Around the walls | Fabbrizzi

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around the walls • fabio fabbrizzi

L’intervento immaginato per l’area Givati Adiabene, ci suggerisce in particolare come questa apparente contraddizione possa essere risolta in altri e più complessivi rimandi, primo fra tutti quello che coinvolge l’estensione geografica dei luoghi di intervento, e non solo in senso funzionale: sono i nuovi muri, il muro abitabile dell’accoglienza e dell’esposizione museale, a costituire il basamento visuale verso la cupola ed il minareto della moschea di Al Aqsa, sulla Spianata, o a risolvere le connessioni, necessariamente mediate, con il circostante quartiere arabo. Eppure, questi muri risentono del senso di sospensione già altrimenti rilevato, sono il recinto organizzato di rovine che restano altro, come dissociate dal rinnovato rapporto con il contesto, al pari dell’affascinante scavo ctonio con il quale si vorrebbe dilatare lo spazio della Piscina di Siloe, rispetto all’edificio che lo conclude; al contrario dell’ipotetica archeologia della casa di Soane, le rovine non riescono, infatti, a farsi qui riflesso del nuovo. Perché la questione di fondo che Fabio Fabbrizzi solleva con la sua ricerca è proprio questa: come l’architettura contemporanea possa finalmente farsi memoria di se stessa, possa diventare pura esperienza emozionale del tempo per aderire al senso delle rovine e coinvolgerle in una nuova dimensione, trasfondendo in una diversa realtà concettuale e fisica quello che maestri come Perret avevano affermato con altri intenti, ovvero che “una buona architettura produce belle rovine”, e che Louis Khan aveva ripreso e interpretato nella stessa Gerusalemme di cui ci occupiamo. La Gerusalemme offertaci da Fabbrizzi, attraverso le sue riflessioni e la prova dei suoi progetti, deve quindi farsi carico di sollecitare una architettura che può non soltanto appartenerle nel tempo ma che deve essere sempre del suo tempo, nella coincidenza tra la verità stessa della cosa architettonica e la memoria dei luoghi, solidificando la presenza dell’una rispetto all’insondabile profondità dell’altra: in quella necessaria oscillazione tra ciò che è impalpabile e ciò che è concreto, e che De André restituisce in un brano de La Buona Novella con efficace, poetica e, per noi, quanto mai appropriata sintesi: “Odore di Gerusalemme,/ la tua mano accarezza il disegno…”.

that remain dissociated from the renewed relationship to the context, and the same is true of the fascinating underground excavation which would enlarge the space of the Pool of Siloam; contrary to the hypothetical archaeology of Soane’s house, these ruins are not capable of becoming a reflection of the new. Because the fundamental issue that Fabio Fabbrizzi raises through his research is precisely this: how contemporary architecture can finally become a memory of itself, how it can become a pure emotional experience of time in order to adhere to the meaning of the ruins and involve them in a new dimension, instilling in a different conceptual and material reality what masters such as Perret had affirmed with a different intent, in other words that “a good architecture produces beautiful ruins”, and which Louis Khan had retaken and interpreted precisely in Jerusalem. The Jerusalem that Fabbrizzi offers to us through his reflections and projects thus urges an architecture that not only belongs to it in time but which must always be of its time, in the coexistence of the truth itself of the architectural object and of the memory of the place, solidifying the presence of one in the unfathomable depth of the other: in the necessary oscillation between the intangible and the concrete, and which De André poetically summarises in a song from his album La Buona Novella: “Scent of Jerusalem, / your hand caresses the drawing…” (“Odore di Gerusalemme,/ la tua mano accarezza il disegno…”).


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