Firenze Architettura 2009-2

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di esse e di una coscienza che le rifletta, cioè le rappresenti all’interno di se stessa in analogia con quanto era accaduto per le pitture dei grandi animali sulle pareti delle caverne. Ecco che l’animalità e quella stessa animalità dell’uomo che è testimoniata dall’esuberanza sensoriale del suo corpo vengono condotte nella notte del non-sapere, sicché la maschera andrebbe a costituire una sorta di manifestazione materiale di quella «menzogna poetica dell’animalità» che «non descrive nulla che non scivoli via nell’inconoscibile».4 Sarebbe facile mostrare come questa lettura batailleana della maschera riveli la risonanza, anche in un autore che altrimenti si suole considerare fra i più acuti e originali prosecutori del pensiero di Nietzsche (e nel quale, comunque, la dimensione del non-sapere5 assume il carattere positivo dell’esperienza immediata, intraducibile e individuale), di un’evidente eco platonica. La maschera vi appare, infatti, sia letteralmente che in senso figurato, come uno strumento negativo. Essa nasconde e, inoltre, simboleggia l’inconoscibile. L’uomo delle origini si maschera per nascondersi e il mascherarsi stesso viene inteso come un atto non cognitivo, una menzogna poetica che ci rinvia direttamente a Platone e ai luoghi celeberrimi – vera casa natale della nostra cultura - di quella destituzione filosofica dell’arte6 che nega a quest’ultima qualsiasi valore di conoscenza e, anzi, la ritiene una pericolosa produttrice di inganni, ossia di rappresentazioni fallaci e illusorie. L’arte, cioè, viene destituita nel momento stesso in cui il filosofo crea il vocabolario basilare della futura civiltà dell’immagine.7 D’altra parte la questione dell’immagine, come ha scritto Carlo Sini, «non concerne il platonismo in quanto esso è una filosofia tra le altre», ma, piuttosto, «essa riguarda in modo diretto, pregnante ed essenziale la possibilità stessa della scienza (epistéme). Istituire l’immagine psichica come mediatrice tra sensazione e concetto è condizione imprescindibile perché abbia origine quell’umanità caratterizzata dal sapere scientifico che noi siamo».8 Ecco allora che un’altra caverna si sostituisce a quella degli uomini di Altamira e di Lascaux. È la famosa caverna del “mito” o, meglio, dell’allegoria che Platone racconta nel libro settimo del suo capolavoro: «devi immaginare una dimora sotterranea, una lunga caverna, il cui sbocco si apre alla luce per tutta l’ampiezza» (Resp. VII, 514a 3-5). In fondo a quest’antro, com’è noto, il fi-

losofo colloca gli esseri umani descritti quali docili prigionieri che, incatenati sin dalla nascita e con la testa bloccata in modo da non potersi girare, sono costretti a vedere il profilo delle ombre che statuette d’uomini, figurine d’animali e oggetti di ogni sorta fatti passare alle loro spalle proiettano sulla parete a causa di un gran fuoco che arde dietro di essi. Allora, prosegue la celebre allegoria platonica, si tratterà ogni volta di uscire dalla caverna – e l’intera storia della cultura occidentale può essere riassunta, come suggerisce Hans Blumenberg, sotto questo poderoso mitologema–,9 rompendo l’illusionismo della rappresentazione, vale a dire quella sua direzione che, conformemente al referto dei sensi, pare coagularsi nell’immagine esterna, rovesciando il vettore dello sguardo, ovvero risalendo alla sua origine, all’idea stessa. Ecco che il prigioniero della caverna, una volta liberato, dovrà dapprima guardare verso le statue e il fuoco, abituandosi poco a poco alla sua luce e poi, risalendo fuori, all’aperto, sarà costretto a fare lo stesso con gli oggetti naturali, inizialmente scorti attraverso ombre e riflessi nell’acqua, solo in seguito in se stessi. Infine, dopo aver rivolto gli occhi verso il cielo notturno, con la luna e le stelle, riuscirà a contemplare, «non per immagini fluttuanti in superficie d’acque, non in apparenze riflesse su schermi estranei», quel sole «che governa tutto il mondo visibile» (Resp. VII, 516b 4 – c 1). Platone ritiene che i sensi ci presentino un universo di accadimenti particolari in cui sono presenti qualità congiunte e confuse in maniera quasi inestricabile, sicché, se dovessimo servirci soltanto della sensibilità, mai saremmo in grado di dipanarle del tutto e di giungere ad una chiara comprensione della struttura del mondo. La pericolosità dei sensi è data proprio dalla quantità di differenze con cui essi ci bombardano continuamente. Nella selva delle differenze, solo il supporto istintuale della somiglianza ci permette di discriminare le cose, orientandoci verso la sopravvivenza. L’immagine è, per Platone, un oggetto simile, non la replica o il duplicato del primo. Allora l’immagine, pur essendo definita, per alcuni aspetti, come identica, non dipende dalla categoria del medesimo, quanto proprio dalla differenza, dall’alterità che si dice insieme all’identico ed è inseparabile da esso. La somiglianza assicura un nesso fra le cose e, in primo luogo, fra una cosa e la sua immagine, nei termini di pura

esteriorità. La somiglianza è, pertanto, qualcosa di contingente e di fenomenico, che non è in grado di fondare alcun nesso necessario, ma, semmai, solo di rispecchiarlo secondo un modello di relazione che è di dipendenza logica, ontologica e conoscitiva. Infatti l’esser immagine di qualcosa significa sempre una diminuzione, una degradazione e una perdita rispetto alla cosa stessa.10 Ecco allora che, nella struttura teorica platonica dell’immagine, ciò che emerge in primo piano è un nesso di subordinazione gerarchica: la subordinazione qualitativa della copia rispetto all’originale. In questo modo Platone crea un dispositivo che intende emanciparsi dall’orizzonte sensoriale e dalle impressioni fallaci del mondo della vita mediante un’evidenza tratta dallo stesso ambito del mondo della vita, ovvero quella che, collegando una cosa all’immagine, secondo lo schema delle cosiddette “immagini naturali”, ovvero le ombre e i riflessi speculari che compaiono nell’allegoria della caverna, mostra la perdita di prestazione paratica e conoscitiva e, quindi, di possibilità d’esperienza, di quest’ultima. Inoltre, il rapporto tra l’originale e la copia presupposto dalla logica platonica dell’immagine instaura una “presa di distanza” – la radice topologica di quello che per Platone è il chorismós ontologico, ovvero la “separazione” fra l’idea e le cose – che inaugura la possibilità del controllo, con la collocazione del mondo su un piano d’indifferenza, sempre pronto a tradursi, cioè, nella garanzia di un’illimitata disponibilità. L’ambito in cui si stabilisce la teoria delle idee, con tutto il corollario segregazionista di ceppi e catene che emerge dalle parole del “mito” della caverna, è così contraddistinto da una dimensione immediatamente politica, in cui se l’eîdos è la visibilità del visibile, la paideía, ossia l’educazione della comunità, è il progressivo assuefarsi alla luce dell’eîdos, del sole intelligibile delle idee, che ci strappa a forza dall’ignoranza della caverna – l’istintuale regno del “simile” -, ponendoci in diretto rapporto con quei “modelli generali” che devono essere conosciuti dai governanti e dai quali bisogna impedire, imponendo una sorta di “dittatura” del lógos-ragione, che i poeti, i retori, i sofisti e gli altri produttori di eídola ci allontanino, assecondando la direzione sensuale e discendente dell’immagine. Ma qui si pone l’autentica croce di ogni platonismo, dal momento che anche il movimento

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