Folle Fantasia

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Folle fantasia: Sara Corsi I sintomi del reale dal fantastico alla fantascienza
Accademia di Belle Arti Bologna Corso di Illustrazione per l'Editoria Professoressa Celija Maja Titolo “Folle fantasia: I sintomi del reale dal fantastico alla fantascienza" Diplomanda Relatore di tesi Corsi Sara Barbieri Daniele Matricola Relatore progetto pratico 23509 Raffaelli Luigi Sessione Estiva A.A. 2021/2022
INDICE Introduzione ............................................................................................................................................................7 1. L’errata diffidenza verso la scrittura di fantasia ...............................................................9 1.1 L’immaginazione come strumento di comprensione del reale 12 1.2 Pensiero fantastico, pensiero scientifico ......................................................................17 1.3 La questione editoriale 20 2. Dal fantastico al fantascientifico ...............................................................................................27 2.1 Il fantastico 30 2.1.1 Il Profumo 34 2.2 Il crocevia storico 36 2.3 Le radici gotiche ...............................................................................................................................42 2.4 L’anello di congiunzione con la fantascienza: Frankenstein 47 3. Il fantascientifico ......................................................................................................................................53 3.1 Dalla science fiction al cyberpunk 56 3.1.1 Letteratura presente o futura? 62 3.2 La fantastica scienza e la ricerca dell’umano .......................................................65 3.3 A che serve la Signora Brown? .............................................................................................70 4. Il perturbante fantastico e l’estraniamento fantascientifico.............................79 4.1 La definizione di Freud ................................................................................................................82 4.2 L’occhio estraneo 87 4.3 Uncanny Valley ..................................................................................................................................90 4.4 La natura dell’ombra 96 5. Storie di archetipi ...................................................................................................................................105 3
5.1 Il pensiero di Jung ..........................................................................................................................106 5.2 Automa e autonomia ...................................................................................................................112 5.2.1 Alle origini vi era il Golem ..............................................................................................115 5.2.2 Argilla .............................................................................................................................................118 5.2.3 Chi decide? ................................................................................................................................121 6. Follia: sintomi di liberazione 125 6.1 Pazzie personali ...............................................................................................................................126 6.2 Pazzie collettive ..............................................................................................................................132 6.3 Una visione ibrida ........................................................................................................................138 6.3.1 “È l’occhio che conta” 146 Conclusioni… pratiche ............................................................................................................................153 Ringraziamenti ................................................................................................................................................157 BIBLIOGRAFIA 158 SITOGRAFIA .........................................................................................................................................................160 4

Introduzione

«Arrivo così alla mia difesa personale degli usi dell’immaginazione, in particolare modo nella narrativa, e in modo ancora più particolare nelle fiabe, nelle leggende, nei racconti fantastici, nella fantascienza e nel resto dell’area folle.

[…] Perché il fantastico è vero, naturalmente. Non è reale ma è vero.»1

Questa ricerca mira a sostenere un’analisi delle capacità intrinseche della letteratura fantastica e dei suoi sottogeneri e fra questi nello specifico del fantascientifico, per poter rilevare come in tali aree della scrittura «di fantasia», avvenga una resa di una, anzi di molte, realtà, che seppur distorte o bizzarre rendono percepibili elementi più veri del reale stesso.

L’azione di creare mondi fittizi in cui immergersi o la decisione di intromettere fatti e vicende improbabili e assurdi nel quotidiano, non è qui affrontata come atto di vaneggiamento o di fantasticheria fine a sé stessa. Viene invece valorizzata come capacità generatrice di storie sì illusorie, ma contenenti verità riscontrabili nella «comune» realtà.

Precedenti illustri esistono e in grande quantità, qui ne vengono affrontati alcuni, a sostegno della tesi che, all’interno dei generi fantastico e fantascientifico, nonché di eventuali ibridi, ci siano dei legami sottili.

Legami che si svelano osservando come le iper-realtà di fantascienza e fantastico creino uno squarcio dove affacciarsi non tanto per allontanarci da ciò che ci circonda, ma per vederlo meglio. È così che possiamo riconoscere i sintomi del reale, quei fenomeni di stortura germinali, problematici, intimi e insiti nell’uomo e nella società che si è creata.

Una vista che dunque vale la pena provare, a costo di esser chiamati folli.

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura1 di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.38 7

1. L’errata diffidenza verso la scrittura di fantasia

Prima di affrontare un discorso approfondito sulla narrativa di fantasia rispetto ai due generi principali su cui verte questa tesi, è opportuno introdurre a monte le qualità di questa e il motore stesso che la genera. Ursula Le Guin definisce dunque il processo della fantasia come una vera e propria attività di traduzione. Ovvero secondo l’autrice, la fantasia, nello specifico se messa per iscritto, è capace di rendere organizzato e logico tutto ciò che viene espresso dalla mente inconscia.1

Quando Le Guin parla di «espressione della mente inconscia» si rifà ad uno specifico pensiero che è quello junghiano. Riguardo quest’ultimo, per il momento, serve più che altro definire brevemente cosa siano gli archetipi per ciò che ne rileva l’autrice. Per archetipo si intende una primordiale immagine di cui, nell’idea di Carl Gustav Jung, “l’inconscio collettivo” è popolato. Gli archetipi si esplicitano maggiormente nel materiale onirico, ed è questo fatto che interessa alla scrittrice. Le Guin parla infatti dei sogni che, con il loro mondo di immagini spesso non esprimibili verbalmente, rappresentano la lingua primaria del pensiero. Una sorta di espressione primordiale dunque che contiene concetti universalmente condivisi, per cui non importa quale lingua parlata conosciamo, quanti anni abbiamo o da che paese veniamo, noi tutti comprendiamo il linguaggio primario del pensiero, perché sogniamo secondo delle dinamiche comuni. Nei sogni esperenziamo immagini, sensazioni ed incubi che non sono verbali, non hanno la logicità di un discorso compiuto, perché coinvolgono moltissimi sottotesti e percezioni. Ma in una prospettiva di codifica di tutto ciò, la fantasy per l’autrice si posiziona come strumento adatto a convogliarne la resa in “parole moderne”. In sintesi, per Ursula Le Guin, è proprio tramite le narrazioni di fantasia che possiamo riconoscere e ritrovare quegli archetipi che ci costituiscono tutti, nel più profondo dell’essere. È per questo che, a più riprese, difende nei suoi saggi la validità della letteratura fantastica, come mezzo per organizzare e mettere in luce le cosiddette «incredibili realtà della nostra esistenza», e quindi non solo ciò che sogniamo in senso stretto, ma ciò che ci sfugge, ciò che è liminare e ciò che nasce da aree del profondo che non completamente comprendiamo. Ambito insomma in cui

Le Guin, Ursula Kroeberg,

linguaggio

Il
della notte cit., Roma, Editori Riuniti, 1986, p.71 9

il “ puro ” realismo talvolta fallisce, ed è anzi il meno adatto, come afferma ella stessa nel suo discorso di accettazione del National Book Award. Mentre2 nella scrittura fantastica, fantascientifica, fantasy e così via, Le Guin vede un luogo di indagine del reale e delle strutture dello stesso, oltre che dell’uomo. Il ragionamento e la scrittura fantastici mettono a fuoco gli elementi che sfuggono ad una trascrizione asettica e razionale del mondo. Chi usa questo codice letterario sfrutta gli archetipi impersonati dal mito, dalla leggenda, od oggi dalla scienza e dalla tecnologia, per creare storie che ci permettono di conquistare la percezione del luogo in cui viviamo, e imparare «la pietà, e la speranza». 3

Tuttavia, sebbene ci sia da rivendicare il lato efficace della narrativa di fantasia, come apertura sulle diverse verità del mondo, l’immaginazione deve essere riconosciuta anche nella sua capacità di donare piacere, gioia e “semplice” divertimento. La letteratura fantastica tutta non serve solo ad «approfondire la tua comprensione del mondo, dei tuoi simili, dei tuoi sentimenti e del tuo destino» ma anche, semplicemente a intrattenere.4 Dovrebbe essere indubbio che la letteratura (sia fantastica che non), come qualsivoglia forma d’arte, abbia comunque valore nell’esperienza artistica che provoca in chi ne fruisce. Il che non significa livellare tutto ciò che viene scritto e creato. Le Guin stessa è la più dura sul distinguere ciò che è oggettivamente mediocre dal resto, ma nonostante ciò, la tendenza a questa forzata iper-intellettualizzazione delle forme artistiche rischia di farci dimenticare che «tutta l’arte serve a divertire […] questo è tutto ciò che l’arte vuole fare. Vuole arrivare a voi. […] Vuole farci riunire insieme, in una celebrazione, in una cerimonia, in uno svago, in una reciproca dichiarazione di comprensione, o di sofferenza, o di gioia. [ ] Arte e Ricreazione sono la stessa cosa […]». 5

L’unica differenza per l’autrice che divide quella che si può definire artesvago e il vero e proprio “ciarpame", è che la seconda viene fatta per lo scopo di esser venduta e subito diviene sostituibile, non ha una vera e propria durata nel tempo. La prima invece dopo che è stata usata, che se ne è fruito, rimane; l’esperienza che ha offerto non è subito rimpiazzabile o dimenticabile. L’arte “ vera ”, l’arte-svago si sedimenta.

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte …cit., Roma, Editori Riuniti, 1986, p.50:

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte cit., Roma, Editori Riuniti, 1986, p.51

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte cit., Roma, Editori Riuniti, 1986, p.37

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte cit., Roma, Editori Riuniti, 1986, p.215-216

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Aprendo una parentesi a conclusione, è interessante citare a seguito una notazione che porta avanti Martino Negri, in un testo dal nome L’avventura del lettore; la letteratura come esperienza. Egli affronta in un discorso ampio come l’ambito dell’infanzia, l’importanza di approcciare la letteratura (in sé, andando oltre il target, l’età del lettore, o la tipologia) come un’avventura in cui immergersi e da cui farsi rapire: per il piacere stesso di leggere. La lettura individuale porta a trovare delle proprie conclusioni e pensieri secondo un processo completamente non determinabile a priori, che regala svolte inaspettate. In positivo o in negativo. La lettura è rischio ed è importante che non sia prevedibile cosa ci può muovere o no dentro. Detto ciò, il professore e ricercatore cita dei casi di studio e delle voci piuttosto eminenti, sottolineando come certe tendenze vanno invece in direzione contraria a questa constatazione, in particolare in Italia. A livello strutturale la scuola e l'università, già dagli anni dieci del Novecento, non insegnano questo. Negri, citando Giuseppe Lombardo, poi Calvino, fino ad arrivare ad un periodo più vicino a noi, con Gianni Rodari , dimostra come6 il rischio, dell’avventurarsi nella lettura in autonomia, proprio come farebbe un cavaliere, è qualcosa che le strutture d’istruzione italiane non riescono a promuovere e valorizzare.

Vige una forte scala di valori nell’approcciare i testi, che oltre a finalizzare tutte le informazioni da memorizzare su stile, costruzione, grammatica testuale, al mero voto di interrogazione, pone come superiore lo studio analitico, rispetto all’esperienza personale che si ha del testo stesso. Il valore “formativo” di una lettura per Martino Negri sta invece nella tipologia di esperienza che genera, che ha essenzialmente a che fare col tempo e lo spazio in cui avviene l’incontro stesso col testo. Un incontro intimo e individuale, che se non viene rispettato, nullifica gli sforzi. Perché come riporta lo stesso professore, nelle parole di Rodari: «La lettura, o è un momento di vita, momento libero, pieno, disinteressato, o non è nulla». 7

Cantatore, Lorenzo; Galli Laforest, Nicola; Grilli, Giorgia; Negri, Martino; Piccinini, Giordana;6 Tontardini, Ilaria; Varrà, Emilio, In cerca di guai - Studiare la letteratura per l’infanzia, Parma, Edizioni Junior, 2020, pp.240-241

Cantatore, Lorenzo; Galli Laforest, Nicola; Grilli, Giorgia; Negri, Martino; Piccinini, Giordana;

Tontardini, Ilaria; Varrà, Emilio, In cerca di guai cit., Parma, Edizioni Junior, 2020, pp.241

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1.1 L’immaginazione come strumento di comprensione del reale

Constatato il valore ricreativo e simbolico, non solo della letteratura di fantasia ma della scrittura tutta, è d’obbligo tornare all’origine di ciò che permette tutto questo, ovvero l’immaginazione. Ci sono altri muri da abbattere attorno ad essa, in quanto a volte assurdamente vista come “inutile” e anche in questo caso è impossibile non scomodare Le Guin.

All’interno del suo saggio Perché gli americani hanno paura dei draghi?, ella descrive un problema correlato alle persone (e in particolare gli uomini) che ha saputo conoscere meglio, ovvero gli americani. Racconta come essi (il saggio risale al 1974) abbiano purtroppo imparato a soffocare la capacità di immaginare e quindi la propria fantasia, in quanto ritenute abilità non strettamente legate al profitto.

Ciò che l’autrice invece valorizza tramite esempi vividi e puntuali è quello che convenzionalmente chiamiamo il lato bambino. In uno di queste immagini evocate dall’autrice (quando viene esplicitata l’esistenza di una «correlazione inversa» tra il fantastico e il denaro) ella nota come le8 persone più arricchite, soprattutto nei casi particolari di uomini di grande successo, esprimano nello sguardo una fame annebbiata da una certa confusione, come se non mettessero a fuoco quello di cui hanno bisogno. Si chiede perciò se quello che loro manca non sia proprio l’infanzia. Un’infanzia che non deve essere vista come una fase soltanto da valicare per divenire grandi e potenti, o semplicemente adulti, ma piuttosto da proteggere. Ella lamenta quanto questa prospettiva di conservazione sia essenziale all’uomo e tuttavia come egli assurdamente la rifiuti. Bollando il tutto come un evitabile smacco alla propria virilità ed efficienza, o in quanto area più “femminea”, questo uomo-tipo se ne tiene lontano il più possibile. Esiste infatti alla base un grave errore di misconcezione: non si comprende ciò che racchiude in sé l’infanzia. Non si afferra che ciò che si vuole salvare non è una sorta di “ingenuità" passiva rispetto a ciò che ci circonda, ma il saper utilizzare come risorsa la capacità di libera generazione della mente. Divenire adulti, come sottolinea l’autrice non è scavalcare a piè pari l’infanzia e ucciderla, ma in qualche maniera farla crescere assieme a sé. Perché se i migliori attributi umani risiedono nel bambino, bisogna che l’adulto li sappia conservare senza reprimerli. Li

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura8 di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.37 12

deve far fiorire, fra tutti deve poter curare la facoltà che per Le Guin è la più visceralmente umana e umanitaria: l’immaginazione.

Coloro che la temono, esprimono in realtà un erto terrore per la libertà che può dare, troppo abituati a farsi imbrigliare da costrutti sociali. Nel caso americano analizzato da Le Guin essi sono nello specifico il puritanesimo, una radicata mentalità di profitto e mores sessuali. Sebbene l’autrice abbia dato un volto specifico, di figura maschile borghese e arricchita, ad un problema di una determinata società, cioè il comportamento evitante di cui si è parlato, quest’ultimo non sembra tanto alieno anche oggi, per quanto inserito in un discorso più generalizzato. È piuttosto improbabile infatti che si possa affermare che un certo «biasimo morale» per la9 fantasia in sé o la letteratura fantastica non aleggi ancora adesso a partire dalle conversazioni più comuni.

Difatti l’aneddoto che apre il saggio non è un caso di analisi sociologica citato da un qualche teorico, è, appunto, un semplice aneddoto. In questa vicenda infatti, un conoscente dell’autrice racconta un evento che gli era accaduto in una biblioteca. Al chiedere dove fosse posizionato Lo Hobbit, dato che nella sala di letteratura infantile non si trovava, la bibliotecaria con cui si era interfacciato aveva risposto che non lo tenevano certo lì, in quanto ritenevano che l’evasione dalla realtà non fosse buona cosa per i bambini. Piuttosto buffa come decisione, forse meno buffo che la donna in questione, (molto più ingenuamente di qualsiasi bambino) come tante altre persone, avesse introiettato un pensiero esterno e comune, ovvero che il fantastico sia una nociva dissociazione dalla realtà. Citando le parole della stessa Le Guin in un altro saggio, Il fanciullo e l’ombra, dove si sofferma su altri aspetti ma sceglie parole particolarmente adatte a definire questo pensiero: «Il fantastico è, secondo loro, un’evasione dalla realtà. [ ] Confondono la fantasia, che nel senso psicologico è una facoltà universale ed essenziale della mente umana, con l’infantilismo e la regressione patologica.»10

Esplicitato dunque il pensiero di Le Guin e la tendenza che le si contrappone, si vorrebbe portare in esame un libro, per nulla di genere fantastico, che però calza a pennello a proposito della potenza dell’immaginazione come risorsa. Soprattutto legata all’essere bambini. Nel romanzo in proposito viene raccontato come infatti anche in una

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte

Le Guin, Ursula Kroeberg Il linguaggio della notte

Roma, Editori Riuniti, 1986,

Roma, Editori Riuniti, 1986,

cit.,
p.339
cit.,
p.6110 13

situazione di estrema espressione di crudeltà del mondo, proteggere un certo senso di fantasia e percezione del meraviglioso per la realtà riesce, per certi versi, a salvare la vita. Il libro in questione è L’Impero del Sole di James G. Ballard.

L’opera è stata scritta dall’autore nel 1984 da una parte per esorcizzare, dall’altra per ricordare e imparare a convivere con parte della sua vita biografica. Nel libro si racconta infatti la vicenda di Jim, un ragazzino inglese che vive nella Concessione internazionale di Shangai. Nonostante il bambino sappia bene cosa sia la povertà data dalla guerra, di cui vede i risultati nelle strade della città (ovvero tutto ciò a cui portò il secondo conflitto sino-giapponese in Cina, iniziato nel 1937), i suoi genitori sono benestanti e all’inizio del racconto non è che uno spettatore esterno di un mondo crudo e teso tra le fila di conflitti pronti esplodere, se non già deflagrati. Jamie, detto appunto Jim, rimane protetto da una vita spaventosamente crudele per poco. Alla vigilia dell’attacco a Pearl Harbor nel 7 Dicembre del 1941, segue un’offensiva del Giappone nell’area in cui vivono lui e i suoi genitori e ne consegue l’occupazione dell’area. Jim perderà di vista prima sua madre poi suo padre. A differenza sua l’autore invece non venne mai diviso dai genitori ma venne internato con loro per due anni nel campo di Lunghua.

Jim è un catalizzatore delle memorie di Ballard che ha rivissuto eventi della sua vita tramite di lui, a volte cambiandoli a volte no. Da quanto si evince da un estratto de I miracoli della vita, sua vera e propria11 autobiografia, Jim non è stato appunto costruito come personaggio “fittizio”, scritto da zero, ma è nato riportando su carta il ragazzino che Ballard stesso fu, mentre diveniva adolescente negli anni della guerra. Il “personaggio” di Jim dunque è un undicenne molto sveglio, che sin da subito mostra un grande interesse per la vita in sé, anche fra le maggiori espressioni di miseria e morte. La voce narrante ci mostra come il ragazzino lungo tutto il racconto si focalizzi su dettagli di ambienti, strutture degli assetti militari e della società che lo circonda, i loro ruoli, le armi da guerra, le potenti macchine dell’aviazione e le vicende della Storia in sé, con lo stesso livello di attenzione e curiosità. Due caratteristiche che gli donano un certo distacco, o meglio, che lo tengono lontano da un sentimento di totale disillusione per la vita, in cui raramente cadrà. Così Jim riesce comunque a sostenere i fatti del mondo, per come un ragazzino della sua età li può intendere, senza esserne oppresso.

Estratti dall'autobiografia di James G. Ballard, I miracoli della vita (Seconda parte) : http://11 www.mattbriar.com/2016/05/ballard-xii-i-miracoli-della-vita-pt2.html

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Jim assimila tutto come una spugna e anche quando guarda ciò che ha intorno con occhi da sognatore rimane sempre ancorato a ciò che davvero vede in partenza. La finzione non viene mai confusa con i fatti reali. Aggiunge solo dei significati o dei collegamenti in più. Tendenzialmente gli adulti che incontra, sembrano guardare storto o con disagio la sua capacità immaginativa, così disinvolta nelle risposte che dà o per come agisce, perché lo rende quasi noncurante («Il mondo intero è in guerra, e tu continui ad andare in giro con la tua bici…» ) ad un occhio adulto. Ma che12 loro lo assecondino o meno, ci viene mostrato come essi non ne siano certo immuni. Perché riguardo al crearsi delle narrazioni alternative, o sovrastrutture, in cui credere ciecamente, a supporto delle proprie azioni, gli adulti vincono su tutta la linea, anche se ovviamente questo accade in maniera più articolata e deviante. C’è un discrimine importante già da inizio libro che rende chiaro come parte del mondo adulto “ve(n)da” e recepisca la guerra infatti, a differenza di come la elabora Jim. L’uso della propaganda che viene descritta nell’apertura del romanzo ci rende lapalissiano che ci si trovi in una Shangai colma di proiezioni di film di guerra che affollano la mente del protagonista da quanto sono martellanti. Ma non siamo neanche a pagina 12 che si legge: «Jim non aveva dubbi su quale fosse la guerra vera. La guerra vera era tutto ciò che aveva visto di persona dall’inizio dell’invasione giapponese della Cina, nel ’37 […] Nella guerra vera, nessuno sapeva da quale parte stesse, né esistevano bandiere, commentatori o vincitori. Nella guerra vera, non esistevano nemici.»13

Nella guerra vera Jim ci precipita con questo pensiero per arrivare poi alla constatazione, dopo averla vissuta, che lui stesso in questo grande “gioco” non valga nulla, essendo tutto in mano a chi ha armi e risorse per controllare tramite uomini altri uomini. Quando è internato nel campo di Lunghua pensa come «alla resa dei conti, insomma, i suoi sentimenti, la sua determinazione a sopravvivere, non contavano niente [ ]» E tuttavia, eventi esterni permettendo, Jim rimane vivo grazie anche alla sua mente, che si intrattiene senza sosta, non importa quanto sia esausto o morente.

C’è sempre qualcosa che attira la sua attenzione, che lo porta all’azione successiva, che lo fa riflettere e lo mantiene attivo per quanto è nelle sue capacità, in una maniera non superficiale, non solo fisica. Jim non è “vivace” infatti, è vivificato dalla sua mente. Nelle sue peregrinazioni

Ballard, James Graham, L’impero del sole, Bergamo, Feltrinelli Editore, 2010, p 63

Ballard, James Graham, L’impero del sole, Bergamo, Feltrinelli Editore, 2010, p 12

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mentali, tramite esse, rimane comunque aggrappato a terra, al reale e alle sue vicissitudini per adattarvisi a modo suo, malleabile. Si adatta così bene che lo fa perfino rispetto all’idea di morire, o di esser già morto: «Per pochi, estremi momenti, i prigionieri sarebbero stati […] pienamente consapevoli di sé stessi; ma, qualunque cosa fosse accaduta, lui sarebbe sopravvissuto. [ ] Lui - la sua anima aveva già abbandonato il suo corpo, né aveva più bisogno, per durare, delle sue piccole ossa e delle sue piaghe aperte. Lui era morto, come il signor Maxted e il dottor Ransome. Erano tutti morti, a Lunghua. Ed era assurdo che gli altri non se ne fossero accorti.

Sebbene cresca in un mondo dove anche vivere un’ora in più è una sfida, la prova più grande che porta avanti è mantenere intatto il suo spirito, nonostante tutto. Certo vive esperienze segnanti che qualcosa cambiano in lui e così Jim cresce, ma la sua “potenza bambina” rimane; forse comprende anche qualcosa in più degli adulti, soprattutto quando pensa al suo compagno di prigionia Basie, visto per l’ultima volta mentre si allontanava per tentare di prendere d’assalto uno stadio, con l’idea di saccheggiarne il possibile, «Basie e si suoi che tentavano di irrompere nello stadio i morti che giocavano i loro giochi pericolosi »

La forza di Jim alcuni adulti capita che l’apprezzino, a loro modo. Sono capacità, la sua parlantina e la sua inventiva, che lo rendono interessante per un po’ al succitato Basie, che si perde nelle fantasie di ambienti e situazioni tanto lussuose e agiate, quanto mai distanti e irraggiungibili. E ammaliare anche per poco Basie è ciò che lo porta a sopravvive un altro po’, ad imparare come guadagnarsi ancora più tempo sulla terra. E questa astuzia oratoria, che dir si voglia, che ha Jim è appunto una riflessione diretta di ciò che a suo tempo aiutò James Ballard stesso. Che afferma di aver sfruttato l’immensa noia paradossalmente provocata da una vita fatta di miseria e priva di eventi, fatta eccezione per la brutalità e la violenza, del campo di prigionia. Gli è servito per abbattere le barriere degli adulti e fare breccia donando loro un’ora in meno da sopportare, grazie alla sua loquacità. Tattica efficace non solo con i prigionieri ma anche con chi li rendeva tali. Ballard infatti affermò: «I also became friends with several of the young Japanese guards. They were bored, too, and would let me wear their kendo martial arts

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armour.» 15 Ballard, James Graham, L’impero del sole, Bergamo, Feltrinelli Editore, 2010, p 21514 “The real Empire of the Sun: JG Ballard on how his childhood inspired the gripping war film” :15 https://www.dailymail.co.uk/news/article-1173287/The-real-Empire-Sun-JG-Ballard-Shanghaichildhood-inspired-war-film.html 16

Cucendo e inserendo pezzi sparsi del caos di quegli anni dunque, le peripezie che Ballard visse in prima persona sono inserite in questa storia immaginata, che però ha come soggetto l’ispirazione a vicende vere e persone reali. La maggior parte delle crude e spiazzanti immagini che sono raccontate nel libro, furono viste direttamente con i suoi occhi e quelle che invece non lo sono state, Ballard le venne a sapere da altri internati. Gli ci sono voluti, disse, vent’anni per ricordare gli eventi e vent’anni per dimenticarli, ma lui stesso riferì che stranamente, una volta deciso che l’impronta sarebbe stata autobiografica, la scrittura fluì in maniera naturale. Come se il momento di ri-comporre sé stesso assieme alle16 vicende affrontate gli avesse dato tregua per poter organizzare il passato a suo modo. Tramite la finzione letteraria di ciò che è accaduto e sopravvissuto nella sua memoria, non ci rimane certo un racconto (di genere) fantastico su un ragazzino, ma ci resta come la mente fantastica di Jim/Jamie/James si è approcciata ad eventi reali. Ci è stata donata un’apertura su una mente bambina che non potremo mai definire sciocca o infantile.

Perché come dice Ursula Le Guin l’immaginazione è appunto libero gioco della mente, che può essere anche molto serio, perché addestramento e via di elaborazione di quello che sarà il mondo adulto. Un bambino che non ha giocato, non maturerà mai davvero.17

1.2 Pensiero fantastico, pensiero scientifico

«Ci si è chiesti ripetutamente che senso abbia mettere insieme scienza e fantasia, giacché sono due modi radicalmente diversi di rapportarsi al reale, che obbediscono a due bisogni non solo distinti, ma opposti, di conoscere la realtà o, piuttosto, di fantasticarla diversa da come appare. Tuttavia si sa che nell’ossimoro, come nel paradosso, l’inconciliabilità è solo apparente.» Con questa citazione si vuole introdurre una riflessione18 ulteriormente utile al discorso di “ serietà ” del processo creativo fantastico, mettendolo in relazione a ciò che da lui sembra più lontano, almeno in apparenza, ovvero il pensiero scientifico.

Estratti dall'autobiografia di James G. Ballard, “I miracoli della vita (Seconda parte)” : http://16 www.mattbriar.com/2016/05/ballard-xii-i-miracoli-della-vita-pt2.html

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura

di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986 p.35

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani. 2012, p.73

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Aldo Carotenuto, da cui è preso il discorso, è stato professore di Psicologia della personalità a Roma, oltre che importante esponente dello junghismo internazionale. Sebbene il libro da cui derivano le righe qui sopra tratti in maniera molto dettagliata della psicologia della fantascienza, in questo passaggio egli si riferisce ad un approfondimento che antecede il trattamento del genere letterario in sé. Carotenuto in questa notazione, come in altri punti nel suo libro, esplicita che il ragionamento di analisi del mondo che conosciamo o di un mondo invece altro dal nostro sia in qualche modo simile.

Ursula Le Guin anche si è chiesta a suo tempo se non possa esserci un concreto collegamento tra una mentalità scientifica che analizza e sintetizza e una mentalità fantastica, a partire dal fatto che suo padre, uomo di scienza, apprezzasse così tanto uno scrittore fantasy come Dunsany. Senza svalutarlo solo perché narratore di storie surreali. Forse, come lei stessa fa intendere tramite un esempio inverso, la causa per cui una persona può apprezzare tanto un mondo fantastico, quanto gli studi della ricerca scientifica, consta nell’interesse generale per cose remote e complesse, e che quindi può darsi che il nesso sia puramente estetico.19 Ma quando, all’interno di uno dei suoi saggi, spiega la sua personale metodologia di lavoro, che usava per creare i suoi mondi, qualche punto in comune in più forse lo si trova.

Le Guin infatti descrive la generazione di un mondo di fantasia secondo il concetto di una struttura non viene costruita, ma viene scoperta. Ovvero l’area di un mondo di fantasia viene delineata dall’autrice in quanto entità non pre-progettata, ma facente parte della vastità di terre che ella chiama interiori. Terre che si auto-generano. Secondo il suo modo di agire dunque l’infinità di mondi che si trovano nel subconscio e che possono diventare materiale di racconto si riconoscono e si scoprono nell’attimo stesso in cui vengono portati alla luce. Quando le Guin creava qualcosa in realtà la scovava nel suo interiore. L’autrice non inventava pensando nei minimi dettagli cosa potesse modellare di quello stesso mondo, ma lo svelava addentrandosi in esso, prendendo atto che certe immagini e scoperte a volte vengono da sé, perché sono già presenti: sottopelle. Si può osservare e riportare l’esistenza di come quel mondo si esprima, tramite le usanze di una certa società che lo abita, o si possono rilevare tutte le informazioni di corredo attorno ad esso per riflettere sulle loro implicazioni, ma tutto ciò

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura

di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986 p.22

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già c’è. L’attività dell’autrice era quindi di scoperta, di esplorazione e conseguente analisi.

Questa metodologia di conoscenza di un universo nuovo rassomiglia all’approccio di osservazione di un ricercatore che studi le caratteristiche di un luogo sconosciuto o che analizzi le funzioni di un particolare aspetto della realtà o dell’uomo stesso. Il metodo di creazione fantastico dato dall’osservazione, potrebbe essere messo in parallelo allo sguardo indagatore di chi ricerca scientificamente le leggi del mondo concreto, conscio che più che inventarle deve appunto scoprirle. Solo che uno sguardo è diretto al mondo fisico, fuori da sé, l’altro ad un mondo etereo e astratto, dentro di sé. Vedere le cose che vanno oltre noi, osservarle ponendosi in una posizione di completa apertura per ciò che ci aspetta, significa riconoscere il proprio essere vergini rispetto a significati e verità che non possiamo magari possedere in completo, ma che possiamo svelare. È anche un saper vedere in maniera “diversa”, cioè, con molta apertura mentale, ammettendo di poter essere meravigliati, sconvolti, colpiti, da qualcosa di nuovo.

Carotenuto affronta su questo punto come sia il pensiero fantastico, sia quello scientifico abbiano in comune la capacità di offrire vertiginosi cambi di prospettiva. Se c’è qualcosa che le scoperte in area di scienza o fisica ci hanno insegnato, è come le certezze sul mondo facciano parte solo dell’apparenza del mondo stesso. Dobbiamo essere consci che le idee a priori su ciò che pensiamo di sapere possano esser nel tempo modificate e superate tramite altri, diversi, sguardi.

Con questo non si vuole essere fraintesi: la relatività di prospettiva di cui si parla non deve assolutamente appannare l’attuale validità di odierne scoperte o solide basi scientifiche. La coscienza che possano essere superate non ne annulla la valenza. Nè si vuole dire che chiunque si può inserire con autorevolezza in un discorso attorno ricerche e risultati di studi specifici, che poggiano la loro veridicità su rigorosi procedimenti per cui i più non hanno alle spalle una formazione tale da permettere loro di comprenderli appieno. È chiaro che i risvolti concreti che ha il creare la teoria della relatività o Guerra e pace, tramite quello che Le Guin chiama “il libero gioco di una mente adulta”, non siano gli stessi. L’errore di una tale incomprensione è allontanata dallo stesso professore, che sottolinea il fatto lapalissiano che ogni persona su questo pianeta abbia l’esperienza di una propria realtà e che la filtri a suo modo, ma che sia anche ovvio che la scienza abbia un rapporto privilegiato con essa. Dato che «indagandone e cogliendone i nessi e le leggi, mette ordine nella realtà e, in qualche

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modo, la fa sua». La scienza è uno strumento di indagine dei20 meccanismi del mondo e rappresenta anche la possibilità di poter manipolare certe parti di esso, o di pensare di farlo sapendo dove mettere mano. Che si parli di una manipolazione in senso negativo o meno, esiste un binomio: da una parte la conoscenza delle regole che ordinano ciò che ci sta attorno, dall’altra la possibilità di intromettercisi.

Ma se da uno sguardo “differente” si può arrivare a cambiare il mondo esterno tramite la scienza, lo stesso sguardo può vivificare le terre interiori, può cambiarci da dentro. L’importante è che ci sia per entrambi gli ambiti: disciplina. Perché «come diceva Christopher Priest, l’idea è tutto: per la scienza, quanto per la fantasia» ma ciò che più di ogni cosa21 regola il risvolto di un’idea, il suo concretizzarsi oltre il lato teorico, è questa singola qualità. La disciplina permette a un’idea di reggere se stessa e attuarla con coerenza. Perché «essere liberi non vuol dire non avere disciplina» , disciplinare non è limitare ma coltivare, è divenire abili22 a fruttificare qualcosa di germinale.

Un’idea approcciata con disciplina mentre siamo alla scoperta di qualcosa di nuovo, è il punto che avvicina mentalità scientifica e mentalità fantastica, per conoscere ed eventualmente mutare il lato esterno o interno di qualunque mondo definiamo nostro.

1.3 La questione editoriale

Tornando ora ad un altro mondo, quello dei libri, bisogna rilevare che molte delle problematiche che svalutano la letteratura di ambito fantastico, o più specificatamente i suoi sottogeneri, risiedono nelle dinamiche editoriali che immettono i prodotti nel settore.

Possiamo sintetizzare questi aspetti in tre punti, probabilmente non abbastanza per coprire questo grande tema, contando che comunque l’editoria già soffre di per sé. È un’area di mercato che deve equilibrare le mancanze monetarie creando prodotti più “commerciali” che in quanto a vendite hanno la meglio. Così facendo, si permette a sua volta di sostenere

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani. 2012, p.68

Aldo, L’ultima medusa: cit., Edizione

Bompiani. 2012, p.76

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura

di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.35

20 Carotenuto,
Kindle,
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22
20

le spese dei prodotti invece più ricercati a livello qualitativo, anche se questi ultimi non portano gli stessi introiti. La crisi editoriale con i suoi equilibri precari e complicati meccanismi, non sono tuttavia il vero fulcro del nostro discorso, sebbene può toccarci invece la domanda che aleggia riguardo alla situazione generale, cioè quanto questo compromesso possa durare, o se non abbia fatto già abbastanza danni a livello culturale.

1) Il primo punto tratta l’idea di target “adatto” per i generi della narrativa di fantasia: ovvero un pubblico prettamente giovane. Su questo la stessa Ursula Le Guin ha avuto da commentare all’interno dei suoi saggi. Il “giusto” target per la narrativa fantastica viene visto con occhio svalutante perché si pensa, di nuovo, che tutto ciò che viene raccontato di non reale sia “infantile” e in quanto tale, fruibile solo ad un’età “non matura”. Ragionamento che si applica, come è ovvio, per le stesse questioni di pregiudizio affrontate sul concetto di fantasia in sé e che avviene secondo l’erronea idea che i prodotti per l’infanzia e/o adolescenza, dove venga usata la tanto temuta immaginazione, abbiano meno da dire che i libri per adulti. Già così entriamo a gamba tesa nel secondo punto, che è infatti difficile da differenziare, è quasi un tema unico, tuttavia prima di passarvici, riportiamo ciò che la stessa scrittrice Le Guin ha a suo tempo (nell’articolo pubblicato nel 1973: I sogni devono spiegarsi da soli) riportato rispetto al suo pubblico. In quest’ultimo un certo gruppo tornito di lettori giovani certo esisteva, ma non solo, soprattutto in ambiente inglese pare che l’età dei suoi lettori gravitasse oltre i trent’anni, dato che la narrativa fantastica è, come lei stessa ha detto: « una grande livellatrice » di età.23 Sicuramente intercorre anche una questione culturale, «di persone abbastanza mature da non dover difendere la propria maturità» , ma24 forse non serve un minuzioso censimento su età e tratti specifici dei lettori di narrativa di fantasia per ogni grande autore, per capire che non è un genere leggibile in un solo periodo della vita. Sarebbe poi alquanto complesso perché, lasciando un momento da parte l’esempio più comune con il fantasy classico con a capostipite Il signore degli anelli, anche le opere più famose di George Orwell, La fattoria degli animali e 1984, hanno a che fare con i sottogeneri di fantapolitica e fantascienza e la trama è piuttosto fantastica ma, diremmo, matura. Dovremmo poi contare qualche altro classico psicologico e filosofico con elementi fantastici come Il ritratto di Dorian Gray, o seguendo sulla

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte cit., Roma, Editori Riuniti, 1986, p.4823 Ibidem24 21

fiction gotica Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, o ancoar Frankestein. Includere quindi tutti loro e oltre per contare quanti siano o meno gli adulti lettori o “i giovani", andando avanti un po’ all’infinito. Anche la fantascienza come genere in sé talvolta soffre di questo discrimine di pubblico tutt’oggi, Carotenuto vi accenna quando parla del genere tacciato di essere completamente folle, improbabile, assurdo, e quindi riservabile solo ai giovanissimi, ai bambini, non certo agli adulti! Ma l’interesse che la fantascienza o altri generi25 limitrofi ispirano sulle persone, non nasce né per fasce di d’età, né per categorie sociali. Insomma i limiti non dovrebbero stare nel genere o nel target, il problema da porsi è scrivere libri perché si ha qualcosa di urgente da dire, e non per far piacere agli editori, come dice Giorgia Grilli (a sua volta citando Gianni Celati).26

2) Andando comunque oltre i pregiudizi, arriviamo al secondo punto: non si vuole negare che ci siano in effetti dei problemi specifici nell’ambito della narrazione di fantasia soprattutto quando si toccano alcuni sottogeneri. Il fatto è che non esiste un diffuso approccio letterario di critica o autocritica serio, da parte di molti scrittori ed editori, nonché del pubblico. Dato che si fanno uscire molti titoli pensando unicamente alla possibilità di vendita e di profitto assicurato, come succede soprattutto con il fantasy, che ad oggi, è piuttosto inflazionato. Il dilemma sta nel fatto che spesso il genere in sé appare come sufficiente per attirare chi lo legge e accontentarlo. Ciò fa precipitare la percezione dei prodotti stessi, anche quando sono validi, ed è un peccato perché la differenza che sta tra un’opera creata per sentito coinvolgimento, avendo qualcosa da dire e facendolo con cura, rispetto ad una fatta unicamente per soldi o senza una coscienziosa autocritica, si vede. Questo aspetto, da una parte alimenta la visione in negativo che si ha da parte del pubblico generalista di questi libri in sé, dall’altra viene paradossalmente fomentato da chi fruisce di questi stessi prodotti senza tanto raziocinio. Venendo favorita principalmente la pubblicazione di libri creati per funzionare nella vendita, la media qualitativa cala ripidamente. Ursula Le Guin nel saggio Da Elflandia a Poughkeepsie fa della pungente critica ed ironia dei “novizi” che si avvicinano alla scrittura del genere fantasy e va molto nello specifico, portando in esame gli errori più comuni. Ad esempio come quando, cercando di utilizzare, senza padroneggiarlo davvero, un linguaggio

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani. 2012, p.65

Grilli, Giorgia, Libri nella giungla - Orientarsi nell’editoria per ragazzi, Città di Castello (PG), Carocci

Editore, 2021, p.14

25
26
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forbito, i cosiddetti novizi creano delle lungaggini testuali che oltre ad essere fuori luogo risultano pesanti e piuttosto ridicole. In realtà, come l’autrice stessa insegna, la tipologia più nobile del parlato, e anche la più difficile, è «quello piano», gli arcaismi o le strutture ampollose di27 scrittura non sono necessarie né richieste, soprattutto nello specifico di scene colloquiali che la scrittrice porta in esame. D’altronde come Italo Calvino dice nelle Lezioni Americane, soprattutto quando si devono affrontare tematiche di un certo spessore, la leggerezza è una prerogativa. Un’altro colpevole che manca di serietà, nel senso di sottovalutare a priori le opere di questo genere e quindi farsi andar bene tutto, è appunto il pubblico. Più si prende sul serio la fantascienza e la fantasy, etc., più si ottengono opere migliori. Per Le Guin si dovrebbe poter mettere a confronto i risultati più importanti di questi generi con altri libri appartenenti a tutta la letteratura, non solo alle nicchie in sé. Così facendo si imparerebbe forse a non fare sconti su ciò che risulta mediocre o immaturo e valorizzare ciò che invece lo è, anche “se di genere”. Il pubblico non dovrebbe accettare di esser così sfruttato, nel farsi andare bene opere che non hanno alla fine molto28 da dire, se non perpetuare delle formule che hanno funzionato una volta e continuano a ripetersi, assomigliandosi fra di loro all’infinito, senza aggiungere poi nulla.

3) Purtroppo però tutte queste considerazioni si annullano dal momento che il processo di scelta dei libri da pubblicare spesso, ad oggi, si basa su strette dinamiche di marketing, che vanno oltre l’analisi che Le Guin ha fatto dei prodotti usa e getta che però vendono perché il genere va di moda. Dato che la situazione perdura da un po’ di tempo, considerando che ne ha parlato Le Guin negli anni Settanta come ne parla Giorgia Grilli oggi, arriviamo al terzo punto, ovvero uno dei meccanismi di scelta di pubblicazione da parte delle case editrici, secondo strategie di vendita. Giorgia Grilli dunque, anche se all’interno di Libri nella giungla - Orientarsi nell’editoria per ragazzi, si esprime nello specifico su libri rivolti all’infanzia e all’adolescenza, tocca dei punti nevralgici che comunque coinvolgono la narrativa di fantasia, nel particolare la fantasy. Infatti quest’ultimo genere è uno dei due più battuti (il secondo è un rosa abbastanza scialbo), nello specifico fenomeno odierno di ragazzi che scrivono per ragazzi. Ovvero la professoressa e ricercatrice denuncia come a moltissimi giovani che

LLe Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a

cura di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.83

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte cit., Roma, Editori Riuniti, 1986, p.86

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28 23

gravitano tra i 15 ai 18 anni sia data ad oggi l’occasione di pubblicare, e di farlo in fretta, puramente per il dato età, che è così scrivibile in copertina, con tanto di sensazionalismo grafico e mediatico per allettare il pubblico. Pubblico in questo caso che è composto da altri coetanei, tanto che il libro possa convincerli ancora prima di leggere un estratto, perché comunica che quell’autore che vedono «è "proprio uno di voi”, nell’appello implicito lanciato ai potenziali acquirenti adolescenti. In quest’epoca di illusorio tutti-possono-fare-tutto, di demagogico puoi-sfondare-anche-tu [ ] salvo nascondere il fatto che questo romanzi di giovanissimi non corrispondono minimamente, come prodotto finale ai loro manoscritti e tanto meno alla loro vera espressione di sé, [ ] i ragazzi in sé stessi con quello che avrebbero da dire, bensì quello che già funziona. Riproposto in infinite imitazioni. A cui si prestano i giovani che vogliono non scrivere veramente, ma più che altro pubblicare. Glielo insegniamo e chiediamo noi.» Ne vengono29 quindi fuori libri immaturi, per come è normale che sia a quell’età, che appunto sono scritti da una persona che eventualmente può essere promettente nel ruolo di scrittrice o scrittore, ma non già autore fatto e finito. Il ciclo naturale di questi libri è di finire nel dimenticatoio dopo aver fatto da esca per il “talento” successivo che però così si brucia e si spreca. Si aumenta così quella mole di libri che riempiono il genere e gli scaffali andando a trasformare quei famosi archetipi in stereotipi30 e svalutando le possibilità infinite nella narrativa di fantasia, proponendo in prima linea solo delle trite e ritrite formule di fantasy (o dark fantasy, vedesi tutto ciò che è seguito dopo l’evento di Twilight).

Grilli, Giorgia, Libri nella giungla

pp.71-72

Grilli, Giorgia, Libri nella giungla

Città di Castello (PG), Carocci

- Orientarsi nell’editoria per ragazzi,
29 Editore, 2021,
cit., Città di Castello (PG), Carocci Editore, 2021, p.6330 24

2. Dal fantastico al fantascientifico

È chiaro che ci sia una differenza in termini rispetto a ciò che si può chiamare un racconto fantastico ed uno fantascientifico. Non sono totalmente interscambiabili per stilemi, risvolti e storie create. Il fantastico in sé è poi, oltre che un genere, anche un termine ombrello che racchiude dei suoi sotto-generi createsi nel tempo, fra i quali compare la sopraccitata fantascienza. Quindi è essenziale accennare, anche in sintesi, ciò che è stato elaborato riguardo le varie classificazioni, prima di procedere oltre.

Ci viene in aiuto ciò che ha scritto Silvia Albertazzi, che, basandosi sugli studi dietro alle teorie di definizione del genere fantastico (e limitrofi), si è districata fra di essi per offrirci una più chiara e ricca retrospettiva. La saggista e docente all’interno de Il punto su: La letteratura fantastica, una delle collaborazioni portate avanti su alcune collane Laterza, riporta e riconosce i diversi generi, ma rileva anche come il fantastico, oltre un certo limite, sfugga alla possibilità di esser imbrogliato in una rigida etichetta. È per questo che ella si propone di affrontare le divisioni del genere, senza però innalzarle a dogmi e anzi di guardare il tutto sotto un occhio più oggettivo, dato che dei limiti ferrei non reggerebbero. Cvetan Todorov (1939-2017) ha scritto uno dei saggi più conosciuti riguardo la letteratura fantastica (La letteratura fantastica, 1970), dove crea delle casistiche specifiche e distinzioni fra le varie tipologie del fantastico basandosi sulla reazione dei soggetti nell’incontro con l’elemento magico o estraneo. La sua idea non è di intervenire su ogni singola storia di letteratura fantastica, ma di creare un metodo di differenziazione. Per cui distinse: il meraviglioso (elemento magico/soprannaturale accettato come comune), l’étrange (elemento magico/soprannaturale non accettato come comune e in qualsiasi maniera riportato alla razionalità) ed il fantastico (incontro fra i due generi, l’esitazione fra il reale e il surreale).1

Treanni, Carmine su Fantascienza.com, “Il meraviglioso scientifico di Tzvetan Todorov” : https://1 www.fantascienza.com/22210/il-meraviglioso-scientifico-di-tzvetan-todorov: Citando lui stesso, da La letteratura fantastica: «Il fantastico dura soltanto il tempo di un’esitazione: esitazione comune al lettore e al personaggio i quali debbono decidere se ciò che percepiscono fa parte o meno del campo della “realtà” quale essa esiste per l’opinione comune. Alla fine della storia, il lettore, se non il personaggio, prende comunque una decisione, opta per l’una o l’altra soluzione e quindi, in tal modo, evade dal fantastico. Se decide che le leggi della realtà rimangono intatte e permettono di spiegare i fenomeni descritti, diciamo che l’opera appartiene a un altro genere: lo strano. Se invece decide che si debbono ammettere nuove leggi di natura, in virtù delle quali il fenomeno può essere spiegato, entriamo nel genere del meraviglioso»

27

Esistono secondo Todorov anche dei sottogeneri del fantastico, per esempio fantastico-strano e fantastico-meraviglioso, degli ibridi che indicano racconti dove “l’esitazione fantastica” permane ma alla fine si sfocia o nello strano o nel meraviglioso. Todorov ovviamente crea delle2 altre sottodistinzioni più analitiche e affronta anche la divisione fra i temi dell’IO e del TU, cari al fantastico, ovvero i primi abbraccerebbero la relazione fra uomo e mondo e i secondi fra uomo e inconscio. Ma detto ciò, sebbene sia molto riduttivo parlarne così, preferiamo porci più sulla linea della Albertazzi che, pur partendo da un accenno a quest’autore, si affida maggiormente alle idee di Roger Caillois (1913-1978) per definire il fantastico e le varie distinzioni da esso. In quanto Todorov peccherebbe, come i suoi successori teorici, di appesantire e sofisticare una materia secondo regole e plurime sovrastrutture che poi crollano e rischiano di scontrarsi fra di loro. Non vi è necessità di una tale sovra-analisi, soprattutto nell’ambito della nostra dissertazione, che è minima a confronto e mira ad altro, per cui, data la vastità e l’eterogeneità di ciò che si ritrova all’interno del genere, senza mancare di rispetto all’operato di Todorov, proseguiamo oltre.

Caillois dunque distingue più che altro fra meraviglioso e fantastico. Dove il fantastico «manifesta uno scandalo, una lacrima, un'irruzione insolita, quasi insopportabile nel mondo reale», mentre l’elemento magico, come3 una fata o uno stregone, nel meraviglioso non crea conflitti di nessun tipo col mondo reale e anzi lo abbraccia in maniera armoniosa nel proprio universo. Geni, streghe, draghi, orchi e così via sono protetti dal “c’era una volta”, è risaputo ed accettato che lì esistano, non danno preoccupazioni.

«

Il fantastico presuppone la solidità del mondo reale, ma per devastarlo meglio [ ] Così fa vacillare le certezze più consolidate e il Terrore si fa strada. Il passo essenziale del fantastico è l'Apparizione: ciò che non può accadere e che tuttavia accade, in un punto e in un momento preciso, nel cuore di un universo perfettamente segnato e dal quale si considerava bandito per sempre il mistero. Tutto sembra oggi e come ieri: tranquillo, banale, senza nulla di insolito e ora l'Inammissibile pian piano si insinua o si dispiega all’improvviso.»4

Tassi, Fabio su Fantascienza.com,

Il fantastico

letteratura classica e moderna” : https://2 www.fantascienza.com/631/il-fantastico-tra-letteratura-classica-e-moderna

Caillois, Roger, definizione di “fantastico” dall’Anthologie du fantastique: https://3 www.ralentirtravaux.com/lettres/sequences/quatrieme/sequence_3/definition_1.php

fra
Ibidem4 28

Per cui a grandi linee, il sostanziale concetto che si rileva nelle parole del critico e scrittore, come da quelle della studiosa Albertazzi, per definire il fantastico come genere a sé, la differenza sta nella capacità delle storie fantastiche di essere assaliti dal dubbio e dal mistero. Dato che il fantastico per lo più su quello si basa, cioè sulla visione del mondo diverso da come è, tramite l’uso di una lente che, seppur irreale, ci dona l’impressione di vedere le cose più a fuoco.

Il fantastico ha delle caratteristiche proprie, da non confondere. Si divide quindi dalla fiaba, perché in esso si parla del nostro mondo, “reale” dove succedono eventi irreali (o realistici che però hanno un sentore di irrealtà) e che nel loro accadersi portano uno sconvolgimento nei confronti dei soggetti. Fattore che nella fiaba non ha spazio, perché gli elementi e creature magici sono universalmente normalizzati. Mentre la differenza che intercorre fra fantastico e fantasy o fantascienza, è che negli ultimi due casi abbiamo proprio un mondo altro, o che è tendenzialmente spostato in un tempo diverso, futuro o passato che sia. Inoltre questi mondi «elevano l’impossibile a unica dimensione narrativa, accettando per vero un universo immaginario» dove gli elementi di fantasia e5 prodigio sono incanalati in una specifica struttura magica in uno, mentre nell’altro nelle evoluzioni ipotetiche o probabili a cui porta la scienza, con qualche sua iperbolica scoperta.

In ogni caso esistono delle vie di mezzo, ma prima di esplorare dei prodotti che potremmo definire una commistione fra il “padre" fantastico e uno dei figli, il fantascientifico, partiamo da una più approfondita disamina dei due generi in sé e la loro storia. Come dice Roger Caillois, è possibile tracciare un’evoluzione fra i generi letterari partendo dal meraviglioso medievale, «intriso di magia,» passare poi «nel fantastico ottocentesco e dell’inizio del novecento, per poi, all’insegna del progresso tecnico»6 arrivare alla nascita della fantascienza e trovarla forse anche un po’ prima.

Albertazzi, Silvia (a cura di), Il punto su: La letteratura fantastica, Bari, Editori Laterza, 1993, p, 135

Segnini, Elisa; Frigerio, Vittorio, Dossier Fantastic Narratives, “La narrazione fantastica e il mondo6 naturale – Introduzione” : https://journals.openedition.org/belphegor/442?lang=en

Si fa in questo articolo, un’analisi del fantastico che prende spunto anche nel titolo da «un simposio che portava lo stesso titolo tenutosi all’università Dalhousie nel mese di aprile 2012. Durante due giornate ricche di attività i partecipanti hanno avuto il piacere di ascoltare specialisti di varie tradizioni ed epoche discutere con entusiasmo sulla presenza del fantastico nelle opere di autori francesi, inglese, canadesi, americani, spagnoli, italiani, tedeschi, cecoslovacchi, etc.», per poi vagliare le varie notazioni storiche sul fantastico fino ad arrivare al pensiero «secondo Roger Caillois, la cui Anthologie du fantastique ha enormemente contribuito a conferire un alone di rispettabilità al genere.»

29

Il fantastico

Se andassimo oggi a leggere nel vocabolario Treccani online la definizione del lemma “fantastico”, troveremmo scritto: «fantàstico agg. [dal lat. tardo phantastĭcus, gr. ϕανταστικός] (pl. m. -ci). –1. Della fantasia: capacità, potenza f.; virtù f. ovvero immaginativa (Varchi). 2. a. Più spesso, creato dalla fantasia, che è frutto di fantasia, o in cui ha parte prevalente la fantasia: un racconto f.; letteratura, narrativa f.; non posso credere che la perfettissima specie di poesia sia la f. (T. Tasso); l’arbitrarietà delle caratterizzazioni e degli intrecci può rendere, in radice, favoloso un comportamento, dimodoché l’effetto di spaesamento e di meraviglia che suscita normalmente la letteratura f. può essere creato anche da una comune storia realistica (Sergio Solmi).»7

Ci sono più punti di interesse da affrontare. Innanzitutto c'è un binomio, che un po’ abbiamo già toccato: realtà e fantasia. Di primo acchito potremmo dire che, anche a ragione, essi nascano come due termini opposti. “Fantastico” è ciò che viene creato dalla mente e/o generatore di fatti bizzarri, mai accaduti o improbabili nella realtà quotidiana. Eventi ed elementi che quindi vengono scritti, raccontati, immaginati, per capacità della mente umana. È il potere di creare qualcosa di altro. “Realtà” è ciò che conosciamo nelle nostre abitudini di vita giornaliera. Il luogo in cui nasciamo è reale, le persone che conosciamo, ciò che costruiamo con loro nel mondo. Ma spostando questa riflessione sul campo letterario stretto, che è poi quello di nostro interesse, notiamo che persino le più fredde narrazioni della vita vengono composte da una mente capace di organizzare elementi e vicende esterne. La psiche è sempre dotata di soggettività che, volente o nolente, fa da filtro: anche se generatrice di un mondo letterario mimeticamente perfetto, è comunque finto.

È su questo punto che esordisce la sopraccitata disamina di Silvia Albertazzi, l’autrice riporta ciò che affermano Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, dicendo che «bisognerebbe dire che tutta la letteratura è fantastica». Albertazzi sostiene che la distinzione tra realistico e fantastico sia una convenzione, certo utile e dovuta, ma nei contesti pratici in cui andiamo a ricercare l’una o l’altra è difficile che riesca a farli escludere a vicenda. «Forse soltanto la cronaca nuda degli eventi, priva di abbellimenti retorici e suggestioni narrative, potrebbe porsi quale

2.1
Treccani Vocabolario on-line, voce “fantastico” : https://www.treccani.it/vocabolario/fantastico/7 30

contrario del fantastico», per il resto è piuttosto inutile imporsi nel8 dividere nettamente queste due aree. Anche nei racconti fantastici più estremi, nei molteplici sottogeneri di ogni tipo, si parte comunque da una persona che genera qualcosa di illusorio partendo dalla realtà che vede e un vissuto concreto. Anche se volessimo trattare fantastico e realtà senza riconoscerne il gradiente di sfumature in mezzo, nel momento in cui vi definiamo un netto limite, è improbabile chiedersi cosa succeda dove si toccano queste due aree.

Silvia Albertazzi stessa riporta le parole di Sergio Solmi che ritroviamo negli esempi di Treccani, per dimostrare che tanto una narrazione realistica come una fantastica possono vicendevolmente avere in sé elementi dell’altra area. Più che parlare di una realtà opposta ad un’altra dovremmo parlare di molteplici realtà che non si creano nella lotta fra irreale e reale ma nelle loro commistione. Anche in un racconto “reale” senza elementi magici o fuori dal comune, possiamo ritrovare il sentore del fantastico. È inutile insomma dipingere le due parti come nemiche contrapposte, impossibilitate a contagiarsi, anche da un punto di vista teoretico è dannoso perché « porta, del resto, alla superficiale identificazione come fantastica di ogni letteratura non mimetica, secondo una classificazione arbitraria in cui paradossalmente non trovano spazio proprio le manifestazioni inquietanti del quotidiano e il fantastico viene a confondersi con le espressioni del meraviglioso: la fiaba, la saga, la leggenda; o con altre creazioni letterarie aventi per scenari universi fittizi, come l’utopia o la fantascienza.» Infatti il fantastico è un’intersezione di9 più livelli del reale che si confondono, «[ ] esiste solo in relazione al vissuto quotidiano, nello sconcerto di fronte alla minaccia improvvisa di un elemento destabilizzante, non necessariamente straordinario. […] fonda la sua inquietudine sulla consapevolezza che non esiste verità assoluta, ma solo un’infinita serie di probabilità, tante quante sono le immagini del mondo che l’uomo può crearsi e tutte passabili di rivelarsi, da ultimo, illusorie.» Riprendendo ciò che scrivono nell’articolo La10 narrazione fantastica e il mondo naturale – Introduzione Elisa Segnini e Vittorio Frigerio (con le parole di Charles Grivel, studioso di letteratura svizzero e professore universitario, e il giornalista e scrittore britannico G.K. Chesterton) possiamo constatare che è realtà ciò a cui si dà un senso. Se ci poniamo in un contesto di labilità fra mondo naturale e quello creato

Albertazzi, Silvia

Albertazzi, Silvia

Albertazzi, Silvia

(a cura di), Il punto su: La letteratura fantastica, Bari, Editori Laterza, 1993, p.38
(a cura di), Il punto su: cit., Bari, Editori Laterza, 1993, p.69
(a cura di), Il punto su: cit., Bari, Editori Laterza, 1993, p.910 31

e modellato dalla nostra società per esempio e adottiamo uno sguardo neutrale, o più che altro “intonso” come di un bambino, anche un lampione diverrà un oggetto estraneo. Un elemento misterioso che per “magia” rischiara la notte, grazie a delle dinamiche non completamente comprensibili. Un lampione può divenire un oggetto straordinario semplicemente con uno sguardo estraneo e diverso dalla norma.11

Altra riflessione interessante nel ricco discorso di Albertazzi, è che si parli del fantastico come la possibilità di esprimere tre elementi specifici: (1) la verità tramite la bugia, (2) le «cose senza nome e nomi senza cose», (3) tabù societari, dato che spesso e volentieri le storie vengono portate ad estremi piuttosto audaci.

1) Riguardo la verità nella falsità, la letteratura fantastica è la sua ancella più splendente, Albertazzi (basandosi soprattutto su un estratto di un testo di Salman Rushdie), sottolinea come questo elemento sia quasi un dovere in un periodo storico dove chi dovrebbe definire la realtà, informando e formando le persone, se ne approfitta per distorcerne le idee. Il fatto che la letteratura debba dire il vero tramite grandi bugie è un connotato dell’operazione stessa dello scrivere, è ciò che afferma anche Stephen King. Gli scrittori sono «i bugiardi di Dio» e chi fa questa attività oggi deve tener di conto di aver ereditato questa tradizione anche dai maestri di letteratura fantastica. Perché12 mostrare il nucleo delle cose, ciò che vi sta dietro, tramite una via differente fatta di sogni, intuizioni e immaginazione è il fulcro del fantastico. E come Le Guin direbbe, questo genere o approccio alla vita: «È un modo diverso di avvicinare la realtà, una tecnica alternativa di

Segnini, Elisa; Frigerio, Vittorio, Dossier Fantastic Narratives, “La narrazione fantastica e il mondo11 naturale – Introduzione” : https://journals.openedition.org/belphegor/442?lang=en: «“Il fantastico non si concepisce che rispetto ad una norma,” e se questa norma è la realtà, “è reale ciò che io penso che sia reale e che deve esserlo, ciò che considero tale.” L’ammissione del carattere soggettivo del contesto reale su cui si staglierebbe il fantastico portava poi il critico a precisare: “Questa realtà, beninteso, non è la natura ; ciò che esiste ‘nei fatti’ – come si dice – è insignificante ; al contrario, è reale ciò a cui accredito un senso. Il reale è frutto del sociale, della finalità che esso da, è ciò che si ammette come tale”» «Agli occhi d’un bambino, l’albero e il lampione a gas sono altrettanto naturali e artificiali. O piuttosto, né l’uno né l’altro sono naturali, ma sono entrambi sovrannaturali. Entrambi sono splendidi e inspiegabili. Il fiore con il quale Iddio incorona l’uno, e la fiamma con la quale Sam il lampionaio incorona l’altro, sono entrambi costituiti dall’oro delle fiabe. [ ] La natura, l’extra-umano si ritrovano sullo stesso piano dell’ambiente sociale e appaiono come elementi estranei agli occhi di un osservatore innocente. L’ignoranza, nella sua accezione più vasta e positiva, diventa il catalizzatore che permette la nascita di un rapporto particolare con un mondo naturale colorato di fantastico.»

Albertazzi, Silvia (a cura di), Il punto su: cit., Bari Editori Laterza, 1993, p.56

12 32

tener testa all’esistenza […] è un’intensificazione della realtà.» Che13 può rivelarci qualche verità in più, anche secondo vie traverse.

2) Sul poter raccontare invece « cose senza nome e nomi senza cose» (espressione che Albertazzi prende in prestito a Rosemary Jackson, autrice di Il fantastico. La letteratura della trasgressione), il concetto gira attorno al fatto che il fantastico non si comporta come farebbe un romanzo giallo, che spiega per filo e per segno le dinamiche dietro al mistero per avere una soluzione univoca. Più che altro rileva e anima elementi e dinamiche nel mondo che sfuggono all’uomo, poiché stando in zone nebbiose dell’esistenza e non sotto i riflettori, non sappiamo bene come chiamarle o analizzarle in altro modo. Ecco, il fantastico non dona un nome a questi aspetti per poterli imbrigliare in una parola e mettervi un punto, ma vi crea attorno intere storie, che si incentrano su quelle stesse sensazioni. Il tramite delle assurde vicissitudini raccontate ci permette di rifletterci sopra. Anche se, ed è importante dirlo: «il mistero non viene svelato. I dubbi dell’autore, le perplessità del narratore passano, infatti, al lettore, depositario di un segreto non svelato, di cui può solo confusamente intuire la portata.»14

3) Riguardo alle storie fantastiche nella loro connotazione di racconti dove non si censurano i tabù, come non richiamare le più famose menti che li hanno generati? È di inquietudine e orrore fantastico ciò di cui tratta Poe, sono parte del fantastico le derive più contemporanee dell’horror di Sthepen King, o tornando di nuovo indietro, il mistero, amore ed eros presenti in un libro come Il ritratto di Dorian Gray. Su questo elemento cioè l’erotismo, la studiosa cita La fata delle briciole di Charles Nodier, dai risvolti sensuali piuttosto morbosi, e ciò che succede ne La morta innamorata di Théophile Gautier, ma fra questi racconti aggiungerei in esempio la corrotta e splendida storia de Il Profumo di Süskind, Patrick, scritto nel 1985.

Le Guin, Ursula Kroeberg,

linguaggio

Il
della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura13 di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.74 Albertazzi, Silvia (a cura di), Il punto su: La letteratura fantastica, Bari, Editori Laterza, 1993, pp.60-6114 33

Il Profumo

Come genere, facendo un breve giro su internet, il libro è tacciato di essere un po’ tutto: thriller, realismo magico, mystery, fiction storica, horror fiction, o semplicemente in qualche blog viene semplicemente chiamato “ romanzo ” e non ci si avventura oltre. Probabilmente di fronte al fatto che già è così difficilmente incasellabile, lo potremmo definire come di diritto facente parte del genere fantastico. In ogni caso ne Il Profumo, c’è tutto quel che di storto potrebbe esistere, che tuttavia arriva a vette elegantissime nel suo gioco di contrasti. Il personaggio principale è Grenouille, un uomo maledetto eppure portatore di un dono, sin da piccolo nasce come reietto, per niente ben voluto o amato, al massimo sopportato. Il motivo della sua vita maledetta e infelice, Grenouille lo realizza in ciò che gli manca ovvero un proprio odore: non sa di umano, non sa di persona, non sa di niente e questo lo tormenta. La sua ricerca compulsiva in qualcosa che gli dia soddisfazione per vivere è estremamente complessa, dato che parliamo di un personaggio che è inoltre anestetizzato nei confronti delle relazioni e dei sentimenti umani, né in fondo gli interessano così tanto. A Grenouille manca un odore come gli manca l’umanità, non che le persone del mondo di cui fa parte ne siano così ricche, ma il ragazzo è essenzialmente indifferente a qualunque scrupolo e ragiona, più che di pancia, con l’olfatto, il suo più affidabile istinto.

Nella sua tortuosa storia però impara a maneggiare l’unica cosa che lo rende speciale, ovvero la conoscenza dei profumi e degli odori che riesce a comprendere ad un livello più profondo della normale superficie che sfiorano le persone comuni. Egli è più simile ad un animale ma dotato di mente umana. Grenouille analizza ciò che avverte col naso ad un livello superiore, percepisce tutto con un’intensità (e ad una distanza) e precisione tali che più che avere un’abilità che lo avvicina alle persone, lo allontana sempre di più. Tanto che il fulcro della storia di Grenouille (che già presto si rivela efferato assassino, distaccato nei confronti della vittima ma appassionato e febbricitante nei confronti di ciò che lo ispira ad uccidere, cioè possedere il profumo di alcune elette sfortunate) si annida nel momento in cui capisce di poter sottomettere addirittura le persone. Le può ingannare creando dei profumi che li soggioghino senza che se ne accorgano.

Nelle parole che seguono sarà piuttosto chiaro come questo libro sia completamente esente da qualunque censura, per la frenesia a tratti erotica e sensuale che si scatena all’interno della mente di Grenouille al pensiero di poter dominare in maniera assoluta gli altri.

2.1.1
34

Perfino Dio non è un ostacolo, anzi è una menzogna di poca cosa a cui può sostituirsi, non a caso è proprio tramite l’odore di Dio, di cui è immersa la chiesa in cui si trova in quell’attimo fatidico, che arriva alla sua decisione di svolta: «Sì, amarlo dovevano, quando erano soggiogati dal suo profumo, non soltanto accettarlo come un loro pari, amarlo fino alla follia, all'abnegazione, tremare d'estasi dovevano, gridare, piangere di gioia senza sapere perché, in ginocchio dovevano cadere, come sotto il freddo incenso di Dio, non appena sentivano l'odore di lui, di Grenouille! [ ] Poiché gli uomini potevano chiudere gli occhi davanti alla grandezza, davanti all'orrore, davanti alla bellezza, e turarsi le orecchie davanti a melodie o a parole seducenti. Ma non potevano sottrarsi al profumo. Poiché il profumo era fratello del respiro. Con esso penetrava negli uomini, a esso non potevano resistere, se volevano vivere. E il profumo scendeva in loro, direttamente al cuore, e là distingueva categoricamente la simpatia dal disprezzo, il disgusto dal piacere, l'amore dall’odio. Colui che dominava gli odori, dominava i cuori degli uomini. […] che odore scadente che aveva questo Dio! Com’era ridicolmente malcombinato il profumo che questo Dio emanava da sé. Non era nemmeno vero profumo d’incenso, quello che esalava dai turiboli. Era un cattivo surrogato, adulterato con legno di tiglio e polvere di cannella e salnitro. Dio puzzava.»15

Quando Grenouille però riesce davvero a creare un profumo supremo che attrae gli uomini e li sottomette, proprio nel momento in cui avrebbe in mano l’agognata arma per piegare gli uomini ed essere finalmente inserito nella società, capisce che ciò che davvero vuole, cioè entrare nella comunità degli uomini ed essere riconosciuto per poter riconoscere se stesso, è una speranza vana. Perché se ogni uomo ha un suo odore che lo caratterizza, quello che alla fine lui crea, tramite tremendi omicidi, è solo un travestimento, che tutti subiscono eccetto lui.

Grenouille è destinato a restare solo e sconosciuto perfino a sé, isolato nell’impotenza di relazionarsi con gli altri. Per questo alla fine si sparge addosso l’intera boccetta di profumo creato, che aveva generato indicibili effetti solo con qualche goccia, e lo fa di fronte ad uno stuolo di reietti della società, come lui. E viene divorato. Non come nelle fiabe, dove eventualmente i personaggi vengono ingoiati interi (il topos di Cappuccetto Rosso, ad esempio), ma letteralmente dilaniato. Non ne rimane nulla di fronte agli uomini e le donne che d’improvviso si scoprono irrefrenabili cannibali per una notte. Resta in loro solo una strana

Süskind, Patrick, Il profumo, Longanesi & C., Trebaseleghe (PD), 2017, pp.163-16415 35

sensazione, come una forte sicurezza di aver fatto la cosa giusta, qualcosa di bello: un grande atto di amore. Solo così Grenuoille si è potuto creare uno spazio fra suoi simili, fra gli “ultimi”: a brandelli e nei loro stomaci.

Alla fine come dice Rodari, nel testo riportato all’interno de Il punto su: La letteratura fantastica, il genere fantastico poggia i piedi su delle ipotesi, dato che sta tutto nella domanda «Cosa succederebbe se ?» Nonostante l’assurdità delle idee che poi ne vengono fuori, o la serietà di contesto e di conseguenze, il resto del gioco fantastico rimane tale, anche se molto sensato. Per certi versi ci sono delle regole causa-effetto degli eventi che accadono, che portano a conclusioni stranamente esatte. «All’interno di quell’ipotesi tutto diventa logico e umano, si carica di significati aperti a diverse interpretazioni, il simbolo vive di vita autonoma e sono molte le realtà cui si adatta» Ciò che ne viene fuori è aleatorio, eppure segue vie16 inevitabili, per niente insensate.

La storia di Grenouille ci convince perché è la risposta imprevedibilmente calzante alla domanda: cosa succederebbe se un uomo nascesse con un olfatto ineguagliabile, ma senza un proprio odore, nella Francia del XVIII secolo?

In una Francia che puzza terribilmente, che rivela la vera essenza degli uomini tramite il marcio: che succede ad un essere senza odore, ma che li percepisce tutti? «Non siamo più nel nonsenso mi pare. Siamo nel modo più evidente, all’uso della fantasia per stabilire un rapporto attivo con il reale. […] Nella realtà si può entrare dalla porta principale o infilarvisi - è più divertente - da un finestrino». 17

2.2 Il crocevia storico

Nonostante i precursori di opere assimilabili al genere fantastico si siano succeduti un po’ in ogni epoca e cultura, come afferma Albertazzi, comunemente si riconosce che la nascita del genere sia avvenuta a cavallo fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Il punto di svolta si inserirebbe quindi in parallelo allo sviluppo del Romanticismo. Contesto storico che la suddetta studiosa ricorda essere stato portatore di grandi

Albertazzi, Silvia (a cura di), Il punto su: La letteratura fantastica, Bari, Editori Laterza, 1993, p.12616 Ibidem17 36

cambiamenti sociali, che vanno citati in quanto essenziali per considerare la nascita del genere.

Vengono esplicitati come fattori di influenza: la genesi del romanzo moderno (che andava a racchiudere e riflettere nuovi modelli culturali), le condizioni di vita a cui portò l’industrializzazione e poi le concezioni filosofiche del tempo, che problematizzarono «il rapporto dell’uomo con l’elemento religioso-soprannaturale» mettendo in dubbio la rassicurante quotidianità borghese. Inoltre, viene poi suggerita la concezione del18 fantastico come una risposta all’indebolimento della credenza nel meraviglioso, in cui erano a loro tempo rientrate opere come La Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso o L’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Notazione quest’ultima che possiamo trovare in linea con quanto si è detto fin ora, è più peculiare invece il fatto che il fantastico sia definito anche « reazione allo scientismo » del Settecento e razionalismo illuminista Su questo punto infatti vale la pena soffermarsi un attimo.19

Per riprendere Roger Caillois, diciamo che il mondo in cui il fantastico piano piano prende spazio e si sviluppa è un mondo «dal quale il miracolo è stato bandito e in cui ad ogni effetto è collegata una causa rigorosamente identificabile – in altre parole, il mondo della modernità, che ha visto nascere i primi scrittori fantastici riconosciuti come tali (Hoffmann in Germania, Nodier in Francia).» Come ricorda la stessa20 Albertazzi, è un po’ paradossale che il fantastico abbia posto in questo contesto. L’Illuminismo fondò le sue certezze nella scienza e nell’ordine21 naturale, per combattere la cieca credenza e preponderanza della religione nella vita dell’uomo, religione che anche nel fantastico è assente perché riprende questa visione più razionale. Tuttavia in questo genere l’elemento surreale esiste. I personaggi nei confronti di esso si straniano perché vivono in un mondo “reale”, ma giungono poi all’accettazione o al sospetto concreto che qualcosa “di più” ci sia, perché gli accade qualcosa che non possono ignorare o spiegare in altro modo. Perciò vi è una palese ambiguità nell’aderire allo scardinamento delle certezze del credo religioso da una parte, combinato all’accettazione del dubbio e

Albertazzi, Silvia

Silvia

(a cura di), Il punto su: La letteratura fantastica, Bari, Editori Laterza, 1993, p.1418 Albertazzi,
(a cura di), Il punto su: cit., Bari, Editori Laterza, 1993, p.1619 Segnini, Elisa; Frigerio, Vittorio, Dossier Fantastic Narratives, “La narrazione fantastica e il20 mondo naturale – Introduzione” : https://journals.openedition.org/belphegor/442?lang=en Albertazzi, Silvia (a cura di), Il punto su: La letteratura fantastica, Bari, Editori Laterza, 1993, p.1921 37

dell’inquietudine dall’altra in un clima così “illuminato”. C’è da dire che c’è differenza fra il credo sacro rispetto alla rievocazione della magia di fiabe, miti delle diverse culture e folklore popolari (in piena linea romantica), che è ben diverso da ciò che è contenuto in un’intera religione, tuttavia, è evidente che una sensibilità per qualche cosa “di altro” rimane.

La lista di autori agli inizi del genere fantastico è piuttosto amplia. Ma prima si può fare un esempio concreto, e si spera utile, nominando innanzitutto: Storia straordinaria di Peter Schlemihl di Chamisso, autore che ebbe tra l’altro l’occasione di conoscere un altro scrittore essenziale del genere, ovvero Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, nel 1807 e ancora nel 1814 e 1818. Il suo racconto comunque, può esemplificare questo crocevia22 singolare, dove il suddetto compromesso fra un nuovo rapporto con la realtà e degli ancora persistenti legami con la presenza del divino esiste.

Tuttavia l’utilizzo che l’autore fa degli elementi magici del folklore popolare come la messa in scena di uno dei “personaggi” più conosciuti della cristianità, ovvero il diavolo, è forse stata una scelta più focalizzata ad asservire questi stessi elementi alla costruzione del senso della storia. È possibile che Chamisso si sia focalizzato più sul veicolare un messaggio intimo, stando alla biografia, che non totalizzante, per l’interlocutore a cui si rivolge. Ad una lettura soggettiva almeno, la presenza della religione cristiana non pare così pervasiva, nonostante si parli apertamente del potere della Provvidenza (in maniera consolatoria). C’è l’idea che il destino comunque segua un suo percorso inevitabile; il protagonista afferma: «siamo ruote che mettono in moto altre ruote, e queste sono, a loro volta, messe in movimento da altre, ancora. Quanto deve avvenire avverrà: mai potrà prescindere da quella Provvidenza, il cui valore appresi, dunque a valutare come merita sia riguardo al mio destino, sia riguardo al destino altrui che il mio ebbe a toccare.» Tuttavia, quello che rimane dopo aver23 finito l’opera è più che altro il nucleo della storia: un uomo che è costretto a riflettere e prendere in considerazione cosa comporti il vivere con gli altri e con sé stesso.

Adelbert von Chamisso fu un aristocratico (nato nel 1781) di Boncourt che dovette abbandonare la Francia con la famiglia a soli nove anni, per sfuggire ai rivoluzionari che distrussero il castello di loro proprietà. Giunto in Germania, sebbene svolse differenti mansioni passando da più adulto

Chamisso, Adelbert von, Storia straordinaria di Peter Schlemihl, Ariccia (Roma), Gruppo Editoriale

L’Espresso S.p.A., 2011, p.18

Chamisso, Adelbert von, Storia cit., Ariccia (Roma), Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A., 2011, p.70

22
23 38

anche per l’attività militare, perdurò sempre la sua passione per la letteratura e la poesia. Scrisse questo romanzo in un momento della sua vita in cui non aveva più (o ancora) una patria, per cui si sentiva totalmente sperduto. Questa storia è il suo unico lascito narrativo di romanzo completo, infatti viene ad oggi ricordato come poeta e naturalista.24

L’atmosfera e il mondo dove Chamisso racconta le vicende di Schlemihl non sono “angoscianti", anzi i toni con cui si esprime l'autore sono piuttosto leggeri e per niente appesantiti, ci sono molte riflessioni, dato che il racconto è in prima persona, di Schlemihl stesso ma i suoi monologhi, il suo scrivere, si trovano più in aderenza ad una impostazione che riecheggia la favola, invece che un melanconico intimismo. Si nota poi una certa voglia di gioco nell’immettere e confondere nella narrazione elementi autobiografici. Ad esempio a fine libro notiamo un’attenzione speciale per le terre straniere e per lo studio della loro botanica da parte del protagonista (che viaggia per il mondo con gli stivali delle sette leghe, ripresi dalla fiaba popolare) in linea agli studi dell’autore. Il piacere di Chamisso nell’esplorare il mondo e studiarlo è evidente nelle pagine, infatti egli viaggiò in Brasile, Chile, California, isole Sandwich, partendo il 9 agosto 1815 per la spedizione di circumnavigazione del globo (organizzata dalla marina da guerra russa, partecipò in qualità di botanico per varie ricerche scientifiche). Come è “simpatico” il fatto che la storia di Schlemihl venga presentata come realmente redatta dallo stesso e consegnata a Chamisso appunto, che “si sarebbe dovuto occupare della pubblicazione”. Evinciamo tutto ciò dalle prime pagine dove appare infatti una falsa corrispondenza dell’autore con due suoi amici (Julius Eduard Hitzig, Friedrich Baron de la Motte-Fouqué) e del vicendevole, sempre fittizio, scambio epistolare fra questi ultimi che parlano della pubblicazione della storia di Schlemihl, come se fosse realmente esistito, discutendo riguardo al dubbio se sia stata una buona scelta diffondere la storia o meno. Il pubblico (il ricevente e lettore della storia) infatti è piuttosto centrale, è chiaro che a Chamisso interessi che chi legge possa riflettere sulle implicazioni delle decisioni di Schlemihl, alla fine spesso viene chiamato nel discorso Chamisso stesso, cioè l’autore parla a sé stesso, fingendosi interlocutore, per parlare in realtà a noi e darci del “tu” .

La storia del protagonista inizia con la speranza che una lettera di raccomandazione del fratello di un ricco signore, tale Thomas John, possa portare Schlemihl a trovare di che vivere. Dato il contrasto con la

Chamisso, Adelbert

Storia

Ariccia

Gruppo

von,
cit.,
(Roma),
Editoriale L’Espresso S.p.A., 2011, p.624 39

lussuosità della proprietà di John e le sue possibilità economiche, l’uomo si sente subito inadatto allo stare con le persone che John ha attorno in quel momento, si sente quanto più lontano dai quegli ospiti: «Ma io, lì, ero proprio un estraneo, a malapena riuscivo ad afferrare qualcosa di quanto si veniva dicendo: preoccupato, chiuso in me stesso, nemmeno capo il senso dei molti sottintesi.» L’unico che gli darà un po’ di attenzione,25 adulandolo, sembra con sincera curiosità, è l’inizio dei suoi problemi: il diavolo. Personaggio alquanto singolare e notato da Schlemihl perché capace di far apparire qualunque oggetto desiderato dalla combriccola lì presente, ma per niente connotato negativamente nell’aspetto, un perfetto borghese in veste grigia. Ricorda un po’ infatti una sorta di antesignano di quello che sarà il diavolo di Michail Bulgakov in Il Maestro e Margherita (altro creatore di un romanzo che rientra nel genere fantastico, oltre che satirico), fascinoso e sveglio, che conversa in maniera cortese e brillante, che arrossisce pure. Non obbliga mai Schlemihl a fare quel che fa, crea proposte e scambi. La prima: cedere la sua ombra, in cambio della borsa dei desideri (di Fortunatus) contenente quanto denaro si possa26 desiderare.

Da qui in poi Peter inizia a capire che perdere la propria ombra non è cosa di poco conto. Nessuno lo accetta, tutti diffidano di lui, anzi crea pietà nelle donne, scherno nei giovani, disprezzo negli uomini. Perché nessuno27 si spiega come un uomo possa essersi dimostrato «assai poco attaccato all’ombra che la natura gli ha regalato» così da perderla. Il personaggio28 principale sopravvive da quel momento in poi solo grazie agli effettivi denari (di cui presto ha la nausea) che accettare lo scambio gli ha procurato e del fedele servitore Bendel, che supporterà il suo vivere la sera e nell’ombra, aiutandolo poi a camuffare l’assenza della sua coprendolo con la propria.

Il fatto è che dell’ombra, per far parte dell’umanità, non si può proprio fare a meno. Il passo successivo per riottenerla a detta del diavolo, che riapparirà più avanti, sarebbe di scambiare a quel punto la sua anima, per

Chamisso, Adelbert von, Storia… cit., Ariccia (Roma), Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A., 2011, p.23

Chamisso, Adelbert von, Storia cit., Ariccia (Roma), Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A., 2011, p.28:

nota si legge «Borsa contenente denari, inesauribile. Fortunatus è il personaggio di una vicenda cavalleresca ripresa da vari autori, tra i quali Fouqué e, in un dramma incompiuto, da Chamisso stesso.

Chamisso, Adelbert von, Storia cit., Ariccia (Roma), Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A., 2011, p.33

Chamisso, Adelbert von, Storia cit., Ariccia (Roma), Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A., 2011, p.37

25
26 in
»
27
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averla indietro. Anima, che il demonio pone quasi come insulsa rispetto all’utilità dell’ombra stessa: «che razza di roba sarebbe mai, la sua anima? L’ha per caso vista, qualche volta? E cosa pensa di farne, quando sarà morto? […] Pagarla con qualcosa di reale, di palpabile e, per essere esatti fino in fondo, con un’ombra vivente: la vostra. Grazie alla quale adesso potrà ottenere la mano dell’amata, la realizzazione di ogni suo desiderio.» Poter tornare a mescolarsi con gli uomini (eventualmente29 convolare a nozze con la cara Mina) e camminare sotto il sole è ciò che più gli manca, ma nel momento in cui Schlemihl scopre che la donna che avrebbe potuto e dovuto sposare (ma negatagli poi per la mancanza innaturale dell’ombra) era stata data, nel frangente della sua assenza, in sposa ad un altro uomo, decide che dal mondo e dalla vita non aspira più a speranze o scopi particolari. Per cui persiste nel rifiuto di firmare quel successivo patto col diavolo. Per varie traversie (Provvidenza) invece si ritroverà a viaggiare per il mondo tramite dei magici stivali che gli permettono di trasferirsi da terra a terra, per studiarne flora e fauna e approfondirne la geografia. A fine tornerà fortuitamente da Bendel, a cui aveva lasciato abbastanza ricchezza da permettergli di creare un luogo di ospitalità per i meno fortunati, istituito a suo nome, ma non si farà riconoscere, lascerà un biglietto e partirà di nuovo vivendo in solitudine devoto ai suoi studi.

Dunque, riguardo al concetto di mutare la propria relazione col reale, come punto centrale del genere fantastico, è emblematico quello che “ Schlemihl" scrive a chiusura della propria vicenda, rivolgendosi direttamente al lettore (ovvero Chamisso stesso): «Ma tu, amico mio, se vuoi davvero vivere con gli uomini, impara a esser rispettoso in primo luogo della tua ombra, e poi del tuo denaro. Ma se, al contrario, vuoi vivere solo con te stesso, e magari con la parte migliore di te stesso, allora non ti serve proprio nessun consiglio.» L’ombra quindi può essere un po’30 qualunque cosa, per Chamisso forse era la patria, la nazionalità, qualcosa che lo facesse sentire parte di un popolo, di una comunità di uomini che lo accettasse a partire da delle comuni radici. Per altri può essere qualunque tratto imprescindibile per coesistere e integrarsi con un gruppo che richiede proprio quella qualità o caratteristica specifica.

Schlemihl, abbandonate le convenzioni sociali, da solo ha trovato però se stesso e una sua completezza, quando ricapita da Bendel (e dal suo

Chamisso, Adelbert

Chamisso,

von, Storia cit., Ariccia (Roma), Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A., 2011, p.5929
Adelbert von, Storia cit., Ariccia (Roma), Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A., 2011, p.9530 41

vecchio amore) è sempre senza ombra, ma forse più integro di prima e decide di rimanere di nuovo solo, diremmo questa volta davvero per scelta, in quanto il vecchio amico mostra di conservare la sua memoria con affetto.

2.3 Le radici gotiche

Constatato che il fantastico è figlio di varie influenze che un po’ negoziano fra di loro, svisceriamo un altro tassello che fu essenziale allo sviluppo del genere, ovvero il romanzo gotico. Albertazzi stessa ricorda come il fantastico incanali le caratteristiche del gotico (il cui capostipite è considerato essere Il castello di Otranto, 1764, di Horace Walpole) coadiuvandole in quello che chiama «il gotico del quotidiano» ovvero «lo smarrimento di fronte alla crepa che si insinua improvvisamente nelle ordinate maglie del reale». Dunque quando parliamo dell’influenza di31 questa tipologia di letteratura non indichiamo una completa aderenza a racconti ambientati in situazioni nebbiose e tetre, in cattedrali o castelli diroccati, né per forza alludiamo alla diffusa atmosfera cupa che permea un libro che faccia parte di quel genere specifico, ma affrontiamo la rielaborazione che ne fa il fantastico.

Il focus si concentra infatti sulla perdita di riferimenti razionali di fronte ad un evento misterioso e inatteso. Grazie ad una singola goccia, ben calibrata, di “nero gotico” si scompagina il reale, o ancora meglio, la relazione dei soggetti di queste storie con la realtà che vivono. Anche Calvino sottolineò a suo tempo che: «il fantastico dice cose che ci riguardano direttamente cose straordinarie che forse sono allucinazioni proiettate dalla nostra mente; cose usuali che forse nascondono sotto l’apparenza più banale una seconda natura inquietante, misteriosa, terrificante» È quell’effetto terrificante che interessa al genere, ma senza32 che sia finalizzato a sé stesso e, come già ripetuto, viene inserito in una situazione molto più vicina al nostro vivere quotidiano o non per forza presagente di sviluppi così assurdi. Gli esempi pratici di questa sensibilità per una natura misteriosa e inquietante, anche se a diversi gradi e secondo differenti stili, sono molteplici. Si parte da Adelbert von Chamisso, che abbiamo già affrontato per arrivare principalmente agli

Albertazzi, Silvia (a cura di), Il punto

Santoro, Raffaele su z3xmi.it,

letteratura fantastica, Bari, Editori Laterza, 1993, p.20

Quella

fantastico tra ‘800

su: La
31
‘fantastica’ letteratura. La letteratura del
32 e ‘900” : https://www.z3xmi.it/pagina.phtml?_id_articolo=12128-Quella-fantastica-letteratura.-Laletteratura-del-fantastico-tra-800-e-900.html 42

altri autori delle origini, come Ernst Theodor Amadeus (o E.T.A) Hoffmann e Charles Nodier,

E.T.A Hoffmann operò in Germania (1776-1822) ed è stato uno scrittore, compositore, pittore e giurista tedesco, uno dei più grandi del Romanticismo, nonché conoscente di Chamisso (come citato). A detta di Italo Calvino fu uno degli autori che anticipò la scoperta dell’inconscio,33 data la maniera in cui affronta certe tematiche nei suoi racconti, dato che perse i genitori in giovane età e visse nel clima della restante famiglia materna secondo un ambiente bigotto e tetro, questi traumi si sedimentarono in lui, ereditò inoltre dalla madre la propensione all’arte che riuscì a preservare, ma fu anche il lascito di una donna che sebbene vicina al fantastico e il visionario era molto fragile e depressa. L’autore scrisse: nel 1809 il primo racconto fantastico Il cavalier Gluck, in seguito ne creò altri come riflessione dei traumi psichici vissuti nell’infanzia, cioè ad esempio Racconti fantastici alla maniera di Callot, scrisse anche, incentrandosi sul suo interesse per l’occultismo e l’ipnotismo, Gli elisir del diavolo. Hoffmann fu molto vicino al tema della follia e volle approfondirlo «studiando i ricoverati nel manicomio di Bamberga e le persone che incontrava grazie al suo lavoro di consigliere giudiziario a Berlino. Sempre sull’orlo dello squilibrio, in lui si dissolveva di continuo il confine tra sogno e realtà: tipico in questo senso è L’uomo della sabbia, il più famoso dei Racconti notturni.»34

A Hoffmann si ispirarono molti scrittori, tra cui Stevenson a Edgar Allan Poe (la cui propensione a un certo tipo di evoluzione del fantastico vedremo poi), ma soprattutto ricordiamo che il suo più famoso racconto, ispirato dalla storia che gli raccontava una tata per impaurirlo, ovvero il sopracitato L’uomo della sabbia, fu ripreso dallo psichiatra tedesco Ernst Jentsch nel 1906. Il quale scrisse un saggio, ovvero Sulla psicologia del perturbante, saggio che riprenderà a sua volta Freud, sul tema di ciò che è minaccioso, angoscioso e intimo o in altre parole, appunto, del perturbante (Unheimlich). Sentimento che scaturisce dall’incertezza mista alla familiarità, provato da tutti in alcuni contesti e situazioni specifiche. Ad esempio l’incertezza atavica di non esser sicuri che un oggetto inanimato di fronte a noi lo sia davvero, e il conseguente, irrazionale, sguardo che gli rivolgiamo (anche più volte) per capire se lo sia.

Longo, Giuseppe su Avvenire.it, “Hoffmann, il romantico che batte Freud sui sogni”: https://

www.avvenire.it/agora/pagine/hoffmann-

33
Ibidem34 43

L’idea del perturbante è la svolta principale che il fantastico coglie nell’animo gotico, è la caratteristica portante dei racconti di questo tipo, che non sono per forza “dell’orrore", ma che esprimono invece delle vicende e delle situazioni che fra il familiare e il surreale toccano le corde di questa incertezza profonda a cui ogni uomo è sensibile. Essendo un nodo focale e importante, svolgeremo una accurata analisi del tema più avanti dedicandogli un capitolo a sé, anche perché sono state trovate delle rassomiglianze che fanno da ponte da questa area all’area della fantascienza.

Tornando a qualche altro punto storico, oltre a Chamisso e Hoffman in Germania, abbiamo un altro degli autori posti alle origini del genere che fu anche fra i precursori del Romanticismo: Charles Nodier (1780-1844). Scrittore particolarmente prolifico e che nei suoi studi oltre che appassionarsi ai classici della letteratura si appassionò anche di entomologia, egli scrisse sia testi narrativi che importanti saggi, ma soprattutto si nota dalla sua produzione che «il genere prediletto dal suo animo estroso, dotto e onnivoro è quello del conte fantastique, a cui si ascrivono i suoi migliori lavori, prova dell'interesse nutrito per i temi del sogno e dell’allucinazione.»35

Fra i suoi saggi annoveriamo Del fantastico in letteratura, testo utile al nostro discorso, perché vi affronta “brevemente” l’evoluzione del pensiero fantastico. Inizia parlandone in stretto legame con altre due tipologie di mentalità che assieme compongono il pensiero umano: «l’intelligenza inesplicabile, che aveva fondato il mondo materiale, quella del genio, divinamente ispirato che aveva indovinato il mondo spirituale, quella dell’immaginazione che aveva creato il mondo fantastico.» Ed arriva poi36 all’uso dei termini fantastico-religioso e fantastico-poetico per differenziarli e iniziare dunque l’excursus storico a sua detta comunque incompleto; dove da una parte abbiamo le impressioni “ severe ” religiose, dall’altra la madre di genii e fate, la musa che seppe inspirare la mente umana dall’India (Le Mille e una Notte) fino alla Grecia (Orfeo, Esiodo, Lino e più tardi Luciano, Apuleio; e successivamente in ambito della cultura latina Virgilio), fino a giungere nella sua epoca.

Quodlibet, Nodier, Charles: https://www.quodlibet.it/catalogo/autore/1128/charles-nodier35 Nodier, Charles, "Del fantastico in letteratura” : https://it.wikisource.org/wiki/36 Racconti_fantastici_(Nodier)/Del_fantastico_in_letteratura 44

Nodier trova dei collegamenti con immagini fantastiche anche a lui più vicine per avvalorare questo antico lascito della fantasia umana, affronta più casi letterari contenenti elementi di questo tipo volgendo lo sguardo anche su culture lontane dalla sua. Egli è estremamente cosciente del37 periodo di transizione che vive e rivendica l’utilità dell’attitudine del Romantico soprattutto in relazione al discorso di dissoluzione del credo religioso e di ripresa di un fantastico popolare che l’uomo cova in sé a partire dalle sue radici. L’ispirazione alle favole e al folklore popolare non è fine a sé stessa. Nodier scrive infatti: «L’apparizione delle favole incomincia dal momento in cui finisce l’impero di queste verità reali o convenzionali» (cioè le religioni che ormai non parlano più neanche all’immaginazione e portano “nozioni confuse”) «che infondono un resto di vita al logoro congegno della civiltà. Ecco ciò che ha reso da qualche anno il fantastico tanto popolare in Europa e ne fa la sola letteratura essenziale dell’età di decadenza o di transizione cui siamo pervenuti.»38

Per cui il senso di meraviglioso insito nel mondo e nella Natura per Nodier viene salvato dalla mentalità fantastica, che passando negli ultimi suoi “momenti” da Seneca (nei cori della Troade) all’Asino di Lucio, rimase come un fremito sottomesso fino al rinascimento delle lettere. Il fantastico a39 partire dai grandi componimenti dell’antichità si è trasformato di volta in volta in personificazioni e dinamiche differenti nelle naturali evoluzioni della letteratura. Esso rifulgendo in epoca medievale ha affrontato un percorso traverso fino a giungere nel periodo che Nodier vive, e l’autore non recrimina nulla dei cruciali momenti di fine delle sue varie espressioni come è successo con i poemi cavallereschi, che hanno terminato la loro evoluzione con il Don Quischotte di Cervantes. Una naturale distruzione è stata inevitabile e necessaria, e ha spinto alla

Ibidem: «La discesa del re di Itaca agli Inferni ricorda sotto proporzioni gigantesche ed

ammirabilmente idealizzate i lamia e i vampiri delle favole levantine che la critica sapiente dei moderni rimprovera alla nostra scuola nuova; tanto i pietosi settari dell’antichità omerica, ai quali presso di noi son così risibilmente date in guardia le buone dottrine, sono lontani dal comprendere Omero, o mal si sovvengono d’averlo letto!

Ibidem: «Ciò che dopo restò di esse fino al rinascimento delle lettere è questo mormorio confuso

di una vibrazione che si estinse sempre più nel vuoto e che attende un impulso novello per ricominciare. Ciò che avvenne ai Greci e ai Latini doveva avvenire a noi. Il fantastico piglia le nazioni nelle fasce come il re degli alni, tanto temuto dai fanciulli o li assiste al loro funebre capezzale come lo spirito famigliare di Cesare; quando tutto è finito, finiscono i suoi canti.

37
» Ibidem38
39
» 45

successiva rinascita del genere. L’autore comunque a termine del suo40 saggio sottolinea che egli non si fregia di niente, ha solo tracciato delle “deboli linee” della storia del fantastico, e nonostante la sua posizione sia molto chiara, si guarda dal creare un’apologia contro chi si è rinchiuso in un rigido ordine di idee, c’è solo da dire che: «Le questioni sul fantastico, sono esse stesse di dominio della fantasia.»41

Infine per giungere verso il termine di questa sommaria e non sicuramente completa cernita degli autori alle origini del fantastico (e poco oltre), ancora in Francia citiamo Honoré de Balzac (1799-1850), Poe e Nathaniel Hawthorne in America, mentre spostandoci in area russa dobbiamo nominare almeno Nikolaj V. Gogol (1809-1852), Michail Bulgakov (1891-1940) con Cuore di cane e Il Maestro e Margherita.

In Repubblica Ceca ricordiamo Franz Kafka (1883-1924) con la celebre opera La metamorfosi, che coglie quel senso di inquietudine appieno, spingendosi fino al raccontare l’alienazione e l’estraneità dell’uomo nel non riuscire a comunicare appieno con i suoi simili. Poco prima di lui invece fra Irlanda e Francia aveva operato Oscar Wilde (1854-1900), che con Il ritratto di Dorian Gray esplicitò chiaramente il radicato legame col romanzo gotico, dove ritornavano l’eterno tema faustiano del patto col Diavolo, ambientazioni cupe e il tema del doppio. Va ovviamente annoverato anche l’operato in di H. P, Lovecraft (1890-1937), che seppur principalmente ricordato come maestro dell’horror, e non certamente fautore di un fantastico puro, rientra negli autori che è bene citare in questa dissertazione, come il nostro contemporaneo Stephen King, che riguardo al senso di inquietudine e di perturbante, ha compreso quanto sia cruciale nel genere, come ricorda Albertazzi.

Ibidem: «È così che sorse Luciano alla fine del paganesimo, Cervantes dopo il periodo40 cavalleresco, Erasmo e Rabelais colla riforma, e Voltaire avanti le rivoluzioni politiche che dovevano accompagnare la grande conflagrazione del cristianesimo. Quando un ordine di cose muore, vi è sempre qualche demone ingegnoso che assiste ridendo alla sua agonia e che col bastone dei buffoni gli dà il colpo di grazia. Il primo genio fantastico del rinascimento tanto pel tempo, che per la sua superiorità, poichè nei capolavori che lo rivelano, il genio non è progressivo, è Dante [ ]»

Ibidem, un po’ in linea con l’idea di non eccedere con i sofismi letterari ed estremizzanti categorie,41 ma in difesa del fantastico come ricchezza umana, Nodier conclude così: « Dio mi guardi dal risvegliare per esse le miserabili dispute degli scolastici del secolo scorso, e di trasportare una querela teologica sul campo della letteratura, nell’interesse della grazia degli incantesimi e del libero arbitrio dello spirito! Ciò che oso sperare, si è che se la libertà di cui ci si parla, non è come ho temuto qualche volta, una ciurmeria di saltimbanchi, essa ha i suoi principali santuari nella credenza dell’uomo religioso e nell’immaginazione del poeta. [ ] Questa regione è la fede per quelli che credono, l’ideale per quelli che pensano e che amano meglio, a tutto compensare, l’illusione che il dubbio. E poi bisogna bene dopo tutto che il fantastico ci ritorni, qualunque sforzo si faccia per proscriverlo. Ciò che si sradica più facilmente presso un popolo non sono le finzioni che lo conservano, ma sono le menzogne che lo divertono.»

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Dando un veloce sguardo infine all’area del Novecento nominiamo: Raymond Queneau (1903-1976) Suburbio e fuga, sempre in Francia, invece in Polonia abbiamo Isaac B. Singer (1902-1991) con Il Golem. E dato il periodo ne approfittiamo per citare qualche personalità dall’area italiana, che inizia a occuparsi “ufficialmente” del fantastico in letteratura soprattutto a seguito del famoso studio di Todorov, quindi negli anni settanta (anche se non le era genere affatto estraneo). In questa area della scrittura spiccano quindi Anna Maria Ortese, (1914-1998) con ad esempio L’iguana, e si occuparono di fantastico autori come Dino Buzzati, Tommaso Landolfi, Primo Levi (che in realtà appare più legato alla fantascienza come componente imprescindibile della sua identità di scrittore: usava l’immagine del centauro, per descrivere le sue due culture umanisticoletteraria e tecnico-scientifica), nonché, come è già stato detto, Italo42 Calvino. Il quale ha scritto anche un’antologia alla letteratura fantastica, che definisce essenzialmente moderna per la capacità di dare un senso all’elemento sovrannaturale legandolo all'insorgere dell'inconscio, del represso, del dimenticato, e dell'allontanato dalla nostra attenzione razionale.43

2.4 L’anello di congiunzione con la fantascienza: Frankenstein

Tornando di nuovo in dietro, per in realtà passare oltre, fra tutte le opere che condividono le radici del gotico, per diversi gradi, si ritiene ora essenziale citarne una in quanto chiave di volta per congiungere i primi albori della narrativa fantastica e le origini della fantascienza. Infatti se a inizio ‘800 uscivano libri come il romanzo di Chamisso (1814), più o meno contemporaneamente venne pubblicata una pietra miliare dal nome: Frankenstein o il moderno Prometeo.

Se si pensa alla fantascienza oggi forse appare strano che il genere sia nato germinalmente nel 1818 con l’uscita di questo romanzo, scritto da una giovanissima Mary Wallstonecraft Shelley (lo scrisse a diciotto anni). Invece è da questo momento che si apre una naturale evoluzione del genere fantastico, sempre a partire dall’ambito gotico, verso storie dove l’elemento straniante e causa di rottura col reale non deriva da una

Mufant.it, Primo Levi e la fantascienza: https://www.mufant.it/esposizione-permanente/primo-42 levi-e-la-fantascienza/

Tassi, Fabio su Fantascienza.com, “Il fantastico fra letteratura classica e moderna” : https://43 www.fantascienza.com/631/il-fantastico-tra-letteratura-classica-e-moderna

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modificazione di elementi magici nuovi o passati, ma dalla scienza “futura” o futuribile. Basti pensare ad alcuni famosi autori successivi come Edgar Allan Poe o Robert Luis Stevenson, che fecero propria questa tipologia di rielaborazione letteraria di stampo gotico, seguitando la formazione dell’area che verrà successivamente chiamata fantascienza.

Ciò che di importante adoperò Shelley fu di mutare «il sovrannaturale magico in meraviglioso scientifico: l’orrido, l’ultraterreno e l’estraneo – che il gotico aveva ammantato di una misteriosa magia – diventano le figure chiave del primo esperimento scientifico tentato in veste letteraria.» Con44 un atteggiamento nei confronti della scienza che lo stesso Aldo Carotenuto definisce moderno. Questo perché Shelley si differenzia per esempio dalla successiva esaltazione e positività di Verne (che più che altro si focalizzò sulla migliore versione di ciò che già era il suo presente), mentre ella guardò alle possibilità della scienza con una certa diffidenza. Ella si espresse senza paura di demonizzare gli eventuali rischiosi risvolti che il progresso può portare con sé.

Sebbene questo sia vero, come nota Mario Praz, nell’introduzione al libro comunque, c’è da puntualizzare che l’autrice non si dilunga mai né specifica quali sarebbero effettivamente i metodi o le dinamiche per cui sarebbe possibile portare alla vita da zero una creazione pseudo-umana. Cioè la “realtà” delle azioni concrete per portare a tali conclusioni non sussiste, né si percepisce. Non che dovesse davvero poterle immaginare nei minimi dettagli, ma c’è più che altro un grande spostamento di attenzione sulla reazione orrorifica che gli eventuali strumenti e metodologie usati provocano, nonché rispetto alle conseguenze del loro utilizzo.

La storia del libro viene sospinta dai vari eventi causa-effetto che girano attorno al sofferto legame fra il “mostro”, il suo creatore e il resto dell’umana società attorno. A partire dal primo scambio di sguardi che Victor ha con la sua creatura, lo scienziato rinnega subito ciò che ha fatto. Da lì parte un circolo vizioso di azione e reazione fra i due, costellato di morte, che culmina nel trionfo di sentimenti come vendetta, odio e rimorso. Sentimenti contrastati da una certa attrazione che la connessione fra questo padre e figlio non biologici comporta. Un figlio fatto di pezzi di cadaveri, componenti un essere che forzatamente aspira alla vita. Il mostro è una creatura che Frankenstein ha desiderato ardentemente generare per rompere i confini del possibile scientifico (non

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.4744 48

senza un certo ego), ma senza porsi subito nella mentalità di esser poi responsabile di quella stessa vita creata, o di considerarla davvero come una vita.

La Shelley tramite questo racconto instaura dei futuri canoni e figure che successivamente verranno ripresi: « [ ] la figura dello scienziato folle o maledetto è destinata a riapparire periodicamente nella science fiction — persino nella produzione di uno scrittore-scienziato come Herbert George Wells. Anche la mostruosa creatura artificiale diventerà un ospite abituale della fantascienza. Per tutte queste ragioni non è possibile ignorare un antefatto così abbondantemente significativo, diciamo pure “profetico".»45 Ed è interessante che l’autrice parta a creare un’opera così innovativa per il tempo, partendo dall’ispirazione o parallelismo con un antico mito, che viene esplicitato nel titolo, cioè la figura di Prometeo. Un Titano che, oltre ad aver rubato la scintilla del fuoco dalla fucina di Efesto per donarlo agli uomini e favorire così la loro società, insegnò loro l’arte della medicina, della coltivazione dei campi, del domare i cavalli e alcune prime nozioni di architettura (secondo ciò che è rimasto scritto da parte dello PseudoApollodoro, il mitografo). Ma soprattuto si racconta che Prometeo, oltre a portare avanti queste azioni per amore degli uomini, sia anche stato il loro creatore e abbia generato il primo uomo e la prima donna modellandoli con la creta per poi infondergli il soffio vitale.

Un’altra caratteristica che poi riapparirà nei racconti di fantascienza, anche più vicina a noi, è che si fa strada una certa critica sociale, che qui accompagna uno scontro etico-religioso tramite la stessa idea di trasgressione faustiana che risiede anche nella storia di Chamisso. Ma il46 punto di vista sociale si esplicita tramite la progressiva autocoscienza del mostro. Shelley si focalizza su questo punto a più riprese, dando voce direttamente a lui e facendolo esprimere in quanto creatura rifiutata, negletta e maltrattata solo per il suo aspetto esteriore. Il mostro è ineluttabilmente vittima degli altri e dunque di se stesso. Eppure prima impara l’amore per la vita, la gentilezza, l’importanza dei legami umani e la potenza dell’affetto. Guarda gli uomini e in particolare la famiglia in rovina dei suoi “vicini”, capitanata dal vecchio cieco De Lancey, che la creatura spia per molto tempo cercando di capire come funzioni il mondo. E questo mondo gli sembra complesso ma bello, nonostante le disgrazie. Solo che perfino da persone tanto gentili ai suoi occhi subisce violenza e

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: cit., Edizione Kindle, Bompiani. 2012, p.4845 Wallstonecraft Shelley, Mary, Frankenstein, Orio al Serio (BG), Rizzoli, 2019, p.546 49

un rifiuto così netto. Una volta che si rivela loro, come già era accaduto, anche aspirando a tutto ciò che c’è di buono, di fronte ad un’ostilità così forte il mostro abbraccia quella brutalità che gli altri, compreso il suo creatore, dipingono come la sua natura.

Si concretizza così una visione molto rigida e limitante di quella vetusta impostazione del καλός κἀγαθός (kalòs kagathòs), per cui se un individuo è bello è anche buono e viceversa, che reca tracce negli uomini da sempre. Ora, questa mentalità in tal caso viene portata agli estremi e il mostro si sente così un completo reietto, talmente a parte, che sebbene sia composto di parti umane, si percepisce come una “razza" a sé. Per cui, sapendo che mai potrà essere accettato, chiede al suo creatore di generargli una “Eva” con cui essere felice, che sia a lui simile e con cui possa vivere evitando la solitudine. «Una volta mi illudevo di incontrare esseri che, perdonandomi il mio aspetto esteriore, potessero amarmi per le qualità che ero in grado di dimostrare. […] Ma così è: l’angelo caduto si è trasformato in un demone maligno. Eppure, anche quel nemico di Dio ha amici e compagni nella sua desolazione: io invece solo solo.» Ma il suo47 creatore gli nega all’ultimo questa possibilità di pacificazione e da lì il futuro per entrambi non è che rovina.

Il mostro fra tutte le persone che a quel punto ha ucciso (o ucciderà), non ha “solo” tolto la vita a persone innocenti, ma anche “al simbolo” supposto dell’innocenza: un bambino. La prima vittima del mostro è stata una creatura che inizialmente pensava potesse evitargli il pregiudizio radicato negli altri. Invece, ostile come tutti, è rimasto per questo zittito dalle mani della creatura per cui è morto strangolato. Di questi atti il mostro di Frankenstein non si sente mai de-responsabilizzato, certo dall’esterno lo si può pensare “ipocrita”, come farà il buon Robert Walton, nel piangere puntualmente dopo aver ucciso, ma non ha mai l’alterigia di percepirsi puro e innocente, né completamente giustificato. Tuttavia si rende conto del vicolo cieco in cui si trova, se anche non avesse mai ucciso nessuno o fatto del male, come all’inizio, lo avrebbero comunque visto come colpevole della propria terribile esistenza. Come fa Frankenstein appena lui prende vita, lo scienziato è sicuro di aver messo al mondo un abominio prima ancora di averci parlato, e quel mancato gesto di grazia o tenerezza, che continua a fargli mancare per tutta la storia, decide le sue sorti e quelle delle persone a lui care.

Wallstonecraft Shelley, Mary, Frankenstein, Orio al Serio (BG), Rizzoli, 2019, p.25747 50

In ogni caso, che si pensi alla creatura del romanzo di Frankestein come l’avo dei moderni robot e connesse storie sulla eventuale nascita di coscienza di essi, o che si preferisca dare attenzione alla condizione di vittima del mostro, Shelley scrisse questa storia per due motivi indicativamente. Si evincono dalla prefazione del libro, in cui ella stessa sottolinea intanto che «l’evento su cui poggia l’interesse della mia storia non presenta i difetti del solito racconto di spettri o di incantesimi.» Ciò48 cui gira attorno tutto è ciò a cui aspira Victor Frankestein: un’attuazione grandiosa della scienza. Aspirazione che fa derivare da quei suoi amati autori greci: Paracelso, Cornelio Agrippa o Alberto Magno, che non sono più “attuali” ma che posero utili basi e resero possibile ciò che lui stesso studia, come gli dice il professor Waldman. Ciò a cui puntavano quelle menti è ciò che agita l’anima di Victor, egli è vicino a idee di grandiosità e di immortalità, del potere sulla vita che vede attuabile tramite la scienza. È questo impeto dello scienziato, il “ pazzo ” amore per le potenzialità di una materia che spinge tracotante fino ai limiti, ciò che la Shelley voleva raccontare di nuovo.

Non è perciò una “ comune ” storia sovrannaturale gotica, per questo motivo, anche se l’autrice pensò questo intreccio partendo da narrazioni del genere. Il che ci porta al secondo motivo, o più che altro al contesto in cui l’autrice scrive. Infatti Frankenstein nasce grazie ad una sfida fatta fra amici nell’estate del 1816, dove ognuno, compresa la Shelley, doveva pensare ad un racconto con elementi surreali in stile gotico, come ciò che leggevano per passare il tempo nel clima piovoso e cupo dei dintorni di Ginevra. Gioco che Shelley portò a termine (e con lei successivamente anche John Polidori con Il Vampiro) immettendo, oltre che innovazione, anche un’esplicita cura e attenzione per l’animo e il fare umano.

«Ho cercato quindi di conservare la veridicità nei riguardi dei principi elementari della natura umana, mentre non ho avuto scrupolo di rinnovare le loro combinazioni.» Per cui se al tempo poteva giungere come nuova49 l’idea di una creatura fatta di resti umani e portata alla vita dalla scienza, l’essenza attorno cui il romanzo gira, forse ogni donna e uomo la può comprendere: «Sono perfido perché sono infelice.»50

Wallstonecraft Shelley, Mary, Frankenstein, Orio al Serio (BG), Rizzoli, 2019, p.2348 Ibidem49 Wallstonecraft Shelley, Mary, Frankenstein, Orio al Serio (BG), Rizzoli, 2019, p.17150 51

3. Il fantascientifico

Nonostante le varie opinioni a riguardo è piuttosto riconosciuto che il succitato libro abbia anticipato il romanzo fantascientifico moderno e che abbia aiutato alla concretizzazione del genere. La fantascienza ha avuto origine in «una combinazione di fantasia, immaginazione, tecnologia, scienza, razionalità e irrazionalità.» Alle origini e nelle sue potenzialità1 insite «la fantascienza ben si presta a essere interpretata come metafora di modelli psichici, non tanto individuali, quanto collettivi, archetipici, che traggono origine dai dilemmi di sempre e da quelli della società in cui è nata», dato il binomio di consapevolezza e inconsapevolezza, come2 dell’irrazionale e del razionale.

Il contesto storico dunque in cui prende forma la fantascienza è lo stesso del romanzo fantastico, dove la rivoluzione industriale e l’ascesa sociale della borghesia hanno giocato un ruolo essenziale.

La società del tempo fu segnata dalla massiva quantità di scoperte tecnico-scientifiche, fatte già a partire dal 1750 circa: «nel 1765 James Watt inventa il motore a vapore, nel 1783 arriva l’età del volo con le prime ascensioni in pallone dei Montgolfier, nel 1827 viene costruito il primo bastimento a vapore, nel 1825 sono inaugurate le prime ferrovie a vapore, nel 1822 Faraday inventa il motore elettrico» inoltre il nonno di Charles Darwin, Erasmus, tra il 1794 e 1796 «pubblica un trattato dal titolo Zoonomia» una delle prime ipotesi di spiegazione dell’universo secondo un’idea evoluzionistica dello stesso. Erasmus Darwin fu tra l’altro un tassello centrale nelle influenze che spinsero la Shelley a creare il suo mostro. È di Erasmus Darwin infatti un passaggio specifico che Mrs.3 Shelley lesse, dove si riferiva alla possibilità della creazione artificiale della vita, in quanto non era l’unico a dedicarsi ad esperimenti sulla costruzione di automi al tempo, era anche il periodo dove si esplorava il4 “galvanismo”, cioè la corrente elettrica creata da pile voltaiche che

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa:

Edizione

Bompiani,

Bompiani, 2012, p.73

p.49

Giovannini, Fabio; Minicangeli, Marco, Storia del romanzo di fantascienza - Guida per conoscere e

amare l'altra letteratura, s.l., Castelvecchi, 2003, pp.11-12

Wallstonecraft Shelley, Mary, Frankenstein, Orio al Serio (BG), Rizzoli, 2019, p.11

Kindle,
1
cit.,
Kindle,
2012,
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applicata secondo certi termini ai muscoli di un corpo (il primo fu quello di una rana morta), crea una una contrazione in essi.

In ogni caso la Storia continua oltre Shelley e per continuarla dobbiamo spostarci adesso oltreoceano. Per riprendere le fila dobbiamo andare in America, dove troviamo un’altra figura importante alla progressione del genere: Edgar Allan Poe (1809-1849). Egli nel particolare scrisse molti racconti brevi e in molti apportò il suo contributo al genere della fantascienza narrando in maniera spettacolare conoscenze naturali e scientifiche nonostante l’ambientazione realistica in cui le presentava. In5 Una discesa nel Maelström (1841), dove il personaggio principale racconta di quando il suo aspetto mutò completamente, data l’esperienza di esser scampato alla morte del terrificante vortice marino, abbiamo un esempio di questo suo approccio. Il senso di meraviglia viene dato dalla minuziosa descrizione che il personaggio dà delle acque impetuose, mista all’orrore che sente, come se si trovasse di fronte ad una potenza che va oltre la sua dimensione naturale. Questo avviene perché il modo di scrivere dell’autore lega la mistificazione alla visione, esprimendola tramite una disordinata eppure analitica chiarezza intellettuale, quello che vede fra realtà e surrealtà.6

«Non potrò mai dimenticare il senso di terrore arcano, di orrore, di meraviglia che mi afferrò non appena volsi lo sguardo a contemplare lo spettacolo che mi circondava. La barca sembrava sospesa mezz’aria, come per opera d’incantesimo, sulla superficie interna di un imbuto immenso di circonferenza, prodigioso di profondità, e le cui pareti perfettamente lisce potevano essere scambiate per ebano, non fosse stato per la rapidità vertiginosa con cui roteavano, e per la scintillante, spettrale radiosità che emanava da esse, quasi che i raggi della luna piena, da quello squarcio circolare frammezzo alle nubi che già ho descritto, sgorgassero in un fiotto di gloria dorata lungo le nere muraglie, giù, giù, sin entro i più riposti recessi dell’abisso.»7

Al leggerlo sembra quasi di trovarsi nel portale per l’altro mondo e in qualche maniera è come se il personaggio lo avesse metaforicamente attraversato, perché nel tornare indietro, fra i vivi, appare completamente

Giovannini, Fabio; Minicangeli, Marco, Storia del romanzo di fantascienza - Guida per conoscere e amare

l'altra letteratura, s.l., Castelvecchi, 2003, p.13

Poe, Edgar Allan, I racconti del mistero, Orio al Serio (BG), Rizzoli, 2014, p.6

Poe, Edgar Allan, I racconti del mistero, Orio al Serio (BG), Rizzoli, 2014, p.129

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cambiato di aspetto e molto invecchiato, date le sovrumane emozioni provate, tanto che nessuno lo riconosce. Anzi egli è più trasformato di un morto, perché è ancora vivo e allo stesso tempo è diverso da un sopravvissuto perché lui la morte l’ha ammirata dall’interno. Questo è8 uno dei vari modi in cui Poe presenta queste possibilità di “eccessi sperimentabili”, con cui i suoi personaggi osservano la morte da vicino raccontandone i precisi aspetti. Tramite analisi dal piglio scientifico e paradossalmente razionale, egli coniuga sempre il fattore della seduzione mortifera all’orrore che l’anima dell’uomo cova.

Venne impressionato da questa tipologia di scrittura e dalla quantità di minuziosi dettagli dei suoi racconti Jules Verne (1828–1905). Egli però si differenzia dagli altri autori fantascientifici ad inizio del genere, perché più che avere un’impostazione visionaria si dimostra un entusiasta della tecnologia del suo tempo. Egli immaginò delle storie comprendenti alcune scoperte sue contemporanee, perfezionandole. Se Poe si pose fra fantascienza e ignoto, narrando situazioni misteriose e al limite del razionale con perizia scientifica, non tralasciò mai una profonda attenzione per la dimensione interiore e psichica. Verne invece immaginò una sorta di utopia del presente senza interessarsi molto dei soggetti che la vivono. Poe si spinse all’interno, mentre Verne visualizzò il mondo esterno immergendolo in una storia di eccitante avventura, ciò che lo9 mosse è il senso avventuroso e entusiasmante che la storia provoca in sé.

L’approccio ad una visione della scienza come creatrice di possibilità illimitate si problematizza solo successivamente e riacquisisce le sfumature ambivalenti, che aveva cercato di dare la stessa Shelley, con Herbert G. Wells. Dal 1894 l’autore inizia ad esprimere la convinzione, tramite le sue storie, che «il progresso può avere come risultato la degenerazione.» La posizione con cui si pone è sia di analizzare i limiti10 della scienza (con ad esempio L’isola del dottor Moreau), sia di porre il discorso dalla dimensione dell’individuo al contesto della società, preferendo una narrazione più analitica. Questo fu un tratto distintivo della letteratura in Inghilterra e in generale in Europa, mentre l’approccio americano, nelle successive evoluzioni del racconto di fantascienza, fu più focalizzato su una narrazione vicina all’eroistico.

Poe, Edgar Allan,

Giovannini, Fabio; Minicangeli, Marco, Storia

l'altra letteratura, s.l., Castelvecchi, 2003, p.13

Giovannini, Fabio; Minicangeli, Marco, Storia

2003, p.14

romanzo di fantascienza - Guida per conoscere e amare

romanzo

fantascienza

, s.l., Castelvecchi,

I racconti del mistero, Orio al Serio (BG), Rizzoli, 2014, p.98
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3.1 Dalla science fiction al cyberpunk

I primi passi della fantascienza muovevano verso una riflessione più ampia, soffermandosi molto sull’elemento umano per poterne raccontare l’acume e il suo risvolto fallace quando vittima di sé e delle proprie creazioni. Per cui, se ad esempio prendessimo il racconto del 1886 dell’inglese Robert Luis Stevenson (1850-1894), ovvero Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde, che segue questo approccio, lo troveremo molto diverso da quello che accadde in America successivamente. Il momento di svolta avvenne con i pulp magazines, ovvero riviste stampate a poco prezzo e con all’interno narrazioni di qualità bassa che però non contenevano solo11 storie sul selvaggio West ma anche racconti di fantascienza.

Il passaggio fu essenziale però, anche perché diede il nome al genere. La genesi della scientifiction risale proprio a questo momento, al 1911: il termine fu coniato da Hugo Gernsback, stesso autore che fondò nel 1926 un pulp magazine dedicato alla fantascienza di nome Amazing Stories. La rivista negli intenti aveva in realtà quello di creare storie sullo stampo dei fondatori (Verne, Wells, Poe) ma presto racconti e autori mutarono dall’esempio visionario originale e quasi profetico dei predecessori, anche per seguire i gusti del pubblico. Prese popolarità quella che viene definita space opera. Storie «popolate di personaggi che si aggirano per le galassie a bordo di gigantesche astronavi, e l’avventura era la dimensione preferita.» Contesto questo in cui, come si sofferma a dire Carotenuto,12 non valsero tanto gli autori di per sé dotati di una forte ideologia o visione, ma le tendenze. Probabilmente perché, nonostante i pulp abbiano contribuito alla concretizzazione e popolarità del genere, avevano anche relegato a una nicchia di fan questa letteratura, distaccandola a isola a sé stante e contribuendo al discorso che esprimeva anche la Le Guin. Cioè che il peccato di non far confrontare queste tipologie di racconti con la letteratura tutta non porta ad una maturazione del genere. Comunque questi racconti definirono i termini dell’esplorazione galattica extraterrestre che simboleggiava la diversità e ciò che ispirava la space opera era un aprirsi al confine del nostro mondo conosciuto per immaginare di viaggiare oltre.

Giovannini, Fabio; Minicangeli, Marco, Storia del romanzo di fantascienza cit., s.l., Castelvecchi,11 2003, p.15

Giovannini, Fabio; Minicangeli, Marco, Storia del romanzo di fantascienza cit, s.l., Castelvecchi,12 2003, p.18

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Si sancì una divisione all’interno del genere, dall’America all’Europa, dove in quest’ultima spiccarono invece autori come Adouls Huxley (Il mondo nuovo), George Orwell (1984) e altri come Evgenij Ivanovič Zamjatin (Noi), fra cui più che un senso di avventura dominante, divenne popolare l’uso dell’utopia.

Una nuova marcia si raggiunse in America fra il 1938 e il ’50 con la presa della direzione della rivista Astounding da parte di John W. Campbell, che curò il pulp magazine includendo autori più maturi, creatori di storie ora forti di una maggiore coerenza. È qui che presero il loro spazio Theodore Sturgeon, che mise in scena la tragedia del superuomo, e Isaac Asimov, che oltre a creare le famose leggi della robotica, fu il primo ad ipotizzare un impero galattico dove lo spazio era abitato da soli esseri umani.13

Tuttavia a fine degli anni ’30 il clima ottimista verso la scienza di questi racconti iniziò a incrinarsi, per poi crollare del tutto con l’ombra del secondo conflitto mondiale. Continuò così quell’imperterrito alternarsi di atteggiamento positivo e negativo per la scienza, presente sin dalla nascita del genere. Solo che adesso le nuove tecnologie ed armi usate negli scontri armati sembravano davvero realizzare le più tremende fantasie, come ciò che successe con l’uso delle armi nucleari da Hiroshima a Nagasaki.

Data l’evoluzione da Amazing Stories ad Astounding dopo la Seconda Guerra mondiale e l’inizio della Guerra fredda, i creatori di fantascienza si fecero più domande nell’interesse di un maggiore rapporto con la realtà, per esempio: come trattare la sovrappopolazione, la diminuzione delle risorse, l’inquinamento, il rapporto con le nuove tecnologie? Nacquero altre due riviste, una, Galaxy, che, con direttore Horace Gold, «puntava sull’uomo medio e sull’adattabilità dell’individuo alla situazione in cui è immerso» , 14 dove apparve nel 1953 The Fireman (Fahrenheit 451) di Ray Bradbury. Mentre l’altra, The Magazine of Science and Science Fiction, con direttore Anthony Boucher, preferì storie dove non si creavano più personaggi principali intercambiabili, ma di maggiore spessore, limitando invece il background scientifico e le ambientazioni, che erano stati i veri personaggi delle precedenti. Vennero fuori autori come il succitato Bradbury, Arthur Clarke o Robert Sheckley.

Giovannini, Fabio; Minicangeli, Marco, Storia del romanzo di fantascienza cit., s.l., Castelvecchi,13 2003, p.21

Giovannini, Fabio; Minicangeli, Marco, Storia del romanzo di fantascienza cit., s.l., Castelvecchi,14 2003, p.23

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Un’altra forte spinta di reazione all’ottimismo della sciencefiction si ebbe in Inghilterra dagli anni ’60, periodo in cui erano in declino le riviste di fantascienza ma il nuovo movimento letterario si creò proprio attorno ad una di esse: New Worlds di Michael Moorcock e il nome del movimento fu new wave. Non fu una corrente omogenea ma con più esponenti, narratori di argomenti contemporanei, che utilizzavano monologhi interiori e flussi di coscienza e che non facevano tabù di temi come il sesso o la violenza. Spiccarono due personalità molto importanti che furono James Ballard e Philip Dick. Come dice Carotenuto: «la fantascienza – ormai incapace di generare mondi migliori – diventa una sorta di microspia delle patologie a lei contemporanee. Non più l’esplorazione degli spazi stellati, bensì l’esplorazione di quello che Ballard ha definito lo "spazio interno": l’uomo e il contesto alienante in cui vive.»15

Un distacco più netto si sentì con la progressione degli anni, passando nei Settanta con il maggior momento di popolarità di autori come Dick, con i suoi complessi personaggi vittime di una società più grande di loro, ma anche con il riconoscimento di scrittrici come Le Guin, Ursula Kroeberg (The Left Hand of Darkness, 1969). Si andava verso il cyberpunk ed era ormai molto presente la tematica di degradazione della tecnologia dell’uomo e il sentirsi sull’orlo di una crisi ecologica, il mondo non era più una sola realtà ma più realtà frammentate che con difficoltà si riuscivano a carpire. Non c’è quasi più una distinzione con l'immaginario. Proprio per questo si rafforzò la fantascienza come genere, che si rivelava ottima per indagare quelli che anche Carotenuto definisce “gli archetipi” della modernità (ed oggi del post-moderno), tramite le fragilità umane e la validazione di quelle paure non solo individuali ma che interessano la collettività tutta.

Negli anni Ottanta dunque abbiamo la consacrazione del cyberpunk, differente dai movimenti studenteschi del Settanta con impronta antitecnologica e antiscientifica, perché il cyberpunk abbraccia la tecnologia per ibridarsi con essa e cercare di dominarla e utilizzarla. Questo almeno negli intenti, dato che nacquero delle riflessioni piuttosto anarchiche e nichiliste. Tendenzialmente i critici ritrovano la data di nascita nel 1984, anche se è difficile dirlo con certezza, ma è in quell’anno che nacque Neuromancer di Gibson, il libro manifesto del movimento. Il cyberpunk originò a seguito della caduta del socialismo reale, della diffusione di Internet e del personal computer, dunque colse grandi cambiamenti a livello di società mondiale, assorbendo in sé anche

Giovannini,

Fabio; Minicangeli, Marco, Storia del romanzo di fantascienza cit., s.l., Castelvecchi,15 2003, p.51 58

un’altra corrente letteraria, cioè quella del “transrealismo” , per creare16 un’identità propria che durò un decennio circa.

Il resto della storia dello sviluppo del genere fantascientifico è piuttosto amplio e planetario, ma per la quantità di autori e opere sia cartacee che partono dalla letteratura fino ai fumetti, difficilmente è in toto tracciabile come i precedenti passaggi storici, che sono stati comunque presentati in maniera sintetica. Se si contano anche le esperienze cinematografiche poi si apre un panorama immenso. Per questo “a fine" della storia per sommi capi dell’evoluzione del racconto fantascientifico, se Carotenuto da parte sua dedica molto spazio al cinema, Fabio Giovannini e Marco Minicangeli nelle pagine a cui si è fatto riferimento citano la radicata tradizione nipponica per il fantascientifico, influenzata anche da altri media, e infine tre aree territoriali specifiche: Francia, Russia e Italia. Per la Russia fra l’altro viene citato Evgenij Ivanovič Zamjatin, spesso ricordato anche dalla Le Guin e già nominato, autore che per la pubblicazione del suo romanzo, che criticava aspramente il comunismo, ebbe delle reali ripercussioni e problematiche con le autorità.

Ma focalizzandoci sull’Italia, nonostante, si torni un attimo indietro, c’è da dire che si ritrovano delle tracce di qualche idea che avrebbe potuto seguire lo sviluppo avuto in altri paesi a partire dagli scritti di Ludovico Ariosto e Giacomo Casanova, ma non si ebbe poi nel nostro paese quell’ «impetuoso sviluppo industriale e scientifico che si ebbe in altri» e non17 giovò il regime fascista con la sua rigida chiusura alle contaminazioni straniere. Per cui a parte l’interesse dei futuristi, attivi però più in campo artistico e poetico-visivo, o qualche autore come Yambo (che fu anche illustratore, si chiamava Enrico Novelli) o la grande produzione di Emilio Salgari, che però scriveva racconti più di avventura e storico-fantastici

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012, 16 p.51: «Il termine transrealismo nasce con l’antologia Transreal, pubblicata agli inizi degli anni Novanta da Rudy Rucker, come genere di contaminazione tra il giallo, il thriller e il noir. Comune denominatore di questa amalgama di generi è la volontà di arrivare – proprio come Lovecraft – con gli occhi aperti davanti al lato oscuro della realtà. “I familiari mezzi della fantascienza – viaggi nel tempo, antigravità, mondi paralleli, telepatia, ecc. – sono, di fatto, simboli di una percezione archetipica. I viaggi nel tempo sono la memoria, il volo è l’illuminazione, i mondi paralleli simboleggiano la grande varietà dei punti di vista individuali, e la telepatia sta per l’abilità di comunicare pienamente. Questo è l’aspetto "trans". L’aspetto "realistico" riguarda il fatto che un’opera d’arte valida dovrebbe occuparsi di quello che realmente è il mondo. Il transrealismo prova a trattare non solo la realtà immediata, ma anche quella più alta realtà in cui la vita è contenuta (Rucker 2000, 22)” »

Giovannini, Fabio; Minicangeli, Marco, Storia del romanzo di fantascienza cit., s.l., Castelvecchi,17 2003, p.35

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(riprendendo un po’ quell’entusiasmo verniano), fino al dopoguerra l’esperienza dell’età d’oro della sciencefiction non ci raggiunse. La situazione cambiò con il 1952, con I romanzi di Urania. Collana ricchissima, edita da Mondadori e curata da Giorgio Monicelli, con una formula del libro da edicola. Nel 1962 Urania venne presa in mano da Carlo Fruttero e Franco Lucentini e allo stesso tempo curarono delle antologie per Einaudi. Dagli anni Settanta nascono Nord e Fanucci che si specializzarono nel genere come editori e se la fantascienza iniziò ad esser riconosciuta come parte della letteratura “del mondo letterario ufficiale”, si creò anche una discussione politica attorno.18

Fra i vari autori citati, fra chi seguì l’onda del cyberpunk e i nomi più conosciuti oggi, come Valerio Evangelisti, vengono ricordate certe incursioni nel fantascientifico da parte di scrittori come Dino Buzzati o Italo Calvino, o, come si era già accennato, Primo Levi (che amava H. G. Wells, Aldous Huxley, Ray Bradbury e non faceva discrimini di alcun tipo fra letteratura “alta o bassa”, autodefinendosi scrittore di fantascienza).19

A questi si vorrebbe aggiungere un interessante breve excursus che coinvolge Ippolito Nievo. Il quale si scopre di poterlo mettere fra i precursori del genere, avendo scritto un breve racconto fantascientifico e fantapolitico, che nonostante sia a tratti satirico e dispotico non è importante per un sentimento negativo dell’autore per la scienza in sé (che assolutamente non odiava l’ambito scientifico) ma anzi sulla20 capacità incredibile di aver anticipato più che altro ansie e paure molto contemporanee, visualizzando un progresso enorme per l’uomo a distanza di centocinquant’anni.

Giovannini, Fabio; Minicangeli, Marco, Storia del romanzo di fantascienza cit., s.l., Castelvecchi,18 2003, p.37: «inizialmente grazie alla rivista “Robot” di Giuseppe Lippi e al Collettivo “Un’ambigua utopia” con la sua fantine di “critica marx/z/iana”, più di recente con le polemiche suscitate dallo studioso e critico Gianfranco De Turris che viceversa rivendica una lettura “da destra” del fantastico italiano. Importante anche il ruolo duo Erremme Dibbì (e poi del solo Dibbì, alias Daniele Barbieri), critici specializzati in SF per “il manifesto” »

Mufant.it, Primo Levi e la fantascienza: https://www.mufant.it/esposizione-permanente/primo-19 levi-e-la-fantascienza/

Veronesi, Carlo, “Ippolito Nievo scrittore” , La Reggia N.1 , Marzo 2021, p.13: «Ippolito Nievo non20 guardava alla scienza con ostilità o pregiudizio. Come abbiamo ricordato in un altro articolo, alcuni anni prima aveva scritto, dopo un lungo lavoro di documentazione, un dramma in cinque atti in difesa di Galileo Galilei; e tuttavia Ippolito aveva presagito che la “scienza pratica” , se non convenientemente governata, avrebbe potuto proiettarci verso un futuro indesiderabile.»

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Storia filosofica dei secoli futuri, venne infatti scritta dall’autore di Confessioni d’un italiano nel 1860 e racconta di come il narratore della storia, ovvero21 l’immaginario filosofo-chimico Fernando de’ Nicolosi, fece un esperimento ben riuscito per ottenere «la fioritura pensante di tre secoli avvenire», in altre parole la storia dal 1859, anno in cui fa l’esperimento, fino al 2222, scritta per mano di un uomo del futuro. Infatti Nicolosi crea un inchiostro in grado di far affiorare queste lontane e avveniristiche parole da un tempo che mai vivrà, ma di cui scopre tutto.

Il racconto è diviso in cinque periodi storici che corrispondo ai cinque capitoli: Dalla pace di Zurigo alla pace di Lubiana; Dalla pace di Lubiana alla federazione di Varsavia (1960); Dalla federazione di Varsavia alla rivoluzione dei contadini (2030); Creazione e moltiplicazione degli omuncoli (2066- 2140); Dal 2180 al 2222, o il periodo dell’apatia. Dove i primi tre capitoli raccontano di tutte quelle articolate e complesse vicende politiche che portano poi (tramite una sorta di religione o movimento di un buffo Messia) all’unificazione dell’umanità secondo intenti politici pacifici, utopici, ma raccontati con sardonica ironia nella loro assurdità. Dopodiché ci troviamo oltre il ventunesimo secolo e nel quarto si narra dell’intuizione che rende speciale il racconto di Nievo, ovvero della creazione degli “omuncoli” , 22 uomini artificiali progettati da due personaggi, tali Jonathan Gilles e Teodoro Beridan, che fra invidia e collaborazione creano degli automi funzionanti.

Anche a causa di questa invenzione la società verso il quinto libro viene raccontata come in probabile corsa verso la distruzione e la fine del mondo a causa della “peste apatica,” un “raffreddamento sensibilissimo della superficie terrestre" e quindi un ripido aumento della noia, di depressione e insensibilità verso la vita che aumentano i tassi di suicidio,

«La Storia filosofica - scritta tra l’armistizio di Villafranca e la partenza da Quarto, quasi un21 corollario al saggio Venezia e la libertà d’Italia del 1859 - apparve per la prima volta nel gennaio 1860 nella Strenna dell’Uomo di Pietra, testata umoristica milanese di spicco a cui Nievo collaborava. Titolo originale: Storia filosofica dei secoli futuri fino all’anno 2222 ovvero fino alla vigilia in circa della fine del mondo »

Lauri, Marco, “Io avrò fatto l’uomo” - Ippolito Nievo tra i precursori della fantascienza italiana, IF1322 - Ottocento Fantastico, (CS), Maggio 2013, p.27: «Emma Giammattei1 ha attribuito alla Storia Filosofica l’etichetta assai appropriata di “operetta morale”. Nievo recupera toni e temi dall’esempio di Leopardi, uno dei suoi poeti più amati: nelle parti finali, l’omuncolo di Nievo espande il suggerimento della Proposta di premi fatta all’Accademia dei Sillografi, l’operetta morale “fantascientifica” del conte Giacomo, in cui si avanza l’idea di una donna-automa. Più apertamente satirico lo scritto leopardiano, che usa il tema, recente di usi letterari importanti (Shelley, Hoffmann), dell’automa e dell’uomo artificiale come mezzo per illustrare ironicamente l’assurdità delle “magnifiche sorti, e progressive” vagheggiate da molti nel secolo europeo del progresso.

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nonché l’uso di varie droghe; si creano degli ovvi presupposti per cui quel signore del 2222 tale Vincenzo Bernardi di Gorgonzola presagisce la fine. Fra questi motivi ed eventi Vincenzo racconta anche come nel 2030 ci sia stato una sorta di distruzione libraria alla Farheneit 451, e che la scrittura ormai non è ormai più usata perché andata in disuso come una (cito) «minchioneria senza costrutto» 23

Ma appunto fra tutte le intuizioni di Nievo, la più segnante è la proiezione che un uomo di metà ‘800 sia riuscito a fare nell’idea di un automa che, prodotto in serie e così facilmente diffuso, arrivi da una parte a coprire tutti i lavori più faticosi per l’uomo e dall’altra anche toglierlo il lavoro. È speciale come egli si preoccupi di come influisca questo fattore nella società e nell’economia dei paesi, invece che soffermarsi sul discorso di hubrys del creatore (uomo) di un (quasi) altro uomo, ai suoi servigi (topos della fantascienza). «Il lettore attento non può che essere colpito dalla capacità di un Nievo non ancora trentenne di vedere i nodi sociali dell’automazione appena agli inizi, di anticipare, dalla campagna mantovana di un secolo e mezzo fa, un discorso che non ha cessato di stimolare la creazione letteraria.»24

3.1.1 Letteratura presente o futura?

Prima di procedere oltre nel definire gli aspetti nevralgici della letteratura fantascientifica bisogna fare un breve, ma puntuale, discrimine fra quelle che sono le ovvie potenzialità della fantascienza e anche i suoi umani limiti. Sebbene sia già stato abbondantemente notato come questo genere in tempi non sospetti abbia saputo, tramite alcuni fortunati autori, anticipare dei lati della nostra stessa contemporaneità, si vorrebbe qui sottolineare, usando le parole di Le Guin, che in realtà la fantascienza non vuole né ha il dovere di prevedere proprio nulla.

Nella Author’s Note a precedere The Left Hand of Darkness, l’autrice spiega in maniera concisa e netta come non dobbiamo sbagliarci su questo fatto: se il suddetto genere non deve esser visto da una parte come puro escapism, dall’altra neanche possiede un’elevazione tale da riuscire a predirlo davvero, il futuro. L’autrice riporta più esempi, ma nel particolare spiega la

Nievo, Ippolito, Storia filosofica dei secoli futuri, Edito dalla Fondazione Ippolito e Stanislao Nievo (a

cura di Mariarosa Santiloni), 2012, p.9

Lauri, Marco,

Ottocento

avrò fatto l’uomo

- Ippolito Nievo tra i precursori della fantascienza italiana, IF13

(CS), Maggio 2013, p.28

23
“Io
24 -
Fantastico,
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posizione di questo genere tramite l’azzeccata definizione di “esperimento mentale”, stesso termine usato da Schrödinger (che lo applicò a livello quantico) e altri fisici per confutare come il futuro non possa esser predetto, ma tutt’al più che sia possibile solo osservare e descrivere il presente.

All’interno di un libro distopico e di fantascienza come La svastica sul sole di Philip K. Dick, c’è un brevissimo scambio fra due personaggi che considerano cosa sia o meno un testo fantascientifico. Il discorso si fa ancora più meta-letterario e interessante, se si considera cosa vi si racconta all’interno e il genere del libro di per sé. Il romanzo di Dick parla infatti di una realtà alternativa ambientata quindici anni dopo il secondo conflitto mondiale, dove però invece che esser risultati vittoriosi gli Alleati, lo è stata l’Asse di Germania e Giappone (e Italia, in disparte, a raccogliere qualche briciola), in questa suddivisione del mondo l’America non fa da padrona e razzismo e antisemitismo hanno portato alla massimizzazione su larga scala di atrocità allo stesso livello e oltre quello dei campi di concentramento nazisti. Nonostante ciò esiste in questa realtà alternativa un testo sovversivo e popolarissimo chiamato La cavalletta non si alzerà più (di Abendsen Hawthorne, in riferimento al Nathaniel Hawthorne de La lettera scarlatta), nel quale si racconta un’altra Storia ancora, quindi doppiamente immaginata, dove Giappone e Germania sono stati sconfitti. Nel passaggio suddetto comunque, Robert Childan, un mercante di oggetti americani pre-bellici e una facoltosa coppia giapponese, affascinata da questa merce trattano del tanto discusso romanzo. Ebbene Betty, la moglie, afferma che La cavalletta non si alzerà più non possa esser definito di fantascienza, solo perché: «Non c’è scienza. E non è ambientato nel futuro. La fantascienza parla del futuro, in particolare di un futuro in cui la scienza è progredita rispetto al presente. In questo libro non c’è né l’uno né l’altra.» Al che il marito le risponde, opponendosi molto semplicemente a questa visione “limitante” della fantascienza, così: «Ma parla di un presente alternativo. Esistono molti famosi romanzi di fantascienza sull’argomento.»25

Infatti bisogna anche valutare che La svastica sul sole, per gli anni in cui è stata pubblicata (1962) dà una marcia in più a quell’uscita della sf dalla narrativa mainstream, e la possibilità di rinnovare il genere consentì a Dick «di raffinare e arricchire la gamma delle potenzialità espressive della fantascienza, immettendo nel ‘genere’ tematiche e tecniche narrative di

Dick, Philip Kindred, La svastica sul sole, Cles (TN), Fanucci editore, 2020, p.12625 63

ampio respiro […].» Dunque è fantascienza La svastica sul sole, nella sua26 complessa struttura di un’allucinata revisione storica, che in maniera chiara ci trasmette però un senso di insicurezza e instabilità alla base del mondo che conosciamo. Non c’è niente di certo nella vittoria del bene, mai. La Storia, anzi le Storie (dato che ne La cavalletta non si alzerà più non vengono raccontati i fatti concreti del mondo di noi lettori, ma una versione ancora altra) che racconta sono in qualche maniera verosimili e fattibili a loro modo.27

Le Guin stessa cita il romanzo di Dick fra quelle sperimentazioni del pensiero (che così intese tanto rassomigliano alla dinamica dell’ambito fantastico per i giochi di idee del “ e se…?”) solo su scala più amplia, forse con più persone, un intero popolo o pianeta coinvolti. «Predire è compito di profeti, chiaroveggenti e futurologi. Non è il compito dei romanzieri. Il compito dei romanzieri è di dire menzogne.» Tutto ciò che chi scrive fa,28 non è che mentire, dire con determinazione le verità travestite di bugie che anche Salman Rushdie, come ricordava Albertazzi, pensa sia bene e un dovere trasmettere in quanto scrittori. Le bugie di un autore possono essere sostenute da tantissimi intricati stratagemmi, da una Storia alternativa pure, e se sono fatte bene, come Le Guin ricorda, noi diventiamo pazzi. Siamo così pazzi che crediamo a sentimenti, gioie e dolori di ciò che ci trasmettono le “finte” pagine di carta su cui leggiamo avidamente. Siamo folli dal momento in cui posiamo lo sguardo dalla prima all’ultima riga: sentiamo voci di persone che non esistono, ci immaginiamo i volti, percepiamo le loro emozioni, possiamo immaginarci anche di essere loro e così viviamo uno stato di «demenza completa.

Lo scrittore di fantascienza in definitiva descrive dettagli e aspetti di una realtà concreta o psicologica che, in un mondo o tempo immaginifico di sua scelta, si incarna e diviene metafora. L’unica causa per cui la si scambia come letteratura che vuole produrre idee ponderate del futuro è che invece di usare metafore del passato, ne usa di ispirate alla contemporaneità. Che poi accada che queste metafore si avverino o ci

Dick, Philip Kindred, La svastica sul sole, Cles (TN), Fanucci editore, 2020, p.7

Philip Kindred, La svastica sul sole, Cles (TN), Fanucci editore, 2020, p.265, Luigi Bruti Liberati

Agli uomini del suo tempo

sembra dunque voler inviare un messaggio chiaro. Non esiste una meccanica causalità degli eventi ed è pericoloso bearsi in un’illusoria sicurezza.

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura

di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.141

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte cit., Roma, Editori Riuniti, 1986, p.142

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26 Dick,
27 commenta: «
Dick
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vadano molto vicino, è questione di casualità, probabilmente rafforzata se è acuta l’intuizione di un o un’autrice nel leggere la realtà, mentre gioca con cause ed effetti. Ma non è che un esercizio del pensiero… che sì, ogni tanto si rivela spaventosamente giusto.

3.2 La fantastica scienza e la ricerca dell’umano

Abbiamo precedentemente affrontato l’affinità fra pensiero fantastico e pensiero scientifico, scoprendo del terreno comune nella capacità in entrambi di approcciarsi ad un’idea con disciplina e apertura al nuovo, per svelare importanti aspetti tanto del mondo reale quanto di uno di finzione. Ora che ci troviamo di nuovo al bivio fra fantasia e scienza, è d’obbligo riprendere il discorso per poterlo arricchire ancora.

Oltre ai plurimi esempi di scrittori che avevano un’effettiva formazione in aree di scienza o ricerca, come Chamisso che fu botanico, Nodier entomologo o Primo Levi chimico, parlando anche solo di quelli che si sono ispirati per input creativo a questi ambiti (Mary Shelley con Erasmus Darwin), il fatto che la loro fantasia abbia trovato o trovi la propria Musa in un ambiente “così lontano,” non è un caso isolato. Ed è a questo proposito che è interessante proporre una riflessione della già citata Giorgia Grilli, la quale ritrova nel famoso periodo Ottocentesco un momento in cui la scienza ha segnato la letteratura anche se di un’altra branca, cioè quella dell’infanzia, che condivide con la fantascienza (o con il fantastico) l’esser stata messa in angolo, rispetto alla letteratura “alta.” La Grilli infatti nota una corrispondenza storica fra il momento in cui Darwin rese pubbliche le proprie teorie evoluzionistiche con L’origine delle specie (1859) e l’inizio della produzione di grandi classici della letteratura per l’infanzia. Prima di inoltrarci in questo discorso però, dobbiamo ricordare, come molti autori considerati per l’infanzia dicono, che la questione dei libri scritti “solo per i bambini” è un po’ relativa e fine a sé stessa. Le storie come quelle di Pinocchio, Alice e Peter Pan sono intramontabili e classici proprio perché, come sostiene Grilli stessa, riescono a dire a distanza di tempo e a differenti età qualcosa di urgente sull’umano. Il punto è proprio quello: che cos’è l’umano?

La professoressa porta avanti tale riflessione per sottolineare quanto l’ambito della scrittura per l’infanzia sia stato capace di cogliere delle intuizioni che in altre aree della letteratura, considerata di un certo

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spessore, non sono state notate allo stesso modo. Questo a causa di una rigidità insita all’ambiente stesso. Ovvero Grilli rileva come i difetti della cultura umanistica, che comprendono «una esasperata autoreferenzialità, un irriducibile antropocentrismo, un focus epistemologico troppo ristretto» vengano superati nella letteratura infantile, perché al suo30 interno ci si riesce a chiedere cosa sia l’umano oltre esso. Infatti questo concetto di visione falsata dell’infanzia, aderente all’immagine dell’imbuto di Norimberga di cui parla anche Laforest, è persistita per molto tempo a partire dal periodo illuminista fino a noi, e nonostante non ci si voglia addentrare in questo discorso, che seppur interessante ci porterebbe fuori strada, basti sapere che l’infanzia è sempre stata vittima di proiezioni terze. Le quali vi riversano dei significati altri che non le appartengono (anche la nostalgia Romantica che la pone come età pura a cui anelare, ha impresso il suo bel bagaglio) o vi detraggono qualunque tipologia di senso e valore, considerandola una fase vuota, anarchica, solo da costringere, riempire e limitare. La letteratura per l’infanzia raggiunse invece in31 quegli anni una visione più libera per un’area della vita dell’uomo che in varie epoche è stata sofferta e sofferente.

Il primo a dare il “la” per questo differente sguardo fu per l’appunto Darwin che ritorna nel nostro discorso non solo per il suo testo più famoso, in quanto «le teorie di Darwin hanno ispirato alcuni racconti fantastici che, spingendo la nozione della selezione naturale fino alle sue estreme conseguenze, hanno illustrato la corrispondenza dell’ontogenesi e della filogenesi, le origini degli organismi e lo sviluppo delle specie», ma anche32 per: A biographical sketch of an infant, del 1877. Che si rivelò «fondativo per tutti gli studi scientifici, medici, psicologici che esploderanno da lì in poi sull’infanzia.» Il testo descrive puntualmente, in forma di diario ma con33 linguaggio analitico, il comportamento del figlio di Darwin stesso, William, nella sua espressività emotiva e fisica, fin dal suo primo giorno di vita per arrivare a circa due-tre anni del bambino. Il fattore di interesse è che lo

Cantatore, Lorenzo; Galli Laforest, Nicola; Grilli, Giorgia; Negri, Martino; Piccinini, Giordana;

Tontardini, Ilaria; Varrà, Emilio, In cerca

l’infanzia, Parma, Edizioni Junior, 2020, p.67

Lorenzo Cantatore, Nicola Galli Laforest, Giorgia Grilli, Martino Negri, Giordana Piccinini, Ilaria

Tontardini, Emilio Varrà, In cerca di guai cit., Parma, Edizioni Junior, 2020, pp.69-78

Segnini, Elisa; Frigerio, Vittorio,

Cantatore, Lorenzo; Galli Laforest,

Martino; Piccinini, Giordana;

Tontardini, Ilaria; Varrà, Emilio,

cerca

l’infanzia, Parma, Edizioni Junior, 2020, pp.36

30
di guai - Studiare la letteratura per
31
Dossier Fantastic Narratives, “La narrazione fantastica e il32 mondo naturale – Introduzione” : https://journals.openedition.org/belphegor/442?lang=en
Nicola; Grilli, Giorgia; Negri,
33
In
di guai - Studiare la letteratura per
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scienziato abbia studiato il figlio proprio come avrebbe fatto con altri esseri viventi e animali, osservandolo in maniera straniata, come fosse l’esemplare di una specie sconosciuta. Con questo intento, per mezzo di uno sguardo molto sensibile al “perturbante” (la caratteristica di perturbare è propria dei racconti per l’infanzia dell'Ottocento, come del genere fantastico e, come vedremo, in qualche maniera anche della fantascienza), alcuni autori presero quindi coscienza della necessità di esplorare tale area misteriosa del bambino e ottennero così dei racconti privi di proiezioni limitative da parte di chi quell’area della vita non la vive più. Il fattore comune che scatenò la fantasia degli autori per l’infanzia nell’Ottocento, a partire dallo sguardo di Darwin, è stata dunque l’idea di non considerare l’uomo solo come una forma stabile, sempre esistito per avere valore in un’unica fase (adulta), ma di prenderne in esame una diversa (l’infanzia), guardando ai bambini come esseri portatori di una loro specifica alterità, come la rana differisce dal girino.

L’intuizione di osservare con occhi nuovi ciò che si ha di fronte è un insegnamento della scienza che nell’area sopracitata, come nella fantascienza, ha portato a indagare ipotesi e possibilità che altrimenti non sarebbero state vagliate. «L’umano si salverà solo se saprà trovare forme nuove di relazione e di equilibrio con il non umano» scrive Grilli,34 riferendosi alla fase bambina da cui bisogna imparare e osservare l’elasticità, la metamorfosi e la capacità di inserirsi nella Natura come area a sé congeniale. Il fatto che l’uomo non debba vedersi in una sola forma statica, “matura” e isolata, è un pensiero che venne ripreso ampiamente anche nel Novecento, ad esempio in un saggio che scrisse Italo Svevo, ispirato per l’appunto alla teoria darwiniana, che però la ribalta. Ovvero egli affermò che l’uomo che si può salvare è unicamente “l’uomo abbozzo,” colui che non mostra una spiccata evoluzione e progresso verso nessuna forma specifica, ma che rimane sempre mutevole, indefinito, lascia le vie aperte. Fondendo psicanalisi e darwinismo, Svevo vedeva come unica possibilità di salvezza l’uomo abbozzo perché nel suo miscuglio di luce e buio aveva in sé le possibilità di evolversi e adattarsi, a differenza dei solidi borghesi del suo tempo, cristallizzati in fase immobile.35

Giorgia; Negri, Martino; Piccinini, Giordana;

guai - Studiare la letteratura per l’infanzia, Parma, Edizioni Junior, 2020, p.67

Tontardini, Ilaria; Varrà, Emilio, In cerca

Cantatore, Lorenzo; Galli Laforest, Nicola; Grilli,
34
di
Svevo, Italo, Saggi e pagine sparse, Verona, Mondadori, 1954, pp.107-11035 67

Tornando dopo questo tortuoso giro all’ambiente della fantascienza in senso stretto, notiamo che anche qui esiste una riflessione importante sul corpo che influisce sulla forma che l’uomo può avere. “Banalmente” anche partendo da Mary Shelley: ciò che crea il suo dottore è definito mostro ma pensa e agisce come un uomo, è fatto di carne ed ossa, basta la mente o il corpo così come li conosciamo per definirsi umani? Dagli automi di Nievo alla moderna idea di robot la suddetta questione si infittisce e si complica. Nel cyberpunk ad esempio il corpo non viene visto come rigido e finito così com’è, ma anzi modificabilissimo, dalla fusione dell’umano con la macchina si arriva dritti al cyborg, per il desiderio di creare una ibridazione delle potenzialità dell’organico assieme al tecnologico come nuova forma umana. Riflessione che nel mondo odierno ha ancora più valore, contando che il limite fra tecnologia e umano si assottiglia sempre più. A riprova di ciò sono anche artisti che hanno sperimentato o sperimentano in maniera concreta col proprio corpo in questa prospettiva, creando delle “studiate aberrazioni”. Per citarne uno: Stelarc, che con Ear on arm nel 2007 si era fatto impiantare un terzo orecchio nel braccio sinistro, con l’intento di provare sulla propria pelle questo processo sempre più sinestetico verso cui si muove l’uomo, per suggerire una struttura anatomica alternativa, accessibile anche ad altri corpi tramite la tecnologia (l’idea era di far trasmettere ad altri devices ciò che l’orecchio in più di Stelarc poteva recepire tramite un microfono).36

Che cosa sia l’uomo e il corpo umano anche rispetto anche all’odierna discussione sul tema del genere sessuale, se lo chiese e ne approfondì le dinamiche Ursula Le Guin nel già citato The Left Hand of Darkness. Le Guin non fu la prima fra l’altro a esplorare una dimensione umana e sessuale differente, ma seguì una sorta di tradizione rilevabile nell’ambiente fantascientifico. Prima di lei (il libro uscì nel 1969) ci furono nel 1905 Sultana’s Dream di Rokeya S. Hossain, nel 1915 Herland di Charlotte P.Gilman e nel 1960, con Theodore Sturgeon, Venus Plus X. In ogni caso, in questo37 romanzo l’autrice immaginò la visita interstellare di un uomo, Genly Ai, dalle caratteristiche terrestri a noi comuni, in un pianeta i cui abitanti non sono dotati di un vero e proprio genere sessuale.

Mettendo un attimo da parte i motivi per cui il protagonista segue questa missione, è interessante come Le Guin affronti la popolazione di questo popolo dell’Inverno (chiamato così per la stagione perenne), che vive in

Sito ufficiale di Stelarc, Ear on arm: http://stelarc.org/?catID=20242

Guin, Ursula Kroeberg,

p.334

36 Le
The Left hand cit., UK, Penguin random House, 2019,
37 68

una situazione di tecnologia meno avanzata del popolo di Genly e con una struttura politica simil feudale. I Getheniani però hanno una particolarità: divengono dotati di genere sessuale solo nella fase mensile del kemmer, che dura due giorni circa. Questo è il momento in cui sono atti a38 riprodursi o comunque ad avere rapporti sessuali, il fatto che i loro genitali divengano femminili o maschili è un fattore ogni volta variabile, indipendente dal loro volere e dalla forma che hanno per il resto del mese, cioè asessuata e asessuale. Queste nozioni che dà Le Guin sui Getheniani non sono limitate ad un semplice what if, l’autrice si è interessata di vagliare le varie implicazioni di queste caratteristiche a livello individuale e societario. Ovviamente non è un libro che voglia profetizzare nulla, né perfetto, né si vuole porre come specifica critica a qualcosa, se non offrire la possibilità di riflettere su quanto generi fissi e conseguenti ruoli o proiezioni ci influenzino a livello profondo e soggettivo, nonché nella costruzione della società. Sebbene in maniera “essenziale," Le Guin cambia la prospettiva: «The biggest lie that society tells us about gender is that the identities we’re assigned at birth are “natural,” and that anyone who flouts the boy-girl industrial complex is a pervert. Which is the same thing that the gentians believe about their mostly gender-free existence - emend down to calling people who have a fixed gender identity ‘perverts’.» L’autrice affronta la diffusa39 incapacità di pensare oltre le categorie prefissate di uomo e donna, tramite il protagonista, che seppure con uscite piuttosto maschiliste e sessiste (è evidente che non siano aderenti al pensiero dell’autrice) si pone per quanto gli è possibile in una posizione di apertura e s’impegna nella comprensione di un popolo che deve scoprire dalle fondamenta (si avvicinerà ad una mentalità e un modo di esistere che prima gli erano sconosciuti, grazie anche al profondo legame che svilupperà con un Getheniano). Fra i lati più positivi che egli rileva di questo mondo vi è il fatto che fra i Getheniani c’è una grande apertura e accettazione della necessità di dare spazio adeguato alla fase kemmer, senza giudizi o indignazione, inoltre il sesso, sia inteso come legato al genere di una persona che come atto in sé, non è un elemento che influenza le posizioni e i rapporti di potere come succede nel nostro reale mondo. Non ci sono divisioni biologiche, non vi è “sesso forte o sesso debole” o le conseguenti

Le Guin, Ursula Kroeberg, The Left hand of darkness, UK, Penguin random House, 2019, p.96: “The38 sexual cycle averages 26 to 28 days (they tend to speak of it as 26 days, approximating it to the lunar cycle). For 21 or 22 days the individual is somer, sexually inactive, latent. On about the 18th day hormonal changes are initiated by the pituitary control and on the 22nd or 23rd day the individual enters kemmer, esters. In this first phase of emmer (Karh, secher) he remains completely androgynus. Gender, and potency, are not attained in isolation. A gethenian in first-phase emmer, if kept alone or with others not in kemmer, remains incapable of coitus.

Le Guin, Ursula Kroeberg, The Left hand of darkness, UK, Penguin random House, 2019, p.333

39 69

caratteristiche collegategli, non c’è un rapporto di protetto-protettore, dominante-sottomesso, attivo-passivo, perché questi dualismi sono semplicemente intercambiabili e imprevedibili. Non c’è l’idea dello stupro, la paura o la frustrazione sessuale quasi non sussistono e non ci sono tutte le dinamiche relazionali disfunzionali più o meno comuni fra genitore-figlio, messi quindi da parte pure i vari complessi Edipici o di Elettra, i genitori non hanno inoltre prospettive legate al genere del nuovo nato né un approccio possessivo. Genly dice esplicitamente che la maniera dei Getheniani di rapportarsi ai bambini lo colpisce perché è rispettosa, protettiva, tenera. Dopotutto, come dice Charlie Jane Anders nella postfazione a fine libro, riprendendo anche le parole di Genly: «Thruth is a matter of the imagination - Gender, sex, romance, desire, power, nationalism, oppression they’re all just stories we tell ourselves. And we can tell different stories if we choose.» Questa spinta ad un ampliamento di visione su40 come raccontiamo l’umano e noi stessi, su come ci viviamo adesso ma potremmo farlo in maniera diversa, è qualcosa a cui Le Guin ha dato un ottimo contributo con questo libro.

Possiamo quindi concludere, ritornando da dove siamo partiti, che esiste un filo rosso di ricerca e riflessione sull’uomo senza parametri limitanti che possiamo far partire dalla prospettiva bambina «con cui nell’infanzia guardiamo il mondo per tentare di comprenderlo», per poi passare dalla visione adottata nella scienza da uomini come Darwin o anche Galileo, che «guardando con occhi meravigliati la lampada che oscillava, poté vedere qualcosa di reale, ma che sfuggiva allo sguardo di tutti gli altri uomini» e arrivare fino alla nostra fantascienza che, tra estraniamento e cognizione, «gettando il suo sguardo innovativo e rivoluzionario sul mondo, riesce a trarne una nuova visione.»41

3.3 A che serve la Signora Brown?

Rispetto alla ricerca dell’umano, oltre che essere una questione esistenziale su come si pensa e si vede l’uomo fra convenzioni e aspetti biologici, se si parla di “umanità” in senso stretto, nella fantascienza s’incappa in un problema legato al poter o meno “riconoscere”, nella finzione del libro, una persona con i suoi sentimenti e le sue sfaccettature. Un fatto su cui concordano due delle professioniste già citate, Giorgia

Guin, Ursula Kroeberg,

Aldo,

, UK, Penguin random House, 2019, p.341

Le
The Left hand of darkness
40 Carotenuto,
L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.13141 70

Grilli e Ursula Le Guin, è che nella fantascienza, come nella fantasy, spesso esiste un muro per cui questi elementi o non ci catturano o non sussistono in maniera tale da convincerci o arrivarci come veritieri. Tutt’al più i caratteri personali vengono messi in secondo piano e non ci è permesso di empatizzare con il vissuto dei soggetti che muovono la storia. Questo dilemma, se affrontato come tale, viene presentato da Giorgia Grilli in veste di difetto specifico della fantasy, mentre da Ursula Le Guin viene esplicato appositamente in un saggio dove tratta il mondo della fantascienza, citando solo dopo la fantasy. A grandi linee si può concordare che questa notazione valga per entrambi i generi, avendo essi in comune il trattare spesso storie che mettono in gioco le sorti di un intero mondo o di universi, tralasciando a volte l’interesse di far passare l’essenza dei personaggi. Tuttavia non è impossibile trovare delle storie dove questo generico difetto venga superato, e anche in questo entrambe le professioniste concordano. Ad esempio la Grilli, trova delle narrazioni in cui emozioni e sentimenti nei personaggi non esistono solo a livelli superficiali ma approfonditi, in una saga per ragazzi, forse meno conosciuta di una (sempre validissima) come La Bussola d’Oro di Philip Pullman, perché Grilli individua le storie di Lois Lowry: The Giver - Il donatore, La rivincita - Gathering Blue, Il messaggero, Il figlio. Per la verità ella affronta solo i primi due romanzi, anche perché il suo libro è stato pubblicato a Marzo 2012 e gli ultimi due volumi della saga sono usciti rispettivamente nel 2012 e 2013. Questa quadrilogia rientra nella fantascienza e nella distopia, tutte le storie (ogni libro gira attorno ad un personaggio diverso) sono ambientate in un futuro imprecisato, non troppo lontano, dove molte cose sono andate storte, ma vi si mescolano anche elementi inspiegabili, accettati come magici. La Grilli si sofferma su questo caso editoriale anche per la difficile storia di accettazione che hanno avuto i primi due libri, sopratutto in Italia, proprio per l’intensità e la forza del dolore che racchiude, che nel primo libro viene posto sulle spalle di un ragazzino. Questo, la veridicità delle emozioni umane, trasmesse così bene, però con il contrasto di avere una mente così giovane e considerata “ pura, non pronta”, a doverle sostenere è bastato a far censurare a lungo il libro in America e a far ritardare la sua venuta in Italia. Il tema emozioni è ancora42 più pregnante perché la storia si basa su questa società futura che ha allontanato completamente sentimenti negativi come positivi in maniera sintetica, tramite delle medicine che vengono somministrate secondo

Grilli, Giorgia, Libri nella giungla - Orientarsi nell’editoria per ragazzi, Città di Castello (PG), Carocci42 Editore, 2021, p.84: «Il suo The Giver è uno dei libri più forti e in qualche modo sconvolgenti degli ultimi anni, un libro che suscita empatia, che mette in moto emozioni profonde e che procura un sincero dolore nel lettore, al punto che ha subito censure in America e da noi ha impiegato molti anni ad arrivare.»

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metodi non completamente consci e su base giornaliera. È una società funzionale a suo modo, ma completamente vuota e asettica: le persone non vedono i colori, non sentono i sapori, non sanno cosa davvero siano i legami, in realtà ne hanno solo di ufficiosi. Non ci si bacia e non ci si abbraccia sul serio, i sorrisi sono vacui e vuoti riflessi come qualunque altra espressione del volto o fisica, vivendo tutto al minimo e in superficie le persone di questo futuro esperenziano la vita come un sistema di ruoli finalizzati alla sola utilità di un estremo controllo. Non ci sono differenze, non c’è eterogeneità nelle persone: non c’è vita. Nonostante ciò esiste un ruolo in questo sistema, “il donatore” appunto, che è una figura capace di trasmettere le Memorie dell’Umanità, col loro carico di travolgente gioia e sofferenza, questa persona ne detiene il peso in solitudine, così da custodirlo di generazione in generazione e mantenere il tutto legato, sotto controllo, nascosto. Jonas, il protagonista in questione, si troverà nella posizione di dover ottenere le memorie dal precedente custode, ma in contrasto e rottura col passato, inizierà a pensare se stare o no alle regole malsane degli adulti che fin ora gli hanno solo mentito. Si inizierà a chiedere se il mondo che gli è stato consegnato debba per forza viverlo come voglio “loro”, i grandi, gli adulti del comitato della Comunità, Jonas come nessun altro lì, non è mai stato interpellato su cosa volesse davvero dalla vita, perché fino a quel momento non ne conosceva neanche le possibilità.

Prendendo ora in esame Le Guin invece, entriamo nel vivo del tema dando un nome alla presenza segnante di umanità che possiamo scovare in un libro, l’autrice la prese in prestito: il nome è “Signora Brown” e lo coniò Virginia Woolf. La Signora Brown è infatti una singolare, nel suo essere comune, vecchietta, che notò la Woolf in un viaggio in treno. Ne fu colpita per il suo essere così piccola e tenace, dice, eroica e fragile tutt’assieme. «È buffa l’idea della Signora Brown in un’astronave è proprio troppo piccola per visitare un impero galattico,» aggiunge Le Guin: eppure43 sembra essenziale per un romanzo questa presenza, perché è quella calamita che ci apre al mondo e alla storia che stiamo affrontando. È ciò che ci fa provare empatia, che amplifica quel “divenire pazzi” nello spazio e nel tempo delle pagine. Abbiamo citato delle caratteristiche riassuntive e sintetiche che determinano le basi di questa tanto umana Brown, ma andando nello specifico del breve saggio Mr. Bennet and Mrs. Brown, ella viene citata prima di tutto per dare un nome a ciò che effettivamente spinse la Woolf stessa a scrivere, è il demone che la ispirò, è ciò che

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura43 di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.93

72

l’aveva sfidata: «My name is Brown. Catch me if you can.» Se un romanzo non44 ha dei personaggi convincenti, dice la Woolf, non si tiene in piedi, non sussiste: si deve esser in grado di acchiappare questa strana vecchietta, bisogna farci attenzione. È proprio quello che fanno i romanzieri “veri” : «When all the practical business of life has been discharged, there is something about people which continues to seem to them of overwhelming importance, in spite of the fact that it has no bearing whatever upon their in happiness, comfort, or income.» L’osservazione e l’analisi del fattore umano dovrebbe essere45 di primaria importanza in maniera naturale, dovrebbe trascendere la scrittura del libro in sé o un uso pratico, è ciò che dovrebbe essere urgente nelle vita odierna di persona, tanto più di uno scrittore di romanzi. Un personaggio come Mrs Brown, che è questa signora che la Woolf trova per caso in un treno, non sarebbe stata notata in assenza di tale sensibilità, di cui Woolf si rivela più che ricca e cosciente.

È buffo comunque che nella realtà dei fatti, più che esser stata Mrs. Brown ad apparire ex abrupto alla Woolf, sia avvenuto un po’ il contrario. Un giorno l’autrice, nel sedersi nel vagone di un treno diretto a Waterloo, se la trovò seduta di fronte, in compagnia. Si rese poi conto di averle forse fatto un favore entrando lì, perché con la sua presenza aveva interrotto una discussione con l’uomo che le stava seduto dinnanzi e che a quel punto, paonazzo ma quieto, non aprì bocca per un po’. Probabilmente, racconta la Woolf, l’uomo (oltre i quaranta) era lì con la nostra Signora (oltre i suoi sessanta) per qualche affare di cui pubblicamente però non volevano parlare, infatti solo dopo che Mrs Brown ebbe posto una domanda all’uomo, questi riprese la parola. Fatto ancora più peculiare,46 nell’ascoltare la sua risposta ad un certo punto la Signora Brown reagì stranamente: pianse. Silenziosamente, in maniera composta, con la stessa dignità con cui si poi riprese rispondendo all’ultima domanda che l’uomo le fece (per niente mosso da quell’improvvisa tristezza), rispetto al loro misterioso affare, prima di lasciarle sole. Per l’impressione47 travolgente che quella piccola donna era riuscita a trasmetterle con i suoi

Woolf, Virginia, Mr. Bennet and Mrs. Brown,

Virginia, Mr. Bennet and Mrs. Brown,

Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio

Hogarth Press, London, 1924, p.3

Hogarth Press, London, 1924, p.5

notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura

di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti,

p.8:

you tell me if an oak-tree dies when the leaves have been eaten for two years in succession

She sat in her corner opposite, very clean, very small, rather queer, and suffering intensely. The

impression she made was overwhelming. It came pouring out like a draught, like a smell of burning. What was it composed of—that overwhelming and peculiar

sees the person,

Myriads ideas crowd into one's head on such

sees Mrs. Brown, in the centre of all sorts of different scenes.

The
44 Woolf,
The
45 Le
della
46
1986,
«Can
by caterpillars?» Ibidem: «
47
impression?
occasions; one
one
» 73

minimi gesti, la Woolf ne venne così colpita che non potè fare a meno di immaginarla in vari momenti della sua vita, spiandola in attimi a cui non avrebbe comunque mai potuto assistere in prima persona. Probabilmente quel guizzo di fantasie potevano anche essere vere, perché la Woolf aveva recepito appieno l’essenza di quella donna, che non vide mai più, ma che la segnò così a fondo. Quello che voleva far passare la scrittrice con questo aneddoto è proprio la potenza insita nelle persone di poter colpire un’altra vita, una possibilità così potente che la Woolf avrebbe potuto scrivere su due piedi un intero romanzo su un’estranea incontrata in un vagone. Ed è proprio su questo che i romanzieri modellano, o dovrebbero modellare, i libri, non li compongono per glorificare invenzioni concrete, sociali o politiche dell’uomo ma per fondere nelle pagine il carattere. Per scolpirvi all’interno l’impronta di specifici modi di essere, di esistere, di come si prende o si lascia lo spazio attorno a sé, che sia questo anche solo il posto a sedere di un treno. Nel saggio la scrittrice sottolinea come ovviamente ogni persona avrebbe anche potuto vedere la signora Brown sotto una lente differente. A seconda della cultura, nazionalità, background, di uno scrittore ci sarebbero state mille-mila Signore Brown diverse, ma sarebbero iniziate con quella stessa persona, con il suo sguardo “ansioso e tormentato.” La Woolf affronta poi alcune criticità e temi a lei vicini riguardo il panorama della scrittura inglese del suo tempo, per poi dedicare alla nostra inaspettata protagonista precise e importanti parole in chiusura: cioè che la bellezza di schiudere un carattere come quello di una comune signora seduta di dirimpetto non è qualcosa che solo gli scrittori possono cogliere o notare, è un aspetto che fa parte del quotidiano. Gli scrittori hanno eventualmente il compito di rendere una visione, su carta, di quella complessità di emozioni e dettagli che si può ricavare da ognuno, il loro compito consta nel cogliere quei piccoli e all’apparenza vacui, momenti, che in realtà ci compongono e ci arricchiscono, strutturando le nostre essenze. Mrs Brown è visibile a48 tutti, e la dovremmo pretendere come lettori. Anche se al tempo, come sottolinea poi anche la Le Guin, la Woolf sosteneva non esserci Mrs Brown

Ibidem, p.23-24: «In the course of your daily life this past week you have had far stranger and more48 interesting experiences than the one I have tried to describe. You have overheard scraps of talk that filled you with amazement. You have gone to bed at night bewildered by the complexity of your feelings. In one day thousands of ideas have coursed through your brains; thousands of emotions have met, collided, and disappeared in astonishing disorder. Nevertheless, you allow the writers to palm off upon you a version of all this, an image of Mrs. Brown, which has no likeness to that surprising apparition whatsoever. In your modesty you seem to consider that writers are of different blood and bone from yourselves; that they know more of Mrs. Brown than you do. Never was there a more fatal mistake. […] Your part is to insist that writers shall come down off their plinths and pedestals, and describe beautifully if possible, truthfully at any rate, our Mrs. Brown. You should insist that she is an old lady of unlimited capacity and infinite variety; capable of appearing in any place; wearing any dress; saying anything and doing heaven knows what.

» 74

in Utopia o racconti simili, non vuol dire che non ci possano esser state successivamente.

Secondo Ursula Le Guin un esercizio molto semplice per confutare o meno la traccia della Signora Brown in un libro è osservare se dopo un mese o più dalla lettura dello stesso ci si riesce a ricordare il nome del protagonista. Tramite questo gioco, fra alti e bassi, ella identifica alcuni libri fantascientifici in cui l’umano è caratteristica fondativa, questi sono Noi di Evgenij Zamjatin e Islandia di Wright Tappan, ma invece non ne trova traccia nella fantascienza degli anni Trenta, né “in forma unica” dentro la fantasy. O meglio, scorge qualcosa, ma non in univoco carattere, anzi identifica più una frammentazione di questa Signora nell’esserecaratteriale composto da Frodo, Sam, Sméagol e Gollum, sistema in cui Frodo rappresenta un “ nuovo ” eroe in quanto vulnerabile e fragile, contata la sua attitudine nella storia e nel finale, egli non completa neanche la missione in senso stretto ma si risolve la missione grazie ad una concatenazione di eventi che portano alla presenza essenziale di Gollum, che come dice Le Guin, dopotutto è parte di lui. Spingendosi poi negli anni Sessanta e Settanta l’autrice cerca la signora Brown fantascientifica trovandola in due personaggi specifici: Thea Cadence in Synthajoy di D. G. Compton e Nobosuke Tagomi ne La Svastica sul Sole. Entrambi hanno esattamente quelle caratteristiche notate dalla Woolf: molto deboli, tenaci, fragili, eroici.

Tagomi nel particolare è un uomo, un signore giapponese di alto rango per la posizione in cui si trova, data la storia di futuro alternativo che Dick crea. Nel particolare egli è un membro importante della Missione Commerciale Nipponica (burocrate quindi, potente) trova interessanti gli oggetti d'antiquariato americani e ne sceglie uno in particolare, un orologio di Topolino, per fare colpo su Baynes (presentato come imprenditore svedese, ma in realtà agente sotto copertura), con cui ufficialmente dovrebbe portare avanti delle trattative su una importante fornitura “di stampi a iniezione". In ogni caso della sua vita personale, non impariamo molto, era un floricoltore quando viveva in Hokkaido, ha49 servito in Cina durante la guerra, ha una moglie, ma non la vediamo mai davvero. Quello che sappiamo per certo sono il suo carattere e i suoi50 valori. O meglio, non è che lo comprendiamo appieno, non possiamo eviscerarlo come se sezionassimo una rana, ma il suo essere possiamo

Kindred,

Kindred,

Dick, Philip
La svastica sul sole, Cles (TN), Fanucci editore, 2020, p.4449 Dick, Philip
La svastica sul sole, Cles (TN), Fanucci editore, 2020, p.22650 75

percepirlo forte e chiaro. Tagomi esiste. E quando esiste consulta molto l'I Ching, in qualunque situazione sia (e aggiungiamo quindi anche questo antico testo divinatorio ai libri che influenzano le vicende della La Svastica sul Sole), anzi si sente ansioso quando non lo fa: «Avrei dovuto consultare l’oracolo. Scoprire che Momento è questo. Mi sono allontanato dal Tao, è evidente. Sotto quale dei sessantaquattro esagrammi mi sto muovendo?» Tagomi tuttavia prende delle forti decisioni che partono51 dalla profondità del suo sé, ogni fibra di quest’uomo reagisce a ciò che lo circonda in maniera cristallina. C’è un passaggio specifico dove gli giunge la notizia della morte del cancelliere del Terzo Reich e a sentire esposti gli eventuali sostituti, le loro biografie, Tagomi si sente così male che deve uscire dalla riunione a cui partecipava. Capisce che tanto il mondo è, ovunque si giri, soffocante per la cecità e malevolenza delle persone che lo abitano e governano: «Questo è il male! È concreto, come il cemento!». 52

Tagomi è quindi fragile, drammatico perché conscio di essere una piccola cosa nel gioco di un mondo che lo schiaccia. Ma soprattutto piccolo nei giochi di potere in cui rimane incastrato: si trova infatti ad uccidere due agenti della SD, ovvero Sicherheitsdienst, per poter proteggere Baynes nell’arrivare ad avvertire il generale giapponese Tedeki che i nazisti stanno lanciando un’operazione atta prender di sorpresa il Giappone per distruggerlo. E quest’azione diviene una questione di moralità sacrale, il peso lo inonda senza sosta, come dice Tedeki, per la cultura buddhista in cui è stato cresciuto, non potrebbe togliere la vita a nessun essere, ogni vita è sacra, ma al prezzo di salvarne solo una invece Tagomi ne ha prese ben due. Il suo personaggio inoltre, lo potremmo anche avvicinare a Juliana, che non viene citata da Le Guin, forse perché se possibile è molto più criptica di Tagomi e un po’ cristallizzata nel suo mistero interiore, che non è così esplicito come il groviglio di pensieri che ruotano attorno al signor Tagomi, può apparire meno sviluppata come personaggio, ma è anche l’unica assieme a Tagomi ad avere un importante ruolo nel libro, nell’attuare una “piccola” azione di salvataggio oltre che passare attraverso la violenza, l’omicidio. Solo che le sue reazioni, più caotiche di Tagomi, sono anche anche più fredde, decise, senza tanti ripensamenti. Tagomi non solo uccide per salvare, ma a suo modo si espone di nuovo contro il male che vede attorno, quando evita di far uccidere un altro personaggio, Frank Frink (aka Fink, ex marito di Juliana), che le autorità avrebbero dovuto inviare alla Germania Nazista in quanto ebreo, per

Dick,

Dick,

Kindred,

Philip Kindred, La svastica sul sole Cles (TN), Fanucci editore, 2020, p.11851
Philip
La svastica sul sole, Cles (TN), Fanucci editore, 2020, p.11452 76

essere soppresso, mentre Juliana evita che lo scrittore de La cavalletta non si alzerà più venga eliminato tramite un piano segreto dell’uomo con cui decide di accompagnarsi per gran parte del libro. Uomo che uccide, aprendogli la gola con una lametta. In questo Juliana non si scompone neanche troppo, di fronte a Joe (il mancato sicario) che tenendosi il collo le dice morente: «Mi hai tagliato l’aorta. L’arteria del collo,» e le chiede di53 chiamare soccorsi, lei risponde con una risatina che: «Oddio sei così buffo. Insomma, sbagli tutte le parole. L’aorta è nel petto; vorrai dire la carotide.» Tagomi invece, è eroico e tenace sì, ma senza tralasciare la54 propria fragilità insita. Finirà per avere un infarto a fine libro, probabilmente appesantito dalla quantità di eventi vissuti, mentre pensa che almeno per come ha potuto, ha agito come poteva, con dignità e sfruttando tutto il possibile delle sue capacità.

Il discrimine fra un libro e un romanzo è quindi lì, fra questi personaggi, in nomi come quello di Tagomi: un romanzo è un libro che abbia all’interno questa signora anziana, così familiare che sembra di conoscerla, e la fantascienza in quanto area di romanzi, può fare posto anche a lei, basta darle il giusto spazio. Perché come ci ricorda Le Guin, per quanto immaginifici e stupendi siano tutti gli oggetti dell’universo, se non esiste un soggetto diviene tutto inutile. In quanto noi esseri senzienti possiamo almeno dare un senso al fatto di non essere mere cose, possiamo non vanificare la nostra coscienza. Per la forma del romanzo fantascientifico secondo questa ottica, Le Guin si augurò che fosse sempre più presente, perché un romanzo è capace di parlare di «quello di cui viviamo, oltre al pane» per ricordarci che non siamo gusci vuoti e che tramite storie di55 fantasia possiamo riconoscere perfino noi stessi.

Dick, Philip Kindred, La svastica sul sole, Cles (TN), Fanucci editore, 2020, p.21953 Ibidem54 Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura55 di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.109 77

4. Il perturbante fantastico e l’estraniamento fantascientifico

«Un uomo che percorre un viottolo la sera può osservare il palese fatto che fintanto che la natura mantiene il suo corso, non ha alcun potere su di noi. Fintanto che un albero è un albero, è un mostro dal capo enorme, con cento braccia, cento lingue e una gamba sola. Ma finché un albero è un albero, non ci spaventa per nulla. Comincia ad essere qualcosa di alieno, qualcosa di strano, solo quando ci assomiglia. Quando un albero sembra sul serio un uomo, è allora che le nostre ginocchia cominciano a tremare per davvero.»1

Si è presa tale citazione ad aprire il capitolo per introdurre la natura del concetto di perturbante. Tema fin ora solo sfiorato, ma di radicale importanza nel genere fantastico e, sotto una certa prospettiva, declinabile anche nel fantascientifico. Ritroviamo inoltre tramite questo tema (come lo vedremo più avanti) il filo rosso che lega questi due ambiti all’area dell’infanzia. d’altronde, come notò Frued, il termine appare anche nel vocabolario tedesco redatto da Jacob e Wilhelm Grimm, autori per l’infanzia che ritennero rilevante inserire nel loro lavoro anche questa parola.

È bene infatti iniziare ad esaminare il perturbante tramite chi vi ha scritto sopra. Il testo più celebre è quello di Freud, egli compose un breve articolo su questo solo argomento, cercando di approfondirlo nel 1919, dato che vi aveva già accennato in Totem e tabù (1912-13), ma in questo caso vi dedicò totale attenzione. Tuttavia egli partì nella sua disamina del perturbante dalla previa lettura di un saggio, che definisce succoso ma incompleto, di Ernst Jentsch: Riguardo la psicologia del perturbante (Zur Psychologie des Unheimlichen ), che risale al 1906. Nel testo Jentsch utilizza il termine unheimlich per analizzare uno stato mentale che si presenta nel momento in cui una persona viene esposta a una situazione in cui si

Segnini, Elisa;

mondo

Frigerio, Vittorio, Dossier Fantastic Narratives, “La narrazione fantastica e il
1 naturale – Introduzione” : https://journals.openedition.org/belphegor/442?lang=en 79

ritrova a provare, nei confronti di qualcosa, una forte ambiguità. L’indecisione provata viene causata dal non riuscire a prendere una posizione ferma. Si parla dunque di incertezza cognitiva, che si presenta perché il soggetto non riesce a rispondere in maniera automatica e definita ad uno stimolo: rimane confusa la reazione che dovrebbe avere. Jentsch affronta dunque i casi in cui questa profonda indecisione avviene, ricerca delle casistiche per poter definire meglio l’argomento, perché a suo dire sarebbe inutile capire cosa sia l’unheimlich per via diretta, meglio ricavarlo capendo quali condizioni sono richieste perché il senso di unheimlich stesso emerga.2

Il fatto che il perturbante affiori o meno dipende non solo dalle caratteristiche ricettive del soggetto che osserva, ma anche da che punto di vista si guarda qualcosa. Jentsch fa l’esempio del sorgere del sole, un evento così abituale che non ci scompone più di tanto. Ma quando ci capita di ricordare che ciò che vediamo, ovvero il movimento della stella, non è che una “illusione”, dato che è la Terra a ruotare attorno al Sole, il senso di estraneità aumenta, e raggiunge il suo culmine se constatiamo che il nostro punto di vista è davvero minimo e relativo rispetto all’universo in cui si è immersi. Per questo lo spavento o il sospetto sono sentimenti più presenti nei bambini ad esempio, data la loro breve esperienza del mondo attorno. Tuttavia Jentsch individua una casistica che si ripresenta piuttosto frequentemente come capace di provocare questo uncanny feeling per la maggior parte delle persone, in maniera indipendente da età, background culturale, etc. Tale situazione si ha nel caso in cui ci si trovi a chiedere se un oggetto inanimato lo sia davvero.3 Un’ombra nella notte che assomiglia a un corpo umano, ma di strane dimensioni e che magari ha per qualche motivo un movimento, crea la paura che quella visione sia in qualche maniera viva, come una locomotiva che fuma e “respira” apparirebbe agli occhi di un uomo selvatico. Lo psichiatra prende in esempio anche le statue di cera, iperrealistiche, manichini di varia origine o automi, tutte queste situazioni dove un oggetto inanimato ricorda una creatura vivente, pone il soggetto

Jentsch, Ernst, “Zur Psychologie des Unheimlichen (traduzione in inglese di Roy Sellars)” , Angelaki2 2.1, 1995 p.3: «So if one wants to come closer to the essence of the uncanny, it is better not to ask what it is, but rather to investigate how the affective excitement of the uncanny arises in psychological terms, how the psychical conditions must be constituted so that the ‘uncanny’ sensation emerges.

Jentsch, Ernst, “Zur Psychologie cit.”, Angelaki 2.1, 1995 p.8: «Among all the psychical uncertainties

that can become a cause for the uncanny feeling to arise, there is one in particular that is able to develop a fairly regular, powerful and very general effect: namely, doubt as to whether an apparently living being really is animate and, conversely, doubt as to whether a lifeless object may not in fact be animate – and more precisely, when this doubt only makes itself felt obscurely in one’s consciousness. The mood lasts until these doubts are resolved and then usually makes way for another kind of feeling.

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osservante ad essere in bilico nell’inserimento dell’oggetto inanimato (di cui non si è più sicuri che lo sia) fra due categorie per la mente incompatibili, sulle quali irrazionalmente entra in crisi: quell’ombra o forma è dotata di vita oppure no?

Secondo Jentsch non è neanche tanto essenziale che la figura ricordi in maniera esatta e antropomorfica l’uomo, può creare questa sensazione anche la precisione di un sistema dotato di un’automazione o di macchine che possano fare qualcosa in maniera “straordinaria" perché inclusa nelle nostre azioni da esseri viventi. Jentsch inoltre lega molto le cause4 dell’uncanny alla cultura e alla conoscenza che un soggetto può o meno avere del mondo, quindi direttamente ascrivendole allo sviluppo umano e anche alla sua sanità mentale, nonché, a parer suo (data la visione dell’epoca su tutto ciò che è differente dal maschile-adulto) ad una maggiore sensibilità per questo fattore nei sognatori, nelle donne e nei bambini, poiché vi riscontra una “diffusa" presenza di “fragile” senso critico, eventualmente accompagnato da un più problematico background psicologico. Per questo più avanti egli cita anche la forte credenza nella5 cultura della civiltà greca, di visione del mondo come popolato da dei, ninfe e driadi, nonostante un certo avanzamento culturale: «The child of nature populates his environment with demons.»6

Nonostante la ripetuta indicazione di Jentsch a ritrovare un legame fra perturbante e un certo grado di misoneismo, che fa da muro per la ricezione di questa sensazione, su cui influisce la cultura o uno stato psichico o fisico alterato, a seconda dei soggetti, il concetto principale rimane che il perturbante si fa strada nel momento in cui si ha la necessità di decifrare qualcosa e si fallisce nel posizionarlo in una delle categorie primariamente specificate: vita o morte. Riguardo questa ambiguità da cui nasce il tutto, lo psichiatra sottolinea anche come sia un escamotage sfruttato largamente in ambito artistico, che riesce a preservare l’intrattenimento che sa produrre l’arte stessa, nonostante la sinistra inquietudine coinvolta. Un po’ come succede nel piacere contorto

Jentsch, Ernst, “Zur Psychologie cit.”, Angelaki 2.1, 1995 p.10-11: A doll which closes and opens its4 eyes by itself, or a small automatic toy, will cause no notable sensation of this kind, while on the other hand, for example, the life-size machines that perform complicated tasks, blow trumpets, dance and so forth, very easily give one a feeling of unease. The finer the mechanism and the truer to nature the formal reproduction, the more strongly will the special effect also make its appearance. This fact is repeatedly made use of in literature in order to invoke the origin of the uncanny mood in the reader.

Jentsch, Ernst,

Jentsch, Ernst,

Zur Psychologie cit.”, Angelaki 2.1, 1995 p.12

Zur Psychologie cit.”, Angelaki 2.1, 1995 p.13

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provato nell’ascoltare storie di paura. Riguardo a questo fatto non a caso egli parla di E.T.A Hoffmann come uno dei maestri dell’uso letterario del perturbante, che citerà in seguito anche Freud.

4.1 La definizione di Freud

«Il perturbante che si sperimenta direttamente si verifica quando complessi infantili rimossi sono richiamati in vita da un'impressione, o quando convinzioni primitive superate sembrano aver trovato una nuova convalida.»7

Per collegarsi direttamente a dove abbiamo lasciato Jentsch, nonostante questa sia una notazione che Freud fa a seguito, esplicitiamo intanto che il concetto di perturbante in letteratura e poesia ha secondo lo psicanalista delle qualità e parametri diversi, per situazioni, ambienti e concetti presentati, da ciò che percepiamo come perturbante nella nostra vita concreta. O almeno se non completamente differenti, perché delle connessioni le ritroviamo, il ventaglio di situazioni riscontrabili come perturbanti è almeno più amplio. Detto ciò, Freud inizia il suo discorso studiando il significato della parola. Non c’è un’esaustiva traduzione, almeno in italiano (o in portoghese), per quello che lui stesso indica con Das Unheimlich, per cui nella nostra lingua a parte l’uso della parola perturbante, al nucleo ricco di sfumature di questo termine vi si arriva per circonlocuzioni. Anche nelle altre lingue, stando alla fruttuosa ricerca in8 cui si è fatto supportare lo psicanalista, si nota la mancanza di un termine “altamente specifico” per convogliare tutti i significati che affronteremo, fattore che invece avviene in maniera fortuita nella lingua tedesca. Un luogo «unheimlich» è in latino un locus suspectus, un’ora «unheimlich» della notte è intempesta nocte, l’idea di estraneità di questo termine è quella inclusa in ciò che in greco si indica la parola ξένος ("xenos”, estraneo), in arabo e in ebraico poi la definizione di “perturbante" si tradurrebbe invece in ciò che è demonico, orrendo. In tedesco questo termine dai plurimi9 significati risale a qualcosa che ci è noto e familiare, ma in negativo, o in

Freud, Sigmund, Il Perturbante, Roma, Edizioni Theoria, 1993, p.75

Freud, Sigmund, Il Perturbante, Roma, Edizioni Theoria, 1993, p.16-17

Ibidem: In inglese si indicherebbe: uncomfortable, uneasy, gloomy, dismal, uncanny, ghastly. Come detto

di una casa: haunted; detto di un uomo invece sarebbe: a repulsive fellow. In francese si userebbe: inquiétant, sinistre, lugubre, mal à son aise. In spagnolo: suspechoso, de mal aguero, lúgubre, siniestro.

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antitesi, è il contrario di fidato o intimo, anche a livello strutturale infatti il prefisso negativo un nega il significato di heimlich, creando un’opposizione a ciò che si connette al focolare, alla casa e al domestico. All’interno del suo testo Freud cita ben quattro pagine e mezzo di sola definizione della parola heimlich. Il termine risultante dalla sua negazione indica qualcosa di nascosto, celato, che per qualche motivo non si vuole svelare, è una paura per un fattore sconosciuto, ma non nel senso di "solamente” nuovo, piuttosto di un passo in più nel profondamente inconsueto. È qualcosa di cui non ci si raccapezza proprio e si ha la sensazione che invece dovremmo poterlo fare. Lo psicanalista, riprendendo Jentsch, in realtà si mostra non totalmente in accordo con lui, o più che altro va oltre l’idea che il perturbante si presenti solo rispetto al fattore di novità misto a stranezza e approfondisce il tema. Per esempio riguardo la specificità degli effetti perturbanti non solo negli oggetti inanimati antropomorfici ma anche in eventi fisici nelle persone, come attacchi epilettici, che rivelerebbero secondo Jentsch la fragilità della struttura umana come insieme di sistemi e automatismi che si possono rompere (quasi a rivelare una inquietante similitudine con delle macchine) Freud non si mostra molto entusiasta. Non trova queste notazioni esaustive, per cui si spinge ad analizzare la relazione che il perturbante può avere invece con l’inconscio. Seguendo questo pensiero tuttavia si trova in accordo con Jentsch su una cosa, ovvero riguardo l’uso ottimo del perturbante in letteratura ad opera di E.T.A Hoffmann. Egli si accende per l’esattezza dell’esempio riportato, così che inizia lui stesso tramite un racconto, nello specifico de Il mago Sabbiolino, ad eviscerare la complessità dell’ambito trattato

Nella storia per l’appunto appare una bambola, Olimpia, che il personaggio principale scambia per una persona fisica, ma non è tanto questo scambio “da manuale” per l’argomento che Freud è interessato ad esporre il racconto, piuttosto per la figura che dà il nome alla storia, che appunto si rileva come di maggiore interesse: il mago Sabbiolino, o Uomo di Sabbia. Che ai bambini… strappa gli occhi. Figura usata dalla madre di Nathaniel, il protagonista, al tempo per intimorire i figli e mandarli a letto ad una buon’ora, ma oltre ad esserci una descrizione ancora più specifica e raccapricciante da parte della bambinaia, la paura del piccolo10 Nathaniel era radicata perché in realtà la notte sentiva davvero la

Freud, Sigmund, Il Perturbante, Roma, Edizioni Theoria, 1993, p.29: « È un uomo cattivo che viene10 dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro negli occhi manciate di sabbia, tanto che gli occhi sanguinanti balzano fuori dalla testa. Allora li getta nel sacco e li porta nella mezzaluna e li dà da beccare ai suoi piccoli, che stanno nel nido e hanno il becco ricurvo come le civette, col quale squarciano gli occhi dei bambini cattivi.»

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presenza dei passi del mago. Una sera infatti decise di nascondersi nello studio del padre per scoprire le fattezze di questo misterioso figuro, ed avvenne dunque l’incontro con il tale avvocato Coppelius, personaggio sgradevole ai bambini, che in quella notte, sebbene in compagnia del padre, allo scoprire la presenza di Nathaniel lo afferrò aggressivamente. Inoltre ciò che l’ora adulto Nathaniel ricorda è che l’uomo volesse togliergli gli occhi dalle orbite, minacciandolo con granelli incandescenti (o sabbia). La storia passata del ragazzo e la sua crisi di follia seguita all’evento, complica il suo presente contando che il padre fosse effettivamente morto durante un’altra notte passata nello studio, a causa di un’esplosione. Il legame con quest’uomo sinistro lo perseguita dunque da studente, perché pensa di rivederlo nell’ottico italiano Giuseppe Coppola, da cui (alla fine accertatosi che non si tratti del suo personale incubo) compra un cannocchiale, per scrutare la casa di fronte alla propria del Signor Spallanzani, dove scorge la famosa Olimpia, automa creato dallo stesso Spallanzani e a cui Coppola ha forgiato gli occhi. Bambola che scambia per persona vera, innamorandosene. La follia o attacco nevrotico del ragazzo si ripete in seguito di fronte al litigio dei due creatori per il possesso della bambola, e anche tempo dopo nel momento in cui succede che usi di nuovo il cannocchiale dall’alto della torre del palazzo comunale dove si trova con la sua attuale ragazza. La povera rischia quasi di essere uccisa dal fidanzato, in preda alla crisi, che urla, come aveva urlato in precedenza negli eventi psicotici: «Bambolina di legno, gira!» e «Cerchio di fuoco, gira!» La storia termina con il suicidio di Nathaniel, che ormai11 definitivamente invasato, riconosciuto Coppelius da lontano si lancia gridando e ripetendo «Begli occhi!».

Sebbene si sia riassunta in maniera drastica la storia, si può notare, come evidenzia poi Freud, che l’idea dell’incertezza intellettuale può esserci stata nell’incomprensione da parte di Nathaniel, nel non identificare una bambola nella donna di cui si invaghisce inizialmente, o nell’ambiguità di trovarsi in un racconto fantastico o solo falsamente tale da parte del lettore (perché secondo il punto di vista di una persona “folle” o meno), ma sono fattori che non determinano il perturbante di cui è pregno la storia. La dinamica che lo esplicita in maniera evidente si avvolge attorno alla figura del mago Sabbiolino e la paura di avere gli occhi divelti dal volto. Paura che Freud, in quanto analista, riconosce come angoscia del comune terrore adulto di subire lesioni alla vista, sovrasta perfino quella di esser feriti in qualunque altro punto del corpo. Per lo studioso, basandosi anche su miti e propri studi dei sogni, si riscontrerebbe un parallelismo con la

Sigmund,

Perturbante,

Edizioni

Freud,
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Roma,
Theoria, 1993, p.3311 84

paura dell’evirazione, per la quale connessione viene subito in mente la vicenda dell’Edipo Re. Dunque il perturbante per Freud si legherebbe a12 doppio filo con l’attività psichica, sarebbe destato da un evento che fa riemergere dei complessi createsi in età infantile, o elementi negati dalla coscienza, che si annidano nel rimosso, più che con l’incontro di qualcosa di nuovo e ambiguo. È per questo che si sofferma tanto sull’elemento della familiarità, perché è la stridente vicinanza con questo fattore che scatena la reazione di disagio nell’uomo. E così nel racconto citato, Nathaniel viene perseguitato da una figura che conosce benissimo fin dall’infanzia ma che ritorna come un incubo che non riesce ad elaborare e di cui non si sa liberare.

In più storie di Hoffmann, Freud riscontra altri motivi del perturbante, che vanno ad addizionarsi a quelli rilevati nella storia del mago Sabbiolino e al complesso di perdita della vista/evirazione si aggiunge la figura del sosia, quindi della copia di un sé fuori dal sé. Più specificatamente e in maniera peculiare Freud si sofferma però sull’idea della ripetizione di avvenimenti consimili fra loro. Ovvero la ripetizione se avviene «in determinate condizioni e combinata con circostanze particolari, [ … ] evoca indubbiamente un sentimento del genere, che inoltre ci ricorda l'impotenza di certi stati onirici.» Infatti egli parte da un esempio13 comune, nonché aneddoto accadutogli, ovvero il perdersi per delle strade di una città e il non riuscire ad allontanarsi da un punto (nel suo caso un quartiere a luci rosse in Italia) dal quale ci si sta cercando di allontanare, e in cui inevitabilmente ricapitiamo perché non avvezzi alla città in cui ci si trova. Oppure può accadere quando si procede a tentoni in una stanza buia e si sbatte per più volte in uno stesso mobile, o quando perdendosi in montagna per via della nebbia, o altre dinamiche, si ritorna, come per la città, nello stesso luogo. O ancora quando iniziamo a notare quelle che chiameremmo “coincidenze”, che ci inquietano e ci sembrano altro, proprio per la loro ripetizione ravvicinata. Si parla di dettagli anche estremamente minimali come un numero che ricorre in una certa giornata, può essere qualsiasi cosa, ma è il suo ripresentarsi quasi

Freud, Sigmund, Il Perturbante, Roma, Edizioni Theoria, 1993, p.38: «Ogni dubbio ulteriore scompare

poi quando si vengono a conoscere, dalle analisi compiute su nevrotici, le particolarità del “complesso di evirazione“ e quando ci si rende conto che esso ha una parte straordinaria nella loro vita psichica.

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ossessivo e a breve distanza che ci turba. Questo turbamento in realtà è14 ciò che porta a quel di desiderio di conferma che crea la base della superstizione, ovvero il pensiero che delle dinamiche interne possano direttamente riscontrarsi nell’esterno. Si cercano e si trovano “ prove concrete” tramite simboli e interpretazioni di una fatalità del mondo, che altrimenti chiameremmo solo casualità. Da lì nascono le credenze cosiddette animiste e si sfocia in quella che Freud indica chiaramente come un’erronea lettura della realtà che ci circonda, nata dalla sopravvalutazione narcisistica dei propri processi psichici. Momento o fase in cui più o meno tutto il mondo capita, come un retaggio primitivo che ci segue da sempre, sia in tempi più antichi che recenti. A questo si lega un altro punto del saggio, dove Freud affronta il fattore della morte nel perturbante, primario elemento di origine di tale sensazione, ma che lui stesso affronta con attenzione, in quanto è semplice scivolare nel tema dell’orrido. Dunque egli ritrova le stesse motivazioni di terrore primitivo ad inquietarci, dato che la nostra mente non riesce a concepire davvero la morte del corpo e di sé stessa, il che ci spinge a posticipare questo ineluttabile evento o a rimuoverlo mentalmente tramite le idee che consiglia la religione, fra la vita che continua in una sua altra fase o credenze in spettri, morti che ritornano in maniera malevola o non e così via. Anche per questa casistica vale ciò che Freud sottolinea, cioè che l’effetto perturbante si verifica quando nella realtà il confine con la fantasia si fa labile, quando vediamo o esperenziamo qualcosa che non avremmo oggettivamente creduto possibile, «quando un simbolo assume pienamente la funzione e il significato di ciò che è simboleggiato.»15

Infine, per chiudere da dove si è cominciato, ci chiediamo ora: quali sono le differenze sostanziali che dividono il perturbante poetico e letterario da quello reale? Di nuovo la risposta di Freud sta nel confine fra fantasia e realtà, cioè l’area in cui si muove il fantastico. Ovvero se l’artista ci pone in un contesto di mondo “di favola”, dove normalmente gli oggetti si animano, gli animali parlano, gli orchi esistono, l’effetto perturbante tendenzialmente non sussiste. Ma se per caso ci troviamo in un contesto

Freud, Sigmund, Il Perturbante, Roma, Edizioni Theoria, 1993, p.51: «Intendo dire che nell’inconscio14 psichico è riconoscibile il predominio di una coazione a ripetere che procede dai moti pulsionali: questa coazione dipende probabilmente dalla natura più intima delle pulsioni stesse, abbastanza forte da imporsi a dispetto del principio di piacere, fornisce a determinati aspetti della vita psichica un carattere demoniaco, si esprime ancora assai chiaramente negli impulsi dei bambini di tenera età e domina una parte di ciò che avviene durante il trattamento analitico dei nevrotici. L’insieme di queste considerazioni ci induce a supporre che sarà avvertito come elemento perturbante tutto ciò che può ricordare questa profonda coazione a ripetere.»

Freud, Sigmund, Il Perturbante, Roma, Edizioni Theoria, 1993, p.64

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di realtà aderente alla nostra, tutto ciò che troveremmo perturbante nel reale, tutti quegli eventi sinistri ma familiari che si sono affrontati creerebbero l’uncanny feeling. Non solo, Freud riconosce che le potenzialità date dalla scrittura siano multiple, anche perché può sfruttare a proprio piacere e a qualsiasi grado quelle credenze di superstizione che risiedono in noi, contando comunque che per quante potenzialità ci siano, un magistrale inganno può anche lasciarci insoddisfatti come lettori, nel riconoscere di aver creduto a questa illusione. In ogni caso, riguardo dei racconti perturbanti ben riusciti, egli ne riporta una serie legati al tema del corpo, ovvero arti mozzati o spettrali, cambiamenti fisici o nella coscienza di sé nella propria fisicità. Tutti esempi che in realtà si legano alle riflessioni di Jentsch, almeno nel riscontrare che il perturbante venga facilmente ispirato quando si ha a che fare con una stortura di qualcosa che conosciamo molto bene: noi stessi.

4.2 L’occhio estraneo

«È interessante notare che il concetto di "straniamento", inizialmente sviluppato e applicato dai formalisti russi, fu ritenuto utile anche da Brecht nel suo intento di scrivere “drammi per un’età scientifica”. Nel suo Breviario di estetica teatrale, egli precisa che "straniante" è "la raffigurazione che lascia bensì riconoscere l’oggetto, ma al tempo stesso lo fa apparire estraneo.”»16

Come largamente anticipato affrontare il tema del perturbante non solo ci introduce nel discorso del fantastico ma anche del fantascientifico. Seguendo la riflessione di Aldo Carotenuto infatti «la fantascienza riesce a destreggiarsi con disinvoltura lungo un percorso, che esula da quella che potremmo considerare la realtà empirica, approdando invece alla seducente tappa della diversità, del bizzarro, di tutto quello che potremmo considerare "stra-ordinario", rendendolo ugualmente credibile.» Per cui di17 fronte a questa spaccatura il fruitore di fantascienza si troverebbe dinnanzi a quell’inganno di cui parla Freud, a metà fra una realtà descritta come possibile e credibile, mista ad una immaginativa. Situazione questa,

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.23

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani,

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che che crea un forte senso di straniamento. Il termine non ci è nuovo, è stato utilizzato nel momento in cui si è affrontato quel diverso approccio al mondo che lega lo sguardo dell’infanzia, quello della fantascienza e della scienza in sé. Se questo effetto però, che Carotenuto presenta come una sorta di altra faccia del perturbante o comunque molto affine, non è possibile crearlo nella favola, come nella fantasy, è invece possibile nel racconto fantascientifico, ma con dinamiche non identiche al perturbante fantastico. Da questo assunto possiamo dunque andare oltre.

Carotenuto infatti, appoggiandosi su altrui riflessioni, esplicita come lo scopo dell’estraniamento sia di base di potersi allontanare e osservare in maniera distanziata qualcosa che ci coinvolge sin da troppo vicino. Per cui nella fantascienza l’effetto di straniamento avviene, perché scaturisce da uno sconvolgimento dato da un elemento “credibilmente inserito” nella nostra realtà. Tanto più siamo straniati, tanto più siamo portati a generare riflessioni e collegamenti. Lo straniamento avrebbe una doppia validità, oltre a porre noi fuori “da un legame, consuetudine, ambiente familiare” per poterlo vedere dall’esterno, ha inoltre funzione apotropaica, per cui allontana l’influsso che ne riceveremmo. Questa notazione si pone un po’ sulla stessa linea del discorso appena affrontato per il perturbante di Freud, considerando il tema del rimosso. Quegli elementi invisibili che tessono la nostra realtà subdolamente e che non vediamo con chiarezza, ma di cui subiamo l'impatto, acquisiscono tramite questi racconti un’immagine, un simbolo che riconosciamo con grande familiarità e stupore. Citando Brecht e i suoi appunti sulla drammaturgia, Carotenuto riporta quel che l’autore afferma rispetto all’esempio di Galileo: egli osservando la lampada che oscilla si soffermò su quei movimenti per fare un passo indietro, come se non li riuscisse davvero a capire, non li diede “per scontati”. Facendo così, estraniandosi, utilizzò un approccio efficace a sviluppare quello che Brecht stesso definisce “l’occhio estraneo", per poter davvero andare a fondo alle regole dietro a quelle oscillazioni.

Inoltre Carotenuto aggiunge, sempre in linea con Freud che vede in mezzo al legame fra rimosso e perturbante le dinamiche di generazione di traumi (poi occultati alla coscienza) sviluppatesi nell’infanzia, che pure nei temi della fantascienza vi si possano trovare le medesime cause. Ovvero il motivo per cui storie apocalittiche e disastrose sono calamitanti e attrattive per i fruitori di fantascienza non sarebbe solo una certa verosimiglianza con la realtà, ma anche il loro essere una sorta di messa in scena di una frustrazione dei propri, insoddisfatti, sentimenti onnipotenti. Per maggiore chiarezza, Carotenuto spiega così il suo pensiero: essendo confutato che emozioni di forte frustrazione insorgano

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nel momento della crescita, quando rispetto all’idea di onnipotenza che si ha da bambini, sentendosi al centro del mondo e capaci di comandarlo, ci si scontra con il fatto che invece si può poco o nulla. In questa rottura la fantascienza si pone come esplicitazione pratica della caduta di quel sentirsi signori del tutto, così nella vita come nei giochi infantili. Per cui18 fruire di un prodotto di fantascienza avrebbe un richiamo a questa incompatibilità di desideri che ci hanno colpito da piccoli. Questo fatto si comproverebbe data la diffusa mancanza di “veri sentimenti adulti” nelle grandi epopee fantascientifiche. Cioè Carotenuto sottolinea a favore della sua tesi che in effetti, fra le emozioni trasmesse in queste narrazioni, nella maggior parte delle suddette non appaia un sentimento amoroso o di affetto davvero evoluto, è spesso questo un elemento piuttosto debole o fragile. Sono invece molto più esplicite e presenti le dinamiche di forza e di potere fra individui.

Al tirare le fila sul discorso fantascientifico e l’estraniamento e il perturbante, Carotenuto si chiede se sia oggettivamente utile guardare in faccia certi mostri o lasciarseli alle spalle, tramite queste narrazioni di fantasia. Si risponde che in realtà è sempre meglio dare una forma ai propri incubi, che lasciarli irrisolti. Non è certo una terapia risolutiva quella di fruire di tali contenuti, ma, come d’altronde vuole sostenere questa stessa tesi, è almeno parte minima di un processo di risoluzione personale rispetto al sé e al mondo. Che possa essere più o meno un gioco, o che abbia delle sfumature di escapismo, come dice lo stesso Carotenuto: «in una finzione in cui è sempre ammessa un’uscita di sicurezza, non vedo cosa possa esserci di sbagliato. Solitamente, nella nostra dieta emotiva, il piacere del gioco è un ingrediente che non desta sospetti nello psicoanalista, a meno che non arrivi a condizionare un’intera esistenza compromettendo il rapporto con la realtà. Certo, "sa di infanzia", ma l’Homo sapiens sapiens è anche – come ci ricorda Huizinga – Homo ludens.

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012,18 pp.26-27: «Proprio in questa prospettiva è possibile interpretare alcuni caratteri distintivi della narrativa fantascientifica: la sua distruttività, il culto della potenza che spesso sconfina nella megalomania, il senso di persecuzione a sfondo paranoico, l’esasperato antropomorfismo in ragione del quale, più si tenta di allontanarsi dall’umano, sconfinando nel cosmo, più si riproducono modelli ugualmente umani. Sono queste le caratteristiche psicologiche, crudamente espresse, di un livello evolutivo pre-adulto, infantile, che si muove secondo la legge del tutto o nulla. [ ] I desideri onnipotenti trovano nella fantascienza il loro scenario ideale, l’illusione di una realizzazione magica, ma finiscono quasi sempre per scontrarsi con una morale della favola molto meno appagante. [ ] La cornice finzionale, il romanzo o il film, ci consente di vivere, almeno con l’immaginazione, di volta in volta, una vicenda diverso, in un contesto radicalmente diverso. Eppure familiare. Così come crescendo siamo passati dalla breve illusione infantile di potere tutto al timore di non potere niente, dal miraggio dell’onnipotenza all’aberrazione ottica di segno opposto, adesso vorremmo tornare indietro.»

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D’altronde sembra che anche gli animali si concedano questo piacere, e non solo i cuccioli.»19

Un ultimo punto di riflessione però che in realtà ci porterebbe direttamente all’ultimo paragrafo, è che sia importante notare come tra i molti generi e tipologie di fiction, quelle più interessanti secondo questa ottica di capacità di perturbare, straniare, non siano tanto generi “solari e diurni”, quanto più legati all’onirico, al buio e al mistero. Come se non si potesse esulare da questa parte nebbiosa di cui è pregno l’inconscio. Infatti lo stesso psicanalista cita il fantastico come genere (come il meraviglioso, il gotico e così via) che spesso sfocia a gamba tesa nell’inquietante, che in realtà abbiamo visto essere parte basilare di questi codici. E «quando la mente è indotta a nutrirsi di fantasie così poco rassicuranti, più minacciose della stessa realtà, viene il sospetto che qualcosa reclami a gran voce la dovuta attenzione.»

4.3 Uncanny Valley

Prima di arrivare alla fine di questo capitolo si vorrebbero citare degli studi utili ad arricchire il discorso sul perturbante, inserendolo in un contesto pratico, riferito alla robotica e all’uso del design in essa, notazioni che sia per la scienza che per la fantascienza stessa non sono trascurabili.

Nell’anno 1970 il discorso sul perturbante venne affrontato anche in ambito scientifico, venne pubblicato sulla rivista dal nome Energy un saggio chiamato Uncanny Valley (Bukimi no Tani Genshō, che è appunto traducibile in “valle perturbante”). L’autore era uno studioso di robotica, il suo nome: Masahiro Mori. Mori traslò graficamente e quindi secondo una funzione matematica, il risultato di alcune osservazioni riguardanti le reazioni umane di piacevolezza o spiacevolezza (se non di rigetto e timore) di fronte a diverse tipologie di oggetti che richiamano, secondo differenti gradi ed aspetti, noi esseri viventi, fra cui appunto anche i robot.

Mori spiega come esista in questa relazione, che vediamo esplicitata nella funzione (Immagine A), la presenza di una valle discendente, The Uncanny Valley che da l nome allo studio, che si interpone cadendo ripida verso il basso nel momento in cui ci troviamo di fronte a qualcosa di molto simile, all’umano e tuttavia non proprio identico, perché umano non lo è affatto.

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.30

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Immagine A - Funzione grafica fra (y) Affinità con la figura umana e (x) Senso di piacevolezza

Mori usa come esempi per i due opposti poli, un robot industriale che non ha caratteristiche che ricordino l'umano, che quindi è l’elemento più lontano fra affinità e reazione riscossa, mentre per il massimo della piacevolezza possibile provata inserisce una persona “in salute”, che riconosciamo affine e generatrice di empatia. La notazione di “persona in salute”, non è casuale, perché oltre a ricollegarsi all’elemento della morte, Mori prende in esempio all’interno dell’analisi anche la reazione a degli arti prostetici. Egli prende in esempio una mano nel particolare, la nostra percezione di essa e conseguente reazione può cambiare notevolmente a seconda di come è fatta. Come lo studioso riporta, le tipologie di protesi del periodo, come a maggior ragione quelle odierne, a livello di fattura e qualità possono portare a non distinguerne “la loro falsità” ad un primo sguardo. Le potremmo benissimo scambiare per reali non facendoci molta attenzione, dato che ci sono alcuni modelli che cercano di imitare pelle, vene e dettagli vari nella maniera più veridica possibile. «[…] However, when we realize the hand, which at first site looked real, is in fact artificial, we experience an eerie sensation. For example, we could be startled during a handshake by its limp boneless grip together with its texture and coldness. When this happens, we lose our sense of affinity, and the hand becomes uncanny. In mathematical terms, this can be represented by a negative value.»20 Per cui in questo caso l’eccessivo realismo della mano con la conseguente notazione “dell’inganno” crea il famoso effetto perturbante, facendo precipitare la nostra “piacevolezza” percepita.

Nel suo esempio precedente e anche in quelli successivi, dove introdurrà la dinamica del movimento come fattore di influenza per l’uncanny valley, Mori porta alcune maschere di usi e costumi teatrali della cultura giapponese. Sempre riferendosi all’Immagine A, possiamo notare il

Mori,

Masahiro, “The Uncanny Valley - The Original Essay by Masahiro Mori” (Translated by Karl F.20 MacDorman and Norri Kageki), IEEE Robotics & Automation Magazine, Giugno 2012 p.3 91

Bunraku Puppet che altro non è che un grande pupazzo di un metro circa che viene comandato da due burattinai e utilizzato all’interno di specifici spettacoli. In quel caso, data la distanza e l’evidenza che il pupazzo sia uno strumento manovrato per intrattenere la nostra visione, queste motivazioni ci fanno andare oltre le similitudini del pupazzo rispetto alla nostra forma fisica, e sebbene il nostro sentimento di piacevolezza ed empatia non possa equiparare quello di avere a che fare con una persona, non ci sentiamo minacciati e incerti, per cui il perturbante in questo caso non sussiste. Le cose iniziano un po’ a cambiare e a complicarsi dal momento in cui si inserisce un nuovo elemento: il movimento.

Nel grafico notiamo che intervengono due fattori in più che sono la stasi e la dinamicità. Vediamo che il punto più in vetta del perturbante appare se il movimento viene applicato a un elemento che non dovrebbe muoversi, quindi: un morto che cammina, uno zombie. Secondariamente, a risalire, notiamo la protesi di una mano, che prima abbiamo avuto in quanto statica e ora invece capace di movimento, cioè una protesi mioelettrica. Andando ancora avanti invece abbiamo il cadavere, cioè un corpo che in quanto tale, per la maggior parte della nostra vita conosciamo come entità viva e che invece la nostra mente deve cercare di concepire come privo di essa e quindi immobile. Individuando così questi dati Mori si domanda su quanto il senso di perturbante possa essere profondo e quanto potrebbe scatenarsi con certezza assoluta e grande intensità, soprattuto se non fosse solo la mano ad essere particolarmente realistica ma un intero robot, quindi un androide. Dato che come vediamo dall’esempio del robot, appena esso inizia a muoversi la nostra percezione di affinità da “macchina spenta” ad “ accesa ”, con movenze che ricordano le nostre, aumenta, se questo elemento ad un certo punto divenisse troppo simile, ci avverte Mori, avremmo degli effetti in negativo. Si cadrebbe nella conca creata dal perturbante. Infatti Mori riporta un esempio pratico dove questa eventualità si è concretizzata in una

Immagine B - Funzione Grafica fra (y) Affinità con la figura umana, (x) Senso di piacevolezza e relazione rispetto a stati di stasi o movimento degli elementi.

92

Convention fatta nello stesso anno dell’uscita dell’articolo, dove veniva21 presentato un robot con eguale numero di muscoli facciali a quelli di una persona. Pare che il designer abbia affermato che uno degli elementi più cruciali nella progettazione sia la tempistica dei movimenti nella loro attuazione, fattore che differisce di molto l’esperienza di un sorriso rassicurante ad un’espressione inquietante.

Mori alla luce di queste riflessioni, da una parte ammonisce e consiglia ai designer di provare a pensare non tanto alla creazione di dettagli e forme quanto più vicini possibile alla realtà ma piuttosto funzionali e “piacevoli” , sviluppando magari anche un concetto di design più centrato sullo stile che l’iperrealismo. Dall’altra, lo studioso conclude chiedendosi in effetti a cosa serva questo meccanismo di percezione, che sembra quasi difensivo. Probabilmente ne siamo equipaggiati perché: «The sense of eeriness is probably a form of instinct that protects us from proximal, rather than distal, sources of danger. Proximal sources of danger are corpses, members of different species, and other entities we can closely approach. Distal sources of danger include windstorms and floods.» In ogni caso, come adduce Mori stesso,22 magari facendo attenzione a questa valle del perturbante, anche tramite la robotica, potremo definire sempre di più cosa invece ci renda umani.

Gli studi di Mori non sono stati dimenticati, esiste un articolo del 2020 nel sito del CICAP che riassume bene la situazione attuale: ovvero non si ha una spiegazione approfondita e certa di ciò che succede e perché quando si tratta di perturbate, tuttavia ci sono varie ipotesi. La prima sosterrebbe, un po’ sulla base dell’incertezza cognitiva di cui parlava Jentsch, che è semplicemente destabilizzante per l’uomo non saper comprendere se un certo oggetto o entità sia umano, non umano, vivo, morto. Dunque: «L’adrenalina che proviamo quando cerchiamo di capire se dietro un personaggio di una serie tv si cela uno zombie o un robot sarebbe la stessa che proviamo di fronte a un robot “dal vivo” che sembra

Mori, Masahiro, The Uncanny Valley - cit., IEEE Robotics & Automation Magazine, Giugno 2012,21 p.4: «Movement-related effects could be observed at the 1970 World Exposition in Osaka, Japan. Plans for the event had prompted the construction of robots with some highly sophisticated designs. For example, one robot had 29 pairs of artificial muscles in the face (the same number as a human being) to make it smile in a humanlike fashion. According to the designer, a smile is a dynamic sequence of facial deformations, and the speed of the deformations is crucial. When the speed is cut in half in an attempt to make the robot bring up a smile more slowly, instead of looking happy, its expression turns creepy. This shows how, because of a variation in movement, something that has come to appear very close to human—like a robot, puppet, or prosthetic hand— could easily tumble down into the uncanny valley.»

Mori, Masahiro, The Uncanny Valley - cit., IEEE Robotics & Automation Magazine, Giugno 2012, p.5

22 93

realistico.» Secondo un altro pensiero il fenomeno sarebbe causato da23 un’aspettativa che viene disattesa, per esempio un robot che è particolarmente affine per struttura e movimenti all’uomo, ma in cui poi troviamo dettagli e azioni che invece ne rilevano la natura falsata, crea un contrasto e ciò ci mette in guardia rispetto all’esperienza e affidabilità di quello che abbiamo di fronte, per cui ci sentiamo intimoriti e desiderosi di metter distanza fra noi e “la cosa”. Fra i vari elementi che ci mettono in allarme, per fare un esempio, ci sarebbe la fissità dello sguardo meccanico, che associamo in automatico a tratti psicopatici. Secondo un’altra ipotesi ancora, basata sull’evoluzione, il disagio sarebbe provocato perché invece riconoscere un robot troppo umano come tale e quindi in quanto essere privo di vita, ci porterebbe in automatico a pensarlo come fonte di pericolo, come ci allontaneremmo da un cadavere per paura che abbia qualche malattia che ci possa contagiare, ci allontaniamo quindi dal robot. Esiste poi uno studio dove sono state coinvolte delle tecniche di risonanza magnetica funzionale (fMRI) per cercare di tracciare le aree del cervello coinvolte nella percezione dei movimenti e azioni altrui, le azioni venivano compiute da una donna, un androide simile alla donna, ma dotato di movimenti non fluidi e naturali, e un robot, sempre macchinoso nel muoversi, ma con gli ingranaggi in vista dato il corpo trasparente. L’attività neuronale degli osservatori non è mutata fra robot e donna, ma nel caso dell’androide sì. «L'fMRI ha permesso infatti di identificare lo scarto esistente tra la percezione del robot in quanto “ cosa ” da un lato e in quanto “persona dall'altro” , mostrando una particolare attività del cervello dell'osservatore di fronte a uno stimolo ambiguo che viene percepito inizialmente come un essere umano ma che poi si tradisce perché si muove in modo meccanico. Come evidenziato anche in altri studi di neuroimmagini, sarebbe in particolare la corteccia prefrontale ventromediale, una regione della corteccia prefrontale del cervello coinvolta nell'inibizione delle risposte emotive e nel prendere decisioni, a giocare un ruolo decisivo nel caso della valle inquietante.»24

Queste riflessioni, oltre che essere utili nell’applicazione della robotica, come nella creazione di modelli 3D o nell'arte in genere (all’interno dell’articolo appare sia il caso dell’Agnello Mistico, animale all’interno di un’opera di Van Eyck il cui muso assomiglia eccessivamente al volto umano, sia quelli di prodotti di animazione meno riusciti per questo

Pluviano, Sara; Della Sala, Sergio per cicap.org, La Valle Inquietante: https://www.cicap.org/n/

articolo.php?id=1800460

23
Ibidem24 94

effetto perturbante, come Polar Express, fino a dei casi meglio pensati come Shrek), sia dal punto di vista di analisi a posteriori di un manufatto o prodotto come di studio pre-progettuale, influenzano campi anche meno ludici. L’ultimo esempio che si vuole portare in esame è infatti un articolo, che è stato pubblicato nel 2013 sul sito dell’Università di Washington.

In questo testo si riporta come la dottorata in educazione Julie Carpenter abbia scoperto delle dinamiche peculiari fra i militari dell’Explosive Ordinance Disposal e i robot che coinvolgono nelle loro operazioni. Ne è venuto fuori che via, via che la tecnologia migliora e cambia, muta anche la relazione dei militari nei confronti di queste macchine, coinvolte in situazioni di grande tensione e forte emotività. Sembra esserci quasi una estensione del sé dai militari ai robot che manovrano per la loro sicurezza, non sono solo sensazioni, i militari tendono a chiamarli con nomi delle attuali ragazze o mogli, o percepirli (coscienti che non lo siano davvero) come degli animali o simili. Oppure vi riconoscono addirittura un genere o delle caratteristiche umane. Quando un robot viene danneggiato o deve magari essere sostituito sono coinvolte perfino emozioni di dispiacere.25 Tutto ciò sebbene le persone coinvolte sappiano bene che l’importanza da dare a tali macchine è solo e unicamente a livello strumentale, i soldati hanno assicurato a Carpenter che per esempio l’eventualità di dover sacrificare una macchina per una missione non influenzi la loro strategia decisionale, tuttavia ammettono che un certo senso di perdita viene coinvolto. Alla luce di ciò la studiosa si è chiesta fino a che punto possa effettivamente spingersi questo attaccamento, se così possiamo chiamarlo, dato che i robot utilizzati al tempo non erano simili a persone né animali in alcun modo, ma è vero che «the military is moving toward more human and animal lookalike robots, which would be more agile, and better able to climb stairs and maneuver in narrow spaces and on challenging natural terrain.» La domanda quindi è: che cosa succede nell’uomo, nel momento in cui questa verosimiglianza a qualcosa di vivo, sia nell’aspetto che nei movimenti, viene superata?

Armstrong, Doree su Washington.edu, “Emotional attachment to robots could affect outcome on25 battlefield” : https://www.washington.edu/news/2013/09/17/emotional-attachment-to-robots-couldaffect-outcome-on-battlefield/ 95

4.4 La natura dell’ombra

Abbiamo constatato tramite Jentsch e Freud, che nel fantastico la percezione del perturbante è praticamente connaturata al genere e abbiamo visto come in un certo qual grado si possa correlare il perturbante anche al fantascientifico, parlando però di straniamento. Ma secondo quali dinamiche e perché sia importante che certe storie abbiano la capacità di portarci in zone tanto ombrose (non importa a quale età) lo spiega bene Ursula Le Guin. L’autrice affronta come sia vitale che questa parte oscura e appunto perturbante esista e che venga sfruttata per poter affrontare qualcosa di urgente ed essenziale in noi. Citando un racconto di Andersen, che pur ponendosi nel genere della favola è comunque utile al nostro discorso, Le Guin esplica come questa dinamica sia essenziale nella vita tanto quanto nella scrittura, sovrapponendo diremmo, i due ambiti.

Il racconto in questione parla di un giovane istruito che in un tempo e luogo imprecisato dal Nord si trasferisce al Sud. Ma dato che non sopporta l’eccessivo caldo e l’aggressività del Sole, lui, come la sua ombra, si infiacchiscono e diminuiscono di spazio, iniziano a vivere solo di notte. Unico momento di pace in cui possono affacciarsi dal balcone e osservare la vita (e la morte, le due aree non sono divise nell’esplicazione delle varie azioni che la comunità porta avanti: «I morti venivano seppelliti al canto dei salmi, i ragazzi di strada facevano scoppiare i petardi [ ]» ) della26 città che va avanti sotto i lumi delle lanterne. Egli nota allora che c’è una casa, di fronte alla sua, che rimane sempre chiusa, eppure qualcuno ci abita. Ci sono fiori annaffiati di fresco, oltre che una musica che sembra provenire da lì. Una melodia che, a detta del padrone di casa dello straniero istruito, a cui il nostro protagonista chiede informazioni su questa misteriosa casa, è sempre la stessa, è “noiosa”, come un pezzo che si ripete non riuscendolo mai a finire. Una notte, nel dormiveglia, lo straniero pensa di aver avuto una visione, dal balcone di fronte fra i fiori, che appaiono come “accesi di fiamma”, scorge una luminosa figura di fanciulla, che però non mette bene a fuoco. Ma scompare subito, il mistero così si infittisce e anche la sua voglia di svelarlo, per cui quando una sera nota come la sua ombra venga proiettata fino al balcone di dirimpetto, come se lui stesso fosse lì, la incita ad entrare in quella casa, dato che lui non può. Di sotto al palazzo ci sono solo negozi e nessuna porta di entrata. L’ombra ubbidisce e si infiltra dentro, ma non torna più. L’uomo

Andersen,

Hans Christian, L’ombra, su: https://www.andersenstories.com/it/andersen_fiabe/26 ombra 96

all’indomani si infuria, esiste già un famoso personaggio senza ombra, non può aggiungersi anche lui (qui Andersen fa un’evidente citazione a Chamisso). Passa del tempo, passano degli anni, e il nostro amico se ne27 torna al Nord, nel periodo che è passato ormai gli è cresciuta dai piedi, dalle radici che erano rimaste, una nuova ombra, non si preoccupa molto. Un giorno alla sua porta però bussano: c’è un uomo magrissimo, ma che sfoggia ricchezza da capo a piedi, è vestito in maniera elegante e dice di essere la sua ombra, che si è fatta uomo. L’ombra vuole qualcosa da lui, vuole la libertà, se la vuole guadagnare, «Mi dica cosa devo pagarle, […] perché non mi piace essere in debito.» Inoltre l’ombra non vuole che si28 sappia niente in città, delle sue origini, non vuole che si sappia che una volta era un’ombra. Ma l’uomo non è interessato a raccontare niente a nessuno, vuole solo sapere che cosa è successo quella volta che si sono divisi. L’ombra, ora uomo, racconta di esser stata nell’anticamera della corte della poesia, dove ha compreso la sua natura e ha portato avanti la sua metamorfosi in uomo. Nel corso del tempo si è arricchito spiando il male e le malefatte del prossimo e seminando terrore rendendo le persone coscienti di essere il detentore dei loro segreti. Così si è arricchito, facendo leva sul male e sulla negatività. Dopo ciò nel racconto si crea una nuova cesura, l’ombra è sempre più consistente e umana, “ingrassa”, mentre l’uomo avvizzisce, perché non fa che scrivere del “bello, del buono” , ma nessuno lo vuole stare a sentire. Alla fine l’uomo accetta di fare un viaggio con la sua ex-ombra, in una località termale, su suo consiglio. Tuttavia in questo viaggio i ruoli si invertono, l’uomo si presenta come ombra della sua passata ombra: cede insomma ad essa la posizione di padrone. La storia degenera inevitabilmente per l’uomo istruito. I due incontrano un tale re e sua figlia (che ha “la malattia” di vederci troppo bene) e l’ombra convince loro che essa sia l’uomo, e l’istruito solo il suo sottoposto, non il contrario. L’ombra non solo sposa la principessa, ma ormai convinta di esser lei umana e di fronte alla possibilità di rivolta dell’uomo, lo fa giustiziare. L’uomo istruito muore dunque senza che nessuno creda che sia qualcosa di più di un’ombra.

Ibidem: «“Sì, sì, vai, ma poi torna!”Lo straniero si alzò e anche la sua ombra sul balcone di fronte si27 alzò, lo straniero si voltò e l'ombra si voltò, ma se qualcuno avesse fatto attenzione, avrebbe visto molto chiaramente che l'ombra entrò in quella porta socchiusa di quel balcone di fronte, proprio nel momento in cui lo straniero rientrò nella sua stanza e lasciò cadere la tenda dietro di sé. Il mattino successivo quell'uomo istruito uscì per bere il caffè e leggere il giornale. “Che succede?” esclamò, quando fu al sole, “non ho l'ombra. Allora ieri sera se n'è proprio andata e non è ritornata più; che rabbia!”. La cosa lo irritò, ma non tanto perché l'ombra se n'era andata, quanto perché sapeva che c'era già la storia di un uomo senza ombra, e la conoscevano tutti a casa, là nei paesi freddi, e se ora lui fosse arrivato a raccontarla, avrebbero detto che l'aveva copiata, e di questo proprio non aveva bisogno! Per questo non volle parlare affatto della cosa, e fu una buona idea.»

Ibidem28 97

Come spiega Le Guin, questa è una storia per bambini e per chiunque voglia ascoltare, lei stessa da bambina aveva difficoltà a farsi piacere i racconti di Andersen, che ha riscoperto più tardi, ma per quanto straniata, questa storia le era rimasta impressa, c’era qualcosa di urgente in essa che ha dovuto comprendere da più adulta. C’è infatti un messaggio molto chiaro, che anche la scrittrice porta alla luce: per entrare nella casa della Poesia (la casa della bellissima fanciulla intravista, da dove viene la musica) non si può lasciare indietro la nostra parte oscura, l’area inammissibile, tutto ciò che è non detto. Senza di essa non avremo mai piena comprensione del mondo e di ciò che trasmettiamo (poeticamente o meno), il nostro discorso non verrà recepito perché avrà un’anima edulcorata e fittizia. L’uomo istruito infatti, che vede e parla solo del bello e del buono, è in miseria perché si impoverisce la sua anima, lavata di tutto ciò che è umbratile, mentre l’ombra ha fatto invece molta esperienza, ha visto: «quello che nessuno deve vedere, ma che tutti sarebbero tanto felici di osservare: il male del vicino. E il fatto è che in questa storia manca29 assolutamente l’equilibrio, non c’è una risoluzione dove le due parti, uomo e ombra, si ritengano pari, o è sovrano l’uno svalutando l’importanza dell’altro, o l’altro sfrutta la debolezza altrui per poter governare. Per questo la principessa, allegoria della Ragione, giustizia l’uomo istruito, perché con le sue azioni, seppure non in maniera crudele, si è rovinato da solo facendosi dominare dalla sua area oscura, con cui non ha cercato una soluzione o un punto di incontro cosciente.

Le Guin ritrova invece questo equilibrio nello stesso Andersen, nelle cui storie “per bambini” si legge anche sadismo e depressione, certo sono come delle punte, ben cadenzate, in una visione onnicomprensiva di un sistema complesso come il sé. Andersen riesce a mettere tutto ciò nel linguaggio della favola (che è comunque una favola diversa dalla tradizione delle favole popolari, essendo d’autore), instilla, nelle immagini degli archetipi che presenta, l’inconscio. Ha capito e mette in pratica ciò che egli stesso racconta con questo storia, appunto che nella Casa della Poesia ci si entra «con la carne, con il corpo solido, imperfetto e goffo, con il corpo che ha calli e raffreddori, avidità e passioni, con il corpo che proietta ombra.» Per quanto il concetto sembri banale, se calato nella30 vita giornaliera e concreta non lo è affatto. Il punto è che, come la scrittrice stessa riporta appoggiandosi a Jung (in maniera piuttosto specifica) e il suo pensiero, se l’individuo non riconosce ed elabora la valenza della

Le

Ibidem29
Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura30 di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.55 98

propria ombra inizierà a proiettarla sugli altri, se non comprende che quelle parti nocive del sé non deve solo estirparle, ma saperle esperenziare e maneggiare, saranno causa del male di qualcun altro. Non dobbiamo pensare all’ombra come ad un male supremo, lontano e astratto. Il “male” per quanto sia iperbolicamente connotata questa parola, è semplice e banale. Forse non ci affiancheremmo direttamente a questo termine di primo acchito, ma come non evitare di associarsi alle parole con cui Le Guin si riferisce all’ombra: «inferiore, primitiva, goffa, animalesca e puerile; poderosa, vitale, spontanea [ ] è scura, pelosa e indecente». Come fare finta che questi aggettivi non si riferiscano anche a quella parte di noi che ci caratterizza? Sempre a ragione di ciò, l’autrice rileva che la condotta morale delle fiabe abbia un approccio forse più adatto alla questione del male, che ci compone tanto quanto il bene. Ovvero nelle fiabe non esiste un modo giusto, puro e benefico di comportarsi, è una questione che gira tutt’attorno alla necessità, alla convenienza e, direbbe qualcuno, anche alla curiosità, ai propri impulsi. Si ha un istinto, un desiderio, che fa partire la storia e si agisce in base a quello. Dunque: «non esiste un modo giusto di comportarsi quando si è l’eroe o l’eroina di una fiaba». Non si31 hanno regole o una ragione totalizzante, ma molto istinto, per fare del bene (che nella fiaba è forse solo il proprio bene, può essere solo il soddisfacimento del proprio desiderio) ci vuole del male e viceversa.

Fatta dunque questa introduzione utile a definire il male, l’ombra, e l’utilità di perturbare, possiamo riprendere questi stessi temi legandoci alla raccolta di saggi di cui abbiamo citato abbondantemente l’introduzione di Silvia Albertazzi. Ve n’è uno di Guy de Maupassant, intitolato Morte del fantastico?, dove, come nota la studiosa, la sua interpretazione psicologica del fantastico che sa spaventare e terrorizzare nel profondo, sembra quasi un preludio a ciò che dice Freud. Maupassant però ne lamenta la mancanza, o più che altro ne vede una morte imminente. È colpito dalla sparizione di un elemento così essenziale, in sua assenza non sarà possibile a nipoti e figli capire cosa sia davvero la notte, cosa sia la vera paura del mistero e di ciò che si può definire solo con soprannaturale. Con la fine di credenze e dubbi sul Creato che ci circonda, per Maupassant finisce inevitabilmente anche la letteratura fantastica. Secondo lo scrittore, autore egli stesso di scritti fantastici, la capacità che avevano Poe o Hoffmann veniva proprio da «questa sapiente abilità, da questo modo particolare di toccare il fantastico e inquietare, con fatti naturali in cui tuttavia rimane ancora qualcosa di inspiegato e

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte: cit., Roma, Editori Riuniti, 1986, p.59, Le Guin cita31 Marie Louise Von Franz, autrice di L’ombra e il male nella fiaba 99

quasi impossibile.» Senza tale possibilità di percepire e approcciarsi al32 mondo il perturbante crolla e non si sprigiona. Anche nel testo curato da Elisa Segnini e Vittorio Frigerio si parla proprio di questa correlazione fra mondo della Natura e perturbante fantastico. Ovvero, posto che il fantastico si scateni nella frizione fra un elemento estraneo e anomalo in un ambiente e sfondo rassicurante e familiare: «questo sfondo nella gran parte dei casi è una costruzione umana, ma, ed è questa l’ipotesi di questa raccolta, può anche presentarsi sotto l’aspetto di un mondo naturale sul quale si sovrappongono – aumentando ancora il senso di stranezza – le impronte dell’umano. A provocare lo scatto del meccanismo che, grazie ad una distanza improvvisa, conferisce a un luogo tonalità insospettate e fantastiche può essere perfino la coscienza improvvisa dell’abisso che separa l’osservatore dal luogo osservato, e nel quale l’osservatore si muove, tuttavia, “ naturalmente ” . » Sinteticamente parlando, come33 l’unheimlich si sviluppa solo dall’heimlich, il sovrannaturale fantastico si può sviluppare solo dal Naturale. «ed è in effetti spesso ciò che è bello, attraente e sublime a trasformarsi sotto l’impulso di forze inquietanti, destando il senso d’incertezza nel quale si è riconosciuta la caratteristica dominante del fantastico. La natura funziona dunque in modo paradossalmente contraddittorio e complementare, rappresentando allo stesso tempo un ambito familiare e l’ignoto.»34

Riguardo terrore e paura dell’ignoto, sentimenti atavici, cui si riversano contro «tutti gli strali di una sofisticazione materialistica, che si attacca ad emozioni ed eventi esterni spesso sentiti, e di un idealismo genuinamente ispido che disapprova l’interesse estetico ed esige una letteratura didattica per “innalzare” il lettore a un grado idoneo di sciocco ottimismo», non dovremmo invece pensare di allontanarli o aver timore35 di perderli, perché fanno parte della materia di cui è fatta la razza umana. Questo sostiene invece (piuttosto animatamente) Lovecraft. È inutile per l’autore, provare a liberarci di questo lato o pensare che si possa perdere, perché fa parte del nostro patrimonio biologico interiore, è intessuto in noi il dubbio. l’attenzione per quelli che definisce i mormorii all’angolo di un camino o in un bosco. Dunque non è per forza il nostro rapporto con una sola tipologia di Natura, ma tutto si basa su come noi in quanto umani, ci

Albertazzi, Silvia (a cura di), Il punto su: La letteratura fantastica, Bari, Editori Laterza, 1993, p.11632 Segnini Elisa e Frigerio Vittorio, Dossier Fantastic Narratives, La narrazione fantastica e il mondo33 naturale – Introduzione: https://journals.openedition.org/belphegor/442?lang=en Ibidem34 Albertazzi, Silvia (a cura di), Il punto su: La letteratura fantastica, Bari, Editori Laterza, 1993, p.11835 100

rapportiamo all’esterno. Da quando l’uomo ebbe vita iniziò a capire e percepire il mondo sulla base di piacere e dolore. Fra due sole vie iniziò a dividere, comprendere e indagare le cose del mondo, tutti quei fenomeni che nel tempo ha incasellato poi in cause ed effetti. E quando l’uomo qualcosa non capiva, lì creava personificazioni, fantasie, spiegazioni meravigliose, date le «sensazioni di timore e paura, quali si addicevano a una razza fornita di poche, semplici idee e di limitata esperienza.» Non36 c’è da stupirsi per Lovecraft se, aggiunte queste constatazioni alla capacità sempre insita dell’uomo di sognare e di un mondo onirico, l’umanità sia così impregnata sin dai suoi primordi di religione e superstizione. Così tanto che se anche dovessero purgarci di tutte le fonti di stupore per Lovecraft il nostro tessuto nervoso ancora sarebbe capace di reagire in questo identico modo. Ciò perché la morte e il dolore ci colpiscono più che il piacere, e i nostri sentimenti verso «gli aspetti benefici dell’ignoto» permangono e dureranno assieme a noi, perché il senso di malvagità, paura e stupore per il prodigio, uniti ad una connaturata curiosità, rendono l’essere umano tale non solo per come percepisce il mondo ma soprattutto se stesso.

Se il perturbante risiede negli occhi con cui l’uomo guarda il mondo, ecco che la scrittura diviene un ponte diretto verso questa via fatta di straniamento e brividiche di nuovo ci portano all’origine dell’uomo, come dell’umanità: l’infanzia. La parte del saggio di Stephen King riportata da Albertazzi è interessante, dato come King esprime il ruolo del narratore del terrore come praticamente lo stesso di quello fantastico, sono come37 un’unica forma. Che può e deve riuscire a far tornare per poco bambini gli adulti che leggono, con storie che possano concedere temporaneamente quel “terzo occhio" dell’infanzia, che vede prodigi dove vede terrori, vede luce e vede ombra e non li disunisce. Lo scrittore in questa area di crepuscolo si muove ed abita, tramite la scrittura e l’osservazione allarga leggermente la visione a tunnel, limitata, che da adulti si ha sul mondo, per riportarci al contorto pensiero bambino. Una tipologia di pensiero tortuosa che ha paura e si esalta per ogni aspetto della vita che inizia appena a vivere. Nel loro vedere le cose per la prima volta gli occhi bambini sfruttano un raggio molto più ampio degli occhi di chi invece le conosce da tanto, di chi è al mondo da più tempo e ormai si è fatto una sua idea restringendo il tunnel della visione.

Albertazzi, Silvia

Albertazzi, Silvia

cura

Bari, Editori Laterza,

Editori Laterza,

(a
di), Il punto su: La letteratura fantastica,
1993,36 pp.119-120
(a cura di), Il punto su: La letteratura fantastica, Bari,
1993, p.13137 101

Gli occhi dei bambini hanno dieci decimi di visione fantasiosa, non solo perché per le varie condizioni esposte ne possono esser più dotati, ma perché hanno libertà di interpretazione. Poi certo si iniziano a raddrizzare, come dice King, assorbono bene come insegniamo loro a incasellare il mondo secondo strutture preesistenti, ma lo scrittore fantastico e del terrore può rievocare per un attimo questa libertà, per quel serio, serissimo gioco. È esattamente ciò che spiega e fa Ray Bradbury quando parla di rimembrare la sua “Cosa in cima alle scale”. Ovvero una paura infantile di chissà quale presenza a monte di una rampa che portava all’unico bagno nella sua casa di infanzia dell’Illinois. Doveva per forza, il Bradbury bambino, oltrepassare quel passaggio obbligato, per necessità, c’era un unico ostacolo: la paura di scorgere quel “qualcosa”. Era inevitabile che il piccolo Ray percorresse quel tratto a corsa, senza guardare in alto, per poter superare quella parte di atrio non illuminato la notte. Una terribile tappa prima di trovare una qualsiasi fonte di luce. Se avesse guardato in alto avrebbe potuto constatare che quella terribile Cosa oltre ad esistere davvero, era in attesa. Per cui più e più volte corse, senza guardare, e la Cosa rimase là, senza muoversi. Dal 1926 fino al 1986, anno in cui Bradbury trascrisse “ cosa ” e “scale” in una delle sue liste di nomi e immagini appartenenti al proprio immaginario e vissuto, utili alla creazione delle sue storie. «Ora vi lascio in cima alle vostre scale,» aggiunge come sincero augurio «a mezzanotte e mezzo, con un blocco, una penna, e una lista da fare. Rievocate i nomi, risvegliate l’io segreto, assaporate l’oscurità. […] La vostra Cosa in cima alle scale nella vostra notte privata… può facilmente scendere giù.»38

Fra la sicurezza di Lovecraft sulla capacità dell’uomo di terrorizzarsi e stupirsi e la paura di Maupassant che questa qualità possa perdersi, sicuramente l’unica cosa che possiamo constatare, da dovunque venga il perturbante e in generale l’ombra dell’uomo, che si applichi a fantascienza o fantastico o favola, è che non dobbiamo allontanare ed epurare questa area, sia da adulti che nell’infanzia. Anzi, soprattutto in essa. Che la si veda come origine di ciò che è rimosso e che inquieta a posteriori, alla maniera di Freud, o secondo la via di King e Bradbury come un nido di tesori mostruosi verso cui ci si può affacciare a posteriori per ricavare qualcosa di fruttuoso anche da adulti, va rispettato e riconosciuto che anche il bambino proietti ombra tanto quanto l’adulto. È inutile allontanarlo, come dice un personaggio di sfondo della bellissima storia ombrosa e “ per bambini” Skellig di David Almond, i bambini sono naturalmente attratti da

Albertazzi, Silvia (a cura di), Il punto su: La letteratura fantastica, Bari, Editori Laterza, 1993, p.14138 102

luoghi oscuri: “Proprio come erano i miei due una volta, vedevano un posto buio e pericoloso e neanche il diavolo riusciva a tenerli fuori”. O per fare un discorso più articolato come Le Guin: «Una creatura giovane ha certo bisogno di protezione e difesa. Ma ha anche bisogno di verità. […] la sua occupazione durante la crescita è diventare se stesso. Non può farlo, se ha la sensazione che il compito sia disperato, né se viene indotto a pensare che non ci sia nessun compito. Il bambino crescerà rachitico e deforme se è costretto a disperare o è incoraggiato in false speranze, […] ha bisogno di conoscere se stesso. Ha bisogno di vedere se stesso e l’ombra che proietta; e può imparare a controllarla e a farsi guidare da essa. [ ] quando avrà acquistato la sua forza e responsabilità di adulto nella società, sarà meno incline, forse, sia a rinunciare per la disperazione che a negare ciò che vede,» così che possa essere all’altezza di affrontare il39 dolore e le ingiustizie che da sempre esistono ed esisteranno. L’immaginario di ciò che per noi (adulti) dovrebbe essere il bambino, un essere buono e quieto, che stia alle nostre regole per replicarle in egual misura, è scevro di quanto esso sia più vicino ad essere un “mostro”. È primitivo e basico, (non per questo sciocco o marginale) è vicino alla terra e alla Natura, temporaneo, tumultuoso e flessibile, ha un approccio al mondo improntato sui sensi. Di quelli si fida. Molto più affine ad una dimensione naturale e originaria di conoscenza del mondo, sin da subito vive piccoli e grandi traumi. La vita nell’infanzia è segnata da angoscia, paura e turbamenti. Pensare i bambini come ciechi e sordi rispetto alla realtà che gli gira intorno, gli nega la possibilità di poter affrontare, per via catartica, il disagio che accumulano e che creerà loro altre problematiche. Il bambino deve essere in grado di vivere sia protetto che da protettore della sua propria ombra, così che da adulto non ne abbia più paura.

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura39 di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.63 103

5. Storie di archetipi

Ormai accettata l’idea che agli adulti, come ai bambini, serva sottoporre temi perturbanti e ombrosi («i bambini di otto anni sanno che cos’è il male. Sono i grandi che si confondono») ed avendo già approfondito a1 dovere le problematiche dell’edulcorazione nella vita come in letteratura, possiamo ora dedicarci ad un tema non esplicato pienamente. La questione in sospeso tratta degli “archetipi”, un termine portante su cui dobbiamo ancora soffermarci. Partendo dalla teoria che ne fa Carl Gustav Jung potremo poi osservare come si declini l’argomento nei generi di interesse per questa tesi, mettendo in luce i motivi più rilevanti, ma intanto possiamo introdurre così il seguente paragrafo: l’idea di Jung è che sia necessario mettere a fuoco ciò che ci è attorno tramite un’analisi che spazia nell’interiorità individuale, ma secondo dei parametri (e dei luoghi) che non sono solo soggettivi, bensì universalmente condivisi. Come direbbe Le Guin, Jung ci suggerisce che dentro abbiamo tutti gli stessi “draghi”, il che significa che siamo accomunati da una ricchezza interiore che crea terreno comune. Tramite una maggiore coscienza di quegli elementi archetipici che si ripetono nel tempo e nello spazio, potremmo arrivare a dei benefici per la società stessa. Dato che essi ci influenzano, una volta imparato a comprenderli, potremmo migliorare la nostra capacità di comunicare gli uni con gli altri.

Uno dei luoghi che Jung predilige per l’incontro con gli archetipi è l’area onirica, ve ne sono anche altri, ma il sogno è anche il luogo più congeniale alla comprensione della sua teoria. In merito a ciò è singolare un passaggio che ritroviamo in un altro saggio di Le Guin, riguardo una2 specifica tribù, chiamata “dei Senoi". Tale piccola realtà della Malesia pare tenga così di conto i sogni da addirittura creare una sorta di addestramento ad essi. Ovvero alla mattina, all’ora di colazione, i sogni della famiglia Senoi vengono condivisi e analizzati da padri e fratelli maggiori, in quanto non vengono visti come un’esperienza notturna passiva, ma anzi attiva, ricca di significati e creativa. Il sogno è un’area complementare alla vita di veglia ed è essenziale dargli il giusto spazio per mantenere l’equilibrio. I sogni servono ai Senoi per risolvere e andare nel

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura1 di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.132

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura2 di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.138-139

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profondo di conflitti e problematicità di ciò che viene vissuto alla luce del giorno. La loro civiltà di per sé, a detta dello studio citato da Le Guin, pare sia piuttosto pacifica e funzionale, ma anche andando oltre ciò, uno degli elementi più incisivi e che ci preme citare per passare a Jung è il seguente: l’idea della “caduta”. Simbolicamente cadere in un sogno è, secondo il loro modo di riflettere, entusiasmante. Per la tribù significa che qualcosa di urgente e rilevante è successo, sognare di cadere ha dei sottotesti da non accantonare, ci si augura quasi di poter fare questa esperienza. Tale valenza e accettazione della caduta non è concettualmente importante solo per i Senoi, Jung stesso direbbe che dobbiamo imparare a cadere in profondità per poter risalire: «al sognatore che tende ad una più luminosa altezza si oppone la necessità di sprofondare prima in un baratro oscuro: questa si dimostra condizione indispensabile per un’ulteriore ascesa». 3

Serve dunque mettersi in un differente ordine di idee e chiedersi come i Senoi, come Le Guin, come Jung: «Dove sei caduto e cosa hai scoperto?» 4

5.1 Il pensiero di Jung

Come accennato nel precedente capitolo tramite Le Guin, il suddetto psicanalista e filosofo svizzero descrive anch’egli come l’ombra possa essere la parte più brutta, ma non certo la più debole, di ciò di cui è composto l’uomo. L’ombra ha un suo spazio e non le va negato. La scelta di Le Guin di prendere ad esempio la storia di Andersen è motivata dal fatto che essa appare come una concreta esemplificazione del pensiero di Jung.

Il quale aveva sostenuto a suo tempo la necessità di guardarsi indietro e seguire la propria ombra, di caderci dentro, tuttavia la teoria di Jung è certamente più ampia e non limitata alla sola questione del perturbante. Tuttalpiù il voltarsi e affacciarsi a questo lato scuro è, secondo Jung, la porta per entrare in quello che egli chiama “inconscio collettivo”. Ovvero il luogo, astratto, dove secondo lo psicanalista risiedono gli archetipi. Ma cosa s’intende qui per archetipo?

Il termine viene affrontato da Jung secondo l’uso fatto nel corso della Storia (cita il suo utilizzo in Filone d’Alessandria, Ireneo, Dionigi l’Areopagita, Sant’Agostino, nonché ovviamente Platone) per arrivare alla

Jung, Carl Gustav, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, 1980, Boringhieri, Torino, p.18

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura

di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.139

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valenza più utile alla sua stessa teoria. “Archetipo" quindi è per lo psicanalista un’immagine dei primordi, arcaica: un tipo remoto, originario, radicato. Se l’inconscio “soggettivo” di Freud è occupato dai “complessi a tonalità affettiva” , l’inconscio “collettivo” viene invece abitato dagli5 archetipi. Per esser ancora più chiari: che si abbia o meno in mente la schematizzazione dell’io in Freud, una delle differenze fra i due autori sta nel fatto che nel definire l’inconscio Jung crea un’ulteriore suddivisione. Se per Freud l’inconscio è il luogo soggettivo e personale dove si ritrova tutto ciò che è rimosso e non detto, in Jung non ci si discosta da questa descrizione ma si aggiunge un termine in più all’inconscio freudiano, ovvero “personale”. Se esiste l’inconscio ed è soggettivo, a detta di Jung, esiste allora un substrato, che è però in tutti noi comunemente condiviso. Esso «non deriva da esperienze o acquisizioni personali, ma è innato» e6 collettivo.

Nel libro Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Jung oltre a dare un’infarinatura su che cosa egli intenda per archetipo e inconscio collettivo nelle prime pagine, porta avanti una disamina sulla perdita di riferimenti e simboli della società (temporalmente parliamo in riferimento alla prima metà del Novecento, i testi del libro risalgono a un periodo che va dal 1934 al 1955). Nel momento in cui si ha di fronte una società (occidentale) scevra di simboli, una popolazione di "eredi cristiani di diritto” che però non credono più neanche nel cristianesimo stesso, si rischia di colmare il vuoto con dei surrogati di simboli religiosi o con idee sociali e politiche da Jung definite assurde. Le Guin riassume bene così: se l’io è fragile e, come tutti, tende a cercare un’ identità di appartenenza a qualcosa al di fuori dal lui, la via più facile che gli si presenta è di trovare un suo posto non tanto nell’inconscio collettivo (paventato dallo psicanalista) ma nella cosiddetta “coscienza collettiva”. Che però è fatta di culti, pubblicità, manie, mode, credi e consuetudini che determinano una sorta di mente di massa, basata su forme e simboli vuoti, a differenza degli archetipi. Dunque, le forme “di valore” per il sé, per una vera comunione, non stanno fuori ma all’interno dell’individuo, in questa dimensione ancestrale di cui parla Jung. Area in cui ognuno comunemente può giungere, dato che l’inconscio collettivo sta nel profondo di tutti in egual maniera. Per arrivarvi e ritrovare dunque dei “veri" simboli, utili e preziosi, bisogna voltarsi e caderci dentro, girarsi verso il proprio “lago oscuro”. Immagine quella del lago che presenta lo stesso psicologo, parlando in uno dei suoi esempi del

Jung, Carl Gustav, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, 1980, Boringhieri, Torino, p.4

Jung, Carl Gustav, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, 1980, Boringhieri, Torino, p.3

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sogno ricorrente di un teologo protestante. Questi da un versante di una montagna riconosceva la presenza di un lago a valle, verso cui aveva però sempre evitato di avvicinarsi, solo una notte sognò infine di giungervi. Nel momento in cui il teologo si avvicinò però all’acqua, l’atmosfera si fece scura ed un soffio di vento agitò in maniera sinistra la superficie. Questo improvviso cambio di situazione emotiva lo fece svegliare. In tale sogno Jung sottolinea due cose: intanto che l’acqua è un elemento simbolico ricorrente per l’inconscio e poi che, essendo l’acqua il suo io più profondo, senza la sua stessa presenza (del teologo) non sarebbe mai stata agitata da quell’alito di vento. «Occorre che l’uomo discenda nell’acqua perché essa miracolosamente si animi» e il vento in questo caso è inquietante7 perché è come una presenza invisibile che vive da sé. Jung la identifica come qualcosa di non legato ad alcuna macchinazione umana, per cui il teologo (e in generale l’uomo) si spaventa perché fronteggia una forza inaspettata e fuori dal controllo della coscienza. Quell’alito di vento simbolizza in quel contesto un elemento che l’uomo non conosce, che non ha previsto, di cui non ha letto e di cui nessuno ha parlato. In quello spazio rappresenta un qualcosa di sconosciuto, che è apparso spontaneamente dal suo profondo, senza che il teologo abbia avuto scelta.

Dunque per Jung il primo passo per comprendere la questione dell’inconscio collettivo, come abbiamo ripetuto, è l’incontro con l’Ombra, quella parte di sé stessi sgradevole, che ci fa da specchio e ha una sua propria personalità. Una volta che ammettiamo a noi stessi che ci sono problemi insolubili e che esiste una parte oscura da conoscere, lì si creano le basi per entrare in contatto con quest’area universalmente condivisa. Giungono allora, a detta dello psicanalista, aiuti dai recessi più fondi dell’animo umano (tramite sogni e non), dei soccorsi che si manifestano in forme archetipiche. In un’epoca di “impoverimento di simboli” va scoperta la loro originaria natura, e lo si può fare indagando nell’inconscio. Questo in un’ottica di miglioramento umano pratico per l’umanità, perché che sia essa primitiva o meno, continua purtroppo a portare avanti azioni che in realtà non controlla, forse proprio perché non è mai riuscita ad entrare veramente in contatto con sé stessa. Esser consci di quest’area del sé per Jung ha valore di atto concreto. Come per i Senoi con i sogni, immergersi all’interno permette all’uomo di uscirne perlomeno arricchito di una conoscenza nuova.

Tornando però agli archetipi in senso stretto: Jung nonostante si dilunghi sul concetto di Anima (come sulla Madre, il Fanciullo o altri) che per lui è,

Jung, Carl Gustav, Gli archetipi cit., 1980, Boringhieri, Torino, p.16

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come l’Ombra o il Vecchio Saggio, uno degli archetipi esistenti che ci vivifica e "arde”, afferma che non abbia molto senso fare una vera e propria lista di questi simboli da imparare a memoria, perché essi sono «complessi di esperienza che sopravvengono fatalmente, e il cui effetto si fa sentire nella nostra vita più personale». Altra cosa che afferma è che8 tali archetipi non possano essere integrati in modo automatico e razionale dall’uomo, ma piuttosto tramite una forma dialogica, che in ambito di psicanalisi si attua con la meditatio del paziente, una sorta di intimo dialogo mentre ci si racconta, ovvero si spiega e riferisce le proprie riflessioni interiori ed esperienze oniriche. Detto questo la teoria dell’inconscio collettivo di Jung che, a differenza di Adler o Freud, guarda alla psicologia non solo secondo una visione dell’individuo personale ma come facente parte di un sistema più ampio, ha in realtà qualcosa in comune con loro. Gli altri due specialisti basano le loro ricerche e ipotesi su degli istinti che le persone hanno inevitabilmente e indipendentemente dalla loro soggettività. Cioè anche loro ragionano a partire da istanze che accettano come comunemente facenti parte dell’uomo, senza distinzione. Questi fattori impersonali, universali ed ereditari, hanno così tante analogie con gli archetipi che Jung si sente di assimilarli ad essi, se non proprio farli combaciare definendoli «immagini inconsce degli istinti stessi». Sulla base dell’esistenza di queste forze motrici di cui è9 innegabile l’esistenza, Jung dunque rivendica la possibilità che la sua teoria degli archetipi sia giusta. Perché è assurdo che il pensiero non possa essere influenzato dagli archetipi, ma si accetta invece che sia direzionato anche dagli istinti? Per quanto sia complesso scindere l’analisi dell’inconscio collettivo dalla cultura in cui una persona cresce e agisce, oltre ai fattori societari che lo strutturano come individuo, comunque Jung difende così la fattualità del suo studio limitando l’accusa di misticismo che si porta dietro.

Lo psicanalista adduce poi un metodo di prova di esistenza degli archetipi stessi, soffermandosi sull’assunto che gli archetipi si esprimano come forme psichiche. La prima area in cui indagare è appunto quella onirica, l’area più congeniale per tracciare il passaggio di questi segni perché essi si esprimono in maniera autonoma e naturale, senza controllo della mente cosciente. Un altro luogo in cui si dovrebbe poter ricavare la presenza dei suddetti simboli sarebbe “l’immaginazione attiva” (una meditazione che crea visioni), cioè un’osservazione cosciente e concentrata su una fantasia

Jung, Carl Gustav,

Jung, Carl Gustav,

archetipi

archetipi

Gli
e l’inconscio collettivo, 1980, Boringhieri, Torino, p.288
Gli
cit., 1980, Boringhieri, Torino, p.449 109

o idea casuale di cui bisogna contemplare un qualsiasi frammento che possa esser significativo (metodo che lo stesso Jung raccomanda però per alcuni casi “attentamente vagliati”). Infine altre zone in cui si può sondare la questione archetipica, sarebbero quelle dei deliri paranoici, gli stati di trance e i sogni della piccola infanzia (s’intende fra i tre e i cinque anni di vita). Come esempio infatti di idea o immagine archetipica riscontrabile nel tempo e in differenti luoghi, Jung riporta la fantasia di uno schizofrenico paranoide che aveva in cura. I deliri del paziente erano a tema religioso, era megalomane e pensava di essere Dio o comunque assimilabile ad una divinità. In un momento specifico aveva invitato Jung a soffermarsi sul sole scuotendo la testa, cosicché, a sua detta, Jung avrebbe potuto vedere quello che l’uomo chiamava “il fallo” del sole, “da cui proviene il vento”. Anni dopo, questo aneddoto tornò curiosamente utile allo psicanalista mentre leggeva un passaggio del filologo Albrecht Dieterich. In esso trovò una riflessione su un papiro greco, in cui in una parte di testo, che lo studioso identificava come una liturgia mithriaca appartenente alla scuola mistica di Alessandria, si leggeva dell’origine10 del vento come visibile, sotto forma di un tubo discendente dal sole, osservabile in questo caso non scuotendo la testa ma tramite “tre profondi sospiri” mentre lo si fissa, il che avrebbero portato ad una sorte di trance o sensazione di innalzamento. Questa tipologia di raffigurazione Jung la riscontrò inoltre anche in certi quadri medievali dove la fecondazione di Maria sembra avvenire direttamente dal sole, attraverso una lunga cannula che arriva fino al suo corpo. Tipologie di raffigurazioni queste, che il paziente certo non conosceva (né tantomeno chi scrisse il papiro citato da Dietrich) in quanto era stato ritenuto malato dai vent’anni in poi non aveva mai viaggiato e di arte simile a Zurigo (dov’era nato) non ne aveva vista. Dunque Jung riporta questo esempio per sottolineare come sia almeno probabile se non altamente possibile, nonostante la vastità dello scibile umano, ricercare dei comportamenti di una certa figura archetipica tramite le aree sopracitate per osservare come essa si esprima.

In ogni caso, sebbene i testi di Jung siano ricchi e articolati, Le Guin stessa sottolinea che uno dei noti problemi riscontrabili con l’autore sia il fatto11 che cambiava spesso il significato dei termini, oltre che, aggiungeremmo, fare un uso molto poetico e forse bizantino dello lessico stesso con cui spiega la propria teoria. Si è provato qui a riportare quindi le questioni

Jung, Carl Gustav, Gli archetipi cit., 1980, Boringhieri, Torino, p.51

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura

di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.55

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essenziali del suo discorso, che però non si esauriscono alle sole basi sopracitate. Sebbene non si possa comunque coprire tutto il suo pensiero, o ogni singola e approfondita analisi che riporta per certi archetipi, lo psicanalista ne affronta uno in particolare che per il nostro argomento è utile citare.

Jung scrive infatti un capitolo chiamato: Fenomenologia dello Spirito nella fiaba. Lo psicologo apre con la differenza fra psicologia e scienza nel trattare i casi di propria pertinenza, la quale consta nella presenza o meno di un punto “Archimedeo”, concreto, su cui fare leva. Un punto che se nel fenomeno naturale si esprime in maniera diretta e lo rende osservabile alla scienza, nella psiche esso manca perché «solo la psiche è in grado di osservare sé stessa». Jung continua poi spiegando cosa intenda egli12 stesso quando parla di Spirito. Oltre che essere un altro archetipo, per definire lo Spirito Jung lo indica come: un principio attivo che vivifica la mente. Spaziando fra le varie connotazioni che gli sono state date nei tempi, egli lo scinde innanzitutto dall’anima (per cui fa un discorso a parte suddividendo Anima, femminile, e Animus, maschile) e ne prende i significati di un qualcosa che inspira, fa ardere, è dinamico e si oppone alla concretezza della materia, alla morte. È un fenomeno psichico che si presenta nei sogni nelle vesti di uomo, padre, vecchio saggio, gnomo o animale. In ogni caso lo psicanalista dopo aver accennato allo Spirito nel sogno decide di affrontarlo meglio, sfruttando a supporto un’area diversa da quella onirica. Jung utilizza il luogo mitico della fiaba, del folclore. Questo perché, sostiene, è così possibile evitare che delle eventuali sovrastrutture individuali possano complicare il discorso, dato che le fiabe sono i prodotti “meno rivestiti di materiale culturale”. I più sintetici, altamente concentrati sulle azioni e sui simboli, più puri e limpidi nell’esprimere i modelli della psiche. La fiaba rappresenta un prodotto dell’anima universale comune a tutti i popoli per Jung, riflette le dinamiche insite all’inconscio collettivo e ciò si nota tramite la ripetizione nel tempo di temi e motivi uguali, che non sono altro che l’emersione dell’archetipo.

Dunque lo Spirito nella fiaba non tramuta concretamente la figura dell’archetipo a livello fisico, non cambia, appare anche qui come forma di vecchio per esempio, che aiuta l’eroe o personaggio principale in una situazione critica e al limite, in cui non trova via d’uscita. È una figura che spinge alla riflessione, che pone molte domande, sul dove, sul chi e

Jung, Carl Gustav, Gli archetipi e l’inconscio collettivo., 1980, Boringhieri, Torino, p.201

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perché, lo Spirito nella fiaba consiglia e porta al confronto e alla presa di13 coscienza. Esso trae alla luce i valori quali saggezza, intuizione, prudenza, discernimento. I modi in cui appare lo Spirito come archetipo in questa tipologia di narrazione ricalcano e si ispirano a come si mostra in sogno, ma si esplicano ancora meglio. Sebbene abbia un collegamento con qualcosa di divino, luminoso, legato al fuoco e al sole, per la sua natura appunto “illuminante” ed elevata, non è però esente la sua controparte negativa (che va intesa in senso neutrale come quella positiva), «il vecchio ha infatti anche un aspetto “malvagio”, così come lo stregone primitivo è tanto il soccorrevole guaritore quanto l’avvelenatore temuto; allo stesso modo la parola φαρμακον (pharmakon) significa insieme rimedio e veleno». Così nella fiaba lo Spirito appare ad esempio nelle vesti di14 Merlino, l’anziano mago che può impersonare sia il male che il bene. Riferendoci infatti alla scelta di Jung di sfruttare questa tipologia di racconti, ricordiamo che la morale in essa, come abbiamo già spiegato, non è polarizzata e le figure che ci vengono presentate non sono né totalmente malevole né totalmente benefiche. Un fattore essenziale perché aderente alla caratterizzazione che Jung dà degli archetipi.

5.2 Automa e autonomia

Se Jung in campo psicologico spiega la teoria degli archetipi sfruttando anche la fiaba, in quanto realtà in cui si muovono questi stessi simboli, eccoci arrivati al momento in cui riprendiamo la nostra di tesi. Ovvero, che la narrazione fantastica e quella fantascientifica possano rappresentare a loro volta delle aree a cui fare attenzione per poter leggere al meglio ciò che ci circonda. Questi generi sono veri e propri contenitori di simboli utili all’analisi del nostro presente, nuovi o ancestrali che siano. Ovviamente non ci poniamo sullo stesso piano psicoanalitico e filosofico di Jung, ma prendiamo atto che se lo psicologo aveva almeno un po’ di ragione, gli archetipi fanno parte di noi, forse non potremo individuarli bene come lo psicanalista li scovava nelle sue aree di ricerca, ma sicuramente possiamo trovare delle interconnessioni simboliche fra storie fantastiche e fantascientifiche degne della stessa attenzione.

Anche se, in accordo con l’idea di Jung stesso, è inutile fare una scevra lista di archetipi esistenti, è comunque utile provare a riflettere in questa

Jung, Carl Gustav, Gli archetipi

Jung, Carl Gustav, Gli archetipi

, 1980, Boringhieri, Torino, p.213

, 1980, Boringhieri, Torino, p.219

cit.
13
cit.
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prospettiva per i temi che immancabilmente ritornano in questi generi. Se la narrativa fantastica può esser forse facilmente associata ad un’area di espressione di archetipi o simboli (pensiamo ad uno dei primi romanzi citati: Chamisso col tema del Doppio, dell’Ombra), in realtà dovremmo poter guardare senza problemi così anche alla fantascienza. Perché,15 come direbbe Le Guin, essa è (soprattutto grazie ai suoi autori più meritevoli) una sorta di “moderna mitologia” , o “mappa archetipica” a16 detta di Carotenuto. Esistono infatti dei leit motiv simbolici che da sempre sono parte della psiche umana e si sono mantenuti presenti per arrivare ad esprimersi in nuove forme anche in questo genere, contando che parliamo di una letteratura che affonda le radici del suo proprio immaginario nell’evoluzione «sociale, culturale e scientifica degli ultimi due secoli.»17

Il tema più evidente in questi due generi, che salta all’occhio anche ad un neofita in quanto straordinariamente ricorrente, è la follia o il folle. Tuttavia questo argomento avrà più spazio a chiusura di questa tesi, per cui prima prendiamo atto di qualcos’altro che ricorre altrettanto spesso. Nonostante la pluralità di argomenti su cui soffermarsi, può avere una sua validità riflettere sul tema dell’automa e dell’autonomia. Questi due termini li proponiamo quasi come un argomento a sé, il pensiero informale che presentiamo a seguito non pretende di essere un’esaustiva

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012,15 p.144-145: «In un "sistema" dove l’uomo non è altro che uno dei tanti elementi in balia del caso –giacché, a fronte delle meraviglie della scienza, la sua sopravvivenza è comunque appesa a un filo –e dove il nostro pianeta non è altro che un piccolissimo punto nell’oscura notte del cosmo, l’esistenza si configura necessariamente come una ricchezza precaria. Ogni barlume di certezza viene annullato, se solo si pensa all’ignoto che avvolge le nostre menti. Tutto questo nel grande come nel piccolo, giacché il "pericolo" non viene solo dall’esterno – dal vicino di casa come dall’extraterrestre – bensì anche e soprattutto dall’interno. Da quelle ignote zone d’ombra che costellano la nostra personalità: complessi e nevrosi che come buchi neri assorbono le nostre energie; repentine metamorfosi dell’anima che vorrebbero consumarsi attraverso il corpo; l’oscura sensazione di essere perseguitati da una colpa, di aver sbagliato, di essere immeritevoli agli occhi di un giudice interiore. Sono queste le immagini psichiche che pervadono gli scenari fantascientifici [ ]»

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura16 di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.72

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.77:

17 «Sappiamo che, a detta di molti autori, la fantascienza rappresenta un livello abbastanza arcaico di espressione simbolica. L’onnipotenza primaria del bambino che aspira all’immediata realizzazione dei suoi desideri e che, invece, si scontra con la loro immancabile frustrazione, ne è un chiaro esempio. Tuttavia è pur vero che qualsiasi simbolo è un’immagine arcaica, se vogliamo infantile, della psiche. [ ] In altre parole, il simbolo è espressione di qualcosa che appartiene a epoche remote, che sia l’infanzia di un uomo o l’infanzia dell’uomo. Nei contenuti rimane pressoché stabile

[ ]» 113

e totale disamina su di essi, ma vuole favorire uno spunto di riflessione, in linea all’impostazione della nostra tesi.

Con automa ci si riferisce a delle creature artificiali che replicano le azioni umane ma senza una volontà propria, fra di esse vi è, in area fantascientifica, ovviamente il robot. Curiosamente il nome “robot” nasce18 da una pièce teatrale del 1920, scritta da Karel Čapek, la parola viene «dal ceco robota, ovvero lavoro duro, forzato» e indicava in questo spettacolo19 degli automi che però erano organici, quindi più vicini a degli androidi umanoidi, che agivano come operai creati da una fine ingegneria artificiale, mentre ad oggi il termine viene usato per strutture in toto meccaniche. In ogni caso l’idea del robot, della macchina artificiale, può significare molto altro, la stessa Le Guin adduce che possa essere ad esempio una personificazione della paura dell’io moderno per il corpo, in quanto elemento di cui ora abbiamo una visione fortemente divisa fra mente e carne, fra spirito, fantasma e ciò che è macchina. La creatura20 quasi umana generata “mostruosamente” dall’uomo, non “secondo natura” e ad imitare Dio, è anche il tema centrale del racconto di Mary Shelley, a cui abbiamo dedicato uno spazio a sé. Lì abbiamo citato l’antico mito di Prometeo e Le Guin riguardo il mostro di Frankestein creerebbe un parallelo con l’immagine di Gesù, o ancora gli automi sono stati un’idea di interesse per lo stesso Nievo, che vi ha però riflettuto a livello di impatto sociale. Dunque gli spunti sono plurimi, ma qui si vuole soffermarci fra i tanti aspetti sul nesso che lega l’automa e l’autonomia. È questo non è altro che il controllo.

Ciò su cui si vuole far luce rispetto all’automa non è limitato alla creatura formata artificialmente che poi può arrivare a chiedersi chi sia, o come solo atto di hybris umano Che ci si riferisca alla moderna immagine del robot o meno, si vuole andare più a fondo. L’argomento si lega infatti anche alla questione dell’essere o meno (si perdoni il gioco di parole)

Treccani Vocabolario on-line, voce “robot” : https://www.treccani.it/vocabolario/robot:18 «robòt (o ròbot) s. m. [nel sign. 1, der., attrav. il fr. robot, dal cèco Robot (ròbot, nome proprio, der. a sua volta di robota «lavoro», con cui lo scrittore cèco Karel Čapek denominava gli automi che lavorano al posto degli operai nel suo dramma fantascientifico R U R. del 1920; nel sign. 2, der. direttamente dal cèco robota nel senso di «lavoro servile; servizio della gleba»].»

Barbieri, Daniele su La Bottega del Barbieri, “R.U.R. O L’ETERNO RITORNO DEL ROBOT": https://19 www.labottegadelbarbieri.org/r-u-r-o-leterno-ritorno-del-robot/: si sottolinea in questo articolo che la nascita della fantascienza avvenga “ufficialmente nel 1926, per cui l’autore crea un antecedente di un topos che si diffonderà di lì a poco.

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura

di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.71

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autonomi, liberi. Il robot, l’automa o il mostro in contrapposizione alla mente umana che lo ha generato, ritornano in queste narrazioni rispecchiando quell’antico dilemma che l’uomo soffre nel suo vicendevole rapporto con il proprio supposto creatore. Nei rispetti di un Fato, divino o non divino, o in nome di un laico Caos, egli non è totalmente padrone del proprio futuro o di sé stesso. L’atto di creazione di un altro essere dal nulla, non fa che ricreare una condizione a ripetere dello stato di dilemma esistenziale insito nell’uomo stesso, rispetto alla propria condizione di pensarsi o meno libero da vincoli.

5.2.1 Alle origini vi era il Golem

Esiste una storia moderna che racconta in maniera semplice ed essenziale l’antenato del robot, il suo “ nonno ”, spiega bene il topos di questa figura. Il libro in questione è stato scritto dal premio Nobel Isaac Bashevis Singer, si chiama Il Golem. Il libro narra di eventi fantastici, ma dove vi è l’intervento divino ed essendo interconnesso con la religione non è una narrazione fantastica, ma più vicina a una novella o una favola con al centro una leggenda. La storia è “per ragazzi” e parla di una delle prime idee umane di macchina artificiale simile all’uomo, inizia a Praga al tempo in cui «il famoso Rabbi Leib era rabbino, ossia guida religiosa della comunità ebraica nell’antica città di Praga» e gli Ebrei venivano perseguitati assieme ai Protestanti. Succede che per vie traverse ed21 ingiuste viene incarcerato l’innocente l’ebreo Reb Elezier Polner, a causa di un sotterfugio ordito dal Conte Bratislawski, che lo accusa di aver rapito la figlia Hanka per usarne il sangue per impastare le mazzot (tutto ciò perché si vuole liberare del debito con la sua banca). Ma una notte, saputo della notizia, uno dei Trentasei Giusti appare al rabbino Rabbi Leib, gli dice che tramite dell’argilla deve creare un Golem per salvare e aiutare gli ebrei, questi prenderà vita incidendogli il nome di Dio in fronte. Il Golem si22

Singer, Isaac Bashevis, Il Golem, Salani Editore, Edizione digitale 2011, p.9

Singer, Isaac Bashevis, Il Golem, Salani Editore, Edizione digitale 2011, p.21: «Chinò la testa e gli22 disse: “Ospite Onorato, qui a Praga siamo tutti angosciati. I nostri nemici tramano per distruggerci. Stiamo affogando nelle tribolazioni".

Lo so” rispose lo sconosciuto.

Che cosa dobbiamo fare?

Fate un golem, e lui vi salverà

Un golem? Come? Con che cosa?

Con l’argilla. Tu inciderai sulla sua fronte uno dei nomi di Dio, e grazie al potere di quel Nome Sacro egli vivrà per un certo tempo e compirà la sua missione. Si chiamerà Joseph. Ma sta’ attento che non ceda alle follie del sangue e della carne.”»

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chiama Joseph, viene detto al rabbino, lo scopo che l’uomo gli deve dare è di ritrovare la bambina scomparsa. Il Golem viene dunque creato da Rabbi Leib, ma deve attendere il giorno del processo per agire, per cui il rabbino gli parla. Gli chiede se non abbia domande, gli dice che anche se è stato creato con un solo scopo e la sua vita “ serve ” solo a quello, nel mentre può sognare, dormire, vedere cose e sentire voci. Il rabbino «provava anche una specie di compassione per il golem. Credeva di aver colto un’espressione di perplessità nei suoi occhi. Gli pareva che quegli occhi chiedessero: “Chi sono? Perché sono qui? Qual è il segreto della mia esistenza?” ». Uno23 smarrimento che il rabbino aveva visto negli occhi dei neonati e negli animali. Il golem comunque se ne rimane quieto e nascosto fino al momento in cui deve ottemperare al suo compito, esce allo scoperto solo per trovare la bambina e smentire il conte, liberando Polner. Sebbene se ne fugga subito dal processo, la notizia del gigante di argilla si diffonde fino ad arrivare all’Imperatore Rodolfo II, tanto che egli stesso dopo la Pasqua intima a Rabbi Leib di condurlo dal gigante, il golem viene quindi “disattivato” da Rabbi Leib che gli cancella una lettera dalla fronte (“EMET”, verità, diviene “MET" morto). Un giorno però, spinto dalla moglie, per un’idea non malevola ma neanche richiesta dal Cielo, i coniugi decidono di risvegliarlo, da quel momento il golem riprende vita, ma non ascolta più ordini. È come un grande bambino con la forza di un leone, dopo qualche tempo dimostra anche una certa evoluzione, ma Rabbi Leib non è speranzoso. Eppure il golem diviene giorno, giorno sempre più umano. Tanto che una volta chiede turbato al rabbino: “Chi sono?”. Non24 gli basta saper di essere solo un golem, perché comprende che è quella la causa della sua solitudine. Non vuole essere sé stesso. Come il mostro di Frankenstein non vuole essere l’unico diverso dagli altri. Per quello fugge dal rabbino e dopo varie problematiche create dal suo vagare, l’Imperatore ordina che ne venga fatto un guerriero, per poter sfruttare almeno la sua forza contro i nemici. Ma per Rabbi Leib non può accadere, obbliga dunque Miriam (una ragazza di cui il golem si è invaghito e una delle poche

Singer, Isaac Bashevis, Il Golem, Salani Editore, Edizione digitale 2011, p.32

Il Golem - Isaac Bashievis Singer: https://ilcollezionistadiletture.com/2016/10/31/il-golem-isaac-24 bashevis-singer/: «Se quindi in questo “Golem” di Singer ritroviamo il principio dell’intervento divino attraverso il “golem” a protezione della comunità e il principio della severità del Dio nel pretendere l’utilizzo esclusivo del “golem” ai fini da lui stabiliti, sono altresì presenti, se pur in forme più “sentimentali”, la deriva “pazzoide” del “golem”, nonché quella derivante dalla rivolta contro il suo creatore che Ripellino inscrive nei canoni del ciclo praghese: “Il ciclo praghese dilata il motivo dell’improvvisa demenza del corpo di creta, che minaccia sfacelo, non solo per la comunità degli ebrei, ma anche per Praga e l’intero universo Ma la Golemlegende di Praga accenna diagonalmente anche il tema della rivolta del manichino contro il proprio creatore: rivolta della forza bruta contro l’ingegno o del servo contro il padrone” ( p.168 cit.)

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persone che ne riconosce l’umanità insita) ad aiutarlo per poter cancellare il nome sacro dalla sua fronte. Il piano ha successo e il golem torna a non esistere più. Tuttavia, anche se era una macchina artificiale, Miriam piange per lui e il rabbino recita perfino una preghiera funebre. Un giorno, dopo la creazione delle molte leggende diffuse attorno al gigante scomparso, Miriam scompare e nessuno saprà mai che fine ha fatto, forse si è suicidata, forse si è ricongiunta col Golem: «forse l’amore ha più potere di un Nome Sacro. L’amore, una volta inciso nel cuore, non può più essere cancellato. Vive per sempre.»25

La dedica dello scrittore è un augurio speranzoso per i perseguitati e gli oppressi, i vecchi e i giovani, gli Ebrei e i Gentili, perché un giorno cessino di esistere accuse e giudizi distorti, ma crea anche un prezioso emblema sul tema della creatura artificiale che si ribella all’uomo. Una storia che nella fantascienza si ripete a non finire con l’immagine del robot, altri non è che la triste storia del mostro di Frankenstein «che a sua volta era la versione ottocentesca e scientifica della leggenda talmudica del Golem, nella quale si può intravedere addirittura lo schema fondante dei primi capitoli della Genesi, quando Adamo ed Eva, prendendo alla lettera la promessa di Dio che li ha praticamente nominati suoi eredi universali, si vedono già padroni del mondo e si consentono la prima trasgressione. Così il Golem, il primo automa della nostra cultura, come Adamo impastato con l’argilla, non poteva che disobbedire.»26

Carotenuto nella vicenda di Frankestein e del Golem afferma ci siano due visioni, una freudiana, che ci vede riflesse le dinamiche del complesso di Edipo e una Junghiana, per cui si può leggere l’archetipo dell’allievo che si ribella al maestro. In ogni caso ciò che rimane è la forte rivendicazione del proprio libero arbitrio, la voglia di conquistare ad ogni costo la propria autonomia, di definire chi si è, che però ha come controparte il prezzo da pagare per la libertà: vedersela col mondo da soli, senza alcuna tutela. Ed essendo gli uomini mortali e fallibili, divenendo “le creature” anche su questo piano uguali, la storia non può che terminare in tragedia: «l’automa non arriverà mai alla completa autonomia. La sua resterà comunque un’esistenza mancata, come quella della maggior parte degli uomini.» È però inevitabile che il “figlio generato” provi a spezzare queste27 catene del genitore, perché, come ricorda Carotenuto, la nostra vita deve

Singer, Isaac Bashevis,

Aldo,

Il Golem, Salani Editore, Edizione digitale 2011, p.6025 Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.7926 Carotenuto,
L’ultima medusa: cit., Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.8027 117

essere una costruzione quanto più personale e modellata sul nostro modo di essere, non di quello altrui. Tantomeno in base all’influenza di un “falso” genitore.

5.2.2 Argilla

Per Carotenuto il possibile motivo per cui l’uomo fantastica (e ad oggi va anche oltre) su questa tracotanza divina di porre veto da inizio a fine su un’altra vita, creata da lui stesso, sta nel fatto che la Natura ci ha sempre messo a carico di proseguire la nostra specie tramite la generazione di nuovi individui, ma tenendoci all’oscuro della maggior parte delle fasi della formazione della vita. Parti che sono bene o male automatiche. Infondere il proprio io in qualcos’altro invece, pensare di avere il controllo su una creazione che nasce da zero, che ottiene una propria struttura funzionante e magari diviene senziente, senza l’intervento di processi naturali autonomi, è impossibile. C’è sempre un momento di oscurità dove l’uomo non mette mano, dove deve lasciare che i meccanismi ingranino da sé. La procreazione è umana, la creazione è divina, allora «l’uomo che pretende di creare un altro essere vivente (anche se sappiamo benissimo che l’intento vero è quello di creare un altro se stesso), al di fuori del meccanismo naturale della procreazione, invade la sfera della divinità, commette qualcosa di blasfemo e di sacrilego.»28

A proposito di religiosità, sacrilegio, autonomia, controllo e altri sé stessi, la storia di David Almond, Argilla, parla proprio di tutto questo. Ridotta all’osso, la trama tratta della venuta di un ragazzino di nome Stephen Rose nella comune e oziosa cittadina di Felling, il protagonista è un ragazzino, Davie, che ormai sta crescendo, assieme al suo amico Geordie svolge il ruolo di chierichetto in Chiesa, fuma di nascosto sigarette rubate, va a scuola e quando esce o passa del tempo a giocare nella natura o capita che faccia a botte con ragazzi di un’altra banda. Insomma rientra senza pudori o edulcorazioni nella normalità di un ragazzo inglese qualunque. Ma la sua realtà viene profondamente turbata dalla venuta di quest’altro giovane, di lui poco più grande, che per quanto (come dirà lui stesso) comune, ha alle spalle una storia familiare sofferente e difficile, il fatto poi che vada a abitare nella casa della zia, conosciuta come “Mary la matta”, o che abbia fatto un seminario per divenire prete da cui è stato cacciato, non aiuta. Si crea più che una relazione di amicizia, una morbosa vicinanza fra lui e Davie, che sempre di più viene attratto dal “potere” e

Ibidem28 118

dalla oscura e tormentata anima di Stephen Rose. Il rapporto però non porterà che a una tremenda rottura in quanto l’arte, innocua in apparenza, di cui è straordinariamente dotato Stephen, nel modellare l’argilla, non rivelerà dei tratti assimilabili a una magia ancestrale e perturbante che in risonanza con Davie (in cui risiede una certa potenzialità simile) gli permette di dare anima alle sue creazioni. Stephen e Davie creeranno infine assieme, come in trance, un Golem di nome Argilla, in cui inseriranno “il corpo e il sangue di Cristo” e prodotti della Natura per far sì che venga alla vita. L’evento scatenerà tutto ciò che di oscuro risiede nel carattere seducente e cangiante di Stephen, che arriverà a commettere un omicidio, la vittima sarà un bullo che terrorizzava sia Geordie che Davie. A seguito della morte di Mouldy, il bullo, Stephen e Davie si scontreranno fisicamente e il Golem, in cui risiedeva tanto l’anima di Davie come quella di Stephen, verrà “ucciso". Dopo aver vissuto quest’evento indelebile i due non si vedranno più, ma Davie ricorderà per sempre questa storia e si chiederà ogni tanto, anche da adulto, dove Stephen sia finito e che cose grandi, oscure e imperscrutabili abbia potuto commettere, un po’ a causa del dolore, un po’ per la sua natura che non sarà mai possibile capire completamente.

In questa storia dai tratti cupi e allo stesso tempo luminosi, fra profanazioni, lodi al divino o agli angeli, viene fuori il grande complesso umano nei confronti della propria creazione e a sua volta verso le sue di creazioni. Ovvero, in vari punti del libro, soprattutto durante le lezioni di Arte dello strambo professor Prat, si avvicina l’idea di Dio a quella dell’artista. Egli può essere simile al Creatore perché, per esempio come Stephen modellando l’argilla, genera e dà forma a qualcosa che prima non è mai stato niente. C’è infatti una riflessione che mette a confronto l’argilla come materiale simile alla carne umana, a differenza del legno per esempio, per il fatto che il legno non rivive ma piuttosto muore nella manipolazione dell’uomo, mentre le creazioni di Stephen, con quel fango prezioso a cui può donare il soffio vitale, divengono esseri davvero originati dal nulla. La differenza fra artista e Dio però è che uno può creare un’anima, l’altro no, quindi le donne come gli artisti rimangono comunque al limite delle possibilità della creazione. Dio tuttavia, quando ha creato noi, immagina Stephen, avrà fatto come lui molte prove. Come un artista avrà tentato e ritentato, producendo: «Stupide cose. Grosse e bitorzolute, senza anima» e quando poi ha funzionato, e ha visto la sua creatura29 animarsi, ha pensato “non può essere vero” .

Almond, David, Argilla, Milano, Salani Editore, 2010, p.6629 119

Stephen a sua volta si sente un Dio, o un mostro e lo è, perché è un prodigio, nel senso latino del termine monstrum, va oltre le potenzialità comuni. Il ragazzo afferma che ha sempre saputo di esser destinato a qualcosa di speciale, di unico. Il suo dilemma personale nasce dalla sua tragedia familiare, come lui stesso sottolinea discutendo con Davie, che invece non ha mai visto il male nel mondo. Stephen ci è nato dentro, ha bisogno di sentirsi un Dio, il proprio Dio. Lui era anni che si preparava, mentre è fuori questione che un ragazzo bravo e di buona famiglia come Davie possa sentirsi desideroso di essere uguale ad un dio. Stephen ne30 ha bisogno perché è profondamente cosciente della mancanza di questa presenza nel mondo. È quando l’uomo ha guardato Dio in faccia, dice, che è stato il disastro. «Dio ha visto la malizia negli occhi della sua creatura ed era turbato da quello che aveva fatto. Si è detto: “Forse ho creato un mostro.” » E dopo averci visto generare a nostra volta orrori su orrori da31 cui ha provato ad assolverci, alla fine se n’è andato, secondo Stephen circa nel 1945. Ha perso ogni speranza per le sue creature. Il che ci riporta di nuovo al dottor Frankenstein, che all’interno del libro, in via metaletteraria viene anche citato, Davie infatti vede il film alla tv.

Anche che cosa sia un mostro ci fa chiedere la storia di Almond, quand’è che lo si diventa. Stephen ne vorrebbe creare proprio uno, una cosa brutta, cattiva, senz’anima. Pensa di aver trovato il modo: «Forse è così che si32 crea un vero mostro, Davie. Trascinandolo avanti e indietro tra la vita e la morte. Facendolo soffrire, terrorizzandolo.» Ma Argilla invece è un33 mostro? Argilla in realtà, sebbene agisca solo in base agli ordini (per cui è un perfetto automa) che anela, non si muove né chiede altro se non gli viene ordinato. C’è del conflitto in lui, per esempio non riesce a uccidere Mouldy, ma ciò succede perché in lui risuona l’anima compassionevole di Davie. Se Stephen lo vuole controllare per percepire il potere di decidere in toto, l’unica cosa che fa Davie, nel momento in cui una notte ha la possibilità di essere a lungo solo con Argilla, è cercare di trovare la sua umanità. Davie gli mostra il mondo dove vive e cerca di insegnargli qualcosa, non vuole comandarlo, sebbene sia l’unica cosa che Argilla gli chiede. «Quelli siamo io e te.» Gli dice vedendo il loro riflesso in una

Almond, David, Argilla, Milano, Salani Editore, 2010, p.16730 Almond, David, Argilla, Milano, Salani Editore, 2010, p.16331 Almond, David, Argilla, Milano, Salani Editore, 2010, p.7232 Almond, David, Argilla, Milano, Salani Editore, 2010, p.19033 120

vetrina: «Siamo insieme nel mondo.» Nella sconsolata e caotica34 passeggiata notturna, i ruoli si invertono: mentre l’uomo di argilla chiede solo ordini, il suo creatore vorrebbe fargli percepire la vita e renderlo libero, ma egli non lo è.

Se Davie non vede il male, le costrizioni umane, e per questo crede nella libertà e forse nel fatto che Argilla un’anima ce l’abbia, Stephen ha vissuto tutto il male possibile e rispecchia ciò che Carotenuto stesso dice, anche riferendosi ad una infanzia non traumatica: «Quel bambino cresciuto che è l’adulto, non ha mai dimenticato che in tenera età il più rassicurante compagno di giochi e amico del cuore era un orsacchiotto di pezza o un burattino. Così, vagheggia da sempre l’automa o il robot: finalmente un "senza Io", al quale poter imporre il primo comandamento: "Non avrai altro Dio all’infuori di me”. Ma poi, proprio come una divinità che si rispetti, ci prende il gusto di infondergli anche l’anima, di farlo il più simile possibile a noi stessi. Ed è a questo punto che la storia si ripropone, anche se con i ruoli scambiati: noi a far la parte della divinità tradita e il robot a incarnare i panni di Adamo ed Èva.» Appare questo come un mettere un35 punto, disperato, sul nostro desiderio onnipotente di avere tutto in mano e sotto controllo, senza arrenderci all’idea che ci sia comunque qualcosa di più forte di noi, che non ci rende davvero completamente liberi e creatori senza limiti. Siamo sempre sottomessi ad altro. E se non è Dio è la Natura, e se non è lei è il Caso o ancora, forse è il Nulla, a cui torneremo.

5.2.3 Chi decide?

Come dicevamo a principio, la questione del mostro ribelle, automa o creatura che sia, non ha valenza solo nella creazione di un io autonomo che si scinde dal creatore. Vi si può leggere in queste vicende, come dice lo stesso Carotenuto, citando Jung, anche la tematica (l’archetipo) del doppio. Ovvero la storia di Frankenstein nel particolare, di cui la creatura porta il nome, può anche stare a significare una scissione di una parte del sé del dottore che inizia ad agire secondo una sua propria volontà (come l’Ombra del racconto di Andersen), senza che lo scienziato possa porvi più nessun controllo. Vale a dire che vi si potrebbe leggere un “complesso autonomo” che prende il sopravvento sull’io e che diviene sempre più presente e concreto, rispetto alla sua precedente appartenenza all’area

Almond, David, Argilla, Milano, Salani Editore, 2010, p.18234 Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012,35 p.145 121

inconscia e nascosta. Per cui la questione del libero arbitrio si ribalta, non si parla più di un “figlio” più o meno rinnegato che deve conquistarsi la sua libertà, dopo che ottiene una coscienza combattendo contro il “padre” Si parlerebbe invece della stessa medesima persona, ma non è, badiamo, per forza un complesso di personalità. Per questo Carotenuto usa il termine “complesso autonomo”, perché indica più che altro una parte che arriva dall’inconscio, spiegato tramite le parole di Jung: «non si tratta necessariamente di doppie personalità isteriche o di alterazioni schizofreniche della personalità, ma di semplici complessi nell’ambito della normalità. I complessi sono frammenti psichici, i quali devono la loro scissione a influssi traumatici o a certe tendenze incompatibili. I complessi […] interferiscono con l’intenzione della volontà e disturbano l’attività della coscienza; provocano disturbi della memoria e blocchi del processo di associazione; affiorano e scompaiono obbedendo a una propria legge; ossessionano temporaneamente la coscienza oppure influenzano in maniera inconscia l’azione. Si comportano quindi come esseri autonomi.» A quel punto dunque Frankenstein stesso non ha più36 scelta e controllo su quella parte di sé che adesso è fuori di senno, diremmo: non sa gestire ciò che non sapeva facesse parte di sé e che ora conosce.

La questione “autonomia” dunque, anche senza citare una storia con un vero e proprio automa all’interno, si esplica in maniera acuta e lapalissiana in un breve racconto fantascientifico di Ted Chiang: What's expected of us. Tale storia tratta dell’emergere di un complesso, ma non crediamo si possa definire come complesso solamente soggettivo, o meglio emerge (o non emerge) “alterando e ossessionando la coscienza” , ma non è dato dal vissuto del singolo, si tratta di una questione universale e che a questo punto tira le fila del discorso sulla libertà di azione. Libertà di controllare e decidere per sé o per qualcun altro, per me stesso e tutte le mie parti che mi compongono o per un essere a cui do la vita. Ma alla fine decidere per cosa, se forse non si sceglie neanche davvero?

In questa lotta senza pari che è la vita infatti, perché «gli dèi sono morti, le religioni sono tramontate e persino la tecnica, ultima paladina di una speranza di benessere, partorisce macchine ribelli» Chang finge un37 avvertimento dal futuro o presente prossimo, dove ci mette in guardia sull’uso di uno strumento, che inizialmente è quasi un gioco.

un piccolo

È
Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: cit., Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.8436 Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: cit., Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.14537 122

e semplice meccanismo, tale curioso strumento si chiama Predictor ed è composto da una luce led e un bottone. Fine. Lo strumento però, fa effettivamente qualcosa di stupefacente, si accende attimi prima che si decida di premere il bottone e «There's no way to fool a Predictor» Le38 persone che cercano di farlo ci provano e si affannano, cercano di tentare vari schemi, ma sostanzialmente impazziscono. Perché la luce del Predictor è un segnale “indietro nel tempo” e il fattore lampante che sconvolge tutti è che dimostra la dissoluzione del libero arbitrio. Dimostra l’esistenza di un futuro immutabile e già deciso, qualunque cosa si scelga. Di fronte a questa evidenza le persone capiscono che le loro scelte non hanno senso e in relazione alla libertà “fasulla” che pensavano di avere decidono semplicemente di non scegliere più. Cadendo così in uno stato catatonico e senza speranza. A nulla serve che ai malati i dottori spieghino che come hanno vissuto prima, con l’idea di avere in mano il loro destino, così non cambierebbe adesso se continuassero a vivere nella stessa maniera, ma le persone rispondono che c’è una differenza immensa che ha fatto perdere loro qualunque voglia di vivere, di scegliere, è che ora sanno.

Per questo il messaggio dell’uomo che ci scrive “ad un anno da ora” è una richiesta: di fingere di credere nel libero arbitrio. Fingere che le nostre proprie decisioni contino qualcosa. Non è importante la realtà in sé ma in cosa si crede. Ed è l’unica via per evitare la stasi o l’autodistruzione. Anche se forse è inutile il suo messaggio, afferma l’uomo dal futuro, sapendo che le persone che cadono in questo coma “sveglio” è inevitabile che lo facciano, ha comunque voluto avvertirci: perché non ha avuto scelta.

Chiang, Ted, “What's expected of us”, Nature Vol. 436, Luglio 2005, p.15038 123

Follia: sintomi di liberazione

Il tema o archetipo del folle, con tutto ciò che vi gravita attorno, non è certo di sola pertinenza del regno della narrazione fantastica o fantascientifica. Partendo da non troppo lontano: «Tutto il XX secolo è stato segnato, sul piano narrativo, dalla ricerca e acquisizione di nuovi parametri lessicali che rendessero comunicabile ciò che, per sua natura, è generalmente al di là dell’universo logico-discorsivo: il sogno, il flusso dei pensieri, l’allucinazione psichedelica, la follia e il delirio. Dal flusso di coscienza alla Proust, alla Joyce o alla Woolf, fino allo psichismo dichiarato di autori come Svevo o Pirandello […]» L’intento in questi casi, come spiega1 Carotenuto, era di “entrare nel vivo di un processo psichico”, cioè di rendere in via letteraria le esatte sensazioni di uno stato alterato, il continuum illogico del discorso di un folle, le idee o immagini causate da sostanze e droghe che modifichino la percezione sul mondo attorno. La scrittura fantascientifica secondo l’analisi dello psicologo, segue a questa evoluzione della scrittura nel tempo, conciliando razionalità e irrazionalità, per cercare di «rendere scientificamente credibile l’estraneamento psichico. Sogni nel cassetto e idee, confinate per secoli nel regno del fantastico, cominciano nuovamente ad apparire plausibili.» Tutto ciò è2 reso possibile data l’ispirazione a grandi mani dalle esperienze della mitologia, del romanzo naturalistico, dello “psichico letterario” e di tanti altri generi. Risulta così, la fantascienza, letteratura rappresentativa di quella che è la modernità, ma con un debito ingente nei rispetti della letteratura fantastica e non, e nelle sue varie declinazioni.

L'accesso privilegiato, se non unico, a questi altri mondi o sovra-mondi del fantastico e del fantascientifico, è generato da una visione “folle” o “del folle”. A volte questo sguardo è una dannazione, a volte una salvezza, ma in ogni caso è sempre un’epifania e mai un delirio fine a sé stesso. Se la pazzia però in ambito fantastico si inserisce per lo più con toni intimisti e porta fuori dilemmi individuali, che abbracciano la psiche del singolo, la follia in ambito fantascientifico tende a far emergere (e questo non esclude la prima dinamica a piè pari) temi interconnessi alla società in

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.92

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1 Ibidem2 125

cui si vive. Come Albertazzi ricorda, che il protagonista fantastico sia un3 ribelle, un disadattato o così via, la narrazione fantastica nasce sempre da un solo individuo, ovvero l’autore unico, che per quanto possa riproporre temi della tradizione o motivi della classicità, non crea mai, né riflette uno sforzo sociale e collettivo. «Insegna ad ascoltare, a vedere, a pensare e a vivere da soli», il che non è per forza un male, è una spinta allo sviluppo di4 un pensiero critico personale, non in linea a quello dominante, ma c’è una differenza contenutistica fra problemi collettivi e soggettivi. Ovviamente la suddetta discriminante non vuole essere assolutista, esistono eccezioni, ma la tendenza rimane questa.

Ciò che però si rivela punto di congiunzione fra folle fantastico e folle fantascientifico è da una parte il fatto che a livello di sviluppo delle storie l’emersione della follia appare praticamente sempre, che sia questa fattuale, apparente, un sotto-tema, c’è nella paventata pazzia di un individuo come in radicate insane espressioni di un intero mondo o società. È la fine e l’inizio che delimita la maggior parte delle storie di questi generi. Se la lettura di un romanzo permette, come i sogni, «di cominciare e terminare un libro con le tenebre», la lettura di queste pazze5 storie permette a noi lettori di mettere in dubbio la nostra monolitica e univoca visione sulle cose. È così che il nostro intelletto viene stuzzicato da idee che per quanto bizzarre dimostrano un loro rigore, una loro fattibilità, è così che ci si chiede se non sia almeno plausibile che una visione da folle possa essere preferibile alla normalità, date le molte verità che ci palesa.

6.1 Pazzie personali

Dato che la letteratura fantastica è narrazione delle famose “ cose senza nome e nomi senza cose” , è inevitabile che il lettore si trovi più volte nel leggere il testo a mettere in dubbio la sanità, non solo del personaggio, ma del narratore stesso, tanto l’oggetto fantastico supera la comprensione umana. Le storie fantastiche infatti pullulano di persone che sono

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.98:

«Per quanto riguarda la matrice simbolica collettiva della fantascienza, possiamo supporre che il controllo della soggettività e dell’emotività riduca l’emersione delle comuni nevrosi a carattere personale, favorendo invece la rappresentazione di temi archetipici sovrapersonali.

Albertazzi, Silvia (a cura di), Il punto su: La letteratura fantastica, Bari, Editori Laterza, 1993, p.48

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura

di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.134

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sospettate di pazzia, di eroi ormai folli, di emarginati misconosciuti dalla razionalità comune. Il fantastico è dunque narrazione dell’inaccessibile, è simbolo di un immaginario che si desidera violentemente ma che non si può raggiungere, se non a prezzo della propria sanità psichica. Rappresenta l’impossibilità di trovare parole esattamente adeguate per eventi e pensieri vissuti, racconta qualcosa di inenarrabile e una volta che il narratore o personaggio prova comunque ad esprimere nel logos la sua verità, sopraggiunge la marchiatura della pazzia. Perennemente6 inconciliabile e respinto dall’attaccamento al reale altrui, l’eroe fantastico abbraccia la sua insania.

«Spesso la follia attende l’uomo fantastico: una follia che può essere letta come esperienza conoscitiva [ ] o come fatale ineluttabilità tragica [ ].

In ogni caso sempre espressione dei limiti dell’umano si tratta.» I soggetti7 di tali storie oltre l’ordinario devono spesso, come dice Albertazzi, ricordare al lettore e agli altri personaggi che sono estremamente sani. Questo mentre incorrono in eventi ed esperienze fuori di senno. La posizione dell’eroe fantastico o fantascientifico che vede meglio “impazzendo”, implica il suo dover chiarire di continuo la propria affidabilità a noi lettori e a chi gli sta attorno. Proprio come quando trattavamo della serietà di queste ipotesi assurde chiamate storie fantastiche, “il pazzo” che vi è dentro è cosciente di questo suo ruolo in bilico: deve rimanere lucido nel mentre che è immerso in veri e propri deliri, li deve anche capire e saper raccontare., seppur “ cose senza nome ” . Il tutto senza apparire come uno squilibrato, oltre che a convincere gli altri si ritrova a dover persuadere perfino se stesso che non stia solo immaginando tutto.

Con questo, non è mai veramente detto che il soggetto narrante o il personaggio principale sia sempre e comunque sano e “presente” , oppure senza dubbio fuori di senno. L’ambiguità è il motore che dà il via alla storia fantastica, è ciò che ci inquieta anche in storie non terrorifiche o tragiche, ma siamo spinti a credere e ad immergerci in essa solo grazie alla verosimiglianza delle reazioni e dell’analisi che ci fornisce il personaggio (o il narratore) su ciò che vede, per quanto incredulo o scosso. Albertazzi cita infatti varie storie e autori, da Michail Bulgakov a William Golding, e di quest’ultimo si sofferma ad esempio su La Folgore Nera, dove non si comprende bene se il naufrago che racconta la storia possa sopravvivere o

Albertazzi, Silvia

Albertazzi, Silvia

cura di), Il punto

cura

La letteratura fantastica, Bari, Editori Laterza, 1993,

punto

Laterza,

(a
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p.586
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di), Il
su: cit., Bari, Editori
1993, p.297 127

essere sopravvissuto. Viene fuori solo alla fine che si tratti di un ufficiale di marina davvero annegato. L’autrice sottolinea come una simile confusione tra realtà e sogno, che è spesso sogno di morte, avvenga nel8 fantastico come emblema del perenne dubbio di esser o meno passati “dall’altra parte dello specchio”. Per lo specchio si allude ovviamente allo specchio di Alice, ad un passaggio verso un altro reale eccentrico, credibile nella sua metaforica verità. Sembra un elemento imprescindibile, quello di sfiorare o annegare nella pazzia dunque, un passo obbligato per potersi calare in quello specchio, pozzo o, come direbbe Jung, lago profondo.

Per scavare nell’eterogenea e multiforme realtà della psiche umana i personaggi utilizzano poi qualunque tipologia di sostanza, stratagemma, (macchinario o scoperta scientifica nella fantascienza) per finire in stati di semi-veglia o semi-vita, alterati, o in cui le proprie percezioni sono sovra-umane, il tutto per poter arrivare a forzare e rompere le barriere dell’esperienza comune. E se non sono oggetti o elementi vari a creare tali stati di esistenziale dubbio, possono essere le situazioni più disparate che spingono i limiti del raziocinio e li portano alla rottura. In ogni caso dalla fase di follia in cui il soggetto cade è impossibile che egli ne esca intatto, anzi, per lo più lo sconvolgimento lo condurrà ad un immutabile stato di pazzia o in un ancora più immutabile stato di morte. Che sia la follia una fuga dal tedio borghese, dalle imposizioni, dal potere precostituito o da una vuota idea di realtà, essa spalanca comunque vie tortuose, emozionanti e terrorifiche, che vengono tracciate nel limbo fra la perdita del sé o della vita stessa. Sono strade pericolose, che è però inevitabile percorrere se spinti da un desiderio di urgente liberazione. Sentimento onnipresente nelle storie fantastiche, su vari livelli, la narrazione individuale della storia fantastica è volta a esprimere il disorientamento umano e la mancata armonia che percepisce col creato, per cui non offre delle vere e proprie soluzioni ma almeno affronta il problema.9 Tendenzialmente gli eroi fantastici si astraggono dal reale o per proclamare la loro inutilità esistenziale o anche la loro superiorità rispetto ad un mondo che gli sta stretto.10

In una storia breve come quella contemporanea di Haruki Murakami, Ranocchio salva Tokyo, succede anche questo, c’è un percorso (rapido ma movimentato) che porta ad una liberazione, qui più per un sentimento di

Albertazzi, Silvia

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Albertazzi, Silvia

cura di), Il punto

cura di), Il punto

cura di), Il punto

cit., Bari, Editori Laterza, 1993, p.35

cit., Bari, Editori Laterza, 1993, p.51

cit.

Bari, Editori Laterza, 1993, pp.47-48

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ribellione che superbia. In che modo poi ciò avvenga, rimane in parte oscuro. Il senso di spaesamento del personaggio principale, come di chi legge è in effetti grande, dato ciò che si racconta, ma nonostante questo ci immergiamo nella storia, credendoci, con una facilità disarmante. Abbiamo un grande ranocchio che appare dal nulla e chiede aiuto ad un11 uomo piuttosto comune, che d’improvviso viene chiamato in causa per diventare un eroe per il bene della sua città. Deve salvare Tokyo da un immenso terremoto, potrà farlo solo aiutando il ranocchio a combattere il Gran Lombrico, che creerà questo sisma inevitabilmente il 18 febbraio alle 8.30 del mattino, con epicentro alla filiale di Shinjuko (luogo di lavoro di Katagiri, il protagonista). A termine del racconto non sarà ovvio cosa sia davvero successo, né dev’essere così. Non solo rispetto alla vicenda di Ranocchio in sé (che sparirà in un’esplosione raccapricciante di insetti), o sul perché Katagiri verso la conclusione finisca in ospedale, lui crede che gli abbiano sparato ma gli dicono che è lì per cause ancora oscure che gli hanno provocato uno svenimento. In generale proprio non ci è chiaro come evolva lo stato mentale del protagonista. L’unica cosa che forse rimane certa, fra le varie interpretazioni, è che ci sono alcuni punti cardine che sostengono la storia: che Katagiri sia arrivato ad un passo ulteriore nella sua vita è oggettivo, che poi lo abbia fatto in maniera sana, quello non lo sa probabilmente nemmeno lui. Una delle poche altre certezze percepibili è che abbia dimostrato l’atto di coraggio richiestogli da Ranocchio per sostenerlo, ha evitato il terremoto e simbolicamente è stato essenziale per dare una svolta alla sua stessa di esistenza, area in cui fin ora si era sentito totale inetto. Ha combattuto metaforicamente il male, che non è per forza è un male ancestrale e in lente fantasy solo oscuro e nocivo, ma “parte del gioco” della vita, come dice Ranocchio. Il Gran Lombrico è una delle tante forme dell’esistenza, che è necessario assuma le immagini più varie, anche ombrose, il problema del Gran Lombrico è che era divenuto così pericoloso che non poteva più essere ignorato.

Per quanto Ranocchio dica all’inizio di esser solo un ranocchio, in pelle ed ossa e di non essere una metafora, allegoria o altro, inevitabilmente leggiamo la storia in via simbolica. Uno dei temi è il senso di giustizia e sacrificio che Katagiri impersona proprio in quanto uomo comune, che elogia lo stesso Ranocchio. Lui, per quanto sminuito dal mondo e da se stesso, ha sacrificato la sua prospettiva di vita, di matrimonio, di carriera, per il bene di fratello e sorella, crescendoli da solo dalla morte dei genitori

Haruki, Murakami, Ranocchio salva Tokyo, Trebaseleghe (PD), 2020, p.9: «Forse lei penserà che io sia

un ranocchio con qualche rotella fuori posto. O crede di sognare a occhi aperti. Maio non sono pazzo, e lei non sta sognando. Si tratta di una questione molto seria.»

11
129

in poi. Neanche se ne è lamentato o si è mai arrabbiato. Ma ora le sue qualità possono fruttificare per un bene ancora maggiore, a dimostrazione che il suo esser parte del mondo qualcosa vale. Nulla importa che questo avvenga nel regno della fantasia o dell’immaginazione, che come dice Ranocchio è proprio il campo di battaglia di loro pertinenza. Anzi alla fine forse non importa neanche solo vincere a tutti i costi, perché come affermano le parole rubate a Hemingway: il valore che abbiamo è dato da come si perde. Non si deve aver paura di perdere. Ranocchio con Katagiri salva davvero Tokyo ma non uccide il Lombrico definitivamente, lo ha solo frammentato per ora, ed è stato inoltre gravemente ferito. Tanto che il simpatico ranocchio ritorna “al caos”, implodendo, ma non teme questa fine: «Il vero terrore è quello che gli uomini provano per la loro immaginazione.» Tra le plurime citazioni letterarie che ci sono in12 Ranocchio salva Tokyo fra l’altro c’è n’è una a Dostoevskij. Citazione che nel libro appare proprio nel momento in cui Ranocchio sta per sparire, e che vorremmo esplicitare a seguito, collegandoci prima a questo proposito ad un’ancora più breve racconto fantastico, scritto invece da Lidia Ravera, utile alla chiusura di questo tema. La storia parla dell’idea di Dio, dell’abbandono, del lutto, della morte. Tratta dell’affrontare tutto questo, alla fine non in maniera tanto distante da Katagiri, con un piede nel reale e l’altro nella fantasia, o qualcosa che di sicuro non è del mondo “diurno” .

La vicenda è così semplice e comune che ferisce a fondo proprio per quello. La madre anziana della protagonista muore, di una malattia degenerativa, le rimane il padre che però non è più molto presente a sé stesso. Ella ha un figlio e fa la sua comparsa anche “il padre di suo figlio” Non c’è altra famiglia da schierare, sono una piccola tribù a sua detta, che in più conta anche la nipote, la figlia di sua sorella (pure lei defunta, di cancro), che ha appunto perso i genitori da piccola. Ma fanno quel che possono per tenersi vicini, per funzionare.

In tutto ciò il delicato e intimo elemento fantastico che si fa strada in questa storia dimessa ma asciutta, sofferente, ma mai pietistica, è l’apparizione di Dio. Un Dio silenzioso, che presenzia e basta, a parte alcuni piccoli gesti di vicinanza e compassione. È proprio solo un inerme, dio zitto. E non è esattamente il Dio Cristiano, ha intanto un aspetto terribile, non glorioso, non tanto divino, dei vestiti slabbrati e sembra più un senzatetto. Lo accompagna un odore di «sottobosco impestato da un Haruki, Murakami, Ranocchio salva Tokyo, Trebaseleghe

2020, p.42

(PD),
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turibolo» o «foglie marce e incenso», a volte la protagonista sente prima13 14 l’odore di vederlo. Il dio zitto appare alla donna nel momento in cui ormai è passata in un’altra fase della sua vita. Nella notte agitata, le si rende visibile mentre è appesantita dalla coscienza che non ci sia più sua madre a interporsi simbolicamente fra lei e la morte, oltre alla perdita in sé che la fa soffrire, le appare ormai ovvio che è proprio lei la nuova figura di “solo genitore”, non c’è più nessuno a farle da scudo. Il resto del suo passato, sta appunto scorrendo oltre. La donna al vederlo, sa che questo dio è proprio “Dio” perché quando lo scorge non ha paura. È Dio perché di fronte alle sue domande sulla tragedia vissuta non riceve risposta, né alla fine pretende troppo che gliele dia. Solo non capisce perché sia lì, se tanto il suo ruolo celeste non è che di starsene fermo e causare dolore. Più volte la donna ripete a Dio questo, che non è necessario che lui le si palesi o che sia così tangibile mostrandosi a lei sola, tanto la donna come altre mille mila vite che esistono e sono solo “granelli di nulla”, non ha fede in lui.

Eppure Dio riappare, ancora e ancora. Ad un mese dalla scomparsa della madre Dio continua a comparire, imperterrito, in maniera ormai naturale. La donna non ha più voglia di trattarlo male, né si chiede se sia, più che una sua visione personale, un delirio o il sintomo di una pazzia imminente. Continua ad accettare quella presenza folle, come dal primo momento in cui è apparsa. Che sia immaginifica o meno, della sua vita ormai lui fa parte, se ne lascia accompagnare. Non ha senso opporvisi o cercare una ragione, una razionalità. «Quando sono molto stanca, quando ho l’impressione che la vita finisca piccola, con donne e uomini diventati minuscoli come in un cannocchiale rovesciato, gli parlo.»15

Direbbe Ranocchio: «Fedor Dostoevskij ha descritto con una dolcezza incomparabile gli uomini abbandonati da Dio. Nel paradosso dell’uomo che ha creato il suo Dio e da esso viene abbandonato, Dostoevskij ha trovato il vero valore dell’esistenza umana.»16

Ravera, Lidia, Il dio zitto, nottetempo, 2008, Roma,

Ravera, Lidia, Il dio zitto, nottetempo, 2008, Roma,

Ravera, Lidia, Il dio zitto, nottetempo, 2008, Roma,

Haruki, Murakami, Ranocchio salva Tokyo, Trebaseleghe (PD),

p.1713
p.1814
p.2015
2020, p.5116 131

Pazzie collettive

Come Carotenuto ricorda e come abbiamo spiegato per vie traverse, la fantascienza, date anche le ereditarietà letterarie da cui parte, ha dei presupposti che possiamo definire anti-naturalisti, cioè in essa le ragioni della natura vengono ricercate al di fuori della natura stessa. Il tentativo di cui si fa portavoce questo genere è di immaginare nuove collocazioni spazio-temporali per eventi e legami interpersonali fra individui. «I rapporti tra persone, le dinamiche relazionali e intergenerazionali assumono così volti continuamente nuovi, forgiati direttamente dal regno, mondo o universo che li ospita.»17

In questo contesto le storie dove la follia è affrontata non solo individualmente, ma come elemento che coinvolge la collettività, proprio per analizzare questi contesti inter-personali, sono plurime, ma quelle di Philip Dick svettano sicuramente. Ciò che spesso avviene è che ad un personaggio, come tanti altri nella fantascienza e non, si presenti un’epifania, egli vede qualcos’altro e si rompe. Metaforicamente ciò che succede lo possiamo spiegare tramite un altro racconto di Dick, dove vi è una società in cui senza saperlo le persone vengono assoggettate tramite degli allucinogeni, il protagonista di Dick qui si libera, assumendo quello che si rivelerà un anti-allucinogeno. Questi personaggi, queste persone,18 non agiscono più come ci si aspetta da loro, secondo la norma, proprio perché non possono più rientrarvi dopo un evento che limita la loro possibilità di tornare indietro. È così che si diviene un soggetto alieno, un folle che vive nello spazio fra l’epifania ricevuta e la realtà che ha conosciuto fin ora. I sintomi della sua follia non sono che la diretta espressione della sua liberazione.

Sebbene Philip Dick non abbia mai usato direttamente il termine “follia", anche perché la sua vita biografica è stata legata a problematiche di supposta vacillante sanità mentale, nei suoi romanzi è un tema ricorrente. A detta di Carotenuto, nella vita dello scrittore si trovano infatti episodi da manuale di psichiatria, fra i molti, la convinzione di esser perseguitato dalla CIA, tuttavia non gli venne diagnosticato mai nulla ufficialmente o19

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.92

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: Psicologia della fantascienza, Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.19:

si riferisce a La fede dei nostri padri (1967)

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: cit., Edizione Kindle, Bompiani, 2012, p.197

6.2
17
18 Carotenuto
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in maniera totalmente attendibile, nonostante eventi singolari e le ossessioni più o meno conosciute. In ogni caso i riferimenti e le20 riflessioni di Dick sulle diverse forme di follia (che non è un termine specifico psichiatrico o della psicologia) nel senso più scientifico della parola, si incentrano sulla schizofrenia, assieme alla paranoia. «Dick contesta che lo schizofrenico, come si afferma di solito, voglia evadere dal mondo reale per rifugiarsi in un mondo di fantasia. “La fatale comparsa, intorno ai diciannove anni, della schizofrenia, non è una fuga dalla realtà. Al contrario, è l’esplosione della realtà intorno a lui, la presenza e non l’assenza di una prossimità con essa” » afferma, anche in maniera evidentemente autobiografica. 21

Viene affrontata l’analisi di questo tema in relazione a Dick anche nell’antologia dickiana Philip K. Dick - la macchina della paranoia, dove sotto questo termine, oltre le precedenti notazioni, troviamo l’idea della visione dello schizofrenico come un più acuto modo di leggere la realtà. Suggerimento non certo nuovo in ambiente occidentale e infatti si porta in esempio L’idiota di Dostoevskij come idea di “innocenza rigenerante”, ma il punto per Dick in questa visione della schizofrenia è di cercare di andare oltre le “ mere cose ”, di puntare direttamente al significato (pare qui evidente il ritorno del nostro discorso sull’occhio estraneo). «La prima cosa che se ne va, nella malattia mentale, è ciò che è familiare. E quello che prende il suo posto è una brutta bestia, perché non solo non si riesce a capirlo, ma non si riesce neanche a comunicarlo agli altri. Il folle sperimenta qualcosa, ma cosa sia o da dove venga non lo sa.»22

Carotenuto, Aldo, L’ultima medusa: cit., Edizione Kindle, Bompiani, 2012, pp.9-10: «Dick si vantava20 del fatto che non esistesse psichiatra, psicoanalista o psicologo a cui lui non fosse capace di ingarbugliare i pensieri; e di fatto non esisteva test o colloquio clinico che non si concludesse sempre con la stessa diagnosi: "assolutamente normale". Ma non si trattava di un profano: aveva letto e studiato a fondo tutta l’opera di Freud e di Jung, anagrammato e disfatto tutti i test psicologici esistenti, ma soprattutto aveva passato al setaccio di una lucidissima autoanalisi tutte le esperienze della sua infanzia, al punto che, davanti a una domanda clinica, sapeva già dove sarebbe andata a parare e come rispondere. Giocava di anticipazione, calcolando persino gli errori, i lapsus o le associazioni che era più opportuno lasciarsi sfuggire di mano. Le sue libere associazioni erano le meno libere, eppure le più naturali del mondo. »

Gallo, Domenico; Caronia, Antonio; Philip K. Dick - la macchina della paranoia, Agenzia X, Truccazzano

(MI), 2006, pp.138-140, continua: «È evidente il riferimento autobiografico. In realtà la diagnosi di schizofrenia, che Dick dichiara a più riprese essergli stata fatta appunto intorno ai diciannove anni, è tutt’altro che certa, visto che altri psichiatri che visitarono Dick successivamente non si espressero in questi termini, anzi esclusero categoricamente che egli potesse essere classificato come psicotico. Lawrence Sutin affronta la questione della discussa “pazzia” di Dick e conclude che è impossibile arrivare a una conclusione del genere, anzi propende chiaramente per l’ipotesi contraria.»

Gallo, Domenico; Caronia, Antonio; Philip K. Dick cit, Agenzia X, Truccazzano (MI), 2006, p.143

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Ovviamente non si sta qui dicendo che la schizofrenia come la paranoia debbano esser visti come uno stato di superiore illuminazione o benessere a cui aspirare, sono patologie e necessitano di controllo e supporto adatti, ma Dick vi prende spunto più che altro per una messa in luce più favorevole di quelle intuizioni che solo in certi stati o visioni differenti dalla norma, si possono avere. In ambito di altri esempi letterari su questo argomento vorremmo dunque citare Follia per sette clan, sempre di Dick e assieme a lui di nuovo James Ballard. Di James Ballard si vorrebbe portare in esempio L’isola di cemento, romanzo in cui la follia si lega a doppio filo con l’alienazione e peculiarmente apre, nelle sue conclusioni, una via parallela anche se diversa, rispetto a quella che si ha con il romanzo di Dick Le due storie sono piuttosto differenti nella trama, eppure ciò che riconoscono i due protagonisti vale la pena poterlo mettere in relazione e analizzarlo assieme.

In Follia per sette clan abbiamo un intreccio principale (che segue il conosciuto modus operandi di Dick, cioè di collegare a fine le varie vicende inizialmente autonome) che in realtà è meno incisivo dell’ambientazione in sé, ma pare che Dick fra il ’63 e il ’64, quando scrisse il romanzo, fosse troppo oberato di lavoro per potersi occupare di un approfondimento maggiore del punto forte della storia. Il racconto tratta di una colonia terrestre su di una luna chiamata Alpha III L2, che è stata abbandonata dopo avervi costruito un ospedale psichiatrico. Da questa struttura però i pazienti sono ad un certo punto fuggiti e si è formata una vera e propria civiltà suddivisa in caste, che abitano ognuna uno specifico pezzo di territorio. Il fattore particolare che caratterizza queste caste è la loro provenienza proprio dall’ospedale psichiatrico. Esistono infatti diversi clan ognuno con una patologia diversa ed associata ad un personaggio famoso: i Mani, associati a disturbi maniacali e a Leonardo da Vinci, sono creativi ma sadici, iperattivi; i Para, paranoici, sono legati ad Adolf Hitler, sono diffidenti e si sentono perennemente perseguiti ma sono anche molto intelligenti e hanno spiccate abilità decisionali ed organizzative; poi abbiamo gli Os-Com, affetti da disturbo ossessivo compulsivo, versati nella numerologia; gli Skiz, schizofrenici, associati a Giovanna d’Arco, che vivono di perenni visioni alienanti e sono dei mistici; poi gli Eb, ebefrenia in questo caso, che sarebbe una variante della schizofrenia, essi prediligono i lavori manuali, e sono associati a Ghandi; ci sono inoltre i Dep, depressi, che vivono tutti in negativo e non agiscono, sono associati a Cotton Mather; infine abbiamo i Poli che invece sono legati alla figura di Amleto. In quel mondo nascono tutti Poli, ovvero in giovane età sono polimorfi, ancora elastici e entusiasti, si distinguono poi in una psicosi specifica che li farà rientrare in una o l’altra casta. Dunque in questo

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mondo, ricco di spunti, purtroppo Dick decise di non approfondire le interessanti interazioni che ci sarebbero potute essere, ma diresse la camera sul terrestre Chuck Rittersdorf (terrestre che scrive discorsi per i simulacri della Counter Intelligence Authority) e la sua quasi ex-moglie Mary (psicologa), entrambi coinvolti nell’evento sensazionale del primo contatto dopo venticinque anni di nulla fra la colonia lunare e la terra. Le vicende dei due fra le tortuosità del loro matrimonio in crisi si legheranno a quelle di Alpha. La Terra ha tentato questo contatto con la colonia per poter “ curare ” gli abitanti, Mary è coinvolta in quanto terapeuta scelta per parlare con i “pazienti”, al contempo a Chuck propongono di manovrare un simulacro da mandare su Alpha. Andando oltre gli eventi, molto rapidi e rocamboleschi, che si susseguono uno dopo l’altro coinvolgendo molti personaggi, nel finale sia Chuck che Mary fanno dei test psicologici per verificare se soffrano o meno di qualche psicosi. Ne viene fuori che Chuck è “ sano ”, mentre Mary affatto, sarebbe identificabile come Dep, e nelle vicende vissute nelle pagine è stata spinta ad agire da una forte aggressività verso suo marito, amplificata dalla malattia.

Qualche fatto rilevante, andando oltre l’occasione mancata di maggiore approfondimento sugli altri personaggi di Alpha III L2, c’è. Intanto nonostante il codice iperbolico e dai tratti grotteschi e comici con cui si racconta la storia, vi è una vena meno comica nel confronto fra “gli psicotici” e quella che dovrebbe essere la normalità. Di base i terrestri sono dubbiosi sul fatto che quella colonia possa davvero aver creato una cultura che gli appartiene, una società con dei valori. Mary, nel momento in cui si trova a confrontarsi con quegli abitanti, riporta con forza e decisione questa visione: «Temo che dovrò richiamare l’attenzione su un fatto che voi potreste reputare sgradevole. Voi siete, individualmente e collettivamente, dei malati di mente.» Al che però viene contestata dal Para,23 Baines, che le domanda: quid veritas? Qual’è la verità? Se anche fosse un fatto oggettivo che siano dei malati mentali, dal momento che sono stati lasciati a sé stessi per un decennio e sono però ancora lì, anche ben organizzati, non hanno ormai trovato se non la sanità un loro proprio adattamento? Gli abitanti di Alpha III L2 sono capaci di intrattenere rapporti interpersonali adeguati ed hanno persino fondato un Consiglio, con dei portavoce per ogni casta e per quanto si opponga Mary o l’idea dei terrestri, queste persone sanno effettivamente collaborare. La diffidenza e la paura più grande che provano è però di esser catturati dai terrestri per “essere trattati come un branco di animali” di nuovo.

Dick, Philip Kindred, Follia per sette clan, Ariccia (RM), Fanucci editore, 2017, p.15923 135

Un’altra vicenda significativa che dimostra che questi personaggi qualche evoluzione all’interno della società o individualmente l’abbiano avuta, risiede anche nel momento chiave in cui Baines (soggetto paranoico, sempre sulla propria difensiva, con un forte odio per i soggetti esterni da cui pensa di doversi difendere) si cura prima della salvezza della vita di una sua compagna, Annette, una Poli, che della sua. Fatto che lui stesso sente momento in cui è riuscito a percepire una liberazione. Ha sentito di esser libero dal solito peso e preoccupazione che lo appesantiscono giornalmente nei suo stessi rispetti. Non solo, a Chuck stesso viene messo sotto gli occhi, quando si chiede come farà in effetti a vivere in una luna popolata solo da psicotici, che il modo in cui ha vissuto il suo “normale” rapporto di matrimonio con Mary, tanto sano non sia mai stato. Fra crisi depressive se non suicide, istinti omicidi e tanto di più, Chuck ha già vissuto delle forti esperienze psicotiche senza rifletterci molto o porci attenzione. Lo stesso vale per Mary, che per niente si aspettava di soffrire di depressione: «Sai pensavo di essere del tutto diversa dai miei pazienti. Loro erano malati e io no. Adesso », al che Chuck le risponde: «Non c’è poi tanta differenza.» Dunque anche di fronte alla seguente24 affermazione di Mary, sul fatto che Chuck non possa sentirsi come si sente lei perché il suo test l’ha decretato normale, l’uomo conclude di nuovo in maniera arguta. Dopotutto nota che i risultati dei testi non trattano che di una differente gradazione di normalità, e vale per tutti. Lui stesso ha vissuto durante la storia momenti di vera e propria psicosi, eppure a fine, non viene che reputato nella norma.

Dunque se nel racconto di Dick, forse anche per il periodo in cui è stato scritto (dagli anni ’50 in poi si era aperto un ampio dibattito sul concetto di malattia mentale, sulla necessità o meno di chiudere “i matti”) era25 importante per l’autore suggerire un’integrazione e accettazione di quelli che sono squilibri a cui tutti un po’ tendiamo per diversi gradi, tramite Chuck e Mary che rimangono a vivere su Alpha III L2, nel racconto di Ballard la visione è più pessimistica. Ovvero James Ballard non rifiuta né scredita emarginati e folli, ma crea una storia dove ci mostra come il personaggio principale fino all’ultimo si crede diverso da loro, quando è ormai evidente che non c’è più differenza: siamo tutti impazziti, siamo tutti alienati, siamo tutti folli.

Dick, Philip Kindred, Follia per sette clan, Ariccia (RM), Fanucci editore, 2017, p.235

Dick, Philip Kindred, Follia per sette clan, Ariccia (RM), Fanucci editore, 2017, p.242

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La storia, come intreccio, è molto più semplice di quella di Dick. Robert Maitland vive una vita agiata e con un buon lavoro, ma per un banalissimo incidente di macchina rimane bloccato in un non-luogo moderno: un’isola di spartitraffico. Maitland è un londinese piuttosto comune, ma troppo abituato ad adagiarsi nella sua vita borghese, senza grandi intoppi. Forse non si renderà mai davvero conto che la barriera che lo distanzia da “dei reietti” come Proctor e Jane, che vivono in quel posto abbandonato, è fragile e non lo può salvare. Dal momento in cui avviene l’incidente Maitland fa di tutto per esser notato e chiamare i soccorsi, convinto che in ogni caso, se non ce la farà con i suoi sforzi, lo verrano sicuramente a cercare, ma il tempo passa e nessuno lo cerca, né lo nota. La tragedia di Maitland è la solitudine dell’uomo moderno che fra stress, ritmi sempre più sostenuti, veloci e superficialità, non si gira verso un uomo che chiede a gran voce aiuto. Fra coincidenze sfortunate per il luogo, le condizioni in cui si trova e il palese disinteresse dimostrato da parte degli automobilisti che gli sfrecciano attorno, Maitland viene condannato ad essere ignorato da persone che non si rivelano che una indistinta massa di sottofondo.

Maitland inoltre è un uomo arrogante, non cattivo di per sé, solo estremamente individualista, è il risultato del suo secolo, di una distopia che in realtà è più contemporanea che mai. Robert Maitland, per quanto scontento di ciò che ha e possiede, non ha mai pensato di poter davvero cadere e perdere tutto, soprattutto sé stesso. Perché Maitland dava tutto per dovuto e scontato. Fra deliri, momenti di tenerezza e perfino sadismo, quest’uomo da individuo che si vede perfettamente integrato si scontra con la triste verità che non lo è davvero nessuno. I modi di sopravvivere volgari e rozzi, a cui per quanto non voglia ammettere, si abitua e adegua anche velocemente, non gli vengono semplici solo per la necessità della situazione, ma anche perché non c’è proprio niente che lo differenzi o lo protegga dallo scivolare in una situazione di “degrado”, sia mentale che fisico. Lo status, il modo di vivere che poteva sostenere mentre dal suo punto di vista erano “gli ultimi” a vivere così, sono solo una questione di caso e fortuna: l’abbrutimento è inevitabile per chiunque in tali situazioni, e non è una colpa. Se nella sua vita precedente il maggior problema che poteva lamentare Maitland era una sorta di insofferenza e insoddisfazione esistenziale di fondo, si ritrova di punto in bianco completamente misero e senza scampo. E con quella sua miseria nessun buon cittadino vuole averci a che fare, come d’altro canto non avrebbe voluto lui, non può nulla con «i guidatori che consapevolmente lo ignoravano per un’immensa cospirazione spontanea» perché sono altri, precedenti, sé stesso.

26 Ballard, James Graham, L’isola di cemento, Milano, Feltrinelli Editore, 2007, p.1926 137

Il protagonista continua per tutto il libro a sentirsi superiore nei confronti del povero “matto” Proctor e della emarginata Jane, fino all’ultimo si vede diverso e sano ma dimostra sempre di più che non lo è. Per quanto ostenti diffidenza, la sua sanità mentale vacilla inesorabilmente fino a perdersi, però una verità in quel delirio l’afferra. Forse la prima della sua vita.

Maitland perde sì sé stesso, si vede scivolare in un baratro, come quando urla al nulla, premendosi forte i polsi grida il proprio nome e cognome , o27 quando qualche superficie riflettente, tipo il cofano della sua macchina, gli rende la propria figura e da quella visione terribile ed emaciata si estranea sempre di più, ma ha in tutto questo comunque una triste epifania. «Identificando l’isola con se stesso, contemplò le auto nello spiazzo dello sfasciacarrozze, il recinto di rete metallica e il cassone di cemento alle sue spalle. Fece dei gesti al loro indirizzo, le tentativo di compiere un circuito dell’isola che gli permettesse di lasciare i vari pezzi di sé al posto giusto: la gamba destra nel punto dell’incidente, le mani ferite impalate sulla recinzione. Il petto, poi, dove si era seduto, contro il muro di cemento. In ogni punto una piccola liturgia avrebbe significato un passaggio di impegno da verso se stesso a verso l’isola. Parlò ad alta voce, come un prete che celebri l’eucarestia del proprio corpo. “Io sono l’isola.” » Non solo Maitland, ma tutti sono ormai isola. Jane e Proctor sono la prova vivente di questo, maltrattati dal disinteresse altrui e da una vita difficile che non si sono scelti e per cui nessuno verrà mai loro in aiuto. È squilibrato chi viene lasciato indietro da un un mondo che va a mille e lascia spesso l’umanità da parte? Che altra scelta può avere un umano spezzato, lasciato solo, se non difendere quell’estraneità in cui si sente destinato a sopravvivere e che forse diviene anche la sua protezione.

In quello spartitraffico Maitland ci rimane per il delirio, per la mancata speranza, ma forse anche perché il mancato “sé stesso” lo può riconoscere solo là: nello specchio dell’uomo moderno che, ritrovatosi perso, in eterno progetta la sua fuga da un mondo che lo soffoca, lo sconvolge, lo ignora. Ma da cui non fuggirà mai.

6.3 Una visione ibrida

A seguito delle precedenti riflessioni sorge spontanea la domanda su chi sia il vero folle, o quale dovrebbe essere la visione adatta alla realtà, se perfino chi si pensa persona sana, “normale”, non lo è in fondo. E per

Ballard, James Graham, L’isola di cemento, Milano, Feltrinelli Editore, 2007, p.5727 138

quanto queste domande siano usate e ripetute, a volte ormai retoriche, continuano ad assillarci e a ritornare, esse permangono il focus su cui la lente di ingrandimento di fantastico e fantascientifico si posa. Forse non c’è proprio normalità che tenga, dovremmo piuttosto riferirci a vari gradi di pazzia, come nel romanzo di Dick. Detto ciò, questa tesi non punta ad essere una risposta definitiva ai suddetti quesiti, ma si interessa del fatto che, tramite queste narrazioni, è possibile intanto porli. Tutto ciò che è stato sostenuto nasce dalla spinta propositiva a sviluppare uno sguardo diverso, arricchente anche se allo stesso tempo aleatorio, con cui provare a decifrare il mondo. Tramite una maggiore coscienza di meccanismi quale il perturbante fantastico e l’estraniamento fantascientifico, possiamo evolvere quel famoso occhio estraneo, porta di accesso a riflessioni o esperienze magari prima trascurate. Torniamo dunque al nucleo della nostra tesi, torniamo all’inizio. Torniamo all’importanza del vedere le cose tramite uno sguardo folle o (erroneamente) giudicato infantile perché pregno di immaginazione e fantasia. Per evitare di soccombere sotto le regole stringenti del puro raziocinio, serve un serio gioco, serve muoversi nel mondo con sguardo lucidissimo e pazzo per vagliare le preziose ipotesi che, se stiamo attenti, ci offre la realtà stessa.

Nella nostra dissertazione teorica i legami in comune fra le aree del fantastico e del fantascientifico sono stati affrontati, ma adesso vorremmo citare qualche esempio narrativo emblematico. Nel limite dello spazio interno a questa tesi, dato che fin ora non ci siamo sbilanciati su altri media, rimaniamo sempre in area letteraria, nel particolare individuiamo due volumi che seppure nella loro targetizzazione di storie di fantascienza, contengono elementi predominanti del genere fantastico. È interessante infatti, che una delle caratteristiche principali dello scrittore fantastico che Albertazzi ha rilevato trattasse proprio della visione28 Ovvero, ritornando all’eredità della famosa tradizione gotica e ciò che Calvino indicava con «elemento spettacolo», il soggetto del racconto fantastico si chiede praticamente sempre: «Cosa sto vedendo?». È lì che si genera il conflitto, il dubbio, la straordinarietà e l’inquietudine. È lì che si mostra la capacità del narratore fantastico: nella concreta vividezza con cui rende l’irrazionale e l’indescrivibile.

Quello che viene fuori quando la visione o la percezione umana superano certi limiti è uno scorcio sul resto da ciò che l’uomo reputa concreto e reale, secondo le sue circoscritte abilità. Ovvero le tante “realtà” possibili abitano nello scarto fra ciò che egli può conoscere bene e quello che

Albertazzi, Silvia

cura

Il punto

...cit.,

(a
di),
su:
Bari, Editori Laterza, 1993, pp.6628 139

potrebbe conoscere o immaginare di poter conoscere se i suoi sensi, le sue abilità fossero amplificate o semplicemente diverse. Di questa visione di rottura di cui parliamo, che si ha nelle immaginifiche ipotesi di cui abbiamo parlato, la vorremmo identificare a chiusura del nostro discorso come una visione ibrida. Ibrida perché commistione di tutti i punti affrontati fin ora, perché inter-mezzo fra mondi fittizi, fatti e vicende assurde, miste ad un sentore di estrema realtà e vissuto quotidiano, e infine ibrida anche perché chiave di volta fra i due generi presi in esame.

Il primo volume di cui vogliamo parlare è una raccolta di storie brevi selezionate da Isaac Asimov e curata assieme ad uno psicologo, Charles Waugh. Nell’introduzione Asimov riflette su cosa sia la psicologia, a partire dal termine ψυχή (psukhḗ) che originariamente in greco andava a indicare il soffio vitale, il respiro, che è stato poi identificato con l’anima. È ciò che rimane e resta integro quando il corpo si ferisce, subisce un danno, è malato, morente, è il nucleo più interno. Senza pensarlo in maniera religiosa o spirituale, ad oggi non l’identifichiamo come una sostanza astratta ma l’associamo alla mente, per cui la psicologia tratta dello studio della mente: è qualcosa che tutti conoscono e allo stesso tempo, ne sanno pochissimo. Ovvero tutti possiedono, come dice Asimov, una conoscenza innata, ma non scientifica della mente, perché tutti abbiamo a che fare con noi stessi e gli altri, ma da un punto di vista tecnico dello studio del cervello, oltre ad essere scienza complicatissima anche per gli addetti ai lavori, rimangono zone oscure e ombrose, ciò accade soprattutto in psicologia. Da qui il binomio di scienza più e meno conosciuta allo stesso tempo. Dunque perché collegarla alla fantascienza, perché ci vediamo un nesso con ciò che pone le basi del pensiero fantastico? Al quesito risponde Asimov, ciò che dice ci suonerà a questo punto familiare e in linea all’analisi portata avanti fino ad ora sui generi di nostro interesse, anche se egli si riferisce in senso stretto alla fantascienza: «Gli scrittori di fantascienza non sono, nel loro insieme, migliori o più intelligenti degli altri autori, e non c’è ragione di attendersi da loro, presi individualmente, una più chiara comprensione della condizione umana. Però nella fantascienza, gli esseri umani vengono descritti nell’atto di far fronte a situazioni insolite, a società bizzarre, a problemi non consueti. Lo sforzo di immaginare le reazioni umane dinnanzi a simili accadimenti può gettar luce nelle tenebre in modo nuovo, permettendoci di vedere qualcosa che prima non era chiaro» 29

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29 Westlake,
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Editori Riuniti, Roma, 1985, p.12 140

Se l’effetto perturbante fantastico sta tutto nell’inquietudine e nel dubbio di quasi credere a ciò che viene raccontato, in questa accurata selezione di storie, tale sentimento è diffuso. È vero che il fantastico si definisce tale quando da una situazione di vissuto quotidiano irrompe un elemento anomalo e surreale, mentre in tutte queste storie invece siamo già, in linea con l’attitudine della fantascienza, in mondi, società o contesti altri. Ma l’elemento dell’ordinario misto al bizzarro si equilibra in maniera molto subdola e intrigante in alcune di esse, generando il dramma o la follia dell’uomo fantastico in contesti fantascientifici.

Ogni storia viene collegata ad un tema di trattamento psicologico, a fondo del libro vi è un commento dello stesso Waugh assieme ad Asimov, sui concetti trattati. Questi vanno dall’apprendimento, al linguaggio fino alla psicologia sociale. Fra le storie di interesse che possiamo rilevare come intrise di inquietudine fantastica, ci sono quelle dedicate allo sviluppo, all’apprendimento, alla percezione, alla sensazione e alla memoria. Vi sarebbero anche quelle sulla psicologia sociale e sulla terapia, ma forse possiedono un grado di intimismo minore. Cercheremo in ogni caso di rilevare i temi salienti, nonostante gli spunti di riflessione siano plurimi.

Per esempio nelle ultime due storie citate, una è Piloti di Edward W. Ludwig, (tema: psicologia sociale) tratta del trauma che un ragazzo, passato all’esame di patente, deve affrontare nel guidare queste jetmobili (chiamate Hornet) che permettono di fare centinaia di chilometri in pochissimo tempo, e con cui si spostano ormai tutti, ma con un’altissima percentuale di morti su strada. Inoltre l’idea che ce ne siano molti che le guidano per uccidere volontariamente, è socialmente accettata. Infatti guidare una Hornet è direttamente collegato al dover dimostrare di poter battere gli altri in velocità, anche se la si usa solo per andare a lavoro o a studiare. Il protagonista, Tom Rogers, dal terrore di fare la fine del nonno, che è morto in una di queste, passa a una fase opposta perché nella sua prima guida non solo riesce a difendersi da un attacco di un pirata stradale ma lo uccide indirettamente nel farlo. Dopo ciò vorrà guidare la jetmobile. Lo psicologo Waugh a riguardo spiega appunto, in base a come la psicologia sociale studia la maniera in cui gli individui influenzino gli altri, che il sottotema della storia tratta dell’aggressività umana e di come la si gestisce. Da una parte le jetmobili sono una sorta di modello sociale accettato per liberarsi di sentimenti ostili, ma non sono un’alternativa o uno sfogo innocuo, sono un incanalamento degli stessi, il che come dice lo psicologo «può farmi sentire meno arrabbiato, ma aumenta anche le probabilità che io ricorra allo stesso mezzo in futuro, per liberarmi dei miei

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sentimenti ostili.» Mentre nella storia con al centro il tema della terapia30 (A che servono gli amici?, John Brunner), si racconta del controllo egoista genitoriale nei confronti dell’idea di figlio. La coppia della storia più che vedere il loro Tim come una persona di per sé, (tra l’altro è anche figlio “modificato”, ovvero creato con tratti sia qualitativi, che di abilità mentali e fisiche, scelti a priori dai genitori) lo trattano come un oggetto o status symbol. Il bambino è bellissimo, forte e teoricamente con un QI più alto della media, non ha che otto anni. Ma è intrattabile e i genitori si svelano presto essere la causa principale del suo caos interiore ed esteriore, è palese nel fatto che pur avendolo “pre-costruito” egli non riesca neanche a leggere o far di calcolo, quando dovrebbe invece avere le potenzialità di una super-intelligenza. La situazione viene “risolta” da un seguente acquisto (o meglio affitto) di questa sorta di tutore, chiamato Amico, nella forma di un peloso alieno-automa verde umanoide, che sta dietro al povero Tim e con la pazienza e anche l’inflessibilità di un essere perfetto per il suo ruolo riesce a “raddrizzare” Tim in positivo. Ma il suo agire bene e non da bambino “discolo” non è che la completa realizzazione dei desideri dei genitori, che già da principio sono stati così vanitosi da aver voluto un figlio “ultimo modello” e non naturale, uno lo ha voluto per integrare la propria immagine di uomo di successo, l’altra invece si professa piena d’amore per il figlio ma in realtà sfrutta l’intrattabilità dello stesso per poter sfogare una gelosia repressa e rabbia nei confronti del marito. Ciò che a Tim infatti è stato insegnato dall’Amico Buddy, non è tanto il rispetto ma un senso di pietà nei confronti dei genitori e delle loro ambizioni, che a questo punto soddisfa.

Le altre tre storie citate, a tema di percezione, sensazione e memoria trattano alla fine tutte di personaggi che, anche se per vie diverse e in mondi differenti, percepiscono o vivono tramite le proprie abilità, sensi o macchinari qualcosa di più rispetto alla norma. Nel particolare abbiamo L’uomo che non sapeva dimenticare di Robert Silverberg, dove abbiamo un uomo che da quasi ormai trent’anni della sua vita non riesce a rapportarsi in maniera sana e positiva con le persone, perché queste stesse lo rifiutano, invece di essere ammirati, a causa della sua infinita e infallibile memoria. Egli affronta però un percorso che proprio facendolo tornare indietro fino a parlare di nuovo con la madre, da cui era fuggito, gli permetterà di fare pace col mondo, anche se “anomalo” : «L’oblio non è l’unico modo per superare un ricordo penoso. Spesso l’esperienza ci

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p.275

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E.; Silverberg, Robert, Hallucination Orbit
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permette di reinterpretarlo.» In Orbita di allucinazione di J.T. McIntosh31 invece abbiamo un personaggio isolato nella solitudine della sua stazione spaziale di pertinenza, che inizia a sperimentare uno stadio simile se non aderente a quello allucinatorio, che viene chiamato “solitosis”, secondo la teoria che sotto un numero di quaranta persone (fattore poi contestato dallo psicologo, che afferma basti la presenza di una sola persona in più) i soggetti umani inizino a creare delle proiezioni mentali di altri soggetti che agiscono e vivono attorno a loro per sentirsi meno soli. Solo che le percezioni avute sono particolarmente vivide e credibili, si percepisce la proiezione mentale al contatto e la si vede come reale. Il protagonista comunque è cosciente della sua propria malattia e trova e sperimenta vari stratagemmi per confutare ogni volta se ciò che vede sia o meno vero. Alla fine arriverà sul serio una persona reale in soccorso a lui, ma egli proietterà perfino su di lei, che esiste (ed è una dottoressa anziana), per esempio un’età ed un aspetto diversi. Qui viene mostrato quanto possa cambiare la percezione della realtà non solo da soggetto a soggetto, ma anche in mancanza di stimoli, ovvero se ce ne sono pochi o nulli dall’esterno il soggetto inizierà a crearli dall’interno. Inoltre sentire, ci dice Waugh è diverso dal percepire, sentire significa ricevere stimoli appunto, la percezione coinvolge un’attività di composizione di oggetti, azioni ed eventi che per noi abbiano un senso. «Ogni secondo, oltre diecimila stimoli si riversano sui nostri sensi. Noi selezioniamo di continuo quelli che riteniamo più importanti, in alcuni casi inconsciamente, in altri deliberatamente. [ ] ci creiamo un’immagine mentale di quella che riteniamo essere la realtà intorno a noi. Poiché questo processo è influenzato dalla nostra cultura e dalla nostra esperienza personale, in qualche misura noi percepiamo ciò che ci aspettiamo e desideriamo. Dunque la nostra “realtà” può non essere quella di un’altra persona.» A tale proposito segue a pennello l’altra storia di questa triade che abbiamo voluto sottolineare, che è legata invece alla sensazione, La macchina del suono di Roahl Dahl, autore che fra l’altro è molto conosciuto e spesso ricordato in ambito di narrativa e letteratura fantastica. In questo caso racconta una storia che ha al suo centro un’invenzione molto semplice, una macchina che permetta di ascoltare i suoni che per l’orecchio umano non esistono. Il protagonista crea quindi tale macchina del suono che gli permette di sentire i rumori emessi dalle piante e nel particolare li sente proprio nel momento in cui esse vengono uccise. Sebbene i suoni che sente, terribili e inquietanti perché non equiparabili a qualcosa di già

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Isaac;
Waugh, Charles
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cura di); Bixby, Jerome; Dahl, Roald;
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Hallucination Orbit -
La psicologia nella fantascienza, Editori
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ascoltato, gli diano l’idea di un suono comunque freddo, “senz’anima” , senza emozione, è comunque una sorta di grido. Sebbene non riesca a far sperimentare la stessa esperienza ad altri (proprio mentre lo fa, e per generare il suono colpisce un albero con un’accetta, un grosso ramo cade e distrugge il suo macchinario) e per questo di nuovo rientra allo sguardo altrui come “folle”, da quel momento si rapporterà nei confronti delle piante stesse con una certa apprensione e pietà, questo perché vi ha visto, anzi sentito, una qualità umana. Non è poi tanto differente dalla situazione affrontata qualche capitolo addietro dai militari che umanizzano i robot usati per il combattimento, nonostante non abbiano niente di umano. «Ogni tipo di organismo ha i propri limiti sensoriali. Gli esseri umani, per esempio, possono udire i suoni che vanno dai 20 cicli al secondo (cs) ai 20.000 cs, ma i cani sono in grado di percepire “ultrasuoni” fino ai 50.000 cs, i pipistrelli fino a 120.000 e i delfini fino a 150.000. Inoltre, se non possiamo sentire suoni inferiori ai 20 cs, li sperimentiamo come vibrazioni. […] di solito non pensiamo alle piante come a creature dotate di sensi, ma è ovvio che devono averli. Le foglie rispondono alla luce, le radici alla trazione gravitazionale e così via. Forse non conosciamo appieno la loro reattività.» Al che viene citato La vita32 segreta delle piante di Peter Tomkins e Christopher Bird, che esaminano le possibili sensazioni delle piante, anche in base a vari esperimenti, per esempio comprendenti l’esposizione alla musica, quindi a specifiche vibrazioni. Il racconto di Dahl porta dei fatti ad un’ipotesi estrema: «Lei obbietterà,» dice il suo scienziato «che una pianta di rose non ha un sistema nervoso con cui provare sensazioni, né una gola con cui gridare. Ha ragione. Non ce l’ha. Non come noi, almeno. Ma come fa a sapere, […] che una pianta di rose non provi altrettanto dolore, quando uno stelo viene reciso, di quel che proverebbe lei se qualcuno le tagliasse un polso con un paio di cesoie da giardino? Come fa a saperlo? È vivente no?»33

La più “perturbante” storia nella raccolta comunque, che citiamo per ultima, è probabilmente la prima: Che bella vita!, di Jerome Bixby. Tratta questa di una cittadina semplice e di campagna che però ha qualcosa di strano. Via via che il racconto scorre la sensazione è di tremenda stortura, rispetto a come gli abitanti agiscono e sul perché. Viene fuori, piano piano

Asimov, Isaac; Waugh, Charles G.; Greenberg, Martin H. (a cura di); Bixby, Jerome; Dahl, Roald;

Westlake, Donald E.; Silverberg, Robert, Hallucination Orbit - La psicologia nella fantascienza, Editori Riuniti, Roma, 1985, p.252

Asimov, Isaac; Waugh, Charles G.; Greenberg, Martin H. (a cura di); Bixby, Jerome; Dahl, Roald;

Westlake, Donald E.; Silverberg, Robert, Hallucination Orbit - La psicologia nella fantascienza, Editori Riuniti, Roma, 1985, p.46

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e a piccole dosi, come se venisse raccontato un terribile peccato nel tono più innocente possibile, che la ragione del modo bizzarro, teso e automatico, sempre spinto verso un’ostinata positività, di esprimersi e di vivere dei personaggi è limitato ad una sola persona, che è anche il soggetto del racconto. Un bambino di neanche dieci anni di nome Anthony, che è dotato di capacità paranormali che inizialmente sembrano limitarsi alla sola lettura del pensiero, ma si espandono poi all’influenza o controllo della mente delle persone, degli animali, finanche il tempo metereologico si scopre essere in sua balia. Sempre più stridente ed inquietante è la sua presenza, per il terrore e l’autocensura che inspira nelle persone attorno e nei suoi stessi genitori, Anthony non fa mai niente di visibilmente violento, anche le sue aggressioni psichiche non sono teatrali, ma dirette e rapide come delle pugnalate. A fine del racconto viene fuori che proprio il mondo che ci è stato raccontato, il sogno malato dove queste persone vivono, è probabilmente una realtà altra di Anthony stesso, che li ha rinchiusi nei suoi desideri egoisti di bambino da quando è nato. La loro cittadina è limitata nel nulla, è un altrove lontano dal mondo oppure tutto il mondo è stato eliminato eccetto quell’area di terra.

Anthony è un bambino e non distingue più di tanto il terrore che instilla nelle persone, la morte è un gioco per lui (ci viene presentato mentre tortura mentalmente un topolino a cui poi fa mangiare sé stesso). Anthony non è cattivo di per sé, però potendo sentire i pensieri e le intenzioni altrui, ha percepito fin da subito la paura e la seguente ipotesi di violenza nei suoi confronti da parte degli adulti che hanno assistito alle sue potenzialità. Il desiderio di far male a qualcuno, fisicamente, non gli va troppo giù (anche in maniera paradossale visto il trattamento riservato al topo), è per questo che quando percepisce che nel suo amato boschetto, dove gli piace andare perché le intenzioni e i desideri degli animali sono di semplice comprensione, che un animale stia per ucciderne un altro, lo spedisce lontano: «Non gli piacevano pensieri di questo genere. Gli ricordavano i pensieri esterni al boschetto. Tanto tempo fa alcune persone all’esterno avevano avuto dei pensieri analoghi nei suoi confronti, e una sera si erano nascoste e lo avevano atteso di ritorno dal boschetto. Lui le aveva semplicemente spedite tutte quante, col pensiero, nel campo.» Per34 cui gli abitanti si sono trovati a vivere in un mondo dove tutto dev’essere “buono” e devono cercare di adeguare non solo le proprie azioni ma anche i propri pensieri intrusivi all’universo del bambino, che capta ogni cosa.

Asimov, Isaac; Waugh, Charles G.; Greenberg, Martin H. (a cura di); Bixby, Jerome; Dahl, Roald;34 Westlake, Donald E.; Silverberg, Robert, Hallucination Orbit - La psicologia nella fantascienza, Editori Riuniti, Roma, 1985, p.21

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Non possono che cercare di censurare quel che pensano borbottando a bassa voce qualcosa di insensato per cercare di annullare le proprie intenzioni o pensieri genuini. Le ripercussioni di pensieri ostili nei suoi confronti sono probabilmente un annullamento del proprio sé. Un personaggio nella storia infatti oltrepassa “i limiti" e Anthony reagisce così: «col pensiero fece di Dan Holly qualcosa che nessuno avrebbe creduto possibile, e poi pensò quella cosa in una fossa profondissima, nel campo.» Non c’è modo di opporsi per gli abitanti se non stare a ciò che il35 bambino pensa sia giusto e quello che pensa sia sbagliato, forse solo con la sua crescita potrebbe cambiare qualcosa, ma non lo possiamo sapere: il racconto termina con una tetra immagine di tutti loro a borbottare e fissare una tv che non funziona, solo perché Anthony pensa sia un momento piacevole e di comunione.

6.3.1 “È l’occhio che conta”

“…e non la fantasia” direbbe paradossalmente un passaggio del libro che stiamo per trattare in chiusura. Esiste una piccola perla letteraria nella collana fantascientifica Urania, un racconto breve di un autore nato nel 1896 a Nemours, in Algeria. Sul retro del libro si legge: «Questa è una storia strana anche per una rivista come Urania, che di storie strane ne ha pubblicate tante. Ne è autore uno scrittore francese morto nel 1963, che visse a Parigi, solo e ignorato, senza mai leggere un libro di fantascienza. I suoi maestri furono Kant e Valéry, e si sa che ebbe una predilezione per Pirandello, ma che la sua opera, rimasta del resto sempre ai margini della fama, fu soprattutto influenzata dal surrealismo.» Il racconto si chiama L’occhio del purgatorio, e oltre a porsi, come altri, bene in mezzo tra fantastico e fantascientifico, si crea una sua spiccata identità. Spitz stesso definiva i suoi romanzi “fantastici", in mancanza di altri termini.36 Spitz era narratore “non mimetico”: creava trame di tipo para-scientifico portate sino a conseguenze estreme, vi imprimeva un’ironia amara mista ad un profondo scetticismo per il mondo, ma «con un moralismo di fondo

Asimov, Isaac; Waugh, Charles G.; Greenberg, Martin H. (a cura di); Bixby, Jerome; Dahl, Roald;35 Westlake, Donald E.; Silverberg, Robert, Hallucination Orbit - La psicologia nella fantascienza, Editori Riuniti, Roma, 1985, p.33

“Jacques Spitz, un proflo” su http://blog.librimondadori.it/blogs/urania/2011/10/09/6928/: «dal36 1935 al 1945, pubblicherà nove romanzi (otto editi, uno stampato ma non distribuito) che egli definirà “fantastici” non essendovi in fondo altro aggettivo per indicarli, rimanendo il termine science fiction ancora ignoto nella Francia (e nell’Europa) dell’epoca. In genere essi partono tutti da uno spunto scientifico o pseudo-scientifico per poi proseguire per la tangente dell’ironia amara e della critica di costume.»

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che, pur se coniugato con la poesia, fustiga i costumi di un’umanità di cui l’ingegnere-scrittore non si sentiva poi molto partecipe.» Se quello che37 viene scritto in suo ricordo è vero, da parte di Bernard Eschasseriaux, Spitz voleva nelle sue più alte ambizioni: «crearsi un’anima con l’aiuto dei sogni che seguono qualche istante d’illusione» e «cancellare la differenza tra la vita e la morte.» Questo spiega il nucleo del racconto di Spitz. Quando38 trattiamo di queste tipologie di narrazioni, le possibilità sono infinite, possiamo continuare a cercare in molteplici, immaginifici modi il senso di ciò che ci circonda, per arrivare non per forza ad una risoluzione totale, ma ad una qualche nuova scoperta inter-personale. E Spitz la sua l’ha trovata. In questo libro la storia riguarda le vicende di un artista bhoemién piuttosto egocentrico, cinico, misogino e misantropo, che non sente più nessun vero interesse per quello che gli riserba la vita, si chiama Jean Poldonski e sta, fra le tante, progettando di suicidarsi, vaglia vari e diversi modi e lo annuncia di fronte agli altri come stesse parlando di andare a fare la spesa. Lo humor nero di Spitz si fa sentire pungente qui e nei39 modi in cui Jean esprime l’inaridirsi del suo genio artistico, collegato al suo disinteresse e sprezzante atteggiamento per ciò che lo circonda. In maniera secca si esprime il lamento dell’artista: «Smetto di lavorare. Sono rimasto tutto il giorno in casa, a non pensare a non fare niente. Hanno suonato due volte. Non ho aperto. Nessun contatto umano. Mi rendo asettico.» Però Poldonski alla fine non si uccide, non lo fa perché40 incontra uno strano signore, Dagerlöff, che gli parla di viaggi nel tempo, nello spazio, ma nel particolare di un viaggio, un viaggio nella causalità. Un’idea ed un discorso i suoi, per cui Jean lo bolla come pazzo e lo crede una sola seccatura, ma come gli dice lo scienziato, anche dubitando della sua sanità mentale Jean rimane un artista, e cosa fa un artista se non tentare altri approcci alla realtà sottraendosi dal quotidiano?

Ibidem

Ibidem: «Lo scrittore, ricorda Claude Elsen, considerava con distacco la sua attività letteraria,38 e divertissement i suoi “romanzi fantastici” al punto che, in occasione di una tavola rotonda alla radio nel 1954 con Ray Bradbury e altri specialisti francesi, il suo “scetticismo beffardo”, che non raggiungeva comunque il cinismo, lasciò perplessi gli interlocutori al punto da farli reagire più di una volta ai suoi interventi. Era questo l’atteggiamento di Jacques Spitz nei confronti della società e del mondo: uomo solo (non si sposò mai), amante delle passeggiate notturne e della natura, consapevole dei valori relativi delle attività umane, profondamente modesto,

Spitz Jacques, L’occhio del purgatorio, Cles, Arnoldo Mondadori Editore, 1985, p.30: «“Buonasera ho

molta fretta.

andare

morire?

ammazzo domani mattina

Spitz Jacques, L’occhio del purgatorio, Cles, Arnoldo Mondadori Editore, 1985, p.23

37
[ ]»
39
” ”Di
a
” “Sì mi
” »
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Dunque senza che se lo aspetti, Jean diviene inconsapevolmente la cavia dell’esperimento di Dagerlöff sul viaggio della causalità, un esperimento che dovrebbe creare uno sfasamento, come poi accade. Dagerlöff alleva un “parabacillo” estratto da un animale (lepre siberiana) secondo l’idea che il tempo degli animali sia lievemente anticipato a quello degli uomini, appesantiti da sensi più limitati. Il parabacillo è quindi in grado di anticipare il tempo, ed egli lo rende attivo in un medicinale che somministra a Jean perché agisca sul suo nervo ottico. L’artista inizierà a vedere non tanto il futuro, ma il presente che invecchia, in maniera progressiva sempre più velocemente. Il fatto è che Jean non viaggerà mai davvero, rimarrà (sempre più immobile) spettatore di un mondo che se prima disprezzava, perché considerava non così entusiasmante o interessante, adesso gli muore di fronte.

Ogni cosa che vede Jean infatti è via, via più decrepita e trapassata. Inizialmente si tratta del cibo, che vede già mangiato, rancido, o della natura, alberi perennemente spogli e nuvole disciolte, degli oggetti, che appaiono usurati e marci. Ma soprattutto cambierà la sua visione sulle persone, da invecchiate diverranno mummie, fino ad essere sinistri scheletri semoventi. Non può che vedere le persone come sono davvero in foto… prima che si degradino anche quelle. Tutto ciò mentre la “ vera ” realtà attorno a lui, quella tangibile e concreta, non cambia per niente, continua a seguire le regole causa-effetto. Quindi gli altri, che non vedono ciò a cui sta assistendo lui, gli parlano e ci si rapportano come se niente fosse, aspettandosi il solito Jean, ma l’artista ad un certo punto non vede che dei morti viventi, perché guarda le cose dove sono ma nelle vesti di come saranno (o non saranno più) molto più tardi. A questo punto per41 Jean non c’è più davvero niente di godibile nella visione della vita, è tutto sfaldato e orribile, repulsivo. Si concretizza quel suo sentimento arcigno di odio per il mondo in maniera concreta, ma adesso non l’odia più, ne ha nostalgia. Arriva persino il momento in cui assiste alla sua propria morte, guardandosi allo specchio, mentre è in realtà ancora vivo. Si osserva mentre il suo riflesso gli rende una visione chiara dei suoi occhi vitrei che perdono la vita e gli rispondono con un vacuo sguardo fisso, immobile. Eppure è vivo. Vede tutto ciò che non gli sarebbe potuto mai esser concesso di vedere, è in un Purgatorio nel limbo fra dono e dannazione.

“Jacques Spitz, un proflo” su http://blog.librimondadori.it/blogs/urania/2011/10/09/6928/:41 «Poldonski sembra essere entrato nel “mondo delle idee” di platoniana memoria, o – se vogliamo –nella “realtà virtuale” che i computer riescono ormai a creare per noi con grande facilità. E’ stata finalmente raggiunta la “cosa in sé” – la forma essenziale delle cose, il noumeno – teorizzata da Kant e poi dai filosofi idealisti tedeschi.»

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Solo che fuori dal rapporto causa effetto, il tempo scorre veloce: «Ho l’impressione che adesso le cose evolvano più in fretta ancora di un tempo. Per le strade, intere case, palazzi scompaiono, la torre Eiffel è ridotta a un'ombra, l'Opéra mi appare solo come una nuvola di cenere (brucerà ancora in un avvenire non lontano?) mentre l'obelisco della Concorde resiste bene. È chiaro che la pietra del deserto ha visto ben altro. Ieri sera, mentre passeggiavo, ho assistito a uno spettacolo che mi ha sbalordito: alcuni scheletri sospesi miracolosamente a mezz'aria attraversavano la Senna, nel vuoto. Mi ci volle qualche minuto prima di capire che erano gli accademici che tornavano a casa dopo la riunione settimanale, passando sulla passerella del Pont des Arts, che nell'epoca raggiunta dal mio sguardo non era altro che un ricordo. Ricordati che sei polvere e polvere ritornerai. Non è il, caso di ricordarmelo perché lo verifico in ogni momento.»42

Curioso che i libri fra le tante cose siano quelli che resistono meglio, più a lungo degli esseri umani pare. Il problema è che le cose si fanno sempre più intangibili, non riesce presto più a muoversi senza pericolo nello spazio del mondo e i suoi già traballanti legami vengono meno, perfino Armande, l’unica donna, sua compagna, che per qualche motivo lo ama molto oltre la sua intrattabilità, se ne allontana. Più avanti nel racconto, tuttavia incontrerà di nuovo il suo salvatore e causa di distruzione, Dagerlöff, il quale ha fatto uso lui stesso del parabacillo, e viene fuori una conversazione interessante, riguardo le forme. Che ancora Jean non vede, non sono angeli, sono appunto, solo effimere forme. Dopo che il suo sguardo arriva ad avere un secolo di anticipo ed è solo, davvero perché non vede più niente di vivente, è cosciente che la carne è completamente sparita e con lei nessun altro sguardo umano gli verrà più incontro, in questo universo di polvere iniziano ad apparire anche a lui, le forme bianche. Anzi bianchissime e quasi trasparenti, che passano, corrono, si fermano e ripartono. Hanno contorni umani e volteggiano senza badare a niente attorno, non influiscono sullo spazio. In queste scorge appena i tratti di volti umani. Le forme come appaiono, svaniscono e sembrano indaffarate, ma fra loro non parlano. Si convince che non possano essere ombre di morti, ma possano essere solo l’unica cosa che può rimanere oltre noi, in maniera immateriale: le idee. Però perché hanno un volto?

Una notte scorge ai piedi del suo letto una forma in particolare, in cui rivede il volto di Armande, o meglio ci vede i lineamenti sì, ma più nello specifico ci riconosce lei perché in quella faccia vi corrispondeva la sua

Spitz Jacques, L’occhio del purgatorio, Cles, Arnoldo Mondadori Editore, 1985, p.7742 149

abitudine di «prendere per sé sempre il coltello che non tagliava. Questo era l'elemento distintivo, segnaletico della sua fisionomia. Si sarebbe detto che l’emozione che un tempo provavo davanti a quella prova di delicatezza, adesso si concretizzasse nella faccia, per permettermi di identificarla, per dare vita ed espressione all'ombra bianca del fantasma.» Così le forme si fanno sempre più presenti e attorniano la43 sua vita sempre più vuota, sono come un brusco volo di stelle, sono le idee che si scambiano nel giro di un attimo nel mondo, è l’universo fatto di passioni, di sentimenti, di pensieri, ambizioni e tutti gli amori e sorrisi. Jean rivede le idee dei suoi cari, famiglia, amici e amanti, capisce che i tratti e le espressioni che vede sono quelle che, causate dai pensieri altrui, si imprimono su queste forme. Sono come dei supporti dice. Nella superbia di uomo solo, capisce che se avesse amato e vissuto di più in quel momento almeno avrebbe riconosciuto più volti. C’è una forma poi che gli appare più volte, con una voglia dietro l’orecchio, che gli risulta familiare, ma non sa chi sia.

Arrivato diciamo all’anno di visione circa 4000 o 5000 d.C., non c’è più davvero nulla, anche le forme iniziano a sbiadire, gli scheletri e le cose si sono polverizzati e persino le idee dunque ora lo abbandonano. Lo lascia anche la visione dell’acqua e prende ad impallidire pure il sole, inizia a intravedere le stelle in cielo anche di giorno, si chiede come non farà ad avere le vertigini quando anche la Terra forse gli sparirà sotto ai piedi, dato che ad un certo punto perfino le costellazioni mutano. In tutto ciò le forme ormai avvizzite e pallide, si rimpiccioliscono, stanno sparendo del tutto, ma una, quella con la voglia, ancora particolarmente vivace, sembra volergli male. Pare portargli sfortuna e un giorno di nuovo gli si palesa da più vicino, nota che resiste molto bene perché conserva almeno una propria fisionomia rispetto alle altre e lo guarda, senza guardarlo davvero s’intende. Allora passandosi una mano dietro il collo comprende, sentendo un leggero gonfiore: è proprio lui. O meglio è lui, Jean, come lo hanno visto gli altri. Ed è proprio l’unico Jean che può sopravvivere: «colui che credevo di essere, l’io geniale era solo un'illusione; l'io come l'hanno fatto gli altri, come lo leggono gli altri è il solo vero e duraturo… Adesso capisco, capisco tutto: sto per morire e la mia anima è qui che mi aspetta sulla soglia dell’eternità.»

Se quello che dice Le Guin sul ricordarsi i nomi è vero, vedremo se passato del tempo sarà ricordato ancora il nome di Jean, ma di sicuro non svanirà il suo spirituale ma concreto momento in cui si congiunge più che alla sua

Spitz Jacques, L’occhio del purgatorio, Cles, Arnoldo Mondadori Editore, 1985, p.95

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anima, all’idea di sé che gli sopravviverà. Vivrà a quel modo negli occhi forse più sereni dei suoi compagni di storia o di noi lettori.

Concludiamo dunque, con la citazione usata a titolo di questo sottoparagrafo. Essa viene presa da un momento in cui Poldonski cerca di dare una svolta alla sua arte dipingendo la realtà per come la vede, una volta entrato in questo suo Purgatorio personale. Gli viene quindi criticato di esser troppo surreale: «È l’occhio che conta, non la fantasia», eppure lui dipinge solo ciò che vede

Vince sempre l’idea, per quanto folle, e la cattura dalla realtà proprio l’occhio, per quanto folle.

151

Conclusioni… pratiche

Il fulcro di questa tesi è stato cercare di valorizzare la dignità e le preziose intuizioni di due generi, che sono stati affrontati qui prettamente in ambito letterario per permettere un maggiore focus sulle loro strutture, origini e caratteristiche interne, ma che in realtà abbracciano quanti più media possibili e uno di questi è di certo il fumetto. Quest’ultimo viene a chiusura della nostra dissertazione tirato in ballo, perché è la scelta formale su cui è ricaduto invece il progetto pratico di tesi. Chiamare il lavoro in cui si è cercato di coadiuvare le lezioni imparate dallo studio più approfondito di fantastico e fantascienza effettivamente “un fumetto” , crea un po’ di esitazione. Questo perché è stata la prima vera e propria esperienza col genere nel ruolo di disegnatrice e non di avida lettrice. Si è cercato in ogni caso di rendere degnamente l’uso di questo media, utilizzandolo come espressione pratica di quel linguaggio che Le Guin dice essere universale, che è la fantasia.

Il progetto parte infatti dall’aver riesumato una brevissima serie di racconti scritti nel 2018 per un esame di scrittura creativa. I racconti si ponevano piuttosto a metà fra i nostri sopracitati generi e di base trattavano del materiale che umanamente ci è più caro: le persone. Persone o personaggi innanzitutto cari a me, perché nati da incontri e vicende vissute o osservate, scriverli era stato “un serio” gioco fra archetipi e anime singole che però non era ancora maturo. Per cui i soggetti sono stati ripresi, rimodellati e cambiati, è stata aggiunta anche qualche nuova anima, ma i termini entro cui si muovevano, il mondo, è comunque lo stesso. Solo si presenta in una nuova forma, di più ampio gioco fra testo e immagine.

In questo fumetto, confermiamolo così dunque, che ho titolato Lo spazio chiaro, gli scorci sui personaggi che vengono presentati si ambientano in un universo in cui i loro tratti caratteriali, psicologici o di vissuto personale, si esplicano secondo delle dinamiche fantastiche. Si è dunque provato a rendere quegli elementi di stortura, singolari, intimi e tanto umani, che nella vita esistono in maniera non materica, in una dimensione invece fisica, visibile. Questi elementi e tratti vengono accettati come fattuali però, se c’è del dubbio, o del sentimento perturbante addirittura, non deriva dalla questione se esista o meno quel che accade, se lo si veda come reale o come sogno, ma eventualmente su

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cosa significhi o il perché succeda di per sé. Infatti in questa piccola raccolta non c’è una trama fitta di episodi, o grandi colpi di scena, il punto su cui gira attorno è l’osservazione. Forse più lenta, criptica o meno entusiasmante che una storia di azione, ma autentica e giusta tappa per il percorso di crescita personale di vita e di studi, di cui questa tesi si conferma tappa essenziale.

L’idea che avvalora lo sviluppo di queste piccole storie, o meglio potremmo dire ritratti, è stata quella che spiega bene Le Guin quando parla del ruolo di chi fa arte. L’artista «più lontano va dentro di sé, più vicino arriva all’altro.» Più scava, si inoltra a fondo, più facilmente arriva alle sponde1 altrui, tanto più se è esperienza solitaria e anche dolorosa, è così che si rivela efficace, per poter poi comunicare ciò che si è trovato. «Il modo di fare dell’arte non è di andare alla deriva, lontano da alle emozioni, dai sensi, dal corpo, ecc., e navigare verso il vuoto del puro significare, né accecare l’occhio della mente e sguazzare nell’irrazionale e amorale assenza di significato, ma tenere aperti i collegamenti esili, difficili e fondamentali tra i due estremi.»2

Dunque non si è sicuri di aver compiuto tutto questo, ma il personaggio principale e narratore de Lo spazio chiaro, tenta di fare certo qualche collegamento, nel suo piccolo. Creare delle connessioni, gestire le fila di un mondo difficile a partire da chi lo abita e gli è più simile. Per trovare un senso in ciò che vive, ricerca le sue risposte nelle vicine o lontane e svariate forme che possono avere le persone. Tutte, inequivocabilmente, bizzarre e interessanti nella loro pazza, singola, unicità.

Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura

di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.69

1
Ibidem2 154

Ringraziamenti

Per quanto verbosa io possa essere nella scrittura è peculiare che i ringraziamenti a questo turno siano così essenziali, ma più che nominare le persone ad una ad una, vorrei citare quello che mi hanno trasmesso e il risultato che il loro essere presenti ha avuto su di me. Dunque intanto un primo grazie generale a capo di una lunga serie. Nel lavoro che ho fatto, nelle ipotesi studiate, nei disegni e nelle facce e nelle emozioni che ho cercato di creare c’è un senso di voi, che mi avete conosciuta. Ho cercato di rendere tutto ciò nella maniera più sincera e onesta. Fra alti e bassi, gioie e dolori, senza l’esperienza del vostro vivere con me per il tempo di un attimo o di anni, non avrei avuto tracce da raccontare, segni da svelare, verità su cui riflettere. Grazie di esservi scontrati o incontrati con me.

Fra le preziose persone che mi hanno supportato in questo lungo viaggio accademico, voglio innanzitutto ringraziare la mia famiglia e fra loro un immenso grazie a chi non può più ricevere le mie parole, ma il cui affetto e fiducia sono stati essenziali per perseguire quello che più mi riusciva meglio e più mi rendeva felice. Vi tengo tutti vicini al cuore, grazie.

Grazie ai miei amici, tanti davvero, da tutti i luoghi e tempi vissuti nello spazio di venticinque anni. Da quelli che ancora incredibilmente mi vogliono bene sin dall’infanzia a chi mi conosce da tempi più recenti eppure mi ha accolto con altrettanto affetto, da Firenze a Bologna, da dovunque ci siamo trovati o continuiamo e continueremo a trovarci. Grazie.

Grazie ai miei professori e relatori di questa tesi, che hanno sostenuto e incoraggiato le mie idee dalla loro fase germinale fino allo sviluppo di un progetto completo. Grazie di avermi fatto luce verso un risultato concreto e personale. Aggiungo un grazie dunque anche ad un altro validissimo aiuto esterno, che porta fatalmente il nome del relatore di questa tesi teorica, ma non è un suo doppelgänger (almeno da quanto è in mio sapere!), e tanto mi ha aiutato con le fonti fantascientifiche in cui mi sono inoltrata.

A tutti voi quindi un ultimo, folle e fantastico, grazie.

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‣ Treccani Vocabolario on-line, voce “robot” : https://www.treccani.it/ vocabolario/robot

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Articles inside

6.3.1 “È l’occhio che conta”

12min
pages 148-154

BIBLIOGRAFIA

2min
pages 160-161

Ringraziamenti

1min
page 159

Conclusioni… pratiche

3min
pages 155-158

6.3 Una visione ibrida

18min
pages 140-147

6.2 Pazzie collettive

13min
pages 134-139

6.1 Pazzie personali

13min
pages 128-133

6. Follia: sintomi di liberazione

1min
page 127

5.2.3 Chi decide?

5min
pages 123-126

5.2.2 Argilla

6min
pages 120-122

5.2.1 Alle origini vi era il Golem

7min
pages 117-119

5.2 Automa e autonomia

7min
pages 114-116

5.1 Il pensiero di Jung

13min
pages 108-113

4.4 La natura dell’ombra

18min
pages 98-106

5. Storie di archetipi

2min
page 107

4.3 Uncanny Valley

11min
pages 92-97

4.2 L’occhio estraneo

6min
pages 89-91

4.1 La definizione di Freud

11min
pages 84-88

4. Il perturbante fantastico e l’estraniamento fantascientifico

6min
pages 81-83

3.3 A che serve la Signora Brown?

18min
pages 72-80

3.2 La fantastica scienza e la ricerca dell’umano

11min
pages 67-71

3.1 Dalla science fiction al cyberpunk

12min
pages 58-63

2.4 L’anello di congiunzione con la fantascienza: Frankenstein

10min
pages 49-54

2.3 Le radici gotiche

10min
pages 44-48

3. Il fantascientifico

5min
pages 55-57

3.1.1 Letteratura presente o futura?

6min
pages 64-66

2.2 Il crocevia storico

12min
pages 38-43

2.1.1 Il Profumo

4min
pages 36-37

Introduzione

1min
pages 9-10

1.3 La questione editoriale

10min
pages 22-28

2.1 Il fantastico

8min
pages 32-35

1.1 L’immaginazione come strumento di comprensione del reale

10min
pages 14-18

1. L’errata diffidenza verso la scrittura di fantasia

6min
pages 11-13

1.2 Pensiero fantastico, pensiero scientifico

6min
pages 19-21

2. Dal fantastico al fantascientifico

6min
pages 29-31
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