constituirán un recopilatorio de posiciones con tres objetivos principales. Antes de todo, nutrir el proyecto de “Taula de Patrimoni Històric Artístic i Arqueològic de la Ciutat”, un órgano municipal transversal entre las áreas de Arquitectura, Patrimonio y Paisaje Urbano. Sucesivamente, impulsar la incorporación en el catálogo municipales de los catálogos distritales de patrimonio territorial. Finalmente, y sobre todo, detectar posibles caminos para resolver la gran problemática de fondo que ha siempre socavado los pilares de toda catalogación barcelonesa: la contradicción entre techo potencial del suelo y nivel de protección de lo existente. Se trata de una táctica inédita de abordaje de la cuestión patrimonial, y no solamente para Barcelona. La comparación con otras realidades europeas muestra que en la variedad de aproximaciones al patrimonio crecen los ejemplos de interdisciplinariedad (Ámsterdam) y de involucramiento de la población, también gracias a las nuevas tecnologías (Bruselas). El ayuntamiento barcelonés ha, en efecto, encargado estudios externos para explorar políticas patrimoniales en otros países y ciudades continentales. Ha sido un trabajo esencial también para de la habitual comparación con Italia y Francia, países de largo recorrido patrimonial, pero ya alcanzados y, a veces superados, por otras realidades europeas. La observación de como Estocolmo, Múnich o Glasgow, ya hayan emprendido una estrategia de protección finalizada al mantenimiento y a la mejora de la calidad de vida urbana, constituye una importante contribución a la su-
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peración de una idea, algo anquilosada pero muy arraigada en la Ciudad Condal, de que proteger patrimonio significa renunciar a la mejora urbana. También se ha puesto de relieve el hecho de que la casi totalidad de municipalidades siguen basando su política patrimonial en el trabajo de un núcleo de expertos y solo sucesivamente se amplia el abanico de sujetos y entidades involucradas. Por lo tanto, la decisión barcelonesa de empezar el proceso de revisión del catalogo mediante la elaboración de una constelación de documentos previos y preparando ocasiones de encuentro entre diferentes estamentos, representa un factor de novedad. Entrando más en el detalle de las taules, cabe señalar que se tienen un programa doble. Los primeros encuentros han tenido lugar a puerta cerrada en una sala de las dependencias municipales y en presencia de un relator y un moderador externos y de un funcionario supervisor. Este primer ciclo, ya terminado y que ya ha generado el correspondiente documento de trabajo interno, tendrá una segunda tanda, esta vez abierta al público, aunque, muy probablemente, en formato on-line, por la sobrevenida emergencia sanitaria ligada a la pandemia Covid-19. Los perfiles de los participantes han sido de todo tipo: personas vinculadas a la administración, tanto de forma estructurada como no; representantes del mundo académico y de la cultura; miembros de las entidades vecinales; profesionales y técnicos especializados y no especializados; cargos de entidades privadas. Entre los cargos que han acudido es preciso destacar la directora de la Fundación Mies Van der Rohe, el vicepresidente de la Federación de Asociaciones de Vecinos de Barcelona, el portavoz del colectivo Asamblea de Barrios para un Turismo Sostenible, el director de la agencia Barcelona Regional, el director ejecutivo de la Asociación de Promotores Inmobiliarios de Catalunya, la secretaria del Docomomo Ibérico, el co-director de los premios FAD, representantes del sector turístico, de las entidades de barrio, de la Diputación de Barcelona, además de profesionales y profesores universitarios, por un total de una treintena de participantes. Para encender el debate se pusieron sobre las mesas dos preguntas: • ¿Qué representa hoy en día, según sus experiencias y su conocimiento, la protección patrimonial en Barcelona, tanto a nivel de catalogación de la arquitectura como de otras vertientes culturales o urbanas? • ¿Cómo debería evolucionar la protección patrimonial en la Barcelona que viene, tanto a nivel de herramientas jurídicas como en cuanto a estrategias urbanas?
Conceptos vertebradores del debate La riqueza de indicaciones recogidas puede organizarse en cinco líneas de reflexión que fotografían el estado de la cuestión y que se exponen a continuación. Catálogo y ciudad (la percepción del tema patrimonial en Barcelona, a nivel de cultura de ciudad) Un observador podría tener la impresión de que la Barcelona actual se ha definitivamente e integralmente entregado al mercado turístico, sobre todo si se hace una comparación con las intensas luchas vecinales de los 70 para evitar el derribo de muchísimas arquitecturas singulares (casos de la Casa Golferichs o de Can Serra) (Cabrera i Massanés, 2007). Sin embargo, el tema patrimonial en los últimos años ha dejado de ser sectorial y sus vertientes de componente fundamental en la construcción de una identidad inclusiva y de recurso propio e inalienable de la ciudad poco a poco van cun-
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diendo en amplios y varios sectores de la ciudadanía. Además, la percepción del tema se ha ido enriqueciendo de aspectos habitualmente no ligados al patrimonio, y que ahora se empiezan a ver como interconectados. Es el caso de los nuevos modelos de ciudad, alternativos al tradicional modelo coche-céntrico, y que tienen en el patrimonio un instrumento de desarrollo de gran potencial (Gabancho, 2011). Hay un evidente empuje social que busca superar el esquema intelectual de las fichas patrimoniales, que no contextualizan lo suficiente y favorecen la amnesia urbana. Mientras tanto, iniciativas como el BCN Open House (la cita arquitectónica anual barcelonesa en qué se abren las puertas de casas, monumentos y lugares normalmente inaccesibles) demuestran que un amplio público quiere ver patrimonio y la propiedad disfruta enseñándolo. De todos modos, el gran problema es que este renovado interés no llega a generar una normativa eficaz, dado que, en esencia, en Cataluña, y en toda España, la consideración institucional y administrativa para el patrimonio adolece de una escasa musculatura cultural que se repercute en un cuadro legislativo rígido y débil (Domingo y Cendón, 2012). La Agencia Catalana del Patrimonio es prácticamente irrelevante a nivel de planeamiento, mientras que la primacía del PGM de 1976 sobre la ley catalana de patrimonio cultural es una flagrante contradicción jurídica. Estos aspectos dificultan la construcción del necesario consenso de ciudad sobre los valores que una herramienta de catalogación debería preservar y, a menudo, el que se opone a la actual condición de fragilidad patrimonial acaba pareciendo un radical conservacionista. La paradoja es que la sensibilidad ciudadana ha crecido mucho en los últimos años y seguramente a día de hoy sería, por ejemplo, imposible derribar los chiringuitos de la Barceloneta, como se hizo en el ámbito de las transformaciones olímpicas de 1992. Esta sensibilidad ciudadana emergente es todavía poco estructurada e incluso acerba en sus manifestaciones de protesta, pero es claramente orientada a considerar que la ciudad del futuro es la que ya tenemos. Y como que la ciudad del futuro ya existe, en último análisis toda decisión urbana se puede interpretar como decisión patrimonial. Luchar contra la gentrificación se podría hacer desde una vertiente patrimonial, por ejemplo (García-Hernández; de la Calle-Vaquero; Yubero, 2017). Catálogo y sociedad (el grado de concienciación técnica y social sobre el patrimonio) La administración quiere que el nuevo catálogo también sea una herramienta de formación para los privados antes de intervenir sobre el existente. Los miles de estudios de reconocimiento e informes de patrimonio componen una vastísima y valiosa información de la que dispone el ayuntamiento y tendría que estar a disposición de la ciudadanía en conjunto, incluyendo los promotores. Mediante el catálogo, por lo tanto, se quiere interpretar el patrimonio como factor de difusión, formación e incluso generación de cultura arquitectónica, esencial para fomentar cultura urbana. Dentro de este nuevo modelo de catálogo, la memoria colectiva debería tener más peso, así como los ecosistemas urbanos hechos de tejido construido con sus actividades, tal como se ha hecho con las auscultaciones de paisaje. Es preciso, pues, conectar la visión y el conocimiento patrimonial con el proceso de mejora de la ciudad: ¿porque no ver todo Barcelona como un museo en sí mismo, el museo de su historia y de la historia de su gente? Es además cada vez más evidente que la ciudadanía reclama menos agresividad urbanística. El catálogo tiene que asumir esta evolución convirtiéndose de lista de edificios en herramienta de activación
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y protección de lo existente, pero con instrumentos que eviten otorgar un reconocimiento acrítico al papel del vecindario. Catálogo y proyecto (las cuestiones profesionales, incluyendo las referentes al mercado inmobiliario) Un criterio que podría definirse como imperativo por la intensidad con la que ha atravesado todas las mesas de discusión, es estudiar unos criterios de protección que vayan en equilibrio con la renovación: de lo contrario el patrimonio siempre será un obstáculo y a los promotores siempre le saldrá más a cuenta pagar una multa por sus destrozos, que no haberse metido en un laberinto de normativas y criterios que hacen inviable el mantenimiento de lo existente. Por tanto, el catálogo, para ser algo eficaz y dinámico, debería permitir una revisión continua, que permita la incorporación de nuevos criterios, nuevas piezas, nuevas temáticas y nuevos territorios y de corregir errores y omisiones. Una vez más, el reto consiste en transformar la protección patrimonial en un hecho proactivo, consustancial al hacer ciudad, y no un mero factor de resistencia. Opinión compartida entre los participantes a las mesas de discusión es que, a razón de la visión tradicionalmente antagónica entre conservacionismo e intervencionismo, los proyectos no suelen estudiarse con una actitud dialogante con entorno y arquitecturas patrimoniales, sino que ignoran (o incluso agreden) las permanencias. Catálogo y procedimientos (aspectos administrativos, municipales o no) Hoy por hoy, probablemente, poner en marcha un programa razonado de desafectaciones del PGM es la urgencia mas candente, sobre todo teniendo en cuenta que es demasiado fácil obtener una descatalogación de cualquier edificio, sea cual sea su grado de protección. Pensando en los derechos adquiridos, tal vez se podrían estudiar formas de compensación económica puntuales, aunque indirectas, para los que renunciaran a agotar el aprovechamiento urbanístico al que tienen derecho según el planeamiento. Probablemente una vía rápida y ágil a la obtención de los permisos podría ser mucho más efectiva de una sencilla rebaja de impuestos a la hora de evitar intervenciones agresivas o caprichosas. Aunque suene un poco paradójico, también se podría prever que determinados grados de protección tengan caducidad, para asegurarse una revisión continua que permita incluir y sacar piezas de manera razonada. Pasando al aspecto de la relación con otros planeamientos, todavía cuesta apreciar una sincronización entre catálogo, PDU y POUM. Es más: la sincronización también sería necesaria entre las diferentes entidades involucradas en tema patrimoniales, como está haciendo el Docomomo Ibérico en su colaboración con el Ministerio de Fomento. En Barcelona, el conjunto de edificios protegidos en la ciudad representa un porcentaje que no toca ni el 4% del construido (datos del área de Urbanismo) y el hecho que la reforma del catálogo del año 2000 abriera paso a planes de protección por distrito, ha desplegado una gran desigualdad no sólo en términos de política patrimonial, sino también en cuanto a impacto del urbanismo, dependiendo de cada barrio. Otro aspecto controvertido es que las fichas del actual catálogo dejan demasiado espacio para la interpretación. Si una subjetividad bien ponderada es un elemento esencial de toda negociación para resolver un conflicto, también es necesario evitar la arbitrariedad (a menudo generadora de fricciones) para favorecer la discrecionalidad (que implica confianza entre los actores). La poca concreción de muchas fichas, que en algu-
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nos casos roza la ambigüedad, no identifica de forma unívoca los términos de actuación, favoreciendo situaciones de difícil manejo y que, además, son enturbiadas por el hecho de que la catalogación es municipal y la legislación es autonómica o estatal. Unos cuantos intervinientes en las mesas de discusión han puesto en relieve la cuestión de una revisión de la normativa técnica de la edificación específica para bienes catalogados, respeto a los draconianos dictámenes del CTE. Dicha adaptación del código técnico a las intervenciones patrimoniales (y, más en general, a las rehabilitaciones) es algo que ya se hace en muchos países europeos. Una normativa técnica adaptable de forma fluida al patrimonio sería bienvenida también por el sector privado, porque garantizaría seguridad jurídica: si un edificio tiene una definición patrimonial clara, según esquemas comprensibles y consensuados, todo el mundo se adapta y modula el negocio en consecuencia. Finalmente es preciso señalar que muchas de las actuales fichas son insuficientes para tener un conocimiento y una comprensión adecuada del edificio: no incluyen los interiores, no involucran el entorno y, lo que probablemente es el aspecto peor, dibujan un cuadro absolutamente rígido de la protección y encorsetan cualquier posibilidad de continuar a mantener en uso del inmueble. Catálogo y futuro (la dimensión patrimonial dentro del gobierno de la ciudad) A lo largo de todas las acciones emprendidas por el ayuntamiento de la Ciudad Condal, y específicamente en las mesas de discusión, emerge claramente el gran reto de ciudad, que consiste en lograr un cambio de mentalidad en cuanto la evolución urbana: pasar de una visión de crecimiento a una visión de mejora y se debería poder garantizar la transformación futura bajo herramientas de control conservativas, pero sin bloquear las perspectivas de futuro. De hecho, el planeamiento actual presenta unas incongruencias notables entre una visión de ciudad sostenible y unas normas de lo más rígido y alejado de la realidad territorial. Entre estas incongruencias, una de las más urgentes en revisar es el ya mencionado criterio de las alineaciones de vial (‘urbanismo de raja’), responsable de verdaderos ‘patrimonicidios’ y al origen de múltiples controversias vecinales. Urgencia que se hace aún más patente si tenemos en cuenta que el reaprovechamiento de lo edificado existente es la principal estrategia para alcanzar los objetivos indicados la directiva europea EPBD (Energy Performance of Building Directive) que prescribe que todos los edificios nuevos y de rehabilitación integral sean a emisión casi cero, NZEB, antes de 2021. Un urbanismo hecho a golpes de escombros motivados exclusivamente por una exigencia apriorística de alineación parcelaria, incluso dentro de tejidos sedimentados, comulga poco con este objetivo. Entre los retos de futuro, también emerge la necesidad de afinar estrategias de intervención pública sin que ésta tenga efectos colaterales de carácter especulativo o gentrificador. Si la intervención pública provoca un aumento descontrolado de las plusvalías privadas, se genera desconfianza ciudadana: ¿para qué mejorar un entorno, si los que se van a beneficiar de la operación serán sólo unos señores concretos? En el caso de bienes patrimoniales, el concepto de disfrute público y el de consolidación de la identidad urbana pueden indicar soluciones. Si Barcelona no quiere acabar totalmente fagocitada por la figura de Gaudí, tendrá que trabajar en el conjunto de su patrimonio, incluso atreviéndose con temas inesperados como el alumbrado histórico o el antiguo mobiliario urbano.
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Conclusiones La percepción de la importancia del patrimonio está creciendo mucho en Barcelona y ya no podemos hablar de un interés sectorial. En muchos ámbitos sociales se reconoce que las preexistencias arquitectónicas y sus tejidos urbanos vertebran identidad y vida de la ciudad, algo impensable hasta hace pocos años. Los debates culturales locales solían ofrecer verdaderas perlas de menosprecio hacia este tema, al punto que todo un protagonista del urbanismo de Barcelona, Oriol Bohigas, en más de una ocasión llegó a defender el derribo recurriendo a tonos vehementemente arrogantes (Bohigas, 1985, 2000, 2003; Acta, 1997). La sorprendente superficialidad con la que, hasta hace poco, el tema patrimonial ha sido abordado por los círculos disciplinares, incluso en las locales escuelas de arquitectura, se ha repercutido en actitudes, estructuras y praxis de las administraciones, empezando por el ayuntamiento. También la reciente crisis provocada por la pandemia de Covid-19 conlleva una reflexión inspirada en las diferentes respuestas que tejidos urbanos de distintas épocas han ofrecido a una ciudadanía confinada durante más de dos meses. Y no solamente eso, sino que la forzosa renuncia al viaje-por-viajar (práctica tan habitual a partir de la entrada en el mercado de las compañías aéreas low cost) ha obligado a reconsiderar el descubrimiento del proprio territorio (manzana, barrio, distrito) y de los colindantes, como nuevos horizontes de un turismo de proximidad. Parece que el gobierno municipal apuesta para un cambio radical de mentalidad profesional: pasar de pensar “lo derribamos todo, menos lo que no nos dejan”, a pensar “lo reaprovechemos todo, excepto lo que de verdad no vale la pena”. Una actitud que, a bien ver, no es nada más que la aplicación en ámbito patrimonial de una impostación ideológica bien conocida del partido de la alcaldesa Ada Colau, aquella Barcelona en Comú que mantiene al centro de su acción política la defensa de la justicia social, del derecho a la vivienda, del vecindario y de la cultura popular. El conjunto de acciones emprendidas por la administración se compone, en síntesis, de actos formales (medidas de gobierno, planes especiales), de dinámicas de soporte (estudio comparativo europeo, mesas de discusión) y de momentos decisionales de gran visibilidad (concurso para la Rambla, nuevo plan director de recuperación para la antigua prisión Modelo). Se entiende, pues, que el desenlace de un proceso tan articulado y ponderado no quiere y no puede reducirse a una simple nueva edición de la lista de siempre, con las indicaciones de qué y cómo se puede modificar o destrozar. Se aprecia, pues, aún más la doble histórica novedad de un proceso municipal de revisión del catálogo que busca llegar a un resultado más orgánico y operativo de la tradicional lista de piezas y que, para lograr eso, otorga centralidad a un momento de discusión como las mesas de patrimonio, donde sensibilidades distintas y estamentos sociales de todo nivel comparan sus posiciones y aspiraciones. Respeto a otros procesos participativos emprendidos por la reciente administración de la Ciudad Condal, que a veces adolecen de efectividad, los encuentros descritos en el artículo se presentan como un inédito sustituto tanto de los comités de expertos como de las asambleas populares. Podría decirse que la administración barcelonesa está, de alguna forma, intentando superar su crónico retraso en el tema patrimonial, aplicando e inclusive implementando, ideas que en el debate internacional van fraguando desde hace casi dos décadas (Carta, 1999). Larga sería la lista de declaraciones al respeto, regularmente registradas por los medios locales, en televisión, radio y prensa tanto en papel como en la red. Es,
pues, este planteamiento el que lleva a promover unas mesas de discusión que, si las premisas consiguen concretarse en un válido corpus de indicaciones operativas para el nuevo catálogo, constituirán un sólido precedente para muchos otros procesos decisionales de relevancia territorial. El gobierno municipal confía, por lo tanto, en qué la suya es una estrategia prometedora. Queda por ver si la incierta coyuntura internacional desatada por la crisis sanitaria de la Covid-19 permitirá llevar a cabo la reforma del catálogo dentro de la legislatura, o sea antes de 2023, para después pasar al segundo paso (la constitución de una agencia de patrimonio municipal que pueda ágil y fiablemente interactuar con los gobiernos regional y central) o si, en el actual contexto, volverán a aflorar las viciosas inercias intelectuales barceloneses, bien dispuestas a conformarse con una lista más. Bibliografía Alexandre O. 2000, Catàleg de la destrucció del patrimoni arquitectònic del centre històric de Barcelona, Veïns en Defensa de la Barcelona Vella, Barcelona. Acta 1997, La ciutat històrica dins la ciutat, Mètodes i experiències d’intervenció, Centre Cultural La Mercè, Girona, 28 i 29 novembre 1996, Servei de Publicacions de la Universitat de Girona, Girona. Ajuntament de Barcelona 1983, Plans i projectes per a Barcelona 1981-1982, Ajuntament de Barcelona, Barcelona. Ajuntament de Barcelona 1987, Catàleg del Patrimoni Arquitectonic i Històrico-Artístic de la Ciutat de Barcelona. Ajuntament de Barcelona, Barcelona. Ajuntament de Barcelona 2009, Projecte d’intervenció integral dels barris, Santa Caterina i Sant Pere 2004-2009, Ajuntament de Barcelona, Generalitat de Catalunya, Foment de Ciutat Vella S.A, Barcelona. Bohigas O. 1985, Reconstrucció de Barcelona, Edicions 62, Barcelona. Bohigas O. 2000, La Via Laietana: derribar es saludable, «El País Catalunya» (2000-05-10) Bohigas O. 2003, A Joan Busquets: l’enderroc com a testimoni històric, «Avui» (2003-03-09) Borja J. 2010, Llums i ombres de l’urbanisme de Barcelona, Empuries, Barcelona. Busquets J. et al. 2003. La ciutat vella de Barcelona, Un passat amb futur, Ajuntament de Barcelona, Foment de Ciutat Vella S.A. / Edicions UPC, Barcelona. Cabrera i Massanés P. 2007, Ciutat Vella de Barcelona. Memòria d’un procés urbà, Ara Llibres, Badalona. Carta M. 1999, L’armatura culturale del territorio, Franco Angeli, Milano. Domingo M., Cendón Ó. (Eds) 2012, El Catálogo Monumental de España (1900-1961), Secretaría General Técnica del Ministerio de Cultura, Madrid. Gabancho P. 2011, Modelo caducado, «El País Catalunya» (2011-07-04). García-Hernández M., de la Calle-Vaquero M., Yubero, C. 2017, Cultural Heritage and Urban Tourism: Historic City Centres under Pressure, «Sustainability», 2017, 9, 1346, p.2-19. Muñoz, F. 2008, UrBanalización. Paisajes comunes, lugares globales, Gustavo Gili, Barcelona. Palou i Rubio, S. 2012, Barcelona, destinació turística, Un segle d’imatges i promoció pública, Edicions Vitel·la, Bellcaire d’Empordà. LLei 9/1993, de 30 de setembre, del Patrimoni Cultural Català. Generalitat de Catalunya, ‹portaljuridic.gencat.cat› Mesura de govern d’impuls a la gestió del patrimoni cultural de la ciutat, 17-01-2012, Ajmt BCN, Gaseta Municipal núm. 7 (29-02-2012). Mesura de govern Barcelona Arquitectura, Ciutat Patrimoni, 14-12-2016. Ajmt BCN, ‹bcn.cat› ‹https://davosdeclaration2018.ch› (Declaración de Davos)
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Dall’urbano all’edificio: strumenti per la riduzione e la mitigazione del rischio sismico. Il caso di Sestino. Dai piani di recupero alla CLE, una ricerca interdisciplinare. Silvio Van Riel
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze.
Abstract Reducing the vulnerability to seismic risk of buildings and urban centres has century-old origins. Since the anti-seismic house of Pirro Ligorio designed on the occasion of the Ferrara earthquake of 1571, passing through the Bourbon experiences in the Kingdom of the Two Sicilies between the 18th and 19th centuries, up to the 20th century examples, many experiments have followed one another, aiming to reduce damages caused by earthquakes through the arduous task of understanding how seismic events affect buildings and human settlements. A recent interdisciplinary study accomplished for the municipality of Sestino, in Tuscany, produced a first range of reports, and due to the various disciplinary contributions, it was possible to develop regulatory tools for reducing and mitigating the seismic risk, as well as to apply innovative insights to expand the expected results. In their development and implementation, these experiences can contribute to a greater knowledge about the risks to which our historical and monumental building heritage is subjected. Keywords Sestino, rischio sismico, CLE, piani di recupero, danno sismico.
Introduzione La volontà di ridurre la vulnerabilità degli edifici e del costruito dei contesti urbani al rischio sismico ha una genesi di esperienza secolare; dalla casa antisismica di Pirro Ligorio progettata in occasione del terremoto ferrarese del 1571 (Fagiolo, 2012) alle esperienze settecentesche borboniche che affrontarono il problema su due piani ben distinti: ridurre le vulnerabilità specifiche degli edifici in muratura ed affrontare il problema della pianificazione urbanistica nella costruzione dei nuovi insediamenti urbani calabresi e siciliani. Per la prima soluzione si preferì il metodo degli edifici “baraccati”, riprendendo il sistema costruttivo dalla tradizione romana dell’opus craticium e dalla gaiola pombalina portoghese fino alla definizione del prototipo della casa antisismica di Giovanni Vivenzio nel 1783 (Ruggeri, 2013). Per la seconda furono emanate specifiche e, per il periodo, innovative disposizioni urbanistiche relative alla forma dei centri abitati, alla regolarità nel posizionamento degli edifici e alla larghezza che dovevano avere le strade del centro urbano in rapporto al dimensionamento della nuova
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città (Bernardini, Meletti, 2017), una norma ancor oggi valida per poter definire l’altezza degli edifici. Solo verso la metà degli anni ottanta del Novecento, a seguito dei gravi sismi che hanno colpito l’Italia e l’allora Iugoslavia, la regione Emilia-Romagna ha deciso di finanziare una serie di Piani di Recupero per valutare la fattibilità di studi specifici per la riduzione del rischio sismico negli aggregati edilizi dei centri minori1. L’iniziativa estremamente innovativa portò alla elaborazione di studi di fattibilità, alla successiva redazione di relativi Piani di Recupero che interessarono molti centri minori romagnoli ed emiliani e che, in molti casi, portarono a concreti interventi tecnici e finanziari nei comparti studiati (Cremonini, 1994). Lo scrivente ha avuto la possibilità di partecipare a quell’esperienza, con la redazione di alcuni Studi di Fattibilità e Piani di Recupero che hanno permesso di approfondire non solo i problematici aspetti urbanistici dei comparti ma, grazie alla redazione dei rilievi strutturali, all’identificazione costruttiva, materica e di connessione degli elementi caratterizzanti il rischio sismico delle interazioni che potevano intervenire in caso di sisma fra le unità strutturali all’interno dell’aggregato edilizio (Van Riel, 1994). Solo dopo la crisi sismica umbro-marchigiana del 1997 si ebbe una forte accelerata normativa rivolta sia ai programmi di ricostruzione post-sismica sia alla fase della prevenzione del rischio sismico, dove viene evidenziata la criticità degli aggregati edilizi dei centri storici. All’interno di questo contesto tecnico-legislativo si introduce il concetto di Struttura Urbana Minima, cioè i percorsi e le strutture strategiche da mantenere in efficienza per garantire lo svolgimento delle attività primarie di carattere economico e sociale anche dopo il terremoto; questo può essere considerato un’anticipazione della CLE, normata solo nel 2012 con l’OPCM 4007/12. È sui lineamenti di questo significativo strumento di pianificazione per la riduzione e mitigazione del rischio sismico che si è sviluppato lo studio su Sestino. Questa esperienza di studio interdisciplinare nasce grazie alla volontà del prof. Mario De Stefano e del Laboratorio sismico dell’alta Val Tiberina a seguito della tesi di laurea sulla CLE per il Comune di Ficarra di cui ero relatore. Visti gli esiti positivi di quella ricerca (Farneti, Van Riel, 2020), De Stefano propose l’attivazione di una convenzione di ricerca fra il Dipartimento di Architettura di Firenze e l’Amministrazione comunale di Sestino per la redazione della CLE e per uno studio più approfondito delle problematiche sulla sicurezza sismica degli aggregati edilizi e degli edifici strategici. Oggi questa esperienza, completata tutta la fase istruttoria compresa l’approvazione della CLE da parte degli Organi Regionali di controllo, trova una sua prima sintesi negli scritti dei vari protagonisti dell’articolata e complessa indagine di studio2. Premesse normative Solo dopo il drammatico evento sismico che ha distrutto la scuola di San Giuliano di Puglia (2002) avviene una significativa svolta nel rapporto fra evento sismico e caratteristiche morfologiche e geologiche del terreno del sito colpito dall’evento; in questo caso la microzonazione sismica viene considerata strumento di prevenzione del rischio sismico e non più di gestione dell’emergenza. Questa importante considerazione avviene dopo circa novant’anni dalle osservazioni di Mario Baratta, che nella sua relazione sui danni del sisma di Reggio Calabria e Messina (1908) attua le premesse per il primo studio di microzonazione sismica in Italia3. Fino agli anni settanta del Novecento la relazione di Baratta rimase l’unico studio di microzonazione sismica in Italia anche se studiosi giapponesi, russi e americani cominciarono ad approfondire l’ar-
Fig. 1 Sestino (Arezzo).
Delibera di Consiglio Regionale n. 1036/1986 con cui ha attivato il ”Progetto Recupero” all’interno del “Programma regionale di sviluppo 1986-1988.
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Silvio Van Riel All’unità scientifica di ricerca, diretta dal prof. Mario De Stefano, hanno partecipato i proff. Fauzia Farneti, Marco Tanganelli, Silvio Van Riel e gli archh. Ornella Mariano, Monica Lusoli, Valentina Panella e Lisa Parmigiani. 3 Lo scopo della relazione è la comprensione del fenomeno, attraverso una ricostruzione dettagliata dei danni agli edifici, in rapporto ad alcune caratteristiche morfologiche e geologiche del terreno. Dallo studio emergono anche indicazioni generali per la pianificazione della ricostruzione che verranno integrate nelle norme tecniche per la ricostruzione diramate attraverso il R.D. n. 193 del 18/04/1909. 4 Il progredire delle diverse esperienze e la crescente eterogeneità degli approcci, ha portato nel 2006 all’istituzione di un Gruppo di Lavoro, composto da tecnici ed esperti nominati dalle Regioni e dal Dipartimento della Protezione Civile, per definire gli “Indirizzi e criteri per la Microzonazione Sismica” (ICMS, 2008). Tale pubblicazione definisce i metodi di indagine ed i criteri di utilizzo dei risultati delle analisi di microzonazione sismica, costituendo un riferimento nazionale per gli studi finalizzati alla caratterizzazione sismica del territorio. 2
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gomento e pubblicarono una serie di studi dove evidenziarono lo stretto rapporto fra le caratteristiche geologiche del sito ed il contenuto di frequenza del rumore microsismico di fondo (Kanai, Tanaca 1961); successivi studi confermarono come l’azione sismica possa essere alterata dalle caratteristiche geologiche locali. Anche in Italia fra gli anni ’70 e ’80 furono eseguiti significativi studi di microzonazione sismica a seguito dei disastrosi sismi che colpirono il nostro paese; nonostante la riconosciuta qualità dei lavori questi non ebbero nessun impatto sulla normativa tecnica ma gettarono le basi metodologiche per le successive esperienze di studio4. Bisognerà attendere il sisma aquilano (2009) per avere una risposta normativa; infatti dopo questo disastroso evento furono emanate due importanti ordinanze, che per la prima volta interessavano l’intero territorio nazionale, un programma organico pluriennale di studi per la caratterizzazione sismica delle aree e per la mitigazione del rischio sismico5. Per l’attuazione di questo programma sono stati individuati due strumenti essenziali: • La Microzonazione Sismica, MS. (OPCM 3907/10). • La Condizione Limite per l’Emergenza, CLE. (OPCM 4007/12). Gli studi di microzonazione sismica (MS) rappresentano uno strumento importante per la prevenzione del rischio sismico, infatti hanno l’obiettivo di razionalizzare la conoscenza di quello che accade in caso di terremoto, restituendo informazioni utili per il governo del territorio, la progettazione, la pianificazione, la gestione dell’emergenza e la ricostruzione post sisma6. Rappresentano, quindi, uno strumento chiave per l’avvio di una strategia di mitigazione del rischio sismico del territorio a scala comunale. Gli studi di Microzonazione Sismica hanno lo scopo di riconoscere le condizioni locali che possono modificare il moto sismico atteso o che possono produrre deformazioni permanenti rilevanti per le costruzioni e le infrastrutture. Tali informazioni sono utili per la pianificazione e per la realizzazione di interventi sul territorio, per la prevenzione sismica e per la valutazione del rischio sismico7. Questi studi, che dovranno essere recepiti dalla pianificazione comunale e adottati tramite standard comuni all’intero territorio nazionale8, sono nati per supportare i soggetti realizzatori e rendere omogenea l’elaborazione delle carte di MS, gli standard di rappresentazione e archiviazione informatica9 e si sono trasformati in uno strumento di riferimento “dinamico”, aggiornando più volte la banca dati agganciata ai file cartografici (shapefile). A supporto della MS è stato emanata un’ordinanza (OPCM 4007/12) che definisce il ruolo e la finalità di un altro importante strumento di conoscenza per la riduzione e mitigazione del rischio sismico per tutto il territorio nazionale: la Condizione Limite per l’Emergenza (CLE), che ha lo scopo di verificare i principali elementi fisici del sistema di gestione delle emergenze definiti nel piano di protezione civile (edifici strategici, aree di emergenza, infrastrutture di connessione e accessibilità), al fine di assicurare l’operatività del sistema stesso dopo il terremoto. L’analisi della CLE viene condotta in concomitanza o a seguito agli studi di MS – integrandoli – e, come per questi ultimi, segue modalità di rilevamento e archiviazione regolate da specifici standard. A tal fine sono state predisposte cinque schede specifiche di rilevamento relative a: Edifici Strategici, Aree di Emergenza, Infrastrutture di Accessibilità/Connessione, Aggregati Strutturali, Unità Strutturali. Queste dovrebbero implicitamente verificare il sistema di gestione dell’emergenza, identificando i manufatti cui sono attribuite le funzioni strategiche, il sistema di interconnessione fra tali strutture e il sistema di accessibilità rispetto al contesto territoriale generale comunale ed extracomunale. At-
tualmente le schede sono strutturate in maniera tale da costituire un primo livello conoscitivo del sistema (livello 1), in cui rientrano alcune conoscenze di base prevalentemente di tipo qualitativo. Per ogni tipo di scheda vengono raccolte, oltre ad informazioni generali come dati di esposizione, di vulnerabilità, rapporto con la morfologia del terreno e con la microzonazione sismica, anche informazioni strutturali sulle caratteristiche dei singoli fabbricati. Il quadro generale della situazione del costruito nazionale rappresenta un fattore di particolare attenzione; i dati recenti ISTAT evidenziano una preoccupante obsolescenza del patrimonio architettonico esistente del quale solo il 7% degli edifici, costruiti nell’ultimo decennio, possiedono i requisiti minimi di sicurezza sismica. Inoltre il ritardo con cui è avvenuta la nuova riclassificazione sismica del nostro territorio nazionale (2004) ha comportato la presenza di edifici che, non rispettando quei requisiti strutturali di risposta al sisma, rappresentano un fattore di rischio estremamente alto, come purtroppo ha evidenziato il sisma emiliano del 2012. La consapevolezza di questa situazione ha sollecitato studi e ricerche sui sistemi funzionali dei centri urbani e sulle caratteristiche e prestazioni strutturali dei singoli fabbricati, strettamente connessi al tessuto edilizio delle città. È fondamentale conoscere le caratteristiche del tessuto viario dell’insediamento così come quelle specifiche del costruito per poter ipotizzare, attraverso l’analisi della vulnerabilità, strumenti idonei di mitigazione e riduzione del rischio sismico. Per questo, solo di recente ed in alcune ricerche universitarie, sono state attivate indagini di approfondimento sullo studio del costruito con l’uso di accurate ricerche storico-archivistiche, di tecniche di rilevamento laser-scan e droni e valutazioni sulle prestazioni statiche e sismiche degli edifici; purtroppo queste iniziative sono frenate e limitate dai costi e solo alcune sono in fase di attuazione10. La complessità costruttiva-strutturale dell’aggregato è strettamente dipendente dall’evoluzione della città storica che ha comportato un processo diacronico di rifusione, trasformazione edilizia o sostituzione per parti, per cui l’operazione di individuazione all’interno dell’aggregato delle singole unità non è semplice e immediata; questo aspetto è stato un limite che ha condizionato le redazioni delle prime CLE (Bramerini F. et altri, 2013). Ne consegue che un valido riscontro delle ipotesi di suddivisione dell’aggregato in unità strutturali, formulate durante la ricognizione esterna, non dovrebbe prescindere dall’analisi dell’evoluzione costruttiva dell’aggregato, integrata dal confronto tra catastali di epoca diversa così da fornire evidenza delle trasformazioni. La CLE e gli studi per Sestino Per non inficiare l’attendibilità dei risultati attesi dall’analisi della CLE è stata ritenuta necessaria una revisione della procedura di rilevamento sia degli aggregati che delle unità strutturali, che ha permesso una corretta identificazione dei dati strutturali richiesti dalle relative schede e di quelli utili alla suddivisione in US, attraverso una vasta campagna di rilevamento tramite laser-scan, sopralluoghi interni e la creazione di abachi di riferimento per i diversi elementi strutturali. Allo stato attuale l’analisi della CLE non costituisce un riferimento di progetto ma una lettura delle condizioni dell’insediamento, con attenzione alla gestione dell’emergenza in caso di evento sismico. In virtù delle esigenze attuative manifestate dalle amministrazioni comunali, è necessario spingersi verso la valutazione dei possibili interventi. L’aspetto più significativo proposto da questo progetto di ricerca consiste
Con l’emanazione della legge 77/2009 di conversione del “Decreto Abruzzo”, l’attuazione dell’art. 11 (Fondo Nazionale per la Prevenzione del Rischio Sismico), viene affidata al Dipartimento della protezione civile ed è regolata attraverso ordinanze. 6 Per la realizzazione di tali studi il documento tecnico di riferimento è rappresentato dagli “Indirizzi e criteri per la microzonazione sismica”, approvati il 13 novembre 2008 dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. 7 Gli ambiti di applicazione della Microzonazione Sismica sono: 1) la pianificazione territoriale e urbanistica che integra la conoscenza delle componenti che determinano il rischio sismico e fornisce alcuni criteri di scelta finalizzati alla prevenzione e alla riduzione del rischio stesso; 2) la pianificazione dell’emergenza: sia a livello comunale che provinciale, consente una migliore e consapevole individuazione degli elementi strategici di un piano di emergenza e in generale delle risorse di protezione civile; 3) nella progettazione di opere (nuove o interventi su opere esistenti) evidenzia l’importanza di fenomeni quali le possibili amplificazioni dello scuotimento legate alle caratteristiche litostratigrafiche e morfologiche dell’area e dei fenomeni di instabilità e deformazione permanente attivati dal sisma. 8 Tali principi sono stati messi a punto anche grazie all’attività di ricerca e sperimentazione svolta nell’ambito del Progetto Urbisit - Sistema informativo territoriale per la pianificazione di protezione civile nelle aree urbane (Convenzione fra DPC e CNR-IGAG, 2011), che approfondisce i temi riguardanti le relazioni fra microzonazione sismica e pianificazione, nonché la definizione concettuale delle “condizioni limite degli insediamenti urbani”. 9 Gli standard di rappresentazione e archiviazione informatica degli studi di MS sono stati predisposti dalla 5
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Silvio Van Riel Commissione tecnica per il supporto e monitoraggio degli studi di MS (istituita con l’art. 5 OPCM 3907/2010 e composta dai rappresentanti delle amministrazioni centrali, delle Regioni e Province autonome e degli ordini professionali), recependo di fatto gli “Indirizzi e criteri per la microzonazione sismica” approvati nel 2008 dal DPC e dalla Conferenza delle Regioni e Province autonome. 10 Si fa riferimento all’articolato studio sul tessuto storico di Firenze ad opera di Mario De Stefano e Marco Tanganelli ed alla redazione degli studi sui nuclei urbani di Premilcuore e Bertinoro in Romagna, dove oltre alla realizzazione delle CLE sono previsti studi dettagliati delle strutture e delle prestazioni statiche e sismiche dei fabbricati, con l’applicazione di metodi per valutare il danno previsto in occasione del sisma atteso ed eventuali costi per la loro messa in sicurezza.
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nell’incremento degli studi e dell’analisi degli aggregati edilizi, mediante l’individuazione delle possibili condizioni limite quali soglie di danneggiamento fisico e funzionale a seguito dell’evento sismico. Attraverso l’elaborazione delle informazioni desunte dall’analisi della CLE è possibile evidenziare i tratti delle infrastrutture di connessione tra gli edifici strategici sui quali insistono più aggregati edilizi e quelli ad alta pericolosità, in quanto maggiormente interferenti con l’infrastruttura di connessione. Lo studio ha imposto lo sviluppo di una metodologia d’indagine specifica per il nucleo urbano di Sestino, in particolare un’attenta ricognizione documentale al fine di ricostruire la storia urbana e sismica e del suo territorio comunale. Nell’ambito di questa ricerca è stato trovato un documento di particolare importanza: il censimento dei danni sismici dovuti al terremoto del 1987, nel capoluogo e nelle frazioni. Questa documentazione ha permesso di identificare gli edifici colpiti e il loro grado di danneggiamento, permettendo di individuare i successivi interventi strutturali, come richiesto dalle schede. L’analisi morfologica del costruito e dello sviluppo urbanistico dell’abitato è stata eseguita tramite la sovrapposizione di iconografie, mappe catastali e cartografie di varie epoche; si è inoltre proceduto con l’analisi dei fronti stradali, dei palinsesti murari interferenti con l’infrastruttura considerata, mediante rilievo laser-scanner. Questa specifica fase d’indagine conoscitiva rappresenta un aspetto innovativo ed importante della ricerca poiché questa tecnologia permette di restituire geometricamente l’edificato con errori minimali; comunque abbinata a questa operazione è sempre necessario l’integrazione analitica e diretta del manufatto. Grazie all’ampia campagna di rilevamento è stato possibile individuare le caratteristiche dei tipi di apparecchiatura muraria e della qualità dei collegamenti, nonché di tutte quelle operazioni che rivestono un ruolo fondamentale nell’identificazione e valutazione dei dissesti. Particolare attenzione è stata riservata alla consistenza degli aggregati a maggiore pericolosità, mediante il rilievo architettonico e strutturale, in relazione alle tipologie costruttive e le loro aggregazioni nel corso del tempo e del rapporto con le infrastrutture e la geo-morfologia del sito. Le indagini hanno avuto come obiettivo: • la razionalizzazione della conoscenza di quello che accade in caso di terremoto, • la restituzione delle informazioni utili per la mitigazione del rischio sismico degli aggregati attraverso l’attivazione di minimi e puntuali interventi strutturali, • il governo del territorio, • la gestione dell’emergenza in caso di sisma.
Nell’impostare metodologicamente questo studio interdisciplinare è stato necessario attivare specifiche sinergie al fine di ottimizzare i risultati finali, facendo anche riferimento a ricerche precedenti che hanno permesso di acquisire esperienze dirette nell’elaborazione di questo articolato progetto. Uno degli aspetti che hanno condizionato l’elaborazione delle precendenti CLE è stato, e non poteva essere diverso, la stretta connessione fra quanto richiesto per la CLE: documenti cartografici e schede a fornire un prodotto si utile all’integrazione del Piano di Protezione Civile comunale ma che aveva poche possibilità di “progettare” specifici sistemi per la riduzione del rischio sismico. Per questo motivo, parallelamente alla redazione di quanto richiesto per la redazione formale della CLE sono state attivate una serie di ulteriori ricerche e studi che hanno permesso di ampliare e articolare le analisi per concretizzare un vero e pro-
prio strumento, anche applicativo, da affidare alla gestione degli organi tecnici comunali per la redazione degli aggiornamenti di pianificazione urbanistica ma anche nello specifico per l’esercizio degli interventi diretti sugli edifici esistenti, creando un archivio di dati e suggerimenti tecnici da utilizzarsi nel caso che quegli edifici siano oggetto di futuri interventi edilizi. Sestino è un comune ad alto rischio sismico e presenta una storia il cui abitato e territorio è stato segnato nel corso dei secoli da significative crisi sismiche, per cui fondamentale è stata la ricerca storico-archivistica sui documenti conservati nell’Archivio comunale e nell’Archivio di Stato di Arezzo che hanno permesso di ricostruire la successione degli eventi che hanno modellato e condizionato lo sviluppo urbano di Sestino e del suo territorio nel corso degli ultimi secoli, come trattato da Fauzia Farneti. Il fatto di disporre della Microzonazione sismica ha permesso di approfondire la ricerca sulle caratteristiche geomorfologiche del territorio e poter disporre di una serie di mappe sulla pericolosità dei siti e sullo stato di dissesto idrogeologico che caratterizza tutto l’alto Appennino tosco-marchigiano, essenziale per valutare fenomeni di amplificazione del moto sismico sui fabbricati ubicati in particolari zone a rischio. L’indagine diretta sulle caratteristiche dei fabbricati ha permesso, oltre alla qualità della raccolta dei dati per la compilazione delle schede richieste dalla CLE, la possibilità di utilizzare il materiale elaborato per successivi ed importanti approfondimenti. Degni di nota sono i significativi contributi che, nel tempo, gli studiosi hanno elaborato all’interno del progetto europeo Risk-UE nel 1999 (Movroux et al. 2004) per fornire un approccio comune ed avanzato agli scenari di rischio sismico per le nazioni europee. All’interno di questo contesto sono stati proposti due metodi per la valutazione della vulnerabilità degli edifici attuali e per la valutazione degli scenari di rischio sismico: un modello macrosismico, da utilizzare facendo riferimento alle mappe dei rischi di intensità macrosismica e un modello meccanico, da applicare quando il pericolo è fornito in termini di accelerazioni di picco del suolo e valori spettrali (Giovinazzi S., Lagomarsino S., 2001). Gli autori propongono una serie di valutazioni per stabilire la possibilità di danno degli edifici in funzione delle caratteristiche costruttive e tipologiche dei fabbricati e l’evento massimo sismico atteso per quel determinato sito. Per poter applicare correttamente questa metodologia di previsione del danno atteso è necessario poter disporre di studi specifici sulle caratteristiche tipologiche e costruttive dei singoli edifici, un’analisi che è stata sviluppata per Sestino e che potrebbe quindi servire come utile base operativa per approfondire questa indagine al fine di poter valutare il danno atteso e, quindi, gli eventuali costi per la messa in sicurezza sismica dell’abitato studiato. Nel testo di Barbara Paoletti e Marco Tanganelli sono approfonditi questi concetti chiave per la valutazione delle prestazioni strutturali degli edifici che compongono il costruito e le valutazioni che sono alla base del rapporto fra il sito geologico e le strutture dei fabbricati soprastanti. Nel testo di Ornella Mariano vengono esplorati con dovizia di informazioni le tematiche per la definizione delle schede CLE, il cui utilizzo è fondamentale per la corretta identificazione delle caratteristiche funzionali del contesto urbano; queste sono correlate da uno stretto rapporto sintattico, fondamentali per il funzionamento del sistema di gestione dell’emergenza. Il contributo di Mariano, che a prima vista potrebbe sembrare una semplice descrizione delle caratteristiche funzionali del contesto urbano e territoriale, riveste un ruolo fondamentale per identificare lo stretto rapporto fra la loro ubicazione e le infrastrutture così come gli aggregati e le unità strutturali
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Silvio Van Riel
possono influire sul comportamento degli elementi edilizi contigui. Anche nella definizione delle schede è fondamentale la più approfondita conoscenza delle caratteristiche tipologiche e costruttive dei manufatti e del loro rapporto con il sistema viario che li caratterizza, una conoscenza che può avvenire sono integrando le informazioni interdisciplinari, acquisite tramite ricerche specifiche e articolate. Per illustrare compiutamente la CLE di Sestino probabilmente non sarebbe stato sufficiente tutto lo spazio offerto ai cinque contributi presentati a questo convegno; nella sintesi di Valentina Panella, comunque, è possibile chiaramente identificare il percorso metodologico che è stato alla base della redazione dello studio. E’ opportuno comunque precisare un punto fondamentale che ha caratterizzato la ricerca: lo stretto rapporto fra la redazione di uno strumento specifico, la CLE nelle sue definizioni normative al fine della sua approvazione formale, e gli aspetti che sono serviti per integrare ed arricchire i contributi innovativi al fine di ottenere una base su cui costruire ulteriori strumenti operativi, di approfondimento per la mitigazione e riduzione del rischio sismico. In occasione della redazione di queste articolate ricerche in convenzione è prassi comune approfondire le indagini studiando le prestazioni strutturali di un singolo edificio, normalmente segnalato dall’Amministrazione Comunale, ritenuto strategico e di interesse pubblico. Nel caso specifico di Sestino è stato condotto il percorso conoscitivo per la redazione del progetto di messa in sicurezza statica e sismica del teatro comunale Pilade Cavallini, come previsto dalle attuali Norme tecniche sui fabbricati. Nella sintesi di Lisa Parmigiani è possibile ripercorrere le fasi metodologiche che hanno permesso la redazione di questo studio che, per la qualità prestata nella sua elaborazione, può rappresentare un vero e proprio progetto definitivo architettonico e strutturale, di grande utilità per l’Amministrazione. L’attenta e minuziosa indagine documentale ha permesso di identificare la “vita” del fabbricato dalle sue origini progettuali, agli inizi del ‘900, fino ai nostri giorni riuscendo a riconoscere tutti gli interventi architettonici e strutturali che l’edificio ha subito nel corso del tempo, integrando la documentazione storica con il puntuale rilievo, con il laser scanner integrato dalle necessarie misurazioni manuali, sia per la compagine architettonica sia per le parti strutturali. Questo studio ha inoltre indagato e ampliato l’indagine alle unità strutturali dell’aggregato edilizio di cui fa parte integrante il teatro, al fine di identificare l’indice di vulnerabilità sismica, per macroelementi, per identificare le criticità strutturali che potrebbero attivarsi a seguito del sisma. Conclusioni L’occasione della presentazione al Simposio ReUso 2020 di questo articolato studio ha permesso una prima ricognizione critica sull’applicabilità e gestione di questo strumento che, secondo l’attuale normativa, diventa un dispositivo di conoscenza e pianificazione dell’emergenza in caso di danni prodotti dal sisma fondamentale per ogni Amministrazione locale assieme alla Microzonazione Sismica. Comunque gli approfondimenti proposti dalla ricerca hanno messo in luce le notevoli possibilità che l’implemento di queste indagini può portare alla miglior conoscenza del territorio e delle caratteristiche urbane e architettoniche del costruito, storico e recente, nel tentativo di ipotizzare criteri di intervento a prevenzione del danno atteso in quel sito. È una ricerca in continuo sviluppo grazie alla sempre maggior possibilità di impiego di tecnologie che solo pochi decenni fa erano indisponibili, quali campagne di rilevazione
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del costruito tramite laser scanner e droni, sistemi informatici per la gestione dei dati, programmi di calcolo sempre più mirati alla valutazione delle prestazioni statiche e sismiche dei fabbricati e, infine, una sempre maggior consapevolezza della interdisciplinarietà che deve guidare e interagire in questi studi. Bibliografia Cremonini I. (a cura di) 1994, Rischio sismico e pianificazione nei centri storici. Metodologie ed esperienze in Emilia-Romagna, Firenze. Bramerini F., Cavinato G.P., Fabietti V. (a cura di) 2013, Strategia di mitigazione del rischio sismico e pianificazione CLE: condizione limite per l’ Emergenza, Urbanistica Dossier, 130, INU Ed., Roma. Commissione tecnica per la microzonazione sismica 2016, Manuale per l’analisi della Condizione Limite per l’Emergenza (CLE) dell’insediamento urbano, versione 1.1, Roma. Farneti F, Van Riel S. (a cura di) 2020, Ficarra. Studi per la riqualificazione e la valorizzazione del centro storico, Altralinea ED., Firenze. Giovinazzi S., Lagomarsino S. 2001, Amethodology for the seismic vulnerability analysis of buildings, in Proc. 10th Italian conference on earthquake engineering, Potenza. Kanai K, Tanaca T. 1961, “On Microtremors”, VIII Bulletin of the Aerthquake Reserch Institute. Mouroux P., Bertrand E., Bour M., Le Brun B., Depinois S., Masure P. 2004, The European RISK-UE project: an advanced approach to earthquake risk scenarios, in Proc. of the 13th world conference on earthquake engineering, Vancouver, BC, Canada, paper 3329 (CD-Rom). Ruggeri N. 2013, Il sistema antisimico borbonico, muratura con intelaiatura lignea, genesi e sviluppo in Calabria alla fine del ‘700, in «Bollettino Ingegneri», n. 10, Firenze. Van Riel S. 1988, Tre piani di recupero nel centro storico di Modigliana, in Progetto recupero – Regione Emilia-Romagna, Bologna, pp. 89-106. Van Riel S. 1994, Studio di fattibilità di un piano di recupero del borgo murato di Civitella di Romagna, in I. Cremonini (a cura di) 1994, Rischio sismico e pianificazione nei centri storici. Metodologie ed esperienze in Emilia-Romagna, Alinea Ed., Firenze. Van Riel S. 1998, Dal recupero urbanistico al consolidamento in zona sismica. Tre piani di recupero per la riduzione del rischio sismico nei centri storici a Galatea, Cusercoli e Civitella di Romagna, Alinea Ed., Firenze. Van Riel S. 2020, L’edificato storico e la sua vulnerabilità statica e sismica, in F. Farneti, S. Van Riel (a cura di) 2020, Ficarra. Studi per la riqualificazione e la valorizzazione del centro storico, Altralinea Ed., Firenze, pp. 195-285.
Sitografia Fagiolo M. 2012, Il terremoto di Ferrara e la casa antisismica di Pirro Ligorio http://www.goleminformazione.it/commenti/il-terremoto-di-ferrara-e-la-casa-antisismica-di-pirro-ligorio.html#.XIeF1CJKjcs. Bernardini F., Meletti C. (a cura di) 2017, I Borbone di Napoli e i grandi terremoti delle Calabrie del 1783, http://www.blueplanetheart.it/2017/09/borbone-napoli-grandi-terremoti-delle-calabrie-del-1783/#prettyPhoto
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Fauzia Farneti
Dall’urbano all’edificio: strumenti per la riduzione e la mitigazione del rischio sismico. Il caso di Sestino. L’analisi documentale per la storia urbana e sismica dell’insediamento urbano Fauzia Farneti
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze.
Abstract History may be considered the complete form regarding the complex built environment connoisseurship, whose final goal is the acquisition of knowledge in a historical, technological and typological sense. Recognition of existent buildings, both historical or not, must be based on constructive, architectural and structural characteristics and highlight origins, developments and changings buildings and consequently blocks have been submitted to through the years. Sestino is a high seismic risk municipality that thus requires increasingly in-depth studies in order to reduce its built-up area vulnerability. Documentary research constitutes a significant instrument to a correct recognition of the most fragile territories facing natural phenomena. Keywords Sestino, seismic risk, vulnerability, documentary research.
Introduzione Il restauro ha un rapporto imprescindibile con la storia tanto da farlo considerare “operazione a base storica” (Gregori, 1971). La conoscenza degli edifici esistenti deve essere fondata sulle caratteristiche costruttive, architettoniche e strutturali e deve evidenziare la genesi, lo sviluppo, le trasformazioni che hanno subito nel tempo. È una conoscenza che si muove su ambiti interdisciplinari, con i contributi di discipline collegate al restauro quali, per esempio, la storia dell’architettura e dell’arte, il rilievo e tutte quelle che studiano le caratteristiche tecnologiche e compositive. Nell’ottica di una corretta tutela del patrimonio architettonico è fondamentale intervenire sugli edifici conoscendone compiutamente la storia, “la vita” nello stesso modo con cui il medico per curare un malato deve conoscere interamente la sua storia clinica. Studiare e conservare le tracce del passato significa ripresentare il valore storico di tutto il tessuto urbano e sociale quale elemento fondamentale della storia materiale della propria cultura. Le conoscenze acquisite sono significative per una corretta pianificazione urbanistica e architettonica dell’insediamento e per la riduzione del rischio sismico degli aggregati edilizi e degli edifici.
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Nel 1520 era stato eretto in podesteria. 2 Nel 1844 vengono avviati studi per tracciare una nuova strada mulattiera per una più “comoda comunicazione” tra Sestino e lo Stato pontificio. 3 Con la bolla del 5 luglio 1520, Leone X decise di risolvere il debito contratto con la Repubblica Fiorentina cedendo a Firenze il Montefeltro, incluso il vicariato di Sestino. Il debito papale non fu mai saldato ed il pegno si trasformò in cessione. 4 Dato il numero elevato di monache, Il monastero venne ampliato nel 1633. 5 Ad esempio le monache agostiniane lamentano che “per la loro straordinaria povertà non sanno più come vivere”. Archivio Vescovile Sansepolcro, Nullius di Sestino, Miscellanea civile dal 1714 al 1729, tomo IV, e Miscellanea civile dal 1745 al 1777, tomo VI. 6 La confraternita risulta già soppressa nel 1785. 1
La ricostruzione della stratificazione del costruito dell’insediamento L’insediamento di Sestino1 nel Montefeltro, fino al 1870 sui “limina” dello Stato pontificio2, venne acquisito dalla Repubblica fiorentina nel 1521 quale pegno di un ingente debito contratto da Leone X 3 per recuperare lo Stato di Urbino. La consistenza del territorio sestinate e le condizioni di vita della comunità nell’ultimo trentennio del Cinquecento si evincono dalla dettagliata relazione scritta da mons. Gerolamo Ragazzoni, illustre prelato veneziano amico del cardinale Carlo Borromeo, in occasione della visita apostolica compiuta il 15 luglio 1574 a Sestino “in Florentina Ditione” (Leonardi, 1986). Il visitatore apostolico, com’era suo costume, non fa osservazioni o commenti (Allegretti (a cura di), 1989, p. 28) ma rileva i gravi problemi nelle infrastrutture, gli scarsi mezzi di comunicazione, la povertà; le case e le chiese erano fatiscenti, sconnesse, con pavimenti in terra battuta. Nell’indice delle chiese della giurisdizione e dell’oppido propriamente detto, oltre alla chiesa plebana dedicata a S. Pancrazio, sono annoverati il poverissimo monastero delle monache di S. Maria4, fondato dieci anni prima, quello di S. Agostino, un ospedale e due associazioni laicali di cui una detta di S. Maria, l’altra del SS. Sacramento. Il prelato sottolinea le difficoltà economiche e gli eventi “indominabili” che trovano conferma anche nel Settecento5 ( Renzi, 1990a, p. 10), difficoltà in questo caso accresciute dai violenti terremoti verificatisi nel 1704 e nel 1726.
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Fauzia Farneti 7 La chiesa, che prospetta una piccola piazza, è stata ricostruita dopo il secondo evento bellico mondiale. 8 E’ il primo insediamento conventuale eretto a Sestino. 9 Il piviere di Sestino godeva del privilegio Nullius dioecesis, ovvero non dipendeva da alcuna diocesi ma direttamente dall’autorità pontificia, una concessione già menzionata nel secolo XV 10 Nel monastero di S. Agostino era presente un Raffaello; la comunità sestinate perde il piviere Nullius assieme al tribunale e al catasto nel 1870. 11 Al piano terreno era posta la cancelleria con l’archivio, la sala delle adunanze e il quartiere del cancelliere. 12 Attualmente la piccola piazza antistante l’edificio mantiene l’antica denominazione. 13 Franchi aveva restaurato il palazzo comunale di Castiglion Fiorentino. 14 ASCSestino, f. 321, lib. I, c. 59. 15 Nel febbraio 1720 e nel 1722 nel teatro viene rappresenta una commedia; ASCSestino, Filza non numerata, febbraio 1720/21, cc. 63, 79. 16 La più alta autorità, nello spirituale, del territorio, quasi un vescovo mentre il Capitano di Giustizia era la più alta autorità nel campo temporale. 17 Entrambe infatti sono state incorporate nel tempo in
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Con l’avvento dei Lorena a partire dal 1737, anche Sestino segue la stessa sorte dei territori medicei ma essendo un’area di estremo confine, nelle condizioni di stabilità politica instaurate dai Lorena, perde quell’interesse geografico e strategico che l’aveva resa appetibile. Una interessante descrizione del territorio è riportata nella relazione scritta dal granduca Pietro Leopoldo nel 1789, in occasione del suo viaggio nel granducato di Toscana nell’ottica del “conoscere per governare”, per individuare i problemi da affrontare. A proposito di Sestino rileva che è una terra priva di sviluppo economico, dove “[… ]scema sempre la popolazione in questa terra infelicemente situata senza altro territorio che montagne aride e alpestri, circondata dallo Stato del Papa da per tutto colle gabelle” che rendono difficili i commerci, “senza mercati, fiere, strade, vicinati, né prodotti” e quindi con un’economia poverissima: “[… ]vi sono solo pochissime botteghe [… ]”, fra cui quelle dei fabbri e dei calzolai. Il borgo medioevale, cinto da mura con torri, si snodava lungo il torrente Seminico (Bonelli Conenna, 2002, p. 47) che confluisce nel Foglia, e si presentava ancora “disunito e scosceso, con salite e scese” (Bonelli Conenna, 2002, p. 84); lungo la riva sinistra del Foglia aveva una “piazza ragionevole”, la piazza principale, delimitata da palazzi pubblici fra cui, dai primi decenni dell’Ottocento dal palazzo della Comunità poi Comunale. Anche la relazione leopoldina dà indicazioni sul monastero di clausura “di 12 monache agostiniane, 8 corali e 4 converse”, la cui chiesa era stata costruita e successivamente donata all’antica confraternita di S. Maria della Misericordia6 che aveva l’obbligo di “mantenerla”7. In una zona più periferica del complesso religioso femminile si trovava il “conventino di S. Agostino”8, costruito nel 1470 di fronte alla pieve di S. Pancrazio9, edificata all’esterno del quadrilatero difensivo, su un piano più alto rispetto il paese. Il complesso religioso agostiniano dopo il terremoto del 1781 fu modificato dall’Amministrazione delle Reali Fabbriche, con la realizzazione di “diverse piccole case” assegnate gratuitamente alle famiglie più povere rimaste prive di abitazione in Castel di Sopra a causa del sisma. I resoconti delle visite dell’Ordinario di S. Pancrazio, come delegato apostolico, alle chiese e ai monasteri nei diversi periodi forniscono interessanti informazioni sulle condizioni degli edifici religiosi e testimoniano la presenza di numerose opere pittoriche mobili, anche autentici capolavori10 (Agnoletti, 1970, pp. 54 ss.), di affreschi e di statue, un patrimonio accumulato nel tempo attraverso lasciti, acquisti e donazioni, in seguito in parte disperso. In un “cattivo vicolo sopra un poggetto”, un piccolo promontorio nella parte ovest del paese, nella parte dell’urbano denominata Castello di Sopra, “in un luogo misero e con pessimo accesso”, come rileva la relazione granducale, si trovava il Palazzo Pretorio11 (fig. 1), in cui avevano sede la Cancelleria, trasferita da Sasso di Simone nel 1669 (Renzi, 1977), e il tribunale12 (Bonelli Conenna, 2002, pp. 84, 86). Agli inizi del Settecento, infatti, si era ravvisata la necessità di un nuovo più ampio edificio che fu costruito a partire dal 1712 su progetto dell’architetto fiorentino G. Franchi13, accorpando alcune case acquistate da privati14; l’edificio “abbastanza ampio e sontuoso, con archi e con soffitti a cassettone” (Renzi, 1977, pp. 53-56) fu gravemente danneggiato dal sisma del 1781. All’interno dell’edificio, in corrispondenza dell’accesso, si trovava il teatro, ambiente di passaggio per accedere al tribunale15; la platea della sala teatrale costituiva il collegamento alle “due carceri pubbliche” mentre dalla galleria si entrava in “una segreta”
(Bonelli Conenna, 2002, p. 87). Al primo piano trovavano posto le residenze del vicario 16 (Bonelli Conenna, 2002, p. 47) e del notaio che occupavano in parte anche il secondo piano. Intorno al 1755 venne chiesta l’autorizzazione a Roma per erigere nel Palazzo Pretorio un oratorio “per celebrarvi messa per commodo della Famiglia del Giusdicente e dei carcerati”. L’ingresso alla nuova sede del palazzo avveniva da Piazzetta del Tribunale, come anche oggi è nominata l’area; ad essa si arrivava mediante una scala in inverno – allora – impraticabile. Alla fine degli anni sessanta del Novecento il Comune ha venduto l’edificio, che si trovava in uno stato di grave degrado, a privati che lo hanno ripartito in appartamenti. Una prima descrizione del paese, che fa comprendere la configurazione urbana, si evince dal testo di Benedetto Varchi che definisce Sestino come un “piccolo castelletto”, con un borgo “pieno di case e di botteghe”, cinto da mura con “torri alle quattro estremità” (Renzi, 1973, pp. 15-16), di cui una potrebbe essere identificata in corrispondenza dell’edificio dell’attuale farmacia posto a ridosso delle antiche mura sul limitare della Strada antica, un’altra nelle vicinanze17. Al borgo si accedeva tramite la medioevale Porta Fiorentina, nella parte dell’urbano denominata Castello di Sotto, gravemente danneggiata dal sisma del 1781, davanti alla quale, fuori dalle mura, si estendeva la cosiddetta piazza del Mercato18 e si affacciava l’antico oratorio di S. Sebastiano, alienato nell’aprile del 1788 dopo la soppressione19. Non lontano dalla Porta Fiorentina si trovava l’ospedale gestito dalla confraternita della Misericordia, distrutto nel 1517 a seguito del sacco dato a Sestino dalle truppe di Francesco Maria I della Rovere (Renzi, 1990, pp. 14-15); la piccola chiesa della confraternita, edificata presumibilmente nel 153120 quando questo spazio urbano era diventato una zona di espansione, era posta nella parte alta dell’urbano, prospettante la piazza omonima (fig. 2). Il paese, che dalla documentazione archivistica risulta diviso fino al Cinquecento in quattro “terre” o quartieri21, era attraversato da due vie parallele, indicate da Benedetto Varchi “borgo maestro e la via di giustizia”, che congiungevano Porta Fiorentina alla seconda porta urbica chiamata della Pieve, posta all’inizio dell’attuale via Termae Romanae, e il ponte sul Seminico (Zuccagni Orlandini, 1856). L’area compresa fra quest’ultimo e Porta Fiorentina a partire dal 1849 fu oggetto di un significativo intervento che faceva parte di un programma di opere pubbliche guidate anche da necessità igieniche e di salubrità. Il provvedimento comportò la demolizione dei “due archi”, da individuare presumibilmente uno nella Porta Fiorentina e l’altro nella porta urbica posta a difesa del ponte, alle estremità della via di ingresso al borgo, la cosiddetta “Strada antica” che terminava in corrispondenza del torrente. I lavori furono sollecitati dal medico condotto della Comunità di Sestino, dottor Antonio Del Vita, nel novembre 184922, perché questa parte del borgo detta Castello di Sotto23 non era sufficientemente ventilata; le case occupavano l’uno e l’altro lato della via, non godevano della luce solare diretta con problemi di umidità e di esalazioni di materie putrefattibili e i due “archi” facevano “quasi stagnare l’aria”. Inoltre le acque del fiume, “impregnate frequentemente di materie organiche non vi hanno facile scolo, è luogo dove possono molto le più energiche cagioni di malattie”. Questi problemi portarono ad adottare il provvedimento di salute pubblica con la demolizione “dell’arco” posto “fra la Casa Crestini, e la Casa Bartolucci” e di parte dell’isolato a monte del percorso24. Lo smantellamento della Porta Fiorentina, che si trovava in uno stato di grave degrado per i danni causati dal terremoto del 1781, determinò il rialzamento della strada principale in corrispondenza del nuovo ponte e
Fig. 1 Sestino, palazzo Pretorio (Fototeca pro-loco Sestino).
strutture edilizie poste lungo via De Gasperi, all’inizio di via Ponte all’Isauro. 18 La piazza anche attualmente porta questo nome. 19 ASCSestino, Contratti di compravendita, 29 marzo 1787, p. 194. 20 AVSS,Nullius di Sestino, tomo I, Capi rotti dal 1449 al 1579. 21 Ringrazio Giancarlo Renzi per questa informazione. 22 ASC Sestino, Contratti di compravendita, 1817-1862, Sestino 6 Novembre1849. 23 Perché posta nel “più basso della Terra”. 24 L’isolato verrà completamente demolito in occasione dei lavori di miglioramento della viabilità. 25 Delibera del 20 giugno 1862.
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Fauzia Farneti Le stanze e la loggia risultano di proprietà dei signori Marini di Sestino. ASCSestino, Contratti di compravendita, 1817-1862. 27 ASCSestino, Contratti di compravendita, 1817-1862, Sestino 6 Novembre1849. 28 ASCSestino, Protocollo delle Deliberazioni del Consiglio dall’anno 1896 all’anno 1900, adunanza del 26 maggio 1898. La demolizione era stata già approvata dalla Giunta il 14 maggio. 29 ASC Sestino, Contratti di compravendita, 1817-1862, 24 settembre 1835. 30 Con l’approvazione granducale del 12 agosto 1835. 31 ASC Sestino, Delibere del Podestà, 3 giugno 1938. 32 ASC Sestino, Delibere del Podestà, 10 aprile 1939. 33 ACS, f. 14, Lettere, bilanci, istanze, cc. 583 sgg. 26
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i conseguenti interventi di modifica degli accessi e delle finestre degli edifici, con la demolizione di tre balconi e di due scale poste nella via25. Il materiale edilizio derivato dalla demolizione venne trasportato in prossimità del fiume Foglia per il suo riutilizzo in interventi pubblici (fig.3). L’”arco più antico”, la porta urbica, aveva “stanze annesse”, e una loggia poste al di sopra e a tergo del medesimo26 facendo presumere la sua destinazione a residenza. A partire da questa occasione vanno così perduti l’antica Porta Fiorentina27, la casa con l’orologio pubblico e il palazzetto Baroncelli, nelle vicinanze dell’attuale Palazzo Comunale. Fra i principali interventi del programma di opere pubbliche avviato nel 1849 si segnala la costruzione, nel 1892, del nuovo ponte sul Seminico. Nell’area urbana identificata da Giancarlo Renzi con la piazzetta del Gioco, corrispondente all’odierna piazza dei Sei Martiri, si trovava l’oratorio della Venerabile Compagnia delle Sacre Stimmate di S. Francesco, costruito nel 1732, che versava in uno stato di fatiscenza architettonica; la demolizione venne decisa dal Consiglio Comunale nel maggio 1898 per motivi di “utilità al Paese tanto dal lato estetico che igienico” e per dare lavoro alla “classe operaia”28. Nell’oratorio il pittore sestinese Vincenzo Loppi, intorno alla metà del Settecento, aveva dipinto “l’ornamento che serve di cornice intorno al quadro e […] il sopracielo, li gradini all’altare e la credenza” (Renzi, 1990). Nella “pubblica piazza” dai primi decenni dell’Ottocento era ubicata la cosiddetta Casa della Comunità di Sestino, frontistante edifici con funzione pubblica fin dal periodo malatestiano. Nell’edificio, percorso al piano terreno da una loggia e da un voltone, trovava posto anche l’abitazione del Cancelliere della Comunità e l’archivio comunitario. Il palazzo, posto nelle vicinanze della cosiddetta Piazza del Gioco, fu oggetto di lavori di ampliamento e di restauro dopo l’acquisto di una casa Magri, articolata in quindici stanze di grandezza diversa, come riferisce la perizia del 7 agosto 1819, da adibire a cancelleria comunitativa e archivio. Nel piano interrato della stessa era posta una stanza ad uso di cantina, con “muri di pietra e calcina. Grossi braccia uno, e settantacinque centesimi”, coperta a volta, di proprietà di Francesco Santi, alla quale si accedeva tramite le stanze del quartiere del cancelliere29; nell’ambiente si trovava un pozzo che aveva continuità nel piano superiore e che attualmente si può vedere nella sala del Consiglio. Per ovviare questa servitù, il magistrato ne decise l’acquisto30 unitamente al piccolo orto adiacente il palazzo. In questa occasione vengono decisi anche i lavori di ampliamento della bottega posta nel piano terreno dell’edificio, prospettante la piazza principale. Nel 1938 con la vendita di due vani terreni del Palazzo Comunale, con ingresso indipendente, già destinati a latrina pubblica, venne riparato il dissesto del pavimento di una sala che presentava una significativa lesione31. L’anno seguente, l’ambiente terreno antistante quello adibito a dopolavoro nello stesso palazzo venne utilizzato come forno pubblico32. Agli inizi del Novecento, anche la comunità di Sestino si dota di un luogo di aggregazione sociale e culturale seguendo la tradizione delle più importanti città; infatti, nelle vicinanze del Palazzo Comunale venne promossa la costruzione del teatro comunale da Pilade Cavallini, direttore delle scuole di Sestino. A partire dal dicembre 1904 venne costruita la prima strada rotabile, che attraversa il paese, migliorata la viabilità da Firenze a Sestino e tracciato il collegamento con la via Anconetana, dando inizio alla costruzione di un nuovo percorso provinciale che comportò lo sventramento del paese, la demolizione di una decina di edifici, andando a modificare la configurazione urbana a scapito dell’impianto medioevale.
La storia simica: pianta dei danni del 1987 In tutti i periodi la documentazione rileva la fragilità dei tracciati del territorio, sottoposti a continue “smotte”, a ripetuti sommovimenti e, laddove c’erano sedi stradali queste risultano “lastricate” di fango (Renzi, 1993, p. 76)33. La rimodellazione dell’abitato di Sestino si deve non solo agli adeguamenti dettati dal miglioramento igienico degli edifici, degli isolati ma anche e soprattutto agli eventi naturali; infatti tutto il territorio della Valtiberina, compreso quello di Sestino, è soggetto alla franosità, ha un assetto idrogeologico precario ed è argilloso. Dal Cinquecento ad oggi una nutrita documentazione registra le calamità naturali, quali frane e smottamenti terrosi avvenuti, ad esempio, fra il 1590 e il 1649 e nei periodi successivi, e i sismi. Infatti, oltre al dissesto territoriale orografico, questo territorio da sempre deve fare i conti con una faglia sismica di notevole importanza che nei diversi periodi ha causato gravi danni e molte vittime. La prima documentazione sismica della Valtiberina è relativa al terremoto del 25 dicembre 1352 e del 1 gennaio 1353 che colpì in particolare Sansepolcro e Città di Castello; per il periodo precedente la documentazione storica non è attendibile. Un altro sisma con epicentro fra Sansepolcro e Città di Castello ha investito l’Alta Valtiberina il 26 aprile 145834 causando gravi danni agli edifici e moltissimi morti, come il 2 maggio 1690 (Pacciani, 2009, p. 142). Il territorio di Sestino fu sconvolto dai terremoti anche nel secolo successivo; da un documento del 1704 si evince “che un recente terremoto” aveva lesionato gravemente i muri principali della chiesa di San Martino che, come scrive il rettore don Cesare Olivieri, versava in condizione critiche; il sisma del 1726 fu definito “rovinoso”, uno dei più violenti tale che i parroci della giurisdizione inviarono una supplica a papa Benedetto XIII per ottenere una indulgenza per i fedeli che avevano paura di rientrare nelle chiese35, spaventati “ex orribilibus terremotuum quaessationibus, quae praesenti anno eorum terruerunt Parochias sed praecipue ecclesias”36. Un altro sisma nel 1738; quello del 3 giugno 1781 venne considerato “terrificante”, il più disastroso; provocò numerosi danni agli edifici37, fra questi il palazzo Pretorio38 e la pieve di San Pancrazio39, riparati entro il 1788. A Sestino crollarono 29 edifici40, 120 nell’intera area. Il governo granducale intervenne con estrema celerità e moderne misure di soccorso coordinate da Carlo Setticelli, “ministro Principale della Magona”, nominato commissario straordinario e inviato dal granduca nei territori colpiti per rile-
Fig. 2 Pianta di Sestino con l’individuazione di alcune emergenze, ante 1850 (elaborazione grafica di Monica Lusoli). Fig. 3 Pianta di Sestino con l’individuazione di alcune demolizioni effettuate dalla seconda metà dell’Ottocento (elaborazione grafica di Monica Lusoli).
34 Un cronista riferisce che ci furono complessivamente 7.360 morti. La popolazione abbandonò le case e alloggiò all’aperto. 35 L’indulgenza fu concessa per cento giorni. 36 Sansepolcro, Archivio Vescovile, Miscellanea Civile e Criminale, Capi Rotti dal 1621 al 1669, tomo III, 1726. Venne concessa una indulgenza di cento giorni. 37 ASCSestino, Filza d’Ordini Sovrani, e de’ SS.ri Superiori, Documenti, Contratti,§c. riguardanti i restauri stati fatti alle Fabbriche della Terra di Sestino, e Sue Adiacenze doppo il Terremoto del di tre Giugno 1781 al tempo dell’Eccmo: Sig.re Dre: Antonio Scipione Vecchi Cancelliere di Verghereto e annessi. Il sisma colpì anche Modigliana, Terra del Sole e Borgo S. Sepolcro. 38 ASCSestino, Libro dell’Amministrazione della Comunità di Sestino, ottobre 1782-settembre , p. 755.
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Fauzia Farneti Fig. 4 Pianta di Sestino con l’individuazione degli edifici danneggiati dal sisma del 5 luglio 1987 (Archivio Comunale Generale, Cat. Xa, con unione dei quadri di Valentina Panella)
ASCSestino, Nota delle Chiese del Vicariato di Sestino state danneggiate dal Terremoto del 3 giugno 1781 da restaurarsi, p. 30. 40 Gli edifici risultano riparati entro il 1788. 41 Il Nelli acquisì molta fama nel campo dell’architettura. A lui si deve la pubblicazione delle opere inedite sul tema architettonico del padre, Giovan Battista, apprezzato studioso di matematica e di architettura. 42 ASCSestino, v. 12, Documenti relativi al restauro delle Fabbriche di Sestino dopo il terremoto del 1781, p. 5. 43 ASCSestino, n. 14, Filza di Lettere, Istanze, et….. 1787, p. 1753, lettera scritta da Francesco Benedetto Mormoray al cancelliere di Verghereto. 44 Per i danni causati dal sisma si rimanda a Archivio Comunale generale Sestino, Cat. Xa, Pratiche terremoto luglio 1987. 39
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vare i danni “cagionati dagli ultimi terremoti”. Per disposizione granducale i cittadini furono esentati dal pagamento delle tasse per un anno; vennero abbattute le case troppo danneggiate e gli interventi furono concentrati sulle case più sicure, dove vennero trasferiti anche gli sfollati. Non solo furono presi immediati provvedimenti per riparare i danni agli edifici; infatti, con Motu proprio del 12 giugno il granduca sollevò le comunità dal pagamento per un anno della tassa di Redenzione, dovuta alla Cassa della Camera delle Comunità, e della tassa del Macinato. Oltre al Setticelli, coadiuvato dal Magistrato Comunitativo e dal cancelliere, fra coloro che si occupavano della messa in sicurezza degli edifici che venivano “appuntellati” per evitare danni maggiori, della costruzione dei tetti delle “case dei poveri e miserabili” se meritavano di essere conservate e dell’assegnazione di nuovi “ripari”, risulta Giovan Battista Clemente Nelli41 che informava costantemente il granduca della situazione dei territori. Essendo stato riconosciuto che le case danneggiate dei poveri erano in numero molto superiore “al bisogno dell’attuale popolazione”, venne deciso di non intervenire in quelle che richiedevano interventi onerosi, proponendone la demolizione e assegnando loro altre abitazioni42. Per coloro che non potevano portare avanti i lavori di “risarcimento” fu stabilito che i costi sarebbero stati anticipati dal magistrato comunitativo e in seguito restituiti. Con il rescritto del 12 marzo 1784 il granduca approvò la cancellazione dei debiti dovuti agli interventi di recupero delle abitazioni. Dalla relazione del 15 dicembre 1787, redatta dal provveditore di Strade, si evince che per i risarcimenti agli edifici di Sestino furono assegnate lire quarantuna43. Successivamente il granduca prese provvedimenti per il restauro delle “Fabbriche pubbliche secolari, delle Fabbriche tanto pubbliche che particolari Ecclesiastiche”. Francesco Coccia nel suo volume sull’attività sismica in Toscana (Coccia, 1982) riferisce che il 30 aprile 1957 e il 15 aprile 1960 ci sono stati due importanti terremoti di 11 scosse forti nel primo e 19 nel secondo, con epicentro di entrambi nel paese di Sestino. Altri terremoti di minore importanza furono nel 1969, 1976, 1984 e 1985.
L’evento sismico più significativo in epoca moderna è stato quello del 5 luglio 1987, protrattosi nelle settimane successive, con scosse fino al 6° grado della scala Richter creando notevoli danni anche agli edifici pubblici come la sede del Comune, le chiese, fra queste la vecchia pieve di San Pancrazio ricostruita dopo il terremoto del 1781, e le canoniche44. Conclusioni Sestino è un comune ad alto rischio sismico che richiede quindi studi approfonditi per ridurre la vulnerabilità del suo abitato. Il territorio e l’abitato sestinese è stato soggetto a una serie di eventi naturali che hanno riguardato il dissesto idrogeologico come elemento significativo di amplificazione dell’azione sismica. Lo studio delle fonti documentarie ha permesso di comprendere ciò che gli eventi sismici hanno provocato nell’abitato e nei fabbricati, dando un contributo significativo alla corretta diagnosi delle vulnerabilità architettoniche degli edifici; ha inoltre dato l’opportunità di individuare come i sismi hanno rimodellato l’abitato del centro storico unitamente agli interventi di miglioramento igienico sanitario e di modernizzazione dei collegamenti viari. Bibliografia Agnoletti E. 1970, Memorie religiose inedite di Sansepolcro, Tip. Boncompagni, Sansepolcro. Allegretti G. (a cura di) 1989, Girolamo Ragazzoni e la Feretranae ecclesiae visitatio, 1574, San Leo Bonelli Conenna L. (a cura di) 2002, In viaggio col granduca Pietro Leopoldo sulle vie dell’Appennino, Ed. CREAAP, Sestino-Badia Tedalda. Coccia F. 1982, Attività sismica in Toscana durante il cinquantennio 1930-1980, University of Chicago Gregori M. 1971, Per la tutela dei beni artistici e culturali, «Paragone», XXII, 257, pp. 3-18 Leonardi C. 1986, La relazione della visita apostolica del vescovo Gerolamo Ragazzoni al nullius dioecesis di Sestino. 1574, in «Studi Montefeltrani», 13, 1986, pp. 53-81. Pacciani E. (a cura di) 2009, Sestino tra Medioevo ed età contemporanea, Sestino. Renzi G. 1973, Sestino. Storia civile e religiosa del Cinquecento, Sestino. Renzi G. 1977, La residenza del Capitano e la sede del Tribunale, Bramante, Urbania. Renzi G. 1990, I Malatesti e Sestino. Momenti di una storia, in Le Signorie dei Malatesti, atti giornata di studi Malatestiani a Sestino, 3, Bruno Chigi Edit., pp. 5-22. Renzi G. 1990a, Scienze naturali e cultura antiquaria nella società sestinate del Settecento, in G. Renzi (a cura di), Il Sasso di Simone, Nobili edit., Verucchio, pp. 5-19. Renzi G. 1993, Frane e vulnerabilità. L’isolamento storico della Valmarecchia. Il punto di vista toscano, in G. Allegretti, F.V. Lombardi (a cura di), Le frane nella storia della Valmarecchia, Rimini, pp. 69-93. Zuccagni Orlandini A. 1856, Indicatore topografico della Toscana Granducale, Firenze.
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Barbara Paoletti Marco Tanganelli
Dall’urbano all’edificio: strumenti per la riduzione e la mitigazione del rischio sismico. Il caso di Sestino. Analisi multilivello per l’upgrade della Condizione Limite per l’Emergenza Barbara Paoletti
Dipartimento di Architettura,Università degli Studi di Firenze.
Marco Tanganelli
Dipartimento di Architettura,Università degli Studi di Firenze.
Abstract Seismic events of a destructive nature have recently again affected Italy, reiterating the need for a serious awareness of the present natural risks, seismic, hydrogeological and volcanic. Considerably underestimated is the vulnerability that afflicts buildings in seismic areas which are subjected to serious damage by medium intensity earthquakes causing heavy loss of life, as in the L’Aquila earthquake in 2009 or in the seismic sequence of Central Italy in 2016-2017. Following these events, the fragility of historic centers, rich in art and culture, and the need for efficient rescue systems capable of dealing with the emergency became particularly evident. To spread a common and widespread culture of prevention and safety, the scientific and academic world has been promoting awareness in the field of prevention and protection of the building heritage for decades. This work illustrates a multilevel methodology, it starts from the conclusions of the analysis of the Emergency Limit Condition to evaluate its functionality and identify any shortcomings. Finally, the results of the analyzes made will allow the definition of intervention policies useful for reducing seismic risk. The procedure is based on the results of the studies of the research group of the Department of Architecture on the territory of the Municipality of Sestino and starting from these it defines the application scheme. Keywords Rischio sismico, Sestino, analisi della CLE, scenari di danno.
L’elevata pericolosità sismica che storicamente interessa il territorio italiano è costantemente ricordata dalle decine di migliaia di scosse sismiche registrate ogni anno da l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Mentre il XX secolo si chiudeva con il pesante bilancio di sette eventi distruttivi, il nuovo secolo metteva di nuovo in evidenza la fragilità del patrimonio edilizio e la conseguente necessità di efficienti piani di soccorso. La morte di 27 bambini travolti dal crollo della scuola Francesco Jovine a San Giuliano nel terremoto del Molise del 2002 evidenziò sia la necessità di una revisione della classificazione sismica del territorio italiano che il bisogno di edifici pubblici sicuri. Necessità nuovamente messa in luce dal sisma che nella notte del 6 aprile del 2009 colpì il territorio aquilano, di cui ricordiamo la distruzione del centro storico dell’Aquila ma anche l’inagibilità o il crollo di edifici strategici o rilevanti. Lacune e carenze purtroppo riscontrate anche in eventi distruttivi postumi, il terremoto dell’E-
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Fig. 1 Il centro urbano di Sestino (da https://casalemontondo. it/ambiente/sestino-edintorni/)
milia del 2012 e la sequenza sismica del Centro Italia del 2016 (Reggo, 2019). In questo contesto, sull’intero territorio nazionale è stata incentivata la redazione di strumenti urbanistici dedicati al livello comunale quali gli studi di Microzonazione Sismica (MS) e l’analisi delle Condizioni Limite per l’Emergenza (CLE) (decreto-legge n.39 del 2009 tradotto successivamente nella legge 77/2009 e decreto-legge 59 del 2012 tradotto nella Legge 100/2012 di riforma del Servizio Nazionale) (Commissione tecnica per la microzonazione sismica, 2017), invito accolto dall’amministrazione di Sestino che si avvalsa della collaborazione del Settore Sismica della Regione Toscana, del Dipartimento di Architettura (DiDA) dell’Università di Firenze e del Laboratorio Sismico dell’Alta Valtiberina (LAB.sI). Redatti in concomitanza, la microzonazione sismica si presenta come un traguardo conoscitivo in grado di fornire informazioni utili al governo del territorio, mentre la CLE è da considerarsi una guida, utile a individuare componenti urbane di interesse prioritario su cui concentrare nell’immediato futuro studi e indagini. Partendo dalle basi conoscitive prodotte dall’attività di ricerca interdisciplinare coadiuvata dal Prof. De Stefano, la Prof.ssa Farneti, il Prof. Van Riel e il Prof. Tanganelli, il presente lavoro propone una procedura di analisi multilivello delle prestazioni strutturali del costruito con lo scopo di incoraggiare un’adeguata cultura della sicurezza e definire efficienti politiche di mitigazione del rischio. Il comune di Sestino Il comune di Sestino (AR) oggetto di studio è situato sulle pendici dell’Appennino Tosco-Umbro-Marchigiano a 496 metri sul livello del mare, l’area, denominata Alta Valtiberina, prende il nome dal corso del fiume Tevere che la attraversa. Considerata tra le zone sismicamente più attive dell’Appennino settentrionale, è il territorio a maggior rischio della Regione Toscana. Consapevoli della pericolosità sismica che storicamente affligge il territorio e del trovarsi in un’area montuosa notoriamente soggetta a estesi e rilevanti movimenti gra-
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Barbara Paoletti Marco Tanganelli Tab. 1 Eventi sismici storici dagli effetti distruttivi con effetti valutabili fra il grado VIII e X
Data
Epicentro
Imax
Mw
25 dicembre 1352
Monterchi
9
6.4
18 ottobre 1389
Bocca Serriola
9
6
26 aprile 1458
Valtiberina
8-9
5.8
30 settembre 1789
Valtiberina
9
5.8
26 aprile 1917
Valtiberina
9-10
5.9
vitativi di versante, l’amministrazione di Sestino ha incaricato il Settore Sismica della Regione Toscana di condurre nell’area di sua competenza studi di Microzonazione Sismica. Nel capoluogo, dove sono state eseguite verifiche di risposta sismica locale di livello 3, è stata individuata una diffusa presenza di situazioni altamente amplificanti con fattori di amplificazione (FH) anche superiori a 2.5, dovuti movimenti franosi classificati come inattivi e/o definitivamente stabilizzato (Panella, 2020). In concomitanza alla redazione della Microzonazione Sismica, la collaborazione con il Dipartimento di Architettura (DiDA) dell’Università di Firenze ed il Laboratorio Sismico dell’Alta Valtiberina (LAB.sI) ha portato il comune di Sestino a dotarsi di un ulteriore strumento urbanistico, l’analisi della Condizione Limite per l’Emergenza (CLE), oggetto di tesi e dell’attività di ricerca svolta sul territorio. La CLE di un insediamento urbano, desunta dal Piano Comunale di Protezione Civile, consiste in un’opera di localizzazione, identificazione e catalogazione degli elementi che in modo diretto o indiretto compongono e garantiscono il funzionamento del sistema dell’emergenza. In oggetto, gli edifici strategici, le aree di emergenza, la rete viaria di connessione e accessibilità al contesto territoriale e gli aggregati strutturali e le singole unità strutturali risultate “interferenti”, ovvero, che in seguito al possibile danneggiamento dovuto all’evento sismico, possano comportare un ostacolo alle attività di soccorso alla popolazione (Commissione tecnica per la microzonazione sismica, 2017) (Bramerini, Cavinato, Fabietti, 2013). L’introduzione dello strumento urbanistico ha evidenziato la necessità di superamento del concetto di pianificazione dell’emergenza limitata alla semplice localizzazione delle funzioni strategiche, e la necessità di una visione sistemica di rete dei soccorsi. Contribuendo ad affermare l’insufficienza della sola messa in sicurezza dei soli edifici strategici promossa a partire da l’O.P.C.M. 3274/2003 come garanzia di funzionamento del sistema in caso di sisma e la necessità della definizione di scenari di danno che includano l’edificato ordinario e le infrastrutture che per vulnerabilità propria o indotta possano comportare una perdita di funzionalità. Pertanto, il dotarsi della CLE, per il comune di Sestino e in generale per ogni amministrazione significa definire una scala di priorità d’intervento, e identificare aree di pubblico interesse ove indirizzate mirate ed efficaci politiche di mitigazione del rischio. La CLE di Sestino, approfondimenti e proposte d’indagine Note le difficoltà incontrate dall’attività di soccorso alla popolazione in eventi sismici anche recenti quali l’impercorribilità del sistema infrastrutturale di accessibilità e mobilità e l’inagibilità degli edifici strategici, il presente lavoro vuole proporre possibili approfondimenti d’indagine utili a valutare l’effettiva funzionalità del sistema di protezione civile presente sul territorio urbano, individuarne eventuali limiti e opportuni ampliamenti. La metodologia di indagine del danno atteso per l’abitato del borgo storico di Sestino prende avvio dall’attività di ricerca del DiDA, volta ad analizzare le caratteristiche tipo-
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logico e strutturali del patrimonio edilizio e infrastrutturale di accessibilità e mobilità. Acquisite le necessarie conoscenze, lo studio, finalizzato a valutare la vulnerabilità sismica del costruito, prevede una diversa scala operativa che partendo dal sistema urbano inteso nella sua totalità (Faccioli, Pessina, Calvi, Borzi, 1999) e scende a livello di dettaglio al singolo edificio, avvalendosi dell’utilizzo di metodi speditivi con finalità statistiche che di approfondite verifiche strutturali.
Fig. 2 a) Il centro storico dell’Aquila del 2009 (da https://tg24. sky.it/); b) Il centro storico di Amatrice dopo la prima scossa del 24 agosto del 2016 (https://www.lamiacittanews. it/)
Un approccio multidisciplinare alla fase conoscitiva Il patrimonio edilizio storico e monumentale italiano è costituito prevalentemente aggregati strutturali in muratura. Manufatti che nel tempo hanno subito profonde alterazioni arrivando a presentare schemi strutturali complessi con variazioni di materiali e di tecniche costruttive, pertanto un’analisi delle prestazioni strutturali vista l’eterogeneità che li appartiene, necessita a priori di una profonda e accurata fase conoscitiva capace di coglierne le innumerevoli peculiarità. Fortemente condizionati da aspetti ambientali e vicende storiche, sono beni che mal si prestano a chiavi di lettura univoche, rendendo necessario un approccio multidisciplinare, dove il contributo di più ambiti di ricerca opportunamente correlati permetta di cogliere il soggetto nella sua totalità e acquisirne una più completa conoscenza geometrica, materica e strutturale. L’indagine multidisciplinare condotta dal gruppo di ricerca (Panella, 2020) ha riguardato sia i corpi di fabbrica che il sistema infrastrutturale del centro urbano di Sestino. La metodologia con cui è stata affrontata la complessità strutturale tipica degli aggregati in muratura ha consentito una maggior attendibilità nell’individuazione delle singole unità strutturali, fondamentale sia ai fini della CLE (Bramerini, Cavinato, Fabietti, 2013) che nello studio della vulnerabilità sismica del costruito. Partendo da una ricerca d’archivio con l’obiettivo di ricostruire l’evoluzione urbana e la storia sismica dell’area, particolare attenzione è stata rivolta all’analisi dei danneggiamenti subiti in seguito ai vari eventi sismici e all’acquisizione dei catasti storici regionali e delle planimetrie catastali degli immobili utili a comprenderne le trasformazioni subite nei secoli recenti (Panella, 2020). La conoscenza della morfologia urbana una volta reperiti gli strumenti urbanistici antecedenti e in vigore in possesso dell’amministrazione, è stata integrata con l’esecuzione di un rilievo laser scanner 3d della viabilità individuata dal sistema emergenziale con approfondimenti puntuali riguardanti le strutture
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Barbara Paoletti Marco Tanganelli Fig. 3 a) La viabilità d’emergenza individuata nel centro urbano di Sestino (V. Panella “Valutazione della condizione limite per l’emergenza (CLE): analisi critica e applicazione a un sistema territoriale” tesi di laurea); b) Il rilievo laser scanner 3d dei fronti prospicenti la viabilità (V. Panella “Valutazione della condizione limite per l’emergenza (CLE): analisi critica e applicazione a un sistema territoriale” tesi di laurea)
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strategiche, all’occorrenza con l’ausilio del rilievo con drone e del rilievo diretto. Ulteriori peculiarità dei fronti urbani prospicienti la viabilità quali il quadro fessurativo e lo stato di degrado dei paramenti murari sono state documentate facendo ricorso alla fotogrammetria (Panella, 2020). Raggiunto un accettabile livello di conoscenza delle caratteristiche materiche e strutturali dell’edificato in oggetto, è stata prospettata l’applicazione di tre diversi protocolli di indagine della vulnerabilità del centro urbano di Sestino, il primo a larga scala diretto ad esaminare la totalità del comparto edificatorio e al monitoraggio del sistema infrastrutturale di accessibilità e mobilità, un secondo a misura di isolato urbano rivolto alla definizione di un possibile scenario di danno degli aggregati storici interferenti individuati nella CLE, e infine di un terzo dedito ad indagare le prestazioni strutturali del singolo edificio strategico di concerto con le norme vigenti. I distinti stadi di indagini corrispondono a obiettivi, conoscenze di base, complessità di verifica e risultati attesi di differente natura ma che opportunamente correlati possono condurre a una valutazione organica e globale dell’effettiva efficienza della rete dell’emergenza e avviare specifici interventi a impedire il superamento della Condizione Limite. Analisi della vulnerabilità sismica a larga scala del comparto edificatorio e infrastrutturale In letteratura sono presenti varie metodologie di studio della vulnerabilità sismica su larga scala differenti per quantità di informazioni necessarie all’applicazione e di conseguenza maggior o minore attendibilità del risultato pur sempre indicativo e statistico, idoneo a individuare macroscopiche criticità e definire priorità d’intervento. L’indagare la vulnerabilità sismica speditiva sul patrimonio edilizio e la classificazione del patrimonio infrastrutturale di accessibilità e connessione individuato nella CLE è un primo screening generale utile a indicare le principali criticità di intralcio al funzionamento del sistema della mobilità quale la propensione ad ostruzioni da detriti causate da un edificato fragile e vulnerabile. Seppur in ambito statistico, questa prima fase offre attendibili indicazioni circa l’adeguatezza della viabilità d’emergenza individuata o la necessità di modificare o ampliare il sistema con percorsi alternativi e più sicuri. Nate per esaminare grossi comparti edificatori o intere aree urbane, la messa in pratica di valutazioni speditive dello stato di salute del patrimonio edilizio richiede la conoscenza di limitate peculiarità quali l’epoca e la tipologia costruttiva e le principali caratteristiche morfologiche dell’oggetto, fra le più adeguate a indagare i centri storici possiamo citare il metodo macrosismico di Giovinazzi e Lagomarsino (Giovinazzi, Lagomarsino, 2004) e le schede di rilevamento del GNDT nella versione proposta da Formisano et al. (Formisano, Florio, Landolfo, Mazzolani, 2010). Il metodo macrosismico di Giovinazzi e Lagomarsino si evolve dalla scala EMS98, e integra la procedura per-
Livello 0
Censimento di tutte le opere e delle loro caratteristiche principali mediante la raccolta delle informazioni e della documentazione disponibile.
Livello 1
Esteso alle opere censite a Livello 0, prevede l’esecuzione di ispezioni visive dirette e il rilievo speditivo della struttura e delle caratteristiche geo-morfologiche ed idrauliche dell’area, tese a individuare lo stato di degrado e le principali caratteristiche strutturali e geometriche di tutte le opere, nonché potenziali condizioni di rischio associate a eventi franosi o ad azioni idrodinamiche.
Livello 2
Definizione di una classe di attenzione di ogni ponte, sulla base dei parametri di pericolosità, vulnerabilità ed esposizione, determinati elaborando i risultati ottenuti dai livelli precedenti. In funzione di tale classificazione, si procede quindi con uno dei livelli successivi.
Tab. 2 Estratto delle Linee Guida per la classificazione e gestione del rischio, la valutazione della sicurezza ed il monitoraggio dei ponti esistenti
mettendo il calcolo di un indice di vulnerabilità e del relativo danno atteso per intensità macrosismica. Operando sempre in ambito statistico, tiene in considerazione un numero maggiore di caratteristiche tipologico strutturali con conseguente superiore accuratezza d’indagine e attendibilità del risultato. In ambito di compilazione di schede di rilevamento, la proposta di Benedetti-Petrini del 1984 è tradotta nelle schede di I e II livello sviluppate dal Gruppo Nazionale Difesa dai Terremoti del C.N.R. (GNDT-SSN, 1994) per lo studio di edifici isolati in muratura e cemento armato. Mentre la scheda di I livello è destinata al censimento e del patrimonio edilizio sul territorio, diversamente, la scheda di II livello consente la definizione di un indice di vulnerabilità della struttura di tipo statistico previa la valutazione di 11 parametri ritenuti indicatori del comportamento sismico globale dell’edificio. Il limitato campo di applicazione ai soli edifici isolati, porta alla versione proposta da Formisano per gli aggregati strutturali in muratura che revisiona e modifica la scheda di II livello per consentirne l’applicazione agli eterogenei centri storici italiani. La revisione ha generato una scheda a 15 parametri integrata con cinque nuovi parametri rappresentativi della condizione di aggregato: l’interazione altimetrica, l’interazione planimetrica, la presenza di solai sfalsati, le discontinuità tipologiche e strutturali e la differenza percentuale fra bucature in facciata. A riguardo di indagini estese al sistema infrastrutturale di accessibilità e mobilità, specifici protocolli di censimento per la sorveglianza e il monitoraggio sono definiti all’interno delle LINEE GUIDA PER LA CLASSIFICAZIONE E GESTIONE DEL RISCHIO, LA VALUTAZIONE DELLA SICUREZZA ED IL MONITORAGGIO DEI PONTI ESISTENTI recentemente approvate dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (AA. VV, 2020). Data la vastità del patrimonio infrastrutturale italiano, i nuovi protocolli operativi sono impostati su una procedura multilivello che prevede valutazioni speditive estese a livello territoriale, quali il censimento, le ispezioni e infine l’attribuzione in una classe di attenzione, indicativa dello stato di salute del manufatto. In conclusione, questo consente la redazione di una scala di priorità utile a uno specifico programma di approfondimento, verifica e messa in sicurezza secondo normativa. Di sei livelli operativi previsti dalle Linee Guida, in una procedura a scala urbana si prevede il conseguimento dei livelli specificati in Tab. 2. Un similare approccio è il processo operativo prospettabile anche per infrastrutture stradali di diversa tipologia al fine di facilitare un’attenta e costante azione di monitoraggio e intervento. Analisi della vulnerabilità sismica a scala di isolato urbano Una volta individuate le principali criticità che affliggono l’abitato, è previsto un approfondimento di indagine a scala di isolato mirato all’edificato identificato nell’analisi della CLE come interferente con la viabilità di connessione e accessibilità e alla definizione di uno scenario di danno di maggior attendibilità. Questo, nel caso di un cen-
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Barbara Paoletti Marco Tanganelli Fig. 4 Meccanismi di collasso analizzati (da Schede illustrative dei principali meccanismi di collasso locali negli edifici esistenti in muratura e dei relativi modelli cinematici di analisi a cura di L. Milano, A. Mannella, C. Morisi, A. Martinelli)
tro urbano quale Sestino, ha comportato lo studio della vulnerabilità di aggregati edilizi storici in muratura. All’aver luogo dell’evento sismico alla tipologia edilizia corrisponde l’attivazione di una serie di meccanismi di collasso locale distinti in meccanismi di primo modo, fuori dal piano, connessi al comportamento flessionale e di ribaltamento delle pareti, e meccanismi di secondo modo, nel piano, connessi a danneggiamenti per taglio e flessione (Milano, Mannella, Morisi, Martinelli, 2010). La selezione dei meccanismi di possibile attivazione passa per l’individuazione delle unità strutturali (US) che compongono l’aggregato e la determinazione delle interazioni dovute alla contiguità strutturale con gli edifici adiacenti. A cui segue, per ogni US, la catalogazione delle peculiarità proprie quali la morfologia del manufatto, la tipologia degli orizzontamenti e delle murature, la qualità degli ammorsamenti, l’individuazione di discontinuità murarie, la presenza di presidi antisismici e l’osservazione critica del quadro fessurativo rilevato. Dato il contesto e la dimensione operativa pur sempre urbana, è stata considerata solo l’attivazione di meccanismi di primo modo, attori principali nell’ostruzione da detriti della viabilità di connessione e accessibilità e conseguente inefficienza della rete dell’emergenza. Lo studio ammette un livello di approssimazione non indifferente se confrontato con i protocolli normativi di verifica strutturale circa le peculiarità del fabbricato e delle caratteristiche meccaniche dei materiali, imprecisione considerata accettabile visto il possibile livello di conoscenza e gli obiettivi preposti quali il valutare la possibilità di dissesti e parziali collassi dei fabbricati prospicienti i percorsi di accesso. In conclusione, per i fronti degli aggregati urbani interferenti di Sestino si è analizzato l’attivazione dei principali meccanismi di ribaltamento semplice, ribaltamento composto, flessione verticale e flessione orizzontale. La definizione di uno scenario di danno con tale attendibilità è un significativo approfondimento delle criticità individuate nell’indagine a larga scala, altamente indicativo della percorribilità e funzionalità della rete dell’emergenza a fronte di un evento sismico e delle necessarie modifiche da apportare. Uno stimolo concreto alla presa di coscienza della vulnerabilità incombente e a un’adeguata programmazione di interventi per la riduzione del rischio sismico. Indagine puntuale, l’analisi della prestazione strutturali del singolo edificio strategico Consapevoli delle principali criticità che affliggono il centro urbano e definito uno scenario di danno per l’edificato interferente con il calcolo dei principali meccanismi di collasso sui fronti stradali, sono previste indagini puntuali e approfondite secondo normativa dirette agli edifici strategici e alle infrastrutture stradali. L’accertarsi dell’effettiva funzionalità della rete dell’emergenza e del non superamento della condizione limite individuata, necessita della verifica della sicurezza sismica del patrimonio edilizio strategico e infrastrutturale di accessibilità e connessione (AA.
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Tab. 3 Sintesi dell’analisi multilivello proposta
VV,2003), presupposto costituito da edifici strategici in muratura isolati o in aggregato per la metodologia riferita ai centri storici in zona sismica ed infrastrutture in calcestruzzo armato o muratura quali ponti, cavalcavia e gallerie. Mentre le precedenti fasi operative sono riconducibili ad ambiti statistici e probabilisti, le verifiche della sicurezza sono di ambito ingegneristico, la non conformità ai requisiti necessari, richiede una celere modifica dell’analisi della Condizione Limite di Emergenza e dei Piani di Protezione Civile con l’individuazione se possibile di edifici strategici alternativi anch’essi da sottoporre a verifica, oppure il mantenimento della funzione previo un rapido intervento di miglioramento o adeguamento della struttura. A riguardo delle infrastrutture stradali, l’azione di approfondimento, esame e messa in sicurezza si presume seguire la scala di priorità definita nello screening condotto nella prima fase di indagine. La scelta è dettata non solo dalle criticità individuate a priori ma anche dalla ridondanza del sistema stradale e dall’esistenza o meno di percorsi alternativi ritenuti più sicuri che andranno a sostituire il tracciato precedentemente individuato. In caso verifica strutturale per azioni sismiche di edifici strategici in muratura le norme tecniche per costruzione in vigore, le NTC 2018 e la CIRCOLARE 21 gennaio 2019, n. 7 CSLL.PP (AA.VV,2018) (AA.VV,2019), prevedono lo studio dei meccanismi di collasso locali e globali, quest’ultimi solo nel caso sia impedita l’attivazione dei meccanismi locali. In caso di impossibilità di attivi primo e secondo modo cinematicamente ammissibili a partire dal meccanismo che richiede minor energia per essere attivato. Il controllo della sicurezza secondo normativa prevede una conoscenza approfondita del manufatto priva di ipotesi, se confrontato con il procedimento a scala di isolato in precedenza proposto, è fondamentale un rilievo completo ed esaustivo del fabbricato e degli elementi strutturali, la specifica puntuale delle tecniche costruttive utilizzate con particolare attenzione alla qualità della messa in opera, e in conclusione un’adeguata caratterizzazione meccanica dei materiali previa campagna di prove in sito distruttive e non distruttive.
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Barbara Paoletti Marco Tanganelli
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Conclusioni Il presente contributo intende fornire una procedura di upgrade e di valutazione della Condizione Limite di emergenza, basata e contestualizzata sulle indagini conoscitive condotte sul patrimonio edilizio e infrastrutturale del centro abitato di Sestino, attraverso un’analisi multilivello (Tab. 3) ne definisce i possibili scenari di danno a diversa scala (urbana-territoriale, di isolato e di singolo edificio). Note le difficoltà comuni agli studi su scala urbana, quali la vastità e di riflesso la scarsità di tempo e di fondi economici che rendono inevitabile l’utilizzo di metodi speditivi con conseguente grado di attendibilità dei risultati. L’approccio multilivello si propone di colmarne alcune lacune con l’ausilio indagini puntuali incentrate su aree critiche, specifici sistemi urbani, funzioni di pubblico interesse o patrimonio architettonico storico, a favorirne indispensabili approfondimenti e una gestione oculata delle risorse economiche. Qui definita per essere applicata uno specifico caso studio, gli sviluppi proposti ben si prestano a indagare la vulnerabilità del costruito storico in muratura e del tessuto edilizio moderno, che soggetto a collassi, anche parziali, o inagibilità a seguito di un evento sismico sia di intralcio all’azione di soccorso alla popolazione, consentendo simultaneamente la verifica dell’effettiva funzionalità della rete dell’emergenza selezionata e l’individuazione di necessari interventi di modifica o alla definizione di alternative. Più in generale oltre alla validazione della CLE, la metodologia consente di definire a vari livelli il rischio sismico incombente sul territorio e di individuare tutte quelle politiche volte alla riduzione, intervenendo sull’unico aspetto possibile, la vulnerabilità del patrimonio costruito.
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Ornella Mariano
Dall’urbano all’edificio: strumenti per la riduzione e la mitigazione del rischio sismico. Il caso di Sestino. La schedatura per l’analisi della Condizione Limite per l’Emergenza (CLE) Ornella Mariano
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze.
Abstract The analysis of Limit Condition for Emergency (LCE) is a method aimed to assess the operational efficiency of a seismic emergency plan in case of an earthquake occurrence. This multidisciplinay study requires specific survey methodology to verify that each physical component of the emergency network – strategic buildings, emergency areas, connection and accessibility infrastructures, complex and their structural units – has the needed requirements for the operational capability in the aftermath of the seismic event. The first part of the paper deals with the description of the relationship between these physical components and analyzes the main features of the survey. In the second part, the paper describes the virtuous application of an experimental method on the inhabited centre of Sestino, in order to reduce the degree of uncertainty related to the operational difficulties of the assessment procedure. Keywords Rischio sismico, CLE, schedatura, interferenza, aggregato.
L’analisi della Condizione Limite per l’Emergenza L’art.18, comma 2, dell’OPCM 4007/2012 recita Per Condizione Limite per l’Emergenza si intende quella condizione al cui superamento, a seguito del manifestarsi dell’evento sismico, pur in concomitanza con il verificarsi di danni fisici e funzionali tali da condurre all’interruzione delle quasi totalità delle funzioni urbane presenti, compresa la residenza, l’insediamento urbano conserva comunque, nel suo complesso, l’operatività della maggior parte delle funzioni strategiche per l’emergenza, la loro accessibilità e connessione con il contesto territoriale.
L’analisi della Condizione Limite per l’Emergenza (CLE) ha lo scopo di verificare i principali elementi fisici del sistema di gestione delle emergenze, già definiti nel piano di protezione civile, ovvero gli edifici strategici, le aree di emergenza, le infrastrutture di connessione e accessibilità, e gli elementi interferenti, aggregati strutturali e unità strutturali, al fine di assicurare l’operatività del sistema stesso dopo il terremoto. È uno studio multidisciplinare che richiede la raccolta, archiviazione, elaborazione e rappresentazione di una considerevole quantità di dati di natura diversa e che, quindi,
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Fig. 1a Aggregato interferente. Le US che lo compongono sono interferenti quando l’altezza misurata all’imposta della copertura (H) è superiore alla distanza tra il piede dell’edificio ed il limite opposto della sede stradale (L).
necessita non solo di strumenti utili a raccogliere in modo razionale e organizzato tutte le informazioni necessarie, ma anche di procedure chiare e condivise per la loro selezione, codifica e omogeneizzazione. L’acquisizione delle informazioni indispensabili segue, pertanto, modalità di rilevamento e archiviazione regolate da specifici Standard1: a questo scopo, sono state predisposte cinque Schede di rilevamento di livello 1 per la creazione della base conoscitiva minima, approvate dalla Commissione Tecnica per la Microzonazione Sismica – istituita ex art. 5 OPCM 3907/2010 e nominata con DPCM 21 aprile 2011 – ed emanate con decreto del 27 aprile 2012 del Capo Dipartimento della Protezione Civile. Uno specifico manuale supporta i rilevatori nella loro compilazione (Bramerini, Castenetto, 2016) e un apposito software, SoftCLE, ne facilita le attività di archiviazione; i dati rilevati confluiscono così in un database e vengono restituiti graficamente tramite una cartografia di sintesi. Sintassi della schedatura Le prime tre schede identificano i manufatti e le aree cui sono attribuite le funzioni strategiche (ES, AE)2, il sistema di interconnessione fra tali strutture e quello di accessibilità rispetto al contesto territoriale (AC), selezionati3 tra quelli elencati nel piano di protezione civile, che costituisce il presupposto fondamentale per l’avvio della verifica. Uno degli aspetti più qualificanti dell’analisi CLE è rappresentato, però, dalle schede relative agli elementi interferenti, che individuano negli aggregati strutturali (AS) e nelle unità strutturali di cui sono composti (US) gli strumenti chiave per la valutazione dei fattori di criticità, legati in particolar modo all’occupazione della sede stradale delle infrastrutture di accessibilità e connessione in caso di eventuale attivazione dei meccanismi di ribaltamento dei fronti. Le schede CLE sono legate da un rapporto sintattico, che rispecchia quello alla base del funzionamento del sistema di gestione dell’emergenza e che viene esplicitato nella prima parte “dati identificativi”, comune a tutte le cinque tipologie. In questa sezione, difatti, viene richiesto al rilevatore di definire la relazione tra l’oggetto della scheda e gli altri elementi dell’organismo gestionale: ad esempio, un edificio strategico può
Il nome per esteso è `Standard di rappresentazione e archiviazione informatica. Analisi della Condizione Limite per l’Emergenza – CLE´, approvati dalla Commissione per gli studi di MS, sentite le Regioni e Province autonome. 2 Ogni scheda è contraddistinta da un acronimo: ES per gli edifici strategici, AE per le aree di emergenza, AC per le infrastrutture di connessione e accessibilità, AS per gli aggregati strutturali e US per le unità strutturali. 3 La mancata selezione critica degli elementi è un equivoco indotto dall’assenza di una distinzione tra edifici strategici e rilevanti: di conseguenza spesso si ritiene erroneamente che tutti quelli elencati nei piani di protezione civile coincidano con le funzioni strategiche essenziali per l’emergenza. 1
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Ornella Mariano 4 Le aree di attesa, essendo quegli spazi aperti sicuri in cui la popolazione riceve i primi generi di conforto nell’attesa che le aree di ricovero siano allestite, sono escluse dalla schedatura perché non hanno un ruolo nella gestione dell’emergenza. 5 Le aree di ammassamento sono destinate alla sistemazione dei soccorritori e delle riscorse necessarie per garantire l’intervento, mentre quelle di ricovero all’installazione degli insediamenti abitativi di emergenza per la popolazione evacuata; entrambe devono essere facilmente raggiungibili da mezzi di grandi dimensioni ed essere ubicate nelle vicinanze di risorse idriche, elettriche e fognarie.
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essere un edificio isolato, oppure far parte di un aggregato strutturale di cui occupa una o più unità strutturali, oppure ancora può essere compreso o prospiciente un’area di emergenza. L’individuazione di queste relazioni comincia nella fase propedeutica al rilievo diretto, che consiste principalmente nella localizzazione degli elementi su base cartografica e nell’attribuzione ad ognuno di un codice identificativo univoco. Solo nella scheda AC non vengono espressi rapporti perché è la testa a cui gli altri sintagmi fanno riferimento, dato che mantenere l’operatività del sistema durante l’emergenza vuol dire prioritariamente preservarne la percorribilità. In particolare, le infrastrutture vengono rilevate per tratti, definiti archi, che corrispondono al collegamento tra due elementi del sistema (edifici strategici e aree di emergenza) nel caso di quelle di connessione, o al collegamento tra uno degli elementi del sistema e l’infrastruttura territoriale nel caso di quelle di accessibilità. Queste unità minime di rilevamento sono individuate sulla base cartografica da nodi, che spezzano virtualmente l’infrastruttura in corrispondenza dell’ingresso principale di tutti gli elementi del sistema e visualizzano graficamente la relazione che questi ultimi instaurano con l’AC. Il primo rapporto subordinato è quello delle aree di emergenza che, in quanto spazi aperti, non hanno la capacità di interferire con il funzionamento degli altri elementi del sistema e, anzi lo subiscono, pertanto fanno riferimento alle sole infrastrutture. Gli aggregati e le unità strutturali, come gli edifici strategici, invece, possono influire sul comportamento degli elementi contigui e la loro relazione sintattica all’interno dell’organismo gestionale è caratterizzata proprio da questa condizione. La verifica implicita del sistema La seconda sezione “caratteristiche generali” permette di rilevare la presenza o meno dei requisiti legati al funzionamento durante l’emergenza, propri dell’elemento considerato: si tratta di quella implicita verifica del sistema di cui si è detto in precedenza e che connota l’incipit dell’analisi CLE. Nelle schede AC, difatti, oltre alla categoria delle strade secondo la classificazione riportata all’art. 2 del D. Lgs. 285/1992, si richiede di specificare una serie di dati dimensionali, quali la larghezza della sede stradale, la lunghezza complessiva e quella dei tratti privi di interferenze, per poi effettuare una valutazione della percorribilità tramite tipo e condizione della pavimentazione, la presenza di eventuali ostacoli o discontinuità lungo il tracciato che possano limitarla anche solo in parte o di elementi critici come attraversamenti ferroviari, cavalcavia, ponti, viadotti, etc. Nelle schede AE, il rilevatore specifica in questa parte la tipologia dell’area, ovvero la destinazione a ricovero o ad ammassamento o ad entrambe4, estensione e regolarità geometrica della superficie, le condizioni della pavimentazione o in alternativa la praticabilità del fondo naturale in riferimento alla possibilità di entrare con automezzi, nonché la presenza o meno delle infrastrutture di servizio necessarie e cioè rete idrica, elettrica e fognaria5. Per quanto riguarda le schede degli edifici strategici, degli aggregati e unità strutturali, queste caratteristiche assumono un connotato differente, legato sia alla loro natura di manufatti edificati che al diverso rapporto che instaurano con il sintagma di testa: l’interferenza, ovvero l’insieme di quelle condizioni per cui gli elementi rilevati possono inficiare il funzionamento delle infrastrutture. Se l’altezza dei fronti prospicienti la viabilità di emergenza è maggiore o uguale alla larghezza della sede stradale, quest’ultima sarà completamente occupata in caso di eventuale ribaltamento o crollo e di conseguenza la sua percorribilità verrà meno (fig. 1a).
Il manuale definisce gli aggregati strutturali come “un insieme non necessariamente omogeneo di edifici (unità strutturali), posti in sostanziale contiguità” (Bramerini, Castenetto, 2016, p. 89) che possono quindi interagire sotto un’azione sismica o dinamica in genere. Pur non essendo elementi del piano di protezione civile, gli aggregati strutturali ricoprono un ruolo decisivo nell’analisi della Condizione Limite per l’Emergenza proprio in virtù della possibile interferenza col sistema di gestione e del conseguente danno indiretto alle infrastrutture e alle aree di emergenza. Nella scheda AS questo potenziale conflitto è descritto dalla lunghezza totale del fronte dell’aggregato prospettante la viabilità strategica e dall’altezza media all’imposta delle coperture, in relazione al numero di unità strutturali ed edifici strategici totali che compongono l’aggregato, a quante di queste sono interferenti con l’infrastruttura e alla loro distinzione per tipologia strutturale. Analogamente, le condizioni di interferenza che caratterizzano le unità strutturali6 che compongono gli aggregati sono relative al numero di piani e alla loro altezza media, nonché all’altezza all’imposta della copertura. È chiaro che maggiore è la vulnerabilità sismica che caratterizza i corpi di fabbrica e tanto più alta sarà la probabilità che tale potenziale si realizzi. Pertanto il focus di questa sezione delle schede AS/US/ES riguarda le voci della parte centrale, dedicate alle rispettive criticità intrinseche. Nel caso delle unità strutturali e degli edifici strategici, la valutazione costituisce una revisione semplificata di quella effettuata mediante le sezioni 2 e 3 della scheda AeDES7 (Dolce M. et al., 2014). Oltre al riconoscimento di caratteristiche tipologiche specialistiche come quelle di chiese, teatri, torri o comunque assimilabili a volumi a doppia altezza privi di orizzontamenti intermedi, è richiesta l’individuazione della struttura verticale prevalente e, in caso di muratura l’indicazione della qualità muraria, oltre alla valutazione del danno strutturale ed un giudizio qualitativo sulle condizioni manutentive dell’edificio. La vulnerabilità degli aggregati è valutata sulla base di parametri ormai ampiamente condivisi dalla letteratura tecnica e ritenuti rappresentativi del comportamento degli agglomerati edilizi; le sottosezioni dedicate all’interno della scheda sono precedute da un quadro di sintesi relativo ad alcune caratteristiche di matrice tipologica/strutturale delle US che compongono l’aggregato oggetto di schedatura. La prima sottosezione riguarda le interazioni tra le unità strutturali, stimate sia tramite il riconoscimento degli elementi di collegamento e di interconnessione, che l’individuazione delle rifusioni e degli intasamenti, generati dalla costruzione degli edifici in tempi differenti. La sottosezione successiva considera la vulnerabilità legata all’irregolarità strutturale, prima in elevato, prodotta dal disallineamento tra le quote di imposta delle coperture e da quello tra le quote degli orizzontamenti, e poi in pianta, rilevando ad esempio quelle sporgenze o rientranze delle pareti di facciata, rispetto all’asse dei fronti, che ne possono alterare significativamente l’andamento lineare. La schedatura procede, quindi, con l’osservazione di ulteriori elementi che possono costituire fattori di criticità sotto sisma: componenti giustapposti o strutturalmente mal collegati, aggiunti in una fase successiva alla costruzione dell’edificio e con tecniche o materiali differenti da quelli dell’unità strutturale a cui appartengono, come ad esempio corpi scala esterni, pensiline, balconi o superfetazioni; la presenza di pilastri isolati, di portici e piani pilotis, di sopraelevazioni, altane, torrini o altri elementi svettanti dal corpo dell’unità strutturale, nonché di forte debito manutentivo o di danni strutturali visibili. Un chiaro riferimento alle sole unità strutturali in muratura è la voce relativa all’analisi del sistema di bucature, ritenuto incongruo se caratterizzato da forti disalli-
Per unità strutturale si intende un edificio “cielo terra”, che si distingue da quelli adiacenti per omogeneità delle caratteristiche strutturali. 7 Acronimo per Agibilità e Danno nell’Emergenza Sismica: la scheda è finalizzata al rilevamento speditivo delle caratteristiche tipologiche, del danno e dell’agibilità degli edifici ordinari nella fase di emergenza che segue il terremoto. 6
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Ornella Mariano Fig. 1b Stralcio della Carta degli Elementi di Sestino redatta da Valentina Panella, scheda AS e ortofoto dell’aggregato individuato.
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neamenti o da aperture particolarmente ampie o situate in prossimità delle connessioni murarie. In ultimo, la sezione centrale prevede una stima dei presidi di rinforzo, considerati significativi solo se presenti in almeno il 70% delle unità strutturali, e di eventuali interventi di miglioramento o adeguamento sismico (fig. 1b). La parte conclusiva di questa sezione, comune a tutte le schede, è dedicata alla valutazione della vulnerabilità dovuta a fattori estrinseci, ovvero all’inquadramento di quella tipologia di rischi a cui gli elementi del sistema sono potenzialmente esposti in base alla morfologia del terreno su cui insistono, la loro ubicazione rispetto ad eventuali versanti, il tipo di instabilità riportato negli studi di Microzonazione Sismica, se l’area è soggetta a rischio idrogeologico e se è da considerarsi alluvionabile. È evidente, poi, che le criticità dei manufatti edificati sono fortemente legate anche alla loro utilizzazione: difatti una terza sezione, delle “caratteristiche specifiche”, presente solo nella scheda US e in quella ES, contiene le informazioni relative alla destinazione d’uso ordinaria e strategica8, all’esposizione cioè il numero di persone presenti al suo interno in media durante la fruizione ordinaria, alla percentuale del volume occupato ed al tempo durante il quale l’unità è utilizzata. Si sottolinea, inoltre, la stretta affinità esistente tra la scheda ES e quella LV0, corrispondente alla prima pagina della scheda di sintesi per le verifiche sismiche di edifici strategici ai fini della protezione civile o rilevanti in caso di collasso a seguito di evento sismico, introdotta dall’OPCM n. 3274/2003. Prassi di rilevamento, difficoltà operative e proposte di metodo. La prima operazione del processo ricognitivo è la verifica della corretta delimitazione degli aggregati, precedentemente individuati sulla base cartografica per la loro condizione di interferenza con l’infrastruttura di connessione/accessibilità, con le aree di emergenza e/o perché contenenti un edificio strategico. Il perimetro dell’aggregato, in generale, è definito dalla rete di strade e piazze che lo circonda, facendolo di fatto coincidere comunemente con l’isolato urbanistico. Spesso, però, sono presenti elementi che fungono da collegamento con gli aggregati adiacenti, come archi di contrasto, passaggi coperti, etc. In questo caso, sarà compito del rilevatore valutare puntualmente tali elementi in base alla loro estensione e funzione strutturale, per stimare se il livello di connessione conseguito sia tale da creare un unico aggregato o meno (fig. 1c); analogamente, l’osservazione sul campo può determinare una suddivisione degli isolati in più aggregati strutturali. La loro successiva articolazione in unità strutturali è demandata alla sola ricognizione esterna: ci si dovrebbe avvalere, quindi, soltanto dell’analisi dei materiali delle strutture portanti, dei rivestimenti, della presenza di discontinuità, dell’analisi degli allineamenti di coperture, solai, finestre, elementi decorativi, giunti verticali e vani di accesso dei soli fronti, accettando implicitamente un certo margine di errore. Ancora più incerta risulta la qualificazione delle interazioni tra le US, sia in termini di elementi di interconnessione che di rifusioni o intasamenti tra unità contigue, se derivata dalla semplice osservazione di caratteristiche macroscopiche. La complessità ed eterogeneità costruttiva-strutturale dell’aggregato […] è strettamente dipendente dall’evoluzione della città storica […] che ha comportato un processo diacronico di rifusione, trasformazione edilizia o sostituzione per parti, tale per cui l’operazione di discernimento ed individuazione all’interno dell’aggregato delle singole unità non è sempre immediata, e talvolta affetta anche da margini di soggettività, che chiamano in causa l’esperienza professionale del tecnico (Bramerini, Castenetto 2016, p. 156).
Ne consegue che un valido riscontro delle ipotesi di suddivisione dell’aggregato in unità strutturali e delle relative interazioni, formulate durante la ricognizione esterna, non dovrebbe prescindere dall’analisi dell’evoluzione costruttiva dell’aggregato stesso. Questa metodologia d’indagine impone un ragionamento ampio, basato sull’analisi geomorfologica del centro storico: un’attenta considerazione della storia urbana e dello sviluppo urbanistico dell’abitato, osservabile tramite la sovrapposizione di iconografie, mappe catastali e cartografie di epoche diverse. Un riferimento operativo fondamentale in tal senso sono le Linee Guida redatte dal consorzio interuniversitario ReLUIS9, relative all’indagine sugli edifici in aggregato (DPC-ReLUIS 2010), come suggeriscono anche le citazioni dirette e i molti punti in comune contenuti nel Manuale per l’analisi CLE. Un iter virtuoso è stato messo a punto grazie ad alcune sperimentazioni svolte in ambito accademico ed in particolare quella sul nucleo abitato ad alta sismicità di Sestino (Ar). L’obiettivo di ridurre il margine di incertezza, legato alla mancanza di un rilievo geometrico-architettonico degli ambienti interni su cui leggere criticamente l’evoluzione costruttiva dell’aggregato, si può raggiungere in maniera efficace tramite il rilievo con strumenti a sensori ottici attivi. Come è ben noto, l’esito di tale rilievo è una nuvola costituita da milioni di punti, point clouds, individuati nello spazio attraverso precise coordinate. Lo strumento è costituito da un emettitore di luce e da un sensore che ne registra la risposta; la radiazione luminosa, però, non supera gli oggetti opachi, restituendo di fatto la pelle dei corpi di fabbrica. Rimanendo nell’ambito delle valutazioni preliminari consentite dalla ricognizione speditiva condotta solo dall’esterno, si può ottenere così una base costituita dal solo profilo epidermico dell’aggregato in pianta, all’interno della quale rimontare le planimetrie catastali attuali delle singole particelle che lo compongono. Il confronto con le carte catastali storiche, le ortofoto e la cartografia di base, infine, fornisce evidenza delle trasformazioni subite dall’AS considerato. Ovviamente il grado di affidabilità della restituzione è riferito all’attendibilità delle planimetrie catastali, ma fornisce comunque un quadro puntuale di supporto all’individuazione delle unità strutturali e delle loro relazioni reciproche, che altrimenti sarebbe affetto da ben altri margini di soggettività. La ricostruzione del contesto analogico permette di avere a disposizione in tempi brevi un modello tridimensionale digitale accurato, su cui operare nella fase successiva a quella del rilevamento sul campo. La maggior parte dei software di post-produzione delle scansioni o di semplice visualizzazione della nuvola di punti, consente di effettuare misurazioni dirette: operazioni difficoltose, che con le metodologie tradizionali avrebbero richiesto tempi ben più lunghi, come il rilievo della pendenza massima dell’asse stradale delle infrastrutture di emergenza, sono notevolmente facilitate. Il valore aggiunto è quello di ottenere una banca dati interrogabile in qualsiasi momento che, inoltre, rende possibile desumere informazioni, come la superficie media di piano, non quantificabili diversamente. Come descritto nei paragrafi precedenti, la schedatura prevede anche l’individuazione della tipologia strutturale delle US: la casistica proposta è derivata da quella utilizzata nel rilevamento del danno post-sisma, fase in cui questa informazione è chiaramente desumibile. Per far sì che l’attendibilità dei risultati attesi non sia inficiata dall’incertezza legata al riconoscimento del tipo di struttura portante verticale, è necessario basarsi sullo studio della documentazione esistente, quando reperibile, e soprattutto sul confronto con i tecnici locali. Le amministrazioni comunali affidano per
Fig. 1c Inquadramento fotografico dell’aggregato identificato nell’immagine precedente.
8 Si deve specificare non solo il tipo di funzione strategica, a scelta tra coordinamento degli interventi, soccorso sanitario ed intervento operativo, ma anche il tipo di struttura gestionale ospitata, tra DICOMAC (direzione di comando e controllo), CCS (centro di coordinamento soccorsi), COM (centro operativo misto), COI (centro operativo intercomunale), COC (centro operativo comunale). 9 Acronimo per Rete dei Laboratori Universitari di Ingegneria Sismica; è interlocutore scientifico dei vari Organi del Governo Nazionale, delle Regioni, Province, Comuni e di Istituti pubblici e privati al fine di conseguire concreti obiettivi in ordine alla valutazione e alla riduzione della vulnerabilità e del rischio sismico.
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Ornella Mariano
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lo più esternamente gli incarichi per la redazione dell’analisi della CLE, spesso ritenendo che questo le esoneri da un coinvolgimento diretto nell’attività (Lucarelli E. 2014). I professionisti, che spesso non sono residenti nel comune oggetto d’indagine, non possiedono la conoscenza necessaria sia del territorio che degli edifici interessati, per cui diventa fondamentale il rapporto con gli enti locali. Si procede, poi, con l’analisi dei palinsesti murari dei fronti interferenti con l’infrastruttura considerata: la disamina dei tipi di apparecchiatura muraria e dei collegamenti, in assenza di indagini specifiche, può essere valutata attraverso un esame visivo, da effettuare come di consueto su una porzione di paramento a vista di almeno 1x1 m, per pervenire ad un giudizio di qualità espresso in cattiva o buona, che trova riscontro immediato nel tipo I “cattiva” e nel tipo II “buona” suggerito nelle schede AeDES 10(Dolce M. et al., 2014). Il rilevatore dovrà basarsi sui classici elementi di valutazione della qualità dell’apparecchiatura muraria, derivati dalla lettura meccanica dell’opus quadratum, ovvero: • Forma, tipologia e dimensione degli elementi resistenti; mentre l’analisi dimensionale degli elementi maggiormente ricorrenti è utile al riconoscimento di diatoni e ortostati, quella della finitura permette di valutare la coesione muraria: quanto più gli elementi avranno forma squadrata, tanto maggiore sarà la resistenza per attrito lungo i filari; • Regolarità dell’apparecchiatura; la disposizione pressoché orizzontale dei ricorsi, o in alternativa la presenza di listature a passo regolare, è riferita alla capacità dell’apparecchiatura di garantire la coesione ad eventuali azioni nel piano che tendono a scompaginarla; • Sfalsamento dei giunti, per evitare la formazione di superfici di distacco preferenziali; • Collegamenti trasversali; diatoni e semi-diatoni massimizzano la resistenza della parete nei confronti delle azioni sismiche ortogonali rispetto al suo piano, in quanto avvicinano il suo comportamento a quello di una parete monolitica. A questi criteri va aggiunta, infine, la valutazione della malta, il cui grado di coesione diviene sempre più importante man mano che la qualità dell’apparecchiatura risulta carente. In molti casi, la sola analisi del paramento esterno non è sufficiente per la corretta assegnazione della tipologia, se non altro per le difficoltà legate alla stima dell’ingranamento trasversale. Si rimanda il rilevatore, pertanto, alla consultazione degli abachi su base statistica riportati nel Manuale per la compilazione delle schede AeDES (Dolce M. et al., 2014, pp. 41-46) che tentano di dare una classificazione alla varietà delle tipologie murarie che caratterizzano il panorama costruttivo italiano, o a studi similari redatti in ambito regionale. Laddove i fronti siano intonacati e non ci fosse la possibilità di effettuare saggi seppur limitati, diventa nuovamente evidente la necessità d’interazione con i tecnici delle Amministrazioni locali, per poter ricostruire insieme un quadro delle tipologie murarie presenti nel territorio. Per quanto riguarda la valutazione del danno, la schedatura non può rilevare il danneggiamento subito dagli edifici in maniera sistematica; ci si può riferire solo ai danni apparenti strutturali11 che, nel rispetto delle finalità dell’analisi CLE e della specificità di questo rilievo, sono sostanzialmente i guasti delle strutture portanti verticali dei fronti. I livelli di danno sono quelli previsti dalla scala EMS 1998 (Grünthal G., 1998), accorpati negli stessi tre sottogruppi delle schede di agibilità. Il danno leggero D1 non pregiudica la sicurezza degli occupanti ed è caratterizzato da fessurazioni o lesioni ca-
pillari; quello medio/grave D2-D3 può cambiare in modo significativo la resistenza della struttura ed implica un quadro fessurativo più importante; se affetta da danno gravissimo D4-D5, la struttura è vicina al crollo parziale o totale, con dislocazioni macroscopiche dei componenti strutturali, sconnessioni nei nodi dei solai, etc. Per garantire una certa omogeneità nella valutazione, il Manuale CLE fornisce una tabella in cui ad ogni livello di danno è correlata l’estensione, ovvero la stima massima delle superfici coinvolte; un ottimo riferimento relativo, invece, alla gradazione del danno è costituito dalle schede di esempio che accompagnano il Cahier sulla Scala Macrosismica Europea (Grünthal G., 1998). Certamente il dato da riportare è quello attinente alla situazione più gravosa. Bibliografia Legge 24 giugno 2009, n. 77. Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 28 aprile 2009, n. 39, recante interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo nel mese di aprile 2009 e ulteriori interventi urgenti di protezione civile. OPCM 13 novembre 2010, n. 3907. Attuazione dell’articolo 11 del decreto legge 28 aprile 2009, n.39, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 giugno 2009, n. 77. OPCM 29 febbraio 2012, n. 4007. Attuazione dell’articolo 11 del decreto legge 28 aprile 2009, n.39, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 giugno 2009, n. 77. OCDPC 19 giugno 2014, n. 171. Attuazione dell’articolo 11 del decreto legge 28 aprile 2009, n.39, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 giugno 2009, n. 77. Bramerini F., Di Pasquale G., Naso G., Severino M. (a cura di) 2008, Indirizzi e criteri per la microzonazione sismica, PCM-DPC, Roma. Bramerini F., Cavinato G.P., Fabietti V. (a cura di) 2013, Strategia di mitigazione del rischio sismico e pianificazione CLE: condizione limite per l’Emergenza, «Urbanistica Dossier», XVII (130), pp. 3-40. Bramerini F., Castenetto S., Conte C., Naso G. 2014, Analisi della Condizione Limite per l’Emergenza (CLE): considerazioni preliminari sui dati raccolti, in D. Albarello et al. (a cura di), Gruppo Nazionale di Geofisica della Terra Solida 33° Convegno Nazionale. Atti – Tema 2: Caratterizzazione sismica del territorio, Centro Stampa della Regione Emilia-Romagna, Bologna, pp. 470-477. Bramerini F., Castenetto S. (a cura di) 2016, Manuale per l’analisi della Condizione Limite per l’Emergenza (CLE) dell’insediamento urbano, versione 1.1, BetMultimedia, Roma. DPC-ReLUIS 2010, Linee Guida per il Rilievo, l’Analisi ed il Progetto di Interventi di Riparazione e consolidamento sismico di edifici in muratura in aggregato, versione 3, non pubblicato, ‹http://www.reluis.it/index.php?option=com_content&view=article&id=153:linee-guida-per-edifici-in-aggregato-&catid=34:›, (05/20). Dolce M., Manfredi G. (a cura di) 2011, Linee guida per Riparazione e rafforzamento di elementi strutturali, tamponature e partizioni, Doppiavoce Edizioni, Napoli. Dolce M. et al. (a cura di) 2014, Manuale per la compilazione della scheda di 1° livello di rilevamento danno, pronto intervento e agibilità per edifici ordinari nell’emergenza post-sismica (AeDES), PCMDPC, Roma. Grünthal G. (a cura di) 1998, European Macroseismic Scale 1998, European Seismological Commission, Subcommission on Engineering Seismology, Working Group Macroseismic Scales, Cahiers du Centre Européen de Géodynamique et de Séismologie, Luxemburg. Lucarelli E. 2014, Analisi della Condizione Limite per l’Emergenza: applicazioni e criticità, in La pericolosità sismica della Regione Toscana - Atti del Convegno Le attività regionali per la Microzonazione Sismica in Toscana, non pubblicato, ‹https://www.regione.toscana.it/-/pubblicazioni-11›
10 In particolare, la muratura tipo I, a tessitura irregolare e di cattiva qualità, presenta elevata vulnerabilità per azioni fuori dal piano, con tendenza allo scompaginamento anche per instabilità sotto carichi verticali, e scarsa resistenza per azioni nel piano, a causa della esigua resistenza della malta e per l’insufficiente attrito tra gli elementi lapidei. La muratura tipo II, invece, a tessitura regolare e di buona qualità, manifesta un comportamento favorevole, con bassa vulnerabilità per azioni fuori dal piano, a patto che la parete sia correttamente vincolata, e media/alta resistenza per azioni nel piano. 11 I danni non strutturali confluiscono nella successiva valutazione dello stato manutentivo.
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Valentina Panella
Dall’urbano all’edificio: strumenti per la riduzione e la mitigazione del rischio sismico. Il caso di Sestino. Valutazione della Condizione Limite per l’Emergenza (CLE): analisi e applicazione all’area amministrativa di Sestino Valentina Panella
Dipartimento di Architettura, Università degli studi di Firenze.
Abstract This study aims to evaluate and define the investigation methodologies both in the country as well as urban zone, historical and modern settlements, in the administrative territory of Sestino (Arezzo), in order to prevent human and economic tragedies through studies to determine the seismic characterization of this high risk area. Thanks to the latest regulatory framework on seismic prevention, studies were carried out which allowed to start a virtuous process which can lead to a decisive step towards the growth of a seismic prevention culture among the population and public administrators, based on innovative and essential aspects for the assessment of seismic risk on a municipal scale. The specific object of this article is the analysis of the seismic vulnerability of the building aggregates which make up the administrative area of Sestino. The area we focused on extends from Ponte Presale in the west to Monterone in the east, on the border with the Marche region. The analysis of the Emergency Limit Condition (ELC) was carried out on behalf of the Municipal Administration of Sestino. Keywords Sestino, CLE, rischio sismico, mitigazione, danno sismico.
Introduzione Lo studio illustrato di seguito serve a valutare e a definire l’analisi della Condizione Limite per l’Emergenza (CLE) eseguita grazie ad una convenzione tra il Comune di Sestino e il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze. La CLE inerisce l’attività di verifica dei sistemi di gestione dell’emergenza, costituita da un insieme di elementi fisici (edifici strategici e aree di emergenza) connessi tra loro e accessibili dal territorio esterno mediante infrastrutture di connessione e accessibilità. L’intero lavoro si pone, inoltre, come obiettivo, quello di confrontare i risultati della CLE ottenuti con gli studi di Microzonazione Sismica (MS) e il piano della Protezione Civile, attuando un’analisi critica della situazione studiata attraverso le valutazioni di vulnerabilità ottenute da approcci diversi.
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Fig. 1 Particolare della CLE in Sestino, stralcio A (Panella V. 2019)
Appare rilevante sottolineare che la CLE redatta per il Comune di Sestino (AR) è stata oggetto di valutazione da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento Della Protezione Civile ed approvata, dal momento che “L’istruttoria svolta dalla segreteria tecnica sugli studi di livello 1 e analisi della CLE … relativa al comune di Sestino, ha consentito di verificare il rispetto […] della conformità con gli standard di rappresentazione e archiviazione degli studi di MS e dell’analisi della CLE”, come da specifico verbale del 24 ottobre 2019. Fase conoscitiva Sestino è un comune italiano della provincia di Arezzo, nella Valtiberina Toscana. È il comune più orientale della regione e, nell’ambito della provincia, quello più distante dal capoluogo (79 km). Situato ai confini tra Marche Toscana ed Emilia-Romagna, si erge a 496 metri sul livello del mare nell’area dell’Appennino Tosco-Umbro-Marchigiano. Qui oggi vivono circa 1300 abitanti in un territorio piuttosto vasto (circa 80 kmq), ricco di piccoli borghi di montagna e riserve naturali all’interno delle quali vi è il Sasso Simone, una superba formazione rocciosa che con la sua fortezza fu avamposto di Toscana. Innanzitutto sono state analizzate le indagini di Microzonazione Sismica (MS), fondamentali per definire le aree soggette ad amplificazioni dello scuotimento sismico o deformazioni permanenti del suolo in caso di terremoto, catalogando compiutamente le zone del territorio caratterizzate da comportamento sismico omogeneo. Successivamente è stato valutato il Piano per l’Assetto Idrogeologico che ha valore di Piano Territoriale di Settore ed è lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni, gli interventi e le norme d’uso riguardanti la difesa dal rischio idrogeologico del territorio.
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Valentina Panella Autorità di Bacino Interregionale Marecchia-Conca, 2004, Piano per l’Assetto Idrogeologico (PAI) 2 OPCM n.4007 del 29 febbraio 2012 sulla base degli indirizzi espressi dalla Commissione istituita con l’OPCM n.3843/2010 e istituita dal DPCM dell’aprile 2011 1
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Analizzando gli studi di Microzonazione Sismica effettuati nell’area, sappiamo che il centro abitato di Sestino è ubicato per la maggior parte su una frana di colamento della Val Marecchia che, tuttavia, è una frana inattiva e non riporta più problematiche indotte in campo dinamico, ma costituisce pur sempre un deposito in grado di fornire amplificazioni locali, talvolta elevate, in caso di sisma. Secondo il Piano per l’Assetto Idrogeologico dell’area in oggetto, la rete idrica minore è contraddistinta da una forte azione erosiva. I due corsi d’acqua principali, il fiume Foglia e il torrente Presale, presentano erosioni di sponda in più punti. Per la redazione della CLE, dopo aver consultato il geologo Giovanni Montini che ha redatto il piano medesimo1, l’area è stata interpretata a rischio ‘R2’, rischio medio, per il quale sono possibili danni minori agli edifici, alle infrastrutture e al patrimonio ambientale che non pregiudicano l’incolumità delle persone, l’agibilità degli edifici e la funzionalità delle attività economiche. Infine un intervento così rilevante e così ad ampio raggio sul tessuto urbano, civile e viario di un territorio non può prescindere dall’analisi storica del sito. Perciò a seguito dell’indagine territoriale è stata effettuata un’accurata ricerca storica tesa a ricostruire le caratteristiche degli sviluppi urbani nel tempo, con particolare attenzione ai sismi subiti nel corso degli anni. Guardare al passato per programmare il futuro rimane un imperativo fondamentale per non incorrere in errori di valutazione. Applicazione sul campo Uno strumento fondamentale nello sviluppo delle indagini prima della redazione della CLE è il PPC (Piano della Protezione Civile). Attraverso il PPC si acquisiscono le conoscenze fondamentali sui rischi potenziali di un dato territorio quali alluvioni, frane, terremoti e qualsiasi altro rischio possa interessare un centro abitato, sia questo prevedibile o meno. Lo scopo è quello di consentire le corrette attività di intervento e di soccorso, organizzando le risorse umane ed i materiali, le attività e le azioni, con cui affrontare in maniera tempestiva ed efficace il rischio, con lo scopo primario di salvaguardare la vita umana. Il PPC è, quindi, l’insieme delle procedure operative di intervento atte a fronteggiare una qualsiasi calamità attesa in un determinato territorio. Lo strumento utilizzato per questo studio è il «Piano Intercomunale di Protezione Civile della Comunità Montana Valtiberina Toscana» elaborato nel dicembre 2007. Lo studio della Condizione Limite per l’Emergenza (CLE)2 degli insediamenti urbani è uno strumento fondamentale che consente di integrare al Piano della Protezione Civile le azioni per la mitigazione del rischio sismico, migliorando la gestione delle attività in emergenza. Il concetto di CLE gioca un ruolo essenziale nell’introdurre alcuni elementi di strutturalità nella pianificazione di emergenza e nel rendere quindi in qualche modo rilevante il Piano di Emergenza nei confronti della Pianificazione del Territorio, grazie alla compilazione di schede specifiche riguardanti gli elementi fondamentali in una situazione di emergenza sismica. Tale analisi comporta: • l’individuazione degli edifici e delle aree che garantiscono le funzioni strategiche per l’emergenza; • l’individuazione delle infrastrutture di accessibilità e di connessione con il contesto territoriale, degli edifici e delle aree di cui al punto a. e gli eventuali elementi critici; • l’individuazione degli aggregati strutturali e delle singole unità strutturali che possono interferire con le infrastrutture di accessibilità e di connessione con il contesto territoriale.
Id_ES
Id_Aggreg. 1
Denominazione edificio 2
Tipo funzione strategica 3
Localizzazione 4
1
116484
Comune
001
Piazza Garibaldi
2
001294
ASL
002
Via dei Tigli
3
753123
Comando Carabinieri
003
Via Marche
4
1163476
Farmacia
004
Via Roma
5
1163476
Farmacia
004
Via Roma
6
753123
Comando Carabinieri
003
Via Marche
7
007
Palestra
007
Via Travicello
8
001294
Residenza anziani
002
Via dei Tigli
9
001294
Residenza anziani
002
Via dei Tigli
10
001294
Residenza anziani
002
Via dei Tigli
11
1176896
Centro polifunzionale
006
Località Monterone 42
12
1232188
Ostello
007
Località Monterone 13B
13
1111
Area artigianale Ulivi
001
Via degli Ulivi
14
310909
Consorzio Alpe della Luna
007
Località Ponte Presale
15
1202483
Consorzio Alpe della Luna
007
Località Ponte Presale
Tab. 1 Elenco edifici strategici (ES) della CLE del Comune di Sestino
Id_aggreg. = identificativo aggregato campo 6 scheda ES 2 Denominazione edificio = campo 12b scheda ES 3 Tipo funzione strategica = indicare la funzione strategica o l’elenco delle funzioni qualora ci sia una compresenza di funzioni strategiche 4 Localizzazione = indirizzo stradale 1
Dall’esame analitico del Piano di Protezione Civile è stato possibile identificare degli elementi da inserire nel sistema CLE e rappresentarli sulla cartografia, applicando gli standard di rappresentazione e archiviazione informatica in merito alla legenda per la realizzazione della Carta degli elementi per l’analisi della CLE. Tutte le operazioni di seguito descritte sono state effettuate manualmente sulla CTR, evidenziando edifici, aree, infrastrutture e riportando a mano degli identificativi (un semplice numero ordinale), a cui è stata anteposta la sigla dell’elemento rilevato (ES, AE, AC). Primariamente sono stati individuati gli Edifici Strategici, ai quali è stato assegnato un numero progressivo e l’identificativo della funzione strategica, riportato poi nella scheda ES nel campo 48 (tale codice non deve essere confuso con l’identificativo dell’Aggregato Strutturale o dell’Unità Strutturale). Gli edifici strategici ES sono stati individuati in base ad alcune loro caratteristiche: l’imprescindibilità delle funzioni strategiche ospitate nella gestione di un’emergenza sismica e l’omogeneità nella distribuzione delle funzioni strategiche all’interno del territorio comunale. In seguito sono state identificate le Aree di Emergenza, suddivise in Aree di ammassamento e Aree di ricovero. Ad ogni area è stato assegnato un numero progressivo e l’identificativo Area di Emergenza, che è stato poi riportato nella scheda AE nel campo 5. Tra queste si sono preferite quelle non soggette a rischi diretti causati dal sisma, riferendosi in particolare alla possibile interferenza degli edifici circostanti. Successivamente sono state tracciate le infrastrutture di Connessione, che permettono di mettere in relazione tra loro Edifici Strategici e Aree di Emergenza. A tal fine sono stati individuati i punti di accesso a ciascun edificio e a ciascuna area, sui quali sono stati collocati i nodi delle infrastrutture. Ulteriori nodi sono stati individuati nei punti di intersezione fra due o più infrastrutture di connessione. A seguire sono state tracciate le infrastrutture di Accessibilità, che permettono il collegamento fra il sistema di gestione dell’emergenza, costituito da Edifici Strategici, Aree di Emergenza e infrastrutture di connessione, e la viabilità principale esterna all’insediamento urbano. Ad ogni infrastruttura è stato assegnato un numero progressivo, l’identificativo dell’infrastruttura di Accessibilità o Connessione, che è stato poi riportato nella scheda AC nel campo 63.
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Valentina Panella
È stata penalizzata la ridondanza dei percorsi, privilegiando gli assi stradali di connessione e accessibilità in grado di consentire un agevole accesso ai mezzi della Protezione Civile e che fossero privi di edifici interferenti o, qualora presenti, fossero in numero limitato. Si è deciso di privilegiare la strada provinciale che collega il comune con le Marche ad est e con Sansepolcro ad ovest. Rispetto alle previsioni del PPC si è scelto di inserire fra gli edifici strategici la farmacia situata in via Roma, poiché si ritiene abbia una funzione strategica per il supporto al soccorso sanitario insieme alla sede ASL locale; il Centro Polifunzionale La Vecchia Segheria, situata all’imbocco della viabilità principale che porta all’interno del borgo di Monterone, vicino alla Strada Provinciale Sestinese, poiché si ritiene abbia una funzione strategica come luogo di ricovero per la popolazione. A questo punto è stato possibile identificare approssimativamente gli Aggregati Strutturali interferenti con i precedenti elementi della CLE: durante il rilievo sul campo è stata verificata l’eventuale sussistenza di interferenze con la viabilità (ossia se l’altezza H dell’aggregato è maggiore o uguale alla larghezza L della strada). Nella seconda fase di lavoro è stato eseguito il rilievo sul campo mediante laser scanner, con la compilazione delle schede per l’analisi della CLE. Al fine di produrre una valutazione completa ed oggettiva della CLE e della relativa cartografia è stato necessario procedere con un’indagine accurata dei dati presenti e, ove mancanti o incompleti, effettuarne la rilevazione diretta che potesse integrare o completare le informazioni esistenti. La campagna di rilevamento laser scanner ha permesso di identificare correttamente i dati strutturali richiesti per la compilazione delle Schede, senza basarsi su documentazioni obsolete ma conoscendo perfettamente lo stato attuale delle strutture analizzate. Così, dopo l’indagine storiografico-territoriale, si è passati necessariamente al rilievo diretto, sia mediante strumenti basilari che tecnologie digitali, dell’area sia in termini complessivi che nel dettaglio strutturale ed architettonico. I dati complessi così ottenuti sono stati quindi interpolati con i dati già esistenti quali: Il Piano della Protezione Civile (PPC) che è servito come base per la redazione della «Carta degli elementi» che ha consentito l’individuazione degli elementi che la compongono (edifici strategici, connessioni, aggregati interferenti, ecc..). • Le mappe e le piante catastali utili per la compilazione delle schede. • Il rilievo eseguito con il laser scanner nei nuclei abitativi di Sestino e Monterone ha consentito anche di misurare l’altezza in gronda e l’altezza media piano, fondamentali per la compilazione delle Schede.
“Identificativo infrastrutture di Accessibilità/Connessione”- Codice univoco di identificazione. (Commissione tecnica per la microzonazione sismica, 2014)
3
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La fase del rilievo ha consentito di verificare la corrispondenza tra la cartografia e l’assetto reale del sistema urbano (verificando ad esempio l’impianto di un aggregato), rilevando la necessità di modifiche e correzioni della CTR. Ulteriore attività di notevole importanza è stata l’individuazione delle Unità appartenenti agli Aggregati Strutturali interferenti, operazione svolta per la maggior parte sul campo, ma per la quale sono state fondamentali le planimetrie catastali degli edifici fornite dall’Amministrazione comunale tramite la piattaforma SISTER dell’Agenzia delle Entrate. A seguito delle attività di rilievo, che ci ha consentito di valutare in loco gli elementi strategici e le connessioni con il territorio circostante, è stato possibile definire le scelte assunte e, in alcuni casi, anche di integrarle e/o modificarle.
Le informazioni raccolte sono state in seguito digitalizzate e le schede completate inserendo tutti quei dati non rilevabili sul campo, come ad esempio i dati della microzonazione sismica, della Pai, ecc.. Occorre puntualizzare che il tipo e il numero di unità d’uso sono stati forniti dall’Ufficio tecnico comunale, e che il numero di occupanti è stato ricavato dai dati ISTAT relativi all’ultimo censimento 4. Laddove la verifica anagrafica non abbia riportato presenze e gli edifici siano risultati effettivamente in stato di abbandono o inutilizzati, in corrispondenza del campo ‘occupanti’ è stato indicato valore zero. I dati inerenti alla tipologia di costruzione sono stati ricavati dall’osservazione della struttura e, se necessario, mediante interviste dirette coi proprietari. Per la maggior parte delle unità strutturali non è stato possibile ricavare l’anno di edificazione preciso, in quanto dedotto sulla base della documentazione storica e d’archivio. E’ stata effettuata, inoltre, una revisione critica dei dati raccolti, in particolare per quanto riguarda l’assetto planimetrico degli elementi analizzati, riportando sulla cartografia le modifiche effettuate durante la verifica su campo. In alcuni casi si è reso necessario suddividere un aggregato in due nuovi Aggregati Strutturali, correggendo la suddivisione planimetrica e inserendo i nuovi identificativi: per fare questo sono state utilizzate le ultime due cifre dell’identificativo originario (00), numerando in maniera progressiva i nuovi Aggregati. La Scheda Indice redatta, una per ogni Comune presente nell’area oggetto di studio, consente di ottenere una visione complessiva delle operazioni svolte nell’ambito dell’analisi della CLE, identificando il numero di schede compilate per ogni tipologia. Le schede indice riportate sono 3, una per ogni comune interessato (Sestino, Badia Tedalda, Carpegna). L’ultima fase del lavoro ha riguardato la digitalizzazione del materiale, tramite l’inserimento dei dati nelle tabelle per l’archiviazione: tutte le schede sono state riversate nel database, con l’ausilio dell’applicativo softCLE. Inoltre sono state generate una relazione accompagnatoria e le seguenti Carte degli elementi per l’analisi della CLE con i suoi stralci, archiviando i dati cartografici nei singoli shapefile. Sono state pertanto prodotte le seguenti carte degli elementi: • una tavola d’inquadramento generale in scala 1:10.000 con il posizionamento dei riquadri relativi agli stralci di dettaglio A (Sestino), B (Monterone frazione del comune di Sestino soggetta anch’essa a analisi della CLE) e C (Ponte Presale e Colcellato); • Stralcio A di dettaglio in scala 1:2.000 che contiene tutte le aree e gli edifici dell’analisi della CLE di Sestino.
Fig. 2 stralcio cartografia, Piano Intercomunale di Protezione Civile della Comunità Montana Valtiberina Toscana (Dicembre 2007) Fig. 3 Percorso scansioni rilievo laser scanner dentro Sestino (Panella V., 2019)
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Censimento ISTAT anno 2015
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Valentina Panella
• Stralcio B di dettaglio in scala 1:2.000 che contiene tutte le aree e gli edifici dell’analisi della CLE di Monterone. • Stralcio C di dettaglio in scala 1:2.000 che contiene tutte le aree e gli edifici dell’analisi della CLE di Ponte Presale e Colcellato.
Via Provinciale Sestinese Gruppo di lavoro: Olivieri M. (responsabile scientifico), Benigni M.S., De Girolamo F., De Rosa A., Di Salvo G., Fazzio F., Fiorito M., Giuffrè M., Pellegrino P., Parotto R., Pizzo B., Novembre 2013, Rischio sismico urbano, Indicazioni di metodo e sperimentazioni per l’analisi della Condizione limite per emergenza e la Struttura urbana minima, ‹https:// www.regione.umbria.it/documents/18/2247069/F__tavole+allegate+alla+relazione_ RISCHIO+SISMICO+URBANO_rapporto_finale_ricerca. pdf/da1eed65-16bb-4909b4e8-aa1eb486c5ce›
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Sintesi dei risultati Come più volte evidenziato in questo contributo, l’area comunale di Sestino si sviluppa totalmente in un territorio montano, ricco di piccoli borghi piuttosto distanti tra loro e collegati quasi esclusivamente da una sola strada principale5 dalla quale si dipanano percorsi poco agevoli. Per questa sua conformazione naturale, gran parte degli elementi strategici per l’emergenza si trovano concentrati nell’area urbana di Sestino, il quale non dispone di strumentazioni sufficienti per la completa gestione dell’emergenza stessa. Ciò rende necessario che l’area venga dotata di strutture e di servizi decentrati nei comuni limitrofi. Alla luce di quanto espresso è evidente la necessità di estendere l’analisi della CLE anche ai comuni limitrofi, al fine di elaborare un documento integrato che possa garantire una corretta gestione dell’emergenza dell’area nel suo complesso. La viabilità montana, in alcuni punti in condizione critiche (soprattutto nel tratto fra Sestino e Monterone) è, talvolta, l’unica strada di accesso ad alcuni paesi del comune. Eventuali impedimenti di transito su queste strade potrebbero obbligare, in caso di sisma, a percorsi alternativi molto lunghi e inadatti al passaggio dei mezzi per i soccorsi. Per raggiungere alcune aree strategiche all’emergenza, i mezzi di soccorso e la popolazione devono percorrere una viabilità che presenta aggregati strutturali e unità isolate interferenti, che potrebbero generare situazioni di rischio, più o meno rilevanti a seconda dell’intensità dell’evento. A tal proposito facciamo presente che l’infrastruttura di accesso AC002 (SP258) è stata presa in esame solo dal confine comunale (come da manuale), così come l’AC024 (Strada Provinciale Sestinese) è stata considerata fino al confine con le Marche. La valutazione della CLE è un processo atto a verificare se il sistema di gestione dell’emergenza - nelle condizioni date al momento della valutazione - sia adeguato e contenga tutti gli elementi sufficienti ad assicurare le prestazioni urbane necessarie alla gestione dell’emergenza. Per rispondere agli obiettivi illustrati, i criteri proposti per la valutazione del sistema di gestione di emergenza sono tre: 1. la completezza: che comporta la necessità di verificare che tutti gli elementi indispensabili alla gestione dell’emergenza siano presenti all’interno dell’insediamento, e che siano stati considerati nell’analisi; 2. l’efficienza: che impone di valutare che l’insieme degli elementi presenti, letti sia nelle singole prestazioni che nelle relazioni reciproche, permetta di fornire una risposta urbana efficiente in fase di emergenza, garantendo le prestazioni attese; 3. la compatibilità urbana6: indispensabile per valutare la relazione tra il sistema di gestione dell’emergenza e il contesto urbano e territoriale, e viene introdotta per valutare se – oltre al funzionamento in fase di emergenza – il sistema sia anche in grado di porre le basi per il mantenimento e la ripresa delle attività urbane strategiche e per il recupero post-sismico, e di farlo in maniera compatibile con le caratteristiche dell’insediamento e con le previsioni urbanistiche vigenti.
• 1. Dal punto di vista della completezza delle strutture, la valutazione dell’emergenza nel territorio comunale di Sestino si può considerare abbastanza soddisfacente, poiché risultano presenti tutti quegli elementi in grado di assicurare le funzioni indispensabili corrispondenti al livello minimo di dotazione per le attività di Protezione Civile. Le funzioni presenti sono di tipo tecnico con l’esistenza di un centro operativo dalle caratteristiche funzionali e di accessibilità in grado di servire l’intero territorio (il Comune che svolge l’attività di COC), di un centro sanitario (grazie alla Asl e alla farmacia), di un’area logistica e di gestione dei mezzi e dei materiali (Comune e Carabinieri) oltre alla presenza di almeno una AE di ammassamento e una di ricovero. Il piano di emergenza risulta invece carente nei trasporti e nella mobilità, a causa della più volte menzionata scarsa qualità del sistema viario dell’area. • 2. Dal punto di vista dell’efficienza è possibile senz’altro affermare che le prestazioni del sistema studiato mettono in luce dei livelli medio-bassi per quanto riguarda la vulnerabilità indotta sugli edifici strategici, le aree di emergenza e le infrastrutture di accessibilità e connessione. Ciò è causato dalla difficile viabilità già menzionata che viene aggravata dalla elevata presenza di aggregati strutturali interferenti che potrebbero, in caso di sisma, subire crolli o collassi che ridurrebbero la viabilità con un impatto grave sull’intera gestione dell’emergenza. Inoltre non può essere sottovalutato il rapporto con la morfologia del territorio considerata la classificazione di microzonazione sismica7 e del rischio PAI8. Quando si effettua la valutazione dell’efficienza di un sistema, si dovrebbe prendere anche in considerazione il fattore di ridondanza, ovvero la presenza di alternative di AC che colleghino i vari edifici strategici e le aree di emergenza. Nel caso in valutazione, considerato il sistema viario e la morfologia del territorio, non è possibile trovare alternative ai sistemi minimi, per cui le ridondanze sono completamente assenti. • 3. Per quanto riguarda la compatibilità urbana, le valutazioni risultano essere maggiormente ampie e complesse dell’analisi svolta nel caso in esame, ma si può comunque affermare che l’insediamento non sarebbe in grado di porre le basi per il mantenimento e la ripresa delle attività urbane strategiche per il recupero post-sismico se non valutando il territorio in maniera più complessiva: come agglomerato dei comuni della Valtiberina.
Fig. 4 Mappa descrittiva del percorso della CLE all’interno del Comune di Sestino (Google earth, rielaborazione Panella V., 2019) Fig. 5 Confronto fra mappatura CLE e visione reale degli aggregati (Google earth, Panella V., 2019)
7 L’area si trova su una frana quiescente 8 Calcolato in R2 su una scala da 1 a 3
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Valentina Panella Sez. 50, scheda US, Manuale per l’analisi della Condizione Limite di Emergenza (CLE) dell’insediamento urbano.
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Sviluppi e approfondimenti Al termine del lavoro svolto sono state fatte alcune annotazioni sul sistema CLE come oggi si presenta, anche nel tentativo di provare a migliorarne l’efficacia e ridurre i malfunzionamenti. Abbiamo già ampiamente spiegato, nell’analisi della CLE, quanto le unità strutturali interferenti e i relativi aggregati strutturali svolgano un ruolo fondamentale nel sistema di sicurezza e quanto siano determinanti per la viabilità sul territorio in caso di sisma. Un sistema di sicurezza che preveda con cura e dettaglio le aree strategiche per le emergenze ma che rischia di trovare le vie di accesso sbarrate da crolli di altri edifici appare debole se non – a volte – del tutto inutilizzabile. Ancora peggio, i crolli di edifici non strategici potrebbero coinvolgere direttamente o indirettamente quelli adibiti all’emergenza con conseguenze drammatiche in caso di sisma. Nel caso preso in esame sono state esaminate, proprio a tale scopo, circa 190 unità strutturali, delle quali più di 80 risultano interferenti con la viabilità; di questo gruppo di unità strutturali più del 90% risulta essere di proprietà dei privati. Ebbene tutti questi edifici privati interferenti con la viabilità di emergenza non hanno alcun obbligo da rispettare in materia di sicurezza, anche se si trovano dislocati lungo le vie d’emergenza e – pertanto – non sono nemmeno campionabili dal punto di vista di resistenza sismica. Nel caso di Sestino, più della metà delle unità strutturali in questione risulta costruita addirittura prima del 19199 e solo 4 sono state costruite nell’ultimo ventennio. Si manifesta, quindi, la necessità di promuovere un’analisi della vulnerabilità sismica su scala urbana delle unità strutturali interferenti risultanti dall’analisi della CLE, così da avere una reale concezione della situazione. Così come nel caso descritto possiamo estendere il discorso a tutto il patrimonio edilizio italiano che risulta essere molte volte vetusto e, per circa il 70%, costruito in assenza di normative antisismiche; per questo motivo l’analisi del sistema di gestione dell’emergenza da sola, anche se fondamentale, non è sufficiente: è necessario una lettura anche in prospettiva della ripresa. Quando si parla di prevenzione urbanistica del rischio sismico, l’enfasi va posta su quanto una comunità sia disposta a spendere per proteggersi. Riconoscendo l’impossibilità di una “protezione totale” per gli elevati costi (economici e sociali) delle politiche preventive (costi comunque inferiori a quelli delle politiche di ricostruzione), il problema rimane legato alla quantità delle risorse economiche da mettere in gioco e al consenso della collettività a impiegarle per proteggere l’insediamento o i suoi elementi essenziali. A parere dello scrivente pare ovvio che per migliorare la risposta del patrimonio edilizio in caso di sisma, per ridurre gli enormi costi in caso di eventi sismici particolarmente gravosi (sia in termini di vite umane che di oneri economici per la gestione delle emergenze e per le necessarie politiche di ricostruzione) nonché per migliorare qualità, sicurezza e sostenibilità dell’ambiente costruito e qualità della vita delle persone, sarebbe necessario puntare, oltre che su politiche di riduzione del rischio sismico, su nuovi strumenti di conoscenza e prevenzione. Questo implica la necessità di porsi altri obiettivi, e quindi assicurare non solo la gestione dell’emergenza ma anche elementi che favoriscano la ripresa dell’insediamento dopo l’evento disastroso, garantendo la tenuta delle attività urbane ordinarie, economiche, sociali, identitarie e di relazione.
Sicuramente il passo successivo a questo studio dovrà essere un approfondimento specifico sull’indagine tipologica degli aggregati dell’area analizzata, che individui le caratteristiche costruttive dei singoli fabbricati. Partendo dalle piante storiche archiviate nei vari catasti storici, bisognerà separare innanzitutto le singole unità strutturali dal complesso edilizio per condurre un’accurata indagine sull’aggregato al fine di identificarne le connessioni, i giunti strutturali, i meccanismi di giustapposizione e sovrapposizione. Analizzando la morfologia del contesto urbano, potranno essere individuati i processi di aggregazione successivi, la disposizione dei vuoti, l’allineamento delle facciate rispetto ai percorsi viari, i prolungamenti, le rotazioni, le intersezioni, gli slittamenti degli assi delle pareti. Per procedere alla classificazione tipologica dell’abitato è necessario innanzitutto definire quali sono gli elementi che caratterizzano il costruito, individuarne quindi gli elementi chiave secondo il quale è possibile ricondursi alla tipologia costruttiva ed alle caratteristiche costruttive dei fabbricati. A questo punto è importante sottolineare che un’analisi di questo tipo sarebbe fondamentale per creare studi specifici sulle varie tipologie strutturali ed i loro comportamenti in caso di sisma, così da prevedere correttamente gli effetti di un qualsiasi sima sugli aggregati urbani e consentire di progettare un analitico sistema di messa in sicurezza. Bibliografia Dipartimento della Protezione Civile, Commissione Tecnica per la microzonazione sismica, 2014, Manuale per l’analisi della Condizione Limite per L’emergenza (CLE) dell’insediamento urbano, Roma Dipartimento della Protezione Civile e Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, 2008, Indirizzi e criteri per la microzonazione sismica, Roma Comune di Sestino, Febbraio 2015, Relazione Illustrativa Microzonazione Sismica, Sestino Autorità Interregionale di Bacino Marecchia-Conca, 2004, Piano stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico (PAI) Comunità Montana Valtiberina Toscana, Dicembre 2007, Piano intercomunale di protezione civile Istituto Nazionale di Geofisica, (a cura di) Boschi E., Ferrini G., Gasperini P., Guidoboni E., Smiriglio G. e Valensise G., 1995, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1980, Roma
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Dall’urbano all’edificio: strumenti per la riduzione e la mitigazione del rischio sismico. Il caso di Sestino. La CLE di un aggregato ad alta vulnerabilità e l’analisi delle prestazioni strutturali del teatro “Pilade Cavallini” di Sestino (AR). Lisa Parmigiani
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze.
Abstract This study is centred on evaluating and defining survey methodologies for territorial settings as well as urban settlements, focusing on the “Pilade Cavallini” theater, one of the most vulnerable aggregates identified by the analysis of the Emergency Limit Condition developed for Sestino. The research had deepened the study on two structural units in which the theater stands, submitting them to a structural performance analysis following the guidelines present on the Norme Tecniche per le Costruzioni (2018). Keywords Sestino, NTC2018, percorso metodologico, analisi strutturale, rischio sismico.
Introduzione L’ultima fase dello studio della CLE approfondisce l’analisi di uno degli aggregati ad alta vulnerabilità individuato in precedenza, concentrandosi sulle unità strutturali in cui è presente il teatro “Pilade Cavallini”; lo studio segue le indicazioni emanate dall’aggiornamento delle Norme Tecniche per le Costruzioni 2018 (NTC2018), le quali stabiliscono i criteri generali per la valutazione della sicurezza e per la progettazione, l’esecuzione e il collaudo degli interventi sulle costruzioni esistenti definendo un percorso di conoscenza articolato in vari fasi. Il percorso metodologico prevede una prima analisi storico documentale in cui si va a ricostruire la vita dell’edificio, dalla costruzione agli interventi successivi, al fine di valutare le modifiche allo schema statico originale che possono celare criticità nascoste; è previsto poi il rilievo geometrico architettonico che permette di descrivere accuratamente lo stato di fatto dell’edificio, affiancato dall’analisi dei materiali e del loro degrado, ove quest’ultimo può inficiare la capacità resistente dei materiali. Il rilievo geometrico strutturale ha l’obiettivo di individuare l’organismo resistente della costruzione, ed è accompagnato dalla caratterizzazione meccanica dei materiali, in modo poi da definire, sulla base del livello di approfondimento raggiunto, il livello di conoscenza e il relativo fattore di confidenza da impiegare per la riduzione dei valori meccanici dei materiali. Lo studio termina con l’analisi delle varie combinazioni di carico da utilizzare nei calcoli per la valutazione della sicurezza.
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Fig. 1 Porzione di CLE, Sestino, Italia.
L’aggregato e la CLE L’aggregato oggetto di studio si trova nel nucleo storico del paese e la sua esistenza è riscontrabile nella cartografia storica dai primi anni dell’Ottocento; si presenta con una forma allungata compresa tra via delle Monache e via delle Terme Romane, passando per la piazza principale del paese (Piazza VI Martiri) e affacciarsi poi lungo la Provinciale Sestinese. Il complesso è composto da varie unità in cui ai piani inferiori si concentrano attività commerciali e di deposito, mentre ai piani superiori si trovano soprattutto abitazioni; le facciate principali prospettano la strada, mentre le porzioni posteriori si affacciano in gran parte su giardini e orti privati. L’aggregato, identificato nella CLE dal codice AS0125142, a causa della sua vicinanza a due infrastrutture di connessione è stato classificato come interferente. Il complesso si trova su un terreno con leggero pendio sotto versante incombente; il sottosuolo su cui insiste, a causa di una frana, è stato classificato dagli studi di MS come stabile con amplificazioni. Il piano di assetto idrogeologico lo associa a un rischio idrogeologico medio; il raggruppamento di edifici è formato da diciassette unità strutturali; una delle unità è costituita da grandi luci e corrisponde all’edificio in cui è sito il teatro; il numero dei piani dell’intero complesso va da un minimo di 1 ad un massimo di 4. La quantità degli edifici interferenti con le infrastrutture di connessione sono 4 e si trovano nel punto in cui l’aggregato curva per salire verso via delle Terme Romane. L’aggregato presenta vari disallineamenti, sia tra le quote di imposta della copertura, tra le quote degli orizzontamenti, sia tra le pareti di facciate che negli spazi interni. Sono state poi redatte le schede delle unità strutturali che compongono l’aggregato, volgendo particolare attenzione alle unità strutturali occupate dal teatro, identificate con i codici US005 e US006. L’edificio principale (US006) è caratterizzato da un vuoto strutturale e ciò fa si che rientri negli edifici specialistici; si sviluppa su quattro livelli con altezze di piano comprese tra i 2,50m e i 3,50m e un’altezza totale di circa 11m. Le strutture portanti sono realizzate in muratura in uno stato di buona conservazione, con la presenza di presidi antisismici.
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La seconda unità del complesso teatrale (US005) si trova in estremità all’aggregato e non presenta fronti interferenti con le infrastrutture di connessione. Si sviluppa su due piani con un’altezza media di piano compresa tra i 2,50m e i 3,50m, e uno sviluppo totale di 6m. La struttura portante è realizzata in muratura in buono stato, senza danni strutturali, con la presenza di cordoli e priva di sopraelevazioni. Il teatro “Pilade Cavallini” di Sestino La costruzione del teatro è stata promossa agli inizi del ‘900 da Pilade Cavallini che, arrivato a Sestino nel 1889 (Taini, 2008, p. 17), diventa ben presto personaggio di spicco della comunità, promuovendo l’istituzione della Società Filarmonica Drammatica (Masagli, 2019); quest’ultima, composta da 52 soci tra cui anche il Comune, metteva in scena rappresentazioni teatrali ancor prima che il teatro venisse realizzato. Il complesso veniva costruito all’interno di due unità strutturali preesistenti facenti parte dell’aggregato urbano oggetto di studio; il teatro, finanziato con un prestito erogato dalla Banca del Credito Alto Foglia, è stato costruito a partire dal 1901 (Renzi, 1990) ed è stato inaugurato dopo quasi un decennio, il 18 settembre 1910. L’edificio si presentava tuttora con la conformazione tipica del teatro all’italiana: con sviluppo planimetrico a U e ordini di palchetti sovrapposti. Durante la sua vita è stato interessato, oltre che da vari passaggi di proprietà tra Società Filarmonica e Comune, da interventi con diverso grado di entità, intervallati da periodi di piena attività e periodi di totale abbandono. La prima ristrutturazione teatrale - dal 1910 al 1955 Intorno al 1930, il teatro venne chiuso a causa del tetto pericolante. Nel 1936 l’immobile fu acquisito dal Comune che commissionò i lavori di risanamento. Sono di questi anni le prime documentazioni dettagliate sull’edificio: la prima è una relazione tecnica corredata da elaborati grafici, stilata dal geometra Mario Monti; la seconda invece è il contratto di una polizza assicurativa (Garbero Zorzi, Zangheri, 1994, p.364). Il complesso teatrale, articolato su tre livelli, era composto da una platea, un palcoscenico e tre ordini di gallerie. Alla platea si accedeva da due ingressi aperti sulla via pubblica e posti sotto un passaggio coperto. Il secondo volume, adiacente al teatro, era adibito a sala musica e a camerini, a cui si accedeva da due ingressi: uno nella via pubblica e l’altro nella piazza Maria della Misericordia. La polizza assicurativa venne stipulata verosimilmente in concomitanza con la ripresa delle attività teatrali, tanto che nel 1948 – 1949 il presidente della Società della Filarmonica chiese al Comune la restituzione dell’immobile, che acconsentì a condizione che si occupassero della manutenzione del locale. La seconda ristrutturazione teatrale – dal 1955 al 1987 Tra il 1955 e il 1957 veniva messa in opera la prima sostanziale ristrutturazione del teatro, in cui non veniva modificato l’impianto; le trasformazioni più rilevanti riguardavano le strutture lignee, quasi tutte sostituite con strutture in cemento armato. In particolare venivano rifatti i solai dei palchetti, della platea e del palcoscenico, mentre la struttura lignea del tetto veniva sostituita con una nuova (Garbero Zorzi, Zangheri, 1994, p.364). Nel 1982 il teatro venne chiuso a causa del suo stato di completo abbandono e nel 1987 la Società della Filarmonica decise di cedere nuovamente il complesso al Comune.
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La terza ristrutturazione teatrale – dal 1987 ad oggi L’ultimo intervento subito dall’edificio avveniva tra il 1987 e il 1993 ed è quello che ha conferito al teatro l’aspetto attuale. Durante la realizzazione del progetto di ristrutturazione il territorio venne colpito da un forte terremoto, nasceva così l’esigenza di integrare i lavori già previsti nella perizia originale con presidi antisismici. Il teatro Pilade Cavallini, nonostante gli interventi subiti nel corso degli anni, ha mantenuto il suo impianto originale. Il rilievo geometrico architettonico e l’individuazione dei materiali e il loro degrado Seguendo le indicazioni previste dal percorso conoscitivo dettato dalla NTC2018 è stato realizzato il rilievo geometrico architettonico accompagnato da una indagine dei materiali e del loro degrado; il rilievo è stato realizzato con strumentazione laser scanner, supportato da rilievo di dettaglio di tipo tradizionale. Il complesso si sviluppa su quattro livello, ma soltanto dal secondo si trovavano i locali veri e propri destinati alle attività teatrali. I fabbricati, aventi un maschio murario in comune, si presentano entrambi con una forma trapezoidale e con i piani terra seminterrati, nonostante siano a quote diverse. Il volume maggiore è così articolato: il primo livello, di proprietà privata, ha gli ingressi sulla piazza principale del paese ed è suddiviso in due vani; dal secondo livello invece si trovano i locali teatrali veri e propri di proprietà comunale. A questo livello sono posti la biglietteria, la platea, il primo ordine di palchetti composto da due bracci in cui una porzione del palchetto di sinistra è adibita a vano tecnico e il palcoscenico dotato di due quinte, da una delle quali si possono raggiungere i camerini. Il terzo e il quarto livello ospitano i palchetti che seguono una forma a U; infine all’ultimo livello sono stati messi in opera due ballatoi, posizionati al di sopra del palcoscenico. Il volume minore invece è così scandito: al primo livello si trovano due ambienti non comunicanti, in cui il primo ospita il collegamento verticale principale, il bar, i servizi igienici e un ripostiglio mentre il secondo ospita uno dei due spazi adibiti a camerini, i servizi igienici e un ulteriore collegamento verticale ad uso esclusivo dei teatranti. Al secondo livello si trovano il guardaroba, il secondo camerino, alcuni servizi igienici, un disimpegno e il locale tecnico con accesso esterno indipendente. Gli accessi a questo volume si trovano: due al piano terra, uno nel vicolo Cavallini e uno in piazza Maria della Misericordia; tre al livello successivo, uno sul vicolo e due sulla piazza. I due volumi terminano con coperture a doppia falda e con manto realizzato in tegole. I prospetti Sui prospetti è stato portato avanti lo studio del materico e dello stato del degrado. Le alterazioni sono state individuate facendo riferimento alla normativa UNI11182 riguardante i materiali lapidei naturali ed artificiali, la norma indirizza nella scelta e nella definizione delle differenti forme di alterazione e degrado visibili a occhio nudo. Il volume maggiore, compreso tra due edifici, presenta il prospetto principale rivolto a sud scandito in due porzioni in cui quella predominante è intonacata di bianco, con cantonali in pietra sbozzata ed è dotata di presidi antisismici. La porzione minore invece è arretrata rispetto al paramento principale ed è a faccia vista, con muratura di pietrame e listata con ricorsi di mattoni pieni. Al primo livello sono presenti tre ingressi che presentano una soglia in pietra; nella porzione superiore le aperture, poste in corrispondenza dei palchetti, sono sormontate da architravi; è stata inoltre murata una lapide marmorea commemorativa.
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Lisa Parmigiani Fig. 2 Esploso architettonico del teatro di Sestino, (Lisa Parmigiani).
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Questa facciata è interessata da varie forme di degrado derivanti dal ristagno di acqua; i segni di degrado interessano principalmente l’intonaco, manifestandosi sotto varie forme e concentrandosi in particolar modo nella porzione inferiore del paramento; eventi dovuti alle acque meteoritiche producono macchie, dette colature, che si localizzano nelle porzioni inferiori degli elementi sporgenti. Gli intonaci sono interessati anche da altre alterazioni; una delle più diffuse è costituita dal deposito superficiale di materiali estranei (es. polveri) sulla superficie muraria. Per quanto concerne invece i degradi della pietra nelle porzioni inferiori dei cantonali, si rilevano eventi di erosione per ruscellamento; al di sopra di queste porzioni invece si rilevano fenomeni di esfoliazioni. Gran parte delle mostre delle finestre in pietra serena hanno subito fenomeni di esfoliazione e, nei casi più gravi, fratturazioni; questo fenomeno è presente anche nel prospetto ovest. La lapide commemorativa riporta in alcune porzioni un accumulo di microrganismi che creano una patina biologica. Un’ulteriore forma di degrado è rappresentata dal degrado antropico, dovuto alla messa in opera di materiali ed elementi eterogenei. Il prospetto ovest è intonacato di bianco con cantonali in pietra sbozzata; è composto da un unico livello e i livelli successivi sono occupati dall’ampliamento. Sulla sinistra della facciata, in adiacenza, troviamo il volume minore che ha tre fronti liberi con il quarto in comune con l’unità teatrale; i setti murari sono caratterizzati da una muratura a faccia vista realizzata in pietrame. La facciata del volume maggiore è caratterizzata dalle imposte di due archi che delimitano il percorso coperto. Il cantonale di sinistra è interessato nell’estremità superiore da una degradazione differenziale, mentre la porzione sovrastante all’imposta dell’arco è interessata da una mancanza di materiale di origine strutturale. Il fronte mostra vari fenomeni di degrado riguardanti la finitura ad intonaco, tra cui alterazione cromatica e macchie, dovute ad errati interventi umani.
La porzione trattata ad intonaco presenta ulteriori deterioramenti, ma di minore entità, identificabili in fenomeni di esfoliazione e di distacco. Un’ultima forma di degrado, rilevabile in ampie parti del fronte, è costituita dal degrado antropico dovuto principalmente all’applicazione impropria di materiali; si segnala anche la presenza di cavi e canaline oltre che a piccoli, ma puntuali, graffiti sui serramenti. I fenomeni di degrado che interessano il fronte ovest del volume minore si localizzano nella parte inferiore del paramento e sono attribuibili all’umidità che dà luogo a un’estesa variazione del colore originario della pietra. Rilievo geometrico strutturale e analisi meccanica dei materiali Il percorso conoscitivo prevede poi l’elaborazione del rilievo geometrico strutturale. Gli elaborati vengono analizzati per impalcati, mettendo in evidenza gli elementi strutturali. Utilizzando le informazioni geometriche e documentali sono stati redatti i disegni delle stratigrafie e delle orditure principali e secondarie degli orizzontamenti. Le fondazioni, sia del volume maggiore che di quello minore, sono di tipo continuo (Paggetti, 1990); in linea con le normative antisismiche, i solai sono stati ancorati alle murature perimetrali tramite un cordolo con ancoraggi a coda di rondine (Romolini, 1990). Il primo impalcato coincide con la platea che è stata realizzata mettendo in opera un solaio a doppia orditura composto da una trave ricalata e sei nervature di ripartizione sormontate da travetti precompressi e pignatte. Il secondo impalcato è costituito dai solai del primo ordine di palchetti, caratterizzato da travi in cui si innestano i travetti tralicciati, e dal palcoscenico, composto da un solaio poggiante, nella parte verso la platea, su una trave e su pilastri, mentre la parte addossata al muro si ancora alla muratura stessa. Nel volume minore il terzo impalcato prende in esame: il solaio compreso tra il bar e il guardaroba, composto da una struttura gettata in opera in calcestruzzo e pignatte; il solaio tra i due camerini la cui struttura si presenta con una doppia orditura costituita da travi in legno, travetti e mezzane, sormontate da una massetto. Questa struttura è stata oggetto soltanto di una parziale ristrutturazione che ha previsto la sostituzione di alcune travi. I solai del secondo e terzo ordine dei palchetti non sono stati oggetto di intervento durante questa fase, ma sono stati demoliti e ricostruiti durante la ristrutturazione degli anni ’50. Dai documenti sappiamo che vennero smantellati i solai in legno per realizzarli in cemento; purtroppo non sono state rintracciate informazioni più dettagliate e, per sopperire a questa lacuna, si è fatto riferimento ai manuali tecnici dell’epoca ipotizzando una soletta parzialmente incastrata. Il quarto impalcato analizza, oltre che il terzo palchetto, i solai del ripostiglio e del vano della meccanica di scena che sono composti da travetti e pignatte. Nel manufatto sono presenti due ballatoi, ma soltanto uno è parte integrante della struttura ed è realizzato con una trave a sezione rettangolare addossata alla parete di fondo. L’ultimo impalcato ha preso in esame le coperture dei due fabbricati: quella del teatro è stata rifatta durante l’ultimo intervento ed è composta da sei capriate in ferro che hanno tutte ampiezze diverse a causa dell’irregolare geometria del fabbricato. Anche la copertura del volume minore è stata rifatta durante l’ultimo intervento di ristrutturazione, ma non si hanno informazioni dettagliate; si evince però che è stata realizzata mettendo in opera travetti in cemento precompresso e pignatte.
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Lisa Parmigiani Fig. 3 Stato tensionale e spostamenti.
Al termine del rilievo geometrico strutturale è stata effettuata la caratterizzazione meccanica dei materiali per individuare le prestazioni meccaniche dei componenti impiegati; dalle indagini condotte è stato ipotizzato che il manufatto sia formato da elementi resistenti di origine naturale e dalle malte che danno coesione al pannello murario; in base ai valori tabellari della normativa sono stati adottati i parametri definiti per le murature in pietrame a spacco con buona tessitura. Analisi delle prestazioni strutturali del teatro “P. Cavallini” L’ultima fase è volta alla valutazione della sicurezza; le modalità con cui vengono svolte le analisi dipendono dalle caratteristiche dell’edificio e delle eventuali criticità presenti. La redazione del progetto strutturale del manufatto è volto alla realizzazione di un modello da sottoporre a verifiche statiche e sismiche. La sicurezza e le prestazioni del manufatto devono essere valutate in relazione agli stati limite che possono interessare la struttura durante la sua vita nominale di progetto. Modello strutturale La modellazione è stata realizzata con il software Autodesk AutoCAD 2018; per le fasi successive di analisi è stato utilizzato il programma di calcolo agli elementi finiti Straus7. Il modello tridimensionale è stato sviluppato utilizzando come base gli elaborati grafici prodotti durante il rilievo geometrico strutturale, definendo un modello semplificato che ha preso in considerazione soltanto le strutture verticali; l’oggetto è stato esportato e i passaggi successivi sono stati svolti con Straus7. Analisi dei carichi Per l’individuazione dei carichi agenti sull’edificio e le relative azioni da attribuire al modello strutturale è stato fatto riferimento ai dati recepiti dalle relazioni di calcolo redatte in occasione dell’ultima ristrutturazione. Dalle ricerche effettuate era emerso che i solai, oggetto di rifacimento negli anni ’90, avevano le medesime caratteristiche: azioni permanenti pari a 395kg/m2 e azioni variabili corrispondenti a 600kg/m2. Per la copertura del teatro sono stati ritrovati i calcoli della struttura in ferro, mentre per la copertura del locale servizi è stata effettuata una stima in base ai materiali impiegati. E’ stata eseguita un’operazione di stima anche per il solaio compreso tra i cameri-
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Fig. 4 Analisi modale del modo 1.
ni, oggetto di parziale ristrutturazione, e per le strutture del secondo e terzo ordine di palchetti, supponendo un carico permanente pari a 373kg/m2 e un sovraccarico accidentale corrispondete a 400kg/m2, come previsto dalla Tabella 3.1.II della normativa. Metodi di analisi Per la successiva fase di analisi, utilizzando il software Straus7, sono stati inseriti all’interno del modello i carichi agenti sull’edificio e le relative azioni; le forze che sono state applicate hanno preso in considerazione anche i carichi prodotti dagli elementi orizzontali non modellati. Il modello strutturale è stato sottoposto a varie analisi che hanno riguardato il calcolo delle sollecitazioni indotte dai carichi verticali; la determinazione dei modi di vibrare della costruzione e il calcolo degli effetti dell’azione sismica rappresentata dallo spettro di risposta di progetto. Oltre ad inserire i carichi agenti, al modello sono stati applicati anche dei link, elementi che permettono il collegamento rigido tra nodi per impedire gli spostamenti, questi sono stati inseriti a simulazione delle capriate e dei collegamenti che intercorrono tra quest’ultime. Analisi statica lineare La prima analisi condotta ha preso in oggetto i carichi verticali e le varie combinazioni di carico previste dalla normativa; è stato approfondito lo studio della condizione allo Stato Limite Ultimo per analizzare gli stati di sollecitazione indotti da un normale utilizzo dell’edificio, valutando lo stato di tensione in ZZ e gli spostamenti in direzione Z e sul piano orizzontale XY (fig.3). I risultati ottenuti hanno mostrato tensioni accettabili per quanto concerne la resistenza a compressione, presentando risultati inferiori ai valori definiti dalla normativa per la tipologia di materiale impiegato; per quanto riguarda invece lo stato tensionale a trazione sono emersi valori superiori ai limiti di normativa, ma tali tensioni sono concentrate nei punti in cui sono applicate delle forze puntuali e dei vincoli, tali concentrazioni derivano quindi dalla modellazione e non da veri e propri stati di sollecitazione.
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Lisa Parmigiani Fig. 5 Risultati analisi spettrale con combinazione CQC.
Analisi modale L’analisi modale è stata svolta per valutare il comportamento dinamico della struttura, definendo trenta modi di vibrare; questi hanno messo in evidenza le masse partecipanti significative e il loro comportamento in base alle condizioni di vincolo, in questo caso è stato riportato il modo 1 (fig.4). Oltre ad analizzare il modello principale, ne sono stati creati altri due similari ma, in uno sono stati rimosi i link e sono stati presi in considerazione soltanto i carichi agenti sulla struttura, mente nell’altro sono stati valutati gli effetti sia dei link che degli edifici adiacenti. Sviluppare tre tipologie di modelli ha permesso di comprendere meglio gli effetti degli elementi messi in opera e il conseguente comportamento della struttura. Analisi spettrale Ultimo aspetto indagato è quello che riguarda l’analisi spettrale che consiste nell’applicazione dello spettro come forzante ed è la sommatoria dei risultati ottenuti dall’analisi modale, in cui vengono presi in considerazione tutti i modi di vibrare, sia in direzione X che in direzione Y. Lo spettro viene individuato tramite il foglio di calcolo SPETTRI fornito dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Partendo dalle informazioni relative alla microzonazione sismica (Vannini et al.,2015, p.39) sono state inserite le caratteristiche e le condizioni topografiche del suolo, ottenendo lo spettro elastico da utilizzare nell’analisi come accelerazione di ogni modo. Questa analisi ha permesso di valutare alcuni aspetti della struttura, ma i risultati ottenuti (fig.5) non rappresentano una verifica vera e propria in quanto occorrerebbe prendere in considerazione aspetti che durante lo svolgimento di questo lavoro non sono stati approfonditi. Conclusioni Questo studio preliminare ha consentito di verificare quali sono le principali criticità della struttura, mettendo in evidenza gli aspetti da indagare in maniera più approfondita attraverso indagini e valutazioni. Le deformate delle analisi, modale e spettrale, hanno messo in evidenza che le principali vulnerabilità si concentrano nei timpani del volume maggiore, portando a possibili effetti di ribaltamento; per ottenere una corretta valutazione si ritiene necessa-
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rio condurre ulteriori indagini per verificare l’effettiva presenza dei cordoli e il loro reale ammorsamento. Inoltre, al fine di raggiungere un livello di conoscenza più elevato, occorre analizzare in maniera puntuale alcune delle fasi individuate dalla normativa: approfondire l’analisi sui materiali, in quanto le informazioni di cui siamo in possesso sono state dedotte da un’analisi visiva. Dal materiale d’archivio recuperato, risulta necessario approfondire la conoscenza delle caratteristiche meccaniche sia della pietra, sia dei leganti impiegati nella struttura e verificare inoltre la reale capacità legante delle malte. Si ritiene utile anche incrementare la conoscenza della muratura circa la sua messa in opera; aumentare la conoscenza degli elementi verticali e orizzontali, verificando la reale corrispondenza con quanto riportato negli esecutivi dell’ultimo intervento subito dal manufatto; infine dovrebbero essere valutati gli effetti prodotti dagli edifici adiacenti. Bibliografia Garbero Zorzi E., Zangheri L. 1994, Teatro Giuseppe Verdi, E. Garbero Zorzi, L. Zangheri (a cura di), I teatri storici della Toscana. Censimento documentario e architettonico, Marsilio Editori, Firenze, pp. 363-371. Paggetti M. 1990, Relazione tecnica illustrativa e di calcolo, Archivio comunale di Sestino, fondo 1987. Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, 2018, Aggiornamento delle «Norme tecniche per le costruzioni». Renzi G. 1990, Indagine di sfondo nel Comune di Sestino, in V. Dini (a cura di), Luoghi e voci della memoria collettiva, Istituto interregionale di studi e ricerche della Civiltà appenninica, p.30. Romolini G. 1990, Relazione tecnica. Lavori di interventi sugli edifici danneggiati dal sisma del 3 e 6 luglio 1987 nel comune di Sestino, Archivio comunale di Sestino, fondo 1987. Santella L. 1955, Prontuario del cemento armato (XXI edizione), Ulrico Hoepli, Milano. Taini R. 2008, Pilade Cavallini un emblema per il Comune di Sestino, «Sestino informa…e non solo», n. 3, p.17. Vannini F., D’Intinosante V., Fabbroni P., Nencini V., Nistri L. 2015, Microzonazione Sismica. Relazione illustrativa Comune di Sestino.
Pubblicazioni web Masagli M., Pilade Cavallini - Commemorazione del 11/11/2019 presso il Teatro Comunale di Sestino (AR), ‹https://www.youtube.com/watch?v=fHggmrKVJv8&list=PLJ_F7KhVZdXwb31c5CVhYdAxhoh0LXZlv&index=3&t=657s› (03/20).
Abbreviazioni CLE fig., figg. m MS NTC p., pp. PAI
Condizione Limite per l’Emergenza figura | figure metro Microzonazione Sismica Norme Tecniche per le Costruzioni pagina | pagine Piano di Assetto Idrogeologico
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Clara Verazzo Martina Nardis
Between abandonments and reuses. Recovery strategies of disused architectural heritage: from the analysis to the refunctionalization project of the former Santa Maria Asylum of Collemaggio Clara Verazzo
University “G. D’Annunzio” of Chieti-Pescara.
Martina Nardis
University “G. D’Annunzio” of Chieti-Pescara.
Abstract The asylum of Santa Maria di Collemaggio rises in a park of 19 hectares, consisting of 9 independent pavilions, built between 1903 and 1915 according to the project of the engineer Guido Rimini. The complex is part of over 70 mental institutions, built in Italy at the turn of the nineteenth and twentieth centuries, which still represent a unique and significant historical, social and architectural heritage. The old mental hospitals were conceived as small utopian ‘citadels’, microcosms in which the patient felt neither oppressed nor segregated, but rather had the impression of being part of a fragment of a real city. With the enactment of the Basaglia Law, in 1978 the slow process of closing and abandoning these structures began, except for a few cases of reconversion, in which, however, attempts at re-functionalization were not always very sensitive with respect to the social value that always marks these places of pain and segregation. Aware that the preservation of architectural artefacts cannot be separated from its correct re-functionalization, the contribution, starting from the analysis of existing buildings and their state of preservation, proposes some strategies of reuse of spaces, linked to the educational and socio-sanitary value, that the structure has always embodied, since its foundation. Keywords Reuse, preservation, architectural heritage, former Santa Maria Asylum of Collemaggio, L’Aquila
Introduction At the term ‘asylum’, from the Greek mani’a madness and komion hospital, i.e. ospedale de’ matti, scholars have always associated the term ‘peripherality’, alluding to the distance of such complexes respect to the ‘heart of the city’, almost as if the location at due distance or on boundary of the village was in itself a distinguishing character of this type of architecture. Segregation, on the other hand, means keeping away from others, from all those who in nineteenth-century society were not recognized as ‘poor minded’ nor derelict, inclined to give public scandal and to disturb public quiet. This renunciation of social contact had a major impact on the spatial conception of these structures; it was in fact precisely the isolation of the madman that dictat-
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Fig. 1 Floor plans of mental hospitals built in Italy between the 19th and the 20th century (drawing M. Nardis, 2019).
ed both the choice of the site and to dictate the distance between the asylum and city: the more isolated the place was, the more effective the moral treatment of the alienist on the alienated. Even in the case of urban asylums, a secluded position, facing the countryside, was preferred on the edge of the city. In addition, the extension of the surface was one of the prime conditions in the choice of the site; a large area to be covered by dividing patients according to the type and extent of the dis-ease and preparing special spaces for walking and recreation. Other features that were required of a site to be appropriate were the possibility of exposing all the main fronts of the hospital pads to the south, long treelined walks and vast gardens, and of course the possibility of spaced out sufficiently the buildings to facilitate the renewal of the air and provide the sick with a greater amount of light; all that a city of ancient foundation and plant could certainly not offer. Manicomial types in Italy between the 19th and 20th centuries The typology model of reference for the design of asylum structures, built in Italy between the end of the 19th century and the first decades of the 20th century, was not that of a civilian hospital, but that of prison facilities; the prevailing type was that of
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independent pavilions, or connected to each other with covered paths, defined as ‘a village’, characterized by a fence never too closed and high, by a clear separation between the two sexes and be-tween curable and non-curable sick people, by a structuring in isolated buildings, one for each sex and degree or type of madness, connected or not with each other and with administrative buildings , and the presence of large green spaces and for agricultural crops aimed at agrotherapy (fig. 1). These ‘citadels’ were structured according to a rigid symmetrical logic, due to the presence of a central distribution axis, occupied and emphasized by the buildings of the administration and management. Even the complexes originally designed as a closed system or as a ‘corridor’, were later rethought in pavilions. For their proper location there was a need for an isolated and large area, also in anticipation of future expansions. In fact, according to the theories of the most important alienists of the time, proponents together with engineers and architects of the projects of such structures, the external and internal environment of psychiatric hospitals played a particularly important role for the proper therapeutic treatment of patients. Completely absent was the debate on the figurative aspect of such buildings, which presented themselves as simple, cheap constructions, without any kind of decoration, which was considered, definitely, a secondary issue. Very often, these structures were adapted into pre-existing convent structures or in highly articulated and stratified urban building aggregates. A predominant building feature of the complexes of southern Italy, including the Aquilano nosocomio (fig. 2), was the willingness of the public ad-ministrations (and the need of post-unitary Italy) to produce not only homogeneous construction characters, but also a modern plant, adopting a strict symmetrical approach and favoring the formal value. In fact, there are few margins of typological experimentation, in the face of overcrowding and consequent blockade of admissions to the Real House of the Mad people of Aversa, the most famous and crowded nosocomio of the South. The village system is also the design of the Aquilan Institute, where the regular and symmetrical arrangement shows that the principle of physical order, as a means of restoring the mental one of the alienated, is deeply rooted. The history of the southern asylum often results in that of continuous construction sites, with a succession of changes mainly dictated by the exponential growth of the sick, sometimes with the expansion of the complexes, some-times intensifying the building fabric of the original manicomial citadels (Ajroldi, Doti, Lanza, 2008). L’Aquila asylum On a small hill overlooking the castle and the walls of L’Aquila stands, in a park of 19 hectares, the former neuropsychiatric Hospital of Santa Maria di Collemaggio. To the basilica of the same name, a symbol of romanesque architecture in Abruzzo, and to its convent the nosocomique is deeply linked, both for its history and for its close proximity: on the vast square where Viale Collemaggio ends, prospect, promiscuously, both the Church with its imposing facade and the entrance of the asylum. At the end of 1861, the municipality of L’Aquila decided to dedicate to the Provincial Hospice of Mendity the convent of the minors of Collemaggio, which is considered particularly suitable for the purpose both for geographical location and for the size of the premises (Clementi, 1998). At the beginning of 1867, the hospice was opened, and shortly thereafter a first pavilion was built for the shelter of the “Chronic Quiet Dements”. In 1873 a project was presented for the expansion of the Hospice of Mendity to make it
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suitable to accommodate more people. In 1884, the province of L’Aquila was forced to transfer a group of alienated from the psychiatric hospital of Aversa, the largest asylum in southern Italy, which is in extreme conditions of overcrowding, to the nosocomio Sant’Abate of Teramo. In 1896 the provincial administration opposed Aversa’s proposal to create a consortium for the expansion of its complex (so as to solve the problem of overcrowding and also be able to accommodate the sick from L’Aquila) and arranges the hospitalization of a first group of 26 alienated from Teramo to L’Aquila at a section of the Hospice of Mendicity, within which, however, the conditions are critical, especially due to the lack of suitable spaces. As a result, in 1897 it was given the task of drafting a project for an ad hoc structure to the engineer Domenico Ginocchietti, who, as an expert of the provincial office of the city of Perugia, had already in 1866 designed the adaptation to the asylum of the former convent of Santa Maria della Pace. On a large area to the north adjacent to Collemaggio, about 30 hectares, the designer plans to set up a complex for 300 sick people, with the system defined as ‘village’ (fig. 3). In fact, by hybridizing multiple schemes, the technician resorts to a pavilion joint with covered links, set on two orthogonal axes between them: the major oriented in an east-west direction, the minor south-north. Ginocchietti has along the main conductor the pavilions for quiet, lurid, semi-agitated and agitated, up to the contagious, isolated and distant from the other buildings, and places on the minor axis the building of the direction, the kitchen and the necroscopic section. The symmetry marks the separation between the sexes, here conducted to such an extent that a double chapel and a double hydrotherapic room for the male and female sections are provided, thus creating an unusual cross-section of the services (Ginocchietti, 1899). The project, although approved, remains unsoworked due to the high cost of construction, the size too large, but above all the uncertainty about the area in which to build the structure, so that in 1902, the provincial council establishes a scaled-down program for a modern asylum to be built in the adjacent area of the Hospice of Mendity south of the basilica, appointing the chief engineer of the technical office, Guido Rimini. Like other designers, the technician credits his proposals on the basis of the visit of the most important italian congener plants, and taking into account the suggestions of the director of the asylum Gaetano Bellisari. The solution, which involves a symmetrical installation in isolated pavilions with no connecting tunnels, for the settlement of 420 alienated, it is approved in March 1903, but still blocked by the controversy over the
Fig. 2 L’Aquila, Abruzzo. Panoramic view of the complex of the former neuropsychiatric hospital of Collemaggio. Fig. 3 State Archive of L’Aquila, Ginocchietti’s master plan, 1900 (section of the provincial administration, envelope 2508).
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Clara Verazzo Martina Nardis Fig. 4 State Archive of L’Aquila, Rimini’s master plan, 1903 (section of the provincial administration, envelope 2508).
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location of the asylum, an impasse overcome only thanks to the opinion of the psychiatrist Clodomiro Bonfigli who identifies, as the most suitable, the area north of the basilica of Collemaggio, as flat, susceptible to any expansions and isolated both from the square and the hospice. Rimini is therefore forced to adapt the project to the new site by overturning, compared to the Ginocchietti project, the orientation along the south-north direction (fig. 4). In order to facilitate the construction, the technician foresees the ‘gradual’ construction of the plant, which is likely to extend to accommodate 600 patients; the pavilions are arranged symmetrically with respect to a central longitudinal axis, constituting the main artery, from which to access to the direction, kitchen, bathrooms and disinfection. The entrance takes place from the forecourt of Collemaggio through two ramps and all the buildings, for hygienic reasons, are exposed with the main front around noon; the pavilions, divided into male and female departments, are provided equal and symmetrical, two or three floors above ground and without decoration, unlike the building of the management that from the project presents a smooth rusticated in the basal area and in the cantons, frame pad and arched windows with a clear reference to the neo-Renaissance language (Rimini, 1903). In both Ginocchietti’s and Rimini’s projects, there is a sense of the desire to reproduce the effects of a village system; moreover, the construction of isolated pavilions arranged in a large green space well cared for responded to the ‘open door’ mode, in which to convey to the hospitalized the feeling of not being prisoners, but citizens of a fragment of the city. In both projects there is also an area for the agricultural colony,
useful to make the hospital a self-sufficient and even productive citadel, thanks to the sale of its products. Great attention is given to the green: Ginocchietti provided, for the pavilions, rectangular gardens communicating with the largest surrounding park; Rimini, on the other hand, in addition to the gardens for the single buildings, arranges that the whole structure be equipped with a network of paved tree-lined avenues. Even today, the buildings are immersed in a dense lattice of oaks, cedars of Lebanon and the Himalayas, spruces and white trees, lime trees that give hotel to numerous species of birds and forest animals. Although completed in 1915 by successors Giuseppe Tortora and Camillo Tranquilli, the hospital respects, in its architectural configuration, the project of Rimini, which has since become head of the provincial technical office of Perugia. However, a violent earthquake prevented the new premises from taking over, while shortly after the events of the First World War they interrupted the progress of L’Aquila asylum. A turning point was recorded in 1939, with the establishment of the neurological department, wanted by the director Marino Benvenuti, which transforms the asylum into a provincial neuropsychiatric hospital, the second structure in Italy after that of Arezzo, formed in 1926. The positive resonance of this reform puts the L’Aquila institute at the centre of renewed interest from doctors from other facilities. The neurological sections are placed in the premises of the central pavilion, where the radiology cabinet, scientific laboratories and library are also housed. In addition to the new department, a larger kitchen, fertilizer at the agricultural colony and additional workshops are made, evidence of a renewed building fervor that accompanies a positive season in the life of the hospital. On the contrary, the increasing number of hospitalized persons requires, in 1940, the construction of an additional building intended for men and able to accommodate several laboratories (Benvenuti, 1942). The years of the Second World War and the post-war period caused a new interruption in development, with the reduction in the number of sick people and the employment of the premises by the homeless population. From 1950 to 1958, however, there were significant architectural interventions: the support structures – laundry, general kitchens, thermal power plants – were renovated and numerous other departments of diagnostic, therapeutic, welfare, ergotherapeutic and lycotherapeutic type were renovated. With law 180/78, the slow process of de-hospitalization begins and the consequent emptying of the implant, except for one part converted to clinics for the daily psychiatric service. The conditions of abandonment were aggravated by the earthquake of April 6, 2009, which made the complex unusable, bringing its fate together with the nearby basilica, as well as much of the cultural and building heritage of the city. A complex legacy between memory and oblivion The experience of the Italian provincial asylums represents an important heritage in the formation of national identity, a unique testimony of the Italian architectural culture between the nineteenth and twentieth centuries, which reflects across the culture and society of the time. The complex question of the protection and preservation of this heritage, however, has so far not been addressed, nor addressed in all its complexity unless sporadic and rare attempts. This is demonstrated by the conditions of abandonment and degradation of the approximately 80 complexes built on the national territory that have been closed for about 40 years (figg. 5-8). The problem exists and must be addressed urgently as there is a risk of losing an important testimony
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Clara Verazzo Martina Nardis Fig. 5 L’Aquila, former asylum of Collemaggio. Main front of one of the nursing pavilions at present. (photo: Martina Nardis, 2018) Fig. 6 L’Aquila, former asylum of Collemaggio. Main front of one of the pavilions for the quiet sick at present. (photo: Martina Nardis, 2018)
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for the country’s urban, architectural, social, economic and medical-scientific history. The situation seems all the more problematic because it is necessary to evaluate facts that are far from metabolized by the society of our time, which is difficult to recognize the complex values that these places testify to in many and different ways. Provincial psychiatric hospitals, in fact, constitute a still living reality that suffers from the twentieth-century debate on psychiatry and cultivates direct and personal relationships with these places. These are collective testimonies of the country’s recent history and,
Fig. 7 L’Aquila, former asylum of Collemaggio. Abandonment and degradation in one of the corridors of the pavilion for the agitated sick. (photo: Martina Nardis, 2018) Fig. 8 L’Aquila, former asylum of Collemaggio. Abandonment and degradation in one of the hospital room in the nursing pavilion. (photo: Martina Nardis, 2018)
at the same time, the personal memory of many individuals and, as such, concern the most intimate sphere, stimulated by affective and personal values, elusive by definition and prone to forget, or to remember, on an irrational basis. This involves weighing the values that these places have represented, and represent today, by initiating a historical-critical process on scientific and methodological foundations. The mistake to avoid, however, lies in considering the usefulness of these spaces before grasping their meaning through critical-cognitive processing. Studies carried out in recent decades yield significant data on how asylums were closed and how they were carried out. Although protected under the Code of Cultural Heritage and Landscape, many complex asylums have been the subject of vulgar renovations and many are still in a state of abandonment, suspended in the state in which they were at the time of disposal, architecture reduced to the state of ruins that, lost the original form and function, over time have regained a new aesthetic structure even by virtue of a formidable union with the vegetation. Anticipatively absorbed by cities in the wake of urban growth in the 1970s, some asylums that had lost their isolated location were destined for other uses, often for higher education. Implicit in decommissioning, the transfer of ownership from the provinces to the ASL allows the establishment of newly established psychiatric services in the former asylums, so that the medical-psychiatric function continued to connote the identity of many places. In rare cases the property has been sold, while more often, while remaining public, it has been granted in use to other institutions, in many university cases that are well suited to the vast spaces available. In many cases, however, there are serious conditions of total or partial abandonment, and it is not uncommon for cases where demolitions have taken place. In no case has there been an integral preservation that captures the meaning that the asylums represent, complex organisms, composed of immovable but also mobile testimonies, archival testimonies and artistic objects, such as the works of art and literature many times produced within them by the alienated themselves. The theme is therefore internal to the restoration; responding to the higher imperative of conservation and transmission, action should then be taken on a case-by-case basis. It is considered that any intervention is lawful and is admitted if based on scientific knowledge of the artifact and on critical considerations, from the inclusion of new use destinations to the maintenance of the hospital, from the elimination of additions to possible expansions, from philological reconstruction to conservation to ruins. The question of the inclusion of a new use destination is certainly the thorniest, because it conflicts two essential instances: on the one hand continuity of use guarantees maintenance and preservation to historical architecture, on the other the respect of the places that were the scene of a dramatic human experience.
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A re-functionalization hypothesis for Collemaggio Starting from the analysis of existing buildings and their state of preservation, a specific strategy of reuse of spaces, both architectural and open, strongly linked to the educational and socio-health value that the structure has always embodied, since its establishment, taking into account the fact that the preservation of architectural artifacts can’t be separated from its correct re-functionalization. It is believed that, in the specific case of the former Aquilano nosocomio, any use destination that differs from the original one, that is, the socio-health, also provided by the municipal urban plans, would not only lead to a departure from the original project, according to which the complex had to be a small but autonomous community, but above all it would not annie all the values, from the social and naturalistic one, to the historical and architectural one. The hypothesis of re-functionalization is, therefore, to give new life to that same community, profoundly different from the original one, bringing new moral and cultural values, adying the old inpatient pavilions, built between 1903 and 1915 according to the Rimini project, to a residential therapeutic community for minors suffering from psychiatric conditions. These facilities, intermediate between hospitalization and outpatient treatment, welcome children and adolescents suffering from psychiatric conditions in cases of family contexts and ‘unfavorable’ environments. Unlike clinics or health care providers, and in analogy with the old psychiatric hospitals, they are conceived as a ‘frame’, a protected space more disciplined and less chaotic than the family one, where operators (doctors, psychologists, nurses and educators) undertake to help children to re-establish contact with reality, performing a function of liaison and mediation with the outside world; Moreover, the whole environment refers to a familiar dimension. Some environments will be dedicated to research activities and specialist training in child neuropsychiatry. At the same time, a decisive reorganization of the entire park, the green areas to be allocated in part to open-air recreational and therapeutic activities, and the main and secondary routes is necessary. The interventions on building artefacts in particular will concern their safety, given the conditions of degradation and abandonment ten years, after static consolidation, the refurbishment of all external perspectives and the reorganization of the layout in the interior for the placement of the new functions. Conclusion These architectures raise the question of what is necessary to preserve, in order to pass on a memory considered mostly intangible, which seems to transcend mere architectural testimony. Then, for the transmission of historical memory, we should reaffirm the unique and irreplaceable value of material testimony as an authentic and incontrovertible fact, which allows procedures in a concise way to interpret the meaning and, as such, to be preserved. Architecture is the place where historical, artistic, social, technical-scientific and much more materializes. The asylum is then welcomed as a complex and integrated system, at various scales and in various forms, which includes the urban and environmental heritage, the architectural, the artistic, the archival, and the human form.
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VIA SÃO BENTO nel centro storico di São Paulo-Brasile: linee guida per un piano di conservazione delle facciate dei edifici Regina Helena Vieira Santos
Regina Helena. Vieira Santos
Faculdade de Arquitetura e Urbanismo,Universidade de São Paulo
Abstract São Bento Street is located in the hill from the historic center of the city of San Paolo, with a length of 725 meters, between the door of the church of Saint Francis to the door of the church of Saint Benedict, the beginning and the end of this technical path. A path that remained the same since the colonial period, in which trams and cars have already passed on it, currently is a crowded pedestrian street. The facades of the buildings are from different dates from the twentieth century, many of them with an architectural design, although they have not been properly preserved. It is a protected area by specific conservation legislation. As a reference we have adopted the research developed from 2005 to 2008 about the buildings architecture on the São Bento Street. It is noticed that the buildings remain the same, but with poor conservation in many cases. There is a lack of joint action by the State with professionals and architecture faculties to implement a proposal for the recovery, restoration and proper preservation of the facades of this road, which is repeated throughout the city. Keywords São Bento Street; Historic Center of São Paulo; architecture; maintenance and conservation; restoration.
Introduzione Questo articolo tratta di una riflessione sul patrimonio culturale tutelato di San Paolo e sull’inefficacia degli strumenti di gestione urbana ai fini della sua conservazione , così come la mancanza di insegnamento dei progettti di restauro, conservazione e manutenzione pratica nelle facoltà di architettura. A tal fine abbiamo fatto riferimento alla ricerca sviluppata dal 2005 al 2008 con oggetto la Via São Bento (Santos 2008). La Via São Bento è situata nella collina dal centro storico della città di San Paolo , con una lungueza di 725 metri (Lefèvre 1999), tra la porta della chiesa di San Francesco d’Assisi alla porta della chiesa di San Benedetto da Norcia, l’inizio e la fine di questo percorso tecnico. Il percorso, che è rimasto invariato dal periodo coloniale e percorribile da tram e automobili, è oggi una affollata strada pedonale. In particolare, nel 2006 è stato effettuato un inventario delle proprietà site in loco, che consente di compreendere le trasformazioni e le persistenze nel paesaggio urbano di questo frammento del centro storico di San Paolo. Quando fu condotta questa indagine sono state riscontra-
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Fig. 1 Viste della Via São Bento, sopra il lato dispari dei numeri civili, sotto il lato pari dei numeri civili della strada. Disegni realizzatti da Arch. Regina Helena Vieira Santos. FONTE: Santos, 2008.
te alcune difficoltà nel far corrispondere l’attuale numerazione degli edifici con quella precedente. Un’altra sfida è consistita nel determinare la data di costruzione, per cui è stato adottato come riferimento l’anno di emissione dell’atto di completamento dell’edificio da parte del comune. A conclusione della ricerca, è stata fatta una rassegna tecnica, raccontando la storia di questo percorso attraverso i lotti inventariati, basata su tre pilastri: cartografia, legislazione urbana ed iconografia di San Paolo , che li collega ad una periodizzazione. Le basi cartografiche sono importanti per comprendere la struttura del territorio, la legislazione chiarisce la diversità della volumetria e l’iconografia di São Paulo, infine, registra le altezze ed i ritiri degli edifici nel paesaggio urbano. È importante ricordare che il patrimonio culturale a São Paulo è giovane, successivo al secolo XIX, mentre di quello precedente rimane poco, come alcune chiese. L’area è protetta da una serie di norme specifiche a tutela della conservazione del patrimonio architettonico, delle quali la più completa è la risoluzione 37/92 del Consiglio Comunale per la Conservazione del Patrimonio Storico, Culturale e Ambientale della Città di San Paolo (CONPRESP). Tale risoluzione è molto chiara e dettagliata. In particolare, l’Articolo 4 cita: «i progetti per gli edifici da sottoporre a ripristino, riuso e adeguamento funzionale devono essere preventivamente approvati dal CONPRESP». C’è un elenco degli edifici che indica il livello di protezione garantito per ciascun immobile. Si parte da quello di “eccezionale interesse”, per il quale è prevista la piena conservazione (NP-1) ma che costituisce la minoranza dell’esistente; “di grande interesse”, a cui viene garantita la conservazione dei caratteristiche esterne e degli elementi interni (NP-2), anche questi costituenti una minoranza; oppure “d’interesse”, per i quali vengono tutelate le caratteristiche esterne (NP-3) e che costituiscono la maggioranza degli immobili esistenti; o ancora definire l’area dell’inviluppo (NP-4) con controllo volumetrico. Queste sigle compaiono lungo l’intero testo legislativo per riconoscere facilmente quale tutela specifica è riservata a ciascun edificio. La cartografia catastale del XIX e XX secolo è stata studiata per la lettura dei lotti distribuiti lungo la Via Sao Bento. Di seguito è riportato il piano catastale del 2006 del Comune di San Paolo con SQL (Settore/Quartiere, Isolato, Lotto) basato sull’aerofotogrammetria del 2003, con numerazione e proprietà vincolate evidenziate in giallo (Fig. 1). Di seguito viene pubblicata la tabella con l’analisi quantitativa dei lotti esistenti sulle basi selezionate (Tab. 1). Per la comprensione di questo testo ocorre chiarire prelinarmente alcune parole chiave che tradotte dal portoghese all’italiano possono cambiare significato. Secondo il Dizionario del restauro (Giannini 2010), in italiano:
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Regina Helena. Vieira Santos Tab. 1 La colonna ANO si riferisce alla base cartografica catastale. Le altre colonne si riferiscono al numero di lotti in ciascun isolato della strada, l’ultimo è il totale dei lotti esistenti nella base della Via São Bento in ciascun anno indicato. Fonte: Santos, 2008 p.74.
• Conservazione: atto responsabile che comprende l’insieme delle misure e degli interventi programmati e mirati a mantenere integra la condizione fisiologica contestuale dei materiali costituenti il manufatto artistico monitorandone il naturale declino. • Manutenzione: complesso di operazioni destinate ad assecondare le capacità di durata intrinnseche a un manufatto artistico e intese a evitare interventi stressanti. È una forma di attenzione conservativa costante che tiene conto anche dell’ambiente nel quale l’oggetto è collocato. Comprende puliture periodiche (anche semplici spolverature, o passaggi di cera nel caso dell’ebanisteria, desinfestazioni da piante e organismi vegetali nei siti archeologici), verniciature, anche ridipinture leggere soprattutto nel caso delle tempere antiche e delle sculture lignee policrome. • Preservare: termine impiegato anche come sinonimo di conservazione, che allude più specificamente all’impiego di mezzi tesi a minimizzare il degrado di un manufatto o di un monumento in relazione all’ambiente e al passare del tempo. In Brasile, quando si parla di conservazione, purtropo non si intende mantenere intatto il contesto fisico del materiale e le caratteristiche architettoniche di ogni edificio che non sono sempre preservate nei lavori di manutenzione, che, peraltro, non tendono sempre a eliminare il degrado dell’immobile. A volte, l’edificio è in buone condizioni, ma non è preservato, in quanto non ha mantenuto le caratteristiche architettoniche originali. Ecco perché il termine “preservare” si discosta dal concetto di “conservare”, quindi queste sono le differenze concettuali utilizzate nel testo che segue. La promenade sulla via São Bento Percorrendo la Via São Bento (la promenade) dal Largo São Francisco, si incontrano le chiese di San Francesco d’Assisi del primo e terzo ordine che reppresentano gli edifici più antichi della città realizzati con tecnica pisè. La costruzione di entrambe le chiese fu iniziata nel 1644 e conclusa nel 1647. Una volta lasciato il portico della Chiesa di San Francisco e attraversata la via Benjamin Constant, sulla destra si trova la Piazza Paulo Duarte, con la ventilazione della metropolitana, a sinistra invece un lotto alberato di ex-proprietà del Jockey Club di San Paolo, adibito a parcheggio. Lungo la via Jose Bonifacio, sulla sinistra, all’angolo, si trova l’Edificio Ouvidor del 1941, progettato in Art déco dall’architetto Alfredo Mathias, adibito ad uffici e classificato NP-4. In questo isolato mentre era fatta la ricerca, fu stabilito la Legge Cidade Limpa (Lei no. 14.223/06) che regola la pubblicità, sono state liberate da brutti pannelli publicitari, le facciate eclettiche degli edifici numerati 67, 73, 75, 81, 83 dal 1910, nonché il fabbricato del 1908 identificato dai numeri 87-103, progettato di Augusto Fried. All’angolo con la Piazza Pa-
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Fig. 2 Dettaglio nell’area di studio del Piano catastale 2006 del Comune di San Paolo con SQL – Settore (Quartieri) / Isolato / Lotto basato sull’indagine fotogrammetrica aerea del 2003. Questo mappa mostra la Via São Bento con la numerazioni degli edifici atuale, ci sono 68 lotti. Le proprietà vincolate sono evidenziate in giallo. Fonte: Santos, 2008 p.68.
triarca, si trova un edificio Art déco di tre piani del 1942, che nei decenni del 1950-1960 è stato sede del negozio di abbigliamento da uomo A Exposição, della catena Magazines Clipper. Precedentemente, sullo stesso lotto, sorgeva il primo edificio in cemento armato costruito in Brasile, nel 1908, con tre piani per i locali commerciali, progettato dall’architetto Francesco Nataroberto. Tutte le proprietà elencate sono vincolate e classificate come NP-3. Nonostante presentino qualche danno è possibile recuperarle. Tornando a la vecchia Via Jogo da Bola, sul marciapiede di destra, c’era il vecchio palazzo di Brigadeiro Luis Antonio e poi di suo figlio, il Barone de Souza Queiroz, che ha dato spazio al palazzo eclettico con tre piani, del 1908, progettato di Maximilian Hehl (autore anche del Duomo di San Paolo), con rivestimento in pietra artificiale probabilmente a base di calce. L’edificio commerciale è ben mantenuto, con qualche danno, ma necessita di un restauro. In questo isolato, all’angolo di Via Direita sorgeva il palazzo della Signora Gertrude Galvão d’Oliveira Lacerda Jordão che nel 1846 diede un ballo in onore del Conte D’Eu e dell’imperatrice Teresa Cristina, che si trovavano in visita in città (Barbuy 2006). L’edificio fu dato in affitto, nel 1850, all’Hotel Quatro Nações ed in seguito all’Hotel d’Italia, e nel 1870 sarebbe stato il Grande Hotel di Francia, come nell’immagine deal 1911. Dopo il succedersi di molti proprietari, nonostante alcuni sforzi per la conservazione dell’edificio, nel 1912 è stato demolito. I proprietari della struttura hanno presentato il progetto di José Rossi di un nuovo edificio commerciale con seminterrato, piano terra, ammezzato, primo e secondo. Poi, nel 1940, l’edificio è stato demolito per lasciare spazio alla costruzione di uno nuovo, con piano terra, seminterrato e piano superiore, che oggi accoglie il negozio di abbigliamento Marisa. Quest’ultimo è ben tenuto e non è soggetto a tutela.
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Per allineare la Via Direita ed aprire la nuova piazza, il palazzo del Barão de Tatuí (Segawa 2000) fu demolito dopo a causa della controversa costruzione del primo Viaduto do Chá sulla Valle dell’Anhangabaú, creazione del litografo Jules Martin e inaugurato nel 1892 per raggiiungere la nuova città. I lavori per l’apertura della piazza Patriarca ebbero inizio nel 1913 ed essa venne inaugurata nel 1924. Nel lotto adiacente alla Piazza con grande visibilità del viadotto, si trova il palazzo di Barão de Iguape, nome del moderno edificio inaugurato nel 1956, rivestito di pelle di vetro, con trentadue piani, tre interrati ed un eliporto sul tetto, progettato da Jaques Pillon, Giancarlo Gasperini e Jeronimo Bonilha Esteves. Questo lotto ospitava l’edificio disegnato dall’ufficio di Ramos de Azevedo rivestito di pietra artificiale nel 1910, con un piano terra, dove è stato occupato dal centro commerciale Mappin & Webb, un magazzino, cinque piani e d un attico, noto come la “seconda casa del Barão de Iguape” in cui nel 1911 fu fondato l’Hotel and Rotisserie Sportsman. Mappin Stores fu fondata nel 1913 a São Paulo. Dopo 1919 il negozio hotel Sportsmann ha cambiato suo indirizzo e Mappin occupò completamente questo edificio, rimanendo fino al 1939, quando si trasferì nel nuovo edificio di fronte al Teatro Municipale. Attualmente gli spazi sono occupati dagli uffici delle Banche Itaú-Unibanco. Il suo stato di conservazione è eccellente e ha vincolo NP-3. Precedentemente questo lotto ospitava la casa dal Barão de Iguape costruita su due piani con tecnica “pisé” rivestita di calce. Con l’apertura della piazza, nel lotto vicino e di fronte alla chiesa di Sant’Antonio di Padova, fu realizzata la fabbrica di birra Cervejaria Stadt Bern alla fine del 1870. Oggi, invece, si trova un insieme architettonico del 1920, disegnato dall’ufficio di Ramos de Azevedo ed edificato dal costruttore Siciliano & Silva. In stile eclettico, con struttura in cemento armato e mattoni, rivestito con pietra artificiale, si estende dalla via São Bento alla vecchia Via San Jose. Al centro dell’isolato ve è l’edificio demominato Casa Lutétia, recentemente restaurato. All’angolo di via Sao Bento, si trova l’Edificio Patriarca, destinato ad uffici e negozi al piano terra. Lo stato di conservazione di quest’ultimo è ragionevole, dal momento che la pietra artificiale è protetta da una pittura con colori casuali. Il vincolo è NP-2. Vicino, c’è l’antica residenza di Elias Chaves, che risale al 1885, un esempio dell’élite del caffè di San Paolo, progettata dall’architetto italiano Claudio Rossi, con caratteristiche neoclassiche e costruito in muratura di mattoni. Ha piano terra più due piani, i serramenti sono in legno e all’interno presenta interessanti dettagli costruttivi dei soffitti, del pavimento e delle scale. Quando Elias Chaves si trasferì nella sua villa in zona Champs-Elysées, questa struttura ospitava gli uffici del Prado e Chaves & Cia. Questa proprietà è l’unica vinculata dal Consiglio di interesse Storico, Artistico, Architettonico e del Turismo (CONDEPHAAT) dello Stato di San Paolo dal 1976, con una tutela completa. Attualmente ci sono due negozi al piano terra, l’accesso ai piani superiori è chiuso, e lo stato di conservazione della facciata è buono. L’edificio successivo è eclettico, possibilmente degli ani ‘20, con tre piani, costruito in muratura di mattoni, il rivestimento è probabilmente pietra artificiale, ma è attualmente dipinto di vernice gialla. Ha protezione NP-2, è in mediocre stato di conservazione ai piani superiori e degradato al piano terra , dove ospita botteghe commerciali. Più avanti c’è il vecchio Cinema São Bento, datato al 1927, in stile eclettico. Si sviluppa su un unico livello, è realizzato in muratura di mattoni rivestite con piastrelle di argila (probabilmente il rivestimento originale era malta di calce, così la copertura era con tegole di argilla), è attualmente diviso in tre negozi; lo stato di conservazione è scarso, con vincolo NP-3. Rompe la volumetria di questo isolato, il lotto con due ingressi numeri 279 e 283, (che si
afaccia anche sulla Via Libero Badaró), si riferisce all’Edificio Lamia, datato al 1955, progettato dall’architetto Gregori Warchavchik. Esso ha tredici piani standard (e la casa del bidello sul tetto), sfalsati dal settimo piano solo sulla facciata di via Sao Bento. Le facciate avanzano sull’allineamento per entrambi le strade, l’originale rivestimento esterno è costituito da piccole piastrelle di ceramica colorate crema e una tonalità di verde muschio, tuttavia in seguito lavori di manutenzione nel corso di questo studio, le facciate sono state ridipinte con vernice strutturata in due tonalità di giallo. Quest’edificio non è ancora vincolato. L’edificio adiacente è classificato NP-2, mantiene le caratteristiche originali, ma è mal gestito. Progettato dall’architetto Hermond Colpard nel 1916, è un edificio eclettico a tre piani, con finestre sormontate da archi ribassati al primo piano e a turro sesto al secondo, balconi con ringhiera balaustra nella sezione centrale, e rivestimento originale probabilmente in malta di calce. A chiudere questo isolato, all’angolo con Beco da Lapa, c’era un tempo il Grande Hotel, di costruzione eclettica del 1877 , su progetto del tedesco Hermann Von Puttkamer. In seguito alla sua demolizione, troviamo oggi la Galleria Prefeito Firminiano Pinto, del 1957, con un piano seminterrato per Via Miguel Couto, piano terra, un magazzino e d altre due piani su via São Bento, come volume sporgente . È ben conservato e non è vincolato. Indietro, al lato dei numeri civici pari, all’angolo tra via São Bento e via Quitanda, si trova l’edificio eclettico di sei piani più attico del 1924, il qualle dal 1895 fino a poco tempo fa ospitò il negozio Casa Fretin. Sotto protezione NP-2, è in buono stato di conservazione, con facciata rivestita di pietra artificiale. Al centro di questo isolato le proprietà sono più o meno ben conservate, sotto vincolo NP-3, presentano qualche degrado recuperabile, come ad esempio nel mosaico portoghese presente su una facciata. Il primo Edificio São Bento ha cinque piani e la casa del bidello sul tetto, con la facciata eclettica datata 1926. L’edificio Ana Maria Nogueira dal 1938, anch’esso eclettico, ha cinque piani con la casa del portieri posta al primo piano. Il successivo edificio di cinque piani è del 1944. I successivi tre edifici sono anch’essi eclettici e hanno piano terra più un piano: il primo dal 1938, il terzo ha la facciata datata al 1922, entrambi ad uso commerciale. Continuando, c’è un insieme eclettico di due edifici, con quattro piani, costruiti nel 1907, su progetto di Jorge Krug. Ognuno ha un’asse centrale con finestre ad arco, mentre nelle finestre laterali gli architravi sono rettilinei. Il coronamento evidenzia le due sezioni centrali con arco e decorazioni. Fu in corrispondenza di questo indirizzo che inizialmente si trovaca la Botica Veado D’Ouro. Il vecchio Pallazzo della Famiglia Crespi degli anni 1920, il cosiddetto Edificio York, in stile eclettico, si afaccia anche su Via Alvares Penteado e presenta un seminterrato, un piano terra, due piani di mezzanino e ulteriori sei piani. Con un’altezza di 29 metri, è stato uno dei primi grattacieli di San Paolo; il rivestimento originale nella base è pietra e negli piani superiori sono rivestiti di pietra artificiale; sotto vincolo NP-2, conserva le sue caratteristiche originali e il suo stato di conservazione è buono. Alla fine di questo isolato si trova l’edificio INDULSEG con piano terra soppalco, dieci piani standard, più tre sfalsati e la casa del portieri sul tetto. La facciata è in Art-déco, ha destinazione commerciale al piano terra, mentre agli altri piani ospita una scuola superiore. Quando l’edificio è stato recuperato, nonostante sia sotto vincolo NP-3, ha subito un intervento improprio che ha alterato la facciata del piano terra. Il Largo del Caffè è un bello spazio confinante con Via São Bento, all’incontro delle strade Via Alvares Penteado e Via del Commercio, quasi di fronte al Vico da Lapa, nome originale della vecchia traversa Grand Hotel, attualmente Via Miguel Couto. È ancora
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esistente l’edificio che ospitava la succursale del Grand Hotel, costruito nel 1907, progettato da Oscar Kleinschmidt, con tre piani e attico, rivestito originalmente di pietra artificiale. Si trova sotto vincolo NP-2 è ben conservato, malgrado qualche piccolo danneggiamento . Vi è poi un edificio eclettico di due piani, datato al 1936, l’unico non vincolato. Più avanti si trova la sede dell’antica Banca São Paulo, in stile Art déco dal 1939, attualmente ospita il Dipartimento di Stato di Gioventù, Sport e Ricreazione e si affaccia anche sulla Via XV de Novembro. L’Edificio è stato progettato dall’architetto Álvaro Botelho, con struttura in cemento armato e muratura di mattoni, rivestito di pietra artificiale. Ha tredici piani, dal sesto in poi gradualmente arretrati . Classificato NP-2, è ben preservato e ben conservato . Chiude questo blocco l’edificio H. Lara, di ventiquattro piani, sfalsati dall’undicesimo. È ben tenuto ma non è vincolato. Proseguendo, il lato dei numeri civili dispari, l’edificio Alvares Penteado, in stile Art déco, inaugurato nel 1940, con tredici piani di uffici e sul tetto la casa del portiere; ha piani laterali sfalsati a partire dall’undicesimo, è rivestito di pietra artificiale. Nel mezzo dell’isolato, con l’ingresso principale su Via São Bento, si trova l’edificio Gerbur, datato al 1968, con piano terra e soppalco e i restanti venti piani con rientranze laterali e facciate sulla via Líbero Badaró. Questo indirizzo ospitò l’Hotel Sportsmann. Questi edifici sono ben tenuti e non sono vincolati. Quasi all’angolo è il Condomínio Edificio Sant’Ana, con nove piani (oltre la casa del bidello), gradualmente arretrati dal sesto piano in poi, sulla facciata rivestita in pietra artificiale è presente l’epigrafe dei responsabili della progettazione e della costruzione: Eng & Construction Siciliano & Silva. Il proprietario Signora Stela Penteado nel 1930 ha chiesto l’emissione dell’atto di completamento di questo edificio eclettico da parte del comune. L’edificio, nei primi decenni del ventesimo secolo, ospitava la Cia Mogiana de Estrada de Ferro. Oggi è ben conservato, con vincolo NP-3, ed è adibito ad uffici. A chiudere questo isolato è l’edificio Prédio Martinelli (Homem 1984). In questo angolo c’era un edificio a due piani che ospitava l’Hotel Italia Brasil e poi il Café Brandão, che fu demolito e d unificato con altri lotti per la costruzione di questo edificio. Studi preliminari sono stati condotti nel 1923, con solo dodici piani, dall’ingegnere architetto William Fillinger. Tuttavia, il cosidetto “padre dei grattacieli” (Toledo 1981), costruito in cemento armato, è stato inaugurato nel 1929. Un edificio eclettico di trenta piani, ventisei piani standart e tre livelli di accesso: su via São Bento, al terzo piano; su via São João, al secondo piano; e sulla via Libero Badaró, al primo piano. L’edificio ha anche un piano seminterrato e terrazza sommitale, dove si trova il pallazzo che era di proprietà del conte Matarazzo. Ha rappresentato la costruzione più alta del mondo, con 105 metri di altezza sulla via São Bento, ralizzata su un lotto con 2000 m2, con area edificata di 46.123 m2, 1.057 gradini e 2.133 finestre. Il programma architettonico era piuttosto complesso, con ristoranti, cinema, uffici, negozi al piano terra, ecc. Nel 1930, li funzionava l’Hotel São Bento ed il Cine Rosario. Nei primi anni degli anni ’70, l’edificio Martinelli andò in rovina e fu invaso da senzatetto. Nel 1976, il sindaco Olavo Setubal, con l’Empresa Municipal de Urbanização (EMURB), affrontò la sfida dell’espropriazione e dei lavori di restauro dell’edificio. Riaperto nel 1979, il piano terra venne adibito a locali commerciali e di servizio, e sugli altri piani venne occupato da diversi dipartimenti del municipio. Classificato NP-2, il suo stato attuale di conservazione è buono, il rivestimento delle facciate principali è in pietra artificiale (Fig.3). La Piazza Antonio Prado, nacque dalla congiunzione dell‘estensione del Viale São João ed il riallineamento della Via XV de Novembro; dove prima si trovava il Largo do Ro-
sario e l’omonima chiesa (Santos 2016). Sono stati effettuati espropri per l’esecuzione dei lavori, come la pasticceria Castelões e d alcuni altri edifici vicini. Al livello più alto del vecchio centro c’è l’ Edificio Altino Arantes, che aperto nel 1947, si sviluppa su trentacinque piani, 161 metri di altezza, e rivestito con piccoli piastrele ceramiche bianca, ed era conosciuto come l’Empire State di São Paulo. Nella piazza vi è l’orologio “Da Nichile”, donata al Comune nel 1935, che rappresenta un arredo urbano che compone il paesaggio. Per la costruzione dell’edificio della Banca del Brasile, alcuni lotti furono unificati all’inizio del isolato successivo. Edificio Art déco, fu inaugurato nel 1955, il piano terra è alla quota della via São Bento, con tre seminterrati, ventidue piani, sfalsati dall’undicesimo, con 143 metri di altezza. Il rivestimento esterno è costituito da piccole piastrelle di ceramica. L’edificio è ben conservato ed è vincolato NP-2. Si staglia in maniera imponente nel paesaggio, dialoga con l’edificio Martinelli dall’altro lato del viale e completa un triangolo visivo con l’Edificio Altino Arantes. Al centro di questo isolato, dov’era la Casa Fuchs, si trova adesso, invece, l’edificio progettato nel 1935 dall’architetto Rino Levi: un esempio di architettura moderna, con elementi orizzontali sulla facciata che svolgono anche la funzione di brise soleil. Ha tredici piani, dal quarto piano in poi gradualmente arretrati. Si affacia anche sulla Via Libero Badaró, ed ospita la Segreteria di Stato per gli Affari di Sicurezza. Non vincolato, rivestito di piccole piastrelle ceramiche, oggi è l’edificio meglio conservato che quando è stata condotta questa ricerca. L’ultimo lotto che occupa questo lato della strada è il Condomínio Edifício de Galerias São Bento, anch’esse affacciato sulla Via Libero Badaró, del 1969, con cinque piani commerciali e quindici piani di uffici, è stato relizzato al centro del lotto con arretramento uniforme sulle due strade, costruito con cemento armato e rivestito con cemento a faccia vista. Sulla terza facciata cieca, di fronte al Largo São Bento, ci sono i murales da Mauricio Nogueira Lima. Tornando dov’era l’antica chiesa del Rosario ora si trova, invece, la costruzione dell’Edifício da Bolsa Mercantil & Futuro (BM&F), con tredici piani, quattro dei quali sottorranei. Con vincolo NP-3 è un edificio ben conservato, però la facciata originale probabilmente di pietra artificiale si trova oggi dipinta con vernice griggia. Nel lotto che fa angolo con Piazza Antonio Prado c’è l’edificio DILAN dal 1951, con pilastri al piano terra e diciassette piani e la casa del portieri sul tetto; dal nono piano in poi i piani sono gradualmente arretrati. È stato costruito dov’era l’edificio Martinico Prado, e prima anco-
Fig. 3 Vista della Via São Bento, 1863, in questa foto a destra il palazzo era di Brigadeiro Luis Antonio e dopo di suo figlio il Barão de Souza Queiroz. Foto di Militão de Augusto Azevedo. In mezzo, la via São Bento nel 2014, nello stesso lotto a destra il nuovo palazzo dal 1908 della famiglia Souza Queiroz progettato da Maximiliano Hehl. Foto dell’autore nel 2014.
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Regina Helena. Vieira Santos Fig. 4 Vista dall’angolo dele strade di São Bento e São João, intorno al 1915 con il Café Brandão, a metà del XX secolo, e nel 2007 con il Prédio Martinelli. Fonte: http://sampahistorica. wordpress.com/tag/cafebrandao/ (accessibile in 03-lug.-2014); collezione privata di Sebastião Vieira, dal negozio RAVIL; e Santos, 2008.
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ra una casa. L’unica copia eclettica di questo isolato, del 1906, fu costruita da JJ Ferreira. Ha tre piani con spazi commerciali. Lì ha operato a metà del XX secolo uno dei caseifici tradizionali di San Paolo, Leiteria Pereira, di proprietà di Nicola Sole Ares. La facciatta originale probabilmente era di malta di calce rivestita con vernice minerale, ma oggi si presenta con vernice al lattice colorata. Senza vincolo legale di conservazione, lo stato di manutenzione è buono, anche se potrebbe essere migliore. All’angolo con via Boa Vista, si trova la stazione della metropolitana São Bento. La costruzione ospita spazi commerciali, con ristoranti e negozi, come il tradizionale Café Girondino, che prima si trovava nella Piazza della Sé. In questo lotto c’era, secondo una foto dal 1862, la Grande Agenzia (sic) per il commercio agricolo, una proprietà al piano terra, probabilmente costruita di taipa de pilão (pisè). Più tardi, intorno al 1890 e nel 1902, l’iconografia presenta a quell’indirizzo un nuovo edificio, in muratura di mattoni, con tre piani, rivestito probabilmente con malta di calce, che ospitava il Grand Hotel Paulista. Al piano di sotto c’erano negozi commerciali, la Casa d’Oeste, che poi ha datto spazio alla Pharmacia São José. I documenti iconografici del Largo São Bento in tempi diversi, concentrandosi sulla Chiesa di San Francesco allineato sull’asse centrale della strada, ci raccontano di molte trasformazioni. Nell’immagine del 1862 (Fig.4), vediamo diversi tilbury (veicolo scoperto, con due ruote e due posti, trainato da un solo animale, creato da Gregor Tilbury in Inghilterra nel 1818) in giro, nonché la Casa de Banhos da Sereia, l’Hotel D’Oeste e la Grande Agenzia, che si estendevano solo al piano terra. Sullo sfondo, appare la torre della chiesa do Rosario. Intorno al 1890, può essere notata sulla destra una proprietà estesa al solo piano terra, ma a sinistra su tre piani. Nell’immagine dal 1902, gli edifici sono a tre piani, tutti eclettici, ed ospitavano lo stabilimento da Sereia, poi diventato l’Hotel Rebecchino. Nei registri degli anni 1920 e 1940, si nota sullo sfondo l’edificio Martinelli, un altro in costruzione e un’altro già completato. Si notano auto e binari del tram. Nel 2007, l’immagine indica diversi cambiamenti nel panorama attuale, tra cui il lotto a destra dov’era la Casa da Sereia, ma adesso senza nessuna costruzione. Attraversando la via Boa Vista, abbiamo l’insieme architettonico eclettico indirizzato al Largo São Bento, realizzato tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, con bassa volumetria. Probabilmente al piano terra c’erano botteghe e al piano superiore era residenze, ora ci sono solo negozi . Sono stati costruiti in muratura di matoni, con travi e colonne in ferro. Queste proprietà, hanno tutti vincolo NP-3, sebbene in adequato stato di manutenzione, non sono state conservate con tecniche appropriate.
Dall’altra parte del Largo São Bento, c’era l’edificio dove lavoravano i dipendenti della Companhia Paulista de Estradas de Ferro, costruito nel 1886 e demolito nel 1932. Questo lotto nel 1939/40 fu oggetto del progetto dell’architetto Rino Levi, per un insieme commerciale e residenciale dell’IAPI (Istituto di Pensione degli Industriali), poi non eseguito. Oggi questa zona appartiene alla metropolitana e ospita una scultura, senza titolo, dell’artista Caciporé Torres . Infine, arriviamo alla chiesa di San Benedetto da Norcia . Il relativo monastero fu fondato nel 1598, nel luogo in cui probabilmente si trovava l’antico villaggio dal cacique Tibiriçá. La prima chiesa, costruita di taipa de pilão (pisè), fu completata nel 1600. L’attuale edificio della chiesa di São Bento, progettato dall’architetto tedesco Richard Berndl nel 1911, è stato completato nel 1914, rivestito in pietra artificiale. Il percorso è breve. Tuttavia, ci sono state così tante trasformazioni che sembra più ampio . Ora che conosciamo gli edifici di via São Bento e d il loro rispettivo stato di conservazione, sono possibili fare alcune riflessioni.
Fig. 5 I documenti iconografici dal Largo São Bento in tempi diversi, concentrandosi sulla Chiesa di São Francisco allineato sull’asse centrale della strada, raccontaci molte trasformazioni. 1862, 1887, 1902, 1928, 1940c. e del 2007. Fonte: Santos, 2008.
Considerazioni finali Sebbene gli edifici siano mantenuto, e non ci siano edifici abbandonati o inutilizzati, ciò non significa ch’essi siano preservati. Al contrario, di regola, la manutenzione è stata effettuata in maniera inappropriata . Si osserva come molti di essi, eppur privi di tutela legale circa la loro conservazione, risultano in migliore stato di conservazione e maggiormente utilizzati, a differenza di quelli vincolati e tutelati dalla legge. Secondo la legislazione in vigore, le riforme, in particolare quelle che coinvolgono la facciata, in genere non hanno sollecitazioni nel Comune, rendendo la proprietà irregolare. Poiché i controlli sono rari e la conoscenza della materia è scarsa, le ispezione e le multe solo elargite solo in caso di denuncia. Così accade di perdere le caratteristiche architettoniche originali che dovevano, invece, essere preservate. Pochi hanno usufruito di vantaggio legali, come la legge sulle facciate della fine degli anni 1990 (Lei no. 12.350/97). Fondamentale per il trattamento dele facciate è conoscere il materiale di rivestimento e la técnica costruttiva degli edifici. Quindi, proseguendo la ricerca, è stato notato che i ti-
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pi di rivestimenti trovati negli edifici di Via São Bento si ripetono in città, aggiungendo le tecniche costruttive utilizzato nel periodo coloniale e imperiale, c’è il seguente elenco:
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1. Pietra e calce (tecnica) – pittura con calce (rivestimento) 2. Pisè (tecnica) – pittura con calce (rivestimento) 3. Rivestimento di malta di calce – pittura con vernice minerale 4. Rivestimento di malta raschiata o Pietra Artificiale – è necessario prevalere un campione per vedere la composizione prima di effetuare qualsiasi intervento 5. Rivestimento di piastrele ceramiche a mosaico 6. Rivestimento di pelle di vetro 7. Rivestimento di cemento faccia a vista
Dei materiali, il ferro è spesso usato sul balcone e per finestre e porte predomina l’uso di legno e vetro. Tra i sessantotto lotti ce n’è solo uno con protezione NP-1, che è parzialmente utilizzato; la maggior parte ha vincolo NP-2, il resto NP-3 ed NP-4. Per quanto riguarda l’attuale stato di conservazione dei fabbricati, nonostante vengono utilizzati per attività di servizi e/o attività commerciali, principalmente al piano terra della strada vengono tratati di modo inappropriate, esso non corrisponde alle tecniche costruttive originarie, a causa dell’adozione di tecniche inadeguate durante gli interventi di recupero. Quindi è importante sviluppare linee guida per un piano di conservazione delle facciate dei edifici come una proposta di un manuale o un opusculo per i commercianti e proprietari fare le giuste procedure di manutenzione e conservazione delle facciate. Sottolineo qui, che non può parlare di ‘malafede’ o ‘dolo’ da parte dei proprietari, ma per la maggior parte dei casi sembra che ci sia una carenza di informazione, ovvero una mancata conoscenza delle adequate tecniche di intervento. C’è un’assenza dello Stato (come istituto di protezione) per prescrivere, spiegare, suggerire i modi corretti per eseguire interventi di manutenzione su beni privati vincolati, di interesse per la comunità. Esistono alcuni incentivi finanziari e/o fiscali, così come gli strumenti urbani nella città di São Paulo, quali la cessione di cubatura, ma sono inefficace. Ancora oggi manca, purtroppo, l’impegno a promuovere nelle scuole la conoscenza, l’identificazione e il conseguente apprezzamento del patrimonio culturale da parte della società.
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La gestione del territorio e il problema della conservazione dei centri storici e del paesaggio Uso, vita, economia, rispetto della cultura locale e prospettive
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Edilizia storica romana: Cartografia dei danni in scala MCS causati dai terremoti storici. Strumento critico per la valutazione della vulnerabilità sismica Lorenzo Fei Lorenzo Fei Federica Angelucci Antonio Pugliano
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre.
Federica Angelucci
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre.
Antonio Pugliano
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre.
Abstract The following documents the progress of a project recently funded by the Università Roma Tre in the context of the University’s Extraordinary Research Development Plan-Project: CALL4IDEAS, that the Department of Architecture is conducting in order to produce a Dynamic Atlas ICT: a geographic information system (GIS) on Rome useful for documentation, the enhancement of the ‘historic urban landscape’ and the characterization of construction, of archaeological and geological substrates, contributing to the fruition and safety of the city by laying the cognitive premises useful for the prevention of hydrogeological and seismic risk. This paper presents a mapping of the failures that have been caused to the city by historical earthquakes: a preliminary tool for assessing the seismic vulnerability of entire urban sectors. Representing earthquakes as a driving force for scientific evolution and refinement of construction techniques, special attention is paid to roofing structures: their study allows to recognize, enhancing them, the structural character and the incidence in terms of performance of formal and constructive peculiarities with the aim of using these techniques, although optimized, in restoration interventions with philological matrix. Keywords Historiography, earthquake, MCS, fruition, heritage
Premessa (A.P., F.A., L.F.) È un dato acquisito che la sismicità di Roma sia modesta sebbene non trascurabile; eventi relativamente gravi, riferibili al VII grado MCS, si sono verificati circa ogni cinquecento anni e anche risentimenti con danni più leggeri (≤VI grado) negli ultimi cinque secoli si sono verificati circa ogni cento anni. Gli edifici del centro storico di Roma sono però segnati da una stratificazione millenaria, frutto di molteplici mutazioni diacroniche non sempre rispettose dell’organismo edilizio nella sua totalità, trattandosi spesso di iniziative singole e spregiudicate nel modificarne le compagini strutturali. Se si considerano anche la vetustà e la frequente assenza di manutenzione, il patrimonio edilizio romano presenta ancora oggi caratteri di elevata vulnerabilità.
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Fig. 1 Sopra: L’Atlante Dinamico DynASK applicato alla produzione del Manuale Digitale del Recupero delle coperture a tetto ligneo romane. Analogie tipologiche e conseguenti mutazioni del medesimo prototipo, osservabili dal confronto delle strutture di copertura delle navate delle Basiliche di San Pietro in Vincoli (rilievo: A. Pugliano), nella fisionomia della seconda metà XV, e di Santa Maria Maggiore (rilievo: L. Fei, 2019), nella fisionomia mutata già in occasione della ricomposizione per il Giubileo del 1725 e a seguito dei restauri del Novecento (restituzione grafica L. Fei, 2020). Centro: Il contributo alla cultura della progettazione del dettaglio costruttivo, offerto al restauro filologico dal Manuale Digitale del Recupero delle coperture a tetto ligneo romane, nella trasposizione in chiave HiBIM dei dati del rilievo delle coperture di San Pietro in Vincoli e di Santa Maria Maggiore (L. Fei, 2020). Sotto: Geologia di Roma in relazione con i danni puntuali causati dai terremoti storici (L. Fei, 2020).
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Lorenzo Fei Federica Angelucci Antonio Pugliano Per approfondimenti, si consulti il GeoDB DISS (INGV). 2 È la probabilità che in quel territorio si verifichi un evento sismico di determinata magnitudo nel tempo di ritorno considerato. 3 È l’influenza che hanno sul moto sismico le peculiari situazioni morfologiche, la stratigrafia locale e le caratteristiche fisico-meccaniche del terreno. 4 L’OPCM 3519/2006 ha illustrato i criteri generali per l’individuazione delle zone sismiche, la formazione e l’aggiornamento degli elenchi delle aree sismiche. La Regione Lazio ha provveduto (D.G.R. 387/2009 e con le ss.mm. e ii.) alla riclassificazione sismica del territorio. È stata inoltre istituita l’Unità Amministrativa Sismica (U.A.S.), coincidente con il singolo territorio amministrativo di tutti e 378 i Comuni del Lazio. Il Comune di Roma costituisce un’eccezione: nel suo territorio sono state individuate 19 UAS, corrispondenti ai 19 Municipi (attualmente ridotti a 15). 5 La zonazione sismogenetica del territorio nazionale -ZS9ha suddiviso il territorio italiano in 36 diverse zone, numerate da 901 a 936, più altre 6 zone, identificate con le lettere da “A” a “F” fuori dal territorio nazionale (A-C) o ritenute di scarsa influenza (D-F). 1
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Inoltre, una percentuale significativa dell’area romana, racchiusa all’interno delle mura Aureliane, è rappresentata in affioramento dalle alluvioni oloceniche e la distribuzione dei danni nel centro storico di Roma sembra indicare una relazione piuttosto evidente con la natura geologica dei terreni (Ambrosini et al., 1986; Molin, Guidoboni, 1989). In questo contributo si presenta una carta in scala macrosismica dei dissesti puntuali causati a Roma da eventi sismici storici, come strumento utile alla valutazione della vulnerabilità degli edifici. Sono stati indicizzati, cartografati e prodotti gli attributi per gli eventi sismici a partire dal primo terremoto di cui si abbiano fonti note (461 a.C.) a quello Aquilano del 18 gennaio 2017; in questa sede si è scelto di selezionare gli eventi individuati in un arco temporale circoscritto agli ultimi tre secoli e caratterizzati da un’intensità minima pari al VI grado MCS. Caratteri della sismicità di Roma: le aree sismogenetiche di maggiore interesse. (L.F.) Gli studi condotti hanno consentito di identificare tre aree geografiche responsabili della sismicità romana: regionale, legata alle aree sismogenetiche1 dell’Appennino centromeridionale; locale, connessa all’attività del distretto vulcanico dei Colli Albani; urbana, rappresentata dalla modesta sismicità propria dell’area romana. I terremoti generati dalle strutture sismogenetiche appenniniche, i cui effetti rappresentano una minaccia nelle zone della città occupate dalle alluvioni recenti, rappresentano la fonte di maggiore pericolosità. In un territorio così vasto è importante tenere in considerazione la vulnerabilità dei beni esposti, la pericolosità sismica di base2 e la risposta locale3, così da definirne il rischio sismico. Il Lazio4 è caratterizzato da una sismicità distribuita lungo zone sismogenetiche allungate preferenzialmente secondo la direzione appenninica NW-SE, con centri sismici sia all’interno della regione che esterni. Il modello sismogenetico italiano è la cosiddetta Zonazione Sismogenetica del territorio nazionale - ZS9-5 (Maletti, Valensise, 2004); seguendone la corrispondenza si può osservare che la sismicità romana dipende essenzialmente da terremoti con epicentri localizzati entro un raggio di 180 km circa. Sismicità regionale: Appennino centro-settentrionale Distanti circa 60-130 km dal centro di Roma, le aree sismogenetiche dell’Appennino centro-settentrionale6 sono caratterizzate da importanti faglie primarie cui corrispondono le più estese sorgenti sismogenetiche ed i terremoti a magnitudo più elevata. A quest’area appartengono i Centri sismici7 di Avezzano e dell’Aquilano caratterizzati da eventi d’intensità epicentrali (Io) tra il IX e l’XI grado MCS. Si aggiunge a questi il Centro Umbro-reatino con eventi di intensità epicentrali elevate (X-XI). I terremoti storici, che hanno prodotto risentimenti a Roma, riconducibili alle aree sismogenetiche della Appennino centrale sono: per l’area di Piediluco, distante circa 7080 km da Roma, il terremoto del 9 ottobre 1785 (Io= IX; Is= V); per l’area del Fucino e dell’alta valle del Salto, situate a circa 70-100 km da Roma, è riconducibile il terremoto del 13 gennaio 1915 (Io= XI; Is= VI-VII). Il terremoto del 9 settembre 1349 (Io= X; Is= VII-VIII) e quello del 2 febbraio 1703 (Io= X; Is=VII), sono invece ascrivibili all’area dell’Aquilano, distante fra i 75 ed i 100 km dal centro di Roma. L’area di Norcia-Alto Tronto, situata a circa 100-120 km, è ritenuta responsabile dei terremoti del 14 e 16 gennaio 1703 (Io= IX-X) avvertiti a Roma rispettivamente di VI e V-VI grado. Si aggiunge l’area della Maiella, a circa 140-180 km da Roma, con il terremoto del 3 novembre 1706 (Io= X-XI; Is= V).
Sismicità locale: aree sismogenetiche del litorale tirrenico e della fascia vulcanica tosco-laziale L’attività sismica locale è riferita ai Centri sismici distanti circa 15-60 km dal centro di Roma, del litorale tirrenico romano e della fascia vulcanica tosco-laziale che comprende i monti Vulsini, Cimini, Sabatini e dei Colli Albani. I terremoti di questo Centro presentano intensità epicentrali comprese tra il VI-VII ed il VII-VIII grado MCS; sono caratterizzati da una tendenza di limitata estensione areale dei danni più significativi probabilmente legata ad una bassa profondità ipocentrale e da una distribuzione dei risentimenti a livello provinciale. Il Centro sismico del litorale romano è caratterizzato da eventi di intensità comprese tra il VI ed il VII grado MCS, con influenza locale. Il terremoto del 19 luglio 1899 (Io= VII; Is=VI) ha prodotto risentimenti a Roma e è riconducibile all’area dei Colli Albani (15-40 km); per quanto riguarda gli eventi riconducibili all’area del litorale tirrenico, ovvero la fascia compresa tra il promontorio del Circeo e Civitavecchia (15-60 km), i più importanti risultano essere il terremoto del 1 novembre 1895 (Io= VI; Is= V-VI), il cui epicentro dovrebbe ricadere circa a 15 km ESE della foce del Tevere e quello del 22 ottobre 1919 (Io= VII-VIII; Is= V), con epicentro in mare a largo di Anzio: alcuni studi (Tertulliani, Riguzzi, 1995) hanno però ridimensionato il ruolo del distretto sismogenetico del litorale tirrenico, attribuendoli alla sismicità urbana. Il litorale tirrenico è responsabile di rari episodi con intensità nell’area di Roma attorno al V grado MCS; l’evento più recente riferibile alla sismicità tirrenica che ha provocato lievi danni a Roma (fino al VI grado MCS), risale al 19 luglio 1899. L’area del Viterbese risulta di scarsa rilevanza per la città. Attività sismica di origine urbana Si tratta di un’area compresa in un raggio di circa 20 km, che non presenta chiari caratteri di area sismogenetica (o centro sismico). Nell’area è localizzato un numero esiguo di terremoti che hanno causato scosse di intensità e frequenza di ricorrenza non elevate. Fra questi gli eventi più rilevanti risultano essere il terremoto del 18 febbraio 1811 (Io=VI; Is= VI), probabilmente con origine nella campagna di Roma, a 10-12 km di distanza dal centro; il terremoto del 22 marzo 1812 (Io= VI-VII; Is= VI-VII), con origine a circa 6 km a sud del centro storico; il terremoto del 31 agosto 1909 (Io= VI; Is= VI), che causò danni nell’area di Sant’Onofrio, a circa 10 km a NW rispetto al centro, dove ha avuto anche origine. Natura geolitologica del suolo e risposta sismica Una percentuale significativa dell’area romana, 26.5%, è rappresentata dalle alluvioni oloceniche8 ed è in condizioni di dare risposta sismica con effetti massimi d’intensità dell’VIII grado della scala MCS. In particolare, sono state evidenziate locali accentuazioni del danneggiamento nei settori dove le discontinuità geologiche e morfologiche sono più marcate, come ai bordi della valle del Tevere e in corrispondenza dei letti alluvionali del reticolo idrografico minore del Tevere, dove sono ipotizzabili effetti di risonanza: dato che risulta coerente con il numero di restauri effettuati nel corso dei secoli dagli edifici costruiti sulle alluvioni oloceniche rispetto quelli costruiti sul substrato roccioso (Fig1_sotto). Come noto, dal punto di vista geologico, la città è caratterizzata da forti variazioni delle proprietà geotecniche nei terreni del sottosuolo. L’esteso plateau vulcanico e la dorsale sedimentaria che costituiscono il contesto geologico dell’area romana, sono profondamente incisi dall’articolato reticolo idrografico del Tevere
ZS9-n. 923. Responsabile dei massimi risentimenti registrati a Roma. 7 Per la Regione Lazio, sono riconosciuti undici Centri Sismici (C.S.) con un’influenza areale a carattere regionale, provinciale e locale. 8 All’interno del Grande Raccordo Anulare; si veda a proposito la Carta geolitologica dell’area comunale di Roma. 6
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Lorenzo Fei Federica Angelucci Antonio Pugliano Archivio Storico Capitolino di Roma (ASCR), Comune Moderno postunitario, Ripartizione V-Lavori Pubblici, Ispettorato Edilizio (18871930); Comune Pontificio, Titolario preunitario (18481870) e postunitario (18711922), Titolo 54 (1848-1922), “Edifici e ornato, nomenclatura e numerazione civica”; Comune Pontificio, Titolario preunitario (1848-1870) e postunitario (1871-1922), Titolo 62 (1848-1921), “Acque, Strade, Licenze e Contravvenzioni”.
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e dei suoi affluenti. Depositi alluvionali recenti e incoerenti, saturi in acqua e con proprietà geomeccaniche relativamente scadenti, sono caratterizzati da una notevole differenza in intensità rispetto alle formazioni pre-oloceniche vulcaniche e sedimentarie: fattore che può essere ritenuto responsabile di fenomeni di amplificazione locale (Bozzano et al., 2000). Le osservazioni sperimentali hanno evidenziato che, a causa dell’influenza che l’eterogeneità della struttura geologica del sottosuolo comporta nell’amplificazione del moto del terreno, uno stesso terremoto può determinare danni estremamente diversificati in zone poste a distanza di poche centinaia di metri le une dalle altre. La risposta locale e la vulnerabilità del patrimonio edilizio sono quindi notevolmente variabili e capaci di determinare fenomeni di amplificazione locale. Fonti per la documentazione della sismicità storica romana (F.A.) La redazione della Carta dei danni puntuali dei terremoti storici nell’Atlante Dinamico DynASK (Fig1_sotto) ha richiesto la consultazione di numerose fonti. A partire da quello di Mario Baratta (Baratta, 1901), si è ricorso a Cataloghi sismici come deposito di dati macrosismici storici. Fra questi si cita il Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani-CPTI15 (Rovida et al., 2019), importante contributo utile alla conoscenza dei caratteri della sismicità del territorio nazionale, alla definizione dei processi sismogenetici, all’identificazione e caratterizzazione delle strutture attive e al miglioramento delle stime di pericolosità. Collegato a questo primo prodotto è il Database Macrosismico Italiano-DBMI15 (Rovida et al., 2016), la cui finalità principale è fornire una base di dati per la determinazione dei parametri epicentrali dei terremoti per la compilazione del CPTI15. L’Archivio Storico Macrosismico Italiano-ASMI, parte del portale European Archive of Historical Earthquake Data (AHEAD), che comprende tutti gli eventi al di sotto delle soglie di CPTI15 e DBMI15 (intensità 5 e/o magnitudo 4), consentendo l’accesso diretto e integrato ai dati e alle informazioni relative a terremoti nella finestra temporale 461 a.C. al 2017. Il Catalogo dei Forti Terremoti in Italia-CFTI5 (Guidoboni et al., 2018), un catalogo analitico che fornisce informazioni per ciascun sisma, includendo dati e osservazioni utili all’analisi della vulnerabilità e del rischio. Sono state inoltre condotte indagini documentarie presso l’Archivio Capitolino, sulla documentazione presente nel ‘Titolo 54’ e nel ‘Titolo 62’, al fine di raccogliere i dati necessari a definire l’effettivo risentimento subìto a Roma: una ricerca in itinere, che già dimostra il suo interesse nella definizione dei danni puntuali, soprattutto se considerate in relazione alle trasformazioni edilizie (documentate da altrettante istanze) che hanno interessato nel tempo i fabbricati e, quindi, alle tecniche costruttive proprie del linguaggio tradizionale9. L’insieme di questi dati, selezionati criticamente, consente di elaborare l’elenco degli effetti di avvertimento o di danno osservati nel corso del tempo per redigere la Storia Sismica della città. I terremoti storici risentiti a Roma si possono suddividere in tre macrocategorie temporali: antichi (V a.C. - V), le date dei quali non sono da considerarsi attendibili e le descrizioni raramente soddisfacenti; terremoti di epoca medievale (V – XV), periodo in cui le notizie macrosismiche, databili anche a prima dell’anno mille si ritrovano in annali monastici, cronache, biografie di pontefici, calendari, storie universali, anche se non mancano nella documentazione ufficiale amministrativa (ad esempio i «Registri pontifici») informazioni più precise relative agli effetti su singoli monumenti (Molin et al., 1995); moderni (XV – XXI) dove tra il XV e il XVII secolo si registra una stasi dell’attività sismica, interrotta bruscamente dal grande terremoto del 1703.
Per la redazione di questa Carta si è indagata una finestra temporale di ventisei secoli, catalogando centonove eventi: ventitré risultano essere sopra la soglia di danno (grado V-VI della scala MCS) e, fra questi, dodici presentano dati cartografabili. In questa sede, considerando la qualità e l’attendibilità dei dati macrosismici relativi agli ultimi tre secoli, e l’arco temporale dei documenti indagati e conservati presso l’ASCR (18481922), si è scelto di presentare gli eventi sismici che hanno provocato risentimenti superiori alla soglia di danno, a partire dall’inizio del XVIII. Di seguito una breve descrizione degli eventi selezionati: • Gennaio-febbraio 1703: in questo periodo la città fu teatro di numerose scosse di terremoto. I due principali eventi sono del 14 gennaio (Alto Nera; Io= X; Is=VI) e del 2 febbraio (Aquilano; Io= X; Is=VII). I danni al contesto antropico furono considerevoli e molto diffusi, tanto che furono puntellate in tutta la città più di duemila case. Bisogna considerare che al tempo l’estensione della città era prevalentemente su terreni di riporto alluvionale. • 26 agosto 1806: terremoto di origine locale (Colli Albani; Io= VIII; Is= V-VI); la scossa fu avvertita molto sensibilmente e provocò lievi danni in alcuni edifici monumentali del centro. • 22 marzo 1812: considerato il più forte terremoto originatosi a Roma (Roma; Io=Is= VI-VII), che causò anche tre vittime; provocò un grande panico e danni generalmente leggeri ma diffusi. • 1° novembre 1895: evento di origine locale (Litorale romano; Io= VII; Is= V-VI). In generale vengono riportati danni lievi e poco diffusi, in particolar modo nei rioni di Trastevere, Borgo e Testaccio. • 19 luglio 1899: è la scossa di origine locale che ha causato il maggior numero di danni (Colli Albani; Io= VII; Is= VI-VII) oltre che diversi feriti; si rileva una maggior concentrazione nelle zone limitrofe la stazione Termini (terreno di fondazione costituito da rocce vulcaniche). • 13 gennaio 1915: terremoto del Fucino (Marsica; Io= XI; Is= VI-VII); risulta fra i terremoti maggiormente avvertiti a Roma e fra i meglio documentati. Tutti i rioni e i quartieri furono interessati e i danni risultarono essere molto diffusi, anche se nella maggior parte dei casi di lieve entità. La maggior parte dei risentimenti sono ubicati nel settore occidentale della città e quelli più gravi vengono individuati prevalentemente nelle aree caratterizzate da terreni alluvionali di riporto. • 26 dicembre 1927: terremoto di origine locale (Colli Albani; Io= VII; Is= VI) la cui scossa fu avvertita generalmente in tutta la città. Si ebbero leggere lesioni in vari edifici e solo un crollo.
Fenomeni sismici e danni alle costruzioni. Ambiti di ricerca sull’edilizia storica di Roma (A.P.) Tra le sue finalità, l’Atlante Dinamico DynASK vuole contribuire alla fruizione in sicurezza della città storica, associando alla diffusione di informazioni culturali gli aspetti conoscitivi propedeutici alla prevenzione del rischio sismico e idrogeologico; si pone quindi come un modello di comportamento metodologico esportabile, conforme allo scenario normativo vigente circa la valorizzazione dei Beni Culturali10. L’argomento descritto è organizzato in un archivio digitale frutto dello studio di un esteso repertorio di fonti cartografiche e documentarie archivistiche. La banca dati è associata a una base grafica vettoriale, open source, la Carta Tecnica Regionale Numerica del Lazio (CTRN 2014), che garantisce durabilità del sistema e libera accessibilità dei dati. In riferimento alla CTRN si è sviluppato il processo di riconoscimento e definizione dei risentimenti documentati a Roma, tanto delle unità edilizie esistenti quanto dei brani di città scomparsi, questi ultimi considerati per individuare
10 Il WebGis Descriptio Romae ampliato. Un Atlante Dinamico per la conoscenza, la prevenzione del rischio sismico e idrogeologico, la fruizione della città storica. Responsabile Progetto: A. Pugliano.
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Lorenzo Fei Federica Angelucci Antonio Pugliano 11 Laboratorio WOODINCULT-Dipartimento per l’Innovazione dei Sistemi Biologici Agroalimentari e Forestali (DIBAF), dell’Università degli Studi della Tuscia; relazioni con lo studio dell’Architetto Pierre-Antoine Gatier, Architecte en chef des monuments historiques e Inspecteur general des monuments historiques dei Dipartimenti di Roma e Parigi; relazioni con il MiBACT-Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma (Soprintendente: Dottoressa Daniela Porro).
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una eventuale vocazione al danneggiamento sismico di parti di città. Si è quindi utilizzata una nomenclatura idonea a garantire un linguaggio di indicizzazione accreditato e standard, congeniale all’elaborazione di livelli mono descrittivi di tematiche specifiche, raggruppati all’interno di filtri preordinati che definiscono i differenti argomenti cartografati (Menegatti L., Barnocchi A., 2020). Gli oggetti graficizzati sono caratterizzati tipologicamente, vettorializzati e inventariati attraverso codici ICCD, assegnando ad ogni singolo livello un’informazione univoca e mono descrittiva (Pugliano A., 2009). Per quanto attiene la conoscenza delle problematiche legate alla conservazione e fruizione sostenibile del Patrimonio, sono stati prodotti approfondimenti circa la consistenza dell’edilizia storica, a partire dalle componenti materiali che svolgono un ruolo fondamentale nel comportamento meccanico degli edifici storici esposti alle azioni sismiche, prime tra tutte le strutture di copertura lignea. La documentazione di tali compagini strutturali trova spazio nella struttura dell’Atlante in forza della loro forte connotazione semantica rispetto ai linguaggi costruttivi locali. In particolare, i paesi più soggetti agli eventi sismici hanno risposto con soluzioni tecnologiche diverse, da intendersi come prodotto materiale dell’osservazione dei fenomeni sismici e dell’esperienza empirica che ne risultava, più o meno razionali rispetto all’uso e al grado massimo della violenza sismica locale attesa, alle esigenze del clima e alla durata richiesta dagli edifici stessi. La conoscenza delle tecniche costruttive tradizionali e della cultura materiale che le ha generate è necessaria per la comprensione degli effetti causati dei terremoti sulle costruzioni, consentendo di descriverne, quantificarne e prevederne i risentimenti. Si vedano per questo i Manuali del Recupero, in particolar modo di Roma e Palermo e i Codici di Pratica. L’analisi linguistica che si svolge su queste componenti in ambiente romano, consiste di momenti diversi di approfondimento, a partire dall’osservazione-rilevazione e dallo studio documentario, per concludersi con sintesi comparative descrittive degli assetti tipologici peculiari (Fig1_sopra); dette sintesi hanno bisogno di un ‘contesto di accoglienza’ concettualmente esteso che consenta di localizzare le singole espressioni materiali nello spazio e nel tempo, come l’Atlante Dinamico DynASK, con la sua natura poliedrica a matrice comparativa può garantire. Sulla base di sinergie scientifiche e operative che il Gruppo di Ricerca sta consolidando con Istituzioni preposte alla conoscenza, alla tutela e conservazione del Patrimonio11, il DynASK si appresta ad essere applicato, per programma, a una versione digitale della manualistica del recupero rivolta alla conoscenza, alla documentazione e al restauro filologico delle strutture di copertura lignea dell’edilizia romana. Questo programma intende evolvere dalla trattazione della ‘regola dell’arte’ degli elementi strutturali più eloquenti tipologicamente, affiancando a questa linea di ricerca un processo di documentazione sistematica basato su un censimento il più esteso possibile; qui troverà spazio l’osservazione dello stato di conservazione dei manufatti e si farà ricorso al contributo della dendrocronologia per interpretare i segni di possibili mutazioni storiche che, caso per caso, hanno introdotto varianti fondamentali nelle fisionomie architettoniche consuete e residenti. Si produrrà quindi una interpretazione processuale, su basi scientifiche, delle fisionomie architettoniche oggi osservabili, a vantaggio della ricostruzione della storia delle metodiche di restauro, riparazione-reintegrazione, sostituzione e della storia del pensiero scientifico e tecnologico del quale i processi di mutazione descritti costituiscono l’espressione durevole. In tale programma, la questione sismica svolge un ruo-
lo centrale in quanto motore dell’evoluzione storica e tecnica del lessico costruttivo locale verso il raggiungimento di requisiti prestazionali adeguati alle condizioni di esercizio; la scelta di rivolgere l’attenzione alle coperture a tetto ligneo è dunque obbligata, per la cogenza delle problematiche insorte, allo stato attuale, dall’assenza di pratiche manutentive condotte negli ultimi decenni e per la spendibilità delle conoscenze da applicare nell’ambito della pratica attuale del restauro filologico nell’evidenza del rischio sismico. L’analisi da condursi per la sicurezza di una struttura o di un intero edificio ha lo scopo di individuare i punti deboli e di prefigurare il meccanismo che l’azione sismica può innescare. Il detto meccanismo coinvolge componenti lignee e murarie, chiamate a collaborare nei termini della manifestazione di efficienti relazioni reciproche, utili a garantire un comportamento di massima coesione tra le componenti del sistema. Il carattere peculiare di tale coesione tra componenti è dato dal tipo di sismicità locale. Se si può ritenere ragionevole, per la città di Roma, un’intensità massima attesa pari all’VIII grado MCS, questa di norma provoca meccanismi di collasso dovuti alla mancanza di connessioni locali che rendono possibili fenomeni locali di ribaltamento di pareti e di scompaginamento delle strutture di orizzontamento e copertura che avrebbero potuto contenere il ‘moto fuori del piano’ delle pareti. L’efficienza di queste strutture di orizzontamento e copertura gioca un ruolo fondamentale per la stabilità complessiva degli edifici. Questo repertorio di dati caratteristici, unitamente alla precognizione degli scenari di danno resi possibili dalle riscontrate debolezze intrinseche al sistema sono l’oggetto degli approfondimenti sulla casistica di esempi censiti. Approfondimenti utili al restauro in quanto comunicano la gerarchia funzionale degli elementi materiali che compongono tali strutture, la loro fisionomia architettonica e la configurazione ottimale in termini di efficienza. E’ di tutta evidenza il carattere innovativo di questa visione: il contributo degli approfondimenti va a vantaggio dell’implemento della ‘cultura della progettazione’ del dettaglio esecutivo, da attuarsi attraverso tecniche dialoganti con la tradizione locale che siano, oltre che meccanicamente efficaci, anche filologicamente compatibili ed economicamente sostenibili, in quanto manutenibili e idonee all’esercizio di pratiche labour intensive destinate al rilancio di ambiti di imprenditoria site specific. Il prodotto manualistico digitale, applicativo dell’Atlante Dinamico DynASK, inoltre, contribuisce alla pratica del restauro anche attraverso la forma della comunicazione dei dati conoscitivi. Esso raccoglie elaborazioni grafiche concepite per dar vita a un repertorio di ‘librerie’ composte secondo espressioni semantiche affini a quelle in uso in ambiente HiBIM (Fig1_centro): al fine di agevolare la comprensione tecnologica degli elementi strutturali, essi sono rappresentati come l’aggregazione razionale di componenti elementari compiute, isolabili e caratterizzate da schede attributo descrittive dei caratteri storici, tipologici, materici, tecnologici e critici, in relazione all’efficienza in esercizio e, viceversa, alla loro vocazione al danneggiamento sismico. Conclusioni (A.P., F.A., L.F.) L’esercitazione sul contesto romano ha permesso la definizione di una metodica esportabile e applicabile ad altre aggregazioni urbane stratificate: in primis alla sua area metropolitana; ma soprattutto, in termini di contenuto e organizzazione del sistema, si possono trattare i centri storici presenti nel cratere sismico, valorizzandoli. In sostanza, la metodica di messa a punto delle letture tipologiche e di documentazio-
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ne archivistica sui catasti, le vocazioni al degrado e danno sismico, possono essere applicati ad ambiti urbani più semplici anche se stratificati. Uno strumento di pianificazione adatto alla governance del territorio, che unisce gli aspetti del turismo e della valorizzazione con quelli della sicurezza ambientale, costituendo l’atto preliminare alla produzione della pianificazione della ricostruzione e messa in sicurezza sismica dei luoghi del terremoto nel Lazio, a partire dai centri nel cratere sismico, non rasi al suolo ma da riparare. Premesso che il know how che si matura nella riparazione possa diventare il sedime conoscitivo della ricostruzione filologica in questi luoghi, affinché il paesaggio storico urbano possa essere conservato e continuare a fornire il supporto alla qualificazione identitaria delle comunità che abita il territorio.
Bibliografia Ambrosini S., Castenetto S., Cevolan F., Di Loreto E., Funiciello R., Liperi L. & Molin D. 1986, Risposta sismica dell’area urbana di Roma in occasione del terremoto del Fucino del 13-1-1915, «Memorie della Società Geologica Italiana», 35, pp. 445-452. Bozzano F., Andreucci A., Gaeta M. & Salucci R. 2000, Geological model of the buried Tiber river valley, «Bulletin of Engineering Geology and the Environment», 59 (1), pp. 1-21. Di Loreto E. 2018, La prevenzione del rischio sismico nella pianificazione urbanistica: la carta di pericolosità sismica della regione Lazio, «Geologia dell’Ambiente», anno XXVI, supplemento al n. 1/2018, gennaio-marzo 2018, pp. 160-166. DISS Working Group (2018). Database of Individual Seismogenic Sources (DISS), Version 3.2.1: A compilation of potential sources for earthquakes larger than M 5.5 in Italy and surrounding areas. http:// diss.rm.ingv.it/diss/, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia; DOI:10.6092/INGV.IT-DISS3.2.1. Guidoboni E., Ferrari G., Mariotti D., Comastri A., Tarabusi G., Sgattoni G., Valensise G. 2018, CFTI5Med, Catalogo dei Forti Terremoti in Italia (461 a.C.-1997) e nell’area Mediterranea (760 a.C.-1500), Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), <https://doi.org/10.6092/ingv.it-cfti5> (06/20). Locati M., Camassi R., Rovida A., Ercolani E., Bernardini F., Castelli V., Caracciolo C.H., Tertulliani A., Rossi A., Azzaro R., D’Amico S., Conte S., Rocchetti E. 2016, Database Macrosismico Italiano (DBMI15). Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), <https://doi.org/10.6092/INGV.IT-DBMI15> (06/20). Meletti C., Valensise G. (a cura di) 2004, Zonazione sismogenetica ZS9 – App.2 al Rapporto Conclusivo. in Gruppo di Lavoro, INGV, Roma. Menegatti L., Barnocchi A. (2020), Intermodal digital experiences for the documentation and storage of historical-critical data aimed at the enhancement and use of the historical-urban landscape, in: C. Gambardella (ed.) XVII International Forum of Studies “Le Vie dei Mercanti”: WORLD HERITAGE and CONTAMINATION, Naples 11 – Capri 12-13 June 2020, Italy. Molin D., Castanetto S., Di Loreto E., Guidoboni E., Liperi L., Narcisi B., Paciello A., Riguzzi F., Rossi A., Tertulliani A., Traina G. 1995, Sismicità, in Funiciello R. (coord. scientifico), Memorie Descrittive della Carta Geologica d’Italia, vol. I, La geologia di Roma. Il Centro Storico, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma. Molin D., Guidoboni E. 1989, Effetto fonti effetto monumenti a Roma: i terremoti dall’antichità ad oggi, in Guidoboni E. (a cura di), I terremoti prima del Mille in Italia e nell’Area Mediterranea, I.N.G., SGA, Bologna, pp. 194-223. Protezione Civile Roma Capitale, Piano di Protezione Civile di Roma Capitale, Fascicolo VII, Rischio sismico, dicembre 2019. Pugliano A. 2009, Il Riconoscimento, la Documentazione, il Catalogo dei Beni Architettonici. Elementi di un costituendo Thesaurus utile alla Conoscenza, alla Tutela, alla Conservazione dell’Architettura, Prospettive Edizioni, Roma, vol. 1 e 2. Pugliano A. 2017, La ricostruzione del Patrimonio immateriale nei luoghi danneggiati dai terremoti, «Ricerche di Storia dell’Arte», p. 122, pp. 23-36. Rovida A., Locati M., Camassi R., Lolli B., Gasperini P. 2019, Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani (CPTI15), versione 2.0. Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), <https://doi. org/10.13127/CPTI/CPTI15.2> (06/20). Rovida A., Locati M., Antonucci A., Camassi R. (a cura di). Archivio Storico Macrosismico Italiano (ASMI). Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), <https://doi.org/10.13127/asmi> (06/20).
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Paesaggi Francescani: rilievo digitale e documentazione dell’Eremo delle Carceri ad Assisi, Umbria Stefano Bertocci
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze.
Federico Cioli Stefano Bertocci Federico Cioli Anastasia Cottini
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze.
Anastasia Cottini
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze.
Abstract The paper describes the digital survey and documentation operations of a conventual complex located in Umbria, Italy: Eremo delle Carceri in Assisi. The operations were carried out in the framework of an European research project, called F-ATLAS, implemented by Italy (University of Florence), Portugal (ISCTE - Instituto Universitário de Lisboa, Universidade Católica Portuguesa) and Spain (Universitat de Barcelona) and promoted by a Joint Programming Initiative on Cultural Heritage. The project aims at studying the Italian-Spanish-Portuguese Franciscan Observance network, in order to define an ‘Atlas’ of documentation and knowledge for conservation, protection and promotion of this scattered Cultural Heritage. The proposal aims at combining traditional and innovative techniques in order to develop risk assessment methodologies, protocols and tools to create user-friendly interfaces for the management and the enhancement of Cultural Heritage. Digital survey techniques were used (reflex cameras, drones, 360° cameras, laser-scanners), to obtain a reliable documentation which is the basis for further studies, together with an in-depth study of documentary sources. Keywords Digital survey, documentation, data-sheet, Franciscan Observance, Umbria
I primi risultati del progetto F-ATLAS: la catalogazione dei conventi dell’Osservanza francescana in Umbria (S.B.) Il presente articolo si inserisce nel contesto di un progetto europeo della durata di tre anni (2020-2022) denominato F-ATLAS (Franciscan Landscapes: the Observance between Italy, Portugal and Spain), finanziato dall’iniziativa di programmazione congiunta sul Patrimonio Culturale e Cambiamenti Globali JPI Cultural Heritage. Il progetto si concentra sullo studio dei complessi conventuali appartenenti all’Osservanza Francescana tra Italia, Portogallo e Spagna. Nello specifico il progetto punta a creare una ‘rete’ di connessioni, sia fisiche che immateriali, allo scopo di conoscere, preservare e promuovere tale Patrimonio, rilevante sia dal punto di vista della cultura euro-
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Fig. 1 In alto a sinistra: Eremo delle Carceri ad Assisi; in alto a destra: Convento di San Bartolomeo a Foligno; in basso a sinistra: Convento di San Francesco in Monteluco a Spoleto, in basso a destra: Convento di San Francesco a Monteripido a Perugia. Foto da drone (crediti M. Medici).
pea, sia dal punto di vista del rapporto tra il costruito ed il contesto territoriale in cui si inserisce. Questi complessi conventuali, oggi, si trovano spesso ad essere esclusi dai principali itinerari culturali o addirittura in stato di abbandono od incuria. F-ATLAS è il risultato di una cooperazione tra l’Università degli Studi di Firenze - Dipartimento di Architettura, leader del progetto, l’Instituto Universitário de Lisboa, l’Universitat de Barcelona e l’Universidade Católica Portuguesa e si avvale della collaborazione di partner associati quali Regione Umbria, SIΣMA Srl, ICOMOS Portugal e Direção Regional de Cultura do Centro, al fine di mettere in atto strategie multidisciplinari per lo sviluppo di protocolli di gestione del Patrimonio1. Il ruolo della documentazione e del rilievo assume dunque una notevole rilevanza nelle fasi iniziali del progetto: dopo aver individuato i casi studio, è importante ottenere dei dati completi ed affidabili riguardanti sia la storia dei conventi, sia la loro conformazione architettonica attuale. A tale scopo, nell’Agosto del 2020 è stato organizzato un workshop in Umbria, con la partecipazione dell’Università degli Studi di Firenze e l’Università degli Studi di Ferrara, durante il quale sono state sperimentate le ‘schede di catalogazione’, destinate all’implementazione del data base digitale, di sette complessi francescani; due di questi complessi, l’Eremo delle Carceri ad Assisi ed il Convento di San Bartolomeo a Foligno, sono stati oggetto delle prime campagne di rilievo con metodologie digitali integrate. La compilazione delle ‘schede di catalogazione’ ha richiesto la consultazione degli archivi storici locali e lo studio di fonti bibliografiche, mentre per le operazioni di rilievo digitale sono stati impiegati strumenti quali laser-scanner, macchine fotografiche reflex e 360° e droni. I sette casi-studio analizzati in Umbria sono stati scelti in accordo con l’Ordine dei Frati Minori - Provincia Serafica San Francesco d’Assisi, poiché, come appare dalle brevi note storiche di seguito riportate, sono stati ritenuti tra i più rappresentativi all’interno della provincia di Perugia.
F-ATLAS - FrAnciscan landscapes: the observance between iTaLy, portugAl and Spain. The JPI Cultural Heritage project has received funding from the European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme under grant agreement No 6995237 - https:// www.f-atlas.eu. 2 Oggi Università degli Studi di Perugia. 1
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Stefano Bertocci Federico Cioli Anastasia Cottini Fig. 2 Modello di ‘scheda di catalogazione’ creato con Filemaker Pro.
Lo strumento GIS lavora tramite database interrogabili e contenenti tutto in uno molti dati ed informazioni diversi fra loro, come carte, mappe catastali, ortofoto, immagini da satellite, tabelle in Excel, testi, foto storiche, ecc.
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L’Eremo delle Carceri ad Assisi è un antico romitorio localizzato sul Monte Subasio, con una particolare rilevanza a livello paesaggistico ed ambientale dovuta sia alla presenza della complessa fabbrica dell’eremo, edificato a partire dal XIII secolo, sia per il grande parco con il bosco che lo circonda: all’interno di quest’ultimo è possibile visitare le grotte nelle quali gli eremiti prima, San Francesco ed i compagni poi, erano soliti ritirarsi in preghiera. È dunque un complesso architettonico particolarmente esemplificativo per il rapporto tra costruito e contesto, in quanto il percorso di visita all’interno dell’Eremo prosegue naturalmente all’interno del parco dove si struttura una sorta di percorso sacro, lungo il quale i si incontrano le grotte degli eremiti e alcuni spazi di preghiera all’aperto (Fig.1). Il Convento di San Bartolomeo a Foligno è il primo convento appositamente edificato nel 1415 per l’Osservanza francescana da Nicolò Trinci, signore di Foligno. Il complesso conventuale comprende spazi esterni per orti e coltivazione circondati da mura di recinzione, una grande complesso conventuale organizzato attorno al grande chiostro ed alla chiesa che presenta oggi le sue interessanti forme barocche. All’interno della chiesa, nel 1676 è stata realizzata una replica fedele dell’edicola del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Attualmente la chiesa è inagibile per via dei danni riportati nei sismi del 2016-2017, ciò rende San Bartolomeo un caso-studio interessante per le possibili applicazioni del progetto che potrebbero estendersi, a partire dal rilievo e dalla documentazione, alla proposta di restauro e valorizzazione del complesso (Fig.1). Il Convento della Santissima Annunziata a Gualdo Tadino presenta le stesse problematiche strutturali dovute al ripetersi dei recenti eventi sismici che si sono verificati in Umbria negli ultimi decenni, con la conseguenza che la chiesa barocca risulta attualmente inutilizzata (sono stati allestiti alcuni altari per le celebrazioni sotto il portico in facciata ed all’interno degli ambienti del convento). L’aspetto originale del complesso, risalente alla prima metà del Cinquecento, è stato fortemente alterato dagli interventi di ristrutturazione subiti nel tempo ma rimane un ampio chiostro, oggi chiuso con vetrate, e la interessante chiesa tardo barocca della Santissima Annunziata. Il Convento di San Francesco in Monteluco a Spoleto sorge sul monte a ridosso di Spoleto all’interno di una importante area boschiva. Il bosco, definito lucus ovvero ‘sacro’, fino dall’antichità circonda il romitorio francescano fondato a partire dal 1212, ed accoglie le grotte eremitiche visitabili nel territorio circostante il convento. La struttura appare dunque interessante per le finalità del progetto per due motivi: la relazione tra architettura e contesto, come nel caso dell’Eremo delle Carceri, e l’utilizzo odierno del complesso, che, oltre a svolgere la funzione conventuale, è anche molto bene utilizzato come Casa di Esercizi Spirituali e di “Postulandato” (Fig.1). Il Convento di San Francesco a Monteripido a Perugia viene edificato fuori dalle mura della città di Perugia, nella seconda metà del ‘300 è considerato uno dei luoghi chiave per l’azione di rinnovamento dell’Ordine. A partire dal ‘500 ha qui inizio lo Studio generale2, per il quale nel ‘700 viene istituita la biblioteca tuttora esistente e tra i ‘Fondi’ più prestigiosi della Biblioteca Comunale di Perugia. L’interesse progettuale nei confronti di questo convento deriva quindi sia dalla sua importanza nel panorama culturale italiano, sia dalla sua continua attività per la promozione di iniziative legate all’università, alla formazione ed all’istruzione (Fig.1). Il Convento e la chiesa di San Damiano ad Assisi simboleggiano la missione di rinnovamento della Chiesa portata avanti da San Francesco, che qui nel 1205 viene invitato dal Crocefisso a riparare “…la mia chiesa che, come vedi, è tutta in rovina!” (Olgiati et
al., 1988) e nel 1225 compone in questo luogo il Cantico delle Creature. La struttura architettonica presenta una stratificazione interessante e chiaramente leggibile, come nel caso della facciata originale tuttora visibile ma inglobata nel complesso ampliamento, in più fasi, del convento medievale. Il Santuario Francescano della Porziuncola in Santa Maria degli Angeli costituisce un caso molto particolare: la piccola chiesetta, risalente come fondazione, probabilmente, al IV secolo, venne restaurata da San Francesco durante la ‘missione’ ricevuta a San Damiano. Proprio qui il santo fonda l’Ordine Francescano nel 1209, è quindi considerata il ‘centro del Francescanesimo. Aattualmente la chiesetta è contenuta all’interno del Santuario di Santa Maria degli Angeli, un grandioso progetto tardo rinascimentale di Galeazzo Alessi. La costruzione della banca dati e la ‘scheda di catalogazione’ (A.C.) Per tutti e sette i casi-studio presi in considerazione sono state compilate delle ‘schede di catalogazione’ con il software Filemaker Pro, che consente di creare modelli di schede compilabili dagli operatori con la finalità di creare un database contenente informazioni di varia natura – testi, immagini, link, ecc. – utile per effettuare analisi a posteriori (Fig.2). Lo scopo di questa operazione è infatti quello di catalogare le informazioni secondo determinate categorie, con l’intento di avvalersi di applicativi GIS (Geographic Information System) che permetteranno, dopo la conclusione delle operazioni di documentazione dei complessi conventuali Italiani, Portoghesi e Spagnoli, di ottenere rappresentazioni cartografiche con layer contenenti i dati raccolti visualizzati graficamente3. Il progetto, a partire dalla prima parte di catalogazione dei siti in Umbria, andrà ad implementare anche il sistema informativo territoriale GIS della regione Umbria, partner pubblico del progetto, al fine di costituire una parte della base di informazioni destinate alla gestione del territorio e del piano paesaggistico della regione. Per la progettazione delle ‘schede di catalogazione’ è stato necessario fare un lavoro a priori di individuazione di macro-categorie di dati interessanti ed inerenti alla tematica del progetto. La scheda tipo si articola in macro-settori per la organizzazione e la registrazione delle informazioni di dettaglio articolati come segue: contesto generale, localizzazione, caratteristiche storiche, caratteristiche architettoniche, relazione con il contesto. Le macro-categorie contengono a loro volta vari campi compilabili con dati alfanumerici, funzionali alle opzioni di ricerca, e immagini fotografiche o grafici per implementare la documentazione. È stato fondamentale, nella fase iniziale delle operazioni, comprendere come rendere omogenei ed implementabili i vari campi in modo che le ‘schede di catalogazione’ potessero essere utilizzate per tutti i casi-studio, anche in relazione alle diverse amministrazioni statali e universitarie dei paesi partecipanti: Italia, Portoghesi e Spagnoli; un altro problema è stato quello della possibile interoperabilità del database in maniera che le schedature con i relativi contenuti potessero eventualmente venire reimpiegate, o essere versatili, in maniera tale da rendere possibile l’estrazione dei dati anche per futuri progetti diversi da F-ATLAS. Si è dunque resa indispensabile la stesura di una ‘guida’ e di un ‘glossario’ annesso: la ‘guida’ elenca tutti i campi compilabili della ‘scheda di catalogazione’, specificando se si tratta di un campo da compilare obbligatoriamente o meno, se preveda una compilazione con testo libero od a risposta multipla e fornendo una definizione precisa sul dato da inserire; il ‘glossario’ contiene le definizioni dei termini inglesi (principalmente appartenenti al linguaggio tecnico dell’Architettura) comunemente impiegati nella compilazione.
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Stefano Bertocci Federico Cioli Anastasia Cottini 4 Per ‘stato di conservazione’ si intende la percentuale di conservazione dell’elemento architettonico nella sua forma originaria, la ‘rilevanza architettonica’ indica la percentuale di originalità dell’elemento (se è originale, se è stato sostituito con uno in stile, se è stato sostituito con uno incongruo).
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Di seguito la descrizione dei contenuti registrati nelle singole macro categorie. Contesto generale: contiene informazioni relative all’operatore, ovvero il responsabile dei dati registrati, la data di compilazione, il codice identificativo del complesso conventuale, una breve descrizione della struttura con denominazione, ordine religioso di appartenenza, proprietario, funzioni, contesto ambientale, tipologia costruttiva ed un’immagine satellitare. È utile per individuare il caso-studio in analisi e comprendere quali sono le sue caratteristiche ambientali immediatamente desumibili dal sopralluogo, ad esempio se si tratta di un complesso isolato in montagna o inserito nel tessuto di una città, se è un convento tuttora abitato da religiosi, in stato di abbandono o riadattato ad ospitare nuove funzioni. Localizzazione: contiene informazioni toponomastiche specifiche su stato, regione e città in cui si trova il complesso conventuale, eventuali dati censuari catastali e le coordinate geografiche di latitudine e longitudine. Queste ultime sono fondamentali per i futuri output legati alla georeferenziazione su GIS e, eventualmente, su Google Map. Caratteristiche storiche: contiene dati riguardanti il secolo di fondazione del complesso conventuale, le date di riforma, eventuali passaggi di proprietà o di ordine religioso o la eventuale soppressione del convento, il nome od i nomi del costruttore o degli eventuali operatori intervenuti negli ampliamenti e nelle modifiche della struttura. Il database conterrà anche informazioni in forma di testi estesi concernenti la cronologia degli interventi costruttivi e degli eventuali restauri o ristrutturazioni ed il contesto storico all’interno del quale l’edificio si è sviluppato. Vi sono poi tre campi di testo nei quali si inseriscono la bibliografia, le fonti primarie e le fonti online, in formato APA; è infatti fondamentale che tutte le informazioni di carattere storico siano verificate, basandosi su di una ricerca archivistica. Nel caso specifico dei conventi Francescani in Italia, la ricerca archivistica assume un ruolo rilevante poiché spesso le informazioni storiche disponibili sono scarse o incomplete, è pertanto necessario ricostruire le vicende, prevalentemente quelle sulle opere edilizie legate ad uno specifico complesso consultando quando possibile gli archivi pertinenti. Verbali, carteggi, registri, cronache sono tutti documenti che, pur non riguardando direttamente la storia del complesso, se utilizzati correttamente, possono servire a desumere dati importanti. Caratteristiche architettoniche: comprende un campo di testo esteso dedicato alla descrizione architettonica dell’edificio, ovvero come esso si presenta, ed approfondisce poi nello specifico le caratteristiche materiche dei singoli elementi che lo compongono (coperture, infissi, rivestimenti esterni, ecc.). Ad ogni categoria di elementi costruttivi o tipologicamente rilevanti sono inoltre assegnate due valutazioni: una riguardante lo ‘stato di conservazione’, l’altra la ‘rilevanza architettonica’4; questi punteggi sono fondamentali per comprendere se l’edificio sia stato adeguatamente salvaguardato e tutelato, se siano stati operati interventi impropri o se necessiti di interventi mirati. La sezione contiene infine gli elenchi degli elementi decorativi e delle opere d’arte principali presenti nel complesso conventuale ed esposte al pubblico. Relazione con il contesto: descrive il rapporto tra il complesso edilizio conventuale ed il contesto nel quale è inserito; come illustrato in precedenza, infatti, ai fini del progetto, oltre alla descrizione dell’inquadramento ambientale del sito, è fondamentale comprendere in che modo il convento si inserisce nelle principali rotte turistiche – o ne viene escluso, se sia adeguatamente segnalato nella cartellonistica locale, se e con quale mezzo sia possibile accedervi; è importante notificare anche la presenza di elementi naturali quali foreste o corsi d’acqua. Tali indicazioni, nelle future fasi di proget-
to, forniranno importanti indicazioni per eventuali progetti di trasformazione, conservazione o riuso degli edifici. Il caso-studio: l’Eremo delle Carceri a Assisi (Fig.3) Cenni storici (F.C.) La composizione calcarea del massiccio del Monte Subasio, caratterizzata dalla forte permeabilità delle rocce, ha contribuito alla formazione di numerose doline e grotte attraverso il fenomeno del carsismo. In tali grotte, già frequentate da eremiti in età paleocristiana, trovarono rifugio San Francesco e i suoi primi seguaci agli inizi del Duecento. Non è ben chiaro se la cappellina rupestre dedicata a Maria, successivamente inglobata all’interno del santuario, fosse preesistente o contemporanea all’epoca di San Francesco, infatti le prime testimonianze sull’evoluzione architettonica dell’Eremo delle Carceri risalgono al XIII secolo: è quindi estremamente difficile ricostruire la struttura edilizia del fabbricato nei secoli precedenti (Bruschelli, 1821). Il cuore del complesso, immerso all’interno di un bosco sacro di lecci, è la grotta dove San Francesco intorno ai vent’anni si appartò e fece esperienza dell’amore di Dio, dando inizio a quella profonda riforma rappresentata dal movimento francescano (Olgiati, 1988). Con l’insegnamento francescano si rompe infatti il tradizionale rapporto gerarchico sul quale era basato il sistema ecclesiastico, sviluppando un’esperienza fondata sulla collaborazione tra “madri” e “figli”, che ricoprono i ruoli evangelici di Marta e Maria, simboli rispettivamente della vita attiva e di quella contemplativa (Mercurelli Salari, 2013, p. 20). All’inizio del XIII secolo il romitorio doveva essere costituito soltanto dalla grotta di San Francesco, raggiungibile da un sentiero, e insieme ad essa le altre grotte dei suoi seguaci. Le prime strutture architettoniche vennero costruite intorno a questo romitorio a partire dalla metà del XIII secolo, come attestano gli Statuti Comunali della zona, stampati nel 1543 compendiando rubriche risalenti al 1242, che sanciscono una serie di norme affinché nessuno potesse disturbare la vita dei frati nella zona delle Carceri a loro concessa, da cui soltanto il Comune aveva autorità di allontanarli (Mercurelli Salari, 2013). All’inizio del Trecento però i Francescani vennero estromessi e il santuario venne concesso dal Comune di Assisi ai Fraticelli, un movimento spirituale che rinnegava l’autorità della Chiesa, che vi si rifugiarono per sfuggire alle persecuzioni di Giovanni XXII. Infatti, dal 1318, sotto la guida di Angelo Clareno, i Fraticelli si organizzano come ordine indipendente in rottura con il Papa, venendo scomunicati nel 13175. Le Carceri vennero restituite ai frati Francescani intorno al 1340 grazie al ministro generale dell’Ordine francescano Geraldo Oddone e negli anni seguenti, tra il 1350 e il 1355, vennero concesse a Gentile da Spoleto, intento ad attuare la sua riforma. Alla sua morte nel 1362 a Brogliano il moto riformatore prese nuovo vigore con Paoluccio Trinci, fondatore dell’Osservanza, al quale nel 1373 papa Gregorio XI concesse undici luoghi, tra i quali le Carceri, per condurre la sua esperienza riformatrice, riconoscendo nel movimento neonato piena autonomia. Quello tra la metà del XIII secolo e i primi anni del XIV è il periodo di maggiore espansione edilizia delle Carceri con la costruzione delle prime celle, legata proprio al crescente movimento dell’Osservanza, che vi si insediò tra il 1373 e il 1602 (Bruschelli, 1821). Nel 1416 vennero ammessi alle Carceri i novizi e questo richiese la costruzione di nuovi ambienti destinati alla vita collettiva: si realizzarono edifici addossati alla parete rocciosa, non seguendo però un progetto ordinato e organico ma attraverso iniziative
Fig. 3 A sinistra: foto da drone dell’Eremo delle Carceri, all’interno del bosco sacro di lecci (crediti M. Medici). A destra: sezione della nuvola di punti tridimensionale in vista ortogonale di una porzione del chiostro dell’Eremo.
Questa rottura con il papato si protrasse fino al 1427, quando Martino V ne ordina la repressione, facendo distruggere i loro insediamenti e condannandone alcuni per eresia al rogo. Nel 1443, il crescente numero di frati e di conventi, tra cui la Porziuncola (1417) e La Verna (1443), passati al nuovo movimento, determinò la rottura tra Conventuali e Osservanti, che venne sancita nel 1517 da Leone X (da Decimio, 1757).
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Stefano Bertocci Federico Cioli Anastasia Cottini Fig. 4 Fasi evolutive dell’Eremo delle Carceri (crediti P. Mercurelli Salari).
Fig. 5 Vista planimetrica della nuvola di punti ottenuta con la prima campagna di rilievo laser-scanner.
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puntuali che si susseguirono nel corso di tutto il secolo. L’aumento del numero di frati rese necessario anche l’ampliamento della primitiva cappella, inadatta ad ospitare la nuova comunità, con la costruzione della chiesa di San Bernardino, resa possibile grazie all’ampliamento del convento e il trasferimento degli ambienti destinati alla vita comune nei nuovi fabbricati. Venne spostato il coro nell’attuale posizione e vennero realizzati l’altare e i relativi affreschi, databili tra la metà del XV secolo e l’inizio di quello successivo. La piccola aula, coperta da una volta a botte impostata sui muri laterali di rinforzo, costruiti in quel periodo come sostegno per la realizzazione delle celle, è affrescata da Giovanni di Corraduccio con un Crocefisso tra la Madonna, san Giovanni Evangelista e san Francesco genuflesso. Il dormitorio, al quale si accede attraverso il refettorio attraverso uno stretto corridoio e una scala che porta al piano superiore, originariamente era costituito da un ambiente unico, ma venne poi suddiviso in sei celle scandite dalla costruzione di cinque archi rampanti di rinforzo, poggianti sulla parete rocciosa. Alla fine del XVI secolo vengono realizzati degli interventi di ristrutturazione del refettorio, un piccolo vano rettangolare voltato, che acquisisce così la sua univoca funzione. Dalla cappellina venne studiata una scala in pietra che permetteva di raggiungere il giaciglio di San Francesco e uscire poi all’esterno, nel punto in cui la tradizione indica il “buco del diavolo”, aperto dal demonio cacciato da frate Rufino. Da qui tramite un ponte in legno si raggiungeva la cappella della Maddalena, costruita nel 1484 per ospitare le spoglie di frate Barnaba Manassei (Mercurelli Salari, 2013). In seguito gli Osservanti si suddivisero in correnti più rigorose come quella dei Riformati, ai quali Clemente VII concesse nel 1532 dei luoghi a loro destinati (da Decimio, 1757), e nel 1602 subentrano agli Osservanti alle Carceri, costituendo una famiglia numerosa che nel XVIII richiederà un nuovo ampliamento del convento. Nel corso del XVI secolo vennero dunque eretti due nuovi edifici: il braccio a sinistra dell’ingresso, destinato ad ospitare una cucina al piano terra e quattro celle al piano superiore, utilizzate oggi come foresteria; e quello a sud, dove attualmente si trova la portineria e una nuova cappellina costruita nel 1970, più ampia di quella di San Bartolomeo, utilizzata per le orazioni (Mercurelli Salari, 2013). Dal 1602 la Carceri entrarono a far parte della Provincia Riformata di San Francesco, dove il rigoroso rispetto del voto di povertà proibì l’aggiunta di nuovi ambienti, consentendo solo interventi di salvaguardia delle strutture esistenti. A tal riguardo vennero realizzati dei lavori per il rinforzo dello scoglio sotto la grotta, appesantito dalle nuove costruzioni, realizzando dei robusti piloni in muratura, impresa conclusa nel 1609. Negli stessi anni l’ambiente della grotta di San Francesco, in parte scavato nella roccia, venne suddiviso in due da un muro, costruito come sostegno per la volta in muratura realizzata in sostituzione di quella rocciosa originaria, dividendo l’andito in due spazi, “il giaciglio” e “l’oratorio”. All’esterno vennero eretti un muro di sostegno e due piloni in muratura che permisero di sostituire il ponte in legno con uno in pietra, interventi che vennero consolidati nel 1687 e nel 1841. Nel corso del XVIII secolo l’ala nord venne dotata della loggia al secondo piano con struttura in legno, sostituita nel 1770 da una in muratura, nel 1750 venne realiz-
zata la biblioteca e nel 1754 si aggiunsero due ambienti con accesso dalla loggia (Mercurelli Salari, 2013) (Fig.4). I Francescani vissero nelle Carceri in via continuativa, fatta eccezione per la soppressione napoleonica del 1810 e quella del Regno d’Italia, attuata dal marchese Gioacchino Napoleone Pepoli tra il 1866 e il 1875, che con un decreto dispose la soppressione delle congregazioni religiose e l’incameramento da parte dello Stato dei loro beni (Di Giampaolo, 2013). Questi due fatti determinarono una diminuzione drastica del numero di frati, che nel corso del XVII e XVIII secolo contavano un numero di circa dodici elementi e che a seguito del 1875 rimasero in due, messi a gestire un bene di proprietà del Comune. Nel 1897 i Riformati vennero riuniti all’Ordine dei Minori da Leone XIII6. Nel 1921 il Comune concesse ai francescani l’uso esclusivo e libero delle Carceri, degli orti, del bosco esentandoli dalle tasse, in cambio di salvaguardare l’ambiente e consentire l’accesso ai cittadini (Mercurelli Salari, 2013). Rilievo digitale con laser-scanner (F. C.) Il rilievo digitale dell’Eremo è stato eseguito con due modelli diversi di laser: uno Z+F IMAGER 5016 ed un FARO Focus M70. Il primo è stato utilizzato principalmente per le scansioni esterne, poiché è dotato di un raggio d’azione particolarmente lungo e si è quindi mostrato adatto a rilevare anche alcune porzioni di bosco, il secondo è stato impiegato nel rilievo degli ambienti interni, essendo più piccolo, leggero e con un raggio d’azione minore rispetto al primo. Il prodotto di queste operazioni è una serie di nuvole di punti tridimensionali, che sono state successivamente registrate con il software Leica Cyclone per ottenere un’unica nuvola con un proprio sistema di riferimento e metricamente affidabile. Dalla nuvola possono essere ricavati i dati grezzi relativi a piante, prospetti e sezioni dell’edificio che costituiranno la base sia per i disegni tecnici, sia per studi approfonditi sulle architetture. Le scansioni eseguite all’esterno, inoltre, presentano anche il dato relativo al colore grazie alla fotocamera integrata nello strumento; negli ambienti interni non è stato possibile attivare tale funzionalità a causa delle scarse condizioni di illuminazione, ma sarà comunque possibile aggiungere il dato cromatico in fase di elaborazione grazie all’integrazione con il rilievo digitale fotografico. Rilievo digitale con macchine fotografiche (A.C.) Per il rilievo digitale sono state impiegate tre tipologie diverse di macchine fotografiche: una fotocamera reflex Canon EOS 760D, un drone con fotocamera DJI Mavic ed
Fig. 6 A destra: modello di mesh tridimensionale texturizzato dell’Eremo, ottenuto con tecnica SfM da drone. A sinistra: fotografia sferica ‘svolta’ del refettorio dell’Eremo, ottenuta con macchina fotografica a 360° (crediti F. Ferrari).
L’Ordine dei Frati Minori nasce formalmente nel 1897 con la bolla Felicitate quadam di papa Leone XIII, dall’unione delle quattro famiglie in cui erano divisi i frati della regolare osservanza (osservanti, riformati, recolletti, alcantarini).
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Stefano Bertocci Federico Cioli Anastasia Cottini La Structure from Motion o SfM è una tecnica di range imaging con cui si ottengono strutture tridimensionali da sequenze di immagini bidimensionali. 7
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una fotocamera a 360° Insta360 OneX - ciò ha permesso di ottenere prodotti differenti che rispondono a varie esigenze. La fotocamera reflex è servita a scattare fotografie che documentassero sia il contesto ed i dettagli più rilevanti del complesso conventuale, utili per integrare le ‘schede di catalogazione’, sia le operazioni del team di lavoro, ma anche per produrre immagini che, attraverso la tecnica SFM7, hanno consentito di ottenere modelli tridimensionali di mesh dell’architettonico. Con tale tecnica ed il software adeguato, infatti, è stato possibile produrre modelli di mesh sia delle porzioni esterne dell’Eremo, sia di alcune stanze interne (per esempio del Refettorio con la volta affrescata): i modelli, opportunamente scalati grazie al confronto con la nuvola di punti da laser-scanner e texturizzati, forniscono un dato affidabile dal punto di vista geometrico e cromatico. Il drone ha consentito di scattare fotografie e di girare dei brevi video del complesso dall’alto: tali operazioni sono state utili per integrare la fotogrammetria da terra – eseguita con camera reflex – e per ottenere foto e video di grande impatto, da un punto di vista inusuale, che serviranno ai fini promozionali del progetto. I limiti di tale strumento sono rappresentati principalmente dalla presenza di ostacoli fisici (in questo caso la fitta vegetazione che ha impedito agli operatori di scendere di quota – Fig.6) o dalla presenza di ripetitori che, come è accaduto per alcuni casi-studio umbri, impediscono al drone di alzarsi in volo. La fotocamera a 360°, infine, permette di eseguire scatti rapidi (è sufficiente posizionarla al centro della stanza ed attivarla – Fig.6) che, pur non avendo una qualità altissima, hanno consentito di essere elaborati in maniera da ottenere dei virtual tour ‘navigabili’ dagli utenti ed integrabili in siti web. Conclusioni (S.B.) L’architettura dell’Osservanza Francescana è stata scelta come esempio emblematico di convivenza tra architettura e territorio e riflette una parte importante della cultura europea. Il progetto mira a studiare l’eredità della rete italo-portoghese-spagnola dei paesaggi dell’Osservanza Francescana tentando di colmare le lacune riscontrate durante lo studio degli insediamenti dell’ordine. La ricerca tiene in considerazione sia gli aspetti materiali sia quelli immateriali di questo patrimonio, partendo da una micro scala di indagine legata agli aspetti culturali e artistici (manufatti, oggetti sacri, manoscritti) fino ad arrivare alla macro scala del contesto architettonico e paesaggistico (architetture, spazi sacri, paesaggi). Una delle principali finalità è infatti quella di comprendere il modo di relazionarsi dell’Ordine con lo spazio circostante seguendo strategie di sviluppo sostenibile e analizzando i valori immateriali rappresentati dalla sua conoscenza ed esperienza. Il progetto di catalogazione di queste strutture, spesso esposte oggi anche a rischio di abbandono, coniuga tecniche tradizionali ed innovative al fine di sviluppare metodologie di valutazione del rischio effettivo, protocolli e strumenti operativi di salvaguardia, e la creazione di data base con interfacce user-friendly per la gestione e la valorizzazione del Patrimonio Culturale oggetto di studio. La proposta mira a creare un dialogo con la ricerca storica già svolta, incluso uno studio sull’eredità materiale dell’Osservanza Francescana - edifici, paesaggi, archivi e biblioteche - che viene raramente approfondito. Questo divario deve essere colmato per comprendere i valori storici - ma anche contemporanei - degli edifici e per promuovere, proteggere e migliorare questo patrimonio. I primi risultati ottenuti garantiscono la ripetibilità dell’operazione ed un adeguato livello di approfondi-
mento dei casi studio che proseguiranno anche con alcuni esempi in Toscana come il Santuario de La Verna ed il complesso di San Vivaldo a Montaione che rappresenta un unicum in Toscana con il suo “sacro monte” costituito da una serie di cappelle contenenti le principali scene della passione di Cristo disposte in un interessante contesto naturalistico. Crediti Per le informazioni riportate nel paragrafo “I casi-studio” si ringraziano i frati presenti nei singoli complessi conventuali, che ne hanno illustrato le principali caratteristiche, il sito ufficiale dei Frati Minori dell’Umbria (Provincia Serafica San Francesco d’Assisi) e di Sardegna (Custodia di Santa Maria delle Grazie) (https://www.assisiofm.it/) e l’Archivio storico della Provincia Serafica dei Frati minori dell’Umbria sito in Assisi, che ha permesso di reperire dati non presenti nella bibliografia moderna e contemporanea. Bibliografia Olgiati F. et al. (a cura di) 1988, Fonti Francescane, Edizioni Messaggero - Movimento Francescano, Padova – Assisi. Caiaffa E. (a cura di) 2006, SISTEMI INFORMATIVI GEOGRAFICI. Un percorso attraverso concetti e nozioni fondamentali per addentrarsi nel vasto mondo della Scienza della Informazione Geografica, ENEA, Roma. Bruschelli D. 1821, Asisi città serafica e santuarj che la decorano ad istruzione e guida dei forestieri che vi concorrono. Opera del p. Domenico Bruschelli m.c. corredata di 30 rami rappresentanti i santuarj sudetti, e varie altre particolarità che meritano osservazione, disegnati ed incisi dal signor Giambattista Mariani, Francesco Bourliè, Roma. Mercurelli Salari P. 2013, Eremo delle Carceri, Quattroemme srl. Da Decimio B. 1757, Secoli serafici ovvero compendio cronologico della storia francescana dall’anno 1182 in cui nacque il serafico patriarca S. Francesco d’Assisi: fondatore dell’ordine de’ frati minori fino al capitolo generale dell’anno 1756, Appresso Pietro Gaetano Viviani, Firenze. Di Giampaolo F. 2013, Pietre che parlano. Conventi chiusi e Conventi aperti della Provincia Serafica di San Francesco, Provincia Serafica di San Francesco dei Frati minori dell’Umbria, Assisi. Bertocci, S. 2020, Paesaggi Francescani: la Regola dell’Osservanza tra Italia, Portogallo e Spagna, in Bertocci, S., Parrinello, S. (a cura di) 2020, Architettura Eremitica, Sistemi progettuali e paesaggi culturali, Edifir, Firenze, pp. 302 - 307. Amonaci, A. M. (1997), Conventi toscani dell’osservanza Francescana, Silvana editoriale, Milano.
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L’isola di Ventotene. Riflessioni sul paesaggio e i suoi valori Gilberto De Giusti
Sapienza Università di Roma.
Marta Formosa
Gilberto De Giusti Marta Formosa
Sapienza Università di Roma.
Abstract The essay aims to highlight the landscape components of the island of Ventotene, analyzing the current urban planning, history and naturalistic features of the site. The island is an important environmental resource and it is a State Natural Reserve (RNS) and as a Marine Protected Area (AMP). However, the current legislative instruments are not sufficient to activate a real landscape conservation plan, not considering the relationships with anthropic activities nor with the economic and depopulation problems that concern the small island territory. In particular, the problem of abandoning the fields emerges, which without care or maintenance risk losing their identity, allowing the allochthonous vegetation to advance to the detriment of the nature of the place. Proper planning must integrate the various problems into a future vision of local development. The essay exposes some reflections on the safeguarding of the identity of the place, referring to the concepts of territory, environment and landscape, to be considered as the basis of landscape planning. Keywords Ventotene, Arcipelago pontino, Paesaggio, Ambiente, Territorio.
Il presente saggio si basa sullo studio svolto per il corso di “Principi e metodi della conservazione del paesaggio storico” del prof. arch. Elio Trusiani, tenutosi nell’A.A. 2018/19 presso la Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio dell’Università degli Studi di Roma “Sapienza”. Si ringraziano il prof. arch. Elio Trusiani e l’arch. Piera Pellegrino per la guida nello svolgimento dello studio del paesaggio di Ventotene; gli autori sono grati al dott. Stefan Pirau per l’ospitalità sull’isola e alla prof.ssa Luciana Ciracò per l’aiuto nell’approfondimento naturalistico.
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Territorio, ambiente, paesaggio Territorio, ambiente e paesaggio “costituiscono l’oggetto di studio e di progetto del piano paesaggistico, nonché delle politiche di tutela, salvaguardia, valorizzazione e trasformazione promosse e attivate con lo strumento stesso” (Trusiani, 2014, p. 25)1. Questi tre termini che Zevi definisce “‘polisemici’, nel senso che rispondono ad una congerie di significati” (Zevi, 1995, p. 10), possono essere così distinti: il territorio è “l’esito di un processo di strutturazione e stratificazione dello spazio da parte di una società insediata”, l’ambiente è “il complesso di elementi che si muovono in un contesto comune e che si influenzano reciprocamente”, il paesaggio è il “prodotto di un sistema di relazioni, con delle caratteristiche proprie non riconducibili alla somma delle sue parti” (Trusiani, 2014, pp. 26-31). Lo studio di queste tre componenti si arricchisce di approfondimenti sulla storia, sulle strutture naturali e sulle valenze simboliche del luogo, e promuove il confronto tra i diversi strumenti di gestione per giungere alla de-
Fig. 1 Ventotene (LT), Lazio, Italia. Veduta panoramica del versante est (in alto) e ipotesi progettuale (elaborazioni grafiche: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019).
finizione di buone norme per la tutela e, ove necessario, per il restauro del paesaggio. Come esempio di questo tipo di indagine conoscitiva, si illustra l’analisi del paesaggio dell’isola di Ventotene, significativo per il valore figurativo e naturalistico ma privo attualmente di un adeguato riconoscimento nelle sue diverse componenti. Inquadramento territoriale e strumenti di tutela del comune di Ventotene L’arcipelago delle isole Pontine, in Provincia di Latina nella Regione Lazio, è divisibile in due gruppi: quello a nord-ovest, formato da Ponza, Palmarola, Zannone e Gavi, e quello a sud-est composto da Ventotene e S. Stefano. I due ambiti, di origine vulcanica, distano tra loro 22 miglia; quello di Ponza si affaccia verso l’arco peninsulare di Sabaudia-Circeo, mentre quello di Ventotene verso Gaeta. Ventotene e S. Stefano si pongono baricentricamente tra Ponza e Ischia, costituendo il territorio comunale con un’estensione di 1,3 km quadrati. Ventotene è di forma allungata da nord-est a sud-ovest, lunga 1750 m da Punta Eolo a Punta dell’Arco e larga al massimo 850 m con un minimo di 250 m a nord, tra la Cala Parata Grande e la Cala Rossano. Si struttura come un piano inclinato, che si solleva gradualmente da nord-est a sud-ovest, raggiungendo il suo picco di 139 m in corrispondenza di Punta dell’Arco (Fig. 2). Le coste sono alte e formate da tufi e basalti, a nord è presente il nucleo insediativo, mentre a sud la costa ha piccole insenature.
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Gilberto De Giusti Marta Formosa Il PdF è approvato a Napoli con Delibera Comunale n. 43 del 20/04/1974, integrato dalla Tabella dei Tipi Edilizi con Deliberazione di G.R. Lazio n. 697 del 17/02/1981. 3 Per un’esauriente e utile trattazione della storia della tutela del paesaggio e dell’ambiente in Italia, si rimanda al saggio in corso di stampa, citato in bibliografia, di Roberta Maria Dal Mas. 4 L’Area Marina Protetta (AMP) ‘Isole di Ventotene e S. Stefano’ è istituita con D.M. 12/12/1997, la Riserva Naturale Statale (RNS) ‘Isole di Ventotene e S. Stefano’ con D.M. 11/05/1999: la Zona di Protezione Speciale (ZPS) ‘Isole di Ponza, Palmarola, Zannone, Ventotene e S. Stefano’ è contraddistinta dal codice IT6040019 e il Sito di Interesse Comunitario (SIC) ‘Fondali circostanti l’isola di Ventotene’ con codice IT6000018 < http://www. riservaventotene.it/index. php> (05/20). 5 Il PAI è approvato con Deliberazione del Consiglio Regionale n.17 del 04/04/2012; il PTP, ambito territoriale n. 14, è del 29/12/1986; il PTPR è adottato dalla Giunta Regionale con atti n. 556 del 25 luglio 2007 e n. 1025 del 21 dicembre 2007, ai sensi degli artt. 21, 22, 23 della L.R. n. 24/98. 2
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Il Comune di Ventotene è gestito con il Piano di Fabbricazione approvato nel 19742. Per la ricchezza del patrimonio vegetazionale e faunistico, Ventotene e S. Stefano sono Area Marina Protetta (AMP) e Riserva Naturale Statale (RNS) ai sensi della L. 394/913. Inoltre entrambe, rientrando in Rete Natura 2000, sono contraddistinte come Zona di Protezione Speciale (ZPS) e come Sito di Interesse Comunitario (SIC)4. Questo breve quadro informativo delinea alcuni degli strumenti di tutela di cui si avvale il territorio insulare, a cui si devono aggiungere il Piano di Assetto Idrogeologico (PAI), il Piano Territoriale Paesistico (PTP) e il Piano Territoriale Paesistico Regionale (PTPR)5. Il primo, trattando la problematica dell’erosione dei terreni, individua lungo il perimetro di Ventotene il pericolo di frana con grandi e rapidi movimenti di terra soprattutto lungo le falesie; il secondo recepisce la L. 431/85 per la salvaguardia delle coste a 300 m dalla linea di battigia e delle zone agricole ad alto livello paesistico, su tutta la superficie dell’isola. Questa differenziazione, piuttosto essenziale, è superata dal PTPR della Regione Lazio che, facendo riferimento al Codice dei Beni Culturali (D. Lgs. 42/04) e alla L.R. 24/98, delinea i sistemi del paesaggio naturale e del paesaggio insediativo in modo più completo, e contrassegna puntualmente i beni soggetti a vincolo. Nonostante il sito sia corredato da numerosi strumenti urbanistici alle varie scale, si evidenzia la necessità di scendere nel dettaglio delle sue strutture territoriali, ambientali e paesaggistiche e delle relazioni che intercorrono tra esse. Occorre cioè mettere a sistema le disposizioni derivanti dai diversi gradi di pianificazione, per giungere a una visione unitaria del territorio, inteso come un continuum in evoluzione, in base alla quale tratteggiare delle linee guida in un’ottica di sviluppo futuro. Strutture del paesaggio antropico. Tempi e modi dell’abitare. Chiamata anticamente ‘Pandataria’, poi ‘Pantatera’, il nome di Ventotene deriva dall’azione esercitata sull’isola dai venti. Tracce di civiltà sono registrate dall’età protostori-
pagina a fronte Fig. 2 Ventotene (LT), Lazio, Italia. Assonometria orografica e prospetti dell’isola (elaborazione grafica: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019). Fig. 3 Ventotene (LT), Lazio, Italia. Cartografia dell’evoluzione storica (elaborazione grafica: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019).
ca, ma i segni più consistenti nel territorio sono stati lasciati dagli abitanti romani con la realizzazione a nord del porto scavato nel pianoro di tufo e della villa imperiale di Punta Eolo del I sec. a.C. (Figg. 3, 5). Lo scalo era il punto di approdo per navi onerarie di medie e piccole dimensioni, che assicuravano il rifornimento e il collegamento con la terra ferma (De Rossi, 1986). Si è formato così il primo nucleo abitativo a ovest con luoghi di ristoro e locande. La sapienza costruttiva con cui è stata organizzata la zona costiera testimonia la cultura idraulica delle maestranze: il porto infatti, composto di due bacini, di cui il minore detto ‘pozzillo’ funge da risacca, è in costante quiete, anche quando le correnti e i venti infuriano sull’isola. Per quel che riguarda la villa, di imponenti dimensioni e sviluppata a terrazzamenti, la tradizione vuole che essa fosse il luogo di confino di Giulia, figlia di Augusto. La ricchezza dei materiali, l’estensione e il posizionamento scenografico, fanno intendere l’antica predominanza della struttura rispetto al contesto. I ruderi con imposta sul banco tufaceo sono oggi soggetti all’azione erosiva dei venti e della salsedine, e sono stati gravemente compromessi dagli scavi eseguiti tra il XVIII e il XIX secolo, sia per il reperimento di oggetti archeologici che per l’estrazione di tufo. A oggi, via mare, sono infatti ben visibili le sezioni eseguite sulla costa rocciosa per il prelevamento di tale materiale, tra cui emergono a tratti i lacerti murari antichi. Interessante è l’originale struttura della discesa a mare, parzialmente coperta a volta e costituita da una serie di gradini scavati nel tufo: tale tipologia, utilizzata in epoche diverse, ricorre in più punti della costa per raccordare la quota più alta delle scogliere a quella dell’acqua. Altre tracce significative di epoca romana sono le cisterne, l’acquedotto sotterraneo e la peschiera. Dopo secoli di abbandono, nel XVI secolo l’isola è “tutta piana senza arbori e bonissimi terreni”, è abitata da pescatori stagionali di ostriche e coralli, mentre le funzioni religiose sono svolte nella cappella sotterranea di S. Candida (De Rossi, 1986, tav. XXXI). Nel XVIII secolo Carlo di Borbone dà inizio a un progetto di ripopolamento, poi pro-
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Gilberto De Giusti Marta Formosa Fig. 4 Ventotene (LT), Lazio, Italia. Tracce antiche: 1. Porto romano; 2. Pianoro di tufo a nord; 3. Casa grotta e scesa a mare sul versante sud-est (foto: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019). Fig. 5 Ventotene (LT), Lazio, Italia. Vista del nucleo insediativo a nord-est (elaborazione grafica: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019). Fig. 6 Ventotene (LT), Lazio, Italia. Modi dell’abitare: 1. Casa con cupola ischitana; 2. Rampa borbonica; 3. Nuova edilizia in cemento armato (foto: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019).
Francesco Carpi progetta il carcere sull’isola di S. Stefano (De Rossi, 1986). 7 Le isole di Ventotene e Santo Stefano rientrano nella provincia magmatica romana, mentre Ponza fa invece parte della provincia magmatica toscana <https://www.ponzaracconta.it/2014/06/13/ ponza-e-la-sua-natura-geologica-1-la-geologia-dellarcipelago-ponziano-con-particolare-attenzione-allisola-di-ponza/> (05/20). 6
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seguito da Ferdinando IV con l’ausilio del barone Antonio Winspeare e dell’architetto Francesco Carpi, per cui sull’isola si insediano gruppi di coloni ischitani, che eliminano i boschi di lecci e introducono campi a seminativo e vite6. Ha così origine il borgo composto di case a schiera, che è raccordato al porto romano dalla rampa, fronteggiata dalla nuova chiesa di S. Candida (Fig. 5). Si diffonde l’uso della casa ischitana, di colore bianco calce, consistente in un modulo quadrangolare (approssimabile a 4,80 x 4,80 m) coperto da una calotta ribassata detta ‘lamia’, per la conservazione dell’acqua piovana (Fig. 6). Attualmente, di questa tipologia si riscontrano pochi esempi nel centro storico e in campagna: infatti, secondo il nuovo gusto ponzese per il cromatismo, anche a Ventotene agli inizi del Novecento le case, antiche e di nuova costruzione, sono dipinte di toni pastello (Lemme, Morlacchi, 2005). Dopo l’espansione edilizia ottocentesca che, tutto sommato riprende i caratteri tipici dell’isola con bassi volumi a un piano dislocati lungo le arterie che vanno verso sud-ovest, nel XX secolo, con la realizzazione delle carceri prima e del rinnovato interesse turistico poi, un maggiore inurbamento ha interrotto la crescita per moduli dell’abitato, introducendo nuove forme costruttive in cemento armato, spesso estranee all’ambiente per tipo e rapporti dimensionali (Fig. 6). Caratteri ed elementi del sistema paesistico-ambientale Le isole di Ventotene e di S. Stefano affiorano dal mare su di un’alta costiera lavica, stratificata, frantumata alla base in numerosi scogli basaltici sparpagliati sotto il pelo dell’acqua; solo la maggiore presenta delle zone sabbiose più o meno ampie che consentono una più agevole discesa a mare7. Attualmente, però, il pericolo idrogeologico ha comportato la chiusura di alcune spiagge, limitando la fruibilità al solo lido di Cala Nave. Lo studio della geologia e dell’orografia del territorio ha permesso di considerare le relazioni altimetriche instaurate tra le diverse parti dell’isola: si osserva che a nord-est
Fig. 7 Ventotene (LT), Lazio, Italia. Analisi delle componenti paesaggistiche e astrazione grafica della struttura del paesaggio (elaborazione grafica: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019).
l’accentuata depressione verso il mare ha favorito l’insediamento umano, con la realizzazione del porto e del borgo, il cui sviluppo nel tempo è avvenuto soprattutto lungo i lidi. Scendendo verso sud-ovest, invece, il terreno si fa più ripido, con aspre salite a cui seguono immediate discese, per poi raggiungere la parte più alta alla Punta dell’Arco. Il profilo ovest è caratterizzato da un’alta parete rocciosa, mentre quello est da una più dolce conformazione del terreno a terrazzamenti (Fig. 2). Le diverse componenti del paesaggio sono declinabili a partire dai tre macroambiti fisico-naturale, agricolo e insediativo, con riferimento alla Direttiva Habitat 92/43/ CEE (Fig. 7)8. Le componenti fisico-naturalistiche vedono in primo piano gli ambienti da preservare, tra cui l’habitat prioritario delle praterie di Posidonia oceanica, ma anche di quelli non prioritari di alto rilievo quali la macchia mediterranea che si estende lungo il perimetro dell’isola, e la vegetazione alo-psammofila degli arenili, tra cui si evidenzia il genere Euphorbia sp. Caratteristica è inoltre la vegetazione delle scogliere, composta di varietà endemiche di Limonium sp., mentre brevi brani di vegetazione ripariale sono presenti in prossimità dei fossi (Fig. 8). Per quel che riguarda le componenti agricole, si evidenzia il rapporto conflittuale tra la vegetazione spontanea e quella dei campi (Fig. 9). Le tradizionali coltivazioni a seminativo, vite e olivo sono ridotte al minimo, per cui i terreni sono spesso in stato di abbandono e consumati dall’incolto e dalla gariga. Mentre l’incolto si trasforma in prato naturale, favorendo l’attecchimento di piante tipiche della macchia mediterranea, tra cui l’artemisia, la centaurea cineraria, la centaurea marittima, l’asparagina, il mirto, il lentisco, ecc., diversamente la gariga è una degradazione della macchia, composta di specie alloctone, quali l’Opuntia ficus-indica, l’Ailanthus altissima, il Carpobrotus edulis e l’Agave ame-
La Direttiva ‘Habitat’ e la Direttiva Uccelli sono il cuore della politica comunitaria in materia di conservazione della biodiversità e sono la base di Natura 2000 <https:// www.minambiente.it/pagina/ rete-natura-2000> (05/20). 8
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Gilberto De Giusti Marta Formosa Fig. 8 Ventotene (LT), Lazio, Italia. Paesaggio naturale: 1. Gariga; 2. Macchia mediterranea; 3. Vegetazione delle scogliere (foto: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019). Fig. 9 Ventotene (LT), Lazio, Italia. Paesaggio agricolo: 1. Campi terrazzati; 2. Terreni agricoli e incolto; 3. Campi verso Punta dell’Arco (foto: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019). Fig. 10 Ventotene (LT), Lazio, Italia. Percorsi: 1. Centro storico; 2. Strada rurale; 3. Strada rurale verso Punta dell’Arco (foto: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019).
ricana, che infestano il territorio con un apparato radicale resistente e difficile da rimuovere. La componente insediativa, infine, tiene conto dei tempi e dei modi con cui l’abitato si è consolidato nel tessuto attuale, distinguendo il nucleo settecentesco d’origine dalle espansioni successive, ma si segnalano anche episodi di interessante architettura rurale al di fuori del centro. Da questa analisi emerge la problematica dell’abbandono dei campi, che investe molteplici tematiche, dalla conservazione del paesaggio agrario a quello del ripopolamento dell’isola. Infatti, mentre l’abitato si concentra nella zona portuale, dove si svolgono le attività turistico-ricettive, si perde la tradizione agricola, facendo sì che il paesaggio muti progressivamente perdendo quelli che sono i suoi caratteri identitari, e quindi impoverendosi dei suoi valori storici e figurativi. Il nuovo costruito, con forme eterogenee distanti dalla storia del luogo, si immerge in un contesto spesso disordinato e frammentario, per cui è bene mettere a punto delle strategie d’intervento e di tutela che restituiscano la corretta unità figurativa. La percezione del paesaggio. Racconto di un’isola. Queste tematiche sono ancora più evidenti per chi dal centro urbano si incammina verso la Punta dell’Arco: la strada principale attraversa con andamento spezzato l’isola in tutta la sua lunghezza (Fig. 10). Oltrepassato il centro compatto di case a schiera, ci si inerpica per la via delimitata da muretti a secco in tufo o in muratura, reti metalliche, staccionate. Salendo di quota, è possibile avere scenografiche visuali verso le isole di S. Stefano, Ischia e Ponza, incorniciate dalle aree agricole, per lo più abbandonate, disposte a pettine rispetto all’infrastruttura principale e, a volte, declinanti a terrazzamenti verso la costa. Via mare, la percezione del paesaggio è diversa. Oltre il porto romano e il conglomerato edilizio, in senso antiorario, si sorpassa il pianoro tufaceo di cui sono ben visibili i tagli per lo sfruttamento a cava, e a seguire la costa cresce in altezza e dalla sommi-
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Fig. 11 Ventotene (LT), Lazio, Italia. Studi percettivi della falesia (elaborazione grafica: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019).
tà si affacciano sporadici edifici. La falesia, stratificata per piani tufacei, frammentata in pezzi di basalto o scavata da caverne, diviene protagonista, popolata di vegetazione alofila e di uccelli migratori che si insediano periodicamente sugli scogli. Superata la Punta dell’Arco, il versante est presenta gradoni verdi a cui si intervallano pareti rocciose consumate dai venti ma anche lavorate anticamente dall’uomo, con una sequenza di finestroni, arcate, rovine e tracce di scalinate per la discesa a mare. Alcune abitazioni insistenti sulla scogliera sono tuttora abitate, pur essendo le loro mura ridotte di spessore di anno in anno per l’azione del vento. Allontanandosi da Ventotene, in direzione di S. Stefano, è possibile cogliere con uno sguardo l’articolazione spaziale dell’isola, di come cioè l’aggregato urbano si disponga sul territorio, intrecciando relazioni con l’ambiente naturale: dal centro storico compatto, le case si diradano sempre più fino a ridursi a punti nel paesaggio, lasciando in primo piano le falesie e i terrazzamenti verdi (Fig. 1). Con occhio critico, dall’osservazione diretta di Ventotene, si ricorda quanto affermato da Norberg-Schultz: «L’architettura è un fenomeno concreto. Essa consiste di paesaggi e insediamenti, edifici e articolazioni caratterizzanti, perciò è una realtà vivente» (Norberg-Schultz 1974, p. 5). L’isola si qualifica come un’entità conclusa, strettamente definita, ma allo stesso tempo aperta e atomo infinitesimale per chi la guarda dal mare. Le visuali preferenziali dall’interno sono le prospettive centrali che inquadrano la strada principale, o le viste verso il mare che, per piani, possono essere scomposte nei campi prima, il mare poi, e infine S. Stefano e Ischia a ovest, Ponza a est. Conclusioni. Definizione di nuovi ambiti di paesaggio Alla luce di questa analisi, è evidente la necessità di formulare una nuova e aggiornata pianificazione territoriale che non si limiti a settorializzare i vari ambiti comunali, ma che tenga soprattutto conto delle relazioni instaurate tra le diverse componenti di paesaggio e le attività umane, in una visione futura di crescita e di sviluppo del territorio. Studi recenti (Oddi, Pierucci, 2019), hanno messo in luce la realtà periferica di quest’isola, che vive esclusivamente di turismo nell’alta stagione svuotandosi per il resto dell’anno, nonché poi le criticità legate al protocollo per la pesca fissato dalla AMP. In considerazione delle limitazioni imposte a questo tipo di produzione, la conservazione e l’incentivazione dell’attività agricola sono allora da ritenersi strategie es-
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Gilberto De Giusti Marta Formosa Fig. 12 Ventotene (LT), Lazio, Italia. Riconfigurazione degli ambiti paesaggistici (elaborazione grafica: Gilberto De Giusti, Marta Formosa, 2019).
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senziali, non solo per non perdere l’identità del luogo, che altrimenti rischierebbe di scivolare nello stereotipo, ma anche per la ripresa dell’economia in un’ottica di sostenibilità. Il ritorno ai campi, oltre a preservare la tessitura dei poderi, assicurerebbe una maggiore cura della fascia costiera, mettendo in atto una forma di controllo più diretta e immediata rispetto ai pericoli di crolli e di frane e all’estensione della gariga a danno della macchia mediterranea. La ripresa dell’attività agricola garantirebbe cioè una forma manutentiva continua e, con opportuni aiuti da parte degli organi governativi, un certo argine allo spopolamento. Queste considerazioni, unite all’osservazione diretta del territorio e all’analisi degli strumenti legislativi, conducono alla definizione di nuovi ambiti di paesaggio: quello a valenza naturalistico-ambientale lungo la costa, quello di valore agrario differenziato secondo parametri di bontà figurativa e di qualità botanica all’interno e quello a valenza insediativa storico-culturale in corrispondenza del borgo (Fig. 12). Questo esito è da ritenersi una semplice base di partenza, su cui riflettere e da cui si auspica abbiano origine nuove e più approfondite indagini, che vaglino anche indispensabili strategie economiche di crescita. In questo senso è doveroso guardare anche ad altri esempi di realtà insulari e ai modelli di gestione delle loro risorse, a livello sia locale che alle scale maggiori, facendo riferimento al modo d’uso del territorio, ma anche agli aspetti demografici, ai flussi migratori stagionali, ai collegamenti e al rapporto con i centri dominanti: tutti argomenti questi che, per la loro importanza, devono essere discussi e ampliati criticamente in studi specifici. In conclusione, il riconoscimento dei valori del paesaggio è indispensabile per la tutela e la conservazione dei caratteri del sito, da identificarsi con quel genius loci che, per richiamare le parole di Norberg-Schultz, è: “lo ‘spirito del luogo’ che gli antichi riconobbero come quell’‘opposto’ con cui l’uomo deve scendere a patti per acquisire la possibilità di abitare” (Norberg-Schultz 1979, p. 11). Bisogna quindi stringere nuovi ‘patti’, cioè adottare una mirata strategia d’intervento che agisca sul paesaggio e sul modo in cui l’uomo interagisce con esso, attivando una ricerca di equilibrio tra l’operare umano e la natura dell’isola.
Bibliografia Norberg-Schultz C. 1974, Significato nell’architettura occidentale, Electa Editrice, Milano. Bigi M.R. 1979, Case contadine, Italia Meravigliosa, Touring Club Italiano, Milano. Norberg-Schultz 1979, Genius loci. Paesaggio, ambiente, architettura, Electa Editrice, Milano. 1981, Lazio, Guida d’Italia del Touring Club Italiano, Touring Club Italiano, Milano. De Rossi G.M. et al. (a cura di) 1986, Le Isole pontine attraverso i tempi, Guido Guidotti Editore, Roma. Zevi B. 1995, Paesaggi e città, Controstoria dell’Architettura in Italia, Newton Compton, Roma. Zevi B. 1996, Dialetti architettonici, Controstoria dell’Architettura in Italia, Newton Compton, Roma. Lemme R., Morlacchi M. 2005, Ponza. L’immagine di un’isola, Gangemi Editore, Roma. Giovannini M., Colistra D. (a cura di) 2006, Spazi e culture del Mediterraneo, Kappa, Roma. Falcone P. (a cura di) 2008, Colore architettura ambiente. Esiti problematiche, conoscenza, conservazione e progetto delle finiture dipinte e del colore, nella città storica e nella città moderna, in Italia e in Europa, Gangemi Editore, Roma. Trusiani E. 2014, Territorio, ambiente, paesaggio. Un comune denominatore per il piano paesaggistico, in Id. (a cura di), Pianificazione paesaggistica. Questioni e contributi di ricerca, Gangemi Editore, Roma. Oddi G., Pierucci G. 2019, Le reti di Ventotene, in F. Pollice et al. (a cura di), Ripartire dal territorio. I limiti e le potenzialità di una pianificazione dal basso, «Placetelling. Collana di studi geografici e sulle loro rappresentazioni», n. 2, pp. 241-256. Dal Mas R.M. (in stampa), La tutela del paesaggio in Italia: la ricostruzione dell’iter legislativo per l’intervento di restauro, in M.L. Accorsi et. al. (a cura di), Giardini e parchi storici elementi ‘portanti’ del paesaggio culturale. Pluralità di aspetti e connotazioni, L’Erma di Bretschneider, Roma.
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Bollenti Spiriti: la via pugliese della rigenerazione urbana Giuliana Di Mari
Dipartimento di Ingegneria Strutturale, Edile e Geotecnica , Politecnico di Torino
Emilia Garda
Dipartimento di Ingegneria Strutturale, Edile e Geotecnica , Politecnico di Torino
Leonardo Lococciolo Giuliana Di Mari Emilia Garda Leonardo Lococciolo Alessandra Renzulli
Dipartimento di Ingegneria Strutturale, Edile e Geotecnica , Politecnico di Torino
Alessandra Renzulli
Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale, Sapienza Università di Roma.
Abstract In this paper is presented the distillate of a reasoning carried out by a public institution together with a community of people, which then became part of the Programma delle Politiche Giovanili della Regione Puglia – Bollenti Spiriti, the starting point of a new experience of participated urban regeneration. Through the critical examination of some stages of this experience, an attempt is made to reflect on the importance of the ability to design tools to activate virtuous processes, thanks to which new interpretations of the great changes that characterise this millennium can emerge. In a constantly evolving world, a paradigm change can open up new opportunities that open the way for the expression of very complex and vital subjectivities, with unexpected capacities for action. By assuming the role of platform, public administrations can share their resources, encouraging experimentation and the emergence of processes to transform cities. Beyond the design of tools, it is necessary that a community has spaces in which to create relationships. The next step after assuming awareness of the enormous potential energy that comes from citizens in relation to the problems of the city, is therefore to ask what and how much value can be generated if citizens began to experience public space. Among the traditional forms of public and private management of heritage, we can reflect on a third way: that of common management able to enhance mutual responsibility, generate new resources and mix latent ones, empower people and communities, create places where social capital thickens and becomes an element of cultural and economic development. Keywords Urban regeneration, participation, citizens, social innovation, Apulia.
Introduzione IIn un luogo qualsiasi del Mezzogiorno d’Italia, sia esso città o paese, le dinamiche sociali, demografiche ed economiche sono sempre le stesse: i flussi principali di beni e di persone sono distanti, l’economia è debole, i servizi culturali e sociali sono in gran parte assenti o insufficienti, la popolazione invecchia ed i giovani emigrano per studio e lavoro, la popolazione scolastica si riduce anno dopo anno, ampie fasce della comunità locale sono a rischio di povertà economica, sociale, educativa e culturale.
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Come invertire questa tendenza degenerativa? Ad un certo punto l’esigenza per la regione Puglia è stata quella di innescare un’inversione di rotta. Il governo regionale decide, nel 2005, di avvicinare le istituzioni ai giovani. La necessità era quella di progettare strumenti capaci di attivare le giovani generazioni in modo da renderle il vero motore di rinascita sociale, economica e culturale per l’intero territorio. È così che prende avvio il programma Bollenti Spiriti, pensato come un insieme coerente di interventi e azioni che hanno permesso di coniugare la promozione della creatività giovanile, della coesione sociale e della cittadinanza attiva con obiettivi di sviluppo formativo ed occupazionale. Bollenti Spiriti Il programma Bollenti Spiriti è un insieme di azioni strategiche e nasce nell’Assessorato regionale alla Trasparenza e alla Cittadinanza Attiva di Guglielmo Minervini sotto la coordinazione di Annibale D’Elia, il quale afferma: ...Il programma, quindi, prende le mosse da un approccio che possiamo definire ‘2.0’ nelle premesse ancor prima che nelle tecnologie da utilizzare. Non inclusione, ma partecipazione! Puntare sui giovani come risorsa significa andare oltre la vecchia concezione di ‘tutela’ che vede le giovani generazioni solo come ‘cittadini di domani’ e valorizzare il ruolo dei giovani come portatori di competenze, valori, energie, talento [...] non sistemare i giovani ma incoraggiarli. Non chiedersi cosa fare per i giovani, ma domandarsi piuttosto cosa possono fare per noi. [1]
L’idea alla base dell’iniziativa è semplice: pensare ai giovani come una risorsa e renderli il vero motore della rinascita sociale, economica e culturale della regione. Spesso le politiche giovanili dichiarano questi principi, ma nella realtà operativa prevale l’erogazione di servizi verso un ‘target giovanile’ già definito e in un processo top-down, basato su informazioni categorizzate senza tener conto della singola persona per il raggiungimento dello scopo prestabilito. Pensare ai giovani come una risorsa vuol di-
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Giuliana Di Mari Emilia Garda Leonardo Lococciolo Alessandra Renzulli
re non considerarli una fascia debole da includere, ma la migliore speranza per guardare il mondo che cambia in maniera nuova. In quest’ottica la ricerca “Cosa Bolle in Pentola”, finanziata nel 2006 al Dipartimento di Scienze Storiche e Sociali dell’Università degli Studi di Bari, ha rivolto le indagini ai bisogni dei giovani pugliesi nel complesso percorso di raggiungimento dell’autonomia nella transizione verso l’età adulta e nella creazione di nuove forme di partecipazione, protagonismo giovanile e progetti di politiche giovanili realizzati sul territorio regionale. Da un’indagine sul campo sono emerse le esperienze eccellenti di molte persone attive ed impegnate che mostravano grande entusiasmo – quello che in Puglia viene descritto con la parola “Priscio” – per quello che facevano; d’altra parte, il numero delle persone prive di interessi non era trascurabile, si riscontrava la medesima sensazione di solitudine in ognuno e dichiarava una grande sfiducia nei confronti della pubblica amministrazione, esattamente come quella delle persone attive. Dal valore emerso delle esperienze esistenti, l’amministrazione pubblica ha convenuto che dare risorse al “Priscio” potesse essere una straordinaria leva di sviluppo oltre che un moltiplicatore delle risorse pubbliche. La riflessione si sposta dunque sul come condividere le risorse strategiche. Secondo la teoria di Wikinomics “quando si condividono le proprie risorse strategiche è possibile innescare delle forme di collaborazione di massa che combattono la solitudine, generano valore e ricchezza.” [2] Principi Attivi In quest’ottica, la prima azione strategica condivisa è stata quella di ‘donare’ i finanziamenti di 7,5 milioni di euro, messi a disposizione dal Fondo Nazionale per le Politiche Giovanili, e ulteriori 2,5 milioni di euro dal bilancio ordinario della regione Puglia direttamente ai giovani. L’atto di donare, secondo gli economisti civili, è un forte mezzo per innescare fiducia, la stessa che i giovani avevano ormai perso nelle istituzioni. L’obiettivo non era la promozione dell’imprenditorialità bensì il crowdsourcing, ovvero la richiesta di idee e progetti a cui destinare i finanziamenti su una delle tre macro-aree individuate dal documento strategico della Regione Puglia: tutela e valorizzazione del territorio, economia della conoscenza e innovazione, inclusione sociale e cittadinanza attiva. Lo stimolo alla partecipazione e la promozione del bando sono corrisposti ad una semplificazione dell’iter burocratico, che ha previsto l’accesso diretto al bando regionale Principi Attivi a gruppi informali costituiti da un minimo di due persone, con i soli requisiti di essere cittadini pugliesi under 35 e terminare il progetto entro un anno. I dispositivi adottati dal bando si sono basati su modalità ‘open’, come strumenti web e diversi canali di comunicazione. La promozione del bando ha coinvolto associazioni, università ed enti locali attraverso un calendario di incontri di presentazione gestiti collettivamente mediante una pagina wiki. Oltre al raggiungimento dell’87,1% dei comuni, questa modalità ha avuto il vantaggio di ridurre i costi per l’amministrazione pubblica, limitandoli ai soli spostamenti nelle diverse sedi. Tra Marzo 2009 e Dicembre 2010, hanno partecipato alla seconda edizione 420 gruppi informali di giovani pugliesi che, su un totale di 1563 progetti candidati, hanno portato alla nascita di 114 imprese, 20 cooperative e 287 associazioni. L’aver donato e quindi aver responsabilizzato i ragazzi sui problemi ha generato in loro un desiderio di conoscenza. D’altra parte, l’imprevedibilità dei temi in gioco ha posto il problema di dover insegnare qualcosa che in realtà ancora non si conosce, permettendo così di sperimentare una conoscenza in-progress.
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Ci vuole un cambiamento di paradigma, ci vuole una nuova visione, sicuramente non si può risolvere potenziando e ricombinando dispositivi di educazione vecchio stile. L’Alma Mater – XII secolo – non era una agenzia che erogava servizi educativi ma era un consorzio di studenti che assoldavano i docenti. Così è nato – in collaborazione con ARTI (Agenzia Regionale per la Tecnologia e l’Innovazione), Laboratori dal Basso, un meccanismo di apprendimento basato sulla domanda anziché sull’offerta. “Chi vuole proporre un Laboratorio dal Basso (LdB) potrà presentare una manifestazione di interesse compilando il formulario online”. Con un meccanismo inverso all’iter tradizionale che prevede la rilevazione delle ‘domande di conoscenza’ e un ente di formazione che organizza i corsi su bisogni rilevati anni prima (a causa della lentezza burocratica), Laboratori dal Basso ha: diminuito i tempi, i costi, e ha assicurato la qualità dell’insegnamento perché direttamente indicata dall’utente finale. Quattrocento persone organizzate in gruppi di lavoro e aiutate da mentori esperti hanno frequentato un mix di seminari di formazione imprenditoriale e laboratori per acquisire competenze tecniche. Se Principi Attivi è stato uno strumento di attivazione che ha permesso ai giovani di fare il salto ‘da zero a uno’, dove zero corrisponde alla formulazione di un’idea come risposta di un bisogno e uno coincide alle modalità di realizzazione di questa idea, Laboratori dal Basso risponde al successivo bisogno di soddisfare la domanda di conoscenza generata. La seconda azione strategica intrapresa da Bollenti Spiriti è Laboratori Urbani, prima esperienza su larga scala in Italia di riuso sociale e culturale di edifici pubblici abbandonati.
Fig. 1 Recupero dello stabilimento enologico Dentice di Frasso. (Foto di A&R Tartaglione Rielaborazione degli autori, 2020)
Laboratori Urbani In Italia ci sono sei milioni di immobili pubblici e privati abbandonati, se ceduti a start up sociali e culturali, avremo un impatto del 4,8% sulla disoccupazione giovanile” (G. Campagnoli, 2014) [3]
Si è chiesto ai comuni pugliesi di immaginare dei progetti, uno per città, per trasformare edifici in disuso e abbandonati, di proprietà di comuni pugliesi, come scuole, siti industriali, monasteri, mattatoi, mercati e caserme, così da creare nuovi spazi pubblici per i giovani. È stata un’azione dai contenuti semplici che ha ridato vita ad un grande patrimonio pubblico abbandonato mettendolo in relazione con la creatività e l’energia delle nuove generazioni. La peculiarità di ogni Laboratorio Urbano risiede nella presenza distinta di spazi per l’arte e per lo spettacolo, luoghi di interazione sociale e sperimentazione di nuove tecnologie, servizi per la formazione, lavoro e imprenditorialità giovanile, spazi espositivi. Laboratori Urbani hanno portato attraverso un bando pubblico a: 71 progetti finanziati, 169 comuni beneficiari, 151 edifici, 100.000 mq di superfici ristrutturate, 44 milioni di euro di investimento di cui 10 milioni cofinanziati dai comuni. Laboratorio Urbano ExFadda Si riporta in quest’ambito un caso di eccellenza e il cui contesto di riferimento è San Vito dei Normanni (BR), il Laboratorio Urbano ExFadda, negli spazi dello stabilimento enologico Dentice di Frasso, un’impresa sociale vincitrice dell’UE 100 Urban Solution che cerca di trovare strade alternative a forme tradizionali di servizi e concept nuovi nella ricerca di profitto. La scommessa all’inizio dell’esperienza ExFadda è stata quella di pianificare un’azione con un forte impatto sociale cercando di mantenere una ge-
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Giuliana Di Mari Emilia Garda Leonardo Lococciolo Alessandra Renzulli Fig. 2 Incontri del processo partecipato di rigenerazione urbana Santu Vitu Mia (Rielaborazione degli autori, 2020)
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stione autonoma e immaginando i processi ordinari da mettere in campo indipendentemente dal finanziamento pubblico. Non si è pensato di erogare servizi o prodotti, ma si è costruita un’interfaccia in cui si sono trasformati i potenziali utenti/clienti in alleati e portatori di risorse, cioè persone che hanno co-prodotto il percorso che si è deciso di intraprendere. La strategia per creare una comunità intorno al vecchio stabilimento enologico viaggia attraverso questo termini: fiducia, attivazione, appartenenza. È stato creato un cantiere di autocostruzione in cui collettivi di architetti, designer e artigiani hanno guidato gruppi di ragazzi che volevano sviluppare il loro progetto o cittadini che semplicemente desideravano essere d’aiuto al loro territorio. L’autocostruzione ha consentito alle persone di rendere lo spazio sempre aperto e fruibile. ExFadda ospita oggi circa 30 organizzazioni, prevalentemente giovanili, attive nei campi della musica, dell’arte, dello sport, dell’artigianato, del welfare, ecc. Dopo anni di lavoro e sperimentazione, la comunità creata attorno ad ExFadda redistribuisce il valore economico generato su circa 60 persone tra docenti, operatori culturali e sociali, liberi professionisti, artisti, addetti ai servizi. Mentre il valore sociale complessivamente prodotto è generato tra: il libero uso degli spazi coperti e scoperti dell’ex stabilimento co-gestiti con gli abitanti; l’offerta di servizi gratuiti per l’orientamento, la co-progettazione, la raccolta fondi; l’inserimento lavorativo di ragazze e ragazzi con disabilità; l’organizzazione di eventi e seminari informativi sul sistema di opportunità di natura pubblica o privata; l’organizzazione e la produzione di eventi artistici e culturali accessibili a tutti; la progettazione e realizzazione di percorsi alternanza scuola-lavoro con gli istituti scolastici del territorio. Ex Fadda rappresenta un’eccellenza in quanto non è rimasto limitato ai confini perimetrali dell’immobile ma ha intercettato il bisogno di sviluppo dell’intero territorio comunale, estendendo il lavoro di comunità e co-producendo insieme con il comune di San Vito dei Normanni un percorso partecipato di rigenerazione. Santu Vitu Mia La collaborazione tra il Comune e il Laboratorio Urbano ExFadda ha generato il processo partecipato di rigenerazione urbana Santu Vitu Mia che, tramite incontri pubblici e laboratori in cui hanno partecipato cittadine e cittadini di tutte le età, ha infine prodotto la scrittura collettiva del DPRU, rispondendo ai criteri della legge regionale 21/2008. Tale legge richiede programmi integrati di rigenerazione urbana fondati su un’idea-guida di rigenerazione che si lega, nell’ambito territoriale di interesse, ai caratteri ambientali e storico-culturali, alla identità del territorio e ai bisogni degli abitanti. La costruzione del programma integrato necessita di un Documento Programmatico per la Rigenerazione Urbana (DPRU) che gli enti locali devono redigere al fine di individuare il contesto territoriale e definire obiettivi chiari e condivisi. Il DPRU non è solo un documento di pianificazione urbanistica, ma un dispositivo di attivazione per mobilitare la comunità a porsi delle domande sul proprio futuro e a darsi delle risposte collettive. La pianificazione urbana deve la sua efficacia non esclusivamente alla dimensione tecnica frutto di analisi, elaborazioni ed interventi condotti da esperti, ma all’esito di processi sociali più ampi che prevedano la partecipazione alla definizione delle strategie e alla loro attuazione da parte dei cittadini e delle forze attive della comunità. Spesso il mancato coinvolgimento della comunità locale nei processi di programmazione genera progetti ‘disabitati’ che, a valle degli interventi, presentano problemi di manutenzio-
ne, gestione e sostenibilità. La partecipazione non è un artificio per rispondere alle richieste di un bando, ma un orientamento politico ed una necessità per rimettere in circolo fiducia e competenze. La strategia di partecipazione si è sviluppata a partire da una prima cerchia di cittadine e cittadini interessate ai temi della rigenerazione urbana, una comunità di pionieri – attivisti delle associazioni, imprenditori, commercianti, professionisti, politici, insegnanti, ricercatori, studenti, ecc. – in grado di fare da amplificatoredel percorso avviato e coinvolgere la cittadinanza in una dimensione più ampia attraverso le proprie reti. I pionieri sono i primi generatori di fiducia con i quali si può condividere una visione in comunità più ampie o con gruppi che antepongono aprioristicamente la diffidenza, occorre dunque qualcuno che garantisca dal punto di vista dell’immaginario. Il percorso di consultazione pubblica per la rigenerazione urbana a San Vito dei Normanni è stato sviluppato con la metodologia Open Space Technology, con la quale si conducono discussioni collettive che permettono di creare gruppi di lavoro ispirati e produttivi. Il metodo è particolarmente adatto per aprire un confronto su questioni complesse in cui tutti lavorano in modo aperto, semplice e diretto: ogni partecipante è libero, infatti, di discutere ciò che ritiene più importante rispetto al tema dell’incontro. Alla base vi è lo sviluppo della capacità di auto-organizzarsi delle persone, che inconsapevolmente, sperimentano un nuovo modo di lavorare insieme. La metodologia si basa su 4 principi: • Chiunque venga è la persona giusta; le discussioni avviate e le decisioni che vengono prese durante il lavoro sono opera di coloro che sono presenti. Non serve quindi pensare a chi sarebbe potuto intervenire o chi avremmo dovuto invitare, è molto più utile concentrarsi su quelli che ci sono. La partecipazione all’Open Space Technology dovrebbe essere sempre volontaria, infatti solo chi ha davvero a cuore il tema in discussione si impegnerà a fondo, sia nell’affrontarlo che nelle fasi di implementazione del progetto. • Qualsiasi cosa accada è l’unica che poteva accadere; in una particolare situazione, con determinate persone e discutendo di un certo tema, il risultato che si otterrà è l’unico risultato possibile. Le sinergie e gli effetti che possono nascere dall’incontro di quelle persone sono imprevedibili ed irripetibili, per questo chi conduce un Open Space Technology deve rinunciare ad avere il controllo della situazione: tentare di imporre un risultato o un programma di lavoro è controproducente. Chi facilita un convegno Open Space deve avere totale fiducia nelle capacità del gruppo. • Quando comincia è il momento giusto; l’aspetto creativo del metodo. È chiaro che dovranno esserci un inizio ed una fine, ma i processi di apprendimento creativo che avvengono all’interno del gruppo non possono seguire uno schema temporale predefinito. Decidere ad esempio di fare una pausa ad un certo orario può impedire ad un dialogo di avere termine, perdendo così informazioni o idee fondamentali alla realizzazione del progetto. • Quando è finita è finita; se certe volte serve più tempo di quello previsto, altre accade il contrario. Se ad esempio si hanno a disposizione due ore per trattare un certo argomento, ma la discussione si esaurisce più velocemente del previsto, è inutile continuare a ripetersi, molto meglio dedicare il nostro tempo ad altro. L’unica ‘legge’ dell’OST è quella dei due piedi: se un partecipante si trova a conversare di un argomento e non ritiene di poter essere utile, oppure non è interessato, è
Fig. 3 Promozione del processo partecipato di rigenerazione urbana Santu Vitu Mia Reloaded (Rielaborazione degli autori, 2020)
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molto meglio che si alzi e se ne vada (usando i due piedi, per l’appunto) in un altro gruppo dove può essere più utile. [4] L’OST di San Vito dei Normanni si è avviato a partire da una domanda-guida: “Cosa possiamo fare insieme per migliorare San Vito dei Normanni?” e i partecipanti, divisi in gruppi tematici e auto-organizzati, hanno lavorato insieme attraverso discussioni e con il supporto di un moderatore e di un reporter per redigere dieci report finali. Questi report sono stati la base per definire gli obiettivi della rigenerazione urbana contenuti nel Documento Programmatico approvato dalla giunta comunale alla fine del 2017. Santu Vitu Mia Reloaded In Italia la maggior parte dei comuni, costretti e ricattati dal debito, sta mettendo a catalogo il patrimonio pubblico per venderlo a multinazionali e risanare il bilancio interno. Il Comune di San Vito dei Normanni ha selezionato 10 immobili pubblici e ha deciso di non realizzare l’ennesima speculazione edilizia, ma di costruire un’infrastruttura, ciascuna con dei contenuti e delle caratteristiche proprie, a servizio della comunità. (Nicola Capone, durante un’assemblea plenaria dei laboratori XYZ di Santu Vitu Mia Reloaded)
La vincita del bando regionale Puglia Partecipa, ha aumentato le occasioni di attivazione dei cittadini alla rigenerazione urbana di parti di città per promuovere lo sviluppo locale. Santu Vitu Mia Reloaded è la seconda parte del percorso del programma integrato. Inaugurata nel 2019 si propone, sulla scia della prima, di avviare un nuovo processo di partecipazione volto ad individuare in maniera condivisa destinazioni d’uso, strumenti e modelli di governance di immobili del patrimonio pubblico. Su dieci immobili totali, cinque sono stati oggetto del precedente processo e costituiranno la base di partenza per un ulteriore esperimento sui restanti. A partire dai regolamenti vigenti degli altri comuni, l’amministrazione pubblica di San Vito dei Normanni ha cominciato ad innovare il quadro amministrativo per poter meglio aggiornare le modalità di gestione del bene pubblico. L’esito del processo confluirà in un Regolamento Comunale dei Beni Comuni, da sottoporre a referendum, utile a facilitare in futuro l’intervento dei cittadini nella gestione dei beni ‘in-comune’ Un gruppo di tutor e docenti ha sviluppato il sistema operativo da cui nasce la Scuola Open Source. Hanno, insieme, progettato una scuola fuori dai canoni noti e predefiniti. Tra i risultati più importanti ottenuti vi è la costruzione di relazioni. Una trama che si sviluppa su reti corte - relazioni all’interno del territorio della Scuola - e reti lunghe con persone, luoghi e progetti lontani fisicamente ma con cui la Scuola collabora. In questo modo si è ottenuto il progetto di rete di centri culturali indipendenti che ha coinvolto il Macao di Milano, l’Ex Asilo Filangeri di Napoli, il Clac di Palermo, le Manifatture Knos di Lecce e l’ExFadda di San Vito dei Normanni. Il valore prodotto attraverso il lavoro sulle reti corte e le reti lunghe avviene tramite la conversione di capitali. Nella certezza che esistono più forme di capitale - economico, sociale, culturale, simbolico – la trasformazione da una forma all’altra genera plusvalenza. Pur in mancanza del capitale economico, attraverso la presenza degli altri tre la Scuola ha potuto iniziare il proprio percorso. [6]
Il laboratorio XYZ, evento annuale che per dieci giorni vede coinvolte all’incirca cento persone su tre ambiti: (X) comunicazione, (Y) strumenti e (Z) processi. Il fine è quello di produrre soluzioni connettive per problemi comuni.
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Fig. 4 Uno degli esiti della seconda parte del processo partecipato di rigenerazione urbana: l’algoritmo dei beni comuni, il metodo per far sbocciare - e uno per coltivare - un bene comune (Santu Vitu Mia Reloaded, 2019)
La quinta edizione del laboratorio XYZ si è tenuta a San Vito dei Normanni dove i partecipanti hanno lavorato ad un processo di rigenerazione urbana di dieci immobili individuati dall’amministrazione comunale. Il laboratorio di ricerca e co-progettazione ha messo in profondo contatto partecipanti e cittadini in forme di dialogo su diversi ambiti con lo scopo di costruire in maniera condivisa processi di trasformazione civica, sociale e culturale. I risultati di Santu Vitu Mia Reloaded Rigenerazione non è solo trasformazione fisica di una città ma è anche azione fisica nella città. Rigenerazione è miglioramento dei luoghi grazie alle opere umane che da dentro i luoghi ognuno di noi può attivare. Rigenerazione è un’impresa culturale che immagina nuove strade. Rigenerazione è responsabilità pubblica del privato e trasformazione delle abitudini private grazie a politiche pubbliche. Rigenerazione è affiancarsi alla natura e decidere con essa cosa sarà del nostro futuro.”(DPRU)
A partire dai regolamenti approvati e adottati da alcuni comuni italiani, l’amministrazione pubblica di San Vito dei Normanni ha deciso di innovare il quadro amministrativo per poter meglio aggiornare le modalità di gestione del bene pubblico. Si è ritenuto opportuno progettare strumenti più efficaci dal punto di vista dell’immaginario
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per sperimentare un meccanismo in grado di creare vita partecipativa e non automi della partecipazione. Così i partecipanti al laboratorio XYZ e la comunità di San Vito dei Normanni hanno ideato uno strumento utile agli ambienti generativi di vita collettiva per auto-governarsi, riscrivere e correggere il DNA del processo favorendo il caos generativo alla burocratizzazione imposta dagli attuali regolamenti. Il laboratorio Z – Processi e Comunità – ha elaborato il Regolamento dei Beni Comuni XYZ e il suo contenuto è confluito nello sviluppo di un algoritmo, strumento in grado di ‘far sbocciare l’amore per i Beni-in-comune’ nella Comunità di San Vito dei Normanni. Le fasi dell’algoritmo vengono poste in similitudine a quelle di una manifestazione pubblica di affetto nei confronti della città ed è stato sintetizzato in due schemi che lo rappresentano tramite un flow chart. Le novità introdotte dall’algoritmo consistono nel riconoscere i beni comuni come infrastrutture della città attraverso processi cooperativi e inclusivi; tali beni non potranno esistere e sopravvivere senza una comunità che ne richieda il riconoscimento e manifesti il desiderio di prendersene cura. Il laboratorio X – Identità – ha prodotto una “cassetta degli attrezzi” (Toolkit) che si compone di un glossario in cui vengono definiti i termini specifici che riguardano i beni comuni, una sezione dedicata alla spiegazione dell’algoritmo e del regolamento e infine una sezione riguardante gli strumenti per la gestione del bene comune. In questo modo verrà facilitata la pubblica amministrazione nell’adozione del Regolamento dei Beni Comuni XYZ e gli attivisti, cittadini, gruppi organizzati avranno a disposizione gli strumenti per attivare, gestire e potenziare il processo di costruzione di un bene comune. Così l’amministrazione locale, grazie all’algoritmo, offrirà gli strumenti necessari alle comunità per auto normarsi affinché possano creare gli elementi della loro specifica azione. In altre parole, così i cittadini, dandosi delle regole di decisione, gestione e uso dello spazio, stanno scrivendo le regole dello spazio pubblico. Ci sono due strumenti che può usare la comunità per permettere al Comune di San Vito dei Normanni di scegliere e riconoscere gli spazi pubblici come bene comune: ad amministrazione condivisa, d’uso civico e collettivo. Nell’esperienza di San Vito dei Normanni questi strumenti sono stati ricalibrati con soluzioni adatte al contesto di riferimento. Questi strumenti rappresentano la forma d’amore che la comunità può adottare nei confronti del bene comune. L’inizio ufficiale della vita amorosa comincerà con l’iscrizione del patto o della dichiarazione d’uso nella raccolta delle dichiarazioni dei patti. L’immagine è quella di una comunità responsabile di ciò che è collettivamente importante, che se ne prenda cura e lo faccia vivere, producendo valori. In quest’ottica, alcuni immobili di San Vito dei Normanni diventeranno dei laboratori dove si sperimenteranno modalità di auto-governo e auto-gestione sostenibili. Le capacità, le conoscenze, le idee troveranno luoghi nei quali essere discusse e messe a disposizione della collettività. Conclusioni Il racconto che abbiamo esposto precedentemente non è un caso teorico - astratto ed isolato - ma va considerato alla luce dell’attuale contesto socioeconomico. Si è parlato del tipo di politiche pubbliche che si possono progettare per l’attivazione e l’interconnessione delle persone con i beni pubblici e le città. Gli esempi analizzati non sono dei modelli di intervento standardizzati e trasferibili, ma modelli di po-
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litiche pubbliche sperimentali da ricostruire con gli attori coinvolti, riportando aggiustamenti e adattamenti progressivi. Questi strumenti sono nati come risposta ai bisogni dei cittadini del territorio pugliese e devono essere interpretati alla luce dell’attuale contesto socioeconomico. Uno dei motivi per cui oggi le cose sono cosi drammaticamente complicate è perché un mondo sta morendo e quello che sta nascendo ha regole nuove e di difficile decodificazione, ma disvela scenari estremamente promettenti, lasciandoci intravedere un cambiamento. A noi la scelta: subirlo o cavalcarlo. Nei periodi di grande cambiamento quelli che stanno imparando ereditano la terra, mentre quelli che già sanno si trovano perfettamente equipaggiati per affrontare un mondo che non esiste più.” (E. Hoffer, 2006) [7]
Nello specifico quale è stata la nostra eredità culturale? Due sono le parole chiave: condivisione e partecipazione, binomio che può concretizzarsi solo attraverso un attore d’eccezione: la giovane generazione. È principalmente dai giovani che possiamo attingere l’energia per gestire la trasformazione. Abbiamo imparato che le pubbliche amministrazioni possono fare da rete, condividendo le proprie risorse per favorire sperimentazioni e nascita di prototipi. Abbiamo imparato, inoltre, che non è vero che i giovani non vogliano partecipare, al contrario vogliono partecipare di più. Questo era già chiaro nella Firenze dei Medici, dove si dava spazio agli apprendisti, e voce agli inesperti e questo è stato chiaro anche a Principi Attivi che ha costruito un sistema che ha investito sulle giovani generazioni, straordinaria forza di cambiamento, cittadini migliori di un futuro migliore. Ma di fronte ad un mondo in cambiamento se si mantengono regole, atteggiamenti e logiche superate il risultato è disastroso occorre un cambio di paradigma. Dobbiamo darci nuovi strumenti ma devono essere strumenti di sognatori che credono in un futuro migliore. Referenze [1] Consolini M. 2013, Casi di studio. Bollenti Spiriti. Principi Attivi. ISFOL, Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, Roma. [2] Williams A. D., Tapscott D. 2014, Wikinomics : how mass collaboration changes everything, Portfolio, New York. [3] Campagnoli G. 2014, Riusiamo l’Italia : da spazi vuoti a start-up culturali e sociali, Gruppo 24 ore, Milano. [4] Harrison O. 2008, Open Space Technology - guida all’uso, Genius Loci editore, Milano. [5] XYZ – Santu Vitu Mia Reloaded: 26 Agosto/ 1 Settembre, Ex Fadda, S.Vito dei Normanni (BR) < https://www.lascuolaopensource.xyz/xyz-exfadda > (10/05) [6] Catalfamo G. 2019, E se la scuola del futuro fosse Open Source?, in Il Libraio. <https://www.illibraio.it/scuola-open-source-956869/> [7] Hoffer E. 2006, Reflections on the Human Condition, Hopewell Publications, Titusville (NJ).
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La torre di Montecatino: la conoscenza come valorizzazione del sistema difensivo territoriale della Repubblica di Lucca Gianluca Fenili
Gianluca Fenili
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze.
Abstract Through the concept of archaeological landscape, a mechanism is proposed for the exploitation of the optical signaling system, used by the ‘Repubblica di Lucca’ in the seventeenth century, for border surveillance. Through the analysis of the historical and geopolitical context of the small Tuscan State and the use of web-GIS technologies, it becomes possible to implement a process of dissemination of knowledge that has as its main hinge the advertising of assets, understood with the meaning of public domain. The case study of the Montecatino ruin lends itself to being the basis for the proposal of this exploitation in a future perspective of conservation of the heritage that includes the entire archaeological landscape of the city of Lucca. Keywords Archeology, exploitation, landscape, Lucca, defense system
Art. 5 della Convenzione Europea del Paesaggio, 2000 2 Art. 131 del Codice dei Beni Urbani e del Paesaggio, 2004 1
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Conoscenza, conservazione e valorizzazione del paesaggio Il termine paesaggio racchiude in sé una pluralità di significati e caratteristiche delle quali, nella contemporaneità, due emergono particolarmente: una dimensione soggettiva, intesa come percezione personale derivata dalla frequentazione di un luogo e una dimensione oggettiva, fatta di cose e fenomeni presenti nello spazio geografico (Tosco, 2007). Definito negli strumenti normativi come «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità»1, oppure come «territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni»2, il paesaggio implica un insieme di relazioni fra gli elementi che lo costituiscono e spesso gli aggettivi che lo descrivono ne identificano il contesto a cui appartiene: montano, collinare, agrario, urbano, ma anche industriale o archeologico (Romeo, 2008). Quest’ultimo appare particolarmente significativo per questo scritto, giacché si andranno a presentare i risultati parziali di una ricerca in corso che ha previsto la conoscenza e ipotesi di conservazione e valorizzazione di un complesso ruderizzato delle colline lucchesi.
Il paesaggio archeologico e il patrimonio in esso collocato risultano spesso fragili, sia sotto l’aspetto conservativo sia sotto quello percettivo; è quindi necessario che i beni allo stato di rudere e il loro contesto divengano, attraverso un percorso di valorizzazione, intelligibili. Solitamente, ciò avviene una volta terminati i lavori di restauro, ma questo fa sì che la cittadinanza non sia del tutto consapevole e partecipe delle modifiche che vanno caratterizzando i loro territori. Per sovvertire ciò, può risultare fondamentale mettere in atto una pubblicizzazione – secondo la declinazione di ‘dominio pubblico’ (Valenti, 2012, p. 49) – in ogni fase del processo di restauro; in tal modo, si auspica, la popolazione entrerà come protagonista all’interno del processo conservativo, con una rinnovata consapevolezza (Rudiero, 2019). Questi concetti sono contenuti anche nella Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, elaborata a Faro nel 2005 e recentemente ratificata dallo Stato Italiano3, che individua il «diritto al patrimonio culturale», riconoscendo la responsabilità individuale e collettiva nei confronti del patrimonio e sottolineando l’importanza della sua conservazione per la costruzione di una società pacifica e democratica (art. 1). Considerando il fatto che ci troviamo nella cosiddetta Era digitale, per favorire questo tipo di processi potrebbero utilizzarsi massivamente gli strumenti informatici: le loro potenzialità, infatti, risultano utili sia nella gestione dell’elevato numero di dati, sia nella loro diffusione selettiva, così come fondamentali sono gli apporti delle strumentazioni di catastazione e georeferenziazione dei dati (GIS e BIM). Tutto questo, se abbinato ad un sistema di diffusione su larga scala (web), diviene un potente strumento di condivisione della conoscenza e del valore del patrimonio. Tuttavia, questo risulterebbe totalmente inefficace se non integrato con i canonici mezzi di valorizzazione dell’eredità culturale, quali gli approcci esperienziali diretti, attraverso ad esempio l’archeologia sperimentale. Tali proposte metodologiche, volte alla pubblicizzazione in progress delle conoscenze (Arrighetti, Minutoli & Rudiero, 2019), potrebbero essere
Fig, 1 Vista della piana di lucca dal pianoro di Montecatino
È stata infatti apposta la firma alla Camera il settembre di quest’anno. La Convenzione si fonda sul presupposto che la conoscenza e l’uso dell’eredità culturale rientrino pienamente fra i diritti umani, ed in particolare nell’ambito del diritto dell’individuo a prendere liberamente parte alla vita culturale della comunità e a godere delle arti, come previsto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966.
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applicate nel sistema di valorizzazione delle fortificazioni impiegate dalla Repubblica di Lucca a partire dal XVI secolo per la protezione e la sorveglianza dei confini.
4 Dinastie come i Tudor in Inghilterra, i Valois in Francia e i Castiglia-Aragona in Spagna. 5 La casata d’Este controllava il Ducato di Ferrara, Modena e Reggio, legato da vincoli di vassallaggio con lo Stato Pontificio, nel quale poi confluì con la devoluzione del ducato. 6 Il Districtus Sex Miliarum era costituito da tutto il territorio compreso tra il Suburbio e il Contado, nel raggio approssimativo di sei miglia. Traeva il nome dai diplomi emanati in tre distinte fasi, nel 1081, nel 1100 e nel 1105, dall’imperatore Enrico IV, in ricompensa della loro fedeltà e dei servigi resi all’imperatore, p. 70. 7 Il Granducato Mediceo infatti, oltre il confine sud-est, aveva il controllo anche del confine nord-ovest, a seguito del Lodo di Papa Leone X che assegnò nel 1513 parte della Garfagnana e dell’Alta Versilia a Firenze. 8 Fortificazioni in terra, estese attorno alle mura, consistevano nella prima linea di difesa, ed erano costituite da una strada coperta e una controscarpa, sempre in terra.
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Contesto storico e geopolitico dello Stato Lucchese Il processo avviatosi in Europa sul finire del Quattrocento, articolato in conquiste militari, alleanze matrimoniali e intrecci politici con cui le casate più abili e potenti gettarono le basi per la costituzione dei nuovi Stati4, si svolse in Italia su scala ridotta; non si ebbe cioè un’unificazione di carattere nazionale, ma si formarono tanti distretti regionali facenti capo a città, che per la loro posizione geografica e le proprie vicende interne apparivano destinate a una posizione di leadership. Questa dinamica è ben evidente in Toscana, che si costituì attorno alla casata dei Medici in un principato regionale. Lucca, serrata fra lo stato Mediceo e quello Estense5, e costretta a sopportare fra i propri possedimenti due enclaves fiorentine (Barga e Pietrasanta), si ritrovò agli inizi del Cinquecento con un territorio assai ridotto rispetto a quello controllato in età comunale, ma comunque sempre indipendente. La struttura e organizzazione territoriale lucchese dell’epoca è desumibile da diversi documenti, tra cui l’aggiornamento dello Statuto del Comune di Lucca del 1539 (Bongi & Del Prete, 1867). Lo Stato era caratterizzato da un nucleo centrale rappresentato dalla città murata, con i suoi borghi e sobborghi, dal territorio circostante detto Distretto delle Sei Miglia6 e dal Contado, suddiviso in Vicarie. Queste ultime possono definirsi come «unità circoscrizionali che, sotto il diretto controllo dell’autorità centrale, svolgevano un ruolo ispirato ad ampi principi di autonomia nell’ambito della gestione amministrativa in senso stretto» (Romiti, 1989) e, dopo le avulsioni da parte di Fiorentini ed Estensi (Massa e Carrara nel 1441 e Garfagnana e Pietrasanta nel 1513), risultavano essere undici (Bini, 2018). Il Distretto, che si sviluppava nel raggio approssimativo di sei miglia, era invece il vero e proprio cuore dello Stato, comprendeva tutto il territorio pianeggiate e collinare che cingeva la città murata. Esso, per via degli estesi terreni fertili, potrebbe essere considerato come il magazzino annonario della capitale e il suo paesaggio era costellato di ville e dimore delle più importanti famiglie mercatili. Le Vicarie del Contado invece, montuose e coperte da pascoli e boschi, fungevano da naturale bastione difensivo della Repubblica. Grazie a questo sistema amministrativo, e anche in virtù del sostegno imperiale decretato nella Libertas lucencis (riconosciuta nel 1369 dall’imperatore Carlo IV di Boemia e confermata dai suoi successori), dal 1369 al 1799 il piccolo Stato di Lucca non patì nessuna dominazione straniera, nonostante il potente vicino che lo circondava da ogni parte7. Tuttavia, essendo ormai Firenze diventata il centro politico della Toscana e, con la conquista di Pisa e Livorno, avendo ottenuto anche il tanto ambito sbocco sul mare, a Lucca non restò che assicurarsi debita protezione anche dall’interno. Ne sono un esempio la bonifica dei terreni paludosi, la sistemazione del fiume Serchio e, soprattutto, il rinnovamento della cinta urbana e il riordino delle fortificazioni sparse sul territorio, processo che iniziò a prendere forma dall’estate del 1513. Montecatino, strumento militare dello Stato. Dalla conoscenza alle proposte di conservazione e valorizzazione Come in ogni stato dell’epoca, anche la Repubblica di Lucca affidava la sua difesa militare a un complesso di elementi destinati a interagire tra loro in maniera sinergica e coordinata, che possono essere raggruppati in tre categorie principali: alla prima ap-
partenevano le strutture atta alla difesa passiva, ovvero le fortificazioni cittadine, sia nelle loro parti murarie, costituite dai baluardi e dalle cortine, sia nella sistemazione esterna con spalti e fossati8. Facevano parte di questa categoria anche i castelli e le varie opere minori come le rocche e torri poste a guardia dei punti strategici del territorio dello Stato. Gli elementi atti alla difesa attiva, appartenenti alla seconda tipologia, si componevano invece delle milizie e dei corpi armati nelle loro specializzazioni9 ma anche delle aree di reclutamento e delle artiglierie, includendo tutto quel che potesse servire per la loro produzione e manutenzione10. Tutto ciò che assicurava efficienza gestionale e di coordinamento apparteneva invece alla terza categoria, quella cioè che includeva oltre gli organi di governo della città, gli Offizi11 preposti alle questioni difensive12, i commissari (delle porte, dei baluardi, delle milizie, ecc.), gli ufficiali, i sistemi di allarme e i piani attuativi per il dispiegamento delle forze. Ed è tra gli elementi di difesa passiva che si colloca il caso che si andrà ora ad approfondire. Al di fuori della città murata e dei suoi sobborghi, i territori delle Sei miglia e del Contado erano disseminati da rocche, centri incastellati e torri, poste in zone strategiche per la sorveglianza della Repubblica. Una di queste era la Torre di Montecatino13, nella frazione della Cappella. Montecatino è un colle situato a 483 m s.l.m. a nord di Lucca, distante poco più di 15km dalla città. La sommità del rilievo è costituita da un pianoro circolare su cui si trovano i resti dell’antica chiesa di Santa Maria Assunta, i ruderi della canonica e la torre-campanile, oggetto di indagine. Da tale posizione, come appare evidente anche nelle giornate di media visibilità, si domina l’intera Valfreddana14 e un tratto della media valle del Serchio15. Da questo punto di vista privilegiato era possibile controllare, senza difficoltà, l’intera piana di Lucca fino alla Valdinievole e al Tirreno (fig. 1). Sul sito sono già state compiute alcune prospezioni, risalenti agli anni Ottanta dello scorso secolo. L’occasione fu dettata dall’apertura di una strada di accesso funzionale alla posa di una cisterna del locale acquedotto, grazie alla quale venne messo in evidenza un consistente sedime archeologico. La Sovraintendenza Archeologica per la Toscana predispose quindi, assieme a un provvedimento di tutela, una campagna di scavi per la piena valutazione del complesso16, di cui oltre a quella medievale si trova anche una significativa presenza etrusca (V-III sec.). I nuovi studi concernenti Montecatino si sono attuati mediante diversi tipi di ricerche, tra cui le principali sono state lo spoglio archivistico e una campagna di rilievo. Quest’ultima, attuata mediante tecnica fotogrammetrica (sia a terra tramite macchina fotografica professionale, sia in volo tramite drone) e laser-scanner, è stata predisposta suddividendo i ruderi in due zone: la torre-campanile e la chiesa con la sua canonica, in modo da permettere una più semplice organizzazione del lavoro e ottenere un’impostazione più ordinata dei dati. L’unione fra queste due metodologie ha permesso di costruire un vero e proprio database di elaborati, come nuvole di punti, planimetrie e prospetti, che hanno tutte le potenzialità di utilizzo per un futuro progetto di restauro o di semplice manutenzione e monitoraggio (fig. 2). A queste analisi si è affiancato uno spoglio archivistico ampio, focalizzato sul sistema di comunicazione ottica di cui faceva uso la Repubblica per proteggere i propri territori. Il primo passo è stato scegliere l’intervallo temporale da prendere in considerazione, identificato con l’inizio del XVI secolo e la fine del XVIII, periodo che ha visto trasformate le Mura della città dalla conformazione medievale alla struttura attuale e la massima espansione del sistema difensivo lucchese. A tal fine è stata quindi effettuata un’indagine storica nell’Archivio di Stato di Lucca, il quale ospita un patrimonio
Bombardieri, archibugieri, picchieri, ecc. 10 Come ad esempio i forni fusori per la produzione delle canne in bronzo e le palle in ferro colato, gli opifici per la fabbricazione della polvera nera, la scuola per la formazione dei bombardieri, ecc. (Parensi, 2019) 11 Speciali magistrature con compiti specifici, composte da cittadini eletti tra i rappresentanti delle famiglie più importanti della città. Il numero dei componenti variava da Offizio a Offizio, ma era sempre multiplo di tre, in modo che i terzieri, in cui si divideva la città, fossero equamente rappresentati. 12 Facevano parte di questa categoria, gli Offizio delle fortificazioni, l’Offizio sopra la buona guardia, l’Offizio della condotta e l’Offizio sopra la munizione da cortile. 13 Indicato nei documenti anche come ‘Montecatini della Valfreddana o Val di Serchio’, ‘Montecatinello’ e ‘Montecatinelli’. 14 Per Valfreddana si intende l’area limitrofa al corso d’acqua che la attraversa e da cui prende il nome, il torrente Freddana che sfocia nel Fiume Serchio all’altezza di Monte San Quirico. 15 La media valle del Serchio è un distretto della provincia di Lucca compreso tra la città di Lucca a sud, la Garfagnana a nord e dalla Montagna Pistoiese ad est, che si estende lungo il bacino idrografico del fiume Serchio. 16 Diretta dal Dott. Giulio Ciampoltrini e iniziata solamente nell’estate del 1986 per questioni burocratiche. 9
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Gianluca Fenili Fig, 2 vista del rudere di Montecatino, la torre al centro e i resti della chiesa ancora comperti da vegetazione.
Nel marzo 1860 si tenne il plebiscito che decretò a larghissima maggioranza l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna. L’unificazione non fu attuata di colpo, si preferì mantenere alla Toscana un’ampia autonomia amministrativa che durò fino al 14 febbraio 1861, quattro giorni prima della prima convocazione del parlamento del neonato Regno d’Italia. 18 In Archivio di Stato di Lucca: Fondo Guardia di Palazzo n.6, Mappa 01, Cristofano Bernardi, 1664; Mappa 02, Mappa 03, Mappa 04, Marcantonio Botti, 1625. Fondo ‘Offizio sopra le differenze dei confini’, unità 572, Mappa 015 -senza titolo-.Fondo ‘Direzione poi Commissariato delle acque e strade’, 17
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che dal libero Comune di Lucca (1308) confluisce al Granducato di Toscana e quindi al Regno d’Italia (186017). La ricerca si è basata sul confronto di pergamene, mappe e documenti inerenti alle fortezze18 che, abbandonate, distrutte o ricostruite nel corso del tempo, sorgevano originariamente in punti strategici, dominanti le principali vie di transito, in posizione tale da consentire un’ampia visibilità sul territorio. Queste erano otticamente collegate tra loro, talvolta direttamente, più spesso attraverso torri e campanili, che consentivano la “trasmissione” del segnale. Tutti questi dati sono stati introdotti all’interno di una piattaforma GIS (utilizzando il software open source QGIS), attraverso il quale sono stati tracciati (con un margine di approssimazione) quelli che dovevano essere i confini della Repubblica nel lasso temporale di riferimento. All’interno di questi sono state posizionatele rocche, i centri incastellati e le torri di segnalazione ritrovati, seguendo diversi criteri. Una prima e fondamentale discriminante è stata la permanenza delle fortezze nella contemporaneità; per prima cosa sono state registrate quelle ancora esistenti, interamente conservate o anche in stato di rudere. Si è passati poi a registrare le strutture che, nota la posizione (confermata anche dalle tracce storiche), per diversi motivi furono abbattute, come ad esempio la Torre di Palazzo, fulcro di tutto il sistema difensivo della Repubblica, che fu fatta demolire dai Baciocchi insieme a molti altri edifici per aprire piazza Napoleone. In seguito, posizionate le torri (esistenti o meno, ma con un’ubicazione certa), si è passati a quelle torri di cui, nonostante la presenza segnalata nelle carte, non se ne è potuto stabilire una posizione inconfutabile. (fig. 3) Per ognuno di questi elementi, che appaiono sulla mappa digitale come punti di colore diverso, è stata compilata una scheda inerente alle diverse caratteristiche: la già citata collocazione, l’attuale proprietà (Comune, Provincia, Regione), lo stato di conservazione e la possibilità di fruizione.
Fig, 3 Mappa della Repubblica di Lucca e del sistema di segnalazione ottica; in blu le fortezze ancora presenti, in rosso quelle non più esistenti, in giallo le fortezze di cui non si conosce la precisa collocazione.
Fruibilità attuabile, nell’ottica delle premesse fatte sin qui, anche da remoto, attraverso l’impiego del GIS per la gestione e conservazione del database e di una versione web più intuitiva per la diffusione della conoscenza. È opportuno anche ricordare che per un’efficace tutela dei Beni culturali, nell’ambito della conoscenza, il processo conservativo è da svolgere di pari passo con quello volto alla valorizzazione, essendo queste due azioni inevitabilmente sinergiche. Conclusioni. Un sistema integrato di gestione e valorizzazione Come emerge dalle schede redatte, il patrimonio archeologico dell’antico sistema di comunicazione, salvo qualche eccezione, risulta mal conservato e difficilmente percepibile. Se normalmente fuori dai centri storici la percezione dell’antico tende ad appiattirsi sul territorio per mancanza di visibilità, ecco che attuare una pubblicizzazione del paesaggio e del patrimonio archeologico può significare, da un lato, ricomporre uno schema coerente e relazionato alle tracce archeologiche sparse sul territorio e, dall’altro, recuperare il valore delle strutture superstiti, per far percepire scenari ormai scomparsi (Mancuso, 2007). Per poter giungere alla percezione di questo paesaggio archeologico quindi, bisogna creare le basi per un sistema di conoscenza del territorio dal quale scaturisce un processo di valorizzazione, finalizzato alla sensibilizzazione e al coinvolgimento dei cittadini nel meccanismo conservativo. Risulta naturale, come primo passo verso la promozione della conoscenza, l’utilizzo della piattaforma web, considerando la globalità e flessibilità del mezzo: aprire un sito internet o potenziare quelli già esistenti del Comune di Lucca nell’ambito culturale e turistico19, gestire puntualmente pagine Facebook e di altri social network, sono azioni che potrebbero risultare estremamente efficaci per la condivisione di contenuti, fotografie e video a favore della conoscenza e del dibattito scientifico (Rudiero, 2014). Uno spazio importante sul sito web dovrebbe essere dedicato alla consultazione dei dati derivanti dagli studi sull’area di Montecatino (che in futuro potrebbe estendersi ad altre fortezze), delle mappe digitali, delle schede sulle singole torri, il tutto dialo-
Mappe, Repubblica di Lucca, unità 750, mappa 001 – senza titolo-. Fondo ‘Fortificazioni della città e dello Stato’, unità 43, mappa 096 – senza titolo-. In Castore regione Toscana: Carta geometrica del Granducato di Toscana divisa per Circondari, 1834. Appercu des nuisibles Enclaves existantes entre la Toscane, Lucques, Modène, les Ex Fiefs, et le Génois, XIX sec. Diogesi di Lucca, seconda metà XIII sec. Carta militare del Regno d’Etruria e del Principato di Lucca fatta per ordine di S. E. il Ministro della Guerra del Regno d’Italia, 1806 19 Come ad esempio il nuovo sito Turismo Lucca (https:// www.turismo.lucca.it/home-page) andato a sostituire e integrare il sito “lemuradilucca.it” limitato alla sola città murata.
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gante con i sistemi web-GIS e dotato di filtri che ne agevolino la comprensione da parte di ogni tipo di utente. Altro contenuto fondamentale del sito, potrebbe riguardare le ricostruzioni virtuali e la realtà aumentata che, riproponendo sia l’area con le sue architetture sia il paesaggio cui facevano capo, diviene nella nostra cultura un efficace sistema multimediale di fruizione anche per quelle persone che con limitazioni motorie avrebbero altrimenti preclusa tale opportunità (Rudiero, 2014). Una prima e consistente parte di pubblicizzazione quindi, potrebbe essere garantita tramite internet, ma questo ovviamente non è che la base di partenza: è necessario infatti che l’insieme dei dati sia messo in condizione di essere conosciuto e fruito a livello territoriale, coinvolgendo ad esempio i Musei lucchesi e prevedendo nelle sale di questi delle attività didattiche per le scolaresche e organizzando convegni e giornate di studi per la comunità scientifica. Considerando poi la remota disposizione territoriale delle fortezze, potrebbe essere ulteriormente d’aiuto predisporre delle adeguate forme di comunicazione mediante elementi puntuali inseriti nell’area da valorizzare, come ad esempio totem multimediali o una pannellistica seriale e omogenea per tutto il sistema, dotata eventualmente di elementi QR code, accessibili tramite qualsiasi smartphone, attraverso i quali poter venire in possesso delle dovute informazioni in maniera interattiva (Rudiero, 2019). Attraverso questa metodologia di valorizzazione in progress, si potrà pervenire alla conservazione integrata e consapevole dei Beni Culturali, anche di quelli più fragili come i ruderi archeologici (Rudiero, 2019).
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L’ulivo e i portali monumentali in Sardegna: tradizione locale e ‘innesti’ culturali esogeni. Restauro, tutela e valorizzazione Maria Giovanna Putzu
Maria Giovanna Putzu
Sapienza Università di Roma
Abstract The construction of monumental portals in the Sardinian countryside represents a phenomenon that is limited to a time span between the 17th and 19th centuries and to a specific geographical context that extends to the countryside of Sassari, Alghero and especially to the fertile plains of the Campidano di Oristano, the area investigated here. The phenomenon seems to be closely linked to the planting of olive groves, whose cultivation is an ancient, highly specialised and skilled practice, proposed by first the Spanish and then the Savoy governments, as a means of revitalising Sardinian agriculture in the period of crisis after the golden age of the Giudicati (10th-15th century). Starting from a short history of the cultivation and diffusion of the olive tree in Sardinia, the study briefly outlines the main architectural features and most critical issues of degradation and conservation of architectural artefacts and the landscape context. Focus is placed on the need to carry out targeted restoration, safeguarding and enhancement interventions, not only on the architectural elements themselves, but also on the individual sites and the agricultural landscape of which they are a part, singling out the basis for a design project for their rediscovery and consequent conservation in the tightknit and fundamental union that generated them. Keywords Paesaggio agrario, ulivo, portali monumentali, restauro, tutela.
Premesse, obiettivi e criteri della ricerca La costruzione dei portali monumentali nelle campagne sarde rappresenta un fenomeno limitato ad un arco temporale compreso tra il XVII e il XIX secolo e ad uno specifico contesto geografico che si estende nelle campagne di Sassari, Alghero e soprattutto nelle fertili pianure del Campidano di Oristano, area di indagine del presente contributo (fig. 1a). Il fenomeno appare in stretta connessione soprattutto con la piantagione dell’olivo, una coltura antica e altamente specialistica, con la quale i governi, spagnoli prima e sabaudi poi, diedero impulso alla rivitalizzazione dell’agricoltura sarda dopo la fine della fase giudicale (X-XV secolo). Lo studio si pone obiettivi sia di tipo teorico-conoscitivo che di tipo applicativo. I primi riguardano gli aspetti storico-architettonici e storico-territoriali, nonché lo stato di conservazione fisica degli edifici e dei siti oggetto della ricerca (Putzu, 2018). Inoltre per meglio comprendere le dinamiche dello sviluppo e della stratificazione storica dell’area in esame si è ritenuto opportuno, da un lato, volgere uno sguardo all’organizzazione territoriale medievale e, dall’altro, estendere l’analisi fino ai giorni nostri.
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Fig. 1a: Distribuzione dei portali monumentali di accesso agli oliveti nell’area compresa tra Oristano, Silì, Cabras, Donigala Fenughedu e Nuraxinieddu (Google maps 2018). Sono indicati in blu i portali che si trovano in aree rurali, in rosso i portali isolati e decontestualizzati all’interno di aree urbanizzate e in bianco i portali minacciati dall’ampliamento della sede stradale. Fig. 1b, 1c: Donigala Fenughedu, portale Vitu Sotto, prospetto esterno e interno; Fig. 1d: Cabras, portale Don Peppi; Fig. 1e: Cabras, portale di Donna Annetta.
Attraverso lo studio delle fonti dirette e indirette è stato possibile pervenire ad una conoscenza più dettagliata e approfondita delle architetture analizzate, dove particolare attenzione è stata riservata all’analisi dei materiali e dei caratteri costruttivi delle strutture murarie1. Si sono voluti precisare i caratteri e le specificità tecnologiche, tipologiche, stilistiche di ciascuna architettura indagata ponendo ognuna di esse in relazione con le altre, individuando affinità e peculiarità che le caratterizzano e, allo stesso tempo, evidenziando il nesso con il territorio e con gli usi ai quali questo è stato destinato.
Fig. 1f: Degrado delle murature in laterizio o in opera mista e finitura ad intonaco, 1. portale Passino, 2. portale Pisanu I, 3. portale Donna Annetta, prospetti laterali e posteriore: 1a. dissesto e/o perdita del manto di copertura; 1b. distacco o caduta dell’intonaco; 1c. erosione e mancanza dei laterizi; 2d. perdita dello strato di finitura; 3e. dilavamento e macchia da umidità; 3f. degrado antropico. Degrado delle murature in pietra, 4. portale Vitu Sotto, 5. portale Don Peppi, 6. portale Donna Annetta, prospetto principale: 4g. deposito superficiale; 4h. muschi e licheni; 4i. mancanza; 4l. fratturazione a causa dell’ossidazione degli elementi in ferro; 5m. mancanza della malta nei giunti; 5n. reintegrazioni improprie; 6o. erosione e polverizzazione; 6p. variazione cromatica e macchia; 6q. degrado antropico.
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Maria Giovanna Putzu Il presente contributo è una sintesi di una ricerca attualmente in corso. 2 “L’olivo mediterraneo (Olea europaea L., subsp. europaea) comprende un complesso di forme selvatiche, gli oleastri (var. sylvestris), e di varietà coltivate, gli olivi domestici (var. sativa), nonché gli olivi inselvatichiti od olivastri, nati dal seme dell’olivo coltivato e distinguibili dalle forme selvatiche solo mediante le analisi molecolari” (Cossu, 2013, p. 12). 3 Alcuni toponimi, quali: Ogliastra, Parteolla, Oliena, Ollastra, Dolianova ecc. testimoniano la presenza di olivastri e olivi da tempi remoti e la persistenza della tradizione olearia (sui nomi di luogo in Sardegna v. Paulis, 1987). 1
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Tali acquisizioni costituiscono la base imprescindibile per una maggiore consapevolezza della consistenza storica e fisica del manufatto e del territorio, consentendo di pervenire ad una conoscenza delle condizioni e delle cause di degrado che possono indebolirne la struttura muraria e impoverire l’ambiente naturale di cui sono parte imprescindibile, compromettendone la conservazione e la trasmissione al futuro. Gli obiettivi di tipo applicativo riguardano prevalentemente l’ambito del restauro e della tutela dei monumenti e dei siti oggetto d’indagine. Un quadro aggiornato sulla consistenza fisica e sullo stato di conservazione del patrimonio storico-monumentale consente di redigere alcune linee guida d’intervento di restauro fornendo, inoltre, le conoscenze essenziali per produrre in futuro un piano di manutenzione programmata in relazione all’indice di priorità di ciascun sito indagato, corredato da un programma economico-finanziario. Il presente contributo, partendo da alcuni cenni storici sulla coltura e diffusione dell’ulivo in Sardegna e dopo aver delineato brevemente le principali caratteristiche architettoniche e le più importanti problematiche di degrado e conservazione relative ai manufatti architettonici e al contesto paesaggistico, focalizza l’attenzione sulla necessità di operare con mirati interventi di restauro e con un programma progettuale d’insieme per la tutela e la valorizzazione, tanto delle emergenze architettoniche quanto dei singoli siti e del paesaggio agrario del quale sono parte, individuando proprio nello stretto e imprescindibile connubio che li lega e che li ha ‘generati’ la base per la loro riscoperta e conseguente conservazione. La coltura dell’ulivo L’olivastro2, specie endemica molto diffusa in Sardegna fin dall’antichità (Mastino, 1995; Cossu, 2013), costituì in passato una componente importante della macchia mediterranea e, a testimonianza di tale persistenza, sono numerosi gli oleastri e olivi secolari che si conservano nell’isola3 (Piras, Lovicu 2013). Nonostante la scarsità di dati, la coltivazione dell’olivo è già documentata a partire dal periodo nuragico (Cossu, 2013, p. 14) e prosegue, con fasi alterne e in modo disomogeneo, nell’età fenicio-punica, in quella romana, altomedievale e giudicale4 (X-XV secolo; De Santis, 2013), ma fu durante la dominazione spagnola prima e il regno sabaudo poi che vennero attuati numerosi provvedimenti per l’impianto degli oliveti su vasta scala. Con la coltivazione dell’olivo, infatti, tali governi (Santoru, 1983; Ferrante, 2013; Mattone, Mura, 2013) si proposero di rivitalizzare l’agricoltura della Sardegna (Fenu, Sebis, 2003, p. 97; v. anche Cherchi Paba, 1977; Fois, 2010; De Santis, 2013; Di Felice, 2013; Ferrante, 2013), dopo la crisi conseguente alla fine dell’età d’oro dei Giudicati. Durante la dominazione spagnola furono numerose le diposizioni legislative emanate per dare impulso all’olivicoltura in Sardegna. Nel 1572 e nel 1602 il Viceré Don Giovanni Colonna, promulgò alcune importanti leggi affinché s’innestassero gli olivi selvatici. Nel 1624 il Viceré Juan Vivas ribadì la necessità di un graduale innesto degli olivastri, prevedendo l’acquisizione del fondo da parte del vassallo che avesse innestato gli alberi, una multa per chi non avesse eseguito gli innesti previsti e l’obbligo di costruire un mulino nei luoghi in cui vi fossero almeno cinquecento alberi. Inoltre deliberò che venissero fatti arrivare da Valencia e Maiorca cinquanta specialisti innestatori per istruire i proprietari e i coltivatori sardi. Le ordinanze più articolate si ebbero però nel 1700 col pregone di Don Ferdinando de Moncada, nel quale si ordinava che tutti coloro che pos-
sedessero terreni comunque chiusi fossero obbligati a piantare olivi. Anche durante il regno Sabaudo (Scanu, 2013; Ferrante, 2013) si registrò un discreto incremento dell’olivicoltura. Nel 1806 con l’Edito degli olivi, seguendo la stessa linea politica di incentivazione della coltura, vennero concessi titoli nobiliari e privilegi a chi avesse piantato un certo quantitativo di olivi (4.000 unità) o innestato gli olivastri ricadenti nelle loro proprietà, mentre con l’Editto delle Chiudende (1820 e 1823) si diede la possibilità ai proprietari di terreni di cintarli e coltivarli liberamente (Pau, 1988, p. 3). La coltura dell’olivo e la creazione del podere chiuso, oltre a definire un nuovo disegno e assetto del paesaggio, costituirono le indispensabili premesse alla realizzazione dei portali monumentali. A piantare gli ulivi su vaste estensioni furono soprattutto gli enti ecclesiastici, la ricca nobiltà e la borghesia mercantile, i quali, oltre a disporre di vaste proprietà terriere, possedevano i mezzi economici per avviare la nuova coltura e per realizzare all’ingresso dei propri poderi (oliveti), grandiosi portali, che rimarcavano, oltre al territorio, il potere e lo status economico acquisiti. La formazione del primo catasto sardo avvenuta a partire dalla prima metà dell’Ottocento, permette di stabilire che alla fine del XIX secolo gli oliveti coprono una superficie di 24.000 ettari su un totale di 632.000 ettari di terreno coltivato. All’inizio del XX secolo la produzione dell’olio sardo doveva essere diffusa ed organizzata se, all’esposizione del 1901 di Cagliari, parteciparono 12 produttori imbottigliatori provenienti da tutte le aree olivicole della Sardegna (Scanu, 2013).
Nel corso del Novecento “soprattutto nei periodi successivi al secondo conflitto mondiale, è stato ridato impulso alla realizzazione di nuovi oliveti e vigneti, in particolare con l’operatività della Legge regionale 46/50 sui miglioramenti fondiari, affiancati dai fondamentali apporti finanziari della Cassa per il Mezzogiorno e dall’attività dell’Ente di Trasformazione Fondiaria e Agraria in Sardegna (ETFAS). In tale contesto numerosi sono stati gli interventi tesi al recupero attraverso innesto e messa a coltura di aree ricche di olivastri, meglio gestibili secondo i canoni di una agricoltura più evoluta, e seguendo gli indirizzi di una oramai avviata riforma agraria che investì l’Isola negli anni ’50 e ’60 del XX secolo” (Bandino, Sedda, 2013, p. 237). Successivamente furono realizzati altri specifici interventi finalizzati all’innovazione colturale e, grazie anche all’esperienza delle aree pilota, fu creata un’ampia superficie di oliveti di nuova realizzazione con criteri moderni e innovativi. I portali monumentali È nel Campidano di Oristano (fig. 1a) che si rilevano le testimonianze più significative dei portali monumentali di accesso ai poderi5 (Mossa, 1950; Lilliu, 1971-1972; Pau 1988; Fenu, 1992; Mossa, 1994; Fenu, Sebis, 2003). I portali della campagna di Oristano si differenziano dagli altri per una maggiore profondità, un più accentuato spessore delle murature, fino alla formazione di un ambiente vero e proprio; almeno all’apparenza si mostrano in funzione prevalentemente utilitaria perché creano un riparo (anche se al solo cancello), mentre i portali delle campagne sassaresi e algheresi sono semplici diaframmi architettonici, in funzione di mostra rappresentativa, essenzialmente decorativi (Mossa, 1950, pp. 299, 300).
Il portale immetteva su un sentiero alberato che conduceva al casolare posto al centro dell’oliveto, dove solitamente viveva la famiglia del custode, mentre i proprietari vive-
4 S’Ottu Mannu presso il castello di Gioiosa Guardia a Villamassargia (provincia di Carbonia-Iglesias) è ritenuto uno dei più antichi oliveti dell’Isola. L’albero più imponente è quello di Sa Reina con una circonferenza del tronco di oltre 9 metri (Dettori, Filigheddu, Montinaro, 2020; Piras, Lovicu, 2013, p. 168). 5 Presso Milis alcuni portali danno accesso ad agrumeti.
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Maria Giovanna Putzu Nel comune di Solanas sono stati segnalati altri tre portali d’accesso a oliveti o frutteti (v. Pau, 1988, pp. 27-29). 7 Tipologia diffusa a Sassari e Alghero (v. Mossa, 1950, pp. 299, 300). Nel territorio oristanese tra i portali che rientrano nella tipologia a diaframma ricordiamo: Vitu Sotto, Loffredo, Carmelitani, Cabitza, Pisanu I (Solanas), Don Peppi. 8 Nel territorio oristanese tra i portali che presentano la tipologia a loggia si ricordano: Scolopi, Pisanu II (Donigala Fenughedu), Passino, Tolu-Cadoni; Sotgiu I e II, Donna Annetta. 6
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vano nel borgo. “All’edificio erano annessi diversi locali, fra i quali il più importante era destinato al frantoio per la produzione sul posto dell’olio d’oliva. Nella seconda metà dell’Ottocento, quando questo ingente patrimonio si trasferì nelle mani di un ricca borghesia, alcune di queste case di campagna vennero rinnovate ed abbellite, trasformate in una sorta di ville circondate da palmizi e da maestosi pini per le frequenti visite dei ricchi proprietari. Col tempo hanno subito notevole degrado ed oggi si presentano disabitate e in completo stato di abbandono” (Fenu, Sebis, 2003, p. 102). I portali dell’Oristanese sono distribuiti nei territori di Donigala Fenughedu (Vitu Sotto, Tolu-Cadoni, Loffredo, Passino, Pisanu I, Sotgiu I, Sotgiu II), Solanas6 (Pisanu II), Cabras (Don Peppi, Donna Annetta), Nuraxinieddu (Scolopi, Carmelitani), Milis (Villa Pernis, Ortu de is Paras, Pischina de Crobu, Tzalidas) e tra Oristano e Silì (Cabitza, Vandalino Casu). Dal punto di vista tipologico si rilevano due principali varianti: il ‘portale diaframma’, con funzione essenzialmente di rappresentanza7 (es. fig. 1b-1d), e il ‘portale a loggia’, che talvolta accoglie anche un ambiente interno, con funzione sia di rappresentanza che utilitaristica8 (es. fig. 1e). In entrambi i casi il fornice con terminazione ad arco, a tutto sesto o ribassato, è inquadrato da un ordine architettonico; la trabeazione nella maggior parte dei casi è sormontata da un fastigio barocco o da un timpano con conformazione triangolare, curvilinea o spezzata. Il fornice è chiuso da cancelli in ferro battuto o, più semplicemente, in legno. Dal punto di vista costruttivo si individuano tre principali tipologie murarie: 1) murature con paramenti in laterizi e finitura ad intonaco (le strutture annesse sono solitamente realizzate in mattoni crudi); 2) murature con paramenti in pietra (arenaria, o arenaria e trachite rossa in alternanza bicroma) e 3) murature in pietra e laterizi. Mentre dal punto di vista stilistico i portali sono caratterizzati da una grande varietà di forme e dettagli costruttivi che vengono attinti dal ricco repertorio barocco, neoclassico, neoromanico e neogotico e sono impiegati sia nell’architettura civile che religiosa. All’interno del ricco e variegato panorama delle soluzioni architettoniche e stilistiche adottate nell’ambito delle due principali tipologie individuate, appaiono particolarmente rappresentativi il portale Vitu Sotto (portale diaframma) e il portale Donna Annetta (portale a loggia). Il portale Vitu Sotto (Donigala Fenughedu, XVIII secolo) è il più imponente dell’Isola. Realizzato prevalentemente in conci di arenaria con inserzioni di trachite rossa, presenta i due prospetti, anteriore e posteriore, simili anche se non del tutto identici. “Stilisticamente legato al tardo barocco piemontese, il portale venne attribuito in un primo momento a un architetto vicino al Guarini e allo Juvara mentre oggi è assegnato a Giuseppe Viana” (Fenu, Sebis, 2003 p. 103). Data la sua posizione su una stretta strada di campagna, il progettista per agevolare l’ingresso di carri e carrozze attuò una geniale correzione dell’inclinazione dell’asse del fornice in modo tale da ottenere un invito obliquo. La complessa struttura architettonica appare scandita verticalmente da quattro lesene in cinque campate principali. Nella campata centrale si apre il fornice con terminazione superiore ad arco ribassato, delimitato lateralmente dal primo ordine di lesene, costitute da conci di arenaria e trachite in alternanza bicroma, e dalle lesene più esterne, interamente realizzate in trachite rossa. La struttura può essere, inoltre, divisa orizzontalmente in due settori principali, quello inferiore, assimilabile ad un rettangolo e quello superiore assimilabile ad un triangolo, sui cui cateti, con profilo mistilineo costituito da un complesso gioco di
volute e archi inflessi, si elevano acroteri ed erme bifronti. Degno di nota è anche il cancello in ferro battuto con la ricchissima rostra superiore. Mentre il portale Donna Annetta (Cabras, XVII secolo) presenta il prospetto principale realizzato in conci di arenaria e l’ambiente retrostante, cui si accede da una porticina aperta sul prospetto posteriore, interamente intonacato. La facciata, inquadrata dall’ordine architettonico, si compone di due settori principali: la parte inferiore, al centro della quale si apre l’ampio fornice con arco a tutto sesto e ghiere e stipiti modanati, è scandita verticalmente da due colonnine, poste ai lati del fornice suddetto, e da due paraste angolari che reggono la trabeazione con la pronunciata cornice che funge da mediazione tra i due settori; la parte superiore, con semplici paraste angolari e terminale timpanato ornato con una sottile cornice modanata, ospita tre finestre con terminazione superiore ad arco inflesso. Paesaggio agrario e architettura storica: problematiche di degrado Le problematiche di degrado e la conseguente necessità della predisposizione di un programma di interventi di restauro, di manutenzione programmata e di provvedimenti per la tutela riguardano sia le singole emergenze architettoniche che il contesto paesaggistico (Putzu, 2018). In riferimento al degrado materico e strutturale dei portali, nella maggior parte dei casi analizzati si rileva il dissesto delle coperture dal quale possono derivare danni strutturali e rischi di crollo dell’arco del fornice e l’indebolimento degli elementi verticali. I dissesti rilevati, infatti, non appaiono generati da problemi progettuali e strutturali (fondali ecc.) ma conseguenti al progressivo e incontrollato processo di degrado. Dal punto di vista del degrado materico superficiale, le strutture realizzate in laterizi con finitura ad intonaco (che non sono state oggetto di restauro nel passato recente) presentano il distacco o la perdita quasi totale degli strati di intonaco con conseguente deterioramento delle murature in laterizi (cotti o crudi) o in opera mista. Mentre nelle strutture realizzate in pietra i problemi sono legati al degrado superficiale degli elementi lapidei (erosione, polverizzazione, alveolizzazione ecc.), al dilavamento dei giunti di malta e alla fratturazione dei conci, utilizzati per imperniare i cancelli di chiusura, a seguito dell’ossidazione dei ferri (fig. 1f). Per quanto concerne il contesto ambientale oggetto di indagine (isolamento e perdita della funzione di portale, scomparsa della coltura storica, perdita degli elementi di delimitazione e cancellazione dei segni della divisione dei poderi e della viabilità storica ecc.), si evidenzia che, nonostante il Campidano di Oristano sia stato interessato, come sopra accennato, a partire dal secondo dopoguerra da un intenso processo di trasformazione agraria, si conservano ancora, anche se “ormai isolati o ridotti nella dimensione spaziale, aspetti ed elementi del paesaggio agrario”, sebbene un tempo questi fossero prevalenti e dominanti rispetto ad oggi (Fenu, Sebis, 2003, pp. 99, 100). Anche i portali monumentali, nonostante la secolare incuria che ne ha lasciato visibili segni e ha comportato anche il venir meno nella memoria collettiva della funzione che hanno svolto e del simbolo che hanno rappresentato nel territorio e nella cultura agraria, sono giunti fino a noi e si ergono a monito di una possibile e doverosa ‘rinascita’. Considerazioni conclusive: proposte di restauro e valorizzazione Come evidenzia Salvatore Settis per promuovere serie ed efficaci politiche della natura bisogna ripartire dall’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo
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Maria Giovanna Putzu Le leggi del settore attualmente vigenti si muovono nella stessa direzione. A livello europeo nel 2000 gli stati membri dell’Unione Europea hanno firmato la Convenzione Europea del Paesaggio che si impegna a dare una ampia e precisa definizione del termine ‘Paesaggio’ stilando le linee guida per la sua tutela e valorizzazione. Dal 2004 in Italia il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio e s.m. tutela il paesaggio, del quale si riconoscono le componenti storiche, culturali, naturali ed estetiche, attraverso l’individuazione delle cause di rischio e incentivando lo sviluppo sostenibile a livello ambientale e socio-economico.
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sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Inoltre, dopo aver ricordato che la più antica legge italiana sul paesaggio porta la firma del filosofo Benedetto Croce, Settis sottolinea che “è la prima volta al mondo che uno Stato pone tra i principi fondamentali la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, che sono messi in strettissima connessione tra loro […]. La tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico, la promozione della cultura e della ricerca costituiscono secondo la Costituzione un tutt’uno, che si collega ai diritti fondamentali dei cittadini come il diritto all’istruzione” (Settis, 2019). Per Croce, infatti, “il paesaggio era l’identità spirituale di una comunità, e distruggerlo o degradarlo significava distruggere lo stesso spirito di quella comunità” inducendola a perdere totalmente il rapporto con i propri luoghi, sradicandone le radici storiche e culturali9 (Coordinamento Nazionale Alberi e Paesaggio onlus, 2018). Il paesaggio non viene, dunque, più considerato come “una semplice sommatoria di oggetti naturali e artificiali bensì viene letto in una visione olistica e sistematica, intendendolo innanzitutto come una serie di sistemi di elementi e di relazioni (spaziali, funzionali, ecologico-ambientali, visive, simboliche etc.), che si sono susseguiti e intrecciati nel corso dei secoli sullo stesso territorio” (Emanueli, 2016, p. 4). L’agricoltura è uno dei fattori che “contribuisce in misura determinante alla costruzione del territorio, all’organizzazione della società e, in particolar modo, alla formazione del paesaggio, costituendo sul lungo periodo il principale strumento di antropizzazione dell’ambiente naturale e la struttura di base di ogni paesaggio rurale” (Pazzagli, 2007). All’interno di tale visione, l’agricoltura si pone, dunque, al tempo stesso come ‘costruttrice’ del paesaggio, in quanto “il paesaggio agrario e rurale è storicamente il frutto del connubio tra natura, economia e cultura”, e come chiave di volta per la conservazione del paesaggio stesso, in quanto grazie al “suo ruolo sempre più multifunzionale, costituisce l’elemento protagonista per la tutela ambientale e la valorizzazione della tipicità e della qualità. Di qui l’esigenza di politiche e di scelte che tengano conto delle peculiarità e delle prerogative che fanno del lavoro agricolo il fulcro insostituibile di un’azione tesa a preservare il patrimonio paesaggistico e tutto ciò che intorno ad esso ruota” (Bertoni, 2008, pp. 62). Il restauro, la tutela e la valorizzazione delle sistemazioni agrarie storiche dovrebbero essere legati al potenziamento economico del settore (prevedendo in aggiunta la realizzazione di nuove piantumazioni), anche promuovendo e incentivando la commercializzazione dei prodotti locali. Se questo non accadesse, si rischierebbe di mantenere paesaggi agrari privi di una funzione produttiva, che ne determina ‘l’autenticità’. La ricerca dell’equilibrio tra questi due aspetti e la piena valorizzazione delle risorse sociali, economiche, ambientali e paesaggistiche presenti nel territorio, possono essere garantite solo attraverso un’integrazione dei piani, dei programmi e delle risorse finanziarie (Giacchè, 2012, p. 202).
Il recupero e il potenziamento della funzione agricola dovrebbe essere associata al restauro del paesaggio rurale (restauro delle strutture architettoniche, manutenzione di alberi, muri a secco, elementi di partizione, strade ecc.) e, non ultimo, al recupero delle tradizioni culturali e enogastronomiche locali (Dettori, Filigheddu, 2008, p. 37). All’interno di un piano organico che riguarda il territorio nel suo complesso particolare e primaria rilevanza va riservata alla conservazione delle emergenze storico mo-
numentali, nella loro componente materica, prevedendo un restauro ‘urgente’ ed accurato, con la reintegrazione e il consolidamento dell’intera compagine muraria (nucleo, paramenti, elementi decorativi e finiture). vulnerabilità L’intervento, nel rispetto dei concetti cardine del restauro (reversibilità, compatibilità, distinguibilità, minimo intervento, autenticità), deve infatti mirare ad una attenta e sapiente conservazione delle caratteristiche tecniche, delle tracce di lavorazione superficiali, delle finiture e dei cromatismi (colore degli elementi di fondo e di aggetto). Ciascun elemento deve poi essere inserito all’interno di un percorso storico opportunamente dotato della segnaletica informativa (anche grazie alle moderne tecniche interattive) che permette di promuoverne la conoscenza e di incentivarne la valorizzazione. Il percorso spazio-temporale potrà essere letto su un piano sincronico, con i rimandi agli altri portali, e diacronico, con la possibilità di apprezzare tutte le ricchezze storico-culturali dell’area. Tuttavia ancora oggi, nonostante le grandi valenze identitarie e il forte impatto che essi possiedono non solo come bene culturale, e dunque come entità autonoma da tutelare, ma anche come parte di un complesso (considerando i portali nella loro totalità) e all’interno di un territorio in cui la coltura dell’ulivo è di per sé un patrimonio, i portali sembrano destinati all’oblio e ad un inesorabile degrado, dal momento che si rimandano di decennio in decennio gli ormai urgenti interventi di restauro, che con il passare del tempo diventano sempre più consistenti e onerosi (Putzu, 2018). Con l’obiettivo di salvaguardare le molteplici valenze che sono implicite in una realtà stratificata ne consegue, dunque, che non si può prescindere dal valorizzare ed evidenziare il rapporto che coniuga architettura e ambiente10, ciò “significa concentrare l’attenzione sul quadro d’insieme il quale, espressione del sistema natura-cultura, rappresenta la sintesi dell’organizzazione fisica e formale dei luoghi” (Sette, 2018, p. 21). Il riconoscimento del valore storico-artistico e dei ‘caratteri identitari’ del patrimonio storico-monumentale e della secolare vocazione agraria del territorio sono la premessa ai necessari interventi di restauro e tutela. L’attuazione delle operazioni congiunte, sopra accennate, avrebbe importanti ricadute sia sul piano culturale che economico, consentendo ad un territorio ricco di storia, cultura e sapienti e secolari tradizioni di trarre ancora da queste insegnamento e forza per un ‘fruttuoso’ futuro.
Le proposte di intervento si pongono in linea con le previsioni del Piano Urbanistico Comunale (provvedimenti di tutela: vincolo Paesaggistico e vincolo sui Beni Culturali) e del Piano Paesaggistico Regionale. 10
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Valorizzazione dei frammenti e delle rovine classiche nella città contemporanea Emanuele Romeo
Dipartimento Architettura e Design, Politecnico di Torino.
Riccardo Rudiero
Emanuele Romeo Riccardo Rudiero
Dipartimento Architettura e Design, Politecnico di Torino.
Abstract The city that changes has always preserved in its urban areas some symbols of the past. They have had different roles and their value (celebratory, political, artistic) has often changed over the years. These symbols have an undoubted meaning linked to particular historical events. However, they are often also associated with an artistic value which, in the contemporary city, can increase the expressions of modern art. So the ruins and classical fragments can be considered artistic manifestations of “permanent installation” alongside the work of art of “temporary installation”? Through the analysis of national and international cases the following paper proposes compatible strategies for the conservation of ancient fragments and ruins as an expression of art in the contemporary city. This in order to avoid that they become the object of an unconscious enhancement that could lead to aberrations (such as fragments or ruins transformed into “fetishes of history”) or to contrast and replacement phenomena (such as new artistic manifestations that, placed next to that of the past, reduce their value). Keywords Ruins, contemporary art, enhancement, conservation.
Valore documentale delle rovine e dei frammenti classici nella città contemporanea (E.R.) La città contemporanea conserva, nella sua forma storica, alcuni simboli del passato: questi hanno avuto diversi ruoli e il loro valore (celebrativo, politico, artistico) è spesso cambiato negli anni (Settis, 1984). Tali testimonianze sono dovute soprattutto alla pratica del reimpiego dell’antico che, a cominciare dall’Età medievale, caratterizzò alcune nuove architetture e, di conseguenza, le città che con esse si trasformavano man mano: interi edifici nacquero sfruttando le preesistenti fabbriche e di queste ultime venivano esibiti i caratteri di antichità (Romeo, 2007, pp. 29-39). Ugualmente, per ragioni ideologiche o politiche furono sistemati, presso i monumenti o nelle piazze principali i frammenti di opere antiche o sculture classiche che rappresentavano, a vario titolo, la memoria storica della collettività (Greenhalgh, 1984).
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Fig. 1 Fano (PU). L’Arco di Augusto scolpito sulla facciata della chiesa di Santa Caterina.
Inoltre, nelle prime guide delle città medievali, compresa Roma, il monumento o il rudere sono i punti di riferimento per i pellegrini o i viaggiatori che, sulla scorta di tali indicazioni, visiteranno le maggiori città per ammirare non solo le nuove architetture ma le rovine di quelle classiche; essi sono importanti riferimenti per la guida di maestro Gregorio (Nardella, 1997) e per i percorsi che Einsiedeln suggerisce nella mappa della città di Roma tra i secoli VII e IX (Mauro, 2001, pp. 37-62), e tale prassi permane fino alle indicazioni topografiche fornite nelle carte della stessa città create da Piranesi, Canina, Nolli a cavallo tra il XVIII e XIX secolo. Col passare dei secoli queste opere, quasi sempre con un grande valore artistico, assunsero anche un ruolo celebrativo a tal punto che acquistarono valore d’arte soprattutto nei centri rinascimentali. Sono numerose le rappresentazioni di città in cui il rudere o il frammento scultoreo ha un ruolo preminente e si confronta con le nuove architetture all’interno delle città (Cantino Wataghin, 1984). Si pensi ai dipinti degli artisti quattro-cinquecenteschi o alle rappresentazioni di scenografie teatrali di Serlio o di Peruzzi (Cantone, 1978). Anzi ciò che resta dell’antico, studiato e riprodotto diventa fonte di ispirazione senza soluzione di continuità fino al XIX secolo: dalle città pictae o da quelle fictae si passa alla progettazione di città ideali che spesso si concretizzano in esempi di civitas nova. Si assiste quindi a una consapevolezza del valore storico dell’antico che inizialmente è dovuto alla “casualità” del riuso di materiali precedenti e, successivamente, alla specifica “volontà” di conservare (nell’accezione antica del termine) la rovina o il frammento classico. Attraverso tale processo, quindi, il valore artistico, legato a particolari eventi della storia, permane nella città di oggi arricchendola di opere d’arte che si affiancano alle manifestazioni della contemporaneità.
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Emanuele Romeo Riccardo Rudiero Fig. 2 Venezia. I Tetrarchi in porfido rosso, collocati all’angolo del tesoro di San Marco, nell’omonima piazza.
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Le imponenti colonne del tempio di Minerva, per esempio, emergono ancora dalla cattedrale di Siracusa mentre, la porta di Augusto si affianca al complesso di Santa Caterina a Fano e viene riprodotta, nella sua ipotetica interezza, sulla facciata della chiesa (fig. 1). A Roma, il colonnato del tempio del Divo Adriano caratterizza l’intera piazza di Pietra così come a Milano il colonnato di San Lorenzo domina l’intero spazio urbano e a Napoli le colonne del tempio dei Dioscuri svettano nella facciata di San Paolo Maggiore. Infine, gli acquedotti di Segovia e Istanbul attraversano la città e le conferiscono particolare e irripetibile fascino. Anche molte opere o numerosi frammenti d’arte antica connotano tuttora i centri urbani a tal punto che, nell’immaginario collettivo, Roma è la città delle colonne istoriate di Traiano e Antonino, ma anche la città degli obelischi, posizionati nelle piazze del Popolo, Navona e Montecitorio, in San Pietro e in San Giovanni in Laterano. A Istanbul, invece, gli obelischi dell’antico Hippodromus Constantini e la colonna del Forum Constantini ricordano l’antica Costantinopoli (Concina, 2003, pp. 3-46). I tetrarchi e i pilastri d’Acri sono ancora oggi un simbolo della tramontata potenza marittima di Venezia (fig. 2); la statua del Babuino e del Pasquino a Roma danno il nome alle piazze in cui sono collocate, così come a Napoli la statua del Nilo. Le statue antiche (del Tigri e del Nilo, dei Dioscuri, della Lupa Capitolina, di Minerva) e il Caballus Constantini ornano la piazza del Campidoglio dal XVI secolo, mentre il complesso scultoreo dei Dioscuri con l’obelisco caratterizza l’attuale piazza del Quirinale (Pane, 2008). Si possono considerare i frammenti antichi e le rovine classiche come opere “d’istallazione permanente”? E si possono, allora, ritenere questi elementi come frammenti d’arte all’interno della città contemporanea? Nel primo caso il riconoscimento è già avvenuto soprattutto per alcuni monumenti che hanno sempre posseduto un valore simbolico e celebrativo che permane nella cultura delle città occidentali europee e dei paesi del bacino mediterraneo: gli archi di trionfo dedicati agli imperatori, le porte urbiche delle città romane sopravvissute alle distruzioni, i templi dedicati alle divinità pagane – convertiti in chiese e poi ripristinati, a cominciare dal XIX secolo, nella loro facies originaria – proprio per rappresentare meglio i simboli della classicità perduta e ritrovata (Choay, 1995, pp. 24-44). Nel secondo caso, il riconoscimento appare più difficile a causa della fragilità degli elementi superstiti (compresi quelli venuti alla luce attraverso gli scavi archeologici, più o meno organizzati all’interno di percorsi organici di fruizione), che spesso pone problemi di conservazione e in molti casi di sopravvivenza. Tuttavia essi resistono alle ingiurie del tempo e al degrado antropico e a volte di essi rimane solo la memoria nella toponomastica. Ma certamente a tutte queste opere viene riconosciuto un valore storico e d’arte o ancor più documentale di grande importanza poiché, assieme alle opere artistiche e alle architetture di oggi, aiutano a comprendere la cultura della città contemporanea nella sua complessità. Allora le rovine e i frammenti classici possono essere considerati senza dubbio manifestazioni d’arte di “istallazione permanente” a fianco delle opere di “istallazione temporanea”. Un esempio significativo è rappresentato, a Nîmes, dalla Carré d’Art (Norman Foster, 1993) che si affianca alla Maison Carrée: entrambe sono architetture di pregio che si completano vicendevolmente rappresentando due momenti distanti della storia –
Fig. 3 Nîmes. La Maison Carrée e la Carré d’Art (foto: https:// archello.com/project/carredart).
classica e contemporanea – ma uniti nel concorrere a caratterizzare la città contemporanea (Garnier, 2008, pp.10-13) (fig. 3). Un altro caso è rappresentato dal progetto per il parco cittadino di Malpasset-Amphithéâtre, a Fréjus, in cui convivono elementi della classicità – l’anfiteatro – ed elementi della contemporaneità. L’incontro tra l’antico e il nuovo si ravvisa anche dalla sistemazione delle antiche colonne doriche del tempio di Nettuno affiancate a una scultura contemporanea (il Memoriale per il disastro di Malpasset, opera dell’artista Michel Mourier, realizzato a cinquant’anni dalla catastrofe, avvenuta nel 1959) che evoca, nella forma, il monumento classico (Pasqualini et al., 2010, pp. 177-189) (figg. 4-5). Così come appaiono interessanti le soluzioni proposte da Igor Mitoraj quando contrapponeva le sue sculture, di ispirazione classica, esibendole nelle aree archeologiche delle maggiori città europee: in tal senso, l’esposizione di tali opere nei Mercati Traianei è emblematico, poiché rovine classiche e sculture contemporanee danno luogo un paesaggio urbano altamente suggestivo (Mitoraj, 1988, pp. 46-48). Arricchimento e contrapposizione dei valori: un equilibrio progettuale (R.R.) Se alle rovine e ai frammenti classici delle attuali città si riconosce un valore documentale e un valore d’arte, allora diventa fondamentale e prioritario suggerire strategie di conservazione che dovrebbero risultare compatibili e integrate con i processi legati all’arte e alle manifestazioni artistiche odierne (Gurrieri et al., 1998, pp. 15-87). Ciò per evitare che esse diventino oggetto di valorizzazione non consapevole, che potrebbe portare ad alcune aberrazioni, oppure a fenomeni di contrapposizione o di sostituzione nei casi in cui l’opera nuova – posta a fianco di quella del passato – prevarichi e sminuisca il valore di quella antica: si pensi alle istallazioni temporanee di sculture o architetture che ripropongono l’antico quando, nello stesso contesto urbano in cui sono collocate, esistono pregevoli esempi di frammenti e rovine classiche, spesso non adeguatamente valorizzate (Choay, 1995, pp. 137-157).
Figg. 4-5 Fréjus. Antiche colonne doriche affiancate a sculture contemporanee, presso il parco di MalpassetAmphithéâtre.
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Emanuele Romeo Riccardo Rudiero Figg. 6-7 Barcellona. Le rovine del Tempio di Augusto in Carrer de Paradís, nel Barri Gòtic a Barcellona; Arles. I frammenti di architetture romane incastonati nei moderni palazzi di Place du Forum.
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Anzitutto, non sempre i frammenti e le rovine presenti negli attuali contesti urbani sono interessati da adeguati interventi di protezione che ne garantiscano la conservazione; secondariamente, alcuni ruderi architettonici non sufficientemente valorizzati risultano avulsi dal contesto o addirittura estranei alla cultura della città in cui sono conservati. In quest’ultima casistica possono essere ascritte una delle antiche porte della città romana di Colonia, di fronte alla cattedrale gotica, della quale non si chiariscono le ragioni della sua ubicazione e delle sue origini (Schweiring, 2010, pp. 6-12) o il frammento di porticato tardo-antico presente nel centro storico di Aquisgrana, di cui non si menzionano né le origini né i rapporti con le più note architetture carolinge (Dickmann, 2009, p. 18). Parimenti ad Atene la biblioteca di Adriano e, generalmente, tutti i ruderi degli edifici romani sono oggi considerati marginali rispetto alle antichità greche sebbene, più di queste, caratterizzino la città contemporanea grazie alla loro ubicazione (Romeo, 2008, pp. 101-105). Fortunatamente la realizzazione del nuovo Museo dell’Acropoli (progettato dagli architetti Bernard Tschumi e Michael Photiadis, e inaugurato nel 2009), costruito nel contesto urbano storicizzato, istituisce quel corretto rapporto tra la città apicale e quella bassa, tra opere esposte e contenitore, orientato in relazione al rudere del Partenone, del quale esibisce i frammenti scultorei (Montanari, 2015). Tuttavia, in questi casi esiste un secolare rapporto tra città che si stratifica su se stessa inglobando i monumenti più antichi; l’aberrazione viene invece raggiunta quando le espansioni contemporanee aggrediscono repentinamente territori prima non urbanizzati, all’interno dei quali sono presenti rovine classiche: i resti dell’acquedotto di Fréjus appaiono come tristi feticci della storia tra nuove aziende artigianali e ipermercati (Bartolozzi, Romeo, 2017), mentre i ruderi delle terme sono compressi tra le nuove abitazioni balneari e il tracciato della ferrovia. Analogamente l’arco di Traiano ad Ancona è inglobato negli edifici e nei magazzini nel porto e i mausolei romani dell’antica Capua, lungo la via Appia, sono silenziosi testimoni di un passato glorioso rispetto al proliferare di industrie e supermercati (Russo, 2010). Ma se questi casi potrebbero considerarsi “inconsapevoli” interventi a danno del patrimonio antico, ve ne sono in cui proprio una “consapevole” valorizzazione ha prodotto risultati poco condivisibili: per esempio, l’alterazione del paesaggio urbano di Sagunto con la ricostruzione dell’edificio scenico del teatro romano (progettato a metà anni Ottanta del secolo scorso da Giorgio Grassi e Manuel Portaceli), o la cementificazione
Fig. 8 Barcellona. I sarcofagi della via sepolcrale romana in Plaça de la Vila de Madrid.
dell’anfiteatro di Fréjus (secondo il progetto di Francesco Flavigny) per consentire lo svolgimento di grandi manifestazioni (Romeo, 2013). Apparentemente più raffinata ma altrettanto straniante è la valorizzazione forzata di alcuni frammenti antichi che, emergendo soprattutto da scavi o interventi di de-restauro otto-novecenteschi, appaiono come feticci della storia. Ne sono un esempio le rovine del Tempio di Augusto a Barcellona che, nonostante la sistematizzazione operata dal Museo de Historia della città (MUHBA), risultano compresse all’interno di un cortile o i lacerti del Foro Romano di Arles, incastonati nei palazzi moderni (Heijmans et al., 2006, pp. 62-65) (figg. 6-7). Analogamente e sempre in Francia, possono considerarsi poco condivisibili le sistemazioni di alcuni edifici ludici e per spettacolo nella città di Cahors, tra cui i ruderi del teatro appena visibili sotto un edificio moderno oppure quelli dell’anfiteatro chiusi all’interno di un parcheggio sotterraneo (Romeo, 2015); in quest’ultimo caso è stata data preponderanza al valore storico del documento a scapito di quello di permanenza come segno architettonico nel contesto cittadino, andato così totalmente perduto (Romeo, Rudiero, 2013). Eppure vi sono esempi in cui la rovina – benché affiorata da prospezioni archeologiche attuatesi in contesti pluristratificati – riesce a essere contestualizzata in modo corretto e convive perfettamente con le nuove funzioni urbane e con la città contemporanea: la via sepolcrale romana scavata in Plaça de la Vila de Madrid a Barcellona (fig. 8), o il tratto di Via Aemilia valorizzata all’interno dell’ex Foro Boario a Modena. In entrambi i casi, la rovina infrastrutturale dialoga con il contesto e, soprattutto, i sarcofagi e le steli emergono quali documenti storici ammantati di valore artistico. Non solo i resti architettonici, ma anche il singolo frammento può assumere un ruolo di arricchimento culturale dei contesti urbani contemporanei. Ne sono rappresentazione l’osmosi tra antico-nuovo generata dalle opere d’arte antica che, travalicando i confini volumetrici del Museo Archeologico di Colonia, diventano arredo urba-
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Emanuele Romeo Riccardo Rudiero Fig. 9 Colonia. I reperti del Museo Archeologico musealizzati all’aperto.
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no nella piazza antistante l’istituzione museale (Schweiring, 2010, pp. 58-60) (fig. 9). Alla stessa stregua può essere interpretata la serie scultorea che genera la scritta Barcino che si confronta con le mura romane in Plaça Nova a Barcellona, oppure le già citate sculture che si affiancano alle colonne antiche nel caso di Fréjus. Una contrapposizione, questa, che arricchisce entrambe le manifestazioni artistiche – quella antica e quella contemporanea, fattivamente o idealmente collegate – dove quelle più recenti non prevaricano né hanno la pretesa di sostituirsi a quelle più remote. Con questa stessa declinazione possono essere interpretate alcune istallazioni temporanee, come quelle di Michelangelo Pistoletto presso le terme di Caracalla a Roma, o di Franco Ceschi (inaugurata nel 1992, ma tuttora in sede) nel parco archeologico di
Figg. 10-11 Torino. Riproduzioni di statue egizie: la sfinge di Corso Giulio Cesare e il Ramesse di Piazza Castello (foto: https://live.staticflickr. com/8818/16717272124_60d4d512cb_b.jpg; https://mapio. net/pic/p-2565800/).
Veio (Pane, 2017, p. 127): nel primo caso, sono i frammenti antichi a dare origine all’istallazione contemporanea (Pistoletto, 2011, p. 23); nel secondo l’opera moderna evoca e rende comprensibile l’originario valore architettonico della rovina. A un analogo risultato equilibrato e fruttuoso sono pervenute le istallazioni presso i maggiori monumenti bizantini di Ravenna, come la serie di bufale bronzee di “Terre Promesse” (Davide Rivalta, 2012) a Sant’Apollinare in Classe, la quale evocava le origini agricole e bucoliche del territorio. Lo stesso può dirsi delle già citate opere di Igor Mitoraj a Roma e quelle presso l’area archeologica di Agrigento: qui la drammaticità dei soggetti scultorei si affianca alle rovine architettoniche e soprattutto alle sculture dei “giganti” distesi a terra. La scultura del Torero (il Nimeño) a Nîmes che indubbiamente arricchisce la piazza antistante l’anfiteatro dopo le sconsiderate operazioni di isolamento del monumento classico (Granier, 2008, pp.18-20). Tuttavia il fenomeno di affiancare o contrapporre l’opera d’arte contemporanea a quella antica genera talvolta il risultato che le istallazioni più recenti si sostituiscano prepotentemente ai frammenti classici. Ne è stato esempio, a Roma, la Venere che mostra le terga tra un cumulo di stracci nell’abside del tempio di Venere e Roma, anch’essa opera di Michelangelo Pistoletto: qui l’oggetto contemporaneo sembrerebbe aver prevaricato la rovina antica. Un discorso similare può esser fatto per la sistemazione delle sculture, peraltro pregevoli, di Botero, inserite nei contesti storici in cui la presenza di opere d’arte antica è già di per sé sufficiente a valorizzare la città. Al contrario l’opera d’arte contemporanea potrebbe servire a valorizzare le periferie o i quartieri contemporanei privi di accattivanti elementi di richiamo: si pensi a Pietrasanta, in cui Botero espone nella piazza principale della storica cittadina, mentre Mitoraj posiziona la sua scultura a margine del centro storico allo scopo di valorizzarne l’intervento di riqualificazione. Infine, volendo soltanto citare l’esempio piemontese, si può assistere alla valorizzazione attraverso l’istallazione di opere che riproducono antiche sculture o frammenti: le numerose statue di ispirazione egizia – copie di originali conservati presso il Museo Egizio – che accolgono i turisti nelle strade e nelle piazze principali di Torino (Gurrieri et al., 1998, pp. 111-118). Esse rappresentano un malinteso legame tra bene culturale e valorizzazione, tra la città contemporanea che mostra le sue “originali e genuine antichità” affiancate a pregevoli esempi di arte contemporanea e la città di oggi che, pur possedendo frammenti e opere autentiche, preferisce esibire riproduzioni con mera funzione di marketing (figg. 10-11).
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Conclusioni Affinché l’antico frammento all’interno della città contemporanea non perda il suo valore d’arte, deve essere considerato prima di tutto come un testimone della storia, e conservare il suo valore di memoria. Il rapporto tra le vestigia del passato e la nuova espansione urbana deve far sì che entrambe ne traggano beneficio, in un dialogo che porti alla conservazione dei reciproci valori. In questo modo possiamo considerare monumenti antichi e rovine come opere classiche di “installazione permanente”, e questi elementi come opere d’arte in un contesto più allargato che comprenda l’intera città contemporanea. In ogni caso, è importante che le rovine siano contestualizzate correttamente e coesistano perfettamente con le nuove funzioni urbane e con la città contemporanea. Così, anche il frammento può assumere il ruolo di incremento culturale degli odierni ambienti urbani. Anche le opere d’arte contemporanea possono arricchire la città e, se opportunamente unite a quelle antiche, entrambe aumentano il loro valore. Inoltre, le opere d’arte contemporanea dovrebbero servire a valorizzare le periferie o i nuovi quartieri privi di elementi di attrattività. Bibliografia Bartolozzi C., Romeo E., 2017, Valore di memoria e valore di attualità delle antiche infrastrutture nel paesaggio: l’acquedotto romano di Fréjus, in Palma Crespo M. et al. (a cura di), Sobre una arquitectura hecha de tiempo, eug, Granada, pp. 55-60. Cantino Wataghin G., 1984, Archeologia e “archeologie”. Il rapporto con l’antico fra mito, arte e ricerca, in Settis S. (a cura di) 1984, Memoria dell’antico nell’arte italiana. L’uso dei classici, Einaudi, Torino, pp. 171-211. Cantone G., 1978, La città di marmo, Officina Edizioni, Roma. Choay F., 1995, L’allegoria del patrimonio, Officina Edizioni, Roma. Concina E., La città bizantina, Roma-Bari, 2003, pp. 3-46. Dickmann I., 2009, Aachen, Michael Imhof Verlag GmbH & Co, Petersberg. Granier J., 2008, Nîmes, Editions Ajax, Monaco. Greenhalgh M., 1984, Ipsa ruina docet: l’uso dell’antico nel Medioevo, in Settis S. (a cura di), Memoria dell’antico nell’arte italiana. L’uso dei classici, Einaudi, Torino, pp. 115-170. Gurrieri F. et al., 1998, Il degrado della città d’arte, Polistampa, Firenze. Heijmans M. et al., 2006, Arles antique, Éditions du Patrimoine, Paris. Mauro F., 2001, La rinascita dell’antico. Recupero e riutilizzo dei monumenti classici nel Medioevo, EdUP, Roma. Mitoraj I., 1988, Sculpture, Art-Objet, Parigi. Montanari G., 2015, Il nuovo museo dell’Acropoli: un manifesto politico architettonico. Sulle impalcature di Fidia, in «L’indice dei libri del mese», anno XXXII, n. 10, p. 5. Nardella C., 1997, Il fascino di Roma nel Medioevo. Le “Meraviglie di Roma” di maestro Gregorio, Viella, Città di Castello. Pane A., 2017, Per un’etica del restauro, in Fiorani D. (a cura di), RICerca/REStauro, Sezione 1A, Edizioni Quasar, Roma, pp. 120-133. Pane A., 2008, L’antico e le preesistenze tra Umanesimo e Rinascimento. Teorie, personalità ed interventi su architetture e città, in Casiello S. (a cura di), Verso una storia del restauro. Dall’età classica al primo Ottocento, Alinea, Firenze, pp. 61-138. Pasqualini M. et al., 2010, L’Amphithèâtre de Fréjus. Archèologie et architecture: relecture d’un monument, Ausonius, Bordeaux.
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