Firenze Architettura 2005-1&2

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di preoccupazione e di interesse concreto: “…L’argomento ponti e viadotti è, per ogni progettista responsabile, uno dei più affascinanti perché trattasi di opere che, a differenza di quelle monumentali, testimoniano la civile volontà dell’uomo di programmare architetture strutturali utili allo sviluppo delle comunicazioni tra i paesi e le genti; indipendentemente da ambizioni fideistiche o magniloquenze autoritarie; non soggette a momentanei stili architettonici o mode capricciose, testimoni solo di un intrinseco rapporto tra correttezza tecnica ed espressività estetica. L’opera da realizzare deve infatti certamente essere la più funzionale ma, nel contempo, essa deve configurarsi come un armonico e durevole inserimento nell’ambiente e costituire una visione di per sé appagante. In gergo tecnico, ponti e viadotti sono chiamati ‘opere d’arte maggiori’ e, in effetti, il progettista, nell’impostarne lo studio, dovrebbe percorrere le tappe della creazione artistica. Egli perciò non deve passivamente adeguarsi alla metodologia del momento; piuttosto deve anticiparne gli sviluppi, essere il protagonista delle innovazioni. Di conseguenza, in virtù del progresso tecnologico, oltre che cono-

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scere a fondo i problemi statici e le loro implicazioni matematiche, egli deve anche disporre di mentalità imprenditoriale, determinare i procedimenti costruttivi, conoscere le macchine coinvolte, sapere come sfruttarle nelle diversificate esigenze, essere in grado di preventivare costi e tempi dell’opera.” Da un’impostazione di questo tipo derivano, necessariamente, forme e sistemi strutturali e costruttivi diversi a seconda dell’insieme dei dati di partenza rispetto al luogo. Come ricorda Eduardo Torroja “ogni valle trova il ponte che le si addice, il tecnico deve trovare la soluzione al caso specifico, come si fa per un anello da infilare al dito.” Nel breve spazio di queste note e rispetto al tema specifico della costruzione del paesaggio il progetto del 1968 per un ponte sul fiume Guayllabamba, in Ecuador, assume un valore iconografico esemplare. Il paesaggio gli sta di fronte a una distanza che diventa fonte di obiettività: una valle molto profonda con una pendenza molto accentuata dei versanti comportava la necessità di un attraversamento a una quota tale da portare la sua lunghezza a 360 metri.

Zorzi con Lucio Lonardo esamina vantaggi e svantaggi di molte possibili soluzioni che vengono di volta in volta scartate per gli elevati costi e la complicazione costruttiva. L’obiettivo è di trovare una soluzione che non turbi il paesaggio con pile che richiedano tagli sui versanti e contemporaneamente raggiunga il massimo di economia e di razionalità nell’esecuzione. La soluzione finale si configura in una tensostruttura in cemento armato precompresso di sezione molto sottile: un nastro di cemento armato precompresso di 10.50 metri di larghezza con uno spessore di 30 centimetri aumentato a 50 in corrispondenza dei cordoli, di 300 metri di lunghezza tra gli appoggi. Zorzi studia le pendenze di imbocco e di uscita in modo tale che chi si accinge ad attraversare il ponte percepisca un gioco di prospettive che renda consapevoli della leggerezza della struttura. Ciò che è di particolare interesse, oltre all’immagine di un’essenzialità condotta al limite, tema ricorrente nel lavoro di Silvano Zorzi, è il tipo di procedimento costruttivo unito alla previsione delle diverse fasi di cantiere che fanno del ponte un organismo modellato e sagomato durante la costruzione attraverso sollecitazioni che


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