Reality n. 91

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20191 ISSN 1973-3658

POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1,COMMA 1 C1/FI/4010

Anno XXI n. 1/2019 Trimestrale € 10,00

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EDiTORiAlE

...e musica sia S

i sono accesi i riflettori del Teatro Ariston per la sua 69esima edizione, anche se tra qualche polemica a carico degli organizzatori del festival ma soprattutto su Claudio Baglioni, in qualità di direttore artistico e conduttore del Festival Sanremo. Tante le domande che gli organi di stampa e comunicazione si pongono: se siano solo coincidenze tutte le amicizie, gli interessi lavorativi e addirittura le parentele che si riscontrano fra l’entourage della manifestazione. Quando ci si avvale di persone di una certa notorietà e di un valore artistico, ovvero dei professionisti, come in questo caso, che fanno musica, concerti e serate da oltre 50 anni, è facile se non scontato trovare varie connessioni e collegamenti fra organizzatori di concerti, eventi e con le varie celebrity. Anche nel nostro piccolo tutti noi quotidianamente lavoriamo e frequentiamo amici, conoscenti e in certi casi parenti. Ed è proprio in queste situazioni che per evitare di creare contrasti, bisogna rispettare i propri ruoli, saper stare al proprio posto, ma soprattutto non credere che la tua conoscenza o amicizia ti ponga su un piano diverso dagli altri. Nei casi in cui si lavori in squadra, dove i ruoli sono molti e di varia importanza, è un po’ come in un’orchestra, dove c’è il direttore, spesso esigente e autoritario, e poi tutti gli altri componenti. Ognuno di loro deve essere bravo nell’eseguire il proprio spartito, ma deve sempre pensare che non sta eseguendo un assolo, ma che è un musicista e che è parte dell’orchestra; deve capire, collaborare e addirittura aiutare anche un altro in caso di necessità. Il tutto per ottenere un eccellente risultato. Nel gruppo, che sia di lavoro o musicale, non si pensa ai propri interessi, specialmente se sono a scapito degli altri membri, ma si collabora ognuno nel rispetto delle regole e delle persone, senza far alzate di testa che di solito arrecano più danno a chi le compie che al gruppo stesso, perché dimostrano di non saper farne parte. Purtroppo oggi giorno non sempre si riesce ad integrarsi in un ambiente di lavoro, dove la priorità per la miglior riuscita del progetto lavorativo è quello di farlo insieme. Dovremmo insegnare ai bambini a considerare la collettività e non l’individualismo come insegnamento di vita, a non credere che l’essere egoista, il pensare solo a noi stessi e la propria carriera sia la cosa più importante nella vita, ma educarli a collaborare con gli altri per riuscire a realizzare dei progetti ancora più grandi di quello che da soli potrebbero compiere. Per cantare ci vuole la VOCE. Per suonare ci vuole lo STRUMENTO. Ma per eseguire una gran sinfonia ci vuole un’ORCHESTRA!

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Centro Toscano Edizioni srl Sede legale Largo Pietro Lotti, 9/L 56029 Santa Croce sull’Arno (PI) Redazione via Pietro Nenni, 32 50054 Fucecchio (FI) Cell. 338 4235017 - 338 2466271 info@ctedizioni.it - www.ctedizioni.it Direttore responsabile Margherita Casazza direzione@ctedizioni.it Redazione redazione@ctedizioni.it Abbonamenti abbonamenti@ctedizioni.it Text Paola Baggiani, Romina Bartolini, Pier Francesco Bernacchi, Francesca Bogliolo, Alessandro Bruschi, Antonio Cambi, Margherita Casazza, Manuel Casella, Carla Cavicchini, Carlo Ciappina, Andrea Cianferoni, Costanza Contu, Riccardo De Angelis Tommasi, Massimo De Francesco, Carmelo De Luca, Luca Del Grande,Vania Di Stefano, Angelo Errera, Federica Farini, Gianfranco Ferlisi, Riccardo Ferrucci, Enrica Frediani, Roberto Giovannelli, Eleonora Garufi, Paola Ircani Menichini, Roberto Lasciarrea, Matthew Licht, Marco Macelloni. Andrea Mancini, Roberto Mascagni, Marco Moretti, Silvia Pierini, Fernando Prattichizzo, Gianpaolo Russo, Domenico Savini, Gonzalo Godoy Sepùlveda, Leonardo Taddei

Photo Archivio CTE stampa Bandecchi & Vivaldi s.r.l. - Pontedera (PI) IssN 1973-3658

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In copertina: Marcello Scarselli, I Gendarmi, 2019 tecnica mista e collage su tavola, 44,5x44,5 cm

Reality numero 91 - marzo 2019 Reg. Trl. Pisa n. 21 del 25.10.1998 Responsabile: Margherita Casazza dal 19.11.2007 Reg. ROC numero 30365 LE SVISTE Nel precedente numero del nostro magazine, nell’articolo di pagina 93 dal titolo Il mare dell’informazione, firmato dal cronista del Tirreno Cristiano Marcacci e dedicato al premio giornalistico Roberto Ghinetti, per un errore di battitura abbiamo storpiato il nome della protagonista dell’edizione 2018: la giornalista Sandra Bonsanti, firma storica e prestigiosa di Repubblica nonché ex direttrice de Il Tirreno. Il catenaccio dell’articolo riportava il cognome in forma errata, differendo da quanto riportato correttamente all’interno del pezzo. Si è trattato ovviamente di una nostra svista, di cui ci scusiamo in primis con la stessa Bonsanti, con il collega Marcacci e ovviamente con i lettori. A pagina 44 nell’articolo Cravatta, che passione nella didascalia è stato scritto erroneamente il nome dell’artista Gianfalco Masini. A pagina 21 nell’articolo Artisti in copertina nel testo è stato scritto erroneamente il nome dell’artista Romano Masoni.

© La riproduzione anche parziale è vietata senza l'autorizzazione scritta dall'Editore. L'elaborazione dei testi, anche se curata con scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche responsabilità per eventuali involontari errori o inesattezze. Ogni articolo firmato esprime esclusivamente il pensiero del suo autore e pertanto ne impegna la responsabilità personale. Le opinioni e più in genere quanto espresso dai singoli autori non comportano responsabilità alcuna per il Direttore e per l'Editore. Centro Toscano Edizioni Srl P. IVA 017176305001 - Tutti i loghi ed i marchi commerciali contenuti in questa rivista sono di proprietà dei rispettivi aventi diritto. Gli articoli sono di CTE 2016 - Largo Pietro Lotti, 9/L - Santa Croce sull’Arno (PI) - mail: info@ctedizioni.it AVVISO: l’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali, involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto.


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SOMMARIO Reality

ARTE MOSTRE letteratura territorio storia 10 20 21 22 24 26 28 30

In viaggio con Scarselli Viaggio della magia del burattino Pompeo Batoni Appunti di storia dell’arte Corium Domenico Difilippo Restauri di Daniele Rossi Danilo Cartei

32 35 36 40 42 44 46

48 50 52 53 54 57 58

L’acqua e il fuoco di Sicilia Spazzina Junior 36° Almanacco pontederese Novità editoriali Craft the Leather Tra genio e rispetto Giro d'Italia a Fucecchio

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Scherzi fra le quinte leonardesche Arte in transumanza L'arte in Italia L’economista San Bernardino La mia Matera Leonardo e i codici Alpi Apuane



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SOMMARIO Reality

spettacolo EVENTI economia società COSTUME 60 62 65 66 68 70 73

Borgo Pignano Anna Niccolini di Camugliano Francis Lloyd Wright Pitti uomo 2019 Danilo Donati Il sarto di Empoli 10+10 fa Reality

77 78 80 82 83 84 86

88 89 90 92 94 96

Berlino capitale della musica Uto l’usignolo Junior Eurovision Song Contest Il ritorno di Rossini a Firenze É l’ora della Marimba Cesare Orsellli

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Emozione pelle L’accessorio senza tempo Adolescenti e cibo Loretta Fanella I benefici dell’acido oleico London Film Festival Il ruolo delle donne


20° REAliTy

ARTiSTA

C'era una volta, 2019 tecnica mista su tavola, 35x35x35 cm Figure contrapposte, 2018 tecnica mista su tela, 100x70 cm

in

viaggio Scarselli con

Riccardo Ferrucci

Dipingere è un'esigenza dell’anima e non potrei farne a meno. Condivido la citazione del grande Pablo Picasso: L’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni. Con segni liberi e gestuali esprimo sentimenti e porto sulla tela visioni che arrivano dalla memoria, scavo dentro di me per arrivare al limite della conoscenza, alternando momenti di gioia, euforia e sofferenza. Una cosa che mi è sempre piaciuto fare è dipingere ascoltando musica; spesso mi lascio incantare dalle sfumature delle note, si crea una sensazione ideale, è il sentimento che guida il lavoro delle nostre mani. Oscillare tra una pittura puramente gestuale e una costruzione astratto lirica, non si tratta di indecisione, ma di ricchezza espressiva, di cultura pittorica, di passione personale. Marcello Scarselli

S

embra già scritto nella sua storia che Scarselli avrebbe incontrato nel suo percorso creativo il mondo di Pinocchio, già affrontato realizzando una grande scultura in acciaio corten, collocata a San Miniato, e che adesso si dispiega in un ciclo di opere più numerose che nascono sotto il segno della fantasia e dell’avventura. Il burattino, creato da Collodi, è un simbolo universale delle difficoltà per ognuno di noi di crescere e diventare grande; le avventure e le disavventure che capitano a Pinocchio sono un insegnamento a evitare i cattivi maestri, le tentazioni e a trovare una propria strada nella vita.

Foto di Gugielmo Meucci

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Il volo della rondine, 2018 tecnica mista su tela, 200x350 cm

Pinocchio, Mangiafuoco, la Balena, il Gatto e la Volpe, il Circo, i Carabinieri diventano le suggestioni di un epico viaggio nella fantasia, compiuto attraverso una poliedrica ricostruzione della realtà, una esplosione di colori e movimenti che cercano di raffigurare un mondo misterioso e ancestrale che accompagna i sogni dell’artista. Per Scarselli il burattino senza fili è essenzialmente un simbolo di libertà, un’immagine geometrica che porta vita e amore nel mondo, nei luoghi che incontra e negli ostacoli che è costretto ad affrontare. Recentemente l’artista Ugo Nespolo si è avvicinato al mondo di Pinocchio, realizzando le illustrazioni per un volume della Giunti, con un stile moderno, raffinato, ma a volte freddo, meccanico; al contrario in Scarselli si avverte l’umanità del personaggio e le suggestioni poetiche, che nascono dall’incontro con il burattino, consentono all’autore di penetrare nei segreti del mondo, nei sentimenti del suo tempo e negli angoli più nascosti del vivere.

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Scarselli ha trovato la propria voce, una rara sensibilità poetica che gli permette di cambiare situazioni, forme, dimensioni, colori, restando comunque fedele a se stesso e ad una sua idea di poetica. È significativo avvicinarsi a questo universo pittorico ricco di visioni, segni, colori, frammenti, per ritrovare un autentico approdo poetico alla vita ed ai suoi accadimenti. I segni moderni e musicali della sinfonia dell’artista richiamano la pittura di Klee, Mirò, Rothko, ma mai evocati come modelli da imitare, semmai compagni di un viaggio nella modernità e testimonianza di una ricerca personale. Per Scarselli l’arte diventa necessità di comunicare un proprio modo di descrivere la realtà, raffigurare pittoricamente sogni, invenzioni, che trovano, sulla tela o sulla carta, una propria adesione al reale per dirigersi verso una dimensione fantastica e ancestrale. Scarselli è un’artista che, in pochi anni, ha bruciato le tappe creative raggiungendo una capacità espressiva notevole e riuscendo a comporre, con leggerezza, un proprio diario visionario. L’elemen-

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Sbleng, 2015 tecnica mista su tela, 140x140 cm

to del gioco e dell’infanzia è centrale per le sue opere, ma diventa anche un modo per guardare in modo diverso la realtà, per dare una visione inedita della vita e degli incontri possibili. In questa dimensione ludica l’incontro con Pinocchio appare congeniale ad esprimere compiutamente questa idea di tornare bambini, guardare con uno sguardo innocente la realtà, ritrovare la capacità di sognare e fantasticare. Secondo Enrico Baj: «Il mio lavoro confina col gioco, a tal punto che spesso uso, quale materiale pittorico, veri e propri giocattoli. Giocando riaffiora in noi la nostra infanzia e oggigiorno c’è proprio il gran problema di come restituire all’uomo affranto dalle nevrosi la sua felicità, la sua grazia e serenità infantile. Il problema dell’uomo ludico, o giocante, è il problema di tutti noi e i governi anziché imporre colle leggi il servizio militare obbligatorio, meglio farebbero a imporre il gioco militare obbligatorio». Nella stessa direzione si muove la pittura di Ugo Nespolo e, per molti aspetti, anche il lavoro di Scarselli, la sua arte appare come un gioco, un mondo visto e trasformato dallo sguardo incontaminato di un bambino. Tutta la sua pittura, che si muove essenzialmente nei forti colori del rosso e dell’azzurro, ma con profonde cadute in un nero notturno pieno di mistero e magia, appare svilupparsi nell’idea del gioco, di raffigurare il reale per frammenti, per segni e scritture che immaginano un mondo diverso, un regno della fantasia. A volte le sue scatole colorate che sono prima di tutto sculture possono, con naturalezza, diventare anche i dadi da lanciare in un infinito gioco tra vita e morte, realtà e sogni, speranze ed illusioni.

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Trottole, 2015 tecnica mista su tela, 160x80 cm

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Venerdi in festa, 2010 tecnica mista su tela, 140x140 cm

Il mondo di Pinocchio è l’ultima suggestione che ci propone Scarselli per fuggire dalla realtà e dirigersi verso il regno dell’utopia, dove tutto è possibile. La Balena diventa il simbolo di un felice incontro con la poesia, con il sogno, con un mondo misterioso che si perde nella profondità del mare. Il titolo della mostra è ripreso da un album di Edoardo Bennato (Burattino senza fili, ndr) che affrontava, con grande forza e poesia, il mondo del burattino, simbolo di una lotta contro il potere e il grigiore della realtà. In dipinti come Dolce brezza e Corri Pinocchio si avverte la profonda poesia di questo viaggio dell’artista toscano, che sorprende per intensità poetica, gioco formale e inediti impaginati scenici. Scriveva Carlo Cassola in uno dei suoi ultimi testi: «Alzo gli occhi al cielo dove io ho sempre immaginato le nuvole bianche e penso che i bambini non avrebbero mai costruito una nuvola radioattiva. Di certo i bambini pensano più e meglio dei grandi». L’idea che i bambini rappresentano la libertà, l’innocenza e la purezza, in un mondo spesso regolato da rigidi meccanismi di potere e dalla guerra, pervade anche l’opera di Scarselli che, nell’invenzione collodiana, ha come trovato un luogo incantato, dove è possibile ritrovare un’armonia e una felicità perduta troppo presto nella nostra infanzia.

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C'era una volta, 2019 tecnica mista su tavola, 35x35x35 cm Il cerchio, 2007 bronzo patinato, h 69 cm

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Sei figure, 2019 collografia su carta Magnani, cm 15x15 cad

Per fortuna, 2019 tecnica mista e collage su tavola, 44,5x44,5 cm

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Marcello Scarselli nasce nel 1953 a Santa Maria a Monte (Pi). Dopo essersi diplomato all’Istituto Tecnico di Pontedera (Pi), frequenta corsi di disegno e di intaglio e successivamente il corso di incisione alla Scuola di Grafica de Il Bisonte a Firenze. Inizia la carriera artistica negli anni Settanta partecipando a numerose mostre collettive e intervenendo nel dibattito estetico di quel periodo. La sua professione si consolida negli anni attraverso una costante attività espositiva in Italia e all’estero (Austria, Belgio, Germania, Francia, Svizzera, Inghilterra, Croazia, Portogallo, Giappone). Nel 2011 è alla Galleria Pall Mall di Londra. Dal 2012 una sua opera fa parte della Pinacoteca d’arte contemporanea de Il Ciocco a Barga (Lu). Nel 2013 la mostra itinerante curata da Giuseppe Cordoni e Filippo Lotti Humanitas Machinæ (il lavoro dipinto) con tappe a Palazzo Medici Riccardi di Firenze, Palazzo Mediceo di Seravezza (Lu) e al Museo Piaggio di Pontedera. Del 2014 la personale Il lavoro dipinto a Ponte de Sor (Portogallo). In seguito alla collettiva Il Muro – 25 anni dopo all’Ambasciata della Repubblica Federale di Germania di Roma dona un’opera in ricordo della caduta del Muro di Berlino. Del 2015 le personali Il profumo del vento nella Chiesa Monumentale di San Francesco a Gualdo Tadino (Pg), Suggestioni alla sede Carismi di Lucca e Ignis – Il mio gesto, curata da Filippo Lotti e Roberto Milani, a Palazzo Pretorio di Certaldo (Fi). Nello stesso anno la collettiva Expo Arte Italiana a Villa Bagatti Valsecchi a Varedo (Mb), curata da Vittorio Sgarbi. Nel 2016 inaugura la scultura monumentale (h. 3,90 mt) Pinocchio e il gioco del cerchio in acciaio cor-ten, collocata su di una rotatoria a San Miniato Basso (Pi). Nel 2017 le personali Oltre la forma contemporaneamente alla Torre Civica e alla Galleria Fiordamaro di Bientina (Pi) e Oltre la forma a Palazzo del Pegaso a Firenze. Nel 2018 espone a Roma, alla Galleria Simmi, con Symbola e Il rumore della materia al Palazzo dei Priori di Volterra (Pi). Sempre nel 2018 viene invitato a Tokyo dove espone al Tokyo Plaza con Il rumore della mia terra. Dello stesso anno anche le collettive Coriacea – Storie di colore sulla pelle a San Miniato (Pi) e Cravatta, che passione! alle Officine Garibaldi di Pisa. Del 2019 la collettiva itinerante Sheep Art – Arte in transumanza a Palazzo Pretorio di Certaldo (Fi), a cura di Filippo Lotti. Partecipa a varie fiere d’arte internazionali. Di lui hanno scritto numerose personalità del mondo dell’arte e della cultura, come Salvatore Amodei, Francesca Bogliolo, Sandra Campaioli, Elena Capone, Dino Carlesi, Renato Civello, Giuseppe Cordoni, Giovanni Faccenda, Riccardo Ferrucci, Catia Giaccherini, Lodovico Gierut, Egidio Innocenti, Filippo Lotti, Mario Meozzi, Nicola Micieli, Roberto Milani, Franco Milone, Catia Monacelli, Luca Nannipieri, Nicola Nuti, Bruno Pollacci, Daniela Pronestì, Mario Rocchi, Alessandra Scappini, Giandomenico Semeraro, Alessandro Toppi, Ursula Vetter. Vive e lavora a Bientina.

La mia balena, 2019 tecnica mista e collage su tavola, 44,5x44,5 cm

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Il buon mangiafuoco, 2019 tecnica mista e collage su tavola, 44,5x44,5 cm


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ARTE

viaggio nella magia del burattino il Museo di Pinocchio ospita Marcello Scarselli

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Pier Francesco Bernacchi e Avventure di Pinocchio vissute attraverso il lirismo stilistico Presidente di Marcello Scarselli ci trasporFondazione Nazionale tano in un viaggio onirico lungo il quaCarlo Collodi le troviamo: Pinocchio e i Carabinieri, Pinocchio nel Campo dei Miracoli con il Gatto e la Volpe, Pinocchio e il grande Pescecane (Balena per Scarselli), Pinocchio nel Paese dei Balocchi… Il segno a volte si confonde con la parola e i personaggi diventano archetipi significanti: ecco dunque Pinocchio Museo Pinocchio che si fa piccolo rispetto ai due CaraCollodi - Pescia (PT) dal 3 al 31 marzo 2019 binieri. Grande il Ciuchino-Pinocchio Inaugurazione come l’apice dell’ignoranza toccata 3 marzo ore 16 nel Paese dei Balocchi, dove il burattino si confonde (e si perde) in mezzo a colori luminosi, con il volto rivolto L'albero dalle monete verso il cielo. d'oro, 2019, tecnica mista carta su tavola, cm 44,5x44,5 L’incontro del burattino con l’artista contemporaneo apre un’altra via d’acCorri Pinocchio, 2019 tecnica mista su tavola cesso al capolavoro di Carlo Collodi. cm 44,5x44,5 Una dimensione dove il disegno, i co-

lori, il tratto, la tecnica, la forma sono capaci di suscitare ricordi, emozioni, sensazioni. La vocazione del Parco di Pinocchio all’Arte Contemporanea sta nelle sue stesse origini. Nel suo DNA. Oggi monumento nazionale, il Parco di Pinocchio conserva opere di Emilio Greco, Marco Zanuso, Pietro Consagra, Venturino Venturi . Nel Parco troviamo un percorso di avvicinamento all’arte attraverso Pinocchio, il personaggio della letteratura italiana più famoso al mondo. Perché Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi sono il romanzo italiano più tradotto al mondo. Non sorprende, dunque, che la Fon-

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dazione Nazionale Carlo Collodi da anni abbia riproposto questa fortunata sinergia, con Pinocchio-ambasciatore dell’Arte Contemporanea. Nel museo e biblioteca del parco, detto Laboratorio delle Parole e delle Figure, e nello spazio espositivo della Sala del Grillo hanno esposto artisti di fama internazionale, provenienti da tutto il modo. Pittori, scultori, designer… Tutti ispirati dal burattino. Marcello Scarselli presenta ora la sua visione. Il maestro dell’espressionismo informale ci propone il suo Pinocchio: birichino, colorato, spesso in movimento. Perché Pinocchio non si ferma mai.


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ARTE Reality

Pompeo Batoni

il pittore lucchese che dipinse il Grand Tour

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’impulso decisivo che spinse molti nobili e ricchi inglesi, affiancati anche da tedeschi e francesi, a raggiungere il Sud dell’Europa, con avida curiosità nei confronti dell’Italia, viene attribuito a una pubblicazione uscita nel 1670 intitolata The Voyage of Italy: un libro guida pionieristico scritto da Richard Lassels uscito postumo a Parigi in due volumi. Dalla lettura del testo risulta che Firenze e Roma, insieme con altre città del Sud fino alla Sicilia, erano le mete più ambite. Il turista tipo, generalmente, si identifica in un giovane di famiglia aristocratica e possidente, provvisto di cultura e col desiderio di accrescerla. Dalle memorie di questi viaggiatori possiamo attingere varie notizie: di letteratura, di teatro musicale e di prosa, ma anche la descrizione di usi e costumi italiani fra il Seicento e il Settecento, con mirati riferimenti alle arti figurative e alle architetture. Traversato il Canale della Manica, le prime tappe del Tour erano gli arrivi in Francia o in Olanda, per proseguire il viaggio verso la Germania e l’Austria. Infine il traguardo dell’Italia. Anche Johann Wolfgang Goethe compì l’indimenticabile Grand Tour dal 1786 al 1788, da lui descritto in una serie di appunti e di lettere raccolte nell’Italienische Reise (Viaggio in Italia). Lo interessavano «la storia naturale, l’arte, i costumi». E ancora: «…siamo sbucati dalle montagne dell’Appennino e scorgemmo Firenze distesa in un’ampia valle d’un’inverosimile fertilità e disseminata a perdita d’occhio di case e di ville». I giovani viaggiatori erano generalmente accompagnati dal tutore e da un valletto. Inoltre, avevano al proprio servizio un pittore o un dise-

gnatore incaricati, di volta in volta, di documentare, con la loro perizia, le bellezze artistiche dell’Italia: in pratica i fotografi del tempo. I viaggiatori più facoltosi si rivolgevano al prestigioso nome del neoclassico pittore lucchese Pompeo Batoni (1708-1787), autore di una numerosa produzione di ritratti che rivelavano la sua mano felice e l’aristocratica consapevolezza dei committenti. Batoni aveva lo studio a Roma e raggiunse una fama europea.

Non meraviglia che Firenze e la Toscana fossero fra le mete più ambite. Firenze, addirittura, si guadagnò il merito di essere considerata la città più inglese d’Italia. Il Grand Tour, dopo aver subìto una brusca interruzione durante la guerra della Francia napoleonica contro l’Inghilterra, ripartì dopo il Congresso di Vienna (1815), ma senza il fascino antico dei viaggi in carrozza, perché sostituiti dall’incombente progetto della ferrovia.

Massimo De Francesco

Pompeo Batoni, Francis Basset (1778) Pompeo Batoni, Thomas Taylour (1782)

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ARTE

appunti di storia dell’arte il Grand Tour in Italia nel 1700

Enrica Frediani

Jacques-Louis David, Marat assassinato, 1793, olio su tela, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique Heinrich Füssli, L’artista commosso dalla grandezza delle rovine antiche, 17781780 circa, sanguigna e seppia Zurigo, Kunsthaus

C

on la scoperta e gli scavi delle città di Ercolano (1738), Pompei (1748) e Paestum (1750), si diffuse prima in Italia e poi all’estero un interesse crescente per l’archeologia. Senza dubbio la pubblicazione del maggior teorico del neoclassicismo Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura (Dresda 1755), divulgata in tutta Europa, suscitò grande interesse tra gli artisti che rivolsero la loro attenzione verso lo studio delle nuove scoperte. Nel suo saggio lo studioso riconosceva nella cultura greca la sola depositaria di una bellezza ideale individuabile nella «Nobile semplicità e tranquilla grandezza» delle opere ritenendole, pertanto, le sole che avrebbero potuto portare a un rinnovamento dell’arte: «L’unica via per divenire grandi e, se possibili inimitabili, è l’imitazione degli antichi », scriveva in apertura. Winckelmann giunse in Italia da Dresda nel 1755, visitando ripetutamente i siti archeologici di Napoli e Roma. Nell’Urbe, lavorò come bibliotecario nella Villa del Cardinale Albani sulla via

Salaria, dedicandosi anche alla stesura dei suoi saggi sull’arte grazie al mecenatismo dello stesso Cardinale. Dagli anni ’40 del Settecento, il Bel Paese divenne la meta preferita di artisti, intellettuali e letterati provenienti da tutta Europa e dal Nord America che qui trovavano risposte al loro desiderio di approfondimento artistico, sia pratico che teorico; inoltre, avevano la possibilità di conoscere personalità di prima grandezza, anch’essi attratti da questo stimolante e nuovo humus culturale e creativo che caratterizzava le maggiori città italiane. Nel XVIII secolo gli artisti intensificarono i viaggi, passando dalle grandi città europee, soggiornando infine in quelle italiane, dove si fermavano anche per lunghi anni per raggiungere la completezza della loro formazione e maturità: da qui la definizione di Gran Tour, termine coniato da Richard Lassels nel 1698 nella sua guida An Italian Voyage. Fondamentale era l’interessamento per l’arte italiana, da quella medievale al Rinascimento e ai Primitivi, ma anche la musica e il teatro conferivano valori aggiuntivi all’integrazione della loro crescita artistica, culturale e politica. Accadeva anche che il viaggio fosse offerto, quale premio per meriti scolastici, dalla scuola di appartenenza, come avvenne per Jacques Louis David (1748-1825) che frequentò con profitto i corsi accademici in Francia tanto da ottenere l’ambitissimo Prix de Rome. Nell’ottobre del 1775, infatti, egli partì per l’Italia rimanendo per cinque anni a Roma. Pur non realizzando in tal periodo opere significative, intensi furono i suoi studi sull’arte italiana con particolare riguardo a Michelangelo, Raffaello, all’arte greca e roma-

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na. Studiò le opere di Caravaggio al quale gli esperti attribuiscono quel particolare “senso del reale” che David trasportò in Marat assassinato (1793), olio su tela, dove gli studiosi riconoscono nel vuoto dello sfondo da cui emerge il volto di Marat, nell’illuminazione orientata a far emergere la realtà delle cose, nei colori acidi e nel braccio di Marat abbandonato sul pavimento, un chiaro riferimento alla Deposizione nel sepolcro (1602-1604) olio su tela, di Caravaggio. Dunque, tra le mete indiscusse dei giovani colti del Gran Tour c’era prima di tutto Roma, dove, per la sua centralità culturale e logistica, i soggiorni si protraevano anche per lunghi anni. A Napoli, invece, è da ricordare il famoso cenacolo di Sir William Hamilton che, giuntovi nel 1764 come ambasciatore d’Inghilterra, divenne in tale città collezionista di opere antiche e saggista. Inoltre, Napoli, con la naturalità di luoghi come il Vesuvio e Pozzuoli, incrementò prevalentemente tra gli artisti inglesi la maniera di dipingere propria del Pittoresco e le teorie dell’estetica del sublime,


individuando nel Vesuvio in fiamme quel sentimento di piacere panico tipico del Sublime. Con gli scavi archeologici di Ercolano, Pompei e Paestum, l’antica Poseidonia, si era formata un’area di grande interesse culturale preferita da artisti e intellettuali perché facilmente raggiungibile. La Sicilia, che era apprezzata per le bellezze primitive e naturalistiche (gli scavi sul sito agrigentino iniziarono alla fine del XVIII secolo), offriva emozioni e suggestioni per la natura selvaggia e i colori solari incantando i viaggiatori provenienti dai freddi e umidi paesi europei. A Firenze, invece, culla dell’arte rinascimentale, si arrivava per approfondire l’opera dei grandi Maestri: Leonardo, Michelangelo, Raffaello, i manieristi e il Medioevo. A Milano e a Venezia il punto di attrazione prevalente era l’architettura neoclassica e, per la città lagunare, i capolavori dei grandi pittori veneziani come Giovanni Bellini, Giorgione, Tiziano, Veronese, Tintoretto. Il mito di Roma città eterna, ad ogni modo, cresceva ulteriormente acquisendo sempre più valore cosmopolita quale centro di un’espressione artistica influente e propositiva. Molto è stato scritto sull’attività archeologica del tempo da viaggiatori, artisti e letterati che la stampa inter-

nazionale ha divulgato, come moltissime sono le incisioni e i disegni tratti da antichi reperti o che riprendono i luoghi degli scavi. Tra i testi scritti: dal conte di Caylus significativo documento è l’opera Recueil d’antiquités égyptiennes, étrusques, romaines et gauloises (7 vol., 1752-67), mentre dal pittore boemo Anton Raphael Mengs (17281779), che stringe amicizia a Roma col già citato Winckelmann, restano testi sulle teorie del neoclassicismo e della bellezza ideale oltre che sull’architettura. Abile pittore, Mengs realizza, tra il 1760 e 1761, sulla volta della galleria di Villa Albani a Roma l’affresco Il Parnaso. Tra i documenti d’immagini vi sono le straordinarie incisioni del veneziano Giovan Battista Piranesi (1720-1788), incisore e architetto, che giunse a Roma per la prima volta nel 1740 stabilendovisi quattro anni più tardi nei pressi di Piazza di Spagna in una zona abitata da francesi, inglesi, spagnoli. Le sue vedute sui siti archeologici di Paestum, realizzate con estrema perizia e dovizia di particolari, divulgarono in tutta Europa la spettacolarità dell’antica città, ne è un esempio La Basilica di Paestum, (1778) e, da abile disegnatore qual’era, liberò la fantasia in incisioni che ne attestano l’inventiva artistica come in Carcere d’invenzione (1747). In Italia giunsero anche artisti che interpretarono l’arte classica in maniera nuova, personale, dove sentimento ed emozioni prevalevano sul Bello ideale. Lo svizzero Heinrich Füssli (1741-1825) arrivò a Roma nel 1770, dove rimase fino al 1778 per trasferirsi quindi, definitivamente, a Londra. L’artista rivisitò l’arte classica con l’afflato creativo che deriva dalla lezione dello Sturm und Drang ereditato in

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patria da Johan Jakob Bodmer, uno dei teorici del movimento (con cui Füssli fu a stretto contatto) e dalle influenze della letteratura gotica e sentimentale acquisite durante il suo soggiorno in Inghilterra tra il 1764 e il 1770. La sua cultura lo portò a interpretare la classicità con influenze preromantiche, esprimendo emozioni interiori e riflessioni sulla grandezza degli antichi che condussero l’artista a trovarvi inquietanti sensazioni e non le razionali considerazioni sulla bellezza ideale, come dimostra il disegno L’ artista commosso dalla grandezza delle rovine antiche, (sanguigna e seppia del 1778-1780 circa), eloquente messaggio che trasmette lo sgomento dell’artista di fronte all’impossibilità di eguagliare sì tanta bravura. Durante la sua permanenza in Italia il pittore mostrò interesse per le opere di Michelangelo e per i manieristi la cui espressività grandiosa e istintiva si avvicinava al suo modo di intendere l’arte. A Roma frequentò prevalentemente un gruppo di artisti stranieri del quale facevano parte Nicolai Abraham Abildgaard, Alexander Runciman che, insieme con altri, costituivano l’ala più visionaria e manierista del classicismo a Roma da cui scaturiranno impulsi che promuoveranno l’arte romantica in Europa. Col suo rientro a Londra, l’arte di Füssli si orientò definitivamente verso il sublime e il visionario.

Giovan Battista Piranesi, Carcere d’invenzione, incisione: da Carceri d’invenzione, Roma, 1745 Heinrich Füssli, L’incubo, olio su tela,1781 Detroit, Institute of Arts Caravaggio, La deposizione sul sepolcro, 1602-1604, olio su tela Roma, Pinacoteca Vaticana


20° Reality

mostra

Corium la spray art racconta la vita nelle concerie

Manuel Casella

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erritorio. Lavoro. Pelle. Queste sono le tre chiavi di lettura su cui si fonda il progetto di questa mostra. Ma come metterli insieme nel campo dell’arte? A questa domanda, l’esposizione allestita a Ponte a Egola negli spazi di Casaconcia, risponde attraverso un approccio capace di unire ogni concetto in una rete armoniosa di richiami evocativi. Se la scelta dei soggetti rappresentati è avvenuta scorrendo le varie foto d’archivio del Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale, fonte preziosa per la documentazione dell’attività lavorativa del nostro territorio, il supporto materico della rappresentazione figurativa è costituito dalla pelle stessa. Ed è su questo peculiare materiale che l’artista Samuel Rosi, in arte Muz, ha saputo trasporre e dare nuova vita alle immagini grazie alla sua tecnica artistica prediletta, la spray art. Ricercatore e sperimen-

tatore, Muz sceglie non solo i muri, ma tele, vinili, carte antiche e persino utensili del lavoro rurale come supporto del suo lavoro grafico. Ed ecco che questa volta è la pelle a porsi come strumento della sua attività creativa: le potenzialità espres-

Luca Monteverdi, Manuel Casella e l’artista Samuel Rosi, in arte Muz

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sive della bomboletta e il sapiente controllo della pressione e della consistenza del getto da parte di Muz esaltano la superficie porosa e tattile della pelle, permettono di far letteralmente uscire dall’immagine i dettagli dei soggetti rappresentati, siano questi le mani dei conciatori, i loro macchinari o i loro abiti. Sensibile all’importanza del rapporto cromatico, Muz ha scelto di far interagire i colori della sua bomboletta con quelli della pelle stessa, in modo da lasciare che lo spettatore venga accompagnato nell’osservazione dell’opera e l’occhio si muova così dal dettaglio materico e fibroso del supporto per arrivare alla visione d’insieme del soggetto rappresentato. Secondo le stesse parole di Muz: «Nasce così una pittura fortemente evocativa in cui la percezione è quella di uno spazio capace di far vivere allo spettatore un’esperienza visiva costantemente attiva, nella quale il lavoro conciario


e la pelle tornano e interagiscono con l’occhio di chi guarda». Insieme al ruolo figurativo giocato dalle pelli di Muz, si è aggiunta la collaborazione con Luca Monteverdi, studioso del suono e compositore musicale, il quale ha voluto dar voce al lavoro dei conciatori. Infatti, visitando alcuni luoghi del distretto conciario di Ponte a Egola, Monteverdi, attraverso strumenti di registrazione e microfoni, è stato capace di andare a captare quei peculiari suoni della quotidiana attività lavorativa. Così scrive Luca presentando la sua idea: «Se un’immagine vale più di mille parole, l’aggiunta del suono ne decuplica la potenza comunicativa. Un ambiente di lavoro è caratterizzato non solo dalle macchine che vi operano ma anche e soprattutto dal loro rumore. Non si può perciò comprendere appieno l’energia che ne scaturisce senza ascoltare il suono che producono». I suoni di alcuni dei tanti macchinari da conceria come il bottale, il cilindro, la rasatrice e il palissone vengono depurati dalle varie scorie sonore che ne attutivano la potenza e vengono riproposti all’ascoltatore per mezzo di cuffie che isolano l’ascolto e lo trasportano all’interno del luogo di lavoro. Se all’ascolto dei suoni di Luca si aggiunge la visione delle pelli di Muz, ecco che l’esperienza del visitatore si fa quanto mai unica. A tutto ciò si aggiunge il fatto che questa esperienza viene a caricarsi di una suggestione ancor più significativa considerando lo spazio di Casaconcia in cui è ospitata, ovvero nei locali della vecchia Conceria

dell’Orologio tornata in auge grazie al suo ruolo di luogo espositivo, ma che conserva ancora nelle sue mura e nella sua struttura l’antico fascino di una delle prime industrie conciarie del territorio. Ed è così che questa mostra riesce a regalare sensazioni visive e sonore in grado di avvicinare lo spettatore all’ambiente conciario e di omaggiare quest’ultimo attraverso la cultura, l’arte e la musica.

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arte

Domenico Difilippo

l’artista ha messo una lente davanti al suo cuore

Gianfranco Ferlisi

L

’arte, si sa, nello scorrere dei tempi è riuscita ad offrire una rappresentazione estetica della realtà facendo ricorso anche a cose semplici. Lo sa bene Domenico che, nei suoi materiali, cerca le tracce della vita e preziose reliquie, atte a tradursi in metafora della propria profonda sensibilità interiore. Le sue pagine/ tavole contengono i codici identificativi di un procedere per segni e simboli, espressione di un segmento di vita vissuta, elaborati tramite accostamenti inusuali di materiali organici Foto opere Luciano Calzolari Foto dell'Artista: Leda Mestoli e inorganici o anche preziosi come

la foglia d’oro e d’argento: all’apparenza adagiati sul foglio come reperti catalogati. Tutte queste opere, veri reperti della sua esistenza, eseguite tra il 2014 e il 2017, contengono una profondità stratificata, un addentrarsi in ambiti inesplorati, la rivelazione di un catalogo prezioso e sorprendente di istanti speciali affiorati dal suo immaginario. Sono opere nate in un particolare e difficile momento della vita dell’autore, quelle rappresentate in queste pagine esposte ora a Ferrara, nella Galleria del Carbone. Sono opere, però, che rappresentano perfettamente la sensibilità di Domenico Difilippo, artista con un’innata predisposizione alla visionarietà e all’onirico, che qui si concede un ciclo diverso, una sorta di capriccio rispetto alla sua più conosciuta produzione. L’artista ha messo una lente davanti al suo cuore per farlo sfogliare alla gente e il suo cuore si mostra in pagine cariche delle memorie di un racconto intimo, in opere nelle quali si mate-

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rializza una sequenza di microspazi zen, nei quali perdersi con lo sguardo. Emerge così la complessa personalità di un maestro raffinato, un maestro che lavora sul frammento e sull’impulso minuto, che ricerca e colleziona il poco per cercare – e trovarvi – molto, se non il tutto. Scriveva Kurt Schwitters che, ad un certo punto della sua vita, aveva compreso come, sulla superficie di un’opera, potessero alloggiare vecchi biglietti di tram, pezzi di legno fradicio, scatole di fiammiferi, ritagli di giornale, vetuste fotografie, gingilli polverosi, oggetti ricordo, persino lettere d’amore e di odio… È forse questa la strada per arrivare ad un’arte del cuore. E così Difilippo, nella sua capacità di abitare il fantastico, riesce a comporre, con piccoli oggetti sottratti all’oblio, combinazioni che si caricano di valori altri, significanti in grado di produrre senso e significati inattesi, simbolici e astratti. Nelle sue inedite strutture estetiche, l’artista realizza una perfetta contaminazione tra arte e vita, per


liberare, su una strada tra surrealismo e astrattismo (punti di riferimento ben dichiarati nel suo Astrattismo Magico, manifesto presentato a Brema nel 1991) orizzonti intrisi delle sue magiche potenzialità immaginative. Nelle sue tavole si palesano, alla fine, i significati segreti di reperti senza tempo che veicolano tracce di una visione del mondo a cavallo tra natura, interiorità e pensiero. Eravamo partiti da un concetto di leggerezza discreta e nobilitante e allo stesso concetto crediamo di essere ora approdati: all’idea di un percorso artistico che ha trovato la sua concretizzazione in uno scenario lieve e raffinato, in frammenti di universi multiformi e multi-materici appesi alle pareti, in cui, per imprevedibili prossimità e inediti assemblaggi, è la fragilità delle piccole cose che, grazie alla qualità alta dell’artista, crea una dimensione di meraviglia e stupore, evocando reminiscenze poetiche degne di essere comprese e ammirate perché capaci di arrivare sia alla mente sia al cuore.

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arte

re s t a u r i di Daniele Rossi

da Giotto a Donatello, da Vasari a Pontormo Riccardo de Angelis Tommasi

Daniele Rossi al termine del restauro della Madonna con Bambino e angeli di Filippo Lippi nella Galleria degli Uffizi, Firenze. (Foto di Paolo e Claudio Giusti). Intervento di Daniele Rossi sulla Deposizione di Cristo (1526-1528) dipinta dal Pontormo per la cappella Capponi nella chiesa di Santa Felicita a Firenze.

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’asilo e la scuola elementare a San Gimignano, poi le classi superiori a Poggibonsi. Ma già dall’infanzia Daniele Rossi manifesta il precoce talento che lo farà diventare un affermato restauratore di opere d’arte. «Non sapevo fare nulla e cominciai a fare un disegnino» scrisse nel quaderno di seconda elementare con una grafia ben distesa, ciascuna lettera esattamente tornita, corretta la punteggiatura, precisamente millimetrica la spaziatura fra un rigo e l’altro della scrittura. «Cominciai a conoscere il mio maestro — Daniele continua a scrivere — e i miei amici. Dopo cominciai a fare le letterine». Arrivati dalle “letterine” ai tempi nostri, Daniele ricorda: «Da piccolo il disegno e la scrittura, ma più il disegno, erano il rifugio dei miei pensieri, il maestro mi aiutava nella composizione delle frasi e mi correggeva gli errori. I miei disegni erano appuntati sulla parete della classe con le cimici di metallo». Iniziò così la parabola di Daniele Rossi, da quarant’anni restauratore di dipinti, affreschi e sculture di altissimo valore artistico. Dove ti sei formato? Nel 1978 ero a Roma quando morì Aldo Moro, facevo il servizio militare nei Vigili del Fuoco. Poi, dopo l’addestramento, fui trasferito a Poggibonsi perché a San Gimignano la caserma aveva un solo vigile, tipo vedetta. Il pomeriggio, quando non si partiva per aprire case con o senza gas acceso, mi dedicavo alla copia su carta ad acquarello di un affresco del Ghirlandaio raffigurante la morte di Santa Fina, nella Collegiata di San Gimignano. Ero un pompiere che dipingeva santi e fu durante questa permanenza che conobbi casualmen-

te un affermato restauratore di Roma. Chi consideri tuo maestro? Il restauratore era Bruno Zanardi, che aveva costituito una cooperativa di diplomati restauratori. Dopo il servizio militare, a vent’anni, Bruno mi offrì la possibilità di lavorare e raggiunsi nuovamente Roma per collaborare con lui e le ragazze della sua cooperativa CBC, tutte diplomate all’Istituto Centrale del Restauro. Entrai nel gruppo un po’ intimorito e qui cominciò la mia avventura in quel mondo. Tecnica, scienza e opere di grandi maestri, accompagnate da umane attenzioni, formarono così la mia personalità artistica. Da Roma ci spostammo per

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lavorare ad Ascoli Piceno sugli affreschi del Maestro D’Offida, un giottesco importante nella regione, poi nella chiesa di San Silvestro arroccata sul Monte Soratte, infine ad Assisi per dedicarci agli affreschi di Giotto e Cimabue nella Basilica Superiore di San Francesco. Quanti anni sono trascorsi dall’inizio di questa delicata professione? Quest'anno festeggerò i miei primi 40 anni di professione e penso di tornare a vedere, dopo tanto tempo, le prime opere che ho restaurato partendo da Ascoli Piceno per passare poi dal Monte Soratte e da Assisi. Oltre all’esperienza sul campo hai


seguito anche un percorso didattico? Dopo tre anni e mezzo di totale dedizione al restauro, conducendo una vita monacale nei cantieri in giro per l’Italia, decisi che una scuola professionale poteva rilasciarmi un diploma e garantirmi una probabile carriera. Ero ad Assisi e ritoccavo la Madonna di Giotto, mi licenziai dalla cooperativa e tornai a casa dai miei genitori a San Gimignano. Iniziai così la non facile preparazione per il concorso dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. A casa disegnavo con la supervisione della mia insegnante di disegno nelle scuole medie, che mi aiutò a semplificare le linee o a marcarle sui visi. Superai brillantemente la prova di disegno prendendo come voto 8,90. A quelle di colore a tratteggio e storia dell'arte presi voti addirittura migliori: 9,30 e 9. Arrivai terzo su trecento: ne prendevano soltanto tre. Ricordo che quando rientrai a casa per il pranzo mia madre mi consegnò una busta arrivata per posta: una lettera mi confermava l’ammissione ai corsi triennali dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Come ricordi quegli anni trascorsi a Firenze? Furono anni bellissimi. A Firenze c’erano grandi cantieri e la mia specializzazione sui dipinti murali mi permise di partecipare al restauro d’importanti opere d’arte dislocate nelle chiese fiorentine: Giotto in Santa Croce, Donatello in San Lorenzo, Ghirlandaio in Santa Maria Novella, Vasari all’interno della cupola del Duomo e altre opere d’arte nei laboratori della Fortezza da Basso. In quegli anni Umberto Baldini era il direttore della Scuola, Ornella Casazza restaurava la Primavera di Botticelli e Dino Dini si chiudeva nelle celle del convento di San Marco per salvare gli affreschi di Beato Angelico. A Roma, all’Istituto Centrale del Restauro diretto da Giovanni Urbani, i coniugi Paolo e Laura Mora giravano fra i banchi di scuola, mentre Michele Cordaro, persona indimenticabile e amico, lo incontravo a casa di Cesare Brandi che si era ritirato nella sua villa fuori Siena. Dico questo per far capire che i grandi nomi del restauro erano tutti presenti. Quali sono le materie fondamentali sulle quali hai basato la tua importante esperienza? Il restauro è un mestiere che si basa principalmente sulla manualità e su molte altre cose, al tempo stesso lo studio preliminare delle opere e dei materiali. Di conseguenza, la conoscenza della tecnica strutturale ci consente di risolvere gran parte delle problematiche relative alla conserva-

zione. Inoltre gli apparati scientifici e le indagini diagnostiche ci permettono di approfondire lo stato di salute dell’opera e di scoprire la tecnica del pittore. Il restauratore deve avere una conoscenza più ampia possibile in varie materie, come la chimica e la fisica dei materiali. Successivamente di quali fasi si compone il restauro? Dopo gli studi preliminari per la valutazione dello stato di conservazione e dei restauri precedenti, si prosegue con la pulitura e la rimozione delle ridipinture e l’assottigliamento delle vernici non originali fino a ottenere il necessario equilibrio cromatico della pellicola pittorica. Vengono poi stuccate le lacune e le abrasioni mediante gli stessi metodi che si usavano in passato. Infine si entra nel fantastico mondo dei colori e di quelle che in gergo si chiamano reintegrazioni pittoriche, seguendo a volte metodi riconoscibili, i quali, insieme alla verniciatura finale dell’opera, necessaria alla protezione della superficie, concludono l’intervento di restauro. Qual è stato il lavoro che ti ha dato maggior soddisfazione? Le varie opere che ho restaurato in momenti diversi della mia attività professionale mi hanno regalato costantemente momenti di assoluta intimità ed esclusività. Ogni artista partecipa alle nostre operazioni guidandoci con i suoi tratti e la sua sensibilità. Ogni opera porta con sé diverse emozioni. E il ricordo del primo lavoro lascia il posto all’ultimo, sicché tutto ricomincia da capo. Il restauro del Trasporto di Cristo o Deposizione del Pontormo, conservato nella chiesa fiorentina di Santa Felicita, ha segnato una data fondamentale nella tua professione? Certamente. Pontormo segna il culmine della mia carriera professionale. Restaurare l’intera Cappella Capponi, colma dei capolavori di un artista così eccentrico, è stato come ritrovare una persona cara dopo lungo tempo, o entrare in un sogno durato un anno intero. Per poi accorgersi, al risveglio, che il sogno non finisce con il restauro, ma continua ogni volta che si torna in quella chiesa. Attualmente, a quale restauro ti stai dedicando? In questo momento sto ultimando alcuni interventi su opere provenienti da collezioni private straniere: un dipinto su tela di Carlo Dolci, di Ribera, di Artemisia Gentileschi, una scultura del quattrocento lucchese, un dipinto di Agnolo Gaddi e uno di Sassoferrato. Sei impegnato anche nella didattica?

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Per ora non ho avuto proposte interessanti per l’insegnamento, cerco tuttavia di trasmettere a chi mi sta accanto l’amore per questo mestiere e per le opere d’arte. Un amore che si trasforma e si colora ogni volta di nuove scoperte e nuovi incontri. Hai un sogno nel cassetto? Più che a un cassetto penso alla vecchia madia, quell’ampio e antico mobile rettangolare con il coperchio ribaltabile, al cui interno introduco una mano e, senza guardare, sollevo due tele che devo restaurare: Caravaggio e Pollock.

Giovanni di ser Giovanni detto lo Scheggia: scena del Decameron di Boccaccio, Firenze, Museo Stibbert (prima del restauro) Giovanni di ser Giovanni detto lo Scheggia: scena del Decameron di Boccaccio, Firenze, Museo Stibbert (dopo il restauro compiuto da Daniele Rossi)


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ARTE

Danilo Cartei

il pittore degli animali

Marco Moretti

Leopardo, matita pastello su carta Allocco, tecnica mista su cartone. Leone accovacciato, terracotta

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uando arrivava un importante circo in paese, noi ragazzi pregustavamo un evento molto più emozionante dello spettacolo stesso: il cosiddetto pasto alle belve, dove tigri e leoni mostravano, mettendo i brividi, tutta la ferocia dei loro istinti. L’ingresso era a pagamento, ma spesso riuscivamo ad assistervi gratis sgattaiolando con la massima indifferenza possibile dalle strettoie di qualche sbarra o da un pertugio scovato tra i carrozzoni. Era appunto al pasto alle belve che si vedeva quell’uomo con i capelli cangianti dal biondo al rossiccio, come la criniera di un leone, che se ne stava in disparte a disegnare su un taccuino le belve intente al pasto. Qualche volta lo incontravo anche per le vie del paese, sempre solo, e la sua andatura mi sembrava un poco felina, forse perché sapevo che era il pittore degli animali. Ecco: l’esotismo dei circhi della mia infanzia si fonde nella memoria con la figura altrettanto mitica del pittore Danilo Cartei. Il tempo è un meccanismo perverso che seppellisce magie e suggestioni. E così anche l’aura del pittore degli

animali, scaricata dall’emotività surreale della fanciullezza, s’era andata scolorando in un qualcosa di vago e senza spessore. In anni successivi seppi che l’ormai anziano pittore ancora seguitava, silenzioso e appartato, il suo monologo con gli animali. Decisi d’incontrarlo e per la prima volta lo sentii parlare. Dalle rade parole, pronunciate sommessamente, s’intuiva uno spirito dotato di un istintivo senso armonico delle cose. Disse del suo amore infinito per gli animali, «tutti assai migliori degli uomini», e che tale sentimento gli si era manifestato da bambino disegnando uccellini, lucertole e perfino insetti. Aveva dodici anni quando il figlio scrittore del suo maestro di disegno gli dette da copiare un ritratto del duce che, pubblicato su Il Nuovo Giornale, fece conoscere i prodigi dell’artista in erba. Veduto l’articolo, Mussolini inviò «Al balilla Danilo Cartei» una foto con dedica. Nonostante le belle premesse, la carriera pubblica del pittore finì lì, stante un’introversione che ostacolava ogni rapporto sociale. Così il ragazzo divenuto uomo si adattò a lavorare in ceramica come decoratore e poi come modellatore di animali, anche se la pittura rimase lo scopo primario e riservatissimo della sua vita. L’invito a vedere le sue opere mi meravigliò non poco, sapendo come Cartei tenesse alla privacy, tanto che solo pochi, anzi pochissimi, avevano varcato la soglia della sua casa studio ubicata nel sottotetto di un ex convento, aereo rifugio nel quale da sempre viveva con la sola compagnia dei suoi figlioli dipinti. Salendo le scale ripide capivo di entrare in un altro mondo. I muri

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scoloriti e a tratti scrostati rivelavano evanescenze d’antiche tinte settecentesche. Arrivato all’ultimo piano, cercai invano il campanello; una specie di rocchio in terracotta legato con uno spago consunto a un chiodo sulla porta suggeriva che quello era il solo modo per farsi annunciare. E infatti, picchiando, questa si schiuse quel tanto per scrutare chi aveva bussato, per poi aprirsi ma non più di quanto bastava per entrar di profilo, tenuta a due mani dal suo abitatore che, come spiegò facendo la solita manovra all’uscita, essa poggiava su un solo cardine, mentre l’altro chissà da quanto tempo era perduto. Nemmeno il tempo di stupirmi ed ecco che nella grande stanza dopo l’ingresso c’era ad attendermi un mondo fantastico. Sulle pareti, dipinte chissà quando a pampini e uve, grandi quadri di animali esotici di tutti i continenti mi guatavano dai loro ambienti naturali. Leoni, tigri, leopardi grandi al vero, accucciati, pronti al balzo o ripresi in corsa;


aquile reali, girifalchi pronti a lanciarsi, pappagalli che, come per magia di quel luogo fuori dal mondo, serbavano il fascino dei loro colori e l’inaspettato dono del silenzio. Il pittore, come timoroso di spaventarli, indicava con voce sommessa le varie specie, le loro provenienze e abitudini, riferendo minuziosi particolari che facevano intendere la sua cultura in materia. Ecco leopardi sugli alberi per avvistare le prede; la tigre delle nevi, il grande leone del Sud Africa estintosi durante la guerra dei Boeri, dipinto a dimensione naturale attraverso il vaglio di vecchie incisioni e di stampe colorate a mano per riprodurre più fedelmente possibile i riflessi dell’estesa criniera. Dipinti che al di là della perfetta esecuzione assurgevano a veri e propri documenti. Commentando la loro estinzione da parte dell’uomo, l’artista induceva a riflettere chi fossero in realtà le vere belve. La devozione con cui Cartei contemplava gli animali s’era trasfusa nelle opere con una realtà poetica, stupefacente, riportando la morbidezza delle pellicce e dei piumaggi come pure i movimenti e gli ambienti nei quali, leoni, tigri e leopardi, fermati nelle loro movenze, si mostravano come esseri vibranti di vita: dalle pose maestose e calme per essere sazi, al bramire o ruggire per attaccare o difendersi. Davanti a tanta sensibilità interpretativa mi domandavo come quest’uomo, che fin dall’infanzia s’era chiuso in se stesso col solo scopo di ritrarre animali, non avesse mai sentito il desiderio di far conoscere il proprio lavoro, giungendo a settant’anni senza aver mai esposto un solo quadro. C’era qualcosa d’inquietante in tutto ciò, ma forse, al contrario, una ragione nobile: c’era il pudore di dover mostrare, e peggio ancora farne mercato, dell’intimità di un dipingere amore unico e assoluto della sua vita. Un pensiero che nell’intimo ammettevo ma non volevo accogliere, forse perché era svanita la purezza del fanciullo che osava sgattaiolare impunito per assistere al pasto alle belve. Così mi misi in testa di organizzare una mostra dei suoi più significativi lavori. Con un’amica assessore alla cultura perfezionammo il progetto e infine convincemmo il titubante pittore. Più che il sottoscritto credo lo convincesse Vania, perché Danilo, benché misantropo, si mostrò molto sensibile all’attrattiva muliebre. Però non fidandosi, volle salire sul mezzo che portava i suoi animali al luogo preposto, distante una decina di chilometri. Un viaggio che gli parve eterno, e avanzò l’idea di rimanere a dormire nella sala in attesa dell’inaugurazione. Poi ripensò agli altri rima-

sti a casa e si persuase a tornare. All’apertura, dopo i primi momenti di smarrimento e di ritrosie, spiegava volentieri a chi lo interpellava origini e caratteristiche di ogni animale. Nel dibattere la materia appariva del tutto naturale, ma poi si richiudeva in se stesso, estraneo all’ambiente che lo circondava. Nemmeno una settimana dopo eccolo a suonarmi il campanello: bisognava andare a riprendere i quadri perché la notte non riusciva a prendere sonno pensando ai suoi animali chiusi in una stanza lontana. A turno ce lo palleggiammo, Vania ed io, cercando di rimandare il proposito più in là possibile, ma dopo dieci giorni non si reggeva più. Senza loro in casa la vita non era più vita; e la notte aveva gl’incubi… Così la mostra dovette cessare diversi giorni prima del previsto. Non lo rividi per un pezzo, ma un giorno, scendendo dal treno, lo trovai sotto la pensilina come se aspettasse qualcuno. Pioveva. Aveva un ombrello ancora aperto e uno chiuso. Mi fermai per un saluto e due parole. Il treno ripartì senza che nessuno cercasse di lui. Così si avviò con me verso l’uscita. Mi raccontò, un po’ titubante ma in preda ad un fervore che non gli conoscevo, che era venuto alla stazione per prendere lei. Lei chi? Lei era una badante, di colore, che a fatica gli avevano imposto i nipoti, ma che poi Danilo, sensibile alla femmina, per giunta esotica come quella, non solo aveva accettato, ma col tempo addirittura provato l’attrazione per lui nuova del sentimento amoroso. Con voluttà di particolari raccontò degli approcci, di come lei si era lasciata vedere nuda e poi farsi toccare; non gli pareva neanche vero da vecchio aver avuto una fortuna così! Invaghito, l’avrebbe voluta disegnare e dipingere, ma lei non aveva voluto concedersi se non per un veloce ritratto. Molti mesi dopo lo incontrai di nuovo, e lo scoprii avvilito. Chiedendogli cautamente come andava l’amore, tra rade parole e molti sospiri fece capire che lei non era più la stessa: da un po’ di tempo chiedeva soldi per farsi guardare e ancor di più per farsi toccare. Ormai, buona parte della misera pensione di ceramista se ne andava così... Poi era sopravvenuta la questione dei risparmi spariti; soldi che Danilo, da sempre nemico delle astruserie delle banche, conservava nascosti in fogli di giornale infilati fra una trave e il tetto. Nessuno, a parte loro, era entrato in casa. Trovò il coraggio di dirglielo, scatenando una furia. Gli urlò che era un vecchio pazzo e che voleva andar via. Lui l’aveva suppli-

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cata a rimanere, non potendo ormai farne a meno. Così il ménage era continuato. Seppi poi che la donna aveva minacciato per l’ennesima volta di andarsene; e lui, per l’ennesima volta, l’aveva supplicata di restare. Poiché la magra pensione era ormai insufficiente alle richieste, Danilo in preda a una crisi offrì a un rigattiere la vendita dei suoi animali. I quali, in una sera piovosa, scesero dalle stanze dov’erano nati per un ignoto destino. Il tempo di prosciugare i proventi della vendita, che null’altro c’era da spolpare, e anche la donna se ne andò. Il vecchio pittore cadde in uno stato di prostrazione e dovettero internarlo in una casa di riposo, dove, accolto con affetto, migliorò e poté ancora disegnare. Ma la mente, a tratti vacillante, era turbata dai ricordi; nei quali forse, a sprazzi, balenava il manto della tigre siberiana, la mole ferrigna del grande leone estintosi al tempo della guerra dei Boeri, e dei tanti altri figlioli dispersi chissà dove.

Testa di tigre del Bengala, matita su carta Leone nella savana, olio su tavola


20°

visbile Reality parlare

Scherzi

fra quinte leonardesche

Roberto Giovannelli

Leonardo, Paesaggio con fiume, datato 5 agosto 1473 Roberto Giovannelli (con la collaborazione di Francesco Bertini curatore dei fotomontaggi), Variazioni sul Paesaggio con fiume di Leonardo Veduta con il Ponte dell'Ariccia Pagina a fronte Veduta con il Golfo di Napoli Veduta con il Castello di Cassiobury Veduta con la Villa di Bellavista in Valdinievole Veduta con un Sacro Ninfeo

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ià da molto tempo studiosi e colti viaggiatori hanno cercato il luogo dal quale il giovane Leonardo prese la mira per tracciare il disegno noto come Paesaggio con fiume, in una località sovrastante l’oratorio detto della Madonna della Neve a Montevettolini in Valdinievole, così come indicherebbe lo stesso foglio recante l’annotazione autografa «dì di Santa Maria delle Neve / addì 5 d’aghossto 1473».1 Nel giro di quei rilievi collinari l’occhio può correre in un’ampia successione di spazi, selezionando momenti di paesaggio – lontani o ravvicinati – secondo le variazioni di un lungo percorso di segni e figure tracciate, a mano a mano, su fogli volanti destinati alla composizione di invenzioni mirabilissime. A sinistra il cono ottico si proietta su un tortuoso digradare di poggi e su muraglie paesane, ove ancora puoi trovare un’antica porta e il corpo avanzato di una casa con giardino pensile, come quella che, in tempi non lontani, fu del libraio e antiquario fiorentino Gonnelli e studio del pittore Giotto Sacchetti; a destra l’occhio rimbalza su una vicina formazione di colli, ghiaie e macigni che si direbbero tagliati ad arte. Una configurazione geologica che di recente è stata, non senza audace immaginazione, divisata nel disegno di Leonardo quale rappresentazione di una Cava rossa detta anche ‘Cava di Giotto’, situata a sud-est del colle di Monsummano, poco distante dalla famosa Grotta Giusti.2 Forse in quel fianco montuoso, fra scoscendimenti, scanalature e squarci nella roccia, potrei cercare anche l’enigmatica entrata della gran caverna dinanzi alla quale Leonardo rimase «alquanto stupefatto» e, per l’irrefrenabile curiosità di scrutarvi

dentro, preso nel vortice della paura e del desiderio: «paura per la minacciante e scura spelonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcuna misteriosa cosa», e forse potrei cogliervi un segno precursore di quel palco girevole che egli ideò per la messa in scena della «Montagna che si apre». Se nel ricordato Paesaggio si volesse prender per buono il riferimento sopra indicato, allora nel colle turrito che nello stesso disegno ci appare in lontananza come una gobba di cammello, dovremmo riconoscere non Monsummano alto visto dal Montalbano, come solitamente vien fatto, ma il castello di Buggiano, antica terra di «miniere d’oro e d’argento», nei cui dintorni corre il rio Cerretorio, ricordato da Giovanni Boccaccio quale fiume miracoloso. Il magnetico disegno del Paesaggio con fiume appare come ideato e composto sul vero, ma con artifici e taglio da scenografia teatrale, costituito di quinte mobili formate da

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spezzati, armati e scorrevoli su un palco in foggia di golfo o terrazzata insenatura. Vedi infatti a sinistra un paese, come fiorito su un fitto groviglio vegetale ove, come «nelle macchie de’ muri, o nella cenere del fuoco», potresti cercare gli ambigui sembianti di una nuda figura, quasi premonizione di un’arcimboldesca Venere o Naiade, o scagliosa Sirena adagiata di spalle; mentre a destra si scorge una ghiaiosa, bassa scogliera, seguita in terzo piano da una massa montuosa di pietre faldate, di pietre squadrate e di anfratti, che diresti tolti da «pietre grandi che sieno scogliose e non pulite», come indica Cennino Cennini nel Libro dell’arte; è questa forse una ravvicinata meditazione sulla Cava rossa, erosa dalle acque risonanti di una cascatella e contornata da velati accenni a casolari, ad attrezzi e canapi per la lavorazione e carico dei pietrami? Fra codesti teleri si apre al centro un fondale ove è rappresentata la vasta


pianura lacustre che comunemente si riconosce nella placida distesa della Valdinievole e del territorio ove nel settembre 1325 si scatenò la memorabile battaglia di Altopascio, vinta da Castruccio Castracani contro i fiorentini. Un paesaggio che si perde lontano, animato da correnti tratti in penna (il dolce tocco della penna d’oca finemente temperata!) nei quali sembra d’intravedere silhouettes di animali o di figure umane, macchie di cerbaie, cespi di sarelli o di altre piante palustri, e certamente navicelli solcanti un chiaro specchio d’acqua. Interrompe le fughe prospettiche della vibrante pianura, un’emergenza collinare che, adattando l’occhio alla consueta localizzazione, utilmente comparabile con un disegno topografico della Valdinievole di mano dello stesso Leonardo,3 tante volte ho congetturato di ritrovare nella selvosa località ove presso Borgo a Buggiano fu edificata la villa del granduca Cosimo III de’ Medici e, tra Sei e Settecento, la nuova villa di Bellavista dei marchesi Feroni. L’interpretazione di un tal panorama a cavallo tra il vero e l’attrezzeria teatrale, mi spinge a balzare in scena tra quinte e fondale del singolare allestimento per incontrare gli abitanti che credo d’intravedere in lontananza: i contadini, i pescatori di lucci e d’anguille, e i barcaioli, forse parenti

carnali di quelli che Giovanni da San Giovanni intorno al 1630 rappresentò, travolti dalle onde di una tremenda burrasca, in una lunetta nel loggiato di Santa Maria della Fonte Nuova a Monsummano. Immagino di riconoscere le voci di quella gente; sebbene non proprio quelle dei contemporanei, dei quali non conosco accenti e memorie, ma di riflesso almeno le note dei loro nipoti o bisnipoti, così come posso ritrovarle tra i nomi e le voci delle ortolane e dei vignaioli della campagna di Montecarlo e di Buggiano, cantati da Paolo Francesco Carli nella rusticale Svinatura. E intanto, da sempre indifferenti ai canti e ai lazzi di schiamazzanti compagnie, nelle rudi bozze angolari dei quattro padiglioni della vicina mole di Bellavista sonnecchiano – come quei «nicchi» rappresi nel fango, studiati da Leonardo – figure di foglie, di erbe, di lucci e di anguille, sbalzate lì per gioco da un anonimo picchiapietre. Negli ultimi tempi nel disegno, noto anche come «paesaggio della valle dell’Arno» o «paesaggio della Valdinievole e padule di Fucecchio» visto dall’anzidetto Montalbano, sarebbe invece stata riconosciuta una veduta raffigurante «la cascata delle Marmore e il borgo di Papigno». A un amico che mi chiese cosa pensassi di codesta identificazione, che una certa risonanza ha avuto sulla

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stampa toscana e nazionale, risposi giocosamente che forse il vero luogo sta ancora nascosto, come la «chioccia, e i pulcin d’oro» nel Sassone presso la selva Cugnana in quel di Cerreto Guidi),4 aggiungendo però che, lasciando da parte le probabili o presunte connotazioni, come pure le suggestioni dalla pittura fiamminga e da Jan van Eyck e volendo strologare su tante fantasiose identificazioni – dal momento che il sasso era stato gettato –, avrei potuto facilmente favoleggiare tra le quinte di quel boccascena anche l’uscita, in un’elegante carrozza a sei, dei marchesi Feroni dal viale della ricordata Villa di Bellavista, oppure il Golfo di Napoli o il vallone attraversato dal Ponte di Ariccia o un Rivierlandschap di Hercules Seghers e altro ancora. Così – per non sciupar la battuta – avviai con l’aiuto di un grafico valente come Francesco Bertini, la sceneggiatura di un emporio pittoresco fornito in gran copia di trasposizioni e varianti d’invenzione sul famoso Paesaggio, nel cuore del quale, oltre a quelle appena indicate, si ambientano altre vedute, come quella di Bagni di Lucca o quella del Castello di Cassiobury, come La reggia di Apollo o un Sacro Ninfeo,5 metacroniche immagini realizzate in emulsione fotosensibile su tela, delle quali diamo qui una piccola anticipazione.

NOTE 1 Penna e bistro su carta, mm 190x285, Firenze, Uffizi, GDS, n. 8 Pr. 2 Carlo Canepari, La cava rossa e Leonardo da Vinci, in Galeazzo Nardini. Le antiche cave di Monsummano alto, catalogo della mostra a cura di C. Canepari, Palazzo Comunale di Pieve a Nievole, 16 settembre 2017, Montecatini Terme, Edizioni Terzo Millennio, pp. 9-11. 3 Biblioteca Reale di Windsor, n. 12685 r. 4 In merito ai dubbi o alle consonanze iconografiche fra il Paesaggio di Leonardo e luoghi reali, vedi E. Gombrich in Lumiere, forme et texture dans la peinture du xve siecle au nord et au sud des Alpes, in «Urbi», IX, automne1984, pp. 12-35. 5 Alcune immagini di questa raccolta sono state proiettate da Alessandro Vezzosi in occasione delle seguenti manifestazioni: Vero o impossibile: salviamo Leonardo e la sua Toscana, Convegno di apertura della VI edizione del Salone dell’Arte e del Restauro di Firenze (Verso l’anno di Leonardo: carte e terre - il Codice sul volo degli uccelli, i paesaggi disegnati), auditorio di Villa Vittoria, Palazzo dei Congressi, Firenze, 16 maggio, 2018; Leonardo, uomo globale: i Da Vinci a Streda e nel Mediterraneo, Centro Internazionale di educazione alla solidarietà, Streda (Vinci), Chiesa di San Bartolomeo, 29 Maggio 2018; Leonardo a Volterra. Con un’appendice sui Leonardismi e il verofalso, Notti dell’Archeologia, Volterra, Museo Guarnacci, 21 luglio 2018.



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MOSTRA REAliTy

arte in transumanza

parte da Certaldo il tour espositivo della mostra Sheep Art

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e prestigiose stanze di Palazzo Pretorio a Certaldo (Firenze) hanno ospitato la prima tappa del tour espositivo Sheep Art – Arte in transumanza, progetto artistico ideato da Paolo Piacenti e curato da Filippo Lotti, che vede protagoniste le opere di 24 affermati artisti toscani chiamati ad esprimersi, ciascuno con il proprio stile, su uno stesso supporto: una sagoma di legno bifacciale raffigurante una pecora a grandezza reale. L’idea iniziale, giocosa ma non troppo, nasce da Paolo Piacenti, titolare di Forme d’arte, azienda che produce caratteristici formaggi stagionati e che da sempre ha legato il proprio lavoro caseario al mondo dell’arte, ponendosi come obiettivo la valorizzazione dell’antico legame esistente tra il cibo e l’arte figurativa e, più in generale, tra la natura e la sua interiorizzazione. Il progetto è stato concretizzato dal curatore Filippo Lotti, che ha invitato gli artisti, toscani per nascita o per adozione, a cimentarsi nella realizza-

zione dell’opera. La sfida, che ha prodotto un risultato davvero suggestivo, è stata raccolta da Massimo Barlettani, Antonio Biancalani, Alain Bonnefoit, Vincenzo Calli, Fabio Calvetti, Claudio Cionini, Elio De Luca, Raffaele De Rosa, Satoshi Dobara, Franco Mauro Franchi, Danilo Fusi, Giuliano Giuggioli, Susan Leyland, Riccardo Luchini, Mario Madiai, Giovanni Maranghi, Francesco Nesi, Paolo Nuti, Nico Paladini, Elisabetta Rogai, Carlo Romiti, Marcello Scarselli, Paolo Staccioli, Armando Xhomo. Il sentimento che guida questa esposizione è chiarito da Paolo Piacenti, che spiega: «Tutta la mia famiglia lavora nel settore enogastronomico; fin da piccolo sono stato abituato ad apprezzare l’arte perché la casa di mio padre è stata un porto di mare aperto agli artisti. La passione ha dato il nome anche alla nostra azienda, Forme d’arte, perché i nostri formaggi sono caratterizzati da pregiate etichette artistiche. Sono lieto che questa mostra itinerante abbia debuttato a Certaldo, dove tutto è nato, e ringrazio il curatore Filippo Lotti che ha accettato di fare da “pastore” a questo gregge». «Unitamente ai 24 artisti – aggiunge Lotti – che hanno realizzato la pecora dipinta, ho invitato altrettanti fotografi, anche questi tutti toscani, a realizzare un ritratto fotografico di ciascun artista affiancato all’opera o comunque contestualizzata col progetto, così da arricchire la rassegna». La critica d’arte Daniela Pronestì descrive così, nell’introduzione al catalogo della mostra edito da Bandecchi & Vivaldi, il concept del progetto: «È simbolo di mitezza e di innocenza, ma anche di bieco conformismo e di stoltezza. Pochi altri animali come la pecora rappresentano nell’immagina-

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rio collettivo atteggiamenti e modi di essere così diversi. Non a caso la troviamo spesso nelle favole e nei proverbi come simbolo della contraddittoria natura dell’essere umano. Anche come soggetto artistico la pecora conserva un valore emblematico, incarnando significati che spaziano dal sacro al profano. Le opere di questa mostra ne offrono, invece, un’interpretazione per molti aspetti nuova e inconsueta, a cominciare dalla scelta di far dipingere gli artisti sulla sagoma lignea di una pecora. Il dorso dell’animale diventa uno schermo sul quale scorrono visioni oniriche, miti classici, scorci metropolitani e figure femminili. In questo caso il supporto esprime già un contenuto, potremmo anche dire un “soggetto primario”, a cui le varie raffigurazioni non si sovrappongono semplicemente ma si fondono in un significato autonomo e compiuto». L’esposizione, dopo questa prima occasione pubblica, è destinata a essere riproposta in altre location italiane, in un simbolico itinerare dai monti al mare: una vera e propria Arte in Transumanza che palesi il legame dell’arte contemporanea con le più antiche tradizioni del nostro paese.

Francesca Bogliolo

Foto di Veronica Gentile


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L'arte Reality in Italia

Carmelo De Luca

ANTONIO FONTANESI

IL CARRO D’ORO DI JOHANN PAUL

UNA CITTà IDEALE

30 marzo 14 luglio 2019

20 febbraio 5 maggio 2019

14 dicembre 2018 5 maggio 2019

Reggio Emilia

Firenze

Siena

Palazzo dei Musei

Palazzo Pitti

Santa Maria della Scala

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aestro emerito della pittura romantica, Antonio Fontanesi eccelle nel vedutismo paesaggistico progressista, creato attraverso uno stile fluido in chiaro-scuro, caratteristica ricreante sulla tela variazioni atmosferiche dal colore tendenzialmente monocromatico e dalle tormentate pennellate rispecchianti una esistenza inquieta. Racchiuse in schemi compositivi classici, rappresentazioni evocative abbondano in lirismo e melanconia romantica che scruta una realtà al naturale, nella quale Fontanesi trova rispecchiato un delicato sentimentalismo animistico. La mostra racconta egregiamente un grande figlio di Reggio, evidenziandone influenze su artisti postumi che, come lui, hanno espresso intime emozioni attraverso un verismo rappresentativo decisamente coinvolgente. Non a caso la mostra espone opere di Pellizza da Volpedo, Carlo, Carrà, Felice Casorati.

cenografica coreografia seicentesca, Il Carro d’Oro by Johann Paul Schor personifica l’opulenza carnevalesca romana in epoca barocca. Tra divertimento e sfarzo, condotta aristocratica ed eccessi popolani, divino e profano, l’esistenza umana in chiave allegorica rivive nella sfarzosa mascherata del principe Giovanni Battista Borghese immortalata dall’artista tedesco. Qui, ludi antichi convivono con la religiosità papale, esorcizzazione rituale dell’effimero tangibile nell’aureo carro trainato da bianchi cavalli, ossequianti i nobili Borghese affacciati sul balcone dell’avito palazzo. Acquistato per il futuro Museo delle Carrozze, l’opera rivaleggia in mostra con la Giostra dei Caroselli dipinta da Filippo Gagliardi e Filippo Lauri, trionfale esplosione di carri, maschere, personaggi bizzarri che, nella notte rischiarata da fiaccole, omaggiano Cristina di Svezia.

LORENZO D’ANGIOLO

3–28 febbraio 2019 PIETRASANTA

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NAG ART GALLERY

a mostra propone una sintesi degli ultimi dieci anni di produzione pittorica dell'artista versiliese, che ha fatto della luce il centro della sua speculazione artistica. La natura e la vita sono gli imprescindibili punti di partenza di ogni sua opera, seppur, attraverso un minuzioso lavoro di pennello e una progressiva sottrazione di materia e di contorni, finisca per eliminare ogni riferimento narrativo, approdando a risultati di assoluto lirismo.

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rove generali per la Collezione Spannocchi, che vede nuovamente insieme opere fiamminghe e ‘nordiche’. In attesa della bramata ricomposizione, questa interessante mostra sfoggia Albrecht Altdorfer con Storie di San Floriano, la raffinata Lucrezia di scuola cranachiana, una Torre di Babele scenograficamente architettonica, invasa dalle disparate attività umane, Albrecht Durer con San Girolamo. Ordinato tematicamente, il corredo espositivo risalta significativamente quella sensibilità collezionistica gonzaghesca, da cui provengono molte opere, per poi influenzare i potenti Piccolomini e Spannocchi, evidenzianti il raffinato gusto cosmopolita dei proprietari. Valenza artistica e scambi culturali tra Nord Europa e corti italiche rivivono nelle opere in mostra, destinate in tempi brevi alla loro definitiva collocazione destinate in tempi brevi alla loro definitiva collocazione presso il plesso museale di Santa Maria della Scala.


VERROCCHIO 9 MARZO 14 luglio 2019 Firenze Palazzo Strozzi, Museo del Bargello

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a scuola quattrocentesca trova in Verrocchio massima espressione, dal cui insegnamento attingono artisti illustri e l’esposizione fiorentina

Bissietta Giuseppe Fontanelli la vita e l’arte, il ritorno a San Miniato 9 FEBBRAIO 17 MARZO 2019 San miniato Palazzo Grifoni

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l Palazzo Grifoni a San Miniato è aperta la mostra sull’artista Giuseppe Fontanelli, più conosciu-

ne rappresenta valida giustificazione. Pittore, scultore, disegnatore, orafo, Andrea coglie i valori rinascimentali plasmandoli genialmente nelle sue innovative creazioni trasudanti nuovo linguaggio figurativo, oggetto di dialogo costante con illustri allievi chiamati Botticelli, Perugino, Ghirlandaio, Signorelli e Leonardo, che in mostra viene omaggiato con la produzione giovanile. Appartenenti al maestro, ai suoi allievi, e precursori, 120 opere raccontano una fucina prolifica di innovazioni, idee, contenuti, virtuosismi nati nella bottega verrocchiana, contenitore di quel pensiero moderno rivoluzionante l’arte europea. Firenze omaggia l’illustre concittadino ospitando in due storici palazzi capolavori assoluti provenienti da prestigiose istituzioni. Così quel simbolo rinascimentale del David trova dimora a Palazzo Strozzi col Putto, opera personificante dinamica naturalezza, Madonna col Bambino della Gemäldegalerie, Arcangelo Raffaele e Tobiolo proveniente dalla londinese National Gallery. Il Bargello ospita Incredulità di San Tommaso, bronzo abbellente Orsanmichele, celebre per resa anatomica esaltata dalle vesti drappeggiate. to come Bissietta. Una mostra voluta dall’Amministrazione Comunale, affidata alla cura del pittore Luca Macchi, che viene a colmare un’assenza di oltre quaranta anni. Titolo della mostra Bissietta, Giuseppe Fontanelli, la vita e l’arte, il ritorno a San Miniato. La mostra è corredata da un catalogo con testi di Macchi e una preziosa prefazione del critico d’arte Nicola Micieli. Una mostra che ricostruisce il percorso artistico di Bissietta attraverso sessantadue opere provenienti dalla famiglia e da collezioni di Reggio Emilia, Milano e San Miniato oltre che da importanti Istituzioni come il Dramma Popolare e la Ven. Arciconfraternita di Misericordia di San Miniato. Giuseppe Fontanelli nasce a San Miniato nel 1910, si iscrive poi all’Istituto d’Arte di Porta Romana a Firenze. Nel 1949 si trasferisce in Australia. Nel 1965 gli viene assegnato l’ambito Primo Premio Young Festival di Sidney. Nel 1970, al suo rientro in Italia e a San Miniato coincide la fase pittorica forse più caratterizzante della sua produzione con una scomposizione che potremo definire geometrico-luminosa. Giuseppe Fontanelli muore l’11 dicembre 1977 a Sant’Ilario d’Enza.

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IL MESTIERE DELLE ARTI

n mostra, l’esercizio delle arti “maggiori”, scultura e pittura, è affiancato alle produzioni di oreficeria, in vetro e resina o in ceramica. La mostra propone infatti una selezione di artisti della contemporaneità che, ignorando il confine tra arti maggiori e arti minori, hanno conferito alle loro opere un valore universale per stile e sapienza tecnica. Non vi sono materie che si possono considerare più adatte di altre a produrre risultati artistici, come non vi sono materie a priori inadatte a produrli: ogni materiale vale soltanto in quanto è stato prescelto dall’artista che lo fa vivere e lo esalta con le sue mani. Talvolta, l’apparente spontaneità e l’immediatezza del risultato creativo, che presuppone una matura esperienza, possono generalmente essere considerate come prodotto di una eccellente bravura e perfino di raffinato virtuosismo. Sono riunite più di cento opere di Igor Mitoraj, Mimmo Paladino, Paolo Staccioli, Cordelia von den Steinen, Ivan Theimer, Paolo Marcolongo, Stefano Alinari, Jean-Michel Folon, Giacomo Manzù, Giuliano Vangi, Mario Ceroli, Paola Staccioli, Luigi Ontani, Gigi Guadagnucci, Giovanni Corvaja, Daniela Banci, Marzia Banci, Orlando Orlandini, Angela De Nozza, Ornella Aprosio, Angela Caputi, Tristano di Robilant, Sauro Cavallini, Sophia Vari, Kan Yasuda, Pietro Cascella, Fernando Cucci, Pasquale (Ninì) Santoro. L’esposizione è curata da Ornella Casazza e Emanuela Fiori, con Maria Anna Di Pede e Laura Felici, che nel comitato scientifico sono affiancate dallo stesso dottor Scalini, da Claudio Spadoni e Fabio De Chirico.

16 Febbraio 26 Maggio 2019 Ravenna Museo Nazionale

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DIPINGERE GLI AFFETTI

ondazione Ferrara Arte e Comune nuovamente promotori del riuscito progetto L’Arte per l’arte, ospitato nell'ala sud e nei camerini, riccamente affrescate, del superbo Castello, così la ricca quadreria ASP sfoggia eccellenze artistiche dal XVI al XVIII secolo, una ricchezza cittadina pressoché sconosciuta al pubblico nonostante la qualificata valenza storica. Spaziante dal tramonto estense all’Illuminismo, un bellissimo percorso temporale esterna quella sensibilità che Ferrara ha sempre posseduto, manifesta in mostra nel manierismo pudico del Bastarolo, nei rivoluzionari dipinti naturalistici creati dai pittori barocchi Carlo Bonomi e Scarsellino, in Giuseppe Avanzati e la sua moderata figurazione. Alla singolare pittura settecentesca. L’evocazione simbolica si impone il percorso espositivo attraverso fede, visibile, invisibile, emotività, famiglia, naturalismo, peculiarità volute dal Concilio Tridentino, e umanità partecipata della committenza, riccamente presente negli edifici religiosi. A tal riguardo, la mostra ostenta meritata bellezza evocativa nelle opere provenienti dai conservatori femminili di Santa Barbara, Santa Margherita, Opera Pia della Povertà Generale, manifesta sensibilità ferrarese per il sociale, animata da nobili cortigiani.

26 gennaio 26 dicembre 2019 FERRARA Castello Estense

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BOLDINI E LA MODA

affinato esteta dal gusto innato, Boldini personifica l’eleganza impressa nelle pennellate decise, fluide, leggere, donanti classe ai suoi nobili personaggi plasmati di una moderna bellezza decisamente travolgente. Non ha caso il maestro rappresenta icona ispiratrice per stilisti contemporanei chiamati Dior, Galliano, Armani, McQueen. Mondanità e seduzione pervadono nobili big dalla carica magnetica disarmante, peculiarità che il pittore imprime magistralmente nei suoi dipinti, esternanti uno stretto rapporto con la nascente industria del fashion celebrativo. In mostra trionfa lo stretto legame pittura-moda, riuscita ricostruzione documentaria esternante quell'abile capacità di Boldini nell’essere, già in quei tempi, influencer modaiolo in una Parigi, regina di gusto, eleganza e tendenza, facendo assurgere l’outfit appropriato a bramato desiderio valorizzante il corpo. Un geniale artista talentuoso consegna, così, ai posteri personaggi raffinati della Belle Epoque chiamati Robert de Montesquiou, Cléo de Mérode, Consuelo Vanderbildt, marchesa Casati. Oltre cento dipinti raccontano l’haute couture attraverso ritratti sensuali dalla pennellata esaltante silhouette morbide, dinamiche, glamour, affiancati da colleghi contemporanei, oggetti preziosi, libri, abiti.

16 febbraio 2 giugno 2019 Ferrara Palazzo dei Diamanti

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di Silvia Pierini

BOLLE DI SAPONE 16 MARZO 9 GIUGNO 2019 PERUGIA GNU - Galleria Nazionale dell’Umbria

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imbolo della fragilità, della caducità delle ambizioni umane, della vita stessa, fin dal Cinquecento, le bolle di sapone hanno affascinato generazioni di artisti per quei giochi di colore che si muovono sulle superfici saponose, per la loro lucentezza, per la loro leggerezza.

LA STREET ART DI KOBRA RIPORTA IL DAVID SULLE APUANE PERMANENTE CARRARA Cava Gualtieri Corsi

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er gli appassionati di street artist, assolutamente da visitare ed ammirare l’originale murales firmato da Eduardo Kobra (1976, San Paolo del Brasile), tra i più acclamati sulla scena internazionale. L’artista brasiliano, infatti, ha sfidato il candore di una parete di marmo, nel cuore della cava Gualtiero Corsi sulle Alpi Apuane,

Il percorso si compone di circa 60 opere che coprono un lungo arco di tempo che va dal Cinquecento alla contemporaneità, di autori quali Guido Reni, Fra Galgario, Jan Bruegel il Giovane, Gerrit Dou, Karel Dujardin, concesse in prestito dalle più importanti istituzioni nazionali e internazionali, tra cui la Galleria degli Uffizi di Firenze, le Gallerie dell’Accademia di Venezia, la National Gallery di Londra, la National Gallery di Washington, il Metropolitan Museum of Art di New York e si apre con alcune opere allegoriche legate al tema della Vanitas. Parallelamente al percorso artistico, l’esposizione documenta il fondamentale ruolo giocato dalle bolle di sapone nelle ricerche settecentesche sulla rifrazione della luce e sui colori, fino a quelle successive circa le teorie sulle superfici minime o sulle forme di aggregazione organica della materia. Una storia esemplare dei legami tra arte e scienza che tocca tutta l’Europa e che riempie di meraviglia per un’evoluzione inaspettata. Grandi artisti, grandi scienziati, grandi architetti, tutti affascinati dalle forme delle bolle e delle lamine di sapone.

nei dintorni di Carrara, per creare un’opera pensata come omaggio a un simbolo immortale dell’arte e insieme al pregiato materiale dal quale fu forgiato. È così che ad un’altezza di oltre 800 metri è possibile ammirare il suo singolare e suggestivo David di Michelangelo: l’ultimo immenso capolavoro rifatto alla maniera di Kobra. L’opera, che si ammira a distanza da diversi punti, è raggiungibile a piedi fra i sentieri di montagna che partono dal Comune di Colonnata. Un intervento singolare in uno spazio davvero unico, dove il candore del marmo apuano incontra i colori impressi nelle roccia, dal rosso al giallo, dal verde al blu, a formare un contrasto che esalta la forma, la plasticità e l’inconfondibile espressione del David.

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20° Reality

storia

l'economista

San Bernardino

le prediche, il denaro, la diffusione del culto Paola Ircani Menichini

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ernardino Albizzeschi nacque a Massa Marittima l’8 settembre 1380. Rimasto orfano a sei anni, fu protetto ed educato dagli zii a Siena, città in cui compì gli studi. Nel 1402 entrò nell’ordine francescano, dopo aver lasciato tutti i suoi beni a istituti religiosi o agli indigenti. Nel 1405 iniziò a predicare nei paesi intorno alla città, ma la sua popolarità divenne illimitata solo dopo il ciclo di spiegazioni compiute in Piemonte e in Lombardia nel 1417. Da allora andò viaggiando e sermoneggiando in tutta Italia, seguito sempre da uno straordinario concorso di pubblico. Ad apprezzarlo non fu solo la povera gente ma anche alcuni degli uomini più potenti del tempo, tanto da diventare consigliere di papa Eugenio IV e dell’imperatore Sigismondo. Per umiltà rifiutò la nomina ai vescovati di Siena, Ferrara e Urbino, ma prese su di sé nel 1438 l’ufficio di Vicario generale in Italia dell’Osser-

vanza del suo ordine che richiamò a una più stretta considerazione della regola del Poverello d’Assisi. La sua fama gli suscitò comunque rivalità e malevolenze. L’appassionato culto del Nome di Gesù gli provocò due processi per eresia, nel 1426 o 1427 e nel 1431, entrambi conclusi con la piena assoluzione. Nel 1439 partecipò al concilio di Firenze in cui si discusse dell’unione della Chiesa orientale con quella latina. Continuò sempre a viaggiare e a predicare, ma provato nel fisico dopo tante peregrinazioni, morì nel convento francescano de L’Aquila il 20 maggio 1444. Fu canonizzato nel 1450 da papa Niccolò V. Diversi suoi discorsi sono stati tramandati fino ad oggi. Trattano di argomenti popolari e di vita cristiana quotidiana: dei doveri della famiglia e del matrimonio, dell’ossequio dovuto alle cose sacre, della bestemmia e delle dicerie malevoli, dei benefici dello

studio, del servire Dio in letizia, delle vedove e dei loro obblighi. Vi si trovano anche importanti considerazioni in materia economica. In questo campo, infatti, Bernardino condannò sempre l’attività di speculazione e combatté contro ogni forma di usura, più di tutti quella che «disfa le case, le città e le province». Ma fu tra i primi a giustificare l’attività commerciale come un servizio reso alla comunità. Distinse, infatti, tra l’accantonamento sterile e avaro delle ricchezze (il capitale che sta fermo), moralmente deprecabile, e il risparmio, inteso come condizione di reinvestimento produttivo, con effetti sociali benefici, per il quale è giustificato un compenso al lucro cessante e al danno emergente.

San Bernardino da Siena e San Pietro ai piedi della Madonna con il Bambino, Capalbio, chiesa di San Nicola. La statua lignea di San Bernardino opera di Vincenzo Demetz di Ortisei, Ivi.

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vedere, non perché non volle ma perché fu trattenuto dagli impegni delle prediche, dell’Ordine e nella difesa contro i detrattori. I cittadini però non lo dimenticarono. Presso il convento vennero istituite le confraternite del Santissimo Nome di Gesù e di San Bernardino, entrambe in essere fino alla soppressione granducale del 1785. Un suo scritto autografo fu conservato con cura e per lungo tempo da una famiglia cittadina. Oggi Bernardino è il patrono di Capalbio, in Maremma, dove è festegA lui e ai francescani si deve del resto la fondazione dei Monti di Pietà, per i prestiti di importo non elevato e con piccoli interessi. Gli istituti saranno in essere fin quasi ai giorni nostri, quando diventeranno di pegno (1934) e poi seguiranno la sorte delle Casse di Risparmio o delle Fondazioni bancarie (1990). I suoi concetti economici furono applicati anche nell’ordinaria vita francescana. Nei documenti dei conventi del passato non è raro trovare come il denaro in contanti presente nel cosiddetto erario, cioè in cassa, fosse velocemente ricollocato in altre forme di investimento per non tenerlo improduttivo. Il padre guardiano e i frati, così, acquistavano beni o concedevano semplicemente le somme disponibili nel modo del censo, cioè a prestito e con interessi che si aggiravano intorno al quattro per cento, secondo i tempi e i luoghi. Avvenuta poi la restituzione, per la proibizione dell’accantonamento sterile, provvedevano a trovare subito un altro investimento o censuario. La regola fu così sentita nelle comunità che, illogicamente, in taluni piccoli monasteri, durante la crisi economica della seconda metà del Settecento, si giunse a rinvestire per

obbligo il denaro dell’erario e qualche settimana dopo chiedere prestiti a terzi per celebrare degnamente una festa liturgica. Tornando alla figura di Bernardino, nei ritratti è rappresentato spesso assieme alla tavola del Santissimo Nome di Gesù. Se ne trovano un po’ dappertutto in Toscana, nei grossi centri e nei piccoli castelli un tempo appartati. La sua memoria appare anche in tanti documenti di vita laica quotidiana, ad esempio nel nome di battesimo dei titolari delle poste dei catasti tardo medievali. Inoltre una compagnia intitolata a San Bernardino si appoggiò di frequente alle chiese dell’Ordine. Quella di Santa Croce a Firenze fu composta da un cospicuo numero di confratelli ed ebbe una certa notorietà. Venne fondata nel 1451, appena poco tempo dopo la canonizzazione del santo. Tuttavia il 13 settembre 1557 l’alluvione dell’Arno «disfece e rovinò la nostra compagnia, la quale fu tutta sommersa» (come si scrive in un registro) e ne distrusse l’archivio. A Volterra San Bernardino predicò nel 1424 nel prato davanti alla chiesa di San Francesco: tanto fu l’entusiasmo che il Comune lo pregò insistentemente di ritornare. Non si fece più

giato la terza domenica di maggio con il palio delle contrade. Nella bella chiesa parrocchiale del XIII secolo, seconda cappella a destra, un affresco un po’ sciupato lo ritrae assieme a San Pietro ai lati della Madonna col Bambino; in un’altra cappella è scolpito in una statua, opera di Vincenzo Demetz figlio (Ortisei 1900). Nel dipinto tiene in mano il quadro con il Santissimo Nome di Gesù, mentre nella statua mostra un ritratto del Volto Santo sofferente.

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Andrea Mantegna, Il SS. Nome di Gesù, 1452, Padova, Museo Antoniano. L’occhio della facciata con la vetrata rappresentante il SS. Nome di Gesù, Capalbio, chiesa di San Nicola. Sano di Pietro, La predica di San Bernardino a Siena, 1445, Siena, Museo dell’Opera del Duomo.


20° Reality

la mia Matera

storia

Vania Di Stefano

D

omenica 29 aprile 1973. Un sole caldo, temperato dal fresco vento marino, batte con folate nervose il bordo e la sommità della gravina e l’orrido burrone immerso nel silenzio e nella solitudine. Ogni tanto il gracchiare d’un corvo solitario, il canto di qualche uccello. Il paesaggio mi si è rivelato diverso questa mattina, con le sue distese pietrose, con gli uliveti secolari, immobili nella pianura e nei declivi. Il grano ancor giovane spunta rigoglioso e folto coprendo di verde la terra, ma qui, lungo la salita che conduce alla croce presso la gravina, la mano dell’uomo appare lontana nel tempo e la vegetazione cresce spontanea e selvaggia fra le rocce. Solo il calcare, scavato, corroso, tagliato, tormentato da una punta lenta, paziente, mostra ancora in quali cavità si racchiusero il desiderio di Dio, la rassegnazione dei figli nutriti di povertà, di preghiere, di privazioni. E tutto perché poi della loro vita grama si perdesse la memoria.

poesia del bianco e nero L’acqua che il cielo riversa si raccoglie qui nel fondo in cavità melmose. I sassi gettati dall’alto precipitano, urtando con un rumore secco le ripide pareti e gli spuntoni levigati dal tempo. A metà del cammino, lungo una strada scavata nel calcare, gradino per gradino, una chiesa, un portale spalancato verso l’interno, poche panche col nome del donatore, un Cristo sofferente dalle carni grigie, eternamente triste e condannato nella sua inutilità meravigliosa, una Madonna scolpita nell’olivo, fredda come una Cerere, circondata da fiori secchi. Il vento risale con rabbia l’intero canalone graffiandosi i fianchi sui cespugli spinosi e sui cumuli di pietre. Viene dal mare, dalla pianura, trascinando con sé canti d’uccelli, aromi d’erbe, voci lontane dai campi, il fiato dei muli, il cigolìo dei carretti, il fumo che si leva dai casolari là dove i muri hanno un fuoco che a sera li scalda. Un sole incerto scende verso la

foschia dell’orizzonte e la luce va di ora in ora sfumandosi. Il tepore dei raggi s’avverte a tratti ogni volta che la brezza smette di battere la dorsale del colle.

Lunedì 30 aprile. Sono in fondo alla gravina proprio nel punto in cui il corso d’acqua fa un gomito e provenendo da sud-ovest prosegue per sud-est. Sono le 9.25. Per scendere ho impiegato sui 45 minuti; non sapevo da quale parte calarmi e ho dovuto procedere a zig zag, studiando preventivamente il terreno da affrontare. Nessun grosso inconveniente. Molto caldo. Proseguirò verso sud-est sino a che le forze e il cervello me lo consentiranno. Nessun inconveniente sinora. Ore 10.10. Altra sosta dopo aver superato una gola. La parete della riva destra fa un salto di circa 50 metri, poco più avanti due grotte dall’imboccatura molto ampia, ma

Panorama della riva destra La città e la Gravina La Gravina dall’alto

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poco profonde. Non ho idea sino a che punto mi convenga proseguire; forse più avanti riuscirò ad orizzontarmi meglio. Dopo aver consultato la carta e stabilito rispetto al sole la direzione dell’acqua, credo di aver capito dove sono: circa a metà. Ore 11.15. Con mia somma sorpresa, consultando la carta, mi sono reso conto di aver percorso appena un terzo della strada. Non so proprio che fare, se seguitare col rischio di non poter più risalire per l’asperità delle rocce, oppure tornare indietro. Infatti alla confluenza con un altro corso d’acqua la gravina sembrava praticabile. Ho molta sete. Ore 12. Sono andato avanti per circa 400 metri; non avevo scelta e mi serviva un guado per passare sulla riva destra e cercare un punto ove poter risalire. Ultime foto prima di iniziare. Sono seduto all’ombra e in alto, su una delle creste della gravina, a sinistra del corso d’acqua, vedo una roccia forata che mostra il cielo, sia pure una punta di spillo. Canti d’uccelli che non ho mai udito e l’immutabile, lento, continuo scorrere del torrente. Sarà molto duro risalire. Sinora per non bere mi sono portato dietro e mangiato, foglia dopo foglia, una grossa fresca lattuga. Ore 12.30. La cima! E senza difficoltà: una salita erta, ma non impossibile. Ora un bel vento fresco m’accarezza e rimbomba negli orecchi, sì che il rumore dell’acqua in fondo al burrone mi giunge a tratti come un monotono fruscìo. Ho davanti agli occhi uno spettacolo meraviglioso che mi commuove e mi esalta. La città distrugge Iddio, la Natura sel-

vaggia me lo restituisce, sì che non posso che ringraziare d’aver gambe forti e mani salde, piede prudente e una bocca e dei polmoni per gridare qui in faccia al vento che sono piccolo, ma felice, che sono vivo. Sulla sinistra una grotta di difficile accesso, così almeno sembra da qui. Andrò a vedere. L’idea di lasciare il corso del torrente è stata ottima, di qui posso vedere quanta strada avrei dovuto percorrere prima di giungere in vista delle chiese e degli eremi. Ora invece di qui scorgo tutto con chiarezza. Vedo anche delle case e, se questo è il canto di un gallo, ci devono essere anche le galline e quindi gli uomini. Ho giocato con l’eco. Mentre salivo, circa a metà mi sono voluto riposare e per scherzo ho provato a fischiare, a gridare e chiamare. La mia voce s’udiva nitida, là dalle rocce lungo il pendìo, rimbalzare dopo un volo di un centinaio e più di metri. Nessuno poteva udirmi e ho detto cose che solo io posso ascoltare e comprendere, almeno così credo. Ore 15. All’ombra di un mandorlo in una posizione ideale per riposare, scrivere ed ammirare lo spettacolo che mi si offre da ogni lato. Terminata la salita mi sono riposato, poi ho esplorato alcune cavità che scorgevo alla mia sinistra e da cui ci si affacciava sul precipizio. La conformazione geologica: una roccia fragilissima, niente più che sabbia cementata dal tempo, m’ha fatto sperare in qualche ritrovamento interessante. Così è stato: le pareti erano piene di conchiglie fossili. Non ho potuto che prelevarne

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poche, mancando un attrezzo per intaccare la roccia, tenera sì ma non per le mie mani. Sono salito bene in cima sino a scorgere i casolari. Mi sono avviato a sud percorrendo per un tratto una strada intagliata nella roccia, infine la stanchezza e la fame m’hanno convinto a sostare qui dove mi trovo e scrivo. Ormai non ci sono grossi problemi, potrei continuare lungo il bordo del precipizio; di lontano si vedono cavità simili a quelle osservate l’altro ieri. Potrei tagliare a ovest sino a raggiungere la strada. Non so ancora. Mi voglio godere questo bel venticello fresco ancora un po’; deciderò quindi quale itinerario seguire. Il sole scende lentamente mutando i colori del paesaggio. Qui finisce ciò che scrissi nel taccuino 19. Tornai a Matera sul carro agricolo d’un vecchio contadino che mi vide stanco, tirò le redini, sorrise e mi fece salire a cassetta. Parlammo a lungo, della terra, del tempo, della vita, ma prima di lasciarlo, ringraziando, dimenticai di chiedere il suo nome.

Una parete verticale Caverne parietali La sfinge di pietra


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STORiA

Leonardo ei

Codici

la grandezza mai superata a cinquecento anni dalla sua scomparsa Roberto Lasciarrea

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hilometri di inchiostro sono stati consumati per scrivere di Leonardo. Cerco, con questo mio modesto contributo, di raccontare qualcosa di cui pochi intimi hanno sentito parlare. Impresa decisamente ardua, perché del Genio, storici illustri hanno scritto tutto e di più: Carlo Pedretti, Alessandro Vezzosi, Massimo Seracini, solo per citare il gotha degli studiosi più eccelsi. Anche l’Anonimo Gaddiano, ma nel 1542, riportò che «…fu tanto raro e universale, che dalla natura per suo miracolo esser produtto dire si puote: la quale non solo della bellezza del corpo, che molto bene gli concedette, volse dotarlo, ma di molte rare virtù volse anchora farlo maestro. Assai valse in matematica et in prospettiva non meno, et operò di scultura, et in disegno passò di gran lunga tutti li altri. Hebbe bellis-

sime inventioni, ma non colorì molte cose, perché si dice mai a sé medesimo avere satisfatto, et però sono tante rare le opere sue. Fu nel parlare eloquentissimo et raro sonatore di lira [...] et fu valentissimo in tirari et in edifizi d’acque, et altri ghiribizzi, né mai co l’animo suo si quietava, ma sempre con l’ingegno fabricava cose nuove». Leonardo fu il figlio primogenito del ventiquattrenne notaio Piero Da Vinci, di famiglia modesta e di Caterina, una donna di estrazione sociale non superiore, frutto di una relazione illegittima fra i due. La notizia della nascita del primo nipote fu annotata dal nonno Antonio, padre di Piero, anche lui notaio, su un antico libro notarile trecentesco, usato come raccolta di ricordanze della famiglia, dove si legge: «Nacque un mio nipote, figliolo di ser Piero mio figliolo a dì 15 aprile in sabato a ore 3 di notte (secondo il calendario gregoriano, il 23 aprile alle ore 21,40). Ebbe nome Lionardo. Battizzollo prete Piero di

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Bartolomeo da Vinci, in presenza di Papino di Nanni, Meo di Tonino, Pier di Malvolto, Nanni di Venzo, Arigo di Giovanni Tedesco, monna Lisa di Domenico di Brettone, monna Antonia di Giuliano, monna Niccolosa del Barna, monna Maria, figlia di Nanni di Venzo, monna Pippa di Previcone». Ora desidero lasciare da parte tutto ciò che ha inventato o studiato il Genio. Lo studio del corpo umano, gli alimenti, le metamorfosi geometriche, i dipinti, le scultore o quelli che il professor Vezzosi ha definito marchingegni d’artista, coinvolgendolo in un contesto diverso e trattando di un suo aspetto forse ai più ignoto. L’enorme massa di manoscritti di Leonardo, la più imponente del periodo rinascimentale, è oggi conservata in diverse istituzioni del mondo, dove sono giunti attraverso vicende non di rado rocambolesche, con incendi, trafugamenti e, più di recente, moderatamente, attraverso aste internazionali. La dispersione degli scritti


ebbe inizio subito dopo la morte di Francesco Melzi, pittore e pupillo di Leonardo, che ebbe in eredità tutti i manoscritti del maestro. Oggi gli scritti leonardeschi sono suddivisi in ben dieci codici diversi. Tra i Codici di Leonardo più famosi, oltre al Codice Atlantico e tralasciando quelli fantasiosi legati alla fiction, pardon alle bugie di questi ultimi anni, ci sono i Fogli di Windsor (234 fogli che comprendono circa 600 disegni riguardanti l’anatomia, una serie di carte geografiche e alcune straordinarie caricature) e il Codice Leicester (ex Codice Hammer), un taccuino di 36 fogli di 29x22 centimetri con studi di astronomia e di idraulica acquistato nel 1994 da Bill Gates. Il Codice Trivulziano è anch’esso a Milano come il Codice Atlantico, in questo caso all’interno della Biblioteca Trivulziana del Castello Sforzesco. Contiene studi di architettura militare, progetti per chiese e numerose annotazioni riguardanti la sua continua propensione allo studio delle lettere. I Codici di Madrid, ritrovati solo nel 1966 tra gli archivi della Biblioteca Nazionale della capitale spagnola e dedicati rispettivamente a studi di meccanica e di geometria, sono appunti scritti quasi di getto da Leonardo, tanto che per gli studiosi sembra di sentirlo parlare come da un registratore. Il Codice Arundel è custodito a Londra alla British Library: si tratta di una raccolta di 283 fogli con studi di fisica e meccanica, ottica e geometria euclidea. Fu tra le prime raccolte leonardesche ad essere sfascicolate in fogli singoli, nel 1991. Fu acquistato dal britanni-

co Lord Arundel in Spagna intorno al 1630. Il Codice Atlantico, invece, è la più ampia raccolta di disegni e scritti di Leonardo Da Vinci: è conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Nel 1519, infatti, alla morte di Leonardo ad Amboise, la raccolta dei suoi manoscritti fu ereditata da Francesco Melzi che nel 1523 giunse nel capoluogo lombardo. Alla morte di Melzi, avvenuta attorno al 1570, i manoscritti conservati nella villa di Vaprio d’Adda furono affidati al figlio primogenito Orazio e successivamente presero strade diverse a causa di sottrazioni e cessioni. Altri manoscritti di Leonardo sono: il Codice sul volo degli uccelli, composto da 17 fogli, che si trova nella Biblioteca Reale di Torino, all’interno del quale c’è anche il famosissimo (probabile) autoritratto di Leonardo; i Codici Forster (I, II e III), conservati

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a Londra nel Victoria and Albert Museum, tre manoscritti cartacei riguardanti studi di macchine idrauliche e di geometria; i Codici dell’Istituto di Francia, costituiti da 964 fogli e identificati con le lettere dell’alfabeto, dalla A alla M. Trattano di geometria, idraulica e ottica. L’istituto di Francia a Parigi conserva anche il Codice Ashburnham che raccoglie studi di pittura: si tratta di due manoscritti che in origine facevano parte del Codice A, da cui sono stati strappati a metà dell’Ottocento da Guglielmo Libri. C’è però un Codice particolare che si ispira alla gastronomia: è il Codice Romanoff. È custodito all’Ermitage di San Pietroburgo, ma non è un codice molto reclamizzato rispetto agli altri, certo più noti, anche se la raccolta mette in evidenza molti aspetti poco noti del Maestro.


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intervista

A

LPI PUANE

le scalate in solitaria di Gianluca Briccolani Roberto Mascagni

Gianluca Briccolani sulla vetta del Pizzo d'Uccello (m. 1781) Sulla vetta dell'Altissimo (m. 1589) è stata montata la tenda per trascorrere la notte. In basso il suggestivo panorama della Versilia

A

Firenze, nella sua bottega di tappezziere, incontro Gianluca Briccolani. Sete, cotoni, velluti e damaschi li vedo riuniti in pezza o arrotolati sugli scaffali, prima che vengano distesi sul tavolo di lavoro tagliati con perizia artigiana per realizzare copriletto e tendaggi, sagomare schienali di sedie e poltrone o una varietà di cuscini. Il tappezziere Gianluca sa tutto dell’arte sua; un’arte antica, questa, ereditata dal padre. Ma l’inizio della sua carriera professionale non fu subito conseguente a quella paterna, perché sentì il bisogno di sfogare una delle sue grandi passioni: la fotografia editoriale. Poi, trascorsa la prima giovinezza, si fissò in un’altra passione: quella per la montagna e le ardite scalate in solitaria. «A quasi trent’anni – spiega – grazie al determinante aiuto di un amico, provai l’ebrezza di avanzare in verticale. Cominciai a frequentare la cava in dismissione vicino a casa, famosa per aver contribuito a ornare la città con la sua bella pietra serena». Quando e come è nata la sua passione per l’esplorazione di una montagna? Fin da adolescente ho sempre vissuto la mia vita in piena libertà: questa è stata la principale molla che mi ha spinto verso le prime vacanze sulle Dolomiti. Nato da genitori incalliti frequentatori della spiaggia, ho sempre sentito verso la roccia un’attrazione molto materica al limite dell’ossessione. E anche oggi, a decenni di distanza, quando mi trovo al cospetto di un seppur piccolo monolite, non so resistere all’impulso di salirlo… Andare dove volevo è stata la mia più grande conquista fin da bambino. Poi, crescendo, un amico mi prestò le sue scarpette da roccia: da lì in poi fu tutto un crescendo di scoperte di

grandi spazi, anche extraeuropei, che la natura ci ha regalato. La curiosità verso le Apuane, quindi, è nata dall’esplorazione di altre montagne? Sì, però è stato un percorso inverso rispetto a quanto è d’uso fare: sono partito dalle quote più alte per fermarmi a quelle inferiori. Mi spiego meglio: ho fatto la conoscenza delle Alpi Apuane alquanto tardi nel corso della mia carriera alpinistica, ma quando è accaduto ne sono rimasto talmente estasiato da rifiutare quasi tutto il resto, per concentrarmi su quello che mi piace chiamare il mio posto nel mondo. Ha dovuto fare corsi per arrivare a progredire in sicurezza in montagna? No, sono un autodidatta della montagna e la mia prima ascensione seria l’ho vissuta a 31 anni sul Monte Bianco: quello fu il mio battesimo del fuoco, affrontato, forse incoscientemente, solo con me stesso, una piccozza e un paio di ramponi. Non amo luoghi troppo frequentati e detesto tutte

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quelle facilitazioni moderne che oltretutto deturpano anche le belle vallate che anticipano le più alte quote. La selvaggità, questo sostantivo che in realtà non esiste, ma con il quale mi piace descrivere il concetto di entrare nel cuore della natura vera, mi ha sempre intrigato fin da piccolo, quando mi divertivo a perlustrare i casolari abbandonati dell’alto Mugello. Da lì alla scoperta dei più remoti angoli del colosso himalayano è stata una naturale evoluzione. Anche sulla Cordillera Blanca, in Perù, ho potuto godere di alcuni angoli ancora vergini del nostro pianeta. Quali caratteristiche distinguono le Apuane dalle altre montagne? Scorrendo verso sud lungo la nostra bellissima penisola, questa catena montuosa si erge all’improvviso e in maniera inaspettata dopo i più dolci Appennini: iconograficamente appare come un’isola rocciosa a sé stante. È per questo che sono comunemente considerate montagne uniche e irripetibili. La loro storia, geologicamen-


te parlando, avrebbe bisogno di un lunghissimo capitolo a parte: basti sapere che sono sorte milioni di anni fa da un insieme di sedimenti marini. Ed è per questo che, per chi come me ha la fortuna di percorrerne le creste anche in veste invernale, la possibilità di effettuare un’ascensione su neve a pochissimi chilometri dal mare è uno spettacolo che ha pochi rivali. È corretto chiamarle Alpi? È l’asprezza delle loro forme che le hanno valso questo apparentemente scorretto titolo, ma la marcata individualità che caratterizza questi monti è dovuta soprattutto alle molteplici caratteristiche che sono ìnsite nel loro paesaggio, anche perché stiamo parlando di una zona estesa su una superficie di circa 1000 chilometri quadrati. Oltre ai bellissimi sentieri e alle appaganti scalate, vi sono abissi ipogei fra i più importanti a livello mondiale, migliaia di specie floreali che dimorano tra gli interstizi più reconditi e che ne fanno uno dei più straordinari giardini a cielo aperto di tutta Europa e animali straordinari che dimorano nella natura più selvaggia e affascinante. Altri motivi caratterizzanti appartengono alla storia, perché durante la Seconda guerra mondiale qui passava la Linea Gotica. Inoltre si possono apprezzare le tradizioni antichissime, l’ottima cucina e le persone speciali native della zona. Perché ha scelto l’alpinismo in solitaria? Anzitutto mi preme dire che non è stato sempre così. Grazie al sacro vincolo della cordata ho stretto le più radicate e forti amicizie della mia vita. Porterò sempre nel cuore coloro che si sono legati alla mia persona, con i quali ho condiviso moltissime e difficili scalate. Poi, in un momento della mia vita, ma non più tale perché dura tutt’ora, ho scelto di essere affiancato nelle mie arrampicate da due fratelli gemelli molto speciali: il silenzio e la fatica. Ma la formazione di questa cordata a

tre non è stata una necessità, anche se ho un carattere introverso, ma una libera scelta.

Come è nata l’idea di scrivere un libro su questi monti? Nell’estate del 2016 ho deciso di regalare interamente le mie ferie alla realizzazione di un sogno che covavo da tanto tempo: la traversata alpinistica di tutta la catena montuosa delle Alpi Apuane. Sapevo che farla con la calura agostana sarebbe stato un mezzo suicidio, ma radunai lo stesso moschettoni, barrette e tendina nei venti chilogrammi che costituirono il mio zaino e partii. Dopo 18 giorni passati solo con i miei pensieri, con il mio taccuino di viaggio e la macchina fotografica, il materiale raccolto era così tanto e variegato da non poter non essere raccolto in un libro. Una pagina del suo sito ha per titolo Meraviglia e Orrore. Che cosa si deve intendere con queste due parole? L’idea di costruire un sito internet mi è venuta dopo l’uscita del mio libro L’altezza della libertà pubblicato da Polistampa, perché l’ho considerato come un aggiornamento del libro

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stesso. Auspico che il mio tributo a queste meravigliose montagne, che tanto regalano al mio spirito a ogni gita o arrampicata che vi compio, vada avanti come uno sguardo continuamente vòlto ai panorami bellissimi che incontrerò e anche per monitorare lo scadimento ambientale. Esistono secondo lei altre possibilità occupazionali alternative all’escavazione del marmo? Certo che sì! E lo dimostrano i molti giovani con cui ho parlato durante l’avventura di quell’agosto: persone che amano anche sporcarsi le mani con gli animali o con la terra, ma che lo fanno per lavorare in contatto con la natura. Detto fra noi li invidio. Molti di loro, chi allevando o coltivando o semplicemente vivendo di turismo, portano avanti una concreta economia alternativa, tuttavia rispettando l’ambiente all’interno di un Parco regionale.

L’esperienza, anche a tratti estrema, da lei vissuta due anni fa, cosa le ha lasciato dentro? È un’esperienza che mi ha segnato profondamente l’animo e non solo per la fortissima sete patita... Le mie amiche Apuane mi hanno aiutato a conoscermi meglio sia come uomo, sia come creatura che vive tutti i giorni dentro a un disegno più grande: insomma, mi hanno trasmesso molti valori. Entrando all’interno della loro essenziale bellezza, mi sono accorto che a queste montagne non manca veramente niente per essere vissute nel quotidiano, ma con maggior rispetto.

Il libro sarà presentato in varie località italiane con la collaborazione del CAI.

Gianluca Briccolani circondato dai 20 kg dell'equipaggiamento utilizzato per la traversata delle Apuane L'arco roccioso del Monte Forato (m. 1223) è il simbolo delle Apuane Una sosta di Briccolani al cospetto del Pizzo d'Uccello L'imponente parete del Monte Sumbra (m. 1765) Il Monte Pisanino è la cima più alta delle Apuane: m. 1946 Foto di Gianluca Briccolani


20° Reality

storia

l’acqua e il fuoco di Sicilia Tra

Vania Di Stefano

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aro Fortunato, sono riuscito ad arrivare a Siracusa (con Gaetano Zappalà, cugino materno, detto Nunù, e con sua moglie Maria) e a mettere un piede sull’Etna. Entrambe le esperienze m’hanno lasciato grande impressione nell’animo, anche se in modo diverso. La bianca Siracusa col teatro quasi deserto e torrido (magia dell’acustica: il canto delle cicale si moltiplicava senza che avessi la possibilità di stabilirne la fonte), con l’inverosimile orecchio di Dioniso e gli antri delle Latomie degne della fantasia di un Gustave Doré, con un duomo che nulla di cristiano possiede a causa delle possenti colonne doriche dell’antico tempio di Atena (vi predomina una cert’aria pagana favorita da particolari forme di culto tipiche dell’isola) e inoltre con la meravigliosa Afrodite uscente dal bagno. Questa città, dicevo, m’ha veramente circondato d’un clima classico e orientale. Strana sensazio-

ne m’ha provocato la vista e il contatto con la pianta del papiro che cresce foltissima lungo le rive del Ciane sul quale siamo stati in barca. C’era un silenzio meraviglioso.

Etna: veduta del grande cratere Siracusa: fonte del Ciane Vania sale sull’Etna Siracusa: antica colonna dorica nel Duomo Siracusa: Latomie Vania nell’anfiteatro di Siracusa Siracusa: busto di Afrodite

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Per l’Etna ci vorrebbe una penna migliore della mia, capace di descrivere l’arrampicata folle che mi sono fatto. Fino a 2942 metri con l’autobus più la funivia, poi a piedi sino a 3340 circa. Un paesaggio deserto, infernale. Violentissime raffiche di vento sulla cima. Era impossibile sedersi: cenere e pietruzze ti frustavano incessantemente. Non ho incontrato anima viva se non sul cratere. La strada finiva ben presto e bisognava arrampicarsi con mani e piedi. Ero in maglietta, ma non ho sentito freddo al petto grazie alla Fiera Letteraria (per la prima volta è servita a qualcosa…). L’altitudine e l’ossigeno rarefatto rendevano spossante l’ascesa: ogni tanto, nonostante la furia che m’era entrata in corpo, dovevo per forza sostare e riprendere fiato. La foschia cancellava il paesaggio e lo rendeva così vago da isolarti dal resto del mondo.


‘Lo sommo er’alto che vincea la vista / e la costa superba più assai, / che da mezzo quadrante a centro lista’. Eppure sono arrivato fin sopra e il Purgatorio m’ha rivelato l’Inferno più nero: il cratere grande avvolto da vapori sulfurei che mozzavano il respiro, voragini paurose; accanto un cratere minore in eruzione vomitava mille diavoli; il vento rumoreggiava nelle orecchie frustandomi e gettandomi a terra. Come un’anima in pena ho visto e ascoltato. Non lo dimenticherò mai. Ti abbraccio. Così scrivevo a Fortunato Bellonzi da Acitrezza l’11 agosto 1967 prima che la febbre mi cogliesse dopo il ritorno dall’Etna. La vertigine della salita faticosa m’appare ora come una metafora della vita. Senza pentimenti passai la convalescenza a Ragghiusa nella casetta estiva di Nunù, che mi curò come un figliolo. Più che le medicine mi ritemprarono i versi delle sue poesie, letti contemplando lo sconfitto gigante di fuoco, e i sorsi dell’acqua del Ciane rubata dal petto di un’amorosa, divina, freschissima ninfa immortale.

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20° Reality

racconto

Spazzina Junior Matthew Licht

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atman, Wonder Woman, Pantera Nera, Nano Nucleare: stronzate. I veri eroi sono i netturbini. E i maestri delle scuole elementari. Non ebbi il coraggio per fare quei mestieri. Scrivo racconti. Questo qui narra le vicende di Garbage Man. Ci si accorge quando qualcuno ci ride dietro le spalle. Jodie si voltò e vide le bulle della classe che la guardavano sghignazzando. Si rigirò verso il maestro. Stava parlando di ciò che fa la gente per vivere, come funziona la società. Voleva sapere cosa volevano fare da grandi i suoi allievi. Lo chiese per primo a Billy Mitzer. «Mio padre fa il banchiere», disse Billy. «Credo che piacerebbe anche a me. La banca è piena di soldi». «I miei hanno un alimentari», disse Emmy Di Salvo. «Papà sta dietro il banco e mamma fa la cassa. Ma io da grande voglio fare il pilota di linea». A Jodie piacevano le discussioni in classe, ma prima che arrivasse il suo turno, le ragazze scoppiarono a ridere. Una di loro urlò: «Il papà di Jodie fa il netturbino! Che puzza!» Risero tutti. Tutti tranne Jodie. Si guardò attorno. Alcuni si tappavano il naso. «Silenzio!» Il maestro non alzava mai la voce. Ci fu silenzio. Dalla finestra veniva rumore di macchine e passanti. «Quello dell’uomo della spazzatura» disse il maestro, «insomma, voglio dire… il netturbino, cioè l’operatore ecologico… è un lavoro estremamente utile e importante. Dobbiamo essere grati al Signor Harris. Come saremmo messi, senza di lui? Sommersi dai rifiuti, ecco come». «Che schifo!» Alcuni ragazzi risero di nuovo.

«Non è divertente», continuò il maestro. «Dovete delle scuse a Jodie. E inoltre scriverete una lettera a suo padre per dirgli quanto apprezzate ciò che fa per noi. Forza. Carta! Matita! Scrivete!» Alcuni dissero «Scusa, Jodie», ma non erano tanto sinceri. Nessuno voleva scrivere lettere. A Jodie veniva da piangere. Il maestro le strinse la spalla. «Andiamo nel corridoio mentre scrivono». Appena fuori dall’aula, Jodie scoppiò in lacrime. Non aveva voluto farlo davanti a tutti. Il maestro, alto quanto un campione di pallacanestro, si chinò per darle un fazzoletto. «Mi dispiace», disse. «Ma ricordati che non vi è nulla di male nell’essere un uomo della spaz… un netturbino… cioè, un operatore del verde. Anzi!» Il papà di Jodie venne a prenderla dopo scuola, come sempre. Lei non gli corse incontro, com’era solita fare. A casa, nella sua stanza, Jodie pianse ancora. Suo padre deve averla sentita. Bussò. Entrò. «Cos’è successo oggi, Jodie?» Jodie si vergognava. E poi non voleva ferirlo.

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«È un segreto?» «Mi hanno presa in giro a scuola perché sei un netturbino. Hanno detto che è un lavoro sporco, che puzzi. Hanno detto che anch’io puzzo». Jodie lo guardò. Sorrideva, sotto i baffi a tricheco. «Vuol dire che non sanno quanto sia divertente fare il netturbino». Ciò la rifece piangere. Suo padre l’abbracciò. «Dimmi la verità, Jodie: puzzo?» Jodie tirò su col naso. «Sai di sapone». «Suvvia, Jodie. Puoi dirmelo se puzzo». «Puzzi di buono». «I tuoi amici hanno ragione però. La nettezza è un lavoro sporco. Vediamo roba che è meglio non pensarci. E puzza. Ma poi arriviamo noi, buttiamo tutto nel camion, e il mondo torna bello. E io torno a casa per farmi la doccia. Mi piace il mio lavoro, Jodie. E anche i miei colleghi mi piacciono». La mamma di Jodie urlò che era pronta la cena. «Senti, Jodie, stasera vai a letto presto e domattina ti porto al lavoro con me. Così vedrai ciò che fa il tuo papà netturbino».


Jodie ebbe problemi ad addormentarsi. Si svegliò quando suo padre aprì la finestra della sua cameretta. Fuori era ancora buio. Oltre il fiume si vedevano bagliori blu e verdi. Jodie si mise vecchi jeans e una felpa. «Faremo colazione fuori», disse suo padre. Il deposito dei camion della spazzatura non era lontano. L’odore lì non era tanto buono. Jodie arricciò il naso. Suo padre rise. «Ti ci abituerai». C’era gente. Urlavano. Alcuni netturbini e netturbine vennero a salutare Jodie. Si sentì importante. C’era frastuono di motori. Big Al guidava il camion. Il mozzicone di sigaro spento che gli penzolava dalla bocca gli impediva di parlare. Il papà di Jodie le diede un paio di guantoni come i suoi. «Oggi staremo dietro. Tienti forte. Big Al andrà piano, ma se hai paura, dimmelo. Guiderò io e starai davanti con me». «Non ho paura», disse Jodie, ma un po’ ce l’aveva. Jodie si tenne così forte che quasi non sentiva l’odore che proveniva dal camion. Si fermarono. Jodie e suo padre saltarono giù. Il marciapiede era nascosto da sacchetti straripanti e bidoni. «Mi occupo della roba grossa, Jodie. Tu prendi i sacchetti più piccoli». Il papà di Jodie sollevava sacconi che dovevano pesare una tonnellata ciascuno e li buttava nel retro del camion come nulla fosse. Sbatteva i bidoni contro il retro del camion per svuotarli. Jodie sentiva frantumarsi bottiglie, lattine che crepitavano. Il camion divorava tutto. Non rimase più niente sul marciapiede. Jodie diede una mano a rimettere a posto i bidoni, poi si riaggrapparono alle sbarre dietro il camion. Il papà di Jodie urlò. Ripartirono. Big Al guidava piano, ma a terra il passo era frenetico. A una delle fermate, il papà di Jodie sollevò un saccone di plastica grigia. «Tasta qui». Jodie allungò la mano e strizzò il sacco della spazzatura. «Agh! Sembra una massa di spaghetti stracotti. Che roba è?» «Non lo sapremo mai». Qualunque roba fosse, il camion se lo inghiottì. Buttare spazzatura nel camion era divertente, ma anche tosto. Jodie sentiva dolori alle braccia, alle mani, alla schiena. Suo padre urlò, «È l’ora del pranzo!» Big Al suonò il clacson e si diresse ad un diner. «Lavati molto bene le mani, Jodie». Jodie prese un cheeseburger, patate

fritte e un frappè alla vaniglia. Era ganzo pranzare alle dieci del mattino. Gli spazzini bevvero caffè e poi era l’ora di tornare al lavoro. Jodie non poteva credere quanta spazzatura riusciva a stare nel camion, ma verso mezzogiorno era zeppo. «Alla discarica!» urlò il papà di Jodie. Big Al suonò il clacson e si avviarono. La discarica era fuori città. Big Al guidò più veloce. Jodie si aggrappò ancora più forte e guardò scorrere il mondo. Il tanfo della discarica si sentiva da un miglio. Passarono per il cancello. Jodie si chiese perché fosse necessario quel mastodontico recinto. Chi ruberebbe spazzatura? Volavano per aria stormi di gabbiani. Trovavano da mangiare in abbondanza alla discarica. Era impossibile tenerli fuori. Jodie e suo padre scesero. Big Al guidò il camion in cima a una delle montagne di spazzatura. Scese, si tolse il sigaro dalla bocca e urlò, «Ehi, Jodie! Oggi il lerciume lo rovesci tu». Jodie si sedette al volante nel sedile. Big Al le spiegò quali bottoni preme-

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re. Il dietro del camion s’innalzò. Ne scivolò fuori una disgustosa slavina. Jodie tirò la corda del clacson. Sembrava la sirena di una nave. I gabbiani volarono via, strillando. Tornando in città dalla discarica, Jodie e suo padre si sedettero accanto a Big Al. Jodie era stanca ma felice. «Questo è il momento più bello della giornata», disse suo padre. «Mentre gli altri sono ancora al lavoro, io torno a casa, mi lavo, do un grosso bacio a tua madre, e poi ti vengo a prendere a scuola». Jodie diede un bacione a suo padre netturbino puzzone. «Da grande voglio fare il netturbino anch’io». «Hai tanto tempo per decidere». Big Al si tolse il sigaro dalla bocca. «Mi sarebbe piaciuto avere una figlia come te». Jodie diede un bacino anche a lui. Ora, se qualcuno le chiede cosa fa suo padre, Jodie risponde: «Il netturbino!» E se per caso dicono «Che puzza!», aggiunge: «Tutti creano sudiciume. Mio padre lo porta via».


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Reality

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libro

almanacco pontederese

il PALP ospita la presentazione del nuovo almanacco Romina Bartolini e Marco Macelloni Benozzo Gianetti Marco Macelloni con Aleandro Roncarà e l'assessore alla cultura del comune di Pontedera Liviana Canovai

E

la tradizione continua... Con questo numero abbiamo voluto dare una svolta, un piccolo cambiamento, abbiamo osato e proposto una pubblicazione interamente a colori. Ci siamo rifatti il look un po’ per esorcizzare il momento grigio che tutti stiamo attraversando. E allora ripartiamo da qui con i colori e i fantastici disegni di Aleandro Roncarà che con

grande entusiasmo si è lanciato in questa avventura illustrando le pagine che seguono con i suoi personaggi e soprattutto con i suoi 12 segni zodiacali!!! Che dire, sono quelle situazioni che nascono così per caso ed è quindi con grande piacere che accogliamo Aleandro nella grande Famiglia della Bandecchi & Vivaldi. A corredo ci sono alcune bellissime

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foto di Marco Bruni. Ritratti dell’epoca e scorci di ieri e di oggi che raccontano la nostra Pontedera. L’anno di riferimento è il 1974, siamo nel pieno degli anni di piombo, dei grandi scioperi, delle lotte operaie: il 28 maggio ci fu la Strage della Loggia e il 4 agosto intorno all’una di notte nella carrozza 5 del treno espresso Roma-Monaco di Baviera, Italicus, esplose un ordigno ad alto potenziale causando 22 vittime e 48 feriti. Non mi dilungo e lascio a voi scoprire le pagine di questo Almanacco ringraziando tutti gli sponsor che ogni anno rispondono alla nostra richiesta di contributo, senza i quali non potremo continuare con questo appuntamento, tutti i nostri collaboratori, Sauro e la Giuliana, Benozzo, la Cristina, Michele e la Valentina, tutto lo staff della Bandecchi & Vivaldi, i Ragazzi e le ragazze del Palazzo Pretorio, Andrea Modesti e tutti coloro che continuano a credere nelle Tradizioni PontAderesi.


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novità editoriali Reality

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n folgorante esordio sulla dolcezza e lo scetticismo, sull’incertezza e sulla resistenza, sull’amore e la competizione. Curiosi, burberi, inafferrabili, irrisolti e romantici, oppure fragili, buffi, egoisti e testardi, i personaggi di Kim Rossi Stuart si muovono nelle loro storie con l’andamento irregolare e imprevedibile di una vita che sposta i cartelli e confonde le direzioni, per irriderli e confonderli ogni volta. Uomini (e donne) che combattono contro gli eventi e le loro stesse idiosincrasie, per provare a trovare, se non le risposte, almeno le domande giuste da porsi, in una ricerca di sé e di ciò che potrebbe esserci altrove, che, come un filo comune ma ben dissimulato, raccoglie assieme questi cinque racconti: microcosmi di amore, lotta, impazzimenti e visioni.

Le guarigioni

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a tavola è una vera e propria fabbrica di emozioni. E attraverso il cibo possiamo essere più felici, coraggiosi ed energici, ma anche placare l’ansia e riposare meglio… Spesso ci sentiamo preda delle emozioni, dello stress, della stanchezza e non sappiamo come uscirne. Marco ha concepito il suo nuovo libro proprio per liberarci da questo senso di oppressione con l'aiuto del cibo e ha individuato 7 categorie emotive su cui lavorare per ritrovare la carica necessaria: gli affetti; l’energia; il buonumore; la creatività; il riposo; la concentrazione; il coraggio. Per ogni categoria ha ideato 10 ricette facili e gustose e scritto numerose schede di approfondimento scientifico sugli ingredienti utilizzati e sui nutrienti che li compongono, facendoci così scoprire dei preziosi alleati per la nostra salute. Il cibo è la miglior terapia naturale, impariamo a conoscerlo e a usarlo nel modo più efficace, per stare meglio tutti i giorni e aiutare chi ci è vicino.

La mia cucina delle emozioni

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RIEN NE VA PLUS

di Rossi Stuart Kim La nave di Teseo

ROMANZO

CUCINA

ROMANZO

compare, letteralmente nel nulla, un furgone portavalori. Era carico di quasi tre milioni, le entrate del casinò di SaintVincent. Le dichiarazioni di una delle guardie, lasciata stordita sul terreno, mettono in moto delle indagini abbastanza rutinarie per rapina. Ma nell’intuizione del vicequestore Rocco Schiavone c’è qualcosa – lui la chiama «odore» – che non si incastra, qualcosa che a sorpresa collega tutto a un caso precedente che continua a rodergli dentro. «Doveva ricominciare daccapo, l’omicidio del ragioniere Favre aspettava ancora un mandante e forse c’era un dettaglio, un odore che non aveva percepito». Contro il parere dei capi della questura e della procura che vorrebbero libero il campo per un’inchiesta più altisonante, inizia così a macinare indizi verso una verità che come al solito nella sua esperienza pone interrogativi esistenziali pesanti. Il suo metodo è molto oltre l’ortodossia di un funzionario ben pettinato, e la sua vita è piena di complicazioni e contraddizioni.

È

il 1944 e a Crystal City ci sono famiglie giapponesi e tedesche, strappate al loro sogno americano per diventare prigioniere a casa propria, in nome della guerra che si sta combattendo molto lontano. Margot scrive tutto sul suo taccuino, anche quel primo incontro con Haruko. Non sa che ben presto, tra lei, di famiglia tedesca, e quella ragazzina giapponese appena arrivata, nascerà un’amicizia segreta, profonda e viscerale. Sono l’una l’opposto dell’altra, ma c’è una cosa che hanno in comune: il campo. Quel luogo senza aria che le sta cambiando profondamente. E quando Margot si troverà alle prese con un segreto che non può raccontare neanche ad Haruko, si vedrà costretta a compiere la scelta più difficile. E lo farà solo in nome dell’amicizia: perché il legame tra Margot e Haruko è più forte dell’orrore e dell’odio dei grandi. Insegnandoci che la libertà ha lo stesso nome, in ogni lingua del mondo.

ROMANZO

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di Marco Bianchi Edizioni Harper Collins

di Antonio Manzini Sellerio editore

LA GUERRA DI MARGOT di Monica Hesse Edizioni PIEMME

Angelo Errera


20° Reality

progetto

Craft The Leather un workshop per progettare il futuro Alessandro Bruschi

I partecipanti a Craft The Leather 2018

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ieci talenti, provenienti da prestigiose scuole internazionali di moda e di design, conoscono e interpretano il mondo della Pelle Conciata al Vegetale in Toscana attraverso la lente dell’arte contemporanea, della creatività manuale e dell’innovazione tecnologica. Questo è Craft The Leather, il progetto organizzato annualmente dal Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale, che si avvia alla conclusione della sua settima edizione e che ha visto la partecipazione, negli anni, di designer che oggi stanno ottenendo grandi successi e riconoscimenti. Il progetto. Craft The Leather si divide in tre fasi ben distinte. La prima prevede un workshop formativo della durata di una settimana che si svolge nel mese di maggio di ogni anno nel cuore della Toscana, a San Miniato, in una delle zone più famose per la sua lunga tradizione nella concia e nella manifat-

tura della pelle. Durante questa settimana, dieci studenti di moda e design scoprono ogni aspetto della concia al vegetale e fanno esperienze con i vari tipi di pelle e le diverse tecniche di lavorazione. Inoltre, grazie alla presenza di relatori qualificati, scoprono nel dettaglio il processo produttivo, dalle pelli grezzi alle fasi di concia, visitando le concerie del Consorzio e gli impianti di depurazione delle acque. Le visite proseguono poi all’interno di botteghe artigiane e musei fiorentini del costume, dedicati all’eccellenza della tradizione toscana della pelle. Nella seconda fase del progetto, il Consorzio consegna ai giovani designer una fornitura di pelle conciata al vegetale naturale offerta dalle concerie associate. I partecipanti, grazie alle conoscenze acquisite durante la settimana di workshop e alla loro creatività, sono chiamati ad elaborare un concetto e sviluppare un tema attorno

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al quale creare una linea di accessori in pelle al vegetale. I designer devono realizzare personalmente la collezione di prototipi per dimostrare anche la loro capacità manuale. La terza fase è il concorso finale. Il progetto Craft The Leather, infatti, si conclude ogni anno in concomitanza con l’edizione di febbraio di Lineapelle, dove i prototipi creati vengono esposti in uno stand dedicato all’interno della fiera internazionale. Una cornice importante, dunque, per dei giovani studenti alla prima esperienza nel campo della moda. Le scuole partecipanti. Alla settima edizione del progetto hanno partecipato alcune delle più importanti scuole di moda e design a livello internazionale. Da Tokyo sono arrivati il Bunka Fashion College, precursore dell’istruzione nel settore moda in Giappone e Hiko Mizuno, il primo college tecnico riconosciuto come istituto educativo nell’ambito della gioielleria e dell’accessoristica. Dal Regno Unito, invece, sono giunte due delegazioni: quella dell’istituto Central Saint Martins, facente parte della University of the Arts London (Ual) e riconosciuto a livello internazionale per la creatività dei suoi studenti nel campo dell’arredamento, della ceramica e della gioielleria, e quella del Royal College of Art, istituto dedito principalmente alla formazione postlaurea nel settore del design. Dagli Stati Uniti sono arrivati i designer del Fashion Institute of Technology, uno dei college più rinomati a livello mondiale per quanto riguarda la fashion industry, insieme ai colleghi del Rhode Islands School of Design, il college più importante nell’intero territorio statunitense per quanto riguarda le belle arti, e quelli del Pratt Institute Brooklyn Fashion + Design Accelerator, istituto


a carattere etico di moda e di design che fornisce a creativi e fondatori di aziende del settore le conoscenze per far crescere la propria attività in modo responsabile. Da Hangzhou, invece, è arrivata la delegazione della China Academy of Art, la prima accademia cinese ad essersi dotata di un completo programma accademico legato all’arte e alla moda. Tornando al territorio europeo hanno partecipato a Craft The Leather anche Elisava, una delle scuole più importanti della Spagna e dell’intero continente per quanto riguarda il design e l’architettura, e la Swedish School of Textiles, rinomato istituto dell’area scandinava che si concentra principalmente su design, management ed engineering. La proclamazione. Il vincitore della manifestazione verrà proclamato sommando i voti ricevuti in tre diverse votazioni. La prima derivante da una giuria tecnica altamente specializzata,

chiamata a giudicare e valutare le collezioni secondo cinque criteri: l’attinenza del concetto creativo alle qualità intrinseche della concia al vegetale, l’uso innovativo del materiale, l’eccellenza estetica, la capacità manuale nella realizzazione del prodotto e la coerenza e armonia della collezione. La seconda votazione si svolgerà online, sulla pagina Facebook ufficiale del Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale, in cui gli utenti esprimeranno la loro preferenza mettendo semplicemente un like alla foto della collezione prescelta. La terza votazione, invece, avverrà direttamente allo stand di Craft The Leather a Lineapelle, dove i visitatori riceveranno una scheda voto ed eleggeranno la loro collezione preferita. In attesa di conoscere il vincitore della settima edizione di Craft The Leather, che verrà reso noto al termine della fiera milanese, il Consorzio è già al lavoro per organizzare l’ottava edizione. Craft The Leather 2019 partirà ufficialmente il prossimo 5 maggio. Un progetto culturale. Craft The Lea-

ther, quindi, non è un semplice concorso o una mera sfida a chi conquista il premio finale. Certo, il vincitore riceve una borsa di studio offerta dal Consorzio per proseguire la propria formazio-

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ne professionale e il premio è ambito, ma Craft The Leather è molto di più: è un’immersione totale in un contesto economico, sociale e produttivo. È la scoperta di un materiale che racconta una storia e che al tempo stesso è l’espressione di un territorio, di una cultura e di una tradizione centenaria. È il racconto di un saper fare prettamente toscano, di conoscenze tramandate di generazione in generazione. È un percorso di arricchimento per tutti i giovani aspiranti design che, grazie alla combinazione con la loro creatività, permette a questo pellame unico di essere giustamente valorizzato. Ed è proprio questo l’obiettivo del Consorzio Vera Pelle: diffondere la cultura di un prodotto tradizionale a chi, giovane e determinato, si presenta sulla scena internazionale della moda e del design con la voglia di mettersi in gioco e le idee per farlo. E i risultati sono sorprendenti.

Giorgio Testi mostra ai partecipanti le tecniche di lavorazione



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pROGETTO REAliTy

genio e rispetto tra

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e nella storia c’è un personaggio che può essere consacrato come genio assoluto, per le sue opere e i suoi studi nei campi della pittura, scultura, invenzione, ingegneria, anatomia e scienza, questo è senza dubbio Leonardo da Vinci. Figura poliedrica del Rinascimento, ci ha lasciato studi ed opere in tantissimi settori, tali da renderlo l’esempio più forte del desiderio umano di conoscere e sapere. Senza limiti di campo e di spazio, nutriva la sua curiosità attraverso la ragione e allo stesso tempo la creatività, spesso geniale e futuristica. Questo anno, il 2 maggio, ricorrono i 500 anni dalla sua scomparsa e in giro per l’Italia, la Francia e l’Europa si moltiplicano eventi e iniziative per

ricordare ed esaltare la sua intelligenza, tanto addirittura da essere stato creato un apposito Comitato per l’anno di Leonardo da Vinci incaricato della supervisione e guida degli stessi. Per questo anche il nostro progetto rivolto alle prime medie del comprensorio, Rispetto a colori… pitturiamo la vita, si è orientato quest’anno verso le opere di questo personaggio di spicco del nostro territorio. Durante il percorso di tre incontri, i ragazzi dei comprensivi di Castelfranco di Sotto e Orentano, Santa Croce sull’Arno e Staffoli, avranno il piacere di apprezzare un’opera pittorica, diversa per ogni istituto e di poterla riprodurre con tecniche insolite sotto l’attento occhio delle

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nostre partner di Comunicarea. Nell’incontro finale, ogni classe realizzerà una copia dell’opera originale con materiali di recupero, pronta per la Mostra a loro dedicata il 3 e il 4 maggio negli spazi di Casaconcia a Ponte a Egola. All’evento è invitata tutta la cittadinanza del comprensorio e in quell’occasione, nel Rispetto (elemento chiave del nostro progetto) delle particolarità e del gusto di ognuno, saranno premiate le due classi che avranno raccolto più consensi. A breve nuove informazioni sugli eventi del Progetto Giovani, Gruppo Lapi. Seguici sulla pagina Facebook Progetto Giovani


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ciclismo

Giro d’Italia a Fucecchio

la seconda tappa nel ricordo di Indro Montanelli

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he Indro Montanelli sia stato un grande giornalista, uno storico e un arguto commentatore dei costumi italiani è cosa nota. Che però, nella sua lunghissima carriera, si fosse occupato anche di ciclismo forse sono in pochi a saperlo. Il celebre giornalista fucecchiese oltretutto condivide il proprio anno di nascita, il 1909, con la più importante corsa a tappe nazionale, il Giro d’Italia. E quest’anno la corsa rosa renderà omaggio a Montanelli: la seconda tappa, con partenza da Bologna, arriverà proprio a Fucecchio. Domenica 12 maggio sarà un giorno di festa: la città sarà protagonista delle cronache sportive

nazionali e internazionali grazie allo striscione di arrivo posizionato in via Fucecchiello, a due passi dal Palazzetto dello Sport. I ciclisti, tra l’altro, poco prima del traguardo transiteranno sotto alla scultura in acciaio dedicata a Indro Montanelli (La Libertà in un nastro “lettera 22”) realizzata dall’artista fucecchiese Marco Puccinelli nel 2017. Quella tra Fucecchio e il ciclismo è una lunga storia d’amore che si rinnova. Una storia d’amore fatta di grandi campioni. Come l’indimenticabile Secondo Magni, vincitore di una tappa del Giro d’Italia nel 1939, come Luca Scinto, che in tempi più recenti si è distinto vincendo anche il Giro di Toscana, e molti altri.

Domenica 12 maggio la carovana rosa delle due ruote arriva in Toscana con la seconda tappa Bologna-Fucecchio il Giro d'Italia

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E proprio grazie al lavoro dietro le quinte di un grande campione nato a Fucecchio, Andrea Tafi, il Giro arriverà nella città di Montanelli. Il mattatore della Parigi-Roubaix e del Giro delle Fiandre ha lavorato a lungo per portare nella propria terra una tappa del Giro e grazie anche alla concomitanza con le celebrazioni per i 500 anni dalla morte di Leonardo Da Vinci è riuscito nell’impresa proprio quest’anno. Il circondario empolese sarà protagonista della 102esima edizione del Giro d’Italia con ben due tappe: la seconda, come detto, che arriverà a Fucecchio e la terza che partirà da Vinci il giorno seguente per concludersi a Orbetello.


Per ottenere questo importante risultato che darà grande visibilità a Fucecchio portando migliaia di appassionati sulle nostre strade, a fianco di Tafi ha lavorato il sindaco di Fucecchio Alessio Spinelli. «Se la Toscana è da sempre terra di ciclismo – ha ricordato Spinelli – la nostra città rappresenta una delle zone più floride nello sfornare campioni. Siamo una terra fertile perché intrisa di passione per le due ruote. E non può essere un caso che in una piccola realtà come la nostra siano nati tanti campioni dello sport e in particolare del ciclismo. Tra le colline delle Cerbaie hanno iniziato a pedalare atleti che poi avrebbero conquistato la ribalta nazionale e internazionale. Il ciclismo è uno sport che fa parte delle tradizioni, direi oramai anche della storia di queste zone. E non è soltanto sport e competizione, è anche socializzazione e promozione di un territorio. Se a Fucecchio trova terreno fertile credo proprio che lo si debba a quel senso di appartenenza, di collettività e di operosità di cui è permeata la nostra città e la nostra gente. Un senso di comunità che non abbiamo mai smarrito, neanche di fronte ai grandi cambiamenti che caratterizzano i nostri tempi. È per questo che l’arrivo del Giro d’Italia non rappresenta soltanto una vittoria degli organizzatori e dell’amministrazione comunale ma è una vittoria della città e di tutti i fucecchiesi». La festa per Fucecchio non ci sarà soltanto domenica 12 maggio in occasione dell’arrivo della tappa. La città ha già iniziato a beneficiare del richiamo mediatico di una corsa così importante. Le foto dei principali monumenti cittadini campeggiano da giorni sul sito della Gazzetta dello Sport e sulle principali pubblicazioni del gruppo Rcs. E gli eventi in rosa si susseguiranno fino a maggio: sono previste mostre, iniziative dedicate alle scuole, gare ciclistiche amatoriali, giornate dedicate allo sport al femminile e molte altre manifestazioni legate al territorio. Fucecchio si è conquistata una vetrina di assoluto prestigio e intende sfruttala al meglio per farsi conoscere al grande pubblico.

Fucecchio omaggio a Indro Montanelli Il Sindaco Alessio Spinelli con Andrea Tafi

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ANDAR REAliTy pER bORGhi

una favola chiamata

Borgo Pignano Carmelo De Luca & Carlo Ciappina

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opra Montemiccioli, il torrente Era Viva rumoreggia testardamente, quasi a richiamare attenzione verso Borgo Pignano, le cui vestigia rimembrano fazioni bellicose rivendicanti il suo possesso. Operoso ospedale in epoca tardo medieva-

le, l’abitato diviene dimora signorile grazie ai marchesi Incontri. Tutt’oggi dalle sembianze fortificate, Pignano sfoggia il nobile passato tra mura merlate racchiudenti quella splendi-

da villa padronale ingentilita da una corte. Affreschi floreali rivaleggiano in bellezza con decorazioni richiamanti morbidi tendaggi e geometrie neoclassiche, visibili in molti ambienti collegati dallo scalone in pietra, tripudio del gusto tra antiquariato, chandelier muranesi, tappezzerie raffinate, ora divenute elegantissime suite con bagni in marmo inebriati di profumata lavanda. Questa atmosfera chic avvolge persino gli ambienti relax ricchi di mobilio antico, spazianti dalla fornitissima biblioteca alla sala biliardo, le cui pareti vantano importanti dipinti di scuola britannica e firme contemporanee presenti nell’antica sala da ballo, ora trasformata nella Pignano Art Gallery, arcuato spazio espositivo per mostre temporanee. A pochi passi, la Canonica in pietra conserva fascino secolare racchiuso nella architettura custodente affreschi medievali. Restaurata con cura, questa antica dimora sacerdotale è stata trasformata in signorile villa ricettiva con due suite, cucina medievale e tavolo da refettorio. Intorno, i casolari agricoli raccontano il recente passato, fatto di mezzadria, che aveva il suo fulcro aggregativo nella romanica pieve dedicata a San Bartolomeo Apostolo, le cui lastre pavimentali rievocano quegli etruschi sovrani in territorio toscano. Insomma, Borgo Pignano si impregna di turismo elitario. È così che le pertinenze seicentesche, oggi, ospitano lussuose dimore conservanti soffitti con travi a vista impreziosite da bei camini in pietra serena per una vacanza decisamente vip, magari comodamente rilassati in Villa La Fonte con vista sul lago oppure ne La Piccionaia, secolare maisonette rustico-chic prospiciente quello sce-

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nografico saliscendi di colline, ricche in vegetazione e campi arati, della nobile campagna pisana. Fuori, giardini curatissimi costellano terrazzamenti tra sentieri che portano nei boschi, raggiungibili a cavallo o in mountain bike, ma la vera chicca rimane la scenografica piscina scavata nella cava, genialata architettonica decisamente unica. In verità, Borgo Pignano rappresenta un gioiello storico-artistico ricco in aspettative per essere azienda agricola certificata nella produzione di miele, olio extravergine, farina tradizionale, vino, frutta, erbe officinali (utilizzate presso il Pignano Wellness Center) oppure per le lezioni di gastronomia locale. Haute cuisine, qui, si fonde con la tradizione toscana, sposando genuini ingredienti coltivati in azienda, affidati all’estro dello chef Vincenzo Martella, creatore di prelibata musica culinaria. Come resistere al gambero rosso con burrata e mandarini, al risotto Carnaroli Maremma con caprino, allo sgombro affumicato e limone salato, al muggine al vapore, al caldo freddo di cavolfiore e ostriche, cioccolato, lamponi e lenticchie croccanti? Questo sogno si realizza nel raffinato ristorante Villa Pignano, sofisticato melange di qualità, eleganza, professionalità. I vini, poi, sono decisamente strepitosi! In estate, Al Fresco bistrot rappresenta un’ottima variante informale per gustare carni grigliate, pizza, birra. L’otium giornaliero trova ottimo alleato nel barman Pietro, un fenomeno nel preparare cocktail eccezionali ma, appena svegli, Borgo Pignano ha in serbo per voi una colazione coi fiocchi, goduria trionfale tra pane, biscotti, crostate e confetture rigorosamente fatti in casa.


Regione Toscana

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Schedulatore Produzione Touch Screen Gestione della pianificazione dei lotti da produrre, colorati in base allo stato di lavorazione, tramite l’uso di un calendario interattivo Touch Screen. Visualizzazione di tutte le informazioni aggiornate del lotto: ordini collegati, grezzo, capitolati, test laboratorio, non conformità, etc Visualizzare grafici e tabelle sullo stato di occupazione delle macchine e dei terzisti esterni coinvolti nel ciclo di lavorazione

Production Box Rilevazione e controllo dei tempi e del piano di produzione con identificazione del lotto tramite tecnologia RFID HF o lettore di codice a barre Ricevere informazioni sul lotto da lavorare, su eventuali impostazioni da settare sulla macchina, sulle misure da verificare sul prodotto, note di lavorazione, osservazioni di qualità Selezionare il tipo di lavorazione e il ruolo degli operatori da effettuare sul lotto Può essere collegato al macchinario per ottenere i dati direttamente dai PLC


20° Reality

intervista

Anna Niccolini di Camugliano dalla formazione fiorentina alla conferma in Europa Domenico Savini

Anna Niccolini nel Palazzo del Marchese di Camugliano Cristina di Belgiojoso ritratta da Francesco Hayez (1832) Anna Niccolini di Camugliano nel salotto del camino

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ncontro Anna Niccolini di Camugliano nel giardino pènsile del palazzo familiare. Un edificio eretto nel XVI secolo, capofila di una serie di antiche costruzioni che smezzano due vetuste vie fiorentine prossime all’Arno: via del Moro e la parallela via dei Fossi. Il silenzioso giardino, soprastante una quindicina di metri rispetto ai piani stradali, occupa un’ampia superfice quadrata folta di piante, soprattutto alberi: «Fra questi una bellissima sughera delle Rocchette, lecci, mimose, camelie, ortensie, gardenie e le rose di Camugliano» spiega Anna, indicandomi alberi e cespugli multicolori come fossero vecchi amici. Poi parla di sé. «Ho frequentato il liceo linguistico a Firenze, successivamente mi sono laureata in pubblicità, marketing e comunicazione a Londra. In seguito ho frequentato la scuola di design KLC, sempre a Londra, dove ho conseguito il diploma in interior design. Trascorsi quattro anni in Inghilterra ho raggiunto Madrid dove ho lavorato per l’interior designer Isabel Lopez Quesada. Oggi la mia base è Milano

dove lavoro in uno studio di architettura». Come si svolgevano le tue giornate londinesi? Quando studiavo a Londra cercavo di ritagliarmi sempre un po’ di tempo verso sera per cucinare e sperimentare nuove ricette, spesso anche per gli amici. Le giornate erano intense, i corsi interessanti con compagni di studi di tutte le nazionalità. I professori stimolavano molto la nostra creatività insegnandoci ad osservare l’ambiente che ci circondava. Ci incoraggiavano a girare per la città e a coglierne le sfumature. Un mix meraviglioso di opportunità che mi hanno aperto nuovi orizzonti. Come ti sei ambientata a Londra e poi a Madrid? Londra è una città frenetica, offre molte opportunità. Poterla definire la mia casa per quattro anni è stata una gran fortuna. Durante l’università, fra gli altri progetti, abbiamo collaborato con un ospedale per sviluppare la ridistribuzione degli spazi. Madrid

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è stata invece una boccata d’aria: le persone, il clima, il modo di vivere, la sua vivacità la rendono simile all’Italia. Dal punto di vista del design è in crescita ed è stato davvero entusiasmante poterla vivere quale mia seconda residenza. È una città con molti giovani e creativa. Durante la mia permanenza ho seguito due progetti: una casa ad Aravaca, subito fuori Madrid, e un appartamento a New York. E a Milano? A Milano lavoro per Matteo e Susanne Thun, dove il mio ruolo si basa soprattutto sul concept design di alberghi e su alcuni progetti di residenze private. Come occupi il tempo libero? Leggo molto. I miei autori preferiti sono Sandor Marai e William Somerset Maugham; fra i classici Tolstoj e D’Annunzio. Ho recentemente scoperto Murakami, autore giapponese capace di suggestioni incredibili. Adoro anche camminare e girare la città per scoprire angoli nascosti e, fra questi, piccole botteghe e negozietti dell’usato. Il pianeta musica è variamente abitato: quali i generi e i protagonisti? Per quanto riguarda la musica non ho un genere preferito, anzi, mi diverte molto ascoltare autori diversi. Sono per me intramontabili i grandi Lucio Battisti, Lucio Dalla, Fabrizio De Andrè. Adoro anche i Rolling Stones e i Dire Straits. Hai citato la tua passione per la cucina: quali sono i piatti preferiti? E quali ti vengono meglio? Risotto all’uva: anche se sembra una combinazione insolita è davvero buono, provare per credere! Le scaloppine al marsala, l’anatra all’arancia e il brasato sono invece i miei piatti forti. Consideri Camugliano come il tuo


luogo dell’anima? Camugliano fa parte di me perché è lì che sono nata e provo una grande felicità ogni volta che vi ritorno. La sua natura è per me grande fonte di ispirazione. ANTENATI ILLUSTRI Nella storica famiglia fiorentina di Anna, si nota anche la presenza di letterati che si sono messi in evidenza come autori di memorie storiche: il drammaturgo Giovan Battista, nato a Bagni di San Giuliano di Pisa nel 1782, dove il padre era Commissario Regio. Lo scrittore compose diverse tragedie di soggetto patriottico, fra le quali il Giovanni da Procida, rappresentata nel 1830 e censurata perché auspicava un Regno d’Italia. Il suo capolavoro principale è ritenuto l’Arnaldo da Brescia. Morì a Firenze nel 1861 e fu sepolto nel Pantheon degli Italiani: la basilica di Santa Croce. Alla famiglia di Anna appartiene un altro letterato: il trisavolo senatore Eugenio Niccolini, undicesimo marchese di Camugliano e Ponsacco, autore non dimenticato del libro Giornate di caccia, apprezzato anche da Carducci, D’Annunzio e Renato Fucini. Eugenio Niccolini fu un letterato fra i più raffinati; raccolse nel suo libro molte delle sue esperienze venatorie, raccontate con nostalgìa verso quegli ambienti naturali della Maremma che già ai suoi tempi stavano cambiando o scomparendo. Continuando a sfogliare l’albero genealogico della famiglia di Anna troviamo anche Cristina Trivulzio, tra le principali figure femminili del Risorgimento italiano. Come era nell’uso delle famiglie nobili, studiò sotto la guida di precettori; a 16 anni sposò il giovane e avvenente principe Emilio di Belgiojoso, ma il loro matrimonio si risolse presto, rimanendo tuttavia in rapporti amichevoli. Nella seconda metà dell’Ottocento Cristina cominciò a frequentare i patrioti del Risorgimento, attirando su di sé le attenzioni della polizia asburgica di Milano, tanto che gran parte dei beni appartenenti alla nobildonna le vennero sequestrati. Sentendosi minacciata si rifugiò in Svizzera e poi in Francia, guadagnandosi da vivere facendo pizzi e coccarde. Tuttavia i disagi durarono poco perché il suo patrimonio fu presto dissequestrato. Nel salotto parigino Cristina ricevette personaggi illustri come il poeta Heinrich Heine, Franz Liszt e lo scrittore Alfredo de Musset, tenendo una corrispondenza con il generale La Fayette, protagonista della rivoluzione americana e poi di quella francese. Scrisse e finanziò giornali patriottici aiutando i fuoriusciti italiani. A Locate, non lontano da Milano, dove pos-

sedeva una proprietà, Cristina fondò un asilo per bambini poveri e scuole maschili e femminili, nonché forme di previdenza per i contadini. Negli anni caldi che prepararono i moti rivoluzionari del ’48 incontrò Cavour, Cesare Balbo, Niccolò Tommaseo e Giuseppe Montanelli. Nel 1849 fu solidale con gli esponenti della Repubblica Romana capeggiata da Giuseppe Mazzini. Un’esperienza durante la quale Cristina si espose ad ogni rischio: trascorse intere giornate negli ospedali e organizzò un corpo di infermiere, precettando per questo compito gentildonne dell’aristocrazia romana, dame borghesi e alcune popolane, scandalizzando in questo modo i benpensanti. Dopo la caduta della Repubblica riparò in Turchia: qui acquistò una proprietà e

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fondò una colonia agricola per i profughi italiani, continuando a scrivere articoli di acceso verismo dedicati alle vicine regioni del Medio Oriente. Rientrata in possesso dei propri beni poté tornare in Italia. Nel 1860 la figlia Maria sposò Ludovico Trotti Bentivoglio, a sua volta madre della bisnonna paterna di Anna, Ludovica Valperga di Masino, sposata con Lorenzo Niccolini. Nel 1861, dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, la principessa di Belgiojoso, lasciata l’attività politica, visse tra Milano, Locate e il lago di Como. Morì nel 1871 a Locate, dove si trova la sua sepoltura, all’età di 63 anni. Se nella memoria collettiva, oggi, Cristina di Belgiojoso è quasi dimenticata, il ricordo di lei lo ritroviamo nelle pagine del nostro Risorgimento.

Palazzo del Marchese di Camugliano: la sala da pranzo e il giardino pènsile Fotografie di Moreno Vassallo


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“C’è qualcosa che va oltre a un lavoro eseguito a regola d’arte... ci sono la dedizione al risultato e il piacere del compimento...”


20°

architettura Reality

Francis Lloyd

Wright

l’architetto progettò l’integrazione degli edifici nella Natura

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ono molto occupato in questo piccolo nido d’aquila sul ciglio della montagna sopra Fiesole». Con queste parole il celebre architetto statunitense Francis Lloyd Wright (Richland Center, Wisconsin 1867 - Phoenix, Arizona 1959) esprime la propria intima soddisfazione di abitare sulle colline di Fiesole, nel villino Belvedere, in via Verdi, dove si rifugiò fra il marzo e il settembre 1910. La Toscana fu da lui raggiunta dopo aver trascorso una serie di sofferte vicende affettive. Il luogo scelto servì a fargli recuperare fiducia in sé stesso e nelle sue straordinarie capacità creative, già ben avviate. Da Fiesole poteva ammirare Firenze che si distendeva nella valle dell'Arno. Lo incantavano le foschìe mattutine e il luminoso sole, che irradiava sulle colline circostanti. Le sue novità consistevano nell’armonizzare i progetti con gli ambienti naturali circostanti. In questo tentativo fu capace di compiere il geniale èsito di un percorso professionale del tutto innovativo, tanto da essere considerato, insieme con Le Corbusier, Walter Gropius e Alvar Aalto, uno dei maestri del

Movimento Moderno in architettura e fonte di ispirazione per future generazioni, stupite di fronte a quelle realizzazioni, che allora apparivano del tutto improbabili. Wright era una personalità completa: formata da una tecnica del tutto personale, basata non solo sulla fantasia. Fu anche uomo di profonda cultura, conoscitore del Rinascimento e attento lettore delle celebri Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani di Giorgio Vasari. I suoi interessi lo portarono a prediligere la costruzione di case d’abitazione unifamiliari (“Prairie houses”, Case della prateria) privilegiando l’uso dei materiali locali. Questi progetti costituirono l’aspetto determinante della sua prima forma d’attività. Fra le sue più importanti realizzazioni rimaste nella storia dell’architettura ricordiamo l’Imperial Hotel di Tokyo, la Fallingwater (Pennsylvania, 1936-1939), nota come la “Casa sulla cascata”, dalle ardite e spettacolari strutture, e il Salomon R. Guggenheim Museum di New York a forma di spirale. Ormai celebre, Wright tornò a Firenze nel giugno 1951, dove, nel corso di una ceri-

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monia in Palazzo Vecchio, ricevette Massimo De Francesco dal sindaco Mario Fabiani la cittadinanza onoraria. Nel programma era prevista l’inaugurazione di una Francis Lloyd Wright mostra antologica a lui dedicata in Palazzo Strozzi. Seguirà, in occasioLa Casa sulla cascata ne del centenario del soggiorno di il villino Belvedere, a Fiesole Wright in Toscana (1910-2010), una mostra documentaria presentata a Foto concesse dalla Casa editrice “Polistampa”, Fiesole. Firenze.


20° Reality

moda

Pitti Uomo

2019

un viaggio nel nuovo stile classico e postmoderno

Federica Farini

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itti 95 The Pitti Box ha chiuso i battenti a gennaio, lasciando dietro di sé una scia ricca di energia ed i colori tipici di una vera e propria corrente culturale più che di un appuntamento fashion. Una corrente in cui tendenze e stili si intrecciano in tessuti altamente performanti e mescolati a note di luxury: una moda concreta, solidale, avanguardista, pratica e senza inutili eccessi. Trentaseimila circa i visitatori. Massiccia la presenza straniera, che vede il Giappone come punta di diamante nel numero di buyers, seguiti nell’ordine dagli acquirenti arrivati da Corea, Germania, Russia, Francia, Olanda, Stati Uniti, Turchia, Austria e Portogallo. Tra i Paesi nord europei svettano Norvegia e Finlandia. Bene anche l’Europa dell’Est, mentre tra gli extraeuropei si fanno notare Messico, Australia, Brasile e India. Un’edizione multiculturale insomma, densa di contaminazioni artigianali straniere e di richiami ad uno stile dalle linee pulite - orientali e nordiche - che riscopre la classe di marchi passati rivisitati nel presente (Barbourche, Diadora, Moon Boot e Levis con il rilancio del primo jeans twisted) ed ecososteni-

bile (con produttori che si adoperano per investire in attività di riciclo e impatto ambientale zero, come Bav Tailor, Burberry, Vivienne Westwood e Stella McCartney). Raffaello Napoleone, amministratore delegato di Pitti Immagine e organizzatore della 95esima edizione di Pitti Uomo, ha illustrato il viaggio che il visitatore ha potuto percorrere attraverso la mostra, dove i box sensoriali hanno accolto gli ospiti per risvegliarne tutti i loro sensi. I trend: la pelliccia (ecologica, animalier e colorata); i colori accesi e fluo, dal fucsia all’arancio, dal giallo e verde fluo al blu elettrico, per creare un effetto dance; la camicia (originale Ginosa Angelo Inglese nel progetto Sartoria, Design e Food per una collezione bella e appetitosa); lo stile sportivo mixato al classico (Balenciaga); fitness: aperto a tutti il Push Hard Pitti Run, running in partenza da Piazza Santa Maria Novella, organizzato dal PH Apparel per accompagnare ISAORA nella sezione I GO OUT di Pitti Uomo, area dedicata al nuovo concetto di stile outdoor; zaini (sempre più casa portatile) e sneakers come rivisitazioni iper tecnologiche

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dei modelli da tennis (Trigenic III di Clarks Originals) con suola scanalata per una sensazione così libera da non sembrare di indossare calzature. Giacche e piumini si impreziosiscono (Herno), forte la presenza di cashmere, mohair e felpe (Kappa, con inserti in raso), abbinamenti insoliti come il dolcevita a righe da indossare al posto della camicia, pantaloni chinos e


sartoriali dalle linee comode e pratiche, tessuto tecnico e un mare di denim lavorato con tecnologie avanguardiste ed eco. Tra le calzature vincono due evergreen: anfibi in versione decorata e stivaletti stringati. Let’s party! - Le feste hanno spopolato a Pitti 95 come eventi culturali e di costume, dalla mostra multimediale alla Stazione Leopolda per i primi 70 anni del marchio Diadora, all’evento Levis al Tepidarium del Roster per il rilancio del rivisitato e ipertecnologico prodotto Engineered Jeans, fino al cortometraggio I Bellissimi per celebrare la campagna pubblicitaria Primavera Estate 2019 di Harmont & Blaine e alle lezioni di moda dei Talking Heads (presentazioni e incontri one to one con esperti internazionali di menswear e lifestyle, Camera italiana buyer moda e fashion shows a ruota). La pelle - Protagonista dell’edizione,

la pelle si è distinta nel progetto The Japanese White Leather Project nella sezione Touch!: quattro designer giapponesi specializzati nella lavora-

zione della pelle bianca artigianale al lavoro con le loro creazioni, vere e proprie opere d’arte artigianale. La concia toscana si è raccontata

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invece a Palazzo Vecchio – nelle tre giornate di Pitti Emozione Pelle by Associazione Conciatori - nella sua storia di eccellenza mondiale e come esempio internazionale (filiera della pelle del distretto conciario di Santa Croce sull’Arno). I numeri dell’Associazione Conciatori, con le sue 150 aziende associate, parlano di un fatturato medio annuo pari al 35% della produzione nazionale di pelli e il 98% della produzione nazionale di cuoio da suola. Chi – Ospiti d’eccezione alla Fortezza da Basso, in un fermento mondano costante: Fabrizio Corona per Favelas De Rio, Christian Vieri per Kejo, Ilary Blasi per Gaelle Paris e Benji e Fede per Divisibile. Lusso e festa di beneficenza da Luisa Via Roma - che allestisce un Eden dalle piume griffate Attico - al quale non hanno saputo resistere nemmeno Paris Hilton, oltre che Leonardo Ferragamo, Ermanno Scervino ed Eva Cavalli. Pitti ombelico della moda.


20° Reality

società

Danilo Donati

la modernità di un costumista eclettico

Costanza Contu

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e eclettico è colui che «nell’arte e nella scienza non segue un determinato sistema o indirizzo, ma sceglie o armonizza I principi che ritiene migliori», allora Danilo Donati incarna l’eclettico per eccellenza. Rappresentò nell’immediato dopoguerra, «l’entusiasmo creativo» dell’Italia sopravvissuta al dramma bellico ed è stato «uno dei personaggi più rappresentativi della forza italiana di quel periodo, di quelle figure che hanno costruito un mondo insuperabile che ancora ci viene riconosciuto come tale, di quegli artisti arrivati a Roma da tutta l’Italia che hanno trovato la loro strada camminando fra mille mestieri, condividendo stanze e poco cibo e un sapere intuitivo che prevale sul titolo di studio». L’intuizione, la creatività e l’attitudine alla manualità portavano questi italiani alla realizzazione di un artigianato d’eccellenza, creato da una genialità stimolata da una condizione sociale

e storica non sempre vantaggiosa, come in parte affermava in un’intervista alla Rai Federico Fellini: «Sono portato a credere che meno sono I mezzi tecnici a disposizione e più viene stimolata, nel senso dell’espressione, la fantasia; e che il talento per esprimerla sia l’aspetto artigianale dell’autore». Donati nasce a Luzzara nel 1926, frequenta la Scuola d’Arte di Porta Romana a Firenze consacrando la sua grande passione per le arti figurative e letterarie e, negli anni dell’Italia post bellica, conosceva il pittore Ottone Rosai che diventerà suo maestro d'arte. Dopo periodi critici successi alla morte della madre, Danilo iniziò la sua brillante carriera che tale rimarrà fino all’ultimo lavoro accanto a Roberto Benigni per il quale ideò i costumi del film Pinocchio, uscito nel 2002, un anno dopo la sua morte. Nel 1959 debuttò al fianco di Mario Monicelli nel film La grande guerra. In

Danilo Donati Costumi di scena di Romeo e Giulietta Pagina a fronte Abito di Giulietta in Romeo e Giulietta di William Shakespeare, Fondazione Cerratelli 1968 Michelangelo Pistoletto Dietrofront, Porta Romana, Firenze 1984 Il Casanova di Fellini, Farani Sartoria Teatrale. 1976

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quegli anni conosce a Milano Luchino Visconti e a Roma incontra Franco Zeffirelli, regista straordinario che stimolò la sua feconda creatività. Per lui Donati disegnò abiti bellissimi meritevoli di uno dei riconoscimenti più ambiti e importanti al mondo, il premio Oscar: nel 1969 gli abiti del film Romeo e Giulietta vinsero il premio Oscar come migliori costumi. Gli anni Sessanta e Settanta lo vedono accanto ad alcune personalità d’eccellenza che hanno costruito la storia della cinematografia italiana e del teatro e che tutt’oggi il mondo ci invidia; è per il poco spazio qui disponibile che posso rammentare solo alcune delle collaborazioni di Donati, perché ricchissima è la sua carriera artistica e tantissime sono le personalità con le quali ha collaborato. Ricordo il suo intervento accanto a Pier Paolo Pasolini con lavori straordinari quali ad esempio l’Edipo Re, il Decameron o I Racconti di Canterbury, mentre insieme a Federico Fellini ricordo I Clowns, opera del 1970, Amarcord del 1973 e il Il Casanova del 1976 che fece vincere a Donati il secondo Oscar per i costumi. Il mondo del cinema, dello spettacolo e delle rappresentazioni teatrali erano «l’opportunità per lavorare ma soprattutto per sperimentare quell’eclettismo creativo tipico del nostro codice genetico: uomini geniali e con spirito visionario hanno gettato le basi di quel patrimonio artigianale che non conosce limiti e che oggi, in una crisi simile a quella vissuta allora, riprende valore e importanza». Il costumista, come l’artigiano delle antiche botteghe d’arte, creava il suo capolavoro insieme a un gruppo di professionisti che si impegnavano per alla realizzazione di un’opera


d’arte perfetta. Calzanti a tal proposito le parole del maestro Franco Zeffirelli che affermava «il cinema è un lavoro collettivo, un’assemblea di professionisti, anzi, no, meglio, è un lavoro di bottega, come nelle grandi botteghe del Rinascimento dove c’era un maestro che scolpiva o dipingeva e tutti gli altri che aiutavano». Dell’assemblea dei professionisti di cui ci parla Zeffirelli facevano parte sicuramente anche le prestigiose sartorie che rendevano possibile la creazione dei costumi di scena; ne vorrei ricordare almeno due in cui Danilo Donati ha lavorato intensamente per la realizzazione dei suoi capolavori: la Casa d’Arte Cerratelli di via della Pergola a Firenze, nata nel 1914 per volontà del baritono Arturo Cerratelli e Farani la Sartoria Teatrale di Roma nata dalla determinazione di un giovanissimo Piero Farani. In questi ambienti, dove l’artigianato si mescola con la genialità che deve essere però fondata sulla conoscenza, si muove, crea e lavora Danilo Donati. Egli conosce ogni minimo dettaglio della lavorazione tessile, dal taglio ai bagni di tintura dei tessuti che lui stesso effettuava all’interno della sartoria e alle loro decorazioni; la sua abilità manuale non era dunque solo nel progetto del disegno ma anche nella realizzazione concreta del costume. L’ispirazione che contribuiva alla realizzazione dell’abito si manifestava al costumista attraverso la conoscenza della cultura storico artistica che questi artigiani si portavano dentro, come bagaglio inscindibile del proprio vissuto. Donati sperimenta per le sue opere epoche storiche diverse fra di loro a seconda del genere di film che si doveva realizzare, in accordo con il regista che doveva coordinare il lavoro: spazia dalla Grecia antica al Medioevo fino al Rinascimento di Ro-

meo e Giulietta e all’epoca settecentesca del Casanova, ispirandosi alle testimonianze tangibili dell’arte che lui ben conosceva. I richiami alla pittura delle varie epoche nei suoi costumi sono lampanti ma interpretati in maniera assai singolare, attraverso un mondo che Donati conosceva e che seppe rielaborare fino a creare l’illusione. Floridia Benedettini e Diego Fiorini della Fondazione Cerratelli, che oggi conserva un’importante collezione di abiti teatrali e cinematografici, descrivono in maniera molto precisa questo aspetto di Donati: «Non aveva quell’ansia, quella preoccupazione che si può avere di fronte allo zoom della macchina da presa, che indaga ogni centimetro del costume. Non si è mai preoccupato che potesse saltare all’occhio dello spettatore che il decoro del costume era di cordoni dorati e argentati e non applicazioni di cordoni e pietre preziose che lui citava come reperto storico, una finzione presa in prestito dal teatro, dove la distanza faceva il suo gioco. Al cinema tutto doveva essere come vero ma il suo obbiettivo era provocare, dichiarare che non importava che il tessuto utilizzato fosse quello in uso nel periodo che si vuole rappresentare, che i ricami del costume fossero di oro finissimo e preziosissime gemme. Donati non utilizzava niente di tutto ciò, si affidava al suo genio creativo e all’abilità della sartoria Cerratelli per creare manufatti con il sapore del tempo, imbevuti di storia e di riferimenti iconografici». I costumi di Donati risultano dunque moderni grazie ai singolari materiali utilizzati, alle loro linee che richiamano l’iconografia di epoche passate e che diventano solo un ricordo attualizzato. Quello che si vede nelle immagini dell’arte non è la realtà della vita quotidiana che i protagonisti delle opere cinematografiche vivono; deve essere ispirazione, non è realtà quella che vediamo in un bel ritratto del XIV secolo, ma diventa punto di partenza per la creatività e la costruzione del verosimile che sta alla base della realizzazione dei costumi di Donati come lui stesso afferma: «Quando tu vedi un quadro, è perché qualcuno ha voluto fermare nel tempo un’immagine. Il cinema è il contrario. È il movimento, è la verità, è il caso». I personaggi vestiti da Donati non sono statici, si muovono nello spazio e ogni abito, a secondo del tipo di tessuto utilizzato, dalle fogge e dei colori, caratterizza lo status del personaggio stesso. Que-

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sta è la grande modernità dell’arte di Danilo Donati, tanto moderno da farmi pensare a quella particolare scultura che ci troviamo di fronte tutte le volte che passiamo da Porta Romana a Firenze: due donne si sovrastano, una guarda dentro la città, l’altra è rivolta verso la modernità, fuori dalle mura cittadine, lontana ma ancorata alla storia che ha reso grande Firenze. È il Dietrofront di Michelangelo Pistoletto (1984), una scultura che porta con sé un messaggio importante e che ritorna anche nelle creazioni di Donati: conosciamo e conserviamo in memoria il nostro passato che costruisce le radici del nostro esistere, ma guardiamo al futuro e alla modernità che permette il cambiamento e l’evoluzione della storia delle cose.

Nota: I testi trascritti sono stati ripresi in: Trame di Cinema, Danilo Donati e la sartoria Farani, a cura di Clara Tosi Pamphili. Cinisello Balsamo, Milano 2014; Romeo e Giulietta Un amore da Oscar, Fondazione Hermann Geiger, catalogo della mostra a cura di Alessandro Schiavetti, Cecina, 2013


20° Reality

società

il

sarto

diEmpoli

un premio al Teatro Il Momento a Piero Borghini Andrea Mancini

La satoria studio di Piero Borghini nelle foto di Massimo Agus

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abato 9 marzo, alle 21, al Teatro Il Momento di Empoli in via del Giglio 59, si terrà un serata particolare, dedicata a Piero Borghini, il sarto di Empoli. Un evento che può rientrare in un’esaltazione dell’arte o ancora di più dell’artigianato d’arte, in tutti i suoi aspetti, dalla musica al teatro, dalla pittura fino appunto ad una sartoria che si è sempre sviluppata come attività artistica, o comunque di altissima manualità. Piero Borghini, appunto, ha vestito tutta Empoli ma anche i suoi dintorni, soprattutto nei momenti importanti, in particolare i matrimoni, tutti giocati intorno a spose meravigliose, vestite appunto dalla Sartoria Borghini. Ognuna di queste donne ha conservato in casa quegli abiti di sogno. E il progetto che parte il 9 marzo sarà proprio quello di recuperarne il più possibile, catalogandoli e fotografandoli, dando a ciascuno di questi magnifici capi il valore che merita.

Ma chi è Piero Borghini, e quale è stato il suo percorso? Piero viene vinto prestissimo – addirittura dai primi anni Sessanta, dunque ancora adolescente - dal fascino dei colori e delle stoffe: lavora in un mitico negozio di tessuti, diventandone da subito un elemento fondamentale. Ben presto decide di aprire le sue sartorie, che sono esse stesse luoghi di incanto, dove i clienti - quasi sempre donne - si lasciano sedurre dall’eleganza del modo con cui Piero si avvicina alle loro esigenze. Nel tempo Borghini sarà lusingato da numerose offerte, potrebbe lanciarsi nel mondo spesso illusorio della moda, ma sembra preferire la sua vita di provincia, fatta anche della parentesi teatrale consumata insieme a Giuliano Lensi, un regista senese, che ebbe una certa fama proprio insieme a Borghini, il suo costumista, arrivando sino alla Biennale di Venezia. Per il resto ci viene in aiuto Rossa-

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na Ragionieri che qualche anno fa gli dedicò uno scritto intitolato La tenacia della creatività (su Il Segno di Empoli n.92/2013): «Rigore e semplicità sono parole che ricorrono nell’idea che Piero ha della moda. Talvolta basta un bottone, un particolare minimo per trasformare un semplice tubino in un modello di valore. Non sono necessari scolli o decorazioni ostentate, perché l’abito bello è semplice e rigoroso». Piero ha apprezzato nel tempo le creazioni di Capucci, Valentino e Saint Laurent, ma ha seguito sempre il suo sicuro gusto estetico. Un gusto che si traduce anche nell’attività collaterale di pittore. La mano felice che traccia gli schizzi lavora, in un primo tempo, con i gessetti, poi con gli acrilici. I suoi quadri sono solo apparentemente attraversati da un senso fanciullesco, ma nascondono, e non troppo, un senso profondo di attesa e di magia, di solitudine e di speranza…


La serata del 9 marzo avrà un momento espositivo, con una mostra di belle fotografie di Massimo Agus, dedicate all’attuale sartoria studio di Piero Borghini, in via Salvagnoli a Empoli. Ci saranno poi alcuni suoi grandi e coloratissimi quadri e naturalmente una serie di abiti realizzati negli anni dal suo laboratorio. Il programma di spettacolo si svolgerà invece alternando momenti musicali, curati dal Centro Musicale Ferruccio Busoni, a momenti teatrali, con le letture di Giuliano Scabia, il grande poeta, protagonista della più bella stagione del teatro d’avanguardia in Italia e Riccardo Zini, un attore applaudito in tante produzioni del Teatro Stabile di Bolzano, con la regia di Marco Bernardi, ma anche nelle vesti di Jacopo da Pontormo, in un indimenticato spettacolo dedicato al grande pittore, visto a Empoli pochi anni orsono. Da ricordare infine quella che sarà la premiazione vera e propria di Piero Borghini, con l’intervento di varie

personalità di Empoli, in rappresentanza dell’Amministrazione comunale, ma anche di enti e istituzioni che celebreranno il lavoro per Empoli di questo suo illustre cittadino.

UN TEATRO PER EMPOLI

Con questo titolo si presenta alla città la stagione del Teatro Il Momento, diretta da Andrea Mancini, con sedici serate di spettacoli, molti dei quali prodotti all’interno del teatro: uno spazio storico per Empoli (proprio qui, novecento anni fa, fu fondata la città), che ospitava il cinema Elios, frequentato dalla maggior parte dei giovani empolesi. Ha scritto Mancini: «A Empoli non manca l’attività teatrale, non è mai mancata, organizzata dagli enti pubblici e dai privati, ma intitolare Un Teatro per Empoli la stagione, significa anche qualcosa di diverso, vuol dire che il nostro lavoro si rivolge alla città e che da lei vorrebbe una sorta di consacrazione». Frasi piene di aspettative, che si sono rivelate profetiche, perché Empoli ha risposto con generosità agli spettacoli che si sono succeduti di settimana in settimana, in particolare quello su Carlo Levi, con Paolo Giommarelli e Silvia Bagnoli, che dopo un lungo ciclo di prove al Momento, inizierà una lunga stagione di repliche a partire da quella del 14 marzo al Teatro Puccini di Firenze; e anche l’altro intensissimo su Carlo Castellani, bomber dell’Empoli, con Erika Casula e Stefano Vestrini al contrabbasso. Alla serata su Borghini seguiranno altri spettacoli importanti come quello di Manola Nifosì, il 30 marzo (dedicato alle donne) o il Plauto del 20 aprile, per chiudere con Draghi il 27 e con E quindi uscimmo a riveder le stelle, dove un grande Giorgio Colangeli (attore in quasi tutto il cinema italiano), reciterà buona parte del Purgatorio di Dante. Tra le domenicali di Teatro Ragazzi (sei pomeridiane) bisogna almeno segnalare l’ultima, il 28 aprile, dedicata ad un monumento del teatro di figura internazionale, cioè il grande Claudio Cinelli, che si cimenterà con il suo cavallo di battaglia, quello Skretch che qualcuno ha visto decine di volte, senza riuscire mai ad annoiarsi o a perdere interesse: insomma, qualcosa di assolutamente mitico, da non perdere!

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evento Reality

10+10 fa

Reality 20 18

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torie. E quante storie in questi vent'anni di fanciullesca memoria poiché c'è chi legge, chi scrive, chi pensa, chi crea... chi corregge, chi clicca col mouse e non invecchia mai! Ed allora via a tutte le storie del mondo come cantava il toscano Riccardo Fogli, «Storie di tutta la genteee...», in questo lasso di tempo trascorso come un soffio dove Reality, nell'area lounge del Museo della Conceria, in quel di Santa Croce sull'Arno, ha presentato la bella (ma quando mai è stata brutta!) rivista, tutta ricca di colore, coi simpatici corsivi e buona impaginazione. 1998-2018. Di acqua ne è passata in un luogo dove il lavoro regna, ove anche i grandi industriali si alzano all'alba felici d'iniziare il nuovo giorno in quelle strade sterminate dalle

mille concerie. Aldo Caponi, conosciuto maggiormente come Don Backy, viene proprio da questa zona del cuoio, vicina a Castelfranco di Sotto, dove Daniele Falleri, anche lui ricco d'estro e fantasia, decise con successo di dedicarsi alla regia. Come del resto la santacrocese Margherita Casazza, regista infaticabile nei suoi mille impegni di direttoreeditore di questo magazine, capace poco a poco con costanza, occhio lungo, lungimiranza e perché no con un pizzico di sana follia, di credere in tale prosieguo, rivelatosi poi di buon successo. Cominciò scrivendo e poi ancora a scrivere, sino a diventare giornalista e direttrice di Reality. Spiacente per gli uomini, ma «le donne hanno una marcia in più». Il resto è storia, visto che con ansia il trimestrale viene atteso dai fedeli

Carla Cavicchini

Margherita Casazza, Mariangela Bucci, assessore alla cultura, Giulia Deidda, sindaco di Santa Croce sull'Arno, Eugenio Giani, presidente del Consiglio Regione Toscana, Nicola Micieli e Angelo Scaduto, presidente della Proloco di Santa Croce sull'Arno

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lettori - così hanno osservato i relatori nella saletta piena zeppa con le varie autorità accanto - sotto il cipiglio scrutatrice di Alessandro simpatico al momento, ma anche estremamente rigoroso per la buona uscita di Reality. Che dire ancora? Mah... di quell'amaretto offerto durante questo ventennale in una bella giornata di sole proprio in via di Pelle al n.28, magnificandolo quale prodotto d'eccellenza del territorio ed ancora, omaggiati dalla rivista, giriamo la copertina ed eccoti accanto a Romano Battaglia che offriva Reality ai tipi del Caffè della Versiliana tradizione che continua - ed ancora Dario Ballantini, il comico Ariani, Renzo Arbore, il compianto pittore Giuliano Ghelli, Panariello, Maria Rita Parsi, la flessuosa Belen, Simona Ventura, Dilvo Lotti, Betty Barsantini e tanti, tanti altri ancora. Che ci fanno? In un giornale che scommise sull'economia, arte, cultura, sociale, spettacolo e costume, beh... ne rappresentano il fiore all'occhiello. Un bel poker se lo meritano. Ed allora... «Reality si gira!»

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iNDuSTRiA REAliTy

EMOZIONE PELLE

la concia toscana incanta Firenze

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i scrive concia, si legge emozione: il distretto conciario di Santa Croce sull’Arno si conferma il mix incredibile di temi, numeri e curiosità che ne fanno una delle realtà industriali di maggiore appeal, in grado di coinvolgere un pubblico sempre più trasversale. Come quello che mercoledì 9 gennaio ha partecipato all’evento Emozione Pelle, che ha visto una meravigliosa sala D’Arme, a Palazzo Vecchio, a Firenze, gremita di ospiti rappresentativi di diverse realtà dell’intero tessuto socio-economico nazionale. La concia tra talk e creatività Dal titolo scelto per introdurre l’evento alle sue fasi conclusive, è stato tutto un susseguirsi di emozioni, con gli ospiti in platea sorpresi dal racconto del distretto proposto dall’Assoconciatori. Il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, tra le autorità presenti, ha sottolineato l’eccezionalità del distretto conciario divenuto modello di economia circolare, e l’importanza di condividere, tra pubblico e privato, strategie comuni: al presidente Rossi anche il compito di consegnare un riconoscimento al direttore Assoconciatori Piero Maccanti, tra i personaggi più rappresentativi del distretto conciario di Santa Croce sull’Arno, introdotto da

un brillante monologo del drammaturgo Stefano Massini. Stefano Nicoletti/ DGPS Farnesina, ha illustrato gli strumenti con cui il Ministero degli Esteri può incentivare realtà industriali virtuose come il distretto, mentre Giulia Deidda, sindaco di Santa Croce sull’Arno ha parlato della unicità per il comparto concia delle infrastrutture industriali del distretto toscano. Con loro Alessandro Francioni ed Aldo Gliozzi, rispettivamente presidente e vicedirettore Assoconcia, per un intervento tra investimenti in corso e strategie per la formazione. I giornalisti Duilio Giammaria e Jacopo Cecconi, insieme a Thes Tziveli, comitato tecnico made in\Confindustria, hanno sottolineato il legame tra concerie toscane e industria del fashion. In sala, tra gli altri: i sindaci di Fucecchio Alessio Spinelli e di Castelfranco di Sotto Gabriele Toti, l’europarlamentare Simona Bonafè, l’assessore regionale Stefano Ciuoffo, i consiglieri regionali Enrico Sostegni e Andrea Pieroni, il direttore UNIC Fulvia Bacchi, l’ambasciatrice della Colombia in Italia Gloria Isabel Ramirez. L’interesse dei media: il distretto è social In platea, tra gli altri, oltre ad imprenditori conciari e a rappresentanti delle

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maggiori case di moda, una selezione di studenti in digital communication e fashion styling AcofmodaMilano. Proprio in tema “social” l’Assoconciatori ha condiviso diversi contenuti dell’evento, con hastag appositi su Instagram e Facebook nell’ambito del format di comunicazione Distretto Santa Croce (sul relativo sito internet distrettosantacroce.it sarà disponibile il video dell’evento). Prospettive e investimenti Su andamento e prospettive del distretto conciario toscano l’intervento del presidente Assoconciatori Alessandro Francioni: «Tra i prossimi investimenti dei conciatori del distretto toscano c’è quello di portare a compimento l’Accordo di Programma che coinvolge con i conciatori la Regione e il Ministero dell’Ambiente, nel quale sarà centrale il depuratore Aquarno per la realizzazione dell’acquedotto industriale che permetterà alle aziende di conciare con acqua civile depurata. Il più recente investimento su cui stiamo lavorando è quello di poter ritirare i ritagli di pelle finita: in pratica ai clienti forniremo i pellami e ne riprenderemo i ritagli che non usano, che provvederemo ad avviare a massimo riutilizzo in una dimensione completa di economia circolare».

A.C.


20° REAliTy

OROlOGi

l'accessorio senza

TEMPO

da necessità , a vezzo, e oggi come forma di investimento

Luca Del Grande

M

isurare lo scorrere del tempo è stata da sempre una necessità per l'essere umano. I primi orologi li inventarono gli antichi egizi, fin dal 3.000 avanti Cristo. Erano le meridiane, strumenti che con l'ombra Rolex GMT Master Ref 1675, anno1976. Raro scandivano l'avanzare del tempo. Per modello di orologio GMT, misurarlo nelle ore notturne, invece, la Rolex lo sviluppo in venivano utilizzate grosse damigiane o collaborazione con la società e linea area Pan barili pieni d'acqua che, grazie a un picAmerica, i primi modelli in colo foro, facevano sì che la damigiana oro prendevano il nome sottostante si riempisse con un ritmo CONCORDE, dall'omonimo Aereo. regolare: in base all'altezza dell'acqua si riusciva a capire l'orario. Rolex Daydate Bisogna aspettare fino al 1200, però, Ref. 18039, anno 1977. Raro modello in Oro bianco, per avere i primi orologi meccanici. È con bracciale president allora, infatti, che nascono i campanili e particolare quadrante in Smalto con indici con dotati di un sistema di contrappesi cadiamanti. L'orologio è pace di far muovere le lancette. presente anche sul libro A partire dal 1500, invece, iniziano i pridei Daydate con il nome di Poseidon. mi passi per rendere l'orologio mobile, con la comparsa dei primi modelli porRolex Daytona tati al collo delle signore, come collane Ref 16528, anno1993, meccanica Zenith, particolare (esclusiva per il mondo femminile), per modello di Daytona, poi evolversi negli orologi da taschino. completamente in oro. Fu nel 1868, poi, che la nota Maison Le prime serie di questi modelli hanno raggiunto Patek Philippe creò il vero e proprio cifre notevoli diventando orologio da polso, acquistato dalla un ottimo oggetto da contessa Koscowicz d’Ungheria, amaninvestimento.

te delle arti e dell’avanguardia tecnica. Nel 1903, invece, Louis Cartier creò il primo orologio da polso maschile, il Cartier Santos. Se i primi modelli avevano un’indicazione delle ore relativa, senza scandire i minuti e con una carica manuale, alla fine degli anni ‘60 nasce il meccanismo al quarzo che, grazie ad una pila ed a un circuito, riesce a fornirci l'orario in maniera precisa. Tuttavia l'orologio meccanico non cessa di esistere, anzi: grazie alla precisione e all'ingegno svizzero quello meccanico diventa l’orologio per eccellenza, attraverso l'evoluzione del meccanismo con massa oscillante che permette di ricaricarlo con il solo movimento del polso. Da oltre un secolo, ormai, al polso di ogni uomo e donna l’orologio scandisce le nostre vite. Per certi versi, è l’unico vero gioiello concesso anche al mondo maschile. Al giorno d'oggi, tuttavia, l'orologio sta subendo una vera e propria trasformazione, dettata anche dalla crisi dell’economia globale. Crisi che ha trasformato questi oggetti in vere e proprie forme di investimento, innescando nel giro di pochi anni un’ascesa dei prezzi incontrollabile. Dal 2006 ad oggi alcuni modelli hanno avuto rivalutazioni anche del 300 per cento: un dato assolutamente non previsto dagli esperti. Così, senza neanche saperlo, qualcuno potrebbe scoprire di possedere in casa o al polso un piccolo tesoro. La Rolex SA, leader incontrastato del mercato di orologi, è un’azienda svizzera controllata dall'associazione Hans Wilsdorf (il fondatore), un ente di beneficenza e senza scopo di lucro riconosciuto dalla nazione svizzera. Rolex vanta ben 28 società controllate con oltre 4.000 orologiai sparsi nelle nazio-

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ni di tutto il mondo. Il Sole 24Ore, infatti, colloca l’azienda svizzera al primo posto incontrastato del settore, con un fatturato di oltre 5 miliardi di franchi (pari a 4,4 miliardi di euro), superiore al doppio del secondo in graduatoria, l’azienda Omega. Nel 2019, anche l’orologio indica chiaramente il superamento di alcuni vecchi tabù. Se prima il diamante era un’esclusiva del mondo femminile, adesso anche per l'uomo è diventato un accessorio che identifica uno status symbol. Non a caso, gli orologi tempestati di diamanti sono sempre più presenti al polso dei personaggi di spicco. Alcuni modelli come il Rolex Daydate hanno prezzi che variano di molte migliaia di euro solo per la differenza nel quadrante. www.thevintageluxury.com


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20° Reality

alimentazione

adolescenti e Paola Baggiani

cibo

L

’adolescenza è una fase di cambiamenti e di transizione. E la rivoluzione è soprattutto fisica: oltre alla crescita e allo sviluppo, è proprio durante l’adolescenza che il corpo e le sue trasformazioni vengono poste al centro dell’attenzione dei ragazzi. Il rapporto con il proprio corpo e con il cibo è uno dei problemi più importanti che emergono in questo complesso periodo. Uno dei campi in cui si misurano gli scontri con gli adolescenti, non a caso, è proprio la tavola: il cibo, primo veicolo d’amore per il neonato, può diventare così sfida, rifiuto, ossessione. Gli adolescenti a tavola assumono comportamenti ribelli e scorretti: mangiano in modo sregolato, magari davanti alla tv o alla playstation, assumendo cibi con elevato indice calorico e di scarso valore nutrizionale, ricchi di grassi e zuccheri raffinati, di sale e poveri di vitamine, fibre, antiossidanti minerali. Mangiano cibi come le patatine fritte, i panini, gli snack e i cibi confezionati, i gelati, le bevande dolci e gassate, perché sono gustosi, appetitosi ed economici, sempre disponibili e distribuiti in contesti che

una difficile sfida

aggregano. La pizza non a caso è al primo posto nei momenti di condivisione con gli amici. Spesso saltano la colazione e consumano prevalentemente pane e pasta, a pranzo e a cena. Poca frutta e verdura, poco pesce, pochi legumi: in generale hanno una dieta poco varia. Le abitudini degli adolescenti a tavola, del resto, variano in base dell’ambiente familiare, ma anche delle regioni o a seconda che vivano in città o nei piccoli centri. Le scelte alimentari si orientano sul gusto dei cibi, sulla ricompensa e il godimento che ne traggono, sull’indipendenza dalle consuetudini familiari e sull’autonomia di scelta. Mangiare fuori casa con gli amici, prediligere il fast food oppure isolarsi davanti al televisore o al computer, rappresenta il loro grado di indipendenza e di libertà. Contemporaneamente, gli adolescenti sono sensibili alle abitudini familiari: il modo in cui i genitori si alimentano, le regole familiari sane, la coerenza del buon esempio, possono influenzare le loro scelte alimentari. I genitori non dovrebbero mai imporre un tipo di alimentazione, come ad esempio la dieta mediterranea o gli alimenti biologici, se non sono loro stessi a seguirla. Le scelte alimentari vanno spiegate ai figli, dando loro il tempo di accettarle, evitando di imporre determinate regole in modo rigido che possano dare origine a ribellione e allontanarli dal modello imposto. Da ricerche e indagini effettuate, risulta che gli adolescenti hanno conoscenza e consapevolezza riguardo all’alimentazione, ma mangiano in modo sregolato e scorretto scegliendo i cibi sulla base delle voglie del momento e del principio del piacere. È dunque fondamentale educare gli

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adolescenti all’importanza di una sana alimentazione. Tra le regole basilari c’è la condivisione del momento del pasto con la famiglia e con gli amici, perché mangiare è un piacere: il pasto non è solo sfamarsi, ma un momento di convivialità, di riunione quotidiana della famiglia, di comunicazione e scambio di idee. La colazione, poi, è fondamentale per iniziare la giornata con la giusta energia, ma vanno evitati alcuni errori: mangiare poco o addirittura saltare la colazione, oppure iniziare mangiando troppi zuccheri semplici come latte e cacao, biscotti farciti o cereali con tanti zuccheri aggiunti. Scegliere invece pane integrale o ai cereali con marmellata o miele, latte e yogurt bianco, frutta fresca e secca, spremuta di arancia. Per gli spuntini a scuola occorre evitare i bar e i distributori automatici di snack: meglio portare una merenda da casa, come frutta fresca o secca, un pacchetto di cracker, un panino con pomodoro e olio o con prosciutto o salumi magri. Questi ultimi, però, non più di due o tre volte la settimana, perché è sconsigliato un eccessivo consumo di salumi e carni conservate già a partire da questa età. Anche dopo l’attività fisica vanno evitate le merende troppo grasse e troppo proteiche, ma sono necessari alimenti che contengano carboidrati a rapida assimilazione come una fetta di ciambellone, uno yogurt con frutta fresca e secca, un bicchiere di latte e cioccolato, meglio quello fondente almeno al 70%, ricchissimo di composti antiossidanti. Per contrastare l’acne che colpisce nell’adolescenza sette ragazzi su dieci, determinata dalla tempesta di ormoni sessuali che sconvolge l’organismo, il regime alimentare corretto è


essenziale: un regime ricco di zuccheri semplici con continui picchi di glicemia e di insulina determina la formazione dei brufoli. È necessario ridurre i biscotti, i gelati e le bevande zuccherate, la carne e i salumi, prediligendo cereali di tipo integrale, più frutta e più verdura, ricche di vitamine come la A che solitamente risulta carente negli adolescenti con l’acne. L’adolescenza è un periodo di crescita e di sviluppo rapido. A maggior ragione, dunque, alcuni alimenti non dovrebbero mai mancare in tavola, a cominciare da cereali integrali ricchi di nutrienti come le vitamine del gruppo B e di fibre che migliorano la flora batterica intestinale (il microbiota), permettendo un assorbimento migliore dei nutrienti e una riduzione della stipsi. Inoltre il consumo di fibra, che è purtroppo basso fra gli adolescenti, riduce il rischio di sovrappeso e di obesità. La presenza nell’alimentazione dell’adolescente di minerali come calcio, ferro e potassio è fondamentale soprattutto per le ragazze. Il ciclo mestruale, infatti, fa aumentare la richiesta di ferro conducendo all’anemia, con astenia e incapacità di affrontare

gli impegni quotidiani. È importante consumare la carne ricca di proteine e fonte di vitamine del gruppo B e di minerali, ma soprattutto il pesce, ricco di proteine ad alta digeribilità e di vitamine A e D. Per mantenere il giusto peso corporeo spesso è sufficiente abolire il junk food, vale a dire i prodotti confezionati che contengono troppi grassi e troppi zuccheri e impostare uno stile di vita attivo, facendo sport almeno due o tre volte la settimana. Quando esiste un problema di sovrappeso è necessario affidarsi ad un medico specialista, evitando comunque regimi dimagranti troppo rigidi che possono minare l’autostima e indurre a disturbi del comportamento alimentare. Recenti studi americani su un ampio campione di circa 20.000 ragazzi, (Gut growing up today, promosso dalla Harvard university) lo hanno confermato. L’ultima edizione del manuale psichiatrico sui disturbi alimentari, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, afferma che il dieting, cioè l’ossessione per le diete e il peso corporeo, predispone all’aumento ponderale e può scate-

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nare disturbi alimentari come bulimia o anoressia. Il Ministero della salute, nel 2017, segnalava circa 2 milioni e 300mila adolescenti con disturbi del comportamento alimentare, sottolineando un inizio in età sempre più precoce, addirittura a partire dagli 8-9 anni. L’anoressia mentale è una malattia gravissima che colpisce per il 95% donne, in età compresa tra i 15 e i 25 anni, anche se l’età, come già detto, continua a scendere. Il percorso verso l’anoressia inizia di solito con una dieta molto rigida e il controllo maniacale delle calorie ingerite, insieme al rifiuto del cibo, con la conseguenza di minare le funzioni vitali del corpo. Nella bulimia e nel Bed (Binge eating disorder) o nel Dai (disordine alimentare incontrollato), il ricorso al cibo subentra per colmare un vuoto emotivo preciso. Il senso di disagio è raddoppiato dal senso di colpa seguito

all’abbuffata, che costringe ad escogitare pratiche pericolose per smaltire le calorie in eccesso. Da segnalare anche la cosiddetta Drunkoressia, un grave problema che abbraccia abuso di alcool e disturbi della condotta alimentare: grandi abbuffate alcooliche, con lo scopo di ubriacarsi velocemente e procurarsi lo sballo (rischiando un’intossicazione acuta da alcool), inducono a non mangiare per compensare le calorie assunte, procurarsi il vomito o assumere lassativi e diuretici. Circa un adolescente su dieci mette in atto questi comportamenti di restrizione del cibo e abuso di alcool, di cui il 60% circa sono femmine. Nell’adolescenza il rapporto con il cibo e il corpo è un problema complesso: i ragazzi esprimono attraverso condotte sregolate i loro disagi emotivi. Pertanto non si deve sottovalutare nessun segnale in questa fase di cambiamento e di transizione. www.baggianinutrizione.it


20° Reality

cucina

Loretta Fanella il top della pasticceria a Livorno

Eleonora Garufi

L

a cosa migliore per concludere un buon pasto è sicuramente il dessert: cremoso, croccante, freddo, caldo, speziato, classico o ricercato, è il nostro momento di dolce distacco, il peccato di gola, la degna conclusione a cui in pochi rinunciano. Forse non molti sanno che a Livorno si trova l’eccellenza della pasticceria italiana, quella creata da Loretta Fanella. Originaria di Fiuggi, Loretta ha un curriculum professionale di altissimo livello, maturato nel tempo, con sacrificio e impegno: ha esordito con Fabio Tacchella; è stata eletta miglior chef pasticcere nel 2007; ha lavorato con Ferran Adrià a Barcellona, ha fatto la leva con Carlo Cracco e Giorgio Pinchiorri, ha dato un’evoluzione al modo di mostrare la pasticceria insieme a Moreno Cedroni e si è lanciata nell’avanguardia della pasticceria con Igles Corelli. La sua partnership la vede legata a marchi di spicco come Lavazza, di cui è ambassador dal 2014 e, ormai da quattro anni, con la Lungarno Collection, la catena alberghiera fiorentina di proprietà di Ferragamo, dove con lo chef Peter Brunel segue la linea dei dolci. Per ben dieci anni ha portato la sua esperienza, la sua conoscenza e il

suo estro come consulente e docente in Italia e all’estero. Oggi però Loretta ha deciso di fermarsi a Livorno, la città che ormai da dieci anni le ha aperto il suo porto, dove ha costruito la sua famiglia insieme al marito Paolo, labronico doc e al figlio Giulio. Qui ha realizzato un sogno maturato per quattro anni, aprendo a gennaio il suo laboratorio di pasticceria: il Loretta Fanella Pastry Lab. Situato nella zona industriale di Livorno, a Stagno, il Pastry Lab nasce da una passione sconfinata per la ricerca nella pasticceria, dall’esigenza di mettere un punto fermo nella vita e dal bisogno di avere un luogo intimo e proprio dove elaborare, creare e insegnare. La particolarità dei dessert di Loretta non si trova solo in gusti ben definiti, miscelati con la sapienza di un vero alchimista e dettati da contrasti e complementarietà. Anche l’impatto visivo dei suoi dessert è notevole: i suoi paesaggi ricreati, come Il Sottobosco, mostrano da subito l’importanza della linea estetica delle sue creazioni, forse portata avanti da una passione giovanile per la moda, evolutasi poi nel mondo della cucina e della pasticceria in particolare, fino a sfociare nel 2010 nella pubblicazione del libro Oltre (Avanguardia Culinaria edizioni) che raccoglie trentasei dolci, articolati e illustrati, con ricette tradotte in quattro lingue. «Il punto di forza maggiore è che sono a casa - spiega Loretta - e non devo fare più chilometri in macchina come ho fatto negli ultimi dieci anni di consulenze. Sono autonoma in ogni scelta da prendere, perché questo progetto è interamente mio. La parte più facile da realizzare è stata quella di decidere che attrezzatura selezionare, quale azienda sposare e quali collaboratori scegliere: ho avuto la fortuna di trovare due brave ragazze

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piene di grinta. La parte più difficile, invece, è che son dovuta partire da zero con tutto da mettere in piedi: clienti, aziende e rete commerciale. Sarà un lavoro duro e lungo, soprattutto con tutto quello che comporta aprire un’azienda oggi in Italia, ma ce la faremo». La determinazione di Loretta, la sua professionalità e il suo talento l’hanno portata a costruirsi una strada ben definita in cui si è potuta realizzare come donna, sia nella carriera che nella sfera privata: «Riuscire a far conciliare tutto è molto difficile – dice - anche perché sono una mamma e moglie molto chioccia, a cui piace seguire tutto e stare in famiglia. Ma la cosa più importante è avere accanto una persona che ti capisce e che ti supporta». La fantastica novità di questo laboratorio è l’accessibilità a tutti. Se pensiamo al top della ristorazione, della cucina e della pasticceria, pensiamo a mondi spesso intoccabili destinati a pochi, mondi racchiusi in grandi metropoli mondiali. In realtà il laboratorio di Loretta è aperto a tutti: la sua Academy organizza infatti corsi di pasticceria professionale, rivolti a ristoratori che vogliono affinare la pasticceria del proprio locale, sfruttando la sua esperienza e i suoi consigli, ma ci sono anche corsi per pasticceri amatoriali e casalinghi, ricchi di professionalità e praticità che portano il livello amatoriale alle porte del rigore, della fisica, della chimica e della meccanica che si nascondono nel fantasioso, dolce e colorato mondo della pasticceria. Da Loretta trovano spazio anche i bambini, che potranno dare sfogo alla loro dolce passione in giornate appositamente dedicate. Una proposta di pasticceria, infine, a disposizione di chiunque la voglia richiedere per un evento o una distribuzione riservata ad alberghi e ristoranti.


I BENEFICI DELL'ACIDO OLEICO

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er quanto riguarda i benefici per la salute umana dell'olio extravergine d'oliva, alimento base della dieta mediterranea, si è molto parlato dell'oleuropeina e - in generale - dagli antiossidanti in esso contenuti. In questo contesto, però, occorre evidenziare l'importanza che riveste anche l'acido oleico, acido carbossilico monoinsaturo a 18 atomi di carbonio della serie omega-9. Come componente dei fosfolipidi, l'acido oleico è presente nelle membrane cellulari e costituisce la base per la sintesi dell'acido nervonico, che è un acido carbossilico monoinsaturo a 24 atomi di carbonio, sempre della serie omega-9. Grazie all'azione catalitica dell'enzima elongasi dall'acido oleico si arriva all'acido nervonico attraverso tre reazioni consecutive di allungamento. In ciascuna reazione vengono aggiunte due unità carboniose, con produzione quindi di acido gadoleico, acido erucico ed infine acido nervonico, che rappresenta un elemento importante nella biosintesi della guaina mielinica delle

20°

MEDiciNA REAliTy

Fernando Prattichizzo

cellule nervose. Nella sostanza bianca dell'encefalo umano fino al 60% degli acidi grassi della sfingomielina è composto da acido nervonico e

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da acido lignocerico, un acido grasso saturo composto anch'esso da 24 atomi di carbonio. Di recente l'industria nutraceutica ha proposto l'assunzione di acido nervonico per favorire la rigenerazione della mielina nelle neuropatie periferiche. Nella letteratura medica, invece, emerge l'utilità del dosaggio dell'acido nervonico per la diagnosi di depressione maggiore, condizione di cui costituirebbe un autentico biomarker. Di recente, infine, è stato messo in evidenza come l'acido oleico e l'acido palmitico, così come dei principali composti polifenolici dell'olio extravergine, influiscano sulla funzione e sulla vitalità delle betacellule pancreatiche, cellule la cui integrità e il cui funzionamento sono cruciali per evitare la comparsa del diabete mellito.


20° Reality

cinema

London Film Festival

la capitale inglese acclama il cinema di Luca Guadagnino e Matteo Garrone Andrea Cianferoni

Michelle Rodriguez con i fans Luca Guadagnino Dakota Johnson con Tilda Swinton

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l BFI London Film Festival spegne 62 candeline e celebra la cinematografia italica con ben 7 film tra lungometraggi e cortometraggi. Tra i titoli, dopo i passaggi ad alcuni festival europei tra cui Venezia, Cannes e Berlino, figura Figlia mia di Laura Bispuri, Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, presentato in concorso al Festival di Cannes (dove ha conquistato il premio per la migliore sceneggiatura), Laura Luchetti con Fiore gemello, ambientato in un meridione italiano bellissimo e pieno di insidie. A Londra anche Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis, mentre Roberto Minervini era presente con il docufilm, You Gonna Do When the World’s On Fire?. Nella sezione cortometraggi Diego Marcon ha presentato Monelle. Dopo il successo strepitoso della Palma d’Oro come miglior protagonista a Marcello Fonte, Dogman di Matteo Garrone ha avuto una standing ovation al London Film Festival, assieme all’attesissimo remake di Suspiria firmato Luca Guadagnino. Suspiria, ben 41 anni dopo l’uscita in sala (nel 1977) del capolavoro

originale di Dario Argento, ha incantato la critica di mezzo mondo. Un rifacimento preventivamente criticato dallo stesso maestro dell’horror italiano, abbondantemente riletto dal regista di Io sono l’Amore e dallo sceneggiatore americano David Kajganich. Ambientato nella Berlino del 1977, il remake è suddiviso in sei capitoli e in un epilogo. Celebre la storia, che vede un’ambiziosa e giovane ballerina (Dakota Johnson) approdare in una scuola di danza diretta dall’acclamata Madame Blanc (Tilda Swinton), potente e temibile strega. Ben 35 anni dopo averlo visto per la

prima volta, appena 12enne, in un cinema di Palermo, Luca Guadagnino è riuscito a realizzare Suspiria, ossessione horror a lungo cullata e ora diventata realtà, dopo anni di aspettative. Per contestualizzare ulteriormente la pellicola, il regista si è soffermato a lungo sul contesto politico dell’epoca, agitato dalle rivoluzioni femministe e dal di-

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rottamento di un aereo della Lufthansa da parte di un commando palestinese. Erano gli anni della banda BaaderMeinhof, a cui Guadagnino cede gratuitamente spazio e tempo con continui lanci radio, articoli di giornali, spezzoni televisivi. Una sottotrama tutt’altro che secondaria, perché direttamente legata ad una delle ballerine protagoniste, da intrecciare al passato di Dakota Johnson (Susie Bannion) e alla storia del Dr. Jozef Klemperer, interpretato dall’inesistente Lutz Ebersdorf. È infatti Tilda Swinton, straordinaria trasformista, ad indossarne abiti e volto invecchiato, doppiando la sua partecipazione al film in quanto coprotagonista nei panni della direttrice Blanc. Il film di Guadagnino rende più volte omaggio alla grande coreografa Pina Bausch, con tanta danza contemporanea ed un rapporto saffico mai esplicitato tra le sue protagoniste. L’accademia sarebbe controllata da una congrega di streghe intenzionate a evocare Mater Suspirium, un’antica divinità dai poteri


misteriosi, cosicché si susseguono una serie di omicidi ed eventi paranormali. Il talento di Guadagnino si manifesta in particolar modo nelle uniche sequenze davvero horror: una danza macabra con tanto di smembramento di corpi, visioni notturne e un finale davvero impressionante con un bagno di sangue. Non da meno il film di Matteo Garrone, presentato anch’esso al festival di Londra dopo il trionfo di Marcello Fonte acclamato miglior protagonista maschile all’ultimo festival di Cannes. Dogman è un viaggio di umanità e violenza ispirato liberamente ad un fatto di cronaca nera accaduto trent’anni fa e noto come il delitto del canaro della Magliana. Un viaggio doloroso nella psiche di un uomo qualunque, un invisibile come tanti che, ad un certo punto, si ribella non per vendetta ma per volontà di riscatto. Nell’estrema periferia di Roma un uomo, Marcello (Marcello Fonte), è titolare di un modestissimo negozio di toelettatura per cani. È’ gentile, innamorato della figlia e degli animali di cui si prende cura, va fiero della propria condizione e di essere benvoluto dalla piccola comunità cui appartiene. Anche se in verità, per arrotondare, spaccia occasionalmen-

te cocaina e tra i clienti ha Simoncino (Edoardo Pesce), un ex pugile la cui prepotenza tiene in ostaggio l’intero quartiere. Il rapporto con questo energumeno è di tale sudditanza che Marcello ne diviene il riluttante complice in alcuni reati di cui è l’unico a pagare le conseguenze. Quando si rende conto di come aver sopportato angherie e umiliazioni sia stato

vano, decide di riappropriarsi della propria dignità. Attori straordinari e una fotografia meravigliosa sono le carte vincenti di un film costruito per sottrazione ma costellato di dettagli pieni di significato. A metà tra favola nera e western suburbano, Dogman è un›opera in cui la convivenza di neorealismo e astrazione offre suggestioni inedite e potenti.

La premiere di Colette Il Principe William d'Inghilterra Edgar Wright e Terry Gilliam Ralph Fiennes Nicole Kidman Marcello Fonte con Matteo Garrone Keira Knightley and Dominic West Timothee Chalamet sul red carpet

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20° REAliTy

ciNEMA

Leonardo Taddei

IL RuOLO DELLE DONNE l a 76esima edizione dei Golden Globe Awards, la cerimonia di assegnazione dei Globi d’oro per onorare i più meritevoli prodotti del cinema e della televisione, si è svolta il 6 gennaio scorso a Los Angeles, all’interno del Beverly Hilton Hotel di Beverly Hills, in California. L’evento, trasmesso in diretta tv dalla rete statunitense Nbc, ha visto, nel ruolo degli anfitrioni, gli attori Andy Samberg e Sandra Oh, quest’ultima risultata anche vincitrice del premio alla migliore attrice in una serie drammatica per Killing Eve (Uccidendo Eva). Le candidature erano state annunciate un mese prima, il 6 dicembre 2018, in un evento presentato da Christian Slater, Terry Crews, Danai Gurira e Leslie Mann, insieme a Meher Tatna, la presidentessa della Hollywood Foreign Press Association, (l’associazione della stampa straniera ad Hollywood), ed avevano visto primeggiare, con 4 nomination, American Crime Story – L’assassinio di Gianni Versace. La serie tv sull’omicidio dello stilista italiano è

riuscita, alla fine, ad aggiudicarsi due premi: il globo d’oro per la miglior miniserie e quello al miglior attore in una miniserie o film per la tv, attribuito a Darren Criss. Commovente l’omaggio nei confronti del ruolo delle donne nel mondo moderno, rivolto da molte delle figure femminili intervenute sul palco, soprattutto per sottolineare come stia fortunatamente mutando il lato maschilista, prevaricatore e misogino della Hollywood di un tempo. Lato di cui è comunque importante continuare a parlare, per poter dare alle donne la possibilità di emergere senza dover ricorrere a compromessi di alcun tipo. Proprio questo indirizzo ha preso, tra gli altri, il discorso di ringraziamento dell’attrice Glenn Close che ha creato un intenso parallelismo tra la storia del film e la sua memoria personale, attraverso il ricordo dell’insoddisfazione della madre per il mancato raggiungimento dei propri obiettivi, sacrificati in nome di un ideale di matrimonio e di famiglia che le aveva lasciato soltanto

Lady Gaga sul red carpet dei Golden Globe Awards 2019 Il cast della serie The Americans, premiata come miglior serie drammatica

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un grande vuoto. Meritatissimo e attesissimo, infatti, è giunto per lei il riconoscimento come miglior attrice in un film drammatico, assegnatole per la splendida interpretazione in Vivere nell’ombra (The wife), mentre il premio equivalente nella categoria film commedia o musicale è stato appannaggio di Olivia Colman per il ruolo della Regina Anna in La favorita (The favourite). Le due sono anche le principali candidate che si contenderanno, il prossimo 24 febbraio, l’Academy Award per la miglior attrice protagonista, durante la cerimonia di consegna degli Oscar. Per quanto riguarda gli altri premi della sezione cinema, due globi d’oro sono andati a Bohemian Rhapsody, il film dedicato ai Queen e alla vita di Freddie Mercury, che ha ricevuto il riconoscimento come miglior film drammatico e quello per il miglior attore in un film drammatico assegnato a Rami Malek nel ruolo di Mercury. Il film Green book (Il libro verde), oltre al premio per la miglior sceneggiatura andato a Nick Vallelonga, Brian Currie e Peter Farrelly, è riuscito a superare L’uomo nell’ombra (Vice) nel duello per il miglior film commedia o musicale. Al contrario, sorte opposta è toccata ai rispettivi attori protagonisti delle due pellicole, con Christian Bale vincitore del globo d’oro a discapito del favorito Viggo Mortensen. Sempre per Green book, Mahershala Ali è stato premiato come miglior attore non protagonista, mentre Regina King ha ricevuto il globo d’oro come miglior attrice non protagonista per la sua interpretazione in Se la strada potesse parlare (If beale street could talk). Tra i film stranieri, ha primeggiato l’osannato Roma di Alfonso Cuarón, per il quale il cineasta messicano si è aggiudicato anche il globo d’oro per la


nemora), Richard Madden, miglior attore in una serie drammatica per Bodyguard (Guardia del corpo), Rachel Brosnahan, miglior attrice in una serie commedia o musicale per La fantastica signora Maisel (The marvelous Mrs. Maisel), Patricia Clarkson, miglior attrice non protagonista in una serie, miniserie o film tv per Sharp objects (Oggetti affilati) e Ben Whishaw, miglior attore in una serie, miniserie o film tv per A very English scandal (Uno scandalo tutto inglese). Il premio alla carriera cinematografica intitolato a Cecile Blount DeMille, dal nome del regista primo vincitore nel 1952, è stato assegnato all’attore, cantante e produttore Jeff Bridges per le sue 75 pellicole dal 1951 al 2018, tra le quali L’ultimo spettacolo (The last miglior regia. Il premio al miglior film di animazione è stato assegnato a Spider man – Un nuovo universo (Into the spider-verse), e quello alla miglior colonna sonora a Justin Hurwitz per Il primo uomo (First man). Il film A star is born (È nata una stella), inaspettato successo al botteghino, ha dovuto accontentarsi, invece, della sola statuetta per la miglior canzone originale assegnata a Lady Gaga, Mark Ronson, Anthony Rossomando e Andrew Wyatt. Per quanto riguarda la sezione televisiva, il riconoscimento come miglior serie drammatica è andato a The Americans (Gli americani), mentre quello alla miglior serie commedia o musicale a Il metodo Kominsky (The Kominsky method), con protagonista Michael Douglas, il quale si è aggiudicato anche il globo d’oro al miglior attore in una serie commedia o musicale e lo ha dedicato al padre Kirk. Tra gli altri attori premiati, da ricordare Patricia Arquette, risultata la miglior attrice in una miniserie o film tv per Escape at Dannemora (Fuga a Dan-

picture show), Una calibro 20 per lo specialista (Thunderbolt and lightfoot), King Kong, Starman (L’uomo delle stelle), Il grande Lebowski (The big Lebowski), The contender (Il candidato), Crazy heart (Cuore pazzo), Il grinta (True Grit) e Hell or high water (Ad ogni costo). Per la prima volta nella storia della manifestazione è stato introdotto anche un riconoscimento equivalente per la sezione televisiva, attribuito a Carol Burnett per la sua eccezionale

e lunga carriera, dalla quale l’inedito premio ha preso anche il nome per le edizioni future. L’attrice, comica, cantante e scrittrice americana, è infatti conosciuta soprattutto per l’omonimo varietà The Carol Burnett Show, il primo nel suo genere condotto da una donna ed in onda sull’emittente CBS per ben 278 puntate, trasmesse nel corso di undici stagioni dal 1967 al 1978. La Burnett vanta tuttavia una carriera di oltre settant’anni fra tv, cinema, talk e game shows.

L'attrice Glenn Close, vincitrice del globo d'oro per la miglior attrice in un film drammatico Rami Malek, vincitore del globo d'oro al miglior attore in un film drammatico per Bohemian Rhapsody Carol Burnett durante il discorso di ringraziamento per il Golden Globe alla carriera televisiva Michael Douglas dedica il premio come miglior attore in una serie commedia o musicale al padre Kirk Christian Bale durante il suo discorso di ringraziamento per il premio al miglior attore in un film commedia o musicale Jeff bridges, vincitore del Golden Globe alla carriera cinematografica Alfonso Cuarón, con i due premi vinti per il suo film Roma

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20° Reality

evento

Berlino

capitale della musica evento in occasione del 25° anniversario del Festival Operagala Giampaolo Russo

Jens Spahn, Monica Geingos, Sir Bob Geldof, Frank-Walter Steinmeier, Elke Buedenbender Mandy Bork, Nina Neuer, Ann-Kathrin Broemmel Ricardo Simonetti, Elena Carriere Tom Beck, Chryssanthi Beck, Riccardo Simonetti, Valentina Pahde

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a fondazione tedesca per la lotta all’Aids ha festeggiato l’importante ricorrenza dei 25 anni con oltre 2.000 ospiti tra personalità politiche, economiche, culturali e della stampa. Alla presenza del presidente federale della Germania, Frank-Walter Steinmeier, gli organizzatori Alard von Rohr e Alfred Weiss hanno ringraziato i partecipanti per l’importante traguardo di aver raccolto più di 500mila euro per la lotta contro l’Hiv e l’Aids. Il momento saliente della serata è stata la presentazione del World Without Aids Award, assegnato alla first lady della Namibia, Monica Geingos e a Sir Bob Geldof, per il loro eccezionale impegno nella lotta globale contro l’Hiv e l’Aids. «Sono onorata di ricevere il premio World without Aids - ha affermato la first lady alla cerimonia di premiazione -. Lo considero un incoraggiamento non solo per me, ma per tutte le persone che lottano senza sosta per cambiare il corso dell’epidemia di Hiv. Solo unendo le forze in Namibia, in Germania e in tutto il mondo possiamo raggiungere il nostro obietti-

vo di porre fine all’epidemia di Aids come una minaccia per la salute pubblica entro il 2030. Siamo prossimi a raggiungere una generazione libera dall’Aids e dobbiamo mantenere lo slancio». E Sir Bob Geldof ha aggiunto: «È stato fantastico tornare a Berlino e vedere l›entusiasmo per la lotta contro l’Aids. Sono orgoglioso di essere onorato di questo evento. Ma non dobbiamo fermarci finché non avremo successo. Spero davvero che la Germania aumenti i suoi contributi al Fondo globale. È il miglior strumento che abbiamo». Il cantante e moderatore Max Raabe ha affascinato il pubblico attraverso l’elegante programma del gala del giubileo con le più grandi star internazionali dell’opera: Xabier Anduaga, Bogdan Baciu, Venera Gimadieva, Julia Lezhneva, Elena Maximova, Maria Mudryak, Martin Muehle, Olga Peretyatko, Dmytro Popov e Alexander Tsymbalyuk che hanno intrattenuto il pubblico. Operagala è uno degli eventi di beneficenza più importanti a favore della Fondazione tedesca per l’Aids e si è consolidato come l’evento social must di Berlino.

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intervista Reality

Uto

l'usignolo

intervista al maestro Uto Ughi

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na musica celestiale, uno stradivari che accompagna maestosamente, un violinista che sorride colle sue mani fatate. È lui, Uto Ughi, vera e propria musa nel campo musicale che stavolta ha una fretta pazzesca. Lo intervisto di corsa… accompagnandolo al treno. Maestro, è risaputo che il suo stile violinistico ha stregato letteralmente le platee del mondo, alternando uno Stradivari ad un Guarnieri a seconda dell’acustica. «È questa la domanda?» Mi ricompongo mezza bastonata domandandogli: l’Italia ha potenzialità enormi nel campo musicale, secondo lei sono ben sviluppate? «Direi proprio che non sono sostenute adeguatamente, né da una politica musicale né dall’informazione di tale genere. L’istruzione scolastica è carente in merito: molti, veramente molti vanno all’estero per lavorare e poi i mass media trasmettono concerti ad ore indecenti. Ah... aggiungo questo: questa moda dell’esterofilia, ha portato una buon numero di stranieri nei cartelloni delle stagioni concertistiche a discapito di noi italiani». E pensare che la musica dovrebbe essere la formazione dello spirito... «Infatti. Mi sono sempre domandato perché non faccia parte delle discipline umanistiche quali la letteratura, la storia dell’arte ed altro ancora. Sarebbe proprio l’ora di adeguarsi ai Paesi più evoluti quali Germania ed Austria che la pongono come vera e propria cultura delle loro nazioni. Siamo indietro, non c’è che dire!» Se dico Bach? «Nutro per lui un grande amore. Veramente grande e non basta una vita intera per rileggerlo tutto.

Adoro letteralmente Le Sonate e Le partite, praticamente convivo con loro». Crede nei giovani? «Moltissimo, in quanto formano il pubblico e gli artisti del futuro. E i consigli non bastano poiché ci vuole talento, disciplina, volontà, umiltà e pazienza. Insomma, buoni ingredienti e componenti». Ride. Forse perché la battuta riporta alle vecchie ricette culinarie. Dicono che l’impegno musicale sia enorme, quasi sfiancante. «Quando le cose si fanno con amore non c’è peso, tuttavia amo riportare una massima di Paganini che era solito osservare: Se sto un giorno senza studiare me ne accorgo io,

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se sto due giorni se ne accorgono gli altri». È pur vero che bisogna fare i conti con la stanchezza... «Ma quando mai! Stiamo parlando di una vocazione, non è mica un mestiere! La prego, debbo proprio scappare - effettivamente siamo due trottoline - è stato un piacere risponderle in questa bella Toscana che è e rimane la culla della civiltà e della cultura. È la regione più bella del mondo!» Nonostante i tempi stavolta siano stati scanditi dal battito delle nostre scarpe e non del metronomo, che musica maestro! E che cultura, tanto che per la città lagunare egli ha fondato Omaggio a Venezia.

Carla Cavicchini


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musica

Junior Eurovision Song Contest baby cantanti in gara, Polonia al primo posto, settima posizione per l’Italia

Leonardo Taddei

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a 16esima edizione del Junior Eurovision Song Contest si è svolta nella capitale bielorussa, all’interno della Minsk Arena, il 25 novembre 2018. Il concorso canoro, rivolto a bambini e ragazzi dai 9 ai 14 anni, ha raggiunto quest’anno la quota record di ben 20 nazioni partecipanti, grazie al debutto di Galles e Kazakistan, al ritorno in competizione di Francia, Israele e Azerbaigan e nonostante il ritiro di Cipro. La manifestazione è stata condotta da Eugene Perlin, già commentatore per la Bielorussia della versione senior dell’Eurovision Song Contest a partire dal 2013, da Helena Meraai, che aveva rappresentato proprio la Bielorussia come cantante al Junior Eurovision Song Contest nel 2017, e da Zinaida Kupriyanovich, conosciuta dai fans per aver preso parte alla selezione nazionale bielorussa del concorso nel 2015 e nel 2016. In Italia l’evento è stato trasmesso su Rai Gulp con il commento di Mario

Acampa, attore, regista e conduttore televisivo, che aveva presenziato anche l’edizione dello scorso anno, insieme alla cantautrice Federica Carta, che sarà presente al Festival di Sanremo 2019 con il brano Senza farlo ap-

I giovani parteciapanti La vincitrice polacca Roksana Wegiel, incredula durante la premiazione La Minsk Arena, sede del Junior Eurovision Song Contest 2018 Foto di Andres Putting e Paola Rita Ledda

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posta, in coppia con il rapper Shade. Anche stavolta, come nell’edizione precedente, è stato utilizzato un sistema di voto online sulla piattaforma ufficiale della manifestazione, suddiviso in due momenti. Durante la prima fase, dal 23 novembre fino all’inizio del concorso, il pubblico ha potuto selezionare sul sito web da un minimo di tre ad un massimo di cinque canzoni preferite, inclusa quella del proprio Paese. Più tradizionale, invece, la seconda fase, con una finestra della durata di 15 minuti a partire dalla fine dell’ultima canzone in gara. Entrambe le votazioni, sommate insieme, hanno contribuito per il 50 per cento alla composizione della classifica finale, mentre il restante 50 è stato assegnato dalle giurie nazionali, composte ciascuna da tre professionisti, esperti dell’industria musicale, e da due bambini. A spuntarla è stata la Polonia, con il brano Anyone I want to be (Chiunque io voglia essere), cantato da Roksana


Wegiel, di poco davanti alla favoritissima Jamais sans toi (Mai senza te) della francese Angélina, che a sua volta ha preceduto di soli due punti l’australiana Jael Wena con la canzone Champion (Campione). Fuori dal podio, invece, le altre tre cantanti in odore di vittoria alla vigilia della manifestazione, ovvero l’ucraina Darina Krasnovetska, con il brano Say love (Di’ amore), la maltese Ela Mangion con Marchin’On (Marciarci su) e la kazaka Daneliya Tuleshova con la canzone

Òzine sen (Sii te stesso), giunte rispettivamente quarta, quinta e sesta al termine della gara. Buon settimo posto, tutto sommato, per la coppia formata da Melissa e Marco, che a Minsk hanno rappresentato l’Italia con What is love (Che cosa è l’amore). A seguito della vittoria in questa edizione, la prossima sarà ospitata dalla splendida città di Cracovia, probabilmente nella sede della Tauron Arena Kraków. Sarà pertanto la prima volta che il concorso si svolgerà in Polonia

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ed i vertici dell’European Broadca- L'ucraina Darina Krasnovetska, quarta classificata con la sting Union, l’ente organizzatore canzone Say love dell’evento, si sono detti particolar- Angélina, seconda classificata per la Francia mente entusiasti, basando le loro con Jamais sans toi aspettative sul successo dei preceLa cantante maltese denti eventi eurovisivi già organizzati Ela Mangion, quinta classificata con Marchin'On dal paese, quali l’Eurovision Young La cantante polacca Musicians del 1994, riservato ai miglioRoksana Wegiel canta Anyone I want to be ri giovani interpreti di musica classica, kazaka Daneliya Tuleshova, e le tre edizioni del 1997, 2005 e 2013 sesta classificata con la dell’Eurovision Young Dancers, il concanzone Òzine sen italiani Melissa corso di danza riservato a ballerini dai I rappresentanti e Marco durante la loro 16 ai 21 anni. performance sul palco


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storia

Rossini

il ritorno di a Firenze

1868-2018: per i 150 anni dalla scomparsa Roberto Mascagni

Firenze, abitazione di Rossini nell'odierna Via Cavour 13 Tomba di Gioacchino Rossini nell'interno della Basilica di Santa Croce a Firenze

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’anno appena trascorso ha coinciso con il 150esimo anniversario dalla morte di Gioacchino Rossini. La periodicità di questa rivista, ci consente solo ora di ricordarlo. A giudicare dalla corporatura pingue e dal sorriso beffardo, sembrerebbe che Rossini fosse stato un uomo feli-

ce. Metti poi che le caricature dell’epoca (una vera mania ben sfruttata) lo ritraggono in atteggiamenti da gaudente e il quadro della sua personalità sarebbe compiuto. Lui stesso contribuiva a rafforzarne l’immagine, essendo famoso per l’appetito formidabile e per aver firmato, compiacendosene, alcune ricette che ancora oggi portano il suo nome. Ma non è così. Sembra un paradosso, tuttavia dentro l’animo dell’autore dell’esilarante Barbiere (1816), covava una profonda melanconia, se non addirittura la disperazione. Tutto al contrario di quanto possiamo ammirare davanti al luminoso busto scolpito dal celebre pratese Lorenzo Bartolini, suo intimo amico, conservato nella Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, che ci restituisce la dignitosa immagine del compositore rispettoso dell’opera seria come di quella buffa di scuola napoletana. Un genio, in entrambi i casi, nato a Pesaro il 29 febbraio dell’anno bisestìle 1792. La famiglia era originaria da Lugo di Romagna. Ormai celebre, prima di stabilirsi definitivamente a Parigi, nella villa di Passy, dove si spegnerà nel 1868, centocinquant’anni fa, aveva raggiunto alcune città italiane, fra le quali Bologna e Firenze. Quest’ultima fu la più frequentata, dall’aprile 1848 all’aprile 1855, con un’interruzione di circa otto mesi, dal settembre 1850 al maggio 1851. La dimora fiorentina era stata decisa a causa dei tumulti popolari scoppiati a Bologna nell’infuocato 1848 (e in altre capitali europee), che avevano messo a dura prova la sensibilità del musicista. I disturbi psicosomatici che lo affliggevano, e i lunghi periodi di depressione, convinsero lui e la moglie

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Olympe Pélissier a trasferirsi nella più tranquilla Firenze, non solo per le bellezze offerte dal luogo, ma soprattutto per la grande amicizia con la nobile famiglia polacca dei principi Poniatowski: Isabella e Costanza erano dilettanti di canto; Carlo era invece un ottimo basso, sua moglie Elisa pianista. La fama musicale della famiglia, spiega Gregorio Nardi, eccellente pianista e autore dell’importante libro Con Liszt a Firenze (LoGisma, 2015) «era soprattutto affidata al nome del quartogenito Giuseppe, compositore e buon direttore d’orchestra, che a Roma aveva manifestato un precoce talento musicale, e a Firenze poté continuare i suoi studi col tenore Ferdinando Ceccherini». «Tutti i Poniatowski (…) cantano e cantano bene», scrisse di loro Franz Liszt. Raggiunta Firenze il 28 aprile 1848, Rossini si stabilì al numero 3 di via Borgognissanti, ma i Poniatowski, che adoravano il musicista, gli suggerirono l’acquisto di due palazzi


presenti in via Larga (l’odierna via Cavour) ai numeri 9 e 11. Come è noto, il compositore non vi abiterà mai pur facendoli ristrutturare, perché affittò il palazzo vicino, al numero 13, sulla cui porta d’ingresso si legge la seguente epigrafe: «In questa casa / dimorò alcun tempo / Gioacchino Rossini». L’edificio è prossimo alla sede del Caffè Michelangelo, storico punto di ritrovo dei pittori macchiaioli, ormai scomparso, e quasi di fronte al palazzo dei Poniatowski. Inoltre, il compositore frequentò alcune storiche dimore sulle colline che circondano Firenze, fra le quali ricordiamo Villa Fabbricotti, nell’odierna via Vittorio Emanuele, sottostante la collina di Montughi. Nelle stesse stanze, il 9 giugno 1825, si spense Paolina Borghese Bonaparte. Fra le numerose iniziative che senza dubbio furono suggerite da Rossini ai Poniatowski ricordiamo l’anteprima, nell’edizione ridotta a due pianoforti (Elisa e Carlo al piano, più il coro diretto da Andrea Nencini) dello stupendo Stabat Mater, eseguito il 14 marzo 1842, nel palazzo McDonald, in via Romana 34, precedendo di un giorno la prima esecuzione italiana della partitura, diretta a Bologna dal collega Gaetano Donizetti. La compagnia, di grande livello, comprendeva il contralto Carolina Ungher, di scuola viennese. A Firenze, conclusa la sua luminosa carriera, formò una scuola frequentata da numerosi allievi. Per curiosità, la ricordiamo fra i solisti della Nona di Beethoven, ormai condannato alla sordità totale, da lui diretta il 7 maggio 1827, anno della sua morte. La Ungher è sepolta nel cimitero fiorentino delle Porte Sante, attiguo

alla basilica di San Miniato al Monte. Torniamo a Rossini. Pochi sono al corrente del suo tentato suicidio a Firenze, diventato persino un caso psicoanalitico studiato dal musicologo Mosco Carner. La torrentizia produzione di Rossini ebbe immediata popolarità, tanto da renderlo in poco tempo ricco e conteso dai teatri. Ma nel 1830, come sappiamo, dopo aver composto il Guglielmo Tell, la cui prima italiana fu messa in scena il 17 settembre 1831 in quel gioiello che è il lucchese Teatro del Giglio (il merito fu di Alessandro Lanari, contemporaneamente impresario del teatro fiorentino La Pergola) abbandonò la produzione lirica, ma non l’attività creativa. Basterebbe pensare al citato Stabat Mater e alla Petit Messe Solennelle, entrambi capolavori assoluti. Il genere vocale e strumentale, a differenza delle varie opinioni dei musicologi, non deve essere considerato un prodotto secondario in Italia. Rossini si colloca fra i più credibili autori di questo percorso che il trionfante melodramma non riuscirà mai a cancellare. Il problema però non riguarda solo Rossini. L’orientamento strumentale venne da lui incrementato nel tempo durante il suo lungo soggiorno francese. Gli ultimi anni li visse nella ricchezza ma anche nella pessima salute, di cui ora conosciamo il dramma interiore. Fra le testimonianze, citiamo una rara lettera al giovane amico scrittore e uomo di cultura fiorentino Raffaello Foresi (1820-1876), scritta da Rossini nei suoi ultimi mesi di vita. Infatti le sue estreme immagini dimostrano la rapida decadenza fisica del musicista: ormai ultrasettantenne, per quei tempi un’età da considerare venerabile. Marcello de Angelis, storico della musica e discendente dal musicofilo Raffaello Foresi, ha rintracciato quella lettera di Rossini, datata Passy, 27 settembre 1868, nella quale informa l’amico della sua «annuale infermità (…). Una irritazione alla membrana» attribuita «al mal di vecchiaia! (…). E come v’è pena di morte a me invecchiare fa d’uopo aver pazienza». Raffaello Foresi, che aveva conosciuto Rossini a Firenze, durante un soggiorno parigino del figlio Mario, lo sollecitò a raggiungerlo a Passy, per rendersi conto delle reali condizioni di salute dell’amico, ormai del tutto compromesse. Infatti il Maestro si

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spense il 13 novembre dello stesso anno. Trascorsi diciannove anni le sue spoglie furono trasportate dal cimitero parigino Père Lachaise alla basilica fiorentina di Santa Croce, dove furono deposte il 3 maggio 1887. L’imponente corteo funebre, seguìto dalle rappresentanze municipali, militari e dalle bande musicali, dopo essere passato davanti all’abitazione di Rossini, in via Larga (via Cavour 13) e percorse le principali strade del centro storico assiepate di folla, arrivò in piazza Santa Croce, dove 150 strumentisti e oltre 300 cantori diretti da Jefte Sbolci, intonarono la Preghiera del Mosè. Nel pomeriggio del giorno seguente, il 4, nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, le celebrazioni furono completate con una solenne esecuzione integrale dello Stabat Mater. * Siamo grati a Ilaria Monti per alcune precisazioni riguardanti la famiglia fiorentina, poi elbana, dei Foresi, sulla quale da tempo sta compiendo minuziose ricerche.

Gioacchino Rossini L'imponente catafalco con le spoglie di Rossini transita nelle strade del centro storico di Firenze. (Disegno dal vero)


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musica

è l’ora della

Marimba ce la racconta il duo Bellavista-Soglia Gonzalo Godoy Sepúlveda

Un'esibizione canora di Raffaello Bellavista con Michele Soglia alla Marimba Fotografie di Leandro Emanuel Martino

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e si butta l’occhio sopra un grande organico orchestrale, al di là della barriera degli archi, di tanto in tanto si avverte il suono dei timpani. Ma questi ultimi fanno parte della folta famiglia delle percussioni. Secondo la distinzione fra musica classica e alternativa (jazz, band, folk e colonne sonore), alcuni di questi arnesi della musica, come li definì Leonardo Pinzauti nel suo omonimo libro, non vengono utilizzati e, se inseriti in partitura, si tratta per lo più di autori del Novecento. Non viene dunque spontaneo citare la Marimba: uno strumento che stimola la curiosità del pubblico. Perciò è il caso di alzare il sipario davanti a questo strumento. La Marimba è formata da due file di

listelli sonori di legno (da 10 a 20) di varie misure: dai più grandi, con le note gravi, ai più piccoli con le note acute. Per realizzare i listelli si utilizza il legno rosewood (palissandro) oppure il padouk. Sotto la tastiera troviamo posizionati i rispettivi risonatori, chiamati anche canne proprio perché, come negli organi, hanno la funzione di amplificare e migliorare sia il suono che il timbro. Essendo molto pesante, la Marimba deve essere robusta per poter sostenere le vibrazioni più forti, tant’è che ai lati due telai lignei (frame) sostengono le file dei tasti e quelle delle canne. Molto importanti sono le bacchette (dette mallet) usate dal solista. Queste sono composte da uno stelo lun-

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go circa 40 centimetri che può essere di rattan oppure di betulla (in alcuni casi anche di acero), la cui estremità è avvolta da un pon pon di lana o di cotone. Il rattan è un legno che riesce a flettersi leggermente, mentre la betulla è più rigida. Il tipo di legno fa la differenza sulla resa acustica. La migliore qualità risulta prodotta dalla statunitense Innovative Percussion Inc., che ha sponsorizzato il percussionista a cui ci siamo rivolti. Esistono anche materiali sintetici come il kelon, ma il suono risulta più espressivo utilizzando i due legni citati. La Marimba è uno strumento di origine africana, giunto in America centrale con la deportazione degli schiavi. In seguito perfezionata, venne utilizzata in varie esperienze, soprattutto in ambito jazzistico. Talvolta è presente nelle compagini orchestrali anche europee. Fra i compositori che l’hanno considerata troviamo i nomi dell’importanza di Pierre Boulez, Igo Strawinskij, Luigi Dallapiccola, Luciano Berio e Darius Milhaud che a questo strumento dedicò, nel 1947, il Concerto per marimba e vibrafono. Michele Soglia è percussionista e batterista (classe 1989). Dopo aver ottenuto il diploma di maturità, ha proseguito gli studi conseguendo, con alto merito, il diploma accademico di primo livello e la laurea in strumenti a percussione frequentando il Conservatorio Bruno Maderna di Cesena sotto la guida di Daniele Sabatani. Gli chiediamo quindi quanto tempo occorre per diventare un eccellente esecutore: «Per emergere non si può stabilire un limite - risponde -. L’esecutore è ben consapevole che non esistono confini alla perfezione.


del calibro di Luciano Pavarotti e Carlo Bergonzi. Ha diretto dei complessi bandistici ed è autore di numerosi lavori per banda e orchestra di fiati e lavori per la didattica». Michele Soglia si è esibito come batterista nei più vari generi durante alcune tournée all’estero e nei teatri italiani. Inoltre, dal 2015, è docente di strumenti a percussione alla scuola Don Milani di Massa. Gli chiediamo com’è nato il progetto? «Io e Raffaello - risponde - siamo due musicisti che vivono entrambi nell’ambito del Parco naturale della Vena del Gesso, in Romagna. Siamo molto attivi, perciò abbiamo deciso di unire le forze». Il duo Bellavista-Soglia si è formato Io studio una media di sei, sette ore al giorno senza contare le due o tre ore di prove con il maestro Raffaello Bellavista, che si sta affermando fra i talenti nel panorama italiano, coniugando una solida preparazione di base con la musica colta Raffaello è in perfetta sintonia nel nostro duo come pianista, dedicando una particolare attenzione al settore cameristico. Possiede inoltre un’apprezzata voce baritonale. Più volte è stato chiamato a partecipare anche in questa veste ad alcune trasmissioni organizzate dalla Rai». Una scelta, quella delle percussioni, che nasce prima di tutto dall’ambiante familiare. «Mio padre Renato – racconta Soglia - si diplomò in tromba, strumentazione e composizione per banda al Conservatorio di Bologna, collaborando con l’orchestra. Fra i direttori che lo hanno apprezzato emerge il nome illustre di Sir George Solti, accompagnando alcuni tenori nel 2018, dando vita ad un ensamble che unisce la Marimba, il pianoforte e in certi casi la voce baritonale di Raffaello. Questa educazione al canto discende invece dalla madre, una cantante lirica in séguito dedicatasi all’insegnamento. Il padre, invece, è un appassionato di musica colta aperto a tutte le contaminazioni. La coppia ha nel suo repertorio arrangiamenti di celebri arie d’opera scritti dai due musicisti, dove la Marimba di Michele prende la parte dell’orchestra e Raffaello si esibisce come baritono. Oppure, grandi componimenti classici dove avviene l’opposto: l’orchestra è sostituita dal pianoforte e la Marimba o il vibrafono sostengono la parte solistica.

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Il duo Bellavista-Soglia Michele Soglia nel corso di un recital solistico alla Marimba Raffaello Bellavista in atteggiamento espressivo durante un'esecuzione pianistica


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intervista

Cesare Orselli vita di musica e di musicisti Antonio Cambi

Leopoldo Orselli Fausta Cianti

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l musicista Mario CastelnuovoTedesco ha intitolato la sua autobiografia Una vita di musica Cesare Orselli la intitolerà forse Una vita di musicisti dopo che ha insegnato Storia della Musica al Conservatorio Cherubini di Firenze per più di 30 anni, spiegando come il contesto della vita di ogni autore, il periodo storico, i caratteri ed i temperamenti si traducessero negli spartiti e nelle opere. Essere nato a Piombino, in terra di Toscana, gli ha fatto conoscere sia i mestieri sul mare, in primis il trasporto dei metalli per la fusione e la lavorazione, sia i toni drammatici degli amori e della ricerca della protezione divina, sia le passioni dell’uomo per la caccia o la pesca che lo pongono al confronto della natura. Dando continuità al suo percorso di vita Cesare è ancora mentore dei due grandi autori lirici della Toscana, Pietro Mascagni e Giacomo Puccini. . Pensare che sono passati 55 anni da quando in sede di tesi di Laurea in Lettere, svolta su Puccini, si sentì domandare da un membro della Commissione «Perchè si occupa di un Autore di così cattivo gusto?». È stata una piacevole sorpresa per Orselli nella sua nuova veste di insegnante

titolare di master class al Conservatorio di Milano, scoprire classi composte principalmente da studenti cinesi. Orselli ha vissuto principalmente a Firenze dove ha presenziato (e recensito) a tutti gli eventi musicali che questa grande città di cultura offre nei templi celebrativi: il Teatro Comunale, la Pergola, il Teatro del Maggio Musicale. Avere come Sindaco a Firenze un ex allievo di Conservatorio, il violinista Dario Nardella, lo rende orgoglioso del suo percorso formativo e lo conforta che la cultura abbia un ambasciatore di rilievo a Palazzo Vecchio. La carriera didattica gli ha fatto conoscere in profondità molti autori che hanno composto ed insegnato a Firenze: da Pizzetti a Dallapiccola, da Casella a Castelnuovo-Tedesco. L’assistere a numerose esecuzioni di singole opere gli ha fatto riconoscere gli stili delle direzioni d’Orchestra, confrontate su un periodo di circa mezzo secolo. Su questo argomento Orselli partecipa spesso ad incontri che si svolgono in una piccola grande Arena: la saletta della Fenice in Via Santa Reparata a Firenze. In un contesto strapieno di dischi, CD, libri , manifesti tutti dedicati alla musica l’occasione della presentazione di un libro o di un ascolto di una registrazione diviene il terreno di confronto di pochi e competenti appassionati, pronti ad abbattere miti e rivalorizzare autori misconosciuti. Qui Cesare è a suo agio, perché in pochi minuti condivide passioni, ricordi, aneddoti che lo fanno uscire dalla malinconia della mansarda in Piazza Leopoldo. È qui che si annidano i ricordi della compagna della sua vita: le immagini, gli oggetti, il pianoforte di Fausta Cianti , pianista, insegnante di musica, condividendo con lei gli anni di una maturità produttiva, fertile che

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aveva la musica come cemento affettivo. Del suo affetto materno , non realizzato, rimane una famigliola accolta affettuosamente da Fausta composta da Nicola e Nicoletta, che ha prodotto un valente studente di Giurisprudenza , Cosimo, ed una piccola virtuosa di violoncello, Costanza. Con loro custodisce il bene di famiglia nella campagna di Ampugnano, vicino a Siena. Per proseguire questo itinerario nel nome della moglie, Cesare ha dato vita alla Fondazione Cianti Orselli che ogni anno attribuisce borse di studio nelle sedi dove Fausta si è formata: i Conservatori di Siena e Firenze. Vista la riconoscenza degli allievi ormai divenuti professionisti e valenti esecutori, verso i loro insegnanti e formatori, si riconosce in questo un loro testamento ideale fatto di continuità nella cultura ed in ciò che richiede in termini di passione per lo studio e di formazione umana. Chi ha conosciuto queste due persone sarà naturalmente portato a mantenere ciò che hanno trasmesso per esprimere una meritata gratitudine.


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20191 ISSN 1973-3658

POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1,COMMA 1 C1/FI/4010

Anno XXI n. 1/2019 Trimestrale € 10,00

Centro Toscano Edizioni

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