Progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico | Butini

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progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico

Senza ombra di dubbio possiamo sostenere che, nonostante il campanello d’allarme fatto suonare da Alberti e gli elementi di discontinuità riscontrabili, è evidente che l’architettura del mondo occidentale ha trovato alimento dalle opere dell’età classica e che gli architetti, a partire dal Rinascimento, hanno costruito sulla loro conoscenza la propria formazione intellettuale prima ancora che tecnica. Se ammettiamo, in questa sede, di compiere un salto temporale che ci consenta di portarsi a ridosso del nostro secolo, vale la pena di ricordare l’interesse con il quale alcuni tra i più importanti architetti del Novecento hanno guardato all’antico raccogliendo nei loro taccuini — tra i più celebri quelli di Le Corbusier e L.I. Khan — preziosi disegni che mostrano gloriosi monumenti ridotti in rovina, trasmettendo con pochi tratti essenziali la forza evocativa di queste architetture ‘attaccate’ dal tempo. Il tema della rovina è, forse per la prima volta, affrontato con una prospettiva rinnovata rispetto alle modalità proposte dal pittoresco o dall’inventario fantastico piranesiano. Non è, quindi, una semplice descrizione dello stato dei luoghi quella che ci viene consegnata in questi appunti grafici, ma, piuttosto, un principio di riflessione sul valore che l’antico e le rovine possono rappresentare nella pratica del progetto architettonico. Se la difficoltà della nostra epoca, spiega Marc Augé nel suo celebre saggio Rovine e Macerie. Il senso del tempo, è quella di dover ricostruire sulle macerie prodotte dall’architettura contemporanea, incapace di trasformarsi in rovina, possiamo affermare che le rovine del passato costituivano, anche idealmente, fondamenta solide e sicure, sulle quali potevano poggiarsi nuove costruzioni in grado di produrre a loro volta rovine, garantendo una circolarità alla vita dell’architettura. Le rovine esistono attraverso lo sguardo che si posa su di esse (Augé, 2004, p. 41).

Lo sguardo, il modo di guardare la rovina si è aggiornato in ogni epoca, consentendo alla rovina stessa di rappresentare una sorgente, pura, ancora in grado di alimentare il progetto. È chiaro che anche il nostro stare di fronte alle rovine sarà diverso da quello di chi ci ha preceduti, ma proprio qui sta il nostro compito, quello di trovare il giusto modo di osservare le cose. Le rovine — scrive Salvatore Settis — sono al tempo stesso una potente epitome metaforica e una testimonianza tangibile non solo del defunto mondo antico ma anche del suo intermittente e ritmico ridestarsi a nuova vita […] Secondo la tradizione occidentale, le rovine segnalano al tempo stesso un’assenza e una presenza: mostrano, anzi sono, un’intersezione fra il visibile e l’invisibile. Ciò che è invisibile (o assente) è messo in risalto dalla frammentazione delle rovine, dal loro carattere ‘inutile’ e talvolta incomprensibile, dalla loro perdita di funzionalità (o almeno di quella originaria) (Settis, 2004, pp. 84-85).


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