da remote lontananze, e partendo da un centro si rivolge in ogni direzione, è divenuto un concetto della geometria e pervade in modo discontinuo il mondo dell’architettura: “Stella – ha scritto Rudolf Schwarz in “Bau vom der Kirche” - è luce che scaturisce originariamente. Tre cose costituiscono la sua struttura: il centro generatore; i raggi luminosi che sono vie dal centro verso tutte le direzioni; il globo luminoso che è la sfera crescente nella quale il centro va ampliandosi. Questi tre elementi insieme costituiscono la forma stellare. Ciascuno è espressione e trasformazione dell’altro e l’uno non è pensabile senza l’altro: la forma è perfettamente unitaria”. La stella è centralità assoluta ma non è, come il cerchio, delimitazione, chiusura, ma sintesi di apertura, irradiazione, percorso, esplosione e, nello steso tempo, richiamo e concentrazione. L’architettura, sebbene permeata alle origini dall’idea di rispecchiare il macrocosmo nella forma del microcosmo costruito, ha scoperto tardi il fascino dello spazio centrifugo e stellare. Se ne può individuare qualche traccia nella architettura adrianea, nel Pantheon, che sublima il modello della Yurta, la capanna dei mongoli con il foro centrale attraverso cui la fiamma e il fuoco ed il fumo trovano sfogo rendendo concreta l’idea dell’axis mundi, ma anche negli spazi dilatati della Piazza d’oro e del cosiddetto “Teatro marittimo” di Villa Adriana. Piante stellari si ritrovano in Europa, dopo l’esperienza dell’interno polilobato di S. Vitale, in molte cappelle preromaniche come quella di Planes nei Pirenei o quella dedicata alla SS. Trinità a Poljud nei presi di Spalato che, il giorno della festa di S. Dalmo, il 7 maggio, viene attraversata dai raggi mattutini del sole attraverso le tre finestre absidali appositamente orientate. Ma è nella architettura islamica, e poi in quella gotica, che gli impianti stellari si moltiplicano. Tipici esempi la cupola della Sala degli Ambasciatori nell’Alhambra di Granada e il Mihrab della Moschea di Cordoba, da dove le stelle riverbereranno in Occidente: dalle cattedrali di Burgos, di Ely, di Saragoza, alla chiesa dei Francescani di Saliburgo e in innumerevoli volte e finestre a rosone, dal Duecento al Cinquecento. Boemia e Moravia continuano a sperimentare la virtualità della forma stellare sia nelle volte che nelle piante degli edifici, fino alla reinterpretazione del tema in quello straordinario architetto gotico e
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barocco che fu Johann Santini Aichel che, dopo diverse esperienze preparatorie, realizza su uno schema stellare il suo capolavoro: il santuario di San Giovanni Nepomuceno presso Zd’ar. Dopo una lunga eclissi, la stella riappare nella Germania, negli anni del primo conflitto mondiale, ed è Bruno Taut che se ne fa alfiere in un appassionante percorso visionario originato dalla inevitabile “Dissoluzione della città” e rivolto verso un mondo nuovo di cui l’architettura è l’angelo annunciatore. “Lasciate crollare le costruite volgarità” – scrive Taut in apertura del suo libro, rappresentando una caotica immagine urbana che tanto somiglia al volto attuale delle nostre periferie - e aggiunge: “Contenuti di vita diversi creano diverse forme di vita”. Mentre disegna case di forma stellare invoca la terra: “Santa terra! Materia e spirito insieme, così come anche l’uomo generato e generante, una cosa sola con la terra, rispetto ad essa una unità, singolarità contrapposta a una grande molteplicità”. Descrivendo “il grande fiore” ne parla, con toni profetici, come di “Un santuario per assorbire l’energia solare con lastre di vetro e lenti e specchi ustori”. La stella, che l’architetto aveva sperimentato nella “Casa del Cielo” e in un edificio scolastico, ispira, nella “Dissoluzione della Città”, la forma del Grande Tempio e della Chiesa. Una macchia nera cosparsa di punti bianchi reca la didascalia: “le stelle della terra, i templi risplendenti, salutano le stelle”. La ragione profonda di questo continuo riferimento alle stelle sta forse nella loro lontananza che contrasta con la loro così netta visibilità. La stella, per Taut, incarna l’utopia e il rifiuto di un mondo degradato. “Utopia? – si chiede – Non è forse il “sicuro reale” l’utopia che nuota nello stagno dell’illusione e della pigra abitudine! Non è forse il contenuto del nostro desiderio il vero presente che poggia sulla roccia della fede e della conoscenza?”. Nel 1922 Otto Bartning raccoglie la provocazione progettando, dopo aver costruito molte chiese tradizionali, la Sternkirche, un edificio mai realizzato ma presente nelle pagine di molte storie dell’architettura moderna, uno spazio che cerca di risolvere il conflitto tra pulpito ed altare, tipico della tipologia del tempio protestante, dividendo lo spazio in due parti, quello dell’ascolto e quello della celebrazione. Commen-
tando il suo progetto, Bartning parla della sua ricerca di “uno spazio unanime” contrapposto ad uno “spazio sezionato” e aggiunge: “L’anima che è sensibile allo spazio vi si irradia in tutte le sue parti fino a riempirlo completamente”. Forse è proprio questo il segreto della stella, forma simbolica simile a quella dell’occhio umano con la pupilla e l’iride raggiante, che guida l’anima verso l’alto.
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