Progetto Dicomano | Fabbrizzi

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sulla piazza • lorenzo burberi

nostra comprensione, a ciò a cui l’evoluzione ci ha preparato in milioni di anni, dove la presenza fisica non è nemmeno necessaria. Come non possono essere richiamate alla mente visioni distopiche evocate da film come Brazil di Terry Gilliam quando osserviamo vagare per le strade tante persone con il viso rivolto al piccolo schermo di uno smartphone? Dall’antichità, fino all’altro ieri, la piazza ha svolto il ruolo di polo ordinatore della città, stabilendo anche la relazione tra la struttura urbana e la soluzione architettonica. In tal senso possiamo riferirci all’intervento di Paolo Portoghesi durante il seminario “Architettura e spazio del Sacro nella modernità”, nel quale fra le altre cose affermava la necessità di attribuire alla piazza il ruolo di ordinatore gerarchico all’interno della città, e quindi la volontà di progettarle collocando qui una serie di funzioni collettive tutte insieme, come fossero fortezze della società, dello scambio collettivo. Questo è quello che in fondo vorremmo che la piazza fosse. Nobile intento ma, oltre a non tener conto delle ineludibili leggi di mercato, sottende una logica per la quale la piazza viene calata dall’alto, per una socialità immaginata dagli urbanisti e dagli amministratori, secondo un pensiero, per quanto in buona fede, parziale e limitante. La socialità, ovvero il fitto tessuto di relazioni interpersonali che caratterizza una comunità, non si crea a tavolino, o come esperimento alchemico, si può solo strutturare nel tempo, sedimentandosi, in un processo generativo spontaneo che il progettista non può far altro, nel migliore dei casi, che coadiuvare, incoraggiare, ma non guidare o dirigere. Abbiamo semmai il compito, se vogliamo risolvere i problemi dei nostri centri urbani, piccoli o grandi, ormai enucleati, di farci umili e in primis ascoltare, poiché, è palese, non vi è una formula o un una semplice ricetta da proporre ogni volta, e limitarci a fornire un substrato al quale la vita attecchisca, non progettare la vita stessa. Non è un futuro a tinte inevitabilmente fosche, quello che si preannuncia per l’entità piazza e per vincere una visione che per molti aspetti può essere considerata nichilista o comunque pessimista sul suo divenire. Dovremo sforzarci di vedere e proporre la piazza come ‘macchina’ generatrice di complessità, capace di combattere l’atrofia della riflessione teorica e critica che sembra caratterizzare la contemporaneità, atta a contrapporsi a quel apparente gran ‘saper fare’ tecnico-pratico e produttivo (scontro fra Archè e Tékhne), che purtroppo molto spesso ha come unico esito quello di sopperire con ‘trovate’ tecnologiche al mancato apporto della legittima riflessione sui temi della città e del vivere quotidiano, demandando la dimensione architettonica a una serie di artifici tecnologici. Atteggiamento, questo, frutto di una superficiale visione dell’ambito del progettare, che va a prelevare, quasi casualmente, elementi dall’ampio catalogo del possibile contemporaneo. Così anche la questione estetica e il rapporto con la città, determinanti per sentirsi bene in un luogo, diventano purtroppo istanze che rimangono sullo sfondo, sfocate e non definite;

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