Ornitorinco

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Ok i n a S a g i

U n or n i t or i n c o a Mi l a n o

Books and Travels



Okina Sagi Un ornitorinco a Milano

Books and Travels



Okina Sagi è un'entità multipla che cambia da romanzo a romanzo. A hanno partecipato: Elena Chiappini Alessandra Zamboni Orietta Olita Andrea Mattera Un ornitorinco a Milano



Un ornitorinco a Milano Ăˆ un freddo pomeriggio d'inverno a Milano e a Parco Sempione si aggira uno strano animale. Sembra un peluche messo insieme recuperando un pezzo qua e uno lĂ da pupazzi diversi: il becco di un'anatra, la coda di un castoro, il corpo di una nutria e le zampe di un coccodrillo. Si tratta di un esemplare di ornitorinco, ma cosa ci fa nella cittĂ lombarda un animale che solitamente vive in Australia? Sul suo cammino, accidentalmente, si troveranno una neo-quarantenne appena scippata e perseguitata dalla sfortuna, una futura sposa con la propensione alla catalogazione e al controllo quasi da sfociare nell'autismo, un'appariscente transessuale tailandese fan de Il dottor Zivago, una coppia di commessi-fattorini factotum, un inserviente di una casa di riposo stanco della propria routine e un malvivente colombiano intento a costruirsi una raffineria di cocaina in casa, l'unico a conoscere il segreto milionario nascosto sotto la pelliccia dell'ornitorinco.



All’improvviso tutto era mutato, il tono, l’aria, non si sapeva come pensare e a chi dare ascolto. E nessuno attorno, né gli amici intimi, né le autorità. Allora si ha voglia di affidarsi alla cosa essenziale, alla forza della vita o alla bellezza, o alla verità, affinché esse, e non le istituzioni umane ormai abbattute, ti siano da guida, totalmente e senza rammarico, in modo più totale di quanto fosse nella solita vita tranquilla, che si andava dileguando e che ormai non esisteva più. Il dottor Živago, di BORIS

PASTERNAK



AVE

Ho i capelli rosa. Rosa shocking. E sarebbe anche divertente, se oggi non compissi quarant’anni, la cifra tonda più pesante di tutte per una donna. Ho cercato di esorcizzarla così, con una giornata libera per prendermi cura di me: niente sveglia a disturbarmi all’alba, colazione lenta e abbondante mentre guardo un vecchio telefilm; poi, in tarda mattinata, appuntamento da Jacopo, il miglior parrucchiere di Milano (o almeno, così si definisce lui); a seguire, avrebbero dovuto esserci un bel massaggio rilassante e una lunga sessione di shopping sfrenato, ma conciata così, come una Winx di mezza età, l’unica cosa che voglio fare è tornare a casa il prima possibile e cercare di porre rimedio a questo sfacelo. Dovrei avere da qualche parte una confezione di tinta fai da te. Speriamo che basti a farmi recuperare un aspetto dignitoso. Sciacquerò via in un attimo i centocinquanta euro appena spesi, ma tant’è. Jacopo, Jacopo… Accidenti a te! Che poi, la cretina sono io. Mai, e dico mai, lasciare carta bianca a un parrucchiere, soprattutto a uno che si crede un artista incompreso. L’ultima volta che è successo mi sono ritrovata con una permanente afro. Credevo di aver imparato la lezione, e invece… Cammino a falcate veloci attraverso parco Sempione. Perché, in questa città, c’è una manifestazione ogni due giorni, e ogni due giorni, di conseguenza, viene deviato il percorso dei mezzi pubblici. Così, o mi mettevo ad aspettare due ore sotto la pioggia che il traffico tornasse regolare, o ci davo dentro di gambe per andare a prendere il tram all’Arco della Pace. Non mi piace camminare, soprattutto quando fa freddo, piove, e indosso le mie décolleté preferite, quelle pitonate di Louis Vuitton da trecento euro coi saldi. Mi piacevano e le ho acqui11


state, anche se sono scomode da morire, anche se mi sono costate mezzo affitto. Ne avevo bisogno. Ero appena stata mollata. Mollata da quello stronzo fetente e bugiardo che si è spacciato per il Principe Azzurro, per poi sparire all’improvviso come il mago Silvan. Senza neanche dire Sim Sala Bim. Senza una spiegazione, andato. E da quel momento, irreperibile. Fino a questa mattina. Ci ho messo un po' a capire cosa fosse quel pezzo di carta che spuntava da sotto la porta d’ingresso di casa. Una busta, una lettera indirizzata a me. “Per Ave”, c’era scritto sul retro. Poche lettere marcate con tratto pesante, con quella calligrafia da bambino analfabeta che riconoscerei fra mille milioni. La sua. La carta spessa color champagne, filigranata, non permetteva di intravedere il contenuto, nemmeno controluce. Le due A maiuscole incrociate, stampate nella parte anteriore, mi hanno fatto sorridere, mio malgrado. “Angelo” e “Ave”? I nostri nomi? Ma davvero? Quanto impegno devi averci messo per sceglierla? Ho esitato un po’, sospesa tra la smania di strappare coi denti la busta e di leggere tutto d’un fiato quello che c’era scritto, e quella vaga sensazione ulcerosa che mi prende alla bocca dello stomaco quando mi sale l’ansia. No, non gli avrei permesso di farmi stare male, non un’altra volta. Non gli avrei permesso di scombussolarmi la pancia e il cuore. Ho infilato la busta nella borsa, decisa a dimenticarmene almeno per quella giornata, e sono uscita di casa. Ma, nonostante tutti i buoni propositi, nonostante i capelli rosa, il compleanno, la pioggia, il freddo e l’andatura il più possibile distesa e veloce, la busta è lì, con la sua presenza ingombrante, nella mia borsa e nella mia testa. Pochi grammi che sembrano cinque chili e mi schiacciano la spalla e i pensieri. E forse è per questo che non mi accorgo dei passi sempre più incalzanti alle mie spalle, sempre più vicini e pesanti. Forse per questo, e anche un po’ per il cappuccio della giacca che mi rende un cavallo coi paraocchi, tanto l’ho schiacciato in fronte per proteggermi dalla pioggia e dagli sguardi curiosi della gente. E vorrei davvero poter dire che mi sono difesa, che il corso di krav maga ha dato i suoi frutti, che nel momento del bisogno so entrare in modalità ninja e stendere tutti i cattivi, ma proprio non mi sono resa conto del 12


ragazzo che ha deciso di scipparmi. Ho sentito uno strattone violento, il mondo si è girato su se stesso e il selciato in terra battuta mi è venuto incontro veloce. Non ho neanche fatto in tempo a frenare la caduta con le mani, ancora saldamente ancorate nelle tasche del piumino. Sono a terra, con la faccia in una pozzanghera. Ho i capelli marrone fango, adesso. Faccio giusto in tempo a voltarmi quel tanto che basta per vedere due gambe veloci e un bomber verde militare schizzare via, con la tracolla nera della mia borsa a penzoloni. Mi fa male tutto, non riesco ad alzarmi. All’improvviso sento una linguetta ruvida che mi lecca la fronte. E tu chi sei? Una nutria? Bene, pure i ratti giganti ci si mettono. Lo strano animale, con le zampe tozze palmate e la coda da castoro, sembra essersi risentito per il paragone e scappa a nascondersi sotto un cespuglio. Ok, scusa, non sei un ratto. Ma chi se ne frega. Mi fa male tutto, non riesco a muovermi, e mi gira tantissimo la testa. Tu fai pure l’offeso, che io adesso svengo. E all’improvviso mi ritrovo a casa mia, sei mesi fa. – Come vuoi tu, a me va bene tutto. – Mi dice sorseggiando la birra direttamente dalla bottiglia, svaccato sul divano, lo sguardo perso davanti alla televisione. Ma che risposta è, Angelo? Ti ho chiesto se per cena preferisci una insalatona oppure prosciutto e melone. Non è una scelta che cambierà il destino dell’umanità, o che implichi una qualche forma di seppur vaga responsabilità. Perché cazzo rispondi sempre così, senza prendere mai una posizione, senza mai farmi capire cosa ti piace davvero? Affondo il coltello nel melone e lo divido decisa in due. Uso rabbiosa il cucchiaio come se fosse una vanga e pulisco dai semi le due parti del frutto. Separo con abilità chirurgica la polpa dalla buccia, taglio tutto in bocconi grossolani e li sistemo sui piatti, insieme a qualche fetta sottile di San Daniele. Mi ricavo un angolo di fianco a lui sul divano e gli porgo la cena. – Grazie… – bofonchia, senza degnarmi di uno sguardo. Mangia in silenzio, sghignazzando di tanto in tanto per qualche battuta della sitcom e asciugandosi con un pezzo di Scottex il mento sbrodolato di me13


lone. E pensare che fino a qualche settimana fa non riusciva a togliermi gli occhi e le mani di dosso. Che c’era sempre un suo messaggino al mio risveglio per augurarmi il buongiorno. Che mi dedicava frasi romantiche e canzoni d’amore. Che mi faceva arrivare in ufficio mazzi di rose rosse, così, senza motivo, solo perché gli andava. Ora, nulla di tutto questo. Niente più “sei bellissima” sussurrati con commozione, niente tenere attenzioni, niente progetti per il futuro. Arriva, si installa sul mio divano, si ingozza di birra. E sì, ogni tanto mi scopa ancora, ma sempre più raramente, e comunque con meno impegno. E non si ferma più a dormire. Ogni volta deve iniziare a lavorare troppo presto la mattina dopo. Ma, Angelo, io non sono mica scema. Mica mi puoi trattare così e pensare che a me vada bene, che me ne stia sempre zitta in un angolo e faccia finta di niente perché ho paura che parlando, se dicessi qualcosa, se ti facessi sentire attaccato, tu te ne andresti e non torneresti mai più. E prima o poi, giuro, ma giuro davvero, che spegnerò questa dannata televisione e ti costringerò a guardarmi negli occhi e a sputare il rospo, dovessi aprirti io stessa la testa come ho appena fatto con questo melone, per guardarci dentro e vedere finalmente qual è il problema. E giuro, ma giuro davvero, che prima o poi lo farò. Prima o poi…

Non ero mai svenuta prima, e mi ritrovo a pensare quanto sia strano come il tempo si dilati, come potrebbe essere passato un solo minuto o una giornata intera, come ti vengano in mente le cose più bizzarre, mentre sei priva di conoscenza. Perché, questo sì: sono cosciente di essere incosciente. Dall’esterno non arriva quasi nulla, suoni troppo ovattati perché io possa distinguerli. Forse una sirena? Sì, un rumore stridulo e singhiozzante che riesce a farsi spazio, ma solo un pochino, nella nebbia che mi circonda. E poi, una sensazione più netta e violenta. Qualcuno che mi scuote e mi palpa. Mi girano a forza su un fianco. Ma cazzo, mai un momento di pace! Lasciatemi tranquilla, che qui dove sono non esistono compleanni, non ci sono parrucchieri estrosi che ti trasformano in un Mini Pony, non ci sono lettere infilate di soppiatto e nottetempo sotto la porta di casa. Non ci sono scippatori che ti portano via tutto quello che possiedi senza darti 14


neanche il tempo di dire bah... Scippatori che ti portano via la borsa… con la sua lettera dentro… che tu, cogliona, non hai avuto il coraggio di aprire subito. Merda! Apro gli occhi di scatto e la nebbia che mi avvolge non esiste più. Ad avvolgermi, invece, ci sono due energumeni che indossano una tuta arancione fosforescente. E i depravati mi stanno toccando dappertutto. Cioè, fatemi capire: dopo lo scippo, pure la violenza sessuale di gruppo? Ma cosa diavolo deve fare una donna sola per sopravvivere in questo schifo di città? Eh, no. Stavolta, cari miei, se devo soccombere lo farò lottando, con tutte le mie forze. Com’è che dicevano? Colpisci nei punti più vulnerabili. Occhi, naso, testicoli. Mi parte un gancio sinistro così ben fatto che si schianta sul naso del tizio alla mia destra, con un crack deciso, facendogli saltare di netto gli occhiali. – Ahhhhh! Il bio daso, il bio daso!!! – si mette ad urlare lo stronzo, portando entrambe le mani alla faccia. È lì, inginocchiato al mio fianco che singhiozza. Piego la gamba di scatto e lo centro proprio nelle palle. Ben ti sta, pervertito! Mi metto seduta il più velocemente possibile, c’è anche il secondo da sistemare. Ma dove cazzo è finito? Sento pungermi sul collo, un pizzicore intenso, un bruciore lancinante, come se tutte le vespe del mondo avessero deciso di infilare il pungiglione nella mia giugulare contemporaneamente. – Signora, signora si calmi! La vogliamo aiutare, siamo gli addetti del 118! Signora dillo a tua nonna!, vorrei urlargli, ma dalla bocca mi esce solo un po' di bava e un suono indistinto. Cosa accidenti mi avete fatto?

– Le ho appena somministrato un calmante, adesso permetta al farmaco di fare effetto, si lasci andare e non si opponga. Mario, tutto ok? – chiede rivolto al compagno, che sta tentando di rimettersi in piedi. – Questa qui bi ha rotto il daso… e bi ha frantubato le palle! – Ok, poi do una controllata anche a te. Signora, ha capito cosa le ho detto? Hanno chiamato un’ambulanza. Era svenuta. Noi siamo arrivati per prenderci cura di lei. – Me lo dice scandendo ogni sillaba, 15


come se stesse parlando con una bambina deficiente. Faccio di sì con la testa, che gira vorticosamente. – Voi… centodi… otto – È l’unica cosa che riesco a dire. – Sì, bravissima. – Mi sorride, e intanto mi punta una piccola torcia nell’iride che mi acceca per un secondo. – È stata aggredita, ha fatto una brutta caduta. Le ho dovuto fare un’iniezione, stava massacrando Mario di botte… È solo che, adesso, è un po' difficile capire se è confusa per l’aggressione o per il calmante. Dobbiamo portarla in ospedale e… – No! No, no, no! Ospedale no, non voglio! – mi sento dire, e adesso sembro davvero una bambina deficiente. Una bambina deficiente, ferita e drogata, che però ha una missione da compiere. Recuperare la sua maledetta borsa. Non tanto per la borsa in sé. Né per i soldi, i documenti, o le carte di credito. Ma per quella fottutissima lettera. Devo. Sapere. Cosa. Cazzo. C’è. Scritto. – Ok, ok. Ospedale no – mi sussurra tutto dolce il paramedico senza nome. – Ma, almeno, può dirmi il suo nome? – Ave – e sospiro. Perché so già quale sarà la reazione. – Ave Cesare – dico tutto d’un fiato, sperando che, per una volta, basti così. Ma, ovviamente, non basta. I due centodiciottini si scambiano uno sguardo furtivo. Anche Mario ha smesso di lamentarsi e mi guarda preoccupato. Insomma, ragazzi, credetemi sulla fiducia. Adesso non ce la faccio a spiegarvi che mi sarei dovuta chiamare Eva, ma che l’addetto all’anagrafe, quando mio padre Giuseppe Cesare è andato a denunciare la mia nascita, non ha saputo trattenersi e ha invertito le vocali, così, per dislessia. O, più probabilmente, perché il demonio doveva averlo dotato di un senso dell’umorismo piuttosto perverso. E provate a immaginare cosa dev’essere stata la mia vita quando, ad ogni appello, dalla terza elementare in poi, tutti i compagnucci si alzavano in piedi e facevano il saluto romano appena la maestra mi chiamava. Prova a immaginarlo tu, Mario, che sicuramente di cognome fai un banalissimo Brambilla. Dai, provaci, su. – Ave, nome; Cesare, cognome. – riesco a dire, allargando le braccia a mo’ di rassegnazione. I due mi sorridono. Anche Mario, che 16


sta iniziando a somigliare a un panda per l’ematoma causato dal mio pugno. Sorrido anch’io di rimando. E provo a rimettermi in piedi. Rotolo tutta a sinistra, raccolgo le ginocchia e punto le mani sull’acciottolato. Sono a quattro zampe e non mi ricordo come ci si rialza da terra. Ah, già. Faccio forza sulla gamba destra, e oplà, riesco a stare più o meno dritta senza barcollare. Guardo con aria soddisfatta Mario e il suo compare. Mario fa un passo indietro, senza rendersene conto. Sembra spaventato, chissà poi perché. – Ave, per favore, si rimetta seduta! Potrebbe svenire di nuovo! – mi urla l’altro tutto preoccupato. – No… devo andare… adesso. – riesco a mettere insieme più di due parole, è sicuramente un buon segno. Faccio un rapido check delle mie condizioni. Ho mezza faccia insensibile, probabilmente dove ho sbattuto cadendo. Mi fa male una spalla. Ho i jeans sporchi, stracciati, e il ginocchio destro sbucciato. Devo essere piena di lividi e fango. Il tacco sinistro della mia Louis Vuitton sta per cedere, lo sento traballante. Altri trecento euro buttati nel cesso in questa fantastica giornata. Se non altro, ha smesso di piovere. – Ho detto che vado. Sto bene. Ciao. – Devo avere un tono piuttosto perentorio, perché Mario fa un altro passo indietro. – Bichele, lasciala addare. Se dice che sta bede, sta bede… – fa Mario, che proprio non vede l’ora di liberarsi di me. Dai, Bichele, ascolta il tuo collega, cosa vuoi che mi succeda ancora? I lividi e i graffi guariranno, e l’effetto della merda che mi avete sparato nelle vene prima o poi finirà. E io ho una borsa da ritrovare. – Ok. Ma sia chiaro che non sono affatto d’accordo. – dice piano il buon Bichele. Si gira, fruga per un po’ nel suo zaino, e tira fuori un pezzo di carta, che mi porge: – Se vuole proprio andare, Ave, dovrebbe firmare questa. “Il sottoscritto, ecc., ecc.… dichiara di aver avvertito il sig./la sig.ra ecc., ecc.… di essere affetto da una forma morbosa che richiede assistenza medica/chirurgica in ambiente ospedaliero, ecc., ecc… Si attesta che sono stati usati tutti i mezzi persuasivi intesi a vincere le resistenze del pa17


ziente e che il sottoscritto ha dovuto desistere dal proprio dovere sanitario, ecc., ecc.… perché avrebbe dovuto agire solo con mezzi di coercizione, ecc., ecc.…”

Uno scarico di responsabilità. Mi sembra un giusto compromesso. Scarabocchio il foglio, faccio un cenno di ringraziamento ai due uomini e strizzo l’occhio a Mario, che impallidisce e si ritrae ancora di più.

Lo vedo arrivare da lontano, il passo lento e incerto, la schiena curva sotto il peso dei suoi centoventicinque anni, mese più, mese meno, a giudicare dai radi capelli candidi, dal reticolo fitto di rughe che si scorge anche a questa distanza e dalla fragilità che emana da tutto il suo essere. Per un attimo mi viene qualche scrupolo, penso che non sia la persona più adatta a cui chiedere, ma è l’unico che procede proprio dal punto in cui è sparito veloce il mio scippatore. Forse l’ha incrociato, forse può dirmi che direzione ha preso. Forse. Voglio tentare. Mi avvicinerei con fare lieve e rassicurante, se solo non fossi ancora intorpidita, dolorante e con un tacco che sta per dirmi addio. Se solo non fossi tutta ammaccata e infangata. E non avessi i capelli rosa e ormai sudici. Zoppico vistosamente e tengo le braccia tese in avanti per non perdere l’equilibrio. In pratica, sono la Mummia 2 – il ritorno. Il vecchio si ferma a una decina di metri da me, cerca di mettermi a fuoco. Evidentemente ci riesce, la sua espressione parla da sola. Disprezzo, con una nota di fondo di pietà. Ma molto, molto di fondo. – Signore… scusi… – dico con voce gracchiante. Ecco, adesso gracchio pure. – Non mi interessa, non compro niente! – mi risponde lui con un vocione che non ti aspetti. – No, no… ha frainteso… – E ho sempre un tono da motosega inceppata. – Mi hanno derubata, e mi chiedevo… – Seee, ti hanno derubata! Ma guarda questa qui! Mi hai preso per un pirla? Non ci sono danee per te qua, te capìt? Pedalare, PE-DA-LA18


RE! Passi lunghi e ben distesi! Sta sù de dòss, ciaparat! – E mi scarta con un balzo felino, lasciandomi lì attonita e con la bocca aperta, incapace di ribattere. Lo guardo allontanarsi mentre continua a brontolare qualcosa di incomprensibile su prostitute drogate dell’est e su come si stava meglio quando si stava peggio. Un ragazzo, non troppo distante, sta suonando con la chitarra una canzone di Tiziano Ferro. Certo che, Signore, almeno quella lagna di Tiziano Ferro me la potevi risparmiare. E invece no, mi tocca anche questa. – Ciao bellissima! Ci metto un po' a realizzare che la voce maschile che sento ce l’ha con me. Mi volto con tutta la velocità che la mia condizione precaria mi consente. Mi trovo davanti un marcantonio nero come il carbone, alto più di due metri, con un sorriso così ampio e bianco da farmi pensare a una luna piena nella notte più scura. – Ciao bellissima… – dice un po' meno convinto dopo avermi guardata in faccia. Eh, lo so, non devo essere un bello spettacolo. – Guarda questo braccialetto: per te costa solo dieci euri. – Solo dieci euri. Un pezzo di cotone color terra cotta che io stessa avrei saputo intrecciare meglio con una mano sola. – No, ti ringrazio. Non mi interessa. E poi non ho soldi. – Mi sembra di essere il vecchiaccio di poco fa. Ma, in fondo, sto solo dicendo come stanno le cose. – Dai, bella, dammi almeno due euri per un caffè! – mi dice col volto che da radioso è diventato sconsolato. Due euri? Ma dove cazzo devi andare a berlo sto caffè? Al Danieli a Venezia? Mi rovisto nelle tasche del piumino, di solito qualche monetina salta fuori. Apro la mano. Ventisette centesimi. Tutto quello che mi rimane. Glieli porgo. Li guarda schifato. Ma se li prende. Si volta e sene va, senza dire grazie. – Razzista di merda! – lo sento mormorare. E all’improvviso sono stanca. Stanca da morire. E ho una gran voglia di piangere. Realizzo che ho perso tutto, non solo quella maledetta lettera. Non ho più nemmeno le chiavi di casa, erano nella tasca posteriore della fottuta borsa. E non ho neanche il numero della pro19


prietaria del mio appartamento, per farmene dare una copia. Era memorizzato nella rubrica del mio cellulare. Che era nella tasca laterale di quella merdosissima, cazzosissima borsa. Sono sola. Non ho più niente. E non so cosa fare. Prendo un respiro profondo. Mi scricchiolano tutte le costole, ma continuo a respirare così, e un pochino mi calmo. Adesso esco da questo schifo di parco. Vado nella caserma dei Carabinieri più vicina e sporgo denuncia. Magari qualcuno ha ritrovato i miei documenti e le mie cose in qualche cespuglio, o in un cestino. Pazienza, Angelo, non saprò mai cosa volevi dirmi. Ma poi, sai che c’è? Fanculo te e la tua lettera. Tanto sei solo uno stronzo fetente e bugiardo. Mi trovo davanti la figura imponente dell’Arco della Pace. L’ho sempre ritenuto un filino eccessivo, ma comunque piacevole. Una ragazza in un angolo della piazza attira la mia attenzione. Ha delle belle scarpe. Mi avvicino. Sta frugando in una borsa nera. La MIA borsa nera! Una scintilla di speranza mi si riaccende nel cuore, e sento un sorriso esplodermi in faccia. Ma… che diavolo sta facendo? Perché apre la busta? Perché sta leggendo la lettera di Angelo?!? La speranza appena nata, non so perché, sta già morendo. E ha pure ricominciato a piovere.

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ANNA

92 persone ci hanno già confermato la loro presenza. La zia Rita vicino allo zio Antonio. Stesso tavolo della zia Silvia. Ma non dello zio Pietro. Lui lo sistemo al tavolo dei parenti lontani, quelli che adesso vivono in Svizzera. 12 tavoli. Saranno tutti da 8 persone. A parte quelli dei miei cugini più piccoli. Li metto tutti vicini. 6 terribili adolescenti che urleranno e faranno confusione. Li posiziono in fondo, dove daranno meno fastidio. 92 persone. 92. 276 piatti. 276 bicchieri. 184 coltelli. 276 forchette. 92 cucchiaini. Il tavolo degli sposi sarà al centro. 6 piatti, 6 bicchieri, 4 coltelli, 6 forchette e 2 cucchiaini. Ci muoveremo con facilità tra i tavoli. Da destra a sinistra dobbiamo salutare tutti gli invitati. Dimenticarsi di qualcuno sarebbe imperdonabile ed estremamente maleducato. 92 persone. Mancano solo quei due parenti di Angelo. Non capisco perché non ci facciano sapere qualcosa. Nelle partecipazioni era indicata con precisione la data massima per la conferma. C’è una ragione se abbiamo richiesto di farci sapere qualcosa per tempo. Bisogna organizzare i tavoli, gli spostamenti, gli alloggi se necessari. Alcune persone non capiscono queste cose basilari. Angelo per primo non capisce. Perché non chiama? Perché non insiste? Perché non si dà da fare? 92 persone. 276 piatti. 276 bicch… Vorrei donare il tuo sorriso alla luna perché 21


Di notte chi la guarda possa pensare a te Per ricordarti che il mio amore è importante Che non importa ciò che dice la gente perché Tu mi hai protetto con la tua gelosia che anche Se molto stanco il tuo sorriso non andava via Devo partire però se ho nel cuore La tua presenza è sempre arrivo E mai partenza

Mi fermo ad ascoltare. Un ragazzo, chitarra in mano e custodia aperta ai piedi, cerca di portarsi a casa qualche spicciolo allietando la gente che passa per Parco Sempione. Questa canzone mi ricorda uno dei primi incontri con Angelo. Abbiamo trascorso la serata in un locale in cui suonavano musica italiana: Tiziano Ferro, Vasco Rossi, Ligabue. Ne eravamo entrambi contenti. Condividiamo l'amore per la musica italiana, l'unica di cui comprendiamo per intero testi e significati. È stata in quell’occasione che abbiamo cominciato a parlare di tutti i nostri gusti musicali. E poi dei nostri gusti in fatto di letteratura, viaggi, sport. Abbiamo chiacchierato per ore. Ci siamo trovati d’accordo su tante cose. Era così piacevole scoprire di essere simili. Vorrei donare il tuo sorriso alla luna perché Di notte chi la guarda possa pensare a te

Controllo nella borsa. Dovrei avere qualche spicciolo. Sì. Ecco un euro. Mi avvicino al ragazzo. Avrà a malapena vent'anni. Ammiro il suo coraggio. Suonare davanti alla gente, in mezzo alla strada. Io me ne vergognerei sicuramente. E poi con questo tempo incerto. Piove. Smette. Ricomincia. Rischia di bagnarsi e di prendersi qualcosa. Lancio nella custodia aperta la moneta. Il ragazzo mi fa un cenno di ringraziamento, ma non smette di cantare e suonare. Accenno anch’io un sorriso. Non devo perdere tempo. Dall’ufficio mi hanno mandato a fare una commissione in banca. Ultimamente vengo sempre scelta per uscire. Il mio capo apprezza la 22


mia efficienza nello svolgere i compiti che mi dà e non lo nasconde. Preferisce affidare a me certe incombenze per non rischiare che le cose vengano fatte male. Sa anche che, a differenza di altri colleghi, non sono solita approfittare delle uscite per dedicarmi a faccende personali. Per raggiungere la banca, se non ci sono intoppi, ci vogliono 12 minuti. La strada più breve prevede l’attraversamento di Parco Sempione. Ne ho testata un’altra, una volta, ma allungavo di 6 minuti. Non conviene. Odio perdere tempo. Fermarmi ad ascoltare quel ragazzo mi avrà portato via 2 minuti. Nessuno in ufficio se ne accorgerà. Ha smesso di piovere fortunatamente. Ma il percorso è pieno di pozzanghere. Devo stare attenta a non bagnare le mie scarpe nuove. Forse avrei dovuto sceglierne un altro paio. Avrei dovuto mettermi gli stivali, quelli scuri, con la pioggia sarebbero stati perfetti. Ma si sarebbero abbinati meno con il vestito. Allungo il passo, nonostante i tacchi. Non vorrei ricominciasse a piovere. Odio dover aprire l’ombrello. Spero che il giorno del mio matrimonio non piova. Sarebbe orribile. Arrivare sul sagrato della chiesa, correre dentro senza nemmeno avere il tempo di godermi la gente che mi guarda ammirata. Perché quel giorno dovrò essere perfetta. Abito, acconciatura, trucco. Sono investimenti importanti. Sarò guardata con invidia. Tutte e 92 le persone che ci hanno già confermato la loro presenza si fermeranno ad osservarmi. E mi troveranno bellissima. 92 persone… 276 piatti. 276 bicchieri. 184 coltelli. 276 forchette. 92 cucchiaini. Parco Sempione, come tutta Milano d'altronde, non è ben frequentato. Vedo persone poco raccomandabili incrociare il mio cammino. Stringo la borsa al petto, non vorrei che qualcuno provasse a portarmela via. Si sentono un sacco di storie inquietanti su scippi e rapine. Non come nel mio paese. Lì ci conosciamo praticamente tutti. Ci prendiamo cura l'uno dell'altro. Non ci sono scippi. Non ci sono rapine. La mia vicina sa quando io e Angelo non siamo in casa. Lei è in pensione ormai da qualche anno e sta quasi sempre in casa. Ha a 23


cuore l'intero quartiere. Sono sicura che, se notasse qualcosa di strano, chiamerebbe la polizia. È così che dovrebbe funzionare ovunque. Ci si dà una mano. Non come a Milano, dove ognuno è solo. Non ci vivrei per nessuna ragione al mondo. Io e Angelo condividiamo anche questo stile di vita, un'altra cosa che ci accomuna. Non nascondo che Milano sia il posto ideale per trovare lavoro, ma non ci crescerei un figlio. Un bambino merita un posto sicuro e tranquillo per poter giocare e fare esperienza senza preoccupazioni. Con la coda dell'occhio mi sembra di notare uno strano animale. Trattengo un urlo. Che schifo. Cosa potrà essere? A me gli animali strani non piacciono. Se non li conosco, non posso neanche sapere se sono pericolosi, se sono soliti mordere o attaccare le persone. Poteva essere un topo. No, troppo grande. Forse era una nutria. Sì, in campagna dove vivo, vicino alle rogge, ce ne sono parecchie. Può capitare di vederle nuotare. Le nutrie non sono tanto pericolose. Sono brutte a vedersi. E invasive per l'ambiente. Ma non dovrebbero fare nulla, se non le si infastidisce. C'era qualcosa di diverso, però, in quell'animale, rispetto alle nutrie che sono abituata a conoscere. Doveva essere una nutria col becco. Sono quasi sicura che quella protuberanza che mi è sembrata di intravedere sul muso fosse proprio un becco. Si muoveva con poca eleganza, lentamente. Non mi sofferma a guardarla con attenzione. Ho troppa fretta. E forse anche troppo timore. Solo a Milano potevo imbattermi in un animale così. Milano è strana. La sua fauna è strana. Accelero il passo. Meglio uscire il prima possibile da questo parco così mal frequentato. – Scusi, ha una moneta? – Un uomo, scuro di pelle e con un giubbotto logoro addosso, mi si avvicina. Lo accompagna un odore di cane bagnato. Porto una mano al naso per ripararmi dalla puzza. Non posso credere che a persone così sia permesso importunare gli altri. Possibile che nessuno intervenga? Dovrebbe esserci la polizia. Dovrei chiamarla. Non è il primo e non sarà l'ultimo a chiedermi dei soldi. Un conto è un ragazzo che prova a guadagnarseli, suonando. Un 24


conto è elemosinare. Spero di non cadere mai così in basso. Girovagare in un parco, avvicinare la gente, chiedere qualche moneta. Quell'uomo spera che io abbia soldi da buttare via. Come se io ne avessi anche per lui. Non ha idea di quanto possa costare un matrimonio. Di quanti sacrifici, economici e non, debbano essere fatti. Scuoto la testa, accelerando ulteriormente il passo e stringendo ancora più forte la borsa al petto. Un cartello pubblicitario mi invita al ristorante Copacabana Temakeria. Già il nome non mi convince. Queste cucine esotiche, un insieme di piatti e tradizioni così diverse, non mi entusiasmano. Per il mio matrimonio ovviamente ho optato per un agriturismo con cucina tipica emiliana. Non credo possa esistere di meglio: affettati di prima qualità, tortelli, risotti, arrosti. Per sceglierlo ho fatto una ricerca lunghissima. Doveva essere perfetto. Intimo, ma abbastanza spazioso da contenere tutti gli invitati e garantire un piccolo spazio per i festeggiamenti finali. Il giardino intorno è molto suggestivo. Ci sono posti così caratteristici quando si ha la voglia di uscire dalla città. Cascine ristrutturate, ville. Trasformate in ristoranti con menu tipici davvero interessanti. Io e Angelo non usciamo spesso a mangiare. Ma quando lo facciamo, abbiamo l'imbarazzo della scelta nella grande campagna in cui viviamo. Niente ristoranti esotici, però. La cucina italiana non ha rivali nel mondo. Scommetto che in quella Tomakeria o come diavolo si dice non si mangerà mai bene come nell'agriturismo in cui pranzeremo al nostro matrimonio. 92 invitati sicuri. 276 piatti. 276 bicchieri. 184 coltelli. 276 forchette. 92 cucchiaini. Sarà bellissimo. Deve essere bellissimo. Io e Angelo, al centro, sorrideremo a tutti. Saremo felici. Anche gli invitati saranno felici per noi. E il giorno dopo, finalmente, partiremo per la nostra crociera. Il viaggio di nozze l'ho scelto io. D'altronde Angelo non ha molto spirito d'iniziativa. Continuava a ripetermi che ciò che andava bene a me sarebbe andato bene anche a lui. Quando gli ho proposto una crociera nel Mediterraneo, mi ha fatto capire che sarebbe stato d'accordo. Sono 25


stata più di due ore nell'agenzia viaggi. Ho vagliato con l'operatrice tutte le possibilità. Abbiamo valutato i pro e i contro. E alla fine abbiamo fatto la scelta migliore. Angelo non c'era. Ovviamente. L'ennesimo turno di lavoro. Ma questo matrimonio è tutto nelle mie mani. Lui non mi è stato molto d'aiuto. “Come vuoi tu, a me va bene tutto” è la sua risposta tipica. Si fida del mio gusto e delle mie scelte. Di questo sono contenta. Nello stesso tempo, però, avrei preferito un po' di partecipazione in più da parte sua. Lui è lo sposo. Non un invitato qualunque. Sarà l'invitato principale. Quasi mi stupisco che non abbia fatto scegliere a me anche il suo vestito. Finalmente esco da Parco Sempione. In 5 minuti dovrei arrivare in banca. Se non mi capitano imprevisti. Sbuco sulla Piazza e mi accorgo subito di un ragazzino, fermo sulle scale, che rovista in una borsa. Milano mi ha insegnato a essere diffidente. Mi fermo qualche secondo più del necessario. Il ragazzino si accorge che lo sto fissando. Ricambia il mio sguardo, quasi spaventato. Lascia cadere la borsa che aveva in mano e scappa. Veloce come la luce. Lo osservo allontanarsi nel suo bomber verde militare senza riuscire a dire nulla. Scuoto la testa. Possibile che oggi mi capitino tutti questi brutti incontri? La borsa, scura, giace aperta sui gradini, facile preda del prossimo aspirante ladruncolo. Mi avvicino. Devo controllare. Capire se ci sono documenti. Portare la borsa alla polizia. Queste sono le cose giuste da fare. Sono le cose giuste da fare che mi faranno perdere molto tempo. Trovare il commissariato più vicino, raggiungerlo, spiegare, rispondere alle domande. Chiamerò l'ufficio. Comprenderanno il mio ritardo. Potrei raccogliere la borsa, passare in banca, poi alla polizia. Sì, mi sembra un buon piano. Unisco entrambi i doveri e mi comporto da brava cittadina quale sono. La borsa è semiaperta. Il contenuto fuoriesce. Si sarà sporcata finendo per terra. Provo un moto di compassione per la proprietaria. Il portafoglio che spunta dalla borsa sembra di pelle. Nero. Elegante. Devo prenderlo e controllare se ci sono i documenti. Mi sento 26


fiera di me stessa. Ho appena sventato un furto. Quel ragazzino non poteva che essere un ladro. Poi qualcosa attira la mia attenzione. Una busta. Non posso crederlo. 92 persone hanno già confermato la loro presenza. Dopo avere ricevuto una busta uguale a quella che sto osservando in questo momento. Le iniziali mie e di Angelo sono ricamate con cura. Due “A” intrecciate tra loro. Sobrie. E romantiche. Perfette per esprimere l'amore. Afferro la busta senza pensarci due volte. Chi conosciamo di Milano? Nessuno, a parte qualche mia collega. “Per Ave” leggo sul retro. La calligrafia è quella di Angelo. Non c'è nessuna Ave nella lista degli invitati. Che sia una parente del mio futuro marito? Possibile che non mi abbia avvisato? Sa che registro gli invitati sulla mia agenda, in rigoroso ordine alfabetico, dalla “A” di Abbà Alessio alla “Z” di Zanoni Valeria. Questa scoperta mi innervosisce. Rigiro per qualche istante la busta tra le mani. Non posso trattenermi. Devo farlo. Questa è la MIA busta. Devo sapere a chi appartiene. All’interno non c’è l’invito. Mi sarei aspettata di trovare un cartoncino color crema, con stampati i nostri nomi, i nostri indirizzi, la chiesa in cui ci sposeremo, e all'interno il foglietto con l'indicazione del ristorante. Ma non c’è nulla di tutto ciò. C’è una lettera. Una lettera scritta da Angelo. Riconosco la sua scrittura disordinata. Le “c” che somigliano a “e”, i puntini sulle “i” mai allineati. Cara Ave, perdonami per quello che è sucesso. Sei stata così importante, abbiamo condiviso momenti bellisimi…

Quanti errori di ortografia. Angelo ha il vizio di scrivere senza prestare attenzione. Glie’ho ripetuto un milione di volte.

…volevo dirti solo che mi dispiace, capisco di essere stato frettoloso quando ti ho detto che era meglio finire la nostra storia, una storia che per me e per te ha significato tanto, devi essere d'accordo anche te su questo…

Frasi costruite male. Angelo non ha davvero il senso della scrittura.

…abbiamo fatto una scelta frettolosa, so che te ne sei accorta anche tu…

La lettera è datata primo dicembre. È di qualche giorno fa. Di 27


qualche giorno fa. Angelo ha scritto una lettera. Mentre io organizzavo il nostro matrimonio. Mandavo gli inviti. Ricevevo le conferme. E le segnavo sul’agenda. Lui ha preso una busta - la nostra busta - e ha scritto una lettera. Invece di chiamare i suoi parenti che non ci hanno ancora dato la conferma, lui ha scritto una lettera. Invece di darmi una mano a scegliere i fiori, il fotografo, il viaggio di nozze, a controllare i preventivi, lui ha scritto una lettera. Invece di pensare a me, notte e giorno - la sua futura moglie - lui ha scritto una lettera. LUI HA SCRITTO UNA LETTERA. Quando la vedo avvicinarsi, capelli rosa e un sorriso sollevato sul volto, so già cosa devo fare. – Lui ha scritto una lettera – le dico, stringendo forte quella busta. Vorrei strapparla. Gettargliela addosso. Ma non sarebbe sufficiente. Sento le gocce di pioggia scivolarmi sul viso. Ha ripreso a piovere. Stranamente non mi interessa più né bagnarmi il vestito né le mie scarpe col tacco. – Lui ha scritto una lettera – le ripeto, alzando la voce. Lei mi guarda stranita. Sembra sorpresa. Forse anche spaventata. – LUI HA SCRITTO UNA LETTERA. Afferro con la mano libera una delle mie scarpe. In altre occasioni mi sarebbe dispiaciuto rovinarle. Sono nuove. – LUI. HA. SCRITTO. UNA. LETTERA. – Scandisco le parole, mentre colpisco. Accanto a noi passa un uomo. Si ferma a osservare. È tutto tatuato. L'ennesimo losco individuo che frequenta Parco Sempione. Sembra pericoloso. Non vorrei trovarmi a tu per tu con uno come lui, da sola, in una strada poco trafficata. Milano è una città pericolosa. Piena di gente pericolosa. È per questo che non voglio viverci. Continuo a colpire. Lei urla. Poi due braccia forti afferrano la mia mano e la mia scarpa. Sono costretta a fermarmi. – Lui ha scritto una lettera – ripeto per l’ennesima volta. E scoppio a piangere. 28


GUIDO

È la sesta volta da stamattina che mi devo fermare a pisciare e quello che esce ha un odore di animale putrefatto. Mi brucia come se qualcuno mi avesse infilato una sigaretta accesa nel sesso. Mi ricorda le torture a cui ho assistito in Iraq: quei fottuti gringo avevano una fantasia infinita. Non sono stato ad Ab Ghirba, ma la chiamavano la Las Vegas del’orrore. Gli yankee sono malati: con la loro fottuta mentalità puritana cacciano fuori gli istinti dalla porta, li fanno marcire nella palude del loro bigottismo e se li vedono rientrare dalla finestra. La verità è che veniamo tutti dalla giungla, noi colombiani lo sappiamo, la giungla da noi è ovunque, dentro e fuori le persone. Se lo accetti tutto è più facile, non hai bisogno di inventarti mille maniere per far parlare un cazzo di terrorista: basta infilargli la lama nella giugulare, è un attimo, e poi vedi che i suoi compañeros qualche parolina te la dicono. Guarda adesso come sono ridotto, nascosto dietro ai cespugli ad aspettare che quel’animale mendoso esca dal’acqua, io che in Iraq ero un dio, mi venivano a pregare per una misera dose, avevo clienti in tutti i livelli del’esercito: dagli ufficiali ai pulisci latrine. Se non fosse stato per quel lurido tenente che ha scoperto il nascondiglio della coca; mi voleva denunciare al tribunale militare... Mi avrebbero trasferito immediatamente in un carcere di massima sicurezza, e di là se non sei Esco bar non esci. Per fortuna avevo così tanti clienti che è stato facile scappare, ma ho dovuto regalare dosi di roba a tutti, hanno festeggiato per settimane. Per colpa sua ho dovuto rinunciare al mio sogno: il dottor Rodrigue, il chirurgo militare a cui facevo da guardia del corpo mi diceva 29


sempre: “Geronimo tu tiene la mano de oro” e voleva iscrivermi al corso per diventare assistente chirurgo di guerra. Geronimo è il mio secondo nome, anzi il primo, quello che mi hanno dato le suore del’orfanotrofio Santa Clara di Bogotà quando mi hanno trovato, e le mani d’oro me le ha date Dio: datemi una lama e vi farò un capolavoro, meglio di Botro, meglio di quel Leonardo che ha dipinto quel quadro slavato che sta qui vicino. Eccolo il bastardo de mierda , sta riemergendo dal’altra parte del lago, se lo prendo lo apro come una papaia, come un uovo di Pasqua nelle mani di un niño schizoide. Mi tocca correre prima che si infili in qualche altra pozzanghera, qui tutti corrono, è pieno di femmine secche come la morte che sembrano esalare l’ultimo respiro pur di perdere mezzo grammo. Non c’è un culo come Dio comanda neanche a pagarlo oro. Ah ma i culi sono pericolosi, e io non so resistere, lo sapevo che non c’era da fidarsi di quella zoccola con cui ho bagnato il biscotto la settimana scorsa. È stata lei che mi ha passato l’infezione. Mi sono andato a infilare in un bordello di terza classe a Iskenderia, ma non ce la facevo più: ero imbarcato da settimane, un uomo è un uomo, non si può vivere solo di coca. Certo i casini di Beirut sono un’altra cosa: ci trovi le più belle femmine del Medio Oriente, care come diamanti, ti succhiano fino all’ultimo dollaro, oltre al pisello. Secondo me pure questi scheletri ambulanti che corrono al Parco Sempione sono care come diamanti, ma non te la fanno neanche annusare, e poi dove le metti le mani? Sulle ossa? Ti sembra di mangiare un’ala di pollo mentre a me piace il budino al cocco, dolce e morbido, come il culo di una bella donna. – Vieni qua hijo de puta, marica, cabra , adesso non scappi più, hai finito di farmi correre in mezzo al fango, tu e quel rincoglionito di mio zio che invece di nasconderti in mezzo ai matusalemme della casa di riposo ti ha regalato al pulitore di culi. Ma tu pensavi di essere furbo, sei scappato, che cercavi? L’odore della fica? Mujeriego pure tu. Non ti preoccupare, adesso ti porto a casa e facciamo una bella fesA ta ..... – gli ho urlato sul muso e l’ho preso. E adesso? No! Ancora lo stimolo, se non trovo un cesso la faccio 30


qui, sopra la testa dell’ornitorinco. Là c’è un’insegna: “Oasi bar”, sì proprio un’oasi in questo deserto di pioggia e smog. – Buona sera, un caffè por favor. Dov’è il bagno? – Lì in fondo a destra, ma che cos’è quell’animale? – Glielo spiego dopo.... Un bagno più stretto non lo potevano fare, e la lampadina sembra avere l’asma all’ultimo stadio. – Te gusta aqui? Mierda y piscio, qui sì che sei a tuo agio. Se non era per te a quest’ora ero già a casa di quel cacamerda dello zietto Geremia, sono riuscito a farmi dare le chiavi, tanto lui che se ne fa? Da quell’ospizio non esce più di sicuro, mentre io ho bisogno di un posto al di sopra di ogni sospetto: nessuno può immaginare che nell’appartamento di un tranquillo pensionato è stata installata una raffineria di coca, una vera cocina . Mi metto in proprio, basta girare il mondo su delle latrine che navigano: ho una certa età, quest’anno arrivo ai quaranta. Ma sono ancora forte come un toro e mi si drizza a comando e pure quando non dovrebbe. L’animale non mi ascolta, continua ad agitarsi, mi sa che ha capito che voglio fargli il servizietto. – Vieni, andiamo a prendere il caffè – gli sussurro. – Il mio caffè per favore! – Eccolo – mi risponde il ragazzo del bar. – Scusi, ma che animale è? – mi chiede una donna appoggiata al bancone. L’accento è sudamericano, ma non riesco a identificarlo. – Es un ornitorrinco. Le gusta ? Sono in due, non tanto alte, ma con le curve al posto giusto. Ridono, aspettate che vi faccio ridere io mujeres. – Si chiama Buster, è australiano, l’ho regalato a mio zio che sta in una casa di riposo, poveretto, ma è scappato. E voi da dove siete scappate? Bolivia? – No, Equador, ma viviamo a Milano y uste? – mi chiede una delle due sorridendo. – Colombia, adottato all’età di sette anni da genitori italiani, pero 31


mi corazòn està siempre en Colombia .

– Pericolosi voi colombiani... – Continuano a ridere. – Il pericolo è il sale della vita, quello che ti fa bollire il sangue e ti fa sentire vivo, o mi sbaglio? – le provoco. – Dipende... – mi risponde una di loro e non capisco se sorride o è impaurita. – Il pericolo non esiste se sei abbastanza forte per affrontarlo – le rispondo. Sollevo il maglione e mostro il tatuaggio che ho sulla pancia: un coltello con la scritta “No tengo miedo” . – Guardate qua, niñas, lo miro todos los dìas! Sgranano gli occhi, il tatuaggio fa sempre il suo bell’effetto. – E quando saremo più in confidenza vi mostro anche gli altri – continuo. Deglutiscono, ma vedo un certo bagliore nei loro occhi: curiosità, odore di maschio o l’ormone che sta facendo il suo lavoro? – Mi faccia il conto, offro io alle señoritas. – Grazie, ma non deve, signor? – fa la più loquace delle due, e continuo a vederle negli occhi una luce sospetta. – Guido Jeronimo Franzoni, piacere. Venite spesso qui a prendere il caffè? – No, non siamo del quartiere, abitiamo in Via Padova, di solito il sabato andiamo all’Amaranta Club, lo conosce? – lancia con falsa indifferenza. Ho capito che stai lanciando l’amo, e io abbocco, niña , non sai che pesce ti arriva. – Sì lo conosco, ogni tanto ci vado, ma troppa gente, è difficile trovarsi lì dentro. Datemi il vostro contatto, vi chiamo la prossima volta che faccio un giro da quelle parti. – Adesso l’ho buttata io la rete, vieni mi amor, oggi ne pesco due al prezzo di una. Lei prende un tovagliolo di carta e scrive il suo nome: “Maria Angeles”, e un numero di cellulare. Mi passa il tovagliolo e le si stampa sulla faccia un’espressione come di bambina, come di chi già pregusta la fetta di torta che mangerà a merenda. 32


Le sfioro le dita un secondo di troppo. È che sono di fretta, sennò a questa facevo il tagliando già stasera stessa. Sarà l’entusiasmo per il boccone prelibato che mi sto preparando, ma Buster mi scivola dal braccio e s’incammina verso l’uscita. In quel momento entra un uomo che lascia sbadatamente la porta aperta e l’ornitorinco esce. Senza spostare lo sguardo dalle mie due nuove amiche dico: – Adesso devo andare, altrimenti chissà dove va a nascondersi di nuovo il mio animale da compagnia. Saluto ed esco correndo dal bar, il merdoso è già arrivato vicino alla fontana, ho corso più oggi che negli ultimi sei mesi, eccolo, si è tuffato di nuovo dentro a uno stagno. La mia pazienza sta per finire, facevo meglio a infilarmeli nel culo quei tre diamanti e a non cacare per tutto il viaggio dall’Australia a qui. Ne ho bisogno per pagare la partita di coca che mi hanno spedito i miei amici Santiago e Pablo, ci conosciamo da una vita, dai tempi dell’orfanotrofio. Che carriera hanno fatto i due fratelli Castillo: sono una garanzia nel mondo del narcotraffico, ma non mi hanno mai dimenticato, ovunque fossi nel mondo riuscivano a farmi avere la mia piccola riserva. Entro stasera devo recuperare la capsula con i diamanti che ho infilato sottopelle all’ornitorinco, mi era sembrata un’idea geniale: un animale destinato per errore all’Acquario di Genova, nessuno avrebbe sospettato, nemmeno la polizia portuale di Sidney che era salita a bordo dopo la denuncia di quel fottuto ebreo che avevo scippato. Di certo non sono uno scippatore, ma ero a corto, sin plata , è stato un diversivo, pensavo ci fossero soldi nel portafogli, e invece che sorpresa: tre diamanti rossi, l’occasione della mia vita, il capitale di cui ho bisogno per fare il salto di qualità. Ho finito con il lavoro di guardia armata sui cargo in culo al mondo, adesso mi piazzo a casa di zio Geremia, raffino e rivendo agli spacciatori di quartiere. I calabresi sono d’accordo, una percentuale va anche a loro, così completano “l’offerta” hanno detto. Ma se quell’animale infame non riemerge mi immergo io e lo strozzo con queste mani, non aspetto neanche di 33


portarlo a casa per aprirlo come una scatoletta di tonno. – Eccoti, adesso andiamo a casa, chorizo, e non scappare un’altra volta che ti affetto per strada – gli soffio nell’orecchio mentre lo afferro. Ho parcheggiato la macchina vicino a Chinatown, mi tocca camminare ancora sotto questa pioggia grigia, sento l’umido fin sotto i tatuaggi, il pelo dell’animale è tutto bagnato e a furia di tenerlo stretto mi si sono infradiciati i vestiti; come se non bastasse l’uccello ricomincia a bruciarmi. Tra i fari delle macchine intravedo la luce verde lampeggiante di una farmacia, magari possono darmi qualcosa. La farmacista ha una faccia capace di farlo ammosciare anche a un ergastolano appena scappato da vent’anni di isolamento: non sono gli occhiali né i capelli tirati indietro stile maestrina frigida, ma è lo sguardo e il modo in cui socchiude le labbra, con un’espressione tra lo schifato e chi sta reprimendo conati di vomito. La vecchia che è davanti a me in fila sembra stia facendo la spesa per il pranzo di Natale: ha comprato tante di quelle medicine da poter imbandire una tavolata e servire otto portate partendo dall’antibiotico per arrivare alle supposte per le emorroidi. Piuttosto che ridurmi così mi infilo il coltello nelle vene e saluto tutti. Finalmente il mio turno, Buster si divincola, devo tenerlo talmente stretto che tra un po' gli vengono i lividi. – Buonasera, vorrei un antibiotico per la cistite. – Ha la ricetta del medico curante? – mi risponde Miss Frigidezza. – Non ho avuto il tempo di andarci, mi dia qualcosa per arginare il problema, ci passo domani. – Immagino non abbia neanche fatto l’urinocoltura, senza l’antibiogramma non posso sapere qual è l’antibiotico indicato al suo caso – sibila e assume la postura dell’animale a sangue freddo che ha dentro. Un rettile ha più umanità di questa mal follada , mi guarda, solleva le sopracciglia e sembra quasi allargare le orecchie, come un cobra che si prepara ad attaccare, sta per tirare fuori la lingua, ma io la blocco: 34


– Escucha , culo di ghiaccio, se vuoi la ricetta te la disegno sulla faccia con la punta del coltello che ho in tasca. Non perdiamo tempo che dietro di me c’è una fila di bacucchi incontinenti. Dammi questa minchia di antibiotico e amici come prima. – Non si permetta! Esca immediatamente o chiamo la polizia! – strilla con voce arrochita dalla paura. Allungo la mano destra oltre il bancone, la tiro per il bavero del camice grugnendo: – Fica ammuffita che non sei altro, ancora non hai capito con chi hai a che fare? Se vuoi arrivare a mangiare il panettone ti conviene darmi la medicina che ti ho chiesto. – Che sta succedendo qui? – chiede una voce alle mie spalle. Mollo la presa, mi giro e mi ritrovo davanti a un muro in divisa da poliziotto. Sarà alto due metri, accento siciliano, arma d’ordinanza nella fondina. Ho un flash: oltre al coltello a serramanico che tengo sempre nella tasca del pantalone, ho anche il tubetto con tre o quattro dosi di coca nella fodera della giacca. Se mi perquisisce finisco dritto dritto in gabbia per i prossimi Natali e addio al mio progetto di cambiare vita, proprio ora che c’ero così vicino. – Favorisca i documenti, e stia calmo – mi intima con voce secca. Tiro fuori la carta d’identità, e mi chiedo da dove è venuto fuori questo, mi guardo intorno e capisco: c’è una porta da cui sta uscendo un’altra farmacista, era nella saletta a misurarsi la pressione o a farsi fare un pompino. Ma adesso sono io ad essere inculato se non trovo una via d’uscita da questa situazione. Mentre cerco una soluzione entra una signora con l’affanno, bianca come il vomito di un bambino, urla: – Presto, ci sono due donne che si stanno picchiando all’entrata del parco! Il poliziotto alza lo sguardo e risponde: – Manco fossimo a Quarto Oggiaro, oggi il Parco Sempione si è trasformato in Gotham City! Finisce di trascrivere su un taccuino i miei dati, mi restituisce il documento ammonendomi: – Segnalo le sue generalità in centrale, adesso devo andare, ma se si permette di nuovo di minacciare qualcuno lei passa i guai. 35


Il muro vestito da sbirro esce a grandi falcate dalla farmacia, ma appena fuori la soglia si gira lanciandomi un’occhiata intimidatoria. Guardo la farmacista, sembra che stia per vomitare davvero, sistemo l’ornitorinco sotto l’ascella, come fosse una baguette e mi lascio scivolare nel flusso di pedoni e di auto del fine pomeriggio. La pioggia è aumentata, l’acqua mi cola sulla faccia entrandomi negli occhi, le luci dei fari delle auto sono dei flash abbaglianti, ma il vero problema è l’animale che diventa sempre più scivoloso e cerca di fuggire. Non posso proprio permettermi di perderlo ancora una volta, questa giornata è stata devastante: prima il tira e molla con mio zio per farmi dare le chiavi, poi mentre ero in bagno quello sclerotico ha avuto la bella idea di dare Buster all’inserviente, mi è toccato fare un inseguimento alla Starsky & Hutch nel traffico milanese... Per puro culo l’animale è scappato, ma si è andato a infilare in tutte le cazzo di pozzanghere esistenti tra Paolo Sarpi e il Castello Sforzesco. Appena a casa lo appendo e lo squarto come un maiale, peccato che la carne sia velenosa, sennò ne facevo una salsicha . Che hanno questi musi gialli da guardarmi? Non hanno mai visto un animale peloso, o pensano che sia un cane e immaginano le polpette che potrebbero farne? Mi gioco le palle che in uno di questi cortili c’è un macello di animali domestici, vuoi che i cinesi rinuncino a mangiare le loro prelibatezze canine solo perché vivono a Milano? Sono quasi arrivato, non vedo più niente, questa pioggia mi ha allagato lo sguardo. – Ahi! Adesso anche una fitta all’inguine! – urlo piegandomi in due dal dolore. Buster mi scivola dalle mani, riesco a inspirare e a tirarmi su, è come se qualcuno mi avesse infilato uno spiedino nell’uccello. Respiro, cerco l’animale merdoso con lo sguardo, è in mezzo alla strada, mi do una spinta con le gambe e salto per prenderlo, lo afferro. Un botto. Il rumore che ho sentito forse viene dalle mie ossa. L’unica cosa che vedo è il parafango, sto annegando nella pioggia che mi entra nel naso e nella bocca. Non sento nessun rumore, solo il 36


ritmo ossessivo e accelerato delle mie vene nelle orecchie. D’istinto mi porto alle labbra il ciondolo a forma di crocifisso che ho al collo. Madre de Dios, sto morendo. Così, come un coglione investito in mezzo alla strada. È come un sogno, vedo suor Inés che mi chiama: è sulla porta dell’orfanotrofio, mi sorride, capisco dai suoi gesti che vuole che entri, ho paura, ma suor Inés ha un buon profumo, mi sento a casa, mi paraìso encantado, Colombia. Buio.

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MARCO

– Salve sono Marco, come posso esserle utile? Incredibile come questa frase inizi a perdere significato dopo un po' che la ripeti, ancora qualche mese e inizierò a presentarmi così anche per strada. Il signore davanti a me continua a scrutare avidamente i laptop sullo scaffale, probabilmente starà controllando che ci siano tutti i tasti o ancora meglio si starà chiedendo dove si inserisce l’inchiostro. Trattengo una risata e ci riprovo – Signore? Salve sono Marco, come posso aiutarla? Ogni tanto cambiare le parole mi aiuta a non sentirmi un automa, anzi più che altro un attore il cui palcoscenico è questa simpatico corridoio e il cui pubblico è una serie di laptop e tablet. Finalmente si volta verso di me e mi guarda spaesato. Un signore tra i sessanta e i settanta anni, bassino e con gli occhiali che sta per dirmi che ha poca dimestichezza con i computer e deve fare un regalo a figli o nipoti. – Oh sì, salve. Dovrei comprare un regalo ma purtroppo non ci capisco molto, è per mia nipote tra pochi giorni è il suo compleanno e poi sa è al suo primo anno di università. Nipote, appunto: – Allora vediamo, per cosa lo utilizza sua nipote principalmente? – La mia domanda è un’altra battuta di questa recita che si ripete quasi ogni giorno e posso già sentire la sua risposta, che puntuale arriva. – Eh, in realtà non saprei, so che lo usa molto e mia figlia si lamenta che ci passa anche troppo tempo… – Sospira e so cosa sta per succedere, ormai è nell’aria. – Sa, ai miei tempi si usciva, si passava più tempo all’aria aperta e 39


con gli amici si parlava di persona non attraverso questi pezzi di plastica. – Eccolo lì, l’immancabile pippone intergenerazionale. Non che abbia tutti i torti per carità, è solo che non capisco questo irrefrenabile desiderio che hanno le persone di una certa età di condividerlo con tutti. Diventerò anche io così? Lo interrompo prima che arrivi a parlarmi dei suoi problemi di salute: – Ha perfettamente ragione... Comunque, mi diceva che ha da poco iniziato l’università. Che cosa studia sua nipote? Così magari riesco a consigliarle meglio. – Allora, lei studia matematica. È sempre stata molto brava coi numeri sa, ricordo quando era piccola riusciva a fare le moltiplicazioni a mente. Mia figlia glielo diceva sempre che era portata e che da grande doveva continuare a studiare e infatti siamo tutti molto orgogliosi. Mai una volta che rispondano con meno di cento parole, penso. – Beh allora una ragazza giovane che studia matematica può trovare molto utile questo tablet. Ottima risoluzione, 10 pollici, perfetto per fare ricerche su internet, prendere appunti ma anche per guardare un film dopo una lunga giornata di studio. – No, no – replica scuotendo vistosamente la testa. – Mia figlia ha detto di prenderle un computer, niente cose strane. Cose strane, sospiro nuovamente nella mia testa, penserà che un tablet sia una specie di specchio magico. – Perfetto, allora le consiglio questo modello. Garantisce ottime prestazione e il processore a bassi consumi garantisce una durata della batteria superiore a molti altri portatili della stessa categoria. – Capisco – risponde lui. – Ci penso allora, sembra molto bello ma sa devo chiedere anche a mia moglie e a mia figlia. Però lo terrò sicuramente in considerazione, grazie mille. Sfodero un sorriso e con un altro grande classico mi allontano. – Si figuri, se ha bisogno mi dica pure. Probabilmente alla fine non comprerà nulla, penso mentre mi allontano e mi dirigo al reparto telefonia. Per fortuna il turno è quasi finito, il tempo di chiamare Giacomo posare il cartellino e sono libero. Lo stomaco mi inizia a brontolare per la fame. Accelero il passo. 40


– Allora cinque minuti e andiamo? – esordisco arrivando al bancone. Lui non si volta ma continua a fissare lo smartphone mentre una cliente intenta a riporre il portafoglio nella borsa lo saluta e si allontana allegra con una busta in mano. – Buona giornata – risponde pigramente. – Ehilà – dice infine, ancora chino sul piccolo display. – Bene, quindi sei riuscito a concludere una vendita? – Sei, in realtà – mi risponde col suo solito tono di voce inespressivo, che dopo l’allegra chiacchierata con il vecchietto di prima mi altera e non poco. – Si può sapere come fai? No, seriamente come riesci a interagire così bene con tutti questi idioti? – Finalmente allontana lo sguardo dal cellulare. – Intendi qui in negozio o in generale? Nonostante lo conosca ormai da due anni le sue risposte continuano a spiazzarmi. Ignoro la domanda, che probabilmente uno psichiatra definirebbe un probabile indicatore di autismo e continuo sconfitto. – Lascia stare, stupido io a chiedere. Ci cambiamo e andiamo via? Non so te ma io ho una certa fame. – Certo, dammi solo un minuto. Finisco una cosa e ci sono – mi risponde tornando a fissare il telefono. – Va bene, ho capito. Io intanto vado a cambiarmi. Non ne posso più di indossare questa stupida polo rossa. Ci vediamo nel parcheggio. Mi allontano e mi dirigo verso lo spogliatoio, o per essere più precisi il magazzino. Certo, per cambiarsi una maglietta non serve chissà cosa però... Sospiro e attraverso i vari reparti, ripasso davanti il mio e con la coda dell’occhio noto che il vecchietto di prima gira ancora spaesato tra i portatili. Ho paura che sarà lì ad aspettarmi anche domani. Sostituisco velocemente la polo con una maglietta e un cardigan azzurro e mi avvio verso l’uscita a passo spedito. Le porte si aprono davanti a me e il piacevole tepore interno viene sostituito da un freddo umido che solo Milano riesce a regalare. Mi appoggio ai vetri e guardo il cielo. Certo, non mette allegria così grigio e cupo. Non piove ancora, non proprio almeno. L’aria è piena 41


di minuscole goccioline, come se la città fosse irrorata di acqua nebulizzata. Praticamente è l’una del pomeriggio e sembrano le quattro, fa freddo e in più ti bagni anche con l’ombrello. Bella giornata di merda. Le mie argute riflessioni sul senso della vita vengono interrotte da Irene, la ragazza che lavora nel reparto elettrodomestici. Attraversa le porte e mi passa a pochi centimetri di distanza senza notarmi. É bellissima, cazzo, occhi azzurrissimi, capelli di quel castano tendente al rosso che non riesco mai a definire, per me i colori non sono più di dieci in tutto. Ha i denti leggermente sporgenti è vero ma sono compensati da una risata che mette allegria e che certe volte riesco a sentire a vari metri di distanza. Due anni, due anni che sono qui e non l’ho mai invitata a uscire. Sospiro. – Perché non la saluti e le chiedi di venire a mangiare con noi? O ancor meglio, solo con te? L’arrivo improvviso di Giacomo interrompe il mio fantasticare, mi ha rovinato il cenone di Natale. Sono venuti a trovarci anche i nipoti, li vediamo così di rado che Irene aveva cucinato tutti i loro piatti preferiti. Dopotutto quel vecchietto aveva ragione, crescono così in fretta… Freno il mio divagare prima di arrivare all’età pensionabile. – Chiedere a chi? – rispondo, preso in contropiede – La tizia, quella che è appena uscita. Stai sempre a fissarla quando non ci sono clienti, Perché non le chiedi di uscire? – ribatte Giacomo mentre si accende una sigaretta. Gli rispondo leggermente arrabbiato: – Irene, come fai a non ricordarne il nome? Lavori qui da prima di me. E poi tu che ne sai di…Perché ti sei acceso una sigaretta? Stiamo andando a pranzo e... e poi insomma perché ti viene in mente una cosa del genere... – Ne vuoi una, perché? – risponde placido lui mentre mi porge il pacchetto di Marlboro e dopo uno sbuffo di fumo aggiunge: – Riguardo il nome non mi interessa molto parlare con lei quindi la trovo un’informazione inutile da tenere a mente con così tante cose utili che potrei ricordare, probabilmente tra poco l’avrò già dimenticato. Tornando in tema, certo potrei elencarti tutte le microespressioni che 42


ho notato quando ti passa vicino o quando chiacchieri con lei alle macchinette del caffè ma in realtà te l’ho chiesto principalmente perché qui le porte sono trasparenti e ti si vedeva chiaramente sospirare mentre passava. Lo fisso con stupore, ormai dovrei essere abituato alle sue risposte ma riesce sempre a prendermi in contropiede. Lo stupore lascia il posto al fastidio, perché tutto sommato lo so: ha ragione lui. – Sei un rompicoglioni, butta quella cosa e andiamo a pranzo. In meno di cinque minuti siamo seduti al tavolo, oggi tocca a Giacomo scegliere e ovviamente siamo in pizzeria. La cameriera ci saluta e senza nemmeno darci il menu posa sul tavolo due bottigliette ghiacciate di acqua frizzante per poi esclamare “Il solito?”. – Sì, grazie – rispondiamo in coro. Mi giro verso Giacomo e riprendo il discorso interrotto. Ha di nuovo il capo chino su quel cazzzo di telefonino. – Comunque avevo già pensato di chiederle di uscire, solo che aspettavo l’occasione giusta. – Chiedere a chi? – domanda lui senza distogliere lo sguardo. – A Irene! Ne stavamo parlando cinque minuti fa – ribatto. – Ah già, quella tizia lì, ho capito. Ma secondo te ci vuole ancora molto per la pizza? Ho una fame... Mi porto le mani al viso e resisto alla tentazione di dargli una testata. Lascio cadere il discorso, tanto con lui non se ne esce. – Manca poco, credo le stia infornando ora. Tranquillizzato, ritorna al suo cellulare e al tavolo cala il silenzio. Certo, a eccezione di quel continuo tap tap sullo schermo. – Senti ma si può sapere che cazzo stai facendo con quel… – Oh, ecco le pizze. La cameriera poggia agilmente le margherite davanti a noi e ci augura buon appetito. Devo ammetterlo, la fame batte la curiosità. Ora mi interessa solo riempire lo stomaco. Mentre piego l’ultimo saporito triangolo di pizza riprovo a fare 43


conversazione. – Lavorare in quel negozio mi sta uccidendo. Avevo dei progetti quando sono venuto qui, doveva essere solo un impiego temporaneo. Ieri poi ho avuto un’idea geniale, secondo me questa è la volta buona. – Non dirmi che stai per mandare un altro script alla Pixar sperando che ti rispondano? – No, stavolta ho deciso di realizzare direttamente un corto. Si apprezza meglio di un banale script allegato in una mail. Senti qua, il protagonista è un gufo detective. Ho già i primi disegni del personaggio e senti qua: prima scena del corto. Viene convocato dal capo della polizia per uno spinoso caso di omicidio, nessuno riesce a venirne a capo. Impugna sicuro la sua lente di ingrandimento, si avvicina al cadavere del malcapitato ed esclama “Uhhh”. Dai, cazzo, devi ammettere che il gufo che fa “Uhhh” quando trova un indizio fa morire dalle risate, è geniale. Giacomo poggia l’ultimo quarto di pizza nel piatto, socchiude gli occhi come se ci stesse pensando su e dopo un secondo esclama: – Secondo me è una stronzata. – La verità è che non hai senso dell’umorismo – gli dico offeso. – È un gran personaggio. – Non mi fraintendere, il personaggio è simpatico: il gufo dà effettivamente un’idea di saggezza. Magari lascia stare l’esclamazione. Pensa a dargli una spalla, tutti gli eroi ne hanno una. – Vabbè, lasciamo stare. Meglio andare, si sta facendo tardi. Mi rimetto la sciarpa e il giubbino e mi avvio alla cassa. Non chiedo nemmeno quant’è e appoggio sul bancone i soldi. Sistemo il resto nel portafogli mentre Giacomo versa la sua quota. Nemmeno il tempo di uscire che lo vedo infilarsi le mani in tasca alla ricerca del pacchetto di sigarette. – Dai, sono le due. Siamo già in ritardo, devi per forza fumare ora? – Dovresti rilassarti, sicuro che non ne vuoi una? Sembri parecchio teso. – Sarei più rilassato se non dovessi iniziare un secondo lavoro dopo pranzo. Fumala camminando almeno. 44


Come se fossi contento di dover fare due lavori per arrivare a fine mese, di prendere la macchina, girare in questa caotica città, caricarmi pacchi sulla schiena e consegnare la spesa a qualche vecchietto che non esce di casa dai tempi della guerra. Certo meglio che far la fame e poi... realizzare un corto costa, e non solo tempo. Devo farlo, non arriverò a quarantanni a consigliare portatili e a consegnare scatolette per gatti. Cazzo, spero di non farlo più nemmeno l’anno prossimo. Ci dirigiamo verso la macchina, mi tiro su il cappuccio ma è inutile, sento proprio che sto respirando acqua. Maledetta finta pioggia milanese. La mia Panda rossa è lì che mi aspetta, già pronta con qualche pacco da consegnare nel bagagliaio. Se non altro ormai mi sono organizzato bene, la sera passo al magazzino a ritirare tutto quello che non deve essere consegnato subito e mi porto avanti con il lavoro. In questi casi o ti organizzi o non se ne esce. Mi siedo e come prima cosa accendo il riscaldamento per asciugarmi vestiti ed ossa, mi manca solo di prendermi l’influenza. Giacomo butta via la cicca di sigaretta e prende posto lato passeggero. Il tempo di allacciare le cinture, inserire l’indirizzo sul cellulare e siamo già in cammino per la prima consegna. Percorriamo la circonvallazione per un lungo tratto e abbastanza spediti, che a quest’ora significa fare un chilometro in dieci minuti. Nonostante abbia cercato di fare il prima possibile siamo bloccati nel traffico post pranzo e la quantità di semafori non aiuta. Eccolo lì, rosso, un ennesimo semaforo rosso. Di questo passo faremo tardi, di nuovo. – Spostati sulla corsia di sinistra, dobbiamo svoltare. Accelero, finalmente l’agognato verde. Svolto a sinistra seguendo il mio navigatore parlante. Il fatto di trovarmi improvvisamente in una strada senza traffico così vicino la circonvallazione mi stupisce sempre, contemporaneamente mi innervosisce. – Usciti dalla circonvallazione, il vuoto – dico, ad alta voce. – Probabilmente è l’unica strada di Milano libera a quest’ora. – Rallenta – risponde Giacomo laconico. 45


Mi giro verso di lui, fuma tranquillamente con una mano fuori dal finestrino e il cellulare nell’altra. Sembra sempre che non abbia un problema al mondo, è un anno che mi accompagna in questo secondo lavoro e mai una volta che l’abbia visto preoccupato. Devo dire che almeno è di aiuto avere un navigatore e qualcuno che ti aiuti a scaricare o anche solo resti in macchina, evitando di perdere tempo a cercare parcheggio. Permette di fare un sacco di consegne in un pomeriggio. E in un lavoro in cui vieni pagato con una percentuale dei costi delle consegne, sono soldi in più in tasca. L’idea è stata sua. Dopo aver fatto qualche conto su un tovagliolo mi ha detto che avere un partner avrebbe paradossalmente aumentato i miei guadagni. “Che enorme stronzata” fu la mia risposta. Il pomeriggio stesso provammo, da allora siamo colleghi anche nel mio secondo lavoro. – Oh, finalmente un parcheggio. – Accosto e allineo la Panda al marciapiede. – Dai, butta ‘sta sigaretta che per questa consegna devi salire anche tu, sono pacchi pesanti e da solo non riesco a portarli entrambi. Scende dalla macchina e in silenzio prende il pacco che gli indico. Ha un caratteraccio ma alla fine tutto quello che mi ha consigliato di fare finora si è sempre risolto a mio vantaggio. Mentre saliamo le scale del condominio immersi nella sonnolente atmosfera post pranzo mi giro verso di lui, che mi segue nella salita. – E che altro mi consiglieresti oltre all’aggiunta di una spalla? – Immagino che non ti riferisca all’articolazione ma al tuo cartone animato. Dovresti iniziare a mettere qualche soggetto in più nelle tue frasi, sei fortunato che almeno io ti capisca. – Un corto animato, non un cartone – preciso. – Quel che è, comunque ti focalizzi troppo sull’ironia quando ciò che rende davvero grande un’opera è il suo scopo, cosa vuoi davvero raccontare? Arriviamo finalmente al piano giusto e la domanda cade nel vuoto. Bussiamo al campanello indicato nella consegna, un paio di studenti accolgono allegramente il pacco e ci ringraziano. Salutiamo educata46


mente e scendiamo i quattro piani di scale decisamente più leggeri, mentalmente sento i pochi, pochissimi euro arrivare sul mio povero conto. – Ma non è di questo che volevi parlarmi, giusto? Restando in tema di scopi immagino che il tuo fosse ritornare a parlare di Irene. Autistico e pure telepatico, mugugno nella mia testa. – Ma come..? – riesco a dire io, sorpreso. – Come ti dicevo, metti pochi soggetti ma riesco a capire uguale dove vuoi andare a parare – continua lui mentre rientriamo in macchina. – Il mio consiglio è il medesimo di stamattina, chiedile di uscire. Vuoi che ti elenchi le motivazioni o almeno stavolta ti fiderai? – Non so, prima o poi lo farò. C’è tutto il tempo, devo solo trovare l’occasione giusta. Sento che sta per ribattere con una fila interminabile di ragioni inoppugnabili per cui il mio procrastinare è una puttanata ma viene bloccato dallo squillo del telefono. Salvo, almeno per ora. Il numero sul display è del nostro capo, il telefono sembra squillare con più enfasi del solito. Ignoro le mie solite seghe mentali e rispondo. Un minuto dopo sono già in viaggio a quella che probabilmente un vigile considererebbe una velocità non adatta a una strada urbana. – Vista la fretta immagino sia qualcosa di urgente – mi dice Giacomo mentre arrotola con delicatezza la cartina intorno il tabacco. – Hai presente il nostro contratto migliore, quella Temakeria in Sempione? Beh, a quanto pare un qualche personaggio famoso, calciatore, attore o cazzo ne so io ha prenotato tutta la sala tra tipo due ore e non hanno la dispensa abbastanza piena per tenerli tutti buoni. Non si aspettavano tutta questa gente all’improvviso capisci? Ma che fai, dici no a un uno che ti prenota la sala intera? – Immagino di no, cosa dobbiamo prendere? – risponde lui disinteressato. – Non lo so di preciso, probabilmente un sacco di roba. Ha detto di tornare al magazzino e lasciar perdere le altre consegne. Sicuro un sacco di alcol, quel posto lì ordina sempre un sacco di quelle bottiglie strane, sai quelle lì che hanno il nome esotico. 47


– La cachaça . Un'acquavite molto comune in Brasile, si ottiene dalla distillazione del succo di canna da zucchero. Si usa per il Caipirinha – mi interrompe lui, sbuffando fumo fuori dal finestrino. – Fammi capire, il cazzo di alcol più bevuto in Brasile te lo ricordi ma non sai come si chiama una collega con cui lavori da non so nemmeno quanto? – Potrebbe tornarmi utile un giorno saper fare un Caipirinha, il nome della tua amica no. Sei tu che devi chiederle di uscire mica io – risponde lui calmo, riprendendo in mano il cellulare. Sono tentato dal frenare di colpo e vedere se riesco a fargli volare quel cazzo di telefonino o almeno a fargli sbattere la testa. Lascio perdere, siamo arrivati al magazzino e mi serve tutto intero per questa consegna. Se va bene sono soldi, e pure tanti. Il capo ci ha promesso anche un extra oltre la solita percentuale, potrebbe darmi una bella mano per produrre il mio corto prima che esca Cars 6. Scendiamo dalla macchina, grazie alle mie quasi gentili esortazioni in un tempo record abbiamo la macchina satura. Ripartiamo salutati dal ding ding delle bottiglie stipate nel portabagagli. – Hanno lasciato anche qualche bottiglia in Brasile o devo avere qualche povero ubriacone sulla coscienza? – chiede Giacomo con la sua solita flemma. – Non lo so, l’importante è che più sono, più soldi ci sono per noi. Pensa ad indicarmi la via, siamo abbastanza lontani e non abbiamo molto tempo. Sfrecciamo per le vie di Milano imboccando una traversa dopo l’altra, un semaforo dopo l’altro. Possiamo seriamente farcela, possiamo seriamente farcela, penso. Nemmeno il fatto che abbia iniziato a piovere più forte può frenare il mio buonumore. Il mio ottimismo si infrange appena svoltata l’ennesima curva contro una scogliera di metallo formata da quello che sembrano mille macchine. – Non ci credo…– dico, spalancando gli occhi. – Ah, è vero, da queste parti c’è uno dei cantieri dell’M4, il traffico sarà dirottato tutto qui. La gestione del traffico di una città deve esse48


re un problema interessante – esclama Giacomo trasognante. – Che cazzo ci frega dell’urbanistica ora? Come arriviamo in tempo alla Temakeria? – Appena riusciamo ad arrivare al prossimo incrocio svolta a destra. Allunghiamo leggermente ma evitiamo l’ingorgo. Dopo un’attesa sembrata interminabile riesco a divincolarmi dalla ferrea presa del traffico milanese. Premo forte l’acceleratore e proietto la mia Panda rossa su Viale Regina Giovanna. In un attimo stiamo già superando Piazza della Repubblica, Garibaldi, ecco Monumentale. Ormai non manca molto. – Rallenta – mi dice Giacomo tenendo stretto il telefonino in una mano. Sono riuscito a fargli staccare gli occhi dal quel cavolo di aggeggio, penso io. – Siamo quasi arrivati e non abbiamo molto tempo, se ritardiamo niente bonus e, a parte quello, non credo che il capo la prenderà bene. – Non sappiamo nemmeno se possiamo passare di qui, rallenta. Ormai ce la facciamo, siamo quasi arrivati. La strada è anche bagnata – continua lui, mentre imbocco Via Giorgione. – Senti, non possiamo correre rischi. Non voglio continuare a fare il commesso di mattina e il fattorino di sera per tutta la vita, ho dei progetti io e dovresti iniziare a farne anche tu. Non si può mica… Non riesco a finire la frase, un uomo con in braccio un gatto o qualcosa del genere salta improvvisamente fuori dall’isola di traffico. Di istinto sterzo bruscamente per evitare di investirlo, ma la manovra peggiora solo le cose. L’asfalto bagnato fa slittare la macchina e il fragoroso botto precede di poco l’urlo dell’uomo. Viene sbalzato via dal fianco della mia macchina e il gatto gli vola dalle braccia senza emettere un suono. – Che cazzo era? Da dove è uscito? – urlo, in preda allo shock. – A occhio direi un ornitorinco in braccio a un… direi un peruviano, ma non ne sono sicurissimo – risponde Giacomo flemmatico. – Piantala con le tue stronzate, chiama una cazzo di ambulanza! Esco di fretta dalla macchina e mi avvicino all’uomo, ha gli occhi 49


chiusi. Sangue, sangue ovunque. Ha qualcosa che gli sbuca dalla gamba destra. C’è troppo sangue, deve essere morto. L’ho ucciso. Ho ucciso un uomo. – Ho chiamato il 118, l’ambulanza è in arrivo – dice Giacomo avvicinandosi. –Non mi sembra peruviano. Che dici, portoghese? Comunque credo abbia una frattura scomposta al femore e una probabile emorragia interna nella zona addominale aggiungerei. Certo che considerando quello che trasportiamo sarebbe ironico se fosse proprio brasiliano – prosegue, analizzando indifferente il malcapitato. Non ho tempo per pestarlo, cerco di tranquillizzarmi. Respira, penso, respira. Forse è solo incosciente, la botta non era così forte. I suoni sono ovattati, riesco solo a sentire il sangue che mi pulsa nelle orecchie. Oppure è il rumore dell’uomo sulla macchina? Tum, sto frenando. Tum, l’asfalto è bagnato non faccio in tempo. Tum, vedo l’uomo che mi vola davanti agli occhi. Tum, un urlo. Il mio o il suo? Tum, tum, tum. L’ambulanza arriva in tempo di record, forse tutti i soldi spesi in tasse servono davvero. Certo, viste le condizioni di uno dei due paramedici forse un controllo servirebbe anche a lui. Che mi stanno dicendo? Fanno dei gesti e le loro bocche si muovono. Vogliono che mi allontani. Devono fare il loro lavoro, il loro lavoro: salvare le persone. Sì, loro lo possono salvare. Nel frattempo sulla scena sono accorsi vari curiosi e un poliziotto. Mi si avvicina e mi chiede cosa è successo. Sono ancora scosso, non riesco bene a mettere tutto a fuoco. Frenata, botta, bagnato, uomo urla, io urlo, uomo sbuca dal marciapiede. No, non era così. Pensa. L’isola di traffico, l’uomo, il gatto, il colpo. Sì, era così. Un gatto? I gatti non volano. Grosse gocce di pioggia mi scivolano lungo il giubbino ma non ci faccio caso. Ho il viso contrito dell’uomo negli occhi. Le facce sorridenti di quegli studenti universitari sembrano così lontane. Lascio Giacomo a rispondere alle domande e mi appoggio 50


sulla mia ferita Panda rossa. La consegna, il corto, Irene, mi sembrano tutte stronzate paragonate a questo. Qualcuno mi si avvicina, mi parla, mi tocca. Un tipa con i lineamenti asiatici. L’ho già vista da qualche parte. Faccio dei cenni con la testa. Si allontana. Che cosa voleva? I minuti passano, riesco a calmarmi. Respiri lunghi, respiri lunghi è questo il segreto riesco a pensare. Le immagini sono più nitide, tutto è più fermo davanti i miei occhi. Uno dei due paramedici, quello che ha ancora il naso attaccato alla faccia, mi conforta dicendomi che l’uomo è in stato confusionale ma dovrebbe cavarsela. Rinasco. Non morirà penso, non ho ucciso nessuno. Vivo, è vivo. Non era morto, era incosciente. Giacomo si congeda dal poliziotto e mi si avvicina: – Tra poco arriverà una pattuglia e ci porterà in centrale. Dobbiamo rispondere a delle domande e compilare moduli vari. Il poliziotto aspetterà qui il carro attrezzi. Non so come dirtelo ma le bottiglie si sono rotte, il resto del carico è integro ma è aromatizzato alla cachaça . Riesco finalmente a dire qualcosa, riesco anche a sorridere. Niente può buttarmi giù dopo questa notizia. – Lascia stare, lascia perdere la consegna. Che importa? Pensiamo che poteva andare decisamente peggio di così. Potrebbe piovere. – Trattengo una risata nervosa. Anche l’umorismo sta tornando. – Sta già piovendo, in realtà – risponde lui sorpreso. – Sta' zitto Igor. Passami il telefono, che è meglio. – Che cazzo, tutte quelle puttanate in testa e non coglie mai una citazione. – Vuoi avvertire prima il locale o il capo che la consegna non arriverà? – Nessuno dei due, chiamo Irene. Non avrò i soldi per fare il mio corto nemmeno il prossimo anno ma almeno questo peso posso levarmelo. Compongo il numero. Squilla, fortunatamente lo ricordo a memoria. Due squilli, ancora nessuna risposta. – Ah, ma se ti servono soldi per fare quel corto... – dice Giacomo. 51


Cinque squilli, ancora niente. – ...posso prestarteli io. Il mese scorso ho scoperto questo sito per il trading di criptomonete. Sai che si può utilizzare anche dal telefono? Mi andava di studiare matematica finanziaria e già che c’ero ho tirato su qualche migliaio di euro, a saperlo ti spiegavo come fare. O ti prestavo dei soldi, a me non servono – conclude lui candidamente. – Che cosa hai detto?!? – gli urlo con ancora il telefono appoggiato all’orecchio, mentre echeggia un ormai insperato dolcissimo “Pronto”.

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ALISA

Sono in ritardo. Piove e il traffico di Milano sembra impazzito. Ogni volta è così: siamo in dicembre, eppure gli abitanti di questa città considerano la pioggia un evento eccezionale, quanto può esserlo una bufera di neve in un villaggio del Sahel. In fondo sono dei bambini: vivono come un evento traumatico tutto ciò che modifica il tranquillizzante ritmo “casa - ufficio - aperitivo - casa”. Devo sbrigarmi, tra poco comincia l’happy hour al Copacabana e io non sono neanche arrivata all’angolo con Via Bramante. Il mio oroscopo dice che oggi, nonostante l’accadimento di eventi infausti (la pioggia?), incontrerò un compagno per la vita. Lo so che dovrei razionalizzare, ma non so resistere, non posso cominciare la giornata senza ascoltare quello che le stelle hanno in serbo per me. E ogni giorno mi danno dei buoni consigli, mi fanno sognare, sono sicura che prima o poi le cose cambieranno e che l’amore, quello vero, arriverà anche per la sottoscritta. Bisogna essere pronte, non distrarsi neanche un attimo altrimenti quello passa e neanche te ne accorgi. Sono un’inguaribile romantica, una che guarda i film d’amore. Ieri sera ho visto ancora una volta Il Dottor Zivago, e che pianti mi sono fatta... L’ho scoperto tanti anni fa in Thailandia: in campagna si montano dei cinema all’aperto e tutto il villaggio si riunisce, partecipa, commenta. Un’altra vita. Qui però è successo qualcosa: c’è tanta gente, una Panda ferma in mezzo alla strada, l’ambulanza, e ci sono anche due ragazzi che conosco, sono i fattorini che di tanto in tanto consegnano la merce al ristorante e quella è la loro macchina. Dall’odore di alcool che proviene dal loro bagagliaio direi che stasera niente cocktails a base di cachaça . 53


Oh mio Dio! C’è un uomo steso per terra davanti alla macchina, sembra aver perso i sensi, poveretto. I due ragazzi sembrano disperati, mi avvicino e mi faccio riconoscere: – Ciao, sono Alisa, lavoro al Copacabana Temakeria, ci siamo incrociati qualche volta, cos’è successo? Uno dei due ha le mani sulla faccia, alza lo sguardo, è tutto rosso, ha l’aspetto di chi sta per avere un attacco di panico, trema, con un filo di voce riesce solo a dire: – Non lo so, all’improvviso è sbucato un uomo in mezzo alla strada, aveva in braccio un animale, sembrava un gatto o un cane, è stata una frazione di secondo, non ho fatto in tempo a frenare, la strada è scivolosa... non lo so, non capisco... adesso è steso per terra... è grave... Sembra gli manchino il respiro, le parole e la terra sotto i piedi. Gli metto una mano sulla spalla ma vengo interrotta. – Circolare prego, fate largo al personale sanitario, andate indietro – urla un poliziotto, verso di me e verso un’altra decina di persone ferme a guardare quello che succede. Indietreggio e quasi inciampo nell’aiuola che divide l’incrocio. Piove e sto per scivolare, girandomi vedo tra l’erba secca qualcosa: sembra un animale peloso, ma è immobile. Mi sporgo per guardare e riconosco la bestiola: quando abitavo in Australia ce n’era uno uguale che veniva spesso nel giardino di casa, nuotava in piscina, aveva anche scavato una piccola tana: è un ornitorinco. Ma che ci fa un animale del genere in piena Chinatown milanese? Entro nell’aiuola, mi sporcherò tutti gli stivali di fango. Non oso immaginare quello che dirà il proprietario del ristorante ma per quello che mi paga potrà pure sopportare lo stivale sporco, in ogni caso sempre meno sporco dei suoi clienti; sembrano dei polpi, se non stai attenta ti ritrovi le loro mani ovunque. Il povero animale sembra morto, non si muove, gli appoggio la mano sulla schiena, respira ancora, ma è molto freddo, quasi gelato. Secondo me sta male, magari è stato investito anche lui e scaraventato qui nell’erba dall’urto con la macchina. Mi guardo intorno ma non 54


vedo tracce di sangue, forse è solo stordito o nel peggiore dei casi ha una commozione cerebrale. – Scusi agente, qui c’è un animale che sta male, credo che sia stato investito, che facciamo? Possiamo chiamare qualcuno? – chiedo urlando al poliziotto per cercare di sovrastare il rumore della gente. Quello si gira e mi guarda come se fossi un marziano. Non è che avere dei tratti orientali in questo quartiere sia una gran rarità e poi, dubito che sappia distinguere una tailandese da una cinese: perché mi guarda così? – Signorina, qui c’è un uomo che non si sa se è vivo o morto e dobbiamo pensare ai cagnolini? – E mi fa un segno con la mano per troncare ogni mio tentativo di ribattere. – Vorrei vedere se il “cagnolino” fosse il tuo... – mormoro, senza farmi sentire. C’è sempre più gente, rumoreggiano, commentano, si accalcano, nessuno bada a me, rientro nell’aiuola e prendo il povero animale. Mi sono ricordata che in Via Procaccini c’è uno studio veterinario, ci ho accompagnato una volta un’amica e il suo gatto. Non posso avere sulla coscienza l’ornitorinco, se gli succedesse qualcosa non potrei mai perdonarmelo, mi vengono le lacrime al solo pensiero. Prendo la strada di fronte all’incrocio ma l’esserino che ho in braccio diventa sempre più freddo, ho paura che non ce la faccia. Chiedo a un ragazzo cinese che passa in bicicletta di darmi un passaggio. Non parla una parola d’italiano, cerco di spiegargli la situazione, gli mostro l’ornitorinco, scappa spaventato. Ma che hanno tutti da guardarmi, oggi? Neanche quando abitavo al mio paese e ancora non ero quella che sono adesso attiravo così tanti sguardi. Sì, lo so che non è comune girare in pieno dicembre senza collant e con una mini vertiginosa, ma i collant proprio non li sopporto e poi a me le gonne piacciono corte, altrimenti mi tagliano la gamba: è brutto da vedersi. Ho un senso estetico innato, mia madre me l’ha sempre detto, e poi col fisico che ho posso permettermelo eccome. La femminilità per me è una scelta di vita, un modo di essere e di 55


pensare, un dono della natura da custodire come la gioia più preziosa. Ma una donna non è completa se non con un uomo accanto, uno forte, che ti protegge e ti coccola, uno per cui vale la pena fuggire in capo al mondo. E io in capo al mondo ci sono venuta per seguire Matteo. Ha gli occhi che brillano e il sorriso che ti ipnotizza, ho perso la testa la prima volta che l’ho visto. Il cuore mi batte forte solo a ripensarci: era nel negozio di attrezzatura da surfvicino alla spiaggia a sud di Sidney, lui era appena arrivato e io lavoravo lì, l’ho aiutato a scegliere tutta l’attrezzatura da noleggiare. Non gli ho tolto gli occhi di dosso neanche un istante, lui se n’è accorto e ha cominciato a sorridermi, per poco non svenivo. Siamo andati a bere un drink la sera stessa, c’era un’attrazione fortissima fra noi due. Quando la nostra storia è cominciata mi sono sentita come Lara quando vive isolata dal mondo con Jurij: il mondo non esisteva, c’eravamo solo io e Matteo. Lui faceva surftutto il giorno e io nelle pause del lavoro gli scrivevo poesie, certo non belle come quelle di Zivago ma piene d’amore sincero, e pensavo che sincero fosse anche lui... Ricomincia a piovere, non ho l’ombrello, l’animale in braccio è sempre più freddo e sono bagnata fradicia, provo a ripararmi qualche istante sotto la pensilina della fermata dell’autobus. Manca poco, sono già in Via Canonica. Anche l’autobus ci si mette, non poteva frenare più piano? Ha schizzato d’acqua tutta la gente sotto la pensilina. Poi riparte e alzo lo sguardo. Non posso crederci, mi sembra di avere le visioni: Matteo è sull’autobus. Erano mesi che non lo vedevo. Da quando ci siamo lasciati lui non mi ha fatto neanche una telefonata, neanche un tentativo. Devo salire, parlargli. La nostra storia non può finire così. – Ferma! Aspetti, mi faccia salire! – urlo all’autista. Invece di fermarsi accelera e un’altra onda d’acqua mi investe. Non so se è la pioggia, il fango o le lacrime, non vedo più niente. Meglio non vedere la piega che sta prendendo la mia vita. 56


– Matteo... – mormoro fra i singhiozzi. –Matteo, forse non ti rivedrò più... – Parlo da sola e mi sembra di sentirmi male, comincia a girare tutto. Oh Dio, anch’io sto per avere un infarto come Jurij, nella scena finale del film. No, non posso, ne ho passate tante, devo andare avanti. Ho questo povero animale fra le braccia, non possiamo arrenderci proprio ora. Mi seggo un momento, respiro, conto quattro inspirazioni e quattro espirazioni. Lo yoga serve sempre, va già meglio. Lo studio veterinario è vicino, se mi sento male lì qualcuno può aiutarmi. La sala d’attesa è abbastanza affollata, mi avvicino al bancone della segretaria alzando le braccia che reggono lo sfortunato animale, piangendo (per lui, per me?) e le dico: – Quest’ornitorinco è stato investito da un’auto, non so se sia vivo o morto, faccia qualcosa. – Vado a chiamare il dottore, vada a sedersi, arriva subito. Mi seggo sull’unica sedia libera, di fianco a me c’è un signore sui quarant’anni con la figlia adolescente che ha in braccio un criceto che sembra paralizzato, non si muove. Non è proprio di buon auspicio. Gli altri pazienti sono per lo più gatti o cagnolini, accompagnati da signore anziane. Naturalmente tutti gli sguardi mi investono. Non è un bello spettacolo, non so se sono messa peggio io o la bestiola che ho tra le braccia. Mentre mi pongo il quesito mi si avvicina il medico con camice e mascherina da chirurgo e mi chiede di entrare nell’ambulatorio. Prende in consegna l’animale e lo poggia sul tavolo operatorio, che impressione! Sembra una scena di Zivago, quando lui opera i soldati dell’Armata Rossa e Lara lo assiste come infermiera. Il chirurgo non è proprio Omar Sharif: pelatino, un po’ in sovrappeso e con un vago accento bergamasco, ma è gentile, cerca di rincuorarmi. – Mi racconti cosa è successo – mi chiede. – C’è stato un incidente: un uomo è stato investito da un’auto, ha perso conoscenza ed è molto grave, e di fianco a lui ho trovato quest’ornitorinco. Ho pensato che anche lui fosse finito sotto la macchi57


na. Non si muove, è freddissimo, ho avuto paura che stesse morendo. Il poliziotto non ne ha voluto sapere niente, mi sono ricordata di questo ambulatorio e l’ho portato qui. – Ha fatto bene, adesso vediamo cos’ha. È la prima volta che ne vedo uno dal vivo... ma lei come fa a sapere che è un ornitorinco? – Abitavo in Australia, prima di venire a Milano. Lì ce ne sono vicino alle pozze d’acqua e a volte si tuffano anche nelle piscine private. Si salverà? – Temo un’emorragia interna, ma non è detto, adesso è meglio fargli una TAC e vedere. Devo avvertirla però che i costi degli esami sono a carico suo perché è lei che me l’ha portato, ha un’assicurazione veterinaria? Lo guardo sbalordita. – Non si preoccupi, pago io le spese, non posso avere un animale sulla coscienza, il mio Karma non me lo perdonerebbe. – Va bene. Allora non c’è tempo da perdere, vada a sedersi in sala d’attesa, la chiamo quando ho finito. – Sorride. Forse anche lui ha un cuore, non potrebbe essere altrimenti se si occupa di animali. Gli animali non mentono, sono puri, non sono come gli uomini. Mi siedo in sala d’attesa, crollo distrutta. E solo allora mi ricordo che non ho chiamato il Copacabana, ma avevo il telefono scarico. Lo allaccio a una presa, chiamo e mi risponde Fernanda, la mia collega. – Ciao Fernanda, sono Alisa. Ho avuto un incidente, sono dal medico. Lì come va? – Anche tu ti ci metti, adesso? Qui è una catastrofe: i ragazzi che dovevano consegnarci la cachaça hanno investito un uomo e tutto il carico si è rotto. Il capo è fuori di sé: senza gli alcolici stiamo servendo solo succhi di frutta e coca cola e i clienti, appena lo capiscono, vedrai se non lasciano il locale... – Lo so, ho incrociato i due fattorini... che tragedia. Sai qualcosa dell’uomo investito? – No, nessuna notizia. Devo lasciarti, siamo in poche e i clienti sono isterici. – Va bene, senti, ti richiamo appena ho finito. Tu mettila sul tragi58


co, cerca di impietosire il nostro capo “cuore di ghiaccio”. Le vecchiette continuano a guardarmi storto, pensano che abbia saltato la fila e adesso per colpa mia arriveranno in ritardo per vedere la telenovela di prima serata. Io non riesco a non pensare al proprietario dell’ornitorinco: chissà se è ancora vivo, e se lo è si starà chiedendo dov’è il suo amico a quattro zampe. Certo, un animale ti fa compagnia e poi, come sono teneri, mai di cattivo umore, né paturnie o crisi d’identità o famiglie ingombranti alle spalle. Che caldo adesso, con tutta la corsa che ho fatto... l’agitazione. Mi tolgo la giacca e cerco di asciugarmi i capelli con un fazzolettino. La ragazzina seduta vicino a me si sporge, indica il tatuaggio che ho sul braccio e mi chiede: – Che cos’è quel disegno? – Sono i simboli dell’uomo e della donna insieme – le spiego. Il padre si avvicina un po’ troppo per osservare e poi mi fa l’occhiolino. Come se non bastasse sembra agitarsi sulla sedia e mi sfiora la coscia con la sua gamba. Ma guarda questo porco, non ha vergogna di niente, neanche della figlia presente. Mi sa che ha capito il significato del tatuaggio e si è tutto eccitato. Dall’altro lato della sala d’attesa sento un bisbiglio e capto qualche parola tipo: “immigrati, casa loro, indecenza”. È sempre la solita filastrocca che hanno imparato da qualche politico alla televisione e che ripetono senza nemmeno chiedersi che cosa stanno dicendo. Senza neanche ricordarsi che la maggior parte di loro sono figli o nipoti di immigrati, che i lavori che noi facciamo sono quelli che nessun italiano si sogna neanche lontanamente di accettare e che se i loro uomini vengono a cercarci è perché cercano qualcosa che a casa non hanno. Ma vi siete viste voi milanesi? Tanti anni che vivo qui e ancora mi chiedo se vi guardate allo specchio prima di uscire di casa: capello smorto, occhiali spegni-passione e dei vestiti talmente tristi che definirei “anti-stupro”. Mai una bella coscia in mostra o un rossetto conturbante o un pizzo trasparente, avete solo vestiti da prima comu59


nione nell’armadio? Sembra che il grigiore della città si sia impadronito del vostro aspetto. Ma ai vostri uomini le donne seducenti piacciono, io e le mie amiche ne sappiamo qualcosa, abbiamo la fila davanti alla porta di casa. Poi però quando devono sposarsi preferiscono la fidanzata italiana. Forse erano più onesti quegli uomini che frequentavo in Thailandia, che approfittavano di me. Almeno lo facevano in modo trasparente, sapevano e dicevano quello che volevano e quello che avrebbero dato in cambio. Io per esempio con Matteo mi sono illusa, l’amore mi aveva annebbiato la vista. Ho letto una volta in un libro: l’amore ti coglie sempre alle spalle, come un assassino. Chi ama vede l’amato come una tela bianca su cui proietta il proprio ideale di compagno. È quello che ho fatto anch’io: lo vedevo per quello che non era e che non sarà mai. Pensavo che sapesse andare oltre le convenzioni e i pregiudizi. L’amore per me è un sentimento assoluto, che ti trasforma, ti permette di tirar fuori il meglio di te. L’amore è metafisico: va al di là dell’aspetto e dell’appartenenza a un sesso o a un altro. E poi che cosa sono i sessi? Sfumature, come si dice al mio paese: non è una vagina a fare di te una donna, né un pene a fare di te un uomo. È quello che hai nella testa che ti rende maschio o femmina o terzo sesso come me. Matteo non l’ha accettato fino in fondo: il suo amore non era abbastanza forte da fargli dimenticare quel dettaglio che ancora ho fra le gambe. Mentre sono immersa nei miei pensieri la segretaria mi chiama dicendomi di entrare in sala operatoria. Mi batte il cuore. Entro e scruto lo sguardo del veterinario, sembra quasi illuminato, c’è una luce nei suoi occhi che non avevo notato prima. Mi sorride. – Signora, la rassicuro: l’ornitorinco sta bene, ha solo preso una gran botta e perso i sensi. Il fatto che fosse così freddo dipende dal 60


fatto che sono animali con un metabolismo molto lento e hanno una temperatura basale molto più bassa della nostra. Non c’è niente di rotto ma adesso devo compilare una scheda sanitaria da trasmettere alla ASL e ho bisogno dei suoi dati e di quelli dell’animale. Cominciamo dal nome: come si chiama l’ornitorinco? – Non ne ho la minima idea. Gliel’ho detto che l’ho trovato per strada e quello che penso fosse il suo padrone era svenuto, investito da una macchina. – Dobbiamo dargli un nome, anche fittizio, gli altri dati li inserisco io. Ha qualche idea? Sgrano gli occhi: che responsabilità, dare un nome è una cosa importante, è come se io fossi la sua madrina di battesimo... – Ci ho pensato: è maschio o femmina? – Maschio. – Allora è facile: Jurij. – E mentre lo dico mi vengono quasi le lacrime agli occhi dall’emozione. Il veterinario deve aver pensato, dallo sguardo che mi ha lanciato, che devo avere qualche rotella sganciata, ma poi è tornato alle carte da compilare. – Sa, quest’animale è illegale in Italia. Dobbiamo avvisare gli enti competenti perché lo prendano in carico e lo rispediscano al suo paese di origine. – Cosa vuol dire, che lo metteranno in gabbia in una specie di canile per poi rispedirlo nella stiva di una nave? – Gli chiedo, e mi si stringe la gola dalla tristezza. – Temo di sì, ma la legge è molto precisa al riguardo e ultimamente la Forestale sta facendo controlli a tappeto. Aspetti che vado a parlare con la mia segretaria. – E si allontana con un largo sorriso stampato sulla faccia, lasciandomi sola in sala operatoria. Jurij sembra molto più sveglio di quando l’avevo lasciato. Ho l’impressione che mi guardi e agita il becco a destra e sinistra. Ha una piccola medicazione sulla pancia, magari gli hanno fatto un prelievo di sangue. Che strano, il veterinario non me ne ha parlato. – Che vuoi dirmi, caro? Pensi che sia un’ingiustizia rimandarti 61


indietro? Che le leggi del cuore sono più forti di quelle degli uomini? – gli sussurro all’orecchio, ammesso che ne abbia uno. Non ci penso neanche un istante, lo prendo in braccio e a passi decisi attraverso la sala d’attesa e, mentre sento sulla schiena gli sguardi incuriositi, esco in strada e mi metto a correre. Ha smesso di piovere, dopotutto è una bella serata. L’aria è fredda ma le nuvole sono andate via e c’è aria di Natale. Jurij si agita, credo che abbia fame. In frigo penso di avere qualche gamberetto, domani andremo a fare la spesa. – Adesso ti porto a casa, amico mio. Noi siamo uguali, complichiamo le classificazioni: io né uomo né donna e tu né mammifero né uccello, vedrai che andremo d’accordo – gli sussurro piano, e lo accarezzo.

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FRANCO

Il Primera scende lungo viale Elvezia, costeggia gli impianti sportivi dell’Arena Civica, procede nel traffico pomeridiano. Accendo distrattamente l'autoradio, Rino Gaetano canta Il cielo è sempre più blu. In verità, fuori dall'abitacolo invaso dal fumo, il cielo è sporco, grigio e triste. Spengo l'autoradio e la sigaretta con un grugnito sdegnato. Parcheggio davanti al Copacabana Tenakeria, un assurdo ristorante brasiliano impastato con cineserie. Scendo dalla macchina, appoggio le mani al cofano bollente e piango. Ho vagato per questa città grande e fredda e so che non lo troverò più. Sono diventato padre da tre ore e mio figlio mi ha già lasciato… ma forse è meglio che vada con ordine. Questa mattina, come ogni fottutissimo giorno, alle sette, sono entrato nell’algida palazzina di via Luigi Canonica e ho salito la breve rampa di scale. Ho salutato le assonnatissime e obesissime infermiere che ho incontrato lungo i corridoi e mi sono rintanato nello spogliatoio. Mi sono acceso una sigaretta, fregandomene bellamente del tassativo divieto di fumare, mi sono spogliato e ho indossato la divisa da lavoro: camicia e pantaloni bianchi. Una piccola macchiolina marrone sulla manica destra rovinava il candore del mio abito. Ho buttato la sigaretta nel water, ho tirato l'acqua e ho sospirato: fino alla pausa pranzo niente più nicotina. Sono uscito di nuovo in corridoio, c'era un forte odore di patata lessa, dalla stanza cinque usciva un flebile lamento, un televisore da qualche parte stava informando i telespettatori che il Papa ha deciso di non recarsi in Guinea Conakry, come aveva precedentemente 63


annunciato, a causa della guerra civile. Uomo saggio, il Pontefice. Sono andato a sedermi nel mio “ufficio”: uno sgabuzzino un metro per un metro dotato di una seggiola pieghevole e di qualche rivista scandalistica d'annata. Il mio lavoro è semplice: rimanere seduto a guardare il seno siliconato delle starlette della TV fino a quando qualche infermiera non urla: “Ragazzo! Ragazzo! Vai a vedere cos'ha il signor Beppe!”, e io, che ragazzo proprio non sono (i prossimi sono cinquantacinque), vado a vedere cos'è successo al signor Beppe, novantasette anni e lo stomaco spappolato da un pantagruelico pranzo organizzato per festeggiare le Nozze d'Oro. Dal primo antipasto a base di carote sott’aceto all'ultimo dolcetto di pinoli e mandorle, il signor Beppe non si era mai fermato. Bum, lo stomaco sfondato e il sedere incontrollabile. E io pulisco l'enorme deretano e mi avvio al mio angolino con l'angosciosa certezza che prima o poi l'infermiera mi richiamerà per andare dal signor tal dei tali a pulirgli il sedere. Il pulitore di culi, un nobile lavoro. Dopo ventitré anni di servizio me ne intendo, ne ho visti fin troppi di escrementi, annusato decine e decine di orridi orifizi. Ho anche imparato che a novant’anni la cacca annulla ogni distinzione di classe sociale: si caca addosso il Conte Guido Spartachini, della stanza tre, si caca addosso, forse con meno frequenza, Gianni Pagliuso, ex operaio della Falck di Sesto San Giovanni. Questa mattina mentre stavo guardando i fianchi di una ragazzetta dalla bocca equina, che a quanto pare si è appena fidanzata con un giocatore di calcio dopo essere stata la frizzante fidanzata di altri tre giocatori di calcio, è squillato il telefono. Era mia moglie, Beatrice. – Ti ho chiamato per dirti cos’ha detto il Mago Ortensio durante l’oroscopo. È una prassi che si ripete tutti i giorni. Beatrice è un'assidua telespettatrice de L'angolo di Mago Ortensio, una rubrica di astrologia trasmessa su un'emittente locale, in onda tre volte al giorno. – Dice che al lavoro avrai dei grattacapi. – Se per grattacapi intende parecchia cacca, probabilmente ha ragione: oggi è giovedì, a colazione gli hanno dato la cioccolata in tazza. 64


– Dice anche che io devo fornicare. – Ma che oroscopo guardi, quello di Mago Ortensio o quello delle linee erotiche? – I nati sotto il segno del Capricorno devono lasciarsi andare a emozioni viscerali. – È un po' diverso da “i nati sotto il segno del Capricorno devono fornicare”, non trovi? Beatrice ha iniziato a piangere. – Non fare così. – Ho quarantotto anni, Gianni, fra poco andrò in menopausa. – Mago Ortensio ti ha detto quando?... Pronto?... Pronto? Ho sospirato. Nonostante mia moglie preghi il Padreterno, suo figlio, la Maddalena, San Nicola protettore dei trattori e Santa Lucia protettrice degli occhi, sette volte al giorno, da ventisette anni, non siamo mai riusciti ad avere figli. Non che non ci impegniamo, ma niente, i pargoli non arrivano. Del resto, i miei pensieri su questo improbabile figlio sono piuttosto inquietanti: cosa avrebbe detto quel povero bambino a scuola, quando gli avessero chiesto: “che lavoro fa il tuo papà?”. Ho sempre proiettato nella mia mente il disagio, l'imbarazzo di quel bambino, lo sguardo basso mentre decine di occhi lo osservano curiosi. “Mio padre fa il pulitore di culi”. Grandioso, una garanzia per fare strada. Quel bambino, ragazzino, uomo sarebbe stato spacciato. E tutto per colpa mia. L’infermiera mi ha chiamato: – Ragazzo! Ragazzo! Vai a vedere cos’è successo al signor Vaniglia! Ragazzo! Ragazzo! Mi sono alzato e ho cancellato dalla mia testa gli assillanti pensieri. Il signor Marciano Gallerazzi, chiamato da tutti Vaniglia perché mamma l'ha partorito saccarifero e puro, è un omone timido e riservato. Per anni fu uno scout della scuola di pensiero di Baden Powell, e solo verso i quarant'anni a qualcuno venne il sospetto che ci fosse qualcosa che non andava nella sua ostinazione a vestirsi come una “giovane marmotta” e a preferire i campi estivi con i piccoli esploratori piuttosto che con ecologisti della sua età. 65


– Cacato addosso…– ha balbettato Vaniglia, con una vocina lattea e acutissima, candida come quella di un agnellino. – Lo sento… si giri su un fianco per favore. Vaniglia si è girato con la stessa grazia di un’alce gravida e ha fatto una scorreggina isterica, profumata di gardenia. – Vaniglia, non è che ha mangiato ancora una volta la saponetta dei bagni, vero? – È tanto buona… – ha sussurrato l’omone non riuscendo più a controllare le puzzette profumate. Io mi sono spostato: sapevo che ben presto sarebbe arrivata l'incontinenza, e dovevo fare presto a pulire quella prima avanguardia sciolta. Ho pulito con estrema bravura, mi sono levato i guanti e ne ho infilato un altro paio, ho messo la padella sotto il grosso deretano di Vaniglia e ho aspettato. L’incontinenza è tracimata furiosa, un’inondazione di saponetta sciolta, brodo di pollo e mela cotta. Ho ripulito il tutto e sono tornato nel mio stanzino. Ho ripreso in mano il giornaletto e ho aspettato. La giornata procedeva tranquilla. Nonostante la cioccolata calda bevuta a colazione pareva che tutti i pazienti riuscissero a controllare il sedere a meraviglia. Ho sfogliato giornaletti su giornaletti, sono tornato a guardare, per la sesta volta, i fianchi della ragazzetta dalla bocca equina, fidanzata con un giocatore di calcio ed ex fidanzata di altri tre giocatori di calcio. La giovane patinata e sorridente indossa bikini color malva. In una foto mostra il suo scultoreo fondo schiena in tutto il suo splendore. “Se invece che al signor Beppe, a Vaniglia e ai loro incontinenti amichetti, potessi pulire il sedere a pazienti del genere!”, ho pensato guardandola con occhi trasognati. Sono passato al quotidiano e l’ho sfogliato stancamente. Guerre, bombe, terroristi, ultras, crack finanziari, inondazioni. A pagina tredici la notizia di un anonimo falegname di Portogruaro diventato improvvisamente famoso per aver brevettato una nuova seggiola ergonomica. Un uomo vissuto nell'anonimato della provincia italiana e poi, improvvisamente, la stampa si accorge di lui. La notizia della seggiola ergonomica si diffonde, aumentano i compratori. Il falegna66


me finisce sul giornale, celebrità, breve celebrità. Il mio momento di celebrità, l’ho avuto quattro anni fa, quando, invece dei soliti culi anonimi, ho avuto il piacere di smerdare il deretano di un grande regista cinematografico, giunto in città per un difficile intervento chirurgico e lasciato qualche giorno nella casa di riposo. Era come i suoi film: serioso e riservato, insomma, una palla. Quando si era cacato addosso, l’infermiera non aveva gridato come suo solito, ma era entrata con circospezione nello stanzino sussurrando: “Ragazzo, il Maestro ha bisogno del tuo aiuto. Presto, presto”. Il Maestro, imbarazzato, guardava il soffitto quando ero entrato nella stanza. Aveva merda fino al collo e alle caviglie. Lo avevo ripulito con dovizia e mi ero fatto fare un autografo su una salvietta di carta che non avevo utilizzato. L’infermiera mi ha chiamato di nuovo: – Ragazzo! Ragazzo! Vai a vedere cos’è successo al signor Geremia! Ragazzo! Ragazzo! Mi sono alzato e mi sono diretto alla stanza due. Il signor Geremia Franzoni è un ometto piccolo piccolo, un tempo spietatissima guardia giurata. Attraversava la notte con la macchina, la divisa e la pistola d'ordinanza. Con faccia truce infilava i bigliettini di avvenuto controllo sotto le saracinesche abbassate dei negozi. Quando si sentiva particolarmente cattivo si azzardava anche ad andare ad importunare le coppiette appartate a parco Trotter e faceva agli sventurati apologie della morale cristiana e del buon senso. È un uomo strano Geremia, per passarsi il tempo traduce Va dove ti porta il cuore dall'italiano all'idioma dei Miao-Yao, le tribù che vivono nelle foreste del Laos settentrionale. Geremia è convinto che i MiaoYao, che da decenni portano avanti una dozzinale guerriglia contro il governo pseudo-comunista laotiano, possano trarre piacere e insegnamento spirituale dalla lettura della grande scrittrice italiana. È un anticomunista Geremia, in cuor suo crede che ci sia qualcosa di perverso nell'animo di chi abbraccia quella fede debosciata e ormai fuori moda. – Cacato addosso? – ho chiesto. – Io no, ma lui sì – ha detto Geremia indicando qualcosa ai piedi 67


del letto. Mi sono abbassato e ho visto un animale peloso, con un muso a forma di becco largo; aveva corte zampette con brevi unghie. La bestiola stava mangiando gamberetti crudi dentro una ciotola. – È un ornitorinco. Si chiama Buster, perché assomiglia a Buster Keaton, il divo del cinema muto, hai presente? Io ho guardato l'ornitorinco: più che a Buster Keaton assomigliava vagamente a Oliver Hardy, era un esemplare piuttosto grasso. Buster ha cacato vicino al comodino. – Ma cosa ci fa qui? Le infermiere lo hanno visto? – Scherzi? Quelle sono capaci di ucciderlo e di metterlo a pezzi nella zuppa! In corridoio passavano attentissime e obesissime infermiere. Ho sudato. – La pulisci la cacca di Buster o no? – ha domandato spazientito Geremia. – Buster non può stare qui. – L'ha portato mio nipote Guido, dall'Australia. È di là, in bagno. Vuoi che spezzi il cuore di quel ragazzo? Avevo presente Guido, un sudamericano con la faccia da stupratore seriale adottato dal fratello di Franzoni quando ancora la propensione alla violenza non era ancora visibile in lui. Il suo nome d'arte è Guido “Lama Affilata” e ha una fedina penale lunga un chilometro. Dubito che abbia un cuore. Buster aveva starnutito e sputato un gamberetto. – Ma che schifo! – ho escalamto. – Pulisci o no? – Non è mio compito. – Cacca per cacca che differenza fa? – Lo faccia lei, l'ornitorinco è suo. – Non è mio, è di Guido. Vuoi che quando esce dal bagno dica al mio povero nipote che non c'è collaborazione nei confronti di questo povero vecchio e del suo tenero animale? Ho deglutito, ho pensato a cosa avrebbe potuto fare Guido “Lama 68


Affilata” con la mia povera faccia da inserviente. Ho preso tutto l'occorrente dal credenzino. Ho raccolto la cacchetta di Buster e mi sono rialzato. – E lui? – ha chiesto Geremia. – Lui cosa? – Lui non lo pulisci? – Ma... – Mio nipote Guido... – Ho capito, ho capito. Mi sono avvicinato a Buster. L'ornitorinco si è lasciato sollevare senza fare obbiezioni. Continuava a mangiare placidamente i suoi gamberetti. Quando con una salvietta ho iniziato a pulirlo, l'animaletto ha mosso la testa e ha emesso strani suoni. Sembrava stesse ridendo. – Ecco fatto – ho detto buttando la salvietta nel cestino. – E cerchi di trovare una soluzione: le infermiere potrebbero davvero arrabbiarsi. Geremia non ha risposto, con il libro di Susanna Tamaro sulle gambe, ha ripreso la sua traduzione. Sono uscito in corridoio per andare a bere un caffè istantaneo alla macchinetta nel girone dei lamentosi. Sono una trentina, chi su sedie a rotelle, chi stravaccato su poltrone di pelle consunta, mormorano e si lamentano tutti, la testa ciondolante, la bava alla bocca. Ho fatto lo slalom e sono arrivato alla macchinetta del caffè. Ho in fretta il caffè e mentre stavo gettando il bicchierino di plastica nel cestino dei rifiuti ho visto Buster trotterellare fra i lamentosi e rintanarsi sotto la sedia a rotelle di una signora dai capelli viola e il mento a forma di banana. Due severissime e obesissime infermiere stavano arrivando a passo marziale. Se vedevano Buster per la povera bestiola sarebbe stata la fine, ma Buster è furbo ed è ritornato nella stanza di Geremia. L'unico problema era che aveva lasciato un ricordino puzzolente sotto la seggiola della signora dai capelli viola, insieme ad una strisciata di cacca sul pavimento, in direzione della stanza due. Mi sono diretto verso la sedia a rotelle, ma una seriosissima e obesissima infermiera mi ha bloccato il passo. La sua attentissima e obes69


sissima collega si è chinata. Analizzava la cacca dell'ornitorinco. Si è rialzata. – Cacca di animale! – ha urlato. – Piano A! Canna di animale! In ventidue secondi, diciassette organizzatissime e obesissime infermiere hanno diretto la ritirata dei lamentosi nelle stanze. Io sono stato lasciato solo con quella cacchetta. Mi sembrava di essere uno sminatore in una zona di guerra.. – Fatto – ho detto, mostrando la salvietta sporca di escrementi all’inarrivabilissima e obesissima capo infermiera. – Cacca di animale significa animale. – Beh, sì... – Trovi l'animale. Avrei voluto dirle che non era mio compito scovare la bestiola rea di aver creato il caos nella casa di riposo, ma ho visto la determinatissima e obesissima capo infermiera dirigersi verso la stanza due, dove la strisciata di cacca terminava. L’ho seguita. Buster era ai piedi del letto di Geremia, lui non alzava nemmeno gli occhi, continuava a leggere il suo libro, a trascrivere appunti sul lato della pagina. L'ornitorinco stava mangiando i suoi gamberetti. Una coda di crostaceo era appoggiata in modo precario sul suo largo muso a forma di becco. – Signor Franzoni, cosa significa questo? – aveva chiesto l'arrabbiatissima e obesissima capo infermiera, con un acuto da usignolo. Geremia si è limitato a indicarmi. – Lei? – Io veramente... – ho balbettato. – Lo ha portato lui, io e mio nipote Guido gli avevamo detto che non si poteva tenere un animale qui dentro – ha affermato con tono perentorio Geremia senza alzare lo sguardo. – No, io... – ho provato a dire. Buster aveva smesso di mangiare e mi si era accoccolato intorno alla gamba. Sembrava fare le fusa. La spazientitissima e obesissima capo infermiera era diventata paonazza. 70


– Porti immediatamente fuori questo mostro! Lo faccia subito se non vuole che la faccia licenziare! Ho preso in braccio Buster. L'ornitorinco continuava a fare le fusa. Siamo usciti in corridoio. Le intollerabilissime e obesissime infermiere che incontravamo sul nostro cammino ci guardavano con sguardi colmi d'ammonimento e compassione. Siamo usciti in strada. Mi sono acceso una sigaretta. Ho aperto la portiera del Primera. Ho adagiato Buster sul seggiolino e sono salito in macchina. Non mi sono tolto nemmeno la divisa. Ho messo in moto. Buster continuava a fare le fusa. Ho spento la sigaretta e ne ho accesa un'altra. Immaginavo già la faccia che avrebbe fatto Beatrice quando mi avesse visto entrare in casa con quella bestiola. “Mago Ortensio lo aveva detto: avrai grattacapi al lavoro”. Nell'abitacolo una puzza immonda si mischiava all'odore stagnante della nicotina. – Buster! – ho esclamato. Ho accostato la macchina. Buster si lasciava sollevare con tranquillità; faceva le fusa. Aveva fatto una nuova cacchetta. Ho aperto il portaoggetti e preso un fazzolettino di carta. Ho pulito Buster con delicatezza. Il suo sedere era molto più morbido di quello dei miei soliti, tristi pazienti. Buster ha il culetto di un bimbo. Ho buttato il fazzolettino e ne ho preso un altro. Buster muoveva il muso, sembrava ridacchiare. – Ti piace che ti pulisca il pupù, eh? Buster ridacchiava e faceva le fusa. In quel momento ho pensato che era molto meglio che avere un figlio: Buster non andrà mai a scuola, Buster non cercherà mai un lavoro, Buster non si fidanzerà mai con un'arrivista sociale. – Ecco fatto, culetto pulito. Ho rimesso in moto il Primera. Accarezzavo Buster con una mano. – Adesso ti porto a casa... figlio mio... – ho sussurrato commosso. Mentre l’anoressica brutta copia del sole si scioglieva dietro i brutti casamenti grigi di via Luigi Canonica ho ripensato alla telefonata di Beatrice. Mago Ortensio non aveva capito niente. Grattacapi! Che 71


idiozia! Ho guardato Buster per un attimo. L'ornitorinco ha sgranato gli occhietti. “È bello essere padre”, mi sono detto. Ho trovato una tabaccheria e ho aperto la portiera per andare a prendere le sigarette e in quel momento mio figlio è sgattaiolato fuori ed è scomparso nel traffico. Adesso sono qui. Sono passate tre ore dalla sua scomparsa. A breve scenderà il buio su questa orrenda città. Ho vagato da via Pietro Moscati al Parco Sempione, da Chinotown a Piazza Gerusalemme, fino a qui. Osservo la facciata del Copacabana Tenakeria. Palazzi residenziali e alberi spogli in lontananza. Accendo una sigaretta cercando di frenare le lacrime. Pioviggina. Il tempo fa schifo. Dove sei Buster, figlio mio?

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