Danni collaterali

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Ok i n a S a g i

D a n n i c ol l a t e r a l i

Books and Travels



Okina Sagi Danni collaterali

Books and Travels



Okina Sagi è un'entità multipla che cambia da romanzo a romanzo. A Danni collaterali hanno partecipato: Maria Pagnoni Roberta Franchini Laura Albergoni Michela Arienti



Danni collaterali Una donna con vertiginose scarpe rosse e un piano macchinoso in testa. Un uomo silenzioso e annoiato in compagnia di altri sette commensali del circolo del bridge. Una ragazza che beve per dimenticare e cerca di flirtare con un vecchio compagno di studi. Un solitario in attesa di risposte dal proprio passato. Un venditore ambulante di rose giunto nel momento sbagliato nel posto sbagliato. Sono questi i personaggi che si muovono, si sfiorano, si ignorano all'interno di un ristorante elegante nel centro della borghese Monza, nel cuore della Brianza. Sembrerebbe la classica serata dedicata all'assaggio dei risotti, vera specialitĂ della casa, ma non tutto va come dovrebbe andare e la soporifera atmosfera di provincia si tramuta mano a mano in ritmo adrenalinico dai contorni noir.



Ma se la vita è una piuma. Un soffio e ... via, allora perché darle tanto peso? LUIGIPIRANDELLO Sono un uomo; e di quello che è umano, nulla io trovo che non mi riguardi. TERENZIO Astenetevi dal giudicare, perché siamo tutti peccatori. WILLIAM SHAKESPEARE



Barbara alias Red Wonder Woman Sapevo che mi avrebbero fatto dannare. Ma le ho indossate ugualmente perché conferiscono un tocco chic al vestito. Getto un'occhiata fugace sotto al tavolo. Stasera sono Red Wonder Woman. I miei superpoteri sono riassunti in queste scarpe di velluto rosso fuoco, di mezzo numero più piccole, con il tacco stretto, verticale e slanciato, e il decolleté tagliato alla base delle falangi. Prima di calzarle ho esitato. Con gli stivali di pelle nera, quelli alti, stringati, da cavallerizza, che ho acquistato per l'ultimo dell'anno di quattro anni fa l'ultimo prima che il mondo si fermasse - non avrei sofferto. Ma ho lasciato perdere. Non voglio che pensino che Red Wonder Woman sia una provinciale. Sotto il velo leggero delle calze di nylon, il dorso del piede mi appare nelle sue fattezze di pelle, vene e ossa. Inarco la pianta quanto basta per allentare la tensione alla punta delle dita e per un breve istante tiro un sospiro di sollievo, poi il dolore inizia di nuovo a pulsare all'altezza del tallone. Sofia le ha sempre portate con disinvoltura, intere serate abbarbicata su questi dodici centimetri di sofferenza senza battere ciglio. Tutto pur di rivendicare qualche centimetro in più di altezza. Sollevo lo sguardo e mi concentro sulla sala. I tavoli sono ancora vuoti. Settimana scorsa, quando ho chiamato, lo Scialbo mi ha consigliato di prenotare. «È l'evento del mese. Sarà tutto esaurito» mi ha detto. «Bellissima coincidenza. Due persone per le venti e trenta» gli ho risposto. Mi sono presentata un'ora prima. Mi ha fatto accomodare ostentando un sorriso da anfitrione premuroso. Mi ha chiesto se l'altro ospite mi avrebbe raggiunto. «Certo, all'ora concordata» ho replicato. Ora s'aggira tra i tavoli come una vespa eccitata alla ricerca di una vittima cui inoculare il suo veleno. M'intercetta, finge di controllare 11


qualcosa sul blocco delle ordinazioni, quindi s'avvicina con un fare distratto. «Signora, vuole ordinare qualcosa mentre attende? Un antipasto di pesce o uno sformato di verdure con ragù di cinghiale?» domanda. Fletto la testa per mettere bene a fuoco il suo metro e sessanta di noia e insignificanza. Lo Scialbo interpreta il mio gesto come un segnale positivo. «Altrimenti posso proporle dei crostoni di polenta con formaggio d'alpeggio. O un classico tagliere di salumi» rincara speranzoso. L'alluce destro mi lancia un mayday. Arriccio le labbra e le distendo con uno schiocco. «Un calice di bianco. Quello che vuole, purché sia freddo» gli rispondo. Stringe le mascelle e s'allontana contrariato. Sto occupando un suo tavolo e non consumo. Potesse farlo, mi butterebbe fuori dal locale a calci. Mi rilasso contro lo schienale della sedia e cerco di ignorare il dolore. L'abito di maglina rossa segue sinuoso il mio movimento. Al diavolo i suoi antipasti. Dodici mesi di duri sacrifici e venti chili persi solo per potermi trasformare in Red Wonder Woman. Se Scialbo sapesse la fatica che ho fatto sarebbe comprensivo. Lo osservo mentre gesticola in mezzo alla sala. Sta accompagnando una coppia di mezz'età a un tavolo poco distante dal mio. Ridono a una sua battuta. «Ragazzaccio» lo apostrofa la donna. Il marito gli assesta una pacca amichevole sulla spalla. Lo Scialbo allunga il collo, ringalluzzito. Il suo sguardo borioso percorre l'intera sala. “Ehi, guardatemi! Sono il re dei ristoratori. Sono il migliore” sembra dire. Trattengo un risolino. Ancora qualche ora e il comandante in capo si trasformerà nel buffone di corte. La dolce metà con cui condivide il focolare famigliare non è una tipa che si lasci manipolare. Al contrario. Sofia la chiamava L'Incantatrice. Per lui ogni sua parola è un ordine. E 12


così a casa, stasera, il Re dei Ristoratori si dovrà occupare di lavare i piatti, di controllare i compiti e gli zaini dei due mocciosi e di stendere i panni. In religioso silenzio, per non svegliare nessun membro della famiglia. Chissà se saprà di essere già caduto dal trono dorato! Arriva la mia ordinazione. La porta il cameriere, non conosco il nome di battesimo. Sofia e io l'abbiamo soprannominato il Nazista. «Moscato secco di Chambave!» annuncia. Si china in avanti, piega il braccio sinistro dietro la schiena e con la mano destra ne versa quattro dita. «Prego» dice facendomi cenno di assaggiare. Porto il bicchiere alle labbra e lascio che il sapore aspro mi pervada la bocca. Il Nazista attende un mio segno di assenso, ritto accanto al tavolo. Dall'ultima volta in cui l'ho visto ha perso il fascino da attore di soap opera. La mascella rettangolare continua a reggere il viso, ma le palpebre si stanno appesantendo e le borse sotto gli occhi sono gonfie. I capelli sale e pepe stanno perdendo terreno, lasciando scoperta la fronte. Solo il fisico pare non aver risentito del passare degli anni. Merito delle sessioni di allenamento nella palestra in cui trascorre metà del tempo libero. L'altra metà è invece riservata alle attività ricreative che organizza con i suoi amichetti neonazisti. Hanno fondato un circolo in città e l'hanno chiamato “Solo noi”. Qualche mese fa l'ho sorpreso ad attaccare volantini sui pali dei lampioni. Stavo tornando dall'Isola della Pace, erano solo le cinque di pomeriggio ma il crepuscolo invernale aveva già invaso ogni angolo della città. Ho atteso che si allontanasse, quindi ho dato un'occhiata al foglio che sventolava. Proclamava che ogni cittadino ha diritto alla sicurezza e al benessere. L'ho strappato. Sofia ha diritto all'onestà e io a essere felice. Il Nazista odia tutti. Odia lo Scialbo con tutte le sue forze. Ne riconosce la mediocrità e non sopporta che possa essere colui che gli paga lo stipendio ogni mese e che gli impartisce gli ordini. Odia il Peruviano per le sue origini al di fuori dei confini nazionali, anche se in verità è nato in Italia. Odia i clienti, perché sono pieni di soldi e ostentano la loro ricchezza. Odia i poveri perché non hanno soldi da spendere e si rinchiudono nei ristoranti di basso livello. Odia gli uo13


mini perché sono meglio di lui, odia i bambini perché urlano e strepitano, odia le donne perché non riesce mai a combinarci nulla. In questo momento odia anche me, perché lo sto ignorando e tiro alla lunga, facendo danzare il vino nel calice. Il fatto è che non sono un'intenditrice di vini e potrebbe avermi anche rifilato dell'acqua sporca e io odio essere presa in giro. Sono ferrata in ben poche cose: nella miscelazione delle spezie e delle erbe, di cui sono una dei maggiori esperti in Lombardia, nella capacità d'intercettare lo sfarfallio d'un lembo di lenzuolo negli uggiosi pomeriggi di attesa all'Isola della Pace e, nell'ultimo anno, sono divenuta un'esperta di funghi. «Ehm... Signora...» Il tacco della scarpa di pelle nera del Nazista batte sul pavimento, mentre cerca di attirare la mia attenzione. «È di suo gradimento, signora?» domanda. Stacco gli occhi dal calice e mi volto nella sua direzione. Accenno a un sorriso. Non contraccambia, il viso è inespressivo. «Credo di sì» gli rispondo e alzo il bicchiere mimando un brindisi solitario. Inarca un sopracciglio, fa un passo all'indietro e si china in avanti, abbozzando un inchino. Non mi ha riconosciuto, ma non temevo il contrario. Venti chili in meno, capelli nero carbone lunghi sino alle spalle, anziché il taglio corto e mascolino cui ero abituata, mi hanno trasformato in un'altra persona. Oltre al trascorrere del tempo, il mio prezioso alleato. Io stessa mi sento diversa stasera. Forse devo solo ringraziare il vino, che sto sorseggiando a stomaco vuoto e che anestetizza il dolore ai piedi e le mie debolezze, o il rumoreggiare che si alza nella sala, che mi dà una sensazione di leggerezza dopo tanti mesi di buio. Getto un'occhiata al tavolo vicino, il più vivace. Li invidio, hanno l'aria di essere un gruppo ben assortito. Qualcuno fa una battuta, altri scoppiano a ridere. Un uomo alza un bicchiere, altri si uniscono. Sorrido, la loro allegria è contagiosa. Accanto, un bellimbusto fissa l'orologio poi la porta d'ingresso. È solo, ma il suo tavolo è appa14


recchiato per quattro. Una cena di lavoro forse. O di svago. Ăˆ la serata giusta. Un fastidioso rimorso si agita nel mio stomaco. Lo metto subito a tacere. Red Wonder Woman è anche questo: non lasciarsi distrarre dal proprio proposito. Butto giĂš l'ultimo sorso di vino, afferro la pochette di velluto e mi alzo.

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Federico Mi sono fatto mettere proprio di fronte alla porta e non smetto di fissarla. Ho chiesto un tavolo per quattro. Diranno che sono un po’ strano. Non importa, tanto qui non mi conosce nessuno e non è necessario fare, come sempre, la cosa giusta, quella che s'aspettano tutti da me. Mai fuori luogo, assertivo col sorriso, pacato, ma con la battuta pronta, la seduzione e il rigore, sapientemente alternati, solo quando e dove serve. Oggi voglio e posso concedermi di perdere furtivamente il controllo tra questa gente sconosciuta... inseguendo le tracce lontane di quel poco di autentico che la mia vita “di successo” mi ha riservato. Ho bisogno di tenere costantemente d’occhio quella porta. In fondo è il mio appuntamento col passato questo... meno male che a Monza, in via Bresci Pratese numero 8, c’è... che sorpresa... un ristorante e anche elegante. Pensa se avessi dovuto aspettare le venti sotto la pioggia, davanti a un capannone abbandonato o in un viale pieno di prostitute. Decisamente, così è più nelle mie corde. Chissà se agli altri verrà in mente d’entrare. Viola e Manuel di certo non si faranno problemi, ma Emma avrà mille dubbi e non vorrà rischiare nemmeno il disagio, l’esitazione o l’attesa eccessiva degli altri. Lei è così diversa da me, così delicata, decentrata e idealista. Dimentico che sono passati trent'anni, potrebbe essere piena di rabbia, tatuaggi e piercing, non può certo essere rimasta quel che era, un angelo biondo. Che ansia, ho tanto desiderio di rivederli, ma nessuna garanzia che verranno. Quando sono riuscito a rintracciare Manuel su Facebook, ho cercato di fargli capire che era importante. Lui ha detto che le avrebbe avvisate, ma forse la cosa è rimasta davvero importante solo per me. 16


Nelle vite normali, non si resta congelati e imprigionati in quel che pensi di voler essere. Ritrovi il caldo e la tenerezza, l’ingenuità, l’intensità e la redenzione in tanto altro. Non potevo certo immaginarlo: lo spettro di quello che gli altri si aspettano da me e la paura di deludere, in primo luogo me stesso, hanno cominciato a perseguitarmi proprio allora. Se non avessi preso in mano la cosa in quel modo, forse... Aspetta, si è aperta la porta... è una coppia... Lei non smette di parlare un momento, passano davanti a me e alla morettina vestita di rosso seduta da sola alla mia sinistra. Li seguo insistentemente con lo sguardo fino a quando non arrivano al loro tavolo. Sembrano habitués, mi par di capire che anche loro aspettino qualcuno... degli amici in ritardo. Mi conviene ordinare qualcosa da bere, così mi rilasso un po’.

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Angelica Mi specchio nella porta a vetri del ristorante. “Forza”, mi incito, “testa alta, sguardo fiero, seno in fuori.” È strano organizzare una cena con gli amici il giorno in cui ho firmato le carte della separazione. Va contro i miei principi. Sogghigno. Andava contro i miei principi. Sì, perché la nuova me ha valori nuovi, più rivolti alla propria autoaffermazione nel mondo. “Agisci come vorresti essere e presto sarai come agisci.” Non ricordo l'autore della citazione, ma ho deciso di usarla come mantra quotidiano, per trasformarmi nell'adulta rimasta imprigionata in un'eterna ragazza fragile e indecisa. A trentotto anni sarebbe anche ora, penso. Entro nel locale e cerco Vittoria e Marco con gli occhi... sono le sette e trentanove e l'appuntamento era per le sette e mezza. Conoscendo la mia amica, starà riflettendo sul motivo per cui le persone tardino tanto di frequente, pur sapendo quanto sia irrispettoso. Sì, perché lei ragiona così, in modo a mio parere piuttosto saccente e assoluto. Se non ci fossimo conosciute alle scuole elementari, quando le personalità erano ancora tanto malleabili, credo non saremmo mai diventate amiche. Un cameriere dall'aspetto gentile mi accoglie con un rigido cenno del capo. «Buonasera... credo siano già arrivati dei miei amici, ho chiamato a nome di Angelica.» «Sì signora, l'accompagno.» Seguo l'uomo tra i tavoli apparecchiati. Il ristorante è ancora semivuoto. Vittoria mi vede e si alza, accennando un inchino. «Ti sei fatta attendere, cara.» 18


L'abbraccio e la bacio su entrambe le guance. «Scusatemi, sono venuta a piedi ed è più lunga di quanto pensassi.» Anche Marco si alza e mi stringe la vita con entusiasmo. In faccia, il suo immancabile sorriso spontaneo. «Tesoro, potevamo passare a prenderti noi, con questo tempaccio!» «Figurati, ho fatto volentieri due passi, avevo bisogno di svuotare un po' la testa. E grazie per essere venuti presto... volevo vedervi prima che ci raggiungesse Davide.» Mi sfilo il cappotto e prendo posto accanto a loro, al tavolo da quattro che ho prenotato. Vittoria cerca la mia mano e la stringe forte. «Come stai?» Prevedevo una parentesi di compassione, e in fondo sarei stranita se la mia amica di sempre non si preoccupasse per me, che nell'ultimo anno ho perso d'improvviso mia madre per un arresto cardiaco e mio marito per... diciamo differenze inconciliabili, così almeno abbiamo scritto sulle carte. Ma ho deciso che la nuova me non vuol essere compatita, quindi rispondo con un nevrotico «Bene grazie, e voi?» Vittoria mi fissa interrogativa. Alzo la mano, per farmi notare dal cameriere che ha appena servito l'aperitivo a una coppia accanto a noi. «Posso portarvi qualcosa da bere nell'attesa?» «Molto volentieri. Per me un Negroni. Voi?» «Due prosecchi, grazie» risponde Vittoria. Il cameriere si allontana. «Cara, con noi puoi parlare. Dev'essere dura.» Controllo di avere steso bene lo smalto e mi accorgo che come al solito la mano sinistra è venuta meglio della destra. «Parli della separazione o delle corna?» rispondo con un tono aggressivo di cui mi pento subito. Marco aggrotta la fronte e tamburella con le dita sul tavolo. Poi si alza e accarezza Vittoria sui capelli. «Moglie, vi lascio sole il tempo di una sigaretta. Fate le brave.» Lei lo guarda dirigersi verso l’uscita. «Vedrai che non rientra fino 19


all'arrivo di Davide. Tipico degli uomini dileguarsi nelle situazioni scomode.» Ridiamo e mi rilasso un po'. «Non lo so. Quando ho scoperto le mail tra Alberto e la sua segretaria mi sono sentita quasi sollevata. È assurdo, no?» Vittoria mi osserva, muta. «Mia madre era una roccia, praticamente il mio opposto, lo sai. Quando è mancata, forse per sentirne meno la mancanza, ho cercato di guardarmi con i suoi occhi. E ho realizzato che stavo vivendo una vita che non faceva più per me. Alberto mi amava in quanto devota. Ma io mi sono stancata di venerarlo, e lui si è trovato un'altra. Fosse un film, sarebbe davvero poco originale.» I drink arrivano al tavolo, con mio grande sollievo. Ne bevo metà in pochi secondi. «Eri seria al telefono quando hai detto che stasera ci vuoi provare con Davide?» «Diciamo che voglio imparare a prendermi quello che desidero.» Faccio altre due sorsate dal bicchiere e mi accorgo che è già vuoto. «Questo lo capisco bene, Angelica. Quante volte ti ho detto di concentrarti su di te invece di seguire i desideri degli altri? Non ti sei mai presa abbastanza sul serio. Però hai appena ammesso che per anni hai vissuto nell'ombra di Alberto. Ora che vi separate non vuoi splendere un po' da sola?» Sento lo stomaco contrarsi. Respiro a fondo. «Ho mandato i miei dipinti alla scuola d'arte di Roma, quella di cui parliamo da almeno dieci anni. Mi hanno risposto, ormai più d'un mese fa, che mi avrebbero scritto entro un paio di settimane se avessi passato la selezione per i corsi del prossimo anno.» Il cameriere sta sistemando i cestini del pane sui tavoli e ne approfitto per ordinare. «Me ne porta un altro per cortesia?» «Quindi?» m'incalza Vittoria. «Quindi niente. Più sentiti.» Faccio una smorfia che dovrebbe somigliare a un sorriso. 20


Guardo la coppia al tavolo accanto, che sta discutendo a bassa voce. «Ci ho provato a splendere, ma evidentemente non c'è tutta questa luce in me.» Quando mi volto vengo colpita da occhi azzurri e sottili, privi di quel po' di empatia che mi aspettavo. «Cazzo Angelica, è questo che dovresti cambiare, mica tutte le stronzate new age che ti propinano in quei libri di crescita personale. È da quando ti conosco che fai la vittima, quella che non crede di valere abbastanza, quella che la vita è troppo difficile. È così per chiunque, sai?» Grazie Vittoria, dall'alto del tuo piedistallo ne hai una per tutti. Io sono quella priva di autostima, Marco quello che dev'essere consigliato su tutto, pure sulle mutande da scegliere al mattino. Davide quello troppo buono, forse pure un po' pirla. Questo è ciò che penso, serrando la mascella per non sputare fuori il veleno. Arriva il mio cocktail. Alleluia. Amo il Negroni quando sono tesa, una botta di super alcol che va in circolo veloce. Non mi piace la piega che sta prendendo la conversazione, la mia amica dovrebbe essere una spalla, stasera, non un'avversaria. Addolcisco il tono della voce. «Comunque Vitto, non sono stata io a cestinare la mia richiesta. Questa volta ho provato a superare le mie insicurezze, no?» Sento delle gocce riempirmi gli occhi e guardo in altro, per ricacciarle giù. Vittoria accenna un sorriso. «Sei stata grande infatti, stupidi loro, che non sanno chi si lasciano scappare. Comunque... spiegami la serata, che tra dieci minuti arriva Davide.» Bevo un sorso del nuovo cocktail e cerco di mettere insieme le idee. «Allora... lui aveva un debole per me, giusto?» «Direi che si è innamorato di te a prima vista. Per anni ti ha guardata come un idiota.» Vittoria ha l'espressione seria che assume ogni volta che pianifi21


chiamo qualcosa, fosse una serata al cinema o una rapina in banca. Mi compiaccio, confortata dalle sue parole. E mi torna in mente il nostro primo sguardo, nella mensa dell'università. Era settembre e avevo un abito bianco con grandi fiori rossi stampati, che indosso anche stasera, nonostante sia del tutto fuori stagione. I nostri occhi scuri, dopo essersi trovati per caso, non si erano persi per diversi secondi. Poi la timidezza di entrambi aveva prevalso. E solo tre settimane più tardi, capitati vicini a una lezione, ci eravamo presentati. Vittoria era stata testimone di tutto, dato che dalle elementari in poi avevamo scelto lo stesso percorso di studi. O meglio, io avevo seguito le sue orme, pur di non perdere quella guida forte, per me tanto preziosa. E ancora oggi, per quanto ci si veda sì e no una volta al mese, non ho dubbi che sia la mia migliore amica. «Anche a me Davide è sempre piaciuto. Ma stavo già con Alberto e non mi sono permessa di mettere in discussione la relazione. Mi fa impazzire la sua dolcezza, quel sembrare irrisolto... anche nelle mail che ci scriviamo ogni tanto è così incasinato. Ma in senso buono... capisci cosa intendo?» Vittoria alza gli occhi al cielo e sospira, teatrale. «Sì che capisco. Ma proprio per questo non vedo perché cercarlo adesso. Allora hai scelto Alberto, che era l'esatto opposto, maturo e imperturbabile.» «Appunto, e vedi com'è andata!» Di nuovo quell'occhiata tagliente. «Non fare la bambina. Primo: per anni con Alberto sei stata felice, quindi qualcosa di buono c'è stato. Secondo: se una soluzione non è quella giusta non ci si butta su quella contraria. Così puoi fare fino a dodici anni, poi scopri che esistono le sfumature. E terzo: Davide non è più quello di allora… nessuno di noi lo è. Non dare per scontato che caschi ai tuoi piedi.» Butto giù quel che resta del mio secondo Negroni. Controllo il respiro e parlo a me stessa, come mi ha insegnato la 22


psicologa. «Calmati Angelica. Va tutto bene. Niente ansia, sono tre mesi che non hai attacchi di panico. Ormai sei in grado di arginarli. Respira.» Vittoria si deve accorgere del mio malessere, perché mi stringe di nuovo la mano. «Sono dalla tua parte, comunque. Cerchiamo di passare una bella serata.» Ricambio distrattamente la sua stretta mentre osservo che il tavolo circolare posto in mezzo alla sala si sta popolando. Sono tutti uomini di una certa età, dal fare distinto e vestiti in giacca e cravatta. Una cena d'affari, immagino...

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L'Invisibile Odio le persone sedute a tavola con me. Ma ho un lavoro da fare e quindi questo non conta. Dagli altri tavoli il cicaleccio favorisce il nostro desiderabile anonimato. L'uomo col blazer e il suo vicino in giacca e cravatta discutono esaminando una piantina. Gli altri per il momento sembrano concentrati sui loro antipasti, ma so che ognuno tende l'orecchio e pensa. Ancora una volta mi dico che questo incarico sarà l'ultimo. Me lo dico ogni volta, da almeno due anni. L'uomo dai capelli grigi fa scorrere uno sguardo circolare intorno al tavolo. Cominciano a girare le bottiglie. «… bianco o rosso? Cominciamo col bianco… Rosso, rosso! Con gli ossibuchi ci vorrà il rosso, meglio non mischiare! Hai ragione, rosso anche per me.» Il mio vicino educatamente si accinge a versare per me. «Rosso, grazie. Basta così, devo guidare.» «Dove abita?» Col cavolo che glie lo dico: «Milano. Zona Certosa». Ci voleva il vino, per sciogliere le lingue «… ma lo sai cosa mi ha detto oggi mia moglie… qui dipende tutto da come vanno le elezioni… ma quand'è che si vota… mia figlia quest'anno ha la maturità… avevo la lunga di quadri e loro… ma tua suocera sta sempre… sembrava una buona occasione e invece… dite quel che volete ma l'affettato misto…» Ecco, bravo, l'affettato è ottimo. Forse il crudo, ecco, è un filo asciutto, ma il resto è notevole. Bell'idea, il lardo con le castagne candite. Peccato non poterlo innaffiare come merita. Ma questo mezzo bicchiere mi deve durare fino alla fine. Nel frattempo è venuto il momento del presidente, o chi diavolo è. «… come tutti gli anni… un sincero grazie… vent'anni fa la nostra 24


associazione… una piccola sorpresa…» E questi lo stanno pure a sentire. Oh oh, questo è il mio nome. Cioè, quello che lui crede sia il mio nome. «… che stasera è in nostra compagnia, prima del dessert ci parlerà delle regole e dello svolgimento dei tornei di bridge nell'Inghilterra post-vittoriana». Argomento decisamente affascinante. Eppure due o tre tizi accennano un debole applauso. Ma guarda ‘sti cretini che fanno la claque. Gli altri sorridono, con la bocca piena, compiaciuti o servili. Forse è il caso di un piccolo inchino, giusto, alzarsi a mezzo con un piccolo inchino. «Attendiamo con impazienza la sua dissertazione!» Con impazienza. La mia dissertazione. Che naturalmente non ho preparato. Quel che è certo è che nessuno si lamenterà per questo. Bene bene bene. Corrado (che certamente non si chiama Corrado) ha fatto come sempre un ottimo lavoro. M'immagino la telefonata al momento giusto (non troppo presto, ché non ci sia il tempo per ripensarci, controllare, richiamare; non troppo tardi, per evitare le prevedibili obiezioni logistiche), il tono suadente, il linguaggio professionale: «… la nostra agenzia, a titolo promozionale… tutto a nostro carico… uno dei nostri esperti» (be', questo almeno è vero), «uno dei massimi studiosi e bla bla bla… se poi sarete soddisfatti, cosa di cui non dubito, potremo stilare un programma di conferenze, a prezzi assolutamente competitivi e bla bla bla…» Del resto, è lui il diplomatico. Io sono il tecnico. Questo è un altro lato buono del lavoro con l'agenzia: patti chiari, amicizia lunga, come dico sempre io. Divisione dei compiti. A me spettano la pianificazione, lo studio del soggetto (cosa fa, dove va, chi frequenta, cos'ha in agenda, orari abitudini passatempi), i sopralluoghi (il quartiere, la sala, il bagno con l'uscita di sicurezza che dà nel cortiletto), la scelta del metodo, il materiale (un piede sfiora rassicurante la mia valigetta da conferenziere), la realizzazione. Questa volta è stato fin troppo facile per essere divertente, una serie di colpi di fortuna: la passione per il bridge, la cena annuale. Ma il mio lauto, anzi lautissimo, compenso resta tale e quale. Non posso pretendere sempre anche la dimensione della sfida, quella sensazione esaltante di quando risolvi il rompicapo. 25


Che poi è il motivo per cui continuo ad accettare incarichi, mentre potrei starmene in un bel sette stelle ai Caraibi, comprarmi una baita in Val Grisanche, una villa a Cap Ferrat, anzi no, che villa, mica sono uno di quei risaliti che nuotano nei soldi come Paperone, con la fissa della sicurezza; una casetta, ecco, una bella casetta di quelle pittoresche, nel vecchio villaggio dei pescatori, svegliarsi la mattina e vedere il mare. Invece, a me, piace l'adrenalina. Per adesso va bene così. In compenso stasera posso godermi un'ottima cena. Questi intanto continuano a parlare a vanvera. «… è stato un bruttissimo incidente, ma per fortuna… anche mio cognato, facendo il fuori pista… sono passatempi pericolosi, anche se… be' noi col bridge non corriamo rischi…» Ma dai, questa sì che è buona. Poveri bastardi. «… per Pasqua andiamo a Champoluc, dovrebbe esserci ancora abbastanza neve… Pasqua viene presto quest'anno…» Già. Pasqua viene presto, il primo di aprile. Altro che pesce. Ma se Pasqua è il primo di aprile, allora oggi, oggi… oggi è il primo venerdì di Quaresima. Che noi giustamente festeggiamo con l'affettato misto e quel che segue. E il ristorante era tutto prenotato. Se ci vedesse la nonna. Povera nonna, lei ci teneva, ai giorni di magro: uova sode, il tonno nelle latte che si comprava al mercato, nasello impanato. Non mi sono ancora riconciliato, col tonno sott’olio. E al pomeriggio mi portava alla Via Crucis. Quando sono andato in prima liceo, le dicevo che alla Via Crucis ci andavo coi miei compagni. Invece andavamo in uno dei primi McDonald, a mangiare gli hamburger. Neanche questo affettato, o l'ossobuco che sta per arrivare, tenerissimo e succulento con la sua bella gremolata(1), mi darà mai la stessa soddisfazione che mi davano quegli hamburger unti e stopposi e così deliziosamente furtivi. La nonna non ha mai sospettato niente. Lei mi vuole bene; si fida di me. E io sono un bravo nipote: la vado a trovare ogni volta che posso, le porto dei bei regalini. Lei è sempre così contenta. Chissà cosa (1) gremolata o gremolada: l'intingolo classico che accompagna l'ossobuco alla milanese, con aglio,

prezzemolo e buccia di limone

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penserebbe se le raccontassi del mio lavoro. Se le raccontassi solo quanto mi frutta, sarebbe orgogliosa di me. Ma forse è meglio se non glielo racconto. Le sembrerebbe troppo; è ancora lucida e mi direbbe che non si possono guadagnare così tanti soldi senza sporcarsi le mani. Forse è meglio rifiutare il secondo antipasto, verdure con ragù di cinghiale. Sempre per onorare la Quaresima. Ma mica per quello. Per mantenermi leggero e lucido. E poi mi godrò meglio il risotto.

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Barbara alias Red Wonder Woman L'alcol ha un effetto benefico. Mi appoggio alla sedia per ritrovare l'equilibrio, al tavolo di fronte una giovane alza un bicchiere e mima un brindisi. Mi alzo, fingo di dirigermi verso la toilette, ma all'ultimo mi riparo dietro il séparé che divide la sala dalle cucine. Dalla fessura delle porte saloon la cucina appare come la stanza di un laboratorio di ricerca. Nuvole di vapore si alzano dai fornelli, il ceppo porta coltelli è in bella vista sul piano poco distante dalla porta. Alvarez il Peruviano sta trafficando con un cucchiaio di legno. Lo batte sul bordo di una padella di coccio, quindi rimesta con un ampio movimento circolare del braccio e batte di nuovo. Diventare uno chef stellato non gli ha fatto bene. È ingrassato, i lineamenti porcini del viso brillano sotto il velo del sudore. Il parrucchino corvino è sistemato alla bell’e meglio. Sopra, il cappello da cuoco è in equilibrio precario. Non ha mai accettato l'incipiente calvizie che lo perseguita da quando aveva vent'anni, la ritiene poco sexy e non adeguata al successo professionale. Il suo mantra è solo i perdenti hanno il cranio pelato. Anche i ladri, aggiungerei. Osservo le dita grassocce agitarsi nell'aria come piccole salsicce sfrigolanti e posarsi sulla boccia di vetro appoggiata sopra uno scaffale in acciaio, dietro i fuochi. Sono troppo distante per leggere l'etichetta, ma non importa. Non è il momento di giocare all'oculista e barerei, dato che conosco a memoria ciò che c'è scritto. Con la grazia di un elefante l'afferra, toglie il coperchio e quasi ci affonda il viso. Quando lo risolleva ha un'aria perplessa. Con il dorso della mano si sfrega per un paio di volte la base del naso, quindi la riaffonda di nuovo per un istante. «Hermano!» chiama. Mi morsico le labbra per trattenere una risata. Povero imbecille! Darsi un tono in una lingua che non è la propria! Nonostante il nome e la pelle olivastra, Alvarez il Peruviano è un bergamasco DOC. La percentuale di sangue sudamericano del bisnonno non supera la 28


doppia cifra. «Hermano!» ripete. Lo sguardo percorre il perimetro interno del locale e si ferma per un istante sulla fessura della porta, gli occhi si stringono, come per mettere a fuoco, poi ritornano al piano della cucina. Afferra il cucchiaio e rimesta il contenuto della boccia, quindi ne versa alcune porzioni in una padella fumante. Non può avermi visto, l'anta di legno mi fa da scudo. E se anche avesse intravisto un’ombra, potrebbe averla scambiata per un angelo vendicatore. Forse la miscela magica sta già agendo su di lui, non ho idea di quali potenzialità possa avere sugli imbecilli. Dietro di me un rumore di passi affrettati si avvicina. Mi acquatto nel cono di buio che il séparé proietta sul pavimento. Lo Scialbo sta marciando nella mia direzione, gli occhi sprofondati nello schermo LCD del cellulare. Le labbra si muovono in una silenziosa imprecazione. Sarà l'Incantatrice, che gli sta augurando la buona notte con un nuovo incarico per la serata. Mi incollo alla parete di legno, Red Wonder Woman sa rendersi invisibile all'occorrenza. Una voce proveniente dalla sala richiama la sua attenzione e lo Scialbo fa marcia indietro. Furtiva, lascio il mio nascondiglio e torno a quel che accade in cucina. Il Peruviano e il Nazista stanno venendo alle mani. Uno stringe la boccia di vetro tra le braccia e l'altro lo strattona. Il respiro mi si blocca in gola. «Hermano del cazzo» sento il Peruviano sibilare. Con l'enorme spalla destra gli assesta un colpo e si divincola. «Sono io lo chef, hai capito? Io! Hermano del cazzo» continua. La voce stridula ha raggiunto toni da rottura della barriera del suono. Per tutta risposta il Nazista si allontana ridendo, la testa buttata indietro e la mascella rettangolare nella sua massima distensione. La boccia - la sacra boccia - è sana e salva. Il Peruviano l'accarezza con gentilezza, quindi ne estrae ancora un cucchiaio e lo aggiunge alla padella. Chissà se dopo tutti questi anni ha imparato qual è la dose esatta. Sofia ha sempre sostenuto che la citronèlla può essere la rovina di un piatto o la sua delizia. Tutto dipende dalla giusta quantità. 29


«È vietato entrare in cucina. È la regola.» Sobbalzo. Lo Scialbo è fermo dietro le mie spalle e mi fissa. Stavolta non l'ho sentito arrivare, ero troppo concentrata a osservare la scenetta. Raddrizzo la schiena e tiro in dentro la pancia. Obbediente, il vestito rosso scivola lungo i fianchi. Osservo il bordo danzare all'altezza dei polpacci. «Non è la toilette?» cinguetto, alzando gli occhi. Lo Scialbo scuote il capo. È scocciato, glielo leggo in viso. «Là in fondo, signora. Vicino all'ingresso. Questa è la cucina e i clienti non possono entrare» ripete. «Oh, immagino di no. Nel frattempo mi può portare dell'altro vino?» rispondo. Inclino la testa su un lato e mi prodigo nel mio miglior sorriso. Non contraccambia, rimane immobile in attesa che mi levi di torno. Mentre mi allontano il dolore ai piedi ricomincia a pulsare. Barcollo per mantenere l'equilibrio. Gli occhi dello Scialbo sono stampati sulla mia schiena, me li sento addosso. Poco male, penserà che sono alticcia. Il bagno è freddo. A confronto L'Isola della Pace è un forno. M'infilo in quello riservato alle donne e mi chiudo dentro. Alcune candele rischiarano la luce fioca della lampada al neon, un profumo delicato di ylang ylang cerca di coprire senza successo quello nauseante, di fogna. La pioggia di questi giorni non è stata di grande aiuto. Apro la finestrella basculante, abbasso il coperchio del wc e mi accomodo. Ho bisogno di una sigaretta. Non fumo mai, salvo quando devo tenere a bada i nervi. Appoggio la pochette sul lavandino ed estraggo il pacchetto di Marlboro. È a metà, in questi ultimi giorni ci ho dato dentro alla grande. Sfilo le scarpe e sfrego la pianta di un piede sul dorso dell'altro. Il sollievo è immediato. Dovrò imparare a portarle con disinvoltura. Come per ogni eroe dotato di superpoteri, l'abito e ogni accessorio hanno la loro importanza. Non posso essere Red Wonder Woman senza queste trappole e devo ammettere, nonostante il dolore, che ne vale la pena. Inspiro a fondo. Il sapore catramoso della Marlboro travolge i 30


polmoni come una pioggia monsonica. In alcuni momenti ne divento dipendente. L'ultima volta è successo tre anni fa. Ne fumavo una via l'altra, Sofia mi incolpava dell'odore di fumo che impregnava la casa. In verità in quel periodo mi accusava di molte cose. Faccio di nuovo un tiro, la sigaretta trema tra le dita. Il sentore della nebbia e della pioggia che entra dalla finestrella si mescola a quello di ylang ylang e al mio fumo. L'effluvio che ne esce è confortante. Tiene a bada i nervi e i pensieri tristi. Quelli cattivi no, sono l'essenza di Red Wonder Woman. Mi ricorda lo stesso odore che respiravo quando vagavo in certe mattine di tardo autunno nei boschi della Bassa Valtellina. Le nuvole bianche scivolavano giù dal cielo sino a toccare la terra, gocce di umidità erano sospese sui rami degli abeti, cristallizzate in un mondo fuori dal tempo. Gli stivali di gomma sfioravano appena il suolo e ogni pulsione nella mia testa si azzerava. Anche le cappelle bianche dei Boletus satanas, lucide per l'umidità, apparivano come dei diamanti nella luce fioca del bosco. Sono dei diamanti in realtà. Preziosi e dal valore inestimabile, come la vita di Sofia. Una porta sbatte nel bagno accanto. La sigaretta è terminata. M'infilo le scarpe e mi alzo. Butto la cicca nella tazza e tiro l'acqua.

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Angelica Il tempo di bere un terzo cocktail, quello che mi anestetizza un poco mani e piedi, e arrivano al tavolo Marco e Davide, accesi da una discussione sul rugby. Eccoci riuniti, noi che anni fa, in facoltà di biologia, venivamo chiamati dai compagni “I fantastici quattro”. Sempre insieme, un periodo fantastico per davvero. Il tempo ci ha inevitabilmente allontanato, ma la tradizione vuole che almeno una volta l'anno ci si ritrovi per una cena. Solo noi. Vittoria si alza e abbraccia Davide, mentre io cerco di rallentare il cuore impazzito. «Vitto» esclama Marco a voce troppo alta, tanto che il cameriere lo guarda severo «com'è che lui non lo cazzi per il ritardo? Sarà stato ore a farsi bello... per quel che è servito poi!» Il risultato in realtà è spettacolare. È quasi un anno che non vedo Davide, perennemente in viaggio per girare documentari, e lo trovo più affascinante che mai: qualche capello bianco in più, barba corta un po' disordinata e una luce forte negli occhi, quella che hanno le persone felici, penso. Svincolatosi da Vittoria si avvicina, guardandomi dritto negli occhi. «Ciao Angy.» Mi alzo di scatto e sento una vertigine. «Ciao Davide.» Lui abbassa lo sguardo su di me. «Ma questo vestito lo conosco!» Sorride dolce. «Sei bellissima. Proprio come allora.» Sento il viso surriscaldarsi. Nell'ultima settimana, da quando ho organizzato la cena, non ho fatto che immaginare questo momento, e la realtà si sta dimostrando all'altezza della fantasia. Anche meglio. Davide non è mai stato uno da complimenti così espliciti: da ragazzo 32


sosteneva di amare il mio stile romantico, gli occhi timorosi, il sorriso timido. Mi chiedo chi gli abbia insegnato a lusingare una donna. Viene servito l'antipasto, e le risate si sprecano. Pillole di gossip su vecchi compagni di scuola: da quello diventato testimone di Geova che ci stalkera tutti su Facebook a quella che ha aperto un centro massaggi dove, dicono, si pratichino scambi di coppia e giochi di dominazione sessuale. Marco crea una composizione col salame e i panini al latte, che rappresentano rispettivamente pene e testicoli. “Quarant'anni buttati via”, avrebbe ironizzato mia madre bonariamente, osservando la scena. Anche se ci vediamo di rado, è un attimo rispolverare la vecchia confidenza. Mi sento bella e su di giri, cosa che da molto tempo non accadeva. Davide ha qualcosa di diverso: il suo sorriso, di solito trattenuto, oggi è aperto e contagioso. Tiene il cellulare poggiato sul tavolo, e noto che gli lancia occhiate frequenti. Prende lui la parola «Ragazzi, ma quanto ci siamo imborghesiti? Questo posto è troppo chic per noi. Vi ricordate i ritiri di studio che facevamo a casa di Vittoria sopra a Varenna?» Marco si porta le mani alla faccia, stile “Urlo di Munch”. «Quelli invernali erano un supplizio, ci saranno stati dieci gradi in quella casa. Sono certo che la stufa fosse solo un complemento d'arredo.» «Ah, quindi era per scaldarvi che fumavate canne da mattina a sera» ribatte sarcastica Vittoria, «dovevamo lavare persino i copridivano perché ai miei non sembrasse di entrare in un coffee shop, il fine settimana successivo». Io rido scomposta, un po' per quei ricordi idealizzati e un po' per l'emozione di avere Davide a pochi centimetri da me. Bevo un bicchiere del bianco che ci hanno servito con l'antipasto, poi intervengo. «E non c'era nemmeno la lavatrice, Vitto. Praticamente noi passavamo il sabato a studiare e la domenica a lavare. Che sfigate!» 33


Davide mi sfiora la spalla, come a chiedere scherzosamente scusa per quelle mancanze di attenzioni che in realtà non ci pesavano affatto. Sento un brivido violento diramarsi per tutto il corpo. Riempio il bicchiere e lo svuoto. Mi sostengo: «Calma Angelica, ora tocca a te». Appoggio la mano su quella di Davide, cercando un contatto visivo. La vecchia Angelica non avrebbe mai osato tanto. Lui mi guarda qualche secondo, stupito. Poi ritrae la mano lentamente e prende il cellulare. Scrive un messaggio. Resto stordita. In passato cercava spesso il contatto fisico con me. Ripenso a quando, doveva essere il terzo anno di università, avevamo affittato una casa in montagna durante le vacanze di Natale. Io e lui ogni sera finivamo per addormentarci sul divano in salotto, così da dormire abbracciati. Mi sentivo in colpa nei confronti di Alberto, ma poi mi convincevo che in fondo non facevamo nulla di male. Sento lo sguardo di Vittoria su di me. Vedo che è accigliata, come a voler capire se sto bene. Non so se sto bene, vorrei risponderle. Mi gira la testa, ho nausea e tachicardia. Ma devo restare focalizzata. Ho un obiettivo stasera: farmi portare a casa da Davide e baciarlo. Sarebbe un bacio che, in fondo, aspettiamo entrambi da quasi vent'anni. E se non riesco a parlargli oggi, chissà quando lo rivedrò. «Ragazzi» Davide alza il bicchiere. «Sono felice che Angelica abbia organizzato questa cena. Ho delle novità e non vedevo l'ora di condividerle con voi.» Marco sorride. «Devi fare coming out? Va' che non è necessario... un così bel ragazzo ancora single. Basta fare due più due...» «Fuochino» scherza Davide. «Non è esattamente questo... e comunque preferisco non anticipare altro. Saprete tutto a momenti.» Ci guardiamo l'un l'altro, spiazzati. Io mi servo da bere. «Ma che storia è questa?» chiede la mia amica maniaca del controllo. «Perché dovremmo aspettare, spiegaci ora.» 34


Davide scuote la testa. «No no, giusto un po' di pazienza signori miei.» Chiudo gli occhi e avverto un conato di vomito in arrivo. Cerco di vagliare le diverse possibilità: una donna, un trasferimento, una promozione... mi sforzo di restare positiva. Riapro gli occhi. Gli altri mi stanno guardando. «Tutto a posto?» chiede Marco premuroso. Davide mi prende la mano. «Angy, sei gelida, ti senti bene?» «Respira Angelica, agisci come vorresti essere, cazzo!» mi urlo isterica nella testa. «Certo che sto bene» replico. Ma mi accorgo che le parole escono biascicate, quasi incomprensibili. «Quindi brindiamo. Viva le novità!» Trangugio tutto il bicchiere e i miei amici, confusi, brindano con me. Il tavolo riprende vita: gli altri stanno ricordando la vacanza di laurea in Grecia, quella a cui io non ho partecipato perché Alberto mi aveva regalato un viaggio in Brasile. Forse, ma è solo una supposizione, perché stava raccogliendo materiale per scrivere un libro ambientato a San Paolo. Rido sguaiatamente, così da aggiudicarmi la parola, incurante dell'argomento in corso. «Ma, a proposito di novità... sapete tutti che mi sono separata, no? Sono una donna libera ora. Posso fare tuuutto quello che voglio. Mi merito anch'io un brindisi!» Prendo la bottiglia di rosso, che il cameriere poco fa ci ha servito insieme a un tris di risotti che gli altri hanno quasi finito mentre io l’ho appena assaggiato. Inizio a versare il vino a Davide, che accenna un sorriso forzato, e ne rovescio buona parte sulla tovaglia. Vittoria mi soccorre. «Aspetta cara, ci penso io. Sai, Davide, che la nostra artista ha dipinto un quadro apposta per noi? Stile impressionista, il mio preferito. Lo abbiamo messo sopra al camino... dopo 35


mando una foto sulla chat di gruppo di WhatsApp.» «Ma dai» risponde Davide guardando nel suo piatto e mangiando una forchettata di risotto. «Ho sempre sostenuto che fossi molto dotata, Angy. Stai lavorando a qualcos'altro?» Bevo un paio di sorsi. “Perché non mi guardi?” vorrei chiedergli irritata, ma mi limito a rispondere: «Si certo». Porto una mano sotto al tavolo e l'appoggio sulla sua gamba, avvicinandomi di proposito all'inguine. «Sto lavorando a rifarmi una vita... e voglio cogliere ogni occasione.» Sorrido maliziosa, un sorriso che non è il mio e che forse risulta meno sexy di quanto vorrei. «Scusate» tossisce Davide, «vado un attimo in bagno». Lo guardo allontanarsi e mi domando perché, dopo anni passati a idolatrarmi, ora mi tenga a distanza. Con la coda dell'occhio intravedo un venditore di rose avvicinarsi al nostro tavolo e porgerci il mazzo, invitandoci a comprarne qualcuna. «Sei arrivato tardi» lo ammonisco scocciata, con un'insensibilità che normalmente non mi appartiene. Incrocio lo sguardo di uno sconosciuto, seduto da solo a un tavolo. Un bell'uomo, avrà qualche anno più di me. Credo di piacergli, non mi ha ancora tolto gli occhi di dosso.

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Federico Questa sera non ho voglia di occhiate suadenti e di donne affascinanti in cerca di conferme. La mia ex moglie se ne stupirebbe, mi accusa da sempre di non riuscire a farne a meno. La ragazzina bionda che è entrata adesso coi suoi genitori sembra proprio Emma, racchiusa in quella giacca verde col cappuccio, i capelli lunghi e il sorriso timoroso. Avevi l’esigenza prepotente di proteggerla qualsiasi cosa facesse. È proprio vero che non dimentichi la prima volta che ti è battuto prepotentemente il cuore per qualcuno. Eravamo dei bambini, convinti che nulla sarebbe davvero cambiato se non in ciò che desideravamo migliore. Quando, finiti i compiti, mamma annunciava che potevamo scendere in cortile, le gambe correvano da sole giù per le scale. Credo di non aver mai più provato una sensazione così precisa, leggera e piena. Manuel era sempre lì ad aspettarmi, in fondo alla rampa. Non doveva rendere conto a nessuno lui, i suoi non si preoccupavano certo per lo studio o l’orario. Non ho mai neppure saputo da dove venisse esattamente, un paese lì intorno. Era uno scapestrato, già dimenticato da tutti, esattamente l’amico di cui avevo bisogno: lui cercava un capo, io un gregario in possesso del coraggio che mancava a me. Sembrava comportarsi come se non avesse mai nulla da perdere. Lo mandavo a rubare per noi le pannocchie di mais nei campi, lui scappava ridendo inseguito dal contadino, il mitico Pelagatta, noncurante delle sue urla e del suo fucile caricato a salve. Perché potessimo gustarne subito il sapore, quello vero, le infilzava e le cucinava sul fuoco, dopo aver dato alle fiamme legna e cartacce, con l’aiuto di un accendino, da sempre ai primi posti tra i divieti dei miei, da infrangere appena possibile. Le raccoglieva per tutto il cantie37


re, tra piastrelle, mattoni avanzati e qualche spelacchiato albero. In quel fazzoletto di terra ritagliato tra i palazzi circostanti e, chissà perché, ancora lasciato in disuso, a nostra disposizione e dei giovani tossici locali senza futuro. Era lì che ci ritrovavamo tutti e quattro, dopo lo studio, per organizzare i nostri picnic a base di frittelle di riso, le battaglie d’acqua, le gite nei campi tra corse e tuffi nell’erba alta, per nascondersi dagli aeroplani lontani, dai loro rombi assordanti e assidui e dalle loro scie luminose, perse verso luoghi misteriosi, che non osavamo neppure immaginare. Viola era l’unica tra noi a essere sicura che avrebbe viaggiato tantissimo. Diceva sempre che lei da grande sarebbe stata libera, senza legami, anche fra trent'anni nessun vincolo se non l’amicizia con noi. Lo sapevo che aveva un debole per me e rintracciavo spesso nelle sue espressioni la sua forte gelosia nei confronti di Emma. Un giorno era arrivata con in mano un tema svolazzante, la sua insegnante lo aveva stranamente elogiato molto e lei, non abituata a simili onori, tutta fiera ce l'aveva letto d'un fiato. “Racconta come vorresti essere fra trent'anni.» Ricordo solo le infinite possibilità che si dava, l’assenza della benché minima certezza, a parte il desiderio intenso di non perderci di vista, di poterci almeno rivedere un giorno. «Ragazzi, promettetemelo, qualunque cosa dovesse succederci, esattamente fra trent'anni ci ritroveremo per raccontarcelo.» L’idea mi era subito piaciuta, ero certo che avrei realizzato tanto, tutto quello che potevo. E poi ci saremmo visti regolarmente, avrei sposato Emma e sarebbe stato naturale incontrarci con sua sorella e con l’amico comune di sempre, anche, perché no, il 23 febbraio del... del 2018. Mancava solo da definire il luogo esatto dell’incontro. L’indomani avevo cercato tra le cose di papà la cartina della Lombardia e l’avevo aperta a caso sul tavolo. Tutti intorno a me, come in un rito propiziatorio, avevano accompagnato con lo sguardo attento e assorto il mio dito e io, a occhi chiusi, avevo indicato un punto imprecisato sul


verde della carta. La cittadina più vicina era inequivocabilmente Monza, non male, Emma vi era stata di recente in gita per visitare la Villa Reale e ammirare la Corona Ferrea, che per secoli aveva incoronato i Re d’Italia. Non era stato difficile per lei recuperare la mappa della città che il professore di lettere aveva dato loro. Voleva che gli studenti organizzassero le uscite in autonomia, diceva che non si possono trattare i ragazzi delle Medie come bambini. A Emma era toccato di decretare, con lo stesso aiuto della sorte, la via, mentre a Manuel era restato il compito di lanciare i dadi del Monopoli e deliberare sul numero civico. Tutti subito d’accordo sull’orario: non ci era concesso d’uscire la sera, ecco perché ci saremmo incontrati alle 20 in punto. Ora mancano dieci minuti all’ora x. Come riempirli? Vado in bagno a sciacquarmi la faccia, ho deciso. Mi alzo lentamente, fingo d’ignorare quel gruppo di uomini anche se è un po’ che per inutile curiosità mi sto chiedendo cosa li porti qui tutti insieme. Proseguo varcando la porta interna del ristorante e girando a destra, verso il bagno. Appena entrato, dalla parete mi viene incontro correndo un golden retriever, color crema, con un bastone molto appuntito in bocca e un’espressione assai giocosa. Una fotografia tempestiva, direi. Era un pastore tedesco, allora. Si chiamava Stick. Viola ed Emma lo adoravano e lo portavano sempre con loro nelle nostre scampagnate. Quel giorno avevamo bigiato per la prima volta, era la nostra prova di coraggio, ed era stato Manuel, l’esperto di queste cose, a proporla. Di mattina presto, in quella giornata nebbiosa, il cantiere era deserto e la nostra mascotte correva velocissima, scodinzolava felice e riportava il bastone con gratitudine e tenacia, senza riuscire a badare ad altro. Nessuno di noi aveva notato quella giovane donna, assorta nei suoi pensieri e nei suoi passi lenti. Un imprevedibile scherzo del destino l’aveva fatta apparire dietro l’angolo del muro nel momento esatto in cui Manuel stava scagliando il legno. Si era conficcato tra la tempia e l’occhio e la signora era caduta a terra. L’avevamo subito circondata, ma lei era immobile, il sangue 39


non smetteva di colare sul viso e sul suo cappotto beige. Vedevo il panico negli occhi dei miei amici. Emma si mise a piangere. Soprattutto Manuel sembrava irriconoscibile, forse pensava alla scarica di botte che suo padre gli avrebbe riservato. Dovevo trovare la soluzione migliore per tutti. Senza pensare urlai loro di scappare velocemente, di entrare più tardi a scuola con una scusa e di far finta di nulla. Imposi all’esitazione appena accennata da parte degli altri parole nette: «Non vedete che oramai è morta? Credete forse che ci daranno una medaglia? Date retta a me. Dimentichiamoci di quanto è accaduto e promettetemi che fingeremo di non conoscerci per un bel po’». Non pensavo che mi avrebbero preso così in parola, che nessuno avrebbe più avuto il coraggio di cercarmi, forse per non dover riparlare di quell’episodio e che non li avrei rivisti più fino ad oggi o... addirittura mai. Avrei almeno speso più tempo nelle mie ultime parole a loro, ma è inutile, non è possibile avere una seconda opportunità, soprattutto tale e quale. Era già straordinario che quella donna, dopo che per anni la sua immagine mortificata aveva continuato a raccontarmi della sua vita interrotta, fosse entrata qualche mese fa nel mio studio. La cicatrice profonda e l’occhio di vetro non avevano potuto quanto il suo accenno a Reginate e al cantiere. Era accusata di omicidio per un’eredità e lei continuava a rassicurarmi sul fatto che mi avrebbe pagato bene: aveva saputo ben investire la cifra riscossa quella volta. Non si ricordava nemmeno cosa fosse accaduto esattamente, sapeva solo che l’avevano trovata svenuta con un bastone conficcato in testa e che c’era andata di mezzo la ditta costruttrice dei palazzi circostanti il cantiere. Come avevano potuto lasciare non recintato così a lungo un posto talmente pericoloso, pieno di tutto, siringhe, bastoni e soprattutto reti metalliche in cui era impossibile non inciampare? Il sindaco l’aveva resa una battaglia personale: era ora che si riqualificassero quei paesi dormitorio alla periferia di Milano e che si rimediasse a quel degrado e ai suoi costi! 40


L’impulso di dirigermi verso il mio tavolo è ora più forte che mai e, mentre ritorno meditabondo dal bagno, controllo l’ora. Sono le venti appena passate. Alzo lo sguardo e incrocio subito il suo. Mi sta aspettando a tavola. Lo stesso sorriso di allora, sprezzante secondo tutti meno che per me, lascia il posto in un solo attimo a un’espressione distaccata, che mi travolge. Vorrei abbracciarlo, come si fa tra amici. Invece mi siedo lentamente fissandolo nei suoi occhi scuri e intensi. Lui non perde tempo. «Fammi capire, perché delle due promesse hai tradito proprio quella più sensata?» Io, al contrario, prendo tempo. «Non è stato facile rintracciarti. Come stai?» «Sono stato fuori.» Rimane in silenzio, poi sorride ancora. «In realtà sono stato più dentro che fuori.» Non ha bisogno di dirmelo, sono un avvocato. Riconosco i lineamenti tesi, il viso sciupato, l’abbigliamento trascurato e l’intensità dell’espressione di chi si sente ingabbiato in uno spazio così pieno di gente normale, normalmente libera e normalmente ricca. Continua a spostare le posate che ha davanti a sé. Si guarda intorno senza sosta. Sembra spaventato o forse aspetta anche lui le nostre compagne di tavolo. E io che pensavo di aver tenuto me e tutti loro lontano dai guai. «Cosa ti è capitato?» gli chiedo, anche se, in fondo, fa poca differenza. «Niente di sanguinario. Ho semplicemente continuato a procurarmi da vivere come sapevo. La prima volta che mi hanno preso, mi hanno trovato in tasca quel tuo bel coltellino svizzero. Un giorno mi avevi chiesto di non separarmene e tu eri il solo in cui potessi credere.» Mentre Manuel mi sta parlando, la mia attenzione viene calamitata, e non posso farne a meno, dalla donna entrata tutta fradicia e di fretta nel ristorante. Non la riconosco subito. Ha i capelli lunghi e castani raccolti disordinatamente in una fascia, un ciuffo sfugge sul volto e sugli occhi umidi. Quando con la mano lo sposta di lato, subito mi perdo nello 41


smarrimento della sua espressione. È vestita di bianco: pantaloni molto larghi, un cappotto di feltro chiaro che la copre fino alle ginocchia e lascia intravedere una lunga blusa di seta tussah. E poi, inaspettato, un paio di scarpe da ginnastica, indossato senza intenzione e con noncuranza. Non pare affatto a suo agio in questo posto, quasi trema con quei vestiti inzuppati e tutt’altro che caldi. Si guarda intorno, poi ci vede e si avvicina. Ci sono persone che sembrano venire da lontano, da un loro altrove, tutto il resto le riguarda poco. Viola è fra queste e la cosa non passa inosservata neppure qui. È sufficienza quella che ostentano i sorrisini degli uomini al tavolo in mezzo alla sala, eppure vedo che, per un attimo, il loro noioso raduno del venerdì sera si è illuminato di ciò che non è ordinario, di una diversità che stride, ma al tempo stesso attira e trascina fuori da te. Riprendono subito a vociare, l’impercettibile richiamo è già travolto dal loro nulla programmato.

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L'Invisibile Arriva il risotto. E questo cos'è? Ah. Il padrone spiega che prima del risotto con gli ossibuchi ci sarà un assaggio di due specialità: il risotto al caramello e limoncello, cioè, non ha detto “limoncello”, ha detto… be', una roba del genere, e un altro risotto che non ho capito. Devo stare più attento, se si accorgono che sono distratto poi magari cominciano a tenermi d'occhio. Cercare di essere affabile, buttar lì qualche parolina innocua ogni tanto. Sui risotti, per esempio. Che idea, un tris di risotti. Meno male che questi sono solo degli assaggini. Questo dev'essere quello col limoncello, o quel che l'è. Non c'è male, se a uno gli piace l'agrodolce. Io detesto l'agrodolce. Non sono mica obbligato a mangiarlo tutto. È come un po'… un po' sabbioso, oltretutto. Ecco che arriva il mio bel risotto giallo. Oltre al nostro tavolo, ci sono una dozzina di persone in tutto. Meglio così. Tutti i tavoli sono occupati, ma non tutti sono al completo. Al tavolo nell'angolo, per esempio, quasi di fronte a me, siede una donna da sola con un vestito rosso, elegante, forse un filo troppo elegante per una cena feriale. Carina, ma un po' troppo magra. Comunque carina. Sembra ansiosa. Non è abituata a dissimulare, si vede. Forse aspetta qualcuno che non arriva, sarà per quello che è nervosa. Ecco, ha rovesciato il sale. Porta sfortuna rovesciare il sale, lo dice sempre la nonna. E come ha ragione. Non a me in ogni caso. Non l'ho mica rovesciato io, il sale. No, non aspetta qualcuno, aspetta qualcosa. Se aspettasse qualcuno guarderebbe verso la porta ogni due per tre. Invece si guarda in giro, come se studiasse i clienti. In una vita parallela, sarebbe bello piantare ‘sti fanatici e andare verso il suo tavolo: «Signora, permette?» Lei sorride, si rilassa (cosa di cui ha molto bisogno), dico qualcosa che la diverte, cominciamo a chiacchierare, poi usciamo insieme, scordando cena e risotto e tutto 43


quanto. Camminiamo nella nebbia, o sotto la pioggia, sotto un ombrello solo. Molto romantico. Peccato che non sia reale. Non stasera, e neanche un'altra sera, se vogliamo essere sinceri. Non col lavoro che faccio. Neanche quando smetterò. Se dovessi avere una donna, vorrei poter essere del tutto sincero con lei. Raccontarle cosa sono e come ho guadagnato tutti quei soldi. E allora lei non mi vorrebbe. E se mi volesse, io non potrei più volere una che mi vuole sapendo cosa sono. Non si può avere tutto, nella vita. Agita i piedi, sotto il tavolo. Ma come si fa a camminare con quelle scarpe. Altro che passeggiata romantica, con delle scarpe così. Rosse, come il vestito. E anche la pochette. Sarà anche carina, ma è vestita malissimo. Una che si mette tutto di un colore solo, e così appariscente, oltretutto, dev'essere un po' ossessiva. Mamma mia. E non è neanche così carina come mi sembrava al primo momento. Ora sta guardando il cameriere che ci porta i piatti. Ma cosa le avrà fatto, 'sto povero cameriere. Adesso che ci penso, prima guardava in modo strano il padrone, quando ci spiegava la faccenda del tris. Oddio. Non sarà mica una pazza. Magari si mette a fare una scenata. Potrebbe mandare tutto a ramengo. Calma. Se si mette a fare una scenata, devo profittare della confusione e andare in bagno subito. Anche se chiamano subito la polizia, ci vorranno più di tre minuti, prima che arrivino. Idem i carabinieri. Potrebbe anche farmi comodo, una bella confusione. «… e con questo schema, il risultato del torneo tende a premiare… » Ma di che cavolo sta parlando. E tutti ad ascoltarlo incantati. Dovrebbero godersi il risotto, piuttosto. Come faccio io, per esempio. Peccato non poterglielo dire, che si godano questo risotto, poveri illusi. Al tavolo dove c'era un uomo da solo, adesso sono in tre: un altro uomo e una donna. Senti senti: «Un ristorante, guarda che combinazione!» «E pensa che stasera era già tutto prenotato e invece, mi ha detto il padrone quando sono entrato, qualcuno aveva disdetto que44


sto tavolo proprio cinque minuti prima!» «Una bella fortuna!» Già, una bella fortuna. Bisogna vedere per chi. Ma chi è che strilla in questo modo. I tizi sulla destra, una delle donne. Sta bevendo troppo, probabilmente. Se una non regge l'alcol, non dovrebbe far figure. Mica farà una scenata anche lei. Ma si sono date appuntamento tutte qui, giusto stasera? Neanche questa è carina. E poi sono in quattro. Ma per me va bene in ogni modo, scenata o non scenata o magari due scenate. Al massimo mi toccherà anticipare un po'. Non ci sono bambini. Meglio, è sempre un filino più fastidioso quando ci sono dei bambini. A meno che una delle donne non sia incinta. Non sembrerebbe, ma non si sa mai. Certo che qui ci sanno fare, col risotto. A parte quell'affare con le caramelle di limone. Orrendo. Un filino meglio quell'altro che sapeva di cavolfiore. Omaggio alla moda; anche loro si devono adeguare, se vogliono reggere la concorrenza. Non lo sanno, che da domani la concorrenza non sarà più un problema. Adesso vanno di moda i sapori strani. Io, per me, sempre meglio un bel risotto giallo. Specie come lo fanno qui. E anche l'ossobuco, proprio come lo fa la nonna. Cioè, quello della nonna è ancora meglio, c'è poco da fare. Ma comunque questo è molto buono. La gremolata è come Dio comanda. Peccato. Dovrò trovare un altro posto dove facciano una cucina così. Questi continuano a scalmanarsi col torneo e mica il torneo. Almeno non devo fare conversazione. Guarda guarda: quello con la cravatta coi paperini, che sta parlando adesso, è proprio lui. Il mio obiettivo, come dice Corrado: il mio unico obiettivo. Uno così si merita la fucilazione solo per essersi messo una cravatta simile. Lo odio, perché è per lui che devo essere qui stasera. Ma cosa gli è venuto in mente di fregare il socio, che era anche suo amico, di quelli d'infanzia; di cercare di portargli via la sua parte di azienda. È proprio vero, dagli amici mi guardi Iddio. Che cosa credeva, che il socio non se n'accorgeva? Che stava lì con le mani in mano a farsi spolpare? E così, per colpa sua, mi tocca star qui a fare il mio lavoro. Quant'è cretina la gente. 45


Li odio tutti, quelli che sono qui stasera. Anche quelli degli altri tavoli. Ma non potevano starsene a casa? Non ce l'hanno una casa? Che cos'ha la gente, che non può star ferma un momento? Potrei andare qualche giorno a Praga. Non domani, magari, meglio fra un paio di giorni; a nessuno verrebbe in mente di mettere in relazione le cose, ma meglio andare sul sicuro. Starmene in giro per un po', non dover ascoltare la stessa notizia con relativi commenti strampalati tutti i santi giorni, prima e dopo i pasti. Fra una settimana la smetteranno, arriverà qualche altra notizia. Praga. Chissà se trovo ancora quella ragazza, come si chiamava? ma ormai sono passati quasi due anni. O lei o un'altra. Basta con le sciocchezze. Prima devo finire il mio lavoro. È quasi ora. Sul coltello non c'è niente (come avevano ragione: “Non metterti il coltello in bocca!”), con la forchetta sono stato attento, i bicchieri non li ho toccati, pazienza il vino, dev'essere un vino di pregio. Improbabile che si mettano a fare analisi di questo genere, ma anche se gli passasse per l'anticamera del cervello non troveranno nessun DNA di troppo. Questi col loro amatissimo bridge hanno l'aria di andare avanti per un pezzo, ma devo sbrigarmi prima del dessert, prima di dover cominciare il “tanto atteso discorso”. Nel momento in cui cominceranno a sparecchiare. Pazienza, anche il dessert. Non si può avere tutto, nella vita.

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Jahid Hasan Ameli, il venditore di rose È una pioggia sporca. Sottile e inutile. Va e viene. La odio la pioggia locale. È insipida come un chapati vecchio. Per me la pioggia è quella di Dacca, quella del monsone che giunge ogni anno puntuale alla fine di maggio e che porta una nuvolosità più compatta, quando i mille rami dell'enorme delta del Gange-Brahmaputra sono esposti alle alluvioni, alle onde anomale e alle maree. Nelle stagioni umide piove ininterrottamente. I vicoli e le strade di Karwan Bazar, dove sono cresciuto, diventano un fiume di traffico caotico, con lo stridore perenne dei clacson che lacerano l’aria. Mototaxi, rickshaw e biciclette assemblate con pezzi di riciclo si muovono nella fanghiglia. Dacca. È tanto tempo che non torno. Tutta la mia famiglia vive qui, ormai. In questo luogo ordinato. Abitato da gente indifferente. Entro in un bar. Mi fermo dalle coppie. «Buonasera, vuole una rosa?» Qualcuno la prende e mi lascia una moneta da un euro, i più mi ignorano. Non sono una novità, mi mimetizzo con le altre decine di quelli come me. Offerte e occhiate compassionevoli atte a far leva sull’angolino più sensibile e nascosto che ci dovrebbe essere nel cuore di questa gente che ride sguaiatamente, fa tintinnare i bicchieri, spesso non sortiscono nessun effetto. Ai loro occhi siamo tutti uguali e tutti fastidiosi. Stranieri, sporchi, con facce da pesce lesso. Inutile spiegargli che ho studiato. Che ho viaggiato molto più di loro. Che so montare e smontare un M4 in sei secondi, che so riconoscere un campionario quasi infinito di mine terrestri. Che per lavoro ho aiutato il prossimo in luoghi che loro, gli avventori che mi ignorano, non saprebbero nemmeno indicare sulla cartina geografica. Quelli che si mostrano disponibili a sganciare qualche moneta sono sempre meno, forse per colpa della crisi, forse a causa dell’insistenza o magari per la scarsa utilità di una rosa in una serata invernale di pioggia. Il mio amico Sozib, veterano della vendita al dettaglio a Milano, dice che in Italia le donne si concedono anche senza romantiche47


rie. Non è come da noi. Qui alle femmine non interessa ricevere in dono il fiore dell’amore, preferiscono gli venga offerta una birra o un bicchiere di vino. Non lo so. Non conosco donne italiane. Le guardo e basta. Contemplo le loro gambe e i tacchi alti. Di loro mi rimane qualche dettaglio impresso in testa. Dettagli che mescolo fino a formare una figura femminile abbastanza tangibile per potermi masturbare all'alba, quando tutti nell'appartamento dove vivo stanno dormendo. Esco dal bar, entro in un bistrot. Il gestore, un ometto piccolo dalla carnagione chiara, mi fa immediatamente cenno di allontanarmi. Forse dovrei fare come Sozib, rimanere a Milano, bazzicare la zona di Porta Ticinese, fare gli occhi supplichevoli alle coppiette che transitano all'aperto. Ma con questa stupida pioggia chi vuoi che se ne stia in giro... e poi Monza va bene, in fondo, siamo di meno. È il mio territorio. Vengo qua tutti i giorni in treno, lavoro dalle sette di sera alla chiusura dei locali. A volte riesco a prendere l'ultimo treno che rientra a Milano, a volte dormo in sala d'aspetto, in stazione, e vado direttamente al mercato di via Benedetto Marcello ad aiutare mio padre a vendere vestiti contraffatti, shari e bastoncini d'incenso. Dovrei probabilmente condurre un’esistenza più defilata. Trascorrere il mio tempo libero tra le mura domestiche sarebbe il miglior modo per non avere problemi, perché non sono in regola con i documenti di soggiorno, ma c'è bisogno di denaro e non posso permettermi di stare rintanato come un topo. Ancora un bar. È pieno di giovani. Mi piacerebbe parlare con loro, sapere cosa pensano, che musica ascoltano. Parlargli del mio Paese. Io non voglio dare fastidio a nessuno, cerco di non essere insistente. Provo, nel mio italiano sgraziato, a rendermi simpatico e farli ridere. Non funziona. Qualche moneta e di nuovo in strada. Taglio la piazza e mi dirigo verso la zona del parco. Un androne fa al caso mio. Mi fermo a contare i soldi: cinque euro. Il guadagno medio giornaliero è abbastanza buono, di solito riesco a fare tra i quindici e i venti euro. Ci sono però i giorni che va male, 48


come oggi, che piove e c’è poca gente in giro. Osservo distrattamente le rose che tengo in mano illuminate dal lampione sopra la mia testa. Sono poco appariscenti. Aride di cromatismi ammalianti. Le compro al mercato floricolo di Milano. Per evitare di dover mostrare i documenti all’entrata, eludo la sorveglianza passando da una via secondaria ricavata da un taglio nella rete di cinta. Una volta dentro, ai commercianti basta essere pagati per vendermi i fiori senza troppe storie. Venti rose pallide le pago cinque euro. Con la stessa cifra in Bangladesh riempirei la casa di mia moglie, se ne avessi una, di fiori di loto, orchidee, zenzero, vite di Giada, tacche Chantrieri, barringtonie. Cammino. Piove, non piove. Il clima è impalpabile e fiacco come le mie rose. Avrei dovuto tornarmene a Dacca dopo la missione in Mali, provare a crearmi un mio percorso indipendente, invece eccomi qui. A dividere un appartamento minuscolo con mio padre, mia madre, i miei tre fratelli e altri sette individui più o meno appartenenti alla mia famiglia. Quattro mura di sudiciume nel cuore periferico di Milano. Il Mali ha cambiato tutto, come se già in Bangladesh non avessimo avuto problemi con la follia jihadista. Jahid Hasan Ameli, soldato scelto dell'ONU, casco blu, puffo specializzato nel disinnescare ordigni esplosivi. Come se fosse servito a qualcosa... Sono stato per mesi nella regione di Mopti. Il caldo, il sole arido del Sahel. Civili terrorizzati. E poi l'esplosione in quella casa. Un ordigno rudimentale esploso al passaggio del mio convoglio. Nessuna ferita apparente, sono stato fortunato: tra i miei compagni ci sono stati sette morti. Nessuna ferita apparente ma la paura definitiva delle esplosioni. I nervi saltati. Il piscio nel letto, la notte, voci e stridii udibili solo nel mio cervello che mi hanno obbligato a mollare la missione. Che fare? Raggiungere mio padre e mia madre in Italia. Cancellare con una scrollata di spalle il mio passato specializzato. La mia carriera. L'ennesimo, fottuto venditore di rose. Ecco il ristorante. Posto chic. Clientela elegante. Uomini d'affari seduti a un tavolo. Coppie di mezz'età. Una donna sola. Ragazzi che 49


ridono. Bevono e ridono. Tocca a me. Faccia compassionevole, occhi sgranati. Pronto a ricevere la solita dose di pietà e indifferenza. «Buonasera, vuole una rosa?» Gesti di diniego. Sorrisini di superiorità. Sguardi che si spostano dal mio. «Sei arrivato troppo tardi» mi dice una giovane donna, visibilmente ubriaca. Che cosa vorrà dire? Tardi per cosa? Comunque la rosa non me la compra. Mi aggiro tra i tavoli fino a quando un cameriere, gentile con tutti ma non con me, mi intima di uscire. «Negro arabo di merda» mi sussurra all'orecchio mentre mi conduce all'ingresso, «te le faccio mangiare le tue rose puzzolenti». Appena si volta, con un sorriso falso e ipocrita rivolto alla platea pagante, mi sistemo vicino al muro. Il ristorante è pieno. Non ha tempo di farmi la guardia. Fuori è brutto tempo. Ho solo cinque euro in tasca. Sui tavoli compaiono piatti colmi di riso appiccicoso. Pappa. Attendo. Il mazzo di rose stretto in grembo.

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Federico Manuel rompe un silenzio imbarazzante. «Credevo non saresti venuta. Tua madre non sembrava convinta quando l’altro giorno mi ha detto al telefono che ti avrebbe riferito.» La voce di Viola è rotta ed esitante. «Non ho mai smesso di ripensare a Reginate e a tutti noi prima della sua morte.» Non riesco a trattenermi, anche se non è una rivendicazione che mi somiglia: «Allora perché non ci hai cercato mai?» «Non è voi che non ho più cercato, ma la me stessa di allora, anzi per tutto questo tempo non ho fatto che scappare da lei e dalla sua onnipotenza negativa.» Comincia a raccontare freddamente e noi la ascoltiamo alienati rispetto a tutto ciò che ci circonda. Parla con molta lentezza, come se ogni parola le costasse un’immensa fatica e forse è così. Durante i suoi frequenti e lunghi silenzi, sembra immergersi in remoti scenari interiori, preclusi a noi e a chiunque altro. Quante volte aveva odiato Emma. In ognuno di quei numerosissimi istanti in cui scopriva me, i suoi genitori e la maggioranza di quelli che conoscevano presi nella rete del suo fascino, senza che dovesse fare proprio nulla. Lei era la dolce, quella da proteggere, la buona, la bella, l’empatica, quella il cui sorriso illuminava il mondo. Non le servivano intelligenza, intraprendenza e coraggio, impegno. Prima della loro partenza in estate, verso la nuova casa, nella bergamasca, aveva persino sognato Emma nel cantiere con il bastone in fronte, piena di sangue e... morta. Non capisco perché insista sull’argomento, comincio ad agitarmi, ho uno strano presentimento. Sì, allora è così, Emma è davvero morta. In un incidente, mentre si trasferivano, insieme al suo amato Stick, con il suo mondo di bimba e il suo futuro imprigionato con lei. 51


Una strana fitta mi attraversa lo stomaco, nausea e il desiderio di vomitare tutti quei risotti. Le sue parole mi stanno avvelenando. Forse sto solo poco bene e la sua morte può tranquillamente restare in quel 1988. Resto passivo e in silenzio mentre Viola ci riversa addosso la sua costante paura di nuocere a chi ama, la sua fuga anche da suo marito e dai suoi figli, troppo biondi, troppo angeli per lei. Solo Lui, quello che tutti chiamavano il Santone, riusciva a farle dimenticare il buio e l’instabilità che aveva dentro. Lui diceva che era giusto così, che non poteva godere di una vita normale, dal momento che aveva visto in faccia il Diavolo. L’espiazione poteva e doveva venire solo dal misterioso cammino di raccoglimento e Luce, che sapeva indicarle. Era spesso incomprensibile, soprattutto per menti inconsapevoli e mediocri, ma aveva imparato a dimenticarsi di se stessa e un giorno si sarebbe ricongiunta con Emma, con la donna del cantiere e con tutti quelli che aveva danneggiato. A questo punto la interrompo, non posso continuare a sentirla parlare così. «Ascoltate, devo assolutamente dirvi una cosa importante. Abbiamo passato tutti questi anni pensando che...»

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Barbara alias Red Wonder Woman Quando ritorno nella sala, una sensazione di caldo e umanità mi travolge. I tavoli sono tutti occupati. Passo accanto al bellimbusto che ora siede con una coppia sulla quarantina. L'uomo ha l'aria trasandata, la donna invece è uno schianto. Il quarto coperto è ancora vuoto, mi accomoderei volentieri con loro se fosse una serata diversa. Al mio tavolo il calice è stato riempito. Il sorso che butto giù è fresco e mi ridà una nuova carica. La visuale della sala è perfetta. La combriccola è in pieno fermento, le bottiglie di vino passano da una mano all'altra, solo un commensale sembra annoiarsi. Non me ne stupisco, ha un'aria talmente insignificante da far concorrenza allo Scialbo. Il tavolo giovane, invece, è un fuoco d'artificio. La donna è palesemente sbronza e guarda in cagnesco una ragazza fashion che ci prova con il carino del gruppo. Anche la coppia di anziani ha il proprio bel daffare, un venditore di fiori li sta tampinando. Pur di levarselo di torno l'uomo cede e compra una rosa. Il Nazista fa il suo ingresso con quattro piatti fumanti. Stanno servendo i risotti e io ho mancato il momento dell'annuncio. Serro la mascella. Una grave défaillance per una donna dotata di superpoteri. Eccoli, i miei piccoli gioielli. Mi aggrappo al bordo del tavolo e stringo con forza, per evitare di cadere dalla sedia. Il Nazista serve ossequioso il tavolo più lontano. I clienti lo ringraziano e assaggiano le prime forchettate. Mi sporgo sul tavolo per spiare i loro volti. «Signora.» Una rosa smorta s'infila sotto il mio naso. «Signora. Prego.» Il venditore di fiori mi si è posizionato davanti e blocca la visuale. Mi inclino su un lato per scartarlo. Il braccio e la rosa seguono il mio movimento. «Bella signora. Ti prego, devo mangiare» insiste. Altri piatti sfilano in sala. 53


«Signora...» «Vattene o te ne pentirai» sibilo. Devo essere stata convincente, perché si allontana di gran fretta. È lo Scialbo a servirmi. «Spero non l'abbia infastidita» dice ammiccando verso il venditore quindi, senza attendere una mia risposta, continua. «Stasera proponiamo un tris di risotti. Il classico all'osso buco, uno nouvelle cuisine alle olive e cavolfiore e la nostra specialità, il risotto caramellato al profumo di citronella.» Faccio un cenno con il capo. Conosco molto bene la loro specialità. È divenuta un po' anche la mia. Soprattutto stasera. Percepisco il vapore alzarsi dal piatto, investirmi il collo e il mento, ma non ho il coraggio di abbassare lo sguardo sui miei diamanti. Lo Scialbo si allontana d'un paio di passi, quindi torna indietro. «L'altra persona... la raggiungerà?» domanda. Faccio un respiro profondo. «Sofia sta per arrivare» rispondo buttando fuori l'aria. Mi fissa con intensità e, prima di andarsene, mormora un «Buon appetito». Mi riassetto il vestito e sistemo i capelli. Sotto al tavolo la scarpa destra si sta trasformando in una camera di tortura. Ci siamo. Afferro la forchetta e la rigiro tra le dita. Di fronte a me il Nazista sta snocciolando alla combriccola i premi che il Peruviano si è aggiudicato. «Mi dispiace. Solo il nostro cuoco conosce la ricetta e mantiene il massimo riserbo» lo sento dire. La mia forchetta tintinna sul bordo del piatto. A fatica ne controllo il movimento. Se solo la gente seduta a questi tavoli sapesse che la ricetta - quella vera, quella perfetta - non è prerogativa dell'imbecille di là in cucina, ma è imprigionata in sinapsi addormentate da molti anni che solo un miracolo potrebbe risvegliare. Li fisso in viso a uno a uno mentre rovistano con le posate nei piatti. 54


Il nome Sofia non ha alcun significato per loro. Lo ha invece per me e per le infermiere della Clinica L'Isola della Pace, dove Sofia dorme un sonno profondo e freddo da tre anni. E ha un significato per lo Scialbo, il Nazista e il Peruviano, i complici e il responsabile della sua morte cerebrale. Sofia li conosceva bene, questi furfanti. Durante i primi tempi di lavoro come chef, i suoi fragili nervi avevano trovato conforto nella loro amicizia. Tra noi non era un periodo idilliaco e Sofia passava molto tempo tra queste mura. Trasformava la sua rabbia in sapori nuovi e creazioni culinarie. Fino a quando non è giunta all'elaborazione del risotto caramellato al profumo di citronella. Ha sempre avuto un talento naturale per l'uso delle erbe. Passo la forchetta nel piatto. I chicchi di riso sembrano appiccicarsi l'uno all'altro, il profumo penetrante della citronella è mitigato da un sentore più greve, a tratti nauseabondo. Mi chiedo se qualcuno riesca ad avvertirlo. I nervi reclamano della nicotina, la mano sinistra si infila nella pochette e sfiora il pacchetto di sigarette. Sono trascorsi esattamente tre anni. Non ho mai saputo come Sofia l'abbia scoperto. Se glielo abbia confessato il Peruviano o se sia stato un atto di viltà del Nazista o dello Scialbo. Era troppo sconvolta per fare un discorso razionale al cellulare, mentre lanciava l'auto a velocità folle. Mi disse soltanto che le avevano rubato la ricetta. La sua creazione, quella che voleva presentare alle selezioni per il Bocuse d'Or. Il risotto caramellato al profumo di citronella. I bastardi l'avevano sottoposta al giudizio di alcuni critici gastronomici e il Peruviano se n'era attribuito la paternità. Sofia fece in tempo a biascicare qualcosa circa l'ebbrezza della velocità, quindi la linea era caduta. Avevo evitato di richiamarla, in quel periodo non avevo molto tempo per lei. Quando mi avevano contattato dall'ospedale era troppo tardi. I medici avevano già dichiarato la morte cerebrale. Ho incrociato il Peruviano e il Nazista solo una volta nella corsia dell'ospedale. Li ho visti infilarsi in camera di Sofia con un mazzo di rose in mano. Ho atteso seduta nella reception su una poltroncina di plastica. Quando se ne sono andati ho gettato i 55


fiori nel cestino e ho spalancato le finestre. Nell'aria aleggiava il puzzo del tradimento. M'infilo la forchetta in bocca per trattenere un urlo di rabbia. I rebbi mi bucano il palato. Il risotto ha un sapore troppo marcato di citronella. Sofia non l'avrebbe mai tollerato, ma questa volta non è colpa del Peruviano. L'imbecille si è soltanto fidato di un fornitore troppo solerte dal nome altisonante. E dietro quel fornitore c'è, a loro insaputa, Red Wonder Woman. È stato davvero semplice. Sono bastate due moine su quanto il cuoco sia bravo e famoso e lo Scialbo ha accettato con la bava alla bocca la collaborazione d'una rinomata drogheria. Mi sono occupata in prima persona della sacra boccia. Ho preparato la miscela e ho scritto a mano l'etichetta con tutti gli ingredienti. Salvo uno. Il Boletus satanas. Inghiotto il boccone di riso. Non ho alcun timore. La sua polvere non è letale, nessuno morirà. Al tavolo giovane la ragazza sbronza si alza di colpo e attraversa la sala. Sei la prima, dolcezza. Butto giù un altro boccone di risotto. Ho sperimentato per mesi le dosi. Ho trascorso notti in preda alle allucinazioni, altre vomitando anche l'anima, altre ancora a contare le pecorelle nell'attesa di un segno dalle profondità delle viscere. Fino alla giusta dose, quella contenuta nella sacra boccia. Una donna si precipita in bagno. Starai molto male, bellezza, ma sopravvivrai. Un po' come indossare le mie scarpe. Due, tre, quattro forchettate. Non c'è possibilità di tornare indietro. Stanotte il pronto soccorso sarà sovraffollato. E i tre furfanti pagheranno. L'insignificante lascia la combriccola e si dirige verso il bagno. Ringraziami, tesoro, ti sto regalando la serata più movimentata della tua triste vita. Termino il risotto e allontano il piatto. Sulla porta della cucina è comparso il Peruviano. Osserva la sala. I nostri sguardi s'incrociano. Gli sorrido. Alle sue spalle c'è Sofia. La vendetta è un piatto che si 56


cuoce a fuoco lento e che va servito freddo. Sono Red Wonderwoman.

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Angelica Ore nove e trenta. Al tavolo si sta discutendo delle imminenti elezioni. Marco dice di avvertire un po' di mal di stomaco, come dei crampi sempre più intensi. Davide ribatte che anche a lui fa quest'effetto parlare di politica, ormai. Vittoria banalizza dandogli dell'ipocondriaco. Io sono stordita e disorientata, rinuncio a parlare, anche con me stessa, non ho nulla d'intelligente da dirmi. Le tempie mi pulsano, la bocca è asciutta. Devo trovare il momento giusto per chiedere un passaggio a Davide a fine serata. Quando saremo soli sarà tutto più semplice: penseranno i nostri occhi a risolvere la situazione. Sono assorta nei miei pensieri quando vedo una donna slanciata ed elegantissima, fasciata da un abitino metallizzato piuttosto aggressivo, venire verso di noi, accompagnata dal cameriere. «Ciao a tutti» esordisce spavalda. «Scusatemi tanto per l'ora, mi hanno trattenuta al lavoro. Stiamo finendo la collezione primaveraestate, mai stati tanto in ritardo, credetemi.» La sconosciuta bacia Davide sulla bocca, incurante dei nostri sguardi attoniti. «Sei bellissimo amore» gli sussurra all'orecchio, non abbastanza piano da non farsi sentire. «Tu sei bellissima» ricambia lui raggiante, cedendole il posto e chiedendo al cameriere di portare un'altra sedia. «Amici, eccola, la novità. Lei è Asia, la mia compagna.» La sconosciuta ride, di una risata che mi suona arrogante. I suoi denti, evidentemente sbiancati, fanno pendant con le perle che indossa come orecchini. «Amore ma sei matto?» Altra risata. «Scusate ragazzi, credevo sapeste del mio arrivo.» Si volta verso Davide. «Mi fai sembrare male58


ducata così! Giuro che ha insistito lui perché partecipassi alla cena. So che è una vostra vecchia tradizione.» Prende il viso di Davide tra le mani e lo bacia, costringendomi ad assistere a un breve intreccio di lingue. Davide le poggia una mano sulla gamba. «Le tradizioni cambiano, tesoro.» Non ci posso credere. La sconosciuta ci scannerizza velocemente. «Fatemi indovinare» batte veloce le mani. «Scommetto che tu sei Vittoria, fondatrice della casa cosmetica Beauty's green. Lasciami dire che i tuoi prodotti sono fan-ta-sti-ci!». Vittoria annuisce appena, porgendole la mano evidentemente lusingata, e la cosa mi indispone. Tutto al momento mi indispone, dal sapore aspro che ho in bocca, al nuovo sguardo beota di Davide, ai modi disinvolti dell'intrusa dalle ciglia chilometriche. «Beh, tu sei Marco... non ci sono alternative.» Ride. «Complimenti davvero per la vostra azienda, è una potenza nel mercato biologico.» «Davvero simpatica questa ragazza, Davide. Però diciamolo, io sono il braccio, la mente è Vittoria. Tu invece cosa fai nella vita?» Asia sposta una ciocca di capelli neri e lucidi, che ricade perfetta sulla fronte, coprendole appena un occhio. «Lavoro come stilista per una casa di alta moda. Ma è solo una delle cose che faccio... sono letteralmente innamorata dell'interior design e della fotografia in bianco e nero, credo lasci più spazio all'interpretazione soggettiva. Nei ritagli di tempo collaboro con professionisti di livello, e a breve conto di mettere in piedi qualcosa di mio... ma per ora è solo un progetto. E d'estate non toglietemi la barca a vela.» «Diciamo che non ti annoi.» Biascico, guardando fissa avanti a me. «E tu...» Si gira di colpo dalla mia parte e mi trafigge con i suoi occhi neri decisi e invadenti. «Tu sei Angelica. Dipingi, giusto?» 59


Mi accorgo di essermi lasciata sprofondare nella sedia, tanto che il vestito si è completamente spiegazzato, dalla vita in giù. Mi raddrizzo e faccio per raccogliermi i capelli con le mani. Sento il cuoio capelluto bollente e umido. «Veramente lavoro in un laboratorio di analisi. La pittura è solo un hobby.» Stento a riconoscere la mia voce, grave e impastata. Asia mi dà un buffetto sulla spalla e ride di gusto. La sua espressione mi appare sadica, più che divertita. «Smettila di fare la modesta dai, Davide mi ha detto che sei brava.» Un altro conato mi riempie la bocca di acido. Tutti mi fissano, in attesa d'una risposta, o almeno d'un segno qualunque. Deglutisco il miscuglio disgustoso che ho in bocca e respiro, finalmente. Devo avere il viso paonazzo. Come si permette di toccarmi, questa qui? Le restituisco il buffetto, solo un tantino più forte, abbastanza da farle perdere per un secondo quella postura altezzosa. «Scusami tesoro, la smetto subito. Chi sarò mai io per contraddirti?» La battuta mi esce così tagliente che Vittoria strabuzza gli occhi, cosa che non le ho mai visto fare in vita sua. Davide mi lancia un'occhiata incredula e carezza Asia, visibilmente alterata, sul collo. «Tesoro» cerca di ammansirla, «ti faccio portare qualcosa? Abbiamo mangiato dei risotti buonissimi.» Asia scuote il capo e risponde secca: «Suppongo non fossero vegani.» «In effetti credo di no... ma posso chiedere in cucina se hanno qualcosa di diverso.» «Lascia stare. Se non ti spiace preferirei mangiare a casa, sono stanchissima» dice lei con un filo di voce. Il sorriso radioso ha lasciato il posto a un'espressione stizzita. «Si... certo.» «Hai un nome bellissimo» tenta di rimediare Marco. «Tuo padre 60


era un fan sfegatato di Dario Argento?» La butta sul ridere. Lei sembra oltrepassarlo con lo sguardo. «Mio padre è mancato che ero piccola, non ricordo i suoi gusti cinematografici.» Gelo. Davide si gratta la testa e strizza gli occhi. I suoi storici gesti d'imbarazzo. «Ragazzi scusate... so che è molto presto ma noi andremmo. Asia è incinta. Era questa la seconda novità. A quest'ora di solito crolla sul divano.» Vittoria tossisce, stava bevendo e l'acqua le è andata di traverso. «Ma che grande notizia! Congratulazioni... a che mese sei?» Sento la bocca riempirsi di nuovo... questa volta non riesco a cacciare giù lo schifo, ce n'è altro in arrivo. Devo vomitare. Mi alzo veloce, diretta verso il bagno. Brancolo tra i tavoli, cercando appoggi dove trovo, compresa la testa pelata di uno degli incravattati. Le gambe faticano a sorreggermi. Incrocio lo sguardo di altri avventori, turbati dal mio zigzagare goffo. Entro nel bagno e mi catapulto sul water, appena in tempo perché una gettata rossastra di alcol, cibo e succhi gastrici fuoriesca violenta dalla mia bocca. Ho cercato di trattenere i capelli dietro le spalle perché non si sporcassero, ma una ciocca mi è sfuggita e ora è impregnata di quel liquido dall'odore insopportabile. Mi siedo a terra, con la schiena poggiata alla porta del bagno. Inizio a singhiozzare, prima silenziosa, poi più forte. Srotolo della carta igienica dal dispenser sulla parete e mi asciugo la mano destra, quella con cui mi sono pulita la bocca dopo la gettata. Poi con la stessa carta mi soffio il naso e tampono gli occhi. «Angelica?» È la voce di Vittoria, che mi giunge dall'altra parte della porta. «Come va? C'è puzza di fumo. Ti sei nascosta a fumare come a scuola?» Il tono è ironico, si sforza di alleggerire il momento, 61


suppongo. «No» rispondo col broncio da bambina. «Stavo vomitando.» «Ottima idea, avrai avuto più alcol che sangue in corpo. Vedrai che ora stai meglio. Mi apri?» Giro il chiavistello, lei entra e richiude la porta, sedendosi accanto a me. «Direi che nessuna di noi è germofobica» prova ancora a scherzare. Io la guardo distrutta, devo essere una maschera di trucco sciolto e muco. «Sono stata un disastro Vitto.» «Capita a tutti tesoro.» «A te no... hai un matrimonio fantastico, i capelli sempre perfetti e la tua azienda va alla grande.» Vittoria si mangia un'unghia e la sputa. «Andiamo in terapia, io e Marco.» La guardo, cercando di non lasciar trasparire lo stupore. «Pare che io sia troppo dominante, e che lui ne soffra molto, nonostante cerchi di nasconderlo. Da tre anni cerchiamo un figlio e niente… la terapeuta sostiene ci sia troppo squilibrio tra noi e che questo renda difficile il concepimento. A me sembrano tutte cazzate, ma Marco dice che da quando andiamo lì è più sereno, quindi per ora va bene così.» Appoggia la testa sulla mia spalla, e realizzo che è la prima volta da quando la conosco che mi permette di farle da sostegno. Ma so anche che per Vittoria il discorso è chiuso qui. «Quanto se la tira quella là? Io sarò stata stronza ma lei se l'è presa troppo» borbotto. «Non mi stupisce che sia finito con una così. Contento lui» commenta lapidaria. «Ti ho portato il cellulare, ti sono arrivati dei messaggi.» «Me li puoi leggere tu?» Chiedo tirando su col naso. «Ho le mani che puzzano di vomito.» Vittoria smanetta un po' col telefono, poi si gira verso di me, con 62


un'espressione entusiasta che trovo fuori luogo, vista la situazione squallida. «È una mail. Gentilissima signora Frigerio, ci scusiamo per il ritardo nel rispondere alla sua richiesta di ammissione alla nostra scuola. La commissione di valutazione si è riunita solo ieri per ritardi imprevisti. Siamo lieti di comunicarle che ha passato il processo di selezione. I lavori da lei inviati rivelano un buon potenziale. Se è ancora interessata a iscriversi ai corsi del prossimo anno compili il modulo che le invio nella prossima mail, alla quale troverà allegati anche il bollettino per la preiscrizione e il regolamento dell'istituto. Attendo cortesemente la modulistica e la ricevuta del pagamento entro il 10 marzo. Cordiali saluti. Francesca Blasi Responsabile segreteria Istituto IAMC» Io e Vittoria ci guardiamo. Sorridiamo. «Bene Angelica» mi cinge la spalla. «È arrivato il momento di splendere.»

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L'Invisibile Ossignore, eccolo di nuovo. Ma non l'avevano cacciato? E il cameriere dov'è? Mai che li trovi quando hai bisogno di loro. Ma guarda se deve tornare proprio adesso, lui e le sue stupide rose. Non so proprio a chi potrei offrire una rosa. L'unica donna sola è la pazza in rosso, figuriamoci. Il nostro tavolo è poco promettente, in quanto a probabili clienti. E se gli accennassi di avvicinarsi? Non ci sperava, è ovvio. Cinque euro dovrebbero estasiarlo. No, tieniti pure le tue rose. Va bene, amico, va bene, non è il caso di prosternarsi in questo modo. Adesso mi tocca aspettare che sia uscito, altrimenti i cinque euro saranno proprio sprecati. Mi piace, come sempre, questa sensazione di giocherellare col destino. È un po' come essere dio. Grazie al cielo ha quasi finito il giro, ora dà una rosa al tizio dietro di me e poi se dio vuole va verso la porta. Intanto vediamo, con ordine: il loden l'ho lasciato al guardaroba, l'etichetta non c'era neanche bisogno di scucirla, l'ho comprato a Milano, in Corso Buenos Aires, ce ne saranno in giro migliaia, di certo non è un capo da rimpiangere. Ha esaurito il suo compito. Nessuno lo reclamerà. Devo solo ricordarmi di buttare la contromarca al primo momento buono. Anzi no: meglio farla cadere sotto il tavolo. Ecco fatto. Improbabile che la trovino. Estremamente improbabile. Controllare le tasche. Tasca destra: prima cosa, il cellulare; documenti, ci sono; chiavi, ci sono. Tasca sinistra: portafogli, c'è; spiccioli, ci sono. Tasca interna: tirasassi(2) ripiegato (sarebbe strano se mi vedessero in giro con solo la giacca con questo tempo da lupi). A posto. Spingere un po' la valigetta verso il centro. Posso andare. La pazza numero due alza di nuovo la voce, eh già, perché nel frattempo è arrivata un'altra tizia. Troppe donne, guai in vista. E adesso cosa fa. Va in bagno, è ovvio. Speriamo che si sbrighi. Se ci arriva, (2) tirasassi: nel gergo milanese è l'impermeabile di poco prezzo

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ciucca marcia com'è. E infatti, ecco l'amica che le va dietro. Com'era quella vecchia regola, che le donne alla toilette ci vanno sempre in coppia? Rischiano di restarci una vita. Non posso più aspettare. Se quando entro io sono ancora nel loro bagno, non mi avranno visto, comunque vadano per loro le cose. Se escono e c'incrociamo, dopo saranno nella sala e amen. Gli altri sono tutti al loro posto. Eh no, giusto adesso si alzano in due, dal tavolo dell'ubriacona: la tizia appena arrivata e un uomo. Andranno mica anche loro in bagno. Sarebbe un disastro, stanno già cominciando a sparecchiare. Ma no, meno male, salutano l'unico uomo rimasto, baci e abbracci, e salutami tu Vittoria mi raccomando, e sì sì glielo dico io, e sì sì dobbiamo assolutamente vederci prima che, e sì sì ti chiamo io e se dio vuole vanno anche loro verso l'atrio. Meglio dargli il tempo di prendere i cappotti e uscire: mica per loro, ma metti che poi si ricordano che hanno visto uno che andava in bagno, e metti che siano di quelli convinti che sono dei bravi cittadini e che il dovere dei bravi cittadini e bla bla bla e invece di farsi i fatti loro si presentano per “rendere spontanea testimonianza”: difficile che arrivino comunque a me, ma chi non corre rischi inutili va sano e va lontano. Ecco il rumore della porta d'ingresso. Via libera. Appena in tempo, direi, stanno già per portar via il piatto del mio vicino. Dieci metri fino all'atrio. Non guardarti in giro. L'atrio. Non guardare verso il guardaroba. La porta esterna dei bagni. Dal bagno delle donne rumori confusi. Ecco cosa succede a bere troppo. La porta con l'assurdo disegnino del gentiluomo del Settecento col cappello piumato. Ma quando le pensano, certe cose. Bloccare la porta dall'interno. Adesso la porta di sicurezza. Metti che non si apra, cosa faccio, dovrei uscire attraverso l'atrio, meglio rinunciare, posso tornare indietro, devo recuperare la valigetta, dire che mi sento male… infatti si è aperta. Attento, tienila con la schiena, il cellulare, il codice, posso arrivare fino a tre, un piccolo margine in più, basterebbero due ma con tre sono più tranquillo. Fatto. Ora posso lasciar chiudere la porta. Ha quasi smesso di piovere. Nessuno nel cortiletto, benissimo, questa era l'unica cosa impre-


vedibile. Adesso devo solo prendere il tirasassi dalla tasca e metterlo prima di uscire. Trenta. Non guardare in alto, non guardare le finestre illuminate, non domandarti chi c'è in quelle stanze. Quaranta. L'androne, il pulsante è sulla destra, il portoncino. Nessuno neanche in strada. Meglio per loro. Fatto. Un minuto. Un isolato, duecento metri. Due minuti. Tieni sempre lo stesso passo, veloce ma regolare, come uno che sa dove sta andando. Mi sta venendo freddo. Ancora un isolato. Due minuti e cinquanta. Che strano, un freddo strano che viene dallo stomaco. Ecco il rumore del tuono dietro di me, lontano. Ma io lo so che non è un tuono. Finito. Ma che freddo. Non credo sia una cosa di nervi, non è mica la prima volta. Piuttosto qualcosa che ho mangiato. Magari quell'odioso assaggino di caramelle di riso. Ecco cosa succede quando si mangia controvoglia; meno male che ne ho per l'appunto assaggiato appena un paio di bocconi. Quasi quasi entro qui, non ci starebbe male un cicchetto. Qui fa un bel calduccio, almeno. Una grappa, ecco quel che ci vuole, giusto per scaldarmi lo stomaco. E magari anche per cacciar giù quell'accidente di risottino. Ecco la sirena dei pompieri, ma sono ancora molto lontani. Adesso si avvicina. Uno dei tizi che giocano a carte ha alzato un attimo la testa. Adesso le sirene sono più d'una, non si distingue più quante sono. Ambulanze, forse la polizia. Sono passati cinque minuti da quando ho sentito il tuono. I giocatori hanno smesso di giocare: … dev'essere successo qualcosa… ma dev'essere qui vicino… sembra una roba grossa… ma dove vai, ma dove andate… da qui non si vede niente… ma no, guarda là in fondo… ha preso fuoco qualcosa… Meglio che esca anch'io, sarebbe strano che mi vedano qui tranquillo al bancone mentre tutti si agitano. Anche il barista si allunga per guardar fuori. «Quant'è?» «Cinque euro.» Si sono aperte diverse finestre; qualcuno, dai portoncini aperti, è uscito sul marciapiede. Meglio allontanarsi ma lentamente, ogni pochi passi voltarsi a guardare, sono tutti agitati, nessuno fa caso a me. 66


«Signora, ma guardi dove va, ma stia un po' attenta…» Ma no, povera donna, non è il caso di protestare. Proprio non mi ha visto. Dev'essere uscita così com'era, in camicia da notte, una specie di vestaglia mezza slacciata, si è giusto messa le scarpe ma ha i piedi nudi. «Signora, aspetti, posso…» «Mi lasci, mi lasci le dico, c'è mio marito, mi lasci andare, c'è mio marito là…» Ma guarda poverina come corre. Ma poverina, guarda cosa le deve capitare.

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Jahid Hasan Ameli, il venditore di rose Il bagliore dei lampi dà alla superficie delle pozzanghere delle tinte livide, cadaveriche. La strada, fino a cinque minuti fa deserta, ora è intasata da una folla di mezzi di tutti i tipi: macchine, ambulanze, pattuglie della polizia, camion dei pompieri. Una fiumana di gente, pazza di terrore, con i visi pallidi e gli occhi stralunati, si è raccolta sul marciapiede di fronte. Del palazzo che ospitava il ristorante non è rimasto molto. Più che altro ruderi contemporanei. L'ordigno doveva essere particolarmente potente. No, non è stata una fuga di gas a produrre questo macello. Sono un esperto di queste cose. Una bomba. Un atto volontario di orrore. Perché? Perché qui, ai bordi dell'impero? Chi volevano colpire in quel ristorante? La donna che mangiava tutta sola e che mi ha allontanato scocciata? La comitiva degli uomini d'affari, quella dove sedeva quel tizio che per togliermi dai piedi mi ha dato cinque euro? Il cameriere razzista e maleducato? La giovane ubriaca con gli occhi arrossati che mi ha detto «Sei arrivato troppo tardi»? Mi spiace, le vorrei dire ora, ha sbagliato previsione, signorina. Non sono arrivato troppo tardi, me ne sono andato via appena in tempo. Dopo un secondo giro per i tavoli e aver guadagnato altra pietà, fastidio e qualche euro sono uscito. Volevo raggiungere la stazione per tornare a Milano. Quando la serata non va bene meglio non accanirsi sulla malasorte. Poi c'è stato il tuono. Un rombo che ha squarciato il cielo, fatto esplodere i vetri di qualche finestra, e che mi ha fatto pisciare addosso dallo spavento. Nella mia testa di nuovo Gao, il convoglio che passa e quell'esplosione che ha spezzato la vita dei miei compagni e ha inaugurato la mia nevrosi. Con i pantaloni zuppi sono tornato davanti al ristorante. 68


Il fumo nero che usciva dal palazzo dilaniato puzzava di carne bruciata. Sono rimasto immobile. L'edificio era venuto giĂš come un castello di carte. La voce flebile di una donna, da sotto le macerie, ripeteva la parola ÂŤAiutatemiÂť. I primi lampi nel cielo illuminavano mattoni sbrindellati, vestiti insanguinati. Una gamba. Poi sono scesi in strada gli abitanti del circondario. Uomini, donne, ragazzine con neonati in braccio. Ora vigili del fuoco e infermieri cercano un pertugio per soccorrere i sopravvissuti sepolti sotto la montagna di detriti. Grida spaventose rimbombano sopra la cacofonia della pioggia e dei tuoni. Adesso l'acquazzone ha assunto le sembianze di qualcosa di straniero. Straniero per gli abitanti di questo luogo. Qualcosa che proietta la mia mente a casa, a Dacca. Non ho nulla da fare qui. Appoggio il mazzo di rose sul marciapiede. Davanti alla lapide di macerie. Accelero il passo. Se mi sbrigo riesco a prendere l'ultimo treno della notte.

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