Il design e gli animali. Fra zoomorfismo e animalier. di Benedetta Terenzi

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benedetta terenzi

Il Design e gli animali Tra zoomorfismo e animalier


La serie di pubblicazioni scientifiche Ricerche | architettura, design, territorio ha l’obiettivo di diffondere i risultati delle ricerche e dei progetti realizzati dal Dipartimento di Architettura DIDA dell’Università degli Studi di Firenze in ambito nazionale e internazionale. Ogni volume è soggetto ad una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata al Comitato Scientifico Editoriale del Dipartimento di Architettura. Tutte le pubblicazioni sono inoltre open access sul Web, per favorire non solo la diffusione ma anche una valutazione aperta a tutta la comunità scientifica internazionale. Il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze promuove e sostiene questa collana per offrire un contributo alla ricerca internazionale sul progetto sia sul piano teorico-critico che operativo. The Research | architecture, design, and territory series of scientific publications has the purpose of disseminating the results of national and international research and project carried out by the Department of Architecture of the University of Florence (DIDA). The volumes are subject to a qualitative process of acceptance and evaluation based on peer review, which is entrusted to the Scientific Publications Committee of the Department of Architecture. Furthermore, all publications are available on an open-access basis on the Internet, which not only favors their diffusion, but also fosters an effective evaluation from the entire international scientific community. The Department of Architecture of the University of Florence promotes and supports this series in order to offer a useful contribution to international research on architectural design, both at the theoretico-critical and operative levels.


ricerche | architettura design territorio


ricerche | architettura design territorio

Coordinatore | Scientific coordinator Saverio Mecca | Università degli Studi di Firenze, Italy Comitato scientifico | Editorial board Elisabetta Benelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Marta Berni | Università degli Studi di Firenze, Italy; Stefano Bertocci | Università degli Studi di Firenze, Italy; Antonio Borri | Università di Perugia, Italy; Molly Bourne | Syracuse University, USA; Andrea Campioli | Politecnico di Milano, Italy; Miquel Casals Casanova | Universitat Politécnica de Catalunya, Spain; Marguerite Crawford | University of California at Berkeley, USA; Rosa De Marco | ENSA Paris-LaVillette, France; Fabrizio Gai | Istituto Universitario di Architettura di Venezia, Italy; Javier Gallego Roja | Universidad de Granada, Spain; Giulio Giovannoni | Università degli Studi di Firenze, Italy; Robert Levy| Ben-Gurion University of the Negev, Israel; Fabio Lucchesi | Università degli Studi di Firenze, Italy; Pietro Matracchi | Università degli Studi di Firenze, Italy; Saverio Mecca | Università degli Studi di Firenze, Italy; Camilla Mileto | Universidad Politecnica de Valencia, Spain | Bernhard Mueller | Leibniz Institut Ecological and Regional Development, Dresden, Germany; Libby Porter | Monash University in Melbourne, Australia; Rosa Povedano Ferré | Universitat de Barcelona, Spain; Pablo RodriguezNavarro | Universidad Politecnica de Valencia, Spain; Luisa Rovero | Università degli Studi di Firenze, Italy; José-Carlos Salcedo Hernàndez | Universidad de Extremadura, Spain; Marco Tanganelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Maria Chiara Torricelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Ulisse Tramonti | Università degli Studi di Firenze, Italy; Andrea Vallicelli | Università di Pescara, Italy; Corinna Vasič | Università degli Studi di Firenze, Italy; Joan Lluis Zamora i Mestre | Universitat Politécnica de Catalunya, Spain; Mariella Zoppi | Università degli Studi di Firenze, Italy


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Il Design e gli animali Tra zoomorfismo e animalier


La pubblicazione è stata oggetto di una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata dal Comitato Scientifico del Dipartimento DIDA con il sistema di blind review. Tutte le pubblicazioni del Dipartimento di Architettura DIDA sono open access sul web, favorendo una valutazione effettiva aperta a tutta la comunità scientifica internazionale.

Laboratorio Comunicazione e Immagine Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze progetto grafico Susanna Cerri in collaborazione con Letizia Dipasquale foto repertorio iconografico (pp. 160-207) Caterina Ilari

© 2016 DIDAPRESS Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 14 Firenze 50121 ISBN 9788896080436

Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni X-Per


indice

Prologo Retaggi ancestrali nel design degli artefatti del nostro tempo prefazione di Alessandro Ubertazzi Una vicenda millenaria complessivamente inesplorata introduzione dell’autrice

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Il design e gli animali Premesse storiche sul rapporto fra l’uomo e gli animali

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Uso pratico di animali, loro parti e loro prodotti

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Finalizzazione apotropaica di animali e loro parti

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Interpretazione simbolica e artistica

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Gli animali nei bestiari, nell’araldica, nei racconti

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L’animale nel progetto dell’uomo

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Repertorio iconografico Introduzione alle schede

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Schede degli oggetti

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Contributi scientifici Zoote Design Elisabetta Benelli

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Animalia Eugenio Guglielmi

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La popolazione Sambaquì Milton de Andrade

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Bibliografia

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prologo

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retaggi ancestrali nel design degli artefatti del nostro tempo prefazione di Alessandro Ubertazzi

Gli studi che riguardano la storia dell’essere umano sono normalmente preceduti da una minuziosa e perfino millimetrica disamina dei reperti archeologici concernenti la sua cultura materiale nei millenni ovvero le più significative forme d’arte che hanno contraddistinto in modo definitivo il suo operato rispetto a tutti gli altri organismi superiori. Come ho detto altre volte in passato, l’oggetto comune, lo strumento di lavoro, l’attrezzo artigianale e, altresì, le più banali suppellettili (che, pure, rientrano nel teatro entro il quale l’uomo si muove e opera quotidianamente) (Ubertazzi, 1993, pp. 15-17) sono, di fatto, state sempre relegate nell’oblío o, quantomeno, nella marginalità. Invece, proprio l’evoluzione di quello straordinario repertorio di ‘cose’ apparentemente semplici, ci consente oggi di registrare l’immensa opera intellettuale e progettuale occorsa nella messa a punto dei principali archétipi degli oggetti che tutt’ora impieghiamo ma, soprattutto, di cogliere i passaggi essenziali che hanno permesso di raggiungere la loro definitiva bellezza nei singoli momenti dell’evoluzione sociale presso le diverse tribù del genere umano. Molteplici sono peraltro gli angoli visuali attraverso i quali si potrebbe intraprendere uno studio degli oggetti che intenda rendere conto sui principi ispiratori della qualità materiale del contesto abitato dai nostri consimili e degli altri primati a noi più affini. E se oggi possiamo compiacerci di affermare che le Cuevas di Altamira piuttosto che le grotte di Les Caux sono altrettante Cappelle Sistine di una civiltà di nostri cugini estintisi non più di quindicimila anni or sono, non è altrettanto evidente che possiamo esprimere ammirazione per l’oggettistica delle popolazioni Sambaquí (vissute sulle coste atlantiche dell’attuale Brasile sino all’arrivo di Amerigo Vespucci nelle Americhe) piuttosto che per il cor-

Incisioni rupestri site in Val Camonica, nella provincia di Brescia. La raffigurazione di scene di caccia, villaggi ed episodi di vita quotidiana era realizzata tracciando, con opportuni percussori, dei solchi sulle superfici relativamente lisce lasciate dal ghiacciaio sulle pietre dei due lati della valle, dopo il suo ritiro alla conclusione dell’era glaciale. Tali solchi venivano riempiti con impasti colorati di ossidi metallici. Tali rappresentazioni costituiscono una delle più importanti collezioni di petroglifi preistorici del mondo. Le incisioni furono realizzate lungo un arco di tempo di ottomila anni, fino all’Età del ferro (I millennio a.C.); quelle dell’ultimo periodo sono attribuite appunto al popolo dei Camuni ricordato dalle fonti latine. Alle incisioni rupestri camune è stato conferito il primo Patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’UNESCO in Italia (1979).


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La cuoca (La cuisinière, The coock, Köchin, Kucharka). Litografia tratta da un dipinto di Gabriel Metzu a Dresda, verso la metà del XIX secolo. La composizione, di esplicito sapore fiammingo, raffigura una cuoca nell’atto di confezionare un pollo allo spiedo: essa è seduta sul lato sinistro dell’immagine e guarda frontalmente, mentre tiene sulle ginocchia un piatto e, fra le mani, uno spiedo con il pollo infilzato; sullo sfondo, a destra, è appeso un coniglio.

redo materiale degli egiziani del quarto millennio avanti Cristo: si tratta infatti di realtà poco spettacolari ma non per questo meno significative e affascinanti per la comprensione del nostro attuale contesto materiale. In realtà, a tutti sembra curiosamente ovvio che, sulle ‘pagine di pietra’ scolpite o incise, i nostri predecessori abbiano disegnato animali di ogni genere in quanto rappresentandoli, più o meno ritualmente, credevano di ottenere una migliore cacciagione per potersene nutrire ovvero una valida protezione nei confronti delle loro misteriose pericolosità; eppure la lunga consuetudine con gli altri animali, la necessità di ingraziarsi la loro disponibilità ovvero ancora l’utilità di averne addirittura addomesticato qualcuno, hanno così fortemente acutizzato la sensibilità umana nei loro confronti da introspettarne i caratteri, da amplificarne la conoscenza e la comportamentalità, da usarli ben al di là della semplice e perfino ovvia qualità di sorgente proteica. Ed effettivamente, se pure è possibile affrontare un discorso analogo a questo ma rivolto all’ambiente vegetale (Ubertazzi, 2014, p. 46) o addirittura a quello minerale, gli effetti


prologo

di questi altri ámbiti sulla fantasia umana e, precisamente, sulla umana capacità di effettuare artefatti o di concepire risposte progettuali ad altrettante esigenze umane, sono di gran lunga inferiori e limitati. Oggettivamente, l’impegno dei nostri antenati nella formalizzazione degli oggetti utili ad affrontare le necessità quotidiane, ci induce infatti a privilegiare il regno animale e le sue straordinarie dinamiche (Ubertazzi, 2013, p. 7). Nelle ricerche che ho potuto svolgere o tutorare in ambito universitario, nella mia vita professionale e nelle vaste incursioni di collezionista nelle culture materiali del passato, ho potuto riscontrare magnifici oggetti che, di volta in volta, cercavano di ritrarre fedelmente l’animale o i suoi aspetti (come nel caso delle proposte animalières)1, che ne mettevano in risalto l’indole (come nel caso delle simbologie animaliste e dei bestiari medievali) (Ubertazzi, 2010, pp. 11-16) che ne usavano direttamente parti o componenti peculiari, che ne distillavano la quintessenza (come nel caso di maggiore o minore zoomorfismo) ovvero che ne reinterpretavano la peculiare struttura e il comportamento meccanico (come nel caso della bionica). Soprattutto per questi motivi, quando Benedetta Terenzi mi chiese di indicarle un argomento su cui riflettere per fornire un contributo scientifico originale al settore del design, mi sono permesso di suggerirle di affrontare quegli aspetti del corredo materiale borghese compresi fra la dimensione animalière e lo zoomorfismo documentando, con esempi di un possibile approccio alla loro decodificazione, quegli items che, nei diversi modi, fossero riconducibili all’essere animale. La prima parte del suo lavoro ha voluto infatti documentare efficacemente un excursus fra i più significativi passaggi teorici al riguardo, mentre la seconda ha evidenziato la ricchezza di influenze che l’animale ha introdotto nella cultura espressiva degli artigiani di ogni periodo o latitudine2 e, oggi, nella competenza progettuale dei designers oltreché nella sensibilità degli artisti. Poiché la discussione di Benedetta Terenzi attorno agli oggetti di volta in volta più o meno informati alla logica del design, è stata condotta alla luce dei concetti che ho formulati, insegnati e riscontrati nelle ricerche effettuate, mi permetto di riassumere qui i princípi in base ai quali, a differenza delle opere artistiche (che scaturiscono sostanzialmente dalla sen-

La presenza animale nel progetto di moda, contributo scientifico alla tesi di D. Baldini Animali per moda; una collezione di abiti e accessori ispirati ai materiali e alle affascinanti forme animali, Università degli Studi di Firenze, Interfacoltà di Lettere e Filosofia con Architettura, Corso di Laurea in Cultura e Progettazione della Moda (prof. A. Ubertazzi), Firenze, 26 febbraio 2014, pp. 6-7. 2 La maestría degli artigiani, contributo scientifico alla tesi di B. Uccellini Per la solennità del rito sacro; schedatura e ipotesi conservativa dei paramenti custoditi nella cattedrale di Terni per la loro auspicata valorizzazione, Università degli Studi di Firenze, Corso di Laurea in Lettere (prof. A. Ubertazzi), Firenze, 18 aprile 2012, p. 3. 1

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Stemma della famiglia Ubertazzi. Tempera su cartoncino fornita dall’Archivio araldico Vallardi (Milano, inizio del XX secolo). Questo dipinto rappresenta lo stemma degli Ubertazzi. La coppia di cervi raffiigurata entro lo stemma dimostra, che alla radice del cognome della famiglia, sta l’idea della fertilità (ubertas: fertilità); curiosamente, tale nome costituisce, infatti, l’opposto del nome Bulgari (che corrisponde, invece a vulgaria: terreni aridi e non fecondi).

sibilità del loro autore e perciò da un moto dell’animo), gli artefatti che derivano dalla pura progettualità del design (come io lo intendo) si caratterizzino. Per meglio comprendere le finalità e la portata del lavoro della Terenzi, ritengo infatti opportuno riferire sinteticamente quei princípi adatti appunto a identificare il design come specifica e peculiare progettualità fra le tante oggi… ammissibili. In realtà, mai come in questo frangente storico, le opzioni per configurare il corredo materiale delle genti del nostro tempo sono state così articolate, diversificate e ibridate: per questo motivo, mentre fino agli anni Sessanta del secolo scorso il design costituiva apparentemente l’unica logica moralmente consigliata per conferire una forma appropriata alle legittime funzioni degli oggetti d’uso (e perfino agli oggetti inutili corrispondenti ai falsi bisogni introdotti dalla cosiddetta società dei consumi), oggi è praticamente accettato che gli artisti, gli artigiani e perfino gli sprovveduti possano esprimere design secondo le loro logiche tradizionali o personali non senza qualche imbarazzante confusione.


prologo

Sintetizzando il pensiero che ho ricevuto dei miei maestri e che ho cercato di riordinare in forma coerente, gli aspetti che dovrebbero consentire di identificare e di distinguere le ‘cose’ che riflettono le logiche del ‘progetto di design’ delle altre sono relativamente semplici da riferire. E quando parlo di ‘design’ mi riferisco sostanzialmente a quel modo di concepire gli oggetti d’uso e i componenti dei sistemi costruttivi che, originatosi in forma anonima nei millenni (a partire dalla cultura neolitica che, per prima, perseguì tenacemente una esplicita intenzione formale e qualitativa nella realizzazione delle suppellettili e degli strumenti quotidiani con l’ausilio delle prime macchine allora disponibili) e proseguito fino agli inizi del secolo scorso, è stato dapprima definito come ‘progettazione artistica per l’industria’, poi più semplicemente ‘progettazione per l’industria’, poi ancora industrial design per divenire infine product design o, più famigliarmente e semplicemente, ‘design’. Pertanto, affinché un artefatto possa essere considerato come originale frutto di un progetto di design o, meglio, del ‘design’, a mio modo di vedere esso deve essere stato concepito e realizzato, la prima volta, soddisfacendo ai seguenti requisiti: • essere pensato secondo la ‘logica delle macchine’ del suo momento storico; questo vale a partire dalle macchine più antiche (come il trapano o il tornio) fino a quelle odierne (come le apparecchiature per l’estrusione o la pressofusione, gli utensili a controllo numerico, i dispositivi per la modellazione solida, ecc.); • essere frutto della piena interpretazione della ‘indole’ dei materiali previsti dal progettista (ad esempio la leggerezza, nel caso dell’alluminio, o la traslucidità, nel caso dei materiali vetrosi) oltreché, ovviamente, delle specifiche caratteristiche fisico-prestazionali di loro competenza; • corrispondere alle consuetudini formali del proprio tempo, nel senso della ‘modernità’; cioè non solo esso deve essere ‘contemporaneo’ alla cultura della società che lo esprime ma, soprattutto, deve proporsi come occasione per raggiungere quello che io chiamo ‘un desiderabile futuro’; • essere esplicitamente corretto sotto il profilo etico oltreché orientato al soddisfacimento di bisogni reali della società. In questo senso, l’eticità del progetto riguarda, da un lato, il rispetto dell’ambiente e, dall’altro, la salubrità delle lavorazioni per produrre l’oggetto stesso. Un artefatto formalmente elegante non può essere considerato espressione di design se viene prodotto da persone sottopagate (ad esempio in un paese del Terzo Mondo) o se le lavorazioni per ottenerlo sono pericolose o nocive: in questi casi il progetto deve essere semplicemente considerato… un crimine.

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una vicenda millenaria complessivamente inesplorata

Quando, ormai qualche tempo fa, il mio maestro mi propose di redigere un testo sulla relazione che intercorre tra gli animali e il design, mi sembrò subito un’idea particolarmente stimolante e davvero piuttosto inesplorata; accettai così con entusiasmo! Allora non immaginavo quanto, in realtà, la relazione che ha espresso una serie di artefatti che spaziano fra lo zoomorfismo e l’animalier fosse vasta e complessa. Come suggerito da Alessandro Ubertazzi, in questo libro ho affrontato l’argomento percorrendo trasversalmente la problematica, senza la pretesa di mettere un punto fermo, quando piuttosto ponendo una serie di spunti per ulteriori approfondimenti e documentando, anche con esempi didascalici, quella articolata realtà. Gli oggetti commentati nel testo vogliono infatti essere un’occasione per riflettere, più in generale, sui particolari prodotti che l’essere umano ha saputo concepire e mettere a punto presso le diverse comunità umane, nelle diverse località del pianeta e nelle molteplici situazioni storiche. Non si tratta solo di un excursus che illustra il legame tra l’animale e l’uomo all’interno della cultura occidentale ma anche di una riflessione sulla straordinaria diversità che quel rapporto ha manifestato all’interno delle diverse culture che il pianeta ha espresso e tutt’ora manifesta, visto che, appunto, le vie alla proposta progettuale e a quella artistica sono davvero molteplici e assai spesso intersecate fra loro. Qualcosa di concettualmente simile, anche se con riferimento alla sola realtà artistica del nostro Paese, è stato compiuto nella mostra Il tesoro d’Italia, allestita all’interno di Expo 2015 da Vittorio Sgarbi che vi ha celebrato la biodiversità culturale italiana. Egli ha voluto

• Cintura tribale in osso. Particolare di una cintura tribale realizzata unendo, con spago, 94 lastrine ottenute lavorando ossa di animali (forse ovini o ungulati). Secondo una tecnica antichissima e primordiale, i vari elementi che costituiscono l’oggetto (con evidenti significati rituali) sono perforati lateralmente per ospitare il refe che li unisce; la loro faccia superiore è decorata in modo differente e, probabilmente, in tempi diversi con punti e cerchi incisi col trapano (’occhi di dado‘).


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Storie dell’Arca di Noè. L’affresco è stato realizzato nel 1559 da Aurelio Luini e si trova a San Maurizio al Monastero Maggiore, a Milano. L’immagine, di ispirazione fiamminga, ritrae Noé che imbarca gli animali sull’Arca; il Luini dipinge l’episodio con grande attenzione ai particolari e vocazione aneddotica, rendendo la scena particolarmente vivace e movimentata.

così affrontare la straordinaria e diversificata realtà dell’arte e della bellezza proposta nei secoli dal nostro Paese partendo, per comodità narrativa, dalle singole regioni, quasi che esse coincidessero con altrettante aree di autonomo sviluppo culturale, anche se coese e coerenti fra loro. Il suo intento è stato quello di mostrare, ai visitatori dell’Expo provenienti da ogni angolo della Terra, altrettante sezioni verticali del prodotto artistico di alcuni ambiti culturali, partendo dai tempi più lontani fino alle produzioni più recenti. Quello che ne è scaturito non è solo un grande messaggio di bellezza e di propositività ma un discorso sulla incredibile varietà e sulla formidabile ricchezza delle vie umane all’espressione: tutto sommato, è quello che, al di là delle riflessioni sull’animale e sul suo significato all’interno della nostra cultura espressiva, anche questo libro vuole mostrare ai diversi livelli. Presso la sede del Corso di Laurea in Disegno Industriale dell’Università di Firenze (al quale afferisco) lo scorso novembre si è svolta la seconda edizione dell’evento Design Stories, sessanta giorni dedicati al design per testimoniare il lavoro svolto dalla ‘scuola fiorentina di design’. Durante questa articolata manifestazione ci sono state molte occasioni per discutere sulla nostra disciplina, sui criteri di insegnamento, sulla storia del design e sulla prassi progettuale.


prologo

Con questo libro intendo portare un esplicito contributo a quel dibattito e mostrare il mio punto di vista sull’argomento, avvalendomi di un ristretto ed esemplificativo campo applicativo che riguarda una parte specifica ma affascinante del nostro corredo materiale. Oggettivamente, le strade percorse per l’insegnamento del design e della sua storia consistono spesso nella elencazione acritica di oggetti e di stili, senza che essi si confrontino con le vicende dell’arte e dell’architettura di volta in volta a loro contemporanee. Mentre, in Italia, l’arte e l’architettura hanno, infatti, una storia lunga e gloriosa, impropriamente si ritiene che, nonostante il suo attuale prestigio internazionale, il design italiano non abbia una storia secondaria e parallela, troppo spesso connessa in modo riduttivo alla sola progettazione di strumenti e suppellettili domestiche. Questo libro intende, invece, mostrare e, perciò, affermare, che gli artefatti forniscono informazioni essenziali sulle radici culturali e storiche della comunità umana e costituiscono un’imprescindibile lezione di design. In questo senso concordo con il pensiero di Andrea Branzi (che, tra l’altro, coincide con quello da sempre espresso anche da Alessandro Ubertazzi) secondo il quale, la storiografia del settore fa risalire erroneamente la nascita del design alla Rivoluzione Industriale; Branzi afferma, infatti, “… si è prodotta una sorta di teoria riduttiva, dannosa perché ha reso inutilizzabili le complesse e ricche vicende della storia antica e conseguentemente incomprensibili (perché prive di radici) quelle della nostra modernità […] Sono gli oggetti domestici e il loro modo di essere concepiti a illuminare aspetti profondi della nostra storia, essi danno informazioni preziose su vicende più ampie e più alte. Gli oggetti hanno avuto un ruolo del tutto particolare nello sviluppo della religione, della filosofia e dell’economia perché, a loro volta, la religione, la filosofia e l’economia hanno influenzato profondamente la storia dei nostri oggetti” (Branzi, 2008, p.10). Condividendo questa visione, sembra lecito che, per designare la nostra disciplina, si sia dimenticato l’aggettivo industrial (che, nel secondo dopoguerra e per qualche tempo, appariva inderogabilmente davanti alla parola ‘design’): infatti è, così, più facile connettere organicamente i due grandi tronconi della storia degli oggetti progettati, da quelli antichi fino a quelli contemporanei, accomunati dal fatto specifico di essere tutti improntati alla logica delle macchine; si scopriranno, pertanto, le continuità e le discontinuità di una vicenda millenaria complessivamente inesplorata.

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L’animale designer Molti millenni addietro, negli spazi famigliari entro i quali rifugiarsi, l’uomo primitivo cominciò a introdurre poche e rozze suppellettili, occasionalmente lavorate con grande perizia, per stivare e organizzare gli oggetti necessari alla sua esistenza; i luoghi che egli abitò costituirono pertanto lo specchio, progressivamente sempre più significativo, del suo mondo esterno. Esaminando gli oggetti ritrovati nelle sue abitazioni, si può dedurre che, in qualsiasi epoca sia vissuto, egli abbia sempre cercato di trasferire una parte di sé stesso alla casa. Questo fatto ha permesso così agli storici di ricostruire il progresso della cultura umana. In realtà, come denominatore comune a tutte le più antiche civiltà (si veda, in particolare, l’epopea babilonese di Gilgamesh), la casa rappresentava il punto di unione tra il Cielo e la Terra ed era anche il luogo dove, annualmente, un uomo eletto (investito del potere del cielo) e una donna eletta (investita del potere della terra), si ‘congiungevano’ per propiziare la pioggia, i raccolti e la prosperità. In questo senso, la ‘proto-casa’ rappresentava il Cosmo ed essa è gradualmente divenuta il prototipo della casa delle epoche successive (Praz, 1965, pp. 8-14). All’interno dei suoi rifugi, l’uomo custodisce gelosamente, oltre che i suoi affetti, tutto il suo avere materiale, gli oggetti con i quali si riconosce e si sente sicuro. Già nell’antichità, dalla civiltà egiziana fino a quella classica, molti oggetti di arredo erano caratterizzati da zampe o testine di animali, quasi per affermare una loro emancipazione espressiva rispetto alla mera funzione ai quali erano destinati; come fossero essi stessi ‘animali domestici’ collocati a protezione della casa (Branzi, 2008, p.30). In tempi più recenti, è interessante notare come, a partire dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi, soprattutto in Italia, designers e progettisti si siano curiosamente rifatti, più o meno volutamente, al mondo animale. Sono infatti stati prodotti oggetti che hanno in comune (nella forma, nel nome o in entrambi) un preciso riferimento zoofilo; solo per fare qualche esempio tra quelli più conosciuti, si va dalle specie volatili (la motocicletta Vespa, la lampada Airone) a quelle acquatiche (la poltrona Delfino, la lampada Medusa) a quelle terrestri (il telefono Grillo, l’automobile Topolino), ma la lista sarebbe molto più lunga e articolata. Secondo Silvana Annicchiarico “Questa tendenza zoofila del design anonimo italiano non è liquidabile come elemento accidentale od occasionale: essa rinvia piuttosto a un complesso meccanismo simbolico che tende a collocare, negli interni domestici, sostituti o surrogati oggettuali di quel mondo animale che è stato inevitabilmente espulso


prologo

dalle nostre case. Ciò accade con gli oggetti comuni e anonimi che hanno ormai assunto forme stereotipate di animali (i salvadanai a forma di porcellino, i salva-spifferi a forma di bruco) ma anche con i prodotti in serie del design più sperimentale. Quasi tutti i più importanti designers italiani, non a caso, hanno prodotto oggetti zoomorfi o zoonomi: la lampada Cobra di Elio Martinelli, la poltrona Delfino di Erberto Carboni, il tavolinetto Cicognino di Franco Albini, il telefono Grillo di Marco Zanuso; da Munari (la scimmietta Zizì) a Castiglioni (la lampada Gatto), da Gae Aulenti (la lampada Pipistrello) a Marco Zanuso (la seduta Lombrico). Non sempre sono animali domestici. A volte gli oggetti del design evocano nel nome o nella forma anche animali esotici, feroci, selvatici, rapaci (Cobra, Giraffa, Rinoceronte, Serpente, Orca…). Attraverso la loro presenza, la casa si anima come uno zoo virtuale e il rimosso dell’animalità riemerge dentro la ratio tecnologica e moderna del progetto” (Annicchiarico, 2002). Un ulteriore contributo alla conoscenza della dimensione animale nella concezione degli oggetti è stato quello proposto da Cristina Morozzi in Terrific Design, un libro che mostra una raccolta di oggetti fuori dall’ordinario, al limite del kitsch, tra i quali spesso emergono ancora ispirazioni zoomorfe, peraltro più estreme: dai divani in pelliccia ai portauova a forma di zampa di pollo, dai tavolini a forma di maiale ai portacandele impilabili a forma di vertebra. A volte il riferimento zoomorfo nel progetto di design è utilizzato dal progettista perfino per esprimere il suo pensiero su temi sociali e politici; “I giochi in legno di Mari con 16 animali componibili prevedevano un incastro armonico di organismi diversi, e quel gioco ben rappresenta l’allegoria di un sistema programmato, ma non organizzato sulla base di una astratta geometria (come nelle esercitazioni gestaltiche di Ulm); i piccoli animali componevano nel loro insieme una narrazione delicata, aperta e vivente”. Secondo Andrea Branzi, infatti, in una Italia che era uscita sconfitta e distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale, con i suoi “16 animali”, Enzo Mari cercò di dare solidi fondamenti alle incertezze della politica proprio a partire dai principi dell’arte (Branzi, 2008, p. 154). Del resto, gli italiani sono un popolo sempre più pet-friendly; nel nostro Paese gli animali domestici sono circa sessanta milioni. Gli animali da compagnia sono ritenuti presenze importanti e fonte di benessere nelle famiglie. I loro proprietari sono convinti che tale benessere e la buona qualità della loro vita, soprattutto in un momento difficile come quello attuale, siano favoriti dalla presenza di tali animali: essi apportano benefici emotivi, affettivi e comportamentali. L’attenzione che la società e molte istituzioni manifestano nei confronti delle creature viventi, cui vengono sempre più riconosciuti precisi diritti, è sempre più esplicita.

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Trattando l’influenza che gli animali hanno avuto nel progetto degli oggetti, mi sembra di dover accennare qui anche alle definizioni di design e di designers date da alcuni maestri della disciplina: esse si rifanno curiosamente alle caratteristiche intrinseche di precisi per esprimere meglio taluni aspetti e il significato della loro professione. Vorrei iniziare citando l’ormai famosissima definizione che Giovanni Klaus Koenig diede a suo tempo: “Il design è un pipistrello, mezzo topo e mezzo uccello”. Tale affermazione, non priva di ironica suggestione come le fulminanti intuizioni del brillantissimo storico toscano, è di incerto significato: essa sembra peraltro evidenziare l’ammirazione che il professore nutriva per quell’operoso e benefico roditore che ci sorprende per la sua incredibile versatilità. Questa definizione corrisponderebbe, in positivo, alla visione, peraltro piuttosto critica, che i contemporanei avevano del design, sottolineando la difficoltà di radicare lo statuto di questa disciplina all’interno di un unico ceppo. Il design, infatti, ponendosi a cerniera tra antichi e radicati saperi di natura sia tecnica che artistica, non in antitesi ma come catalizzatore di contenuti e sintetizzatore di effetti, è una disciplina di grande potenzialità contemporanea, pervasiva ed efficace, relazionante e mutante, e straordinariamente adeguata a stabilire una relazione tra teoria e prassi, tra possibile e realizzabile (Mucci & Rizzoli, 1991). Qualche tempo fa, Alessandro Ubertazzi ebbe a dire che “Il designer è come l’ape che vola da un fiore all’altro. Come l’operoso insetto si nutre del polline di ogni fiore e, al tempo stesso, feconda tutti i fiori visitati trasmettendo loro il seme necessario, così il designer (e, comunque, ogni buon progettista) deve potersi cimentare su progetti diversi per argomento o per implicazioni tecnologiche, attingendo sapere ed esperienza dalle molte e diversificate circostanze alle quali esso dovrà sottoporsi. Il ruolo dell’ape-designer si completerà restituendo alla imprese (dalla quali ha succhiato nettare tecnologico) quel sapere professionale e quella scanzonata disinvoltura che non sono certo figlie della sola tenacia applicativa unidirezionale dell’azienda, bensì di una ricca e aperta cultura dialettica. In pratica, la vasta e polivalente esperienza è il vero patrimonio del designer, che gli permetterà di arrivare alla soluzione tecnicamente più adatta”1 . In occasione di una recente assemblea del SID-Società Italiana di Design, Claudio Germak, alla storica definizione di Klaus Koenig, aveva voluto aggiungerne una sua: “Mi sono permesso, conservandone la memoria zoomorfa, di proporre una nuova definizione. Tratto da Alessandro Ubertazzi, Aesthetische Kultur: was it dass?, versione italiana dell’intervista rilasciata ad Angelika Trebess, in occasione della visita ufficiale come rappresentante dell’ADI alla ristrutturata Bauhaus, in Form+Zweck (Gateilte Arbeit), Berlino Est, 1987.

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prologo

Il design è un polipo: curioso, tentacolare, mediatore di bisogni e di saperi. Un design che amplia la sua ricerca a 360°, indagando tra le grandi problematiche contemporanee, quella della sostenibilità, della condivisibilità, delle reti, preoccupato di riunire intorno a sé i saperi fondamentali per elaborare visioni condivise per il futuro”2. Infine, nel corso della presentazione a Firenze del suo ultimo libro Design, Francesco Trabucco ha sostenuto che “Il design è una farfalla. Il design è una farfalla non solo perché ha in sé la dote straordinaria della bellezza e non solo perché ha in sé il compito di rendere migliore, più bello, ciò che ci circonda (in fondo noi siamo circondati da oggetti e la qualità estetica delle cose belle è in grado di produrre bellezza dentro di noi). Ma il design è anche leggero, un po’ effimero, difficile da cogliere nel suo senso e nel suo significato così come è difficile prendere una farfalla. Infatti per prendere una farfalla bisogna alzarsi molto presto la mattina, dormire poco, avere i riflessi molto pronti, vederci meravigliosamente bene. Le farfalle si confondono sul fondo e poi dovete entrare in un bosco, stare zitti e fermi e, quando la si vede, stare molto attenti per prenderla con il retino. Bisogna saperla riconoscere e saperla apprezzare. Io vi auguro di prendere molte farfalle!”3.

Castello del Valentino, Torino, 20 febbraio 2014. Trascrizione di un brano della conferenza tenuta dal professore a Calenzano presso il Corso di Laurea in Disegno Industriale dell’Università degli Studi di Firenze il 29 ottobre 2015

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La forma più primitiva di rapporto che gli antropologi hanno riscontrato fra l’uomo e gli animali è, senza dubbio, l’utilizzo diretto di questi o di parti di essi nel disbrigo delle attività quotidiane. Sulla evoluzione culturale e antropologica dei nostri antenati e perfino dei collaterali (che, in generale, identifichiamo con il cosiddetto ‘uomo di Neanderthal’) oggi non esiste ancora una visione condivisa; i pareri degli scienziati non concordano, infatti, nell’identificare il momento storico esatto nel quale quegli esseri, peraltro già molto evoluti, abbiano raggiunto una visione simbolica, abbiano cioè cominciato a utilizzare i criteri di somiglianza e di simmetria che avrebbero consentito loro un’interpretazione del tutto intuitiva del loro contesto naturale e degli stessi animali. Peraltro, in quella fase dello sviluppo, non tutti gli studiosi riconoscono all’essere umano il completo raggiungimento dei livelli culturali che gli avrebbero consentito di compiere il passaggio dal mero utilizzo delle tecniche a un pensiero più complesso. L’attuazione di questo passaggio, in realtà, giustificherebbe l'esistenza di comportamenti evoluti che lo avrebbero portato alla produzione di oggetti di uso quotidiano, funzionalmente e formalmente avanzati rispetto al semplice impiego primordiale diretto di parti di animali a mo' di utensili. A questo proposito, è interessante riportare il pensiero di Ian Tattersall “Lo studio dei fossili ci dice che la crescita della dimensione del cervello ha accompagnato la storia degli ominidi. Ma il punto di rottura, quello che caratterizza la comparsa dell’homo sapiens, per esempio dell’uomo di Neanderthal (evento avvenuto circa 200 mila anni fa) e la scomparsa di altre specie, è rappresentata dall’improvvisa apparizione di una nuova e straordinaria capa-

• Ossa di animale in lavorazione. Questa serie di oggetti costituisce lo scarto di una bottega romana nella

quale si lavoravano le ossa di vari animali (fra cui, principalmente, di bovino e di cammello), le zanne di elefante e, forse, anche, legni duri e compatti come l’ulivo e il pistacchio selvatico. Si osservano frammenti di materiali vari dai quali sono stati cavati vaghi di collana o bottoni con appositi trapani, semilavorati predisposti alla tornitura ottenuti segando e sbozzando le ossa con accette e lime e oggetti malriusciti, di scarto, forse riutilizzabili per ulteriori lavorazioni.


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cità: l’elaborazione simbolica”1; e afferma ancora “L’origine della coscienza simbolica nell’uomo sembra dunque implicare un processo di emergenza, più che una selezione naturale […]. Il nostro modo di ragionare simbolico non è semplicemente analogo ma superiore rispetto a quello dei nostri precursori e parenti indubbiamente intelligenti (ovvero responsivamente complessi), esso non è il risultato di una semplice aggiunta di intelligenza. È invece diverso dal punto di vista qualitativo perché opera in base a un diverso algoritmo”2. Secondo Tattersal, questo cambiamento è stato cruciale e ha fornito ai primi veri uomini la capacità di passare dalla produzione di manufatti primordiali (come utensili e armi, più o meno raffinati, in osso o in pietra) alla realizzazione di oggetti nei quali si possono riscontrare con chiarezza le prime tracce di nozioni immateriali quali idee, linguaggio, simboli, concezioni, miti e tutto ciò che è necessario per poter trasmettere le conoscenze acquisite ai propri discendenti. In quel momento esatto si è innescato il processo che avrebbe dato inizio alla civiltà culturalmente più avanzata. Oggettivamente, ripercorrere la storia e l’evoluzione degli oggetti che sono stati realizzati e usati aiuta anche a comprendere quale realmente fosse il livello di intelligenza degli ominidi che si sono succeduti nei millenni. È importante sottolineare che, mentre la fabbricazione di strumenti anche piuttosto • raffinati si spinge molto indietro nel tempo, le prime tracce di un pensiero simboliStatuetta co (quale unica capacità che distingue l’essere umano dagli altri primati e, in geneuomo-leone. Questa statuetta, rale, dal resto del mondo vivente) non vanno indietro oltre i 100.000 anni di storia. alta circa 30 cm, 3 raffigura un In realtà, le prime pitture rupestri e i primi oggetti del periodo Paleolitico superiore souomo-leone. no già riconducibili con chiarezza all’homo sapiens e riportano con estrema evidenza È stata ritrovata nella Grotta la coscienza dei simboli. Secondo alcuni studiosi, non necessariamente allineati al pen-

Hohlenstein-Stadel a Lonetal, presso Ulm e risale a circa 40.000-35.000 anni fa (ma forse anche più antica). La statuetta è realizzata in avorio di mammut ed è una chiara dimostrazione di come quegli umani avessero già la coscienza dei simboli (foto di Dagmar Hollmann).

Ian Tattersall è Curatore Emerito della Divisione di Antropologia dell’American Museum of Natural History a New York; specializzato in archeologia a Cambridge, e in geologia e paleontologia dei vertebrati a Yale. Il testo è tratto dal suo intervento al meeting di Comunione e Liberazione tenutosi a Rimini Meeting per l’amicizia tra i popoli del 2012. 2 Cfr. anche il saggio inedito del grande primatologo Frans B. M. de Waal sull’animale-uomo in «MicroMega» n.2/2009. 3 Il Paleolitico è il periodo al quale risale la più antica industria umana, cioè quella dell’antica età della pietra, o età della pietra scheggiata. Il termine è stato introdotto da J. Lubbock nel 1865 in opposizione a Neolitico (età della pietra levigata e della terracotta). Il Paleolitico viene tradizionalmente suddiviso in: Paleolitico inferiore, cui vanno riferite industrie arcaiche caratterizzate dalla semplice scheggiatura della pietra, relativamente uniformi e diffuse in Africa, Asia ed Europa; Paleolitico medio, a partire da circa 120.000 anni fa, caratterizzato dai manufatti più regolari e meno massicci; Paleolitico superiore nel quale prevale la tecnica di scheggiatura di lame e lamelle di pietra, anche arricchite di elementi ornamentali, che va da 35.000 anni fa circa e termina con la fine dell’ultima glaciazione, quella del Würm risalente a circa 10.000 anni fa (tratto da Enciclopedia Treccani). 1


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siero darwiniano, l’uomo avrebbe acquisito il potenziale per il linguaggio e il pensiero simbolico precedentemente e indipendentemente dal fatto di usarli. Allo stesso modo, anche Ian Tattersall sostiene che per alcune popolazioni questo potenziale doveva esistere come risultato di una fortunata coincidenza. Esso sarebbe stato generato dalla intersezione tra un lungo passato evoluzionistico e un nuovo elemento emergente, probabilmente innescato dall’invenzione del linguaggio verificatosi in qualche gruppo non linguistico, dando luogo a un fenomeno che, da quel momento, si sviluppa in modo molto rapido (Tattersall, 2011). In sintesi e a grandi linee, la cultura neanderthaliana che esplicita la suddetta evoluzione risale al Musteriano (una fase del Paleolitico medio che va da 130.000 a 35.000 anni fa) periodo in cui gli ominidi usavano prevalentemente attrezzi di selce e osso. Alcuni studi dimostrano che, oltre alla pietra, essi lavoravano anche il legno e, a volte, utilizzavano i loro attrezzi per tagliare materie vegetali oltre che, sicuramente, per lavorare le pelli. L’homo sapiens neanderthalensis era, infatti, in grado di realizzare gli strumenti per eseguire la concia e per confezionare indumenti lavorando le pelli, come dimostra il ritrovamento di molti raschiatoi musteriani. Nel Paleolitico superiore si sviluppa la cultura Aurignaziana (che prende il nome da una caverna presso Aurignac, nella Francia meridionale); questa cultura fece la sua apparizione in Italia all’incirca 40.000 anni fa, momento in cui questo territorio era ancora popolato dall’uomo di Neanderthal di cultura Musteriana (lì esistente da almeno 100.000 anni). Nonostante la loro compresenza faccia ritenere verosimile che, per un lungo periodo, le due diverse popolazioni si siano sovrapposte, le loro culture si differenziavano essenzialmente per il tipo di artefatti prodotti e per la complessità tecnologica degli strumenti di uso comune e delle armi. La cultura aurignaziana realizzò, infatti, artefatti di forma più complessa e di funzione innovativa rispetto a quelli riconducibili ai neanthertaliani dell’età musteriana (Riel-Salvatore, 2009). Essa è caratterizzata da uno strumentario litico dalla morfologia ben definita e comprende numerosi attrezzi bifacciali triangolari e cordiformi, raschiatoi con lama, coltelli a dorso con profilo ricurvo e, in minor misura, da denticolati. A questo periodo si associano, fra l’altro, i primi oggetti per l’ornamento personale (come denti di animali perforati) e oggetti con intenti artistici (come alcune placchette in gres)4. Altro fattore innovatore fu la realizzazione di vere e proprie strutture abitative (Minerva et al., 1995). Prima di estinguersi, anche la civiltà neanderthaliana manifestò modifiche nelle caratteristiche della produzione litica e cominciò a lavorare in modo sistematico materiali duri 4

Definizione estrapolata dall’Enciclopedia Italiana Treccani.

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di origine animale come corna, ossa, zanne, ecc., per realizzare oggetti ornamentali e decorare le poche suppellettili in uso5. Si è così ipotizzato che gli ultimi ‘neanderthaliani’ siano venuti a contatto con i primi ‘uomini moderni’ che si stavano diffondendo in Europa, dai quali potrebbero aver assimilato alcune conoscenze e comportamenti. Si può pertanto affermare che tutte le popolazioni del Paleolitico superiore avessero una capacità simbolica e artistica riscontrabile nella realizzazione dei loro manufatti e, in particolar modo, di monili e pendagli e nell’utilizzo di grossolani indumenti in pelli animali; del resto, le zone climatiche allora abitate imponevano sicuramente sia l’uso di coperture per proteggersi dal freddo, sia la costruzione di ripari all’aperto, contrapponendosi alla pratica troglodita invernale dei cavernicoli: in certe zone archeologiche sono state ritrovate strutture di pietre o di ossa predisposte ad assicurare i bordi delle pelli al suolo. In Europa orientale, in particolare in Moldova e Ucraina, sono stati ritrovati interi villaggi di capanne tonde costruite con ossa di mammut appoggiate le une contro le altre risalenti a circa 44.000 anni fa. I neanderthalenses avrebbero realizzato anche i primi strumenti musicali a percussione e sviluppato il primo esempio di strumento musicale ‘intonato’, con quattro note compatibili con la scala naturale diatonica greca (gli studi sono ancora in corso); in Slovenia è stato ritrovato il cosiddetto ‘flauto di Divje Babe’, un frammento del femore di un orso perforato con regolarità6. In alcuni articoli pubblicati in Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), un gruppo internazionale di studiosi (Hublin, 2009) illustra inoltre la scoperta di una serie di conchiglie marine perforate e dipinte, dalla evidente funzione ornamentale, rinvenute in due siti della Murcia, in Spagna, e rispettivamente nella Cueva de los Aviones e in quella de Antón7.

Flauto in osso. Flauto aurignaziano, 45.000- 30.000 anni fa, realizzato in osso di cigno selvatico, ritrovato presso Geissenklosterle a Blaubeuren, Ulm. (foto di JoséManuel Benito).

5 AA.VV. (Università di Ferrara), Annali dell’Università di Ferrara (nuova serie) Sezione XV, Paleontologia umana e Paletnologia, Vol.1, n.1, 1959. Si è anche ipotizzato che gli ultimi neanderthaliani siano venuti a contatto con i primi uomini moderni, che stavano diffondendosi in Europa, e ne abbiano assimilato alcuni comportamenti. 6 Making Music Neandertal Style, by Scienze News Staff, Oct. 29, 1996, issue of Science 7 Nel complesso la tecnologia dell’Homo Neanderthalensis può riassumersi (Angelucci et al., 2010) in: · asce a mano, o amigdale: sono il resto di grossi noduli di selce, scheggiati ai bordi per ricavarne schegge più piccole; · punte di selce: da usare immanicate su pesanti bastoni usati come lance nella caccia a grossi animali; · denticolati, cioè schegge di selce senza punta col margine dentellato: sarebbero delle primitive seghe a mano, usa te per lavorare legno, ossa e tendini; · raschiatoi: sono dei coltelli di selce da usare senza manico, per tagliare la carne; · flauti, cioè ossa lunghe forate, che sarebbero degli accendini: nei fori venivano sfregati bastoncini di legno per accendere della paglia.


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Altri utensili significativi dell’industria litica castelperroniana (ritrovati per la prima volta nella Grotte des Fées a Chatelperron, in Francia) sono molto simili a quelli prodotti dai Sapiens nello stesso periodo, oltre ai quali compaiono alcuni oggetti di origine animale utilizzati per l’ornamento personale: in modo particolare, nel sito archeologico della Grotte du Renne ad Arcy-sur-Cure sono stati ritrovati svariati ornamenti personali realizzati con ossa bucate e lavorate per ottenere anelli, pendagli, ecc… (Higham et al., 2010). Anche l’uomo del periodo Aurignaziano produceva manufatti in osso come zagaglie, punteruoli, aghi, spille, lisciatoi e oggetti ornamentali; gli archeologi hanno portato alla luce denti di animali, statuette in osso e avorio oltre che conchiglie marine fossili forate8 (ciò dimostra, tra l’altro, che essi ebbero anche contatti a lunga distanza: dai siti in questione al Mediterraneo intercorrono, infatti, fino 450 km). Questo excursus esemplificativo intende evidenziare che, insieme all’utilizzo della pietra, i primi uomini sulla terra hanno assai presto imparato a utilizzare l’animale e a sfruttarlo nella sua interezza, oltre che per sfamarsi o come ausilio nel lavoro, anche per tutto quello che era possibile ricavare dalle sue spoglie: fra le parti di animale più utilizzate fin dai tempi più remoti ci sono pertanto gli ossi, le pelli e le pellicce. Più avanti illustreremo in modo sistematico i diversi ambiti di utilizzo delle materie di origine animale che, dal punto di vista tipologico, sono rimasti del tutto invariati. Se, inizialmente, la pratica di utilizzare parti di animali era sostanzialmente legata a un’esigenza di sopravvivenza e quelle sostanze erano usate pressoché tal quali, essa, nel tempo, ha dato luogo a una vasta gamma di materie e di soluzioni formali utili ai più diversi impieghi. In realtà, quando parliamo di materie prime derivanti dagli animali ci riferiamo a tutto ciò che proviene dallo sfruttamento della loro carcassa, adatto a successive lavorazioni e alla produzione di beni. Successivamente e parallelamente all’evoluzione della nostra specie, i prodotti che si ottennero dalle materie prime animali cominciarono a discostarsi dalla loro forma originaria per acquisire caratteristiche estetiche e prestazioni proprie; spesso la morfologia delle membra o l’animale di provenienza si riscontrano nell’ispirazione formale dell’oggetto d’uso che se ne ricava. É certo evidente e naturale che l’essere umano abbia sempre cercato di utilizzare al massimo e nel miglior modo a lui di volta in volta possibile tutte le parti degli animali, in particolare di quelli a lui più famigliari: dapprima quelli che era in grado di cacciare e, successivamente, quelli che seppe allevare. Tratto da Il Paleolitico medio e il Paleolitico superiore, Corso di Archeologia Preistorica I a.a. 2013-2014, Scienze dei Beni Culturali, Università degli Studi di Pisa

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Utensili in osso. Questi strumenti in osso risalgono al Paleolitico superiore (che comprende il periodo magdaleniano o maddaleniano, 18.000 – 10.000 anni fa circa) quando cominciò a diffondersi la lavorazione, con raffinate decorazioni, dell'avorio e dell'osso e vennero realizzate collane con denti di carnivori. Le popolazioni di quella cultura svilupparono soprattutto la lavorazione di ossa animali per la produzione di bulini (a becco di pappagallo e a becco di flauto), punte, arpioni (con denti intagliati nel fusto e, poi, con seghettatura anche bilaterale), spatole, ami, aghi e bastoni, alcuni anche incisi.

A seguito della formazione delle prime comunità umane, il sapere necessario a finalizzare le materie prime di origine animale alle necessità estemporanee si sviluppò all’interno delle famiglie, entro piccoli gruppi autonomi; nelle civiltà mature, il lavoro di trasformazione venne progressivamente affrontato da una precisa categoria di professionisti. Si assiste, così, alla nascita di un nuovo operatore che va specializzandosi e che, oggi, chiamiamo ‘artigiano’. Da quel momento, fino all’alto Medioevo, la figura dell’artigiano diventa sempre più centrale nella organizzazione di una società relativamente evoluta. Semplificando, possiamo affermare che l’artigiano tradizionale era (e per molti versi è ancora) colui che esercitava un’attività finalizzata alla produzione di beni tramite un lavoro sostanzialmente manuale, svolto in un laboratorio o in una bottega. La sua attività era preordinata alla produzione di oggetti realizzati per mezzo di semplici attrezzi che, il più delle volte, egli produceva personalmente. A causa dello spopolamento dei centri urbani, nel basso Medioevo l’attività artigianale indipendente proseguì quasi esclusivamente nei monasteri o presso le corti mentre, a partire da poco prima del Trecento, gli artigiani cominciarono ad aggregarsi in forma di ‘corporazioni di arti e mestieri’. Quegli abilissimi lavoratori hanno avuto il compito, spesso anche complesso e comunque rilevante, di provvedere al soddisfacimento prestazionale, formale ed estetico del corredo materiale dell’uomo; essi sono stati gli ideatori e gli artefici di tutte le suppellettili utili per lo svolgimento quotidiano delle attività primarie, per l’allestimento delle abi-


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Testa di cavallo in osso ioide. Questa testa di cavallo risale al periodo magdaleniano (Paleolitico superiore) ed è stata ritrovata nelle Grotte di Isturitz e Oxocelhaya, in Francia, siti che presentano fra i giacimenti più importanti della Francia per l’oggettistica di carattere artistico (foto di Don Hitchcock, 2014).

tazioni oltre che per la costruzione di tutti gli strumenti d’uso e da lavoro. Fino all’avvento dell’industrializzazione, dalle loro mani è scaturita in modo esclusivo la mutazione e l’evoluzione dei gusti della società. Sospinto da una incoercibile curiosità, e contemporaneamente alla sua evoluzione, l’essere umano si sposta su distanze sempre maggiori venendo in contatto con civiltà lontane diverse caratterizzate da un gusto estetico differente dal suo e dalla disponibilità di nuove materie prime. Inevitabilmente, le nuove conoscenze progressivamente acquisite influenzano anche i manufatti. Infatti, nella storia dell’evoluzione della produzione materiale, l’apporto delle esplorazioni geografiche è stato particolarmente significativo; in realtà, fin dai tempi più remoti, queste si sono verificate per ragioni economiche, politiche, militari e scientifiche contribuendo ad ampliare gradualmente il mondo conosciuto. Nei Greci, la volontà di espansione e di fondare nuove colonie diede l’impulso a molte esplorazioni; tra le più significative ricordiamo le conquiste di Alessandro Magno che permisero al popolo macedone di conoscere profondamente il vastissimo territorio della Grecia fino all’India. Successivamente, i Romani diedero un contributo fondamentale alla conoscenza e alla ‘modernizzazione’ di territori vastissimi come le Gallie, la Spagna, la Germania e poi la Britannia; Nerone diede un ulteriore impulso all’esplorazione dell’Africa. Quest’ultima fu dettata in particolare dalla crescente necessità di avere schiavi, di possedere animali esotici (che allora erano usati soprattutto nei giochi circensi) e di materiali pregiati da essi derivanti, come l’avorio. Nel Medioevo, le esplorazioni geografiche subirono una battuta d’arresto e, in alcuni momenti, la cultura materiale addirittura regredì (seppure i popoli arabi continuassero a compiere viaggi di notevole interesse verso l’Asia centrale, la Cina e l’India importando apprezzabili conoscenze culturali e materiali da quelle civiltà). La ripresa economica e commerciale occidentale successiva all’anno Mille e il notevole svi-

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luppo delle Repubbliche marinare in Italia portò a una ripresa significativa delle esplorazioni geografiche, delle conquiste e dei commerci con il conseguente apporto di nuove materie. Le innovazioni e i fondamentali progressi nella navigazione e nella cartografia permisero le grandi esplorazioni compiute nel Quattrocento da spagnoli e portoghesi tra cui quella di Bartolomeo Diaz (che giunse al Cabo da Boa Esperança) e quella di Vasco de Gama (che nel 1498 raggiunse l’India). Tuttavia, l’esplorazione che segna convenzionalmente la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna è quella effettuata dal genovese Cristoforo Colombo che, convinto di essere approdato nelle Indie, in realtà nel 1492 raggiunse il continente americano. Nel 1499 il fiorentino Amerigo Vespucci esplorò poi il litorale atlantico del Sudamerica e, per primo, capì davvero di aver scoperto una nuova terra tanto che, in suo onore, il più grande geografo tedesco (Waldseemüller) volle appunto chiamare America. Più che tutte le esplorazioni precedenti, la consapevole scoperta dell’America consentì un importante arricchimento della cultura materiale occidentale con vegetali e animali commestibili, essenze legnose, minerali pregiati per il Vecchio Mondo 9. Curiosamente, le prime specie animali trasferite dall’America all’Europa sono state il cincillà, il visone americano, la trota arcobaleno e il tacchino: quest’ultimo animale trovò una immediata utilizzazione economica in Europa e, infatti, si diffuse così in fretta che, già nel 1573, le sue carni arrostite divennero un popolare piatto natalizio. Fino a quel momento gli amerindi avevano parzialmente addomesticato solo il lama, il porcellino d’India e il cane, in uso presso di loro prima che si diffondesse il cavallo10. A questo proposito è interessante citare le parole di E. E. Rich e C. H. Wilson: esse sottolineano l’importanza avuta dagli animali a seguito di questa scoperta “La diffusione di prodotti agricoli e di bestiame che ne risultò fu la più importante che si conosca nella storia dell’umanità ed ebbe forse gli effetti più estesi, rispetto a qualsiasi altra conseguenza delle scoperte geografiche… senza i prodotti americani l’Europa non sarebbe stata capace di mantenere popolazioni così dense e i Tropici del Vecchio Mondo non 9 Tra le piante coltivate e gradualmente introdotti e assimilati nella coltura alimentare occidentale, vennero importati il mais, il girasole, il peperone, la patata, la batata (o patata dolce) il pomodoro, la manioca, il melone, la zucca gialla, la papaya, il guaiava, l’avocado, l’ananas, il peperoncino del Cile, il cacao, ecc. 10 Gli di questa razza, chiamata hare o ‘cane degli indiani’, erano usati come animali da soma per il trasporto di materiali vari. Naturalmente, a questi animali si richiedeva anche un’ampia versatilità perché tutti (perciò animali compresi) dovevano rendersi utili in ogni modo. Gli stessi cani da traino potevano infatti frequentemente essere utilizzati nella caccia all’orso, nell’inseguimento dei cervi e persino come aiuto nella caccia ai bisonti. Altri usi frequenti vedevano il cane come guardiano degli accampamenti, per scaldare il giaciglio, per custodire i neonati e i bambini, talvolta, come vittime sacrificali in certi particolari riti religiosi o, infine, come cibo nei tempi di carestia.


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• Biberon a forma di maialino. Antico biberon-giocattolo a forma di maialino in terracotta realizzato da un artigiano italico della civiltà dei Messapi (una popolazione vissuta dal VIII secolo al 272 a.C.); esso è stato ritrovato in una tomba nei pressi di Manduria, in Puglia. Gli occhi sono stati dipinti con pennellate di bianco tra la fine del quarto e il terzo secolo a.C.; quando esso è stato realizzato, quelle decorazioni dovevano rappresentare una grande ricchezza. Altrettanto raffinate sono le orecchie a punta e la forma del musetto.

avrebbero conosciuto un così rapido sviluppo. D’altra parte, senza gli animali europei, e in particolare i cavalli e i muli per il trasporto e la coltivazione, il continente americano non sarebbe cresciuto con quel ritmo…” (Rich & Wilson, 1975, p. 317). Le conquiste geografiche hanno avuto il ruolo fondamentale di portare vaste porzioni di umanità a conoscere e ad apprezzare realtà insolite e diverse dalla consuetudine: esse rimasero affascinate dalla varietà delle materie prime, del tutto inconsuete, che le nuove scoperte avevano messo a disposizione. La conoscenza del ‘nuovo’ colpì l’immaginazione dei contemporanei e la loro curiosità si espresse in vari modi. Molto spesso accadde che grandi folle di visitatori accorressero ad ammirare gli animali esotici portati dai viaggi e/o dalle conquiste (come gli alligatori o gli armadilli, portati in Europa dalle spedizioni oltre Atlantico). Nei secoli precedenti, in Europa era giunta, dall’Africa e dall’Oriente, una grande varietà di specie affascinanti come, ad esempio, gli elefanti, le tigri, gli ippopotami, i leoni, le scimmie oltre che uccelli, rettili e pesci dalle forme e dai colori più strani e intriganti. Dopo una prima fase di ammirazione e di conoscenza, le popolazioni occidentali hanno imparato a ricavare da essi nuovi materiali, spesso pregiati e che, di volta in volta, cominciarono a circolare diffusamente e a farsi ammirare. Lo stesso interesse fu rivolto anche ai manufatti di provenienza lontana. In questo senso, tra le materie esotiche pregiate di origine animale più conosciute e ricercate fin da tempi molto antichi per produrre oggetti di vario tipo occorre evidenziare l’avorio, la tartaruga, il corno del rinoceronte e dei bufali, le pelli e le pellicce delle specie più diverse.

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• La curiosità per le specie animali esotiche costituì anche una importante fonte di ispira-

Fermaglio precolombiano per ponchos. Lo spillone da poncho è stato realizzatoin argento da artigiani cileni di cultura precolombiana, prima della fine del 1400. Nel primo, è rappresentato, inciso a bulino, un “dodo”, cioè il pesante pennuto che, non potendo volare, è stato sterminato a bastonate dai conquistadores per cibarsene.

zione formale. Peraltro, egiziani, greci e romani hanno sempre concepito arredi e suppellettili caratterizzati da forme che si ispiravano a quelle animali. Nel Medioevo, gli influssi bizantini, arabi e persiani introdussero l’imitazione di motivi ornamentali orientali. La curiosità e il gusto imitativo per la cultura e i costumi del vicino e colto Oriente verranno successivamente alimentati da diversi fattori storico-sociali come la presenza degli eserciti cristiani in Medio Oriente durante le Crociate o i racconti di viaggio dei mercanti e dei primi esploratori dell’Asia, come Marco Polo. Di fatto, l’interesse per i mondi esotici è stato nutrito sia dal commercio di prodotti naturali e di manufatti (provenienti da paesi lontani, in particolare dall’Oriente) che dalla produzione letteraria (e cioè dai poemi cavallereschi e dai racconti di viaggio nelle loro varie sfumature). Sempre più spesso, nei dipinti e negli affreschi che ornarono le residenze aristocratiche occidentali vennero inseriti paesaggi e animali esotici come pappagalli, scimmie, tucani, elefanti, pantere, ecc. Per comprendere l’interesse suscitato dagli animali esotici nel nostro recente passato, è interessante riportare un aneddoto legato alla famosa incisione di Albrecht Dürer che rappresenta il rinoceronte. Nel 1515, l’ammiraglio Alphonso de Albuquerque, di ritorno da un viaggio in India, aveva portato con sé il dono offerto dal Sultano di Khambhat agli invasori portoghesi: un rinoceronte vivo. Negli ultimi mille anni, cioè dall’epoca dei Romani, nessun europeo aveva più visto di persona quell’animale che era così diventato leggendario e reputato inesistente, frutto di fantasie degli scrittori di bestiari. Quel rinoceronte fu quindi scortato in processione per le strade di Lisbona, tra la folla incredula e felice, per condurlo di fronte al re del Portogallo: egli ne rimase fortemente impressionato e volle tenerlo in giardino come trofeo vivente da esibire alle feste. L’animale era trattato quasi come una divinità, come simbolo della potenza coloniale, e rimase alcuni mesi nel parco. Il re gli volle dedicare un ritratto, e sulla base delle descrizioni ricevute, lo stesso Albrecht Dürer ne volle disegnare il profilo. Sulla scía del crescente interesse che l’Europa aveva sviluppato per tutto ciò che fosse straniero e bizzarro, a partire dal XVII secolo fino al XVIII secolo, l’esotismo divenne un vero e proprio fenomeno culturale che investì tutte le arti, dalla pittura alla letteratura all’architettura. Nel ‘700 non ci fu residenza o palazzo delle più grandi monarchie europee che non avesse almeno una stanza ‘cinese’, arredata cioè secondo lo stile, i colori e persino i materiali e i mobili originali provenienti dall’estremo oriente, ovvero secondo straordinarie interpretazioni occidentali dette chinoiseries. Ne sono un esempio le ma-


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• Medaglia con Rinoceronte. Questa curiosa medaglia in zinco ricorda l’arrivo a Venezia, per il carnevale

del 1751, di un rinoceronte catturato negli ’Stati del Gran Mogol‘. Era stato il Capitano Davide Mout van Der Meer a trasportarlo dall’Asia, nel 1741, allo scopo di esporlo per denaro in vari stati d’Europa. Per assicurare la massima risonanza alla sua iniziativa, egli fece approntare delle medaglie che, sul fronte, recavano l’immagine del rinoceronte nel deserto mentre, al rovescio, riportavano una lunga scritta (con versioni in tedesco, in italiano e persino in francese) con la quale pubblicizzava i particolari che meglio potevano colpire la fantasia del pubblico e, di conseguenza, incrementarne la vendita. La medaglia rappresenta, sul fronte, un rinoceronte nel deserto mentre, sopra di lui, un sole raggiante spicca fra le nuvole. Sul retro, in lingua italiana, si legge QUESTO / RINOCEROTO / FU TRASPORTATO / D’ASIA IN EVROPA NELL’ / ANNO 1741 DAL CAPITANO / DAVIDE MOVT VAN DER MEER / IL MEDEMO ANIMALE E STATO / PESATO A STVTGARTO NEL WIRTEMBERGO LI 6 MAGGIO / 1748. E PESAVA ALLORA CINQVE / MILA LIBRE, MANGIA OGNI / GIORNO SESSANTA LIBRE / DI FIENO, VINTI LIBRE / DI PANE E BEVE / QVATORDICI / SECCHIE / D’ACQVA. L’interesse verso l’esotico animale è testimoniato anche dal fatto che, in quello stesso tempo, il celebre pittore Pietro Longhi ebbe la commissione di eseguire almeno due dipinti e un’incisione con le sembianze del rinoceronte.

gnifiche tavole disegnate dal Piranesi nel 1769 sulle Diverse maniere di adornare i camini, una vera e propria esaltazione del gusto per l’esotico. In realtà, già nei primi anni del secolo XVIII l’Oriente era stato proposto come un paese variopinto e magico dalla fortunatissima edizione francese del libro Mille e una notte. Il culmine del fenomeno si è comunque avuto soprattutto nel XIX secolo, in particolare nella seconda metà, quando esso è stato alimentato proprio della sensibilità tipica del Romanticismo; come vera e propria categoria del gusto, durante questo periodo, l’esotismo ha manifestato la massima diffusione fino a diventare una componente essenziale della sensibilità di molti artisti e scrittori. In tutto quel fervore, gli animali rivestirono un ruolo importante: dapprima, come specie rare da mostrare e, poi, come fonte inesauribile di colori, di sfumature e di textures completamente nuove, da utilizzare o da copiare. Dalla lavorazione dei nuovi materiali, difficili da reperire (e per questo misteriosi, affascinanti e pregiati) si otteneva una più ampia gamma di proposte estetiche per gli oggetti d’uso comune.

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Prendiamo ora in considerazione le diverse tipologie di materie prime di origine animale per meglio comprendere come esse, nei secoli, si siano alternate nella realizzazione dei manufatti a seconda dei gusti, delle esigenze, delle nuove scoperte e delle tecnologie a disposizione. Probabilmente per analogia con gli altri esseri viventi, ricoperti di pelli e pellicce calde, l’uomo ha facilmente intuito di poter usare quelle stesse materie per ottenere vesti e oggetti che soddisfacessero i suoi bisogni: in questo senso, l’utilizzo grossolano delle pellicce e delle pelli col relativo vello fu volto a ottenere protezione per il corpo, soprattutto dal freddo. Come si è detto, le pellicce e le pelli erano inizialmente ottenute solo dagli animali cacciati ed erano lavorate in modo rozzo. Più tardi, con l’inizio dell’allevamento, il vello degli animali addomesticati è servito per produrre filati e, quindi, tessuti di vario genere. Dal vello della pecora fino a quelli più pregiati (come il cachemere o il mohair) ricavati dalle capre delle omonime razze, è infatti possibile ottenere ottimi filati. A questi si aggiunsero nel tempo i filati derivanti dai camelidi (africani o andini, cui appartengono il cammello, il dromedario, il lama, l’alpaca, la vigogna, il guanaco, ecc.) e, ancora, quelli derivanti dal pelo dei conigli e perfino dei gatti d’Angora. Oltre a coprire il proprio corpo, l’uomo primitivo ha dovuto presto provvedere a coprire e proteggere anche i propri piedi. Fin dalla preistoria, come oggi, i calzari furono realizzati con pelli di animale. Il più antico paio di scarpe (termine forse derivante dal germanico skarpa ‘tasca di pelle’) finora ritrovato risale a circa 9000 anni a.C. Nelle regioni temperate i calzari furono molto semplici e assai simili ai moderni sandali mentre nelle regioni fredde si usavano calzature in pelle rivestite in materiale vegetale, come quelle rinvenute addosso a Oetzi, il cosiddetto ‘uomo di Similaun’.

Scatola di strumenti per il disegno. Le scatole contenenti strumenti professionali per il disegno architettonico molto spesso ne contenevano alcuni in avorio (come, ad esempio, questa, prodotta dalla nota ditta Stanley alla fine del XIX secolo, a Londra): si osservano un metro pieghevole, una sottile penna per inchiostro di china, due tiralinee e una matita.


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Come per gli antichi egizi, nell’antichità classica i calzari più diffusi furono i sandali; anche gli Assiri, ad esempio, utilizzavano modelli allacciati con stringhe al piede (poiché la produzione di calzature in cuoio era un processo complicato per l’epoca, quegli oggetti erano comunque considerati articoli di lusso). La pelle degli animali è stata progressivamente utilizzata per ottenere manufatti più complessi. Opportunamente lavorata, cioè conciata, la pelle fornisce il cuoio. La ‘concia’ rende il pellame sostanzialmente imputrescibile e quindi adatto a realizzare manufatti con molteplici funzioni come contenitori e recipienti di vario genere, borse, calzari, ecc. Come abbiamo accennato, lo scopo della concia è tutt’oggi quello di impedire il naturale processo di putrefazione della pelle e di rendere stabili e resistenti all’acqua e al calore gli oggetti che se ne ricavano1. Le prime rudimentali sacche e le cinture servirono agli uomini per appendere utensili da tenere a portata di mano, cioè per portare con sé il necessario quando si allontanavano da casa per lunghi periodi, inizialmente per andare a caccia e, in seguito, durante il lavoro nei campi e nelle battaglie. Per quanto riguarda i contenitori, prima della scoperta della terracotta molti erano realizzati in cuoio. Sembra che la forma degli askos, i contenitori per liquidi con manico arcuato che, in periodo classico, furono realizzati in terracotta o in bronzo, spesso con forme zoomorfe molto raffinate, derivi verosimilmente da contenitori più antichi realizzati, appunto, in cuoio (il termine askos, in greco, significa ‘otre di cuoio’). In cuoio furono realizzate le prime corazze dei guerrieri (dal latino corium, cuoio), oltre che altri accessori utili in battaglia come il bálteo (una cintura di cuoio pendente dalla spalla destra verso il fianco sinistro, alla quale i soldati appendevano la spada). Utilizzi più recenti di pelli conciate, in sostituzione dei fogli di papiro o delle tavolette di cera, sono quelli connessi alla ‘trasmissione del pensiero’: sotto forma di pergamena (in greco διαϕϑέρα, membrana) esse sono state infatti molto utilizzate come supporto della scrittura, per la legatura dei codici e per la realizzazione di elementi strutturali e di collegamento dei libri (quali ‘nervi’, ‘capitelli’ e ‘bindelle’) o per rivestirne i ‘piatti’. Di fatto, la pelle di quasi tutti gli animali domestici, escluso il pollame, poté essere utilizzata per ottenere la pergamena. Seppure rispetto agli altri supporti tradizionali si sia diffusa più tardi e con un uso più

Con il tempo i metodi di concia cambiano e le tecniche continuano ad affinarsi così, nel periodo altomedievale si diffondono le pelli ‘allumate’, cioè conciate con minerali (fra i quali l’allume di rocca) e grassi mentre, alla fine del Medioevo, si produssero cuoi a concia vegetale.

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limitato, la pergamena è senz’altro il materiale più pregiato e durevole su cui si è potuto scrivere per molti secoli2. Molti ritrovamenti dimostrano che l’uso della pergamena è antichissimo; il più interessante conosciuto, infatti, è un frammento risalente alla XX dinastia egizia (1186-1070 a.C.). Il più antico documento greco pervenuto fino a noi è del 195 a.C. ed è stato rinvenuto a DuraEuropo. Fuori dal mondo greco-latino, la pergamena fu largamente adoperata in tutta l’area del Vicino e Medio Oriente, dagli Ebrei, in Persia, Siria e Armenia; gli Arabi utilizzarono la pergamena fin dal V sec. d.C. e continuarono ad adoperarla sia in campo librario sia in campo documentario, in concorrenza con il papiro e la carta. In Etiopia la pergamena costituì la principale materia scrittoria per i codici religiosi sino al XIX secolo compreso. In America, fra i manoscritti Maya di età precolombiana, ve ne sono alcuni costituiti da fogli di pelle di daino. In campo letterario, la pergamena soppiantò il papiro fra il III e il VI secolo mentre, in campo documentario, si affermò definitivamente nell’VIII secolo e fino al XIII secolo rimanendo l’unico materiale utilizzato per scrivere in Europa, nel mondo bizantino e in quello slavo (fino a quando fu gradatamente sostituita dalla carta)3. La ‘cartapecora’ (anche così si può chiamare la pergamena) ebbe ampia diffusione anche perché, rispetto al papiro (il quale, di regola, si usava su una sola faccia) essa poteva essere scritta su entrambi i lati. Come è noto, per lungo tempo, i testi scritti su pergamena ebbero la stessa forma di quelli su papiro: si trattava di una lunga striscia che veniva arrotolata intorno a un bastoncino (umbilícus) in modo da formare un rotolo (liber, volumen, tomus) e, quando in età romana (dal 89 d.C., secondo il Birt e l’Immisch) si cominciò a usare una nuova forma di libro manoscritto, cioè il codice (dal latino caudex ‘tronco d’albero’) piegando la pergamena in quaderni, si ebbe una vera rivoluzione nella tecnica libraria e la pergamena prevalse su tutte le altre materie scrittorie allora in uso. Tra l’altro, per motivi economici, durante il Medioevo era invalso l’uso di grattare la suIl nome deriva dalla città di Pergamo (nella Misia, nel centro dell’Asia Minore) dove si credeva che fosse stata inventata o, quanto meno, dove fu messo a punto il metodo di concia successivamente più diffuso. Il materiale membranaceo, inizialmente, era di origine ovo-caprina e la lavorazione secondo il sistema in uso a Pergamo nel II° sec. a.C. consisteva in una prima purgatura fatta a mano mediante coltellacci, in una successiva essicazione naturale senza necessità di calore e, infine, in una levigatura mediante pietra pomice. 3 La pergamena fu, peraltro, di varie qualità e colorazioni a seconda delle epoche e delle regioni nella quale prodotta. I codici tardo-antichi risultano scritti su una pergamena sottile e ben lavorata (e la stessa continua ad essere utilizzata in alcuni grandi centri scrittori del XIII secolo e nei manoscritti italiani del XV secolo). Nell’Alto Medioevo la qualità della pergamena era comunque peggiorata, mentre quella proveniente da Irlanda, Gran Bretagna e da alcuni piccoli centri, come la città tedesca di Fulda o quella italiana di Bobbio, mostrava una colorazione grigiastra e una consistenza rigida. 2

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Sedia-trono di Carlo Bugatti. Importante sedia concepita da Carlo Bugatti del 1902, con spalliera asimmetrica realizzata in legno di due tonalità e rivestimento di pergamena; intarsi in metallo e decorazioni in rame a sbalzo (Carlo-RembrandtEttore-Jean Bugatti, Automobilia, 1982, p.44).

perficie dei codici membranacei perché, asportatone il testo, questi potessero essere riutilizzati: questa usanza ci ha fatto perdere molti documenti; nonostante ciò, se noi oggi conosciamo molte opere latine e greche, lo dobbiamo a una scoperta dei monaci benedettini che riuscirono a evidenziare quei testi antichi sotto alle scritte più recenti di quelle pergamene ‘riciclate’. In generale si può dire che la pergamena di agnello, capra e capretto è stata preferita per la legatura e la scrittura, quella d’agnello per il restauro e quella di capra per la valigeria, per i paralumi e per l’arredo. Oggi la pergamena è impiegata nell’industria degli strumenti musicali, in legatoria, nella realizzazione di astucci per la gioielleria e in valigeria: le pelli più usate sono sostanzialmente quelle di montone, di pecora, di agnello e di vitello. Nell’arredamento, la pergamena venne molto utilizzata a partire dal periodo Déco per rivestire mobili e superfici murarie. Dopo il rapido declino dello stile Art Nouveau, tra


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gli anni venti e trenta in Europa prende infatti vita uno stile dal carattere sintetico ed essenziale, fatto di materiali raffinati, che prende il nome, appunto, di Art Déco. Abbandonato il repertorio decorativo con temi floreali e vegetali tipico dell’Art Nouveau, l’Art Déco si esprime sempre più mediante motivi geometrici: le linee ondulate e asimmetriche lasciano il posto a motivi essenziali e sintetici, complice anche l’affermarsi dell’avanguardia artistica del Cubismo. Nei mobili del periodo Déco tornano le lastronature, le impiallacciature e le laccature, accostate a ornamenti in materiali pregiati quali il bronzo, il rame, l’argento, l’avorio, l’osso e la madreperla; i legni maggiormente utilizzati sono quelli scuri ed esotici, come il palissandro, la palma, il mogano e l’ebano, che contrastano con gli elementi decorativi nei colori pastello della pelle di zigrino e della pergamena. Mentre negli anni Venti era la Francia a detenere il primato della lavorazione della pergamena, successivamente gli artigiani ritenuti più abili si trovarono in Italia; molti sono gli esempi che possiamo citare: basti pensare alle boiseries che arredano Villa Necchi Campiglio o, ancora, agli arredi d’ispirazione orientalista di Carlo Bugatti, creati nei primi decenni del Novecento. I lavori del raffinato ebanista sono infatti caratterizzati dalla ricerca esasperata dell’originale e del pittoresco, soprattutto attraverso la decorazione esuberante e il ricorso alla varietà dei materiali, quali il rame, i legni pregiati e materiali di origine animale come la madreperla, l’avorio, la pelle di cammello e di daino, secondo il gusto esotico-moresco tipico dell’epoca. In campo musicale ricordiamo, ad esempio, le rose in pergamena per strumenti antichi a pizzico, le rose piatte o a imbuto delle chitarre, le pergamene per tamburi, tamburelli e percussioni in genere e quelle per le voci delle fisarmoniche. A questo punto è certo utile ricordare quali altre pelli di animali meno consuete sono state utilizzate e quali sono le applicazioni più moderne e innovative che ne sono state fatte, e tuttora se ne fanno. Risolte le questioni impellenti, affrontata cioè la necessità di coprirsi e di proteggersi, l’essere umano ha presto cominciato a scoprire l’uso di pelli di animali esotici caratterizzate da textures che ben si prestavano a conferire finiture e decorazioni più ricche e più affascinanti di quanto non consentissero la pecora, la capra o il bue. Si pensi alla pelle della zebra, del cavallo pezzato, del coccodrillo, dei serpenti, dei sauri e perfino dei pesci. La principale caratteristica delle pelli ricavate dalla vasta famiglia dei selaci (dagli squali fino alle razze e alle mante) è di essere costituite da innumerevoli, dure squame a forma di cono che si ingrandiscono con l’avanzare dell’età dell’animale: esse conferiscono a questi pesci una particolare ruvidità e rugosità che è stata spesso usata (e in certi casi lo è tuttora)

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come abrasivo dagli artigiani di diversi settori produttivi (ebanisti, orafi, argentieri, ecc.). La pelle dello squalo zigrino (dal francese chagrin, che vuol dire disgrazia, sventura) è infatti usata per levigare le superfici mentre la sua caratteristica ruvidità ha dato addirittura il nome a una finitura superficiale degli oggetti, detta appunto zigrinatura. Se non è levigata, la pelle di questo squalo (di colore grigio antracite) conserva la sua curiosa ruvidità e si chiama requin; in questa forma essa è stata molto usata per rivestire borse e astucci da donna. Levigando la pelle dei selaci a seguito del processo di concia, i coni di cui essa è coperta vengono limati a partire dalla punta fino a ottenere una superficie lucida costituita da infiniti cerchi che ne evidenziano gradevolmente i livelli di accrescimento; la particolare texture che si crea viene ulteriormente esaltata dalle tenui colorazioni che queste pelli sopportano. Il galuchat è la pelle conciata dello squalo scyliorhinus canicula (detto anche gattuccio) o della razza pastinachus sephen che prende il nome del suo maggiore estimatore, il maestro di concia Jean Claude Galluchat, un artigiano francese al servizio di re Luigi XV che per primo la lavorò in questo modo e la utilizzò in Europa. In verità, in Oriente quella pelle vantava già un’antica tradizione e infatti la si utilizzava per foderare le impugnature delle spade da samurai e di taluni strumenti di precisione ma, col tempo, se ne era quasi perso l’uso. Per la difficoltà di lavorazione e per l’alto costo di produzione, in Occidente il galuchat è stato utilizzato soprattutto per il rivestimento di oggetti di pregio. Si racconta che, nei momenti in cui non era occupata in attività d’alcova, madame de Pompadour patrocinasse artisti, uomini di cultura e dettasse legge in fatto di stile; e sembra che la sua passione per le novità e il lusso l’avesse portata a innamorarsi del galuchat. Fu poi nel periodo Déco che l’utilizzo di questa pelle tornò in auge; interi mobili venivano rivestiti con quella pelle in abbinamento a legni esotici (come quelli degli anni Venti concepiti dal francese Emile Jacques Ruhlmann). Altre pelli di pesce particolarmente apprezzate sono quella della Perca del Nilo e quella dello storione. Sebbene abbia un aspetto fragile, la pelle della Perca del Nilo, è molto resistente e si distingue facilmente per le sue squame arrotondate. La pelle di storione, invece, è particolarmente riconoscibile grazie alla sua caratteristica grana robusta: questo materiale raro ed elitario è stato utilizzato specialmente per realizzare accessori di moda di lusso come cinturini di orologio e cinture. Diversamente dalla pelle bovina (le cui fibre sono disposte lungo un’unica direzione) in generale la pelle di pesce presenta una struttura a fibre incrociate che, a parità di spessore, la rende più forte delle pelli ‘comuni’.


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Nel secolo scorso, durante il periodo ‘anarchico’, le sanzioni inflitte all’Italia per la sua politica fascista, interruppero bruscamente i rapporti commerciali internazionali del Paese: le industrie e i progettisti italiani risposero a quella situazione di impasse con uno straordinario orgoglio creativo e inventivo che diede luogo a una certa quantità di materiali innovativi. In tal senso, per il settore Moda, riportiamo l’esempio di Salvatore Ferragamo: per realizzare le sue scarpe, il famoso stilista si ingegnò a trovare materie sostitutive ma di buona lavorabilità oltre che di elevato valore estetico. Durante gli anni Venti, tra le tante soluzioni adottate, propose infatti il ‘cuoio marino’ (conciato e preparato con speciali accorgimenti). A quel tempo in Italia c’era un’azienda specializzata nella concia delle pelli di pesce (la Salp di Rivarolo Canavese, in Piemonte) che, dopo aver fatto un accordo con la Genepesca per il rifornimento di pelli, le aveva messe in commercio sotto il marchio Sirena. Dalla Slap, Salvatore Ferragamo comprava le pelli di dentice che, per la loro dimensione ridotta, richiedevano una grande abilità nel taglio della tomaia e nella lavorazione. Già dal 1928, Ferragamo aveva adottato l’utilizzo anche di un altro tipo di pelle alternativo, la pelle di leopardo marino, un pesce che vive nei mari del Nord. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, questa pelle era andata in disuso ma, nel 1954, Salvatore Ferragamo la ripropose in seguito all’accordo stipulato con la Danimarca per il rifornimento della materia prima. Quell’accordo fu ampiamente pubblicizzato dalla stampa e dalla televisione danese e trovò il pieno appoggio del governo e della stessa Regina Ingrid (la quale ordinò calzature di quella pelle in diversi colori). Oggi vengono impiegate soprattutto pelli di pesci molto comuni, solitamente destinati all’alimentazione, come quelle del salmone, del pesce persico o del pesce lupo. Negli ultimi anni, questi materiali sono stati riscoperti e ‘accreditati’ dall’utilizzo, spesso innovativo, che ne hanno fatto altri stilisti del calibro di Giorgio Armani: nel 2008 Armani ha infatti proposto la sua Sirena Bag, una borsa realizzata con la pelle di un pesce tailandese che, sottoposta a un particolare trattamento, diviene morbida, simile al nabuk.

Calzatura Derby di Salvatore Ferragamo. Questo modello di scarpa allacciata ‘ ’Derby‘, disegnata da Salvatore Ferragamo nel 1955, ha la tomaia realizzata completamente in pelle di leopardo marino rosa, i lacci sono in pelle azzurra, mentre il guardolo è in pelle di capretto azzurro.

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Pelle di leopardo marino. Immagine pubblicitaria della presentazione delle scarpe in pelle di leopardo marino alla televisione danese; esse furono brevettate nel 1954 con la Sipo Trading Company, incaricata della distribuzione di questi pellami.


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Sirena Bag di Giorgio Armani. Borsa disegnata da Giorgio Armani per la collezione A/I del 2008/2009, realizzata in pelle di pesce esotico tailandese.

L’impiego delle pelli di pesce nel campo della moda è ormai sdoganato. In Islanda essa viene soprattutto utilizzata per realizzare capi che isolino efficacemente il corpo dalle basse temperature di quei freddi inverni. Per realizzare costumi da bagno, lo stilista tailandese Anchali Chatraukl Na Ayudhya ha utilizzato la pelle di tilapia, un pesce d’acqua dolce che, vista la sua impermeabilità, si asciuga molto più velocemente dei modelli in lycra o microfibra. In realtà, l’idea di ricorrere al pellame dei pesci per i capi di beachwear era già stata lanciata alcuni anni fa dalla maison Skini London con costumi in pelle di salmone, dotati delle medesime caratteristiche di leggerezza e idrorepellenza dei capi dello stilista tailandese. Occorre ricordare che il marchio di accessori e scarpe eco friendly Veja ha lanciato una scarpa da basket in tilapia; conciata con estratti vegetali, questa pelle fornisce un cuoio robusto e molto elegante. Accessori realizzati in ‘pescato del Mediterraneo’ sono stati proposti anche dalla pugliese Michela Cariglia proprietaria di un allevamento ittico a Manfredonia che, dopo aver scoperto le tecniche dei conciatori islandesi, ha avviato un laboratorio per la produzione di piccoli accessori (come portachiavi, cinture e fermagli per capelli), interamente realizzati con la pelle della spigola.

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Marian Nixon in versione animalière. Nella storia del costume, diverse sono state le tendenze che hanno rotto gli schemi e la convenzionalità della moda: il maculato, o animalier, fa parte di questa rottura. Questa ispirazione apparve per la prima volta come pelliccia sull’eccentrica attrice di film muti Marian Nixon nel 1925: l’attrice venne fotografata, assieme a un vero leopardo, con indosso una giacca di pelo maculato della sartoria di Christoff von Drecoll; in quegli anni veniva sperimentata la prima eccentricità nella moda e ancora non si immaginava quale boom avrebbe conosciuto tale atteggiamento (fino agli anni Sessanta ci fu solo il leopardo, poi vennero introdotte altre fantasie animalieres).

Va comunque sottolineato che i suddetti materiali non producono particolare impatto sull’ambiente in quanto, per realizzarli, si utilizzano esclusivamente prodotti di scarto dell’industria alimentare. La globalizzazione dei mercati ha comportato una incredibile diffusione di materie prime legate all’utilizzo del derma degli animali cacciati o allevati ed è tuttavia abbastanza evidente che le applicazioni di queste sostanze sono praticamente infinite. Oggi ci sembra normale averle a disposizione e non ci rendiamo più conto di quale incredibile servizio venga reso dai prodotti di origine animali nella realizzazione degli accessori di utilizzo quotidiano e nell’abbigliamento. Le pelli destinate alla produzione di cuoi e pellami sono classificati in base alla specie animale di provenienza e il loro valore dipende, appunto, dalla specie, dallo stato e dall’età dell’animale e, inoltre, dallo spessore, dalla grandezza del pezzo, dal peso e dallo stato di conservazione.


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Pelli molto pregiate, ma oggi di utilizzo relativamente comune, sono quelle di alcuni rettili e anfibi come il pitone, il coccodrillo, l’alligatore, il caimano, la tartaruga, la lucertola, l’iguana, la rana, ecc., con le quali vengono confezionate borse, scarpe e cinture di altissima qualità ma anche bracciali e collane. Negli ultimi anni, a queste si sono aggiunte le pelli di animali allevati per il consumo alimentare, come quelle di struzzo, di tacchino e anche di emú. In particolare, la pelle di struzzo ha delle caratteristiche che la contraddistinguono in modo evidente; essa, infatti, è ricca di tantissimi follicoli scuri, ultime tracce di quella che, un tempo, era la sede delle piume dell’animale. Questo materiale è spesso equiparato alla pelle di coccodrillo, seppure sia più impermeabile e anche più resistente di quella del temibile rettile. Come abbiamo visto, in epoca moderna, la ricerca spasmodica di materiali dotati di particolari effetti grafici ed estetici si è soprattutto enfatizzata negli anni dalla seconda metà dell’Ottocento e nel Déco. Storicamente, gli animali di cui l’uomo si è nutrito hanno sempre fornito sostanze utili ‘di scarto’: oltre alle pelli e alle pellicce, fin qui trattate, si pensi alla ossatura, alla dentizione e, per quelli che ne hanno, ai gusci. Assai prima che riuscissero a fondere i metalli e, comunque, contemporaneamente all’utilizzo di pietre scheggiate, tutte le popolazioni antiche, dalle nordiche a quelle dell’Africa più profonda, si sono avvalse dei ‘resti animali’ (ossa, corna e denti) per farne aghi, manici, punte, oggetti ornamentali, ecc. In realtà, come si dice ancora oggi scherzosamente a proposito del maiale, del quale notoriamente ‘non si butta niente’, dell’animale domestico, o cacciato, si poteva dire la stessa cosa; una volta utilizzate le parti commestibili, se ne sfruttavano al meglio tutte le altre, tra le quali, un ruolo importante riguardava l’ossatura. È forse il caso di ripetere che tutti questi materiali sono obiettivamente ‘ripetibili’ nel senso che, in una economia sostenibile, è la natura stessa che continua a produrli e a offrirli:

Disco di avorio. Come è noto, taluni pachidermi (come gli elefanti e gli ippopotami), taluni cetacei (come i narvali e i capodogli) e i trichechi, hanno fornito per millenni zanne d’avorio dalle elevate qualità estetiche e prestazionali: inizialmente se ne ottenevano strumenti di lavoro e, in seguito, si utilizzarono anche per realizzare splendide opere d’arte. La sezione di zanna di elefante mostrata, è ricavata nella parte più ampia (cioè la sua radice) ed evidenzia la conformazione ad anelli concentrici e la cavità che essa presenta quando viene ‘estrusa’ dalla mascella dell’animale.

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Alcuni strumenti per architetti e ingegneri. Alcuni strumenti per il disegno e per eseguire operazioni matematiche (caratteristici della progettualità fra la meta del XVIII e il XIX secolo) erano realizzati rispettivamente in avorio africano o asiatico. Dall’alto: • due metri pieghevoli per misure espresse rispettivamente in pollici e in centimetri (una unità di misura per lato); • un compasso di proporzione (una sorta di regolo calcolatore); • due parallele per disegnare linee fra loro parallele; • una scala ticonica double-face; • uno strumento multiplo con goniometro. Oltre che in metallo (bronzo, ottone o acciaio) e in legni compatti di lento accrescimento (come il bosso e il pero) e, comunque, fino all’invenzione di materiali sintetici altamente performanti, gli strumenti di precisione sono stati spesso realizzati in avorio anche per la possibilità di riportarvi segni molto leggibili e colorati. Come è noto, le due varietà di avorio (quella africa è più chiara di quella asiatica e non si patina con il tempo) corrispondono alle zanne delle due diverse razze del maestoso pachiderma.

finché l’uomo vorrà nutrirsi di proteine fornite dagli animali, le materie che da essi si ricavano saranno a disposizione. Seppur da qualche tempo i movimenti animalisti sostengano che cacciare, come anche allevare animali per ucciderli, sia un’ingiustizia (in quanto attribuiscono il loro diritto a una inalienabile dignità), in tempi non molto lontani, gli animali allo stato brado destinati all’utilizzo alimentare erano considerati res nullius, cioè proprietà di nessuno, e potevano, perciò, essere cacciati liberamente.


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Ventidue matite in avorio, osso e legno di ulivo. Questi strumenti per disegnare e per scrivere (realizzati in avorio fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX e variamente ornati) sono caratterizzati da un manico tornito e, in taluni casi, ulteriormente lavorati con trapano e bulino; la parte scrivente, innestata sul manico, è costituita da un alloggiamento in forma di mandrino che, grazie a un cappuccio avvitato su di esso, blocca la mina di grafite. Legno, osso e avorio (quest’ultimo il più performante) sono particolarmente ricercati per la loro forte compatibilità organolettica con la mano umana.

Con la nascita della proprietà privata tribale e con il sopraggiungere del Medioevo, nel mondo occidentale gli animali divennero un patrimonio esclusivo dei feudatari, dei regnanti e dei loro ospiti: ciò privò il popolo di una delle principali fonti alimentari creando gravi disagi sociali. Recentemente, soprattutto a partire dagli anni Novanta, in alcune parti del Mondo la caccia ad alcuni animali è stata vietata anche per sconfiggere la piaga del bracconaggio, legato alla irriducibile richiesta e, quindi, alla commercializzazione di materie rare e, perciò, preziose: esempi eclatanti sono stati la limitazione alla vendita dell’avorio, per evitare lo sterminio degli elefanti, o il divieto di utilizzo del guscio di tartaruga. Il traffico di avorio, spesso illegale, riguarda le zanne degli elefanti, dell’ippopotamo, del tricheco e del narvalo (rimane però del tutto evidente che gli elefanti e le tartarughe, come tutti gli altri animali,

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Occhiali moderni in corno di bufalo. Gli occhiali rappresentati sono realizzati, secondo un design contemporaneo, fresando una tavoletta ottenuta spianando un corno di bufalo. Il corno di molti animali è costituito sostanzialmente da cheratina, una sostanza di origine animale che, a caldo, può essere configurata con relativa facilità.

muoiono anche di morte naturale per cui l’utilizzo di materie di origine naturale che non implichi il barbaro sterminio delle loro specie dovrebbe essere considerato lecito). Alla fine del 1800, proprio per problemi legati alla reperibilità di materie prime di origine animale, è stata inventata la galalite (formulata nel 1897 e brevettata nel 1899 da Friedrich Adolph Spitteler e Wilhelm Krische). Conosciuta anche con il nome di ‘avoriolina’ o ‘osso artificiale’, nella prima metà del secolo scorso questa materia ha rivoluzionato il mercato di molto oggetti d’uso comune con la sua capacità di creare effetti strutturali e di imitare tutti i tipi di materiali preziosi: il corno, il guscio della tartaruga, • l’avorio, il legno, etc. Negli anni Trenta fu molto usata anche per la realizzazione di Bicchiere articoli di gioielleria, penne, manici d’ombrello e, perfino, i tasti bianchi del pianoforte pieghevole in corno. (sostituendo il molto più costoso avorio naturale), ecc. Questo bicchiere Oggi, il discorso etico sulla questione animalista si fa comunque delicato e complesso, realizzato in corno di bovino è costituito e si pone ovviamente sul piano ideologico; in questa sede, invece, si vuole attirare l’atda vari segmenti di dimensione tenzione sul fatto che, fin tanto che sarà lecito e perfino considerato giusto utilizzare decrescente che materie di origine animale, gli artigiani avranno a disposizione una grande quantità di consentono di piegarlo per occupare straordinarie sostanze da impiegare per le loro esigenze. Peraltro, fin tanto che non sarà poco spazio e poterlo portare facilmente risolto il problema del bracconaggio, la scarsità di queste sostanze sarà considerata un appresso. male inevitabile. L’oggetto è decorato nei modi É evidente che la zanna dell’elefante, con la sua meravigliosa consistenza materica e di un artigianato contadino con la sua colorazione lattea, si è prestata per realizzare infiniti oggetti di qualità supetradizionale riore: questa sostanza è stata utilizzata dai massimi artisti per realizzare sculture e fregi di ambito centroeuropeo. di alta qualità e finiture di mobili, fin dal tempo dei Greci.


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Nell’antichità classica, l’avorio era infatti conosciuto e molto utilizzato; la massima espressione di uno scultore greco era nella sua capacità di realizzare opere ‘crisoelefantine’: tale aggettivo (dal greco χρῡσελεφάντινος e cioé fatto in oro, χρυσός, e avorio, ἔλεφας) si riferiva a sculture nelle quali l’avorio era utilizzato per rendere realisticamente la pelle (del volto, delle braccia e delle gambe) mentre l’oro era impiegato per il panneggio delle vesti e per i capelli. Lo scultore più famoso che realizzò opere criselefantine fu il greco Fidia, di cui si ricordano la statua di Zeus a Olimpia e quella di Atena Parthenos situata, appunto, nel Partenone. Fra i denti di animale di grande interesse per l’uomo non possiamo dimenticare quelli di ippopotamo, di tricheco e di narvalo; quest’ultimo, per la sua unica e affascinante ‘estrusione tortile’, ha suggerito negli antichi l’ipotesi che fosse quello del leggendario unicorno (detto anche liocorno). A differenza delle ossa, usate nelle lavorazioni più comuni, l’avorio è stato usato sempre come materiale pregiato per realizzare gli stessi oggetti che venivano fatti in osso, ma rivolti a persone di elevato livello sociale. Parliamo ora di altre sostanze dure che sono state di grande utilità nei secoli: i ‘palchi’ degli ungulati e le corna. I palchi del cervo, dell’alce, del capriolo, del daino, ecc. (impropriamente considerati corna) sono strutture ramificate costituite da un particolare tessuto osseo che si rinnova periodicamente. Le corna sono strutture difensive possedute dai membri della famiglia dei bovidi (che comprende i bovini domestici e selvatici come il bue, lo yack, il zebù, il bufalo, il bisonte, ecc.), dai caprini (pecore, capre, mufloni, stambecchi, ecc.) e da altre sottofamiglie (antilopi, gazzelle e affini). A differenza dei palchi, le corna non possiedono ramificazioni (anche se spesso sono ripiegate, ricurve, avvolte a spirale o con nodosità); esse si agganciano al cranio mediante una base ossea e, una volta danneggiate o spezzate, non si rigenerano. È perfino banale immaginare come, nella povera economia di un uomo preistorico, le corna e le ossa di una preda (insieme alla sua pelle) fossero preziose per la realizzazione di strumenti da lavoro. Le corna sono costituite da una sostanza dura che si chiama cheratina (un polimero naturale ovvero una proteina). Esse crescono sul cranio di animali prevalentemente maschi e sono permanenti; con l’invecchiamento dell’animale, aumentano le loro dimensioni mantenendo una forma sostanzialmente conica attorno a un asse variamente incurvato. In generale, il corno è stato usato per la sua facile lavorabilità; in corno sono stati realizzati inizialmente soprattutto amuleti ma, in tempi successivi, anche manici di coltelli da caccia

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o bastoni da passeggio con anima di ferro (in questo caso dischi di corno venivano infilati su un’asta di ferro); in corno erano sicuramente fatti i manici delle spade e, comunque, delle armi. Un particolare tipo di vaso per bere, anticamente molto diffuso nel mondo mediterraneo, aveva forma di cono allungato o di protome animalesca: si chiamava rhyton (ῥυτόν). La semplice forma conica di questo vaso, ricurva all’estremità più stretta, è riconducibile evidentemente al corno bovino e si può ritenere uno dei più antichi recipienti naturali per bere. Il keras è una varietà del rhyton, termine che indica entrambe le varietà: quella a forma di corno e quella a forma di protome. Nel vaso a forma conica, come quella di un corno bovino, si poteva bere sia dalla parte più ampia, sia della punta, • appositamente traforata; nel vaso a forma di protome animale si beveva solitamente da Acus crinalis in osso. un foro praticato al centro della bocca o all’estremità del becco dell’animale: le forme Spillone per capelli di età romana, più ricorrenti sono quelle del toro, del montone, del grifo, del cavallo, del cane, del lungo circa 9,4 cm, cinghiale, ecc. 4. oggi conservato presso il Museo Come è noto, le ossa consistono nel materiale di colore biancastro che costituisce l’apCivico Archeologico Etnologico di parato scheletrico interno, detto perciò endoscheletrico, dei vertebrati con funzione di Modena. sostegno e talora di protezione delle loro parti molli. In genere, le ossa sono ricoperte di una membrana connettivale (detta periostio) oppure di uno strato di cartilagine (nei punti di articolazione): al loro interno mostrano per lo più delle cavità di forma e dimensioni varie e questa caratteristica influenza e indirizza il loro utilizzo nella produzione di manufatti. Presso i romani, la lavorazione dell’osso della tibia dei bovini (ossa più performanti) raggiunse dimensioni pressoché industriali e produsse una vasta tipologia di semplici strumenti di utilizzo quotidiano, ottenuti quasi sempre per tornitura. I resti archeologicamente giunti fino a noi testimoniano una importante varietà di manufatti nell’ambito della toilette (spilloni per capelli, pettini, spatole per il trucco); nel settore della filatura e del cucito (fusi, rocche e aghi); nell’oggettistica per il mobilio (cerniere delle ante di armadi, gambe di mobili, rivestimento di letti o di cofanetti); negli strumenti per la scrittura come gli stili; negli accessori di abbigliamento (fibbie di cinture, pendenti, spille); nell’oggettistica per usi domestici (cucchiai, manici di coltelli e altri utensili da cucina); negli oggetti legati alle attività ludiche (dadi e pedine per i giochi da tavolo, bambole). Oggetti in osso, corno e avorio erano molto diffusi in età imperiale romana e i loro cen4

Tratto dall’Enciclopedia Treccani, ‘rhyton’, Enciclopedia Italiana (1936), Goffredo Bendinelli.


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Corno potorio. Questo corno potorio, lavorato con parti in oro, proviene da un bue selvatico o da un uro e risale al VI d.C. circa. Un corno potorio è un recipiente per bevande. Questo genere di oggetto è conosciuto fin dall’Antichità classica ed è rimasto in uso, a fini cerimoniali, per tutto il Medioevo, in alcune parti d’Europa, fino all’inizio dell’Età moderna. I recipienti per bere in ceramica o metallo, stilizzati a forma di corni potori, sono conosciuti nell’antichità con il termine greco di rhyton. Rhyton a testa di cerbiatto. Magnifico esemplare di rhyton proveniente dall’officina di un argentiere attivo nelle colonie greche sulla costa del Mar Nero, nel Ponto Eusino: esso risale alla fine del V - inizio del IV secolo a.C ed è realizzato in lamina d’argento sbalzata con rifiniture a cesello, a niello e doratura in foglia (proveniente dal Civico Museo di Storia ed Arte di Trieste [inv. 4833]).

tri di produzione erano dislocati in varie zone dell’impero, come è documentato dai reperti che attestano l’attività di botteghe specializzate a diversi livelli sia a Roma (sulle pendici del Palatino e nell’area della Crypta Balbi) che, ad esempio, ad Alessandria d’Egitto. Tra l’altro è interessante riscontrare come esistesse una certa omogeneità di forma nei manufatti provenienti dalle diverse aree dell’Impero, soprattutto per quanto riguarda le categorie tipologiche e i temi iconografico-decorativi. La vastità dei reperti pervenuti ha permesso agli storici di evincere che, in quel periodo, alla grande varietà di utilizzi della materia prima di origine animale non corrispose necessariamente un apparato decorativo zoomorfo. Le teste di spilloni per capelli rappresentavano spesso busti di donne ovvero temi desunti dal repertorio iconografico ellenistico (come l’immagine di Afrodite) oppure altri soggetti aventi particolari significati simbolici di tipo religioso (quali, ad esempio, la pigna, la mano che regge la melagrana o attributi legati ai riti di Iside). Nei cucchiai e nei cucchiaini utilizzati probabilmente anche nell’ambito della toilette per prelevare unguenti e polveri dagli appositi contenitori, si riscontrano solitamente decorazioni incise con motivo a ‘occhio di dado’ (ottenuti con opportuni trapani) mentre nei manici di altri utensili ricorre spesso anche la raffigurazione di un busto maschile, di

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Antico bustino. Il bustino, destinato ad accentuare l’incavo della vita e la sporgenza del petto, torna in voga nel XIV e XV secolo (in alcuni casi sembra sia stato adottato anche dagli uomini). La sua forma variava a seconda dell’ideale estetico imperante per la linea del corpo femminile e per la foggia dell’abito nei vari periodi. In questo modello, realizzato in seta, la struttura realizzata con le stecche provenienti da fanoni di balena è particolarmente evidente.

fronte o di profilo, a volte con il capo coperto da un berretto frigio a punta o decorato anch’esso con motivi a occhio di dado5. Ossi di altri animali tuttora molto utilizzate sono quelle del cammello, con le quali si sono prodotti, e si producono ancora, molteplici oggetti decorativi: monili, pedine degli scacchi, manici di coltelli e, in tempi più recenti in India, raffinati intarsi su arredi. Manici di coltello si producono anche con le ossa della giraffa. Quello che erroneamente viene chiamato ‘osso’ (un tempo molto usato e ricercato, di cui, però, oggi è vietato il commercio) è il cosiddetto ‘osso di balena’, in realtà costituito dai ‘fanoni’ di alcuni cetacei. I fanoni (termine che deriva dal francese fanon e, a sua volta, dal latino volgare fano, che significa banda, fascia) sono presenti nella bocca di alcuni grandi mammiferi marini per separare il placton (di cui si nutrono) dai pesci più grandi. Essi derivano da una modifica dell’epidermide degli animali marini e contengono piccole percentuali di materiale osseo ma sono più simili al corno, composti, cioè, sostanzialmente da cheratina. La caccia alle balene risale almeno al 6000 a.C. ma si è sviluppata soprattutto dal XVI secolo nell’oceano Atlantico e, dal XIX secolo, anche nell’oceano Pacifico. In realtà, il prodotto inizialmente più ricercato ricavato dalle balene era il blubber, lo spesso strato di tessuto adiposo sottocutaneo (presente peraltro non solo nei cetacei ma anche nei pinnipedi e nei sirenidi). Tale sostanza era trasformata in olio direttamente a 5 Da Gerusalemme a Milano; imperatori, filosofi e dei alle origini del Cristianesimo, catalogo della mostra, Milano, Civico Museo Archeologico, 2013-2014, pp. 105-112.


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Lische di tonno. Fra i materiali di origine animale, come le ossa, si possono curiosamente ricordare le lische di tonno che, in passato, in Sicilia venivano dotate di una punta bifida e usate come penne per scrivere con l’inchiostro.

bordo delle baleniere per essere poi utilizzata per la produzione di candele steariche, come combustibile nelle lampade a olio, per la fabbricazione di sapone e cosmetici o come lubrificante. In passato, anche delle balene veniva utilizzato l’intero corpo. In tempi moderni, talune popolazioni, anche civilizzate, si nutrono purtroppo della loro carne, un alimento malauguratamente molto apprezzato. L’uso storicamente più conosciuto degli ‘ossi di balena’ era quello per la realizzazione delle stecche dei corsetti delle donne. Infatti, la particolare composizione chimica dei fanoni, cui si è accennato, conferisce a quelle stecche una consistenza rigida ma flessibile e adattabile sia alla sagomatura del corsetto che ai movimenti del corpo femminile. Il corsetto (detto anche busto) è un indumento utilizzato già nel mondo antico: testimonianze ne rivelano l’utilizzo già presso gli Etruschi, i Greci e i Romani. L’uso di busti e bustini era comunque finalizzato a contenere l’addome soprattutto dalle persone pingui conferendo loro, un apparente aspetto slanciato. Nel XVI secolo Caterina de Medici ne aveva introdotto l’uso in Francia; in quel periodo il corsetto era un corpetto in tela rigida con guaine verticali rinforzate con ossi di balena, mentre la parte centrale veniva rinforzata da un busque fatto di avorio, legno o metallo. Seppur nel XVIII secolo i modelli prevedessero un cospicuo numero di stecche, agli inizi del 1900 questo indumento fu definitivamente abolito grazie alle proposte estetiche di Paul Poiret 6. Poiché, a seconda della specie di balena, ogni fanone può essere lungo da 0,5 a 3,5 metri, in passato essi sono stati usati anche 6 Paul Poiret è stato primo creatore di moda inteso in senso moderno. Con lui si introdusse lo ‘stile impero’ caratterizzato dalla vita alta e dalla gonna stretta e lunga).

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Madreperla australiana. Fra le sostanze prodotte dagli animali marini, oltre ai coralli di vario colore, assai ricercati per i più svariati usi sono i gusci di molte conchiglie. Tutti questi materiali sono costituiti principalmente da carbonato di calcio in forma aragonitica ma, taluni di questi, analogamente alle perle, includono nel reticolo cristallino minuscole gocce d’acqua e di conchiolina mostrando un affascinante effetto iridescente.

per la realizzazione di fruste da carrettiere o per la costruzione di parasoli e di ombrelli 7. Parlando di sostanze animali dure, ricche di tessiture e qualità intrinseche, è evidente che bisogna accennare ai gusci di certi animali. Tra queste materie prime adatte a produrre utensili e ornamenti non possiamo non citare le conchiglie, in particolare quelle di gasteropodi, bivalvi e scafopodi che, tra tutte, sono quelle che meglio si conservano e si reperiscono più facilmente. Le conchiglie hanno una struttura biologica rigida e dura che serve a proteggere e a sostenere il corpo molle degli animali non dotati di endoscheletro, appartenenti ai phyla dei Mollusca e dei Brachiopoda: in realtà esse possono essere definite esoscheletri, cioè scheletri esterni. La stragrande maggioranza dei reperti costituiti da materiale di tale tipologia, da noi conosciuti attraverso l’archeologia, riguarda i molluschi marini che, per varietà di forme e di colori e per la diversa resistenza alle sollecitazioni meccaniche, ancora oggi costituiscono una base importante per diverse produzioni artigianali e perfino industriali. Molte conchiglie erano conosciute anche presso le comunità primordiali che, nutrendosi dell’animale contenuto, già le utilizzavano per farne monili e ornamenti. Certe popolazioni centro-africane da circa 5.000 anni usano ancora oggi le conchiglie Cypraea e Monetaria come vere e proprie monete; esse però sono state usate soprattutto come utensili per agevolare alcune mansioni, come strumenti musicali, come contenitori, per decorare la superficie di oggetti di vario tipo e per la realizzazione di accessori di abbigliamento. In Indonesia, certe popolazioni usano ancora le tridacni (bivalvi giganti del genere Tridacna gigas) come vasche da bagno per i bambini mentre, in Occidente, enormi conchiglie di questo genere sono state utilizzate come fonti battesimali e come acquasantiere (famose sono quelle della cattedrale di Notre Dame a Parigi). Una raffinata e antica lavorazione delle conchiglie riguarda la produzione di cammei. Il cammeo, o cameo (il termine deriva dal vocabolo arabo gama’il, che significa bocciolo di fiore, mentre l’odierno nome proviene dal termine camaheu che ne costituisce la traduzione francese) è un prezioso bassorilievo realizzato mediante l’incisione di una conchiglia (in particolare la Cypraeacassis rufa, la madascarensis o la cornuta) costituita 7 Di utilizzo recente nelle lavorazioni industriali è invece il grasso d’ossa. Si tratta del sottoprodotto della lavorazione delle ossa e consiste in una sostanza più o meno fluida di colore compreso fra il giallo e il bruno, peraltro di odore talora disgustoso. Il grasso d’ossa naturale è ottenuto a caldo con il vapore acqueo mentre quello d’estrazione si ottiene con l’utilizzo di solventi. Questa particolare materia è oggi usata nella fabbricazione di saponi, candele e lubrificanti. Esiste, infine, l’olio d’ossa (un liquido giallo inodore, ottenuto trattando con acqua calda ossa fresche e ben conservate, oppure sciogliendo a bassa temperatura grasso d’ossa di buona qualità) usato in conceria e come lubrificante.


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Conchiglie per cammei. Le conchiglie del genere Cypraeacassis (nell’immagine la rufa e la madascarensis) sono fra le più utilizzate per ricavare tradizionalmente cammei e piccoli oggetti come bottoni, manici, vaghi di collane, ecc.

da strati di colore diverso, lavorando i quali è possibile isolare nitidamente una figura in rilievo rispetto al fondo. Alcuni dei più famosi cammei (di conchiglia) sono stati prodotti nel periodo imperiale romano ma lo stile e la tecnica risalgono al periodo all’Ellenistico; i primi a usare i cammei come preziosi ornamenti furono infatti i Greci, nel 400 a. C. mentre, solo successivamente, questa tecnica espressiva si diffuse anche a Roma che ne fece grande uso assieme alle gemme incise: anelli, medaglioni, orecchini, spille e ciondoli ritraevano eroi mitologici, divinità o personaggi illustri. L’arte del cammeo raggiunse grande popolarità anche in Persia e nella Mesopotamia. Con la decadenza dell’impero romano l’arte dei cammei registrò una fase di declino e, per tutto il Medioevo, orafi e argentieri riutilizzarono quelli antichi soprattutto per adornare reliquari, corone o scrigni. Con il Rinascimento, però, essi tornarono prepotentemente di moda, fino a giungere ai nostri giorni nei quali l’Italia vanta tuttora una produzione artistico-artigianale di grande qualità soprattutto nella provincia di Napoli e, in particolare, a Torre del Greco. Una conchiglia particolarmente nota è quella che viene chiamata ‘pettine di Venere’, la Pecten jacobaeus (letteralmente pettine di San Giacomo) detta volgarmente ‘capasanta’ (santa in quanto simbolo del Santo Giacomo; in francese coquille Saint Jacques). I pellegrini ne portavano al collo la valva concava con la quale bevevano alla fonti d’acqua lungo il viaggio verso Santiago (San Giacomo, in spagnolo) de Compostela. In araldica questa conchiglia inizialmente rappresentava il pellegrinaggio a Santiago de Compostela ma, successivamente, divenne il simbolo generico del pellegrinaggio, anche in terra Santa o presso altri santuari; essa si trova anche nello stemma araldico di papa Benedetto XVI.

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Assai nota ai più come simbolo della compagnia petrolifera Shell, la conchiglia di San Giacomo è universalmente conosciuta grazie al famoso dipinto di Sandro Botticelli nel quale Venere è rappresentata nel suo nascere dal mare. La materia iridescente di cui sono fatte certe altre conchiglie è stata usata nella produzione di suppellettili di particolare valore ma anche nella realizzazione di semplici oggetti d’uso e di accessori di abbigliamento (come ad esempio i bottoni): si tratta della cosiddetta madreperla. La madreperla è il materiale che costituisce lo strato interno del guscio di molti molluschi, specialmente del genere ostrea: il suo effetto opalescente nelle tonalità bianco, grigio e verde rende questo materiale particolarmente ricercato per la realizzazione di oggetti raffinati. Analogamente alla perla, la madreperla è costituita da una formazione di cristalli lamellari di aragonite, posti gli uni sugli altri, le cui molecole sono aggregate dalla ‘conchiolina’ con piccole quantità di acqua che, investite dalla luce, appaiono iridescenti. La madreperla differisce dalla perla solamente per la disposizione dei cristalli: a strati in modo parallelo nella prima e concentrici nella seconda. La madreperla si utilizza molto ancora oggi oltre che per la bellezza, anche per la sua durezza: questa caratteristica consente sia la produzione di molti piccoli oggetti che, soprattutto partire dall’epoca rinascimentale, la decorazione a intarsio del mobilio e la realizzazione di oggettistica pregiata. In passato, la madreperla ha consentito la realizzazione di monili, posate, mosaici, ventagli, binocoli, tasti per strumenti musicali e manici, oltre che per produrre oggetti sacri, paramenti e amuleti. Un’altra sostanza dura pregiata, di derivazione animale, che si sviluppa in mare e che è conosciuta e molto utilizzata da tempi assai remoti, è il corallo. Anche il corallo è un materiale di origine organica: esso infatti è lo scheletro calcareo prodotto da microscopici organismi che vivono in colonie nelle profondità del mare; anche se in natura assomiglia al tronco di una pianta, esso è costituito dalle secrezioni di minuscole creature che si sviluppano su di esso.

Monile in corallo. Questo curioso pendente di esplicita intenzione devozionale rappresenta Cristo nell’atto di essere calato dalla Croce: realizzato da un orafo siciliano attorno alla fine del XVIII secolo è realizzato in corallo trapanese (dal caratteristico colore rosso carnicino) e oro basso. La conformazione arborea del ramo del corallo (alto 81 mm) è stata abilmente valorizzata dall’orafo per rappresentare le braccia del Cristo trattenute da canapi durante la Deposizione: per questo motivo il monile (non privo di un velato retaggio apotropaico di cultura popolare) sembra fare riferimento alla confraternita dei canepari (o cordari) che, assieme alle altre corporazioni di arti e mestieri, presiedevano a molteplici riti a sfondo religioso.


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Corallo da Wunderkammer. Tipica composizione da Wunderkammer con un grande ramo di corallo che si innesta su una base in legno dorato.

Per la maggior parte il corallo è costituito da carbonato di calcio: le varietà più pregiate contengono tracce di vari coloranti carotenoidi che, quando presenti, gli conferiscono una caratteristica colorazione rossa, più o meno intensa, tipica soprattutto della qualità che si pesca in Sardegna. In realtà, in base alla provenienza, il corallo rivela composizioni differenti e perciò anche varie colorazioni: esiste infatti il corallo nero, rosso, rosa, pelle d’angelo (peau d’ange) e perfino bianco. Per la sua peculiare qualità intrinseca, questa sostanza ha suggerito straordinarie opere d’arte nei secoli. È difficile dire da quanto tempo sia conosciuto e apprezzato: si tratta forse della materia preziosa più antica dell’umanità. Qualcuno può averne trovato per caso un rametto sulla spiaggia e, colpito dal suo colore particolare, lo deve aver conservato attribuendogli un significato apotropaico. In realtà, è proprio questa valenza che lo ha molto valorizzato presso varie culture. Come dimostrano i ritrovamenti di collane e gioielli nelle tombe celtiche, il corallo è stato utilizzato come ornamento dall’età del ferro; le prime testimonianze storiche fanno supporre che esso sia utilizzato da migliaia di anni in Sicilia e in Sardegna e molti ornamenti ne sono stati trovati anche in Siria, ad esempio, nella nota tomba di una dea sumerica.

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Chitarra da guscio di tartaruga. La cassa di risonanza di questo strumento a corda è costruita utilizzando direttamente il carapace di una tartaruga; il manico è inciso con elementi decorativi semplici. Si tratta di un oggetto di artigianato realizzato dai nativi dell’America nel XIX secolo.

Il corallo ha avuto un ruolo importante nei riti religiosi e magici in tutte le isole del Pacifico dove veniva spesso posto sulle tombe a protezione dei defunti e dove taluni templi furono costruiti in pietra lavica (nerastra) e corallo (rosso). Nel Mediterraneo si riteneva che, come l’ambra, il corallo contenesse ‘l’essenza della vita’ della Dea Madre: si riteneva infatti che essa abitasse nell’oceano dentro un ‘albero’ di corallo. Secondo un’antica credenza indù, l’oceano è considerato l’abitazione delle anime dei morti e perciò il corallo è ritenuto un potente amuleto di lunga vita; rametti di corallo venivano anche posti sul corpo dei defunti per impedire che fossero preda degli ‘spiriti maligni’. Grazie alla sua forma e al suo colore, il corallo fu molto apprezzato anche presso gli antichi greci e romani: nell’Antica Roma gli venivano riconosciute proprietà curative e propiziatorie: già a quel tempo era consuetudine far indossare ai neonati dei pendenti formati da rametti di corallo e somministrare la polvere ricavata da questo materiale come medicinale per la prevenzione e la cura delle crisi epilettiche, degli incubi e dei dolori ai denti. Le donne dell’antica Roma invece portavano orecchini di corallo per attirare gli uomini. Con il significato di amuleto specifico dell’infanzia venne utilizzato anche durante tutto il Medioevo e il Rinascimento: lo troviamo perfino indossato dal Bambin Gesù nei dipinti di devozione privata (probabilmente legati alla nascita di un bimbo) come potrebbe essere stata la Madonna di Senigallia concepita da Piero della Francesca.


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Scaglia del guscio di una tartaruga. L’immagine mostra il fronte e il retro di una scaglia del guscio di una tartaruga di un genere usato per vari impieghi di carattere ornamentale: l’elegante capricciosità della conformazione, la traslucidità e, non da ultimo, la lavorabilità plastica di questo materiale di origine animale (quando sottoposto a una fonte di calore) sono altrettanti motivi del suo successo e della sua preziosità.

Nel Cinquecento il corallo amplifica le sue valenze per assumere anche significati esoterici alchemici, come testimoniano i numerosi pezzi di virtuosismo scultoreo presenti nelle Wunderkammern di taluni colti principi. In quei casi, alla tradizionale valenza apotropaica si aggiunge l’amore per la meraviglia. Parlando delle materie fornite dagli animali marini non si può dimenticare il carapace, cioè la porzione di esoscheletro, che riveste, ad esempio, il cefalotorace di tartarughe, di granchi e di aragoste con la funzione di proteggerne il corpo contro aggressori e condizioni termiche o ambientali sfavorevoli. Tra tutti, il più conosciuto e apprezzato per le caratteristiche fisiche ed estetiche è il guscio delle tartarughe. Il carapace di questi rettili è una vera e propria corazza costituita da piastre solide saldate tra loro: alcune di esse sono ossificate nel derma cutaneo mentre altre sono fuse con le vertebre e le sue costole. Le piastre, composte principalmente di cheratina, sono a loro volta rivestite dalle tipiche squame cornee dei rettili che ricoprono anche la testa e gli arti con funzione protettiva.Il numero delle piastre della corazza e della testa costituisce una caratteristica distintiva delle varie specie marine di questi animali: si tratta di un materiale piuttosto fragile che si rompe facilmente o si fende (soprattutto a causa delle differenze di temperatura), scaldato è, però, piuttosto plastico (due parti di tartaruga possono essere saldate tra loro senza colla). La tartaruga più pregiata è quella bionda percorsa da macchie rosse, mentre la più diffusa è

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Comò di André Charles Boulle. Questo comò francese ideato da AndréCharles Boulle fra il 1710 e il 1720 è realizzato in noce ed ebano impiallacciati con intarsi in ottone e tartaruga incisa; le decorazioni sono in bronzo dorato e il piano è in marmo verde.

quella bruna, più o meno scura.Dopo una prima generica pulitura, la lavorazione della tartaruga comincia con la scomposizione dell’intera corazza nelle sue due parti principali (lo scudo dorsale e il piastrone ventrale) e nella suddivisione di queste parti nelle singole placche che, a loro volta, vengono sfaldate in moltissime scaglie in funzione delle loro dimensioni e della loro varia marezzatura. Il lavoro di cernita delle differenti scaglie è delicatissimo e deve essere fatto in base alla trasparenza, alla bellezza e alla configurazione delle singole macchie, cosa che richiede pratica ed esperta conoscenza. Le placche dorsali si distinguono in nucali, omerali, pettorali, caudali e costali: nel gergo degli artigiani sono chiamate ‘schiene’, ‘ali’, ‘pale’, ‘quadrelli’ e ‘unghie’. Dalle unghie e dal piastrone ventrale (detto ‘pancetta’) si ricavano le scaglie completamente trasparenti che sono conosciute in commercio col nome di tartaruga bionda. Occorrono spesso venti e più scaglie per ottenere un certo spessore di tartaruga bionda e ciò, unito al fatto che queste sono sensibilmente più piccole e in minore numero di quelle macchiate, giustifica il prezzo commerciale più elevato. In base al tipo e alla quantità delle macchie, dopo la qualità bionda seguono, in ordine di pregio, le qualità semibionda, la passa (perché ricorda il colore dell’uva passa), la jaspé e la nera. Quest’ultima variante


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che, in realtà, è ottenuta dal rimpasto della lavorazione delle altre, è quella di minor valore. Una volta reso morbido con il calore, il materiale può essere piegato in qualsiasi forma, tagliato, modellato e intarsiato e, a seconda della lavorazione, esso si distingue in ‘tirato a mano’ o ‘schiacciato’. Nel primo caso, il pezzo si lavora prima di traforo al seghetto, poi con lime e bulini si scolpisce e si incide secondo il soggetto e il modo prefissato. Si definisce invece ‘schiacciato’ quando schegge, residui e ritagli sono uniti nella stessa forma e compattati a caldo. L’utilizzo del guscio di tartaruga è stato molto vario nel tempo e nelle forme. Oggetti come bracciali con decorazioni incise, ornamenti pettorali, cucchiai, maschere antropomorfe e zoomorfe erano create in Melanesia e Micronesia e si trovano ora nei musei come esempi di eccellenza dell’espressione artistica primitiva. In quei territori, alcuni di questi oggetti potevano essere accettati come moneta per il pagamento della dote. Questo materiale, tra l’altro relativamente deperibile, fu molto apprezzato anche dagli antichi romani che lo acquistavano attraverso l’Egitto. Gli artigiani musulmani del Cairo nell’XI secolo creavano scrigni, pettini e impugnature di coltelli in tartaruga, inizialmente poco conosciuti in Occidente in quanto la cristianità medioevale non favoriva le importazioni da parte degli ‘infedeli’. Il commercio della tartaruga crebbe invece fortemente grazie alle importazioni dal Nuovo Mondo. Nel XVII secolo la tartaruga fu il rivestimento decorativo preferito per i mobili; gli intarsi barocchi erano combinati con ottone, peltro o rame. Con la tecnica francese del piqué, disegni in oro e argento erano applicati sul guscio di tartaruga precedentemente sbozzato con fori. La persecuzione degli artigiani ugonotti, che si erano specializzati in quell’arte, li costrinse a fuggire dalla Francia verso altri Paesi, ove ne diffusero la tecnica. Anche l’Italia ha un’antica tradizione in questo settore e i centri più importanti di produzione furono, e tuttora sono, sostanzialmente a Napoli e provincia. I ‘tartucari’ partenopei hanno realizzato oggetti preziosi di grande raffinatezza e, spesso, suggestionati dalla decorazione ‘alla cinese’, intarsiavano la tartaruga con sottili fili d’oro e d’argento, con incastonature di madreperla e, talvolta, d’avorio. Molti dei loro oggetti furono destinati a principi e regnanti di ogni nazione. Gli oggetti più comuni che si ricavavano dalla lavorazione della tartaruga erano sostanzialmente manici, ventagli, pettini e tabacchiere; successivamente essa è stato impiegata per astucci rigidi (portacipria, portasigarette), servizi da toeletta, cofanetti porta-gioielli, pomi vari, tagliacarte, servizi da scrittoio, cornici, cerniere per borse, astucci e montature di occhiali.

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Ventaglio in acetato di cellulosa. L’acetato di cellulosa è oggi considerato il materiale principe per la produzione degli occhiali. In realtà, in passato se ne è fatto un largo uso soprattutto come sostituto di materie di origine naturale, quali avorio o tartaruga, con sorprendi risultati qualitativi ed espressivi, come dimostrano questi ventagli.

Testimonianze di questo nobile materiale, tra le quali tastiere di pianoforte o anche piccoli mobili, si trovano in molti musei europei. Tra coloro che hanno realizzato piccoli e pregiati oggetti in tartaruga, vale la pena di menzionare l’abilissimo artigiano francese di nome André Charles Boule che, al servizio di Luigi XIV, perfezionò l’intarsio con questo e altri materiali pregiati. Portata avanti dai suoi discendenti, quella tecnica godette di grande popolarità e venne imitata nel XIX secolo. In quel periodo erano particolarmente apprezzati oggetti di piccole dimensioni come le casse di orologi, cornici di quadri e specchi, agorai, pettini ornamentali e borsellini che spesso erano intarsiati di madreperla. I cambiamenti sociali dell’ultimo secolo hanno portato lentamente a una drastica riduzione dell’uso del carapace di tartaruga come materia prima. Per fare alcuni esempi, dall’inizio del XIX secolo il tabacco da fiuto è tramontato e con esso la necessità di contenerlo e portarlo con sé; inoltre, negli anni Venti del Novecento le donne cominciarono a tagliare i capelli ‘a caschetto’ e questo fatto diminuì per un certo periodo l’esigenza di pettini e fermagli per capelli di tartaruga.


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Le materie plastiche, come il nitrato di cellulosa (celluloide) e l’acetato di cellulosa (rhodoïd)8 che inizialmente, già alla metà dell’800, erano concepite proprio per sopperire alla progressiva carenza di materiali di origine animale (imitandoli), a partire dalla seconda metà del Novecento soppiantarono lentamente l’uso di molti materiali naturali rappresentandone, con analogo effetto estetico, un’alternativa relativamente poco costosa e di facile lavorabilità (Terenzi, 2013, pp.49 e 82). Per di più, oggettivamente, le nuove materie, soprattutto quelle altamente tecnologiche, sono molto più versatili ed economiche (Young, 2007, pag. 81). Oggi si assiste curiosamente a un forte ritorno e a una grande curiosità verso amuleti, oggetti ‘fantastici’ e quello che sono le credenze antiche e i riti scaramantici. Ad esempio Lomè, la capitale del Togo, ospita un Voodoo market, uno dei mercati più particolari al mondo: si chiama Akodessewa ed è conosciuto anche come ‘il mercato dei feticci’; è possibile trovare scheletri, pelli d’animali, ossa e piume di ogni tipo e oltre cento guaritori mettono in vendita i loro servizi per pochi euro. Qui arrivano persone in cerca di cure per l’asma, la malaria e la febbre; fra superstizioni e credenze difficili da sradicare, il mercato vive soprattutto grazie ai turisti attirati dall’aspetto folkloristico. Occorre ora citare le piume degli uccelli, un materiale che ha liberato la fantasia degli artigiani e, comunque, la vanità dei consumatori. Sicuramente, osservando i riti di corteggiamento degli animali, gli essere umani più antichi hanno colto nel piumaggio, soprattutto degli individui maschili, un interessante esempio su come adornare se stessi. Tante immagini e tanti significati sono legati alle piume. Nel Rigoletto, la donna viene paragonata a una ‘piuma al vento’, mutevole nei pensieri e nello stato d’animo; il film Forrest Gump si apre e termina con il volo libero di una bianca piuma, simboleggiante il destino

8 L’acetato di cellulosa è un materiale nato per sostituire degnamente la celluloide. La “celluloide” era nata nella seconda metà dell’Ottocento ed è uno dei primi prodotti termoplastici sintetici rispetto ai materiali di origine naturale che esistevano allora. La circostanza che portò alla sua scoperta fu la modificazione delle fibre cellulosiche mediante l’acido nitrico compiuta da Alexander Parkes: egli fu il primo a sperimentare il nitrato di cellulosa e nel 1862 lo introdusse nel mercato. Le premesse per la nascita di quel nuovo prodotto erano costituite dall’esigenza di essere leggero e sostituire l’avorio che, in quel momento, cominciava a scarseggiare: allo scopo, infatti, in America era stato indetto un apposito concorso. Effettivamente, il successo commerciale della celluloide si deve al gioco del biliardo: i fratelli Hyatt, due tipografi americani, stavano cercando di sviluppare un prodotto capace di sostituire l’avorio (utilizzato per produrre le palle da biliardo) e fu così che misero a punto un processo per valorizzare derivato del nitrato di cellulosa. In realtà, la celluloide è la capostipite di tutte le materie plastiche sintetiche ed è rimasta in auge fino alla fine degli anni Trenta, fino a quando, cioè, dal momento che questa materia evidenziava dei seri problemi di infiammabilità, cominciarono gli studi per trovare materiali alternativi: tra questi si impose subito l’acetato di cellulosa, una materia affine alla celluloide. Gli studi sull’acetato iniziarono in America intorno agli anni Trenta e, successivamente, essi hanno avuto in Italia il loro boom dopo la seconda guerra mondiale quando la celluloide venne sempre di più sostituita dall’acetato di cellulosa. Nel frattempo nacquero anche le materie plastiche sintetico-artificiali che hanno reso possibile il grande e indiscusso exploit della ‘plastica’ in senso generale. Lo sviluppo tecnologico attuale è arrivato a produrre nuovi tipi di materiali innovativi come, ad esempio, i tecnopolimeri ma l’acetato ha continuato a essere utilizzato e ha sempre avuto campi di impiego molto specifici e delineati.

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Cappello da bersagliere. Il tipico cappello da bersagliere, chiamato ‘vaira‘, ha un pennacchio di piume di gallo cedrone

Copricapo indiano. Tipico copricapo di un capo villaggio indiano, realizzato con penne d’aquila, feltro, aculei di porcospino, panno rosso, perle di vetro, filati, pelli di ermellino e crine di cavallo.

che cambia all’improvviso; il piccolo Dumbo si faceva forza stringendo tra la sua proboscide una piuma di uccello per riuscire a volare. Piume di ogni genere, ma soprattutto in funzione della loro rarità, legata alla difficoltà di cacciare l’animale che le indossa, sono state usate per rendere solenne la propria immagine e per stabilire gerarchie, non solo in seno a clans famigliari ma, in tempi moderni, anche in campo militare. Tutti ricordano le piume usate dagli indiani, e soprattutto dai loro capi, per manifestare il potere e il coraggio. Nella storia e nella cultura dei Nativi americani i copricapo di piume hanno rivestito un’importanza fondamentale. Il valore e l’onore del guerriero era, ed è tutt’oggi, rappresentato dal numero di penne d’aquila presenti nel suo copricapo, riservato, quindi, solo a coloro che avessero compiuto azioni di particolare rilievo sociale e, perciò, a chi aveva dimostrato di essere un valoroso guerriero. Le penne d’aquila rappresentavano le preghiere, i raggi del sole, l’energia irradiata dal Grande Spirito e, infine, la protezione data dall’animale stesso; più un copricapo era adorno di penne, più era grande il valore e l’onore del guerriero che lo portava: l’onore faceva del guerriero un leader e, di conseguenza, il Capo. A livello militare, possiamo ricordare anche il copricapo dei nostri bersaglieri, una specialità della fanteria dell’Esercito italiano. Il piumetto, o pennacchio, che si trova sul cappello è composto di piume di gallo cedrone. Il cappello, circolare e ampio, all’inizio veniva usato come protezione dal sole per l’occhio destro, quello che aveva il compito di


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mirare (peraltro, quasi tutti i cacciatori dei vari eserciti, all’epoca della formazione del corpo, ricoprivano il berretto di penne e pennacchi). Il cappello piumato, in gergo chiamato ‘vaira’ (in onore di Giuseppe Vayra che per primo vestì la divisa del corpo) si porta inclinato sul lato destro in modo da tagliare a metà il sopracciglio fino a coprire il lobo dell’orecchio: questo copricapo è ormai un emblema, un segno di grande riconoscibilità e visibilità, oltre che simbolo delle tradizioni di quel corpo armato. In realtà, anche alcune divinità egizie avevano il copricapo con le piume: le corone e i copricapo spesso sono un segno identitario della divinità (ad esempio, la dea Maat, simbolo di verità e giustizia, era rappresentata con una piuma di struzzo sulla testa). Anche per i Romani le piume avevano un significato specifico, erano utilizzate per stabilizzare il tragitto delle frecce e, quindi, simboleggiavano la velocità; nel Medioevo, invece, erano legate alla saggezza e alla parola scritta dal momento che rappresentavano, appunto, l’unico mezzo per poter scrivere e, quindi, per poter tramandare il sapere. Fra le piume di maggior interesse estetico che sono state usate nei secoli dalle donne per adornarsi con cappelli e boa, ci sono quelle dello struzzo e del pavone. Il pavone, detto ‘volto di Era’, per i coloratissimi ‘ocelli’ della ruota del maschio di questo uccello, simili a tante stelle, rappresenta lo splendore celeste e l’epifania della Grande Dea. Per i greci, l’omonima costellazione fu voluta proprio dalla dea Era, in memoria del suo fedele guardiano dai cento occhi, Argo, ucciso da Ermes. I Romani chiamavano il pavone ‘Uccello di Giunone’ e, secondo loro, esso accompagnava nell’aldilà le anime delle imperatrici, dal momento che, già nella tradizione persiana, questo animale simboleggiava la regalità, la bellezza e l’immortalità. Lo struzzo viene richiamato per altri significati. Ad esempio, in araldica è simbolo di giustizia (per l’uguaglianza delle sue penne), oltre che del suddito obbediente. Simboleggia anche la risurrezione e la possibilità di dominare le difficoltà più dure (spesso è rappresentato con un ferro di cavallo nel becco). Nel Medioevo si riteneva che la potenza vivificatrice del suo sguardo fosse sufficiente per far maturare il piccolo struzzo nell’uovo. Probabilmente per queste sue valenze positive, le sue piume furono assunte come ornamenti esteriori dello scudo nell’araldica imperiale napoleonica.

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Per offrire una panoramica sull’insieme delle motivazioni che hanno portato gli animali a costituire significativi riferimenti concettuali per l’uomo, occorre andare molto indietro nel tempo e prendere anche in considerazione, da una parte, le tipologie di utilizzo dell’animale nelle diverse pratiche umane e, dall’altra, le svariate espressioni che, da queste, sono scaturite nelle diverse culture. In sostanza, occorre far riferimento alla realtà dell’homo sapiens i cui più antichi resti fossili risalgono a 35.000 anni fa. Infatti nell’homo sapiens che, come abbiamo visto, succede e per alcuni periodi si sovrappone all’uomo di Neanderthal in estinzione, gli studiosi riscontrano una dissimile e particolare evoluzione, non più solo legata alla maggiore abilità nel fare cose (egli acquisisce, ad esempio, tecniche più perfezionate di caccia e guerra) ma anche alla sua dimensione spirituale. Nel Paleolitico e nel Mesolitico l’uomo era sostanzialmente ancora cacciatore e raccoglitore per cui la sua weltanschauung1 coincideva con la possibilità e la capacità di cacciare gli animali. Se riflettiamo su quali potevano essere i suoi strumenti di conoscenza e, soprattutto, su coloro con i quali egli doveva misurarsi tutti i giorni (e perciò come affrontava le situazioni cui l’ambiente naturale lo sottoponeva), è chiaro che gli unici suoi riferimenti fossero gli animali. 1 Il termine tedesco Weltanschauung ‹vèltanšauuṅ› s. f., [propr. ‘visione, intuizione (Anschauung) del mondo (Welt)’] esprime un concetto fondamentale nella filosofia e nella epistemologia germanica, spesso applicato in vari altri campi: in primis nella critica letteraria e della storia dell’arte. L’espressione non è letteralmente traducibile in lingua italiana perché non esiste una parola che le corrisponda appieno: peraltro essa accenna a un concetto di pura astrazione che può significare ‘visione del mondo’, ‘immagine del mondo’ o ‘concezione del mondo’ e può essere riferita a una persona, a un gruppo umano o a un popolo, come a un indirizzo culturale o filosofico o a un’istituzione ideologica in generale e religiosa in particolare.

• Bisonti rappresentati nella Grotta di Altamira. Pittura rupestre sita nella Grotta di Altamira (in spagnolo

Cueva de Altamira), nei pressi di Santillana del Mar Cantabrico, famosa per la rappresentazione, effettuata nel Paleolitico, di mammiferi selvatici e di mani umane. Questa replica filologica dell’originale (oggi praticamente inaccessibile per timore che la presenza umana possa determinare la loro consunzione) si trova nel Mammoth Museum di Barcellona.


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Interpretazione della Grotta di Altamira. Riproduzione con studio di una aggregazione di animali presente nella parete della Cuevas de Altamira, secondo l’interpretazione di Leroi-Gourhan: gli animali centrali sono bisonti (rappresentano le donne); accanto alcuni cavalli complementari (rappresentano gli uomini), accompagnati da animali periferici, in questo caso cervi e cinghiali.

La caccia è stata la prima attività umana socializzata; l’inseguimento della selvaggina su vasti spazi deve aver creato competizioni tra gruppi e, talvolta, può aver favorito le associazioni agendo sulla vita profonda dell’uomo. Come riferisce Jean Piveteau “…Secondo L. e R. Makarius, l’origine delle virtù magiche attribuite al sangue si può senza dubbio trovare solo, nelle idee suggerite dalla esperienza venatoria” (Piveteau, 1994, p.114). Interessanti ricerche etologiche, psicologiche e pedagogiche dimostrano che l’uomo manifesta una tendenza innata verso l’alterità animale, che rivela il bisogno intrinseco del più evoluto dei primati di conoscere e dominare il proprio contesto. È pertanto facile capire quanto il pensiero dedicato all’animale sia stato importante per la sua sopravvivenza, a partire dalla buona riuscita delle battute di caccia, e spiegare l’affermazione di riti propiziatori legati, appunto, agli animali e alla loro cattura. In verità, l’attività venatoria occupa tutta l’esistenza dell’uomo cacciatore, la sua economia, la sua struttura sociale e la sua vita spirituale. Guardando e interpretando raffigurazioni antiche, come quelle rinvenute nelle grotte di Lascaux, si evince come, al centro del pensiero dell’uomo che ha dipinto quelle pareti, vi sia il continuo approfondimento pratico e concettuale dell’essenza dell’animale; ciò lo conduce a concepire il suo rapporto con la ‘bestia’ come una realtà essenziale, cioè a credere allo scambio reciproco delle rispettive forme vitali, che si esprime in un legame che possiamo definire archetipico. Alcuni antropologi ritengono inoltre che l’homo sapiens possedesse, oltre a una coscienza del reale, anche una coscienza immaginativa attraverso la quale osservava e riteneva di percepire la spiritualità presente negli esseri della natura; in questo senso egli aveva la consapevolezza sia del mondo fisico che di quello spirituale, senza riuscire, però, a distinguerne in modo netto i confini. Quando i diretti predecessori della nostra specie cominciarono a vivere in gruppi manifestando i primi esempi di vita socialmente organizzata comparvero anche le loro prime


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• Arte rupestre delle Grotte di Lascaux. Le Grotte di Lascaux sono un complesso di grotte nel sudovest della Francia, famose per le pitture rupestri; esse contengono circa 900 esempi perfetti di arte del Paleolitico superiore. I dipinti, risalenti a 17.300 anni fa, sono costituiti principalmente da immagini di grandi animali, della maggior parte dei quali esistono evidenze fossili che ne confermano la presenza nella zona in quel momento.

espressioni grafiche; si trattava di pitture, di graffiti e di oggetti scolpiti con valore magico-rituale, ritrovati nelle grotte che servivano loro da abitazione. Per quanto riguarda gli oggetti che ci sono pervenuti, oltre ai normali utensili, molti di essi avevano una funzione apotropaica (dal greco ἀποτρόπαιον, ἀπο ‘contro’ e τρόπαιον ‘sconfitta, fallimento’) servivano, cioè, ad allontanare le molteplici influenze negative dell’ambiente. Ovviamente si trattava di oggetti realizzati con materiali di origine naturale e facili da reperire, come ossa o corna, nei quali si ritrovano segni che rappresentano, con tutta evidenza, quelle intenzioni ovvero propiziare eventi positivi. In merito alle pitture e ai graffiti, una delle più straordinarie forme espressive delle popolazioni primitive che ci sono pervenute (fra l’altro anche la più antica fino ad oggi conosciuta) dotate di questa evidente funzione sono, appunto, le raffigurazioni rupestri 2. Gli studi su tali rappresentazioni hanno evidenziato quanto per quelle popolazioni fosse ‘necessario’ imprigionare l’immagine dell’animale come metafora del successo nella caccia. La funzione apotropaica è evidente; infatti, nel suo pieno significato, essa designa tutto ciò che serve ad allontanare e a neutralizzare un’influenza malvagia o contraria: un antidoto all’insuccesso, un incentivo al successo. La religiosità e la ritualità che ne conseguivano coincidono, tra l’altro, con l’origine dello sciamanesimo. In questo senso, le pitture rupestri come quelle ritrovate nelle Grotte (Cuevas) di Altamira, quelle di Lescaux, le rappresentazioni incise sulle rocce dai Camuni, i graffiti rupestri nei deserti del Sahara o della Giordania, devono essere lette come rappresentazioni che cercavano di favorire la caccia evocando gli animali con riti finalizzati. A proposito delle pitture rinvenute nelle grotte di Lascaux, nella Francia sud-occidentale, 2 Secondo gli antropologici, quasi sicuramente furono le popolazioni dell’Asia Minore (che si spostarono in Europa durante il periodo interglaciale) a portare con loro la cultura che costituisce la premessa per una creazione artistica.


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Riproduzione di un villaggio camuno. Questo disegno è una riproduzione esatta che rappresenta la mappa di un villaggio camuno del I millennio a.C. tratta da una roccia incisa in Valcamonica: si distinguono i campi coltivati, gli animali nelle stalle e i sentieri. L’organizzazione del territorio è stata ben registrata sulle rocce attraverso numerose rappresentazioni planimetriche: vere e proprie mappe di territori più o meno estesi e di insediamenti soprattutto ad uso abitativo. Questa raffigurazione è della zona di Bedolina e riproduce quasi con assoluta precisione il territorio reale che si estende ai suoi piedi nel fondovalle: campi, strade, sentieri, ubicazioni di villaggi e il ponte sul fiume.

l’abate Lamozi (cui si devono osservazioni particolarmente acute e tuttora condivise dagli antropologi moderni) fece notare che le scene di caccia ai mammut ritraevano spesso anche le donne e che i grandi animali erano sovente raffigurati senza occhi od orecchie e con zampe appena stilizzate: egli riteneva che questi fossero stati così rappresentati per invocare ‘facili’ prede. Le suggestive e imponenti pitture di Altamira e comunque tutte le raffigurazioni rupestri (più o meno spettacolari) non sono da ritenere solo espressioni veriste e realiste quanto, piuttosto, immagini nelle quali l’animale e lo stesso uomo ivi dipinti illustrano soprattutto concetti metafisici astratti come il futuro, il coraggio, la morte, ecc. In questo senso, quelle pitture non sarebbero espressioni di ‘arte per l’arte’ ma addirittura la rappresentazione di determinati atteggiamenti dello spirito. Pertanto sembra evidente che la descrizione del mondo animale non poteva essere dovuta solo all’ispirazione di pochi individui ma era intimamente legata alla struttura sociale e religioso-metafisica di una comunità. È interessante notare che, in molte pitture primordiali, le figure umane sono ritratte ‘maldestramente’ mentre gli animali sono raffigurati con grande cura e maestría. Probabilmente gli uomini primitivi non amavano riprodurre la loro figura come se questo fatto li potesse consegnare nelle mani di un possibile nemico; al contrario, il maggior impegno nel raffigurare gli animali permette di ipotizzare che essi riconoscessero loro una


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Arte rupestre in Val Camonica. Nell’arte rupestre della Val Camonica vengono spesso rappresentati i carri trainati da figure in coppia; prima buoi, poi cavalli. Si ritiene che questi carri non riproducano solo veicoli di uso comune (anche se ci sono sorprendenti analogie con i carri tuttora in uso nella Valle), ma erano probabilmente anche collegati a manifestazioni rituali. In questo caso si tratta di un carro a ruote piene, trainato da una coppia di buoi: le ruote sono raffigurate ai lati di esso, prive di indicazione dei raggi.

dimensione soprannaturale; assieme all’uomo, dunque, i mammut, le renne, le alci, i buoi muschiati, i bisonti, le antilopi e i cavalli erano parte di un universo panteistico. Con il Neolitico si manifestò un grosso cambiamento per lo sviluppo successivo della civiltà: da cacciatore e raccoglitore l’uomo divenne gradualmente ‘produttore’ dando l’avvio allo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento, abbandonando lo stato nomade e diventando stanziale; si ebbe così la fine dei grandi flussi nomadici. Gli agricoltori-allevatori si insediarono definitivamente nelle terre coltivate o dove pascolavano le loro mandrie e crearono i primi villaggi con strutture abitative fisse, che coincisero con l’inizio di una esplicita socialità. Per soddisfare le esigenze delle nuove comunità si rese necessaria una suddivisione dei ruoli e dei compiti all’interno della struttura ed è ragionevole pensare che chi svolgeva mansioni di maggiore importanza acquisisse una autorità sugli altri: praticamente iniziò a delinearsi una vera e propria gerarchia sociale. Anche la comunicazione orale e il linguaggio divennero più complessi e articolati. Questo portò a un cambio sostanziale del rapporto fra l’essere umano e gli esseri animali. In un primo tempo, gli animali erano l’oggetto delle caccie e l’uomo ne conosceva molto bene la forza, le abitudini e il valore nutritivo e si attrezzava per cacciarli; successivamente egli diventa pastore e l’animale diviene suo alleato. Ciò significa che egli stesso sceglie determinate specie e comincia ad allevarle per potersene nutrire senza sottostare alle incognite e ai capricci dell’ambiente esterno; non attinge più alla naturalezza prelevandone selvaggina

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Cinghiale aggredito dai cani. Compagno di cacce da millenni, il cane, analogamente al lupo, è un animale gregario con forte sensibilità gerarchica che riconosce all’uomo il ruolo di capo branco cui obbedire: l’immagine illustra una placchetta in bronzo fuso realizzata alla fine del XIX secolo, di cultura forse francese, che rappresenta la scena cruenta di una muta di cani che aggredisce un grosso cinghiale.

ma addomestica alcune bestie, le alleva nei pressi della sua casa, a volte condividendone perfino gli spazi. In questa fase pastorale, alcuni animali si avvicinarono moltissimo all’essere umano e cominciarono a servirlo: oltre che per nutrirsene, l’uomo li usò per eseguire lavori di fatica ma con rispetto e apprezzamento. In particolare, alcuni esseri addomesticati divennero compagni dell’uomo e lo aiutarono consapevolmente: allora il lupo si fece cane, cane da caccia, cane da guardia, cane compagno, ecc. In questo senso è interessante riportare il pensiero di Roberto Marchesini, tratto dal suo Manifesto teorico di zooantropologia “La zooantropologia sottolinea l’importanza di differenziare l’utilizzo performativo dell’animale, ovvero la richiesta di prestazioni (implicito anche nella definizione di ‘animale da affezione’), dalle contribuzioni referenziali o utilizzo della relazione. I contributi performativi (zootecnici) scaturiscono dall’ipotesi di utilizzo dell’animale (‘animale da’) e dalla sua trasformazione in oggetto-strumento per l’uomo. I contributi referenziali (zooantropologici) esitano dal tipo di relazione che si viene a instaurare tra il partner umano e il partner non umano. Quindi le attività e i prodotti della zooantropologia applicata sono di natura diversa dalle attività e dai prodotti di ordine zootecnico ossia impostati su: 1. indirizzi di prestazioni ritagliati dalla complessità performativa del non umano; 2. l’utilizzo dell’animale come prodotto, materiale o performer. Altra differenza fondamentale è tra l’utilizzo sostitutivo dell’animale per colmare una


mancanza di relazioni umane (surrogazione) o per emendare un’incapacità di relazionarsi con l’essere umano (vicarianza) e l’approccio zooantropologico di valorizzazione della diversità e peculiarità dell’eterospecifico” 3. Fatta questa precisazione, per comprendere taluni comportamenti umani e la nascita di determinate usanze caratterizzate dall’utilizzo di oggetti di origine animale, è importante ricordare che, nelle popolazioni antiche, la superstizione era il più logico strumento con il quale l’uomo riusciva a spiegare tutti gli accadimenti che non era in grado di comprendere e di ricondurre ad altre cause. Molto sentite erano, ad esempio, le attenzioni funerarie: le tombe si sono infatti rivelate il luogo preferito e più adatto allo sviluppo e all’uso di mezzi apotropaici, con lo scopo di difendere il defunto nel suo auspicato accesso all’aldilà. Per allontanare le forze malvagie, per sconfiggere il malocchio e perfino per tenere lontane le avversità metereologiche, gli uomini ricorrevano (come ricorrono spesso ancora oggi... sic!) all’uso di amuleti. L’etimo del termine amuleto è incerto. Potrebbe derivare dal latino amulìtu(m), derivante a sua volta dal termine ‘amoliri’, allontanare (o dal greco αμυλοv (amulon) che letteralmente significa amido, ma in antico indicava una sorta di focaccia che si soleva offrire sugli altari o sulle tombe per rendersi propizi gli dei e gli spiriti dei trapassati e gli spiriti dei trapassati). Nonostante si attribuiscano diverse origini a questa parola (da quella araba ‘Hamala’ o ‘Jamalet’, a quella latina usata per la prima volta da Plinio il Vecchio nel 50 d.C. amuletum, il significato che ne viene tramandato è lo stesso: ‘portare con sé’. L’Amuleto, infatti, è un piccolo oggetto che, indossato, preserva da qualsiasi tipo di malattia o di influsso maligno. Esso quindi svolge un compito ‘difensivo’. Amuleti contro ogni fenomeno riconducibile alle sfere del sortilegio s’incontrano presso quasi tutte le culture, siano esse nel periodo iniziale della civiltà (i primitivi), nella fase intermedia o, addirittura, nella fase della piena civilizzazione; in quest’ultima, però, essi sono maggiormente utilizzati nelle classi sociali umili e proliferano soprattutto negli ambienti caratterizzati da pregiudizi e ignoranza. Riportiamo alcuni esempi nelle diverse categorie: gli amuleti costituiti dai denti di animali erano considerati dotati di potenti virtù apotropaiche e preservavano dalla carie; i ciarlatani Roberto Marchesini, Manifesto teorico di zooantropologia. Gli zooantropologi sostengono che non abbia senso dire che ‘l’animale fa bene’ (quasi fosse una vitamina da assumere) e nemmeno che ‘la relazione con l’animale fa bene’ ovvero che ogni incontro-confronto con l’alterità sviluppi dei benefici. Per la zooantropologia, la beneficialità referenziale si realizza solo se vi è il riconoscimento al non-umano dei tre predicati di alterità, ha un connotato di reciprocità tra i due partners di relazione, ha un profilo specifico che la differenzia dalle relazioni interumane e dai processi proiettivi, ovvero è relativa alla configurazione dimensionale assunta dalla relazione.

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� Amuleti costituiti da unghie e zanne. I denti nell’antichità sono spesso stati indossati come ciondoli.

Plinio informa che un dente di lupo, portato al collo di un bimbo in direzione orizzontale fosse un mezzo effficacissimo contro il mal di denti; per lo stesso motivo era portato anche dagli adulti. In talune zone, ancora oggi, la superstizione fa credere che portare addosso i denti di lupo aiuti ad allontanare la paura. Nelle Indie, il dente di tigre protegge dai démoni delle bestie e degli uomini. Oltre a ciò, portare un dente oppure un artiglio di tigre conferisce il coraggio, la forza e la scaltrezza della tigre stessa, e tanto i nemici terreni quanto quelli soprannaturali vengono così messi in fuga. Si crede inoltre che amuleti con unghie di tigre, come questo in oro riportato in figura, possano trasferire a chi li possiede le stesse prodigiose qualità dell’animale e, nello stesso tempo, difendere da influenze malvagie.

del 1700 affermavano che i denti di persone morte, oltre a preservare dalla carie, davano sollievo in caso di odontalgia se strofinati sulla parte infiammata; l’opercolo della Astrea Rugosa, chiamato ‘occhio di Santa Lucia’ (per la curiosa somiglianza con l’occhio umano) si ritiene che abbia un potere taumaturgico su orzaioli, calazi, altre malattie oftalmiche e, comunque, contro il malocchio; la radice della mandragora a forma di cuore e di cornucopia (usata anche per preparare pozioni d’amore e filtri magici) veniva venduta dagli empirici e dai ciarlatani nel 1700 a prezzi esorbitanti ma già nel 1800 il suo uso si ridusse drasticamente per l’avvento della moderna farmacologia. Il curioso amuleto detto ‘gemma gnostica’ è costituito da una pietra particolare, molto dura, su cui venivano incise, da una parte, figure fantastiche e mostruose e, dall’altra, formule magiche rivolte agli arcangeli, dettate da un mago. L’infinita varietà delle tipologie conosciute si differenzia per materia e per forma, per caratteri e attributi, evidenziando le stesse finalità: il profondo desiderio dell’uomo di orientare a proprio vantaggio le forze protettrici. In questo senso, varie sono le classificazioni proposte dagli studiosi. Alcune si basano sull’esame esteriore dei singoli oggetti: sulla natura o sulla materia (amuleti zoologici, botanici, minerali ecc.), sulla forma (amuleti naturali e artificiali, semplici e comples-

• Amuleti in corallo. Per la natura, la forma e il colore, il corallo sembra ricongiungere prodigiosamente i tre regni animale, vegetale, e minerale. Nei secoli a questo materiale di provenienza animale sono state attribuite virtù di potentissimo amuleto: esso è infatti considerato un valido talismano contro il malocchio ed esprime la sua forza contro ogni tipo di incantesimo. Secondo Leonard Vair, nel XVI secolo, al corallo era riconosciuta la capacità di svelare sve in sogno la conoscenza di quello che sarebbe stato il futuro coniuge. Le sue prerogative esclusive, il colore demoniaco e l’origine mitologica contribuirono a formare il culto del corallo che era prezioso quanto l’oro ma più importante di questo, perché al valore venale si sommava il valore apotropaico. Nella simbologia cristiana il corallo è de definito da Giorgio Filocamo «..Panacea di tutti i mali, antitodo supremo contro le avversità del maligno, dono gratuito di Dio all’umanità...». L’amuleto in corallo e metallo riportato nell’immagine è di Torre del Greco (Napoli), XIX secolo, Collezione privata Fratelli De Simone.


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si) o sull’uso e l’effetto (protettivi, terapeutici, fisiologici, erotici, apotropaici). Varie sono anche le teorie e le opinioni espresse intorno a questi oggetti per spiegarne l’origine: teorie e ipotesi gravitano attorno al culto dei morti, agli animali, alle piante, al simbolismo e al feticismo. In linea generale possiamo affermare che, per amuleto, si intende un oggetto di origine naturale (pietra, dente, osso, ecc) mentre il talismano è un oggetto configurato dall’uomo. Esiste però anche una distinzione etnografica che sottolinea la separazione fra amuleti e talismani. I primi hanno funzione apotropaica, cioè allontanano le insidie, proteggendo da malocchio, jettatura, malefici e fenomeni atmosferici rischiosi e hanno, inoltre, una funzione terapeutica sulle malattie; sono un mezzo magico di protezione passiva. I talismani, invece, sono destinati a trasmettere certe qualità (ad esempio accrescono coraggio o saggezza) e a propiziare effetti positivi attirando la buona sorte e procurando benessere, ricchezza e fecondità. Conferiscono al possessore poteri magici attivi (Cerulli, 1991). Erano amuleti le figurine zoomorfe egiziane e di alcune antiche popolazioni, gli oggetti a forma di freccia conservati nei tumuli di sepolture in numerose civiltà arcaiche così come quelle italiche; sono amuleti i pendenti taiganja degli indonesiani dell’isola di Sulawesi dalle intricatissime simbologie e con poteri soprannaturali. Gli Akan del Ghana portano monili formati da numerosi amuleti d’oro raffiguranti simboli magici. Talismani sono invece i feticci usati da molti gruppi in Zambia e in Africa Occidentale dalle donne sterili per procurarsi la fertilità; le collane di ossa degli Andamanesi trasferiscono poteri dai defunti ai vivi; le le teste di animale appese al collo dei guerrieri Naga rappresentano la ‘forza vitale’ e garantiscono il benessere della comunità e la fertilità della terra; in Cina un oggetto in figura di cervo o di altro animale selvatico è considerato un talismano per assicurarsi il successo in imprese che esigono studio (Villiers, 1989).

• Sonagliere apotropaiche re-

alizzate con unghie di capra (Ande centrali). Entrambi questi oggetti “idiofoni”, di cultura tupí-guaraní della metà del XX secolo, sono ottenuti annodando le unghie scarnificate di capre su un anello realizzato con tessuti multicolori. Tali sonagliere di natura cornea, indossate sul braccio o sulla gamba e agitate con ritmici movimenti, cozzando emettono caratteristici rumori; vengono solitamente usati nei balli e nelle cerimonie tribali con funzione apotropaica.

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In altri casi, la doppia funzione è combinata negli stessi oggetti che contenevano alcuni elementi tipici propiziatori, in relazione ai materiali impiegati nella lavorazione (osso, corno, giada, metalli), ai loro colori (il rosso del corallo, il bianco dei cristalli, il nero del • giaietto o l’ambra nera), alla loro forma simbolica (il serpente, la testa alata, la luna crePendente in madreperla scente, la rana, la chiave) e alle formule magiche o sacre impresse. (Giordania). Come abbiamo detto, gli amuleti primitivi erano oggetti che provenivano direttamente L’interessante monile (ciondolo o dalla natura; si trattava pertanto di parti di piante, minerali e animali mentre, successivago di collana) è stato realizzato da vamente, furono riproduzioni artificiali simboliche degli stessi. Quelli provenienti dagli un artigiano (di animali solitamente consistevano in qualche loro parte specifica ed erano utilizzati per cultura romana?) operante presso richiamare i particolari attributi fisici che essi possedevano, o per la loro rarità. una comunità della Giordania Il cacciatore primitivo si adornava con parti delle fiere uccise (artigli, zanne, pelle, peninterna tornendo ne) o addirittura con quelli del nemico abbattuto (scalpo, denti, ossa e frammenti di osil guscio in madreperla della sa, capelli ecc.), attribuendo ai suoi trofei carattere magico o protettivo. conchiglia di un mollusco in modo In tempi successivi, la tradizione volgare tenne in particolare considerazione alcuni anida evidenziarne mali per la loro efficacia profilattica e antimalefica; più in particolare, alcuni loro organi e valorizzarne l’elegante o parti vennero impiegate a scopo salutare come, ad esempio le zanne e la pelle del luandamento a spirale. Dotato di un foro nella parte con il diametro più ampio, esso era verosimilmente appeso a un filo con funzione di amuleto.

po (le prime si portano entro castoni d’oro o d’argento, l’altra in piccole strisce); le estre-

mità unghiate e ciuffetti di peli del tasso; le corna e il cosiddetto ‘osso del cuore’ (che è la degenerazione calcarea di una valvola cardiaca del cervo) contro il mal di cuore; le difese o le mascelle del cinghiale; le corna del muflone; le unghie della volpe femmina o la coda e il fegato del maschio contro la tisi polmonare; le spoglie, lo scheletro, i denti della serpe (purché strappati al rettile vivo) contro la quartana; le zanne del cane, dell’orso e del cinghiale come dentaruoli; gli speroni del gallo, le chele del gambero marino e, infine, svariate conchiglie. Tra questi non mancano gli animali fossili come, ad esempio, gli avanzi del dentalium elephantinum (col nome generico di ‘ossi strilloni’) o i denti dello squalo o dell’alce comune (Cervus alces), come il corno dell’unicorno (in realtà il dente del narvalo) o come le ‘unghie della gran bestia’, un essere immaginario simile a un drago. Per quanto riguarda invece gli amuleti artificiali (talismani), essi erano preparati e confezionati secondo il tipo fissato dalla tradizione locale talvolta imitando i modelli naturali, ovvero impiegando la ‘materia’ adatta. Ricordiamo i ‘cornetti’ riprodotti in varie sostanze (in osso, in corno, in corallo, in ferro, in argento, in oro e, oggi, perfino in plastica), i denti (molto adoperati in Africa), il pesce (tipico della Manciuria), il maiale (utilizzato nella Baviera meridionale) o, ancora, il cavalluccio marino (in voga nel Napoletano).


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• Scarabeo. Lo scarabeo è uno degli amuleti più po-

tenti dell’Antico Egitto: esso rappresenta il dio Kephera, il gigantesco scarabeo stercorario che ha il compito di spingere il sole nel cielo. Piccole statuette e spille a forma di scarabeo erano utilizzate come portafortuna e scaccia-malocchio. Questo amuleto veniva posto anche nei sarcofagi dei defunti, in quanto li proteggevano da Ammit il Divoratore, il terribile mostro (un incrocio tra un leone, un ippopotamo e un coccodrillo) che custodiva la bilancia della giustizia nell’aldilà.

È evidente che la maggior parte degli amuleti e dei talismani ancora in voga nelle nazioni semicivili o civili sono il retaggio di tempi remoti. Peraltro, non pochi di quelli contemporanei esistevano già nella prima e nella seconda epoca del ferro: questo può significare che, insieme con essi e attraverso le vicende dei popoli lungo i secoli, siano perdurate anche le superstizioni e le pratiche relative. Secondo il filosofo e linguista francese Charles de Brosses, l’identità morfologica implica identità psicologica e fu proprio lui, nel 1760, a utilizzare per la prima volta il termine fétichisme, feticismo che, in etnologia, oggi definisce una forma di religiosità primitiva che prevede l’adorazione di feticci, cioè di oggetti (spesso manufatti antropomorfi o zoomorfi) ritenuti dotati di poteri magici. Gli antropologi evoluzionisti hanno sempre considerato il feticismo come uno degli stadi più primitivi della religiosità umana, ritenendolo sostanzialmente una variante dell’animismo: in realtà si è visto come le due pratiche religiose si distinguano in seguito sotto numerosi aspetti. Il termine ‘animismo’ fu utilizzato per la prima volta in campo medico nel 1720 dal chimico e biologo Georg Ernst Stahl; tuttavia fu solo nel 1871 che l’espressione venne utilizzata in senso antropologico da Edward Tylor per definire una forma primordiale di religiosità basata sull’attribuzione di un principio incorporeo e vitale (anima) a fenomeni naturali, esseri viventi e oggetti animati: egli si riferiva a tutto ciò che, per le popolazioni primitive, incideva direttamente sulla vita e che era essenziale per la loro sopravvivenza, quindi, ai prodotti alimentari derivanti dalla caccia e dalla raccolta, ai materiali per costruire utensili o monili, ai fenomeni atmosferici e alla morfologia stessa del territorio. La gran parte di quei prodotti era riconosciuta come ‘animata’ e progressivamente associata a forme di venerazione, spesso direttamente funzionali alla buona riuscita delle azioni quotidiane per vivere4. 4 Da questa concezione fondamentale si passa con facilità alle illazioni e ai costrutti propri di una mentalità infantile, che avrebbe portato i primi uomini ad attribuire a tutto il mondo circostante quegli spiriti-anima che essi avevano scoperto in sé: di qui l’animazione di fiumi, alberi, ecc., ossia la formazione di una religione animista. Una simile religione permetteva all’uomo di trattare con le cose inanimate come se fossero esseri viventi, dandogli così l’illusione di poter influire in qualche modo sulla natura. Su questo tema confrontate la ‘teoria tyloriana’ sull’animismo.

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Amuleti cinesi di giada in forma di animale. Gli oggetti in questione appartengono a una vastissima produzione di amuleti che gli artigiani cinesi realizzarono, con funzione apotropaica, a partire dal IV millennio a.C. nelle diverse tipologie di giada o di altre sostanze più o meno pregiate (corno, legno e pietre) disponibili localmente. Gli animali più frequentemente rappresentati, con evidente riferimento alle loro virtù, sono la cicala, il pipistrello, i cavalli e, curiosamente, le larve di alcuni insetti.

Secondo Giuseppe Bellucci, studioso di etnografia, gli amuleti dei popolani equivalgono ai feticci dei primitivi (Bellucci, 1908). Approfondendo lo studio sulle origini degli amuleti e raffrontando quelli elaborati dagli africani con gli amuleti delle attuali popolazioni di talune regioni italiane, egli dimostrò come agli uni e agli altri venissero attribuiti poteri preventivi, non curativi, spiegabili alla luce della concezione animistica di una popolazione che teme di essere sopraffatta e vinta da fenomeni (esseri e cause) superiori. La varietà dei mezzi apotropaici e degli amuleti è estremamente vasta e, forse anche per questo, non ancora sufficientemente studiata. In linea generale si può dire che, in passato, qualunque oggetto poteva assumere un valore apotropaico a secondo del volere o


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Amuleto triangolare bifacciale cinese. L’amuleto triangolare bifacciale realizzato in Cina in periodo neolitico (circa 4.000 anni a.C.), reca agli angoli la protome di altrettanti animali: un’aquila, un montone e un pipistrello.

dell’intenzione di chi lo adoperava; è però evidente che solo determinati oggetti erano preferiti a priori, e tra questi c’erano senz’altro alcuni animali o parti di essi 5. Un ulteriore e significativo aspetto del rapporto uomo-animale legato alla superstizione è quello della divinazione. Il termine deriva dal latino divinàre, a sua volta derivante da divinus (che appartiene a dio – divus, cioè ‘divino’). In forma di sostantivo il termine divinator ha significato di ‘indovino, che predice’) e si riferisce alla capacità di predire il futuro secondo la ispirazione del dio che consente di conoscere il futuro. La divinazione è la facoltà di predire il futuro mediante segni ritenuti di origine divina; si tratta di una attività di natura religiosa che consiste nel predire fenomeni o eventi grazie a facoltà particolari che superano le normali modalità del conoscere e che non sono percepibili dai sensi né spiegabili tramite il ragionamento o il calcolo. L’antichità classica conobbe la divinazione induttiva e intuitiva. Secondo la distinzione di Cicerone6 la divinazione si distingueva in naturalis e artificialis: la prima riguardava i segni casuali che si manifestavano indipendentemente dalla volontà dell’osservatore; la seconda, invece, riguardava conoscenze cercate dall’osservatore medesimo. La ‘mantica’ induttiva (μαντική ἔντεχνος o τεχνική, lat. divinatio artificiosa) era fondata sull’interpretazione di segni obiettivi e richiedeva il possesso di una vera e propria ‘scienza’ da parte dell’interprete; la ‘mantica’ intuitiva (μαντική ἄτεχνος o ἀδίδακτος, lat. divinatio naturalis) era, invece, fondata sull’ispirazione fornita direttamente da entità superiori attraverso un profeta. A questo ambito vanno ricondotte anche quelle pratiche divinatorie i cui segni non sono offerti dal 5 In merito alla ‘perfezione’ della natura e alla qualità intrinseca della bellezza di alcuni oggetti di origine animale, dice Alessandro Ubertazzi “In realtà, questi oggetti particolari costituiscono una sorta di accelerazione della precisione che è ‘dentro la materia’, spesso nascosta ai nostri occhi. […]La loro intrinseca armonia rivelava desiderabili geometrie che persino l’uomo primitivo aveva colto e capito. Effettivamente, gli artigiani del passato, che avevano un occhio particolarmente raffinato, hanno sempre cercato una fonte autorevole di ispirazione nelle forme naturali che appaiono e che sono perfette. In realtà, l’occhio umano è davvero intrigato da ciò che è perfetto e puro come la semplicità delle forme geometriche: l’armonia della natura e la conseguente bellezza inducono peraltro nei creativi di tutti i tempi un irrefrenabile desiderio di perfezione”. 6 Marco Tùllio Ciceróne, De divinatione, I, 6, 11; II, 11, 26

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Astragali. Gli astragali sono stati una componente essenziale di molti giochi antichi. L’Αστραγαλισμοσ: era giocato con quattro elementi con valori diversi su ogni lato; il πευτελιξοι era giocato con cinque elementi, simultaneamente gettati in aria per essere presi sul dorso della mano. Nell’astragalo a destra, borchie di piombo indicano il valore del singolo lato.

• Astragalo ovicaprino. Ciascuno dei sei lati dell’astragalo ha un nome e un valore speciale; in alcu-

ni casi le quattro facce principali sono equiparate ai punti cardinali. Più comunemente, i sei lati sono identificati con gli animali: • lato dorsale-pecora: lato arcuato; • lato ventrale-capra: lato con l’incavo tondo; • lato laterale-cavallo: lato con un bordo pronunciato; • lato mediale-asino o mulo: lato più piatto; • punta posteriore-aquila cornuta: lato con due estensioni tipo corni (in alcuni giochi questo è il migliore dei sei lati; • punta anteriore -cane, coda o tigre a secondo delle zone: lato con le due estremità arrotondate (in alcuni giochi, questo è il peggiore dei sei lati). L’immagine riporta le 4 facce principali chiamate, da sinistra a destra, lato pecora, lato capra, lato cavallo, lato asino.

mondo naturale ma deliberatamente provocati per sortes, con uso di dadi, astragali o altri oggetti, a ogni gittata o estrazione dei quali corrispondeva un responso7. La cultura della divinazione persiste nelle espressioni usuali come, ad esempio, ‘di buon augurio’ o ‘di buon auspicio’ che rivelano espliciti legami con le antiche attività di preveggenza. Il vocabolo ‘augurio’, infatti, deriva dal latino augurium e indicava il presagio positivo tratto dal comportamento degli uccelli, dalla cui interpretazione gli áuguri e gli arúspici dell’antica Roma potevano conoscere la volontà degli dei circa il futuro. Allo stesso modo, il termine ‘auspÍcio’, dal lativo avis ‘uccello’, è riferito all’osservazione del volo degli uccelli. Esistevano dei veri e propri Libri augurali o Commentarî degli áuguri che contenevano l’elenco degli uccelli augurali (divisi in oscines e in alites: dei primi si osservava la voce, dei secondi il volo), le norme per la interpretazione dei loro segni e la descrizione del rituale per distinguere gli auspici favorevoli da quelli infausti, che dipendevano anche dalla direzione da cui l’uccello appariva. Si teneva perfino conto del

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Enciclopedia Italiana, 1932, di U. Fr., A. N. M., U. Fr., R. C.)


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• Il fegato di Piacenza (o fegato etrusco) è il modello bronzeo di un fegato di pecora risalente al I-II secolo a.C. con iscrizioni etrusche. Questo esemplare (rinvenuto a Settima, frazione di Gossolengo nel Comune di Piacenza e ora conservato al Museo Civico di Piacenza) riporta quaranta iscrizioni incise sulla sua superficie ed è suddiviso in sedici regioni marginali che rappresentano la ripartizione della volta celeste (secondo gli etruschi): ognuna di queste riporta il nome di una divinità. modo con cui gli uccelli ingerivano il cibo e delle briciole che cadevano a terra. Divinatore era, perciò, colui che poteva decodificare i messaggi divini attraverso la zoomanzia. In questa forma di divinazione, l’animale diviene, di volta in volta, soggetto (attraverso l’osservazione e l’interpretazione del suo comportamento), ovvero oggetto (quando costituisce, con il proprio corpo, il supporto fisico del segno): in questo senso, possiamo citare la pratica dell’esame delle viscere e, soprattutto, del fegato della bestia sacrificata (extispicina ed epatoscopia) la lettura delle fenditure dell’osso (osteomanzia e scapulomanzia) o del carapace della tartaruga (cheloniomanzia) (Marchesi, 2008). Fra gli altri riti conosciuti possiamo ricordare, ad esempio, l’aigomanzia (si gettava dell’acqua addosso alla capra sacrificale presso l’oracolo di Apollo a Delfi), l’amnoscopia (l’osservazione delle viscere di un agnello sacrificato), l’apatomanzia (l’osservazione di un avvenimento o l’incontro, specialmente se il primo della giornata, di specifici animali uscendo di casa), l’astragalomanzia con l’uso degli astrágali, gli ossi che venivano gettati in aria per poi osservare la configurazone che assumevano (antenati dei nostri dadi, sulle loro facce infatti potevano essere scritti numeri o lettere dell’alfabeto), la cocchigomanzia (basata sul canto del cuculo, pratica tutt’ora in uso nelle nostre campagne), la cefalomanzia (si utilizzavano teste d’asino ma anche di pecora o cavallo, messe su una pietra sotto o intorno alla quale veniva acceso un fuoco; durante la cottura, mentre si ponevano le domande, si osservavano i movimenti dei muscoli e degli organi, in base ai quali si traevano i responsi), la cinomanzia (osservazione del comportamento dei cani o dei loro movimenti e ascolto dei loro latrati). Oggi le cose non sono molto cambiate e ancora si continua ad essere affascinati da ‘supporti psicologici’ e portafortuna di ogni tipo oltre che dalla abitudini scaramantiche. Nel nostro Paese è ancora diffusa la credenza che un gatto nero che attraversi la strada o l’ululato notturno di un cane segnalino qualche inevitabile, imminente sventura.

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interpretazione simbolica e artistica

Fin dal principio di questa trattazione, è apparso necessario definire il contesto culturale e storico entro il quale il rapporto uomo-animale si colloca nel tempo e, parallelamente, l’ambito che caratterizza la nascita e lo sviluppo di forme zoomorfe negli oggetti di uso comune: questa ricerca aveva infatti l’obiettivo di indagare le dinamiche che hanno portato l’uomo all’utilizzo delle suddette forme e, quindi, l’associazione di queste ad altrettanti oggetti, fino alla sedimentazione delle stesse in un linguaggio formale divenuto comune e riconoscibile. In passato, nessuna società è stata indifferente al rapporto uomo-animale: a seconda delle epoche, dei contesti e degli ambienti, alcuni aspetti di tale rapporto sono stati privilegiati rispetto ad altri in modo più o meno durevole e costante. In tutte le culture antiche gli animali hanno comunque rivestito un’importanza particolare per il valore simbolico-dimostrativo. L’uomo osserva l’animale e legge il suo comportamento traendone insegnamenti sul modo di vivere in armonia con la natura e, allo stesso tempo, impara a gestire i propri istinti e a incanalarli in maniera utile a sé. Non solo, l’animale diventa spesso oggetto delle proiezioni della società: gli si attribuiscono vizi e virtù, capacità e atteggiamenti tipicamente umani in una forma di sublimazione che permette all’uomo di osservare se stesso attraverso ciò che è altro da sé (Cerulli, 1991). Pertanto l’uomo trasforma gli animali in altrettanti simboli. Il termine simbolo (dal greco συν βαλλο cioè ‘metto assieme’) è ciò che permette di unire un elemento oggettivo ed esteriore (in questo caso l’animale) con un elemento interiore, come uno stato d’animo, un’attitudine o un sentimento. La cultura greco-romana esprime alcuni esempi significativi di questa relazione: essa, infatti, ha sentito il bisogno di ricorrere ai prodotti e ai servigi degli animali accordando loro

• Allegoria della costanza. La

placchetta rotonda e convessa realizzata in bronzo fuso all’inizio del XVI secolo rappresenta un toro che avanza e, sulla destra, un leone che scende da un’altura con fare aggressivo; un cartiglio appeso a un nastro svolazzante reca la scritta CONST / ANTIA. Come evidenziato dal cartiglio (che richiama quelli disegnati da Leonardo per il De divina proportione di Luca Pacioli), la scena costituisce un’allegoria della virtù della costanza di cultura malatestiana.


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• Cristo come Pellicano che nutre i suoi

piccoli. Il piccolo rilievo in bronzo rappresenta un pellicano di profilo nell’atto di squarciarsi il petto per nutrire i suoi tre pulcini entro un nido. Fra le numerose simbologie del Cristo che si sono affermate nei secoli, un posto significativo è occupato proprio dal pellicano perché, secondo una credenza popolare, l’esotico animale (che, come è noto, rigurgita il cibo già da lui masticato nella bocca dei piccoli) sarebbe addirittura solito squarciarsi il petto per sfamare i pulcini come Cristo attraverso la croce salva il popolo di Dio.

Medusa in pietra lavica e corallo. Il piccolo rilievo in pietra lavica e corallo scolpito su un supporto in bronzo a cera persa dall’orafo artista Stefano Alinari raffigura Medusa; i serpenti che ne costituiscono la capigliatura sono realizzati in corallo, con riferimento alla nota leggenda mitologica secondo la quale il sangue della testa recisa di Medusa si sarebbe trasformato in quel materiale di colore rosso vivo.

uno spazio preponderante nelle arti e nel pensiero religioso e simbolico, lasciandone innumerevoli tracce nelle abitudini e negli usi correnti. Per la maggior parte, le testimonianze testuali e iconografiche che documentano l’opinione degli antichi nei confronti degli animali ci sono purtroppo giunte poco integre. Molte di esse si presentano sotto forma di aneddoti, con connotazioni pittoresche, divertenti o commoventi; questo fatto, però, ci consente comunque di intuirne il senso profondo o di trarne delle considerazioni generali. Le indicazioni più numerose pervenuteci e, in generale, le più dettagliate riguardano animali sia selvatici sia domestici. In principio, gli esseri selvatici (appartenenti ai diversi ordini del regno animale) sono stati soprattutto considerati come ausili indispensabili nei lavori faticosi (trasporto, trazione, ecc.) e apprezzati come veri e propri collaboratori; successivamente, dopo averli eventualmente addestrati e addomesticati, essi sono stati scelti come compagni per allietare la vita di coloro che ne disponevano. Il canis lupus familiaris discende dai lupi grigi ed è stato addomesticato circa 14000 anni fa; da quel momento in poi è diventato il fedele compagno di vita dell’uomo (come, ad esempio, i cani dell’isola di Melita, che si allevavano all’unico scopo di dilettare le padrone e chi non lavorava) ma anche ausilio nelle attività quotidiane (tra cui ricordiamo Argo, il cane da caccia di Ulisse, mentre Capparo fu il cane da guardia del santuario di Esculapio ad Atene). L’associazione più consueta del cane presso gli antichi è quella con il regno dei morti; probabilmente per la sua indiscutibile fedeltà, si credeva che questo animale potesse accompagnare l’uomo anche dopo il suo trapasso. Da qui nasce il mito di Cerbero, la cui cattura costituì una delle dodici fatiche di Ercole. Il cane fu un animale sacro a numerose divinità classiche: ad Esculapio, dio greco della


interpretazione simbolica e artistica

• Ercole strangola i serpenti. L’elegante rilievo in bronzo risale all’inizio del XVI secolo ed è attribuito a Galeazzo Mondella (detto il Moderno): in esso, Ercole bambino, nudo, visto di fronte, volge il capo a sinistra: al collo egli porta un leggero mantello ed è rappresentato nell’atto di strozzare due grandi serpenti che si divincolano attorcigliandosi. Secondo la leggenda, si tratta della prima manifestazione di forza di Ercole. Quando era ancora in culla con il suo fratellino, Giunone, adirata con Giove, aveva mandato due serpenti enormi per uccidere entrambi ma il piccolo Ercole li afferrò e li strozzò.

medicina (grazie alle sue presunte capacità guaritrici), ad Artemide (in quanto fedele compagno di caccia) ma anche a Marte, a Mercurio (e ad altre divinità minori). Successivamente al Medioevo, questo animale diviene simbolo di fedeltà coniugale, di amicizia, feudale e, perfino, di fermezza nella fede cristiana. Ai nostri giorni, molti cani sono diventati eroi del grande schermo come simbolo di fedeltà e di lealtà, basta ricordare, tra i più conosciuti, Lessie e Rin Tin Tin; altri, invece, hanno appassionato generazioni di grandi e piccoli raccontando, a volte con ironia, altre con disarmante candore pregi e difetti dell’uomo attraverso i fumetti, come Pluto o Snoopy. Com’è facile immaginare, in alcuni momenti storici anche i cavalli, occuparono un ruolo privilegiato nei rapporti con l’uomo: ricordiamo principalmente Bucefalo (particolarmente caro ad Alessandro Magno) e Boristene (la cavalcatura preferita dell’imperatore Adriano). E ancora, nell’antica Roma non possiamo non ricordare Caligola, il quale amava tanto i cavalli che passò alla storia, non tanto per le sue gesta, quanto per avere nominato console proprio il suo destriero. Napoleone viene spesso mostrato nei dipinti in sella al suo rinomato cavallo bianco; sembra che l’Imperatore francese, nonostante possedesse centotrenta caval-

� Medaglia per il Kennel Club Canino al-

la Esposizione Internazionale di Milano del 1923. La simpatica medaglia, scolpita da Giovanni Battista Quadrone per l’esposizione canina internazionale di Milano del 1923, sembra quasi voler riconoscere sentimenti a una pluralità di cani di ogni razza evidenziando in modo molto esplicito la loro contiguità con l’essere umano.

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il design e gli animali, tra zoomorfismo e animalier • benedetta terenzi

Confezione di cipria in alluminio concepita da Lalique. L’elegante scatola in alluminio stampato, finalizzata alla commercializzazione di una cipria, è stata realizzata per stampaggio con successiva smaltatura; i due meravigliosi uccelli del paradiso sono stati disegnati da René Lalique (che si firma sul coperchio). Piattino con colomba con disegno di Jean Cocteau. Il piccolo piatto di porcellana serigrafata degli anni ‘60, che potrebbe appartenere a una serie dedicata a vari artisti, reca sulla faccia superiore il disegno di una colomba sotto alla quale spicca la firma Jean Cocteau e un asterisco, appunto il ‘marchio’ dell’artista. Due colombe di Floriano Bodini. Le colombe concepite da Floriano Bodini per il centenario della Permanente (Milano 1986) costituiscono la moderna variante di una consolidata simbologia riferita alla pace.

li, amasse particolarmente il suo stallone candido: si trattava di un piccolo esemplare bianco arabo, al quale era stato assegnato il nome di Marengo, in ricordo della battaglia in cui servì il suo padrone con ardore. L’amata cavalla di Giuseppe Garibaldi, invece, si chiamava Marsala. Fra le testimonianze oggettive dell’amore per gli animali, nell’arte antica si possono trovare innumerevoli oggetti e monumenti (quali vasi, statue e statuette, steli funerarie, monete, ecc.) in cui l’essere umano, adulto o bambino, è raffigurato con i propri animali da lavoro o da compagnia. Il fatto che molte persone, umili o illustri, giovani o anziane, abbiano ritenuto significativo farsi immortalare al fianco dei loro animali favoriti è certo un indizio del posto che essi occupavano nei loro pensieri e nei loro sentimenti. Osservando accuratamente quel patrimonio materiale si può notare come gli artisti, in passato, siano spesso riusciti a dare una percezione durevole della qualità dei legami affettivi che univano l’essere umano ai suoi animali. In questo senso, anche gli animali sono stati ritenuti degni di essere commemorati dopo la morte con disposizioni del tutto identiche a quelle comunemente riservate agli esseri umani: essi, infatti, sono stati spesso oggetto di celebrazioni funebri, destinatari di epitaffi o anche di veri e propri monumenti funerari (come, ad esempio, quello eretto da Alessandro Magno al suo Bucefalo o dall’imperatore Adriano per i suoi cavalli, vincitori nelle corse).


interpretazione simbolica e artistica

Negli arredi sfarzosi di tutte le epoche, fin dalle civiltà più antiche, troviamo espressioni artistiche e simboliche degli animali. Oggi è difficile ricostruire l’interno di una casa povera molto antica in quanto gli oggetti di origine naturale, troppo deperibili, sono andati distrutti; al contrario, sono giunti fino a noi quelli in materiale pregiato delle abitazioni dei più abbienti. Nell’antichità i mobili sono suddivisi in due categorie, quelli che contengono e quelli che sorreggono; mentre i primi si rifanno a forme architettoniche, i secondi si ispirano a forme zoomorfe. Nelle case egizie di rango dell’Antico Regno, i mobili destinati a reggere o contenere riproducono, in alcune parti o dettagli, figure e caratteristiche animali, come gambe di sgabello a forma di zoccolo di toro o a zampa di leone, braccioli e schienali di sedia modellati come il collo di un’anatra, telai del letto che imitano il corpo della gazzella. Le zampe di toro o leone, motivo di origine sacrale e magica nell’antico Egitto, sono da mettere in relazione con la natura divina del sovrano, espressa nell’immagine del leone e, prima ancora, in quella del toro; tuttavia questa simbologia si diffuse ben presto anche al di fuori dell’ambito della regalità. Un oggetto tipico di questa civiltà è il poggiatesta che, se destinato all’uso, consiste in un semplice blocco di legno fasciato di tela, mentre per i corredi funerari più ricchi è realizzato in pietra o in avorio (dalla XVIII dinasta in poi il poggiatesta, essendo associato simbolica-

• Meleagro a cavallo e il cinghiale Calidonio. Nel medaglione circolare, concepito da Bartolomeo Mele-

oli all’inizio del XVI secolo, Meleagro nudo cavalca un destriero al galoppo inseguendo il mitico cinghiale Calidonio con la spada sguainata. L’elegante composizione sembra evidenziare l’assoluta antica dimestichezza dell’uomo con il cavallo. Cavallo della RAI, medaglista Francesco Messina. La medaglia fa parte di una serie di coniazioni effettuate dal 1991 al 1993 con il punzone firmato da Francesco Messina. Essa riprende le fattezze della scultura concepita dall’artista per la Nuova ERI Edizioni RAI nel 1966 ed esposta in viale Mazzini a Roma: essa raffigura il nobile animale con le zampe posteriori piegate a terra nel disperato tentativo di rialzarsi mentre, con il collo irrigidito e il muso rivolto verso il cielo, esprime dolore emettendo un poderoso nitrito. Sigillo di garanzia di un oleificio. Al centro di questa placchetta circolare in alluminio, concepita da Mario De Marchis negli anni ’30 del XX secolo e definita da una duplice cornice lineare in rilievo, è rappresentata una coppia di cavalli alati (derivati da un famoso rilievo etrusco) dei quali probabilmente l’azienda intende attribuirsi la vitalità e la forza.

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La Venere di Urbino. La Venere dipinta da Tiziano nel 1538 (oggi presso la Galleria degli Uffizi di Firenze) per Guidobaldo II evidenzia i suoi riferimenti mitologici tradizionali ma trasposti nel suo ambiente domestico. Oltre a molteplici altre allusioni simboliche, ai piedi della sensuale dea Tiziano raffigura un cagnolino, dipinto con particolare realismo: l’animale simboleggia la fedeltà come esempio di virtù per la sposa del granduca Della Rovere.

mente alla protezione della testa del defunto, fu anche riprodotto in forma di amuleto). Le tombe invece, perfettamente isolate climaticamente, hanno conservato intatto per secoli il loro contenuto e ce lo hanno reso come preziosa testimonianza di civiltà. Dai reperti si può dedurre che esso si componeva di pezzi essenziali ma estremamente raffinati come sgabelli pieghevoli con gambe a forma di collo d’anatra, sgabelli a quattro gambe sagomate zoomorfe con piano del sedile costituito da una larga fascia di cuoio fissata da tiranti, sedie con braccioli decorati con forme zoomorfe, poggiatesta, spesso con sagoma di lepre in legno e avorio, contenitori di corno per liquidi, letti pieghevoli con rete in giunchi intrecciati e piedi a forma di leone. Il materiale usato era principalmente il legno, al quale si accompagnavano particolari decorati in avorio o corno o faïence egizia (maiolica), che talvolta erano ulteriormente arricchiti con metalli applicati o soltanto decorati a colore. Non meno ricco era l’arredamento dei paesi della Mesopotamia. In particolare tra gli Assiri comparirono troni, letti e sedie decorate con gambe animalesche; il mobilio venne variamente arricchito con intagli in avorio e legni di pregio. Per quanto concerne la Grecia antica, i riferimenti animali del corredo materiale erano conosciuti come zoote e corrispondevano a ciò che noi oggi sintetizziamo con il termine animalier.


interpretazione simbolica e artistica

Cartibula romano. Sostegno di tavolo, o cartibula, a figure intere di grifi a testa e corpo di leone con corna ricurve e grandi ali. Era generalmente collocato nell’atrio delle case, davanti all’impluvium, in corrispondenza del tablinum. Realizzato in marmo bianco, con stilemi neoattici, nel I sec. a.C. (esposto presso il Museo di Storia ed Arte, Orto Lapidario, Trieste).

Altri riferimenti animalière erano costituiti da pelli di leopardo, di zebra, di tigre o di pitone oppure da decorazioni che si ispiravano a quella stessa fauna. La casa romana, contrariamente a quello che si può immaginare, era molto simile a quella dei nostri giorni. Il mobilio era essenziale e consisteva sostanzialmente in letti, sedie e tavoli. Solo nelle dimore dei più abbienti troviamo arredi più elaborati: come mostrano molti mosaici e affreschi giunti intatti fino a noi, questi erano spesso impreziositi da forme zoomorfe; le gambe riprendevano soprattutto le zampe del leone e sulle spalliere era facile trovare teste di volatili. Sempre presenti erano i triclinia, a 3 o 6 piazze, che potevano essere in bronzo o in legni esotici pregiati che, lucidati, emanavano tanti colori come piume di pavone, i cosidetti lecti pavonini. Tavoli importanti e spesso imponenti erano i cartibula, realizzati in marmo, sui quali venivano esposti oggetti preziosi in bella mostra. La base del tavolo era sempre riccamente decorata e anche in questo caso spesso troviamo leoni o altri animali fantastici come il grifone. Anche sui più semplici banchi, gli scamna, o sugli sgabelli, i subsellia, utilizzati per sedersi troviamo gli stessi tipi di decoro. Le decorazioni tessili dell’epoca greco-romana che ricordavano il manto delle fiere si possono ricondurre al culto dionisiaco. Diòniso era associato agli animali non per stretta analogia ma in quanto egli rappresentava la natura primordiale dell’essere umano, cioè quella

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• Animali nell’Inferno Divina Commedia. Nel dipinto di Jan Van der Straet (detto Giovanni Stradano o Stradanus), realizzato a Firenze nella seconda metà del XVI secolo, è rappresentato il brano del primo canto dell’Inferno nel quale una lonza leggera e molto veloce, coperta da una pelliccia maculata, appare a Dante e ne ostacola il percorso e, anzi, lo ricaccia indietro. La lonza e gli altri animali che seguiranno sono simboli specifici di virtù o di debolezze: secondo i bestiari medievali, la lonza è il simbolo di lussuria o di invidia (e starebbe a indicare Firenze). Segue l’apparizione di un leone che va incontro a Dante con la testa alta e con ‘rabbiosa fame’, simbolo di superbia. Spunta infine una lupa la cui magrezza allude alla bramosia, un sentimento che avrebbe reso infelice la vita di molte altre genti; secondo Dante, questa è la bestia più pericolosa e la sua avidità (in questo caso il poeta si riferisce alla Chiesa) è il vizio più difficile da superare.

animale, selvaggia e istintiva che persiste anche nell’animo più civilizzato, come eredità originaria insopprimibile. La personalità solenne e, nello stesso tempo, il suo carattere molle e viziato, si fondono a tal punto in Dioniso che, nelle scene di culto, egli è ritratto entro foreste, spesso seduto su un sedile pieghevole ricoperto di una pelle di animale, quasi a sottolineare lo stato di ebbrezza spirituale e fisica tipica della sua religione. Nel Medioevo, la raffigurazione biblica riferita all’ebrezza e alla lussuria è ancora una volta associata agli animali; in particolare, nella Divina Commedia, Dante parla della lonza dal “pel macolato” che gli ostacola il cammino verso la salvezza. Più precisamente, tre sono le fiere che compaiono nella “piaggia diserta, all’inizio dell’erta” impedendo al poeta la desiderata ascesa del colle illuminato dai raggi del sole: dopo la lonza, contro il poeta si muovono rispettivamente un leone e una lupa, che lo respingono verso la selva. Ciascuna delle tre fiere ha caratteri ben distinti: la mobilità e la screziatura della pelle danno un vivace e colorito risalto alla lonza; la prestanza e l’impeto caratterizzano l’immagine del leone e si trasmettono alla stessa atmosfera “che parea... ne tremesse”; un’al-


interpretazione simbolica e artistica

• La virtù scoperta dal vizio. La scena simbolica di questa placchetta in bronzo fuso rappresenta una giovane donna seminuda affiancata da due infanti: essa è mollemente adagiata e assopita sul basamento di un monumento diroccato coperto da un drappo. Da destra provengono due fauni: quello più esterno reca in mano un ramo di foglie, quello più vicino alla donna solleva con la mano destra il panno che ne copre le virtù. L’elegante composizione, che taluno chiama ‘ninfa dormiente e due satiri’, è di gusto squisitamente rinascimentale, con riferimento all’interesse per gli aspetti dionisiaci. La placchetta testimonia il frequentissimo uso di figure mitologiche (come satiri, fauni, centauri e semidivinità) per alludere a concetti didascalici di circostanza non senza qualche… malcelato erotismo. lucinante magrezza conferisce invece famelicità e irrequietezza alla lupa: “di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza”. Più tardi, in periodo umanistico, Maria Maddalena viene rappresentata vestita di una pelliccia maculata con esplicita allusione ai suoi trascorsi lascivi. Durante il Rinascimento si era cominciato a studiare il paganesimo antico e la civiltà egizia nelle quali il leopardo rappresentava un collegamento terreno con l’Aldilà. Nel volume Iconologia di Cesare Ripa del 1593 1 la libidine viene immaginata vestita di ‘pelle di pardo’ le cui macchie sono paragonate ai pensieri torbidi dell’uomo impuro (Mino et al., 2013); in quel periodo il riferimento all’animale era comunque associato all’esoterico e al satanico. Col passare dei secoli l’animalier perse la sua accezione di riferimento al dissoluto e al peccaminoso, entrando a far parte del costume comune. Nel 1700 le prime stampe animalières iniziarono a ornare le corti europee con il loro tocco esotico. Nel 1756 l’innamoratissimo Nattier ritraeva la sua Dame de Maison-Rouge in veste di Diana dal manto maculato, mentre è del 1787 la stampa che raffigura Giorgio IV principe del Galles con uno Zebra Suit alla moda (esposta presso la Galerie des Modes et Costumes Français del Brithis Museum). Alle soglie del XIX secolo, il movimento britannico Aesthetic Movement (ossia l’Estetismo) proporrà l’animalière nel mondo della Moda per capi dalle linee fluide, pensati per donne intellettuali ed emancipate sdoganandolo definitivamente dai retaggi del passato. D’altro canto, anche le grandi correnti filosofiche elaborate dal pensiero antico e lo stesso ambiente religioso hanno affrontato il complesso problema del rapporto uomo-animale fornendo una loro soluzione. Nell’ambito della cultura celtica, gli animali simbolici e il loro significato sono partico1 L’opera Iconografia, dedicato al cardinale Salviati, ‘necessaria à Poeti, Pittori, et Scultori, per rappresentare le virtù, vitij, affetti et passioni humane’, è un’enciclopedia dove sono descritte, in ordine alfabetico, le personificazioni di concetti astratti, come la Pace, la Libertà o la Prudenza, la Libidine, contraddistinte da attributi e colori simbolici.

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Leone accovacciato. La gradevole fusione a cera persa in bronzo è stata probabilmente realizzata in Francia attorno alla metà del 1800. Il leone, quasi certamente, fa parte di una composizione più complessa di oggetti da scrivania (calamaio, orologio, fermacarte, ecc.).

larmente interessanti per due ragioni fondamentali. La prima è che i celti erano un popolo strettamente legato alla natura e ai suoi ritmi; essi attribuivano loro significati importanti. La seconda è che la cultura celtica, caratterizzata da una trasmissione delle informazioni sostanzialmente orale, trova la sua forma di espressione attraverso il mito e la mitologia, un contesto in cui il simbolo è in grado di sintetizzare una grande quantità di contenuti, istituendo un ‘codice’ in cui ogni termine comprende una rosa ampia di significati e di antefatti. Se, in un primo tempo, gli studiosi avevano considerato che la religione celtica fosse basata soprattutto sul totemismo e sullo zoomorfismo oggi, invece, propendono per la teoria che gli animali vi fossero presenti prevalentemente in forma simbolica e che fossero usati come codices: il corvo era l’uccello sacro al dio Lugh, il lupo rappresentava la casta dei guerrieri, e così via. In questo senso, la realtà naturale ‘rappresenta’ la divinità sulla terra, la contiene ma non coincide necessariamente con la divinità in sé; essa rappresenta le forze sovrannaturali mantenendo la sua essenza strettamente ‘naturale’. Si può pertanto ritenere che, in generale, un animale consenta spesso due differenti interpretazioni: una più ‘oscura’ e misteriosa nella quale esso rappresenta la parte inferiore di una forza trascendente e una più ‘luminosa’ nella quale esso incarna la parte più elevata e soprannaturale di quella stessa forza. Comunque, la storia delle religioni evidenzia numerosi casi di ‘teriomorfismo’ nei quali la forma animale viene attribuita a divinità, a spiriti e a demoni. L’evoluzionismo storico-religioso considera il teriomorfismo come una particolare fase di formazione dell’idea divina, detta polidemonismo, immediatamente precedente al politeismo. In verità, trattandosi di uno dei modi d’espressione del non-umano, il teriomorfismo si ritrova sia nelle religioni delle civiltà più primitive sia in quelle politeistiche di civiltà superiori come, ad esempio, quella egiziana antica che prendiamo ad esempio in quan-


interpretazione simbolica e artistica

to sicuramente la più conosciuta nel suo genere. In quella civiltà, la stessa divinità poteva essere raffigurata sia in forma animale che in forma umana. Tra le divinità egizie teriomorfe più importanti ricordiamo Hathor (raffigurata come una donna che indossa sul capo corna bovine al cui centro è posto il disco solare o, in alternativa, come una giovenca che regge il bastone uadj, lo scettro tipico delle divinità dotato di una valenza apotropaica); altre hanno corpo umano e testa d’animale, come ad esempio Anubi (con la testa di sciacallo) o Thot (con testa di ibis). In altre religioni, come nell’Induismo, il teriomorfismo è un fenomeno relativamente recente: nella sua accezione allargata essa comprende le più antiche religioni caratterizzate da divinità teriomorfe, come ad esempio il dio-elefante Ganesa. L’Induismo, le cui origini risalgono al neolitico (circa 7000 a.C.), obbliga i propri seguaci a una dieta assolutamente vegetariana permettendo solo il consumo del latte della vacca (peraltro considerato animale sacro) e comunque orienta a uno stile di vita non-violento che esclude tassativamente l’uccisione di animali. Al contrario, le religioni abramitiche (Ebraismo, Cristianesimo e Islam) divergono ambiguamente dal rapporto uomo-natura di matrice indiana; nonostante abbiano in comune lo stesso testo sacro (la Bibbia ebraica), ad esempio, a proposito del maiale esse manifestano una lampante e sostanziale differenza: i cristiani se ne nutrono tranquillamente mentre ebrei e mussulmani lo rifiutano in modo perentorio e dogmatico. In ambito esegetico è senz’altro interessante riscontrare come lo scritto attribuito a san Giovanni Evangelista (comunemente detto Apocalisse) sia costellato di simbolismi terio-

• Leone. La placchetta rettango-

lare in bronzo, di gusto orientale, rappresenta un leone slanciato che muove verso sinistra, con una folta criniera e una lunga coda che si attorciglia fra le zampe posteriori. Essa è dotata di appiccagnolo per indossarla al collo come amuleto.

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• Leda e il cigno. Questa spilla rettangolare risale agli anni ’20 del XX secolo e rappresenta, in chiave moderna, il mito antico di Leda con il cigno. In passato, questa scena costituiva una metafora della verginità; nel caso in questione è evidente che l’argomento ha del tutto perso l’antico significato per assumere il puro ruolo di occasione plastica riferita alla classicità e ai suoi eleganti modi: una giovane donna nuda giace sul terreno con le gambe piegate verso l’alto, ha il capo reclinato e, mentre si appoggia al suolo con la mano sinistra, con la mano destra solletica il collo del cigno che, con le ali spiegate, sembra voler guardare la donna negli occhi. morfi; effettivamente il testo è letteralmente popolato di innumerevoli animali domestici o feroci, reali o chimerici, volanti, camminanti, striscianti sulla terra o viventi nel fondo delle acque che rimandano sistematicamente a scenari veterotestamentari. Nell’Apocalisse gli animali desiderano manifestare un rifugio della realtà, infatti “Prescindendo dal significato dei singoli animali, l’animale rappresenta generalmente come archetipo, la profondità dell’inconscio e dell’istinto e, inoltre, le forze cosmiche materiali e spirituali. Gli animali toccano i tre piani dell’universo: inferno, terra e cielo” (Heinz Mohr, 1984, p. 44). A differenza di quanto succede nella Bibbia, dove “gli ani-

Placca divinatoria tantrica con elefante. La placca in rame cesellata e incisa a bulino di forma pressoché rettangolare, risale alla fine del XIX secolo e rappresenta un elefante la cui gualdrappa e il fondale riportano lettere e numeri della scrittura indiana; la piastra aveva una funzione ausiliare nelle pratiche divinatorie e magiche indiane di cultura tantrica.


interpretazione simbolica e artistica

• Allegoria della superstizione. L’immagine è tratta dal libro di Cesare Ripa, Iconologia (ovvero Descrittione Dell’imagini Universali cavate dall’Antichità et da altri luoghi, edita dagli Heredi di Giovanni Gigliotti, 1593, Roma); una precisazione in copertina riporta la scritta: OPERA NON MENO UTILE, che necessaria a Poeti, Pittori e Scultori, per rappresentare virtù, vitij, affetti e passioni humane. Qui è rappresentata l’allegoria della superstizione, accompagnata da alcuni animali. La relativa didascalia riporta la scritta: Una vecchia, che tenga in testa na Civetta, a’ piedi un Gufo, da una banda, dall’altra una Cornacchia, ed al collo un filo con molti polizzini. Nella mano sinistra abbia una candela accesa, e sotto il medesimo braccio una Lepe. Nella mano diritta un circolo di Stelle, co’ Pianeti, verso i quali con aspetto timido riguarda. mali sono subordinati all’uomo che dà loro un nome e con questo autentica la sua pretesa a dominarli”, (Heinz Mohr, op cit., p.45) nell’Apocalisse gli animali si comportano come individui che addirittura sembrano avere un dominio sull’uomo: lo combattono, lo intimano, lo perseguitano2. Nel pensiero occidentale, il rapporto uomo-animale riveste un ruolo importante ed è rappresentato dall’avvento della filosofia in Grecia, nel VII secolo a.C. Conseguentemente alla mancanza di dogmi assoluti, i pensatori di quel periodo espressero, infatti, diversi punti di vista, talora opposti. Ci furono pensatori antropocentrici, tra i quali Aristotele, che vedevano gli animali come ‘anime rozze’. Fra l’altro, Aristotele definisce l’uomo zoon logon echon, (ζῷον λογον ἔχον) ‘essere vivente dotato di parola’, una definizione che sarà all’origine di tutte le future caratterizzazioni e che verrà poi tradotta con ‘animale razionale’. Altri pensatori, come Plutarco, difendono invece con forza gli animali considerandoli come esseri dotati di un’anima e di un’intelligenza. In generale, però, nella filosofia classica, l’uomo è nettamente distinto dall’animale e questo pensiero porrà le basi per l’avvento e l’affermazione del pensiero scientifico antropocentrico moderno. La Scolastica, cioè la filosofia cristiana caratteristica del Medio e Basso Medioevo, aveva negato l’immortalità dell’anima degli animali ma non l’anima in sé; nel XVII secolo Cartesio andò oltre e, partendo dalla concezione antropocentrica di matrice cristiana,

2 Questo argomento è trattato nell’articolo Lo “Zoomorfismo” in Apocalisse, simbolica per l’esegesi, di Alessio Varisco, pubblicato nella rivista on-line in ARTCUREL: Arte, Cultura e Religione (Art, Culture and Religion), www.artcurel.it.

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visione legata al nascente metodo scientifico sperimentale, disconobbe agli animali sia il possesso di una coscienza che di un’anima. Il cogito, come capacità di autocoscienza appartiene, infatti, solo agli uomini e, da questa teoria, deriva il diritto di fare degli animali ciò che si ritiene giusto, non badando alle esigenze di quegli esseri viventi 3. È opportuno ricordare il pensiero di Platone, qui riportato attraverso quello del fisiognomista Della Porta “È ragionato sin qui degli umori; or verremo agli altri modi di congetturare i costumi dell’uomo. Dice Platone che, se l’uomo sarà tutto il corpo simile ad alcuno animale, che sarà ancora simile a lui di costumi e di volere; onde descrivendo d’ogni animale la sua propria forma, et a quella figura attribuendo una proprietà o passione o costume, indovina per la figura i costumi. Come per esempio, il genere del Leone deve essere coraggioso e gagliardo; onde bisogna che se in lui sarà alcun segno, La scienza moderna vede gli altri animali come veri e propri automi biologici che rispondono per riflesso agli stimoli esterni, determinando così atroci sofferenze che oggi raggiungono livelli di efferatezza quasi surreali. Le religioni avevano in qualche modo attenuato – avvalendosi solo delle usanze, irrazionali certamente, ecatombiche – queste atrocità, oggi comunque ancora in uso vicine al consumo materialista. La concezione automatistica andrà avanti per tutto il periodo illuminista fino a tempi recentissimi, passando per Kant, per le Istituzioni filosofiche di Purchot del 1785, a L’uomo e l’animale dinanzi al metodo sperimentale di Netter del 1883, fino alle recenti teorie dei tropismi di Binet agli inizi del ‘900 e agli studi della psicologia sperimentale e del comportamentismo di Wundt, Thorndike e Skinner.

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• Tavola di un trattato di fisiognomia. Tavola di uno dei molteplici testi di fisiognomia realizzato sulla base delle riflessioni effettuate da Giovanbattista Della Porta nel suo De humana physiognomia (1586). Come è noto, i primi studi di quel genere pretendevano di redigere tipologie di caratteri comportamentali con riferimento all’indole presunta di taluni animali le cui sembianze sembravano trasparire da quelle umane. In particolare qui si vedono, in alto, teste di caproni e, in basso, volti umani dalla sembianze caprine. • Il sogno di Daniele, di Luigi Sabatelli. Questa acquaforte di Luigi Sabatelli (da matrice in rame) rappresenta alcuni animali mostruosamente ibridi che si dibattono sulla superficie di un mare; due mani escono dalle nuvole e afferrano le ali di alcuni di essi. Un personaggio situato su lato sinistro della scena è avvolto da un abito svolazzante e osserva la scena che si riferisce a un noto passo del profeta Daniele (Dan. C. VII). La criptica atmosfera onirica mostra forti analogie con altre scene descritte nell’apocalisse cui Sabatelli, abilissimo disegnatore e incisore, dedicò altre sei acqueforti. dal quale si possa conoscere questa animosità che da quel segno nasca, questo segno vuole che sia aver il petto largo, gli omeri ampii e grandi, tutte le sue estremità grandi, come le mani et i piedi. E di qua così formavano il Sillogismo: ogni animale che ha il petto largo e l’estremità grandi sarà forte et animoso; e questa opinione l’attribuivano a Platone, che disse che l’anima era data al corpo secondo i meriti della materia; come se dicesse: il Leone ha tanta forza e tanto animo, perché la materia del suo nascimento era tale. Altri poi ad un tale animale attribuivano un tal corpo e tal anima, e giudicavano che i costumi, o in parte o in tutto, avesse colui che possedesse tal corpo e tal parti; e questo facevano in tutti gli animali; come al Cane davano l’essere ingiurioso e sfacciato, et alla Pecorella l’esser mansueta” (Della Porta, 1598, Cap. XIII). Particolarmente vasto è lo spazio che l’arte dedica a una visione animalière del rapporto fra l’essere umano e il mondo animale; in questo senso e, in particolare, con rifermento alle rappresentazione del mondo della caccia, riporto un sintetico excursus al riguardo che riassume nel tempo alcune opere e artisti che si sono dedicati a raffigurare la caccia e gli animali cacciati:“Calligrafici o addirittura fotografici documenti di Cina e Giappone si accompagnano con l’opulenza dell’arte Araba. La rigida fissità degli affreschi Egizi, si accosta alla precisione e al movimento dei bassorilievi Assiri. La rappresentazione, l’imponenza

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• Diana cacciatrice. In questo bronzetto degli anni

’20-’25 del XX secolo, entro uno spazio rotondo, una giovane donna nuda, vista di fronte, avanza elegantemente verso destra; si tratta della dea Diana che reca un arco nella mano destra e tiene la testa di un piccolo cervo con la mano sinistra. La velocità dell’incedere di Diana è sottolineato da un drago che svolazza dietro di essa e dai lunghi capelli al vento.

e la forza dell’arte Greca, quanto è pervenuto dell’arte Etrusca e quanto prodotto dai Romani, rappresentano tappe fondamentali nella cultura e nella storia dell’Uomo. In un successivo volo fino all’inizio del Medioevo, sono da ricordare contributi come quello di De Foix Gaston Phèbus, con un testo ricchissimo di splendide immagini di caccie dell’epoca. Scivolando nel Rinascimento, tra i pittori italiani amo gli animali e le caccie di Giotto, di Benozzo Gozzoli, del grande Paolo Uccello, di Giovanni Bellini, del Pisanello e avanti fino a Tiziano. Fra gli europei, autori come Dürer, Cranach e Memling. A seguire il forse un po’ ridondante Barocco che ci ha dato artisti fondamentali come Giulio Romano, Domenichino e Correggio, accanto a fantastici europei come Rubens e Velasquez. Arrivati infine al Settecento, terminano le rappresentazioni dell’opulenza ma di scarsa poesia, mentre si affermano i pittori di paesaggi e soprattutto di scene di caccia e animali. Mi piace ricordare nel nostro Paese Vittorio Cignaroli, il grandissimo Pietro Longhi con le sue caccie nella Laguna, il Pitocchetto (Giacomo Ceruti) e in Europa specialmente Antoine Watteau. Si giunge poi alla stagione Romantica, tra sette e ottocento, ove si assiste alla ‘riscoperta’ della natura. Ma la caccia non è all’apice dei pensieri di questi artisti: ricordo in Europa l’opera di John Crome, Jacques Brascassat e Alexis Daligè e, in Italia, di Pelagio Palagi, Luigi Basiletti ed Eugenio Fromentin. E, finalmente, ecco l’Ottocento, l’età del Realismo, quando la Caccia esce dalla rappresentazione simbolica e idealizzata per confluire nel quotidia-

• Medaglione zootecnico in forma di mucca.

La curiosa “medaglia” degli anni ’60 del XX secolo rappresenta una bovina munita di campanaccio vista di lato e volta a sinistra con la testa girata verso l’osservatore; probabilmente essa costituisce un riconoscimento quale se ne distribuiscono in occasione di feste zootecniche al miglior allevatore o al miglior produttore di latte.


interpretazione simbolica e artistica

no: i pittori realisti narrano soffermandosi sull’episodio, senza enfasi né commozione. Tra i migliori, almeno a mio giudizio, mi piace ricordare Gustave Courbet, accanto a splendidi artisti italiani come Eugenio Cecconi, Pompeo Mariani e Gian Battista Quadrone. Ma moltissimi altri hanno raggiunto fama immortale, come lo statunitense John James Audubon e gli inglesi Archibald Thorburn e John Gould, anche se forse più illustratori che pittori. In Germania si sono affermati nella mia personale classifica, per abilità e scelta dei soggetti, August Müller e Moritz Müller jun., avvicinatisi o trionfalmente entrati nel XX secolo. Nel Novecento ha inizio quella che mi sembra ragionevole considerare l’epoca d’oro della pittura animalière italiana. I nomi di Mario Norfini, dei due Vestrini, di Roberto Lemmi, Remo Squillantini, Vittorio Caroli, Nick Edel e Claudio Menapace, illuminano un periodo storico che si è ormai consolidato” (Musumeci, 2010, pp. 227-241).

• Caccia alla tigre. La Caccia alla tigre è un dipinto a olio su tela realizzato nel 1616 dal pittore fiammin-

go Pieter Paul Rubens. Fa parte del ciclo dei quattro dipinti di caccia, commissionati da Massimiliano I di Baviera per decorare il Palazzo Schleissheim. Oggi è conservato presso il Museo delle Belle Arti di Rennes.

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gli animali nei bestiari, nell’araldica, nei racconti

A differenza di quanto si potrebbe immaginare sfogliando i ‘bestiari antichi’, gli uomini del Medioevo erano degli ottimi osservatori della natura sebbene non ritenessero che ciò avesse un rapporto diretto con il sapere, né che potesse condurre alla verità delle cose. In particolare, in quel periodo, gli animali erano onnipresenti e, in qualunque ambito documentario ci si avventurasse, era facile incontrarne: nel mondo occidentale, in nessun’altra epoca come nel Medioevo essi sono stati così tanto e intensamente pensati, raccontati e raffigurati. La rappresentazione degli animali, anche fantastici, infatti, proliferava fin nelle chiese, occupando buona parte degli apparati decorativi e delle scene figurate che i sacerdoti, i monaci e i fedeli avevano quotidianamente sotto gli occhi. È però necessario sottolineare che, nonostante la buona conoscenza scientifica raggiunta sui diversi esseri viventi, quelle stesse rappresentazioni erano influenzate dal fatto che, a quei tempi, il concetto di ‘esatto’ non coincideva con quello di ‘vero’: il primo era considerato un concetto superficiale, limitato, personale e, di conseguenza, oggettivo; il secondo, invece, una qualità da scoprire e conquistare, di codici e simboli e, sebbene gli artisti e gli illustratori fossero perfettamente in grado di raffigurare gli animali in maniera realistica e veristica, nella realtà quotidiana questo non accadeva in quanto l’animale era portatore di diversi significati. Gli storici considerano il Medioevo come l’epoca delle immagini per eccellenza, seppure in quel periodo le raffigurazioni non avessero alcuna finalità estetica e fossero assai distanti

• Tavole dipinte di un soffitto ligneo. Le

tavole provengono dallo smontaggio di un soffitto ligneo del restaurato spazio dello Scriptorium del complesso abbaziale di Santo Stefano in Bologna, del XIV secolo. Realizzate in legno dolce, esse sono dipinte a tempera (cioè con pitture ottenute incorporando pigmenti in un veicolo di caseina) e raffigurano una sorta di bestiario con tutta probabilità correlato a qualche racconto didascalico.


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il design e gli animali, tra zoomorfismo e animalier • benedetta terenzi

La Chimera d’Arezzo. La Chimera è una scultura in bronzo realizzata da abili artisti etruschi attorno alla fine del V secolo a.C. Alta 65 cm e conservata al Museo Archeologico di Firenze, essa era stata trovata durante gli scavi per la costruzione delle fortifcazioni medicee di Arezzo nel 1553 e fu restituita alla luce con il contributo dello stesso Benvenuto Cellini. Con riferimento alla belva sconfitta da Bellerofonte con l’aiuto di Pegaso, essa è costituita da un leone accovacciato come se dovesse scattare contro un intruso; sul dorso reca una testa di capra le cui corna sono morsicate dalla sua coda in forma di serpe.

da quel concetto di arte che, invece, andrà sviluppandosi nel Rinascimento1. In verità, all’immenso e ricco apparato illustrativo veniva affidata una funzione di grande importanza socio-culturale: grazie anche alla sapiente regía della Chiesa e degli intellettuali, esso costituiva un potente e condiviso mezzo di divulgazione di metafore narrative la cui ripetizione costante, alla lunga, ne garantiva una vasta diffusione e un’immediata comprensione da parte del popolo. A testimonianza di questo è utile riportare l’affermazione fatta da papa Gregorio Magno nella sua lettera al vescovo iconoclasta Sereno di Marsiglia, in merito alla sua posizione nei confronti dell’utilizzo delle immagini “esse consentono agli illetterati di comprendere la storia sacra” (“in ipsa legunt qui litteras nesciunt”)2. Gregorio I riteneva, infatti, che l’immagine potesse rappresentare un valido sostituto del testo in quanto rientrava in un’analoga operazione di ‘lettura’, particolarmente utile nell’impegno di convertire i Enciclopedia dell’Arte Medievale, vocabolo “Immagine”, di J. Baschet, 1996, in Enciclopedia Italiana G. Treccani. 2 Papa Gregorio I, detto papa Gregorio Magno ovvero il Grande, il cui pontificato durò dal 540 al 604 d.C., scrisse l’opera Registrum epistolarum nella quale sono raccolti ottocento lettere in 14 libri (uno per ogni anno del pontificato) che costituiscono una testimonianza di straordinaria importanza sulla storia del suo tempo consentendo di seguirne minutamente l’operato. Il brano è tratto da Registrum epistolarum, XI, 10. 1


gli animali nei bestiari, nell’araldica, nei racconti

Acquamanile in forma di leone. Questo acquamanile in bronzo (proveniente da Lubecca, della prima metà del XIV secolo) rappresenta un leone stante, nel quale sono incorporate altre tre creature: un cane che fuoriesce dalle fauci del leone (a formare il beccuccio) un basilisco o drago alato sul dorso del leone (a formare l’ansa) e una testa serpentiforme nella parte finale della coda. Come è noto, l’acquamanile (dal latino aqua, acqua e manus, mani), era un prezioso recipiente destinato a contenere l’acqua che permetteva ai preti di lavarsi le mani durante il rito liturgico della purificazione prima dell’Eucarestia; spesso foggiato a forma di animale, in seguito, questa sorta di brocca sarà molto usata sulle tavole dei principi per la pulizia delle mani durante i pasti (Casa d’aste Pandolfini).

pagani, seppur affermasse che le immagini sono “svalutate dall’identità subalterna dei loro destinatari” (“idiotae, imperitus populus”). Non va inoltre dimenticato che dietro alle ricorrenti narrazioni fantastiche si celavano grandi figure di uomini dottissimi e di profondi conoscitori di testi sacri e dei classici greco-latini i quali, con la loro opera, hanno reso possibile la conservazione e la propagazione di un immenso sapere anche nei livelli più bassi della società, istruendo i predicatori, catechizzando i fedeli e temperando i costumi. A volte la raffigurazione dei personaggi zoomorfi più comuni è stata utilizzata anche nella costituzione di programmi politici e, spesso, è stata trasposta perfino nelle raffigurazioni araldiche. I testi medioevali che contengono la maggiore varietà di figure di animali sono senz’altro i bestiari, quegli ‘strani libri di animali’ che raccontano delle diverse specie zoologiche allo-

• Gettone da gioco (Venezia, metà del XVI secolo).

Il gettone in bronzo della metà del XVI secolo mostra sul fronte la rappresentazione del leone di San Marco, in maestà nimbato e alato che tiene il Libro (chiuso) a sinistra con gli artigli. Come è noto, il leone di San Marco costituì per molti secoli il simbolo della Serenissima Repubblica. Il Libro (il Vangelo) tenuto nelle zampe del grande felino è normalmente aperto e vi si legge la scritta PAX TIBI MARCE [EVANGELISTA MEUS] cioè PACE A TE, MARCO [MIO EVANGELISTA]; è curioso notare che questa insolita rappresentazione con il Libro chiuso, sta a significare che, al momento della realizzazione del gettone (ma ciò vale specialmente per le infinite lapidi urbane disseminate nei territori dominati da Venezia), la Serenissima era in guerra.

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Capitelli con i simboli degli evangelisti (Certosa di Pavia). Nel grande chiostro della Certosa di Pavia (concepito da Guiniforte Solari), anonimi lapicidi nella seconda metà del XV secolo, molto verosimilmente su indicazione degli abati del monastero, hanno scolpito i simboli di tre dei quattro evangelisti che, come è noto, sono rappresentati rispettivamente dal leone alato (San Marco), dal bue alato (San Luca) e dall’aquila (San Giovanni).

ra conosciute3 o ipotizzate. Come si è detto, quei testi, però, non avevano l’obiettivo o la pretesa di descrivere oggettivamente gli animali, né di proporli in maniera scientifica quanto, piuttosto, di divulgare significati morali e religiosi ad essi inscindibilmente correlabili. Infatti, essi non sono dei veri trattati di storia naturale nel senso oggi comune del termine ma opere che raccontano gli animali, anche attraverso le immagini, per esemplificare concetti, per parlare di Dio, di Cristo, della Vergine e dei Santi, come anche del diavolo, dei demoni e dei peccatori. Quando i vari autori si soffermano sull’indole e sulle proprietà delle ‘bestie’ e sulle meraviglie della loro stessa natura non intendono disquisire di anatomia, di etologia o di biologia quanto, piuttosto, essi desiderano sottolineare le peculiarità a loro tradizionalmente associate, per evocare il Creatore, per trasmettere le verità della fede, per invitare i fedeli a emendarsi. Lo studio dei bestiari si può pertanto ritenere più vicino al campo della storia culturale che a quella naturale. A partire dal XII secolo l’importanza di quei testi tende ad aumentare coinvolgendo più profondamente gli ambiti della predicazione, della letteratura allegorica, della scultura I bestiari derivano in verità da un’antico testo, il Physiologus. Seppur non sia possibile stabilire con precisione il luogo d’origine, la datazione e l’autore del Physiologus, si sa che sarebbe stato composto in Alessandria tra la fine del II secolo e i primi decenni del III d.C., cioè nell’epoca e nell’ambiente in cui operava Origene e si diffondevano i principali movimenti gnostici. Malgrado i sospetti iniziali, il Physiologus godette subito di una diffusione straordinaria: il testo greco fu tradotto a partire dal V secolo in etiopico, in armeno, in siriaco, in latino, ecc. Alla prima versione greca ne seguirono altre, così come a quella latina, che fu successivamente accresciuta con l’apporto di altri testi scientifici dell’antichità, e da cui ebbero origine, nel XII-XIII secolo, i bestiari germanici, francesi e italiani. Il testo esamina e descrive i costumi di tutti gli animali; esso dimostra in diverse maniere come gli uni eccelgano per la loro analogia con gli esseri celesti e come gli altri siano degradati per la loro somiglianza con gli spiriti infernali. Nei secoli successivi l’evoluzione seguì due linee opposte: da un lato, le versioni e le enciclopedie latine, arricchendo il numero degli animali, cercarono anche di adottare classificazioni più rigorose e prepararono in qualche modo la via alla zoologia moderna, dall’altro, diedero vita, appunto, ai bestiari.

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Formelle con i simboli degli Evangelisti. Serie di formelle, realizzate nei caratteristici modi degli anni ’30 del XX secolo, che rappresentano gli Evangelisti con i relativi simboli animali; esse sono realizzate in bronzo a cera persa. Si tratta rispettivamente di: Aquila di San Giovanni; Bue di San Luca; Leone di San Marco; Angelo di San Matteo (si tratta della cosiddetta ‘Sacra Quadriga’).

romanica; da quei testi nasceranno molti proverbi, sigilli e stemmi, influenzando altri scritti, racconti e favole con personaggi zoomorfi. In questo senso, tra i racconti più importanti nati da questa ispirazione, ricordiamo il Roman de Renart. Si tratta di una delle più grandi epopee animalesche del Medioevo costituita da una serie di brevi poemi composti da vari autori, rimasti per lo più anonimi e provenienti da varie regioni della Francia settentrionale, tra la fine del XII secolo fino a tutto il XIII secolo. Attraverso le varie branche di quel romanzo, si snoda una singolare mitologia favolistica al centro della quale c’è Renart, la volpe, insieme a Isengrin, il lupo; Tibert, il gatto; Tiecelin, il corvo; Chantecler, il gallo; Brun, l’orso; Bernard, l’asino; Roonel, il mastino e molti altri. Il romanzo è una vasta rappresentazione satirica della società medievale che, tra l’altro, ha influenzato con i suoi personaggi le altre letterature europee ad esso contemporanee4. Come quelli greci e latini, in generale gli autori medioevali di bestiari, di enciclopedie, di testi letterari di argomento zoologico o di opere riguardanti l’allevamento, l’agronomia o la medicina veterinaria, catalogavano ed elencavano la fauna distinguendo cinque grandi famiglie (quadrupedi, uccelli, pesci, serpenti e vermi), cioè secondo criteri profondamente diversi dai nostri, invece in gran parte ereditati dai grandi naturalisti del Settecento e

4 Questo tipo di testi ebbe particolare fortuna nella letteratura tedesca dove, dal poema Reinhart Fuchs (1180 ca.) di Heinrich der Glîchesaere, si giunse fino al Reineke Fuchs di J.W. Goethe.In questo ultimo testo gli animali sono creature antropomorfe individualizzate da nomi propri e dotati di caratteristiche umane. Nelle loro azioni, le figure seguono, da un lato, la loro natura animale e, dall’altro, le regole della convivenza umana. Così facendo, l’opera include eventi e motivazioni che sono comuni a tutti gli esseri viventi come trovare cibo o fuggire dalla persecuzione, come anche elementi di ordine esclusivamente umano (come l’adulterio) o varie forme di accusa e difesa davanti a un tribunale. I personaggi protagonisti, in particolare Nobel, Brown, Reynard e Isegrim, sono caratterizzati da vanità, stupidità, inganno e avidità; questi tratti continuano in molti personaggi minori e nei loro destini evidenziando l’umana tragedia del potere, la violenza e la morte, restando sempre nei confini della commedia animale.

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Il leone del Bestiario di Ashmole. La raffinata miniatura tratta dal Bestiario di Ashmole (Gran Bretagna, XIII sec.) conservaro presso la Bodileian Library di Oxford, rappresenta il leone e la leonessa dapprima singolarmente e poi come coppia. Lontano dal contesto naturale dove quegli animali vivono abitualmente, l’artista raffigura il re della foresta e la sua consorte basandosi sulle immagini già eseguite da altri in un progressivo processo di stilizzazione che confina con la l’astrazione araldica.


gli animali nei bestiari, nell’araldica, nei racconti

• Renart assediato nella sua fortezza. Questa miniatura medioevale raffigura Renart (in francese, la volpe si indica col termine renard s.m.) sotto assedio nel suo castello. L’astuto personaggio animale, che rappresenta la furbizia, è accusato per le sue malefatte: davanti alla fortezza nella quale esso è rifugiato, il leone, re della foresta, assieme ad altri animali, cerca invano di processarlo per comminargli delle pene.

dell’Ottocento. È inoltre importante sottolineare come il grande interesse della cultura cristiana medievale per le bestie, in realtà, sia l’espressione di due correnti di pensiero e di due sensibilità apparentemente contraddittorie: da un lato, quella che considera l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio e l’animale come un essere sottomesso e imperfetto, se non addirittura impuro; dall’altro, quella riscontrabile in alcuni autori cristiani, di un sentimento, più o meno diffuso, di autentica comunione fra tutti gli esseri viventi e di una parentela, non solo biologica, tra l’uomo e l’animale. Il fatto che la prima corrente sia stata quella dominante spiega perché l’animale fosse così spesso evocato, raccontato e rappresentato. Mettere a confronto l’uomo e l’animale e fare di quest’ultimo una creatura inferiore, fino a renderlo uno ‘strumento’ per mettere in risalto alcuni concetti, induceva a parlarne costantemente, a chiamarlo in causa in ogni occasione, a trasformarlo nel luogo privilegiato di tutte le metafore e di tutti i simboli: significava, insomma, ‘pensarlo simbolicamente’5, come una rappresentazione dei vizi e degli atti peccaminosi da cui l’uomo deve rifuggire se vuole elevarsi dalla ‘bestialitade’ alla dignità del suo rango. La seconda corrente, quella che crede nella comunione fra tutti gli esseri viventi è, in genere, più discreta sebbene anch’essa sia presente nei bestiari. Del resto, l’idea di una comunità degli esseri viventi, tra l’altro ereditata da Aristotele, è ripresa in un passo della Lettera ai

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Si riprende la celebre formula di Claude Lévi-Strauss. La formula canonica del mito è uno dei topici più ostici dell’opera del famoso antropologo ma è anche una delle sue idee più affascinanti e persistenti. Essa afferma per la prima volta nel 1955, nell’articolo su La struttura dei miti (Lévi-Strauss, 1955), fu poi menzionata nell’articolo Struttura e dialettica dell’anno successivo (Lévi-Strauss, 1956), per riapparire trent’anni dopo ne La vasaia gelosa (Lévi-Strauss, 1985) e nel 2001 in un articolo sull’architettura religiosa.

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Terminale di bastone pastorale. Il raffinato terminale del bastone pastorale di un vescovo piemontese del basso Medioevo (conservato al Museo Civico di Arte Antica di Palazzo Madama a Torino), rappresenta l’Agnello sacrificale che simboleggia la figura di Cristo immolato sulla croce per la salvezza dell’umanità: finemente scolpito in avorio, l’animale è sormontato dalla Croce (come per rafforzare il concetto simbolizzato) e inscritto nella voluta terminale dell’accessorio vescovile conformato a riccio secondo le convenzioni formali del suo tempo, come evoluzione del bastone dei pastori dell’antichità, cui la funzione di vescovo allude.

Romani (8.21) in cui san Paolo afferma che gli animali sono ‘figli di Dio’ e che Cristo è venuto sulla terra per salvare anche loro, insieme agli uomini. Probabilmente, proprio sulla base di un’affermazione di San Paolo: “videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem” (ora vediamo le cose attraverso uno specchio, per enigmi, ma un giorno le vedremo faccia a faccia) tutto il Medioevo fu portato a interpretare la realtà come simbolo e la natura come una complessa tessitura allegorica nella quale Dio celava la sua verità: compito dell’uomo era leggere nello specchio e trovarvi le chiavi interpretative della volontà divina. Dio, in pratica, si riflette nel mondo e lo speculum diventa un punto di riferimento, un modello da imitare, o anche una raccolta di esperienze. Successivamente, specula si chiamarono anche le prime opere enciclopediche e i trattati moralistici che proponevano paradigmi morali (Specula principum, con norme comportamentali per i sovrani, Specula poenitentiae, con precetti per la condotta del buon cristiano, ecc…) (Zambon, 2011).

• Stemma della famiglia de Porcellis. La raffinata lastra di marmo bianco (realizzata alla fine del ‘300 da un lapicida piemontese e conservata presso il Museo Civico di Arte Antica di Palazzo Madama a Torino) identifica la sepoltura di un certo Antonio de Porcellis il cui stemma rappresenta, finemente scolpito a rilievo, le insegne araldiche del defunto.


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• Stemma con leone rampante dalla coda bifida. Questo stemma di gusto italiano, con un’esplicita valenza araldica, è realizzato in bronzo fuso a cera persa nel XVI secolo. Un leone rampante dalla coda biforcuta rivolto a sinistra è inquadrato da un cordone ellittico, a sua volta rappresentato entro una cornice mossa (con riccioli e volute) e sormontato da un cimiero. • Tessera per la preparazione della Triaca. Questa tessera circolare in bronzo, realizzata a Venezia nel 1559, consentiva al titolare di partecipare al solenne rito in cui si preparavano gli ingredienti principali per ottenere le diverse versioni del famoso polifarmaco chiamato Triaca: un vero e proprio placebo toccasana (costituito da una grande quantità di sostanze fra le quali eminentemente la carne delle vipere di Asiago), il cui nome derivava dal termine Theriaca, con riferimento alla versione iniziale ideata come contravveleno da Mitridate VI (re del Ponto) per combattere le conseguenze del morso di animali pericolosi (therion dal greco, letteralmente fiera, belva). La tessera, in particolare, rappresenta uno scudo entro il quale si trova lo stemma della famiglia Cicogna (una cicogna con un serpentello nel becco). Le tessere, infatti, erano prodotte in forme personalizzate dalla Pubblica Amministrazione e distribuite annualmente ai farmacisti residenti e operanti nella Serenissima.

Sulle orme di san Paolo, Origene (Homiliae in Canticum Canticorum, III, 9) insegna: “visi-

bilis hic mundus de invisibili doceat, et exemplaria quaedam coelestium contineat positio ista terrena; et ab his quae deorsum ad ea quae sursum sunt possimus ascendere, atque ex his quae videmus in terris sentire et intelligere ea quae habentur in coelis” (L’invisibile insegna il visibile del mondo, e contiene la posizione degli esemplari terreni di alcuni dei corpi celesti; a quelle cose che sono al di sopra, di sotto, e dalle cose che possiamo aspirare, e da queste cose che vediamo e comprendiamo le cose che si hanno per sentirsi in paradiso in terra). Possiamo pertanto affermare che la raffigurazione dell’animale è mutata nel tempo a seconda dei contenuti che la cultura locale intendeva trasmettere. In verità, l’iperrealismo dell’arte parietale antica cui abbiamo accennato nei precedenti capitoli nel Medioevo si trasforma nella estrema stilizzazione dell’animale raggiunta dall’araldica e dalle miniature, passando attraverso l’antropomorfizzazione degli animali nelle favole. Le favole nascono, infatti, come brevi racconti con un esplicito insegnamento socio-comportamentale e, nella tradizione occidentale, la favola si lega indissolubilmente al nome di Esopo, narratore greco vissuto tra il VII e il VI secolo a.C. al quale si deve la nascita di questo genere letterario.

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Il lupo accusa la volpe davanti alla scimmia. Il lupo e il cane. Le due immagini (calcografia su carta di stracci) rappresentano rispettivamente un lupo che accusa la volpe davanti alla scimmia (Le Loup plaidant contre le Renrad pardevant le Singe) e un lupo con un cane (Le Loup et le chien): esse sono tratte dal testo Fables avec les commentaires de Coste (nouvelle édition, ornée de figures, tome premiére, chez Billois libraire à Paris, an X, XLIV [54]) che riporta le tavole dal famoso autore francese Jean De la Fontaine (comunemente detto La Fontaine). Le raffigurazioni riferiscono di un mondo, quello animale, nel quale si riconoscono virtù e difetti tipicamente umani. Le ingenue raffigurazioni settecentesche di Huot ben si rapportano con l’atmosfera delle favole a loro volta riprese da quelle di Esopo e poi di Fedro.

I suoi componimenti favolistici esprimevano allegoricamente il suo personale pensiero sull’essere umano, ponendo l’attenzione sugli animali (talvolta anche piante, il melograno, il melo, l’olivo, il rovo, e perfino oggetti inanimati, come il muro e il chiodo, oppure fenomeni naturali quali l’inverno o la primavera) come specchio riflettente dei pregi e dei difetti dell’uomo, con la presenza di situazioni di vita reale. Nelle sue brevi favole, l’animale incarna una figura allegorica attraverso la quale veniva raccontata la realtà quotidiana; gli animali erano una sorta di maschera, umanizzati e dotati di una psicologia fissa, che esprimevano a piacimento critiche sul mondo politico in cui Esopo stesso viveva e ogni specie simboleggiava una specifica qualità, negativa o positiva, secondo associazioni che sono ancor oggi valide: la volpe e l’astuzia, la formica e la parsimonia, la cicala e l’ozio, ecc. La schiettezza della morale e l’incarnazione dell’uomo attraverso l’animale permettevano un approccio comunicativo migliore evitando una situazione compromettente per l’autore nei riguardi della società contemporanea.


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Fedro fu lo scrittore latino che seguì le orme di Esopo riportando dal greco questo genere letterario. Le sue favole furono create per mettere in risalto alcuni tipici comportamenti umani, ma soprattutto come denuncia sociale in un mondo in cui dominavano i rapporti di forza tra gli uomini. Anch’egli schiavo come Esopo, avvalendosi delle figure animali mostra le peculiarità dell’uomo senza rischiare di esporsi contro la sua società. È quindi evidente che le sue favole riportano sia riflessioni personali circa il periodo storico in cui è vissuto, che le morali di facile utilizzo e insegnamento per gli altri. L’espediente di utilizzare gli animali non era dovuto, quindi, soltanto al fatto che fossero di immediata comprensione ma anche alle ristrettezze del regime totalitario in cui gli autori antichi vivevano. Le favole classiche hanno avuto poi un altro celebre narratore, Jean De La Fontaine, autore francese del ‘600 le cui storie, espresse in versi poetici, ripercorrono le orme di Esopo e Fedro; esse esprimono il suo pensiero sul potere dominante in Francia proponendo una denuncia sociale attraverso il racconto di animali che incarnano le diverse categorie sociali presenti nella realtà in cui l’autore viveva. I suoi animali parlanti hanno spesso intenzioni morali; i suoi testi sono ricchi di riferimenti critici e ironici degli uomini al potere. Questo genere letterario fu oggetto di studio da parte del noto ricercatore Propp6 il quale codificò la struttura della fiaba e attribuì l’origine dei personaggi magici, costantemente presenti in questo genere, al fatto che risalissero a epoche in cui si svolgevano i riti di iniziazione di stampo pagano e/o religioso. Molte fiabe moderne presentano, altresì, personaggi antropomorfi di origine fantastica, ovvero animali che hanno la facoltà di compiere qualsiasi cosa, nonché la capacità di saper parlare e camminare come esseri umani. La fiaba di Alice nel paese delle meraviglie, scritto da Lewis Carrol nel 1871, ne è un ottimo esempio. Quella storia vede come protagonista una bambina che incontra strambi personaggi appartenenti ad ogni tipologia del regno animale e non, i quali si animano vivacemente assumendo comportamenti che vanno al di là della logica comune, come ad esempio il Bianconiglio, il Gatto del Cheshire o Stregatto, il Brucaliffo, la Lepre Marzolina e così via. Anche in questo caso la narrazione ha un evidente fine moralistico: infatti l’autore intende mettere in risalto l’ipocrisia del mondo adulto mescolando una buona dose di realismo e magia, logica e non-sense; egli fa risaltare al meglio le caratteristiche comportamentali di Il linguista e antropologo russo Vladimir Jakovlevič Propp sottopone a un esame critico gli schemi di classificazione delle fiabe nel saggio Morfologia della fiaba (1928), mentre in Le radici storiche dei racconti di fate ricompone la genesi fiabesca.

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ogni singolo personaggio antropomorfizzato, trasferendovi l’ipocrisia dell’essere umano portato agli estremi e offrendo una forte critica sulla società stessa in cui viveva. L’apice di quel tipo di antropomorfismo si ha con Hans Christian Andersen il quale, attraverso le sue opere, esprime il conflitto sociale determinato in modo particolare dall’elemento della diversità. Il tema del ‘diverso’ che lotta per essere accettato ha il suo massimo successo ne Il Brutto Anatroccolo e ne La Sirenetta. Considerate inizialmente come favole dirette unicamente ai bambini, per i complessi temi trattati sono state rivalutate successivamente come opere rivolte agli adulti. In entrambe le storie sono portati in primo piano i desideri dei protagonisti di ottenere una vita normale; l’antropomorfismo comportamentale dei protagonisti animali, infatti, rappresenta la chiave comunicativa per poter esprimere al meglio il desiderio del ‘diverso’ di appartenere ed essere accettato dalla società in cui vive. Attraverso, ad esempio, il trasferimento dei sentimenti umani, l’autore, grazie al piccolo e brutto anatroccolo, esprime al meglio la metafora del percorso della vita e la morale che tutte le persone hanno un valore, a prescindere dal loro aspetto fisico e da qualsiasi altra diversità. Il tema dell’accettazione sociale è riproposto da Helen Aberson e Harold Pearl nel celebre personaggio di Dumbo (dumb in inglese significa stupido ma anche muto). L’elefantino Dumbo è caratterizzato da enormi orecchie per le quali viene preso in giro; scopre poi però che tali orecchie gli permetteranno di volare, esprimendo quindi al meglio il concetto secondo il quale, talune volte, i difetti si possono rivelare dei doni. Oltre a ciò, vi è anche un altro dettaglio da non dimenticare: in genere l’antagonista dell’elefante è rappresentato dalla figura del topo, ma nel caso di Dumbo il suo vero e unico amico è proprio il topo stesso, sfatando, quindi, in qualche modo il mito delle inimicizie che si possono creare tra razze di animali opposti. Anche Paul Grimault, ne Le Roi et l’oiseau (Il re e l’uccello) riprende dai racconti di Andersen l’antropomorfismo come espressione di critica sociale con evidenti tematiche politiche. Il protagonista è un uccello antropomorfo che incarna il simbolo della ribellione contro un sistema opprimente governato dal re (figura rappresentante dell’essere umano dominante). Il contesto sociale e storico in cui viveva l’autore spicca come elemento integrante inserito nelle storie influenzando sia le caratteristiche dei personaggi sia l’intero svolgimento della narrazione. Oltre all’antropomorfismo legato alla sfera sociale in senso generale, nelle fiabe ne esiste uno che si ricollega al tema sociale del nucleo familiare, come nella fiaba de I tre Porcellini (tramandata oralmente e trascritta nel 1843 da Joseph Jacobs); questa, ad esempio, affronta il tema della difficoltà della crescita in ogni suo stadio rappresentando


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• Alice nel Paese delle Meraviglie. Locandina del-

la versione di Walt Disney della fiaba Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie (titolo originale Alice’s Adventures in Wonderland), romanzo fantastico pubblicato per la prima volta nel 1865 dal matematico e scrittore inglese reverendo Charles Lutwidge Dodgson, sotto il ben più noto pseudonimo di Lewis Carroll. Qui sono ben visibili alcuni personaggi più conosciuti quali Alice, il Cappellaio Matto, il Gatto del Cheshire, il Coniglio Bianco e la Regina di cuori.

le differenti personalità nella costruzione delle casette dei tre animal: la paglia, il legno e il cemento rappresentano i tre stadi della crescita dove, in un primo momento si è più fragili, diventando gradualmente sempre più forti e saggi. Ma il valore morale della crescita e della famiglia hanno il loro massimo esponente con il racconto dell’austriaco Felix Salten, il quale, nel 1923, scrisse Bambi, una vita nel bosco. L’intero racconto, infatti, è dedicato al tema della famiglia, alla forza di volontà del protagonista nel saper superare le perdite e al saper affrontare le problematiche che si incontrano lungo il cammino della vita; egli tratta i sentimenti umani con una dose di realismo tale da rendere l’intera storia rappresentata da animali molto vicina alla nostra realtà. Vorrei concludere ricordando la stretta relazione che intercorre anche tra santo e animale, imprescindibile per valutare quel forte legame affettivo, e talvolta terapeutico, che lega la bestia agli esseri umani. “Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona”; con queste parole la Genesi (1, 25) rappresenta la creazione degli animali, ovvero degli esseri che hanno un’anima e, quindi, sono esseri viventi. Così come la vita dell’uomo è accompagnata da animali, allo stesso modo, ad ogni santo si

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La Predica agli uccelli. Attribuita a Giotto, l’opera è la quindicesima delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco della Basilica superiore di Assisi, dipinta tra il 1295 e il 1299. Questo episodio appartiene alla serie della Legenda maior (XII, 3) di Bonaventura sulla vita di Francesco: “Andando il beato Francesco verso Bevagna, predicò a molti uccelli; e quelli esultanti stendevano i colli, protendevano le ali, aprivano i becchi, gli toccavano la tunica; e tutto ciò vedevano i compagni in attesa di lui sulla via”. Con questo episodio Bonaventura voleva alludere alla capacità di Francesco di parlare a poveri ed emarginati, paragonandoli agli uccelli.

affianca l’immagine di un animale dalle più svariate connotazioni e peculiarità che, di volta in volta, ne esalta le doti. Questi rapporti si sono tramandati nei secoli fino ai giorni nostri, attraverso delle leggende, delle narrazioni a cavallo tra realtà e immaginifico. Stando quindi ai racconti, san Romedio sarebbe riuscito ad ammansire un orso dopo che questi gli aveva divorato il cavallo. Immediato il paragone con un altro grande santo, Francesco d’Assisi, alle prese con una fiera che infestava in modo preoccupante i boschi nel Medioevo: il feroce lu-


gli animali nei bestiari, nell’araldica, nei racconti

• Medaglione con una figura a quattro volti. Il curioso medaglione in bronzo, verosimilmente modellato in Francia fra la fine dell’800 e i primi del secolo scorso, rappresenta una figura complessa dotata di quattro volti, due umani e due animaleschi, rispettivamente visibili con chiarezza ruotando il medaglione: la rappresentazione, detta tricefala, evidenzia un viso femminile sormontato da una sorta di copricapo in forma di lupo (anch’esso volto a sinistra), la protome di un maiale volto a destra e, infine, un viso maschile nelle forme di un fauno barbuto. L’enigmatico rilievo, che l’architetto bergamasco Sandro Angelini (da cui proviene) probabilmente usava come presse-papier, si riferisce al carattere complesso degli umani: il copricapo a forma di lupo da cui fuoriesce il volto, rappresenta ciò che ognuno sarebbe nei confronti degli altri (homo homini lupus), il maiale rappresenta gli istinti bassi che si celano nell’intimo mentre la testa di fauno richiama le pulsioni incontrollate con le quali le sovrastrutture sociali, morali, ecc. devono fare i conti. Simili immagini si diffusero nel ‘500 per i giochi allegorici; derivate dalle erme del culto di Giano, furono poi riprese nel ‘700 in ambito massonico. po di Gubbio. Oppure, sant’Antonio abate e il porcellino, san Rocco e il cane, sant’Antonio di Padova e i pesci (ma anche la mula), san Giorgio e il drago, san Girolamo e il leone, sant’Agnese e l’agnellino, sant’Eustazio e il cervo. O ancora, san Colmano, il quale viveva con un gallo che cantava quando era ora di svegliarsi, un topolino che gli mordicchiava l’orecchio fin quando non si alzava e una mosca che gli teneva il segno del libro che leggeva prima di addormentarsi. O anche Elia e il corvo, Giona e la balena. “Nella sua ricchezza di temi e stimoli il rapporto santo-animale si presta a varie letture, sia di tipo etico-didascalico sia moraleggiante, un po’ come accade per le favole, altro ‘ambiente’ pieno di animali. Di volta in volta l’animale diventerà il ‘pretesto’ di qualche predica che vuol castigare i costumi, proiettando di fatto sulla bestiola in questione vizi o virtù tutte umane. Altre volte una peculiarità propria di un insetto – pensiamo alla proverbiale operosità attribuita alle api – lo può rendere esemplare alla stessa razza umana. In alcuni casi l’animale diventa, più o meno a ragione, immagine ‘prestata’ al linguaggio umano in difficoltà di fronte a concetti troppo complessi o elevati, simbolo di qualcosa di diverso: del cammino di conversione piuttosto che di quello di perdizione, della fedeltà invece che del tradimento” (Scarsato, 2007).

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l’animale nel progetto dell’uomo

Fino ad ora, la trattazione dell’influenza dell’essere animale sul progetto degli oggetti ha seguito un approccio metodologico che ha privilegiato una chiave di lettura trasversale, esaminando alcuni tra i più significativi ambiti della questione e introducendo, in maniera sintetica, problematiche antropologiche, filosofiche, sociologiche e metodologiche collegate fra loro a diverso titolo. Si era cominciato da una riflessione sulle caratteristiche degli oggetti zoomorfi e sul loro situarsi al confine con altre tipologie di manufatti, dall’oggetto tecnico a quello comune o banale, all’oggetto icona; ora vorrei approfondire più specificatamente l’influenza diretta del binomio uomo-animale sulla cultura del progetto. Come abbiamo visto, gli studi sull’evoluzione dell’uomo sono trasversalmente percorsi da un soffuso tormento, più o meno espresso e misterioso, che riguarda l’eventualità di stabilire un confine tra il ‘primate intelligente’ e l’animale; tutti i maggiori esponenti del pensiero filosofico occidentale hanno indagato la problematica dandone una loro interpretazione. Certamente l’uomo e l’animale hanno in comune un minimo denominatore legato alla natura di esseri viventi: il nascere, il morire, il vivere, la fame, la sete, la paura, il piacere e il dolore. Tuttavia, mentre l’animale è relegato nel regno biologico, l’uomo vive anche la sfera del simbolico. In realtà, fra gli interessi costanti dell’uomo civilizzato, vi è stato (e vi resta ancora oggi) quello di sancire una ferma distanza, se non la cesura, tra il proprio ‘io’ e quello degli altri esseri viventi sottolineando l’enorme lontananza delle due nature, la differenza assoluta e ir-

• Il

padiglione del Regno Unito all’Expo di Milano del 2015 proponeva ai visitatori la possibilità di immedesimarsi nel volo di un’ape che, di fiore in fiore, attraversa un tipico giardino inglese per tornare al proprio alveare. Il percorso del visitatore-ape iniziava all’esterno, in un frutteto di tipiche mele inglesi fiorite e maturate nel corso del semestre che aveva preceduto l’evento; il punto focale della visita era l’ingresso del padiglione (al piano superiore) posto al centro del monumentale ed emblematico alveare: entrando nel padiglione, si era circondati da impulsi e brusii e da 1.000 lucine LED, collegate a vere api di un alveare nel Regno Unito, a Nottingham. L’impressione era quella di essere al centro di un vero alveare. Il progetto è stato oggetto di un concorso in Gran Bretagna il cui vincitore è risultato l’artista Wolfgang Buttress, che ha realizzato l’opera in collaborazione con l’ingegnere Tristan Simmonds e lo studio di architettura BDP.


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riducibile e, soprattutto, la sua indiscussa superiorità. La certezza della separazione di questi due mondi si è consolidata nei dualismi, sia platonici che cartesiani, di spirito e di corpo che hanno segnato il percorso dalla differenza radicale alla superiorità, dalla superiorità al dominio, dal dominio sull’animale al suo sfruttamento; “Più forte di tutti i rapporti, reali ed effettivi, della lotta, della caccia, della domesticazione, dell’allevamento e della compagnia, al di là della complessità dei significati magici e religiosi sempre presenti, prevale la certezza di un uomo che si proclama padrone del mondo vivente” (Battaglia, 1999). L’uomo, infatti, si definisce ‘animale’ solo aggiungendo una specificazione che evidenzi e sottolinei la differenza. Nella Politica di Aristotele (tὰ πολιτικὰ, libro A) l’uomo è detto ζοον λογον εχων (zóon logòn échon) quindi animale razionale; nell’ Etica Eudemia leggiamo che l’uomo è un animale politico ζοον πολιτικòν (politikòn), ma anche domestico (oikonomikòn), un animale comunitario (koinonikòn). Aristotele si chiede, così, se ‘animale terrestre bipede’ sia una valida definizione di uomo, cioè se i due termini siano reciprocamente convertibili. Anche la maggior parte del lavoro filosofico contemporaneo sugli animali si riferisce a essi evidenziando l’egemonia della ragione, e quindi dell’uomo, che decide della loro vita e della loro morte. Seppur troviamo note di dissenso nel testo postumo di Jaques Derrida, L’animal que donc je suis: già nel titolo si sente l’ambiguità del suis francese (che si può tradurre tanto col verbo ‘essere’ quanto col verbo ‘seguire’) che non viene volontariamente risolta dal testo. Con riferimento ai racconti della Genesi il filosofo scrive che “L’uomo è dopo l’animale. Lo segue. Questo ‘dopo’ della sequenza, della conseguenza, o della persecuzione, non è nel tempo, non è temporale: è la genesi stessa del tempo” (Derrida, 2014, pp. 54-55). Comunque, in quanto specie, homo è sapiens sapiens, faber, loquens, ludens, ecc. L’uomo faber, con le conoscenze tecniche e con gli strumenti a sua disposizione, ha guardato all’attività animale da un punto di vista antropocentrico, studiando e copiando termitai, dighe, ragnatele, nidi, ecc. (Gould & Gould, 2008). Gli animali costruiscono i propri rifugi e, da sempre, gli uomini ne copiano i metodi costruttivi o ne traggono fonte di ispirazione formale per la realizzazione di opere adatte alle loro esigenze. Un caso esemplare recente è stato il padiglione del Regno Unito all’Expo di Milano 2015. In una esperienza multisensoriale, infatti, il visitatore iniziava il suo percorso all’esterno, in un tipico frutteto di mele inglesi, per passare poi attraverso un prato di fiori selvatici caratteristici della Gran Bretagna posti ad altezza d’occhio, così da riprodurre la visione che dovrebbero averne le api durante il volo; sullo sfondo appare, infine,


l’animale nel progetto dell’uomo

un immenso alveare, una scultura di 30 tonnellate di alluminio alta 14 metri che voleva ricordare un favo. In architettura, l’immagine dell’animale è stata utilizzata tanto in modo allegorico che strutturale; esso è stato rappresentato nei diversi edifici, presso tutte le culture e nelle diverse epoche storiche e, a volte, gli sono stati attribuiti importanti significati simbolici. Basta ricordare la ‘porta dei leoni’ di Micene, (1300 a.C. circa). Due leonesse rampanti sono rappresentate affrontate rispetto a una colonna. I due eleganti felini costituiscono evidenti riferimenti simbolici di culto religioso mutuati dalla cultura minoica (si pensi alla Sala del Trono del Palazzo di Cnosso, le cui pareti dipinte rappresentano grifoni accasciati) e, soprattutto, dai culti asiatici: la colonna rappresenta il simbolo del potere regale e la ‘personificazione’ del palazzo reale stesso (attraverso la porta, si accede infatti al Palazzo del Re, posto su un livello più elevato). Le due fiere ‘difendono’ e, allo stesso tempo, sostengono la colonna e, metaforicamente, la città tutta. La porta stessa rappresenta la potenza dei prìncipi micenei, in perfetta armonia con l’imponenza dell’intero luogo che doveva così impressionare il visitatore attraverso la forza e il prestigio della cultura. Prima dei leoni della porta di Micene, nella storia, era apparsa un’altra architettura zoomorfa conosciuta da tutti: la Sfinge, essere mitologico raffigurato come un mostro, con il corpo di leone, la testa umana (androsfinge se maschile o ginosfinge come sua controparte femminile) e talvolta dotata di ali. Il ruolo simbolico delle sfingi è generalmente associato a strutture architettoniche imponenti come le tombe reali o i templi religiosi; nella mitologia egiziana era un monumento che veniva realizzato vicino alle piramidi come simbolo protettivo, per garantire al faraone una serena vita nell’aldilà. In merito alla relazione tra animale e forma architettonica, il biologo Sanford Kwinter ha affermato “In quanto specie [umana] potrebbe essere innata in noi la capacità di vedere la forma”; affascinato dalla morfologia e dai comportamenti dei grandi predatori, aggiunge che per l’essere umano “la forma dell’animale è tutto ciò che l’animale fa” (Kwinter, 2005). Con l’Umanesimo rinascimentale e con i suoi presupposti (ad esempio, la valorizzazione della prospettiva nella rappresentazione architettonica e nella pittura, le formule matematiche e geometriche nell’architettura e la secolarizzazione della vita quotidiana), l’uomo inizia chiaramente a separare la sua identità, esaltandola, da quella dell’animale e allontanandosi dal pensiero che fino ad allora lo aveva in qualche modo legato ad essa (Ingraham, 2014). Cambia di conseguenza anche il ruolo dell’animale nei confronti delle opere architettoniche; dai doccioni medioevali in forma di leoni o altri animali fantastici, come i draghi del Duomo di Milano (ma già presenti nei templi greci), alle lucertole (simbolo di rinascita e

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Aster populus, un divano tentacolare. Questo divano morbido e privo di struttura rigida, progettato dai brasiliani fratelli Campana, ricorda la geometria delle creature dell’oceano, stelle marine o polipi. Formato da due volumi complementari, realizzati in poliuretano espanso e piuma sovrapposti (che, con diversa densità, funzionano rispettivamente da seduta a più posti e da sostegni dorsali e poggia braccia) appartiene alla collezione Historia Naturalis di Edra. L’ispirazione zoomorfa è accentuata dal rivestimento, un prezioso velluto di mohair di alto spessore.

di ricerca di Dio) e alle api (stemma della famiglia papale dei Barberini) rappresentate da Filippo Brunelleschi sul baldacchino sopra l’altare della Confessione in San Pietro. La perfezione della natura, del resto, è tutti i giorni sotto i nostri occhi; la natura è essenziale, elegante, mai ridondante o eccessiva. Il mondo animale e quello vegetale ci dimostrano come la bellezza nasca da strutture perfettamente funzionanti ed economiche e per questo essi sono stati da sempre fonte di ispirazione per l’uomo in generale e, successivamente, per artigiani, designers, architetti e ingegneri. In epoca moderna l’architettura ha riscoperto le valenze estetiche e tecniche fornite dalla natura, esprimendo proposte formali innovative affrontate con mezzi che si riferiscono al proprio tempo e che si propongono come risposta ai bisogni correnti. Questa tendenza ha fornito le basi, alla fine dell’Ottocento, per uscire dallo storicismo e per esprimersi con elementi più astratti portando all’avvento dell’Art Nouveau, termine coniato in Belgio, che in Italia si declina come Stile Liberty. A tal proposito, riferendosi a Seurat, Renato Barilli scrive “Questo sistema egli [n.d.r. Georges-Pierre Seurat] lo trova nella razionalità che regola in natura la crescita dei corpi organici, vegetali e animali, e che riesce a conciliare l’essenzialità degli schemi geometrici con la fantasia e l’imprevedibilità di varianti, risultando così assai diversa da quella cui sembra ispirarsi prevalentemente l’uomo nei suoi sforzi costruttivi, i quali anche e soprattutto per evidenti necessità economiche si rifanno a schemi poveri e ridotti: l’angolo retto e i suoi derivati piani e solidi, il rettangolo, il parallelepipedo o il circolo e suoi sviluppi di rotazione, la sfera, il cono, il cilindro. La natura invece può permettersi schemi assai più ricchi e vari, apparentemente anti economici come le ellissi, le parabole, le curve e soprattutto le varie combinazioni tra le une e le altre. […] A questo fito


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• Macchina da guerra zoomorfa. La testuggine arietata (in

latino: testudo arietata) era una macchina militare concettualmente derivata dalla nota configurazione difensiva della fanteria romana (protetta da un impenetrabile schermo costituito da scudi): essa permettava ai soldati di avvicinarsi il più possibile con l’ariete sotto alle mura nemiche protetti da una struttura mobile. In realtà la testudo arietata è il curioso ibrido di ben due strumenti di assedio zoomorfi: l’ariete (lungo e pesante tronco con la testa in bronzo la cui percussione contro le mura nemiche era azionata tirando avanti e indietro delle funi ancorate alla parte posteriore) e la testuggine (in questo caso una struttura dotata di una robusta copertura e, soprattutto, di ruote). I soldati che azionavano la macchina erano protetti da una tettoia formata da un tavolato, da uno strato di argilla e da pelli resistenti al fuoco (per evitare che massi, barili, tronchi, pece infuocata o olio bollente, lanciati dagli assediati, potessero danneggiarla).

e zoomorfismo Seurat non giunge per scelta eccentrica e individuale, quando anzi si tratta di un traguardo cui tutta una fase culturale sta arrivando e non soltanto in primo luogo nei campi molto selettivi e aristocratici delle belle arti, ma in quelli molto più concreti del design (progettazione di suppellettili e mobili per la riproduzione industriale) e dell’architettura. Il fito o zoomorfismo, ovvero l’ispirazione alle leggi della crescita naturale, costituisce la prima grande fase del modernismo, cioè, in sostanza, del fare i conti con la contemporaneità del voler essere al passo con le sue esigenze: quando cioè tutte le attività disegnativa e progettuale decidono di affrancarsi dallo storicismo, dall’ossequio per gli stili del passato, e dare al cosmo utensilistico un volto absolument moderne. […] Prima fase modernista di gusto fitomorfo, di cui stiamo parlando, quando giungerà a maturazione verso la fine degli anni Ottanta e nei due decenni successivi, verrà etichettata in vario modo: Art Nouveau, Jungendstil, Liberty, florealismo, ecc o, con termini più largo e comprensivo, Simbolismo (i percorsi sinuosi del fitomorfismo saranno infatti da intendersi come tracce materiali, singoli appunto, di una natura intesa come principio superiore, trascendente, onnipervasivo)” (Barilli, 2005, pp. 53-54). Una delle caratteristiche più importanti di questa corrente artistica è infatti l’ispirazione alla natura, di cui studia gli elementi strutturali, traducendoli in linee dinamiche e ondulate, con il famoso tratto ‘a schiocco di frusta’: semplici figure sembravano prendere vita ed evolversi naturalmente in forme simili a piante o a elementi zoomorfi. Questo metodo della progettazione, che si declina nella modellazione degli spazi, nella morfologia strutturale e nell’apparato decorativo (riflettendo i principi desunti dal mondo naturale) nel XX secolo prende il nome di biomorfismo, termine usato per la prima volta da Alfred Barr nel 1936, riferendo alla correste artistica collegata con il surrealismo e il

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Bird, la chaise longue con le ali. L’elegante ed essenziale chaise longue a dondolo di Tom Dixon prodotta da Cappellini ha una sagoma che ricorda le ali spiegate di un gabbiano. Questa seduta è realizzata con una struttura in conglomerato di legno, massello di abete e metallo; l’imbottitura è in poliuretano espanso a quote differenziate.

modernismo, in artisti quali Joan Miró, Jean Arp, Henry Moore e Barbara Hepworth. Quello che verrà definito come biomorfismo si esprime nei diversi luoghi del pianeta, ad esempio, nelle opere del modernismo catalano di Gaudì, nel Gugghenaim Museum di York progettato da F.L. Wright, nel Sydney Opera House di Gehry dove gli involucri esterni evocano morfologie animali o nell’iconico TWA Terminal all’aeroporto JFK di New York di Eero Saarinen. Successivamente, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, in Francia e in Austria si è espressa una generazione di giovani architetti europei che aveva intrapreso la ricerca bio/zoomorfa dando forma a una serie di edifici modellati, da un lato, con materiali grezzi che rimandavano alla texture e alla forma degli habitat animali e, dall’altro, a ipotesi di unità abitative minime di evidente plasticità che suggerivano una continuità formale con la natura. I lavori di quegli architetti coniugavano l’ispirazione ai rifugi degli animali con l’imitazione del loro aspetto come il piumaggio, le squame e così via, creando strani ibridi che, molto probabilmente, sono stati il preludio delle creazioni architettoniche di ispirazione zoomorfa dell’era digitale (Sonzogni, 2014). Michelucci affermava che «uomo, natura e architetttura sono termini inseparabili. L’architettura che non ha in sé, nella sua struttura, nella sua forma e nel suo spazio il senso della natura, è arida di sollecitazioni culturali e umane» Più recentemente, seguendo questo approccio all’architettura ma con particolare riferimento proprio alla zoologia, un gruppo di studenti di architettura del Southern California Institute of Architecture (SCI-Arc), ha effettuato un’analisi della biologia anima-


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le come punto di partenza di un processo creativo multidisciplinare per applicare il metodo della ricerca scientifica alla progettazione architettonica. Gli studenti si sono ispirati ai più grandi naturalisti della storia (tra cui Leonardo da Vinci, Conrad Gessner, Ulisse Aldrovandi e Diderot) dimostrando che, attraverso l’osservazione e la ricerca scientifica, è stato possibile sintetizzare in forma grafica le conoscenze tratte dal mondo animale analizzato, con un peculiare processo di sintesi e di ricostruzione, di appropriazione e di rielaborazione. Il risultato del loro lavoro è un disegno essenziale, capace di estrapolare gli elementi chiave dell’analisi, evidenziando, con pochi colori, le caratteristiche esplorate; partendo dalla massa dell’animale, i disegni, di volta in volta come tavole d’architettura, ingrandiscono, riportano in scala, si concentrano e definiscono in dettaglio una parte del corpo, per arrivare all’esplorazione profonda dell’organo che costituisce l’oggetto principale della loro investigazione: la pelle. Questo processo ha permesso agli studenti di applicare la biomimetica animale all’involucro architettonico (Mazzoleni, 2011). Molti dei più importanti traguardi scientifici e tecnologici sono stati suggeriti dalla osservazione dei fenomeni e delle strutture naturali: allo stesso modo la biologia è la scienza alla quale i teorici dell’architettura e del design si sono più frequentemente rivolti. Come ha osservato Philip Steadman vi sono aspetti degli artefatti (quali ad esempio le costruzioni) e addirittura aspetti dei modi in cui i progetti sono realizzati che si prestano particolarmente bene a essere descritti e spiegati dalla metafora biologica. “I concetti di ‘completezza’, ‘coerenza’, ‘correlazione’ e ‘integrazione’ usati per esprimere le relazioni non casuali tra le parti di un organismo vivente possono essere utilizzati altrettanto bene per descrivere analoghe qualità nei manufatti progettati con criterio. L’adattamento e la perfetta corrispondenza dell’organismo all’ambiente in cui esso vive possono essere paragonati alla equilibrata relazione tra una costruzione armoniosa e lo spazio circostante e, più astrattamente, alla concordanza tra l’oggetto e il suo progetto (design). Fra tutte le scienze, probabilmente la biologia è quella che, prima e in modo più significativo, affronta il problema centrale della teleologia (dal greco τέλος, fine) del design nel mondo naturale, cioè la questione finalistica della evoluzione della natura”. E ancora “Il concetto della ‘biotecnica’ o ‘biotecnologia’, tra il 1920 e 1930, attirò l’attenzione di alcuni designers. In sostanza, la teoria avanzata era questa: nell’evoluzione delle piante e degli animali la natura stessa aveva già realizzato una grande varietà di ‘invenzioni’, rappresentate nei design degli organi, o negli adattamenti degli arti. Queste invenzioni avevano risolto in maniera ingegnosa tutti i tipi di problemi funzionali ed ingegneristici – strutturali, meccanici, persino chimici ed elettrici. Ciò che si richiedeva era una studio accurato della ingegneria della natura; l’uomo avrebbe così trovato la soluzione per tutte le esigenze tecniche, dal momento che bastava

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soltanto ricopiare i modelli naturali nel design di macchine e strutture. In questo modo, invece di una soluzione tecnologica che richiedeva un grande dispendio di tempo, si poteva ‘prendere in prestito’ il tempo già impiegato nell’evoluzione organica di questi equivalenti naturali dei manufatti prodotti dall’uomo” (Steadman, 1988, p. 209). Simili teorie, come osserva Steadman (Steadman, 1988, p. 55) sono state poi approfondite da Felix Vicq d’Azyr e, soprattutto, da Georges Cuvier con la sua regola di anatomia fondata sulla correlazione delle parti, secondo cui “Tutti gli organi di uno stesso animale formano un sistema unico, le cui parti sono tutte concatenate, agiscono e reagiscono l’una rispetto all’altra, e non vi può essere alcun mutamento in ognuna di esse, senza che ciò non comporti una analoga modificazione in tutte” (Cuvier, 1808, p. 330). L’attività creativa è per sua natura sempre caratterizzata da una attenta osservazione della realtà e il risultato della spinta emotiva di quello che nel passato era l’artifex, e che oggi è il progettista, è la costruzione di un modello semplificato di essa. Se, infatti, ci riferiamo al campo di applicazione del design, l’azione progettuale è particolare perché il mix interdisciplinare cui essa attinge è diverso da qualsiasi altro ambito e, di conseguenza, il percorso di elaborazione che il progettista compie per raggiungere la sua sintesi (sia che l’obiettivo sia un oggetto o un servizio) è realmente peculiare. Ogni oggetto, pertanto, è il risultato di un pensiero progettuale che, mediante un preciso percorso (metodo), conduce a configurare un artefatto estetico, funzionale, tecnico, tipologico e formale come risposta a una necessità umana. Un aspetto importante è che esso esprime caratteri peculiari in relazione alle possibilità e al contesto socio-culturale di riferimento; l’origine della forma degli oggetti più comuni e la loro evoluzione tipologica nell’arco della storia può, infatti, essere letta in chiave sociologica, analizzando le relazioni umane che ne costituiscono la premessa e il contesto di riferimento, come in parte si è accennato nei capitoli precedenti. Se esaminiamo i processi caratteristici della nostra cultura visiva e materiale possiamo capire come i desideri (e le attese) delle persone contribuiscano a dare agli oggetti la forma che hanno. Harvey Molotch propone il concetto di lash-up per sottolineare l’attività combinatoria e creativa che sta alla radice della creazione degli oggetti. Con quel termine, il sociologo newyorkese si riferisce alla sinergia improvvisa che si crea tra diversi fattori (economici, tecnici, culturali e istituzionali) che, interrelati, concorrono a dar vita a un oggetto in una determinata società. Portando il ragionamento ‘al limite’, Molotch sostiene efficacemente che “gli oggetti sono rapporti sociali resi durevoli” e quindi ritiene che gli stili di vita e le inclinazioni culturali siano legate dagli oggetti alla struttura produttiva ed eco-


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• Boalum, un serpente luminoso.

Come sottolineato dal nome, il richiamo al serpente Boa di questa lampada, progettata da Gianfranco Frattini e Livio Castiglioni nel 1970, è evidente. La sua struttura in materiale plastico bianco flessibile rinforzato con terminali in resina permette di variare la conformazione dell’oggetto a proprio piacimento: molteplici elementi si possono collegare in serie fino a un massimo di quattro pezzi (per uno sviluppo di 8 metri circa e si possono arrotolare a piacere). L’oggetto può essere utilizzato come lampada da tavolo, da terra, o da parete. All’interno, piccole lampadine a siluro sono collegate in serie, l’una all’altra, distanziate da una sfera isolante.

nomica di una popolazione. Infatti egli asserisce che nel complesso procedimento che porta alla definizione morfologica di un oggetto il ‘progettista’ sarebbe la mente e la mano che, in un preciso istante, riassumono nel disegno hic et nunc la componente antropologico-culturale del contesto di riferimento. “La natura del luogo influenza l’aspetto di un prodotto” afferma ancora Molotch “perché contiene quegli elementi anche molto soggettivi che prendono parte alla sua realizzazione.[…] La capacità creativa che deriva dall’ambiente sociale specifico finisce per entrare a far parte della natura dei prodotti” (Molotch, 2005, pag. 248). L’antropologia classica stabilisce peraltro una connessione intrinseca tra la società e l’artefatto che essa genera evidenziando che l’arte e la creatività in generale sono intimamente connesse all’attività economica del loro tempo; secondo questo approccio, quindi, le varie espressioni artistiche (comprese le diverse consuetudini estetiche) non solo rispecchiano la cultura a loro contemporanea, ma la influenzano. Per capire intimamente un oggetto e l’origine della sua forma è quindi necessario comprendere esattamente come è nato, in termini materiali e sociali. In questo senso si è già riflettuto sulle origini dell’aspetto zoomorfo dei manufatti primordiali che gli uomini hanno prodotto per supplire alle essenziali esigenze della loro vita; si è altresì riflettuto sulle relazioni tra l’artigiano-progettista e il contesto umano all’interno del quale egli è vissuto, per conoscere i rapporti materiali e sociali che lo hanno influenzato nei diversi periodi della sua evoluzione culturale. Alcuni esempi significativi sono costituiti dalle creature fantastiche della mitologia classica, dalle ‘forme mutate in corpi nuovi’ delle Metamorfosi di Ovidio, o dagli animali simbolici dei bestiari medievali. Ricordiamo

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ancora i volti e i corpi antropo-zoomorfi che si sovrappongono e si confondono tra loro nel corso della plurisecolare tradizione fisiognomica che va dai testi di Aristotele, alla Historia Animalium di Conrad Gesner al testo Della fisonomia dell’huomo di Giovan Battista Della Porta. O, ancora, le moltissime allusioni al regno animale presenti nel corpus drammatico di Shakespeare che, in forme attinte dalla tradizione (sia popolare che colta), sono state utilizzate per rappresentare l’uomo in tutto ciò che lo caratterizza, nel bene e nel male; infine, l’antropomorfizzazione dei personaggi animali delle fiabe, da Esopo a La Fontaine, fino a Carrol e Andersen. È evidente che, nell’evoluzione dell’essere umano, la natura ha costituito un importante riferimento, formale, funzionale e comportamentale; come abbiamo già avuto modo di dire, essa è stata spesso in grado di indurre nuove soluzioni tecniche ed espressive al nostro corredo materiale. Dall’osservazione della natura l’uomo apprende sicuramente l’idea di perfezione e di bello in quanto armonico ma dall’esplorazione dei fenomeni legati al mondo animale, in particolare, egli percepisce anche il senso del fenomeno causa-effetto e della relazione tra forma e funzione. Personalmente ritengo che, negli artefatti legati alle logiche del design, alcuni esempi di zoomorfismo rappresentino un buon modello di giusto rapporto tra forma e funzione. Intendo dire che, all’inizio della loro storia, gli utensili di origine animale mostrano


l’animale nel progetto dell’uomo

• Bookworm, un sinuoso porta libri.

Questo curioso ‘scaffale’ progettato nel 1993 da Ron Arad per Kartell, rappresenta un’importante innovazione nella storia dell’oggetto libreria in quanto spezza la rigidità che tradizionalmente la caratterizza e introduce un nuovo concetto, quello della flessibilità. La sinuosità desunta dalla natura ricorda, come propone il nome stesso, le varie conformazioni che i bruchi assumono nel terreno, evidenziando così la possibilità di modellare la libreria e di personalizzare la propria parete.

• Corallo chair. Questa poltrona-scul-

tura è realizzata con filo d’acciaio curvato a mano e rifinita con vernici epossidiche. La sua trama irregolare, che rende unico ogni pezzo, si ispira molto liberamente ai rami di corallo e rappresenta una chiara espressione artistica realizzata dai fratelli Campana per Edra.

una forma strettamente legata alla funzione: l’una influenza l’altra, e viceversa, in una sorta di biunivocità. Successivamente, questa tipologia di oggetti passa attraverso l’interpretazione apotropaica e artistica, fino a divenire fonte di ispirazione e motivo di contaminazione. Braudel afferma che, a ogni istante della vita sociale “l’uomo si nutre, alloggia, si veste […], ma potrebbe nutrirsi, alloggiare, vestirsi diversamente da come fa” (Braudel, 1993, pag. 301). In altri termini, anche quando un popolo soddisfa quelle che potrebbero sembrare le sue necessità materiali primarie, le riflessioni psicologiche e culturali che esso imprime al suo corredo materiale sono preminenti. Tutto questo avvalora l’idea secondo cui la gente non individua la forma e la funzione come elementi disgiunti l’uno dall’altro, l’uno più o meno importante dell’altro. Le soluzioni appaiono come un’unica Gestalt, una mistura piuttosto che elementi inseparabili. Ciò spiegherebbe, fra l’altro, per quale ragione le persone facciano spesso particolare fatica a spiegare la loro predilezione per un oggetto piuttosto che per un altro. Un altro approccio al problema della forma degli oggetti è quello secondo cui i dettagli estetici degli oggetti dovrebbero aiutare a individuare i modi specifici attraverso cui un prodotto sarà utile o durevole. Nel suo autorevole testo Il design degli oggetti quotidiani, Donald Norman condanna fermamente quel genere di design che antepone l’estetica alla funzionalità. Norman ritiene piuttosto che i prodotti dovrebbero essere concepiti per creare affordances, dovrebbero cioè avere un aspetto che fornisca informazioni sul loro giusto utilizzo.

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• Juicy Salif, un ragno da tavola. Con il suo inconfondibile aspetto aracniforme, il cor-

po affusolato e le lunghe zampe curve, Juicy Salif (disegnato da Philippe Stark,nel 1990 per Alessi) è lo spremiagrumi più esaltato e deriso, celebrato e criticato. In questo caso, l’allusione zoomorfa al ragno contribuisce all’eleganza dello strumento ma non alla sua funzionalità. Più che un oggetto di design, esso costituisce un raffinato gesto artistico che può essere perfino definito ‘un provocatorio argomento di conversazione‘. L’oggetto è stato realizzato in alluminio pressofuso lucidato e ha un diametro di 14 cm e un’altezza di 29cm. Un esemplare è attualmente esposto al Museum of Modern Art of New York.

La particolare maniera nella quale un oggetto fornisce ‘richiami’ verso l’utilizzatore dipende dalla capacità dei designers di cogliere la sensibilità culturale del momento e di metterla in gioco per raggiungere il suo obiettivo, cioè progettare un manufatto che risponda nel migliore dei modi a specifiche esigenze di utilizzo in un preciso momento nella società culturale alle quale si rivolge. Per affordance di un oggetto, egli intende quindi quelle sue caratteristiche morfologiche che fungono da ‘inviti all’uso’, che aiutano l’utente a usare l’oggetto in modo corretto (dall’inglese to afford, autorizzare): si tratta degli elementi costitutivi dell’oggetto d’uso che ‘autorizzano’ certe azioni piuttosto che altre. Riprendendo il concetto da James Gibson, Norman definisce esattamente affordance “le proprietà reali e percepite delle cose materiali, in primo luogo quelle proprietà fondamentali che determinano per l’appunto come si potrebbe verosimilmente usare la cosa in questione” (Norman, 2014, p. 29). Nel secondo dopoguerra in Germania, le teorie elaborate dai designers della Scuola Superiore di Progettazione di Ulm (inizialmente diretta da Max Bill, formatosi peraltro al Bauhaus e, in seguito, da Tomàs Maldonado) furono ulteriormente approfondite e portarono alla definizione di linguaggi (cioè di modalità espressive) detti della “buona forma” (in tedesco gute Form), che assunsero un carattere internazionale e che si basavano su una costante ricerca di praticità, razionalità, semplicità ed economicità (essi costituirono, tra l’altro, il principio stilistico essenziale del Funzionalismo). Secondo tale teoria, le funzioni dell’oggetto devono essere immediatamente evidenti e percepibili e tradotte in forme caratterizzate da un elevato livello di ordine geometrico, nel rispetto del principio irrinunciabile che ‘la forma segue la funzione’; di conseguen-


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za, tutto ciò che può essere considerato superfluo o inutile rispetto alla pura funzione deve essere eliminato. In questo senso, molti degli oggetti di origine animale analizzati e illustrati nei capitoli precedenti e quelli delle schede che seguiranno contengono quella che Sergio Polano definisce con esatta sintesi the Uncommon Beauty of the Common Things cioè l’intelligenza che nel tempo si è coagulata nelle ‘cose comuni’, per la logica razionalità senza ridondanze né sprechi del ‘design anonimo’, per il sapere asciutto che si esprime nelle soluzioni migliori del repertorio degli utensili, degli strumenti, degli oggetti di uso comune” (Polano, 2001, p.10). In altri casi, certamente, c’è una evidente volontà ludica del progettista nel conferire una forma zoomorfa ai suo progetti; forse si tratta di una innata tendenza di cercare conferme in nomi e concetti vicine alla sfera umana, a cose già conosciute e, quindi, di cui si ha il controllo. Per questo chiamiamo ‘gambe’ quelle del tavolo, ‘braccio’ la parte della lampada che sporge a portare la luce, ‘braccioli’ quelli delle sedie ecc, per un senso di contiguità con essi, quasi si tratti di un linguaggio condiviso. Pertanto, se lasciamo un attimo da parte la produzione degli oggetti di design ‘firmato’ degli ultimi cinquanta anni, analizzando gli oggetti comuni anonimi, ci si rende conto che essi sono tutt’altro che banali e che la soddisfazione della loro funzione è risolta con estrema coerenza estetica rispetto alla forma zoomorfa, anzi, da essa è spesso suggerita e agevolata. Nelle schede che seguono è proposta e commentata una serie di oggetti comuni e tra essi questo principio è soddisfatto, ad esempio, nei tre coltellini da pescatore in forma di pesce, negli apriscatole in ghisa con testa di bue o nell’arnese rompigusci a forma di chele di granchio. Silvana Annicchiarico avanza l’interessante ipotesi che evidenzia come gli oggetti zoomorfi e zoonomi che animano le nostre case “esprimano un’assenza, che segnalino un’espulsione e aiutino a renderla tollerabile: nella loro evidenza morfologica e/o nominalistica, questi oggetti, assunti nella dimensione domestica dell’intérieur, si offrono come surrogati di quell’animalità che non ha più (e non può avere) luogo nell’abitazione moderna. Sono, in qualche modo, prótesi affettive che evocano il ricordo della naturalità e della promiscuità perduta e, in qualche caso, rifiutata” (Annicchiarico, 2015, p.13). Ma che ruolo ha la ricerca estetica nel processo di ideazione di un oggetto di arredo o in un utensile di origine zoomorfa? Partendo dall’assunto che la sola estetica non determina l’affidabilità di un oggetto, possiamo comunque affermare che una mirata speculazione estetica può costituire il supporto necessario per alcune tecnologie. Inoltre, la predilezione eccessiva e prolungata per uno stile può determinare, col tempo, l’insoddisfazione, che, a sua volta, agevola una nuova sperimentazione formale e, successivamente, la riconfigurazione delle cose: questo processo può condurre a migliorare l’efficienza e la performa-

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Traccia table. Quando Meret realizzò il suo tavolo/scultura Traccia, era il 1939. Come annunciato dal nome, sul piano ellittico con il bordo sagomato sono impresse le impronte di un uccello fantastico, lo stesso che ha ispirato le zampe e i piedi realizzati in bronzo fuso. L’intento di creare un oggetto prezioso ha permesso alla progettistaartista di attingere al fantastico mondo animale per riportare un riferimento esplicito, tutt’altro che filtrato dalle logiche del design, con lo scopo di stupire e divertire. Il tavolo (cm 68x53x h65) fa parte della collezione Simon Ultramonile, voluta da Dino Gavina.

tività degli oggetti. Ciò vuol dire che molte delle cose che oggi noi consideriamo adeguatamente funzionale sono scaturite da altre la cui funzionalità non era compiuta. Paradossalmente, quella predisposizione dell’essere umano alla ricerca estetica che abbiamo già evidenziato precedentemente, potrebbe essere stata la prerogativa che lo ha spinto in molte delle sue scoperte dell’universo circostante e che gli ha anche permesso la sopravvivenza per milioni di anni, a differenza di molte specie animali estinte. Alcune teorie antropologiche sostengono l’idea secondo la quale la curiosità estetica sarebbe stata alla base sia dell’evoluzione genetica, sia di quella culturale dell’uomo; in questo senso, alcuni studiosi affermano che furono i tessuti utilizzati per costumi ornamentali e cerimoniali a suggerire ad alcune popolazioni tribali più antiche l’idea di sfruttarli come recipienti per trasportare gli oggetti e perfino come reti per la cattura degli animali. L’archeologo James Adovasio (1999) sostiene infatti che, proprio quando l’uomo cominciò “a perdere tempo in sciocchezze” (come, ad esempio, interessandosi alle piante e ai loro derivati), “si aprirono nuove strade per il progresso”. Dello stesso tipo sono le


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Seduta relax Cova. Questa seduta di forma circolare, un ibrido tra divano, chaise longue e letto, rappresenta un vero e proprio nido a scala umana dove rifugiarsi e trovare riposo. Il progettista Gianni Ruffi qui intende esaltare iperbolicamente il tema del nido, che viene interpretato come un luogo caldo, protettivo e segreto, che difende chi sta dentro. Sdraiandosi al suo interno si è avvolti nel tentativo di recuperare l’atmosfera dell’infanzia, quasi per rifuggire momentaneamente la realtà della vita adulta. Ruffi interpreta la surreale idea romantica di essere prossimi a volare con le proprie ali, il desiderio di crescere ed essere forti abbastanza per affrontare quel giorno in cui volare lontano e in libertà. Non si tratta ovviamente di un semplice prodotto di arredamento ma di una vera e propria opera d’arte. Progettato nel 1973 per Poltronova, il divano ha una struttura in metallo rivestita di strisce rettangolari di lana e feltro cucite a mano (cm 84 x 214); i cuscini (70 cm circa) in schiuma di poliuretano a forma di uovo sono rivestiti in tessuto jersey stretch.

ipotesi che si riferiscono alla precedenza del canto sul linguaggio o alla gradevole presenza di animali domestici prima del loro utilizzo per il lavoro nei campi; sarebbe ingenuo ed errato credere che, nelle azioni dell’uomo, il primato dell’utilità sia scontato. Alcune studiosi ritengono che, storicamente, l’arte prenda forma solo quando un determinato popolo produce un surplus materiale sufficiente a fargli disporre di tempo libero e a renderlo consapevole dell’importanza di ciò che non è essenziale. Karl Marx sosteneva che gli uomini mangiano prima di cominciare a ragionare, ciò significa che anche le funzioni primarie intervengono prima di cominciare ad abbellire gli oggetti. Come dice Enzo Mari “L’umanità si è evoluta progettando ciò che le era essenziale, dall’amigdala agli strumenti per accendere il fuoco, alle strutture del linguaggio, all’aratro. Per farlo, ha impiegato centinaia di migliaia di anni, durante i quali non è mai esistita una separazione tra professionisti e non. Tutti potevano partecipare alla conquista del mondo. Via via la progettazione si è allargata e specializzata, migliorando le condizioni di vita in equilibrio con l’ambiente e le cadenze della natura” (Casavecchia, 2011, p. 6).

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Lampada Heron, una lampada uccello. Questa lampada, creata da Isao Hosoe nel 1994 per Luxo Italiana, rappresenta inequivocabilmente un airone, come evidenziato anche dal nome stesso; l’oggetto è il risultato di un raffinato processo di stilizzazione e di semplificazione dell’animale. L’oggetto ha un design inconfondibile, stilisticamente semplice, e nella sua grande eleganza formale è in grado di combinare estetica e funzionalità.

Lampada Pipistrello. Disegnata nel 1965 da Gae Aulenti per Martinelli Luce, questa lampada da tavolo ha una base conica che si può alzare grazie al movimento telescopico delle nervature del diffusore che ricordano le ali di un pipistrello. Per realizzare la forma del diffusore in metacrilato sono state usate delle tecniche di stampaggio innovative per l’epoca.

La grande quantità di scoperte recenti, che evidenziano come l’estetica abbia anticipato la meccanica, ci fa comprendere che l’impiego a fini artistici di certi materiali industriali ha preceduto nella maggior parte dei casi la produzione industriale. Inoltre è dimostrato che i materiali e le tecniche che hanno un valore spirituale, ludico o estetico resistono meglio degli altri al cambiamento: offrendo l’opportunità di possibili miglioramenti, essi consentono, infatti, l’insorgenza di elementi complementari e che si realizzi quella che, successivamente, sarà considerata la soluzione realmente efficace. Giovanni Klaus Koenig sosteneva “Il vero design è tale solo quando agiscono forti interazioni fra scoperta scientifica, applicazione, tecnologica, buon disegno ed effetto sociale positivo” (Koenig, 1983, p. 24). Proponendosi di istituire una teoria razionale e storica del bello, contrapposta alla teoria del bello unico e assoluto, Baudelaire, nello scritto Il pittore della vita moderna dedicato a Costantin Guys, ha affermato che “nel bello è essenziale la presenza di due elemen-


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• Donald, la sedia che richiama un papero. Donald è una sedia pieghevole la cui singolare struttura rievoca un papero. Il telaio è realizzato come un ‘compasso fedele’ in alluminio pressofuso (di sezione contenuta, lucido o satinato) che guida e sostiene la seduta: questa ricorda le ali dell’animale mentre lo schienale ne ricorda il becco. Il sedile e lo schienale sono in materiale termoplastico.

ti, l’assolutezza e la storicità: il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile, la cui quantità è oltremodo difficile da determinare, e di un elemento relativo, occasionale, che sarà, se si preferisce, volta a volta o contemporaneamente, l’epoca, la moda, la morale o la passione”. Il poeta francese proseguiva osservando che, “senza questo secondo elemento, che è come involucro dilettoso, pruriginoso, stimolante del dolce divino, il primo elemento sarebbe indigeribile, non degustabile, inadatto e improprio alla natura umana” (Baudelaire, 2002, p.127). Comunque, nell’evoluzione morfologica degli oggetti, il cambiamento e la conformità con la storia non si limitano a comparire insieme nello sviluppo di un prodotto ma sussistono l’uno in ragione dell’altra: mantenendo una certa conformità con il passato, il nuovo progetto di un vecchio oggetto permette alle persone di accettare l’inserimento di una innovazione che, a sua volta, prolunga nel futuro la vita di quel manufatto. Come dice Alessandro Ubertazzi «Il progetto è un’attività creativa orientata al futuro; nel momento stesso in cui sorge un bisogno si pensa a come affrontarlo conferendo alla risposta una prospettiva futura per evitare, ad esempio, che, più avanti, il bisogno si ripresenti. Se agisco di impulso e non mi soffermo a ragionare su come affrontare i bisogni e le necessità contingenti di qualcuno… non sono un progettista ma sono un artista. […] I filosofi francesi che si erano autodefiniti futuribles (come Bertrand de Jouvenel) avevano pensato che il futuro possibile (futuribile) si potesse presagire indagando il presente: essi, però, non ci sono ovviamente riusciti. Tuttavia, quel loro interessante obiettivo mi ha suggerito il concetto di “futuro desiderabile”: in questo senso, innovativo è il progetto che risponde a questa istanza generale. Concedetemi ora qualche riflessione sul concetto di rivoluzionarietà:

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• Sedie/gioco per bambini. Sia Julian cat, progettata dallo spagnolo Javier Mariscal, che Puppy, progettata da Eero Aarnio, fanno parte della collezione dedicata ai bambini dalla ditta italiana Magis. Entrambi gli oggetti sono ideati per permettere ai piccoli utilizzatori di giocarci sopra e intorno; infatti essi possono essere utilizzati sia come seduta che come gioco, facilitando una grande interazione con il bambino. A partire dai nomi che sono stati loro dati, è evidente l’intento dei progettisti di riproporre i due animali domestici per eccellenza, il cane e il gatto; questi, nella loro forma astratta e declinata in vari colori, inducono il bambino a identificare la seduta con il proprio cucciolo ideale. Sono realizzati in polietilene, adatti sia per gli interni che per l’esterno. per le loro attività, i creativi, in generale, e gli architetti, in particolare (ma, in un certo senso, anche i designers), sono sempre stati visti con sospetto a causa della loro capacità di sovvertire la realtà esistente con il progetto: nella cultura popolare inglese, ad esempio, l’architect è spesso un personaggio losco che trama a scapito di qualcuno. La proposta che occorre per dare risposta a un bisogno è, per definizione, innovativa, perché parte dalle condizioni attuali nelle quali viviamo, per fornire nuove risposte: un nuovo concetto mette per forza in crisi ciò che già esiste. Dico sempre che, se voglio progettare una bottiglia nuova, devo considerare quelle attuali come già antiche! Un po’ come il noto ‘principio’ della fisica secondo il quale ‘tutti i corpi tendono a mantenere il loro stato di quiete e moto’, ogni progetto innovativo non sempre è accolto positivamente dalla società perché essa “tende a mantenere lo stato in cui si trova. Per superare questa situazione occorre qualcosa di forte, di rivoluzionario”1. A tal proposito Giorgio De Michelis scrive “Un artefatto è sempre disegnato, progettato, in quanto gli accorgimenti tecnici che regolano la sua realizzazione e lo studio e l’esperienza su cui quest’ultima si fonda rendono possibile anticipare le caratteristiche prima che Il testo è tratto dalla trascrizione della lezione tenuta dal prof. Alessandro Ubertazzi, Insegnando design, al workshop tenuto al congresso IDEMI a Jureré, Santa Catarina, Brasile, il 21 ottobre 2012).

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essa sia addirittura avviata. Ed è proprio a questo che fa riferimento la parola progettare. Essa, che compare in italiano dopo che già projectare, a sua volta derivato da pro ‘avanti’ e da iacio ‘getto’, per cui il suo significato di ‘gettare avanti’, anticipare” (De Michelis, 1998, pp. 2-3). Le ‘forze interne’ instabili degli oggetti sono messe in moto dai fattori esterni che tendono all’innovazione e, come abbiamo visto in precedenza, una ragione di cambiamento, valida in qualsiasi periodo storico, è il contatto tra gruppi culturalmente estranei, che può essere determinato in modo coercitivo dalle conquiste territoriali o più spontaneamente da interessi commerciali o da eventi casuali. Ad esempio, alcuni motivi ornamentali greci, oggi definiti classici, ebbero origine dal contatto con l’Egitto dei Faraoni e ciò vale anche per i cambiamenti più importanti nel campo della progettazione e delle tecniche di costruzione. Un esempio di biomorfismo è il motivo architettonico della foglia di acanto caratteristica del capitello corinzio: essa andò evolvendosi da forme più semplici a forme sempre più complesse per dar vita a quella che oggi consideriamo una espressione canonica dell’antichità classica, così come il motivo ‘a squame’ (una decorazione solitamente usata su superfici lisce di media estensione) o quello a ‘can corrente’ (utilizzato sulle incorniciature dei pannelli). Per mezzo delle spedizioni in terra straniera, greci e romani importarono un gran numero di schiavi che, a loro volta, diffusero il loro patrimonio culturale originario, esercitando una forte influenza sui beni di consumo del tempo. Questo ci fa comprendere come i cambiamenti del corredo materiale si verifichino anche in funzione della capacità che le persone hanno di imitarsi a vicenda (capacità implicita negli essere viventi) e di conformarsi alle tradizioni ‘più apprezzabili’; allo stesso modo, con essi si sono diffuse le consuetudini zoomorfe variamente diffuse nei diversi luoghi del Mondo conosciuto (come, ad esempio, l’utilizzo in Occidente di materie esotiche pregiate di origine animale quali l’avorio, la tartaruga, il corno del rinoceronte, i corni dei bufali, le pelli e le pellicce delle specie più diverse, per produrre suppellettili di vario tipo). Se consideriamo la grande quantità di oggetti, motivi e idee presenti fin dalle società cosiddette primitive, possiamo immaginare come la riproduzione ripetuta di essi nei millenni sia stata un’impresa costellata di piccoli errori e fallimenti ma che, non appena un singolo nuovo dettaglio incontrava un diffuso consenso, da esso, in altri settori della creatività, si manifestavano adesioni che richiedevano, a loro volta, una messa a punto. Prendiamo ad esempio il periodo orientalizzante dell’arte greca, il VII secolo a.C. circa, caratterizzato, appunto, dall’intensificarsi dei rapporti con l’Oriente: dall’importazione e dalla rielaborazione locale di oggetti, materiali e tecniche straniere scaturì un nuovo corso dell’arte greca.

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Voronoi Shelf. Ricavata da un unico blocco di marmo, la Voronoi Shelf progettata da Marc Newson nel 2007 è realizzata in marmo Bianco di Carrara. La sua forma, di evidente ispirazione organica, è costituita da una vasta gamma di celle dalle dimensioni, forme e spessori sempre differenti; essa si contrappone alla rigidità e alla freddezza del marmo.

Vediamo come l’invenzione del rilievo, attribuito da Plinio a Butades di Sicione (Nat. hist., XXXV, 151) abbia ricadute in tutti gli altri settori espressivi. Egli applicò questa tecnica inizialmente alla terminazione delle tegole e di lì a poco troviamo le prime antefisse in terracotta decorate a rilievo e dipinte con protomi femminili. In Beozia si continuarono a produrre statuine in terracotta con temi pastorali, rappresentanti carri, cavalli, contadini e aratri ma essendo comparsa alla fine dell’VIII secolo a.C. la tecnica delle matrici importata dall’Oriente, nel secolo successivo apparve una grande quantità di oggetti a stampo, in particolare nelle zone di Creta e Corinto. In quel secolo di grandi trasformazioni, il VII a.C., la scultura propriamente detta ‘dedalica’ corrisponde all’ultima fase, quella che vede in Grecia la nascita dell’arte monumentale. Col dedalico si sostituiscono alle forme esuberanti del primo periodo orientalizzante, un sistema di proporzioni e una nuova concezione unitaria della forma. Quindi rappresentazioni a rilievo e protomi fusi si cominciarono ad applicare anche su grandi recipienti in bronzo e sulle lamine metalliche che ornavano i grandi ‘donari’ nei santuari. Tipici esempi di arte orientalizzante del VII secolo a.C. sono alcuni scudi trovati a Creta decorati con rilievi a sbalzo di mostri e animali. Allo stesso modo, molto diffu-


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so sembra essere stato anche il tema del grifone, l’animale fantastico di origine orientale. L’influenza orientale si diffonde anche nella lavorazione delle gemme preziose; soprattutto nel Peloponneso si diffonde l’uso del sigillo in avorio così come sono frequenti piastre in oro o argento decorate a sbalzo con immagini di centauri e teste di grifone. Questi sono chiari esempi di contaminazione che investono sia l’utilizzo di nuovi materiali che di soggetti decorativi, sia di tecnica di lavorazione. Interrogandosi sulle motivazioni e le modalità secondo cui alcuni oggetti cambiano nel tempo mentre altri restano immutati, Molotch si sofferma sul concetto di talkability: in questo senso egli sostiene che il fenomeno è legato alla suscettibilità di un oggetto di essere discusso; pertanto, degli oggetti di cui si discute molti sono soggetti a una forte innovazione. Nonostante un discorso sul concetto di stile e sugli stessi stili codificati dalla storia materiale degli esseri umani meriti un discorso approfondito, si può comunque ricordare che, in questo senso, anche gli ‘stili’ hanno giocato un ruolo importante nel contesto della mutabilità e dell’innovazione dell’universo materiale storico, e per ‘stile’ si intende, sostanzialmente, una coerenza riconoscibile tra elementi che sono piuttosto distinti per aspetto e funzione; quello che Cranz definisce come la maniera in cui tutti gli elementi di una composizione sono riuniti attorno all’idea e a una concezione centrale (Cranz, 1999, p. 69). Oggettivamente l’adesione a uno stile porta stabilità espressiva perché impedisce ai singoli oggetti (che vengono realizzati secondo le sue indicazioni) di ‘sfoggiare’ mentre permette loro di rientrare nel vasto contesto espressivo di cose conosciute e perciò riconoscibili2. Agli inizi del 1900, il filosofo John Dewey evidenziò come le abitudini radicate nelle popolazioni allontanino l’introduzione di innovazioni. Egli, ha constatato che, almeno in certe occasioni e nei riguardi di certi oggetti, la gente facesse riferimento a routines personali e sociali per restare immobile. Contrariamente all’opinione corrente che il termine significhi indossare un abito particolarmente elegante che tutti possono, perciò, ammirare, ‘sfoggiare’ è l’azione di praticare uno ‘sfoggio’ cioè una consapevole trasgressione alla ‘foggia’ espressiva vigente secondo la quale sono concepiti e confezionati i prodotti di una determinata categoria artigianale. La pratica risale ufficialmente all’età cosiddetta dei comuni quale si è sviluppata in Italia all’inizio del secondo millennio. Un lavoratore che aspirava ad entrare a far parte della comunità di artigiani (corporazione) di un determinato settore merceologico, soprattutto se creativo, doveva svolgere un periodo di apprendistato nel quale avrebbe ‘rubato il mestiere’ imparando le regole dell’arte e, soprattutto, osservando il lavoro del ‘maestro’. Alla fine di questo periodo, l’apprendista doveva dimostrare di essersi impratichito del mestiere, di essere divenuto abile e, quel che più conta, di essere n grado di saper fare qualcosa di significativo ed emblematico. Per accettarlo nella loro comunità, i membri anziani della corporazione dovevano giudicare se il capo d’opera (detto anche capolavoro), realizzato nell’anno da garzone, era convincente anche per il contenuto innovativo della proposta rispetto alla foggia codificata, se cioè il candidato era in grado di ‘sfoggiare’. Va da sé che, una volta superata la prova, il nuovo membro della corporazione era particolarmente orgoglioso della sua prestazione: di qui l’equivoco di cui si è detto (cfr. la trascrizione, a cura di Simone Cioni, di una lezione del professor Ubertazzi al Corso di Storia del Disegno Industriale tenuta al Corso di Laurea in Disegno Industriale, il I ottobre 2014 presso il Design Campus di Calenzano; cfr. altresì la voce ‘sfoggio’ nel glossario in E. Benelli, Bellezza, eleganza e lusso; design e moda nel pensiero di Alessandro Ubertazzi, Alinea Editrice, Firenze, novembre 2009, pp. 151-152).

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In realtà, è abbastanza verosimile che, quando la realtà tende a cambiare, vi siano forze che rendono tale cambiamento lento e graduale, piuttosto che brusco e profondo. Come fa notare Alfred Gell, se analizziamo le decorazioni e le figure tipiche di un certo momento culturale presso un determinato popolo, possiamo riscontrare come i motivi si trasformino in una semplice maniera, evolvendo lungo quelle che lui definisce ‘assi di coerenza’. Questo vale non solo per i diversi periodi storici ma anche quando un elemento decorativo si trasferisce, ad esempio, da una pipa di ceramica a una tazzina, poi a una tazzina più grande e, infine, a un’urna passando gradualmente da un tipo di oggetto all’altro. Gell chiama questo fenomeno ‘principio della minima differenza’ grazie al quale le innovazioni che si susseguono comportano la minima variazione di motivi vicini tra loro, in maniera compatibile con lo stabilirsi di una distinzione tra di essi. Accadrebbe così che nuovi stili prendano vita dagli stili precedenti (Gell, 1992, pp.40-67). Oggi i progettisti sanno che la maggior parte degli oggetti assumono una ‘forma-tipo’ largamente accettata e la considerano come qualcosa con la quale o sulla quale lavorare. La fedeltà a una forma-tipo è una delle ragioni per le quali alcuni nuovi prodotti somigliano spesso inutilmente a un articolo precedente che rispondeva a una funzione simile. Per definire questo tipo di imitazione priva di necessità funzionale presso il corredo materiale delle culture passate, gli archeologi usano il termine “skeuomorphism” deriva-


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• Pendenti con perle scaramazze. Verso il XVI secolo, la selezione delle perle naturali perfettamente rotonde da quelle imperfette e irregolari, produceva un notevole surplus di perle scaramazze (più tardi dette anche barocche) che i mercanti cercavano di piazzare ai gioiellieri per la realizzazione di pendenti o per produrre monili complessi da esibire proprio in funzione della loro particolarità. Creatasi gradualmente una mentalità disponibile ad accogliere quei particolari oggetti, dai paesi fiamminghi (dove i mercanti vendevano le strane perle) il loro uso si propagò nei paesi tedeschi, francesi ed europei in genere. Una volta trasformatesi in gioielli fuori dell’ordinario, le perle scaramazze furono fra le ‘gemme’ più ricercate e più richieste dall’incipiente collezionismo di preziose rarità artistiche che si sviluppò presso le corti europee. Le perle imperfette consentivano, così, quella straordinaria sinergia fra la Natura eccezionale, Naturalia, e la capacità creativa dell’uomo, Artificialia. Gli esempi riportati, risalenti al XVI secolo, sono realizzati in oro, smalti e perla scaramazza; il primo raffigura Ercole sormontato da una testa di leone, il secondo rappresenta uno strano animale marino. • Abito animalier. Scendendo la scala dell’Ariston, in occasio-

ne del Festival della Canzone di Sanremo del 2016, la valletta Madalina Ghenea indossava un magnifico ‘abito tigrato’ disegnato per lei dalla stilista Alberta Ferretti. Nell’abbigliamento, l’animalier non passa mai di moda e, anzi, è da ritenersi sdoganato anche per gli eventi ufficiali di grande eleganza.

to dal greco skéuos (σκεῦος, contenitore o strumento), e morphé(μορφή, forma). Un esempio pratico di questo concetto è l’utilizzo di ornamenti o disegni su un oggetto con lo scopo di farlo assomigliare a un altro materiale come, ad esempio, l’odierna decorazione ‘pitonata’ su materie plastiche ovvero la decorazione ‘leopardata’ ai capi di abbigliamento e perfino alla lingérie per conferire agli oggetti la parvenza di materie naturali di origine animale. Il concetto di skeuomorphism si sovrappone ad altri aspetti del design di oggetti come, ad esempio, la mímesis (dal gr. μίμησις der. di μιμέομαι, imitare)3. Questa pratica si adotta per ‘generazioni di oggetti’ durante le quali si verificano, al massimo, sterili opere di restyling e dove, spesso, neanche l’adozione di nuovi materiali riesce a introdurre innovazione formale. Fino a quando, in alcuni casi, in particolari momenti storici, si arriva a un punto di rottura con il quale si mette in discussione la funzione stessa dell’oggetto: è quello che è accaduto con lo spremiagrumi Juicy Salif di Philippe Starck. Questo oggetto rivoluziona la forma dello spremiagrumi fin li consolidata e seppure la nuova forma non agevoli la funzione, anzi lo rende poco pratico (tanto da essere considerato Nella concezione platonica dell’arte, la mímesi è un’azione da condannare perché, imitando le cose che a loro volta sono copia delle idee, essa ci allontana due volte dal vero. Nell’estetica aristotelica, sensibilmente più vicina alla cultura contemporanea, la mímesis acquista invece un significato positivo, come imitazione della forma ideale della realtà, per cui l’opera dell’artista è simile a quella della natura.

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Pesci realizzati in lamiera di ferro forgiata e patinata. Fra le più suggestive espressioni artistiche animalières occorre citare una serie di opere, concepite e realizzate da Renzo Bighetti, dedicate agli abitanti del mare. Grande viaggiatore, conoscitore del mare ed eclettico artista, nel suo laboratorio delle Cinque Terre, Bighetti fucina e batte grandi lastre di acciaio in forma di pesci: di essi conosce profondamente l’indole che poi propone, con patine particolari, ai più ispirati collezionisti d’arte.


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più vicino all’opera d’arte che a un prodotto di design) ad esso però di si deve il merito di avere aperto la strada a nuove soluzioni formali per questa categoria di oggetti. Altro concetto interessante è quello di archétipo (dal greco ἀρχέτυπον, composto da ἀρχε, inizio, e τύπος, modello) con cui l’idea originale viene emulata ottenendo varianti di uno stesso oggetto (le emulazioni possono a loro volta essere skeuomorphiche)4. Per fare un esempio, gli uomini di alto rango di cultura minoica utilizzavano coppe d’argento molto elaborate e preziose. Queste furono però spesso riprodotte in ceramica, un materiale più economico per il mercato di massa, consentendo anche alle persone comuni di possedere un oggetto evocativo dello status di un’élite. In quelle copie, spesso gli artigiani si preoccupavano di riportare perfino i particolari tecnici della fattura dell’oggetto emulato: ricercando forme e processi familiari anche quando utilizzavano nuovi materiali, nella versione in ceramica delle suddette coppe, essi copiavano anche i rivetti tipici del metallo. Ai nostri giorni, oggetti realizzati in materiale economico spesso tentano di imitare i loro archetipi più costosi in materiale nobile; si tratta di skeuomorfismi che mostrano riferimenti ornamentali derivanti della funzionalità originale come, ad esempio, le teste delle inutili viti stampate in oggetti di plastica. Oppure nell’utilizzo di materiali surrugati che ricordano la texture di altri più preziosi, come nel caso del massiccio utilizzo che si è fatto a partire dai primi anni del XX secolo dell’acetato di cellulosa in sostituzione di materiali di origine animale come il corno, l’avorio e la tartaruga, perfettamente riprodotti artificialmente. L’acetato di cellulosa ha così preso il sopravvento nella realizzazione di una grande quantità di oggetti di uso quotidiano, come gli articoli da toilette, gli occhiali, i ventagli, i bracciali, i fermagli, le palle del biliardo, i tasti del pianoforte, ecc. A questa prassi si affianca quella del camouflage. Il termine francese rimanda ai soldati con le facce imbrattate e con le tute mimetiche che tentano di nascondersi ai nemici, o ancora agli animali deboli che, per sfuggire all’attenzione dei loro predatori, con astuzia riproducono sul corpo le forme e i colori dell’ambiente circostante, oppure ai predatori che dissimulano la loro presenza per essere più efficienti.

4 Il ‘tipo’ corrisponde a una astrazione tassonomica che evidenzia connotazioni o, comunque, requisiti caratteristici e accomunanti nei fenomeni; in questo modo, una molteplicità di configurazioni apparentemente confuse può essere organizzata secondo un ordine intelligibile. La ‘tipologia’ è perciò uno strumento di analisi e di classificazione dei tipi che ha dimostrato la sua validità a tutte le scale operative del progetto: dall’insediamento territoriale al dettaglio strutturale del manufatto. Nell’indagine sulla parentela tra diversi tipi, l’‘archetipo’ viene riconosciuto induttivamente come il primo e, per di più, generatore degli altri: un archetipo si riconosce come inizio di una ‘stirpe’ che contiene una esplicita idea di evoluzione e di variazione in funzione di condizioni progressivamente specificatesi. (cfr. Alessandro Ubertazzi, L’archetipo, la tipologia e il tipo, contributo scientifico alla tesi di L. Leventi Le case dell’uomo; una ipotesi di evoluzione tecnologica per esprimere i bisogni fondamentali relativi all’abitazione, Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, Corso di Progettazione per l’Industria (prof. Marco Zanuso), 11 luglio 1983, pag. 137).

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Nel mondo animale, il camouflage è una potente arma di difesa e di offesa (in senso lato, camouflage significa mostrarsi diversi fino a farsi passare per altri). Il legame tra arte e camouflage ha avuto origini durante la prima guerra mondiale, quando un gruppo di artisti appartenenti al cubismo, tra i quali Braque e André Mare, furono chiamati a operare vere e proprie mimetizzazioni teatrali di armi e di fabbriche belliche. Da Andy Warhol a Cindy Sherman, da Yasumasa Morimura ad Ana Mendieta o a Luigi Ontani (solo per citarne alcuni) molti artisti contemporanei praticano varie forme di camouflage. Per l’architettura e per il paesaggio, si ha camouflage quando alcuni edifici si presentano come maschere di altri edifici, oppure quando si mimetizzano con l’ambiente, fingendo di essere elementi naturali come rocce, cascate d’acqua o vegetazione, oppure quando ancora tentano di smaterializzarsi, confondendosi con la luce del cielo. Alcuni esempi significativi sono la Cadyville Sauna, lungo il fiume Saranac, a New York, realizzata dal designer Dan Hiesel; il Moses Bridge, un ponte pedonale a livello dell’acqua realizzato dallo studio RO & AD Architects; o ancora, La casa del bosco, realizzata dal gruppo Santambrogiomilano che ha ideato un’abitazione interamente in vetro, dalle pareti all’arredo, in cui interno ed esterno sembrano coesistere senza soluzione di continuità. Nel design si ha camouflage quando il progettista cambia alcune caratteristiche di un oggetto per evitare che venga riconosciuto o quando alcuni artefatti giocano a darsi l’aspetto di altri oggetti, rivestendo forme antropomorfe o animali o perfino vegetali e lo fanno non per una maggiore funzionalità, ma per puro gioco, per humour, per una maggiore efficacia comunicativa. Si pensi alle poltrone di Gaetano Pesce, di Ron Arad, di Marc Newson o dei fratelli Campana o, ancora, ad alcuni arredi dei Droog Design. Si tratta di veri e propri travestimenti secondo una declinazione del camuffamento che va dalla dimensione ludica della mascherata a processi di mimetizzazione estrema. Secondo una semiotica del visibile, si può pensare che il camouflage sia un complesso dispositivo comunicativo preso a prestito dal mondo naturale, per indagare quali diversi sistemi percettivi, oltre la visione, esso sia capace di indurre. Per riassumere tutte le tendenze e le pratiche fin qui descritte che utilizzano riferimenti naturali a vario titolo come supporto alla progettazione del nostro corredo materiale parliamo, così come abbiamo fatto trattando delle opere di architettura, di biomorfismo. Più precisamente, lo studio e l’applicazione delle norme e delle forme naturali agli inizi del XX secolo sono stati etichettati con il termine di ‘design organico’. Quando si iniziò a parlare per la prima volta di un approccio organico al design, nel XX secolo, ci si riferiva a un design di tipo sperimentale, che si potrebbe definire umanistico


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e che, come abbiamo visto, ha avuto subito esponenti importanti anche nel campo dell’architettura. Si trattava di trovare soluzioni totalmente integrate in grado di dar vita a progetti dove l’effetto generale fosse qualcosa in più rispetto alla semplice somma delle parti distinte. L’idea sottesa a questo nuovo metodo di approcciarsi al progetto era che l’opera stessa, nonostante fosse una produzione dell’uomo, potesse essere in grado di trasmettere lo stesso fascino insito all’interno della natura. Seppure nella fase iniziale lo sviluppo di forme organiche vere e proprie non venne approfondito più di tanto, pur essendo forte l’interazione con la natura come principale fonte di ispirazione progettuale, a partire dagli anni ’20 e ’30, grazie all’apporto di Alvar Aalto, la forma riuscì ad adattarsi alla natura, dando vita a un vero e proprio vocabolario moderno delle forme plasmate sulla materia organica. Si ebbero così sedie dalle curve morbide e armoniose da contrapporre al rigoroso formalismo dell’International Style: grazie al suo apporto nacque infatti il Modernismo Organico, che riscosse molto successo soprattutto negli Stati Uniti. Paola Antonelli, curatrice del Dipartimento di Architettura e Design del MoMa di New York afferma “tra le interpretazioni fornite dai diversi curatori nel corso degli anni ho sempre trovato interessanti quelle di Eliot Noyes, che nel 1941 vedeva il design organico come una profonda e proficua integrazione della macchina nella vita dell’uomo (organico come armonico, equilibrato ed efficiente) e quelle proposte nel 1944 da Serge Chermayeff e René D’Harnoncourt. Scrivono, infatti, Chermayeff e D’Harnoncourt: ‘dato che lo scopo del design organico (visto come integrazione organica di funzione, tecnologia, e forma) è offrire alla gente migliori strumenti per vivere, la sua applicazione presuppone un’attitudine responsabile verso la società sostenuta da un codice deontologico paragonabile a quello della scienza e della medicina’. Questa ultima interpretazione potrebbe oggi riassumere le nostre ambizioni verso la sostenibilità” (Antonelli, 2011). Queste sono le parole utilizzate da Eliot Fette Noyes a proposito del design Organico sul catalogo del concorso Organic Design in Home Furnishing tenutosi nel 1941 al Museum of Modern Art di New York “L’organizzazione armonica delle parti in un tutto integrato, in base alla struttura, al materiale e allo scopo. Una tale definizione non lascia spazio a ornamenti superflui: la bellezza si esprime in misura altrettanto grande nell’ideale scelta dei materiali, nella raffinatezza visiva e nell’eleganza razionale degli oggetti destinati all’uso”. Nel dopoguerra lo studio approfondito del design organico influenzò in maniera rivoluzionaria il campo dell’arredamento supportato dal fatto che le forme organiche erano perfette per rispondere in maniera adeguata alla maggior parte dei criteri ergonomici: non si trattava quindi esclusivamente di forma, ma anche di funzione.

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Carro blindato di Leonardo. Questo carro da guerra coperto (blindato) è stato progettato da Leonardo da Vinci nel 1485; per molti versi, esso può essere considerato il primo carro armato al mondo. Da attento studioso e osservatore della natura, Leonardo ha evidentemente mutuato la sua idea dal carapace della testuggine; per inciso, occorre ricordare che il termine ‘testudo’ era già usato in passato dai romani per designare una configurazione di militari protetti dai loro scudi come le placche cornee di quel robusto animale.

Negli anni Sessanta in design organico diede vita al biomorfismo e negli anni Novanta alimentò il rapporto tra dati ergonomici-antropometrici e design. La vittoria, e il successo, del design organico va ricercato però non tanto nella bellezza o nella funzionalità dell’oggetto, ma più che altro nel rapporto profondo, spesso inconscio, che questo oggetto riesce a creare con chi lo usa, agendo direttamente sul senso primordiale che la natura è in grado di attivare. Paola Antonelli afferma ancora che “il design organico rispecchia non solo le forme, ma anche le soluzioni strutturali e l’efficienza dei sistemi presenti in natura, al punto che pare possibile affermare che, tanto le automobili senza pilota (testate da Google nell’ottobre 2010) quanto i software a riconoscimento vocale, fanno parte della stessa idea olistica. E mentre esso è immediatamente riconoscibile nelle forme curvilinee rese possibili dall’uso del computer non solo nel processo di design, ma anche nella fase di produzione, in buoni esempi, tale rotondità delle forme è accompagnata anche da un ciclo di vita e da una performance ugualmente a tutto tondo” (Antonelli, 2011). Tutto ciò premesso, il confine che stabilisce quali oggetti zoomorfi o animaliers possano essere considerati come ottenuti dalla metodologia progettuale propria di design, quali siano frutto di una concezione artigianale ovvero una pura espressione artistica, è spesso poco evidente; anzi, gli oggetti che, per un verso o per l’altro, possono essere riportati a quelle diverse ispirazioni, sono spesso il risultato ibrido della diversificata influenza dell’una e dell’altra, in proporzioni diverse. Riprendo la definizione maldonadiana stilata per l’Icsid (International Council of


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• Ornitottero di Leonardo. Gli schizzi di Leonardo per l’ornitottero risalgono verosimilmente al 1488. Quell’apparecchio (che prende il nome dal greco ὄρνις, -ιθος órnis, -ithos, uccello e πτερόν pterón, penna, ala) avrebbe dovuto essere un aeromobile a ’superficie alare battente‘. Il disegno rappresenta probabilmente il più antico progetto di un oggetto volante più pesante dell’aria: il complesso meccanismo ideato da Leonardo intendeva riprodurre così le ali di un uccello.

Societies of Industrial Design) nel 1961 “Progettare la forma significa coordinare, integrare e articolare tutti quei fattori che, in un modo o nell’altro, partecipano al processo costitutivo della forma del prodotto, E, poi, più precisamente, si allude tanto ai fattori relativi all’uso, alla fruizione e al consumo individuale o sociale del prodotto (fattori funzionali, simbolici o culturali) quanto a quelli relativi alla sua produzione (fattori tecnico-economici, tecnico-costruttivi, tecnico-sistemici, tecnico-produttivi, tecnico-distributivi)” (Maldonado, 1999, p. 12). Secondo Flaviano Celaschi, il design è la disciplina che si colloca a metà strada tra quattro sistemi di conoscenze (input) che tradizionalmente dialogano con difficoltà: le humanities e la tecnologia/ingegneria, su un asse, e l’arte/creatività e l’economia e la gestione, su un altro asse perpendicolare al primo. Laddove la creatività dell’arte incontra la fattibilità della tecnologia e dell’ingegneria si manifesta la forma che, secondo il suo pensiero, è uno degli effetti più espliciti del design. Egli ritiene pertanto che la funzione nasca dal crocevia tra lo sviluppo prestazionale della tecnologia e dell’ingegneria con l’utilità dell’economia e della gestione (Celaschi, 2008, pp. 19-31). Bisogna infine ricordare che il design italiano ha introdotto nel mondo europeo del progetto le tracce di un’antica, genetica sensibilità animista che attribuisce agli oggetti un sentire, una vita autonoma: essa non esaurisce il loro destino alla pura funzione strumentale ma tende a offrire all’utente un sistema di presenze ambientali con cui è possibile stabilire rapporti simbolici complessi. È ciò che accade anche con gli animali domestici, la cui presenza nell’ambiente è spesso legata a una tradizione affettiva più che non a una vera funzione di servizio.

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• Bionic, l’auto ispirata a un pesce. Nel 2005 la Mercedes Benz presentò Bionic, un prototipo di autovettura ispirata a un pesce. In particolare, si tratta del ‘pesce scatola’ (yellow box fish ovvero ostracion cubicus), un piccolo pesce della barriera corallina tropicale che, a differenza di praticamente tutti gli altri animali dotati di pinne, è interamente racchiuso in un guscio osseo quadrato o triangolare, leggero e rigido, chiamato anche carapace e composto da moltissime piccole placche fuse assieme. La strana auto della casa automobilistica tedesca fu ritenuta una rivoluzionaria applicazione del concetto di bionica nella quale la tecnologia si fonda e si modellata sul mondo biologico: infatti la forma della vettura copia quella del pesce per sfruttarne il basso coefficiente di resistenza e la rigidità del suo esoscheletro. Bionic fu considerata come il simbolo delle potenzialità della collaborazione tra biologia, ingegneria e design: un esempio dell’utilità di creare ispirandosi alle invenzioni già modellate da milioni di anni di evoluzione. Abbiamo già osservato nei capitoli precedenti come gli oggetti di arredo dell’antica Roma siano arricchiti dalla presenza di zampe, code, teste di animali che ammiccavano a una vita quasi autonoma di sedie, triclini e bracieri; in tal senso Andrea Branzi riscontra in queste presenze un’idea animista che è del tutto assente nella cultura progettuale degli altri Paesi e ha origine nell’influsso delle religioni mediterranee caratterizzate da credenze, appunto animiste e panteistiche, che attribuivano un’anima alle cose e un senso divino al loro insieme (Branzi, 2004, p. 39). Del resto, gli antichi Greci avevano individuato negli organismi naturali un modello di perfezione e di armonia che avevano tradotto nell’ideale classico di bellezza. Già nei testi di Aristotele compare infatti l’analogia tra natura e arte in termini di equilibrio e proporzione tra le parti. Nelle suo trattato Fisica (Φυσικής Ακροάσεως) degli otto libri totali, nei cinque che trattano degli animali (Historia animalium, De partibus animalium, De motu animalium, De incessu animalium e De generatione animalium) egli si spinge fino alla teorizzazione di un’estetica funzionale secondo cui “ognuna delle parti del corpo è in vista di un fine, il fine poi è una certa funzione, è manifesto che il corpo nel


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suo insieme è costituito in vista di una funzione complessa. […] Il corpo è in qualche modo finalizzato all’anima, e ognuna delle sue parti alla funzione alla quale è destinata per natura” (Aristotele, tr. it., Lanza & Vegetti (a cura di), 1973). Chissà cosa penserebbe oggi il filosofo di Stagira se vedesse come i metodi e i sistemi biologici osservati in natura possono essere applicati nello studio e nella realizzazione di sistemi ingegneristici e tecnologici di vario tipo. La bionica (o biomimetica), infatti, applica la cibernetica alla riproduzione di funzioni degli organismi viventi descritte dalla fisiologia. Nell’ultimo secolo la fantascienza è divenuta realtà; nel 1938 Orson Welles strillava alla radio Martians are between us!. Oggi conviviamo con disinvoltura accanto ad altre ‘entità aliene’ senza le quali non sappiamo più stare. È ormai accertato che entro quarant’anni è prevista una diffusione capillare di robots, avatars, automi, personal digital assistants, emoticons, ecc, sul mercato domestico. Ma quale aspetto avranno questi artefatti? E chi deciderà il volto della tecnologia che ci circonderà? “Ogni cosa che puoi immaginare, la natura l’ha già creata”, sosteneva Albert Einstein. Walter Benjamin ricorda che “le forme sono il vero mistero della natura”, che “tutte le grandi conquiste nell’ambito delle forme avvengono in ultima analisi come scoperte tecniche” (Benjamin, 1986, p. 13); allo stesso modo, gli oggetti di design, grazie allo sviluppo della tecnica e delle capacità progettuali hanno progressivamente assorbito e nascosto la forma del corpo, umano o animale, che li ha ispirati o che hanno cercato di sostituire. Secondo le logiche bioniche, tre sono i livelli biologici nella fauna e nella flora, dai quali la tecnologia prende esempio: · il mimetismo naturale come metodo di costruzione; · l’imitazione dei meccanismi trovati in natura; · lo studio dei principi organizzativi desunti dal comportamento sociale degli organismi. La macchina volante di Leonardo da Vinci fa parte della prima categoria. L’imitazione della natura è stata fondamentale e indispensabile fonte di ispirazione per le sue creazioni; a seguito di approfonditi studi sull’anatomia dei volatili, infatti, intorno al 1500, poté definire la sua macchina volante, un ornitottero, cioè un aeromobile a superficie alare battente, il cui complesso meccanismo intendeva riprodurre la struttura delle ali di un uccello. Alla seconda specie appartiene più semplicemente la chiusura a velcro (il termine ‘velcro’ è il nome commerciale costituito dall’acronimo delle parole velours-velluto e crochet-gancio) ideato dall’ingegnere svizzero George De Mestral. Giunto a casa di ritorno da una passeggiata in campagna col suo cane, egli si era reso conto che minuscoli fiori rossi di bardana si erano attaccati alla giacca: colto dalla curiosità, li analizzò al microscopio e verificò che, sul calice, quei fiori avevano dei piccoli uncini che, incastrandosi al pelo degli animali in mo-

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Octopus, il primo robot-polpo. Progettato da Cecilia Laschi, professore associato di bioingegneria alla Scuola Superiore Sant'Anna, in collaborazione con la biologa marina Barbara Mazzolai, Octopus e il primo robot al mondo interamente molle. Il robot-polpo (che nasce grazie a un finanziamento della Comunità Europea) imita la struttura muscolare del braccio del noto cefalopode. Per realizzarlo sono stati progettati degli attuatori innovativi che, immersi nel silicone, permettono di ottenere una contrazione della struttura muscolare; la copertura di contenimento del braccio è ispirata al tessuto connettivo del polpo ed è costituita da una pelle artificiale dotata di ventose. Il braccio robotico è finalizzato a funzionare in acqua perché, come l’animale cui si ispira, sfrutta le caratteristiche meccaniche dei materiali e, soprattutto, la loro interazione con l’acqua. I movimenti del robot che riescono a imitare quelli del polpo sono rispetticamente: la flessione, il tipico movimento di raggiungimento di una preda e l’allungamento del braccio.

vimento e anche alle anse formate dalle fibre del tessuto della sua giacca, permettevano loro di diffondersi ovunque. Al terzo caso appartiene il sistema di raffreddamento dell’Eastgate Centre Building a Harare che è stato ideato studiando i cunicoli realizzati dalle termiti. Numerose altre sono le strutture che ripropongono parti di arti animali, per produrre vantaggi a livello funzionale: il braccio meccanico dei robots che imita in modo ridondante quello dei primati, la trama delle fibre tessili che trae spunto dalla tela dei ragni, i materiali idrorepellenti o idrofili realizzati analogamente ai gusci degli scarafaggi, le piccozze che riprendono la forma del becco del picchio, ecc.


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Turbine Whalepower. Ispirate alle pinne delle megattere che consentono a questi cetacei una grande agilità in acqua, la Whalepower ha sviluppato pale per turbine con dossi chiamati tubercoli sul bordo d’attacco. Questa innovazione formale assicura una maggiore efficienza nell’applicazione delle pale a turbine eoliche, a turbine idroelettriche, ecc. Rispetto alle alette con superficie liscia, è stato verificato che la presenza dei tubercoli nel bordo consente una diminuzione del 32% della resistenza e una portanza in aria e acqua aumentata dell’8%; questo, ad esempio, fornirebbe un aumento del 20% dell’efficienza degli impianti di produzione di energia eolica.

Studi avanzati per il prossimo futuro riguardano, ad esempio, generazione di robots e veicoli autonomi come sommatoria di molteplici strumenti tratti dalle caratteristiche prestazionali di molti esseri viventi, risultati aerodinamici desunti dallo studio dei cetacei per i progetti di aerei e automobili e carena di natanti, la produzione di filati resistenti come certe ragnatele. Janine Benyus, una degli scienziati più attivi nel settore della biomimetica, è fermamente convinta che “più il mondo degli uomini funziona in modo simile a quello naturale, più a lungo resisteremo in questa grande casa, che è anche nostra ma non solo nostra”. Questi presupposti possono portare anche a utilizzazioni e sperimentazioni estreme, come quelle di Ben Aranda e Chris Lasch, architetti con base a New York che nel 2006 hanno pubblicato un influente saggio intitolato Tooling organizzato intorno a sette tecniche di algoritmo: spiraling, packing, weaving, blending, cracking, flocking e tiling. Aranda e Lasch

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spiegano che “Mentre ciascuno di questi algoritmi può essere usato per descrivere e simulare determinati fenomeni naturali (come la modalità spirale può simulare un uragano) questo libro intende trasformare queste regole in logiche costruttive”, sottolineando che “tutte le tecniche algoritmiche di tooling sono presentate insieme a 1) una ricetta, 2) a forme create con tale ricetta, 3) a un progetto che usa la medesima ricetta in un contesto architettonico, infine 4) a un codice programmatico per computer”5. Nella stessa direzione si muove anche il lavoro degli architetti Neri Oxman e Alisa Andrasek; essi, infatti, sono impegnati a organizzare archivi di comportamenti naturali distillati in algoritmi, disponibili per uso futuro da parte di architetti, designer, ingegneri e altri professionisti6. Nel sito dedicato alla sua ricerca, Biothing, Andrasek scrive che “in modo non dissimile da quello dell’ingegneria genetica, il designer scrive sequenze di codici nella generazione di forme immateriali di intelligenza, legate poi alle limitazioni specifiche con differenti scale di produzione sociale e materiale”. Talvolta essi stessi testano il loro codice morfogenetico digitale e materializzano forme scultoree che uniscono la funzione dimostrativa alla potenzialità commerciale. Aranda e Lasch, in particolare, hanno effettuato numerose incursioni nel mercato dell’arte, adattando i loro ‘mantra algoritmici’ a tavoli e panche. Una direzione che anche Oxman sta seguendo con la sua prima chaise longue. Verosimilmente la casa del futuro sarà caratterizzata dalla flessibilità, non solo nella sua capacità di adattarsi alle diverse esigenze, ma anche nella possibilità di una costante interazione tra ‘dentro’ e ‘fuori’: una casa fluida. Come abbiamo visto, stiamo andando verso una riscoperta della sfera naturale, in ogni senso; per l’uomo in futuro sarà sempre più forte il richiamo alla natura, e non più solo per una questione di coscienza sociale, bensì per un bisogno intrinseco. I nostri luoghi saranno implementati di tecnologia ma essa stessa sarà scaturita dall’osservazione della natura e ne riprodurrà molti modi di operare. Questa nuova tecnologia, però, sarà di tipo endemico per cui i tech device del futuro non saranno più accessori esterni al sistema, bensì saranno completamente integrati con l’arredo: una domotica meno visibile e invasiva, ma molto più presente di adesso. Quale sarà, quindi, il futuro del design? Avremo, forse, case sempre più simili a giardini zoologici ma estremamente tecnologiche. Le abitazioni del futuro saranno l’espressione del miglior connubio di Naturalia e Artificialia? [http://scriptedbypurpose.wordpress.com/participants/arandalasch/] Entrambe architetti e insegnanti, la prima con base al Media Lab del MIT, la seconda alla Architectural Association di Londra (dove anche Oxman si è laureata).

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E se il designer fosse…una cicogna? Confortata dal pensiero dei maestri del design, alla fine di questo lavoro nel quale ho spesso riflettuto sull’indole degli animali e sulle simbologie che si riferiscono ad essi, mi permetto anche io di azzardare una definizione di designer in chiave animalière. Secondo me, il designer potrebbe essere paragonato a una cicogna: il grande uccello dall’aspetto superbo e slanciato che, nell’immaginario collettivo, è considerato portatore di bene e di fortuna, simbolo di fertilità. Come, secondo la leggenda, le cicogne ‘portano i bambini’, così il designer porta i suoi progetti nei luoghi del vivere donando bellezza e rendendo migliore l’ambiente umano. E ancora, come le cicogne vivono in coppia e il maschio e la femmina possono restare insieme per tutta la vita ed entrambi covano le uova e crescono i piccoli, così il designer è un professionista che scaturisce da due matrici antinomiche: la disciplina è insegnata sia nelle écoles polytechniques, sia nelle écoles de beaux arts: l’aspetto femminile (l’arte) e quello maschile (la tecnica). Le cicogne si nutrono anche di serpi: nel suo Naturalis historia, Plinio il Vecchio riferisce che, in Tessaglia, colui che fosse stato sorpreso a uccidere uno di questi simpatici animali (le cicogne) era messo a morte; tale notizia è confermata anche da Plutarco. Analoga severità è attribuita dal Ripa anche alla Puglia; secondo il secentesco autore de l’Iconologia, quella Regione è infatti rappresentata da una donna accanto alla quale compare una cicogna con una serpe nel becco poiché l’uccello “…tiene netto il paese dalle serpi”: la sua uccisione, pertanto, costituisce un delitto da punirsi con la pena capitale. Allo stesso modo i designers, con la loro preziosa attività quotidiana ci preservano da un panorama materiale di oggetti brutti e malfatti, le ‘serpi’, che si insinuano nei nostri luoghi. Stranamente, le cicogne non emettono suoni ma comunicano con il battere del becco; anche il designer non ha la necessità di esprimersi con le parole, ma parla attraverso i suoi progetti. La cicogna, come si sa, è un uccello migratore che ha la necessità di volare alto e di cambiare luoghi e climi; allo stesso modo, per completare la sua formazione e portare a compimento studi particolari, per acquisire conoscenze scientifiche e tecnologiche peculiari e riportarle successivamente nelle sue proposte innovative, nei suoi progetti, anche il designer deve passare attraverso molteplici e diversificate esperienza tecnologiche e progettuali.

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Apparato iconografico



introduzione

all’apparato

iconografico

Nella prima parte di questo testo sono stati affrontati alcuni aspetti concernenti l’influenza concettuale e formale della natura animale sul corredo materiale dell’essere umano; a questo proposito, a titolo di esempio, ora si propone una serie di oggetti di chiara ispirazione zoomorfa, animaliere ovvero addirittura ibrida; essa presenta differenti tipologie e differenti livelli di contenuti ‘animale’ in oggetti appartenenti alla ‘storia delle cose’. In verità, nel corso degli ultimi decenni il mondo occidentale ha nuovamente rivolto l’attenzione all’importanza dei ruoli che l’animale riveste nella vita dell’uomo, di volta in volta a fini utilitari, affettivi o simbolici. Come si è visto, la raffigurazione dell’animale muta nel tempo a seconda dei contenuti che si desidera trasmettere o, comunque, delle valenze attribuite al soggetto animale: così, all’iperrealismo dell’arte parietale si contrappone, ad esempio, l’estrema stilizzazione dell’animale nell’araldica e nelle miniature rinascimentali. Nei secoli, pertanto, l’animale viene formalmente modificato, più o meno inconsciamente, per aderire a un modello culturale o per accontentare un particolare gusto. Spesso la cultura ancestrale ha condizionato una certa raffigurazione didascalica, che impone vincoli di approssimazione morfologica o stilizzazione: come nel caso degli animali raffigurati su pietre preziose, cammei e sigilli, o come nelle raffigurazioni in cui l’animale esotico viene disegnato esaltando quelle caratteristiche anatomiche che costituiscono motivo di interesse e di stupore. Sempre dettati dal desiderio di impressionare e meravigliare, sono quegli oggetti che dal XV secolo al XVIII secolo i maggiori collezionisti d’Europa esporranno nelle Wunderkammer: manufatti, gingilli e suppellettili straordinari e stupefacenti per le loro caratteristiche

• Giocattoli in legno valdostani. Le graziose figure, grossolanamente sbozzate, appartengono alla tipologia

dei tradizionali giocattoli valdostani: esse raffigurano vari animali tipici della regione, montati su ruote per favorirne il movimento. Si tratta di oggetti di cultura contadina che venivano costruiti nei momenti di riposo (in genere con legni di noce, di ciliegio e di pino) tipici dell’infanzia valdostana dei secoli passati. Oggi sono considerati oggetti da collezione; qualche bimbo, però, ci gioca ancora. Detti ‘tatà’, sono tuttora eseguiti da pochi artigiani e sono disponibili presso l’Institut Valdotain de l’Artisanat de Tradition. (Collezione privata).


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intrinseche ed estrinseche. Come è noto, sebbene il fenomeno delle Wunderkammer affondi le sue radici nel Medioevo, si concretizza nell’umanesimo quattrocentesco e cinquecentesco; esso poi si sviluppò per tutto il Seicento alimentato delle grandiosità barocche e si protrasse fino al Settecento, favorito dal tipico amore per le curiosità scientifiche proprio dell’Illuminismo. In merito al concetto generale di oggetti e al loro collezionismo, afferma Alessandro Ubertazzi “Per designare gli oggetti, gli antichi greci disponevano di un termine piuttosto appropriato: ta pragmata, cioè qualcosa legato al fare, alla prassi, evidenziando implicitamente l’importanza del rapporto quotidiano con questi. […] Per riscontrare un effettivo interesse speculativo sulle cose e gli oggetti occorse avvicinarsi moltissimo ai nostri giorni quando fu posto l’accento sul significato economico, ovvero sulla utilità, degli oggetti. Martin Heidegger sosteneva infatti che il rapporto dell’uomo col mondo si basasse sulla possibilità di ‘disporre’ degli oggetti che lo circondano. Questa loro disponibilità li identifica: la possibilità di disporne specifica che essi hanno una funzionalità e perciò non sono fine a se stessi. L’opera costruita (oggetto) non rimanda solo al suo uso ma anche alla persona che la utilizza: si stabilisce così un legame necessario tra oggetto e soggetto (che usa l’oggetto)” (Ubertazzi, 1993, p.15). E ancora “Gli uomini […] ambiscono ad avere molte più relazioni con gli oggetti e con il molteplice sistema di produzione e di scambio di messaggi che con i propri simili al punto che l’ambiente naturale, nel quale essi sono sempre vissuti, tenderebbe a divenire sempre più artificiale, composto cioè di artefatti (oggetti, merci, messaggi, segni) e, ai giorni nostri, addirittura virtuale” (Ubertazzi, 1993, p.16). Sempre a tale proposito, già alle soglie degli anni Settanta, Jean Baudrillard aveva scritto: “gli uomini dell’opulenza non sono più circondati, come è sempre avvenuto, da altri uomini bensì da oggetti” (Baudrillard, 1968). In questo senso, l’apparato iconografico ragionato riportato qui di seguito mostra una evidente varietà di oggetti che appartengono a diverse epoche con lo scopo di esprimere, in modo sintetico ma esemplificativo, una vasta tipologia di rapporti ‘uomo-animale’ nel progetto che permette di cominciare a comprendere in che modo esso abbia influito nel tempo nella realizzazione del mondo materiale dell’uomo. Giulio Carlo Argan ha affermato “Ciò che è oggetto nel presente è stato progettato nel passato ed è condizione per l’avvenire” (Argan, 1965). È evidente, infatti, che il passato e il futuro non hanno valore in sé in quanto, in realtà, essi esistono solo come funzioni del presente. Il passato rivive nel presente, riveduto e rivalutato in base alle conoscenze di ogni singolo individuo: questo è il motivo per cui nelle pagine precedenti si è riper-


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corsa in modo trasversale la storia degli animali in rapporto alla vita dell’uomo, delle materie da essi derivanti e delle applicazioni che ne sono state fatte per produrre oggetti. Nelle pagine che seguono gli oggetti selezionati testimoniano una serie di casistiche: l’uso pratico di animali, loro parti e loro prodotti (ossa, corna, pelliccia), una caratterizzazione animale anche parziale, una stilizzazione zoomorfa o sue accezioni indirette, una interpretazione artistica o l’uso simbolico della forma con ispirazione zoomorfa più o meno evidente. Ciascun oggetto, di cui si è provato a raccontare la genesi, con particolare attenzione alla funzione, fornisce indicazioni utili alla comprensione, oltre che del prodotto stesso, del contesto in cui si colloca, della cultura del suo progettista e di un preciso momento storico e sociale; tutti hanno comunque in comune il fatto di poter essere presi ad exempla anche delle ‘normali’ virtù dei prodotti anonimi. Per quelli più antichi, si tratta di oggetti che possiamo definire di proto-design, che per evidenti problemi temporali è impossibile riuscire ad attribuire; quelli più recenti sono per lo più oggetti ‘anonimi’ nel senso che poco o nulla conosciamo della loro storia e del loro progettista (sia un designer, un artigiano, un ingegnere, un ufficio tecnico, un’azienda o altri). Gli oggetti cosiddetti anonimi continuano a essere la maggioranza degli oggetti quotidianamente utilizzati, cui non manca una propria qualità formale e i quali presentano caratteri identificativi che ne fanno riferimenti imprescindibili nella storia degli artefatti.

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Frammenti di oggetti di forma animale vari opifici e varia provenienza da località sconosciute di cultura romana 42 x 22 x 7 mm; 44 x 26 x 4 mm Assieme all’immensa quantità di monete uscite dalle tasche o dalle scarselle dei viandanti, i frammenti riportati appartengono alla moltitudine di oggetti che emergono, dopo centinaia di anni, lungo le strade o nelle zolle di campi coltivati entro le quali si erano perdute e che riaffiorano comunque… sulle bancarelle di mercatini delle pulci. L’eleganza o la simpatia di molti animali si è tradotta nei dettagli ornamentali di un’infinità di oggetti d’uso sotto tutte le latitudini.


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Borchia o manico in forma di protome suina bronzista romano, Gallia transalpina (?) bronzo fuso a cera persa in patina naturale scura, 58 x 33 x 25 mm Questo curioso frammento metallico, a base esagonale ma assai veristico nel rappresentare la testa di un cinghiale, testimonia‌ la tradizionale contiguità fra l’essere umano e gli altri abitanti della Terra.

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Impugnatura di una chiave a forma di testa di leone bottega lionese di cultura romana, I° secolo d.C. (?) fusione in bronzo con tracce di doratura in patina naturale color malachite, 80 x 40 x 25 mm Questo importante manico di chiave è fuso in bronzo a cera persa e, nonostante i duemila anni di permanenza in un sito umido (ove ha perso il gambo con l’ingegno in ferro), evidenzia ancora tracce di doratura. Lo strumento doveva chiudere un luogo importante dell’antica Lugdunum (Lione): fin dal periodo dei faraoni egiziani il leone rappresenta, infatti, la potenza e, a partire da allora, assieme all’aquila e ad altri animali nobili e rapaci, sottolinea situazioni importanti.


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Cucchiaio e forchetta con manico a zampa di capra opificio tardo romano, luogo sconosciuto bronzo, 156 x 42 mm, 155 x 24 mm Nella tarda romanitĂ e nel Medioevo fino agli inizi del Rinascimento europeo, le poche posate prodotte e impiegate erano spesso inspiegabilmente dotate di manico terminante a zampa di capra.

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Lucerna decorata con motivi a losanghe e aquila bottega longobarda di alta epoca terracotta, 135 x 80 x 55 mm L’elegante lucerna a olio di cultura longobarda è realizzata in terracotta ed è finemente decorata da una cornice a losanghe che inquadra un aquilotto ad ali spiegate posato sopra una sorta di piccolo portale. In questo caso, la presenza dell’animale sull’oggetto ha un significato più araldico che decorativo come per sottolineare l’appartenenza a una determinata comunità che aveva, appunto, scelto il nobile animale fra i suoi segni identificativi.


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Candelieretto in forma di piccola tartaruga artigianato protoislamico del periodo immediatamente successivo alla morte del Profeta bronzo fuso a cera persa, 54 x 54 x 32 mm Questo piccolo oggetto, realizzato agli albori della civiltà islamica da una comunità non ancora perfettamente allineata ai principi coranici (probabilmente una setta), rappresenta una simpatica tartaruga sormontata dall’alloggiamento per una candela: come è noto, la rappresentazione della figura umana e degli animali non è consentita né dalla religione islamica né da quella ebraica.

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Amuleto artigiano centroamericano di cultura precolombina osso di animale (felino?) inciso con testo apotropaico, 21 x 22 x 72 mm Questo oggetto costituito da un osso pulito e inciso veniva probabilmente portato al collo dal suo possessore come ciondolo con funzione di scongiuro.


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Gancetto in forma leonina per la serratura di uno scrigno bronzista di cultura mediterranea, attorno all’anno 1000 bronzo fuso a cera persa in patina verdastra con tracce di doratura, 53 x 31x x12 mm Con questo riferimento formale, l’artigiano intendeva certamente conferire allo scrigno la stessa nobiltà che si poteva riscontrare negli animali stilofori del periodo romanico, spesso riferita alla fattezze leonine.

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Beccuccio di un importante acquamanile in forma di leonessa artigiano nord tedesco o fiammingo (che si firma con un monogramma), XIII secolo ottone fuso a cera persa, 114 x 6+4 x 22 mm Rappresentato nei modi sobri dell’arte europea a cavallo fra il XIII e il XIV secolo, questo beccuccio, dal quale sgorgava l’acqua di una brocca, rimanda con particolare evidenza ai mostri e ai draghi che (orizzontali in antitesi alle figure verticali dei Santi) costituivano i doccioni delle cattedrali gotiche. In questo caso, il potente felino è rappresentato nella versione araldica caratteristica degli animali stilofori dei pronai delle chiese romaniche.


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Maniglia o manico costituito da doppia protome leonina artigiano iraniano, XVII secolo due ossi di montone incollati attorno a una vite in ferro, 56 x 28 x 13 mm Questo oggetto, scolpito in forma di protome leonina bicipite, probabilmente un manico di bastone, riprende anch’esso la nota tematica del leone come simbolo di potere atto a evidenziare lo status ambíto dal suo possessore.

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Tre coltellini da pescatore in forma di pesce artigianato cinese del secolo XIX ferro forgiato e temprato, 124 x 24 x 10 mm; 160 x 50 x 20 mm; 110 x 35 x 19 mm Realizzati artigianalmente in forma di pesce, con evidente riferimento alla tipologia e alle dimensioni delle prede caratteristiche di vari ambienti di pesca, questi coltelli (in acciaio forgiato a mano) utilizzano l’animale come segno di appartenenza al settore merceologico dei pescatori.


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Tre ocarine in forma di uccelli artigianato contemporaneo del Messico centro-settentrionale terracotta di varia colorazione con tracce di vernice, 46 x 41 x 21 mm Simili elementari strumenti musicali (delle ocarine) sono finalizzati al divertimento dei ragazzi dell’alto Messico che, con essi, riescono a modulare dei veri e propri motivetti: essi riprendono, gradevolmente semplificate, le fattezze di piccoli uccelli canterini.

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Arricciacapelli a forma di testa di animale artigiano dell’alta Italia, metà del 1700 acciaio forgiato e rifinito manualmente, 175 x 45 x 11 mm Prima dell’introduzione delle tecniche chimico-fisiche per conferire una ondulazione relativamente stabile alla coiffure delle donne, si usavano delle speciali pinze (di varia forma e dimensione) che, dopo essere state scaldate su appositi fornelli, venivano applicate alle ciocche di capelli lisci fino a imprimere loro l’onda voluta. In questo caso la pinza apre i due lembi (maschio e femmina) per la messa in piega grazie a un manico incernierato sull’asta fissa che si richiude automaticamente richiamato da una molla. Il becco che si apre e il ricciolo della molla (che sembra un occhio), conferiscono all’oggetto la simpatica forma della testa di un animale che apre e chiude il becco (un delfino, una papera?).


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Doppio calibro in forma di uccello artigiano francese (macchinista), prima metà del XVIII secolo acciaio forgiato e levigato, 101 x 82 x 12 mm Questo strumento (appartenente alla tipologia dei calibri detti anche ‘ballerini’ perché talvolta dotati delle sembianze di uomini nell’atto di danzare) è costituito da due paia di bracci incernierati al centro che consentono di rilevare misure interne o esterne di oggetti. L’assetto variabile e mutevole dell’oggetto deve avere suggerito al ‘macchinista’ (termine con il quale si indicava l’artigiano costruttore di strumenti scientifici e di misura) il movimento delle ali di un uccello rapace.

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Terminale in forma di chimera del bracciolo di una poltrona importante autore ignoto, ambiente toscano, inizio 1800 bronzo fuso a cera persa ripreso a bulino fornito e dorato a mercurio, 122 x 70 x 63 mm Questo fregio di un mobile neoclassico di cultura toscana, riprende artisticamente le fattezze di un animale nobile, quasi a sottolineare simbolicamente lo status del proprietario. In realtĂ , le forme leonine sono giĂ presenti nella cultura egizia (si pensi, ad esempio, alla sfinge di Giza che rappresenta il faraone nel pieno del suo potere) e sono qui utilizzate certamente per alludere al rango elevato del possessore di quel mobile.


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Osso cavo per estrarre il torsolo delle mele artigiano francese di ambito rurale, fine del XIX secolo osso di volatile lavorato a mano, 114 x 25 x 16 mm È arcinoto che gli antichi utilizzassero i più diversi materiali, soprattutto animali e vegetali, per ottenere utensili di uso quotidiano: soprattutto le ossa, le corna e i denti di molti animali cacciati per le loro carni fornirono fin dalla più remota antichità, punte di frecce e di lance, raschiatoi, arpioni, ecc. Oltre che per la loro relativa lavorabilità, probabilmente per la loro consistenza (organoletticamente affine alla nostra), pettini, forcine, manici di ogni sorta sono tutt’ora realizzati utilizzando il carapace della tartaruga, le zanne dell’elefante o le ossa dei bovini. Sfruttando la cavità dello stinco di un grosso pennuto da cortile (forse un tacchino) l’ingegnoso contadino ha concepito questo attrezzo (firmato con le sue iniziali, palindrome in forma assai decorativa) per cavare il torsolo dalle mele e per altri consimili attività legate alla lavorazione di prodotti agricoli.

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Scimmiette collegabili una all’altra per formare una catena atta ad appendere gabbiette azienda francese, fine ‘800 ghisa smaltata color marrone, 25 x 130 x 20 mm Tenendosi l’una all’altra, le quattro simpatiche bertucce costituiscono altrettanti ‘anelli’ intercambiabili di una ‘catena’ adatta ad appendere gabbiette di uccelli. Nonostante l’aspetto fortemente animalier, i componenti di questa curiosa catena sono concepiti e realizzati secondo le più esplicite regole del buon design. Si noti, fra l’altro, che l’esotico primate viene usato per sostenere ‘coerentemente’ la gabbietta di un altro animale.


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Forbicina per lavori femminili in forma di airone coltelleria centroeuropea (francese ?), fine ‘800 acciaio temprato, 41,5 x 170 x 4 mm La forbicina in questione è un caratteristico strumento per lavori domestici di taglio e cucito. La necessità di una certa precisione ha portato l’oggetto ad avere lame piccole e sottili incernierate piuttosto lontane dalle asole nelle quali si infilano le dita: così, la parte impugnata viene a costituire il corpo di un uccello il cui becco è costituito dalle due lame incernierate nell’occhio; l’apertura e la chiusura delle lame fanno assomigliare l’oggetto a un trampoliere (airone?) animato.

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Tre apriscatole in ghisa con testa di bue Inghilterra, dalla metà 1800 al secondo dopoguerra corpo in ghisa, lama e vite di regolazione in acciaio, 162 x 63 x 31 mm; 157 x 63 x 32 mm; 127 x 48 x 32 mm Poco dopo l’invenzione, avvenuta alla fine del ‘700 in Olanda, delle scatole e delle scatolette di banda stagnata per le conserve alimentari (carne, pelati, marmellate) si rese necessario l’attrezzo per aprirle in modo semplice e domestico. Il primo brevetto concernente l’apriscatole era stato depositato in Inghilterra nel 1850 ma lo strumento che, per primo, manifestò una certa praticità, detto ‘a testa di bue’, fu proposto nel 1865, sempre in Inghilterra; esso veniva venduto assieme alle scatolette di manzo marinato prodotto dalla società Bully. In realtà, quel primo apriscatole è qui rappresentato in tre versioni. La più vecchia è quella in basso; la più piccola in alto è una copia apocrifa ‘giustificata’ dalla grande richiesta che si riscontrò alla sua uscita sul mercato. L’oggetto è costituito da un corpo di bue stilizzato di cui si riconoscono la testa e la coda; la lama d’acciaio veniva introdotta nel coperchio della scatola previo foro ottenuto conficcandovi la punta che esce sopra la protome bovina. La vite, stringendola, consentiva di regolare l’inclinazione e la distanza della lama dalla testa. Inutile evidenziare che la coda dell’animale raffigurato, risvoltata ad anello, serviva per appendere lo strumento. Per molti anni, in Italia, questo attrezzo venne regalato dai salumieri ai clienti che comperavano carne in scatola argentina Corned beef; pertanto, esso si trovava nelle case borghesi a partire dalla fine dell’800 fino al secondo dopoguerra (anni ’50 del XX secolo).


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Scatola a forma di cuore rivestita da conchiglie artigiano di una località turistica dell’Adriatico, fine 1800 – inizio 1900 cartone e conchiglie, 130 x 151 x 81 mm L’interesse un po’ fanciullesco che le conchiglie dei molluschi suscitano negli esseri umani ha indotto molti artigiani nei secoli (inizialmente quelli inglesi, verso la fine del 1700, sulla scorta delle più cólte fantasticherie architettoniche rinascimentali italiane) a usarle direttamente con finalità decorative su molteplici oggetti, soprattutto scatole e cornici. Questo esemplare ha chiara funzione di souvenir di località marinare, reca infatti la scritta ‘Cattolica’.

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Saliera in corno artigiano valdostano, fine ‘800 corno di bufalo e di camoscio, 88,5 x 44 x 79,5 mm La disponibilitĂ di materiali di origine naturale (vegetale e, soprattutto, animale) particolarmente performanti ed esteticamente appaganti, ha contribuito in modo determinante alla realizzazione di ogni sorta di suppellettile o di accessori quotidiani della casa. Questa saliera si avvale di segmenti cavi di corno di bufalo per le due scodelline, di due tondelli piani per il fondo delle stesse e del terminale di un corno di camoscio per il manico.


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Pomolo di bastone in forma di protome canina artigiano lombardo o francese, anni ’30 del XX secolo rhodoid (acetato di cellulosa) stampato e ripreso manualmente, 52 x 44 x 24 mm Gli animali domestici (cane, cavallo, gatto) hanno spesso prestato la loro immagine per la realizzazione di oggetti il cui continuativo impiego doveva essere caratterizzato da forme famigliari gradevoli o gradite quasi per attenuarne la necessarietà (in questo caso probabilmente facilitare la deambulazione di un anziano). Alle nostre latitudini la razza canina (boxer) diventa oggetto di culto a partire dagli anni ’30.

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Tagliacarte e manico di sigillo in forma di ninfa nuda che regge una coppa dalla quale scaturisce un profumo in forma di serpente bottega nord-italiana, anni ’20 del XX secolo ottone stampato per fusione e ripreso manualmente, 35 x 234 x 16 mm; 35 x 112 x 16 mm In questi due oggetti, l’associazione ‘fascino femminile-pericolo’, è interpretato dalla bellezza di una donna consapevole delle sue arti ammaliatrici (le quali sono simbolizzate dal serpente).


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Levriero portagioie e portaorologio da tasca autore ignoto, ambiente centroeuropeo, inizio 1900 ottone fuso a cera persa (gancio in ferro), 195 x 156 x 81 mm In questo raro oggetto di esplicita cultura Art Nouveau, l’elegante e slanciato cane è il fedele custode degli anelli e dell’orologio da tasca di un signore borghese dell’inizio del secolo scorso.

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Manico di sigillo personale con pantera e serpente in lotta Enrico Caruso, New York, inizio anni ’30 del XX secolo bronzo fuso a cera persa, patina bruno-rossiccia, 50 x 94 x 25 mm Questo elegante sigillo di evidente cultura animalière è stato modellato dal famoso tenore durante una delle sue molteplici trasferte statunitensi. Pochi conoscono l’hobby creativo del grande interprete napoletano che ha voluto trasfondere in questo tipo di strumento (un tempo piuttosto utilizzato) alcuni dei simboli animali caratteristici della cultura estetico-formale dei primi decenni del secolo scorso: pantere, serpenti, gazzelle, levrieri e cerbiatti proliferarono, infatti, nei soprammobili e negli ornamenti della Belle époque in quanto ammirevole espressione di eleganza formale.


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Accessorio da tavola in forma di bassotto artigiano tedesco (?), inizio del XX secolo metallo cromato, 90 x 33 x 24 mm L’elegante animale dalla bassa corporatura (un bassotto) ben si prestava a divenire l’icona simpatica di un articolato servizio da tavola. Collocato alla destra del piatto serviva per poggiare il coltello in uso, tra un boccone e l’altro.

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Raganella in forma di coccodrillo artigiano tedesco, fine ‘800-inizio ‘900 lamiera di ferro litografata e stampata, su molla in acciaio punzonato, 127 x 36 x 12 mm Questo giocattolo tipico dell’artigianato tedesco (qui in forma di coccodrillo), appartiene alla tipologia delle cosiddette ‘raganelle’ perché la ripetuta pressione sulla sottostante molla genera un forte ticchettío; occorre ricordare che il rumore emesso da tale strumento assomiglia vagamente al gracidare delle rane che piace moltissimo ai bambini, meno ai loro genitori.


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Svuotatasche sorretto da cane bassotto fabbrica italiana, anni ’20 del XX secolo ceramica smaltata nei colori rosso vivo, bianco e nero, 64 x 64 x 13 mm Soprammobile portamonete costituito da una ciotola dai contorni smerlati sostenuta da un cane bassotto: l’evidente allusione, anche cromatica, al cane bassotto del ‘signor Bonaventura’ concepito da Sto (Sergio Tofano) ha qui significato propiziatorio di buona fortuna economica.

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Bracciale con uccellini Fabbricante di bijoux, Austria (?), fine ‘800-inizio ‘900 vermeil dorato e smalto bianco L’elegante monile ‘fantasia’ appartiene a quel settore della bigiotteria che si è lasciato convincere dalle suggestioni formali e dal rinnovamento espressivo introdotti dai movimenti europei quali la Secessione Viennese e lo Jugend Stil. Al di sopra di una sorta di gabbietta, un uccellino è alternativamente accucciato o impettito quasi a suggerire una sequenza stroboscopica di movimento. Il piccolo pennuto qui è occorso per ingentilire la geometria della gabbietta con un argomento concettuale senza tempo.


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Calzascarpe con manico in forma di protome equina artigiano e luogo di produzione sconosciuti, inizio del 1900 legno di ciliegio, 137 x 43 x 45 mm Probabilmente perchÊ destinato a qualche cavaliere o militare di un reggimento di cavalleria, l’artigiano che ha realizzato questo strumento ha pensato di conferirgli un volto equino.

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Bella abissina portatrice d’acqua artista italiano o somalo, Mogadiscio, anni ’30 del 1900 avorio inciso a bulino e smalto color nocciola, 103 x 122 mm, senza appiccagnolo La squisita piastra-ricordo, ricavata sezionando trasversalmente la parte più larga di una zanna grezza di elefante, riassume con pochi tratti e in termini particolarmente felici il fascino che il Corno d’Africa (con le sue genti e la sua identità) ha suscitato nella popolazione italiana fin dai tempi dell’Impero Romano: a questo proposito, si ricorda che circa duemila anni fa le donne etiopi e circasse erano giustamente ritenute le più belle del mondo allora conosciuto. L’autore del medaglione, italiano o somalo cresciuto alle migliori logiche formali europee, si esprime secondo i canoni estetici degli anni ’30 del ‘900 corrispondenti al governo coloniale italiano. Una fanciulla (verrebbe da definirla ‘faccetta nera’) proviene da destra portando un contenitore d’acqua sulle spalle mentre con la mano destra trattiene il velo che le copre il capo; sullo sfondo, una moschea con minareto.


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Collana con animali di legno anonimo artigiano del Centro Africa, anni ’20 del XX secolo vari legni e osso ~ 600 mm La curiosa collana, formata da vaghi di legni vari e osso tinto, di volta in volta cilindrici e intagliati in forma di animale, è un tipico oggetto artigianale del Centro Africa degli anni ’20 del XX secolo. Essa costituisce un simpatico ornamento assai verosimilmente destinato a un pubblico di turisti europei affascinati dalle manifestazioni tribali; il monile è realizzato nei modi caratteristici della cultura formale indigena e annovera un ghepardo, un rinoceronte, un elefante, un leone, una zebra e una giraffa.

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Salsiera decorata a mano Guido Andlovitz e altri per Lavenia della SCI-Società Ceramiche Italiana, Laveno, 1929 ceramica, Ø 157,7 x 82,5 mm Questa piccola salsiera di ceramica, concepita da Guido Andlovitz e prodotta dalla SCI-Società Ceramiche Italiana a Laveno nel 1929, è stata inizialmente realizzata bianca ed è stata successivamente decorata in seconda cottura con disegni di animali; si tratta di un tipico lavoro che i francesi sono solito chiamare travail de jeune fille in quanto frutto di attività pseudo-artistiche di giovani educande o di intramontabili signorine dotate di gusto.


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Uovo pubblicitario per rammendare fabbrica nord italiana, anni ’30-’40 del XX secolo alluminio fuso centrifugato, 55 x 66 mm Il progettista che ha concepito questo uovo pubblicitario in alluminio cavo (in sostituzione di quelli tradizionali in legno che occorrevano per rammendare le calze) ha voluto conferire ulteriori eleganza e attrattiva allo strumento sottolineando con il metallo luccicante la forma ovoidale che è anche simbolo di perfezione.

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Curvilinee E. Chapron ed E. Coquelin, cartolai, Parigi, anni ’20 del XIX secolo legno di pero non trattato, ~ 370 x 80 x 1 mm La necessità di tracciare linee curve non ottenibili facilmente con il compasso, caratteristiche dell’Art Nouveau e dette anche ‘a schiocco di frusta’ (con riferimento ai movimenti della coda degli spermatozoi, da poco osservati al microscopio), ha determinato la nascita di appositi strumenti detti curvilinee. Tali ornamenti erano realizzati normalmente fustellando sottili lastre di legno di pero, una essenza particolarmente compatta, leggera e stabile con la quale sono stati tradizionalmente realizzati strumenti per il disegno di architettura e per la matematica come, ad esempio, i regoli calcolatori (che divennero quasi il simbolo degli ingegneri), essi assunsero le più diverse forme spesso somiglianti a una grossa rivoltella, tanto che in spagnolo si chiamano pistoletes.


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Posacenere Peugeot autore sconosciuto, Francia, ~ 1945 allumino, 142,5 x 141,2 mm Il posacenere in alluminio, fuso in conchiglia, rappresenta, entro una cornice pentagonale, la testa stilizzata di un leone. Si tratta di un’interessante declinazione del marchio di fabbrica Peugeot secondo canoni formali caratteristici degli anni ’30; sotto la testa dell’animale aziendale si trova la scritta Peugeot, in corsivo, mentre in alto appaiono le sigle di due famosi modelli di autovettura prodotti dalla famosa casa automobilistica attorno agli anni ’40-’45.

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Portacenere pubblicitario in forma di conchiglia fabbrica nord italiana, anni ’50–’60 del XX secolo alluminio stampato da lamiera, anodizzato color azzurro, 122 x 128 x 14 mm Il portacenere, che reca la pubblicità di un noto liquore, è realizzato nelle forme della valva concava del mollusco detto ‘capasanta’ (in latino Pecten jacobaeus e in francese coquille Saint Jaques in onore di Santiago de Compostela); questa conchiglia, detta comunemente anche “pettine di Venere”, oltre al gradevole aspetto evidenzia una struttura particolarmente adatta all’accoglimento delle sigarette di molteplici fumatori e allo spegnimento delle stesse.


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Vaso portafiori centrotavola in forma di corallo Guido Andlovitz per Ceramiche di Baveno (Varese), immediato secondo dopoguerra (~ 1950) ceramica smaltata di colore rosso vivo, 247 x 200 mm Il riferimento concettuale e formale alla struttura di un ramo di corallo ha consentito a Guido Andlovitz di concepire questo originalissimo vaso (peraltro, a suo tempo, molto copiato): alle estremità delle sue diverse derivazioni, possono essere inseriti fiori colorati che, interagendo con l’elegante e semplice configurazione dell’oggetto, spiccano con una insolita efficacia.

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Attrezzo multiplo da cocktail per uso domestico in forma di pappagallo (dotato di base d’appoggio) fabbrica e località di produzione sconosciute, anni ’60 del XX secolo acciaio cromato e palissandro, pappagallo 74 x 34 x 12 mm Indubbiamente il pappagallo, con l’evidente becco a rostro e la curiosa sagoma, identifica un archetipo formale che la fantasia umana ricollega a molteplici attrezzi d’uso: assai diffusa è la pinza con cerniera scorrevole che, quando è aperta, assomiglia anch’essa al simpatico animale in atto di gracchiare.


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Attrezzo multiplo da cocktail per uso domestico in forma di pesce sega fabbrica e località di produzione sconosciute, anni ’60 del XX secolo acciaio cromato e palissandro, pesce sega 300 x 30 x 9 mm Sia questo oggetto che il successivo costituiscono significativi esempi di rivisitazione dell’armamentario domestico secondo le convincenti logiche formali di un buon design temperato da influenze culturali nordiche (soprattutto nelle linee e nei materiali): le parti funzionali dei due oggetti sono l’esplicita occasione per conferire loro connotati animali adatti a renderli ancor più graditi e familiari.

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Gioco Sedici animali Enzo Mari per Danese, Milano, 1957 inizialmente legno di rovere fresato e, successivamente, poliuretano stampato a iniezione 342 x 248 x 30 mm (entro una scatola di 380 x 270 mm) Il gioco-puzzle concepito da Enzo Mari per Danese (inizialmente realizzato in serie limitata da 300 esemplari) è costituito da 16 pezzi, ciascuno dei quali raffigura un animale ben conosciuto: questi costituiscono altrettanti tasselli di una composizione rettangolare con gli angoli leggermente smussati. Nel raffinato design di questo gioco, apparentemente destinato ai più piccoli ma, in realtà, gradito a tutti, l’Autore ha stilizzato la sagoma di ogni animale in modo tale che, pur conservando inalterata la loro riconoscibilità, possano essere incastrati l’uno accanto all’altro in modo da lasciare minimi spazi vuoti (che spesso coincidono con le loro fauci aperte). Occorre precisare che, presi singolarmente, tutti gli animali sono formalmente autonomi e pos-sono essere appoggiati a un piano ovvero uno sopra l’altro, come a formare una divertente Arca di Noe’. Sulla scorta del successo ottenuto con questo progetto, l’Autore concepì, più tardi, un secondo gioco-puzzle dedicato agli animali del mare a completamento di questo primo, che era riferito agli animali terrestri (immagine per gentile concessione della ditta Danese Milano).


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Portauovo in forma di mezzo uovo sodo fabbrica nord italiana, anni ’40-’50 del XX secolo ceramica smaltata, 65 x 28 x 84 mm In questo caso, l’emblematico prodotto animale viene usato simpaticamente, anche se in maniera ridondante, per ospitare un uovo à la coque.


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Apribottiglie con manico a forma di scoiattolo fabbrica di accessori per cucina, Svizzera (?), anni ’30 del XX secolo lamiera d’acciaio fustellata, rifinita in ripresa e cromata, 70 x 90 mm L’apribottiglie, di cui si conoscono infinite varianti anche piuttosto sofisticate, in questo caso assume la forma di un simpatico scoiattolo secondo le logiche formali e le consuetudini estetiche caratteristiche della grafica sistematica di cultura centro-europea. È evidente che lo scoiattolo non ha alcuna esplicita attinenza con la funzione espressa dall’oggetto ma essa è gradevole e riferisce un desiderio di naturalità da parte del suo possessore.

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Posata in forma di pinza per spezzare il carapace dei crostacei cucinati autore e luogo ignoti, anni ’60 del XX secolo due parti in alluminio pressofuso incernierate con un perno di acciaio inossidabile 56 x 142 x 14 mm Questo strano attrezzo, non necessariamente coerente con il servizio di posate in uso presso una famiglia, viene fornito ai commensali affinché possano spezzare il duro carapace e i gusci dei crostacei commestibili onde poterne mangiare il contenuto. La sua conformazione richiama altri strumenti conosciuti (come, ad esempio, lo schiaccianoci al quale, evidentemente, si riallaccia funzionalmente). Al contrario di quanto normalmente è avvenuto per molti oggetti da tavola che, negli anni recenti, sono stati sempre più stilizzati rispetto agli ornati modelli del passato, questo attrezzo vuole richiamare, e perfino evocare molto esplicitamente, le caratteristiche salienti (le chele) di un agguerrito artropode, per suggerirne la destinazione d’uso.


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Ciotola in forma di pollo industria ceramica francese (?), anni ’30 del XX secolo porcellana bianca e blu, Ø 140 (larghezza massima 180) x 50 mm Il design di questa spiritosa ciotola da consommé fa un garbato riferimento alla destinazione d’uso della stoviglia stilizzando le fattezze dell’animale ai due lati del recipiente di cui formano i manici.

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Sottopentola industria anglosassone, terzo quarto del XX secolo metallo cromato, 238 x 222 mm Il sottopentola è costituito da un traliccio di foglie di quercia (con relative ghiande) sul quale si stagliano molti pesci e frutti di mare non sempre rappresentati nella scala dovuta: quattro capesante, due stelle di mare, due ippocampi, un granchio, un gambero, una conchiglia bivalve, un conus, un echinoderma (del tipo ‘dollaro’). Di cultura anglosassone della seconda metà del XX secolo e realizzato in metallo bianco cromato, l’oggetto appartiene a quelli di tipo animalier nei quali la rappresentazione allusiva degli animali è sostanzialmente oggettiva e non stilizzata.


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Contributi scientifici


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zootedesign Elisabetta Benelli

Conosciuto nell’antica Grecia come zoote, oggi l’animalier include le stampe e le decorazioni che riproducono il manto animale nelle sue moltissime declinazioni. Simbolo di status, nel Settecento, la stampa animalière esaltava colli, polsi, dettagli di abiti opulenti e di ampi mantelli aggiungendo così un tocco esotico allo stile delle corti europee: nei suggestivi dipinti di Jean Marc Nattier, le celebri e potenti dame – da Madame Bouret a Madame Adelaïde, da Madame Pompadour all’amatissima (dallo stesso Nattier) Madame de Maison-Rouge – vengono ritratte nelle vesti di Diana con un manto maculato sopra una bianca veste virginale; nel 1756 anche Jean Victor de Rochechouart de Mortemart viene raffigurato, dallo stesso pittore, con un’elegante marsina in velluto rosso bordata di pelliccia di leopardo. Dalla seconda metà del Settecento, sia nell’abbigliamento maschile che in quello femminile, iniziano a vedersi vesti, gilets e persino imponenti abiti sostenuti da paniers, r ttealizzati con tessuti zebrati o maculati e, per rimanere in tema jungle, diremmo oggi, completati da vistosi cappelli ornati con piume di rari e colorati uccelli esotici. Tra il 1880 e il 1900, il movimento estetico britannico raggiunse il suo culmine: il periodo si configura come un’incessante ricerca non solo di nuove forme letterarie e artistiche, ma anche di nuove esperienze, sensazioni e modi di vita. L’estetismo non è infatti solo un movimento letterario, ma rappresenta anche il tentativo di liberarsi dai vincoli morali e dai pregiudizi della società vittoriana. Al materialismo e all’utilitarismo dominanti vengono contrapposti, come valori assoluti, il culto della bellezza e la religione dell’arte. Anche nella moda, come impegno unicamente soggettivo, si assiste alla ricerca di linee fluide che liberano il corpo: abolite le ingombranti sottostrutture degli abiti e i corsetti costrittivi, la ‘nuova donna’, intellettuale ed emancipata, trova anche nella stampa animalière la ri-

• Giulietta. Come è noto, Romain de Tirtoff, alias Erté, è stato uno dei massimi esponenti della cultura Decó

di matrice parigina: fra i suoi moltissimi disegni di costumi e scenografie è interessante riportare questo, che ipotizza una longilinea Giulietta vestita con un tessuto maculato.


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Brigitte Bardot in pelliccia. Prima di convertirsi a un’ideologia esplicitamente animalista (essa è assai nota per la sua campagna contro il massacro delle foche per utilizzarne la pelliccia) una della massime icone della sensualità occidentale del secolo scorso, Brigitte Bardot, vestiva eleganti abiti delle più note Maisons e, fra questi, alcune splendide pellicce.


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sposta al suo desiderio di libertà. Ma la perfetta crasi tra donne e animali si ha con Erté, uno dei maggiori creatori di moda fra le due guerre nonché scenografo, pittore e scultore: egli rivestì con pelli, piume e macchie i sinuosi corpi femminili, inscrivendoli in uno spazio segnico che, pur di provenienza simbolista, si caratterizzava già per un nuovo rigore. Monsieur belle époque colse tutta l’esotica raffinatezza di quel periodo e la trasferì in abiti e costumi in cui ‘la profusione decorativa, l’esuberanza precisa e barocca, l’astratta trascendenza che trascina le linee’ (Barthes, 1972) affascinarono le donne più famose della scena parigina da Anna Pavlova a Sarah Bernhardt, da Mistinguette a Joan Crawford e Norma Shearer. Come lui, anche il costumista di origine austriaca Paul Seltenhammer, suo collaboratore, divenuto un’icona di inizio Novecento e della Parigi degli anni Trenta e Quaranta, interpretò, forse anche con maggiore ironia e audacia, le linee orientaleggianti di quel tempo: fu lui a inventare il costume-gonnellino realizzato con sedici banane (un abito di scena destinato a divenire uno dei tormentoni del Novecento) che avrebbe portato al successo la scultorea ballerina afro-americana Joséphine Baker, la stessa che amava indossare vistose piume di pavone e passeggiare per le strade di Parigi con il suo leopardo Chiquita, ammaliando fotografi e osservatori. Solo nel 1947 l’animalier sfila in passerella in occasione della collezione primavera/estate di Christian Dior che, ispirato dalla sua musa Mitzah Bricard, decise di avvolgere le modelle in nuvole di chiffon leopardato: innamorato di questa motivo (ne aveva preteso l’esclusiva per due anni) lo stilista se ne servirà nelle successive collezioni per rifinire i polsi e i colli di eleganti soprabiti o per realizzare raffinati cappelli, come quello indossato, qualche anno più tardi, dall’indimenticabile Audrey Hepburn in Sciarada. Quarant’anni dopo e, precisamente, il 26 dicembre dell’87, Nancy Hastings definisce Valentino, sul Toronto Star, ‘Re della giungla della moda’ per la sua costante ispirazione ai temi animaliers: oggi, a mio parere, lo scettro dovrebbe essere passato allo stilista fiorentino Roberto Cavalli che ha fatto dell’animal print la sua identità stilistica e che, nel 2006, ha sponsorizzato la mostra Wild: Fashion Untamed tenutasi al Metropolitan Museum of Art di New York; questo mirava a documentare nel tempo la potenza simbolica e icastica dell’animalier attraverso le creazioni di Alaïa, Dior, Galliano, Gaultier, McQueen, Mugler e Versace. L’animalier ha quindi una posizione di predominio nel sistema moda contemporaneo. In epoca greca e romana, l’animalier si era espresso attraverso valenze simboliche che lo riconducevano al culto dionisiaco associato all’ebrezza e alla lussuria; lo stesso Dante nel suo percorso verso la salvezza fu ostacolato dalla lonza dal ‘pel macolato’; nell’iconografia quattrocentesca, ritroviamo ancora riferimenti concettuali all’animale, ad esempio nelle raffigurazioni di Maria Maddalena come riferimento ai lascivi trascorsi della santa.

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Madame de Maison Rogue in veste di Diana. I due dipinti di Jean Marc Nattier (rispettivamente realizzati nel 1753 e nel 1756), rappresentano due personaggi che, poco dopo la metà del 1700, ostentano abiti ornati da una pelliccia maculata con esplicito riferimento alla loro agiata condizione sociale.

Jean Victor de Rochechouart de Mortemart.

L’esoterismo rinascimentale, che aveva iniziato a studiare il paganesimo antico e la civiltà egizia, associò spesso l’animalier al satanico; più tardi, nel 1593, nel suo volume Iconologia, Cesare Ripa fa coincidere l’animalier con la figurazione della libidine: la pelle di pardo significa Libidine “essendo a ciò detto animale molto inclinato, mescolandosi non solamente con animali della sua specie, ma ancora – come riferisce Plinio – con il leone, e come la pelle del pardo è macchiata, così similmente è macchiata la mente dell’huomo libidinoso di pensieri cattivi, e di voglie le quali tutte sono illecite” (Catricalà, 2004).


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Nell’attuale fase storica l’animalier assume invece una connotazione di alleggerimento nei confronti degli attuali contrasti sociali; in realtà questa azione estetica vuol fare semplicemente sognare riproponendo, attraverso un linguaggio opulento, le sicurezze di quell’età dell’oro che sono stati gli anni Ottanta. Oggi le stampe rubate alle pellicce di animali esotici hanno indubbiamente perso i rimandi simbolico-culturali, ai quali si è accennato, ma sono pur sempre un riferimento costante nelle collezioni di molti stilisti contemporanei proprio per le loro molteplici identità e per la loro forza estetica e visiva. Forza che, a mio parere, deve sempre essere dosata e usata in modo consapevole, portata con grinta e ironia, con sottile aggressività ed eccentrica dissolvenza per evitare facili e antiestetiche cadute di stile. In questo caso direi quindi…melius deficere!

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animalia Eugenio Guglielmi

A un lettore superficiale potrebbe apparire in qualche modo singolare che, in sede scientifica e a proposito di design, ci si occupi di animali e della loro rappresentazione nelle cose di uso comune. Per uomini di una civiltà come la nostra, che ha pressoché interrotto l’usuale rapporto con loro, gli animali sono amici-nemici (a seconda delle interpretazioni) nonostante abbiano condiviso con noi la Terra fin dagli albori della nostra evoluzione. Per molti versi, i piccoli esseri a due gambe che si confrontavano con un mondo nel quale gli animali erano i veri padroni, non erano degli intrusi. Si racconta che, nella vagheggiata Età dell’Oro, esseri umani e animali convivessero in armonia. Sarà il nostro coté ‘Caino’ a rendere gli animali aggressivi verso di noi, una volta divenuti vittime predestinate con una reazione di difesa che dura tutt’ora. Ironia della sorte, quello stesso uomo che li salverà dal Diluvio ne farà poi strage con la caccia, prima per la sopravvivenza e poi, addirittura per diletto, in un cinico gioco di forza e di abilità. Già a partire dal Paleolitico superiore, i nostri predecessori vollero circondarsi di animali di specie utili, per esempio addomesticando il cane. Nel Mesolitico si passò all’allevamento e alla caccia, fino a farne interpretazioni simboliche ed estetiche. In seguito, gli animali sacri e le favole sul loro mondo sconosciuto si intersecano con la zoologia: dall’eroico e nobile cavallo della Grecia (favorito dagli Dei e dagli uomini) fino ai racconti concernenti gli esseri ridicoli che presero corpo grazie alla loro supposta ‘psicologia antropomorfa’, come le rane e i topi nella Batrachomyomachia, aperta parodia dell’Iliade. Nelle sue commedie, Aristofane nascose astutamente le aperte critiche ai politi-

• Visione di Sant’Eustachio. Nella bella tavola detta Visione di Sant’Eustachio (dipinta da Pisanello nel 1436 e conservata alla National Gallery di Londra), l’Autore ha voluto narrare l’onirica immagine di un cervo la cui testa è sormontata da un crocefisso. Il mite ruminante è raffigurato di fronte al futuro santo, un legionario romano sontuosamente abbigliato, sulla sua cavalcatura: tutto attorno si muovono animali di vario genere. La scena è rappresentata con particolare intenzione animalière secondo i modi leggiadri ed eleganti della cultura gotico-internazionale.


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� Batracomiomachia. Pagina illustrata tratta dal testo di Marco Valerio Marziale, Batrachomyomachia, mit Gedicht auf Homer pubblicato a Modena nel 1498. La Batracomiomachia (in greco antico Βατραχομυομαχία, La guerra dei topi e delle rane) è un poemetto giocoso di 303 versi, parodia dell’epica eroica, nel quale si narra una guerra combattuta tra topi e rane. La parola è infatti ottenuta partendo dalle tre parole greche: βάτραχος batrachos (rana), μῦς mys (topo) e μάχη mache (battaglia). Nell’antichità, la Batracomiomachia veniva generalmente attribuita ad Omero. Egli l’avrebbe composta dopo l’Iliade e prima dell’Odissea. In realtà, la Batracomiomachia fu fonte costante di ispirazione e di imitazione fin dall’antichità: in età bizantina fu ad esempio parodiata da Teodoro Prodromo. La prima edizione a stampa, attribuibile a Tommaso Ferrando di Brescia, risale al 1473. Una seconda edizione fu stampata nel 1486 da due cretesi, Laonico e Alessandro. In età moderna fu imitata da Teofilo Folengo, che scrisse una Moscheide, e da Lope de Vega, autore di una Gattomachia. Influenzò anche, nello spirito, Il ricciolo rapito di Alexander Pope e La secchia rapita di Alessandro Tassoni. Dopo la traduzione in lombardo-milanese ad opera del padre domenicano Alessandro Garioni (1793), fu tradotta anche in italiano da Giacomo Leopardi, che ne trasse poi spunto per i suoi I Paralipomeni della Batracomiomachia, una favola satirica in versi che continua l’antica narrazione. Il termine è oggi usato anche come sinonimo di contesa inutile e ridicola.


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• Sant’Antonio da Padova e il porcello. I tre rustici medaglioni in bronzo fuso (realizzati nel Veneto fra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo) rappresentano sant’Antonio da Padova dietro al quale si vede, variamente stilizzato, l’animale a lui tradizionalmente associato come suo simbolo: il maiale col cui fegato, il frate di origine portoghese era solito guarire le dolorose malattie esantematiche note appunto come fuoco di Sant’Antonio. Tali medaglioni erano utilizzati con valenza apotropaica dagli allevatori di bestiame.

ci del suo tempo: titoli come ‘le vespe’, ‘le rane’, ‘gli uccelli’, rimandavano infatti a evidenti comportamenti umani di chi amministrava maldestramente il potere. Esopo è stato il maestro indiscusso di quella temperie culturale. Come non rimanere stupiti della sua capacità di accostare le debolezze umane agli animali? Dal Medioevo, stampe didattiche morali invaderanno l’Europa. Ecco la scimmia circondata dai suoi simili che, seduta su un trono regale con tanto di scettro e di corona, è intenta a dirimere una disputa tra due uomini per individuare il veritiero dal menzognere, feroce riferimento al famoso giudizio salomonico. Il secolo XVI umanista, fu prolifico di stampe che richiamavano le burlesche tenzoni con gli dei che dall’Olimpo stavano a guardare e tifare per gli uni o per gli altri contendenti. Oltre alla lettura morale di Esopo, non poteva mancare quella scientifica sugli animali, ancora conseguenza della cultura greca. In particolare furono i filosofi a occuparsene prima con Empedocle, poi con Diogene di Apollonia, per arrivare al ‘saggio di Stagira’ meglio noto come Aristotele: nonostante le ovvie imprecisioni, la sua opera Gli animali rimane fondamentale. Animali ‘con sangue’ e ‘senza sangue’… questo ci interessa poco; a noi interessa invece la identificazione delle diverse specie che ancora oggi viene rispettata, influenzando in particolare l’arte a partire da quella gotica fino al primo Settecento. Figlio del suo tempo, lo stesso Sant’Antonio di Padova, nei suoi Sermoni, trasse da Aristotele e dalla Polistoria di Solino le descrizioni della natura animalesca che usava mettere a paragone con quella umana. Ad esempio è curioso il riferimento alla ‘calandra’, un pennuto che, a seconda della direzione del suo sguardo, decretava la vita o la morte dell’infermo, credenza che trasformò poi l’uccello in amuleto. Con le logiche sottese da espressioni come Carmina non dant panem et circenses gli animali diverranno anche elemento sociale come, in particolare, le grandi specie africane; elefanti, coccodrilli, ippopotami e rinoceronti entrarono così nell’immaginario comune tramite gli affreschi delle case dei più ricchi, sempre con l’ironia propria dei romani.

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• Metafora della rinascita della natura ovvero Trionfo di un eroe. Questa placchetta, in bronzo fu-

so a cera persa (che, nel corso degli anni, ha suscitato pareri diversi circa l’artista che l’avrebbe concepita), ora attribuita ad Andrea Briosco detto il Riccio (primi anni del XVI secolo) ha un impianto fortemente allegorico. Al centro, su una predella, si osserva una figura maschile ignuda di fronte, con un corno nella mano dx; accanto a lui, a sinistra, una figura femminile alata (Vittoria), anch’essa ignuda pone la sua mano sinistra sulla spalla del primo personaggio; a destra, un bue è trattenuto da un uomo sommariamente vestito, inginocchiato sulla predella mentre un altro uomo, all’estrema destra, brandisce una spada per trafiggerlo. All’estrema sinistra si trovano due figure femminili vestite con chitone e che tengono in mano uno stendardo e un ramo di alloro. Sullo sfondo vi sono due flautisti e un sacerdote barbuto che regge un ramo di alloro. Accanto all’eroe si nota un vaso dal quale spuntano due rami di alloro e un serpente; nell’angolo in basso, a sinistra, si nota un vaso dal quale esce un serpente. Sullo sfondo a destra si nota un porticato ad archi, in parte diroccato, mentre a sinistra si nota una palma e a destra un albero di alloro. A sinistra della palma sventola uno stendardo. Quest’opera, variamente denominata e, sopratutto, diversamente interpretata in passato, in realtà costituisce una ermetica metafora della ricorrente rinascita della natura. L’uomo ignudo viene toccato da una donna alata rappresenta la conoscenza, contenuta nel vaso ai loro piedi: essa (a seno nudo) porge il nutrimento della conoscenza sulla rigenerazione del tempo, implicita nella rinascita periodica della natura. Il sacrificio di un toro ricorda il rito cruento tradizionalmente praticato nel passaggio fra la primavera e l’estate, l’età matura. In questa rappresentazione simbolica, sullo sfondo, si nota una architettura diroccata di evidente signficato allegorico; la palma sullo sfondo rappresenta la sapienza egiziana.

Penso all’affresco pompeiano che rappresenta un gruppo di pigmei a caccia, goffamente alle prese con enormi e quasi indecifrabili mammiferi e mostruosi rettili. E ancora penso alle stragi nelle arene che dimezzarono letteralmente il numero degli animali africani detti ‘feroci’ per arrivare alle meno nobili, ma non per questo meno ricercate


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• Frontespizio di polizza assicurativa. Il frontespizio di cultura neoclassica di questa polizza è stato re-

alizzato in calcografia da Giacomo Felsing, a Darmstadt nel 1825, su disegno di Pelagio Palagi, per una Compagnia milanese di assicurazioni. La scrofa semilanuta (che una leggenda collega col nome di Milano: Mediolanum cioè mediolanuto), nel caso specififco non vuole solo sottolineare la sede della compagnia ma, con tutta probabilità, la proprietà apotropaica della stessa e, perciò, anche la sua attendibilità.

‘leporarie’, vere proprie riserve di caccia, a scopo culinario, del simpatico mammifero tanto caro a Lucullo. Il maiale ebbe un ruolo particolare nel sacrificio rituale che la sua uccisione richiedeva, a conferma della diffusa oggettistica che lo ritrae, sia come ex voto che come strumento apotropaico. Invece della sanguinaria ‘ecatombe’ (dove, nella fossa sacra davanti al Tempio, tra sangue, fragori, muggiti, mosche e deliri si uccidevano ben 100 buoi in una volta sola) il porco selvatico assumeva sicuramente un ruolo di vittima più gestibile: l’esame delle sue viscere, come quelle dell’ariete testimoniava un’evidente continuità del costume etrusco-romano. La nobiltà della persona si confondeva molte volte con lo stesso animale, come nel caso di Giustiniano che, nell’anno 532, stava per soccombere alla rivolta tra ‘azzurri’ e ‘verdi’ dediti alle corse dei cavalli. Nell’ippodromo imperiale, fu la moglie Teodora che lo trattenne, con ‘nobili parole’, da una poco gloriosa fuga, la stessa che aveva conosciuto anche intimamente gli eroi dell’arena, figlia di un guardiano di orsi e cresciuta nel Circo.

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• Ara di Angera di età Claudia. La pregevole

lastra, realizzata in marmo rosa di Candoglia o di Ornavasso, era probabilmente inserita in un altare votivo dedicato a Giove, di cui costituisce la dedica. Scolpita in età Claudia tra il 41 e il 54 d.C., rappresenta una famiglia romana che sta per compiere l’uccisione rituale di una pecora su un’ara sacrificale. pagina a fronte San Giorgio uccide il drago. Lo splendido medaglione di scuola italiana della metà del XIX secolo rappresenta San Giorgio vestito come un cavaliere romano, con tanto di elmo piumato, che cavalca a pelo un aitante destriero; il Santo guerriero procede al galoppo verso destra mentre sta per trafiggere con la sua lancia un drago, simile a un coccodrillo, che arranca sotto di lui.

Bellerofonte su Pegaso uccide la Chimera. Questo mosaico romano, che si trova nel Musée Rolin di Autun in Borgogna, è stato realizzato tra il I° e il II° secolo d.C. e rappresenta Bellerofonte mentre cavalca Pegaso, con l’aiuto del quale vince il mostro leonino detto Chimera. La mitologia greca narra che il cavallo alato Pegaso sia scaturito dal collo della Gorgone quando Perseo le tagliò il capo, presso le sorgenti (περὶ πηγάς) dell’Oceano. Fu cavalcato prima da Perseo e poi da Bellerofonte che così poté vincere la Chimera e combattere con le Amazzoni. Morto Bellerofonte, Pegaso sarebbe risalito al cielo a tirare il carro del tuono per Zeus. Rinoceronte. Il medaglione in bronzo concepito da Antonio Salvi rappresenta un rinoceronte con un corno sul naso e uno sul dorso (sic!), visto di profilo e volto a sinistra su un terreno roccioso. L’animale riprende le fattezze di quello rappresentato da Dürer in occasione della prima comparsa di questo animale nell’Europa moderna.

• San Demetrio uccide Caligola. La placchetta rettangolare di esplicito sapore devozionale, rappresenta un militare vestito alla romana (San Demetrio) a cavallo, nell’atto di trafiggere un militare romano che si trova ai suoi piedi (l’Imperatore Gallicula cioè Caligola). Il Santo, circonfuso d’aureola, è in sella a un destriero impennato al galoppo verso destra; egli brandisce una lancia e, sullo sfondo, si nota una città murata munita di torri. Il bel rilievo esprime gradevole dinamismo e, per i caratteri stilistici e per il soggetto, appartiene verosimilmente alla cultura d’oltre Adriatico con influenze venete (Dalmazia, Illiria?).


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Animali amici dell’uomo o, meglio, amici per diventare nemici e temuti da altri uomini furono gli elefanti da combattimento che comparvero nella prima guerra punica, condotti in Sicilia dai cartaginesi. Dopo la sconfitta in battaglia, furono portati a Roma da Metello e il loro destino fu quello di essere sbranati nel circo in una impari lotta contro mute di cani inferociti. Già gli Assiri avevano introdotto i ‘cani carrozzati’, quasi anticipo del nostro periodo feudale, dove il patto tra uomo e animale divenne sempre più stretto ed evidente. Il cavallo diventerà, infatti, alter ego del nobile cavaliere così da potere entrare direttamente nelle cattedrali, insieme al suo padrone. Analoga importanza ebbe il falco (che spartì le glorie del suo addestratore, depositario di vera scienza come di raffinata poesia) e lo stesso cane (che venne ammesso per la prima volta a corte). Le pitture rinascimentali, da Mantova a Ferrara, da Urbino a Rimini, sono ricche di fonti iconografiche in tal senso. Parlare anche del Nuovo Mondo sarebbe troppo complicato. Già si faceva confusione in Occidente con gli animali immaginari, come lo scheletro del leggendario unicorno (ancora descritto dal Valentini nel suo Museum musearum) o le strane volpi con sembianze femminili delle favole inglesi o il drago di San Giorgio; figuriamoci con l’arrivo di animali sconosciuti da Oltreoceano! Sempre a proposito di storie di uomini e animali, un caso quasi tragico fu quello dei conigli di porto Santo, isoletta disabitata vicino a Madeira, visitata nel 1419 da un inviato di Enrico il Navigatore; avendo sbarcato dei conigli, gli stessi si riprodussero così rapidamente da rendere in due anni l’isola completamente inabitabile per gli uomini. Comunque, con la scoperta definitiva delle Indie, in Europa furono conosciuti il puma, i lama e i pappagalli multicolori che divennero vere e proprie attrattive popolari. Perfino il pesce, già simbolo cristiano per eccellenza, fu animale rappresentato e raccontato. Le sue principali leggende derivano dalle coste della Bretagna, di Terranova e dell’Islanda, grazie anche ai monaci vagantes che praticavano l’astinenza dalle carni rosse: merluzzi,

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Arpie musicanti. Il bassorilievo scolpito in pietra calcarea e infisso nella facciata di un antico edificio del centro di Bari vecchia rappresenta due fra la innumerevoli creature animalesche fantastiche che popolarono l’immaginario medioevale e che si trovano in gran numero su capitelli, lesene, acroteri e strutture stilofore di tutta Europa. Il curioso bassorilievo di incerta interpretazione rappresenta, probabilmente, due arpie affrontate che… suonano altrettanti strumenti musicali.

merlani e aringhe diventarono così personaggi di fiabe e racconti, come nel caso del misterioso ‘Re pesce’ del ciclo legato al sacro Graal. Seguiranno i pinguini e non era ancora ben chiaro se fossero pesci o uccelli. La scoperta del Nord come terra di cacce, diede l’avvio alle leggende legate ai loro abitatori animali: orsi bianchi, volpi bianche, azzurre, argentate e, in particolare, lo zibellino che assunse il ruolo di animale regale, simbolo di nobile potere, orgoglio dei potenti Bojari. Quello che a noi qui interessa maggiormente è l’animale come oggetto di quei culti e di quelle superstizioni che ne avrebbero alterato le sembianze, creando ibridi ancora oggi inesplicabili, ricercati dei collezionisti delle principali corti europee. L’essere zoomorfo si fonda così con l’antropomorfo. Uomini con testa di lupo, teste con becco, grifoni, tritoni, serpenti umanoidi, i famosi Homens Marinos, derivati dalle favole simbolico-romantiche, che terrorizzano i navigatori del tempo come le Sirene della mitologia greca. È nei circoli più raffinati della Rinascimento che si raggiunse l’apice di simili interessi. Tutti gli animali favolosi che, nel Medioevo, non avevano mai avuto un aspetto se non simbolico, divennero improvvisamente reali. Il Basilisco, la Fenice egiziana, l’uccello Grifone e le Salamandre furono al centro di studi e discussioni oltre che di dettagliate descrizioni. Lo stesso Benvenuto Cellini, nella famosa Biografia, racconta della piccola lucertola, osservata nell’infanzia, che ‘non bruciava mai!’. Si trattava, ovviamente, di una salamandra che, secondo una credenza popolare deriva-


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ta da Paracelso, passava incorrotta attraverso il fuoco, in quanto ‘spirito elementare’; la sua natura anfibia la rendeva accostabile al Tritone. Peraltro, quello strano animale acquatico non era altro che l’interpretazione del delfino, animale sacro ad Apollo, che aveva dato il nome alla città di Delfi. Nella simbologia cristiana, il suo ruolo di ‘salvatore’ è legato al leggendario salvataggio di Orione, trasportata a cavalcioni sul suo dorso. Nel XVI secolo, il famoso medico padovano Giulio Cesare Scaligero, giurava della esistenza del Basilisco, terribile serpente che uccideva gli uomini col solo sguardo. Anche se certi animali non esistevano, artigiani e ciarlatani creavano ninnoli, piccole sculture, placchette in bronzo e rame a loro ispirate e diffondevano così immagini che diventavano indiscutibili realtà. L’utilizzo artigianale di forme animali per creare oggetti d’uso comune ha nobili premesse. Leonardo da Vinci, per esempio, e tutti gli orafi del tempo (da Ghiberti al Brunelleschi) si cimentarono nella produzione di questi ricercati oggetti. Pierre Belon (naturalista del XV secolo che si interessò in particolare dell’Egitto) fu uno dei primi a rappresentare matrici in legno di pesci marini esotici che servirono come ulteriori modelli, fino all’Illuminismo. Il passaggio verso l’uso corrente della decorazione di ispirazione animale sull’oggetto di uso quotidiano, fu realizzato in Francia dal vasaio Bernard Palissy. Da bravo artigiano il suo interesse era sempre rivolto agli oggetti che fabbricava e colorava. Bernard era abile nella lavorazione del vetro e della maiolica. Egli si concentrò particolarmente nella creazione di vasellame smaltato ornandolo con figure di pesci, conchiglie, serpenti, lucertole e rane. La forma ovale dei suoi piatti divenne famosissima, arrivando a condizionare tutta la produzione ceramica fino a Picasso. Oltre a una esposizione di animali, Palissy aveva introdotto a Parigi, per Caterina de’ Medici, la moda di possedere un animale raro e, di contro, di farne realizzare l’effigie da esibire agli ospiti e agli amici, come già era in uso nei Serragli. Molto prima, Federico II aveva importato in Europa la prima giraffa: quell’animale che, quasi trecento anni dopo i Gonzaga, avrebbero esibito a Goito nella villa giuliesca che ancora oggi porta il suo nome, insieme agli altri ospiti esotici del ‘Parco della Fontana’. Lo zoo più straordinario, comunque, si trovava a Roma, opera di Leone X Medici che gli dedicava una cura degna delle sue famose collezioni d’arte. Non era certo da meno Cosimo I che accolse Pio II a Firenze con uno spettacolo epocale che comprendeva tori, cinghiali, cani e una giraffa, tutti radunati in Piazza della Signoria. La primitiva cultura rinascimentale mostrava un giustificato umano atteggiamento verso l’irrazionalità e la ferocia animalesca. Quei proverbiali istinti lasciarono ben presto il posto

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Uomo a cavallo di Marino Marini. Il gruppo equestre qui riportato è il soggetto sicuramente più conosciuto di Marino Marini. Esso può essere visto come un vero e proprio simbolo descritto con il linguaggio originalissimo che lo scultore ha adottato per esprimersi e per decifrare la realtà. Infatti egli afferma: C’è tutta la storia dell’umanità e della natura nella figura del cavaliere e del cavallo, in ogni epoca. È il mio modo di raccontare la storia. È il personaggio di cui ho bisogno per dare forma alla passione dell’uomo […]. Ma egli dice anche che, nel tempo, il cavaliere diventa sempre più incapace di padroneggiare il suo cavallo, e la bestia, nella sua ansietà sempre più feroce, si irrigidisce invece di impennarsi. Ecco dunque che cavalli e cavalieri assumono forme lacerate, tragiche, espressioniste: come dice Marino stesso è il mondo che è diventato espressionista.


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alla pratica dell’addomesticamento, come supremazia dell’uomo con la sua elevata ragione, ben rappresentata, nei cortei trionfali, dai culti bacchici nei quali leoni e leonesse erano soggiogati al carro trionfale, tra ghirlande e svolazzanti serti di mirto portati da vergini nude. Le fonti di un interesse ancora vivo L’amico Alessandro Ubertazzi è un moderno continuatore dei grandi collezionisti rinascimentali. Negli anfratti reconditi dei suoi luoghi di vita e di lavoro sono conservati con cura moltissime curiosità che, a seconda delle finalità, dal valore artistico e documentario, si trasformano in valore antropologico. È il caso di una lunga serie di oggetti raccolti nel tempo che raffigurano animali o parti di essi, da quelli più comuni a quelli più strani. Tutto questo a conferma che l’interesse per chi scolpì lo straordinario bisonte in un corno di renna, trovato nella grotta della Madeleine in Dordogna e vecchio di 20.000 anni, è tutt’oggi ancora vivo e attuale. Non minore interesse destano in noi la conchiglia diventata portacenere pubblicitario, il simpatico ‘bassotto’ trasformato in alzatina di ceramica e il coccodrillo di lamierino colorato divenuto un giocattolo: anche queste, infatti, sono pur sempre tutte figure archetipiche, derivazioni di simboli e miti mai sopiti. Millenni di rapporti e di interazione hanno infatti segnato il comune destino di uomini e animali, entrambi fatti di carne e di sangue, stabilendo tra loro un’intima comprensione e familiarità. Solo così si può spiegare il diffuso ottimismo che si manifesta nel tempo attorno alla creazione di oggetti zoomorfi e dalle sembianze animali, nonostante una loro esplicita ma indipendente funzionalità. Lo sapeva benissimo Enzo Mari quando realizzava il curioso, intrigante puzzle con figure di serpenti, ippopotami e rinoceronti che si compenetrano fino a creare una composizione quasi indecifrabile. Lo sapeva bene Hieronymus Bosch quando, ancor prima, nel suo enigmatico Giardino delle delizie, rappresentava un mondo popolato di strane figure di animali. Paolo Veronese rischiò di essere processato dall’Inquisizione per aver inserito animali nei suoi grandi teleri di soggetto religioso: egli fu infatti costretto a cambiare il nome della Ultima cena in Cena in casa di Levi per la presenza di un cane che assisteva al banchetto di Cristo con gli Apostoli. In realtà potremmo proseguire all’infinito fino ai più recenti cavalli di Marino Marini, e dal Doganiere di Rousseau fino alle tigri naïves di Ligabue. Coltelli a forma di pesce, protomi in leoni in bronzo come appliques da portoncino, apri bottiglie in acciaio a forma di pappagallo o di civetta. E ancora leoni alati dorati con coda e pinna di pesce, una impugnatura a forma di grifone in bronzo, una testina di porco come peso. Il grande campionario visionario proiettato nella vita di tutti giorni ha come ma-

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trice l’iperrealismo grottesco, manifestatosi in forma concreta nel nostro Rinascimento. In una sua lezione del 1548, intitolata Della generazione dei mostri, Benedetto Varchi arrivava addirittura a catalogare le mutazioni naturali attraverso satiri, centauri, tritoni, nereidi e via dicendo. «Tutto può essere», ammetteva il Varchi e concludeva «...ma nessuno sa bene se non siano animali di specie sconosciute intravisti per un attimo e presi per forme anomale e stupefacenti». Ovviamente i personaggi più ragionevoli del tempo non mancarono di scatenare beffe e lazzi quando il Giambologna raffigurò Morgante a cavallo di una chiocciola. Non per questo Antonio Francesco Grazzini detto il Lasca, aveva rinunciato a descrivere, anche se in parodia satirica, una ‘Guerra dei mostri’ trovando precise formulazioni nei manuali mitologici: in questa occasione certi esseri non sono più considerati monstra ma sono trasformati in emblemata del capriccio figurativo, come fu il caso delle grottesche inserite nell’architettura. Grande attenzione al tema animale fu manifestata dalle botteghe orafe che diffusero gioielli in fogge bizzarre, mitologiche e mostruose che purtroppo la nostra Controriforma ha quasi del tutto contribuito a eliminare. La libertà dell’artista nella figurazione dell’orrido e dello stravagante era stata teorizzata, fra gli altri, anche da Federico Zuccari nel testo L’idea de’ Pittori, Scultori ed Architetti del 1607. Nella rappresentazione di animalia, la netta distinzione degli interessi religiosi da quelli laici si ebbe nel 1581, quando l’ortodosso cardinale Paleotti pubblicò Il discorso intorno alle immagini sacre e profane. Le capricciose innovazioni dei manieristi che avevano ‘rovinato’ la purezza delle origini nelle menti, erano ormai finite com’era finita ‘l’illusione della perfezione degli antichi’. È curioso come la cultura medievale più buia, nata sulla errata interpretazione della dottrina aristotelica venisse messa sullo stesso piano di quella umanistica razionale di stampo platonico, considerata ‘moderna’. Con tutta evidenza, la Controriforma voleva fare nascere un nuovo modello culturale di matrice cattolica che, guarda caso, in ultima analisi doveva poi necessariamente comprendere entrambe le precedenti scuole di pensiero: ciò avrebbe creato ancora più confusione, come dimostrano i processi inquisitori del tempo, con gli episodi più noti di Tommaso Campanella e Galileo Galilei. Trattando di animali raffigurati nell’arte colta o trasmessi popolarmente sotto forma di monili, oggetti, gadgets e portafortuna, dall’antichità fino a oggi, nessuno può ignorare la loro radice sacrale, teriomorfica e teriantropica. Ricordiamo gli accostamenti più noti: l’aquila associata a Zeus, la vacca e il pavone a Hera, la civetta ad Atena, il toro a Dioniso, per sottolinearne l’irrazionalità bestiale.


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Potremmo continuare a lungo, come nel caso delle oche sacre a Giunone o dei più complessi ed enigmatici culti degli animali protetti nei sacrari. Secondo Erodoto, serpenti erano presenti nell’Eretteo dell’Acropoli di Atene mentre tartarughe stavano sul monte Partenione, sacre a Pan. La forte contiguità tra il mondo umano e animale è durata per millenni, raggiungendo una vera e propria simbiosi in ambito comunicativo nell’arte orientale e in quella dell’Occidente medioevale ma, a guardar bene, essa dura tutt’ora. Mi riferisco in particolare al grande successo riscontrato dal simpatico personaggio di Peppa Pig e che, quasi inconsapevolmente, ha coinvolto anche me grazie alla piccola vivacissima nipotina Maya. In fondo, non si tratta forse ancora del maialino totemico che riappare, richiamo ai nostri mai sopiti istinti archetipici che riaffiorano nonostante i tempi e l’età? Un esempio notevole L’utilizzo dell’animale come elemento decorativo e simbolico trova particolare riscontro nella presunta irrazionalità del medioevo. In questo senso, ad esempio, i rilievi che ornano la basilica di Sant’Ambrogio a Milano assumono grande importanza, sia dal punto di vista artistico che storico, religioso e ideologico. Ai nostri occhi sbalorditi essi appaiono infatti come un vero e proprio zoo di pietra. Già sul fianco del sarcofago di San Satiro del 379 il martire Vittore è raffigurato sopra un destriero coronato da alloro, verso la via mistica che conduce alla palma del martirio. Il rapporto cavaliere-animale si ricollega al victor equus virgiliano, alludendo in questo caso a Satiro, come uomo giusto e ‘vincitore’ nelle azioni intraprese durante la sua vita. Legato al sarcofago dei santi Nabore e Felice, un serpente si attorciglia ad anse formando una croce astile; secondo il rito Ambrosiano, in questa raffigurazione avviene una curiosa sostituzione della croce greca con evidenti riferimenti biblici per i quali l’animale aveva funzione taumaturgica. Nel famoso Ciborio sopra l’altare, all’interno della basilica paleocristiana, dagli spigoli esterni dei capitelli si affaccia un’aquila che tiene un pesce tra gli artigli, simboli rispettivamente di San Giovanni e del Salvatore dichiarando in modo inequivocabile il ruolo didattico della raffigurazione non disgiunta dal valore ornamentale e architettonico. È in questo ambito che gli animali simbolici assegnati agli evangelisti si stabilizzano (fatto salvo l’angelo che identifica San Matteo) che, dal tetramorfo del profeta Ezechiele, trasmigrarono nella cultura popolare: il Leone (la forza), riferito a San Marco che raccontò la resurrezione di Cristo; L’Aquila (la vista acuta), assegnata a San Giovanni che descrisse con precisione la vera spiritualità cattolica; il Toro (la forza) che indica la capacità di San Luca

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Serpente di Mosé, da Costantinopoli. Secondo la leggenda, la curiosa scultura bronzea che raffigura un serpente, rappresenterebbe il cosiddetto serpente di Mosé; realizzata a Bisanzio (Costantinopoli) prima dell’anno Mille fu portata a Milano dall’arcivescovo Arnolfo ove trovò posto all’interno della basilica di Sant’Ambrogio e fu considerata oggetto dalle virtù miracolose: questo fatto introdusse, presso il popolo milanese, una sorta di culto (molti toccavano il serpente per guarire dalle malattie intestinali e le donne deponevano i loro bambini malati all’ombra della statua). In seguito, però, quella consuetudine fu sconfessata da San Carlo Borromeo.

nel trattare nel modo più completo la passione di Cristo. Questo complesso mondo, fatto di rimandi reali ed escatologici, era criticato da San Bernardo di Chiaravalle che, nel 1130, denunciava come gli artisti riempissero chiese e chiostri di ‘leoni furiosi’, di ‘mostruosi centauri’ e di ‘quadrupedi con la coda di serpente’ che, nelle loro bislacche interpretazioni, troppo distoglievano i confratelli dalla verità. I leoni stilofori dei protiri esterni dei pulpiti, intenti a schiacciare serpenti e piccoli mostri, avrebbero dovuto raffigurare il trionfo della Chiesa sull’eresia; la colomba, simbolo prediletto del cristianesimo, molto diffusa nell’ornare capitelli, in realtà derivava dal culto pagano di Venere; il serpente beccato dall’Aquila, la vittoria della religione insidiata dal peccato. Il coacervo di antichi rimandi lo ritroveremo ancora nel Leone, simbolo di Bacco e nel cervo, caro a Diana, mentre l’improbabile unicorno rappresenta la venuta del Salvatore. Per i Pavoni, diffusi nel mondo di Bisanzio, le cose si complicavano. Secondo Sant’Agostino, quegli uccelli dalla sontuosa coda erano simbolo di immortalità per le loro carni incorruttibili, derivazione pagana della loro dedizione a Giunone: esso veniva spesso confuso esteticamente con la fenice che si credeva vivesse cinquecento anni per poi venire arsa nella città di Eliopoli e ritornare come nuova dopo tre giorni. In Sant’Ambrogio c’è addirittura un Vitello musicista che suona la cetra e interpreta il buon cristiano (sic!) mentre la mitica Sirena rappresenta le passioni della vita, deriva-


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zione ovvia dell’Odissea. Un feroce leone, un lupo con la coda di serpenti e un gallo, lottano invece sul frontale scolpito dell’Agape. Il re della foresta assumeva ulteriori significati, questa volta accostati alla Resurrezione di Cristo. Si riteneva infatti che l’animale nascesse morto e incominciasse a vivere dopo tre giorni, dormendo con gli occhi aperti e, in seguito, cancellasse con la coda le orme lasciate dei suoi piedi, riferimento alla natura divina di Cristo, occultata nascendo da una donna. Ma è nel portale dove abbiamo la massima concentrazione zoomorfe in pietra. Dall’agnello, al lupo, alle due lepri, animali lussuriosi che tentano di fuggire da un leone, ai piccoli uccelli sugli alberi. Anitre o quaglie e ancora fenici e colombe. Per ultimo i capitelli: molti di loro risultano indecifrabili nella loro simbologia. Strani quadrupedi, centauri, leoni unicefali e uccelli a metà sembrano determinare la vittoria dell’irrazionalità finché, nell’ultimo capitello, un uomo nudo armato di clava che sta suonando il corno da caccia rimette le cose al loro posto: tutto ciò vuole significare la perenne vittoria dello spirito razionale sulla natura, forse con riferimento ai monaci benedettini che abitarono per tanti anni la basilica, emblemi di un mondo scomparso per sempre.

• Capitelli nella Basilica di Sant’Ambrogio. Capitello di una colonna facente parte del corpus di elementi architettonici del cortile quadriportico antistante alla Basilica di Sant’Ambrogio a Milano; essi risalgono al 1300 e le composizioni che ne utilizzano sono regolari e simmetriche, i corpi degli animali sono sottomessi a precisi schemi decorativi e i rilievi mostrano un’intenzione di ricerca plastica. In un lungo e nutrito itinerario zoologico che prende il via dai più frequenti simboli, leoni, aquile, cavalli e animali fantastici e un gran numero di animali reali e di fantasia si affiancano sui capitelli di uno stesso pilastro con dettagli finemente scolpiti.

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gesto umano e attributo animale Milton De Andrade

Tra gli esseri umani e gli animali ci sono sempre state relazioni curiose e ambivalenti: addomesticazione, identificazione, dipendenza, nutrimento, salvezza, raffigurazione, usufrutto funzionale, utilizzo commerciale, storie fantastiche, proiezioni estetiche, zoomitologie, creazione transgenica e sterminio. Nell’attualità, la sovranità umana minaccia, come mai visto prima nella storia, l’esistenza della diversità sul pianeta. Siamo nel limite dell’accettabile. Il ‘mondo degli animali’ diventa gradualmente luogo di allontanamento, di riserva e di allevamento: un mondo residuale. Da una presenza mischiata, amalgamata, combinata e contagiata, in cui gli odori e la chimica delle epidermidi umane e animali venivano miscelati nel luogo centrale della vita quotidiana, passiamo a condizionature e subordinazioni raffinate. Nell’arte, nella performance e nel design non potrebbe essere diverso. L’astrazione residuale ne risulta naturale e storica, frutto dalle distanze intellettive e dalla vita segregata e autoritaria degli esseri umani. La presenza ravvicinata e concreta della natura e degli animali nell’esperienza di vita sociale degli esseri umani costituisce la radice profonda dalla quale si configurano le performan-

• Ornitolito neolitico tipico del Brasile. Le pietre, generalmente piane, scolpite in forme zoomorfe e più rara-

mente antropomorfe che provengono dai siti brasiliani chiamati sambaquì, vengono defnite zooliti. La cultura sambaquí è molto antica e ricopre il periodo che va circa dal 3000 a.C. sino agli inizi della nostra era. Si tratta di popolazioni di pescatori-raccoglitori e cacciatori che vissero lungo il litorale e i grandi fiumi brasiliani, capaci di lavorare le pietre in termini particolarmente raffinati. La funzione di questi oggetti litici, che misurano mediamente 12-20 cm di lunghezza e possono essere tenuti in una mano, è ancora discussa. Una ipotesi plausibile sembra essere quella che li interpreta come tavolette per contenere polveri ‘da fiuto’, essendo tutti gli zooliti caratterizzati dalla presenza di una cavità piana (pebetero) su uno dei loro lati, atta a contenere del materiale polverizzato; un’altra ipotesi li interpreta come reliquie degli antenati. Appare comunque indubbia la loro funzione liturgica. Le pietre generalmente usate sono la diorite compatta o il porfido. Gli animali rappresentati sono tartarughe, pesci, razze, pinguini, pipistrelli, albatros, delfini, orsi e formichieri; a seconda del tipo di animale raffigurato, questi oggetti sono distinti in ornitoliti (quando raffigurano uccelli), ittioliti (se rappresentano dei pesci) e lacertoliti (nel caso di lacertidi). L’esemplare nell’immagine rappresenta uno zoolite in forma di pinguino (26,5 x 9 x 6 cm) proveniente dal sito sambaquì sito nel litorale dello stato di Santa Catarina (archivio: Museu de Arqueologia e Etnologia Professor Oswaldo Rodrigues Cabral / MArquE – UFSC).


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ces rituali e il gesto plastico sulla materia (la pietra, il legno, le ossa, i gusci, i denti, le corna, il cuoio, l’avorio, le piume, le conchiglie, i coralli, le fibre e i coloranti vegetali, il corpo umano). Questi due piani di manifestazione fenomenica si confondono continuamente a livello performativo: la vita originaria (infettata dalla convivenza tra le specie in natura) e il segno espressivo umano stampato sul mondo materiale. Nella vita antica, il gesto artistico-artigianale, le danze, gli abbozzi, i disegni, i gridi, i suoni e i canti vengono collegati a una realtà materiale che si impone e predomina. In realtà, Il gesto arcaico non si staccherà mai dalla materia e le impronte umane non saranno mai cancellabili sul corpo degli oggetti. Non esiste ancora nessuna pretesa astratta di divinazione del gesto artistico per mezzo di una idealizzazione estetica che fornisca un grado individuale di perfezione qualitativa. Sono opere senza firme personali e autorali che non appartengono all’individuo ma alla specie e perciò a un ambiente nativo e immediato: opere umane (e basta), contrassegni dell’esperienza restituita al mondo: gesti di riconsegna, di riammissione e di attestazione collettiva. È questo lo stato archeologico dell’arte, della performance e del design primigenio in cui vengono ritrovati espressioni grafiche, disegni, graffiti, amuleti, iscrizioni rupestri, attrezzi e oggetti fantastici, zooliti (come quelli della cultura sambaquì del Sud del Brasile preistorico), indizi e testimonianze di un tempo culturale remoto e tuttavia ancora presente sulla linea continua delle invenzioni umane con la quale si rammentano gli atti di comunione ed esaurimento della nostra relazione estetica e pratica con gli animali.


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• Ornitolito neolitico tipico del Brasile. Sono molte le invenzioni animalier usate dall’anticonformista Piero Forna-

setti negli anni ’50 per adornare mobili e complementi di arredo. Pittore, scultore, decoratore di interni, è stato definito ‘mago’ per la carica illusionistica e surreale delle sue invenzioni. Nelle sue opere non manca il rigore del design razionale del tempo, magistralmente dissimulato dall’humour e da una accesa fantasia. Il comò curvo, adatto ad accogliere il decoro su tutta la superficie, è uno dei suoi pezzi più conosciuti: la forma semplice a tre cassetti con la curvatura frontale ne fanno il tipico esempio di design essenziale ispirato ai classici cassettoni di varie epoche e, allo stesso tempo, un esempio perfetto del concetto di ‘design fornasettiano’ (cm 100x56x86h).


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Finito di stampare per conto di DIDA | Dipartimendo di Architettura UniversitĂ degli Studi di Firenze maggio 2016


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Gli artefatti forniscono informazioni essenziali sulle radici culturali e storiche della comunità umana e costituiscono un’imprescindibile lezione di design; partendo da questo presupposto il libro affronta la problematica del rapporto uomo-animale fornendo alcuni elementi di contestualizzazione e percorrendo trasversalmente l’argomento, senza la pretesa di mettere un punto fermo, quanto piuttosto ponendo una serie di spunti per ulteriori approfondimenti e documentando, anche con esempi didascalici, quella articolata realtà. Il testo illustra, inoltre, un inventario di oggetti chiaramente di ispirazione zoomorfa, animalier, ovvero addirittura ibrida. Si tratta di differenti tipologie e livelli di oggetti che possono essere visti come una sequenza temporale di ‘storia delle cose’. L’oggetto comune, lo strumento di lavoro, l’attrezzo artigianale e, altresì, le più banali suppellettili (che, pure, rientrano nel teatro entro il quale l’uomo si muove e opera quotidianamente) sono, di fatto, state sempre relegate nell’oblío o, quantomeno, nella marginalità. Invece, proprio l’evoluzione di quello straordinario repertorio di ‘cose’ apparentemente semplici, ci consente oggi di registrare l’immensa opera intellettuale e progettuale occorsa nella messa a punto dei principali archétipi degli oggetti che tutt’ora impieghiamo ma, soprattutto, di cogliere i passaggi essenziali che hanno permesso di raggiungere la loro definitiva bellezza nei singoli momenti dell’evoluzione sociale presso le diverse tribù del genere umano. Gli oggetti commentati nel testo vogliono, infatti, essere un’occasione per riflettere, più in generale, sui particolari manufatti che l’essere umano ha saputo concepire e mettere a punto presso le diverse comunità umane, nelle diverse località del pianeta e nelle molteplici situazioni storiche. Benedetta Terenzi, Architetto, Ph.D. in Disegno Industriale, Ambiente e Storia, è professore a contratto e assegnista presso il Dipartimento di Architettura (DIDA) dell’Università di Firenze. Svolge attività di ricerca e professionale finalizzate all’innovazione dei componenti edilizi e alla progettualità per i settori del product design, della comunicazione grafica e della moda. Ha pubblicato numerosi saggi, volumi e articoli e fa parte del comitato scientifico di alcune collane editoriali e riviste del settore. Ha partecipato a eventi e convegni nazionali e internazionali in qualità di organizzatrice e relatrice; è stata membro di giuria in alcuni concorsi di progettazione. Ha preso parte a programmi di ricerca finanziati dalla Regione Toscana, da enti pubblici e aziende private. È stata visiting professor in alcune università straniere e attualmente partecipa a progetti e programmi di ricerca con l’Università UDESC del Brasile.

ISBN 978-88-9608-043-6

€ 25,00


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