FIRENZE architettura 2012-2

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la soglia

architettura firenze

firenze architettura

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ISSN 1826-0772

Periodico semestrale Anno XVI n.2 Euro 7 Spedizione in abbonamento postale 70% Firenze

la soglia


In copertina: Alberto Campo Baeza Entre Catedrales, Cádiz, 2009 foto © Javier Callejas

Periodico semestrale* del Dipartimento di Architettura - Disegno Storia Progetto via San Niccolò, 93 - 50125 Firenze tel. 055/2055367 fax. 055/2055399 Anno XVI n. 2 - 2° semestre 2012 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 ISSN 1826-0772 ISSN 2035-4444 on line Direttore - Maria Grazia Eccheli Direttore responsabile - Ulisse Tramonti Comitato scientifico - Maria Teresa Bartoli, Giancarlo Cataldi, Loris Macci, Adolfo Natalini, Ulisse Tramonti, Paolo Zermani Redazione - Fabrizio Arrigoni, Valerio Barberis, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Fabio Fabbrizzi, Francesca Mugnai, Alessandro Merlo, Andrea Volpe, Claudio Zanirato Collaboratori - Eleonora Cecconi, Alberto Pireddu, Michelangelo Pivetta Info-grafica e Dtp - Massimo Battista Segretaria di redazione e amministrazione - Grazia Poli e-mail: firenzearchitettura@arch-dsp.unifi.it Gli scritti sono sottoposti alla valutazione del Comitato Scientifico e a lettori esterni con il criterio del Blind-Review L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte nel caso non si fosse riusciti a recuperarli per chiedere debita autorizzazione The Publisher is available to all owners of any images reproduced rights in case had not been able to recover it to ask for proper authorization Proprietà Università degli Studi di Firenze Progetto Grafico e Realizzazione - Massimo Battista - Centro di Editoria del Dipartimento di Architettura - Disegno Storia Progetto Fotolito Saffe, Calenzano (FI) Finito di stampare dicembre 2012 *consultabile su Internet http://www.arch-dsp.unifi.it/CMpro-v-p-34.html


architettura firenze

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editoriale

Introduzione al mondo etrusco Francesco Venezia

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Immagini di confine Franco Rella

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progetti e architetture

L’architettura sulla soglia Emanuele Lago

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Luisa Lambri_Ritratti allo specchio Andrea Volpe

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Alberto Campo Baeza Sulla soglia della bellezza Alberto Pireddu

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Francesco Venezia “il più piccolo spazio sacro” Eleonora Cecconi

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Werner Tscholl Tra pietra e acciaio Michelangelo Pivetta

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Sou Fujimoto Slittamenti Fabrizio Arrigoni House N Sou Fujimoto

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La porta Giorgio Caproni

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Paolo Zermani Cappella nel bosco

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Maria Grazia Eccheli Riccardo Campagnola Il dentro e il fuori: anamnesi dello spazio Riccardo Campagnola

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Adolfo Natalini La scala di ponente agli Uffizi Fabio Fabbrizzi

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Fabio Capanni Ampliamento scuola materna Tagliaferro Claudio Marrocchi

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Fabrizio Rossi Prodi Nuovo ponte sul fiume Arno

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Louis Kahn_Greetings from Luanda Nicola Braghieri

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Il portale con la corsa sospesa - particolarissima vicenda del Sant’Aquilino in Milano Francesco Collotti

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Una rotonda sul mare - Il Circolo Canottieri della Società Solvay a Rosignano (1937-39) Francesca Mugnai

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ricerche

Santa Croce, la facciata Maria Teresa Bartoli Gli angoli del timpano centrale di Santa Croce applicando la prospettiva inversa Nevena Radojevic

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riflessi

Metamorfosi della soglia Paola Arnaldi

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eventi

Galleria dell’architettura italiana Le case di Andrej Tarkovskij - Fotografie e disegni Andrej A.Tarkovskij Al quarto giorno non si risorge - Apologia della muffa Stefano Rovatti

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Alberto Pireddu, Emanuele Ghisi, Francesca Mugnai, Andrea Volpe, Carlotta Torricelli

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eredità del passato

letture a cura di: english text

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Firenze Architettura dedica questo fascicolo alla soglia, luogo di passaggio, ma anche tempo appena sospeso tra due condizioni, spazio nel mezzo, talvolta muro abitato. Zwischenraum o Zwischenzeit, come dice la lingua tedesca in modo efficace. Abbiamo scelto il racconto che Francesco Venezia dedica alla presentazione dell’allestimento della mostra degli Etruschi a Palazzo Grassi per introdurci alla questione e dire di come, in quel particolarissimo annuncio di esposizione, prendesse corpo e si dilatasse il luogo del passaggio, quale anche tempo di mezzo tra la grandezza degli Antichi e il nostro contemporaneo esserci. FC Le foto dello studio di Francesco Venezia sono state elaborate da Andrea Faraguna 1 Il pozzo di luce allestito nell’atrio di Palazzo Grassi Pagine successive: 2 Schizzo di Francesco Venezia di un ipogeo della necropoli di Cerveteri 3 I “letti del simposio” e la “figura spezzata” di Henry Moore nell’atrio di Palazzo Grassi 4 La “figura spezzata” schizzo di Francesco Venezia

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Introduzione al mondo etrusco Francesco Venezia

… Nel 2000 ho avuto, credo, uno degli incarichi più importanti della mia vita professionale, pur essendo un allestimento di una mostra. Mi consentiva di misurarmi con una civiltà che ho sempre ritenuto straordinaria: la civiltà degli Etruschi. Era una mostra sugli Etruschi, qualcosa di nuovo e impegnativo. Dovevo, a Palazzo Grassi, immaginare l’allestimento di centinaia di eccezionali reperti che provenivano dal Getty Museum, dal Louvre, dal Museo Archeologico di Firenze, da Villa Giulia… È strano, ma nell’esperienza del “Grand Tour” degli Architetti dell’Ottocento e del Novecento il mondo etrusco mi appare del tutto assente; non un solo schizzo di quegli appassionati viaggiatori, da Viollet-le-Duc a Le Corbusier a Louis Kahn, che si riferisca all’Etruria. Sono andati a Roma, sono andati in Sicilia, ma non c’è un solo disegno sul mondo etrusco. Non so perché, non so spiegarmelo, comunque è una grande assenza. Gli Etruschi hanno in un certo senso preparato il mondo romano; hanno messo in moto cose che, entrando poi in contatto con la presenza economica e organizzativa di Roma, sono esplose nel Pantheon. Il Pantheon è un edificio etrusco, non ha nulla di greco. La rotonda non la dobbiamo alla Grecia, non la dobbiamo all’Egitto, non la dobbiamo a nessuno, la dobbiamo a quelle “talpe” degli Etruschi, come li chiamava con disprezzo Giorgio de Chirico. Louis Kahn, che vedeva con singolare acume, osservò: una cosa mi disturba del Pantheon, che ci sia quella grande porta d’ingresso! È una osservazione che restituisce agli Etruschi ciò che è degli Etruschi, cioè restituisce la “sotterraneità” al Pantheon.

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Gli Etruschi andrebbero riguardati con un occhio molto più attento. Ho impiegato nove mesi per preparare la mostra di palazzo Grassi. Il 2 novembre 1984, giorno dei morti, come risarcimento per la consegna a Roma dei titoli per il concorso a professore ordinario, decisi di regalarmi un brevissimo viaggio alla necropoli di Cerveteri: poche ore di sosta, il mio primo contatto con gli Etruschi. Di questo contatto sono rimasti pochissimi schizzi, tra i quali quello di una piccola camera sotterranea: sarà stata 3 metri x 3. Davvero un buco, ma con un pozzo da cui pioveva la luce naturale, resa verdognola dalla presenza di muschi e di piante pendule; per di più aveva piovuto abbondantemente nei giorni precedenti, per cui l’acqua attraverso quel pozzo aveva inondato la camera e l’aveva duplicata per riflesso. Il varco di accesso alla camera era impedito da un grande blocco: su quell’interno ci si poteva solamente affacciare. Qualcosa di simile si trovava nella villa romana di Oplonti nei pressi di Pompei. C’è una stanza sulle cui pareti è dipinto un giardino. Nella stanza non si entra: ci si affaccia soltanto da una finestra. Si configura così una situazione misteriosa. Oggi noi vogliamo entrare ovunque! La passione del momento è entrare ovunque. Gli antichi talvolta amavano impedirsi l’accesso: ciò che è impedito è più emozionante. L’impedimento crea un valore aggiunto, un’idea accessoria. L’altro ricordo di quegli anni è questo schizzo –non molto aderente al verodella scultura di Henry Moore del 1975 intitolata Figura spezzata, la figura che Moore scolpì utilizzando un marmo nero che gli si ruppe tra le mani, per cui

decise di fare una figura in due pezzi separati e accostati. Gli Etruschi sono stati grandi “tagliatori”, amavano tagliare, la “tagliata etrusca” è il primo taglio fatto in un banco roccioso per consentire il passaggio. Quando modellavano le loro figure funerarie, queste erano tagliate in due pezzi perché potessero essere introdotte nel forno per la cottura. Avevano, per così dire, il sentimento di due parti di un sol corpo accostate. Ecco, quel piccolo spazio ipogeo a Cerveteri e la Figura spezzata di Moore sono stati i due fattori scatenanti il progetto per l’atrio di palazzo Grassi. Nell’atrio di palazzo Grassi ho immaginato un grande pozzo illuminato mediante una calotta infranta attraverso cui la luce penetra nella sottostante camera “ipogea”. Ho immaginato di collocare al centro della camera la Figura spezzata di Moore poggiata su un velo d’acqua. Mi sembrava che quella figura in quello spazio fosse una efficace introduzione al mondo etrusco, messo in mostra nelle sale superiori. Non vi dico cosa accadde. Lo spazio dell’atrio fu considerato dagli archeologi incaricati del progetto scientifico della mostra, grandi studiosi, come una sorta di spazio satanico, da tenersi alla larga. Palazzo Grassi dimostrò nei miei confronti grande rispetto. Mi consentì di realizzare ciò che avevo ideato. Alcune conseguenze furono inquietanti: ricevetti una accorata lettera della presidenza di palazzo Grassi, in cui mi si chiedeva di spiegare al direttore della Fondazione Loore a Londra perché palazzo Grassi avesse chiesto in prestito la Figura spezzata per una mostra sugli Etruschi. A questo punto mi sono detto: no! Co-


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loro che custodiscono le opere di un uomo che ha speso parte della sua vita sui luoghi della civiltà etrusca si chiedono perché una sua opera sia giusta in queat mostra? Non avete capito che il valore che ha una Figura spezzata è di farci viaggiare verso il mondo etrusco e al contempo di rendere attuale quel modo. Il mondo etrusco ci è connaturato. Non può ridursi alle disquisizioni di quattro barbogi dell’archeologia! Dall’intervento di Francesco Venezia La separazione fatale, trascritto da Nicola Scian in Che cosa è l’architettura, Milano, 2011

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Immagini di confine Franco Rella

1-La storia sgrana incessante la sequenza degli eventi tremendi di cui è intessuta e che l’hanno costituita, tanto che in ogni istante ci sembra di essere di fronte a tutta la catena di orrori che hanno devastato la terra. Non a caso María Zambrano ha potuto scrivere che la storia, “è figlia della massima violenza”, l’affermazione “della miseria umana senza ridurla a nulla, tale com’è. L’uomo è polvere e cenere, ma queste ceneri hanno un senso”. Siamo oggi ancora in grado di cogliere questo senso? 2-Davanti ai nostri occhi scorrono immagini. Sono immagini terribili, sono immagini di dolore, di angoscia e di morte. Anche la letteratura cosiddetta di genere, da Ellroy, a King, a Harris e a Willocks, si presenta come una radicale riflessione moderna sul male, che affonda le sue radici addirittura in una dimensione gnostica. A partire da Agostino, chi ha aderito come chi ha combattuto il dualismo gnostico si è trovato di fronte all’interrogativo: “Si Deus, unde malum?”; se c’è un Dio, che supponiamo buono e onnipotente, perché allora il male? Dietro questa domanda c’è sempre - anche nei santi, anche nei padri della Chiesa - l’ipotesi terribile che Dio sia esso stesso male. Un Dio crudele, o almeno incomprensibile. Non è un caso dunque che Willocks, nell’epigrafe che apre il suo libro Re macchiati di sangue, ci introduca all’enigmatico inizio del libro di Giobbe, là dove si dice che Dio sedeva tra i suoi figli e che Satana era tra loro, e che dunque prosegua proponendoci la percezione netta di un mondo dominato dal male, dalla depravazione, dall’insensatezza morale, all’interno della quale sembrano aprirsi soltanto due vie: avanzare nel de-

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serto del niente fino a scoprire sul bordo estremo di quel nulla la propria nuda esistenza, così prossima al nulla da apparire come una irrilevante incongruenza; oppure “ballare guancia a guancia” con la disperazione, l’odio e la morte. In un caso o nell’altro, scrive Willocks, non troveremo mai la verità, ma un regno “i cui misteri sono senza soluzione, un dominio invaso dal deserto”. Passiamo ad altre immagini, per esempio al fuoco infernale che apre il film Soliti sospetti, o alla deformazione dell’umano nel male fino al limite in cui esso cessa di essere tale in Seven di D. Fincher. Ma pensiamo anche agli artisti che non rappresentano più nulla, ma che presentano in una sorta di parodia sacrificale, in una sorta di ultima e grottesca offerta, solo il loro sangue che cola da ferite che loro stessi si sono inferte davanti a un pubblico che spesso è inerte o solo scosso da un lieve fremito, quasi un fastidio. O pensiamo a scrittori come Easton Ellis, o N. Baker, che intrecciano la loro narrazione come una trama evanescente stesa sul vuoto. O ai cumuli si spazzatura che invadono le pagine di Don De Lillo. Facciamo scorrere queste immagini fino al punto in cui ci sembrerà che esse si compongano, per usare un’espressione di H. Bloom, “in una gigantografia” che si presenta come una mappa nel momento in cui “ci dirigiamo verso ciò che potrebbe essere la fine del nostro tempo”. 3-Ma Dostoevskij non aveva già parlato di un mondo intriso di lacrime dalla superficie fino al suo centro? Leopardi non aveva già parlato del mondo come “un vasto ospitale” o come “ un cemeterio”, per poi profetizzarne la fine nel Cantico del gallo silvestre? Non aveva parlato, già prima,



De Maistre del mondo come un’immensa catena sacrificale che andava verso il suo nulla: verso “la morte della morte”? Se risalissimo ancora indietro troveremmo ancora e sempre immagini della fine, come se l’uomo, per tutta la sua esistenza, avesse abitato sui confini dell’annientamento, della morte del mondo e della morte del tempo. Ma lasciamo per ora in sospeso la questione, e cerchiamo di procedere oltre con la nostra riflessione. 4-Dostoevskij, come si è detto, ha sfiorato più volte l’immagine della fine. Eppure, proprio questo scrittore apocalittico, si è chiesto se la bellezza potesse salvare il mondo. Ma che cos’è la bellezza per Dostoevskij? La bellezza è una cosa terribile e paurosa. Paurosa perché è indefinibile e definirla non si può (…). Qui le due rive si uniscono; qui tutte le contraddizioni coesistono (…). Quanti misteri! Troppi enigmi sulla terra opprimono l’uomo; (…). La bellezza! Io non posso sopportare che un uomo, magari di cuore nobilissimo e di mente elevata, cominci con l’ideale della Madonna e finisca con l’ideale di Sodoma. Ancora più terribile è quando uno ha già nel suo cuore l’ideale di Sodoma e, tuttavia, non rinnega neanche l’ideale della Madonna, anzi, il suo cuore brucia per questo ideale (…). No, l’animo umano è immenso, fin troppo (…). La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini…

La bellezza è stata per Platone la manifestazione della verità. Più tardi è diventata la virtus unitiva dell’armonia. Per Dostoevskij, come più avanti per Simone Weil, proprio in quanto disarmonica, contraddittoria, dissonante la bellezza si è data come la manifestazione della verità, e dunque di una possibilità di salvezza. Ma non sarebbe meglio, per evitare ogni equivoco, usare un altro termine in luogo di “bellezza”? Per esempio quello di “forma”? 5-Lukács parla di “forma”, sia nell’Anima e le forme sia nella Teoria del romanzo, come ciò che ci mostra che “quello che le nostre mani abbandonano manca sempre di compimento finale”. Il saggio critico struttura dunque l’incompiutezza, “la fragilità, la necessità del mondo a rimandare al di là di se stesso”. La “forma” che si fa strada nel romanzo, e in genere nell’opera d’arte, ci mostra quanto “il senso nella vita” si è fatto problematico, fino agli esiti estremi, per

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esempio in Flaubert, in cui esso non solo sembra essere definitivamente perduto, ma ci si trova di fronte al “rovinare della realtà esterna” al “suo disfarsi in elementi eterogenei e cariati e frammentari”, che se ne stanno “uno accanto all’altro, isolati nella loro rigidità e frammentarietà di singoli elementi”. Attraverso le forme scopriamo dunque che sotto la presunta armonia dell’opera d’arte, vi sono “tutte le crepe e gli abissi che la situazione storica porta con sé” che devono essere inclusi “nella sua raffigurazione”, e “non devono essere mascherati dai mezzi compositivi”. Solo così l’opera d’arte o il romanzo scoprono la fragilità del soggetto e del mondo in un sapere dissonante, che non può essere colto dal pensiero logico-concettuale, ma soltanto appunto dalla forma, che “è la più profonda ratifica della presenza della dissonanza che sia dato pensare”. 6-Ma la forma è appunto ciò di cui si occupano gli artisti. Malgrado quanto hanno detto Dostoevskij e Lukács, e magari Benjamin, che potremmo aggiungere alla nostra riflessione, chiediamoci ancora una volta che cosa sia la forma, e in particolare la forma artistica. Rilke lo scopre nel 1907 al Salon d’Autumne di fronte all’opera di Cézanne: lo scopre e fa di questa scoperta il senso stesso della sua esistenza e della sua opera. Il mondo è popolato di cose, ma perché queste cose diventino una realtà per noi è necessario un lavoro che Cézanne definiva réalisation. “Réalisation” è precisamente il processo attraverso il quale la cosa diventa reale nella forma che dice anche ciò che nella cosa è nascosto, anche ciò che la cosa non sa di essere. Allora, come dirà Rilke, anche il dolore nella forma diventa una cosa nostra, una cosa per noi. Anche la cenere, di cui parla Zambrano, che abbiamo citato all’inizio della nostra riflessione diventa senso. Rilke esemplifica citando una stupenda e terribile poesia di Baudelaire, “La carogna”. È l’orrore puro, ma anche questo orrore, come aveva già capito Baudelaire, attende il segno che, “pur lento a venire”, sia in grado di donarcelo in una forma. Rilke questo lo sa. Se noi, dice, escludiamo una parte del mondo - per esempio la carogna - dal nostro processo di “réalisation” perdiamo il diritto su tutto il mondo: nulla potremmo più rappresentare del mondo perché ne abbiamo sacrificato, ne abbiamo mutilato una parte. Ma in un primo tempo Rilke esita di fronte all’ultima strofa della poesia, nella quale Baudelaire, rivolgendosi alla

donna stupenda che lo accompagna, vede in essa la carogna che inevitabilmente sarà. Perché questa esitazione? Rilke aveva detto che gli oggetti d’arte significano l’essere sempre stati in pericolo, significano essersi spinti fino all’estremo. Ma se ci spingiamo all’estremo noi sempre troveremo dentro la vita la morte. E non è facile dire la morte, non è facile accettarla. Su questo scoglio Rilke si fermerà in un doloroso mutismo per quasi un decennio. 7-Non è facile dire la morte che abita ogni creatura, le cose e gli esseri del mondo. È facile rappresentarla come una cosa, farne anche oggetto di speculazione, o di indagine, o di godimento (si visitino per esempio certi siti in internet), ma non è facile sentirla come qualcosa che è nostro, che ci appartiene, che ci costituisce in quanto esseri viventi. Allora la morte, ha scritto Jankélevitch, si presenta come il non-essere totale di tutto il nostro essere, della nostra anima come del nostro corpo, anche se essa si propone, nella sua ineluttabilità, come “l’a priori del pensiero”. Il pensiero è sempre sopravanzato dalla morte: essa è già lì, “opaca, impenetrabile, avvolgente”. Dunque essa precede ogni nostro pensiero. Pur essendo un non-pensiero, o addirittura la negazione del pensiero, ne è tuttavia la condizione. Non possiamo pensare alcunché senza che sul bordo del pensiero si disegni il profilo buio della morte, come il margine bruno che corrode la foglia caduta e accartocciata. Ma se la morte è la condizione a priori del pensiero, ne è anche paradossalmente la mèta, perché la morte, come dice ancora Jankélévitch, è “l’avvenire supremo, il futuro di ogni futuro”. All’inizio e alla fine della trama che il pensiero tesse per dare senso al mondo, la morte, anche quando non la pensiamo, sta al centro: nel nostro fondo più intimo, come “il segreto più nascosto”, quel segreto che ci portiamo dietro senza poterlo comunicare a nessuno, in quanto è indicibile anche apofaticamente, perché essa, la morte, negazione radicale e assoluta, affonda dentro di sé ogni altra negazione. Solo nell’angoscia l’uomo realizza la sua morte, dice Jankélevitch: in un istante in cui l’assurdo mortale si affaccia come uno spettro davanti ai nostri occhi. Lévinas è più radicale ancora. Nemmeno l’angoscia è questo sapere. La morte è la sfida che nessun pensiero o esperienza ha finora vinto: Nella morte, nulla puro, senza fondamento, risentita più drammaticamente, con


l’acuità di questo nulla più grande nella morte che nell’idea del nulla dell’essere (nel c’è che colpisce meno della sparizione), arriviamo a qualcosa che la filosofia europea non ha compreso. Comprendiamo la corruzione, la trasformazione, la dissoluzione. Comprendiamo che le forme passano mentre qualcosa sussiste. La morte taglia tutto questo, inconcepibile, refrattaria al pensiero, e tuttavia irrecusabile e innegabile. [...]. Anche nell’angoscia, anche attraverso l’angoscia, la morte resta impensabile. Aver vissuto l’angoscia non permette di pensarla. Il nulla ha sfidato il pensiero occidentale.”

8-Noi di fronte alla morte, o meglio alla maschera della morte. La vita stessa allora sembra spaventarsi di fronte a questa immagine o a questo pensiero. Lo stato d’animo che prevale è allora quello del lutto per cui, come scrive Benjamin, “si rianima il mondo gettandovi una maschera” che ci dà “un piacere enigmatico alla sua vista”. È il piacere del malinconico che, per questa via, come dice ancora Benjamin, può giungere a una distanza dal mondo che si spinge fino “all’estraneazione dal proprio stesso corpo”. La fedeltà agli oggetti, che Rilke ha imparato da Cézanne, non salva, ma diventa un ulteriore motivo d’arresto. Diventa un amore per gli oggetti, ma proprio in quanto destinati a venir meno, in quanto votati alla morte: irredimibili nella loro greve, pesante, irriducibile caducità. La natura stessa si presenta in effetti, come Rilke la rappresenta nelle prime Elegie, come “eterna caducità”, sopra la quale si eleva l’inattingibile esistenza dell’angelo, ma all’interno della quale l’agire dell’uomo, dell’amante, dell’eroe, dell’artista, non definisce, come ha detto ancora Benjamin, altro che le stazioni di una via crucis del decadere. Dunque il lutto, l’elaborazione del lutto, la via crucis del decadere del mondo sono preferibili alla pietrificazione del senso di morte che abita nella malinconia, quando scopriamo appunto la morte come sentimento del nulla. Lo ha detto mirabilmente Leopardi. La malinconia, ovvero la noia “è la più sterile delle passioni umane. Com’ella è figlia della nullità, così è madre del nulla: giacché non solo è sterile per se, ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina ec.”. Dunque, come leggiamo in un’altra annotazione folgorante dello Zibaldone “L’uomo si annoia, e sente il suo nulla ogni momento.” 9-La malinconia come fine del mondo. Abbiamo visto l’orrore, il male, le fiamme e la sofferenza. Forse ne siamo

usciti, ma come uscire dalla malinconia, che rende tutto uguale: un grigio paese piovoso, in cui nulla si muove e tutto giace irrigidito, dice Baudelaire, come “un corpo che la neve copre”? “Tutto è nulla al mondo” ha scritto Leopardi. “Anche la mia disperazione (…) è vana, è un nulla anche questo mio dolore”. E altrove, “io ero spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo”, in quanto il nulla sembra proporsi come la totalità dell’esistente, sembra proporsi come l’unico esistente: “un solido nulla”. Eppure Leopardi non si ferma qui. Procede oltre e, in un’intuizione geniale, osserva che hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose (…), tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie (…) raccendono l’entusiasmo e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E così quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’anima, veduto (…) nelle opere di genio (…), apre il cuore e ravviva....

Questo, prosegue Leopardi succede al poeta o all’artista, ma anche al lettore o alla spettatore, in quanto “lo stesso spettacolo della nullità è una cosa in queste opere, che par che ingrandisca l’anima del lettore, la innalzi, e la soddisfaccia di se stessa e della propria disperazione”. Cerchiamo di spiegare l’affermazione di Leopardi. Nel momento in cui il nulla, la noia, la malinconia, la sensazione della fine, vengono espressi in una forma, questa forma anziché essere nulla, trasforma il nulla stesso in realtà: o meglio, si trasforma in ciò che ci permette di accedere al reale. L’arte di per sé non rappresenta uomini, cose alberi, oggetti, paesaggi, vicende. L’arte è un sentiero che si apre davanti a noi e che ci porta verso il mondo, verso il cuore delle cose e degli esseri che abitano il mondo. Lo aveva detto Benn ha proposito dell’espressionismo e di Picasso. Il reale non è l’oggetto che ci sta davanti, ma è ciò che sta oltre il suo bordo, oltre la sua opaca presenza che deve essere sconvolta come “da un ciclone”. Il Violino scomposto di Picasso si trasforma “in una esperienza reale”, perché, appunto, questo violino “è stato vibrato come un’ascia contro questa realtà, o piuttosto contro

frammenti di cosmi esplosi”, che sono legati di nuovo nella forma del violino. 10-L’immagine della fine del mondo si dà nella forma dell’apocalisse. L’apocalisse nel nostro immaginario è il discorso sulla fine. Ma la fine ha sempre un inizio. Per questo non ho mai messo in dubbio l’attribuzione della più famosa delle apocalissi, quella canonica, al vecchio Giovanni che, nella sua età estrema, pensavo avesse scritto questo testo per espellere da sé il veleno di una terribile visione prima di abbandonarsi al racconto e alla vertiginosa riflessione sul Logos del principio del suo Vangelo. Sappiamo oggi che ci sono due diversi autori, entrambi chiamati Giovanni, ma ciò che qui c’interessa è il senso della parola “apocalisse”, come emerge dal testo di Giovanni, e oltre ad esso. “Apocalisse”, questa parola piena di echi spaventosi, altro non significa che “rivelazione”, “visione”, e precisamente, come dice lo stesso Giovanni, “le cose che vedi, le cose che sono” e, in base a queste, interpretando dunque la situazione che è davanti agli occhi di tutti, “le cose che stanno per avvenire dopo queste”. Lo scrittore apocalittico si sente quindi l’esegeta delle cose che sono, delle cose presenti, quasi che la visione corretta di quello dell’esistente non potesse condurre a nient’altro che alla coscienza del fuoco, dei cataclismi, della bestia trionfante. E in fondo tutti gli autori apocalittici, da Giovanni, su fino al nostro tempo, fino a Adrian Leverkühn nel Doctor Faustus di Thomas Mann, fino a Coppola di Apocalypse now, fino a Rumore bianco e Underworld di Don De Lillo, hanno pensato di rappresentare il mondo così com’è, per dirci, attraverso la sua interpretazione, non un futuro remoto da noi, ma ciò che è imminente. E ciò che pare loro imminente è la catastrofe dell’esistente. Forse Benjamin, nell’Origine del dramma barocco è partito di qui, da questo “irrigidito paesaggio primordiale”, per trovare nell’immagine stessa della fine ciò che “scava più profondamente la linea di demarcazione tra physis e significato”. Detto in altri termini: tra la nuda e incoercibile esistenza della naturalità e la percezione in essa della vita anche se nell’attimo della sua trasformazione, anche se nell’attimo della sua creaturale fragilità. Anche nell’attimo della fine. 11-Torniamo sui nostri passi. Torniamo al punto da cui siamo partiti. Avevamo avanzato una serie di immagini apoca-

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littiche della fine del mondo. Avevamo detto che, risalendo all’indietro in ogni epoca della storia umana avremmo potuto trovare immagini della vecchiaia del mondo e della fine. Ma ora sappiamo qualcosa di più. Sappiamo che l’immagine della fine è in realtà l’immagine del confine. Cosa ci mostra questa immagine che viene qui, a questo punto, introdotta nel discorso? È ciò che Rilke aveva cercato di dire affermando che l’artista deve andare fino all’estremo. L’opera d’arte si genera in un mondo attraversato e corroso dalla sofferenza e dal male. È un’ovvietà dire che si scrive, si dipinge un mondo possibile soltanto perché siamo insoddisfatti del mondo come è. Dunque dipingiamo, scriviamo, e dipingendo e scrivendo tracciamo l’estremo, il confine: la linea tesa tra possibile e impossibile, tra i gli opposti “non negoziabili”, non superabili, ma che tuttavia sono la trama della realtà, del soggetto e del mondo, del soggetto nel mondo. Oggi possiamo fare un passo oltre, e superare l’ambiguità inevitabile del termine “apocalittico” o del termine “tragico”, che sembrano dover contenere in sé qualcosa di luttuoso. Ora forse possiamo chiamare questo pensiero, il pensiero della forma, pensiero del confine, pensiero della soglia, vale a dire il pensiero che pensa il dentro e il fuori, il qui e l’altrove.

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“PASSAGES” Un parallelepipedo lungo e cavo in acciaio corten si inoltra, quasi come geologica faglia, nel precipizio che unisce il piccolo paese di PORTBOU al mare. Una scavo tra “fine terra” tra terra di confine e acqua, tra disperazione e silenzio, a misurare del tragico destino di Walter Benjamin. L’inutile scala è interrotta da un vetro su cui sono incise le parole di Walter Benjamin: “…è più difficile onorare la memoria dei senza nome che non quella dei famosi. La ricostruzione storica è dedicata alla memoria dei senza nome…”. Oltre il vetro infranto, lo sguardo incontra luce e ombre, lo scandire del tempo immobile dell’infrangersi delle onde. MGE

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Il memoriale è stato ideato da Dani Karavan nel 1990 a cinquanta anni dalla morte di Walter Benjamin, si ringrazia Dani Karavan per la gentile collaborazione Pagine precedenti: 1 Foto gentilmente concessa da Dani Karavan 2 Foto Jaume Blasi 3 Foto Bernard Schurian 4 Foto Jaume Blasi 5 Foto Jaume Blasi



L’architettura sulla soglia Emanuele Lago

Stare sulla soglia di un edificio è insieme stare nell’edificio e stare fuori di esso. Sulla soglia cioè si incontrano l’edificio e il suo altro: gli altri edifici, gli spazi aperti, i prati verdi, le strade con cui l’edificio convive. Questo incontro è propriamente un intreccio tra l’indivisibilità dell’edificio nella sua unità e il suo dividere il proprio significato con il suo altro. La determinatezza dell’edificio, di questo edificio, è la sua unità – questo suo stare per sé – che sta in relazione con l’altrui determinatezza e la include in sé come costitutiva del proprio significare e del proprio essere così determinato. È la sua solitudine e insieme il suo condividersi con l’altro da sé. Di questo intreccio parla la soglia, dell’intreccio – si ripeta – tra lo stare per sé dell’edificio e il suo includere in sé l’altro da sé con cui sta in relazione e senza il quale esso non avrebbe il significato che ha. Fin dal suo inizio, il pensiero occidentale evita di pensare questo intreccio e scioglie il momento dell’unità dal suo legame con il momento dell’inclusione del proprio altro. Così sciolta, l’unità è assolutizzata (ab-soluta, appunto) e vista come la sola origine della determinatezza del determinato. È essa sola a conferire al determinato una certa figura, un certo aspetto e una certa con-formazione. In greco “forma” si dice eîdos, che è appunto l’aspetto di ciò che sta in vista e che gli consente di stare in vista. Eîdos non è l’eídolon, l’immagine come cosa che appare e di cui si fa esperienza, ma ciò che fa sì che l’immagine sia conformata, cioè sia una determinata esistenza: un determinato essente. Detto altrimenti, l’eîdos è il che cos’è del qualcosa, la sua essenza. Come tale esso – per il pensiero greco e per la cultura occidentale che a partire da

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qui si sviluppa – consente al qualcosa di avere determinatezza e di essere fissato in una figura. Platone chiama questa essenza idea e nella sua assolutezza la pensa come l’origine immutabile e immutabilmente stabilita delle determinatezze sensibili. L’unità dell’idea sta al fondamento della dimensione dei molti determinati sensibili, tanto più determinati quanto più capaci di partecipare di quell’unità. L’intera tradizione filosofica occidentale si muove all’interno di questo schema (che naturalmente non rende conto della complessità dello sviluppo del pensiero tradizionale, né del suo articolarsi secondo un duplice sentiero, quello aristotelico e quello plotiniano). E all’interno di questo schema pensa il fare produttivo dell’uomo e ne stabilisce il senso. Rifacciamoci ancora a Platone. Nel Simposio così definisce la produzione: “ogni causa [aitía] per cui ogni cosa passa dal non essente all’essente è produzione [poíesis]; cosicché le operazioni che dipendono da tutte le tecniche [téchnai] sono produzioni e i loro demiurghi sono produttori”.1 Il passaggio dal non essente all’essente è il passaggio dal non avere all’avere una determinata configurazione. Ma la produzione, per Platone e poi per l’intero pensiero dell’Occidente, non è semplicemente questo passaggio, ma la causa di questo passaggio. È questo passaggio in quanto causato, guidato, condotto. Pro-durre è condurre (-duco) il passaggio portando davanti (pro-) la cosa che, compiendo questo passaggio, acquista una certa determinatezza ed è quindi capace di stare in vista. Questa produzione che conduce il passaggio è la téchne, il cui fare è dunque essenzialmente po-

ietico (ne La questione della tecnica Heidegger scrive appunto che la “téchne appartiene alla pro-duzione, alla poíesis; è qualcosa di poietico [Poietisches]”).2 Ma in che modo la tecnica conduce il passaggio? Guardando all’idea e conformando ad essa il molteplice che produce. La tecnica vuole armonizzare il passaggio per fare della dimensione dei molti la perfetta imitazione dell’unità. Essa abita il luogo dei molti per articolarlo secondo il Principio (arché). In questo senso, per la tradizione della nostra cultura, il fare produttivo è essenzialmente architettonico, perché la sua tecnica è secondo l’arché: è un costruire l’armonia da abitare guardando il Principio da imitare (del tutto all’interno di queste coordinate, Alberti sostiene che l’arte di edificare è la tecnica produttiva somma, ossia l’essenza del produrre). In questa costruzione la cosa viene prodotta secondo il Principio se viene saldamente composta. Solo così essa è bella. Kalón è precisamente il ben costruito, che per la bontà della costruzione è saldo e saldamente determinato. Esso è bello perché sta. Ma sta perché è saldamente prodotto ed è saldamente prodotto perché è prodotto secondo il Principio e, inscritto nel suo ordine, appare in tutto il suo decoro (la decorazione per i Greci è kósmesis, un conferire ordine – kósmos – ai materiali per farli ben stare, ossia per farli stare secondo il loro giusto corrispondere all’ordinamento dell’Eterno). Fin qui, il modo in cui la nostra tradizione pensa la determinatezza del determinato e, alla luce di essa, il senso del nostro fare produttivo. E tuttavia questo modo è votato al fallimento. È cioè votato al fallimento il tentativo tradizionale di pensare le molte determinatezze sul fondamento


dell’Uno e come sue derivazioni – e il conseguente senso che tale pensiero attribuisce alla poíesis. Questo fallimento emerge con l’approfondirsi della natura di fondamento del Principio. Se infatti per il pensiero tradizionale il Principio è capace di originare i molti come proprie icone rimanendo trascendente rispetto ad essi, quel che nel corso dell’epoca moderna e contemporanea viene sempre più alla luce è che nella misura in cui il Fondamento è indipendente dai molti a cui dà origine esso sarà sempre eccedente e mai potrà tradursi in figura; e nella misura in cui invece il Fondamento propende per i molti in nessun modo potrà mantenersi trascendente rispetto ad essi ma troverà nei molti il luogo del suo autentico abitare. Da un lato – il lato per il quale si tiene ferma l’indipendenza del Principio – si mostra l’impossibilità per il Principio di darsi nella cosa. E dunque l’impossibilità per il fare di corrispondere nell’opera all’Uno. È il grande tema della pittura del Novecento, che “mette in figura” il non aver figura del Principio, la sua essenziale alterità ad ogni figurazione. Nei monocromi blu e in maniera ancor più radicale nelle antropometrie, Yves Klein testimonia nel modo più estremo (più estremo anche di quello di Malevič, perché “Malevič aveva, in effetti, l’infinito davanti a sé [voleva cioè rappresentarlo] – Io, ci sono dentro”)3 precisamente questa irrapprensentabilità dell’Uno. E lo fa portando al limite del non fare la liberazione del fare artistico dal vincolo figurativo: “A dir la verità, ciò che cerco, il mio sviluppo futuro, la risoluzione al mio problema, è arrivare a non fare più niente, il più in fretta possibile, ma consapevolmente, con circospezione e cautela. Cerco semplicemente di ‘essere’. Sarò un

‘pittore’. Diranno di me: è il ‘pittore’. E io mi sentirò un ‘pittore’, uno vero appunto, perché non dipingerò più, o per lo meno in apparenza. Il fatto che ‘esisto’ come pittore sarà il lavoro pittorico più ‘straordinario’ di questi tempi”.4 Dall’altro lato – il lato per il quale si tiene ferma la propensione dell’Uno ai molti – si mostra l’impossibilità per il Principio di trattenersi dalla cosa. E dunque la necessità per il fare di non aver più alcun ordinamento prestabilito che ne condizioni la produzione, perché è nella produzione che quell’ordinamento va costruito e il mondo assicurato e reso stabile. Scatenata, cioè liberata dalle catene dell’ordinamento divino, è da questa volontà di tutto stabilizzare e di tutto assicurare che la tecnica del nostro tempo è animata. Ora, se il contemporaneo è il teatro di questa lacerazione dello schema tradizionale (ma ciò che qui si è detto di tale lacerazione non è ancora il culmine di ciò che di essa va detto), è inevitabile che esso sia insieme il teatro della lacerazione dell’architettura, che, come abbiamo visto, su quello schema si è retta. Se l’architettura vuole essere tecnica deve rinunciare all’arché e trasformarsi in produzione ingegneristico-funzionale di “macchine per abitare”; se vuole essere fedele all’arché deve rinunciare ad essere tecnica produttiva e ad abitare il mondo prendendone possesso (Klein, del tutto coerentemente, immagina un’architettura dell’aria, completamente immateriale e completamente inabitabile). Questo il dramma dell’architettura contemporanea, che attraversa tutte le sue vicende e i suoi movimenti. Di fronte ad esso è ingenuo ogni tentativo di salvare l’architettura e contrastarne la fine riportandola allo schema tradizio-

nale. È infatti esattamente per la rottura di questo schema che l’architettura contemporanea vive il suo dramma. Ma la crisi della tradizione consente di pensare quel che in essa, come si è detto all’inizio, rimane occultato e non pensato: la determinatezza del determinato come intreccio tra lo stare per sé della sua unità e l’essere aperto all’altro da sé. Con il venir meno della tradizione viene meno l’occultamento che essa impone sul senso più proprio di ogni determinatezza e si apre perciò il tempo del pensiero dell’intreccio, che con sé porta un senso radicalmente diverso del fare architettonico. E se la soglia parla di questo intreccio, non si dovrà allora dire che per l’architettura si prepara il tempo del suo stare sulla soglia?

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Platone, Simposio, 205 b. M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze (1957), trad. it. a cura di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1991, p. 10. 3 Y. Klein, Verso l’immateriale dell’arte, raccolta di scritti con inediti a cura di G. Prucca, ObarraO edizioni, Milano, 2009, p. 63. Lo scritto da cui è tratta la citazione appartiene ad un insieme di testi accorpati sotto il titolo L’Aventure monochrome, prima parte di un progetto editoriale intitolato Mon Livre, concepito da Klein fin dal 1959 e mai pubblicato. 4 Ibid., p. 127. Il brano citato è tratto da Le Vrai devient Réalité ou Pourquoi Pas!, primo testo de L’Aventure monochrome. 2

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Tutte le immagini sono riprodotte per gentile concessione di Hagen Stier dalla serie ‘Splitting Mies’, Neue Nationalgalerie © Hagen Stier www.hagenstier.com e pubblicate con il permesso dei Musei Statali di Berlino / Fondazione del Patrimonio Culturale Prussiano 1 Hagen Stier »MIES SPLITTING - NNG/A« Berlin, 2005 2 Lambda Prints, each 25 x 16cm Proprietà dell’Artista (veduta da lato Sud verso Ovest) 2 Hagen Stier »MIES SPLITTING - NNG/F« Berlin, 2005 2 Lambda Prints, each 25 x 16cm Proprietà dell’Artista (veduta da lato Sud verso Est)

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3 Hagen Stier »MIES SPLITTING - NNG/C« Berlin, 2005 2 Lambda Prints, each 25 x 16cm Proprietà dell’Artista (veduta da lato Ovest verso Nord) 4 Hagen Stier »MIES SPLITTING - NNG/H« Berlin, 2005 2 Lambda Prints, each 25 x 16cm Proprietà dell’Artista (veduta da lato Ovest verso Sud)

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Luisa Lambri_Ritratti allo specchio Andrea Volpe

“Io resto un minuto ancora. Mi sembra di non aver mai visto prima d’ora i muri e i soffitti di questa casa”. Così Lyubov Andreyevna nel finale de ‘Il giardino dei ciliegi’. Lo stupore di Ljuba nell’attimo del rimpianto; l’emozione del suo sguardo nel momento dell’addio. È questa l’immagine che Luchino Visconti cita in un articolo del 1943 per descrivere la sua idea di cinema.1 Un frammento tradotto visivamente in manifesto poetico nella celebre scena iniziale di “Senso” (1954). Dando seguito ad un’intuizione avuta in un palco di proscenio alla Scala, Visconti ribalterà -mediante un lungo travelling della cinepresa- il significato del film, trasformandolo di fatto in un melodramma, incorniciato dall’arcoscenico: il sottile confine che permette il rovesciamento della prospettiva. Se mai fosse possibile pensare a Visconti come ad un costruttore di spazi forse bisognerebbe riferirsi a questa liminare architettura dello sguardo. È qui che il fotogramma può divenire finestra o specchio. Chi sta assistendo alla vicenda? Chi sta davvero recitando e per chi? Il cinema di Visconti vive in quel passage dove l’oggettività fotografica della settima arte si fonde con l’evocazione del mito propria del rito teatrale. Seppur svincolato dalla significazione e dall’immaginario della drammaturgia classica, Michelangelo Antonioni esplora col suo cinema un analogo limes. Una sequenza su tutte forse si impone fra le tante memorabili della sua produzione cinematografica. In Blow Up (1966), nella famosa scena dell’ingrandimento delle foto scattate nel parco, Thomas passa in rassegna una dopo l’altra le stampe segnando su una di esse un dettaglio visto attraverso una lente di ingrandimento.

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Dopo un altro passaggio in camera oscura, il particolare è appeso alla parete mentre la macchina da presa passa da una foto all’altra portandoci alla fine della sequenza, con uno stacco, a vedere il fotografo che osserva le immagini in cerca di un possibile nesso. Poco dopo Antonioni ripercorre quasi fedelmente la scena precedente concludendola però con un finale imprevisto, impercettibile, ma dirompente: le foto, viste ancora una volta in soggettiva, sono ora inquadrate dalla macchina da presa accanto a Thomas, che ancora le osserva. Antonioni con questa scelta di montaggio sembra suggerire l’esistenza di uno sguardo latente, indipendente dal soggetto, esterno ad esso. Ancora una volta, come per Visconti, il rovesciamento/spostamento del punto di vista produce il medesimo quesito: “Chi guarda veramente? E cosa è veramente guardato?”.2 Luisa Lambri è una delle artiste italiane più conosciute al mondo. Premiata alla Biennale di Venezia 1999,3 Lambri fotografa e filma silenti spazi architettonici spesso frettolosamente etichettati come ‘non luoghi’. Errore. Nel lavoro di Lambri non c’è spazio per riferimenti diretti a Marc Augé. Ad un occhio attento difatti quegli interni si rivelano al contrario parti di opere dei maestri del Movimento Moderno o di noti architetti contemporanei. Frammenti di architetture che negli scatti della fotografa si trasfigurano in una sorta di enigmatico paesaggio, illuminato da una luce mutevole, spesso diafana, alcune volte densa di oscurità. Lambri nelle sue foto omette la figura umana, eppure questi spazi laconici non sono disabitati. Vi si avverte una presenza, un respiro che li rende paradossal-

mente simili a scene vuote di teatri dove ancora echeggiano o echeggeranno i versi e le battute della commedia; appena finita o ancora da recitare. “L’architettura non è propriamente l’oggetto della mia ricerca […]. Nell’architettura cerco una conferma personale, la stessa che si potrebbe avere guardandosi allo specchio. Per me l’architettura è autobiografia e i luoghi fotografati autoritratti”.5 E non è un vezzo né un facile trucco per sovraccaricare di significati altri un’opera che vive/abita/racconta l’architettura in modo diverso da chi l’architettura la fa, la progetta o la pubblica sulle riviste di settore sapere che Lambri ami citare fra i suoi riferimenti Cindy Sherman e Francesca Woodman. Due artiste che divengono nelle loro immagini altro da sé, rimanendo sé stesse: Divenendo opera attraverso il medium fotografico. Specialmente Woodman che letteralmente arriva a fondersi in alcune fotografie con finestre, porte. Esaltando la sua relazione con lo spazio, trasformandosi in stanza o muro.5 Metamorfosi di un corpo in architettura. Eredità che Lambri sembra pienamente raccogliere, raccontare, evocare nel suo lavoro attraverso una disarmante, sincera, necessità di autodescrizione.7 Esplorando spazi vissuti come propri, oscillando continuamente fra soggettività e oggettività; fra dentro di sé/fuori di sé; fra emozione da piéce checoviana e fredda astrazione à la Antonioni. “È qualcosa che tutti i registi hanno in comune, credo, quest’abitudine di tenere un occhio aperto al di dentro e uno al di fuori di loro. A un certo punto le due visioni si avvicinano e come due immagini che si mettono a fuoco si so-


vrappongono. È da questo accordo tra occhio e cervello, tra occhio e istinto, tra occhio e coscienza che viene la spinta a far parlare, a far vedere”.7 I am your mirror. Così si intitola un lavoro pittorico seriale di Elke Krystufek, artista austriaca, che Lambri indica quale suo ulteriore riferimento. E come specchi (dove riconoscere il proprio sguardo sovrapposto allo sguardo di ritorno che l’architettura-corpo restituisce) sembrano parimenti funzionare le sue fotografie. Osservatori da cui l’artista si vede vedere. Miradores puntati sui panorami interni di Terragni, Mies, Aalto, Neutra, Schindler, Barragán, Niemayer, Johnson, Mollino, Siza, Campo Baeza, Sejima/Nishizawa che Lambri riassume costruendo un’unica, privatissima, abitazione fatta di un lungo piano sequenza. Registrando la mutazione della luce, il passare del tempo, la sua remota inviariabilità. Sequenza (e non serie) è dunque la figura che governa il lavoro di Luisa Lambri.9 Un processo che transita per osmosi nei suoi film realizzati, al pari degli scatti fotografici, col fine di mutuare il modus operandi del Le Corbusier editore de L’Esprit Nouveau. Dove le immagini dell’architettura, elaborate e ritoccate, perdevano ogni riferimento con l’edificio reale. Divenendo manifesto poetico, statement concettuale o schwelle. Soglie aperte su spazi di apodittica purezza a cui tendere senza soluzione di continuità.

denze nei linguaggi dei media, a cura di I. Pezzini, R. Rutelli, Ets Edizioni, Pisa 2005, p.p 30-33. Leone d’oro assegnato al Padiglione Italia per la migliore partecipazione nazionale (con Monica Bonvicini, Bruna Esposito, Paola Pivi, Grazia Toderi e appunto Luisa Lambri) 4 Da un’intervista di Massimiliano Gioni a Luisa Lambri, Documentario sentimentale, in Trax, 1998, www.trax.it/luisa_lambri.htm 5 E ‘I am a wall’ è il titolo di una serie di fotografie scattate da Olivia, interpretata da Tea Falco, vera autrice delle foto mostrate in ‘Io e te’ (2012) di Bernardo Bertolucci. Fotografie di chiaramente debitrici dell’opera della Woodman (1958-1981). Foto che riassumono perfettamente la volontà di trasformazione dei due protagonisti del film del regista parmense. Autoreclusesi nello spazio limitato/ infinito di una cantina di un palazzo romano per compiere al meglio un viaggio dentro di sé. 6 Cfr. Luisa Lambri interviewed by Hans Ulrich Obrist at the Venice Architecture Biennale 2010. Produced by The Institute for the 21st Century with support from ForYourArt, the Kayne Foundation, Brenda R. Potter, Catherine and Jeffrey Soros. Biennale channel, Architecture Biennale-Luisa Lambri (NOW Interviews) http://www.youtube.com/ watch?v=-NfKcOcdhQo 7 Michelangelo Antonioni, Prefazione, in Sei film, Einaudi, Torino, 1964, p. IX 8 “Quando vado da qualche parte, generalmente so già cosa sto cercando, così riprendo più variazioni della stessa immagine. Centinaia di fotografie. D’altronde l’elemento tempo è fondamentale per me, più che nella foto che risulta poi stampata nel processo stesso che sottende la ripresa delle immagini. Mi piace dire che lavoro in sequenza più che in serie. Penso che la parola ‘sequenza’ renda più forte ed intrigante il rapporto che lega un certo numero di immagini fra di loro. Le fotografie in sequenza presentano in genere un motivo comune, fotografato in condizioni quasi identiche e da un medesimo punto di vista. Sono affascinata dai cambiamenti che si registrano col passare del tempo o dalle minime variazioni di un ambiente. È una modalità di registrare la mia esperienza di questi luoghi anche nei confronti di concetti come tempo o caducità del mondo che ci circonda...” Luisa Lambri, Autoritratto, intervista a cura di Massimiliano Gioni, in Luisa Lambri, Interiors, catalogo della mostra omonima svoltasi presso Ivorypress Art+Book space I, Madrid, Ivorypress, Madrid, 2011. 3

1 “Potrei fare un film davanti a un muro, se sapessi ritrovare i dati della vera umanità degli uomini posti davanti al nudo elemento scenografico: ritrovarli e raccontarli.” Luchino Visconti, Cinema antropomorfico, in Cinema, n.173-174, Settembre-Ottobre 1943, pag. 20. 2 Cfr. Francesco Casetti, Vedersi vedere, in Mutazioni audiovisive. Sociosemiotica, attualità e ten-

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Tutte le immagini sono riprodotte per gentile concessione di Luisa Lambri Images © 2012, Luisa Lambri Luis Barragán © 2012, Barragan Foundation, Switzerland owner of the copyright on the work of Luis Barragán Morfín Pagine precedenti: 1 Untitled (Barragán House #10), 2005 Laserchrome print, 86 x 96 cm Ed.5 + 1AP 2 Untitled (Barragán House #01), 2005 Laserchrome print, 86 x 96 cm Ed.5 + 1AP 3 Untitled (Barragán House #06), 2005 Laserchrome print, 86 x 96 cm Ed.5 + 1AP 4 Untitled (Barragán House #30), 2005 Laserchrome print, 86 x 96 cm Ed.5 + 1AP 5 Untitled (Barragán House #33), 2005 Laserchrome print, 86 x 96 cm Ed.5 + 1AP

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Alberto Campo Baeza

Sulla soglia della bellezza Alberto Pireddu

“Cosa deve rivelare la pittura? Dove è l’autenticità rivelabile?” si domanda Kazimir Malevich nel celebre saggio La lumière et la couleur,1 tratto dal Carnet B (1923-26) e nato come raccolta di appunti per una lezione agli allievi del gruppo Inkhouk. L’autenticità della rivelazione, risponde, non è un’idea che giace fuori o dentro di noi, ma in un luogo dove si crea una “terza cosa” a partire dal processo delle reazioni tra ciò che è interno a noi e ciò che esterno. La rivelazione di questa sorta di ‘interregno’ è l’autenticità. Manifestare l’idea nella propria integrità è ciò a cui tende l’essenza pittorica, oltre ogni figurazione o tentativo di restituire una mera impressione delle cose: in essa è il principio di una nuova forma, che il pittore riconsegna allo spazio ed al tempo, fissandola sulla tela attraverso una precisa misura fisica. La luce, il colore e la materia sono elementi fondamentali dei momenti analitici intermedi che conducono alla sua rivelazione: la luce come fenomeno fisico - quella che, attraversando una goccia d’acqua, forma la sua divisione del reale nei colori - ma anche, metaforicamente, la luce del sapere; il colore, con la sua mutevole e inafferrabile intensità; la materia come sostanza chimicamente purificata (il pigmento) che, disposta in una relazione spaziale sempre differente, genera la diversità. Ma essi non possono rappresentare nulla e non esistono fintanto che non sia data la piena chiarezza dell’idea. ‘Rivelare’ significa per Malevich ‘approssimare’ qualcosa che è lontano nel tempo o nello spazio dalla coscienza, per giungere ad una separazione assoluta della sostanza e ad una spiegazione di tutte le circostanze dell’infinita molteplicità del reale.

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Rivelare la luce - eterna aspirazione dei pittori - vuol dire, pertanto, dare una costruzione formale ai fenomeni, “restituire il sole e la terra trasparenti”, non rappresentarli in ogni raggio sulla tela. Un profondo nihilismo informa il bellissimo testo di Malevich, che scrive: “non esiste una luce con la funzione determinata di schiarire la verità e rivelare il suo splendore come meta è impossibile”; ma ciò che colpisce è la forza con la quale egli sottolinea l’importanza dell’idea all’interno del processo creativo, una centralità che ritroviamo in Alberto Campo Baeza, per il quale l’architettura è, innanzitutto, “idea construida”. Un’idea complessa, sintesi di fattori concreti - il contesto, la funzione, la composizione, la costruzione - che si traduce in forme reali, le cui misure coincidono necessariamente con quelle dell’uomo e la cui ‘poetica’ precisione è, insieme, numero, scala, proporzione, essenzialità. Forme di un’architettura che ritrova nella gravità e nella luce i propri temi fondamentali, perché capaci di “costruire” lo spazio ed il tempo. La luce è per Campo Baeza “la forza della levità”, l’imprescindibile materiale con cui conferire allo spazio creato l’anima di una tensione, ponendo l’architettura in relazione con l’uomo e il proprio tempo. Il suo controllo è, ancora una volta, una questione di precisione, come insegnano gli intensi chiaroscuri del Romanico, le drammatiche ed ascendenti trasparenze del Gotico, le vibranti atmosfere del Barocco, spesso citati nei suoi scritti. O le raffinate teorie di un Daniele Barbaro che, commentando Vitruvio, volle individuare nella sciographia la terza maniera del disegno architettonico, insieme alla

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1 Entre Catedrales, Cádiz, 2009 La rampa di accesso alla piattaforma foto © Javier Callejas 2 Entre Catedrales Studio della sezione: schizzo di progetto Pagine successive: 3 Entre Catedrales Vista del mare dalla piattaforma sopraelevata foto © Javier Callejas 4 Entre Catedrales Il riparo dinanzi al mare: schizzo di progetto 5 Entre Catedrales Pianta alla quota della piattaforma 6 Entre Catedrales La piattaforma nel suo rapporto con le due Cattedrali e la rinnovata facciata della Casa del Obispo foto © Javier Callejas


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icnographia e alla ortographia ed in luogo della - troppo imprecisa - scenographia.2 La “certezza” del bianco è la base “solida” ed “efficace” di questa luminosa distillazione: il bianco è il luogo dove la diversità non è visibile, il simbolo di una sostanza inalterabile che sta oltre la forma, lo spazio ed il tempo e nella quale si con-fondono il silenzio, la semplicità e la bellezza. Ed è proprio la bellezza l’obiettivo ultimo della ricerca di Alberto Campo Baeza che, come Platone e Sant’Agostino, ritrova in essa lo “splendore della verità”, traducendo l‘impossibilità dichiarata da Malevich nella consapevolezza di una difficoltà. Sulle orme di Adriano, Bernini, Mies van der Rohe e, non ultimi, dei suoi più diretti maestri - Alejandro De la Sota, Francisco Javier Sáenz de Oiza, Miguel Fisac e

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Javier Carvajal - l’architetto di Cadice intraprende la strada, pericolosa e rivoluzionaria, della bellezza. Ed in questa ricerca, che si oppone tenacemente alla mediocre stabilità su cui riposa gran parte dell’architettura contemporanea, risiedono la forza e l’importanza del suo lavoro. Tra due Cattedrali È uno spazio vuoto tra l’abside della Catedral Nueva e la facciata della Catedral Vieja di Cadice, sul lato esterno di quel lembo di terra che i fenici scelsero come estremo avamposto d’Occidente, il luogo nel quale Campo Baeza realizza questa leggera e tettonica architettura. Una bianca piattaforma, costruita su antiche preesistenze archeologiche, definisce

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una piazza sopraelevata, accessibile per mezzo di una rampa laterale, un mirador da cui riconquistare l’oceano e la linea dell’orizzonte. Sopra di essa le tre campate di un essenziale riparo dalla pioggia e dal sole. Posta in fregio al Campo del Sur e idealmente sospesa sul mare, come l’attigua basilica di Santa Cruz sobre las aguas, l’opera di Campo Baeza evoca una duplice condizione di soglia: incastonata tra due chiese, alterne custodi della cathedra vescovile, e sovrapposta ai lacerti di una forma urbis ormai scomparsa, essa trova la propria collocazione nello spazio e nel tempo della città. Con la delicatezza di un’architettura quasi temporanea, le cui esili carpenterie ricordano le strutture a baldacchino di una effimera


stazione, durante i riti e le processioni della Settimana Santa. Casa De Blas, Sevilla La Nueva, Madrid Un basamento stereotomico, adagiato sulle pendici di una collina nei dintorni di Madrid, accoglie al proprio interno gli spazi più privati della Casa de Blas, secondo una chiara distribuzione funzionale che dispone gli ambienti principali a valle e i servizi a monte. Il suo estradosso è un belvedere sulla sierra, segnato dalla presenza di una piccola piscina e di una scatola di cristallo; quest’ultima coperta da una leggera struttura metallica dipinta di bianco ed accessibile, per mezzo di una scala, dall’abitazione sottostante. “C’è della magia nel gioco tra la co-

pertura e la piattaforma”3 scriveva Jørn Utzon nel saggio Platforms and Plateaus: Ideas of a Danish Architect del 1962, e i bellissimi schizzi che accompagnano il suo testo paiono dargli ragione: in essi coperture leggerissime (talvolta simili a nuvole) levitano su piattaforme saldamente ancorate alla terra e il vuoto che le separa è teso e denso di significati. Costruendo una struttura tettonica sopra un solido basamento, Alberto Campo Baeza conferma la ricerca di una dialettica tra “la cultura di ciò che è leggero” e “la cultura di ciò che è pesante”.4 El croquis con il quale egli sintetizza l’idea progettuale della Casa De Blas rappresenta un vuoto compreso tra una copertura sospesa e un volume radicato al suolo, che noi sappiamo essere abitato.

Vi è realmente qualcosa di magico in questo spazio: nella serena proporzione delle sue misure e nella trasparenza ed immaterialità dei suoi confini, sui quali si riflettono le mille sfumature del paesaggio, austero e forte, dell’entroterra spagnolo.

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Kazimir Severinovich Malevich, La Lumière et la couleur: textes de 1918 à 1926, L’Age d’homme, Lausanne 1981. 2 Ci si riferisce alle tre edizioni vitruviane curate da Daniele Barbaro: Venezia 1556 (italiana); Venezia 1567 (latina); e Venezia 1567 (italiana). 3 Jørn Utzon, Platforms and Plateaus: Ideas of a Danish Architect, “Zodiac” 10 (1962), p. 113-123. 4 Su questo tema cfr. Kenneth Frampton, Tettonica e architettura. Poetica della forma architettonica nel XIX e XX secolo, Skira, Milano 2005, p. 278.

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7 Casa De Blas, Sevilla La Nueva, Madrid, 2000 Vista dal basso del basamento foto Š Hisao Suzuki 8 Casa De Blas Light solution: schizzo di progetto 9 Casa De Blas Blas: schizzo di progetto Pagine successive: 10 Casa De Blas La casa nel suo rapporto con il paesaggio foto Š Hisao Suzuki

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Francesco Venezia

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“il più piccolo spazio sacro” Eleonora Cecconi

“Nello spazio angusto e misterioso del cervello si accumulano immensi tesori: sono i tesori delle esperienze sensibili, ma anche tesori del pensiero e di tutto ciò che noi, nel corso della vita, abbiamo messo al riparo dall’oblio”.1 Tesori che Francesco Venezia raccoglie nel “Piccolo giardino di Gibellina”, li ri-ordina e li ri-pone nel segreto di una stanza, priva della sua immaginata copertura: sono memorie di luoghi da lui attraversati, visti, sentiti. Sono esperienze e meditate visioni, trasportate dalla mente in quel luogo angusto, per trasformarsi in corporee realtà. Frammenti capaci di mostrare quanto va oltre le loro “realtà caduche”, rovine e sgretolati resti, offerti a “geniali predatori” che mostrano nella loro nuda presenza un atavico linguaggio “disgiunto dalla contemporaneità fatta di programmi e funzioni”. Architetture in cui le coperture hanno ceduto sotto il peso del tempo e i muri sono attraversati da aperture che incorniciano il vuoto d’indefiniti orizzonti. Paesaggi fermi nel tempo ed eternamente incompiuti secondo l’idea di Auguste Perret che, cosciente dell’inevitabile “destino archeologico” di ogni edificio, definiva l’architettura l’arte che costruisce “belle rovine”. Nel piccolo giardino di Gibellina, Francesco Venezia onora l’incompiuto, il mutilato, il non finito, l’incerto: un processo difficile, quasi doloroso, verso l’estrema sintesi di un complesso programma di memorie. Un processo teso all’eliminazione di tutto ciò che, non necessario alla comprensione delle sottese e invisibili armonie del disegno, diviene la “parte superstite di un progetto compiuto”.

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Il giardino, è un “arcipelago di frammenti, diversi nella forma e unificati nel dettaglio: il giardino murato – la porta – i basamenti – la fontana di spolio…”.2 Esso è racchiuso da un recinto che, assecondando l’andamento della strada, si presenta curvilineo e ne inscrive al proprio interno un secondo rettangolare. Queste due figure intersecandosi tra loro, creano spazi residuali tra interno ed esterno, che identificano il luogo racchiuso come qualcosa di “altro” rispetto al contesto. Muri di una casa senza tetto posta a completare un isolato della nuova Gibellina. In fregio a viale Brancati, si aprono nel muro finestre che incorniciano alberi di un irraggiungibile giardino, quasi a ripetere la definitiva idea dell’Alberti per Palazzo Venezia. Nascosta, una rampa conduce a un interno fatto di stanze a cielo aperto: stanze di silenzio, stanze con alti muri che allontanano gli orizzonti del mondo esterno per rendere plausibile e reale solamente il cielo. Aranci e gelsi sono gli unici abitanti di geometrie su cui s’innalzano muri, spazi inaccessibili traguardabili solo da altri spazi - forse un ossessivo rimando dell’autore al giardino dipinto in una stanza della villa romana di Oplontis - che fanno presagire la stanza d’acqua, anticipata da una lunga panca, capace di custodire una fontana, un cilindro in travertino. Gli interni sono segnati da rovinosi portali murati che additano a impossibili luoghi: soltanto un frammento di capitello, posto casualmente oltre ogni sintassi, sembra evidenziare la necessità di una decorazione che immediatamente si confonde con lo stagliarsi delle ombre di uno spazio dedicato alla contemplazione. All’immutabile fissità che esclude il

Piccolo giardino a Gibellina Trapani Progetto: Francesco Venezia 1984-87 Assistente di cantiere: Giuseppe Taibi


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Pagine precedenti: 1 Francesco Venezia Schizzo 2 Il frammento foto Francesco Venezia 3 Francesco Venezia Schizzi 4 Il blocco di travertino in fregio alla finestra sull’inaccessibile giardino foto Š Mimmo Jodice

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5 La stanza d’acqua e i portali murati foto © Mimmo Jodice 6 Francesco Venezia Schizzo La stanza d’acqua, prospetto e pianta 7 L’albero di arancio abita il giardino foto © Mimmo Jodice

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mondo e il suo tempo partecipa la luce. Solo a essa è demandato il compito di scandire il tempo nel piccolo giardino. Penetrando dall’alto e dai vuoti dei varchi nelle murature, la densa luce della Sicilia rinnova in ogni istante l’aspetto altrimenti immutabile di questo luogo di memorie come una metafisica composizione di De Chirico sottoposta all’erosione di luce sulle cattedrali di Manet. Francesco Venezia “controlla l’orizzonte”, lo cela e lascia all’uomo di immaginare ciò che è al di là di questa soglia: “...sedendo e mirando, interminati spazi di là, da quella, e sovrumani silenzi e profondissima quiete...”.3

1 Francesco Venezia, Che cos’è architettura, Milano, 2006. 2 Francesco Venezia, Scritti Brevi. Napoli, 1986. 3 Giacomo Leopardi, L’infinito.

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Werner Tscholl

Tra pietra e acciaio Michelangelo Pivetta

I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi. J. W. Goethe

Una trasversale tradizione architettonica caratterizza da tempo immemore i luoghi del Sud Tirolo. Unica nel dispiegarsi addentro le vallate del suo territorio tanto quanto nel passare dei secoli. Forse legata all’innegabile accatastamento di genti, culture e lingue che questa straordinaria quanto difficile terra ha saputo accogliere, sembra essere in grado di generare una visione altra rispetto alle consuete problematiche culturali e, perché no, operative del costruire. Come ha avuto modo di osservare acutamente Barbara Breda in occasione della recente mostra di architetture contemporanee del Sud Tirolo svoltasi a Merano: “Lontana da ogni banale revival storicistico o da ordinarie concessioni agli stilemi rusticani, l’architettura sudtirolese contemporanea si è dimostrata capace di affrontare con rigorosa modernità la radice del rapporto con la storia e la tradizione”. Una sorta di anabasi architettonica stabilisce categorie del costruire radicalmente diverse e per molti versi inedite. Ogni epoca artistica ed architettonica trova qui la propria espressione concreta secondo declinazioni peculiari, arrangiamenti formali -ma mai formalistici- di carattere diverso. Così nel passato e oggi nella contemporaneità. Il sapore visivo dato da un territorio ove il paesaggio naturale è padre della scena impone dialettiche in grado di recepire e riproiettare le categorie del costruire fino agli estremi formali del linguaggio, senza clamore, senza ostentazione, ma con quella pervicace e precisissima ossessione per il dettaglio che questo mondo e quella sorta di suo rigoroso artigianato ci ha abituato a riconoscere.

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Werner Tscholl, apice forse più noto di una schiera di ottimi architetti sudtirolesi contemporanei, sembra essere in grado di scendere, nello svolgere di ogni sua nuova opera, in un ambiente di volta per volta assolutamente nuovo, con le stesse capacità e orgoglio di quei maestri che nelle valli alpine hanno lasciato testimonianze straordinarie in ogni campo. Di questa tradizione appare essere chiaramente erede, sia nell’approccio dialettico con il tema sia nell’espressione di quella sensibilità autorevole che, imponendo la forma del nuovo, tanto sull’esistente quanto sull’antico, riesce a stabilirne una gerarchia di ruoli altrove ed altrimenti difficilmente proponibile. Qui l’altro fattore determinante per l’architetto e il progetto: l’intellettuale e culturale visione generale del mondo tedesco (per generalizzare e semplificare) rispetto all’architettura contemporanea. Qui e solo qui geograficamente, in Italia è pensabile rendere possibile una così forte e radicale autorità dell’architettura contemporanea tale da poter riscrivere, come nel caso del progetto per Castel Firmiano, l’intera storia di un monumento iconico. L’operazione dal punto di vista architettonico si svolge nel campo più difficile per l’architetto: il confronto con l’antico. Che pur non essendo un antico di tale valore architettonico dal dover essere considerato intangibile, è di per se uno dei monumenti più noti sul territorio bolzanino, partecipe da un migliaio d’anni della costituzione del paesaggio circostante la piana della città. Tscholl sagacemente sceglie di volgere a proprio vantaggio questa apparente avversità lavorando come un antico cesellatore sugli anfratti e i vuoti della struttura esistente. Crea una vera e propria mac-

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Castel Firmiano Bolzano Museo della montagna R. Messner 2006 Progetto: Werner Tscholl Foto: Alexa Rainer



china indirizzata al rispetto, quand’anche complice essa stessa, di un programma museale volutamente semplice. Semplice come il pensiero del suo ideatore, quel Reinhold Messner che lentamente rapido nello svolgere ogni propria straordinaria impresa ci vuole donare il suo più personale sentimento verso la montagna. Pietra e acciaio sono i materiali del progetto. Antichità e contemporaneità più che a confronto sarebbe corretto dire a complemento, l’una dell’altra. Un dialogo pratico che assume attraverso la forma tecnica l’estetica necessaria; nulla di più. Solo il vetro, raro dove necessario, viene utilizzato quasi come supporto diverso, proprio a sottolineare la qualità e univocità del rapporto tra i due principali materiali.

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Discepolo silenzioso dei suoi monti, Tscholl riesce qui eroicamente in quel processo di sintesi dove molti altri hanno fallito; di volta in volta troppo tesi verso un ossequioso rispetto dell’esistente o troppo protesi verso la necessità di affermare la propria opera. Passerelle e scale non fanno che trasportare il visitatore da un luogo all’altro senza divenire macchina scenica, ma rimanendo semplicemente strumento di controllo e generazione di una composizione sostanzialmente già definita dall’esistente muratura in pietra della storica fortezza. I percorsi si dilungano, penetrano il cuore dell’antico manufatto conducendo il visitatore precisamente verso quei luoghi dove esso vorrebbe

istintivamente andare. Ogni curiosità e ogni volontà viene assecondata nel rispetto di un sentimento di esplorazione insito nell’uomo e proprio del suo rapportarsi con il baluardo naturale. Un progetto tale da dover essere inscritto per diritto tra i più significativi della contemporaneità europea, non tanto per le proprie indiscusse qualità compositive ma in ossequio al proprio spessore intellettuale che, radicato nella memoria dei luoghi ove esso trae origine, ha modo di trovare ultimo compimento secondo quell’idea straordinaria per la quale, per dirla come Saint-Exupery, “non ereditiamo la terra dai nostri avi, ce la facciamo prestare dai nostri figli.”


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Pagine precedenti: 1 Castel Firmiano 2 Planimetria generale 3 La Torre Bianca vista dal muro di cinta 4 Vista verso Bolzano dal Palazzo Orientale 5 La scala che collega il tunnel alla Cappella 6 Dettaglio della rovina 7 L’uscita verso Bolzano del Palazzo Orientale

8 Uscita dal Palazzo Orientale 9 Scala sotterranea del Palazzo Orientale 10 Dettaglio della scala avvolta nella lamiera stirata Pagine successive: 11 - 12 Dettagli della ringhiera di vetro nelle sale della Torre Bianca 13 - 14 - 15 - 16 - 17 - 18 Sezioni, piante e prospetti

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Sou Fujimoto

Slittamenti

Conventional Conventional House House

Future HouseFuture ! House1!

Fabrizio Arrigoni

i Montanari, costruita la capanna sulla cima, mettono come confine un gioiello di salice. Saigyō Hōshi (1118-1190), Poesie della casa di montagna

La ratiocinatio della casa è un meccanismo elementare quanto perentoriamente fondato ed espresso; sia nella sua scrittura planimetrica che nel suo sviluppo tridimensionale essa si rivela come la successione di tre involucri di analogo costrutto: una matrëška, un magico set di scatole cinesi. La costanza nelle scelte strutturali, nelle materie e nei colori dei tre gusci determina l’assoluta preminenza di questo gioco su qualsivoglia altro discorso e risorsa. Un unico registro compositivo, dunque, ma capace di mostrare una inattesa ricchezza allorquando il rincorrersi degli sfondamenti prospettici distruggono la stessa certezza dei confini della fabbrica. Le superfici dei tre recinti presentano aperture rettangolari di diversa ampiezza distribuite sia sul piano verticale che sul piano orizzontale e solo i tagli sulla scatola in mediana hanno vetrature; gli impaginati così ottenuti fanno sì che lo sguardo ora si allunghi secondo profonde fughe (mitōshi) ora si arresti su candide pareti (mitōsenai). È il contrappunto determinato da questi patterns che muta il dispositivo della ricorsività in sfuggente senso di vertigine – potremmo altresì dire che i criteri d’ordine qui allestiti contengono anche gradienti di aleatorietà o non-ordine. Nell’intervallo apertosi tra “seme” e “madre” il disegno certo dello spazio smarrisce le sue coordinate lasciando il visitatore in una condizione

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di sospensione. Labirintico mise en abyme: dentro e fuori, né dentro né fuori, «c’è» e «non c’è», nel frammezzo. Raumplan era per Adolf Loos lo stratagemma approntato per diffrangere la residenza borghese in un arcipelago di luoghi salienti: i marmi, i legni, i tessuti, i minimi salti di quota saranno solo alcuni tra gli elementi base di una ars combinatoria volta alla designazione di collocazioni singole e irripetibili – quella determinata posizione e non altra, quella sola parte e non altra. Situazione affatto diversa nel caso nostro; consideriamo brevemente uno dei progetti degli esordi: la Primitive Future House del 2001 che può valere come manifesto di intenti. I disegni che descrivono la casa mostrano una topografia costruita attraverso il ripetersi fitto di una successione di livelli – micro incrementi di 35 cm. Un continuum spaziale – una trasparent and artificial cave nelle parole dell’autore – che si srotola senza che ostruzioni e cesure ne possano interrompere lo scorrere. È un flusso privo di centro o baricentro al cui interno la stessa distinzione tra contenitore – l’alloggio – e contenuto – il mondo degli oggetti – perde consistenza e riconoscibilità al pari della perenzione delle unità prime della sintassi modernista – pilotis e solaio, scala e cortina portata: alcuni schemi fujimotiani originano dalla radicale messa in questione dei principi della corbuseriana Maison Dom-ino. House N conserva questa soglia di indeterminatezza, questo basso grado di distinzione delle aree seppure, come nel caso del maestro viennese, l’iniziale unitarietà dello spazio sia decostruito e diffuso in un pulviscolo di spazi minimi reciprocamente connessi. Sfogliando il reportage fotografico di Iwan Baan due

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Sou Fujimoto House N Oita, Giappone Progetto: Sou Fujimoto Architects 2006-2007 Realizzazione: 2007-2008 Team: Yumiko Nogiri Strutture: Jun Sato Structural Engineers Foto: Iwan Baan


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fatti colpiscono l’osservatore. Innanzitutto constatare come siano i pochi componenti di arredo a connotare la destinazione d’uso delle stanze – se è lecito impiegare ancora questa nozione. Un successivo punctum, strettamente correlato al precedente, è costituito dal ruolo svolto dalla luce naturale; è in forza del suo passare e frangersi, del suo quieto spandersi per riflessi e rimbalzi se i tanti sottoinsiemi appaiono come liquefatti in una medesima, pacatissima atmosfera – e sarà poi grazie alle infinite gradazioni di questo alone bianco che anche le più salde perimetrazioni sembreranno svaporare la propria quiddità e tornare nell’indistinto. La casa è un cubo emergente da un mare di piccole case e dal caos delle

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linee impiantistiche che invadono l’aria. Rispetto all’intorno il suo volume, occupando quasi per intero il lotto disponibile, è di scala maggiore; tuttavia, avvicinandosi, il sovrapporsi delle forature disfa l’iniziale monoliticità dell’involucro ora fessurato da uno spicchio di cielo, ora dalle fronde di un albero, ora dalle sagome di edifici lontani. La tettonica dell’edificio ha comportato l’utilizzo del cemento armato; tuttavia l’assenza di tratti riferibili alla materia e alla tecnica impiegata dissolvono ogni riferimento e ogni evidenza di gravitas, facendo prossime murature e coperture alla carta opalescente e fragile di uno shōji. Le discontinuità presenti sulla maschera – sulle maschere – annunciano l’appartato, il nascosto, allestendo simultaneamente una giustapposizione

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spaziale (una collezione di ancoraggi visivi, un catalogo di distanze) e una scansione temporale (un invito al movimento, alla perlustrazione). Allineato sul bordo della strada lo schermo/facciata (hashi) è la regione dove mettere in atto una strategia di mediazione tra opposti: tra pieno e vuoto, tra profusione e rarefazione, tra esposto e occulto, tra chiaro e scuro, tra trasparente e opaco, tra artificiale e naturale – un passo doppio: l’espandersi del dentro verso il fuori (urbanità) e il penetrare del fuori verso il dentro (domesticità) al punto limite di confondere e rendere vaghe le cornici che separano i rispettivi regni – in riferimento a tali transiti Kengo Kuma ha scritto di fuzzy boundaries, un salto oltre la dualità digitale 0/1. In più occasioni Fujimoto indica nella


comprensione e nel recupero di concettualità primitive il fine della propria ricerca (cfr. id. Primitive Future, Inax Publishing Tokyo 2008). Si deve valutare tale affermazione secondo coordinate a-storiche: primitivo è quel fondo primigenio dove alberga una Ur-architektur spoglia di tempo, di geografia, di discendenza. È di un altrove remoto che si tratta, di un nebulous field nel cui dominio ancora non sono distinguibili le antinomie e i poli categoriali attorno ai quali la disciplina ha tessuto la propria tela: «When traces back to the their origins houses and cities must have been indistinguishable just as how at one point houses and forests must have been indistinguishable». Primitivo sarà immaginare il tutto, l’insieme, non

come il cristallizzarsi lento della forma perfetta quanto solitaria, immodificabile quanto sigillata nel proprio «in sé» – ma come lo schiudersi di una spaziatura - indifferenziata e disponibile – atta ad accogliere la rete di connessioni e repulsioni reciproche che sostanziano l’abitare, il prender dimora; è la trama di tali rapporti - evanescenti quanto smaglianti, complessi quanto imprevedibili - che feconda e anima il fenomeno architettonico: «Exteriority is not architecture. Interiority is not architecture. Architecture exists in how exteriority and interiority are connected». Jian è un termine “tecnico” sovente richiamato negli antichi trattati cinesi di Arti della pittura; l’immagine sottesa dal sinogramma è quella del raggio di luna

che scivola, silenzioso e impalpabile, sotto i battenti di una porta e vale come invito a riconoscere nel soffio di energia che «filtra attraverso» la dimensione del visibile, che «alita tra» i segni tangibili delle linee, dei contorni, degli inchiostri, il solo artefice capace di vivificare il dipinto. Analogo sentire nelle architetture di Fujimoto: la costruzione, il risultato empirico, non sarà che il precipitato alchemico delle sottili relazioni che l’opera stessa genera e mette in circolo, «raggiungendo completamente venti e onde» (Sikong Tu (837-908), Shi pin).

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House N A home for two plus a dog. The house itself is comprised of three shells of progressive size nested inside one another. The outermost shell covers the entire premises, creating a covered, semi-indoor garden. Second shell encloses a limited space inside the covered outdoor space. Third shell creates a smaller interior space. Residents build their life inside this gradation of domain. I have always had doubts about streets and houses being separated by a single wall, and wondered that a gradation of rich domain accompanied by various senses of distance between streets and houses might be a possibility, such as: a place inside the house that is fairly near the street; a place that is a bit far from the street, and a place far off the street, in secure privacy. That is why life in this house resembles to living among the clouds. A distinct boundary is nowhere to be found, except for a gradual change in the domain. One might say that an

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ideal architecture is an outdoor space that feels like the indoors and an indoor space that feels like the outdoors. In a nested structure, the inside is invariably the outside, and vice versa. My intention was to make an architecture that is not about space nor about form, but simply about expressing the riches of what are `between` houses and streets. Three nested shells eventually mean infinite nesting because the whole world is made up of infinite nesting. And here are only three of them that are given barely visible shape. I imagined that the city and the house are no different from one another in the essence, but are just different approaches to a continuum of a single subject, or different expressions of the same thing- an undulation of a primordial space where humans dwell. This is a presentation of an ultimate house in which everything from the origins of the world to a specific house is conceived together under a single method. Sou Fujimoto


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Pagine precedenti: 1 Diagramma Conventional House Future House 2 House N nel contesto urbano 3 Planimetria 4 Sezione 5 Giardino 6 Living 7 Interno: soffitti 8 Giardino foto Eduardo Pintos

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La porta Giorgio Caproni

........................La porta bianca... La porta che, dalla trasparenza, porta nell’opacità... La porta condannata... La porta cieca, che reca dove si è già, e divelta resta biancomurata e intransitiva... L’amorfa porta che conduce ottusa e labirintica (chiusa nel suo spalancarsi) là dove nessuna entrata può dar àdito... Dove nessuna stanza o città s’apre all’occhio, e non muove - nel ristagno del vago ramo o pensiero una sola parvenza... Una sola cruna di luce (o d’ago) nella mente... morgana:

La porta

la Parola.

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1 Edward Hopper “Rooms by the Sea” 1951 Oil on canvas (74,3 x 101,6 cm) per gentile concessione © Yale University Art gallery, New Haven, Connecticut 06520-1961.18.29 Bequest of Stephen Carlton Clark, B.A. 1903

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Paolo Zermani

Cappella nel bosco

Il progetto realizza un luogo di preghiera intimamente connesso alla realtà paesaggistica esistente nell’area storica collinare interessata dall’itinerario di pellegrinaggio della Strada Romea, ancora segnato dalla duecentesca meridiana in pietra incisa sulla parete dell’antico hospitale di Casa Faggi, sito poco lontano. Qui, nel 2010, frane e alluvioni hanno determinato la temporanea chiusura dell’antico itinerario e la deviazione del corso d’acqua che lo affianca. Il percorso a cielo aperto tra la casa di abitazione e il bosco, che si sviluppa per circa trecento metri, è il rivelatore della piccola opera, costruita quale risarcimento simbolico del corpo del paesaggio. Il lungo lembo prospettico costituito dall’appendice del parco, compreso tra il rio a sinistra e il monte a destra, assume come punto di fuoco, in lontananza, il nuovo elemento simbolico costituito dal frammento di muro e dalla croce. Verso di essi l’abitante o l’ospite si incamminano. L’intervento è costituito da un setto murario di ml. 9 x 6, cui si appoggia una croce in ferro di altezza analoga, e da una seduta. In pianta: un punto e due linee. Il muro è costruito a margine del declivio che, immediatamente, si inerpica a quote sempre maggiori. La croce è impiantata dalla parte opposta, verso il rio della Moglia e la strada che sale al santuario di S. Lucia e al castello del IX° secolo. L’edificazione è così composta attraverso elementi diversi, accostati a esaltare il rapporto con l’osservazione della morfologia paesaggistica esistente: chi

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giunge dalla casa, dal paese o da lontano, transita sotto la croce o vi sosta. L’evocazione dei due elementi simbolici, il muro e la croce, uniti dallo svolgersi di un percorso, assume carattere rituale. Il tipo architettonico è il percorso stesso, arricchito da frammenti. Ogni giorno il sole del mattino illumina la croce in modo diretto, proiettandone gradualmente l’ombra sul muro. Soltanto quando il sole è più alto, prima di scomparire dietro il monte, l’ombra della croce si dispone sulla terra per un breve intervallo di tempo. Dal punto di vista materico la costruzione è concepita attraverso una muratura faccia vista in mattoni di tipo antico rosa chiaro, secondo la tradizione costruttiva di quest’area collinare in cui si rinvengono, da secoli, fornaci per la cottura dell’argilla. La croce è costituita da travi tipo HEA 120 mm. verniciate color ruggine, come l’acqua ferruginosa che scende dal rio della Moglia, alimentata da sorgenti ricche di ferro. La casa esistente e il suo contesto assumono così valenza di microcosmo aperto alla scoperta, attraverso la croce, della relazione con il rio e il monte, l’acqua e la terra. Cappella nel bosco Varano dei Marchesi (Parma) 2012 Progetto architettonico: Paolo Zermani con: Eugenio Tessoni collaboratore: Emanuele Ghisi Costruttore: Giacomo Bonassera Foto: Mauro Davoli





Pagine precedenti: 1 La cappella nel contesto collinare 2 Scorcio prospettico dalla strada di pellegrinaggio 3 Pianta 4 Scorcio prospettico

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Maria Grazia Eccheli Riccardo Campagnola

Il dentro e il fuori: anamnesi dello spazio Riccardo Campagnola

L’acqua maieutica 1. Muri ed alberi L’alto muro in sasso che s’inerpica dalla piana alla sommità dell’isolata collina, è segnato al suo inizio e al suo termine da due enormi cancelli di ottocentesca fattura, che nascondono, più che rivelare il perché di un interno che si ostina a rimanere a loro segreto. Ma il senso che, a poco a poco, vien rivelandosi dal salire e dall’avvitarsi del muro in una spirale di terzo grado, è quello di essere recinto e sostruzione di un grande parco. Sopra la sommità del muro s’innalzano alberi e improvvisi campanili. Se i secondi sono i segni evocativi di quel convento che noti documenti assicurano essere appartenuto, giusta il toponimo di San Dionigi ad un’esule Francia; i primi sono quanto resta del grande parco “romantico”, le cui ambizioni sopravvivono nel profondo scavo ricavato tra i digradanti terrazzamenti delle prime colline suburbane di Verona. La necessaria magia dell’acqua aveva imposto, in tempi non tanto lontani la creazione di un paradossale lago “collinare”, alimentato da un acquedotto che, scorrendo tra le convalli, terminava in una spettacolare cisterna ipogea, una cripta architettura che riemergeva di un solo piano tra ulivi e vigne... Ma è proprio l’acqua a rivelare la segreta logica di una composizione a scala territoriale: le sezioni della collina dettate dalla cisterna, la giacitura della villa stessa e, di conseguenza, del disegno degli alberi altissimi che - sorgendo da giardini segreti, da frutteti e da un anfiteatro a verde di bosso - dilatano nel paesaggio un disegno mai divenuto, tuttavia, evidente alla villa stessa…

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2. La villa, la chiesa Progettata declinando stilemi palladiani da Francesco Ronzani nel 1834, la villa occupa la sommità del colleparco, al centro dell’acrocoro delle prime Prealpi. Pur chiaramente determinata dagli edifici preesistenti (quantunque ormai solo mentalmente ricostruibili), la villa assume una sua canonica compostezza, relazionata soprattutto con la visione della città in lontananza. Eppure, a “risolvere” il senso e l’intenzionalità dell’edificio è l’altissimo pronao/loggia che è stato posto non sull’asse del lunghissimo edificio ma sul suo breve fianco ovest. In tal modo, aperta sulla valle dell’Adige, la loggia, pur emblema essenziale di villa, può accogliere le ultime anse del fiume prima del suo sbocco in pianura, illuminate dal rosso dei tramonti. Degli antichi edifici conventuali rimane, quantunque notevolmente modificata, una chiesa che, risalente al secolo IX, è la sola testimone dell’antichità del locus: è ai suoi due campanili – divenuti nel tempo inestricabili dalla distribuzione interna degli edifici a essa posteriori – che è affidato il significato evocativo del luogo. 3. Progetto e principi Il primo compito del progetto era di dirimere il nesso, oggi divenuto incomprensibile, tra la permanenza della chiesa e la mutevole contingenza (anche stilistica) degli edifici che la rinserrano, rendendo riconoscibile (e dramatis persona) la dialettica tra i due elementi. Per questo, l’“ala che si protende a nord, oltre la chiesetta”, - l’oggetto del nostro progetto - viene “separata” dal campanile ottocentesco a cui era stata

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Progetto: Maria Grazia Eccheli Riccardo Campagnola 2004-2007 Interior design: Emanuela Sassoli Tomba della Rosa Collaborazione: Michelangelo Pivetta Strutture: Franco de Grandis


1 La chiesa e il complesso parrocchiale come nuova acropoli La scultura della Madonna in marmo bianco di Carrara di Novello Finotti




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Pagine precedenti: 1 La vasca d’acqua verso la casa 2-3 La lunga e stretta vasca d’acqua verso il paesaggio 4-5 Le scale entrano ed escano dalla torre campanaria illuminata da una nuova luce zenitale che trasforma lo spazio in un esterno Pagine successive: 6-7 L’ultima rampa verso la cella campanaria, il rosso pompeiano unico colore degli interni

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agglutinata dall’ultimo “restauro”, rendendo indistinguibile la loro alterità di destinazione e di forma. Con un’operazione meramente analitica, lo spazio che divide il campanile dal resto dell’edificio e percorso dalle scale, diviene una sorta di itinerario d’intelligibilità dell’edificio, quasi un museo domestico. E proprio la declinazione della possibile natura “martiniana” di quello spazio (ci si riferisce, ovviamente, il teatro in sedicesimo dell’Arturo Martini delle terracotte,) divenne il vero tema di progetto.

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Lo spazio, indeciso nella sua natura di interno o di esterno, viene illuminato da una limpida luce zenitale per l’intera sua altezza che attraversa tutta la sezione dell’edificio. Lunghissime ombre intersecano il percorso in tufo della scala che, entrando ed uscendo dal campanile ad ogni solaio, incontra finestre che, ad altezze diverse, incorniciano paesaggi. Rivestito di mattoni, a metafora di un recuperato suo carattere di estraneità e di non finito, il campanile viene anche traguardato dalle nuove finestre interne

che s’affacciano su tale metafisico spazio quasi fosse un esterno. 4. Casa e paesaggio Per la sua giacitura secondo l’asse elio-termico, la casa, forse un tempo destinata a serra, è stata pensata come un corpo “semplice”: con spazi “passanti” e senza corridoi. In tal modo essa accoglie nei propri interni l’intero svolgersi delle stagioni; attraverso le ampie aperture del piano terra sui due fronti dell’edificio, unisce il giardino all’italiana


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(ad ovest) al grande prato che guarda la collina (ad est) in un’unica prospettiva. E anche gli arredi fissi sono stati pensati, per simile metafisica natura, quasi come “mobili nella valle”… La pietra di Prun, che percorre bianca e levigata l’interno, prosegue “a spacco di cava” all’esterno delimitando una lunga e stretta vasca d’acqua, pensata come un frammento, indeciso tra la forma delle antiche vasche costruite dai contadini per irrorare i campi e quella dell’ormai leggendario lago, sopra ricordato, un

tempo ai piedi della villa ed ora soltanto geologico scavo… La nuova vasca diviene specchio compiacente della parte più antica della chiesa, l’abside e il transetto: diviene soglia tra l’abitare e il paesaggio… Parallela all’acqua una sola e lunga panca in pietra – disegnata come un rudere, un elemento inutilizzato della villa - invita, nel silenzio del luogo, alla contemplazione e a godere di un brano di natura miracolosamente incontaminato.

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Adolfo Natalini

La scala di ponente agli Uffizi Fabio Fabbrizzi

Visitare la Galleria degli Uffizi è un’esperienza forte e complessa. Forte perché il contatto con i capolavori esposti, innesca nel visitatore uno stato emotivo che solo l’arte è capace di generare; complessa perché oltre al fatto che il contenitore dell’arte è arte anch’esso, la sua percezione è il risultato di una concatenazione di esperienze frammentate tra loro. Questo se offre la lettura dei vari avvicendamenti della fabbrica vasariana, toglie sicuramente nitore ad un globale ragionamento museografico, facendo apparire il tutto come la testimonianza di voci slegate tra loro. Il visitatore nota subito l’anomalia di un percorso che inizia dall’alto e passa dopo lo scalone monumentale, alla forza antica delle opere esposte nelle sale dei primitivi. Qui, i pochi segni lasciati nella metà degli anni ’50 da Michelucci, Gardella e Scarpa, danno all’insieme una raffinata astrazione che fa cogliere al meglio le caratteristiche peculiari dello spazio, come il senso di fluidità ottenuto dai tagli verticali nella muratura, la prevalente dimensione ascensionale, il disegno secco dei ferri e la smaterializzazione delle lastre di pietra che galleggiano sul pavimento e nell’intonaco. Dopo essere passato per la spazialità più convenzionale della sala del Botticelli, il visitatore procede attraverso la Tribuna, il cui ottagono dai colori forti e dai materiali preziosi, lascia intuire arcaici legami con il passato e mentre guarda in alto la madreperla nella cupola, rimane sorpreso dalla forza inattesa dello spazio, replicando il senso originario di questa Galleria, pensata come esposizione di “meraviglie”. Adesso, lo stesso visitatore -che nel percorrere il tratto corto della Galleria può

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abbandonarsi alla doppia vista dell’Arno e della Torre di Arnolfo- una volta finito il secondo piano non è più costretto a ripercorrere i propri passi per uscire, perché con una nuova scala può scendere al piano nobile e percorrere i nuovi locali espositivi un tempo occupati dall’Archivio di Stato. La realizzazione di questa scala -denominata la Scala di Ponente- è il più visibile tra gli interventi di restauro e di adeguamento del programma “Nuovi Uffizi” che prevedono oltre all’ampliamento della superficie espositiva e la sua trasformazione, anche il recupero degli originali volumi vasariani dove sono state allestite le sale dei Pittori Stranieri, la galleria dei Marmi Ellenistici e l’infilata delle sale per la cosiddetta pittura -secondo la definizione dello stesso Vasari- alla “maniera moderna”. La Scala di Ponente, progettata da Adolfo Natalini in veste di consulente del gruppo di ingegneria SINTER, coordinatore del progetto esecutivo “Nuovi Uffizi” e realizzata all’interno di un cortile posto tra il salone delle Poste Regie e la Loggia dei Lanzi, è dunque la leva del miglioramento funzionale in atto nella Galleria e rappresenta un episodio capace di addentrarsi nelle dinamiche di un’architettura di rara sensibilità. Un’architettura che è uno spazio di soglia, ovvero lo spazio della mediazione e del passaggio; luogo tra più cose che divide e unisce e che si comprende al meglio attraverso la sua percorrenza. La sua percezione è dunque duplice, ovvero come oggetto calato nello spazio del cortile vetrato, frammento fra frammenti, memoria di una torre medievale, ma anche come promenade architecturale. Un’architettura dove le asimmetrie del tempo e dello spazio vengono ricon-

La Scala di Ponente degli Uffizi 2003-2011 Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MIBAC-DARC) Soprintendenza BAPSAE per le province di Firenze, Pistoia e Prato Progetto Esecutivo Nuovi Uffizi Progettisti: SINTER Alessandro Chimenti Alessandro Moroni Consulenti: Architettura Adolfo Natalini Impianti Enzo Giusti Illuminotecnica Piero Castiglioni, Massimo Iarussi Collaboratori strutture e restauro: Massimo Vivoli Giovanni Mori Lapo Biffoli Tommaso Barni Giampaolo Dellarosa Luca Privitera Giovanni Santini Foto: Mario Ciampi


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dotte ad unità da una nuova misura introdotta nella fabbrica, non tanto ad aggiungere una voce tra le voci, quanto a fare “silenzio” tra loro. Il visitatore che si trova ad attraversare la scala, sfiora la lamiera di ottone bronzato con cui è fasciata, coglie con lo sguardo le cornici di pietra galleggianti nelle pareti preesistenti e mentre scende ancora, alza la testa, gira lo sguardo, accarezza il legno del corrimano, segue la linea di luce che lo sottolinea, tocca ancora l’ottone bronzato, ritocca il legno e guarda di nuovo in alto bucando il lucernario ad incontrare molto più ravvicinata, quella stessa Torre di Arnolfo che prima ha scorto da un altro punto di vista. Nella meraviglia del vicino/lontano-sopra/ sotto, nota che in questo spazio tutto incombe, alla pari del cielo che strapiomba sulle pareti grigie di pietra che contengono l’anima ferrigna della scala e su quelle bianche di calce del cortile ritrovato. È un percorso obbligato quello che sta facendo, eppure fluido, luogo inatteso della transizione ma anche della rammemorazione. La fluidità dello spazio, il galleggiamento della materia, il rigore

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della forma, l’interpretazione di memorie, gli sguardi passanti, la prospettiva ma anche la visione per scoperte successive dello spazio, il radicamento, la pesantezza, lo stupore. Per un moto spontaneo dell’anima, ad uno ad uno i caratteri e le figure vissuti nel museo e nella sua architettura, ritornano al visitatore, affiorando sorgivi in una simultaneità che lo fa sentire vivo perché intuisce in un attimo, il pensiero di un altro uomo fattosi spazio, forma, tecnica, materia. E questa architettura, attraverso di lui che la vive, diviene un intermedio, cioè un luogo dove tutte le esperienze spaziali della fabbrica trovano una sorta di denominatore comune, un equilibrio che le accomuna pur nelle diversità. Alla fine del percorso, scesi a terra sul lastricato che porta la città dentro l’edificio, si apprezza lo scatto dell’ultima rampa che in futuro inviterà il flusso verso il ristorante e che si radica a terra in un succedersi di piccoli blocchi di marmo bianco tagliati dal vetro della balaustra. A questo punto, il visitatore alza ancora gli occhi verso l’alto, ed è la scala racchiusa nella sua torre ad incombere sul

selciato, comunicando una visione di sé possente ma vibratile che rende ancora più viva la sua forza. Mi piace pensare che con queste sensazioni, mentre si avvia verso l’uscita, il visitatore porti anche quella che qualcosa di irreversibile dentro di sé è avvenuto. Ovvero percepisca, insieme alle emozioni dell’arte, il magistrale dialogo tra i temi della progettualità che questa scala allestisce; primo fra tutti, oltre a quello straordinariamente risolto tra contemporaneità e preesistenza, la messa in atto di un’essenza spaziale legata alla trasfigurazione del senso della città. E in questa percezione, essere consapevole del fatto che quella che ha appena vissuto tramite l’architettura, ovvero l’esperienza della comprensione attraverso il mutamento è il cardine fondamentale di ogni divenire. In fondo, l’infinitesima modificazione nell’ordine dell’immodificabilità, rappresenta la consegna più vera che solo le grandi architetture sono capaci di lasciare.


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Pagine precedenti: 1 Il lucernario in copertura 2-3-4 Il percorso della scala 5 Schizzo 6 La scala nel cortile ritrovato

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Fabio Capanni

Ampliamento scuola materna Tagliaferro Claudio Marrocchi

L’intervento di ampliamento della scuola materna Tagliaferro a San Piero a Sieve in provincia di Firenze si compone di un nuovo blocco atto ad ospitare la mensa scolastica. L’edificio è formato da un unico ambiente di pianta rettangolare di circa 140 mq ed è delimitato da un muro continuo interrotto solamente da due grandi aperture contrapposte, realizzate con strombature rivestite in legno, e collocate in corrispondenza dell’aggancio con l’esistente struttura. Tali ampie finestre, oltre a garantire luminosità ai locali interni e accessibilità all’area giochi del giardino, consentono un diretto e passante rapporto visivo con l’ambiente esterno. La nuova mensa si inserisce armonicamente nel contesto dei blocchi a padiglione del restante edificio scolastico, calcandone e rispettandone le misure e la logica compositiva, al fine di rappresentare un ulteriore elemento che si articola intorno allo spazio centrale delle attività comuni. A fronte di questa continuità il nuovo elemento stabilisce al contempo una differenza rispetto alla superficie di mattoni facciavista del volume esistente grazie alla sua assolutezza stereometrica esaltata dalla scabra e massiva superficie di intonaco, che ispira un dialogo più intimo con gli edifici del vicino centro storico e con le recinzioni murarie delle ville della campagna circostante. La razionalità geometrica della forma rettangolare si arricchisce di una plastica deformazione del muro esterno, innescata dall’azione della luce che incontra la sottile scossalina in acciaio satinato. Si genera così un’inattesa curvatura della parete che si sviluppa al di sotto della lineare scossalina stessa.

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Questa morbida deformazione del muro esterno trova analogamente una sua continuità all’interno mediante l’azione della luce che penetra attraverso un taglio presente nella copertura ed esteso per l’intera curvatura. In questo modo l’impatto della luce con le superfici determina un continuo susseguirsi di ombre, le quali diventano i naturali “abitanti” dalle sembianze e dai profili sempre mutevoli, e traspongono il muro in una dimensione fantastica capace di riflettere ed accogliere l’immaginifico infantile. La conformazione plastica dell’edificio allude al carattere ludico della sua funzione, come materia plasmata dal gioco dei bambini. La parete curva diventa così una soglia labile e mutevole che da una parte offre un senso di protezione rispetto all’ambiente esterno mediante il suo spazio coperto, e dall’altra si dissolve all’avvicendarsi di luce ed ombra, come il dispiegarsi di un velo. Ed è in questa soglia che si proiettano nel presente e nel futuro i sogni incantati e le tenere magie dei bambini giocosi, e nel tempo il passo delle loro impalpabili fantasie lievemente la consumano. Soglia: come è lieve per due amanti consumare la propria vecchia soglia, anch’essi, dopo i molti prima di loro e i molti a venire.1

Ampliamento scuola materna Tagliaferro San Piero a Sieve (Firenze) 2008-2009

1 Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, Feltrinelli, Bergamo 2011, p.67.

Foto: Alessandro Ciampi

Progetto e direzione lavori: Fabio Capanni Claudio Marrocchi Collaboratore: Duccio Ardovini Strutture: Lorenzo Mellini Impianti: Massimo Tassini


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Pagine precedenti: 1 Vista esterna della parete inflessa 2 Il diaframma di luce fra la copertura e la parete inflessa 3 Luce e ombra animano l’aggancio fra la copertura e la parete inflessa Pagine successive: 4 Sezione trasversale e pianta 5 Lo spazio interno della mensa

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Fabrizio Rossi Prodi

Nuovo ponte sul fiume Arno

Non volevo ripetere il solito ponte ad arco estradossato o strallato, copie infinite e stucchevoli di modelli spagnoli, che hanno riempito con meraviglia strutturale ossificata il paesaggio europeo; nemmeno volevo ancora ripercorrere l’esasperata narratività tecnologica di dettagli muscolari, tipica dei modelli anglosassoni, i ponti “high tech”, attentissimi a descrivere i rapporti fra pesi, spinte e la loro attuazione costruttiva: tutti esempi di una tradizione gotica, piuttosto estranea alla nostra cultura. Ancor meno la ricerca poteva accontentarsi di surrogati strutturali in cui le pile si moltiplicano e le travi si accorciano. Altri orizzonti alle nostre spalle: una grande tradizione dimenticata che qui si cerca di rilegare e che comprende le opere e gli studi di Musmeci, di Zorzi, di Morandi e di Nervi, quando struttura e forma sono intimamente legate e nessuna prevarica l’altra; proprio come la tradizione dell’architettura e del paesaggio italiano, ma forse come tutta la tradizione della cultura italiana, che, al confronto con altre aree, rivela una profonda lezione di modestia, di unione ricercata fra tecnica e forma, che dà luogo a pezzi armonici e conclusi, di una bellezza solare e soprattutto umanissima. La ricerca deve riprendere questa lezione, custodirla, svilupparla e tramandarla. Un ponte è prima di tutto un luogo. Ma non solo del paesaggio. È una struttura base dell’esistenza. È un archetipo della conoscenza. Fin da piccoli abbiamo sussultato alla magia di attraversare un corso d’acqua: il desiderio di oltrepassare, l’incertezza iniziale superata dal coraggio, la tensione del punto di non ritorno, lo spaesamento del culmine con le viste di paesaggio e del vuoto sottostante, l’animo che si placa e si appaga del risultato

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raggiunto. Il progetto cerca di descrivere e accompagnare questi stati d’animo. Inoltre l’uomo da sempre affronta e supera ostacoli, incrocia, attraversa e soprattutto collega, cioè unisce sponde diverse: un luogo dello spirito deve esprimere queste condizioni. E per questo il ponte deve essere simbolo di unione, di alleanza, di contatto, di raggiunta armonia. Ma questa struttura deve esprimere anche il mondo delle acque, del fluire, della corrente da attraversare, delle curve che le forme naturali e vegetali offrono al nostro studio e che la sensibilità ecologica ci suggerisce, così come il mondo delle forze e della potenza, della struttura che si fa imponente sui fianchi e sotto, e esile in centro e in superficie. È la forma “ad arco” a racchiudere l’idea ricercata. Un ponte, non appartenendo solamente al suo immediato intorno, si misura con una più ampia identità del paesaggio. I ponti dell’Arno hanno sempre avuto forme semplici e asciutte, poco ridondanti sul piano strutturale, più ricercati nella essenzialità delle masse, più elaborati per forma che per struttura, magari come sintesi fra una struttura essenziale e una forma cavata che si fa spazio, proprio come quell’unione tra Gotico e Romanico che dà luogo al Rinascimento. Nella nostra antica tradizione il ponte era edificio, non infrastruttura, non si diluiva nel paesaggio, era un manufatto individuo che qualificava la scena naturale. Dopo tanti decenni in cui il ponte è stato infrastruttura, forse oggi è di nuovo presenza individuale, questa volta come icona, oggetto di design, che esprime, sul piano comunicativo in modo elementare e diretto, la propria natura e la propria funzione e, in fondo, anche l’appartenenza a una paesaggio della cultura, come la Toscana.

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Nuovo ponte sul fiume Arno Figline Valdarno 2011 Progetto: Fabrizio Rossi Prodi Simone Abbado Marco Zucconi Emiliano Romagnoli Tommaso Vergelli G.P.A. Ingegneria: Giovanni Cardinale Marco Ciccone Matteo Spinelli Collaboratori: Sandro Sollazzo Antonino Terrana


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Pagine precedenti: 1 Vista del nuovo ponte dall’argine 2 Prospetto 3 Planimetria 4 Sezioni

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Pagine successive: 5 Vista del nuovo ponte dall’argine

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Louis Kahn_Greetings from Luanda Nicola Braghieri

La letteratura architettonica ha consumato fiumi d’inchiostro nel celebrare la poetica degli architetti americani della prima generazione uscita dal New Deal. Nel cercare un filo rosso tra le esperienze californiane degli anni trenta e la generazione postbellica piace molto sottolineare la “continuità tra interno ed esterno” o la “smaterializzazione dell’architettura” davanti a un supposto “monumentalismo primario”. Sono indubbiamente temi molto affascinanti, ma altrettanto scontati se affrontati nella condizione assai esclusiva e particolare in cui si trovavano a lavorare i fortunati architetti di questi anni. Condizione legata non solo alla straordinaria bellezza di una natura selvaggia e incontaminata, presupposto evidentemente necessario, ma anche a una committenza di non certo ordinarie pretese e disponibilità economiche. Una committenza che aveva presto dimenticato il dramma della grande depressione e si poteva permettere ogni rischio ed eccesso. Le foto di Julius Shulman ritraggono potenti automobili europee parcheggiate sotto incredibili ville di metallo e cemento dove femmine eleganti e succinte sono adagiate a fianco di tonici maschi dal fisico scolpito. Immagini che ritraggono un inedito sistema di successo commerciale lanciato verso un futuro molto ottimista, ancor prima che un nuovo stile di vita. È la generazione post-atomica e pre-spaziale che nell’architettura sembra voler anticipare più che seguire. Non poteva sembrar vero ad architetti provenienti dalla greve e fredda Europa, dilaniata dagli orrori e dalla paura, sperimentare finalmente l’antico sogno dell’architettura adamitica, nuda e solare come Dio l’aveva fatta. Era un’America accogliente per questi immigrati di seconda generazione,

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che finalmente trovano spazio per sperimentare nuovi sistemi costruttivi e cavie per infrangere ogni consuetudine di vita domestica. Edifici ed arredi straordinari, mai visti, e neppure mai immaginati, fanno il giro della nazione pubblicati sulle riviste di costume e arredamento. La seconda guerra è appena finita e l’America è lanciata già verso nuove avventure. Le due icone di quegli anni sono due architetture perfette, opere d’arte più che case: la Farnsworth House e la Glass House. Due cubi trasparenti dagli esili pilastri in acciaio sollevati qualche centimetro dal terreno. La prima tanto fragile e assoluta da far dubitare della sua reale esistenza, la seconda un mausoleo del suo stesso progettista vivente, una sorta di sarcofago trasparente somigliante più alla bara di Biancaneve che alla dependance del frivolo e dissoluto intellettuale. La critica osanna le pareti terse e cristalline che riescono ad assorbire la barriera tra l’interno e l’esterno e che, allo stesso tempo, elidono radicalmente ogni consuetudine di vita domestica. Sono architetture levigate, dove ogni asperità è ripulita. Nessun muro, nessuna ombra, nessuna materia può rompere la fragile cristallina trasparenza. Architetture stupende, lontano dal mondo degli uomini, vicino alla perfezione celeste. Tutto quanto, naturalmente, sarebbe durato l’arco di qualche breve stagione in attesa di un nuovo stile, forse meno moderno, sicuramente ancora più internazionale. L’architettura trasparente si sarebbe consumata più velocemente di ogni ottimistica previsione. Un’agonia intellettuale condita da quei piccoli conflitti concreti, durissimi quanto prevedibili. Conflitti alimentati dal passa-parola di un salotto planetario di annoiati committenti afflitti da una miriade di miseri problemi


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tecnici e materiali, che poco interessano agli architetti, ma che rendono comunque difficile l’inconsueta vita quotidiana degli abitanti delle case di vetro. Louis Kahn è lontano da questo mondo. Vive e lavora intorno a Filadelfia. Culla dell’America, città dove è nato il sogno del Grande Paese. Non guida l’auto sportiva. Si muove col treno. Costruisce case dalle pareti in mattoni rossi e legno di quercia, utilizzando le tecniche elementari della buona costruzione. Negli anni delle case di vetro Louis Kahn ancora costruisce piccole case in cui le tappezzerie non sono i costosi panorami di Philip Johnson, ma la massa grezza dei muri portanti. Le sue case sono rifugi che guardano il paesaggio attraverso grandi finestre dai pesanti serramenti di legno. Sono architetture dove si percepisce fisicamente il lavoro dell’uomo e s’immaginano la scene di vita quotidiana dei suoi abitanti. Louis Kahn si ostina a perdere tempo con i propri committenti cercando di dar forma alle loro abitudini quotidiane, più che imporre un nuovo stile di vita. Al Filadelfia Museum of Art è conservato il celebre schizzo in cui si legge, intorno al segno di una volta sotto la quale siedono due figure umane tra una finestra e un focolare: “Architecture comes from a making of a room... the room is the place of the mind...”. Leggendo queste righe vengono in mente le parole secche di Arthur Dextler quando, a proposito delle case di Richard Neutra, scrive che pur essendo seduti in soggiorno veniva la voglia di entrare in casa. È questo entrare in un interno, questo “costruire una stanza”, questa necessità di marcare lo spazio attraverso la struttura muraria, a cui Louis Kahn non riuscirà mai a fare a meno. Anche dove le grandi vetrate si aprono sul paesaggio della Pennsylvania, non meno

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struggente di quello dell’Illinois o della California, l’ambiente interno è contenuto dalla massa muraria, la stessa massa compatta che costruisce il senso più profondo dell’architettura, “il luogo della mente”. Il muro è un confine, fisico e possente, tra l’esterno e l’interno. Le aperture, anche se sono ampie come intere pareti, sono elementi costitutivi dell’architettura. Non sono muri mancanti, sono vuoti intorno ai quali si costruiscono i pieni, sono porzioni sottratte, sono frammenti traslati, sono il negativo del telaio strutturale. Sono sempre elementi riconoscibili come tali. Negli edifici domestici, dove la presenza dell’uomo permea di quotidianità l’architettura, Louis Kahn celebra il serramento come parte integrante di una dimensione caduca e profana dell’architettura. Le aperture sono composte e complesse. Nel disegno è marcata la differenza tra le ante apribili e gli elementi fissi, in modo da segnare una chiara delimitazione tra l’interno domestico e l’esterno selvaggio. Protegge il confine dell’intimità, tracciando i limiti con precisi segni fisici. Le aperture sono porte massicce. Le finestre sono ante a battente, per lo più senza vetri, come usci che ben difendono l’interno. La luce entra da grandi lastre fisse di vetro, sotto le quali, come parte integrante del serramento, sono disegnati su misura gli arredi: piani di lavoro, scrittoi, cassapanche, e sedili. Le grandi finestre, divise solamente lo stretto necessario da partizioni, sono quadri, colpi d’occhio da mirare dall’interno delle stanze su un orizzonte più vasto di quello delle mura domestiche. Nei grandi edifici pubblici, Louis Kahn sembra tuttavia avversare l’idea di aprire finestre nella massa muraria compatta. È alla ricerca di una dimensione monumentale, quindi eterna, dell’architettura. Il

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disegno del serramento scompare e con esso scompare la presenza dell’uomo, del suo movimento, delle sue abitudini, della sua misura. Ora Louis Kahn non cerca lo sguardo inquadrato, non cerca il panorama, non cerca la messa a fuoco precisa, non il disegno della facciata. È interessato alla luce come strumento per dare forma architettonica allo spazio costruito e all’interno di questo spazio costruire il senso della sua architettura. Nel 1961 Louis Kahn è impegnato nel disegno dell’ambasciata degli Stati Uniti a Luanda, capitale della colonia portoghese dell’Angola. La luce non entra attraverso finestre, si diffonde e si distribuisce attraverso dei pozzi e fenditure senza che l’occhio ne possa mettere a fuoco la fonte. Quanto disegnato a Luanda si intuisce già nei contrafforti della Unitarian Church di Rochester e troverà una sua espressione finita ad Ahmadabad e Dacca. Nei grandi progetti è negata la visione diretta, un diaframma murario si oppone allo sguardo verso l’esterno e acceca con decisione “le pupille degli occhi dell’architettura”. A Dacca grandi occhi aperti negli angoli della sala centrale sono così alti da non riuscirne a comprendere la forma e solo nelle ore zenitali non riflettono la luce su loro stessi. La superficie dello spazio interno non differisce da quella che avvolge il suo esterno. Il muro diviene una struttura cava in cui la luminosità di quanto è fuori si riflette e si diffonde all’interno dopo essere stato assorbito dagli anfratti scavati nella sua massa. Le grandi aperture di Dacca sono come buchi aperti a posteriori nel muro di cemento. Non seguono la geometria della maglia costruttiva, neppure gli allineamenti della griglia modulare. Sono letteralmente aperti, come asportati dalla massa molle dei muri con un’enorme trivella. Giganti

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che hanno rubato pezzi di architetture. L’architettura di Louis Kahn manca della confortevole e consolante domesticità che avvolge la superficie del muro interno, tratto comune alle architetture della sua epoca, di quella passata e di quella a venire. Come una rovina la natura della massa muraria è nuda e aggredita dalla forza della natura che si materializza nelle piante, nei raggi del sole, nella pioggia. Non c’è sporto o cornicione che protegge il mattone e il cemento, non c’è intonaco o perlina che ne addomestica la sua brutale essenzialità. Progetto emblematico è il Salk Institute, una macchina costruita perfettamente. Il cemento sembra glassa colata in finissime forme di silicone. La superficie, liscia e perfettamente modulata dalle giunture dei casseri, non avvolge ma costruisce gli edifici. La struttura appare come un incastro di muri liberi incapaci di chiudersi in volumi finiti, come fossero scatole di cemento sovrapposte. Gli studi dei ricercatori, le cui pareti esterne sono assemblate con tavole di legno di quercia, sono contenuti tra muri di cemento la cui testa è evidente all’esterno. L’uomo, presenza temporanea e instabile di fronte alla grandezza immortale dell’architettura, sembra occupare abusivamente con le sue baracche di legno, la struttura massiccia in cemento. Il ricercatore, come il San Girolamo di Antonello da Messina, abita in un caldo studiolo. È un mobile, nella sua più letterale accezione, posato con leggerezza tra i muri di in una fredda architettura monumentale priva, proprio come fosse una vera rovina, di una sua definita dimensione interna. Solo un placido leone è a guardia del tempo presente.


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Pagine precedenti: Dalla collezione di cartoline di Nicola Braghieri: 1 Indian Institute of Management, Ahmedabad, India 1962 2 Health Administrative Building, Dhaka, Bangladesh 1962 3 Salk Institute, la Jolla-San Diego 1959-65 4 Vista del portico della Louis Khan Plaza, Ahmedabad, India 1962 foto per gentile concessione di Bhavesh Patel © Bhavesh Patel 5 Fronte Ovest sull’Oceano Pacifico Salk Institute, la Jolla-San Diego 1959-65 foto © Xavíer De Jauréguiberry 6 Corte sull’Oceano Pacifico Salk Institute, la Jolla-San Diego 1959-65 foto © Xavíer De Jauréguiberry

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Il portale con la corsa sospesa particolarissima vicenda del Sant’Aquilino in Milano Francesco Collotti

Il San Lorenzo in fregio al corso di Porta Ticinese è uno spazio antico che sta dentro alcuni straordinari luoghi di tempo sospeso. Il grande atrio di Santa Sofia a Costantinopoli, i pilastri del San Vitale di Ravenna, l’ambulacro di colonne binate in Santa Costanza a Roma. Non è più solo la solida grandezza romana del muro e della volta costruiti nella massa. Interni capaci di logge e sguardi, inusitate trasparenze; muri che divengon sequenze di pilastri, archi a rincorrersi, infilate di piani successivi che dicon di litania e non di progressione armonica. Spazio che trascolora per leggerezza, alleggerisce la cupola, mostra un lavorio che conforma l’interno non più come negativo di un sodo murario. Eppure ancora piante centrali, radicate alla terra, scavate quasi, frammento incunabolo dell’antico ancora in grado di generare progetto. Gli archeologi han qui lavorato a lungo, ma ci affascina ancora quell’incertezza che fa oscillare le colonne di San Lorenzo come quel che resta del formidabile impianto delle grandi vie porticate romane,1 oppure frammento del palazzo imperiale che qui aveva come su una platea composto in metafisica cosmogonia il palazzo imperiale, la cappella palatina, il circo. La stessa costellazione del resto ritroviamo a Costantinopoli sulla punta di Sultanahmet ippodromo palazzo cappella, la stessa grande pianta di Villa Adriana all’origine composizone all’ennesima potenza? La strada porticata che forse era qui, si insegue nelle città romane d’Africa bagnate dal Mediterraneo, per altra via lungo la Egnatia e da lì - passato il Bosforo - in Asia

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arriva a Tarso, la città di San Paolo, lungo il fiume colonne di granito grigio e poi si perde verso Aleppo (che ne sarà oggi delle colonne che, tramezzate sulla sezione, hanno avuto seconda vita nel suq?). San Lorenzo è luogo obbligato di passaggio dell’imperatore, è porta di città posta subito dopo la cerchia interna del Naviglio, San Lorenzo è gluommero direbbe Gadda - e addizione di cappelle intorno al core. Leonardo chiamato, tra l’altro, a rimediare all’apparentemente non risolvibile tiburio del Duomo, fa poche centinaia di passi e si appassiona ai contrafforti di San Lorenzo, e ci piace pensare che siano suoi gli schizzi che hanno la pianta centrale come ossessione e quella struttura antica come esercizio di conoscenza. La farà Leonardo quella grande pianta, la farà a Todi in Santa Maria della Consolazione, ma su un poggio a mirar le belle colline ed è mirata, resa astratta dalla città antica cui apparteneva. San Lorenzo dunque è uno spazio di mezzo, cui in modo particolare ci piacerebbe pensare come a uno spazio che sa farsi tempo per antica maestria di architetti che han mutato le distanze in sequenze in passi, quasi un ritmo di respiro che ci vien chiesto per percorrerli, a dirci appunto di un tempo più lento. Così le porte e i varchi ci dovrebbero far accorti di una trasformazione, di una mutata condizione per via di passaggio di stato. Soglia tra le soglie di San Lorenzo è la cappella di Sant’Aquilino. Chi la disegna marca con l’incisione le ombre di quella piccola loggetta in cima al prisma della fabbrica esterna, non destinata ad essere percorsa, ma che tien nel solido della casa la differenza

della cupola che si raccorda al tetto. I prospetti tesi, visti dal giardino della Vetra, vibrano appena per quell’ombra che segna il distacco dalla classicità piena e diviene paramento in cotto più leggero, subito sotto la gronda, come quelle modanature che, poco distante da qui, Michelozzo porta alla cappella Portinari in Sant’Eustorgio o come Filarete sapeva con maestria fare, usando materiali pesanti a far leggero. Il Sant’Aquilino ci dice come, a partire da quella piccola pianta centrale, l’architettura romanica in terra di pianura sappia prendere i luoghi e lo spazio nell’ottagono. Per secoli i nuovi edifici si sono costruiti sulle rovine e sulle fondazioni di precedenti opere, di queste utilizzando in vario modo i materiali: ora per spoliatio, reimpiegando capovolte trabeazioni e lapidi epigrafate a platea di muri bizantini o romanici (come avviene per un altro formidabile incunabolo dell’antico sul bordo dell’Adriatico, lo Sveti Donat di Zara duro e arcaico appoggiato sulle pietre del foro), ora invece ridando senso a precisi elementi architettonici entro nuovi organismi che ne mutano anche il segno. Sant’Aquilino è fondata sui grandi blocchi che eran modanatura di palazzo. Smettete quel che state facendo per un attimo e andateli a vedere nella cripta, scendendo quella scala un po’ nascosta dietro l’altare! E tutte le soglie che sono in San Lorenzo, tutti i tempi di mezzo tra noi e l’antico, si fan corpo e materia nel grande portale che introduce alla cappella di Sant’Aquilino. La grande mostra di marmo che circonda la porta è fuori scala, esagerata per lo spazio cui introduce, quasi a renderlo più importante della basilica cui appartiene.


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Ma, ora come allora, quando ancora piccolo mi fermavo per mano della nonna a guardarlo, scopro l’incantamento di cercar tra i decori del fregio che corre giro in giro al portale scolpito, i giochi di circo e le corse dei cavalli. Raffigurazione profana, proviene forse dal vicino circo trasformato in cava. Vince la porta, la pietra antica, il suo esser spettacolare linea spessa, quasi corpo di passaggio. Fan sorridere quelle bighe la cui corsa è rimasta sospesa, demolito il circo, cessate le grida che le incitavano. I cavalli congelati nell’istante in cui li han posti a guardia dell’altare. Da architetti infilati tra il muro e l’intonaco, interessati al fare e non al discernere troppo filologiche attribuzioni età e date, non ci attira il romanticismo di queste rovine e di questi reperti, ma la loro capacità, per così dire, di acquistare un ruolo simbolico che viene disinvoltamente ripreso nella città successiva. Ci interessa quest’uso del frammento come materia da costruzione per il progetto. Fisicamente sono dei muri cui si attacca, una platea e fondazioni a disposizione in cui il terreno è già compatto e sicuro. Un modo particolare di volgersi alla città antica, quel modo di leggere l’esperienza della città romana forse attraverso Piranesi architetto e non Piranesi rovinista.

1 Richard Krautheimer lo scrive in maniera straordinaria in tre capitali cristiane e traccia il disegno del vicino corso di Porta Romana come se di fronte alla tomba Trivulzio di Bramantino e soglia della Basilica Apostolorum iniziassero a sfilare le colonne di una strada porticata che volgeva a mezzogiorno verso la via per Roma appunto. R.C. Three Christian Capitals – Topography and Politics, 1983 UCLA Press, Berkeley – Los Angeles – London.

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Pagine precedenti: 1 San Lorenzo dalla Vetra foto Francesco Collotti 2 Il portale di Sant’Aquilino nello stato attuale foto Francesco Collotti 3 Fernand De Dartein Planimetria di San Lorenzo (Étude sur l’architecture lombarde et sur les origines de l’architecture romano-byzantine, Dunod, Paris 1865-1882) 4 Carlo Amati Pianta e prospetto della porta di ingresso della cappella di S. Aquilino in S. Lorenzo a Milano Civico Gabinetto dei Disegni - Castello Sforzesco - Milano (inv. e51) Copyright Comune di Milano - tutti i diritti riservati Pagine successive: 5 Architrave del portale di Sant’Aquilino foto Francesco Collotti 6 Cripta di Sant’Aquilino con i frammenti antichi reimpiegati foto Francesco Collotti


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Una rotonda sul mare Il Circolo Canottieri della Società Solvay a Rosignano (1937-39) Francesca Mugnai

Dopo lunghe ricerche su tutto il territorio italiano la Società Solvay, specializzata in prodotti sodici, elegge a sede della propria fabbrica la piana che separa le colline di Rosignano Marittimo dal mare. È una landa disabitata che Odoardo Borrani ritraeva, intorno al 1860, in una marina “cupa come lapislazzuli, in un cerchio di arse tamerici, d’erbe saline e bianchi massi, porosi come le ossa che calcinano il solleone” (Emilio Cecchi, 1926). La scelta della Solvay è dettata da motivi strategici: la ferrovia e la via Aurelia da una parte, le cave di calcare e il fiume dall’altra. Dopo aver aperto i primi impianti nel 1914, la società belga si fa carico di costruire gli alloggi dei lavoratori (case operaie e villette per gli impiegati) sul modello nordico della città-giardino, e successivamente servizi di vario tipo a completamento del nuovo nucleo urbano: ospedale, cinema-teatro, spacci, scuole e attrezzature sportive. Dopo sette anni dall’apertura dello stabilimento, Rosignano Solvay conta già 1.500 abitanti. Il suo nome è per sempre legato a quello di Ernest Solvay, l’industriale belga che ne decise la nascita. Quando nel 1937 Italo Gamberini viene incaricato di progettare, insieme ad altri edifici del villaggio industriale, il nuovo Circolo Canottieri per i dipendenti della fabbrica, la cittadina è quasi interamente costruita. Tuttavia le foto aeree scattate nel dopoguerra ritraggono ancora il Circolo come ultimo avamposto urbano, sospeso tra i campi coltivati e il mare. L’impianto generale è costituito dalla successione di tre corpi di fabbrica lungo un asse parallelo alla linea della costa. Volumi semplici, distinti geometricamente e nella gerarchia in base alle funzioni: a nord un parallelepipedo basso per i servi-

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zi; in posizione centrale un parallelepipedo alto per il salone delle feste; a sud una corona circolare per la pista da ballo. Il salone delle feste, perno della composizione, si caratterizza per gli alti portici a pilastri rettangolari posti sui fronti lunghi dell’edificio, rivolti verso la strada e verso la spiaggia a segnare il valore di “soglia” di questa architettura, che invita così ad essere attraversata lungo un percorso che, unendo la terra al mare, termina alla spiaggia con due rampe simmetriche. All’interno tale continuità è sottolineata dalla presenza di ampie vetrate, che si aprono allo spettacolo gaio della vita balneare e inondano di luce il salone centrale. In effetti le fotografie documentano, prima dell’intervento di Gamberini, la presenza di un portico di altezza inferiore avvolto attorno ad uno spazio a corte. È probabile dunque che, nell’ottica di conservare parte delle vecchie strutture, l’architetto abbia trasformato il cortile preesistente in salone coperto mantenendone comunque il carattere di spazio aperto. Si trova, in questa simbolica permeabilità alla vista e alla luce, una chiara corrispondenza con la piccola rotonda posta a fianco, concepita come un nudo recinto penetrato dall’aria, all’interno del quale si consuma il rito mondano del ballo nelle notti d’estate. Un portico ad anello in cemento armato, costituito da una copertura in forma di sottile corona circolare e da pilastri rettangolari disposti a raggiera, racchiude la pista da ballo, posta ad una quota inferiore rispetto al piano di calpestio e pavimentata con scaglie di marmo. Tutto il complesso del Circolo è adagiato su di un basamento alto circa un metro dalla quota della spiaggia; la sua pavi-

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mentazione a maglie di travertino e campi in cotto disegna un reticolo che chiarifica i rapporti geometrici tra i vari edifici. Appartenente al primo decennio di attività professionale di Italo Gamberini, quest’opera appare ispirata, al pari di molti suoi progetti coevi, ad un razionalismo di stampo nordico, che tuttavia tende a smarcarsi dagli accenti retorici mediante uno scarto imprevisto. Ciò che qui si celebra è di fatto un rito laico: lo svago istituzionalizzato di una intera comunità nata intorno ad una fabbrica. A smorzare, e quasi a contraddire, il tono solenne del grande colonnato, Gamberini pone, a fianco del corpo centrale, un portico circolare che, a dispetto della chiara derivazione classica, ha per copertura un più popolare disco. È evidente che il punto di forza dell’intero progetto risiede proprio nel rapporto

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reciproco tra gli edifici, nel loro proficuo dialogo di architetture individue. Forme primarie attentamente studiate nelle proporzioni, appaiono, viste dal mare, immobili protagoniste di una riuscita composizione di sapore metafisico, alla quale partecipano, non a caso, le ciminiere fumanti sullo sfondo. Il nuovo Circolo Canottieri fu inaugurato il 15 luglio 1939 dalla principessa belga Maria Josè, moglie di Umberto II di Savoia, in visita alla fabbrica della Società Solvay in occasione del suo soggiorno nella tenuta di San Rossore. I disegni e le fotografie del progetto di Italo Gamberini sono stati gentilmente concessi dalla Società Solvay e dal Circolo Canottieri. In particolare si ringraziano, per la preziosa e solerte collaborazione, Silvano Benvenuti, Davide Camerini, Mauro Della Valentina, Antonello De Lorenzo, Massimo Gabbrini e il presidente del Circolo Canottieri Roberto Pagnini.


Pagine precedenti: 1 Il Circolo visto dalla spiaggia (Archivio Solvay) 2 Il Circolo visto da sud (Archivio Solvay) 3 Assonometria (Archivio Solvay) 4 La rotonda (Archivio di Stato di Firenze) 5 Prospetto verso il mare (Archivio Solvay) 6 Sezione longitudinale (Archivio Solvay) 7 Il salone delle feste visto dalla rotonda (Archivio Circolo Canottieri) 8 Il salone delle feste con le tende parasole (Archivio Solvay)

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Santa Croce, la facciata Maria Teresa Bartoli

Santa Croce è una delle grandi chiese fiorentine, che, avviate e quasi completate in epoca gotica, rimandarono ai secoli successivi il compimento della facciata. Santa Maria Novella lo ricevette nel XV secolo dall’Alberti, San Lorenzo e il Carmine hanno rinunciato ad averlo (e il significato della loro incompiutezza non è meno potente di quello delle facciate compiute), Santa Croce e il Duomo lo ebbero nel corso del XIX secolo. Nelle chiese di elevata qualità, la facciata costituisce spesso una sorta di avancorpo dotato di autonomia propria; insieme al sagrato, essa media, in virtù delle sue figure fortemente simboliche, il passaggio dalla dimensione pubblica della piazza esterna al raccoglimento spirituale dell’interno. La facciata della chiesa è generalmente monumento in sé, ma si carica ugualmente dell’idea di ciò di cui è la porta, proiettando all’esterno, con le figure del suo disegno, l’articolazione della struttura interna. Quando la distanza temporale tra la realizzazione della chiesa e quella della sua facciata è considerevole, come nel nostro caso, il tema si fa complicato. I contenuti che l’interno trasmetteva e per cui era stato concepito non sono rimasti inalterati; altri paradigmi hanno modificato i significanti di un tempo, di cui alcuni, caduti nell’oblio, sono scomparsi per far posto ai nuovi. I sentimenti collettivi e individuali non sono più quelli dell’inizio dell’edificio. Anche se l’opera conclusiva è stata compiuta col maggior rigore possibile, cercando di interpretare lo spirito del passato e di restargli fedele, le sensibilità non sono più le stesse, e ciò che si eleva fuori è inevitabilmente figlio del suo tempo; la soglia parlerà un’altra lingua e un tradimento può essere perpetrato.

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Queste osservazioni non sono novità: sappiamo bene che così ha da essere e che non può proprio essere altrimenti. Ciò che si vuole in questa occasione far emergere è che a Santa Croce il fraintendimento (non un vero tradimento) avvenne proprio nel momento in cui si manifestava l’intenzione della fedeltà: e questa errata valutazione dei dati fu così ben dissimulata che essa sfugge alla conoscenza dei più.1 Il progetto di Niccola Matas2 non rispettò un requisito non irrilevante dell’interno, di cui il comune sentire aveva ed ha tutt’ora perso consapevolezza. (fig.1) Misurando con cura la facciata di Santa Croce, si scopre che essa non è simmetrica.(fig.2) L’asse della sua porta centrale non taglia la facciata in due metà. La differenza risulta essere, dal rilievo condotto, esattamente di cm 22. La facciata è lunga (tra gli spigoli più esterni) m 42 ed è articolata in fasce verticali accuratamente disegnate, per cui i 22 centimetri possono apparire poco, ma non lo sono, perché hanno dovuto essere assorbiti entro le rigorose geometrie del disegno. Un’assenza di simmetria in un partito che si propone visivamente come simmetrico fa nascere degli interrogativi. Come mai la porta non sta nel centro della facciata? Il rilievo svela che tale requisito nasce dall’interno: neppure la facciata interna è simmetrica, e la porta sud è più vicina alla porta centrale di quella nord. Perché? L’analisi della pianta rivela che i lati del «rettangolo» del corpo longitudinale della chiesa, esteso fino alle cappelle absidali, muro di fondo compreso, definiscono un quadrilatero i cui lati lunghi misurano 190 braccia esatte (= m110,88), mentre i lati corti misurano, con esattezza, a Est 70 braccia (= m 40,85), a Ovest 69 braccia

(= m 40,26): la differenza, non trascurabile, è di cm 58,36.(fig.3) La spiegazione più facile è addebitare queste differenze alle difficoltà del cantiere o alle insufficienze tecniche della realizzazione; ma se, convinti della elevata qualità del cantiere gotico fiorentino, andiamo più in profondità, osserviamo che l’area occupata da un rettangolo di 190 x 69.5 = 13200 braccia quadre, corrisponde a 8 staiora esatte (essendo lo staioro l’unità di misura del mercato fondiario del tempo, pari, a Firenze, a 1650 braccia quadre). La strana anomalia comincia a segnalare significati diversi e a indicare paradigmi di scienza: Santa Maria Novella, la chiesa precorritrice, aveva un analogo corpo rettangolare che, con la larghezza di 50 braccia e la lunghezza di 165 copriva l’area esatta di 5 staiora. Dunque la nuova chiesa conventuale segnalava il progredire delle conquiste tecniche del progetto e del cantiere della città gotica; la piazza di Santa Croce, anch’essa trapezio rettangolo, è equivalente ad un rettangolo di 240 braccia per 110, di superficie 26.400 braccia quadre, pari a 16 staiora, il doppio esatto della chiesa.3 Questa quindi, in maniera esemplare, dava testimonianza della perfetta applicazione di una deduzione di scienza nella chiara misura della superficie del suo quadrilatero, che rettangolo non è, perché ottiene il risultato conservando sempre lunghezze intere, altro paradigma del progetto. All’interno della chiesa, il corpo longitudinale è tripartito nelle tre navate, ponendo gli assi delle due schiere di pilastri ottagonali alla distanza reciproca di 36 braccia a Est, e 35,5 a Ovest. La schiera a Nord è parallela al muro laterale e dista dal suo


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filo esterno 17 braccia; la schiera a Sud ha distanza variabile da 17 a 16,5 dal filo esterno del muro laterale a Sud. Quindi, sulla facciata interna, il mezzo pilastro a Nord conserva la distanza di 15 braccia del suo asse dal relativo muro laterale di 2 braccia, quello a Sud diminuisce di ½ braccio la sua distanza dal muro laterale Sud (14,5 braccia dal muro di 2 braccia). La porta centrale si colloca nel centro dello spazio tra i due mezzi pilastri e la sua distanza dai loro assi è quindi 35,5/2 = 17+3/4. Con questo calcolo, il suo asse dista 34,75 braccia dal muro a Nord e 34,25 braccia dal muro a Sud; quindi è spostato verso Sud di 1/2 di braccio (cm 29 circa).4 Dunque, sul retro facciata gli assi dei pilastri e della porta centrale costruiscono la seguente sequenza metrica in braccia: 17 – 17+3/4 – 17+3/4 – 16+1/2 (in realtà, per esattezza: 17 – (17+ 3/4 -1/6) – (17+3/4 +1/6) – 16+1/2): l’asse della porta si risposta verso Nord di circa cm10: quindi lo spostamento verso Sud è di soli cm 20 circa). Questo fatto, deciso a livello di planimetria, proietta necessariamente le sue conseguenze sull’elevato della facciata esterna, imponendo al progettista la scelta tra due partiti: accogliere e manifestare il dato, oppure negarlo, dissimulando. Nel primo caso, avrebbe proiettato all’esterno i dati dell’interno, cercando un tema da questi; nel secondo avrebbe proposto una apparente simmetria, con figure di proporzioni non immediatamente leggibili. La dissimmetria della chiesa e della facciata non è percepibile se non attraverso la misurazione, perché numeri e forme degli elementi architettonici non la rendevano manifesta neppure nel prospetto originario. È noto che l’argomento vincente della proposta dell’Arch. Matas fu l’esibizione di un documento speciale, un disegno forse di sua mano, presentato come copia di un disegno antico,5 di cui il probabile autore poteva essere lo stesso Simone del Pollaiolo, detto il Cronaca, di cui si sa che fu incaricato del completamento della Basilica e a cui si attribuivano i resti dell’inizio della costruzione di una facciata rinascimentale, ancora presenti e demoliti per la nuova.6 (fig.4) Il disegno mostra una facciata dalla figura molto simile a quella del disegno del Matas, della quale veniva così certificata la legittimità ideale e l’aderenza allo spirito della più alta tradizione fiorentina. Già i contemporanei espressero dubbi sulla rispondenza al vero delle notizie date. Il disegno del Cronaca sarebbe emerso

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nel corso di un riordino dopo l’alluvione del 1844, scomparso di nuovo dopo questo ritrovamento. Matas trasse dalla sua «copia» significativo avvallo per il suo progetto; forse il sospetto è lecito. Però bisogna ammettere che se quello schizzo rese plausibile il disegno della facciata tracciato e la figura che esso proponeva sembrò finalmente soddisfare le attese della Commissione preposta al giudizio (dopo tanti tentativi respinti perché poco «fiorentini»), forse l’idea che esso proponeva arrivava davvero dal passato. Ora sta di fatto che questo schizzo, disegnato da Matas, rappresentasse esso o no l’idea del Cronaca, pur nella sua apparente natura di disegno veloce, rispetta in pieno le misure reali del prospetto della chiesa e la sua mancanza di simmetria.(fig.5) La facciata è tripartita sia in orizzontale che in verticale, manifestando con le nervature principali la sezione interna a tre navate e la copertura a falde del tetto e proseguendo in facciata i triangoli che chiudono le testate delle campate laterali. Il disegno non descrive in maniera chiara il materiale della faccia vista, forse in pietra; esso si limita alle membrature architettoniche e agli elementi costruttivi, con pochi elementi ornamentali. La parte centrale, sormontata da un alto timpano, è affiancata dalle due porzioni relative alle porte minori, munite di timpani minori. Esse non sono uguali: un occhio allenato riconosce che la parte destra è visibilmente minore della sinistra, penalizzando anche il timpano superiore, le cui linee pendenti scendono quindi diversamente dalle omologhe di destra. Il computer con i programmi di grafica digitale permette veloci verifiche: se ribaltiamo intorno all’asse verticale della parte centrale il disegno di sinistra su quello di destra, vediamo la piena sovrapposizione delle linee relativamente alla parte centrale, mentre la porzione di sinistra sopravanza quella di destra, palesemente più stretta. Le misure lo dimostrano in ugual maniera: le proporzioni scritte nella figura hanno messo in scala il disegno come se il fronte fosse lungo 70 (larghezza della chiesa muri compresi)+ 2 (sporgenza di 1 braccio per parte) = 72 braccia. Le tre parti misurano 18,5 – 35,5 - 18. Il progetto presentato da Matas nel 1854, pur molto fedele al disegno dello schizzo nelle figure della composizione, ha già le caratteristiche della facciata da lui realizzata nelle scelte di simmetria: le due parti laterali sono identiche, mentre la dissimmetria è attribuita tutta alla parte centrale, e si può intravedere nelle linee dei due

discendenti, di diversa pendenza, uno lievemente più lungo (a sinistra), l’altro (a destra) più corto e più inclinato (nella fig.6 si vede bene che l’angolo del triangolo di destra dello schema sovrapposto entra nel pinnacolo che conclude il pilastro addossato che chiude la parte centrale; in realtà il pendente sottostante è più inclinato dell’ipotenusa dello schema). La irregolarità nel disegno «dal Cronaca» è molto leggibile, per un occhio libero dai pregiudizi imposti dal classicismo dell’Accademia; è invece molto ben dissimulata nel disegno accademicamente vicino alla tradizione fiorentina del progetto ottocentesco, che quella dissimmetria non riconosce più come un requisito intenzionale, fortemente voluto in una pianta gotica, raccolto e trasmesso in un prospetto rinascimentale. L’elevato del Cronaca si conclude con i tre triangoli dei timpani, che proseguono sulla piazza il tema dei prospetti laterali. Il triangolo isoscele centrale ha i cateti inclinati secondo il rapporto di h/b =4/5. L’inclinazione (circa 39°) è assai maggiore di quella prodotta dai 36° del pentagono. Il pentagono è invece presente nel timpano minore a sinistra, triangolo isoscele con angoli alla base di 36°. Il timpano di destra è quello più sorprendente, seguendo le misure della relativa porzione di pianta, con l’asse del portale non al centro dell’intervallo tra muro laterale e semipilastro interno. Nel suo vertice concorrono due linee di diversa pendenza, a sinistra legata al pentagono, come la sua simmetrica al di là della zona centrale. Poi, siccome questa raggiunge il suo vertice prima del centro della specchiatura (l’asse della porta è più vicino al pilastro che al muro), la sua complementare scende con regola diversa: e con tale regola raggiunge il pilastro verticale prima della sua omologa sulla facciata e il pilastro è obbligato a diventare più alto. Non ho trovato altro modo di esprimere la regola grafica di tale inclinata se non quello di attribuirgli l’angolo alla base di 50° esatti: nella sovrapposizione, esso appare come non improbabile. Se la facciata «dal Cronaca» fosse stata realizzata, essa avrebbe annunciato sulla soglia della chiesa una caratteristica certo non facile, sulla quale forse gli osservatori più attenti si sarebbero interrogati, e, comprendendo che essa proveniva dall’interno, avrebbero posto mente alla strana anomalia di un interno lunghissimo, di forma trapezoidale non percepibile e neppure di evidente necessità. Avrebbero dovuto riflettere sul punto e


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Pagine precedenti: 1 Il progetto di Niccola Matas conservato nell’Archivio dell’Opera di Santa Croce 2 Pianta della facciata di Santa Croce, rilievo 3 Piazza e chiesa di Santa Croce, planimetria 4 Niccola Matas, copia del disegno del Cronaca, conservato nell’Archivio dell’Opera di Santa Croce

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forse avrebbero potuto comprendere (se non tutti, i più accorti di loro) che tale figura poteva essere resa utile solo da un obbiettivo di alta strategia progettuale, rivolto a manifestare un’intenzione simbolica quasi provocatoria: quella di spiegare al popolo educato nelle scuole dell’Abaco che questa lunga navata rettangolare, quasi fuor di misura, una misura l’aveva e facile da valutare. Forse era nota l’esatta misura della vastissima piazza e si sapeva che la chiesa ne metteva al coperto la metà. Il rapporto 2 a 1 tra spazio all’aperto e spazio coperto lascia supporre una ratio proporzionale non casuale ma cercata e quindi da rendere manifesta. L’obbiettivo perseguito, essendo le superficie determinate ragionevoli, ma non strettamente necessarie, per la funzione da assolvere, potrebbe rimandare alla dichiarazione esplicita di un paradigma nuovo di cui si vuole dare testimonianza; nel caso specifico, forse la capacità

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conquistata di definire e misurare estensioni di qualsiasi misura, configurate in qualsiasi forma piana. Ma non è un mero fine di scienza che spinge a fare questo: nella situazione sociale e politica della Repubblica fiorentina di quegli anni, se i conventi e le chiese si fanno essi stessi emblemi di questi contenuti, danno testimonianza di un uso alto della scienza ai fini di quella giustizia secondo la quale si proclamava di voler amministrare la città.7 Giustizia è prima di tutto, e in senso lato, far parti eque dei beni comuni, e per far parti eque bisogna saper misurare e calcolare in maniera manifesta, riconoscibile e verificabile. Questa era forse la profonda ragione dell’accanita ricerca di superficie ben calcolate da parte dei costruttori fiorentini; e la manifestazione di questa attitudine era indizio di elevata capacità tecnica nell’autore del disegno. Il tema è per noi straordinariamente attuale. La nostra società è di nuovo alle prese con il problema del senso

dell’uguaglianza tra cittadini di situazioni censuarie molto diverse. Quali parametri dobbiamo misurare per cercare di stabilire standard minimi confrontabili, questo è l’interrogativo assillante. Saper individuare le grandezze fondamentali e applicare ad esse criteri inoppugnabili di misura è stato il metodo su cui sono cresciute la scienza matura e le organizzazioni sociali responsabili. La società gotica fiorentina intese fondarsi su criteri oggettivi per crescere, e il metodo che si intravede nella organizzazione del suolo urbano fece parte delle strategie definite a questo scopo. Se il Cronaca aveva ancora memoria di tutto questo, può aver inteso alludere, attraverso il filtro del suo progetto di facciata, ai contenuti che avevano influito sulle strane dissimmetrie interne della chiesa. Attraverso la sua facciata, queste avrebbero potuto trasparire all’esterno; cancellarle da questa pote-


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va significare la perdita completa della loro memoria. La facciata però non fu completata e la memoria della strana asimmetria andò persa. Misurando l’interno della facciata medievale, Matas dovette prendere atto dei suoi «fuor di regola», ma forse non li mise in relazione con la pianta trapezoidale, o non poté interpretarne le ragioni: ritenne di dissimularli per trasmettere un’immagine emblematica di un ordine più semplice, classico e ovvio insieme, dimentico dei momenti eroici della rinascita gotica delle scienze esatte e dell’ideale politico della Repubblica. Il classicismo del Rinascimento era tra i paradigmi del glorioso passato della nazione che si andava formando, e l’orgoglio di Firenze era il ruolo che aveva avuto nella sua costruzione. Dunque, già nel disegno di progetto, fatte uguali le parti di facciata cui appartengono le porte laterali, la dissimmetria da rendere impercettibile fu concentrata

nella parte centrale, nelle due strisce verticali ai lati della porta centrale. Quella di destra è più stretta di quella di sinistra (di cm 22 al vero), ma nella riduzione del disegno geometrico la circostanza è ben dissimulata. I discendenti del timpano triangolare del progetto del Matas (nella scala del disegno lo spostamento del loro vertice non si apprezza) hanno pendenza diversa da quella proposta dal bozzetto del Cronaca, ma espressa in maniera analoga: non 4/5, ma 3/4, molto vicina alla pendenza di 36°, ma in realtà uguale a 36°56’ (la pendenza dell’ipotenusa del triangolo 3-4-5). I triangoli dei timpani minori hanno l’insolito requisito di essere isosceli con l’angolo alla base di 50° e l’angolo al vertice di 80, modo originale e speciale di distribuire i 180° secondo numeri multipli del 10, che richiede la soluzione trigonometrica delle lunghezze, divenuta competenza scientifica caratterizzante della formazione dell’architetto alla metà dell’Ottocento.

Forse per omaggio al credo illuminista tali angoli apparvero già nel bozzettocopia del Cronaca, nell’angolo sud del timpano minore e furono enfaticamente replicati nei due timpani laterali. Nel timpano triangolare effettivamente realizzato, al centro si manifesta una ulteriore variante che distacca la figura dal modello del Cronaca: la cornice orizzontale che interrompe le linee ascendenti delle «paraste» ai lati del portale. Essa però non è dettata da un’esigenza compositiva, bensì è indispensabile all’ottenimento dell’apparente simmetria. Infatti l’asse del portale, centro simulato del la facciata, non è per niente nel centro, ma, nella porzione centrale, risulta spostato di cm 11 (=22/2) verso Sud, all’interno dei due contrafforti. Se il vertice del timpano gli stesse esattamente sopra, le linee discendenti dei cateti non sarebbero più simmetriche, e ciò, oltre a essere compositivamente poco corretto e problematico nella realizzazione, sarebbe

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probabilmente visibile proprio nella vista frontale. Se nessuna linea orizzontale avesse interrotto la continuità dell’asse della parte inferiore, tutti gli elementi posti sull’asse avrebbero dato evidenza allo spostamento del vertice e dell’asse della parte superiore.(fig.7) L’attitudine del laboratorio ottocentesco si sarebbe dimostrata inferiore alla virtù operativa della bottega gotica. La soluzione fa ricorso ad un ragionamento prospettico: la cornice orizzontale che chiude alla base il triangolo del timpano centrale stacca la sua immagine dalla parte sottostante della facciata e, ponendo l’interno su un piano di non valutabile profondità, fa sì che l’allineamento del suo asse sul centro non sia più facilmente percepibile nelle viste non perfettamente centrali: quando lo spettatore vede tutta l’immagine della facciata in un unico colpo d’occhio è talmente lontano che non può capire se sta sull’asse oppure no. L’inganno prospettico rende impossibile l’esatta percezione. La sapienza dell’Accademia distingue tra percezione e verità e dà la precedenza alla percezione educata dalla cultura del tempo; l’arte fiorentina dei secoli migliori aveva sempre dato la precedenza alla verità. Il filtro può spiegare; il filtro può ingannare: esso resta comunque sempre all’altezza del sentire del suo tempo.

1 Questo studio è stato svolto nell’ambito del Progetto di ricerca «Laboratorio Santa Croce», di cui è responsabile scientifico il Prof. Giacomo Pirazzoli, e al quale partecipano, per le proprie competenze, i Professori Belluzzi, Bartoli e Verdiani. Nel progetto, l’arch. Nevena Radojevic è contrattista per la ricerca su Misure e proporzioni. 2 L’arch. Niccola Matas realizzò la facciata tra il 1857 e il 1863, avendo presentato nel 1854 un progetto che venne approvato come definitivo. Prima di allora, nel 1476 il Cronaca aveva fatto un disegno e cominciato a realizzare una nuova facciata, con la porzione meridionale del basamento, in marmi bianchi e verdi. Il lavoro però era stato interrotto. Per la vicenda storica, vedi Monica Maffioli, La facciata di S.Croce, storia di un cantiere, in S. Croce nell’’800, Firenze, Alinari 1986, pp 41-79. 3 Geometria e misure della piazza di Santa Croce erano state già discusse in M.T.Bartoli, Santa Maria Novella a Firenze, algoritmi della scolastica per l’architettura, Firenze, Edifir, 2009, p. 63. 4 in effetti il rilievo ha evidenziato una misura lievemente minore (cm 22), imputabile o a inesattezze della realizzazione o a intenzioni gotiche relative al disegno della facciata. 5 Il disegno è conservato nell’Archivio dell’Opera di Santa Croce e si ringraziano l’Opera e l’Archivista Dottoressa Claudia Timossi che ne hanno permesso lo studio e la pubblicazione della foto. 6 Il dipinto che rappresenta la cerimonia della posa della prima pietra, alla presenza del Papa, attribuito al Pezzini (vedi Maffioli, op. cit., pg 75, nota 24) mostra il basamento antico non ancora demolito, di marmi bianchi e verdi come l’attuale. 7 Se gli Ordinamenti che in quegli anni furono definiti si chiamarono di Giustizia, questa non rappresentava uno degli strumenti di governo, ma il fine stesso per cui si governava

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Pagine precedenti: 5 Schemi geometrici rilevabili nel progetto di Niccola Matas 6 Schemi geometrici rilevabili nel progetto del Cronaca, secondo la copia del Matas 7 L’asse della porta centrale della facciata, sul timpano relativo Pagine successive: 8 Nevena Radojevic Restituzione prospettica di un piano verticale della facciata, a partire da un fotogramma a quadro inclinato 9 Pianta del rilievo della facciata. Da notare le misure asimmetriche, e la distanza tra l’asse della porta centrale e muro nord

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Gli angoli del timpano centrale di Santa Croce applicando la prospettiva inversa L’asse della navata di chiesa di Santa Croce dista 34,75 braccia dal filo esterno di muro nord, il che non è la metà di 69 (la distanza tra i due muri laterali a ovest). La ragione di tale misura non è ovvia, però se consideriamo i due paradigmi principali che guidano il progetto gotico, la superficie e le misure espresse con i numeri interi (argomento trattato nel testo precedente), tale misura improvvisamente trova la sua ragione. Partendo da un rettangolo di 8 staiora (69,5 x 190), togliendo mezzo braccio alla larghezza a ovest e aggiungendo la stessa quantità a quella est, si arriva a un trapezio di stessa superficie di lati espressi con i numeri interi (69 e 70). Le trasformazioni del rettangolo sono subite soltanto dal lato sud, e quindi il trapezio rimane rettangolo. Il muro nord rimane inalterato, e anche l’asse del rettangolo di partenza parallelo ad esso. Dista 34,75 braccia (la metà di 69,5), ed è ortogonale alla direzione della facciata e quella del transetto. Questo requisito progettuale dell’interno influisce anche sull’esterno, e l’architetto ottocentesco lo dissimula, mantenendo simmetriche le parti laterali della facciata a scapito di quella centrale. La soluzione della facciata di Matas obbliga la cima del timpano a uscire dall’asse della porta centrale. Il problema è posto già nel progetto, e la soluzione è conforme al disegno. La pendenza delle falde però appare difforme, maggiore nel vero di quanto sia nel disegno. Per determinarla si è fatto ricorso alla prospettiva inversa (come applicata nella fotogrammetria), individuando in un solo fotogramma gli elementi necessari ad ottenere un piano della facciata ribaltato, e tutte le pendenze in vera grandezza. Il punto principale si trova nel centro del fotogramma, integro, preso con campo visivo molto stretto per ridurre al minimo le deformazioni dovute all’obiettivo. Individuate le fughe delle rette verticali e orizzontali parallele al piano della facciata e ortogonali tra di loro, si individua anche la fuga di tal piano. Dalla condizione

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di perpendicolarità risulta possibile determinare il punto di vista ribaltato rispetto a quel piano. Possiamo determinare anche il cerchio fondamentale, cioè la distanza dell’osservatore, come risultato inverso dal ribaltamento del punto di vista da due piano diversi. In un’immagine prospettica di cui sono noti gli elementi utili, la misurazione delle pendenze è immediata, mentre per eseguire il ribaltamento di un qualsiasi piano in vera grandezza (nel nostro caso quello evidenziato in viola) dobbiamo conoscere almeno una misura per individuare la traccia (asse di omologia di riabaltamento). La pendenza delle due falde del timpano centrale, simmetriche, misura 45°, quindi il timpano è in realtà un mezzo quadrato. Il fatto che lo si osserva sempre a testa in su (quindi con un forte scorcio), impedisce di percepirlo come tale. Questa soluzione è diversa da quella dei progetti sia del Matas che del Cronaca. Le pendenze dei timpani laterali, invece, sono uguali al progetto, e misurano 50°. Dal piano ribaltato risulta evidente che il timpano parte da due punti di stessa quota (questo si osserva anche guardando), e avendo ugual pendenza nei due discendenti, il suo asse non può coincidere con l’asse della porta. La zona di stacco dei due assi è sulla cornice orizzontale del timpano, le cui mensoline sono distribuite tenendo conto dell’asse inferiore, mentre la stella esagonale al di sopra con la sua punta segna l’asse superiore. Questa incongruenza sfugge all’osservazione normale, perché il complesso movimento della sezione tende ad occultarla. Essa può essere letta soltanto attraverso la riflessione sulle strane anomalie della pianta, evidenziate dalle diverse misure dei grandi rettangoli del ‘commesso lapideo’, distribuiti con simmetria solo apparente, ai fianchi della porta. Nevena Radojevic


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Metamorfosi della soglia Paola Arnaldi

Fermarsi sulla soglia, dopo aver fatto ricadere pesantemente sul portone, la Gorgone battente che con la sua chioma anguicrinita tiene lontani gli ospiti indesiderati, sentire echeggiare nelle stanze, a risposta dei colpi l’abbaiare del cane che cerca di adeguarsi alla minacciosa immagine del cave canem dello zerbino, farsi poi introdurre da una crestata cameriera attraverso uno specchiante corridoio su cui si affacciano le stanze, nella sala dove Lari domestici ammiccano dai ritratti, orgogliosi di far notare agli ospiti, sprofondati nei divani, impreviste somiglianze, segni di continuità generazionale con gli abitanti della casa, può creare nel nuovo arrivato un senso di disagio, ma anche di pudore. Perché la casa coi suoi oggetti, numi tutelari dell’intimità domestica, le sue stanze, i suoi mobili, dal letto scricchiolante, per la presenza dei tarli, alla tavola imbandita, assolutizza i suoi abitanti rendendoli protagonisti di un ethos familiare, le cui gerarchie non sono conosciute all’esterno. Varcare la soglia significa per l’ospite entrare in un mondo di affetti e di velati conflitti a cui è estraneo e provare pudore nel “violare” un’intimità che non gli appartiene, Il pudore in questo caso ben lontano dall’aidos omerico, legato alla virtù sociale dell’aretè, lo prova chi entra nella casa, non è di chi convivialmente apre la porta, esponendo se stesso e la domus allo sguardo altrui. Nonni, padre e madre, zii, figli hanno un genere di autorità sancita dagli affetti e dagli anni che fuori dalla soglia non esiste. Ma naturalmente la casa così descritta propone un modello ottocentesco, quando ancora non si profilava all’orizzonte la famiglia nucleare, che poi con la modernizzazione si sarebbe sbarazzata dei Lari,

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di nonni e zii relegando il passato nei solai. Si è verificato un progressivo affievolirsi della soglia che avrebbe esautorato la sacralità della casa, fondata sui valori della tradizione, mentre sistemi di videocamere e di allarmi collocati in punti strategici a custodia dell’abitazione, avrebbero contribuito a conservare una specie di sacralità del patrimonio e della privatezza. Nei novecenteschi anni Settanta nuove abitudini comportamentali, che vedevano nella casa un mezzo da fruire o scambiare, avrebbero temporaneamente portato al tramonto nel costume allora prevalente questa specie di pudore nei rapporti instaurando una sorta di anarchia relazionale che è una negazione della soglia. Ma se la soglia domestica è in qualche modo il prototipo delle soglie, quest’ultime si manifestano anche in una molteplicità di forme e situazioni. Fermarsi da vivi sulla soglia dell’Ade, poiché vari sono gli ingressi dal Necromanteion della Tesprozia epirota, a Capo Tenaro e ai Campi Flegrei, significa adeguarsi a riti e sacrifici propiziatori prima dell’incontro con le anime e i loro simulacri corporei, essere assaliti da un senso di inadeguatezza, da dubbi che non sempre vengono sciolti e spesso si scontrano coi tentativi di mantenere una continuità “terrestre” come nel caso di Odisseo che tenta invano di abbracciare la madre ridotta a vana apparenza e di Dante grazie alla formula. “Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole...” Varcare la soglia significa talora essere coinvolti in un processo di metamorfosi esistenziale, diventare testimoni di un tempo non più sospeso e teso verso una pluralità di mete, ma fossilizzato nell’iterazione del contrappasso. Ma la Nekìa per i vari Odisseo, Orfeo,

Teseo, Enea, Ercole e Dante non è un viaggio senza ritorno e, ove per varcare la soglia occorreva, come nel caso di Enea un lasciapassare, un ‘Ramo d’Oro’, ovvero un ‘vischio’ che cresce nei pressi del Lago d’Averno, per l’ingresso dantesco al Purgatorio si assiste ad una spiritualizzazione di quel ramo che diventa un pieghevole giunco, simbolo dell’umiltà e dell’espiazione. La soglia può escludere, ma nello stesso tempo agevolare un passaggio, l’accesso a un’ altra dimensione. La sua duplicità la rende atta a diventare metafora esistenziale, ogni soglia implica una sospensione del tempo, mobilita i sensi nell’attesa. Spesso c’è in essa un eccesso di vitalità che trabocca nell’oltrepassarne il limitare. E senza un controllo razionale che la indirizzi ad una meta può perdersi in un panismo estetizzante, di cui D’Annunzio è un illustre esempio, o precipitare nell’abisso attratta dal fascino del Nulla e dell’Oblio. Anche i giorni della settimana possono trasformarsi metaforicamente in soglia, perché ognuno porta in sé l’attesa per il giorno dopo, ma in particolare il leopardiano sabato, che trova la sua cornice nella coralità del villaggio. E questo vale anche per gli anni alla soglia dell’anno nuovo, che dovrà essere senz’altro bello e prospero in quanto rientra nell’ignoto e, come dice il passeggero al venditore d’Almanacchi: “ Quella vita ch’è una cosa bella non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce, non la vita passata ma la futura”. La soglia può avere una connotazione religiosa e politica come accadde a Mosè, che, salito sul Monte Nebo comprese che per volere divino la ‘Terra Promessa’ sarebbe rimasta tale per lui e data ai suoi successori. Non era anch’egli membro,


seppur incolpevole del popolo infedele, adoratore del ‘Vitello d’Oro’? Doveva dunque anche lui fermarsi sulla soglia, materializzata in un monte e accettare il privilegio di poterla mirare dall’alto, Soglie violate “Scendeva dalla soglia di uno di quegli usci e veniva verso il convoglio una donna il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata…”, la donna, scrive il Manzoni, nel capitolo XXXIV dei Promessi Sposi, era la madre di Cecilia, una bambina “di nov’anni” morta per la peste e consegnata al lugubre veicolo mortuario dei “monatti”, tutta adornata come ad una festa “promessa da tempo”. La soglia introduce in uno spazio architettonico che acquista una dimensione corale: dallo stridio delle ruote sul selciato alle imprecazioni dei monatti che soffocano il lamento dei moribondi e offendono il silenzio dei morti. Entro la soglia, tra le pareti domestiche, la morte è lacerazione, dolore insanabile, fatto privato assoluto, mentre fuori rientra nel comune destino dei mortali e non ci si stupisce del suo passare, come della falce “che pareggia tutte le erbe del prato” senza distinguere i germogli dai “fiori già rigogliosi”. La morte si sarebbe presentata ancora davanti a quella soglia: dalla strada si poteva intravedere la donna che, dopo aver assolto il mesto compito si era affacciata alla finestra con un’altra bambina più piccola in braccio che portava nel sembiante, come la madre, i segni inesorabili del morbo. La sventura collettiva, la moria delle peste, aveva sconvolto l’intimità domestica lacerandola nelle sue viscere e cancellando la distinzione tra interno rassicurante ed esterno distruttivo, distinzione che aveva portato

a colpevolizzare i presunti untori ritenuti i suoi maligni responsabili.. Anche la guerra, le calamità naturali, come terremoti ed inondazioni, possono profanare le soglie e trasformare in macerie città, case e chiese che, sventrate, si offrono agli occhi dei passanti e degli spettatori. Talora dopo anni e secoli alcune vengono nobilitate come rovine, testimoni di un tempo passato e sublimate in lacrimae rerum.

sua morte accidentale era stata la causa della discesa nell’Ade di Orfeo. Ma mentre Orfeo giunto sulla soglia del mondo terrestre perdette, per eccesso d’amore, la sposa che riprecipitando negli abissi gli aveva sussurrato “Vale” per sempre, Dante, novello Orfeo, alla fine della sua catabasi nel regno dell’espiazione sul limitare del Paradiso, aveva riconquistato Beatrice perdendo tuttavia Virgilio che di sé “n avea lasciati scemi” (Purg: XXX, 49).

Soglie oltremondane “Vegna Medusa, sì ‘l farem di smalto”, così invocavano le Furie, che presidiavano la città di Dite, l’intervento della Gorgone, l’unica tra le sorelle capace di pietrificare e di impedire al pellegrino Dante di varcare la soglia delle mura della città infernale. Il fatto poi di non aver punito a suo tempo Teseo che aveva tentato di rapire la Regina degli Inferi, aveva incoraggiato altri a tentar l’impresa: Odisseo, Enea e Dante stesso che, pur protestando di non essere Enea né Paolo, il “vas d’elezione” aveva dovuto oltrepassare il varco degl’Inferi. E la prima soglia che Dante aveva dovuto superare portava incise le parole volute dall’ Alto Fattore: “Per me si va nella città dolente / per me si va nell’eterno dolore / per me si va tra la perduta gente”. Il pellegrino, preso per mano da Virgilio aveva attraversato quel regno dove il peccato da categoria morale ipostatizza gli elementi paesaggistici, quali le acque dello Stige, il turbinio dei venti, l’“aere perso” e architettonici, quali la muraglia del Basso Inferno, il torreggiar dei Giganti imponenti come le mura che cingono la senese Monteriggioni. Beatrice la ritroverà nel viaggio ultraterreno, con questa promessa l’aveva incoraggiato Virgilio così come Euridice con la

Soglie estetizzanti Varcare la soglia può metaforicamente comportare un cambiamento spirituale, ma anche estetizzante. Lo sa D’Annunzio che con la sua Ermione, “sulle soglie del bosco” si appresta a fondersi con la sostanza arborea, in totale comunione con la natura: “Taci, sulle soglie / del bosco non odo / parole che dici / umane: ma odo / parole più nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane” Lo sa la Luna della “Sera Fiesolana” che “prossima alle soglie cerule”, umanizzata nel ruolo materno, si prepara a stendere sui mortali un “velo” che protegga i loro sogni e a dissetare la campagna con il suo “notturno gelo”. Mentre per l’Immaginifico la soglia comporta un’intensificazione della vitalità sublimata in panismo, per il “crepuscolare” Gozzano (I Colloqui-Alle soglie), malato di tisi, le soglie, poste come titolo di una serie di composizioni poetiche, alludono all’attesa della Signora vestita di Nulla” che “protende su tutto le dita e tutto che tocca trasforma”. L’abbraccio della Signora si rivelerà letale: “ti svegli mutato di fuori, nel volto, nel pelo nel nome”, ma il cuore, elemento parziale in cui si concentra tutta la vitalità si ribella al passaggio, vorrebbe ancora continuare ad esistere giocondamente come un monello. Il cuo-

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re nel suo petto non è certamente una “pesca intatta” come per D’Annunzio, né “i denti negli alveoli / son come mandorle acerbe”, se c’è una naturalizzazione della sua persona, una metamorfosi arborea, questa è prodotta dai gelidi raggi d’una radioscopia che disegnano sullo schermo fluorescente le “ossa e gli organi grami” nel loro intrico boschivo di rami. Soglie e vigilie Dei sette il sabato è “il più gradito giorno”, nel canto leopardiano, perché come soglia del dì festivo portà in sé attese e speranze che poi saranno vanificate dalle disillusioni domenicali. L’attesa induce la “donzelletta” ad agghindare il petto e il crine “con un mazzolin di rose e di viole”, nella speranza di ricevere complimenti che addolciscano il cuore e la vanità femminile, complimenti che la “vecchierella”, seduta sulle scale di casa a filare, ha già ricevuto e archiviato in lontane memorie. La festa è presente nel suono della squilla, nell’ilarità rumorosa dei fanciulli che corrono sulla piazza, non c’è ancora il presagio che domani le ore porteranno “tristezza e noia” perché ognuno “al travaglio usato farà ritorno”. Il carattere eudemonico del giorno festivo scompare annullato dalla quotidianità dei giorni feriali che lo svuotano della sua assolutezza. L’unica salvezza è stare sulla soglia, risiede nell’attesa la pienezza a cui concorrono non tanto l’opre, ma gli intenti, le fantasticherie, le illusioni. Il giorno che precede il dì festivo diventa metafora dell’”età fiorita” e al “garzoncello” non deve pesare il fatto che la sua “festa”, ovvero l’età matura, tardi ad arrivare. È meglio vivere in un tempo sospeso che stenta a concretizzarsi in prassi piuttosto che, dirà il poeta nella “Ginestra”, diven-

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tare “il magnanimo animale” che “di fetido orgoglio empie le carte” e destinato a perire in una vana ricerca del piacere. Sulla soglia del sabato non compare ancora all’orizzonte lo spettro dell’”arido vero” che appiattirà il tempo dell’ attesa in un tempo senza speranza. La soglia non s’è ancora capovolta nell’orlo dell’ abisso, dove l’uomo dopo tante fatiche e peregrinazioni precipita il tutto obliando. Le delusioni, le aspettative frustrate che il dì festivo porta con sé fanno parte del destino atavico dell’uomo che passa con disinvoltura, senza un perché, dalla gioiosa inconsapevolezza alla noia perché, come nel “Canto notturno…”, sia che si sia nasca “dentro covile o cuna… è funesto … il dì natale” Soglie e Terre Promesse La soglia può anche avere una connotazione politico-religiosa: Mosè raggiunti i centoventi anni, approssimandosi il giorno della sua morte, dopo aver designato, su indicazione divina, il suo successore nella persona di Giosué, salì sul monte Nebo e da lì ebbe una visione della ‘Terra Promessa”, nella quale però egli non sarebbe mai entrato perché su quel confine pesava il divieto divino: palme, oliveti, il paese di Efraim e di Manasse, la valle di Gerico, il mare in lontananza, tutto il paesaggio riempiva i suoi occhi ormai stanchi. Il popolo eletto avrebbe finalmente finito di errare nel deserto. La visione gli viene offerta mentre sta per varcare la soglia della vita, sulla cima di un monte sul quale avviene il suo trapasso in una coincidenza: fine della vita e fine della missione. E come Anchise nei Campi Elisi, salito su un balzo aveva offerto ad Enea la visione panoramica delle future glorie di Roma che avrebbero

rinverdito il teucro ceppo, un futuro che però non gli appartiene, così Mosè sul Monte Nebo, in una sorta di preveggenza abbracciava con uno sguardo la terra della sua progenie dopo anni di cattività e di peregrinazioni degli avi, La soglia di Tantalo Adorno e Horkheimer nella “Dialettica dell’Illuminismo” affermano che l’industria culturale defrauda continuamente i suoi consumatori di ciò che promette. Il consumatore non deve mai oltrepassare la soglia del desiderio, l’appagamento deve essere prorogato all’infinito perché solo in questo modo l’industria culturale riesce a sopravvivere immettendo nel mercato nuovi prodotti. Il piacere non arriva mai alla sublimazione, alimentato dalla tensione verso la meta e dall’inadeguatezza di quest’ultima. Il rituale così creato trova il suo corrispondente nel mito di Tantalo che, nell’Ade omerico, tormentato dalla fame e dalla sete tende inutilmente le sue braccia verso rami carichi di frutta, che continuamente gli si sottraggono, e le labbra verso l’ acqua che si ritrae quando cerca di dissetarsi. Ma mentre per Tantalo la sofferenza era reale e tragica, la modernità l’ha sostituita con la frustrazione che Adorno chiama “gioviale” e che con il dolore del mitico eroe ha in comune solo il fatto d’essere permanente. Offerta e privazione diventano nella strategia pubblicitaria un unico atto in cui l’oggetto si rivela come secondario, intercambiabile e nello stesso tempo indispensabile, pronto a concretizzarsi in nuove mete da raggiungere, mentre il desiderio, destinato a rimanere sulla soglia alimenta di continuo la vita del fruitore.


Arturo Martini “L’Attesa (donna alla finestra)” 1931 GNAM Roma

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Abitate la casa e questa non crollerà, Io chiamerò un secolo qualunque Vi entrerò e in esso costruirò la casa. Arsenij Tarkovskij

Galleria dell’architettura italiana Le case di Andrej Tarkovskij - Fotografie e disegni Nostalghia della casa Quel 24 aprile del 1970, quando acquistò la casa di Miasnoe a 300 chilometri a sudest da Mosca, mio padre era un uomo felice. Scriveva: “Ora niente mi fa più paura: se non mi daranno più da lavorare, me ne starò in campagna ad allevare i maialini, le oche, a curare l’orto e li manderò tutti al diavolo!”. Per la prima volta realizzava il sogno di avere una casa propria, lontana da tutto e da tutti, dove potersi rifugiare con la famiglia dalle continue e umilianti persecuzioni dei burocrati sovietici, dalle invidie dei colleghi e dalla frenesia disordinata della città. Una via di fuga per alleviare quell’insopportabile tensione di artista incompreso, solo. La sua casa natia non esisteva più da anni. Il piccolo villaggio di Zavraj’e era stato inondato dalle acque di una delle tante dighe costruite sul Volga; l’appartamento di Mosca era rimasto alla prima moglie e dovevano passare ancora cinque anni per averne un altro per la nostra famiglia vicino agli studi di Mosfilm. Vivevamo tutti in casa della mia nonna materna. Pochi mesi dopo l’acquisto, il 18 ottobre, la casa di Myasnoe brucia. Nessuno conosce le cause dell’incendio. Di fatto rimangono in piedi soltanto le quattro mura perimetrali di mattoni rossi anneriti dal fuoco. È un duro colpo. Erano stati spesi tutti i risparmi per acquistarla e la ricostruzione avrebbe richiesto ulteriori sacrifici e lunghi mesi di lavori. Comunque mio padre non si abbatte e si lancia immediatamente nei piani di ricostruzione: ridisegna personalmente il progetto, aggiunge una terrazza e la cucina. Nel frattempo sta girando Solaris e cerca di fare uscire sugli schermi Andrej Rublev, bloccato dalla censura fin dal 1966. Infine, nell’estate del 1972 mia madre,

Larissa, parte per la campagna per dare inizio ai lavori. Ci rimane a lungo; la ricostruzione richiede una presenza continua. Deve affrontare una situazione difficile: i materiali scarseggiano, i pochi operai disponibili, corrotti dall’ignavia dell’epoca brežneviana domandano il pagamento in vodka, rubano, si presentano un giorno si, un giorno no. Lui le scrive delle lettere consolatorie con le indicazioni sulla ricostruzione, Lei cerca di finire prima dell’arrivo dell’inverno. Finalmente nel 1973 la casa viene completata. Ma mio padre continua ad apportare delle migliorie nei progetti: la mansarda, la camera per gli ospiti, la sauna... Da quando ricordo, i lavori non si sono mai fermati fino alla partenza definitiva per l’Italia dei miei genitori. Via via non appena guadagnano qualcosa lo investono nella casa, nei mobili antichi, negli alberi da frutta da piantare. Disegna continuamente, misurando le pareti con il metro e se non lo trova, con l’anulare e il pollice della mano, annota dei numeri, ci chiede dei pareri e con il martello in mano si lancia nel cantiere egli stesso. Non si ferma mai, aggiunge una stanza in mattoni, costruisce con l’aiuto di un falegname la rimessa in legno e la terrazza della sauna... Lavora assiduamente anche nell’estate del 1975, quando non riusciva a completare la sceneggiatura di un film mai realizzato: Hoffmaniana. I redattori degli studi cinematografici di Tallin esigevano il testo, lui chiedeva più tempo. Sprofonda per due mesi nella progettazione del giardino e nella costruzione della staccionata. Alla fine dei lavori, in pochi giorni scrive la sceneggiatura. Il 7 marzo 1982 mio padre lascia la Russia per le riprese di Nostalghia, mia madre lo


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segue da lì a poco. Rimangono a metà i lavori nell’appartamento di Mosca e, sui quaderni, i nuovi abbozzi di progetti per Myasnoe. Pensa di completarli al suo ritorno. Non sa ancora che non rivedrà più la sua casa. Nel 1984 dopo un’agguerrita campagna sovietica per screditare il film a Cannes, prende la decisione di non tornare mai più in patria. Riesce ad acquistare una piccola casa di caccia nel parco del Castello Brancaccio a San Gregorio di Sassola, alle porte di Roma e un terreno con un rudere vicino a Roccalbegna, un paesino medievale sulle pendici del Monte Amiata. Si lancia subito nella ricostruzione della casa di San Gregorio, dove spera un giorno di riunire

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tutta la famiglia. Riesce a completare il progetto, ma non fa in tempo di iniziare i lavori. Anche della casa di campagna a Roccalbegna rimane soltanto una serie di disegni e un primo progetto presentato al Comune per l’approvazione. Ci lavora con entusiasmo soprattutto nell’estate del 1986, già colpito dalla malattia, ma rincuorato dal mio recente arrivo dalla Russia dopo quattro anni di separazione. Discutiamo di arredi, della disposizione delle stanze, ci divertiamo a immaginare i mobili, il camino e le mura in pietra; lui disteso sul letto con il quaderno in mano, io seduto accanto con alcuni giornali di arredamento. Partirà dall’Italia in ottobre per morire a Parigi il 29 dicembre 1986.

Poche settimane prima di morire disegna sul diario con mano malferma la sua casa immaginaria di Roccalbegna, poi vi annota in russo un triste commiato “La casa che non vedrò mai...”. Mi chiedo quale sia veramente la casa che cercava di ri-costruire, che rincorreva nella sua vita e nelle sue opere. Quella dell’infanzia sul fondo del lago, edificata e ri-annientata nel “Lo specchio”? Quella di Miasnoe, che riappare con insistenza nei sogni di Andrej Gorciakov in Nostalghia o invece quelle degli eroi di Solaris, Stalker e Sacrificio? Nonostante esse vengano abbandonate, bruciate e sacrificate, rimane sempre la speranza che neanche la morte del protagonista può cancellare: la


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speranza del ritorno a una casa trasfigurata, trapiantata in una realtà altra, eterna e immutabile, rappresentata così solennemente nella scena finale di Nostalghia. Forse è una metafora di quell’ideale lontano, irraggiungibile che l’artista è condannato a inseguire, riuscendo ad afferrarne soltanto alcuni frammenti da suggellare nelle proprie opere a immagine e somiglianza della verità assoluta. Andrej A.Tarkovskij

Pagine precedenti: 1 Andrej Tarkovskij al lavoro nella costruzione della rimessa presso la casa a Myasnoe (Russia), 1975-79 2 Andrej Tarkovskij Disegno per l’ampliamento della casa a Myasnoe (Russia), 1975 (209 x 293 mm) Fotoriproduzione digitale Massimo Battista 3-4 Andrej Tarkovskij Disegni per la casa a Roccalbegna, 1986 (193 x 148 mm) Fotoriproduzioni digitali Massimo Battista Pagine successive: 5 Andrej Tarkovskij osserva la costruzione della rimessa presso la casa a Myasnoe (Russia), 1975 6 “Nostalghia” La casa russa nella chiesa italiana foto di scena, San Galgano, (1983)

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Galleria melepere Al quarto giorno non si risorge - Apologia della muffa

Galleria melepere Verona Al quarto giorno non si risorge Apologia della muffa a cura di: Stefano Rovatti Patrizia Silingardi Sonia Schiavone John C. Duncan, Adriano Persiani, Katharina Dieckhoff, Stefano W. Pasquini, Christian Rainer, Chiara Soldati, Ascanio Tacconi, Karin Andersen, Mustafa Sabbagh, Silvia Giachello, TTzoi, Matteo Serri, Silvio Macini, Otolab, Matteo Barsotti, Andrea Bruno, Irene Maccagnani, Enrica Berselli, Simone Rondelet, con la partecipazione di: FranKo B, Vicky Roditis, Dario Parisini Interzona, Mirko Fabbri, Elena Baldi Cuoghi e Corsello Installazione ispirata al romanzo Quattro giorni bianchi di Stefano Rovatti

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L’uomo rimarrebbe nel suo stato incompiuto se non afferrasse in sé la materia del cambiamento e non esercitasse un impulso di modifica autoindotto. Fraintendimento e trasformazione sono, dunque, le tematiche al centro dell’esposizione Al quarto giorno non si risorge allestita alla galleria Melepere di Verona. Con l’innesto nelle opere di un elemento parassitario non calcolabile, di struttura organica, il confronto arte-natura si sviluppa in termini di metamorfosi: da una parte, l’arte torna a funzioni di ipostasi, decodifica del falso, correzione dell’errore, grammatica dell’invisibile; dall’altro, il mondo naturale ricorda una finestra alla quale si affacciano intuizioni soprasensibili, manifeste in singoli fenomeni, ridotte a formati. L’alchimia tra le parti presuppone una conoscenza biologica della natura, un percorso di impianto scientifico, ma di nuovo tipo, pienamente artistico, oggettivo, di nuova creatività. Arte e scienza cessano di imporre dogmi. La fantasia diventa uno strumento rigoroso. Non è più basata sul gusto o sull’arbitrio soggettivo. In questo senso, l’esperienza sensoriale della muffa è spesso fuorviante. Come fenotipo micotico, la muffa è strettamente vincolata a un modello di corrispondenza morfogenetica tra i quattro elementi naturali: a ogni aspetto della vita corrisponde una concreazione spontanea, una logica e adeguata configurazione espressiva. Queste dinamiche agiscono una sull’altra, compensandosi a vicenda, risultante che opera solamente attraverso un rapporto di reciproca influenza, diretto a nuovi archetipi di equilibrio, orientamento, quiete e movimento, immanenza geometrica, forza deconsolidante del buio,

spazio inteso come contrazione, punto di rottura. La muffa delimita un topos in cui non sussiste estensione attuale delle cifre costitutive della realtà, una soglia dalla quale è possibile deconfinarsi soltanto all’estremo della capacità di trasformarsi in nuovi esseri viventi, di cambiare, inoculando l’identità vitale in un nuovo DNA. La soglia è verticale, non è orizzontale. È trascendentale. Si può scavare sotto, scavare indietro, scavare nel passato, ma non scavare sopra, avanti, nel futuro. L’archeologia del prima, del sotto, non corrisponde a un’equivalente tecnoscienza del sopra, di uno stato in progress, successivo. Come container installativo, quella che al quarto giorno non risorge, è la figura umana. La forma dell’uomo sparisce. La muffa resta. La sintassi umana sopravvive in residui mnemonici. La storia, resa effimera, diventa un simbolo. Da qui, talvolta, appare una luce che respira, che talvolta accieca. È chi osserva se stesso nella propria realtà. Questa realtà dell’io non è rivolta all’esistenza pregressa dei singoli individui. Ognuno vi rientra di nuovo quando, con volontà dedita alla ricerca, ripassa ancora la porta della morte. Stefano Rovatti


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letture

Francesco Venezia Che cosa è l’architettura Lezioni, conferenze, un intervento Electa, Milano, 2011 ISBN 978-88-370-8661-9 Nella densa notte di tenebre “ond’è coverta la prima da noi lontanissima antichità”, appare “un lume eterno, che non tramonta”, una verità “che non si può a patto alcuno chiamar in dubbio: che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini”. La certezza del filosofo napoletano Gian Battista Vico pare illuminare questo libro di Francesco Venezia, che si apre con la citazione di un bellissimo passo delle Confessioni sul tema della memoria. I “campi” e i “vasti quartieri” evocati da Sant’Agostino sono il luogo dell’affermazione e ri-affermazione dell’uomo attraverso la storia, il terreno fertile di ogni futura rinascita. Per questo Venezia riconosce un’importanza fondamentale alle rovine, alla natura poetica della loro universalità, ricordando la capacità che esse hanno sempre avuto di conseguire una “nuova o diversa bellezza”, prima che si consumasse la “separazione fatale” tra l’architettura e la recente disciplina dell’archeologia. Attraverso una sequenza di brevi lezioni e conferenze, l’autore ci accompagna in un “viaggio della mente verso l’antico, verso un tempo dai vaghi confini”, alla scoperta dei “tesori” dell’architettura che hanno ispirato il suo lavoro e il suo pensiero: il mondo degli antichi egizi o degli etruschi, i templi greci, le grandi architetture dei romani, l’opera di Palladio, Schinkel, Le Corbusier, Mies van der Rohe. Questo viaggio è anche l’occasione per tentare di recuperare alcuni principi fondamentali su cui dovrebbe fondarsi il lavoro dell’architetto e che paiono oggi dimenticati o perduti: il controllo dell’orizzonte (l’infinito leopardiano) attraverso l’estetica delle “menome cose” e la sua capacità di suscitare “vaste e profonde risonanze”; il controllo della luce e delle ombre nel continuo oscillare dell’architettura tra la fissità di precisi rapporti geometrici e matematici e l’imprevedibile “evolversi dei mutevoli equilibri dell’aria”; il rapporto dell’edificio con il suolo, che significa intendere la progettazione come “connaturata al mondo della stratigrafia”, costruire su una solida base, concettuale prima ancora che fisica. O per conoscere alcune delle opere più interessanti di Francesco Venezia, progetti realizzati o architetture assenti, il suo non finito. Alberto Pireddu

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AA.VV. Fin dove può arrivare l’infinito? - a Luigi e Paola Ghirri Skira, Milano, 2012 ISBN 8857215389 Nel saggio di introduzione, Fin dove può arrivare l’infinito? - che da il titolo al libro - Giorgio Messori ricorda come Luigi Ghirri fosse affascinato da un racconto di Fernando Pessoa contenuto ne Il libro dell’inquietudine. Lo scrittore racconta di trovarsi in un tram e, fissando con calma il ricamo sul colletto di una signora dinnanzi a lui, pensa al mondo che vi è dietro un semplice dettaglio insignificante; scendendo dal tram, gli sembrerà di aver vissuto una vita intera. Fin dove può arrivare l’infinito? è un libro dedicato a Luigi e Paola Ghirri. È un tributo, un omaggio, che persone diverse - legate alla coppia da un rapporto di amicizia, professionale, o semplicemente mediato da opere artisticamente affini - offrono alla loro memoria. Non si tratta di un libro scientifico o di una semplice raccolta di immagini a catalogo. Con l’esclusione dei saggi di apertura (Giorgio Messori) e di chiusura (Arturo Carlo Quintavalle), è un libro composto soltanto da immagini e brevi pensieri, talvolta aforismi, chiamati a svelare un particolare stato d’animo o una semplice interpretazione. Ogni pagina rivela una lettura diversa: dal confronto, ad opera di fotografi che pubblicano un loro scatto, al commento di una foto di Ghirri, ad opera di amici e intellettuali. Ne emerge un singolare racconto nel quale la lettura per immagini si fa memoria; l’immagine non è che una rappresentazione del reale nel tempo - tempo del ricordo. Ogni pensiero entra in una relazione intima con lo scatto del fotografo e, come uno sguardo fugace, ne coglie un dettaglio o una suggestione. Oppure si potrebbe persino pensare a questi brevi pensieri come lo spazio oltre l’inquadratura nel quale l’immagine si rivela. Si costituisce, così, un doppio confronto tra la profondità dello sguardo del fotografo e l’intimità di colui che si rapporta ad esso. Le fotografie di Ghirri rappresentano la semplicità del mondo, la semplicità disarmante del quotidiano: basterebbe conoscere ognuna di esse per conoscere Ghirri stesso. Basterebbe percorrere il suo semplice universo e stringere legami con ogni luogo: ascoltare, nella voce di un luogo, la voce di tutti i luoghi. E, come scrive Pietro Citati ricordando Pessoa, basterebbe «affermare e negare e tornare ad affermare, a negare e a riaffermare l’infinito, e poi balzare oltre di esso, nel regno dell’ineffabile, con un’ironia ininterrotta. Dobbiamo abituarci a vivere nelle periferie, nei tramonti, nei terreni mobili, dove la verità ha il volto dello specchio che accetta e annulla con la stessa luce migliaia di punti di vista». Emanuele Ghisi


Fabio Capanni Spazio, Luce, Architettura Noèdizioni, Forlì, 2009 ISBN 978-8-8897665-3-8

Luisa Lambri ‘Interiors’ Ivorypress, Madrid, 2011 ISBN 978-84-938340-7-4

Cominciamo dal titolo, dove la luce sostituisce il tempo della nota triade di Giedion. È un’acquisizione ancestrale, che precorre empiricamente tutte le astrazioni fisico-matematiche successive, quella per cui la luce è misura del tempo. E l’architettura, come costruzione umana che sfida il tempo e la caducità terrena in un difficile equilibrio tra spirito e materia, è tanto più vicina allo spirito quanto più stretto è il dialogo con la luce e il suo eterno ciclo. Non, dunque, una banale sostituzione di vocaboli ma una dichiarazione programmatica rispetto alle questioni fondanti del progetto d’architettura. Frutto di alcune esperienze didattiche condotte all’interno del Laboratorio di Progettazione della Facoltà di Architettura di Firenze, questo breve saggio corale sulla luce è significativo di come sia possibile, oltre che necessario, dar vita a “una sorta di virtuosa circolarità” tra ricerca e insegnamento. Il risultato di tale impegno è efficacemente rappresentato da dieci progetti – descritti da semplici disegni in proiezioni ortogonali e da suggestive fotografie dei modelli – che per la loro evidente natura sperimentale hanno il pregio di essere insieme punto di approdo della specifica ricerca e base di partenza per ulteriori riflessioni progettuali. Dieci stanze fatte di luce, che riescono ad esprimere il concreto valore poetico di questa materia impalpabile. Perché di materia e di materiale si tratta, al pari della terra, della pietra o del cemento, come i grandi architetti sanno bene. Nello scritto introduttivo Capanni indaga e approfondisce questo concetto sviluppandolo attraverso un confronto tra epoche e personalità diverse (Abate Suger, Michelangelo, Bernini, Le Corbusier), dal quale emerge che, come qualsiasi materiale da costruzione, anche la luce può prendere forma e dare forma a sua volta, partecipando così alla definizione dello spazio, nella geometria e nel significato. Ma come il mattone ha bisogno della malta e il calcestruzzo della cassaforma, la luce prende corpo quando unita al suo opposto perché, scrive l’autore, “dove la luce e l’ombra si sfiorano, lì sta l’inizio e la fine, lì nasce l’architettura”. Francesca Mugnai

“Una delle prime fotografie che ha attirato la nostra attenzione era un’immagine che raffigurava una scala, una ringhiera ed una parete di vetro di un’opera di Mies Van Der Rohe. Non era una fotografia di una stanza importante della casa ma piuttosto un’immagine con una qualità quasi non intenzionale. Era una foto che catturava il classicismo di Mies in modo potente; quasi che l’autrice avesse fotografato un’architettura classica italiana.” Così Sejima e Nishizawa nelle note finali del catalogo della prima mostra dedicata all’opera di Luisa Lambri, svoltasi alla galleria Ivorypress Art+Books Space I di Madrid nel 2011. “Non giudicare il libro dalla copertina...” così l’adagio. In realtà sin dalla copertina il catalogo si presenta con una veste grafica raffinatissima. Una perfetta anticipazione del carattere etereo ed allo stesso tempo concettualmente solidissimo dell’opera di Luisa Lambri. Artista italiana premiata alla Biennale di Venezia nel ’99 che, muovendo da una cultura umanistica (ha studiato Lettere e Filosofia), si è affermata come una delle più intriganti interpreti della spazialità architettonica moderna e contemporanea. Interni di opere conosciute che Luisa fa proprie in un modo tale da renderle praticamente non più riconoscibili; astraendone temi formali o -al contrario- individuandone (per citare Barthes) il punctum. L’aspetto determinante, la chiave di senso, la parte che identifica il tutto. L’esempio più chiaro di questo aspetto di radicale sottrazione praticata in nome della massima densità di pensiero sono forse gli scatti che Lambri dedica all’atrio del Centro Gallego de Arte Contemporanea, ritratto (o meglio autoritratto, giacché Lambri sostiene che le sue fotografie non sono tanto foto di architettura ma selfportaits) nel punto di attacco fra le geometrie dei due principali corpi di fabbrica. Plasticamente disponibile alla variazione della luce, registrata mediante la sequenza di un medesimo scatto che inesorabilmente documenta il mutare delle ombre. Il catalogo presenta altri piccoli film, come quello straordinario che ha per protagonista il soffitto dell’atrio del Teatro Regio di Torino di Mollino. Quasi una danza di luce e di ombre. Ma stiamo compiendo un errore. Indotti dalla deformazione professionale assegniamo un autore ed identifichiamo un’opera a fotografie che rigorosamente non hanno titolo. Untitled questo il titolo delle opere di Lambri. È dunque questo lo scarto che rende stranianti queste bellissime, laconiche, vedute di interni di architettura. Senza titolo, perché Lambri compie un viaggio dentro al modernismo eroico edificando in realtà la sua casa ideale. La sua casa come sé, il suo autoritratto o diario di un viaggio sentimentale, Una bella intervista di Massimiliano Gioni all’artista chiarifica questa posizione particolarissima di costruzione per sottrazione. Altri saggi (sempre pubblicati in inglese e spagnolo) di Adriano Pedrosa, Douglas Fogle e Walead Besthy, completano questo prezioso libro. Andrea Volpe

Eleonora Mantese La testa nel muro. Scritti e appunti The head within the wall. Writings and notes Canova, Treviso, 2012 ISBN 978-88-8409-267-0 Nei primi aforismi di Arturo Martini si legge “L’opera d’arte è una fuga che va all’infinito e che bisogna fermare per chiuderla: questa si chiama composizione. Questa fuga va in tutti i sensi, destra sinistra alto basso avanti e indietro; scolasticamente questo si chiama prospettiva o profondità, ma nell’arte vera questo è spazio”. La raccolta di scritti di Eleonora Mantese - che di Arturo Martini porta l’immagine della Veglia in copertina - cerca quella profondità capace di fondare la riflessione teorica in architettura, superando lo schermo delle mutazioni “epidermiche” e della superficie degli edifici, che pare oggi questione dominante. E lo fa disegnando una fuga che si inoltra, attraverso la ricerca, all’interno dello spazio architettonico. Gli scritti, suddivisi in tre sezioni (Trasmissioni disciplinari, Geografie architettoniche, Modi di lavorare), si rimandano a distanza, si concatenano in corrispondenze e lontananze di memorie e geografie; fuga di pensieri e di progetti, raffinato sistema di affinità elettive e misurate distanze. La testa rompe il muro per guardare oltre le forme dell’apparenza e affermare, oggi con sempre maggiore urgenza, la dignità del lavoro dell’architetto, che è laborioso mestiere calato all’interno dello spessore della realtà e non esercizio ovvio né operazione automatica. Qui si sente la responsabilità di chi intreccia pratica del progetto e riflessione teorica con la trasmissione didattica, intesa come educazione dello “studente architetto” alla “consapevolezza di complessità critica”. Dalla trattazione di questioni di fondo - carattere, tipologia, linguaggio - si passa allo sviluppo di temi dominanti - astrazione, traduzione, metafisica - attraverso opere o luoghi emblematici, per procedere allo studio e al commento di lavori e idee di Rafael Moneo, Andreas Brandt, Silvano Zorzi, Carlos Ferrater, Gianugo Polesello. Delle architetture è indagato il processo o - per dirla ancora con le parole di Martini - il “tanto travaglio” degli autori, nella tensione verso l’anonimato e l’atemporalità dell’opera. Insieme a Isolario domestico. Progetti da abitare e a Abitare con. Ricercario per un’idea collettiva dell’abitare, il volume va a costruire un trittico a cura della stessa autrice, definendo un arcipelago - l’archipélagos che per Massimo Cacciari è “luogo della relazione e del dialogo, del confronto tra le molteplici isole che lo abitano”- mosaico di progetti, di prototipi per nuovi modi di abitare, di identità domestiche segnate dal volto dei propri Lari, di figure scomposte e ricomposte, di architetture indagate e analizzate. Non è una realtà univoca e predeterminata quella che i tre libri insieme delineano, ma la traccia di un pensiero esplorante aperto a composite connessioni. Carlotta Torricelli

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Architecture on the threshold by Emanuele Lago (page 16)

Standing on the threshold of a building is at once standing inside the building and outside it. The threshold is the meeting point of the building and what is other than it: the other buildings, open spaces, green meadows and streets that the building exists with. This meeting is more accurately a weaving together of the indivisibility of the building in its unity and its sharing its significance with what is other than it. The determinateness of the building, of this building, is its unity – this standing by itself – which relates itself with the other’s determinateness and includes it in itself as constitutive of its own signifying and its own being thus determined. It is at once its loneliness and its sharing itself with what is other. This is the weaving that the threshold talks about, the weaving together of the building’s standing by itself and its including in itself the other with which it relates and without which it would not have the meaning it has. Since its beginning, western thought has avoided thinking this weaving and has dissolved the moment of unity from the moment of inclusion of what is other. Thus dissolved, unity has been made absolute (ab-soluta) and seen as the sole origin of the determinateness of what is determinate. It alone confers on what is determinate a certain figure, a certain aspect and a certain con-formation. The Greek word for “form” is eîdos, that is, exactly, the aspect of what is in sight, what allows it to be in sight. The eîdos is not the eídolon, the image as the thing that appears and is experienced, but what makes the image con-formed, what makes it a determinate existence – a determinate being. To put it differently, the eîdos is the what-is-it [whatness, quidditas] of the thing, its essence. As such – to Greek thought and to Western culture, which has developed from it – it allows the thing to have determinateness and be fixed in a figure. Plato calls this essence idea and, it its absoluteness, thinks it as the immutable and immutably established origin of all sensible determinateness. The unity of the idea lies at the foundation of the dimension of the many sensible determinates, the degree of whose determinateness depends on the degree of their ability to participate in that unity. The whole of the Western philosophical tradition moves inside this pattern (which obviously does not account for the complexity of the development of traditional thought along the dual paths traced by Aristotle and Plotinus). And it is inside this pattern that human production (as the bringing forth of things) is thought and its meaning established. Let us go back to Plato again. This is how he defines production in the Symposium: “every cause [aitía] due to which every thing passes from not being to being is production [poíesis]; accordingly, the operations depending on all techniques [téchnai] are productions and their demiurges are producers”.1 Passing from not being to being is passing from not having a determinate configuration to having one. But production, to Plato and after him to the whole of Western thought, is not simply this passage, but the cause of this passage. It is this passage as caused, led, brought forth. Pro-ducing is leading (duco) the passage by bringing forth (pro-) the thing which, through this passage, acquires a certain determinateness and is thus capable of being in sight. This production which leads the passage is the téchne, whose operation is therefore essentially “poietic” (in Die Frage nach der Technik Heidegger writes that the “téchne belongs to bringing-forth, to poíesis; it is something poietic [Poietisches]”).2 But how does the téchne lead the passage? By looking at the idea and con-forming to it the many it produces. The téchne wants to harmonize the passage so as to make the dimension of the many the perfect imitation of unity. It inhabits the place of the many to arrange and pattern it in conformity with the Principle (arché). In this sense, according to the tradition of our culture, production is essentially architectonic, since its téchne conforms with the arché – it builds the harmony-tobe-inhabited by looking at the Principle-to-be-imitated (perfectly in line with this, L.B. Alberti states that the art of building is the supreme productive technique, i.e. the essence of producing). Only if the thing is produced in conformity with the Principle – if it is composed solidly – is it beautiful. Kalón is precisely what is well-built, what has been made solid and solidly determinate through good construction. It is beautiful because it stands. But it stands because it is solidly produced, and it is solidly produced because it is produced in conformity with the Principle and, inscribed in its own order, appears in all its decorum (to the Greeks decoration was kósmesis, the giving of order – kósmos – to materials to make them stand well, i.e. to make them stand according to their appropriate correspondence with the order of the Eternal). This is the way in which our tradition has thought the determinateness of the determinate and, in the light of it, the meaning of our bringing forth of things. And yet this way is doomed to failure. What is doomed to failure is the traditional attempt to think the determinateness of the many upon the foundation of the One and as derived from It – and, accordingly, the significance that such thinking attaches to poíesis. This failure gradually comes to light as the nature of the Principle as foundation is highlighted. For if to traditional thought the Principle is capable of originating the many as icons of Itself while remaining transcendent with respect to them, what gradually comes to light during the modern and contemporary ages is that to the extent to which the Foundation is independent of the many that It originates It will always exceed them and can never translate Itself into figures;

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conversely, to the extent to which the Foundation leans towards the many there is no way It can remain transcendent with respect to them, but It will find in the many the place of Its authentic inhabitation. On the one hand – the hand which holds steady the independence of the Principle – what is shown is the impossibility for the Principle to give Itself in the thing. And thus the impossibility for the work of production to correspond to the One. This is the great theme of 20th-century painting, which represents (“presents as a figure”) the Principle’s figurelessness, Its essential otherness with respect to all figures. In his blue monochromes, and even more radically in his anthropometries, what Yves Klein testifies to in the most extreme manner (even more extreme than Malevic’s, for “Malevic actually had the infinite before him [that is, he wanted to represent it] – me, I’m inside it”)3 is precisely this non-representability of the One. He does so by pushing the liberation of artistic production from the bonds of the figure as far as the limit of non-production: “To be honest, what I’m after, my future development, the solution to my problem, is getting to doing nothing at all, as quickly as possible, but consciously, warily and cautiously. I’m simply trying to ‘be’. I’ll be a painter. They’ll say of me: he’s the ‘painter”. And I’ll feel I’m a painter, a real one, because I won’t paint anything at all, or at least I’ll seem not to. The fact of ‘existing’ as a painter will be the most ‘extraordinary’ pictorial work of our times”.4 On the other hand – the hand which allows the One to lean towards the many – what is shown is the impossibility for the Principle to abstain from the thing. And hence the necessity for production to have no pre-established order conditioning its work, since it is through production itself that that order must be built and the world made secure and stable. Thus unchained, i.e. freed from the fetters of the divine order, the téchne of our time is driven by this will to make everything stable and safe. Now, if the contemporary age is the theatre of this cleaving of the traditional pattern (but what has been said here about this cleaving is not yet the culmination of what needs to be said about it), inevitably it is at once the theatre of the cleaving of architecture, of which, as we have seen, that pattern has formed the bedrock. If architecture wants to be a téchne it must renounce the arché and change into the engineering-functional production of “machines for inhabiting”; if it wants to be faithful to the arché it must give up being a productive téchne and inhabiting the world by taking possession of it (in all consistency, Klein imagines an architecture of the air, which is totally immaterial and totally inhabitable). This is the drama of contemporary architecture, cutting across all its vicissitudes and movements. Faced with it, all attempt is naïve that aims to save architecture and ward off its end by bringing it back to the traditional pattern, for it is exactly because of the rupture of this pattern that contemporary architecture is living its drama. But the crisis of tradition opens up the possibility to think what in the course of tradition has remained hidden and unthought: the determinateness of the determinate as the weaving together of the standing by itself of its unity and its being open to what is other than it. As tradition recedes, so does the hiding it has imposed upon the most appropriate meaning of all determinateness, and there opens up the time of the thought of the weaving, which brings with it a radically different meaning of architecture. And if the threshold speaks of this weaving, will it not be apt to say that what lies in store for architecture is the time of its standing on the threshold? 1

Plato, Symposium, 209 b. M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze (1957). For an English translation of the lecture in question (1950) see http://72.52.202.216/~fenderse/Technology.html. The quotation is from p. 9. 3 Y. Klein, Verso l’immateriale nell’arte [Towards the Immaterial in Art], a collection of writings including some unpublished material, ed. by G. Prucca, ObarraO Pub., Milan 2009, p. 63 (our translation and emphasis). The piece containing the quotation belongs to a set of texts grouped under the title L’Aventure monochrome, the first part of an editorial project entitled Mon Livre, conceived by Klein as early as 1959 but never published. 4 Ibid., p. 127 (our translation). The passage quoted is from Le Vrai devient Réalité ou Pouquoi Pas!, the first text of L’Aventure monochrome. 2

Translation by Attilio Favaro

Luisa Lambri_Mirror portraits by Andrea Volpe (page 22)

“I’ll sit here one more minute. It’s as if I’d never really noticed what the walls and ceilings of this house were like, and now I look at them greedily, with such tender love.” With these words, full of regrets and memories, Lyubov Andreievna Ranevskaya says her last goodbye to the family’s estate in the last act of Chekhov’s ‘The Cherry Orchard’. A line Luchino Visconti would quote precisely in a 1943 article to explain his ideas concerning an ‘anthropomorphic’ cinema better. A few years later Visconti merged his passion for theatrical plays and movies perfectly, transforming the first sequence of ‘Senso’ (1954) into his personal poetic manifesto. Shot in Venice’s opera house, La Fenice, during a performance of Il Trovatore, this powerful scene shows literally how cinematic reality can easily be turned into melodramatic action.


Using a long travelling shot, Luchino Visconti alters the perspective of Countess Serpieri’s story; from now on it will be seen from the singers’ point of view. Or, to be more precise, Visconti metaphorically framed the movie through the proscenium arch: a threshold where the Apollonian and Dionysian form a dynamic balance. If we were asked to think about Visconti in terms of architecture we could define his body of work as an endless exploration of that thin border: a magic, immaterial, space where movies and plays, piazzas and Italian opera house stages blur into one another. Who is acting on the stage and who sits in the seats? Visconti’s cinema lives in such ambiguous passage, where Neorealism can meet the Classical epos without any contradictions. Apparently unaffected by the influences of the past, yet nevertheless seeking a striking abstraction of reality, Michelangelo Antonioni explored a similar symbolic territory. Among many well-known features, one might think of Blow up (1966) as his strongest conceptual statement. In one of its most famous scenes, the protagonist Thomas (David Hemmings) looks at printed and enlarged images looking through a magnifying-glass for a revealing detail. A few minutes later, Antonioni shoots almost the same sequence, but with an unexpected ending. The photographs are still seen using a subjective shot, but this time, the sequence ends with a sudden jump cut. The photographs are now shown beside Thomas, who is still looking at them. Through this editing choice Antonioni seems to suggest the existence of an outer gaze, independent from the subject itself. Just as in Visconti’s opening scene from Senso, the questions remain the same: who is watching whom? Who is really seen? Today, Luisa Lambri is one of the most famous Italian visual artists. Recognized in the 1999 Venice Biennale, Lambri takes photographs and shoots short films in silent architectural spaces which are often labeled by critics as Non-places. This is not correct. In Lambri’s work there is no room for reference to Marc Augé’s and his transient places. To a careful observer, Lambri’s photographs of apparently anonymous interiors, show fragments of famous works of architecture designed by celebrated modernist Maestros or famous contemporary architects. Rooms, hallways and windows are transfigured by Lambri into enigmatic landscapes,sometimes lit by a vaporous light, sometimes obscured by a dense darkness. In her pictures, Lambri avoids the human figure, yet these spaces are not deserted. One can feel a presence and a breath there, like on an empty stage. Lambri’s images echo the lines of the play just ended, or which is about to begin. “Architecture is not properly the object of my interest […]. In architecture, I try to find a personal acknowledgment. The same acknowledgment one can find in a mirror. To me architecture is autobiography and the pictures of the places are self-portaits.” Luisa Lambri doesn’t experience architecture in the same way as those who design, build, or publish it in architectural magazines. She lives/inhabits/shoots pictures of architecture by simply becoming part of it. Lambri’s references are, after all, clear: Cindy Sherman and Francesca Woodman, two artists who transform themselves into someone else while remaining themselves. This is true especially for Woodman’s self-portraits, where the artist literally becomes the space she experiences, such as windows or a wall. Somehow celebrating her relationship with space, reducing the distances and the borders which separates a body and its environment. Metamorphoses of a body into architecture: this is the legacy Lambri seems to explore in her work. It is an autobiography written through hundreds and hundreds of images of rooms that have become self-portraits. Fluctuating between subjectivity and objectivity; between outer self/inner self; between Chekhovian emotions and intellectual abstraction à la Antonioni. “It’s something that all directors have in common, I think, this habit of keeping one eye open to what’s inside, and the other open to the outside world. At some point, the two kinds of vision approach one another, and, like two pictures that are set on fire, they mingle and intertwine. This is the relationship between the eye and the brain, between the eye and instinct, between the eye and a conscience which is pushed to say something, to show something”1 “I am your mirror”. This is the title of a series of small art pieces by Elke Krystufek, an Austrian artist often cited by Luisa Lambri as the latest point of reference for her work. We could say that Lambri’s images works like mirrors as well, where the artist’s gaze continuously overlaps the gaze that is returned by architecture, which now is conceived as a body itself. Her photographs, like mirrors, are observers through whom the artist is seen to look. These mirrors, or Miradores, are pointed towards the interior landscapes built by Terragni, Mies, Aalto, Neutra, Schindler, Barragàn, Niemayer, Johnson, Mollino, Siza, Campo Baeza, Sejima/Nishizawa. Houses that Luisa Lambri uses to build her own private, intimate, home: a building made of fragments which form a long-take in which the mutations of the light, the passing of the time, its infinite duration, are measured. It is well known how Le Corbusier used to publish his own architecture images on L’Esprit Nouveau magazine. All the photographs were edited and heavily post-produced in order to make them lose all relationships with the real building. These images were then used by the Swiss architect as a manifesto and a conceptual statement. In a similar way, Luisa Lambri pursues the same goal, shooting images that work like a threshold: open towards a self-reflective experience of space, telling us that we, too, can pass through the looking-glass. 1

Michelangelo Antonioni, Prefazione, in Sei film, Einaudi, Torino, 1964, p. IX

Alberto Campo Baeza

On the threshold of beauty by Alberto Pireddu (page 30)

“What should painting reveal? Where is the revealable authenticity?” wonders Kazimir Malevich in his famous essay La lumière et la couleur,1 from his Carnet B (1923-1926), which was born like a collection of notes for a lesson to his Inkhouk students. The authenticity of revelation, he replies, is not an idea which lies inside or outside ourselves, but it is in a place where a “third thing” is created from the reaction between what is inside us and what is outside us. Authenticity is the revelation of this ‘interregnum’. The aim of pictorial essence is to show this idea in its integrity, beyond any figuration or attempt to represent a simple impression of things: the principle of a new form, which the painter gives back to space and time, fixing it on the canvas through an exact physical measure. Light, colour and matter are fundamental elements of the intermediate analytical moments which bring about its revelation: the light, as a physical phenomenon – light which, through a water drop, gives life to the division of reality into colours – but also light as a metaphor, the light of knowledge; the colour, with its changeable and elusive intensity; the matter as a chemically purified substance (the pigment) which, set in an ever changing spatial relationship, engenders diversity. But they do not represent anything and they do not exist until light has been thrown over the idea. ‘To reveal’ means, in Malevich’s words, ‘to approach’ something which is far from conscience in space and time, to reach an absolute separation of the substance and an explanation of all the circumstances of reality. To reveal the light – the painter’s eternal ambition – means, therefore, to give a formal construction to phenomena, “to give back transparency to the sun and the earth”, do not represent them on every ray on the canvas. A profound nihilism is the distinctive feature of Malevich’s text, which continues: “there is no light whose function is to reveal the truth; it is an impossible task to reveal its splendour, either”. Nonetheless he vigorously stresses the importance of ideas in the creative process and this fundamental importance can be also found in Alberto Campo Baeza, who thinks architecture is, above all, a constructed idea. It’s a complex idea, a synthesis of real factors – the context, the function, the composition, the construction – which transforms itself into real shapes, whose measures correspond to human measures, and whose ‘poetic’ accuracy is set, scale, proportion and essentiality. Shapes of an architecture that traces his fundamental themes in the gravity and light, as capable of “constructing” space and time. Light is, for Campo Baeza, “the force of lightness”, the unavoidable material with which the soul of tension can be lent onto space, creating a bond between architecture, man and time. Its control is, once again, a matter of precision, as can be seen in the intense chiaroscuro of the Romanic, in the dramatic, ascending transparencies of the Gothic, or in the vibrant atmosphere of the Baroque, which are often quoted in his writings. That precision can also be traced in the polished theories of Daniele Barbaro who, commenting on Vitruvius, detected in the sciographia the third component of architectonic drawing, together with the icnographia and the ortographia, instead of the too vague scenographia.2 The “certainty” of white is the “solid” and “valid” base of this luminous distillation: white is the place where diversity is undetectable, the symbol of an unchangeable substance which lies beyond form, time and space and in which silence, simplicity and beauty merge the one into the other. Beauty is, after all, the ultimate goal of Alberto Campo Baeza’s research who, like Plato and Saint Augustine, discovers in it “the splendour of truth” and turns Malevich’s declared impossibility into the consciousness of a difficulty. Following in the footsteps of Adriano, Bernini, Mies van der Rohe and, not least, his masters’- Alejandro De la Sota, Francisco Javier Sáenz de Oiza, Miguel Fisac e Javier Carvajal – the architect from Cadiz sets off on the dangerous, revolutionary road of beauty. Much of the importance of his work lies in this quest, which strongly opposes the mediocrity of much of the contemporary architecture. Between two Cathedrals The place chosen by Campo Baeza to build this light and tectonic architecture is a void between the apse of the Catedral Nueva and the facade of the Catedral Vieja in Cadiz, on the external side of that patch which the Phoenician chose as an extreme outpost of the West. A white platform, built on an ancient pre-existing archaeological site, defines an elevated square, which can be reached through a lateral ramp, a mirador, a viewpoint for the ocean and the horizon. On it, there are the three spans of an essential shelter from the rain or the sun. Set along the Campo del Sur and ideally hanging on the sea, like the adjoining Basilica of Santa Cruz sobre las aguas, Campo Baeza’s work evokes a double “in

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between” condition: set between two churches, alternate guardians of the Bishop’s cathedra, lying over a now vanished forma urbis, it finds its right collocation in the space and time of the town. With the delicacy of a temporary architecture, whose frail steel frame calls to mind the canopy of an ephemeral station of the Cross, during the Holy Week. Casa De Blas, Sevilla La Nueva, Madrid A stereotomic earthwork, lying on the slopes of a hill near Madrid, contains the most private spaces of Casa de Blas, following a precise functional distribution, which sets the main rooms towards the valley and the service rooms toward the mountain. Its extrados is a viewpoint on the sierra, marked by the presence of a small swimming pool and a crystal box; the latter is covered by a light white steel frame, which is accessible by a stair from the house below. “There is magic in the play between roof and platform”3 wrote Jørn Utzon in his 1962 essay Platforms and Plateaus: Ideas of a Danish Architect, and the amazing sketches that come with his text seem to confirm that: light roofs (sometimes cloud-like) hover above earthbound platforms, and the void between them is laden with meaning. With the construction of a tectonic structure over a solid podium, Alberto Campo Baeza reasserts his pursue of a dialogue between “the culture of the light” and “the culture of the heavy”.4 The sketch that synthesizes the project of Casa De Blas represents a void between a hovering roof and an inhabited volume rooted to the ground. There is really something magic in this space, in the serene proportion of its measures, in the transparency and intangibility of his bounds, with the countless mirroring shades of the stern, strong inland Spanish landscape. 1 Kazimir Severinovich Malevich, La Lumière et la couleur: textes de 1918 à 1926, L’Age d’homme, Lausanne 1981. 2 It refers to the three Vitruvian editions, edited by Daniele Barbaro: Venice 1556 (Italian); Venice 1567 (Latin); e Venice 1567 (Italian). 3

Jørn Utzon, Platforms and Plateaus: Ideas of a Danish Architect, “Zodiac” 10 (1962), p. 113-123. Kenneth Frampton, Tettonica e architettura. Poetica della forma architettonica nel XIX e XX secolo, Skira, Milano 2005, p. 278.

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in Italy it is conceivable to make possible such a strong and radical authority of contemporary architecture that it can edit, as in the case of the project for the Firmiano Castle, the entire history of an iconic monument. From the architectural point of view the operation is in the more difficult field for architects: the comparison with the ancient. Which although not an ancient architectural value of this from having to be considered untouchable, is itself one of the most famous monuments in the Bolzano territory and sympathetic from more than a thousand years of the flat landscape of the town. Tscholl wisely chooses to turn to its advantage this apparent adversity working as an engraver on ancient ravines and gaps in the existing structure. Create a real machine addressed to respect, even complicit itself, a deliberately simple museum program. As simple as the thought of its founder, Reinhold Messner, who slowly faster in the carrying out his every extraordinary enterprise wants to give us his feelings towards the mountain. Stone and steel are the project materials. Antiquity and modernity would be more correct to say that compared to complement each other. A practical dialogue that takes shape through the necessary technical aesthetics and nothing more. Only glass, rare where necessary, is used almost as different support, just to emphasize the quality and uniqueness of the relationship between the two main materials. Silent disciple of its mountains, Tscholl is heroically able in the process of synthesis where many others have failed, time by time too stretched to an obsequious respect of the existing or too directed towards the need to assert their own work. Walkways and stairs transport you from one place to another without becoming a scenic drive, but simply remaining control and generation instrument of a already defined composition by the existing stonework of the historic fortress. The paths overdo themselves, penetrate the heart of the ancient artifact, leading the visitor precisely to those places where it would instinctively go. Each curiosity and every will is indulged in accordance with a exploration feeling inherent in man and just as his relations with the natural bulwark. A project such that they should be inscribed among the most significant of contemporary European, not so much for its undisputed quality of composition but in keeping with its cultural depth that, rooted in the memory of the places where it is born, it is able to find the ultimate fulfillment according to the extraordinary idea for which, like Saint-Exupery wrote, “We don’t get the earth from our ancestors, we borrow it from our children.”

Werner Tscholl

Between Stone and Steel by Michelangelo Pivetta (page 46)

The mountains are dumb masters and make silent disciples. J. W. Goethe A cross architectural tradition characterized from a long time the South Tyrol landscape. Unique in its flatting in the valleys of its territory, as well as in the centuries. Probably due to the undeniable stacking of peoples, cultures and languages that this extraordinary and difficult ground has hosted, seems to be able to create a vision other than the usual cultural issues and, why not, operating building. How Barbara Breda keenly observeed at the recent exhibition of contemporary architecture held in Merano: “Far from any historicist trivial revival or from any ordinary concessions to the rustic styles, contemporary South Tyrolean architecture has proved to be capable of dealing with severe modernity the root of the relationship with history and tradition”. A sort of architectural anabasis establish categories radically different and in many ways unprecedented. Every artistic and architectural era finds here its concrete expression with peculiar declensions, formal arrangements -but never formalisticin different charachters. In the past like today in the modern world. The flavor of vision given by an area where the natural landscape is the father of the scene, requires a dialectical ablility to understand and reproject the construction categories still to the end of the formal language, without clamor, without ostentation, but with that stubborn and precise obsession for the detail that this world and that sort of his “craft” has accustomed us to recognize. Tscholl, perhaps the best known of a host of excellent South Tyrolean contemporary architects, seems to be able to go down in carrying out any of his new work in an absolutely new environment from time to time, with the same abilities and pride of those teachers who in the Alpine valleys have left extraordinary evidence in any field. This tradition appears to be clearly heir, in the dialectical approach to the theme and in the expression of that feeling authoritative as well, thath imposing a form of the new, on the existing like on the ancient, fails to establish a hierarchy of roles elsewhere and otherwise hardly to be envisaged. Here is the other factor for the figure and for the project: the intellectual and cultural overview of the German-speaking world (to generalize and simplify) compared to contemporary architecture. Here, and only here, geographically,

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Maria Grazia Eccheli Riccardo Campagnola The inside and the outdoors: anamnesis of the space by Riccardo Campagnola (page 74)

1. Walls and trees The high stone wall that ascends from the plain up to the lonely hill is marked both at the beginning and at the end, by two huge gates whose appearance reveals a nineteen century manufacture, that more than discovering are hiding the reason why an inside stubbornly remains secluded to them. But the impression that, step to step, is discovered during the ascension and by the curving of the wall into a third degree spiral tends to be a substructure and fence of a big park. Above a top line of the wall trees are rising and scattered bell towers. While the bell towers witness the ancient existence of a monastery named after Saint Denis according to place-name of the site of an exiled France; the trees instead are the remnants of the “romantic”, whose ambitions are testified by the great hydraulic project: traces the survived in the deep excavations that breaks through the down-grading embankments of the suburban hills around Verona. The needed bewitching of the water has requested the creation, in not so far time, of a paradoxical lake surrounded by the hills, fueled by an aqueduct that, flowing through the connected valleys, drove into an amazing underground cistern. The water itself appears as the secret endowment for a settlement on a territorial scale: the cross-section of the hill determined by the cistern, the lying of the villa and consequently of the landscape marked by stately trees that, arising from secret gardens from orchards and from an amphitheater, permeated by boxwood green, expand into the landscape a structure, which never was realized of the villa itself. 2. The villa and the church The villa was projected, according to a Palladian conception, by Francesco Ronzani in 1834 and located on the top of the hill, whose slopes are rich of planted trees, within the highland of the outer Alps. Even though conditioned by the pre-existing buildings, the villa appears wholly neat and mostly connected with the sight of the far away city. Nevertheless, the meaning and purpose of the building are committed to the


highness of the pronao/loggia that has been erected, not on the long main front of the construction but on the short west wing. Open toward the Adige valley, the loggia that is an essential element of the villa, has been conceived in order to be surrounded by every meander of the river, before flowing toward the plain enlightened by the reddish sunsets. The old monastic buildings went lost with the exception of a church, dating back to the 9th century, although remarkably remodeled. The church is the only remain recording the vetusty of the site. The two bell towers serving the church were settled among the buildings realized as times went by: to them is committed the task to remind the significance of the site. 3. Inside and outside The first aim of the project was to identify the link, actually wholly obscure, between the church and the variety of surrounding buildings, and to enhance the re/ cognoscibility of the confronting elements in a dialectic way (dramatis personae). This the reason why the northern wing beyond the small church is severed from the nineteenth-century bell tower; in fact during the last remodeling the small church was annexed to the said bell tower and this produced the confusion of their roles that were different both by destination and pattern. Through the segmentation, by an analytic way, the space that divides the bell tower from other parts of the building is crossed by the staircase and consequently becomes a kind of an itinerary apt to understand the whole construction, almost a domestic museum. The real theme of the project is to create a kind of space similar to that of the theater of Arturo Martini sculptor. The swinging space undecided between its indoors and outdoors nature is enlightened by a light so shining as if it were hit by the sun rays in the summer solstice; such light passes through the entire section of the building. Long shadows intersect the course of the tuff made staircase that, running in and out of the bell tower, meets at every pause various windows that although opened at different heights frame the landscapes. The brick coated bell tower, nearly a metaphor to indicate a kind of estrangement and of a non-finito, can be seen from the new inner windows facing on such metaphysical space, almost resembling an outdoors. 4. House and landscape According to its heliothermic axis position, it may be supposed that the house was once a greenhouse and, therefore, conceived as a simple element with connected passing through spaces without corridors. Consequently, it may comply within the interior spaces to the season’s changes. Through the large windows the Italian style garden on the west is connected with the green meadows oriented toward the hill on the east yielding a unique perspective. Also the stable furniture has been conceived to fit with such metaphysical nature as if they were “valley’s furniture” … The Prun-stone, white and smooth, which run along the interior, goes further, quarry-crack manufactured, to the outer space defining a long and narrow water reservoir as once for the irrigation of the fields or a reminiscence of the before mentioned graceful lake, once existing around the villa and now just a geological excavation. The new basin becomes a condescending mirror of the oldest part of the church, the apse and the transept: it become a kind of threshold between living and landscape. Alongside with the water there is a long stone bench designed as if it were a ruin – a disregarded element of the villa – which invites in the silent site, to contemplate and enjoy a tract of nature prodigiously unspoilt. Translation by Bruno Gerolimetto

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Università degli Studi di Firenze - Dipartimento di Architettura Disegno Storia Progetto Direttore - Ulisse Tramonti - Sezione Architettura e Città - Ulisse Tramonti, Ezio Godoli, Alberto Baratelli, Antonella Cortesi, Paolo Brandinelli, Antonio Capestro, Fabio Fabbrizzi, Giovanni Pratesi, Andrea Ricci, Claudio Zanirato - Sezione Architettura e Contesto - Giancarlo Cataldi, Fabrizio Arrigoni - Sezione Architettura e Disegno - Maria Teresa Bartoli, Marco Bini, Stefano Bertocci, Giovanni Anzani, Barbara Aterini, Carmela Crescenzi, Cecilia Luschi, Alessandro Merlo, Paola Puma, Marcello Scalzo, Giorgio Verdiani - Sezione Architettura e Innovazione - Alberto Breschi, Antonio D’Auria, Flaviano Maria Lorusso, Marino Moretti, Laura Andreini - Sezione I luoghi dell’Architettura - Maria Grazia Eccheli, Fabrizio Rossi Prodi, Paolo Zermani, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Alberto Manfredini, Giacomo Pirazzoli, Elisabetta Agostini, Mauro Alpini, Riccardo Butini, Francesca Mugnai, Michelangelo Pivetta, Andrea Volpe - Sezione Storia dell’Architettura e della Città - Amedeo Belluzzi, Gabriele Morolli, Gianluca Belli, Mario Carlo Alberto Bevilacqua, Rosario De Simone, Riccardo Pacciani, Alessadro Rinaldi, Corinna Vasic Vatovec, Ferruccio Canali - Centro di editoria - Massimo Battista - Centro di documentazione - Laura Velatta - Segretaria amministrativa - Gioi Gonnella - Amministrazione contabile - Laura Cammilli, Cabiria Fossati, Lucia Sinceri - Segreteria - Grazia Poli


In copertina: Alberto Campo Baeza Entre Catedrales, Cádiz, 2009 foto © Javier Callejas

Periodico semestrale* del Dipartimento di Architettura - Disegno Storia Progetto via San Niccolò, 93 - 50125 Firenze tel. 055/2055367 fax. 055/2055399 Anno XVI n. 2 - 2° semestre 2012 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 ISSN 1826-0772 ISSN 2035-4444 on line Direttore - Maria Grazia Eccheli Direttore responsabile - Ulisse Tramonti Comitato scientifico - Maria Teresa Bartoli, Giancarlo Cataldi, Loris Macci, Adolfo Natalini, Ulisse Tramonti, Paolo Zermani Redazione - Fabrizio Arrigoni, Valerio Barberis, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Fabio Fabbrizzi, Francesca Mugnai, Alessandro Merlo, Andrea Volpe, Claudio Zanirato Collaboratori - Eleonora Cecconi, Alberto Pireddu, Michelangelo Pivetta Info-grafica e Dtp - Massimo Battista Segretaria di redazione e amministrazione - Grazia Poli e-mail: firenzearchitettura@arch-dsp.unifi.it Gli scritti sono sottoposti alla valutazione del Comitato Scientifico e a lettori esterni con il criterio del Blind-Review L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte nel caso non si fosse riusciti a recuperarli per chiedere debita autorizzazione The Publisher is available to all owners of any images reproduced rights in case had not been able to recover it to ask for proper authorization Proprietà Università degli Studi di Firenze Progetto Grafico e Realizzazione - Massimo Battista - Centro di Editoria del Dipartimento di Architettura - Disegno Storia Progetto Fotolito Saffe, Calenzano (FI) Finito di stampare dicembre 2012 *consultabile su Internet http://www.arch-dsp.unifi.it/CMpro-v-p-34.html


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ISSN 1826-0772

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