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5.1 Il pensiero di Jung
from Folle Fantasia
by cursaria
profondo di conflitti e problematicità di ciò che viene vissuto alla luce del giorno. La loro civiltà di per sé, a detta dello studio citato da Le Guin, pare sia piuttosto pacifica e funzionale, ma anche andando oltre ciò, uno degli elementi più incisivi e che ci preme citare per passare a Jung è il seguente: l’idea della “caduta”. Simbolicamente cadere in un sogno è, secondo il loro modo di riflettere, entusiasmante. Per la tribù significa che qualcosa di urgente e rilevante è successo, sognare di cadere ha dei sottotesti da non accantonare, ci si augura quasi di poter fare questa esperienza. Tale valenza e accettazione della caduta non è concettualmente importante solo per i Senoi, Jung stesso direbbe che dobbiamo imparare a cadere in profondità per poter risalire: «al sognatore che tende ad una più luminosa altezza si oppone la necessità di sprofondare prima in un baratro oscuro: questa si dimostra condizione indispensabile per un’ulteriore ascesa».
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Serve dunque mettersi in un differente ordine di idee e chiedersi come i Senoi, come Le Guin, come Jung: «Dove sei caduto e cosa hai scoperto?». 4
5.1 Il pensiero di Jung
Come accennato nel precedente capitolo tramite Le Guin, il suddetto psicanalista e filosofo svizzero descrive anch’egli come l’ombra possa essere la parte più brutta, ma non certo la più debole, di ciò di cui è composto l’uomo. L’ombra ha un suo spazio e non le va negato. La scelta di Le Guin di prendere ad esempio la storia di Andersen è motivata dal fatto che essa appare come una concreta esemplificazione del pensiero di Jung. Il quale aveva sostenuto a suo tempo la necessità di guardarsi indietro e seguire la propria ombra, di caderci dentro, tuttavia la teoria di Jung è certamente più ampia e non limitata alla sola questione del perturbante. Tuttalpiù il voltarsi e affacciarsi a questo lato scuro è, secondo Jung, la porta per entrare in quello che egli chiama “inconscio collettivo”. Ovvero il luogo, astratto, dove secondo lo psicanalista risiedono gli archetipi. Ma cosa s’intende qui per archetipo?
Il termine viene affrontato da Jung secondo l’uso fatto nel corso della Storia (cita il suo utilizzo in Filone d’Alessandria, Ireneo, Dionigi l’Areopagita, Sant’Agostino, nonché ovviamente Platone) per arrivare alla
3 Jung, Carl Gustav, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, 1980, Boringhieri, Torino, p.18
Le Guin, Ursula Kroeberg, 4 Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.139
valenza più utile alla sua stessa teoria. “Archetipo" quindi è per lo psicanalista un’immagine dei primordi, arcaica: un tipo remoto, originario, radicato. Se l’inconscio “soggettivo” di Freud è occupato dai “complessi a tonalità affettiva” , 5 l’inconscio “collettivo” viene invece abitato dagli archetipi. Per esser ancora più chiari: che si abbia o meno in mente la schematizzazione dell’io in Freud, una delle differenze fra i due autori sta nel fatto che nel definire l’inconscio Jung crea un’ulteriore suddivisione. Se per Freud l’inconscio è il luogo soggettivo e personale dove si ritrova tutto ciò che è rimosso e non detto, in Jung non ci si discosta da questa descrizione ma si aggiunge un termine in più all’inconscio freudiano, ovvero “personale”. Se esiste l’inconscio ed è soggettivo, a detta di Jung, esiste allora un substrato, che è però in tutti noi comunemente condiviso. Esso «non deriva da esperienze o acquisizioni personali, ma è innato»6 e collettivo.
Nel libro Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Jung oltre a dare un’infarinatura su che cosa egli intenda per archetipo e inconscio collettivo nelle prime pagine, porta avanti una disamina sulla perdita di riferimenti e simboli della società (temporalmente parliamo in riferimento alla prima metà del Novecento, i testi del libro risalgono a un periodo che va dal 1934 al 1955). Nel momento in cui si ha di fronte una società (occidentale) scevra di simboli, una popolazione di "eredi cristiani di diritto” che però non credono più neanche nel cristianesimo stesso, si rischia di colmare il vuoto con dei surrogati di simboli religiosi o con idee sociali e politiche da Jung definite assurde. Le Guin riassume bene così: se l’io è fragile e, come tutti, tende a cercare un’ identità di appartenenza a qualcosa al di fuori dal lui, la via più facile che gli si presenta è di trovare un suo posto non tanto nell’inconscio collettivo (paventato dallo psicanalista) ma nella cosiddetta “coscienza collettiva”. Che però è fatta di culti, pubblicità, manie, mode, credi e consuetudini che determinano una sorta di mente di massa, basata su forme e simboli vuoti, a differenza degli archetipi. Dunque, le forme “di valore” per il sé, per una vera comunione, non stanno fuori ma all’interno dell’individuo, in questa dimensione ancestrale di cui parla Jung. Area in cui ognuno comunemente può giungere, dato che l’inconscio collettivo sta nel profondo di tutti in egual maniera. Per arrivarvi e ritrovare dunque dei “veri" simboli, utili e preziosi, bisogna voltarsi e caderci dentro, girarsi verso il proprio “lago oscuro”. Immagine quella del lago che presenta lo stesso psicologo, parlando in uno dei suoi esempi del
Jung, Carl Gustav, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, 1980, Boringhieri, Torino, p.45
6 Jung, Carl Gustav, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, 1980, Boringhieri, Torino, p.3
sogno ricorrente di un teologo protestante. Questi da un versante di una montagna riconosceva la presenza di un lago a valle, verso cui aveva però sempre evitato di avvicinarsi, solo una notte sognò infine di giungervi. Nel momento in cui il teologo si avvicinò però all’acqua, l’atmosfera si fece scura ed un soffio di vento agitò in maniera sinistra la superficie. Questo improvviso cambio di situazione emotiva lo fece svegliare. In tale sogno Jung sottolinea due cose: intanto che l’acqua è un elemento simbolico ricorrente per l’inconscio e poi che, essendo l’acqua il suo io più profondo, senza la sua stessa presenza (del teologo) non sarebbe mai stata agitata da quell’alito di vento. «Occorre che l’uomo discenda nell’acqua perché essa miracolosamente si animi»7 e il vento in questo caso è inquietante perché è come una presenza invisibile che vive da sé. Jung la identifica come qualcosa di non legato ad alcuna macchinazione umana, per cui il teologo (e in generale l’uomo) si spaventa perché fronteggia una forza inaspettata e fuori dal controllo della coscienza. Quell’alito di vento simbolizza in quel contesto un elemento che l’uomo non conosce, che non ha previsto, di cui non ha letto e di cui nessuno ha parlato. In quello spazio rappresenta un qualcosa di sconosciuto, che è apparso spontaneamente dal suo profondo, senza che il teologo abbia avuto scelta.
Dunque per Jung il primo passo per comprendere la questione dell’inconscio collettivo, come abbiamo ripetuto, è l’incontro con l’Ombra, quella parte di sé stessi sgradevole, che ci fa da specchio e ha una sua propria personalità. Una volta che ammettiamo a noi stessi che ci sono problemi insolubili e che esiste una parte oscura da conoscere, lì si creano le basi per entrare in contatto con quest’area universalmente condivisa. Giungono allora, a detta dello psicanalista, aiuti dai recessi più fondi dell’animo umano (tramite sogni e non), dei soccorsi che si manifestano in forme archetipiche. In un’epoca di “impoverimento di simboli” va scoperta la loro originaria natura, e lo si può fare indagando nell’inconscio. Questo in un’ottica di miglioramento umano pratico per l’umanità, perché che sia essa primitiva o meno, continua purtroppo a portare avanti azioni che in realtà non controlla, forse proprio perché non è mai riuscita ad entrare veramente in contatto con sé stessa. Esser consci di quest’area del sé per Jung ha valore di atto concreto. Come per i Senoi con i sogni, immergersi all’interno permette all’uomo di uscirne perlomeno arricchito di una conoscenza nuova.
Tornando però agli archetipi in senso stretto: Jung nonostante si dilunghi sul concetto di Anima (come sulla Madre, il Fanciullo o altri) che per lui è,
Jung, Carl Gustav, Gli archetipi … 7 cit., 1980, Boringhieri, Torino, p.16
come l’Ombra o il Vecchio Saggio, uno degli archetipi esistenti che ci vivifica e "arde”, afferma che non abbia molto senso fare una vera e propria lista di questi simboli da imparare a memoria, perché essi sono «complessi di esperienza che sopravvengono fatalmente, e il cui effetto si fa sentire nella nostra vita più personale». 8 Altra cosa che afferma è che tali archetipi non possano essere integrati in modo automatico e razionale dall’uomo, ma piuttosto tramite una forma dialogica, che in ambito di psicanalisi si attua con la meditatio del paziente, una sorta di intimo dialogo mentre ci si racconta, ovvero si spiega e riferisce le proprie riflessioni interiori ed esperienze oniriche. Detto questo la teoria dell’inconscio collettivo di Jung che, a differenza di Adler o Freud, guarda alla psicologia non solo secondo una visione dell’individuo personale ma come facente parte di un sistema più ampio, ha in realtà qualcosa in comune con loro. Gli altri due specialisti basano le loro ricerche e ipotesi su degli istinti che le persone hanno inevitabilmente e indipendentemente dalla loro soggettività. Cioè anche loro ragionano a partire da istanze che accettano come comunemente facenti parte dell’uomo, senza distinzione. Questi fattori impersonali, universali ed ereditari, hanno così tante analogie con gli archetipi che Jung si sente di assimilarli ad essi, se non proprio farli combaciare definendoli «immagini inconsce degli istinti stessi». Sulla base dell’esistenza di queste forze motrici di cui è 9 innegabile l’esistenza, Jung dunque rivendica la possibilità che la sua teoria degli archetipi sia giusta. Perché è assurdo che il pensiero non possa essere influenzato dagli archetipi, ma si accetta invece che sia direzionato anche dagli istinti? Per quanto sia complesso scindere l’analisi dell’inconscio collettivo dalla cultura in cui una persona cresce e agisce, oltre ai fattori societari che lo strutturano come individuo, comunque Jung difende così la fattualità del suo studio limitando l’accusa di misticismo che si porta dietro.
Lo psicanalista adduce poi un metodo di prova di esistenza degli archetipi stessi, soffermandosi sull’assunto che gli archetipi si esprimano come forme psichiche. La prima area in cui indagare è appunto quella onirica, l’area più congeniale per tracciare il passaggio di questi segni perché essi si esprimono in maniera autonoma e naturale, senza controllo della mente cosciente. Un altro luogo in cui si dovrebbe poter ricavare la presenza dei suddetti simboli sarebbe “l’immaginazione attiva” (una meditazione che crea visioni), cioè un’osservazione cosciente e concentrata su una fantasia
8 Jung, Carl Gustav, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, 1980, Boringhieri, Torino, p.28
9 Jung, Carl Gustav, Gli archetipi …cit., 1980, Boringhieri, Torino, p.44
o idea casuale di cui bisogna contemplare un qualsiasi frammento che possa esser significativo (metodo che lo stesso Jung raccomanda però per alcuni casi “attentamente vagliati”). Infine altre zone in cui si può sondare la questione archetipica, sarebbero quelle dei deliri paranoici, gli stati di trance e i sogni della piccola infanzia (s’intende fra i tre e i cinque anni di vita). Come esempio infatti di idea o immagine archetipica riscontrabile nel tempo e in differenti luoghi, Jung riporta la fantasia di uno schizofrenico paranoide che aveva in cura. I deliri del paziente erano a tema religioso, era megalomane e pensava di essere Dio o comunque assimilabile ad una divinità. In un momento specifico aveva invitato Jung a soffermarsi sul sole scuotendo la testa, cosicché, a sua detta, Jung avrebbe potuto vedere quello che l’uomo chiamava “il fallo” del sole, “da cui proviene il vento”. Anni dopo, questo aneddoto tornò curiosamente utile allo psicanalista mentre leggeva un passaggio del filologo Albrecht Dieterich. In esso trovò una riflessione su un papiro greco, in cui in una parte di testo, che lo studioso identificava come una liturgia mithriaca appartenente alla scuola mistica di Alessandria, si leggeva dell’origine 10 del vento come visibile, sotto forma di un tubo discendente dal sole, osservabile in questo caso non scuotendo la testa ma tramite “tre profondi sospiri” mentre lo si fissa, il che avrebbero portato ad una sorte di trance o sensazione di innalzamento. Questa tipologia di raffigurazione Jung la riscontrò inoltre anche in certi quadri medievali dove la fecondazione di Maria sembra avvenire direttamente dal sole, attraverso una lunga cannula che arriva fino al suo corpo. Tipologie di raffigurazioni queste, che il paziente certo non conosceva (né tantomeno chi scrisse il papiro citato da Dietrich) in quanto era stato ritenuto malato dai vent’anni in poi non aveva mai viaggiato e di arte simile a Zurigo (dov’era nato) non ne aveva vista. Dunque Jung riporta questo esempio per sottolineare come sia almeno probabile se non altamente possibile, nonostante la vastità dello scibile umano, ricercare dei comportamenti di una certa figura archetipica tramite le aree sopracitate per osservare come essa si esprima.
In ogni caso, sebbene i testi di Jung siano ricchi e articolati, Le Guin stessa sottolinea11 che uno dei noti problemi riscontrabili con l’autore sia il fatto che cambiava spesso il significato dei termini, oltre che, aggiungeremmo, fare un uso molto poetico e forse bizantino dello lessico stesso con cui spiega la propria teoria. Si è provato qui a riportare quindi le questioni
Jung, Carl Gustav, 10 Gli archetipi …cit., 1980, Boringhieri, Torino, p.51
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Le Guin, Ursula Kroeberg, Il linguaggio della notte - Saggi di fantasy e fantascienza, (introduzioni a cura di Susan Wood), Roma, Editori Riuniti, 1986, p.55
essenziali del suo discorso, che però non si esauriscono alle sole basi sopracitate. Sebbene non si possa comunque coprire tutto il suo pensiero, o ogni singola e approfondita analisi che riporta per certi archetipi, lo psicanalista ne affronta uno in particolare che per il nostro argomento è utile citare.
Jung scrive infatti un capitolo chiamato: Fenomenologia dello Spirito nella fiaba. Lo psicologo apre con la differenza fra psicologia e scienza nel trattare i casi di propria pertinenza, la quale consta nella presenza o meno di un punto “Archimedeo”, concreto, su cui fare leva. Un punto che se nel fenomeno naturale si esprime in maniera diretta e lo rende osservabile alla scienza, nella psiche esso manca perché «solo la psiche è in grado di osservare sé stessa». 12 Jung continua poi spiegando cosa intenda egli stesso quando parla di Spirito. Oltre che essere un altro archetipo, per definire lo Spirito Jung lo indica come: un principio attivo che vivifica la mente. Spaziando fra le varie connotazioni che gli sono state date nei tempi, egli lo scinde innanzitutto dall’anima (per cui fa un discorso a parte suddividendo Anima, femminile, e Animus, maschile) e ne prende i significati di un qualcosa che inspira, fa ardere, è dinamico e si oppone alla concretezza della materia, alla morte. È un fenomeno psichico che si presenta nei sogni nelle vesti di uomo, padre, vecchio saggio, gnomo o animale. In ogni caso lo psicanalista dopo aver accennato allo Spirito nel sogno decide di affrontarlo meglio, sfruttando a supporto un’area diversa da quella onirica. Jung utilizza il luogo mitico della fiaba, del folclore. Questo perché, sostiene, è così possibile evitare che delle eventuali sovrastrutture individuali possano complicare il discorso, dato che le fiabe sono i prodotti “meno rivestiti di materiale culturale”. I più sintetici, altamente concentrati sulle azioni e sui simboli, più puri e limpidi nell’esprimere i modelli della psiche. La fiaba rappresenta un prodotto dell’anima universale comune a tutti i popoli per Jung, riflette le dinamiche insite all’inconscio collettivo e ciò si nota tramite la ripetizione nel tempo di temi e motivi uguali, che non sono altro che l’emersione dell’archetipo.
Dunque lo Spirito nella fiaba non tramuta concretamente la figura dell’archetipo a livello fisico, non cambia, appare anche qui come forma di vecchio per esempio, che aiuta l’eroe o personaggio principale in una situazione critica e al limite, in cui non trova via d’uscita. È una figura che spinge alla riflessione, che pone molte domande, sul dove, sul chi e
12 Jung, Carl Gustav, Gli archetipi e l’inconscio collettivo., 1980, Boringhieri, Torino, p.201