Un Giorno per caso

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Ok i n a S a g i

U n g i or n o, p e r c a so

Books and Travels



Okina Sagi Un giorno, per caso

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Okina Sagi è un'entità multipla che cambia da romanzo a romanzo. A Un giorno, per caso hanno partecipato: Elisabetta Sangiorgio Valeria Pranda Anna Nosari Lorenzo Mazzoni Marco Trucco Francesco Angelone Simone Gay Filippo Marrè Brunenghi



Un giorno, per caso È un giorno come gli altri all'aeroporto di Francoforte, uno dei più grandi del mondo. Decine di persone si incontrano, senza vedersi e senza parlarsi, procedendo verso un destino comune. C'è Salimata, una talentuosa musicista burkinabé che per problemi uditivi è costretta a sopravvivere facendo la donna delle pulizie; Oliver, un nero che crede assurdamente nel mito della razza ariana e in Adolf Hitler; Anne, vedova benestante, che trasporta un oggetto misterioso all'interno di una custodia per violino; Sim Choi, un anziano di origine coreana in procinto di imbarcarsi su un volo diretto a Seoul in cerca delle proprie origini; Allegra, una giovanissima italiana, amante delle canzoni di Amy Winehouse, che dopo un sogno ricorrente decide di andare alle Hawaii; Helmut, l'uomo che da dieci anni guarda gli aerei decollare e atterrare, incapace di uscire dalle proprie paranoie; Rodrigo James Franz Birkenstock, addetto alla sicurezza, dai molti nomi e dai mille vizi, inconsapevole fomentatore di disordine e panico; Emre, un misterioso immigrato, che insieme al cugino Hasan vuole mettere in pratica una missione destabilizzante. Giocando sulle paure e le ansie contemporanee, su tutte gli attacchi terroristici, Okina Sagi scrive un romanzo corale imprevedibile e divertente, analizzando a trecentosessanta gradi la vita di un giorno, per caso, in un grande aeroporto.



Non importa quanto sofisticate siano le nostre scelte, o quanto bravi siano a dominare le probabilità: il caso avrà comunque l’ultima parola. NICHOLAS NASSIM TALEB

Gli amanti dei viaggi trovano esilarante essere in bilico tra l’illusione di immortalità e la possibilità della morte. ALEXANDER CHASE



Salimata Konaté Mancano pochi minuti alle sei. Il sole sorge sopra Francoforte. La grigia, piatta Francoforte. Otto mesi che abito qui e non ho ancora imparato ad apprezzarla. Dalle casse del catorcio giapponese che sono riuscita a farmi prestare per il quotidiano tragitto casa-lavoro, una musica sincopata sembra raccontare la mia storia, mentre sovrappensiero raggiungo il parcheggio dei dipendenti dell'aeroporto. Che canzone è? Non riesco a riconoscerla, la sento in lontananza, attutita, un momento forte e decisa, il momento dopo quasi impercettibile. Che beffa, per me, una vita dedicata alla musica, questa maledetta… come si dice? Ah sì, ipoacusia improvvisa, così l’hanno chiamata con tono sicuro e sbrigativo i medici dell’ambulatorio popolare, come se fosse normale svegliarsi un mattino e non sentire più alcun suono. Ma io non mi arrendo, proprio no, e insisto a inserire ogni mattina un CD diverso nell’autoradio scassata mentre attraverso le vie di Höchst, il quartiere multietnico dove ho affittato una stanza insieme ad alcuni ragazzi arrivati, anche loro, dal Burkina Faso. Mentre attraverso l’atrio che si affaccia sulle piste di rullaggio, con la coda dell’occhio intravedo una presenza ormai familiare: un’ombra che si staglia contro le vetrate che si stanno pian piano accendendo delle luci della giornata. Lo sguardo fisso sulla pista, piccoli impercettibili tic, fa parte di questa zona dell’aeroporto come il tabellone degli arrivi e delle partenze. Ci ho scambiato ogni tanto qualche parola, a fatica, superando lo scoglio della reciproca timidezza, e ne ho ricavato l’impressione di una persona gentile, ma forse un po’ spaventata dalla vita, alla ricerca di un controllo impossibile da ottenere. Lo so bene, io, quanto nulla sia nelle nostre mani. Quanto tutto possa cambiare improvvisamente. Quanto la vita possa darti e toglierti, senza che tu possa farci niente. Altro che poter controllare ogni 11


cosa. Ma basta con questi pensieri. I pensieri non si mangiano, diceva mio padre, mentre la nonna mi sorrideva e mi diceva che sì, i pensieri non ti riempiono la pancia ma possono nutrirti il cuore e lo spirito. Che sciocchezze, yaaba! Divagazioni della mente che non servono a nulla e certo non serviranno a rendere più leggera l’ennesima giornata di gesti sempre uguali, di sguardi assenti e comportamenti insofferenti. E come se non bastasse, continuo a ritrovarmi tra i piedi quell’essere inutile di Oliver. Ne vogliamo parlare? Devo veramente aver fatto arrabbiare gli spiriti degli antenati, devo aver combinato qualcosa di tremendo in una vita passata, per meritarmi di stare in turno con un individuo simile. Un africano che si crede un ariano. Ma ti guardi allo specchio, fratello? Patetico. Ma il peggio è che non fa nulla: campione mondiale di pulizie simulate, ha paura di tutto, di infettarsi al minimo contatto. E allora, vai di mascherina, guanti, manie. Se non fosse per lo schifo che trovo quando il giro precedente è toccato a lui potrei anche fregarmene delle sue idiozie. Mentre raggiungo lo spogliatoio per i dipendenti, passo alle spalle dell’uomo che guarda gli aerei. Sembra di toccare con mano la sua concentrazione, la solidità del suo intento. Si capisce che da un gesto così apparentemente privo di significato - guardare gli aerei che prendono posizione in pista in attesa del via libera dalla torre di controllo - dipenda qualcosa di molto importante per lui. Noto solo oggi che dalle orecchie partono i fili bianchi degli auricolari. Chissà cosa ascolta. Vorrei avvicinarmi e chiederglielo: "Was hörst du gerade?", cosa stai ascoltando? Ma probabilmente mi risponderebbe balbettando qualche nome incomprensibile di un cantautore tedesco, forse quello che sorride dai manifesti che costeggiano l’autostrada, quello di una certa età con i capelli lunghi e scompigliati, dalle guance paffute e i baffoni sorridenti. O forse quella canzoncina allegra che sento dalle finestre dei vicini di casa mille volte al giorno, quella che parla di palloncini che volano via, liberi verso l’orizzonte. Per un istante mi 12


soffermo su questo pensiero. Forse è proprio quello che desidera l’uomo che guarda gli aerei. Volare via, libero, come uno dei novantanove palloncini della canzone. Devo smetterla di classificare le persone attraverso la musica che ascoltano. È un altro capitolo della mia vita, quello. Chiuso per sempre, credevo. Me lo sono ripetuto più volte al giorno, tutti i giorni, da quella data sfortunata incisa a fuoco sul calendario della mia anima. Quel giorno maledetto, a Berlino, di fronte alla platea numerosa e competente del World Wild Festival, la più importante manifestazione di musica dal mondo, davanti ai critici musicali che avrebbero potuto sancire l’inizio della mia carriera anche in Europa. E invece, proprio loro ci hanno scritto sopra la parola “Fine”, incisa con il veleno delle loro recensioni impietose. Come avrei potuto spiegarlo che improvvisamente ogni suono per me era scomparso? Non l’avrebbe capito nessuno. E neppure io, fino a un istante prima. Poi è entrato in scena quel tipo, quello bizzarro con gli occhiali da sole a specchio, che prima di conoscere - una presentazione vera propria, seguita da discorsi confusi sul ritmo che, beati noi nati in Africa, avremmo nel sangue - avevo soprannominato Top Gun, per la somiglianza con il protagonista del mio film preferito, sempre lo stesso, proiettato infinite volte al cinema all’aperto del Quartiere 21 di Bobo Dioulasso. Invece si chiama Rodrigo, un nome poco tedesco per quanto ne so. Ma, come mi ha raccontato, è nato nel luogo sbagliato. Per lui ci voleva il calore di una spiaggia brasiliana, per rendere giustizia al sangue latino che gli scorre nelle vene da parte di madre. Un bravo diavolo, alla fine, che alleggerisce un po’ la pesantezza delle giornate tutte uguali con le sue battute, che lancia a chiunque gli passi vicino. Basta solo che non cominci a cantare, come è capitato un paio di volte, battendo le mani completamente fuori tempo. Arrivo alla sfilata di armadietti riservati al personale di pulizia. Individuo il mio, lo apro e lascio lì la giacca e la borsa, il portafoglio con una sola, piccola banconota e un foglietto, segnato da una calligrafia che non è la mia. Indosso il grembiule azzurro che mi trasformerà, per le prossime ore, in uno degli ingranaggi dell’aeroporto, 13


necessari e invisibili. Che la giornata abbia inizio.

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Oliver Sack Il Führer mi fissa, come tutte le mattine, infondendomi coraggio. Le braccia conserte, lo sguardo severo, i picchi delle montagne alle sue spalle. – Heil Hitler! – grido, il braccio destro alzato ad angolo di quarantacinque gradi. Batto simultaneamente i tacchi delle scarpe da tennis, poi chiudo l'armadietto e mi avvicino allo specchio. Forse è questa anatomica luce al neon, però mi sembra che la mia pelle sia leggermente più chiara. Preferisco pensare che il trattamento che seguo da ormai sette mesi inizi a dare i suoi frutti. Tutte le sere mi passo fettine di succo di limone sulla faccia, il collo, le braccia e le mani. Poi imbevo del cotone con cipolla rossa frullata, pomodoro e aceto di mele. Sciacquo e faccio un peeling di latte tiepido e mi spalmo dello yogurt. Passo i seguenti venti minuti ascoltando i Macht und Ehre, il mio gruppo rock preferito. Auschwitz, Dachau, und Buchenwald: da Machen wir die Juden auf's Neue kalt! Poi tolgo lo yogurt e vado a letto. Dormo benissimo e quando mi sveglio spero, giorno dopo giorno, di essere meno negro. Negro, cazzo. Non al cento per cento. Caffellatte. Mio padre, che Dio lo abbia in gloria, è tedesco purosangue. La mela marcia era quell'ubriacona di mia mamma, una serva herero che lavorava nella fattoria di papà quando ancora viveva a Lüderitz, nell'Africa Tedesca del Sud-Ovest, quella che già ai tempi della mia nascita i buonisti chiamavano Namibia. Ho visto una foto di mia mamma, molti anni fa, l'ho trovata in un baule tra le cose di mio padre. È successo dopo l'attentato. Svuotavo cassetti compromettenti prima che la polizia tornasse a fare sopralluoghi in casa, e l'ho vista in una vecchia istantanea: una scimmia tra altre scimmie. Gli herero sono stati quasi tutti sterminati da quella mezza sega di Lothar von Trotha che ne ha lasciati in vita abbastanza perché i 15


posteri si ricordino di loro. Non dico che avrei preferito non nascere, ma che sarei stato pronto al sacrificio per l'edificazione della pura razza ariana. Sono un bastardo mezzosangue, ma credo nel Führer, nell'avvento di un nuovo Reich e nella supremazia della società teutonica sulle altre. Mi fanno schifo tutti questi immigrati che insozzano la terra di mio padre. Mi fanno vomitare le mie colleghe, quella vecchia pakistana con i piedi che puzzano, quelle due sceme sudamericane, quell'africana con l'aria da so tutto io. Vivono qui da sempre e parlano un tedesco da ritardate mentali. E le devo vedere ogni santo giorno. Fortuna che in reparto non ci sono altri uomini e posso fare dello spogliatoio quello che mi pare. Heil Hitler, figli di puttana! Esco in corridoio. Vado nello sgabuzzino e prendo il carrello. Scope, detersivi, stracci. Lavoro di merda. Mi metto subito la mascherina e i guanti. Il nostro mondo è diventato un ricettacolo di malattie per colpa di negri, arabi, slavi e di tutti quei pestilenziali sfigati che arrivano da paesi che finiscono in "stan". Bataclan, Vaffastan, Kebbabistan. Ci si prendono le allergie con lo sporco lasciato da questa gente. E sono dappertutto. Io non li lavo i cessi. È il mio lavoro? No, il mio lavoro è preservare le brave persone da questi mostri. Che li puliscano le mie negrissime e inferiori colleghe i cessi dove cagano i loro simili. Perché sono loro che cagano e pisciano fuori. Manco sanno cos'è una tazza del water. Io dovrei fare altro nella vita, me lo meriterei, ma non mi hanno voluto nell'esercito, non mi hanno voluto nella polizia. Solo perché ho fatto quello che avrebbe dovuto fare il governo: lanciare la molotov in quel centro di immigrazione. E così, grazie a Herr Frederick, l'amico di mio padre, proprietario della ditta di pulizie, sono qui. Aeroporto di Francoforte. Ad aspettare che qualche scimmia faccia una brutta azione. Rivendicare al mondo la supremazia della razza. Gridare ai miei concittadini che si devono svegliare.

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Rodrigo James Franz Birkenstock Carlithos Brown, Campari Vodka shake, sintetizzatori, biondina sorridente, grugniti, fruscii di Cabasa, Roger Waters, mèche rosa, chitarra elettrica, ronzio di Caxixi, e poi ancora un turbinio sconnesso, quasi sincopato, melmoso che mi scorre in testa partendo da Chico Buarque, e passando, non necessariamente in quell’ordine, per un paio di Campari Gin shake, maiali con le ali, una biondina con push-up, il maestro Erich Fromm, David Gilmour, grugniti, il culo della biondina scoppiettante nei pantaloni aderenti intanto che lo saluta per correre da un altro venditore di sogni. Non riesco a ricollegarmi completamente. Ci sono volte in cui sembra che tutte le cose stiano andando per il meglio, attimi in cui mi sento come se i miei pezzi fossero sistemati a dovere sulla scacchiera e, poi, per qualche motivo imponderabile, un pedone mangia il Re. – Andrea! Sono seduto già da dieci minuti al bar e addirittura Andrea, la mia barista preferita, sembra non mi stia nemmeno vedendo, presa com’è a servire cappuccini e croissants alla varietà di specie umane che mi turbinano attorno. – Dai Andrea, il caffè! – rimbrotto, scostando i Ray-Ban sulla punta del naso per lanciarle uno sguardo per dirle che esisto anche io questa mattina. – Come va oggi, mio vigilante preferito? – mi dice la ragazza abbozzando un sorriso di cui ho sinceramente bisogno; uno di quelli che se non stai per montare di turno alla barriera dei controlli passeggeri in entrata ti fa venire voglia di proporle di sposarti per una notte. Sorseggio il mio caffè, lungo, morbido, e un rigagnolo rovente mi scava gola e stomaco. – Ci sono giorni buoni e giorni cattivi. Diciamo che oggi sono nella parte buona con un piede mentre il resto lo sto ancora cercando 17


nella parte cattiva. – Wow, Franz, non oso pensare a che notte hai passato – mi dice lei fingendo di mettere a posto il bancone per stare nei miei paraggi, poi continua: – Ma spero che sia stata un buona nottata! – E se non va a servire due cinesi, poi una specie di Emo sfasato con i capelli verdi, degli spagnoli e altri non identificati avventori con scontrini sventolanti. Fin dal ringhio scostante della sveglia di stamattina ho in testa una traccia che mi porto da ieri sera e che non riesco a estirpare. Grugniti e chitarre, maiali con le ali e figure orwelliane che mi farfugliano fra le sinapsi intorpidite. Ieri sera ho essenzialmente perso i sensi sul divano con la terza traccia di Animals che muoveva i sub buffer e credo di essere stato posseduto dai maiali di Roger Waters, come una sorta di dannazione da Leviticus ebraico che mi inchioda a quel motivo in 4/4 dove tutto il testo si è ormai ridotto a un coro orgiastico di verri e scrofe. Mi guardo attorno e ho la sensazione di vivere in una sorta di documentario di Discovery accompagnato da quella sincopata colonna sonora dove i sintetizzatori spianati e Gilmour che distorce la Fender Stratocaster #0040, ritmano sorsi di cappuccino e morsi ai muffin di quegli animali da fattoria che sono i viaggiatori dell’aeroporto di Francoforte la mattina presto. In realtà non mi va affatto di parlare troppo ad Andrea di come mai io mi senta di merda; lei mi gratifica già così, naturale e spontanea, portandomi il caffè tutte le sante mattine in cui monto in servizio. È la mia dea del caffè americano, la mia spacciatrice di caffeina e sorrisi, la Venere che nasce da un muffin fumante. Improvvisamente mi vibra la coscia destra; una sorta di spasmo vagamente piacevole. Attendo qualche istante e poi prendo il cellulare e mi infilo l’auricolare. – Ciao James! Sì, capisco che possa essere complicato se non mi conoscete, ma dovete sapere che una delle piccole maledizioni con le quali ho imparato a convivere, anzi, una delle inutili disgrazie con la quale qualsiasi essere vivente che abbia più di un nome è costretto a relazionarsi, è che ogni persona che ti conosce decide selettivamente con quale nome 18


chiamarti, arrogandosi il diritto di sceglierlo nel cabaret di portata della mia anagrafe, senza degnarsi nemmeno di chiedermi il premesso. Il mio nome, quello vero, è Rodrigo James Franz Birkenstock e, forse per pigrizia o per limite intellettivo, ogni persona che conosco pare sappia e ricordi solo uno dei miei nomi e, come se non bastasse, alcuni mi hanno anche affibbiato dei soprannomi innegabilmente e fastidiosamente allusivi. Per esempio gli amici del gruppo di samba e capoeira nel quale suono a tempo perso, hanno deciso di chiamarmi Chinelo. Credo sia inutile spiegarvi il motivo o il significato di quella parola portoghese, affibbiatami per dare, a detta loro, un tocco di esotismo carioca al sottoscritto, in quanto front-man e addetto alle pubbliche relazioni della band. Inizialmente ritenni superfluo e sconveniente il nomignolo affibbiato, “ciabatta” in portoghese, in quanto più che un tono di esotismo mi pareva avessero affibbiato alla mia persona una gran presa per il culo che dura fin da quando ho iniziato a frequentare la scuola materna. Capirete bene che uno che porta il mio cognome viene perseguito dalla seconda irreparabile maledizione: la spinta compulsiva di ogni essere umano che incontro ad associarmi a una calzatura. Eviterò commenti sul fatto che i membri della band siano due turchi, un italiano e un pachistano, tutti nati a Bahnhofsviertel a quattro passi dalla Stazione, e che, quindi, abbiano poco da sfottere. Nonostante la musica esotica che suonano, anche con discreti risultati, non hanno nulla a che fare con il Brasile e le sue notti sognanti a Bahia o Ipanema. In tale deficit di facce latino-americane, l’unico con un’immagine credibile per proporre un gruppo carioca ai proprietari dei bar della città sono solo ed esclusivamente io, in quanto miscuglio cromosomico di brandelli di Polonia post invasione nazista e tortillas rivoluzionarie panamensi; un mezzo sangue latino grazie ad Altana Maria de la Flor, mia madre, emigrata ancora bimba da Panama City. – James, ci sei? Sembri Ronald McDonald vestito da Poliziotto seduto al bar! 19


Il tipo dall’altro capo del telefono è Karl, uno della Rampe che lavora nell’area internazionale e che conosco da quando eravamo poco più che embrioni. Oltre a scambiarci favori - fra amici ci si deve sempre dare una mano - lui è anche il più simpatico mattacchione scollegato che io conosca e, inaspettatamente, come ora, mi dice cose che mi fanno prorompere in risate improvvise. Per me lui è un aspersorio di ridicolo buon umore. Ogni qual volta mi vede al di là delle vetrate e non ha bagagli da smistare, scale da spostare o bandierine da maneggiare, mi telefona per ammazzare il tempo. Io non ho mai idea di dove lui sia. Io sono dentro, come ora, nell’area passeggeri. Lui può essere ovunque nella zona di parcheggio o accanto alle piste. Sta di fatto che lui è la mia voce amica durante il lavoro, la mia pubblicità; una piacevole tregua dalla routine. Ricacciandomi dentro a forza la risata, per evitare che gli avventori attorno a me, ignari delle stupidaggini che Karl mi sta raccontando, possano pensare che io sia addirittura più sciroccato di quanto già appaia naturalmente nonostante la divisa. Gli rispondo salutandolo e alzando un braccio per dimostrargli che non sono di plastica. – Che bella vocina, James! Riesci anche a muoverti? – mi dice ridendo a sua volta. – Deduco che ieri sera è andato tutto bene. Sono uscito appena dopo la fine dello spettacolo e ho visto di fronte a te due tettine strizzate con delle mèche rosa sulla testolina che ti guardavano come se tu fossi Alvaro Soler! – Ahahah, come il padre di Soler, più probabile. Comunque non è andata poi così bene. Mi sono fatto estorcere quattro giri di Campari shake con l’idea di portarmi a casa la merce che poi ha preso altre direzioni. – Termino il caffè e ne ordino un altro ad Andrea. L’auricolare trasmette un fruscio elettrico che termina con un clangore metallico, poi Karl riemerge da quel rumore: – Scusa, ho infilato la scala sotto il culo del Boeing. Quindi, naufragio? 20


– Sì, naufragio totale. Ero arrivato a un buon punto. Lei pareva che fosse a un palmo dalla zip dei miei pantaloni. La pozione rossa mista a Vodka ci aveva fatti entrare in una specie di luogo sacro sperso nel karma, ma poi lei è sgattaiolata fuori senza chiedere il permesso ed è andata in un altro regno, da un altro mago. – Sai, James, a volte penso che tu sia posseduto dall’anima di Tolkien. Mi fai paura! Una risata esplosiva mi tracima dalla dentatura serrata nel tentativo vano di trattenerla e, scomponendomi come un ubriaco che barcolla sulla seduta, urto accidentalmente l’avventore accanto a me che non avevo affatto notato fino a quel momento e lui strabuzza gli occhi guardandomi come se gli si fosse parato davanti il Creeper.

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Helmut Graf Sono nella mia solita pausa caffè delle 8:00. Lo zucchero va bene, ma solo di canna. Con la quantità di zucchero da versare poi non c'è proprio da scherzare. Questo non perché io sia diabetico o robe del genere (sono persino ipoglicemico se è per questo). No, piuttosto per mantenere costante il livello delle vibrazioni mentali. E poi c'è da tenere conto del fatto che in genere dopo si fuma. Ma qui si aprirebbe un dibattito che non è il caso di affrontare. Quindi mi fermo. Meglio. Il cucchiaino, dopo il mescolamento, va riposto esattamente verso nord, nord-est al massimo. Ci tengo. Porta bene perché attiri positività e il caffè risulta più buono ed efficace. Giro il contenuto della tazzina, come sempre, tre volte a sinistra e due e mezzo a destra, ma non lo bevo tutto, solo tre sorsi, il tutto dopo avere disinfettato accuratamente, con amuchina, tazzina, cucchiaino, bancone del bar nel raggio di almeno sessanta centimetri. Vedo qualcosa che non mi piace per niente. Accanto a me un cinese, o qualcosa del genere, che prende un caffè. Io mi avvicino con attenzione e provo a parlargli, spiegandogli che non va bene che anche lui prenda un caffè. Si tratta di energie cosmiche ed equilibrio armonico, di pure leggi dell'attrazione. Per le leggi dell'equilibrio, gli spiego, tra un caffè e un altro caffè c'è inevitabilmente bisogno di un cappuccino di alleggerimento. Di un tè, al massimo, che so, di una spremuta, non certo di un caffè. Quello proprio no. Provo a parlargli ma lui sembra non ascoltare. Vabbè. Le mie giornate in aeroporto sono fondamentalmente tutte uguali. Ore 6.00: arrivo nell'atrio, zainetto che contiene il pranzo al sacco, cappellino militare in testa, annessi e connessi. Ore 6.15: incontro con la donna delle pulizie e relativo saluto unidirezionale. Sembra sempre non sentirmi. Perché non risponde mai? Ore 7.00: primo volo Lisbona-Francoforte. Atterraggio, solitamente morbido, sgombero passeggeri, consequenziale sgombero pista. Ore 8.00: prima pausa caffè. 22


In genere me lo offre il barista, mentre parliamo delle leggi dell'attrazione cosmica. Ore 9.00: volo Francoforte-Londra. Relativo omino dei carrelli che va sempre da destra verso sinistra, con un movimento lineare e continuativo. Ore 10.00: pausa pipì (in questo caso con flessibilità di carattere puramente fisiologico). Ore 11.00: sigaretta in zona taxi. Ore 12.00: caffè e concentrazione sul volo incriminato, Francoforte-Cancún della Aereomexico. Il volo per il quale sono in analisi da molto tempo. Il prossimo mese sono dieci anni. Il momento di confronto diretto col volo suddetto è in sé parecchio stressante, tanto che dopo, e non solo per l'orario, c'è per me l'inevitabile pausa pranzo. Non me la toccate la pausa pranzo. Io seguo il menu del ristorante ma porto tutto pronto da casa, per motivi meramente economici. Altrimenti non ce la farei proprio a stare nel portafogli. In genere ho un angolino, che tutti in aeroporto sanno essere il mio. Devo sinceramente dire che su questo punto mi rispettano, facendomelo trovare sempre libero. Bel gesto. Finito il tutto segue un benedetto sonnellino, di mezz'ora circa. Alle 14.00 c'è il primo volo pomeridiano e io, per essere pronto, e sopratutto per essere sicuro di svegliarmi in tempo, porto da casa la sveglia. Quella vecchia. Avete presente? È quella tonda, classica, che quando batte fa casino e quando suona ancora di più. Fa tanto di quel casino che l'inserviente vicino bestemmia sempre perché dice che lo sveglio mentre sta lavorando. Come, ti sveglio mentre stai lavorando? Semmai... va bé, lasciamo perdere. Dalle 14.00 alle 18.00 voli semplici, di linea, compagnie semisconosciute ma che fanno curriculum per la mia analista. Altre pause caffè, bagno, sigaretta, oppure caffè, sigaretta, bagno. A ripetizione. La nevrosi. L'orario più bello è tra le 18.00 e le 20.00. Tutto diviene più soft. Tutto si ferma. Anche l'inserviente non bestemmia più. La gente comincia a prepararsi al rientro a casa, e anch'io faccio lo stesso. Solo che a casa mi aspetta un marocchino dalla lingua incomprensibile. Ma loro questo non lo sanno. Perché, se lo sapessero farebbero qualcosa? Alle 22.00 raccolgo le mie cose, direzione autobus e posso dire che anche oggi è andata. Ecco un altro pazzo incosciente che non capisce niente. Due caffè 23


di seguito: ma sei fuori di testa o cosa? Ma ti rendi lontanamente conto di quello che fai? No, no. Scusa ma sei proprio fuori di testa. Mi avvicino cautamente provando ad abbozzare un qualche sorriso di convenienza. Poi attacco come al solito: – Ma ti rendi conto di quello che fai a te e al tuo corpo? Due caffè di fila! Doppio sbalzo di pressione arteriosa! Cosa pensi di essere, Superman? Evidentemente non hai mai parlato seriamente di questo con un medico, o guardia medica, o di ruolo in studio: niente, mai. Lo sai cosa succede alla tua pressione, sì? Rasenti l'infarto se fai così. Lo sai, sì? Dai retta a me che è meglio. Un caffè, una sigaretta, un altro caffè. Dopo, semmai. Ecco, allora sì che va meglio. Due di fila li prendono gli operai che montano alle quattro del mattino. E tu, tutto mi sembri tranne che un operaio. E adesso non sono le quattro. Proprio per niente. Fatti salvare, dammi retta. Uno, ecco, uno. Semmai doppio, ma uno... – Non ho finito di parlare che questo mi scoppia a ridere in faccia. Ma cosa pensi, che sono cretino? Mi devi ridere in faccia? Allora ammazzati pure, io non me la prendo questa responsabilità. Muori pure, tu e i tuoi due caffè di merda. Ma con chi credi di parlare? Con un paranoico? Anzi con chi credi di non parlare, visto che non mi hai nemmeno risposto. Hai riso e basta. Ma come ti permetti? Sarai mica il salvatore dell'universo? Ammazzati, tu e i tuoi caffè di merda. Io mi allontano proprio. E non ti avvicinare alla mia zona. Ti caccerei via a pedate. A calci nel culo, proprio. Cos'è, non fumi tra un caffè e l'altro? Allora muori.

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Emre Kartal Più passano i minuti e più mi innervosisco. Ho lo stomaco bloccato da stamattina a colazione. So di aver preparato ogni minimo dettaglio, ma la testa non mi lascia in pace e continuo a pensare a tutti i possibili imprevisti e a come fare per aggirarli. Proprio nell’aeroporto di Francoforte dovevamo organizzare ’sta cosa? Probabilmente il più frequentato, nonché controllato, di tutta l’Europa. Intanto la gamba non smette di ballonzolare. Mi metto le cuffie e mi sparo a palla Revolution Radio dei Green Day, per cercare di distrarmi. Rilassati, andrà tutto liscio. Rilassati. Respira. Chissà dov’è Hasan adesso. Secondo me non è ancora arrivato. Quel cazzone maledetto di Hasan, praticamente un fratello maggiore, colui al quale devo buona parte di quello che sono oggi. Meglio se vado a fare un giro, che qua in mezzo a tutta ’sta gente mi sento osservato. Prima di alzarmi però aspetto una chiamata a caso dell’altoparlante, per non destare sospetti. Mi siedo nel tavolino più isolato in uno dei tanti bar dell’aeroporto e controllo per la centesima volta che nel mio zaino-trolley ci sia tutto quello che mi occorre. In tasca tengo solo le chiavi del motorino per essere sicuro che la fuga sia il più veloce possibile, senza intoppi. Ho parcheggiato vicino alle compagnie di spedizione, dall’altra parte dell’aeroporto: credo sia l’unico posto possibile dal quale tentare una fuga. Nella flebile speranza che non mi becchino prima che riesca ad arrivarci. Ho anche taroccato la targa per aggirare le mille telecamere che ci sono in zona. Con un pennarello nero lavabile ho cambiato una “P” facendola diventare “R” e un “3” trasformandolo in “8”. Poi, per andare sul sicuro, ho dipinto tutta la targa con del flatting lucido: dovrebbe funzionare da catarifrangente per gli autovelox e rilevatori vari. – Non facciamo servizio al tavolo. – La voce della cameriera mi co25


glie di sorpresa. – Ah, scusi. Prendo una Coca. – Non. Facciamo. Servizio. Al tavolo – ripete lei, scandendo le parole come si fa coi bambini piccoli. Poi mi fa un sorriso di circostanza, per far intendere che non voleva essere sgarbata. – Ero. Un po’. Sovra. Pensiero – le rispondo facendo una faccia stupida, per mostrarle che non mi sono offeso. Poi le faccio un sorriso, che lei mi ricambia, stavolta con più sincerità. Fosse stato un giorno normale me la sarei tampinata per benino. Oggi non è quel giorno. Mi alzo, vado a prendermi una Coca al bancone, evitando lo sguardo della cameriera. Tra due minuti non si ricorderà minimamente la mia faccia. Torno a sedermi, intanto apro WhatsApp e cancello tutti i messaggi che ci siamo scambiati io e Hasan, ché non si sa mai. Un’occhiata veloce ai tabelloni degli arrivi e delle partenze: per adesso tutto ok. Sbirro a ore nove. Merda. Se c’è una cosa che mi irrita sono gli uomini in divisa: mi scatenano l’istinto di scappare. Tutti, indistintamente. Ma questo tizio mi sa che è uno degli addetti ai controlli. Mi passa di fianco e prosegue verso il bancone e noto che ha la classica faccia da stronzo che si crede un buono. Non devo dare nell’occhio. Devo semplicemente fare come tutti quelli che aspettano un aereo. Mi guardo intorno per vedere cosa fanno gli altri: hanno tutti la faccia incollata allo smartphone. Prendo il cellulare e mi metto a giocare a Hammer Bomb. Ogni tanto do un’occhiata allo sceriffo con la coda dell’occhio. Effettivamente sembra un tipo un po’ schizzato, meglio stare alla larga. Adesso si mette a fare il piacione con la cameriera, ’sto sfigato. Una come quella a te manco ti guarda. Giustamente direi.

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Anne Schmidt Una folla notevole è in coda per effettuare il check-in e imbarcare i bagagli per il volo della Lufthansa in partenza da Francoforte e diretto verso Seoul; la gente è divisa tra due file, quella regolare, affollatissima e dall’aspetto caotico, e il fast-track, riservato ai titolari della carta Miles & More, composto da un esiguo numero di persone, per lo più uomini e donne di mezza età presumibilmente in viaggio di lavoro o coppie in procinto di partire per una vacanza. Molti passeggeri in coda sbuffano e guardano con invidia sulla destra verso il fast-track. Certo che Hans mi ha lasciato davvero in una situazione indegna, non avrei mai immaginato che un giorno sarei stata costretta ad aspettare in coda a un check-in insieme a tutti questi poveracci che non hanno nulla da spartire con me, non sono più abituata e mi innervosisco; e tutto questo per prendere un maledetto volo di seconda classe fino all’altra parte del mondo per ripulire i casini che lui ha combinato ma che non ha avuto abbastanza fegato per risolvere. Ottima soluzione quella di appendersi al soffitto con una corda per evitare di affrontare i problemi, ottima davvero. E pensare che un tempo Hans era così affascinante, non è mai stato bello in senso classico, ma sembrava diverso dagli altri, aveva qualcosa di magico; invece si è rivelato anche lui noioso, inutile e pure vigliacco, come la maggioranza di questa gente che mi circonda. Inoltre ha dimostrato che non gliene è mai importato nulla di me e appena qualcosa non è andato secondo i suoi piani del cazzo ha pensato bene di lavarsene le mani, ha deciso che la sua vita era destinata a fare schifo e che era un buon momento per chiudere la storia. Pazienza, ormai non ci posso fare niente, magari mi divertirò anche un po’, in fondo è da parecchio tempo che non provo stimoli a fare qualcosa di nuovo e chissà che non scopra di avere un talento nascosto, potrebbe essere una carriera interessante. 27


Certo che se questo tizio davanti a me fosse un po’ più sveglio sarebbe un buon inizio, magari eviterei di restare qui tutta la giornata. Non sarò abituata a portarmi in giro dei pesi ed effettivamente non sono proprio a mio agio ma da come mi guardano questi sembra che stia portando in spalla un cadavere; in fondo è solo la custodia di un violino, e oltretutto non possono sapere dove la sto portando né che cosa ci sia dentro, non riesco a capire cosa hanno da fissare. Probabilmente sarà il nervoso che mi sta facendo immaginare tutto questo e in realtà non mi sta guardando nessuno, oppure mi stanno guardando ma solo perché sono dei falliti che non hanno mai visto una bella donna in vita loro. D’altra parte mi tocca farlo questo viaggio, perché se il coreano non mi sta fregando e riesco a farmi pagare quanto mi spetta, mi posso togliere dai piedi i creditori di mio marito una volta per tutte e uscirne pure con qualcosa per me; magari la prossima volta che vengo in aeroporto sarà con un biglietto di prima classe sola andata per le Bahamas e arrivederci. L’addetto al check-in è libero ma un asiatico di una certa età non se ne è accorto e continua a guardare con aria persa i cartelloni pubblicitari bloccando momentaneamente la fila. – Mi scusi signore, ma si è addormentato? Guardi che è il suo turno, sta tenendo bloccata la coda. – Mi perdoni signora, mi sono distratto un attimo, adesso vado. – Eh, magari… non abbiamo tutta la giornata. Forse ce l’abbiamo fatta, sempre che non si addormenti anche il tipo del check-in, anche se per lo meno mi sembra più sveglio della media dei suoi colleghi. È un uomo sulla trentina, piuttosto bello e sorride con naturalezza. – Buongiorno signora. – Buongiorno. – Mi dà passaporto e biglietto, gentilmente? – Sì, tenga. – Deve imbarcare solo questa valigia? Immagino che il violino lo tenga come bagaglio a mano. 28


– Sì, esatto, solamente questa. – La appoggi pure lì che la pesiamo… bene, buon viaggio e arrivederci. – Buona giornata. Stavolta avevo inquadrato bene il tipo, questo ragazzo non è un rimbambito, fortunatamente, a volte ci sono quelli che per pesarti una valigia e controllarti i documenti ci mettono dieci minuti e poi ti fanno delle espressioni di sofferenza che neanche ti stessero facendo un favore. È anche gentile e carino, magari se mi andasse bene potrei trovarlo qui anche al ritorno. Mi spiace solo che sia così giovane, non dovrebbe fare un lavoro come questo, dev’essere di una noia mortale. Alla sua età probabilmente avevo già conosciuto Hans e me ne ero andata via da casa dei miei a Berlino. Il primo anno con lui è stato memorabile, ogni giorno ne aveva una nuova da raccontare, mi sembrava di aver incontrato un incrocio tra un principe e un pirata. Ovviamente mi sbagliavo, ma per un po’ ci ho creduto davvero. In fondo anche gli anni successivi non sono stati male ma a pensarci bene il risultato non è stato dei migliori; mi hanno trasformata in una brutta copia di mia madre, una a cui non interessa più o meno niente di ciò che le sta intorno, con l’aggravante che una quindicina di anni fa credevo che m’importasse qualcosa degli altri, mentre mia madre non ci è mai cascata. Se mi avessero chiesto all’epoca dove mi vedevo di lì a una decina d’anni avrei risposto all’ONU a fare l’interprete. Ridicola. Pensandoci, ad Hans da un certo punto di vista è andata peggio: ne è uscito cadavere. Nonostante abbia aspettato un’eternità in coda sono ancora troppo in anticipo, è inutile che vada direttamente al controllo bagagli per poi stare due ore seduta su una panchina ad aspettare che apra il gate.

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Rodrigo James Franz Birkenstock Due caffè, quattro chiacchiere e una gita in bagno; poi mi sono sistemato alle spalle di Kirsten che controlla il monitor dei raggi X con la solita espressione interessata. Lei esamina minuziosamente ogni gradazione di colore, ogni trasparenza dei bagagli a mano, cercando di evitare che pericolose bottiglie d’acqua o deleterie limette per unghie possano entrare nell’area internazionale. Quando venni ricollocato dalla BKA ai servizi aeroportuali pensavo che fosse autistica. – Ma come fai a stare sei ore davanti al video a controllare migliaia di trolley e laptop senza andare fuori di testa? – le chiedevo, ma poi mi resi conto dell’errore: Kirsten è probabilmente la più grande ficcanaso e pettegola che esista in Darmstadt, o addirittura in Assia. È una di quelle che se solo stai pensando di fidanzarti con lei ha già in mano il tuo cellulare per vedere con chi chatti e se vai sui siti porno. Fortunatamente Kirsten è innocua durante i turni al monitoraggio. Lei osserva, verifica, giudica, sogghigna a ogni oggetto bizzarro che vede, passa e ripassa quando l’opacità o la forma non le sono chiare e soddisfa la propria smisurata voglia di introdursi nelle vite altrui. In fondo è anche simpatica. Una volta sembrava essersi incantata a far andare avanti e indietro un borsone Vuitton di una fighetta tipo fashion blogger che nervosetta si stirava le extention oramai da dieci minuti attendendo il proprio bagaglio agghindata come Paris Hilton in fondo ai rulli. Kirsten la guarda, Paris fa una faccia fra lo sconcertato e lo spazientito, la collega le fa cenno di stare zitta e calma e mi chiama. Mi avvicinai e guardai il monitor incuriosito, dicendo fra me e me che da una tipa del genere “Paris” ci si può aspettare di tutto, addirittura che avesse potuto nascondere, fra le magliettine Prada, il cadavere del proprio chihuahua per il solo fatto che non riuscisse ad accettarne la recente improvvisa dipartita. 30


Mutande, calze, creme, pochette, intimo indistinto, trousse, pennelli, trucchi e…null’altro. Kirsten indicò il monitor, disegnando un contorno con la penna ottica, e mi disse: – Guarda, vedi quanto ti somiglia? Con l’aiuto del suo disegno, una faccia formata da capelli di reggicalze, barba di mutandine di pizzo e naso e occhi di barattolini di creme, emerse da quell’insieme informe. – Sei proprio tu, Franz. – Lei mi chiama Franz, dice che è più credibile nel mio ruolo istituzionale. – Sembra il volto di Che Guevara stampato su una maglietta di pizzo. Gli assomigli molto sai? Questa è Kirsten: un genio dello spionaggio della biancheria, capace di tenerti alle barriere di controllo per un tempo interminabile se hai sistemato le cose in modo disordinato o se hai un vibratore di una forma che la incuriosisce. Sì, Kirsten nel suo lavoro è un genio e credo che a modo suo mi voglia bene e mi consideri un buon compagno di turno. Rigirandomi nella testa i grugniti fra le note di Roger Waters e David Gilmour, mi sollazzo osservando da dietro i miei Ray-Ban a specchio i passeggeri al controllo. Quasi tutti goffi. Mi sono sempre chiesto come mai quando si raggiungono le porte del metal detector ci si inebetisca. Prima di raggiungere il nastro ci sarà scritto almeno dieci volte di togliersi le cinture, i cellulari, estrarre il laptop. Lo si può leggere in tutte le lingue del mondo, un passeggero afgano mi giurò che una delle lingue scritte sui cartelli era uzbeco antico. Trasportava cannabis, quindi avrebbe detto di tutto per accondiscendere e farsi liberare. Be', sta di fatto che la maggior parte dei passeggeri sembra che non sappia leggere e neppure interpretare le figure. Arrivano e cercano di passare con cinture alla vita, accendini e litri d’acqua, come se nulla fosse, per poi rimanere sorpresi della fiscalità dei controlli. Mi piace guardarli. Quando passa qualcuno curioso o ridicolo allungo il collo e guardo il monitor di Kirsten per capire che cosa trasporta. Un hippoppettaro rosso incappucciato, tipo “Subway Surfer”, uno 31


di quelli del genere graffitaro anarchico che non ci puoi proprio credere che il suo bagaglio passi senza allarmare o incuriosire Kirsten, passa per la barriera, seguito da una specie di Goblin alto, vestito tipo Eminem che sembra un giocatore di basket di Space Jam. Dopo qualche colletto bianco con Rolex e I-Phone vedo entrare uno dei soggetti più bizzarri che abbia mai incontrato: un tipo sulla mezza età che ha il permesso IATA per entrare in aeroporto per motivi ignoti. Protetti dalla privacy ci hanno detto. Io e Karl lo chiamiamo l’”uomo che guarda gli aerei”: entra, si siede, osserva, va in bagno, mangia, osserva, va in bagno, mangia, osserva, si alza e se ne va. Fa solo quello e per la privacy non possiamo sapere nulla di più sul suo conto. Vedendolo mi rendo conto che è lui il tipo che ho urtato durante la colazione. Vorrei scusarmi se l’ho fatto prendere male, ma mi pare che sia imperturbabile e decido di lascia cadere la cosa. Lui mi lancia uno sguardo ma nulla di più. Fa così tutte le mattine: arriva vestito con strani pantaloni scozzesi o a scacchi, magliette colorate e un cappellino mimetico che lo fa tanto assomigliare al Subcomandante Marcos in vacanza. Passa con estrema tranquillità il controllo, portando con se nel bagaglio delle cassette stile anni ’80, una banana, dei fazzolettini, un libro e una spilletta a forma di aquila, tipo cimelio dell’aviazione. Kirsten un giorno mi ha detto che le pare di avere intuito che il libro è un vecchio elenco degli orari delle partenze dell’aeroporto, uno di quelli che non si stampano più da dieci anni. Non so francamente se crederle, da anni si usa Internet per avere quelle informazioni, ma se lo dice lei qualche cosa di vero ci deve essere. Sta di fatto che io qualche informazione su quel tipo l’ho avuta: una sera mi portai a spasso per Francoforte un ex pilota della Condor, una compagnia sfigata delle Bahamas. Il tipo mi aveva fatto il piacere di portarmi una cassa di Ricardo, il mio rum preferito che in Germania non si trova proprio, e io avevo ricambiato con della buona musica nei miei soliti pub e qualche giro di Campari. A un certo punto, non so da dove sia venuto fuori, lui mi dice che ha visto in aeroporto un ti32


po che sul subito gli ricordava qualche cosa che non riusciva a mettere a fuoco ma che adesso, al terzo Campari, gli è tornato in mente come se lo avesse salutato l’ultima volta cinque minuti fa. Me lo descrive e immediatamente si materializza nella mia mente “l’uomo che osserva gli aerei” con il suo wurstel e le cuffiette. Il tipo della Condor mi dice che lo conosceva. Io gli offro un altro Campari e la lingua gli si scioglie come un gelato in agosto. Mi dice che si chiama Graf, come la tennista, e che gli hanno raccontato che era un pilota della Aeromexico, altra compagnia di merda, ma lasciamo perdere il perché. Mi racconta che gli esplose un motore in volo e che riuscì ad atterrare in mare accanto a Eleuthera nelle Bahamas. – Tu immagina, James, – mi dice puntandomi un dito in mezzo alla fronte, – sei in spiaggia a cazzeggiare con una fighetta mulatta locale che ti prepara daiquiri e piatti di frutta fresca e ti vedi ad un tratto un fottuto Boing 767 che ti passa davanti alla sdraio come un surfista che cavalca un enorme pisello di acciaio da 250.000 libre che schizza acqua da tutte le parti!. Io sgranai gli occhi, buttando giù un’altra golata di nettare rosso, e il tipo della Condor continuò: – Devi sapere che Mister Graf, fottuto pezzo di merda benedetto da Dio, ha planato in acqua per decine di miglia e si è fermato sulla barriera corallina, a cinque minuti a nuoto dalla spiaggia. Li ha salvati tutti, tipo botta di culo oltre le possibilità umane conosciute! Per giunta nel Triangolo delle Bermuda. – Sfiatò vapori tossici. –Ma dicono che non abbia più voluto volare. Dicono anche che ha preso un pacco di soldi e che può cazzeggiare per generazioni prima di mangiarseli tutti. Mito o realtà che sia, io al tipo della Condor ci credo.

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Allegra Sarti È impossibile riuscire a riposare un po', che cavolo! Finalmente ti addormenti, impresa non facile data la scomodità delle poltroncine della sala d'aspetto, e arriva questo imbranato a rompere le palle. Poteva pure evitare di fare tutto 'sto casino per sedersi. Stavo facendo ancora quello stramaledetto sogno che, come sempre, si è interrotto a metà. L'imbranato mi guarda come se mi conoscesse o volesse chiedermi qualcosa. Per carità, è pure carino, ma forse non ha capito che non è proprio aria. Mi chiede qualcosa in tedesco, credo. Qualcosa che non comprendo. Fortunatamente sembra aver capito che non ho nessuna voglia di attaccare bottone e infatti si è infilato le cuffie nelle orecchie... tutto sommato è un tipo sveglio. Chissà, penso, magari in un'altra vita. A questo punto di provare a riaddormentarsi non se ne parla nemmeno, anche se temo sia ancora presto. C'è sicuramente tempo prima della partenza, tanto vale che cerchi un bagno per rinfrescarmi un po'. È da ieri sera che sono rinchiusa in questo aeroporto ma, d'altra parte, il volo che ho trovato per raggiungere Francoforte era decisamente il più economico e adesso mi tocca aspettare fino a mezzogiorno la coincidenza per Los Angeles. Con i soldi che mi ha prestato la nonna e con quelli che sono riuscita a racimolare per conto mio questa era la sola cosa che potessi permettermi. Arrivare a Honolulu, oltre che lungo, è decisamente costoso, porca miseria! Certo che sono proprio la migliore a ficcarmi in queste situazioni assurde. Ma come si fa, dico io! Controllo l'orario che lampeggia sul display del telefonino. Proprio come immaginavo, manca ancora una vita al volo. Sistemo un po' lo 34


zaino che ho utilizzato come cuscino e mi tolgo la felpa per legarmela in vita; la faccia di Kurt Cobain stampata sulla maglietta ha un'espressione persa e un po' assonnata, proprio come la mia. Fuori deve fare molto caldo ma stanotte qui dentro non hanno scherzato con l'aria condizionata. A un certo punto credevo di congelare. Appena mi alzo sento che nelle gambe comincia a riprendere piano la circolazione; le ho dovute tenere rannicchiate per tutta la notte, sono decisamente troppo lunghe. Farei volentieri a meno di qualche centimetro, così magari a scuola la smetterebbero di chiamarmi “Olivia”, come la moglie di Braccio di Ferro. Lancio un' ultima occhiata al bell'imbranato con le cuffiette e mi allontano dal mio piccolo rifugio della notte, iniziando a vagare per i lunghi corridoi dell'aeroporto alla disperata ricerca di un bagno. È veramente enorme questo posto, sembra quasi una città nella città. È impossibile orientarsi, tant'è che ieri sera mi sembrava tutto diverso. Finalmente riesco a trovare una toilette e mi ci infilo dentro sperando non ci siano già troppe signore intente a rifarsi trucco e parrucco, manco dovessero andare a una festa. Il lavandino è pulito e così appoggio la mia pochette sul bordo del lavabo. Distolgo velocemente lo sguardo dall'immagine riflessa nello specchio e mi lego i capelli in una coda per lavarmi faccia e denti. Lo stomaco fa uno strano rumore, un gorgoglio sordo e insistente, ma lo lascio fare e cerco di non dargli retta; non tocco cibo da ieri pomeriggio ma sono certa che starei peggio se provassi a buttar giù qualcosa. Forse dovrei cercare di sforzarmi un po', però è più forte di me. Il mio corpo respinge qualsiasi tipo di sostentamento e fa davvero male, è una cosa innaturale... è come se i polmoni si rifiutassero di assorbire l'aria. Eppure non ci riesco! Appena ingurgito qualcosa sento che il dolore attacca subito le pareti dello stomaco, sale fino alla gola e allora devo buttare fuori tutto quel poco che ho dentro. Ci sono delle volte in cui ho la sensazione che mi stia per uscire dalla bocca persino l'anima. Adesso non ci voglio pensare, desidero solo andarmene il più lontano possibile. Non vedo l'ora di salire sull'aereo e di ritrovarmi 35


catapultata dall'altra parte del mondo. Sola, certo, ma forse per la prima volta orgogliosa di me. In fondo sto andando a cercare le mie radici, me stessa. Per quel poco che so, è da lì che la storia di Allegra (anche se dubito che questo sia il mio vero nome) ha avuto inizio. Ed è da lì che voglio incominciare. La toilette comincia ad affollarsi; mi chiudo in uno dei pochi bagni rimasti liberi e controllo gli slip alla ricerca di una qualche piccola macchia rossa che oramai da troppo tempo non si fa vedere. Ovviamente non c'è nulla. Mi riabbottono gli shorts ed esco veloce dal bagno.

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Sim Choi Avrei dovuto dirgli che gli occhi di quella ragazza, quando ha realizzato che non capivo una parola di quello che diceva, mi hanno lasciato in uno stato terribile. Non sto bene ed è un mio diritto cercare di stare meglio. Se gli avessi raccontato di quella sera, saranno ormai passati tre mesi, della paura che mi è presa quando mi sono ritrovato in quella strada quasi deserta, con quella ragazza che mi correva incontro. La prima cosa che ho notato era la sua maglia, aveva una maglietta rosa pallido, con una scollatura a V profonda, non avrei voluto guardarle il seno ma era quasi impossibile. Tutto di quella giovane donna impaurita, dalla scollatura alla collana pendente, era fatto per invogliare lo sguardo sul petto poco pronunciato. C’era qualcosa di sbagliato. Appena mi è arrivata vicina si è messa a gridare, gli occhi scuri spalancanti fissi su di me, e mentre mi veniva incontro riconoscevo su di lei i lineamenti inconfondibili della gente con cui sono cresciuto. Anche lei aveva riconosciuto i miei, ed è stato questo il problema, perché nei miei lineamenti vedeva un volto familiare, e io l’ho delusa. Chissà da quale situazione terribile scappava, chissà se avrei potuto fare qualcosa di più che accompagnarla alla polizia. Ma quella notte preferisco ricacciarla indietro ogni volta che emerge tra i ricordi, quando sono malinconico o arrabbiato, e mi distraggo. Torna a tormentarmi, ma per poco, sono bravo a dimenticare. Potevo anche insistere sulla rappresentazione per il signor Hai ma no, quella gliel’ho raccontata mille volte. Lo sanno. È inutile che queste cose mi vengano in mente ora. Mi mettono solo di cattivo umore. Ormai è andata, non mi ascoltano più, mio fratello e le mie nipoti. Non mi hanno capito, continuano con la storia che sono malato e non mi hanno accompagnato all’aeroporto. Mio fratello maggiore si è sempre sentito centrato su sé stesso, non è mai 37


stato inquieto come me. Quando io chiedevo ai miei genitori di raccontarmi da dove venissimo, o come fosse Seoul, o chi fossero i miei nonni, lui lasciava sempre la stanza. Non gli interessava. E quando i miei genitori si rifiutavano di rispondere, io mi incupivo e lui sorrideva soddisfatto. Non ha mai sentito la mia necessità di capire chi fosse davvero, o forse lo ha sempre saputo e non ha mai avuto dubbi. Sicuramente madre e padre preferivano il suo atteggiamento, che gli evitava di confrontarsi con un passato che non hanno mai amato raccontare, a quello del figlio curioso e inquieto. Sono sempre stati tutti meglio ignorando le nostre origini coreane, fingendo di essere sempre stati dei tedeschi, solo con lineamenti diversi. Sono io quello fuori posto. Avrei voluto che Jade mi accompagnasse, invece mi hanno accompagnato le mie gambe, per tre chilometri e mezzo, e poi l’autobus 60 delle cinque e trentacinque da Südbahnhof. Ormai sono qui, e ho deciso che farò quello che voglio. Sono arrivato all’aeroporto in perfetto orario, forse un po’ in anticipo. Mi fanno male le ginocchia, ma nulla di insopportabile, sarà stato per la strada da casa alla fermata del bus. Non è ancora il momento di prendere l’antinfiammatorio. Però è il momento di prendere un caffè. Non ho dubbi su quale bar scegliere, l’unico bar che non è Starbucks, un barettino ad angolo. Mi distraggo un attimo guardando il centro turistico dell’aeroporto che gli sta di fronte. Trovo quasi inconcepibile l’esistenza di una cosa simile, i tour dell’aeroporto, ormai si fa turismo con tutto, e si sa, quando viene messa in mostra, ogni cosa si snatura e un posto da cui partono gli aerei diventa un triste parco giochi. Meglio entrare nel bar. Continua ad aumentare il cattivo umore. Mi avvicino al banco, una cameriera sulla trentina danza tra i clienti e sembra che non le pesi correre qua e là per il bancone, scambiare due chiacchiere con qualcuno per poi tornare alla macchina e servire qualcun altro, anzi, sembra quasi che si diverta. C’è stato un periodo in cui anch’io ero così bravo, ora invece sbaglio spesso: inciampo e mi dimentico gli ordini. La mia famiglia si affanna per non


farmelo notare ma mi sottovalutano, io me ne accorgo. Dovrei smettere di lavorare, magari dopo questo viaggio. Mi avvicino alla ragazza e ordino un caffè e una bottiglietta d’acqua, lei mi sorride, lo stesso sorriso forzato di mia nipote Jade quando risponde ai clienti, il sorriso che le ho insegnato io stesso di quando si deve rispondere a qualcuno che ci paga per il nostro lavoro. Un sorriso essenziale. – Dovrebbe fare lo scontrino, prima – dice la ragazza. – Che seccatura – mi scappa, poi me ne pento subito, non voglio sembrare scortese. Per recuperare sorrido. Jade si arrabbierebbe molto se sapesse del dolore al ginocchio, ma pensa sempre che io stia peggio di come sto davvero. Sto benissimo. Ma mi devo sedere, lancio la bottiglietta nella borsa e prendo in mano il caffè. Mi guardo attorno. Tutti i tavolini vicino al vetro sono occupati, ne punto uno a cui siede solo un ragazzo; è seduto lateralmente, sulla panca contro le vetrate, sta con la spalla incastrata tra il vetro e la colonna, un po’ rannicchiato, chiuso. Mi ci siedo a lato. Mentre sposto la sedia gli sorrido, un po’ tirato: sorridendo sempre per lavoro si disimpara a sorridere genuinamente. Dalla vetrata del caffè osservo le persone passare, è strano essere in un aeroporto, non ho mai preso un aereo fino a ora, e come primo viaggio mi sono scelto un viaggio di venti ore. Che vecchio pazzo.

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Helmut Graf Sono le dieci in punto. Per me è l'ora dei bagni pubblici. Si incontra sempre bella gente nei bagni pubblici, specie negli aeroporti. Non amo particolarmente i bagni individuali, quelli con la porta. Sono poco socievoli, mentre secondo me la pipì è un importante momento di aggregazione. Oltre al fatto che mi danno la claustrofobia, ma sto divagando. Mentre fai pipì si possono creare dialoghi molto interessanti. Sul tempo, su questo fottuto caldo estivo, sul fatto che non ci sono più gli aerei di una volta, che i voli costano troppo poco per la qualità del volo (discorso alquanto paradossale, a mio modo di vedere), cioè c'è gente che vorrebbe pagare di più. Per poi divagare sugli spatzle che ti faceva tua nonna, fino ad arrivare ai problemi prostatici. Ho scelto quest'orario e lo rispetto ogni giorno, non per necessità biologiche, sia chiaro, anche se hanno la loro importanza. Piuttosto perché è l'ora di punta ed è quindi il momento in cui si interagisce al massimo grado. In particolare quando ci si lava le mani. Non so se ci avete fatto caso ma ci si chiede sempre da dov'è che esce il sapone, eppure con un po' di intelligenza ci arrivi a capirlo. Però lo chiedi. Sempre. Così, per parlare. L'incomunicabilità sociale si combatte davanti ai portasapone. Oppure si domanda al vicino di cesso perché gli aeroporti non sono mai muniti di asciugatori per le mani. Che ci sarebbe da dirlo agli inservienti. Fare una lettera scritta, una petizione. Da lì arrivi a parlare di tuo padre e di tua madre, fino a scambiarti il numero di telefono. Ho visto gente piangere al momento del congedo. Perché anche la pipì finisce e bisogna pur salutarsi. Personalmente dedico poco tempo all'atto pratico. Tutto il resto è socializzazione. Proprio in una delle mie pause pipì mi giro attratto da un rumore insolito. Vedo un uomo, con la divisa, che cerca forzatamente di smontare il termosifone. Credo sia un tecnico e lascio correre. Più che riparare il termosifone, però, sembra cercare qualcosa. Non 40


so bene cosa si possa cercare dietro il termosifone dei bagni pubblici. Mentre sto cercando il sapone l'uomo di poco prima entra nel bagno con in mano una pallina bianca, con fare concitato. Lo sento tirare su col naso e poi respirare in maniera molto profonda. Dopo di che esce dal bagno come faceva Superman quando si cambiava nella cabina telefonica. Uguale, solo senza mantello e scritta. Viene fuori con l'atteggiamento di chi è pronto a salvare il mondo. Anch'io esco, dietro di lui. Ma a salvare il mondo proprio non ci penso.

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Oliver Sack Cazzo hai da guardarmi, negra? Herr Frederick è troppo buono. Non dovrebbe assumere quelle come te. Anzi, lui che è uno che conta dovrebbe fare pressione con la polizia perché vi ritirino i permessi di soggiorno e vi rimandino tutte allo zoo, a Negrolandia, in Africa. La scimmia se ne va verso il bagno delle donne a pulire, con la sua faccia afflitta, spingendo il carrello delle scope. Entro nel cesso degli uomini. È zozzo. Come sempre. Agli orinatoi ci sono tre arabi, due tipi dalla pelle abbronzata e altri stranieri. Senti che puzza di piscio. Ma cosa mangiano e bevono? Che schifo. Mascherina e guanti, per non prendermi le malattie. I virus. I germi che questa merdosa e purulenta ondata di profughi portano in Europa. Col cazzo che pulisco. Controllo semplicemente che non si prendano a coltellate. Che rimanga sporco, il bagno. Ci penserà la negra, più tardi. E che si metta in testa la fortuna che ha ad avere un lavoro. Quelli come me dovrebbero fare altro. Mio padre mi ha insegnato la strada. Lui è stato molto più bravo di me, lo ammetto. Io mi sono fermato a quella molotov contro il centro di immigrazione, lui, invece, ha fatto le cose in grande: una bomba posta in un cestino all’ingresso principale di un bar frequentato da turchi. Una granata di mortaio riempita con tritolo, viti e chiodi. Restarono uccise tredici persone tra cui tre bambini; i feriti furono oltre duecento. È stato l’attentato più sanguinoso nella storia della Repubblica Federale di Germania. Mio padre, morto nell’esplosione, aveva agito in perfetta solitudine nella progettazione e nell’esecuzione della strage. Il giudice aveva dichiarato che il movente sarebbe stata la frustrazione personale: papà, secondo quel comunista, avrebbe sofferto fallimenti nelle sue relazioni con le donne, sarebbe stato isolato socialmente e avrebbe sviluppato un odio 42


universale contro se stesso e i propri simili. Così la strage, da assassinio di matrice politica, sarebbe diventato il suicidio prolungato di un uomo disperato. Tutte cazzate campate in aria. Papà faceva parte del glorioso gruppo Wehrsportgruppe Hoffmann, nato per contrastare la sempre più numerosa presenza di turchi in Germania. Ha agito da solo, ma la motivazione era la politica. Poco importa che nell'esplosione siano morti anche dei tedeschi. I sacrifici sono da mettere in conto quando vuoi ripulire la tua terra dall'orda costante di negri, ottomani, zingari e arabi di merda. Adesso è il mio momento. Sono loro gli inferiori che fanno gli attentati, mettono le bombe, ci sparano addosso, come se fossero i padroni del mondo. Ma io non glielo permetterò. Li tengo d'occhio. E se dovesse presentarsi la possibilità di coglierli in fragrante, qui, in questo aeroporto teutonicissimo, farò di tutto per fermarli e dichiarare poi, al mondo intero, che io non sono un eroe, ma il figlio di un patriota e che è giunto il momento di chiudere per sempre le frontiere. Un tipo con un cappellino militare e la faccia da scemo mi guarda. Sembra lobotomizzato. Cazzo vuole questo, adesso? Vorrei strapparmi questo camice blu e mostrargli la svastica che ho tatuata sul petto. Devi avere i coglioni per portare simboli di forza e potere come quel cappello guerriero, sfigato. C'è troppa puzza in questo cesso. Passerà la negra più tardi, a pulire. Io vado a tenere d'occhio gli stranieri nella hall. Mi sistemo meglio la mascherina sulla bocca e sul naso ed esco.

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Salimata Konaté Guardalo là, il nostro fantomatico musicista latino americano, come si pavoneggia con l’addetta ai controlli di sicurezza. Se non lo conoscessi potrei pensare che ci sta provando spudoratamente. Invece, conoscendolo ormai piuttosto bene, posso affermarlo con sicurezza: sì, ci prova. Mentre passo spedita, spingendo il carrello delle scope, mi scappa un sorriso involontario e Rodrigo, intercettandolo, mi saluta con la solita spavalda allegria. È uno dei pochi con cui ho scambiato più di qualche parola, qui dentro, e devo ammettere che incrociarlo durante il turno spezza la noia delle mie giornate, sempre uguali, tra stracci e prodotti per la pulizia. Ci siamo anche incontrati per caso, qualche giorno fa, al Madam Kaffee, un postaccio che odora di crauti e birra scadente ma che ospita ogni tanto, nel locale sottostante, qualche jam session o concertino improvvisato. Mi ci ha trascinato Dramane, uno dei ragazzi di Ouagadougou con cui condivido l’appartamento, per farmi sentire gli ultimi pezzi composti con il suo gruppo. – Ma allora ce l’hai, una vita sociale! – mi sono sentita improvvisamente rimbombare nelle orecchie. L’ho sentito fin troppo bene, purtroppo, dato il volume della sua voce, allegra e appena un poco alterata. Purtroppo e per fortuna: è una conferma che gli abbassamenti di udito che mi hanno tormentato per diversi mesi si stanno facendo sempre più rari, o almeno più leggeri. E comunque non avrei potuto far finta di non sentire la sua amichevole pacca sulla spalla e lo spostamento d’aria provocato dall'entusiasmo con cui si è precipitato verso di noi. – Lo sapevo, la mia fama ha oltrepassato i confini di Bahnhofsviertel – ha continuato, ridendo forte. – La tua fama? – mi sono stupita io, non collegando immediata44


mente la sua presenza in quel luogo con uno dei nomi dei gruppi elencati sulla locandina dai colori sgargianti. Ne avevamo parlato, certo, della sua passione per la musica e il sangue latino eccetera eccetera, ma l’avevo istintivamente catalogato sotto la voce “spacconate”. E invece, vuoi vedere che magari è pure bravo? Mi giro per presentargli Dramane e gli altri ragazzi del gruppo, che lo accolgono con grandi sorrisi e mani che passano dalla stretta a un veloce gesto sul cuore, in una fratellanza istintiva, suggellata dall’offerta di aiutarsi a vicenda a trasportare sul piccolo palco strumenti e tamburi. La parte più divertente della serata, a ripensarci, è stata a metà concerto, quando Dramane si è lanciato in un coinvolgente assolo dal ritmo sempre più incalzante, dialogando con gli altri tamburi e prendendo la scena con grande abilità. Il pubblico, entusiasta e ben assortito, ha iniziato a sottolineare i punti più coinvolgenti con battiti di mani, urletti ed esclamazioni colorite. Improvvisamente non eravamo più in un'angusta cantina alla periferia di una grigia città europea, ma sotto il grande baobab del Quartiere 21, in una delle notti africane in cui ogni sogno è a portata di mano e tutto sembra poter accadere. Mi stavo lasciando cullare dalla fantasia, a occhi chiusi, quando la vibrazione della pelle tesa sul djembé si è fatta vicina... un po' troppo vicina. Ho aperto improvvisamente gli occhi: – Meine Damen und Herren, abbiamo qui stasera la nostra petite soeur – stava dicendo la voce di Dramane, supportata da un delicato rullare dei polpastrelli sul tamburo. – Figlia di Griot, nipote di Griot, una grande djembefolà... – Was bedeutet, amico, che significa... folà? La voce roca di Rodrigo che chiedeva spiegazioni è arrivata forte e decisa alle mie spalle e mi ha convinto che no, non stavo più sognando. – In djoulà, cioè nella nostra lingua, amigo – gli stava spiegando 45


Dramane, senza interrompere il tessuto musicale creato dalle sue abili mani, – folà è la parola che indica chi suona, quindi il djembefolà è il suonatore di djembé. Ma in questo caso... – No, ti prego, no – ho sillabato con lo sguardo, guardando fisso quel ragazzo pelle e ossa che avevo visto crescere e con cui ora condividevo casa e nostalgie. – Per favore, no. Ma non devo essere stata abbastanza eloquente, o minacciosa, perché Dramane si stava già facendo passare sopra la testa le cinghie che reggevano il tamburo, porgendomelo con un sorriso a trentadue bianchissimi denti. – Da Bobo Dioulasso – stava scandendo, incurante del mio imbarazzo, – la nostra sorella, amica, maestra... Salimatà Konaté! Per fortuna la mia pelle non lo lascia trasparire, ma credo di essere arrossita fino alla radice dei capelli stretti in mille treccine, mentre un gruppo di ragazzi che avevamo salutato all'entrata stava chiamando a gran voce: – Sa-li-ma-tà! Sa-li-ma-tà!. Anche Rodrigo si è subito unito al coro, quel disgraziato. Che cosa potevo fare? Dimenticando paure e brutte esperienze mi sono sistemata il djembé, fissando le cinghie sulle spalle, e mi sono rivolta al trio dei tamburi bassi, che stavano aumentando volume e ritmo dell'accompagnamento per accogliere il mio ingresso sul palco. E così, dopo l'appel, la consueta frase musicale che chiama e introduce gli assoli, le mie mani hanno ricominciato a parlare una lingua che conoscevo bene. Ed è stata subito, di nuovo, magia. Non ricordo molto dell'esibizione, se non qualche Anitiè, grazie, gridato a mezza voce da qualcuno in sala, un paio di ballerini e la loro sfrenata danza, conclusa toccando con il palmo della mano il pavimento davanti a me, nel tradizionale segno di rispetto, e qualche volto sorridente tra i tavoli. Ah, e ricordo bene anche lo sguardo allibito di Rodrigo, che per la sorpresa si era persino dimenticato di finire il liquido rossastro e sicuramente molto alcolico che stava scolorendo nel suo bicchiere. Ormai era fatta, ho sospirato dentro di me. 46


Almeno con lui, non avrei più potuto fingere. Quella stessa sera, però, è accaduta un'altra magia. Ed è per questo che mi sto aggirando ora nell'area imbarchi, mimetizzata come sempre dietro al carrello delle scope, con la tasca destra del grembiule un po' più pesante. Faccio scorrere lo sguardo sulle persone in fila ai check-in o ai controlli, su quelli che passano velocemente tra atrio e scale mobili, sulle figure che affollano i banconi dei caffè per uno spuntino veloce prima di imbarcarsi. Quella che cerco è una figura leggermente appesantita, con i capelli brizzolati e un accenno di barba, lo sguardo stanco ma vivace. Uno sguardo che ho visto accendersi quella sera al Madam Kaffee mentre il ritmo cresceva e il tamburo raccontava una nuova storia. In realtà avevo già notato all'inizio della serata quell'uomo di mezz'età, una presenza po' inusuale in mezzo agli avventori del locale, ma che spiccava per un'energia particolare più che per le caratteristiche fisiche o per l'abbigliamento. Si è scoperto poi che si trattava di Matthias Hacke, produttore musicale e talent scout per i più importanti festival europei, di passaggio a Francoforte e accompagnato lì da Gabriel, un amico suo e, per la teoria sempre valida dei sei gradi di separazione, amico anche di Siriki, uno dei percussionisti burkinabé coinvolti da Dramane nella jam session. Da cosa nasce cosa e da un rapido scambio di battute sono venuta a sapere che sarebbe partito proprio oggi da questo aeroporto. – Ma io lavoro lì – mi è sfuggito incautamente, a voce troppo alta e con l'adrenalina ancora a mille. – Non hai un tuo demo? – mi ha chiesto allora Gabriel. – Perché non lo fai avere a Matthias? Li ascolta sempre con attenzione, sta cercando nomi nuovi ed è stato colpito dalla tua esibizione – aggiunge, facendomi l'occhiolino. – Ma, non so... – ho balbettato, con un tumulto di emozioni che mi stavano proiettando ben lontano da quella cantina. – Se riesci a farmelo avere mi farebbe piacere ascoltarlo – si è inse47


rito Matthias, gettandomi nella confusione piĂš totale. Inutile dire che ho passato le ultime notti a tagliare, montare, aggiustare, rifare pezzi, scegliendo quelli che spero siano capaci di incuriosire e conquistare l'attenzione di un orecchio ben allenato, che possano spiccare il volo tra la marea di demo che riceverĂ ogni giorno. Ed ecco perchĂŠ mi aggiro qui, ora, con fare circospetto, agitata da una scintilla di speranza e mille dubbi.

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Anne Schmidt Stavolta mi sono fatta prendere dall’ansia, come se non avessi mai volato prima. Lo so che in un’ora e mezza c’è il tempo di fare tutto con calma. Ho delle attenuanti, ma ciò non toglie che non mi senta me stessa. Questa cosa mi sta mandando fuori di testa, non sono più abituata alle responsabilità. Sono terrorizzata che succeda qualcosa, che magari qualcuno capisca davvero cosa può valere il mio bagaglio o che per qualche ragione non me lo facciano passare. Magari, anche se finora non l’avevo minimamente considerato, sto semplicemente invecchiando, non sono mai stata una che si fa prendere in questo modo da paure senza senso. Quando ho conosciuto Hans ero veramente tosta, non ci ho pensato nemmeno un momento e sono scappata con lui abbandonando tutto; la cosa veramente buffa è che fino a qualche mese prima di conoscerlo ero convinta di avere la vita che avevo sempre desiderato: la mia famiglia, il dottorato in lingue orientali e la prospettiva di realizzare qualcosa, se non di importante quantomeno di utile. E poi sono bastati pochi mesi con un ragazzo affascinante e avventuroso per decidere che la vita che avrei voluto era un’altra, e buttare tutto all’aria. Pensandoci bene forse più che tosta ero stupida e un po’ di sano timore mi avrebbe fatto bene, impedendomi di scappare con un personaggio mediocre e di seconda fascia come poi si è rivelato. Magari l’ansia che mi sta prendendo è sana e mi aiuterà a non fare sciocchezze e ad andare avanti e indietro senza problemi. Direi che visto il mio anticipo adesso è l’ora di un caffè. Onestamente non è che proprio mi entusiasmi l’idea di andare da Starbucks, è sempre pieno di gente che urla come se fosse al mercato del pesce e che parla in trecento lingue diverse, visto che raccoglie tutti i turisti che cercano di scroccare un Wi-Fi, però purtroppo non mi sembra che ci siano moltissime alternative. 49


Una signora con un trolley rosa shocking e un chihuahua sta guardando con aria smarrita lo schermo che indica i gate dei voli in partenza, il suo sguardo continua ad andare dal monitor allo smartphone, che maneggia con difficoltà dovuta alle lunghissime unghie finte, anch’esse di colore rosa. Alza lo sguardo dal telefono e dà un’occhiata sempre più smarrita intorno a sé. No, per piacere! Adesso questa Barbie over cinquanta a grandezza naturale viene qui, sicuramente non riesce a capire dove deve andare e viene a molestare me, con quel topo al guinzaglio. – Buongiorno signora, posso chiederle una mano? Non capisco bene a quale gate devo andare, sa, non sono molto pratica... – Si, mi dia il suo biglietto che vediamo dove deve andare. – Ecco, tenga. – Allora, vediamo… Francoforte-Berlino delle 13.15… deve andare al gate B21. – Grazie mille, lei dov’è diretta? – Devo andare a Seoul, per lavoro… – Ah! È una musicista? È una custodia di violino, quella? – No, cioè sì... in realtà... ecco... più che altro mi occupo di valutazioni e di vendite. – Interessante! Io invece sto tornando da un concorso di bellezza per cani. Sa, il mio Sputnik è stato adorato da tutti, medaglia d’argento! Sono veramente orgogliosa! Non è una passeggiata, bisogna prepararsi. Sia io che Sputnik ci siamo preparati a lungo per questo concorso, ma alla fine ne è valsa la pena: secondo posto! Che soddisfazione! – Sì, immagino. Davvero un gran risultato… guardi, adesso devo proprio andare altrimenti perdo l’aereo. Buona giornata. – Eh lo so, davvero un risultato incredibile. Ma si rende conto che in aereo c’erano dei passeggeri che si sono lamentati di Sputnik, ma le sembra possibile!? Non lo trova adorabile? – Sì, adorabile. Però guardi ora devo proprio andare, rischio di arrivare tardi al gate… – Ma non si preoccupi, tanto gli aerei sono sempre in ritardo. Co50


munque la saluto, e grazie per l’aiuto! Sputnik saluta questa simpatica signora, da bravo. – Arrivederci, buona giornata. Certo che bisognerebbe scrivere un trattato su alcuni individui, io non posso credere che una persona sia veramente così, come questa signora, che non si accorge di essere ridicola. Sembrava una caricatura, venuta oltretutto veramente male. Poteva ricordare Ollio con una parrucca, il rossetto e le ciglia finte; in realtà nemmeno questa immagine rende veramente l’idea. E poi quel suo cane, se ci fossi stata io su quell’aereo altro che lamentarmi, facevo una strage. Di sicuro avrà abbaiato per tutto il volo e molestato tutti i passeggeri dell’aereo. Una persona dovrebbe anche farsi una vita. Sembrava che il centro della sua esistenza, e non solo della sua ma di tutta la maledetta umanità, fosse quel cane e i suoi incredibili risultati nei concorsi di bellezza. La cosa ancora più sorprendente di certa gente è che pensa che tutti siano estremamente interessati alle loro cose, ma alla maggioranza delle persone non interessa nulla di quel cane o delle sue medaglie d’argento. Non gli viene mai in mente che magari c’è chi ha davvero qualcosa da fare e non ha tempo da perdere con le loro storie inutili; magari qualcuno che deve andare dall’altra parte del mondo per incontrare un tizio che non ha mai visto, e che probabilmente non è un tipo raccomandabile, per cercare di recuperare dei soldi e di riparare ai danni fatti dal marito che ha avuto la bella idea di indebitarsi e di impiccarsi! Adesso ci riprovo a prendermi un benedetto caffè, vediamo se c’è qualche altro fenomeno che viene a importunarmi con le sue fesserie, che è la volta buona che non riesco a partire perché mi faccio arrestare. Ovviamente ci sono diecimila persone, mi sa che mi tocca prenderlo al bancone il caffè, anche se metà della gente seduta ai tavolini potrebbe anche levare le tende visto che sta facendo di tutto tranne che consumare qualcosa; probabilmente avranno preso un caffè alle sette del mattino e sono due ore che scroccano il Wi-Fi senza ordinare più nulla e un cliente che vorrebbe solo bersi un caffè seduto non può. Sono estremamente indecisa se litigare con qualcuno oppu51


re fare finta di niente e sedermi al bancone; avrei veramente voglia di farmi una bella litigata con qualcuno ma c’è veramente il rischio che poi perda le staffe sul serio e mi faccia notare troppo, forse è meglio rimandare alla prossima volta. – Signorina mi farebbe un Ice Coffee? – Mi spiace signora, ma dovrebbe prima fare lo scontrino in cassa, poi la chiamiamo noi quando il suo caffè è pronto. – Seriamente? Non potevate scriverlo da qualche parte così almeno evitavo di aspettare qui inutilmente per poi dovermi rimettere in coda alla cassa? – Guardi che è scritto proprio là, giusto di fianco alla cassa, mi spiace che non abbia visto il cartello. – Potevate scriverlo ancora un po’ più piccolo così ci sarebbe voluto il binocolo per accorgersene. – Signora, sono desolata, ma adesso devo chiederle se può mettersi in coda in cassa perché altre persone aspettano il loro caffè che è pronto. – Va bene, adesso mi metto in fila, però questa organizzazione è ridicola… Figuriamoci se non poteva farmi lo stesso un dannatissimo caffè, non gli ho chiesto nulla di complicato. Certe persone si sentono così importanti a vigilare sul rispetto di queste regole idiote; cosa sarebbe mai successo se mi avesse servito? Ah, già! Sarebbe sicuramente crollata l’economia mondiale, la crisi del ’29 sarebbe impallidita al confronto! Meno male che quella ragazza ha evitato una catastrofe del genere. Finalmente sono arrivata alla cassa, chissà se riescono a trovare qualcosa che ho sbagliato, magari se non fai la coda sulle mani non è valida. – Buongiorno signora, cosa desidera? – Un Ice Coffee, grazie. – Mi può dare il suo nome gentilmente? Al banco poi la chiameranno quando è pronto il suo caffè. – Sì, lo so… la sua gentilissima collega mi ha già illustrato nei mini52


mi dettagli la procedura per riuscire a ottenere un caffè… il mio nome è Schmidt comunque. – Si sieda pure signora Schmidt, la chiamiamo noi. Buona giornata. – Arrivederci. Dopo tutta questa fatica come minimo mi aspettavo un caffè decente, invece è al limite della sciacquatura di piatti; ora ricordo perché era da tanto tempo che non andavo da Starbucks, non si dovrebbe ricadere negli stessi errori così facilmente, in fondo se avevo deciso di non venirci più ci sarà stato pure un motivo, e invece si tende sempre a dare una seconda possibilità… errore. Certo, in parte la causa è precedente, l’agitazione mi ha fatto muovere troppo presto e mi sono ritrovata a essere in anticipo e a dover cercare un posto dove andare. E sono finita in questo buco, dove fanno un caffè che costa un occhio della testa, dove i baristi fanno finta di essere educati ma non vedono l’ora di romperti le scatole e dove soprattutto non si riesce nemmeno a trovare un posto a sedere perché è pieno di gente che non ha niente da fare nella vita e si è incollata il culo alla sedia. In particolare c’è quel sudamericano che mi sta davvero dando sui nervi, strilla come un ossesso al telefono come se a qualcuno interessasse qualcosa di quello che sta dicendo, in effetti è molto probabile che non interessi neanche al suo interlocutore. E poi si dà un sacco di arie, da quello che dice si intuisce che probabilmente si crede un gran Don Giovanni, mentre se non fosse che indossa la divisa, e mi chiedo sinceramente chi sia il matto che gliel'ha data, l’avrei visto bene sotto i ponti dietro la stazione con un brik di vino in mano. Probabilmente è un drogato e se vedesse passargli sotto il naso Bin Laden gli farebbe un cenno amichevole di saluto, con questo qui a controllare i bagagli siamo proprio in buone mani. Sono esterrefatta che uno così possa avere una qualunque divisa, forse farei un’eccezione per quella da carcerato, in effetti; se non fosse che parlare con un soggetto del genere non mi ispira nulla di buono sarei curiosa di sapere come accidenti ha fatto a farsi assumere in questo ruolo, ci scommetterei che ha alle spalle una serie di disastri lunga 53


un chilometro, e che non siano ancora finiti. Forse in questa situazione specifica per me potrebbe essere una coincidenza fortunata che ci sia un soggetto del genere ai controlli, potrei effettivamente mettermi nella sua fila; certamente sarà un mezzo analfabeta e non c’è pericolo che possa accorgersi del valore del mio bagaglio, sempre che li guardi i bagagli che passano, il che mi sembra una eventualità più unica che rara. Finalmente se ne è andato! Certo, resta comunque una certa folla di molestatori, ma il grande capo per fortuna è tornato a lavorare, forse avrò cinque minuti di relativa pace prima di avviarmi al controllo bagagli.

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Emre Kartal Mi passa davanti una mamma col burqa, insieme alla famiglia. Mi fa pensare a quando io e mia madre arrivammo a Francoforte. Lei camminava veloce e con la testa bassa. La guardavano tutti in maniera strana, un po’ perché portava il hijab e un po’ perché era da sola con un bambino e una valigia pesante, la classica valigia degli emigranti. Adesso è diventata una consuetudine, ma allora era strano vedere una donna islamica che non fosse accompagnata da un uomo. Quel giorno ce l’ho ancora negli occhi, ma soprattutto nel naso: quando arrivammo a casa della zia Nazmiye un fortissimo odore di cumino invadeva tutto l’appartamento. Era una casa piccola e disordinata. Vivevano in quattro in un buco, nel quartiere di Galluswarte, dove i miei zii abitano tuttora. Avevamo solo pochi soldi a disposizione, quindi mia madre mi disse che saremmo rimasti lì per un po’, almeno finché non avesse trovato un lavoro per poterci permettere uno spazio tutto nostro. La mamma divideva la stanza con mia cugina Ferah, mentre io e mio cugino Hasan ci sistemammo nella sala-cucina, lui sul divano e io su un materasso rimediato dai vicini. Ancora oggi non riesco a separare l’odore di cumino da quella giornata grigia, in cui avevamo definitivamente abbandonato mio padre alla sua indole fedifraga e ci eravamo trasferiti in Germania. Mia madre sognava un futuro diverso per se stessa, ma soprattutto per me, l’unico suo figlio. Voleva che non diventassi come quel marito che era stata costretta a sposare. A dire il vero, fino a quel momento mia madre non si era mai dimostrata una donna particolarmente coraggiosa, ma scoprii che aveva pianificato la nostra fuga in maniera perfetta, in silenzio e senza dire niente a nessuno, a eccezione di sua sorella, che ci aspettava a braccia aperte. Mio padre, da parte sua, non ci ha mai più cercato. Probabilmente 55


si sarà trovato un’altra donna o fatto una nuova famiglia in Turchia. Sinceramente più di tanto non mi interessa. Si avvicina un signore orientale, circa sulla sessantina, e punta dritto al mio tavolo. Ma che vuole questo? Scosta la sedia dal tavolo e si siede. Poi si gira verso di me e mi fa un sorriso di cortesia, proprio di quelli che vedi nei film giapponesi, che piegano leggermente la testa in avanti e alzano a malapena gli angoli della bocca. Sta seduto guardando fisso davanti a sé, sembra che aspetti qualcuno, continuando a sistemarsi il cappello. Ma perché s’è messo proprio al mio tavolo? – Buongiorno – dico, guardandolo in faccia. Ma lui è come se non mi vedesse; continua a fissare in avanti. Fa un altro piccolo inchino del capo, socchiudendo gli occhi, ma non spiaccica sillaba. Dopo due o tre minuti di silenzio, inizia a parlare e non la finisce più. Parla con voce dimessa e un velo di tristezza, quasi monotonale. Mi dice che è coreano di origine, ma che non parla coreano. Poi mi racconta della sua vita, sempre guardando di fronte a sé. Solo ogni tanto si gira e mi guarda, per vedere se lo sto ascoltando. Sembra abbastanza fuori di zucca, ma assolutamente innocuo. A un certo momento mi chiede se sono un nazista. Faccio una faccia talmente stranita che lui scoppia a ridere. Ma visto che non voglio dare nell'occhio, appena fa una pausa, lo saluto cortesemente e me ne vado. Ce n’è di gente matta a questo mondo. L’attesa mi sta sfiancando. È proprio vero che, quando aspetti, il tempo sembra non passare mai. Volo Ryanair per Alicante. Era quello che costava meno, quando due mesi fa abbiamo deciso di organizzare il tutto. In effetti, chi diavolo va ad Alicante di mercoledì mattina? Era normale che ci fossero delle tariffe low cost. Ma intanto a me serve solo passare il gate. Poi, prima della navetta che porta all’aereo, dovrei riuscire a far perdere le mie tracce. L’idea del volo per Alicante è di Hasan. Dice che un ragazzo di trent'anni con uno zaino in spalla è molto credibile, in quanto po56


trebbe tranquillamente andare a trovare un amico in Spagna per una breve vacanza. Secondo me questi manco guardano dove sono diretto, ma Hasan ha voluto a tutti i costi che io avessi una storia sensata da raccontare, nel caso qualcuno mi fermasse o mi chiedesse qualcosa. – Anche i dettagli più piccoli sono importanti, non devi trascurare niente. – Sento ancora la sua voce che ripete sempre le stesse cose. Sarà arrivato, ormai. Dovrebbe essere già al terzo piano, vicino alla vetrata che dà sulle piste di decollo. Sicuramente è lì.

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Sim Choi Sarà una banalità ma gli aeroporti sono sempre un miscuglio incredibile di gente, come il mio ristorante. Chissà se tutti sanno chi sono e dove vanno. Qualcuno di loro forse non parla la lingua del suo paese natale e magari non ha la stessa nazionalità dei suoi genitori, o è prigioniero di lineamenti o colore della pelle che non sente suoi. Guardo il tavolo, il mio caffè che ormai sta diventando freddo, avrei dovuto prendere un espresso, lo prendo più per rito che per voglia di berlo, è una cosa che si fa, prendere il caffè. Il bicchiere di carta caldo, il liquido nero, le bolle marroni, sono familiari, sempre simili. Questo non è nemmeno cattivo, magari l’espresso lo facevano bene. Giro un paio di volte il bastoncino. – Perché una cosa che non sopporto è che a vedermi si pensi subito che sia coreano. – Mi rendo conto di averlo detto ad alta voce, sorrido, mi è scappato proprio. Chissà cosa pensa un ragazzo di un vecchio che parla non interpellato, il sorriso mi si allarga, continuo. – Sa che non parlo il coreano? – Forse al ragazzo non interessa quello che dico, se mi sorride continuo, se no mi fermo. Mi sorride. – E sa che lavoro in un ristorante coreano solo perché ho i lineamenti coreani e fa… – Mi fermo, non trovo la parola giusta, voglio dire che lavoro lì solo perché sembro coreano e i tedeschi, o i turisti, vogliono gente che sembri coreana in un ristorante coreano. È una parola inglese, coniata da un qualche archeologo imperialista, ormai è di uso comune, ma proprio non mi viene in mente. Basta non incagliarsi e cercarne una nuova. –Perché dà un’aria caratteristica. Lavoro lì da quarant’anni. Non le pare assurdo come siamo imprigionati in questo corpo che viene appioppato alla nascita? Io in questo corpo non mi ci sono mai trovato, e per sfuggirgli volevo fare l’attore! Pensi che per un po’ ci sono anche riuscito. Ovviamente ero in una compagnia coreana 58


che si esibiva in finte rappresentazioni caratteristiche, ma nonostante tutto mi divertivo. Il regista, il signor Hai, un giorno mi disse che quando recitavo sembravo da un'altra parte, che non ero uno solo sul palco. Da lì è stato un disastro, le rappresentazioni, cose complicate, sa, dovevamo cantare e ballare con costumi improbabili, scomodissimi. Ecco, le rappresentazioni andarono sempre peggio, finché una volta non caddi disastrosamente. Un anno di carriera già finita, perché non riuscivo a non vedermi da fuori mentre facevo il coreano. Non riuscivo a essere un coreano. Ero un tedesco, con la faccia di un coreano che si vedeva recitare la parte di un coreano. Ha contato quante volte ho detto coreano? Non posso liberarmi di questa parola, mi perseguita. Non mi guarda, allora mi fermo. Si gira, mi sorride, è il mio segnale, riprendo: – E lei invece? È coerente con il suo aspetto? È un bel giovinotto, con dei lineamenti del sud Europa, forse addirittura mediorientali, ma magari è il peggiore dei nazisti! – Cavolo l’ho detta forse un po’ troppo grossa, però rende bene l’idea, non riesco a non allargare il sorriso, penserà che sono un vecchio rimbambito. Ormai tanto lo pensano tutti. Non riesco a smettere di ridere. Ho fatto bene a venire così in anticipo, fa sempre bene prendersi il tempo per godersi un posto, e l’aeroporto mi piace!

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Allegra Sarti Nei corridoi le persone camminano in modo frenetico; tra il brusio delle voci, il rumore dei passi e quello delle rotelle dei trolley non si riesce quasi a distinguere la canzone che stanno trasmettendo attraverso gli altoparlanti. Meglio così anche perché temo sia uno di quei tormentoni latini che è da mesi che passano alla radio e che, francamente, mi hanno rotto le palle. Imbranato docet... mi sa che mi conviene fare come lui e indossare le cuffiette per ascoltare della buona musica, mentre passeggio tra i negozi dello shopping Boulevard, non perché debba comprare chissà che ma giusto per distrarmi un po'. Se mi fermassi finirei per arrovellarmi il cervello a furia di pensare alle mie solite paturnie e ora non ne ho proprio voglia. La canzone che si intrufola nelle mie orecchie ha il piacevole calore di tutte quelle piccole cose che riescono a farmi stare subito meglio. Our day will come (our day will come) if we just wait a while. No tears for us. Think love and wear a smile, mi suggerisce la superba Amy Winehouse e sembra rivolgersi proprio a me. “Il nostro giorno verrà” - dici davvero, Amy? - “Se aspettassimo giusto un po'. Nessuna lacrima per noi. Pensa all'amore ed indossa un sorriso”, spero tu abbia ragione e ti prometto che, anche se è dura, ci proverò. Se Amy Winehouse fosse ancora viva andrei a cercarla. Una volta ho anche provato a scriverle sulla sua pagina ufficiale ma, purtroppo, non mi ha mai risposto. Chissà poi che cavolo è successo veramente... deve essersi sentita così sola, poverina, o forse nel posto sbagliato al momento sbagliato. Un po' come la sottoscritta, in fondo. Infatti mi sono sempre chiesta che cavolo ci azzecchi una come me - con i piedi per terra, tutto sommato affidabile, riservata, sicuramente testarda e, per certi versi, scontrosa - con due genitori venuti direttamente da Woodstock. Monica e Carlo sono le persone più pacifiche che io co60


nosca. Vivono in totale sintonia con il mondo e con una perfetta e quasi invidiabile - ma per me detestabile - calma zen. Il loro motto è “Peace and Love” o, peggio ancora, “il nostro nido d'amore è aperto a tutti”. Quando ero piccola mi trovavo in continuazione sconosciuti che gironzolavano per casa e che si accampavano da noi per giorni interi. Ovviamente, privacy zero. La cosa che più mi faceva imbestialire era che finivano sempre le mie merendine preferite, quelle farcite con il cioccolato che mi comprava di nascosto mia nonna Adele, la mamma di Carlo. Perché, come se non bastasse, i miei sono pure vegani, macrobiotici e salutisti convinti tanto che a nove anni mi preparavo da mangiare da sola. Mi sa tanto che è da lì che ho iniziato ad avere qualche problemino con il cibo; con i loro intrugli avrebbero fatto passare l'appetito persino ad Hannibal the Cannibal. Ma comunque mi sarei anche fatta andar bene tutte queste cose se solo mi avessero trattato un pochino più da figlia. Mai una regola, una guida, che ne so, pure una sonora sculacciata. Sono venuta su con il metodo Montessori insegnato da Bob Marley. Credo che una bambina abbia bisogno anche dei “no” e non solo di sentirsi ripetere: “Ragiona con la tua testa, decidi tu, sei un essere autonomo e non sei di nostra proprietà”. Va bene, ragazzi, grazie, tutte belle parole però così è davvero troppo. Comunque adesso credo di aver capito, la nebbia si sta finalmente diradando e sto cominciando a fare un po' di ordine in tutto questo caos. Sono infatti abbastanza sicura di aver trovato almeno una risposta - la più importante - alle innumerevoli domande che mi girano per la testa. E l'ho trovata esattamente la sera del 12 maggio, a casa di nonna Adele. Quel giorno, mentre cercavo alcuni miei vecchi disegni in solaio, in uno scatolone dimenticato sotto il sofà, ho scovato il diario tenuto da Monica - che è una scrittrice e ama raccontarsi - durante il periodo in cui lei e Carlo ancora ventenni hanno vissuto, provando ogni tipo di droga e girando nudi dalla mattina alla sera, in una piccola comunità hippie hawaiana nata per emulare la leggendaria comune sorta negli anni Settanta sull'isola di Kauai e nota come Taylor Camp. Nel diario Monica racconta di una bambina nata da una coppia di irlandesi che una mattina sono usciti in barca e non sono 61


più tornati, abbandonando, loro malgrado, la piccola. Rientrati in Italia dopo una lunga assenza Monica e Carlo avrebbero, quindi, portato con sé la bambina facendo credere a tutti, parenti compresi, di essere i genitori naturali di quella creatura con le lentiggini e i capelli rossi, l'unica in famiglia a essere così. Questo spiegherebbe tutto: biologicamente non sono figlia loro. È così palese, siamo troppo diversi e non solo fisicamente. Come se non bastasse, dopo la clamorosa scoperta, ci si è messo pure un sogno a tormentarmi. Non posso dire che sia brutto, eppure c'è un non so che di inquietante. Tutte le notti mi ritrovo a svegliarmi alle 3:32, non un minuto prima e non un minuto dopo. La maglietta del pigiama sudata, la luce accesa e la Bigia che mi guarda con gli occhi assonnati. Persino la mia gatta ride di me, credo addirittura di farle pena. Il sogno riprende sempre dallo stesso punto: sono sola in mezzo a un bosco, è notte e intorno sento solo il rumore dei rami che si sfiorano tra loro e sembrano volermi sussurrare qualcosa. Poi, a un tratto, un faro puntato sulla faccia mi fa chiudere gli occhi e mi fa perdere il senso dell'orientamento, ho la sensazione di cadere in un burrone. Appena li riapro mi ritrovo su una spiaggia ricoperta di sabbia bianca, bollente; il sogno è così reale che riesco persino a percepire il calore sotto i piedi. La spiaggia è piena di persone ma il mio sguardo viene catturato dalla figura di una donna che indossa un grande cappello di paglia, uno di quei cappelli da film hollywoodiano. La donna entra in mare e io la seguo immergendo le gambe nell'acqua cristallina. Lei mi volta la schiena; mi avvicino e le appoggio una mano sulla spalla ma prima che possa girarsi mi sveglio. Non sono ancora riuscita a vederla in faccia. È per questo che ho deciso di partire. È un po' come dice quella canzone di Lenny Kravitz: “Sto nuotando in un mare burrascoso cercando di capire chi ho intenzione di essere”. Voglio solo fare un po' di chiarezza, ne ho tutto il diritto. Non me la sono proprio sentita di chiedere spiegazioni a Carlo e Monica, anche perché non sarebbero capaci di dirmi la verità, li conosco troppo bene. Solo nonna Adele sa dove sono, a lei non sono riuscita a mentire ma le ho fatto giurare e spergiurare di non dire niente a nessuno. Prima voglio indagare un po' 62


per conto mio. Una volta arrivata a Honolulu cercherò di raccogliere piÚ informazioni possibili, sperando di trovarci ancora qualcuno che magari ha vissuto nella stessa comune e che sia in grado di aiutarmi. E poi chissà , magari il mio viaggio mi porterà dritta in qualche sperduto paesino dell'Irlanda. Ho sempre avuto un debole per gli irlandesi, li reputo proprio simpatici.

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Rodrigo James Franz Birkenstock Sono venti minuti che mi trovo impantanato con il solito arabo con al seguito trenta mogli e seicento figli con passeggini. Avevo fatto cenno all’inserviente di smistamento di dirottare la fila facendogli capire che qui c’è da starci un bel po’, quando finalmente, pubblicità! – Ehi James! Ti sei trasferito in Afghanistan? Karl, ventata di colore umano che mi regala un sorriso fra il nero dei niqab e il pianto dei neonati, bimbi talmente piccoli che li dovresti lasciare a casa con i nonni e non portarteli come zainetti in giro per il mondo. – Sì, praticamente faccio la bella statuina – gli dico. – La solita perdita di tempo. Gli spiego che questi li controlliamo sempre, pura prassi. Per controllare le donne vestite come se fossero in un accampamento talebano, il regolamento richiede solo le donne per le perquisizioni corporali e, quindi, è praticamente come se io fossi in ferie. Racconto a Karl che nella valigia di una, Kirsten ha trovato dei datteri strizzati in un foglio di giornale, o meglio, una specie di ramo pieno di datteri che probabilmente le giovani mogli del grassone capofamiglia avevano strappato dalla palma per portarsi uno spuntino a bordo, alla faccia dello schifo precotto che ti servono. Kirsten sta valutando se quei datteri facciano al caso suo; se siano un valido snack per una serata a casa con gli amici. Si rimbalzava nella testa l’idea di fermare il bagaglio e di contestare i datteri come carico improprio e, come sempre, mi sta chiedendo in modo formale che cosa ne penso: – Credi che sia una infrazione botanica o agroalimentare? Io la lascio fare: – Secondo me potrebbe essere reato ambientale estirpare rami di frutta esotica. In Australia taglierebbero le mani a chiunque cercasse di introdurre datteri alieni nella biosfera australe. Kirsten era fortemente tentata. Aveva assunto la ridicola espressio64


ne di chi ha una irrefrenabile acquolina pregustandosi il dolciastro del dattero maturo, quando Karl mi distoglie completamente dal grande problema di contaminazione botanica che le trenta mogli del ciccione sudaticcio stavano per vedersi contestare. – Oggi sei un uomo fortunato, amico! – mi dice Karl. – Stavo spostando dei bagagli persi e da uno è caduto un regalino che voglio condividere con te. Dovete sapere che Karl è probabilmente l’essere umano che meglio si sa muovere nelle aree di parcheggio degli aerei. Intendo dire che lui controlla tutto e, non si sa come, tutto passa attraverso lui. Se c’è una moneta da cinque centesimi in pista non si sa come, quella moneta prima o poi gli capita in tasca. Se qualcuno perde un cellulare prima o poi lui ha un nuovo cellulare. Ehi, non voglio che pensiate che lui sia uno di quei topi di fogna accattoni che aprono i bagagli e rubano. Proprio no! Lui non metterebbe mai a rischio il suo agiato lavoro per frugare nella biancheria sporca degli altri. Direi invece che se qualcuno si perde qualche cosa o se un passeggero cerca di far entrare in aereo qualcosa che non potrebbe poi reclamare o denunciare, in quanto impropria o non consentita, Karl se la prende nel rispetto della regola che governa il suo mondo: “Oggetto trovato è oggetto guadagnato”. Mi dice che stamattina ha trovato una cosina deliziosa che sembra fatta apposta per uno come me. Intanto Kirsten continua a parlarmi ma il mio livello di interesse nei suoi confronti è ridotto a nulla. Ascolto Karl e annuisco a Kirsten, giusto per tenerla buona. Karl mi fornisce la mappa del tesoro: – Vai in bagno appena il turno delle pulizie finisce. Vai nella zona che pulisce “Caffelatte sbagliato” e fruga dietro il termosifone. Lì trovi il tesoro. Il mio amico Karl è un genio. Tutti sanno che i bagni a Francoforte sono tirati a lucido, praticamente sterilizzati, ma con una sola eccezione: “Caffelatte macchiato” Una delle squadre di pulizia è formata da una collega percussionista, una negretta tipo corpicino bello nervoso e testolina vivace, acuta


e intrigante, una tipa che magari la noti a fatica, ma se la noti provi a portartela a letto alla prima occasione che Dio ti butta addosso, e un mulatto che deve avere preso troppe sostanze, tante da fargli svaporare il cervello da nero, trapiantandogli quello di Goebbels. Questo tipo parla come se fosse un kapò nazista, riempendo di improperi la collega nera, trattandola come una schiavetta e, soprattutto, dimenticandosi che anche lui è della stessa risma; magari più chiara ma pur sempre quella massa cromosomica che lui detesta. Un nero che si comporta come un bianco razzista non lo avevo mai visto: come se latte e caffè si fossero mischiati in modo follemente sbagliato fra di loro producendo una schiuma caustica impazzita. Uno che farebbe impallidire addirittura Michael Jackson per quanto concerne la visione di se stesso. Come se lo spirito di un generale della Gestapo si fosse impossessato del corpo sbagliato! Io e Karl, per questo, lo abbiamo soprannominato “Caffelatte sbagliato”. Questo bell’imbusto svalvolato è anche zeppo di malattie mentali che gli rendono la testa come un crogiolo di merda fritta. Pensate che gira con la mascherina per l’aeroporto e indossa guanti. Lo fa per non beccarsi virus o batteri durante il suo lavoro di pulizia e, per evitare qualsiasi tipo di contagio, non fa assolutamente nulla. Esatto, passa nei bagni, li osserva, tira parole alla collega e, quando lei ha finito di pulire la sua porzione di latrine e vespasiani, lui esce e se ne va, lasciando la sua area di cesso esattamente come l’ha trovata. Uno stronzo fatto e cagato che, però, permette a Karl e a me di scambiarci regalini di tanto in tanto, approfittando delle mancanze di “Caffelatte sbagliato”.

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Emre Kartal Ho finito la Coca Cola già da un po’, è tempo di alzarmi dal tavolo e lasciare il bar. Non voglio che nessuno mi noti, quindi devo cambiare postazione ogni venti minuti, mezz’ora al massimo: anche questa è una teoria di Hasan. Percorro uno dei lunghi corridoi dell’aeroporto e vado in una sala d’aspetto diversa da quella in cui ero prima. Vedo una fila mezza vuota e mi siedo. Senza farlo apposta, mi abbasso bruscamente verso il seggiolino, così finisco per crollarci sopra, tanto che la ragazza seduta poco più in là si sveglia di soprassalto. Doveva dormire molto profondamente, visto che si guarda intorno stropicciando gli occhi e cercando di mettere a fuoco, per capire dove si trova. Chiedo scusa, accompagnando le parole con un gesto della mano, ma lei è ancora intorpidita dal sonno. Distacca il braccio dal corpo e ricambia il mio gesto. Noto che il braccio è veramente molto magro e la mano addirittura scheletrica. Ha dita lunghe e nervose. Eppure a giudicare dal viso sembra molto giovane, tra i diciotto e i venti, direi. Ed è piena di efelidi. Sembrerebbe sul punto di rimettersi a dormire, ma c’è qualcosa di strano che mi attrae in lei. Non intendo sessualmente, dico proprio come se ci conoscessimo. – Chiedo scusa. Non volevo svegliarti. Mi sono seduto male. Lei non parla e manco mi guarda in faccia. Mi fa solo un cenno con la mano, come a dire “Lascia stare”, voltando il viso dalla parte opposta. – Va tutto bene? – le chiedo sinceramente preoccupato. Lei si gira verso di me e questa volta mi guarda veramente in faccia. Mi studia, attraverso l’espressione accigliata. Poi si rigira dall’altra parte. Insomma, non ci vuole un genio per capire che non vuole essere disturbata ulteriormente. 67


Mi rimetto le cuffie e torno ad ascoltarmi la musica. Adesso viene la parte più difficile: devo passare il metal detector senza che mi aprano lo zaino. Dentro è tutto smontato e metodicamente separato, teoricamente non c’è niente che dovrebbe far insospettire il tizio dei raggi X. Le uniche parti in metallo nello zaino sono i due trucks, ma li ho messi uno sopra l'altro appoggiati al dorso; sembrano il sostegno rigido dello zaino, di quelli che ti fanno tenere la schiena dritta. Il resto non dovrebbe destare sospetti. Scelgo con cura la fila. Mi metto in coda dove c’è un uomo sulla cinquantina. L’importante è non andare dove c’è una donna. Loro sono le più sospettose cagacazzo, specie se sono giovani. Uomo, meno problemi. Se poi ha più di vent’anni di onorata carriera alle spalle, più facile che guardi lo scanner a raggi X con occhio annoiato e distratto. Questo qui, capelli bianchi, baffo fluente avrà l’età di mio nonno, cazzo. Manco nota che il mio zaino trolley ha quattro ruote anziché due. Faccio il tranquillo e sorrido senza esagerare al suo collega del body scanner. Il cuore mi sta andando a mille. Se al posto del body scanner ci fosse un misuratore di pressione, mi sgamerebbero al volo. Con la coda dell’occhio osservo il baffone. Sta sbadigliando. Fantastico. Mentre riprendo lo zaino dissimulando tranquillità, vedo poco più in là lo sceriffo col codino, incrociato prima al bar. Maledetti servi del potere. Vi faccio fare una figura di merda in mondovisione. Cammino per una decina di metri ancora in apnea e poi comincio buttare fuori il fiato per tranquillizzarmi e regolarizzare il battito. Easy, man. Easy. Faccio un giro al duty-free, nel tentativo di svagarmi un pochetto. Certo che ce ne sta di roba inutile, qua. Ma chi se la compra tutta 'sta roba? Prendo una barretta di cioccolata con le nocciole, la mia preferita. Me la mangio per ingannare l'attesa, poi mi vado a sedere per la centesima volta. Ho il mio culo stampato sulla metà dei seggiolini di questo aeroporto, ormai. Finalmente chiamano il mio volo, quindi mi alzo e vado verso il 68


gate senza fretta. L’importante è essere nel primo gruppo di gente sul pulmino che porta all’aereo. L’ho già studiato un paio di volte questo volo: sono venuto a osservare bene le procedure d’imbarco della tratta Iberia Francoforte-Alicante sia mercoledì scorso, che lunedì mattina. Mi sono messo alla vetrata del piano superiore e ho contato quanta gente saliva sul primo pulmino e quanta sul secondo. È un aereo di quelli piccoli, da cento posti, quindi in linea di massima fanno passare una prima tranche da cinquanta persone, poi le restanti. Oggi c’è più gente di quanto pensassi, il che mi tranquillizza perché sarà più facile far perdere le mie tracce, anche se mi sarà più difficile essere tra i primi cinquanta. Con finta rilassatezza allungo leggermente il passo. Quando passi il gate sei a posto, perché le hostess ti hanno registrato, quindi per loro risulti imbarcato. Quelle sull’aereo invece controllano solo i biglietti, quindi non sanno se manca qualcuno. Quello è il mio spazio, quando un attimo ci sei, ma un attimo dopo non ci sei più. Ti considerano già ad Alicante o in qualsiasi altro aeroporto in cui tu sia diretto. Lì sarà il momento in cui dovrò essere credibile. Con atteggiamento indifferente, mentre cammino, tiro fuori dallo zaino il sacchetto con dentro il giubbotto catarifrangente, uguale a quello che indossano gli addetti ai bagagli, e me lo metto nella tasca posteriore dei pantaloni.

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Helmut Graf La pausa sigaretta è un momento assolutamente sacro, come, se non più, di caffè e pipì. Serve a rilassarsi, a sentirsi onnipotenti per cinque minuti, ad avere meno paura, in particolare degli aerei, a reggere il ritmo asfissiante di un aeroporto e di tutti quei voli. Ma sono cose che ogni fumatore conosce bene. La sigaretta deve essere un momento, per la sua brevità, di pace totale. Personalmente ho scelto proprio per questo un posto dove nessun altro fumi: l'esterno dell'aeroporto, zona taxi, per la precisione. Ecco, lì a parte i turisti in transito, non c'è nessuno. Già, perché da buon fumatore non sopporto quelli che ti fumano in faccia. Li pesterei, quelli lì. Ho fatto più volte il giro di tutte le sigarette esistenti: lunghe, corte, con filtro, senza filtro, nazionali, americane, di contrabbando, alla menta, con più gradi di concentrazione di nicotina, con più o meno condensato. Sono un esperto su effetti e modalità. Le tirate devono essere lunghe e profonde, in modo da indurre una respirazione totale e un buon stato di serenità. Mai fumare quando si è troppo giù o troppo su di morale, perché - almeno così mi hanno detto - la sigaretta amplifica lo stato d'animo di partenza. Occorre allora iniziare a fumare in un discreto stato di equilibrio psicofisico. Per non parlare poi delle fotografie deterrenti che si sono messi in testa di stampare sui pacchetti. A me fanno fumare di più. Perché, mi dico, se devo morire, e in genere si muore sempre, così, tanto vale fumare. Per questo ultimamente sono stato costretto a non comprare più sigarette e andare di conseguenza a scrocco. Vuol dire che le chiedi agli altri. Tipo stamattina, mi è capitato che volevo fumare di brutto, allora mi avvicino a una ragazza. Stava dormendo sulle poltroncine. Avete presente le poltroncine per aspettare gli aerei. Proprio lì. Poverina, sembrava infreddolita e stanca. Io mi avvicino e studio la situazione. Come svegliarla. Penso che potrei toccarle una gamba. Non funziona. Allora studio un ottimo 70


schiarimento della voce. Questo funziona, ma lei non ha una buona reazione, anzi, proprio per niente. Si gira di scatto, io le chiedo una sigaretta, lei mi guarda, mi manda solo mentalmente a farmi un giro, ma lo sguardo non lascia dubbi: niente sigaretta. Non se ne parla. Ci riprovo con una signora all'imbarco. Stavolta le spiego perché devo proprio fumare. Che è passata un'ora dall'ultima, le dico, quindi devo fumare. Sa, rincaro, per motivi di salute. Lei mi guarda, sorride. Allora insisto, mi hanno spiegato che fa bene all'amigdala, in particolare nei disturbi ossessivi compulsivi da attacchi di panico. E io soffro di disturbi ossessivi compulsivi da attacchi di panico. Chè una light va bene. Certo, non come una da sei-sette di nicotina, ma va comunque bene. Lei mi sorride ancora, poi però dice che le dispiace per me, ma lei non fuma. Anche questa volta niente. Terzo tentativo. Un uomo vestito tutto di nero, che a vederlo dal colore dei vestiti porta pure un po' male. In generale incute sicuramente timore. Ma io ho proprio bisogno della sigaretta delle undici, e mi sta venendo anche l'ansia, perché sono già le undici e cinque e di sigarette niente. Questa è l'ultima, mi dico, poi le compro. Lui però sembra più disponibile: sì, sigaretta, finalmente. Mi sono salvato.

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Rodrigo James Franz Birkenstock “Caffelatte sbagliato” e la collega sono usciti dal bagno da qualche minuto e io vado verso il misterioso tesoro che Karl mi ha lasciato, avvertendo Kirsten con un eloquente gesto che le fa intendere che soggiornerò per qualche minuto nella toilette. Entro trattenendo l’impulso di correre verso il termosifone, dissimulando un’espressione di leggerezza mista a noia routinaria; quel tanto che basta per farmi mantenere un certo contegno nonostante lo straripante senso di curiosità che Karl mi ha scatenato. Appollaiato di fronte a un orinatoio sospeso c’è “l’uomo che guarda gli aerei”. Devono essere le dieci, orario decisamente infelice per inoltrarsi in quella toilette. Quel tipo, oltre ad avere perso il senno dopo quello che l’ex pilota della Condor mi ha raccontato, deve anche avere acquisito strane abitudini di socializzazione in luoghi decisamente inappropriati, intavolando discorsi inutili che banalizzerebbero persino un tragitto in ascensore, tipo: “Hai visto che tempo danno per domani? Sarà vero o come al solito sbagliano?”, lui ti dice, e nel frattempo tu sei lì a brandire la tua verga zampillante pensando che quel tizio stia entrando nella tua intimità per il puro piacere di chiacchierare con te in un momento dove non puoi proprio scappare. Magari quello della Condor mi ha detto un mare di cazzate che si dicono da ubriaco; magari questo è un puro pazzo che pensa di essere un intrattenitore da toilette. Sta di fatto che faccio finta di non vederlo, nonostante lui qualche occhiata me la lanci, e tiro dritto verso lo scrigno del tesoro. Un pacchettino gommoso, rotondo, della consistenza di plastilina o gomma pane è appiccata con il biadesivo nel sozzume dell’interstizio, fra il termosifone e il muro. Lo prendo e, celandolo nel pugno destro chiuso, entro nel primo bagno con latrina, chiudendomi dentro. 72


Mi siedo sul copri water e il tesoro si materializza sul mio palmo: un ovulo di una polvere che ti parla di vegetazione colombiana e sesso come se non ci fosse un domani. Karl sa farmi sorridere. Karl sa essere il mio dispenser di sballo e felicità senza freni. Se solo l’avessi avuta ieri sera quelle tettine strizzate mi sarebbero entrate direttamente in camera da letto seguendo la mia polvere magica. Un odore di merda e piscio stantio mi invade le narici. Capisco di essere in una della latrine che “Caffelatte sbagliato” deve lavare. Stronzo fancazzista!, penso, e per coprire quella puzza mi sniffo due righe tirandomele dritte al cervello senza passare dal via. Scossa, lingua, richiamo, scossa… eccomi mondo!

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Sim Choi – Signorina, mi scusi, mi guarda la borsa? Sa, devo andare un attimo in bagno – Che carina questa ragazza, ha proprio un sorriso dolce. – Grazie, grazie, sa, mi ricorda tanto mia nipote lei, ha un bellissimo sorriso, complimenti. – Mi avvio a fatica, forse è il momento di prendere l’antidolorifico. Mi lascio prendere da un momento di sconforto mentre attraverso un fiume di gente per raggiungere i bagni. Diventa sempre più difficile, mi verrebbe voglia di urlare dalla frustrazione, la cosa che mi demoralizza di più è come tutti quelli che mi circondano sembrano non aver problemi a muoversi, a correre, carichi come muli. Per me ogni passo è faticoso, avessi almeno qualcuno a cui appoggiarmi. Sento il malumore salirmi dal lato sinistro dello stomaco, fino alla gola. Forse ha ragione mio fratello a dirmi che sono diventato di umore instabile, ma non capisce che non sono io, è il mio stomaco. Se dallo stomaco mi sale il malumore non c’è nulla che possa fare per contrastarlo, devo viverlo per forza. Inizio a pensare di essere fuori posto, che ci fa un settantenne da solo in aeroporto? Sarebbe semplice oltrepassare le porte scorrevoli e tornare a casa. Il biglietto è rimborsabile, basterebbe ripercorrere a ritroso il percorso di stamattina, facilissimo. Potrei prendere un biglietto a Jade per qualche posto caldo. Sarebbe bellissimo vedere la sua reazione, mio fratello non la vizia abbastanza. Chissà quanto è arrabbiata ora con me. Il bagno è sporco, ma devo sedermi, devo riposare un attimo, poi starò meglio. Con una salviettina umidificata al profumo di limone, che mi nausea nell’istante in cui la sfilo dall’involucro di metallo, pulisco l’asse del water. Mi siedo, anche solo per fare pipi, è un’abitudine che devo a Jade, quando viveva con me non sopportava di trovare la tavoletta sporca, così l’ho accontentata. Sto seduto un po’. Mentre mi lavo le mani mi guardo allo specchio ed è come se vedessi qualcun 74


altro, non riconosco le rughe, i lineamenti. Ho sempre avuto questa sensazione quando mi trovo a guardarmi negli occhi, ma prima durava solo qualche secondo, ora non passa mai. Ecco, anche questo avrei dovuto dire a Jade per farmi capire. L’umore è un po’ migliorato, lo stomaco si è calmato, ho preso una decisione, esco dal bagno, recupero la valigia dalla ragazza e torno a casa. Questo aeroporto è un labirinto, mi chiedo come sia possibile che trovi così difficile ripercorrere la strada a ritroso e tornare al mio posto in coda. Passo davanti a una quantità infinita di vetrine. Sono quasi certo di non aver visto un negozio della Birkenstock prima, però è interessante, poteri prendermi delle scarpe comode, magari il ginocchio ne giova. Potrei comprarle e cambiarmele subito, lasciando qui queste scarpacce vecchie che mi ritrovo, chissà perché poi ho scelto queste per il viaggio. Certo però che per uno che vuole riscoprire le sue origini coreane a Seoul comprarsi un paio di scarpe così tedesche è paradossale. Mi scappa un sorriso, come sempre quando penso a qualcosa che ha a che fare con l’assurdo, è sempre stato uno dei miei temi preferiti, forse perché me lo porto addosso. Almeno mi distraggo dal dolore. Mi ricordo che al bagno ho deciso di non partire, giusto, non mi servono a nulla delle scarpe migliori, tanto ora torno a casa e le cambio, devo solo resistere al viaggio in autobus. E prima ancora trovare la coda per il controllo bagagli e recuperare la valigia. – Grazie signorina, no no le altre valige le ho già imbarcate, questa me la porto in cabina. Ma non le avevo lasciato anche il mio cappello? – Lei mi sorride e scuote il capo, la testa sembra troppo grande rispetto al corpo, le dà un’aria precaria. Sembra una ragazza dolce, non credo sia possibile che mi abbia rubato il cappello, deve avermelo rubato il ragazzo al bar. Chissà perché un ragazzo dovrebbe rubare un cappello a un vecchio. Mi sta per riassalire il malumore, ma questa volta cerco di non dargli ascolto. Se al mondo c’è gente particolare e interessante, ci sono anche degli strani ladri di cappelli. Decido di farmene una ragione, magari per distrarmi faccio due chiacchiere con questa ragazza: 75


– Sto partendo per un lungo viaggio, sa, vado in Corea, l’ultima volta ci sono stato quando avevo tre anni e da allora non sono più tornato. – Mi fermo, mi chiedo perché ho detto così se in realtà ho deciso di non andarci più, però è troppo complicato da spiegare a un’estranea, non ne vale la pena. Tiro fuori dalla borsa la bottiglietta d’acqua e il blister di antinfiammatori, ne prendo due, l’acqua ormai è calda. Guardo la ragazza, gli occhi grandi, caldi, a metà tra il verde e il nocciola. Non avrei mai lasciato una ragazza così bella e dolce viaggiare da sola, qui c’è qualche ragazzo che ha commesso un grave errore. Ma io ho un debole per le lentiggini. È così magra, chissà qual è la sua storia: – Lei, signorina, come mai è in coda? Dove va? Tutta sola? Io vado a cercare me stesso a Seoul, sa che non parlo il coreano? La ragazza comincia a raccontarsi, in un misto molto buffo tra inglese, credo, e un'altra lingua, forse italiano. Faccio fatica a capire, ovviamente non mi permetto di farglielo notare, continuo ad ascoltare. Evidentemente non sono l’unico a cui piace parlare della propria storia. Non so bene cosa ci trovi una giovane così graziosa e piena di vita in un vecchio, però si confida, e mi chiede consiglio. Ormai nella mia famiglia nessuno chiede la mia opinione, figuriamoci il mio consiglio. Anche lei sembra così fragile. Ma non per questo non può seguire il suo istinto e andare. Deve partire. Chissà dove. Chissà da chi. Mentre avanzo lentamente, tra una chiacchiera e l’altra con questa dolce ragazza, mi chiedo da quanto tempo sono qui in coda, non è stata una mattinata noiosa, però è stata una mattinata lenta, nemmeno mi ricordo, quando sono entrato dalle porte scorrevoli dell’aeroporto, che persona ero. Un passo alla volta ci avviciniamo a un addetto alla sicurezza che al momento sta scrutando una custodia di violino. Come mi sarebbe piaciuto fare l’artista, avere a che fare nella vita con la bellezza e il superfluo. E non con sempre gli stessi piatti e i soliti clienti. Sento una spallata, mi guardo intorno, ma invece di vedere il cafone che quasi mi faceva cadere vedo la follia che si impossessa di tutti. 76


Allegra Sarti Una bella donna, bionda ed elegante, mi passa davanti con fare deciso e mi riporta alla realtà. Che idiota che sono! Come sempre mi sono fatta distrarre da mille pensieri e non mi sono accorta del tempo che è passato. Controllo l'ora: si sta finalmente avvicinando il momento della partenza. Sarà il caso di iniziare a mettersi in fila per i controlli. Ormai sono qui, indietro non si torna. Sono sempre più convinta che partire sia la cosa giusta, devo farlo. Ho prenotato i voli, sono arrivata fino a Francoforte e ho passato una notte intera su delle poltroncine scomodissime spaccandomi la schiena. Adesso si va, non posso ripensarci. Ma allora che diavolo è questa strana sensazione che percepisco alla base del collo? È tipo un formicolio. In che film lo dicevano? Ah si, ne Il sesto senso. Solo che io, diversamente dal bambino protagonista, non vedo gente morta, ma solo strani individui che camminano come fantasmi alla disperata ricerca di qualcosa. E forse, a pensarci bene, è pure peggio. Se riuscissi a comunicare con l'aldilà potrei chiedere aiuto a mio nonno. Il mio adorato nonno Mauro che, prima di andarsene, mi ha affidato la sua favolosa gattona nera che adesso mi tiene un sacco di compagnia. Le fusa che emette la Bigia, come la chiamava lui da buon milanese, sono uno dei suoni più dolci che abbia mai udito, mi rilassano e mi riappacificano con il mondo. Scaccio subito tutti i pensieri, prima che prendano di nuovo il sopravvento, afferro il mio zaino e mi dirigo verso la fila che si sta creando velocemente al metal detector. Devono avere tutti una gran voglia di partire, compreso questo buffo signore dai tratti orientali che cammina poco più avanti di me. È luglio, fa un caldo esagerato eppure indossa un cappello. È un tipo proprio strano! Chissà dove sarà diretto? Sarei troppo curiosa di chiederglielo ma non so nemmeno che lingua parla. Alla fine è lui che si volta verso di me per domandarmi 77


in tedesco - di guardargli cortesemente la valigia mentre va in bagno. O almeno credo mi abbia chiesto questo. – Va bene, non si preoccupi – rispondo io, in inglese, con una certa sicurezza. Mentre lo vedo allontanarsi in direzione della toilette penso che sia davvero gentile e, non so per quale motivo, mi fa una grande tenerezza. Rimango ferma nello stesso punto dove ci siano incontrati in attesa che l'uomo ritorni. Ci sta mettendo un'infinita. Non vorrei che si fosse sentito male, credo stesse prendendo qualche medicina prima di andare in bagno. O magari è solo un po' lento nei movimenti, sembra avere una certa età. La gente continua ad accalcarsi ai controlli e così decido di avvicinarmi un po' senza perdere di vista il punto da cui dovrebbe sbucare l'uomo. Afferro la valigia del nonnino per portarla con me e mi accorgo che è davvero leggera. Il suo non deve essere un viaggio molto lungo anche se, a dirla tutta, anch'io ho solo uno zaino. E il mio viaggio, in teoria, dovrebbe durare parecchio tempo. Ma ho con me tutto quello che mi serve e magari anche per il buffo signore è così. Finalmente lo vedo spuntare dalla folla e guardarsi intorno un po' spaesato. Capisco che mi sta cercando e così agito le braccia per farmi notare. L'uomo mi vede e si dirige verso di me con passo incerto. – È leggera la sua valigia. Devo aiutarla con le altre? – chiedo, curiosa. Il nonnino mi guarda scuotendo la testa, dicendomi qualcosa che non comprendo. Senza che io gli faccia altre domande mi racconta qualcosa. Capisco la parola “Corea” e “Drei” - tre, in tedesco. Lo osservo meglio e non posso fare a meno di pensare che assomigli al Maestro Miyagi del film Karate Kid. Magari fosse lui, così gli chiederei di spazzare via con quattro colpi di karate tutta la gente ferma al metal detector. L'uomo continua il suo monologo. A un certo punto lo sguardo del nonnino sembra perdersi nel vuoto e ho il dubbio che si sia rifugiato nel suo mondo e non sia più lì con me. 78


– Sono diretta alle Hawaii e non vedo l'ora di arrivare a destinazione – sbotto con un entusiasmo anche per me inaspettato. – Sto cercando di trovare delle risposte ad alcune domande che mi girano per la testa – continuo sincera. – E ho quindi bisogno di stare sola e di allontanarmi da tutto. L'uomo mi guarda come se capisse perfettamente il significato più profondo delle mie parole e mi sembra persino che lo condivida, ma deve essere la solita idiozia che mi passa in testa poiché gli ho parlato in inglese con qualche locuzione italiana. Mi viene voglia di fargli la stessa domanda che ho fatto a mia nonna, come se cercassi anche la sua benedizione: – Secondo lei faccio bene a partire? In fondo andarsene non significa scappare. Non è così? L'uomo fa sì con la testa. Sorride. Sento il desiderio di abbracciarlo, ma mi trattengo perché non so come potrebbe reagire. Il nonnino mi sorride ancora e mi consegna una busta di plastica verde: – Ticket – mi dice, porgendomi la busta. – Ich gehe auch. A un tratto dalla postazione dei controlli arriva un forte trambusto, un boato assordante e un urlo che mi paralizza. La gente comincia a spingere spaventata, cercando di fuggire in tutte le direzioni ma io non riesco più a muovermi. Sto quasi per cadere per terra ma, non so come, riesco miracolosamente a stare in piedi. Non capisco più nulla. Mi volto e il nonnino è sparito. Eppure fino a un secondo fa era qui accanto a me. Sono rimasta sola. Ho paura, vorrei scappare ma le gambe si rifiutano di muoversi, sono come inchiodate al pavimento. Fisso le mie mani tremanti e mi accorgo di avere ancora la busta che mi ha consegnato il signore. Forse per puro spirito di sopravvivenza riesco a concentrarmi sul contenuto della busta. Il rumore nelle mie orecchie a poco a poco va scemando ed è come se percepissi tutto ovattato. Dentro la busta c'è il suo biglietto di volo.

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Emre Kartal È il mio turno: porgo il biglietto alla hostess insieme al documento, lei controlla, strappa e mi ritorna ciò che è mio, con un tanto smagliante quanto finto “Buon viaggio”. Scendo la rampa e mi appresto a salire sul pulmino insieme agli altri viaggiatori. Sono il dodicesimo. Trentasei, trentasette, trentotto... inizio a cercare vistosamente qualcosa nelle tasche, facendo la faccia disorientata. Quarantuno, quarantadue... ma dove cavolo l’ho messo? Ma porca... Al quarantacinquesimo passeggero che sale, mi precipito giù dal pulmino dichiarando ad alta voce: – Scusate ma non trovo più il telefono –. Guardo verso l'autista: – Andate pure, salgo sul prossimo. Il tizio prende la radio e avvisa la hostess all’ingresso che un passeggero sta rientrando. Cazzo, come avevamo fatto a non pensarci? Quello stronzo del guidatore del pulmino ha una radio. Devo sbrigarmi. Rientro nella rampa di corsa, ma mi fermo subito. Mentre scorgo il pulmino dirigersi verso l'aereo, mi levo lo zaino, mi giro il cappellino in modo che la visiera stia sul davanti, tiro fuori il giubbotto catarifrangente dalla tasca e lo indosso. Esco di nuovo all'aria aperta e porto lo zaino nella mano destra, tenendolo per la maniglia, con il braccio disteso lungo il corpo, come se fosse un bagaglio dimenticato da qualcuno. Sono un perfetto cazzo di facchino, adesso. Non ho molto tempo prima che la tizia si accorga che non c’è nessun passeggero che sta rientrando. Cammino velocemente rasente i muri e vado verso il punto stabilito, cercando un posto riparato dove fermarmi per montare i pezzi. Ho l'adrenalina che mi esplode dentro. Più avanti vedo una rientranza, che crea un angolo abbastanza buio, con davanti una macchina porta bagagli, aumento il passo e la 80


raggiungo in un lampo. Apro lo zaino, e tiro fuori le cianfrusaglie che avevo messo lì solo per simulare un bagaglio da viaggio - una vecchia felpa, due magliette che non uso più, due libri da buttare - e li appoggio dentro uno dei carrelli del trasporto bagagli. Sfilo i due trucks e la tavola dallo schienale dello zaino, poi lo giro e smonto le ruote che lo facevano sembrare un trolley. Dalla tasca anteriore prendo le viti a testa piatta e i dadi a farfalla in plastica super rigida che ho comprato su Amazon da un fornitore americano. Prendo il mio portachiavi, che è anche una chiave da 8, e monto le ruote sui trucks, poi prendo dadi e viti a testa piatta e monto il tutto sulla tavola. In queste operazioni sono velocissimo, d’altronde le ho già provate decine di volte e neanche il nervosismo riesce a impedire alle mani di fare quello che sanno a memoria. Potrei farlo anche a occhi chiusi. In due minuti lo skate è pronto. Mi fisso bene il cappellino in testa e mi lego la bandana sul naso, lasciando libera la bocca. Ne ho comprata una di quelle nere tamarre con lo scheletro stampato, apposta per oggi. Tiro fuori la GoPro e la tengo stretta tra i denti, chè adesso ho bisogno di avere entrambe le mani libere. Mi metto lo zaino sulle spalle e ricomincio a camminare rasente al muro, verso il punto in cui so che si trova Hasan con la telecamera, pronto a riprendere il tutto, qualche metro sopra la mia testa. Sarà il prank più figo del mondo. Nei prossimi giorni sarà il video più visto in assoluto. Lo mettiamo su Youtube: “Best skateboard prank ever”. Faremo almeno un milione di visualizzazioni, sfido chiunque a fare meglio di noi. Sono ormai in prossimità del punto prestabilito, adesso devo solo trovare un carrello bagagli che parta da qua vicino. Controllo l'ora: sono quasi le 12.00, perfetto. Devo sbrigarmi perché probabilmente mi stanno cercando. Immagino la faccia di Hasan che ride mentre sente chiamare il mio nome all'altoparlante. Stai riprendendo, vero, bro? Non ti deluderò, te lo assicuro. Se solo partisse uno di questi cazzo di carrelli bagagli. Alcuni sono già pieni, sto solo aspettando il momento giusto. Eccolo! 81


Un tizio bello ciccione, con aria paciosa, si avvicina al posto di guida. Si accende una sigaretta, il che mi fa guadagnare qualche secondo per raggiungere la postazione camminando basso senza farmi notare. Sono macchine elettriche, quindi non è che li mettono in moto; quando schiaccia il pedale, parte. Mi accuccio dietro all'ultimo carrello e mi aggrappo con entrambe le mani, con la GoPro ben piantata in bocca. Giusto il tempo di accenderla e si parte: un paio di scossoni e inizio a prendere velocità, mi sudano le mani, ma la presa è salda. Il ciccio non si è accorto di nulla. La vettura si avvicina all'aereo per il carico bagagli. Per adesso ancora nessuno sembra avermi notato. Appena il guidatore inizia la svolta, lascio la presa e mi lancio sulla pista. In un istante mi vedono tutti! Prendo la GoPro con la mano destra e la porto vicino ai piedi, con la sinistra mi calo la bandana sul volto, lasciandomi scoperti solo gli occhi. E volo via. Sto ben accucciato per fendere meglio l'aria. Inizio a sentire grida confuse alle mie spalle, ma il vento della pista attutisce tutti i suoni. Nonostante il manto della pista sia assai ruvido, lo skate sta andando alla grande. Ho messo le gomme morbide apposta, per non perdere velocità. Taglio la prima pista in diagonale, mentre sento aumentare il rumore dietro di me. Mi volto e vedo gente che sbraita e mi corre appresso, ma io sono più rapido di loro. Si è messo a inseguirmi pure il ciccio, che ha mollato a metà il carico bagagli ed è risalito sulla sua macchinetta. Lo vedo sbucare da sotto la cabina di comando dell'aereo e puntare verso di me. Lo skate perde leggermente velocità, ma non è ancora il momento di mettere giù il piede per spingere, rischio di perdere l'equilibrio. Taglio su uno dei raccordi tra le piste e l'aderenza dell'asfalto in questo punto mi frena parecchio. Appena arrivo sulla seconda pista di decollo, do cinque forti spinte col piede destro. Mi abbasso per essere più veloce, sempre con la GoPro in mano per fare le riprese dal basso. Taglio anche la seconda pista in diagonale, procedendo verso i 82


terminal delle compagnie di spedizione. Il vento è molto forte e non sento nulla. Un silenzio quasi innaturale. Mi volto e dietro di me non c'è più nessuno. Non vedo nessuno. Com'è possibile? Mentre lo skate rallenta, mi alzo in posizione eretta e apro un po' di più gli occhi, che fino a quel momento avevo tenuto stretti per non far entrare troppa aria. Vedo in lontananza delle luci rosse lampeggianti, in diversi angoli dell'aeroporto. Le piste sono deserte. A poco a poco inizia a far breccia nelle mie orecchie il suono di una sirena. Dev'essere successo qualcosa all'interno. No, cazzo: non dirmi che Hasan non ha ripreso nulla...

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Rodrigo James Franz Birkenstock Altri arabi al metal detector. Vorrei avvicinarmi a uno di loro e gridargli: “Ma quanti siete, perché viaggiate sempre con trenta mogli e seicento bambini al seguito! E poi tutti 'sti passeggini e i datteri!”, ma sto bene e mi limito a guardare la testa di Kirsten che, non so come mai, forse per la coca, in questo momento me la farei, prendendomi addirittura il rischio che lei si possa fare i fatti miei, magari rubandomi il cellulare per leggere tutti i messaggi. Saranno due ore che Karl è sparito e la polvere magica che mi ha regalato è la più gratificante esperienza che si possa donare a un amico. Kirsten mi parla. Infilo le mani in tasca per nascondere l’erezione che la sua voce mi provoca nell’inarginabile fantasia di farmela da dietro con 'ste cavolo di arabe velate che ci guardano inneggiando alla Jihad per la nostra blasfemia. Sul monitor valige, gradazioni di colori, laptop, opacità e lucentezze più o meno sospette. Kirsten che guarda, giudica, mi interpella, scruta, ripassa, indica qualche cosa sul monito. Io annuisco e le sorrido. – E allora, trovato il tesoro giovane capitan Uncino? – Sììì – gli confermo sogghignando con un ringhio sibilante forse emesso a volume leggermente sopra le mie intenzioni. Giro lo sguardo verso la vetrata che dà sull’area di parcheggio, cercando l’amico per fargli almeno un gesto di ossequioso ringraziamento. Kirsten mi chiama per l’ennesimo confronto su una qualche opacità o cibo che le piace. Io mio avvicino ma non le do affatto retta, cercando Karl in lontananza. – E allora, ti è piaciuto il regalino? Espero sia di tuo gradimento. Com’è? Io non l’ho ancora provata! Scrutando l’esterno qualche cosa di strano attira la mia attenzione, 84


una specie di ombra che corre veloce fra gli aerei mi rapisce e, seguendola con lo sguardo, cerco di capire che cosa stia facendo. Cercando di contenere l’euforia chimica rispondo a Karl a voce altissima: – È una bomba, una vera bomba! – mentre Kirsten rimbrotta qualche cosa che giunge alle mie orecchie privo di senso, ma la sua espressione pare terrorizzata. – Cazzo, che cazzo succede! – mi strilla nelle orecchie Karl. – Fermati bastardo! Improvvisamente dietro l’ombra scura compare Karl alla guida di una motrice elettrica per spostare i bagagli, che insegue quello che sembra in tutto e per tutto un pazzo incappucciato che corre all’impazzata fra gli aerei. – Che cazzo succede! – gli grido. – Un terrorista? Che cazzo succede amico!?! Attorno a me sembra che il mondo abbia iniziato a turbinare come dentro l’uragano Katrina.

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Oliver Sack Oggi sono più del solito gli stranieri. Devo stare particolarmente attento. Posiziono il carrello vicino al metal detector. All'erta. Sento vibrazioni strane, come se i capricci della fortuna e della costanza volessero premiarmi. Musi gialli: in numero non preoccupante. Negri: pochi. Arabi: a decine. Uomini unti e con le facce equine in compagnia di torme di donne infagottate dentro burqa e veli utili a nascondere la loro bruttezza. Solo degli animali possono riuscire a infilare il pisello in quelle vagine che puzzano di cammello. E figli. Decine di potenziali terroristi. Torna a far finta di pulire l'atrio. Descrizione di nuovo dell'aeroporto. Se riuscissi a fermare un attentatore diventerei famoso, potrei dire in TV della mia battaglia morale per far tornare la Namibia tedesca, rivalutare il nome di mio padre. Qualcuno mi strattona per la manica. È una collega, la vecchia pakistana. Mi chiede di andare a prendere i rotoli di carta igienica in magazzino o qualcosa del genere. Ma che cazzo dice 'sta scema? – Impara il tedesco, scimmia, e vacci tu. Se ne va borbottando. Torno a concentrarmi sulle operazioni di controllo al metal detector. È uno scandalo che quelli della sicurezza usino lo stesso trattamento per bianchi e negroarabistani quando il buon senso suggerirebbe di formare due file separate, disinfettare gli stranieri al passaggio ai controlli. Fosse per me sopra il loro cercametalli metterei anche la scritta “Arbeit macht frei” e li condurrei su una pista isolata, li farei 86


salire sopra qualche aereo da trasporto e li gaserei per poi gettare i loro corpi nel mare. Pranzo a base di scimmia per i pesci. Ripopolazione della fauna marina. Le file avanzano lentamente. Tra un nutrito drappello di maomettani in ciabatte a ridosso del metal detector c'è una donna bionda. Tacchi alti, elegante. Un troione nazionale d'alto borgo. Porta la custodia di uno strumento musicale, probabilmente un violino. Dovrei dirle di stare attenta, che gli arabi sono ladri per natura. Mettono le mani nelle borsette come niente. – È una bomba, una vera bomba! – L'urlo esce dalla bocca del tipo alla sicurezza con gli occhiali da sole. – Che cazzo succede! Un terrorista? Che cazzo succede amico!?! Terrorista. Merda. Quale sarà? Gli arabi costernati guardano con fare imbambolato l'uomo in divisa. Attività motorie imprevedibili si sviluppano intorno a me. Panico. La bionda con il violino avanza verso il metal detector. Immagini fugaci di un film visto molti anni fa: un gangster che aperta la custodia del proprio strumento musicale imbraccia un mitragliatore e spara ad altri gangster seduti intorno a un tavolo da gioco in una bisca clandestina. Hai capito la troia? Non ci si può più fidare di nessuno. Amica degli arabi. Voltagabbana. Non sento sparare e non sento detonazioni. Ma so che è il mio momento. Corro e mi getto su di lei: – Ferma! – grido. – Ferma, puttana amica dei beduini! Le immobilizzo le braccia, cadiamo a terra e mi prendo una testata involontaria. Intorno a noi la gente scappa in preda al panico. Vedo dei poliziotti correre verso di me. Vedo la custodia del violino aperto. Merda... non posso crederci... Non è ancora giunta l'ora della gloria pare. Mi rialzo e mi unisco a dei turisti in fuga. Non posso fare altro. Prima o poi... prima o poi... Heil Hitler, figli di puttana! 87


Anne Schmidt Comunque è evidente che da quando non c’è più Hans ho ricominciato a notare una sacco di cose a cui prima non facevo caso, in realtà non saprei se posso considerarlo un avvenimento positivo, infatti mi colpiscono immediatamente una quantità incredibile di particolari nelle altre persone che tuttavia, nella quasi totalità dei casi, mi danno sui nervi. Certamente le persone che incontro casualmente per strada hanno sempre avuto gli stessi difetti ma io non notavo alcune caratteristiche e altre che notavo le consideravo normali se non addirittura positive. Per molto tempo ad Hans le cose sono andate parecchio bene, sembrava che qualunque cosa facesse fosse giusta e al momento giusto e io non mi sono dovuta occupare praticamente di nulla se non di cose totalmente inutili e prive di peso che mi avevano trasformata in una persona esattamente uguale a tutte quelle che ora mi fanno venire il nervoso. Invece adesso che mi sono ritrovata con un bel disastro da risolvere tra le mani noto come tutti siano incredibilmente indaffarati in una serie interminabile di cazzate. Ad esempio, ripensando alla signora con il chihuahua di poco fa, un tempo non avrei trovato nulla da ridire sul suo viaggio per portare il suo cane a un concorso di bellezza invece ora mi sembra una cosa quasi inconcepibile che si possa prendere una decisione del genere sia in sé sia pensando a quei poveri passeggeri dell’aereo che saranno stati molestati per tutto il viaggio. Al controllo bagagli sono presenti una ventina di postazioni, in tutte c’è una fila notevole e molte persone, d’altra parte come succede sempre in questo genere di situazioni, sono spazientite e insofferenti. Una tra le file spicca in modo particolare in quanto un nutrito gruppo di arabi, pochi uomini ma molte donne e bambini, sta facendo un baccano stratosferico acuendo l’insofferenza dei passeggeri nelle file accanto. Nella stessa fila al monitor del metal detector c’è un 88


altro personaggio quantomeno degno di nota, un signore sudamericano che pare essere lì per sbaglio, infatti non solo è evidente che non ha alcuna intenzione di lavorare, e fin qui potrebbe essere normale, ma è visibilmente ubriaco o drogato tanto che ci si potrebbe fare qualche domanda su dove stiano guardando i colleghi. Infine, per completare l’opera, si aggira nei paraggi anche un inserviente, presumibilmente un addetto alla pulizia dei bagni, che sembra stia facendo a gara con l’addetto al monitor a chi lavora di meno. Per essere più precisi l’inserviente, un uomo mulatto con una espressione concentrata e severa, non dà l’impressione che non stia facendo niente, anzi sembra estremamente attento e vigile, semplicemente sembra che stia facendo qualcosa di completamente diverso da quello che il vestiario lascerebbe intendere. Sembra che abbiano messo a punto la fila perfetta per me. La combinazione di un gruppo numeroso e rumoroso di arabi, certamente più appariscenti rispetto a me e più facilmente sospettabili, e l’addetto al monitor, che è riuscito nell’impresa di disturbare almeno una cinquantina di clienti in una volta sola urlando al telefono come un matto e rendendo manifesta a tutti la sua ubriachezza, dovrebbe togliermi ogni preoccupazione che qualcuno possa in qualche modo prendersi la briga di verificare effettivamente il mio bagaglio. Certamente essermi posizionata in questa coda ha anche i suoi punti deboli, non avevo considerato che probabilmente morirò di vecchiaia qui in piedi; in questa eventualità dovrei cominciare a pensare un bell’epitaffio e annotarmelo su un foglietto, mi è sempre piaciuta l’idea. Improvvisamente si sente una voce impastata ma possente, proveniente dall’addetto al monitor, urlare parlando al cellulare: – È una bomba, una vera bomba! – E successivamente, dopo una breve pausa, sempre la stessa voce, in sequenza – Che cazzo succede!? Un terrorista? Che cazzo succede amico!?! Un’ondata di panico generale assale l’aeroporto e tutti cominciano a urlare a propria volta correndo in giro come disperati cercando di scappare non si sa da cosa. 89


Lo sapevo, ero certa che qualcosa sarebbe andato storto, era tutto troppo bello per essere vero. Di sicuro non c’è nessun terrorista, solamente un ubriacone al controllo bagagli sommato a una mandria di arabi, che sortiscono lo stesso effetto di un vero allarme attentato. Non esiste che a causa di questo casino perda l’aereo, meglio che sgattaioli oltre e mi aggreghi a quelli che hanno già passato il controllo bagagli e si stanno avviando al gate. – Ferma, puttana amica dei beduini! – grida l’inserviente mulatto che da un po’ stava osservando la scena. – È lei la terrorista, sta cercando di andare verso gli aerei! Ha una bomba nella custodia del violino! L’inserviente corre come un matto e si lancia in un eroico placcaggio. La custodia del violino vola e sbattendo a terra si apre proiettando in aria un violino, volendo essere precisi uno Stradivari dal valore difficilmente calcolabile, che tornando al suolo si crepa profondamente. Sono fottuta, morta probabilmente. Non ci posso credere, tra tutte le preoccupazioni che mi erano venute riguardanti il valore del violino e la possibilità che qualcuno se ne accorgesse e cercasse di indagarne la provenienza alla fine quello che mi ha fregato è uno psicopatico mitomane che credeva di compiere un atto eroico fermando una terrorista. E ora mi ritrovo per terra circondata da un misto di poliziotti e soccorritori che non capiscono neanche cosa farne di me.

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Sim Choi Le persone cominciano a correre in ogni direzione, la custodia di violino viene lanciata a terra. La ragazza è scomparsa, le persone continuano a urtarmi e faccio fatica a rimanere in piedi, fortunatamente il ginocchio non mi fa più male. Una bella donna, quella che prima teneva il violino, ora è a terra accanto al metal detector, sopra di lei un ragazzo mulatto in una tuta blu. In tutta questa confusione mi sento perso, la fretta mi mette a disagio, probabilmente non è una cosa strana per un vecchio, mi confonde, ho bisogno dei miei tempi per abituarmi ai cambiamenti, per seguire il corso delle cose. Così non va bene. È come se la mia testa si staccasse dal corpo ed entrasse in uno stato ovattato, per proteggersi dall’esterno, ormai troppo caotico. La stessa sensazione di quella notte, quando la ragazza dagli occhi grandi e la maglietta rosa mi parlava, e io non capivo cosa mi dicesse. Quella volta era durato solo un secondo, subito era subentrata la coscienza del momento e la sensazione d’impotenza di non poterla rassicurare; il luogo, la sua voce e la necessità di agire, allora mi avevano riportato alla realtà. Ora è uguale, la testa si stacca e si isola, ma faccio più fatica a riportarla sul collo, a ricollegarla al corpo e al mondo. Mi sento perso. Finalmente, dopo minuti che sembrano ore, mi riprendo, tutto a un tratto mi ricordo perché sono qui, e torno in me, devo andare al gate e prendere un aereo. Mi rendo conto che in questa fila è ormai impossibile passare, troppo caos. Se voglio passare i controlli è meglio spostarsi in una fila accanto, mi guardo in giro e opto per una corsia quasi del tutto sgombra. Appoggio la valigia sul nastro, già stamattina prima di partire avevo avuto cura di togliermi catenina e orologio e di metterli in valigia, quindi passo direttamente sotto il metal detector. Nessuna interferenza. Nessun addetto a controllare. Ricontrollo il foglietto 91


giallo dove mi sono fatto scrivere le indicazioni, gate B44. Devo seguire i cartelli, vorrei chiedere a qualche ragazzo se sto andando nella direzione giusta ma sembrano andare tutti troppo in fretta per fermarsi ad aiutare un vecchio. In coda è più facile farsi dare ascolto, tutti cercano un modo per ammazzare il tempo. E allora magari una ragazza giovane, che di solito ti troverebbe noioso e ripetitivo, si appassiona alla storia di un vecchio, e ti ascolta davvero. Mi piacciono gli aeroporti, ci sono più possibilità di conoscere le persone, e tutti hanno l’occasione di essere interessanti. Guardo i cartelli, B41-B48 a sinistra, bene li ho trovati, un passo alla volta e dovrei arrivarci, sempre che la gente qui intorno non mi faccia cadere, mi urtano ovunque e mi ritrovo a chiedermi che cosa abbiano tutti oggi da andare sempre così di fretta. Mi rendo conto che forse l’ho detto ad alta voce, detesto pensare o dire queste cose, sono cose da vecchio e mi fanno sentire vecchio, dovrei trattenermi. I cartelli mi dicono di proseguire dritto per i gate B44-B48, li seguo e mi ritrovo in una sala esagonale, con le vetrate che danno sulle piste. Sembra tutto congelato, nessuno al gate, nessuno in coda, persino sulle piste sembra non esserci nessun aereo. Mi alzo, vado alle finestre, guardo le lingue di asfalto deserte, ho voglia di partire, di cominciare quest’avventura, di mettermi in gioco, sono felice, ora non mi resta che salire sull’aereo e vedere cosa succederà, chissà quante cose avrò da raccontare al mio ritorno. Jade mi prenderà in giro, dirà che sono incontinente e parlo troppo, ma sarà contenta di sentirmi raccontare. Un lunedì, a negozio chiuso, la obbligherò a sedersi con me sulle panche in legno chiaro del ristorante, lei a gambe incrociate sui cuscini rossi, io che mi lamento dell’assenza di uno schienale. Le metterò davanti a un po’ di tteokbokki avanzata dalla cucina e da me sapientemente riscaldata e le racconterò del mio viaggio, della Corea, di quanto il cibo là sia diverso da quello che vendiamo noi e di come tutti mi sorridevano riconoscendomi come loro connazionale. Lei dovrà ammettere di essersi sbagliata, che non sono troppo vecchio e malato e che ho fatto bene a partire, e sarà contenta di ascoltare i miei racconti. Magari un giorno partirà anche lei. 92


Prima di allontanarmi dagli specchi mi sembra di vedere una figura su una delle piste, in piedi, completamente sola, che si guarda intorno. Un me stesso giovane, spaesato, che cerca una risposta. Sto lasciando correre troppo la fantasia. Mi volto, vedo un Mini-Bar, perfetto per aspettare che aprano il gate. Purtroppo è deserto, la barista si sarà allontanata un attimo, mi siedo. Non c’è nessun giovane in attesa con cui chiacchierare questa volta, che peccato. Però il ginocchio non mi fa più male, non posso fare a meno di pensare che il dolore mi aveva quasi convinto a non partire, che stupido sarei stato. Non si dovrebbero mai prendere decisioni quando si soffre, perché il dolore non lascia spazio ad altro e, quando c’è, sembra eterno. Basta ricordarsi di come si sta bene quando finalmente si torna in salute, così da non lasciarsi abbattere durante la sofferenza. Ora che sto bene, non vedo l’ora di partire.

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Allegra Sarti La situazione in aeroporto sembra essersi calmata. Credo si sia trattato solo di un falso allarme. Il nonnino dai lineamenti asiatici è scomparso e io ho ancora in mano il suo biglietto. Mi soffermo sulla data impressa sul cartoncino e mi accorgo che è scaduto da ben tre anni. Tre anni... non capisco. Ma dove è andato quell'anziano dalla faccia dolce? Cosa ci faceva con un biglietto scaduto? Chiudo gli occhi, respiro profondamente, e rivedo l'immagine di quell'uomo, il suo sguardo triste ma, a tratti, pieno di speranza. Penso che non potrà partire, non oggi almeno, e magari mai; e penso alla solitudine che probabilmente caratterizza la sua vita, al fatto che sia circondato da persone incapaci di ascoltare il suo grido di aiuto. E allora penso a me. Adesso intorno non c'è più nessuno, il trambusto sembra essersi placato e io mi sento ancora più sola. Il mio cervello comincia quindi a scavare prepotente alla ricerca di qualche ricordo che mi tenga compagnia e ne trova uno in particolare, quello in cui Carlo, nelle calde sere d'estate, usciva in giardino a prendere le lucciole per poi liberarle nella mia cameretta al buio. Le piccole lucciole prendevano a volare e sembravano tante piccole stelle che brillavano nel mio personalissimo e microscopico universo e io in quel momento mi sentivo davvero felice. Chissà poi che cosa è cambiato e, soprattutto, che cosa mi ha portato a dubitare di me e di quello che sono. Il mio cellulare trilla un paio di volte per avvisarmi che mi sono arrivati dei messaggi. Recupero il telefono dalla tasca dello zaino e controllo. È Monica. Deve aver prima provato a chiamarmi perché ho trovato anche un avviso della segreteria telefonica. Nel messaggio mi chiede scusa e mi implora di tornare a casa. Mi spiega in poche righe che il diario che ho trovato in realtà è una storia di pura fantasia inventata da lei, e che sono figlia loro al cento per cento. Lo rileggo 94


almeno venti volte prima di accasciarmi a terra, sfinita. Il cuore mi si gonfia come se volesse esplodere e ricaccio giù le lacrime a fatica. Ma forse ora è giusto piangere. Nonna Adele deve averle raccontato tutto ma non mi importa, anzi sono felice. Nel messaggio Monica si firma “Mamma” ed è così strano, non la chiamo mai in questo modo. Vuole che ritorni a casa perché lei e Carlo hanno bisogno di parlarmi, hanno un'infinità di cose da dirmi. Per la prima volta, dopo tanto tempo, mi sento leggera, libera; è come se mi avessero tolto improvvisamente un macigno dalle spalle. Forse Honolulu può aspettare. È giusto che prima mi chiarisca con loro, se la meritano una possibilità. Mi guardo intorno, adesso mi sembra tutto più piccolo e anche un po' più famigliare. Voglio tornare a casa e voglio addormentarmi per rifare ancora il mio sogno perché sono sicura che questa volta la donna misteriosa si volterà e riuscirò a guardarla in faccia. O magari non tornerà più, chissà. Cammino felice per i corridoi, ho la mia vita davanti. Un passo alla volta, un problema alla volta. Mi fermo a osservare la freccia che indica la direzione in cui trovare il McDonald's. Sorrido e la guardo maliziosa: mi sa che mi è venuta fame.

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Helmut Graf Ieri pomeriggio ho avuto la mia santa seduta con l'analista. Parliamo sempre e solamente di quel trauma. Da dieci anni. Sono un ex pilota dell'Aereomexico. Un giorno, durante un volo da Francoforte a Cancún è esploso un motore in volo. Stavamo sorvolando le isole Bahamas. Sono stato costretto a effettuare un atterraggio di emergenza. Ho fatto planare il Boing in mare, davanti alla spiaggia. Ho salvato tutti i passeggeri, ma da lì in poi è stato l'inferno. Paura dell'acqua, fobie, paranoie, ipocondria, fondamentale paura degli aerei in genere. Sono anni che la mia analista prova ad aiutarmi. Disposizione del lettino e sedia retrostante, tutto è scientificamente studiato per un motivo. Per quale non si sa, ma vi assicuro che è studiato, giuro. Lei ripete sempre l'ultima parola del mio discorso prima di cominciare il suo. Anche questo pare sia studiato. Se dico “Aereo” lei dice “Aereo”, se dico “Vaffanculo” ripete “Vaffanculo”, e così di seguito, per trentacinque minuti netti. Poi mi congeda. E non importa come è finito il discorso. Mi congeda e basta. Sa lei cosa fare. Ogni seduta costa cento euro, Iva esclusa. Con le fatture scarico le spese sanitarie. Quel che basta per l'affitto, i panini al sacco, i caffè. Al di là di questo lei alle mie domande risponde sempre le stesse cose. Tanto che capita che mi giro per vedere se è sempre lì o se ha lasciato sul posto un buon registratore. Cosa accidenti scriva poi, su quel quaderno, Dio solo lo sa. Una volta ho provato a chiederglielo ma lei non mi ha risposto proprio, come mettessi in dubbio la sua serietà professionale. Se non ci vado vuole essere pagata lo stesso, per deontologia, dice. Allora tanto vale andarci. Ho l'abbonamento dei mezzi pubblici. Secondo me è innamorata di me. Controtransfert. Il transfert è quando invece sei tu che ti innamori. Mi dice sempre che la paura degli aerei è una proiezione mentale. Secondo me non capisce un cazzo. Ma io ci vado lo stesso. È un po' di tempo che sono diventato un assiduo frequentatore 96


della farmacia interna all'aeroporto. Non so se si è intuito, ma personalmente sono un tipo abbastanza apprensivo ed ansioso. Niente di che, però mi trovo parecchio bene con le benzodiazepine. Vanno bene tutte, mi adatto a quello che trovo sul momento, non sono schizzinoso. Tempo fa mi trovavo giusto in una crisi del tipo somatizzazioni e cose del genere. Sapendo della farmacia ci ho fatto un salto. Quel giorno incontro una ragazza al bancone, sicuramente una dottoressa visto che era al bancone, molto carina: bionda, occhi azzurri, perfetta. Da allora in poi non c'è giorno che io non entri in farmacia con una scusa qualunque. Solo che il coraggio di parlarle non lo trovo ancora, allora compro di tutto pur di vederla. Questa settimana è il turno dello scaffale delle aspirine. Probabilmente lei penserà che me le aspiro direttamente col naso, che mi ci faccio, di aspirine. Spendo tutto quello che mi resta in farmaci e surrogati vari, ma lei niente, non capisce, anzi comincia a fare una specie di risolino tipo “Questo è scemo”. Io non sono scemo. Non sono scemo. Domani glielo dico: “Non sono scemo”. Tutto questo è molto strano. Non riesco proprio a capire cosa stia succedendo. Tutti quegli aerei che, normalmente, a quest'ora partono o arrivano, di colpo non si muovono dalla pista. Eppure stamattina ho controllato bene la batteria dell'orologio, sincronizzando, come d'abitudine, l'orario con quello della prima televisione nazionale. Tra l'altro dicono che l'orologio della televisione nazionale sia molto attendibile. Ma lasciamo perdere. Il punto è piuttosto che avrò potuto sbagliare di qualche secondo, o giù di lì. In definitiva non di molto. Siamo d'accordo, ma tutto questo è davvero molto strano. Niente aerei in movimento, niente carrelli, il più totale nulla. Mi giro per chiedere spiegazioni al personale di servizio, cominciando, lo confesso, ad avere una certa ansia. Ma intorno a me non c'è nessuno. Valigie abbandonate, terminal vuoti, anche il bar è vuoto. Ne approfitto per spararmi un caffè, lasciato intonso sul bancone, tanto è gratis, per schiarirmi un po' le idee. Probabilmente sto sognando, mi dico. Probabilmente sono lì, nel mio letto e sto facendo niente di più di una proiezione mentale, o qualcosa del genere. Ecco, adesso ti chiamerà qualcuno e ti sveglierai, 97


mi dico. Questo non è consolante. Nel frattempo mi domando - nel caso io sia sveglio, intendo, e se quindi tutto questo è vero - che ci vengo a fare qui se non ci sono più aerei che decollano o atterrano. E se non ci sono più aerei che rullano sulla pista vuol dire che non si parte più. E se non si parte più non ho più nulla da curare, perché il problema è risolto alla radice. Sono guarito. Ah, finalmente respiro. Raccolgo le mie cose e mi avvio verso l'ingresso. Una signora dall'aspetto gentile mi invita per un passaggio in macchina. Destinazione: tutta la vita.

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Salimata Konaté Tutto tace. Adesso. L'ultima ora è stata convulsa, incomprensibile, piena di urla, spavento, confusione. All'improvviso, senza capire bene cosa stesse accadendo, gli sguardi si sono fatti più allarmati, le orecchie tese, le dita frenetiche sui touch screen dei telefoni, per sapere, chiedere, cercarsi tra amici, parenti, compagni di viaggio. Le sedie rovesciate, i passi veloci per allontanarsi dal luogo da cui provenivano i rumori più allarmanti, senza sapere bene cosa fare e dove andare, cercando di mantenere un briciolo di razionalità mentre tutto intorno crollava ogni certezza. “Un attentato”, è stato il primo, ovvio pensiero di ognuno. La paura, l'incredulità, la rabbia si addensavano come una nuvola nera sopra le teste dei viaggiatori, in corsa verso i punti di raccolta e le uscite di sicurezza. Mentre cercavo di ricordarmi quanto ci hanno insegnato sul protocollo da seguire in caso di allarme, ho notato una signora elegante dai capelli bianchi che si aggirava con il terrore negli occhi. Non so perché mi abbia colpito proprio lei, tra tutti quelli che mi correvano intorno, ma ho sentito che dovevo fermarmi e darle una mano, proteggerla da quanto stava accadendo fuori e dentro di lei. L'ho circondata con le braccia, le ho parlato con dolcezza e l'ho trascinata in un angolo, al riparo di una grande colonna. Finalmente sono riuscita a capire: nel trambusto le è sfuggito di mano il nipote, che stava riaccompagnando a casa dopo alcuni giorni di vacanza passati insieme. I giorni più belli da molti anni, per lei, rimasta sola e sopravvissuta a una malattia devastante. L'immagine della manina del piccolo che scivolava via dalla sua mi era insopportabile, ma ho cercato di confortarla come meglio potevo mentre cercavo di spargere la voce tra i colleghi, vestiti con camici blu uguali al mio. 99


Sono stati lunghi momenti di enorme tensione, finché, all'improvviso come è iniziato, tutto è finito. E una vocina che chiamava la nonna ha fatto cambiare colore a questa stranissima giornata. Scrollo le spalle mentre rivivo la scena. La signora mi stringe, piange, mi presenta un bambino dallo sguardo limpido che si mette inaspettatamente a ridere. – Ma nonna, era tutto finto! Non è successo niente, un signore mi ha detto che era un'esercitazione, che non dovevo spaventarmi e che ti avrei ritrovato subito – esclama, con l'entusiasmo dei suoi pochi anni. La nonna e io ci guardiamo, sorridendo, mentre le asciugo con un pezzo di carta igienica le lacrime che non riesce a trattenere. Il piccolo ha ragione. A quanto pare, è tornata la quiete. Messaggi dagli altoparlanti tranquillizzano la folla, piano piano le persone recuperano i trolley abbandonati, i volti tesi si ammorbidiscono e gli sguardi si fanno meno spaventati, anche se resta forte, quasi palpabile, la consapevolezza della nostra fragilità. Mentre mi guardo intorno cercando di capire la situazione, mi ritrovo al collo le braccia del bambino che si era smarrito e mi sento stampare sulla guancia un rumoroso, umido bacio. Oh no! Ce l'avevo fatta fino a qui, ma ora questo gesto così spontaneo fa crollare tutte le mie difese, tutta la durezza accumulata in questi anni così difficili. Scoppio a piangere, sentendomi una perfetta idiota, mentre lui mi guarda sorpreso e la nonna mi abbraccia a sua volta. Li saluto e mi allontano rapidamente, dirigendomi verso la zona riservata al personale. Con tutto quello che è successo si è fatto tardissimo e l'ora del mio fine turno è passata da parecchio. A questo punto ho fretta, voglio uscire, respirare, sento una vera e propria urgenza di andarmene subito da lì. Bastano pochi minuti per lasciare la divisa stazzonata nello spogliatoio, indossare i miei abiti leggeri e colorati, guardarmi allo specchio, sentire sotto le dita il foglio accuratamente ripiegato che tengo in tasca, rileggere con la mente quelle frasi che porto sempre con me, per non dimenticare mai chi sono, da dove vengo. – Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio 100


d’inventare l’avvenire. – Mentre ripeto a me stessa le parole di Thomas Sankara, cammino piano attraversando l’atrio ormai deserto e vedo con la coda dell’occhio l’uomo che guardava gli aerei. Si aggira smarrito, come in cerca di un nuovo punto di riferimento per lo sguardo, ma mi sembra che sorrida, libero dai tanti tic che lo ossessionavano. Chissà come ha vissuto, lui, questa giornata surreale e come si è sentito, quando per ore nessun aereo è potuto partire. Una vibrazione mi avvisa dell'arrivo di un messaggio sul telefono. Sarà qualcuno dei ragazzi, Dramane o qualcun altro, per chiedermi se ho programmi per la serata. Potremmo anche andare a mangiare tutti insieme da qualche parte, per celebrare in qualche modo il fatto che siamo ancora vivi. Sì, ok, alla fine non è successo nulla, ma festeggiare la vita non guasta mai. Mentre scorro distrattamente la lista dei messaggi arrivati nelle ultime ore, lo sguardo mi cade su un numero che non conosco. Il cuore mi balza in gola: è il discografico che stavo cercando in aeroporto quando è scoppiato il casino. Scrive che si è dovuto fermare qualche giorno in più a Francoforte e che ha parlato di me alla sua socia, che si occupa dello scouting per la sezione “Music from the world”. A quanto pare si è dimostrata molto interessata alla storia di quella sconosciuta musicista e vorrebbe incontrarmi appena possibile. Sento cedermi le gambe e mi viene voglia di danzare, tutto in una volta. Mi lancio senza neppure rendermene conto in una serie di urletti euforici mentre saltello felice come una bimba alla sua festa di compleanno. L'uomo che guardava gli aerei mi osserva incuriosito, dando le spalle alla grande vetrata. Mi sembra persino che sul suo volto ci sia un'ombra di sorriso divertito... ma no, forse mi sbaglio. Sono troppo contenta, l'entusiasmo per questa incredibile sorpresa abbatte la mia riservatezza. – Vado in città, le serve un passaggio in auto? – gli chiedo. Tanto, sono convinta, rifiuterà con un brusco monosillabo. E invece accetta con un gesto silenzioso, ringraziandomi con un inchino. Che giornata assurda. Davvero surreale. 101


Mentre l'auto si mette in moto, si attiva l'autoradio. Sul display passa il titolo della prima traccia, ma nessun suono esce dagli altoparlanti. L’uomo, istintivamente, gira la manopola per alzare il volume: l’abitacolo si riempie di musica. Canticchio, mentre imbocco la corsia che si immette in tangenziale, senza distogliere lo sguardo dalla strada, mentre l’uomo tiene il ritmo tamburellando sulla portiera. Lo osservo con la coda dell'occhio e questa volta ne sono certa: sta sorridendo. Ricambia lo sguardo mentre il suo sorriso si fa sempre più ampio. Non riesco a resistere e sorrido anch'io, anzi, inizio a ridere, prima piano, poi sempre più fragorosamente. La risata si raddoppia, anche l'uomo sta ridendo rumorosamente, come se non potesse più trattenere quel suono che arriva da qualche parte della sua anima. Mentre nello specchietto retrovisore l'aeroporto si fa sempre più lontano, dissolvendosi in una luce pomeridiana dalla bellezza commovente, ridiamo, ridiamo, non riusciamo più a fermarci. L'abitacolo si riempie delle nostre risate, libere e liberatrici. E finalmente sento la voce dell'uomo, che sussurra piano: –Siamo guariti. Sì, tubabu, fratello: siamo guariti. Ci sarà un nuovo giorno, canta la radio. E un nuovo giorno, quel giorno, è oggi.

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