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Anno XX n. 3/2018 Trimestrale € 10,00 20183 ISSN 1973-3658

POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1,COMMA 1 C1/FI/4010

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EDITORIALE

Pubblico o privato? S

tazione ferroviaria, ore 7. Due persone sono sedute in attesa del treno, stranamente in ritardo. Per ingannare l’attesa cominciano a parlare.

– Pubblico o privato? – domanda l’uno. – Mi stai chiedendo se lavoro nel pubblico o nel privato? – risponde l’altro. – No. – Ah, vuoi sapere se secondo me sia meglio lavorare in un’azienda statale o in un’industria privata? Un pensierino per il pubblico lo farei volentieri: tredicesima e quattordicesima, permessi, agevolazioni... Ma forse no: lavoro monotono con poco spazio all’iniziativa personale. Io lavoro in un’azienda privata giovane, dinamica. Sono molto attivo, e contento. Certo, però, nel caso in cui i miei datori di lavoro facessero scelte sbagliate, potrei ritrovarmi a cinquantacinque anni senza lavoro e non poter andare in pensione, perché mi mancherebbero ancora molti anni per la pensione. – Noo! – esclama l’uno mentre guarda il telefonino. – Allora proprio non ti capisco! – risponde l’altro. – Parli forse della televisione, se guardo i canali Rai o quelli privati? Certo che la Rai con le sue belle trasmissioni di cultura e di informazione è migliore rispetto ai privati, dove c’è solo pubblicità. – Scusa, ma da quanto tempo non vedi la televisione? – lo riprende l’uno guardandolo e sorridendo. – Hai ragione – ammette l’altro. – Da quando mi sono sposato! Mia moglie non ha voluto in casa il televisore, perché preferisce andare al cinema o a teatro. Ma forse ora ho capito la tua domanda: mi parli di personaggi famosi, che fanno una bella vita, e se piacerebbe farla anche a me invece di fare il pendolare per andare a lavorare in un’azienda e tornare a sera. – Ora ti spiego io – sbotta l’uno un po’ spazientito guardando sempre il telefonino. – Non mi dai il tempo di parlare, che parti in quarta! Cosa è quella cosa che, dopo essere uscito di casa, in qualsiasi posto ti trovi, ti accorgi di non averla e torni di fretta indietro? – Le chiavi di casa. – No. – Il portafogli? – No. Ma dai, lo sai... è il telefonino! – Già, – ammette l’altro, – per l’amor di Dio: è vero! Se mi chiama mia moglie e non rispondo, sono guai grossi. – Giusto appunto, ci sei arrivato! – dice soddisfatto l’uno. – È un quarto d’ora che penso se sia il caso di raccontare e pubblicare ciò che mi è successo prima di arrivare qui, alla stazione. – Finalmente ho capito! – esclama l’altro: – tu sei uno di quelli fissati con i social network, che qualsiasi cosa fanno la pubblicano. Quelli alla ricerca del LIKE con cinquemila amici, e poi ne conoscono di persona a malapena cinque o sei. La mattina si alzano con la parola del giorno e un pensiero da comunicare al mondo intero. – Perché mi dici questo? – chiede risentito l’uno. – Noi gente comune non possiamo avere qualcosa da dire? – Certo che sì: ognuno di noi ha da dire qualcosa – riconosce l’altro. – Ci sono storie che pur non essendo personaggi pubblici, dobbiamo raccontarle, non per metterci in primo piano, ma per lanciare o condividere con altri messaggi importanti di esperienze belle o brutte che siano. Lo vedi come sta andando il mondo? Noi sconosciuti facciamo di tutto per emergere e pensiamo di farlo con i social, pubblicando con chi siamo, i posti dove andiamo e cosa mangiamo. E se per caso nei paraggi c’è un VIP, subito a fare il selfie con lui. D’altro canto, il personaggio famoso, un politico un attore un conduttore o altro, per mostrarsi umano verso il suo pubblico si fa i selfie con la famiglia in vacanza, si posta mentre cucina, mentre lava il proprio cane, oppure mentre stira la camicia del fidanzato. In verità, pubblicare certi scatti non è sempre opportuno, e a volte possono ritorcersi contro. Ma la cosa che mi fa imbestialire – continua l’altro imperterrito, non dando nessuno spazio di risposta all’uno, e con un tono indignato – è che per avere più “mi piaci” e attrarre le persone si fanno cose sempre più strane e pericolose, come salire sui tetti, colpire le persone all’improvviso, fare tutte quelle sciocchezze che mettono a repentaglio la propria vita e quella degli altri. Come ci racconta la cronaca. Io credo che ognuno di noi deve mettersi alla ricerca della propria strada senza voler emulare gli altri, per apparire quel che non é. Bisogna invece cercare dentro di sé i propri interessi e valori e riuscire a concretizzarli; se uno ha interesse a raggiungere un traguardo, deve mettere la propria volontà e impegno per arrivarci qualsiasi esso sia, dal più semplice al più ambizioso, e non pensare che basti solo postare sui social. L’altro, rimasto ammutolito, rimette il telefono il tasca, mentre arriva il treno. Secondo voi, avrà pubblicato o no?

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Photo Archivio CTE Stampa Bandecchi & Vivaldi s.r.l. - Pontedera (PI) ISSN 1973-3658

In copertina: Stefania Valentini, Pinocchio nel paese dei balocchi, 2017, olio su tela, cm 60x50

Reality numero 89 - settembre 2018 Reg. Trl. Pisa n. 21 del 25.10.1998 Responsabile: Margherita Casazza dal 19.11.2007 Reg. ROC numero 30365

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SOMMARIO

ARTE MOSTRE letteratura territorio storia 10 20 22 24 26 30

In viaggio con Valentini Campeggi o il pesce-cane dov’è? Pontormo in Carmignano Love story What is a youth?

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Un uomo molte vite Gaetano detto Nunù un'Americana a Firenze Vernon Lee Con Puccini a Pechino Berna caput Helvetiae

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Bobò. Isole Vulcani e altre storie nella Valle dell’Olmo L’arte in Italia Papa Borgia all’Argentario Uva Salamanna, chi era costei? Una donna da non dimenticare

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SOMMARIO

spettacolo EVENTI economia società COSTUME 57 58 60 61 62 63

Borghi d’Italia La classica vacchetta Pollocrazia Scintille e dialogo Mediterraneo, mare di pace ai blocchi di partenza

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Libri Noir storico nel cuore dell’Amiata Pensieri Il pipistrello e il corvo Chi ha visto il Linchetto?

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Ben tornato Lumière Venezia 75 The Royal Kiss Magnesio. Morte allo stress! Food e Book 56° Campiello

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artista

Teatrino autobiografico, 2018, olio su tela, cm 70x60

in

viaggio con

Valentini

Nicola Micieli

Drappi cangianti, oggetti, vetri multicolori, arnesi, frutta, fiori, foglie, personaggi creati in cera o in creta si esibiscono in veri e propri teatrini allestiti nel mio studio. Tutti loro recitano la loro parte sulla scena donando vita alla mia rappresentazione immaginaria. Danno vita alle tele raccontando a volte di storie perdute nel tempo, a volte di favole, miti o leggende. Narrano svolgendosi su un rotolo a rendere visibile ciò che nel pensiero prende strade intricate e infinite. Matite, acquerelli, pigmenti, colle, gessi, colori, foglie d’oro zecchino affollano lo studio in attesa di partecipare alla figurazione di scenari pittorici. Passano improvvise nuvole e lo studio si incupisce, lo sguardo si volge e cattura un nuovo fondale. In tutto questo la mia matita assume il suo ruolo prepotentemente, è la protagonista assoluta, la prima donna e inizia a percorrere con la sua punta il foglio bianco in cerca della forma con amore assoluto, sperando di riuscire nel suo incarico. Un appuntito ago fora a volte il foglio seguendo le tracce del disegno e un nero batuffolo di pezza strusciando sopra i piccoli buchi lascia la sua traccia nella sottostante tela. È un gioco bellissimo che maestri del passato mi hanno tramandato, mette in pace con il mondo e arricchisce il mio spirito.

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uel dolce incantesimo, che figura sopra una tela, scriveva della pittura Francesco Algarotti, letterato settecentesco di predilezione classicista, che la considerava imitazione ideale della realtà. Alla quale lo sguardo sensibile e la mano educata dell’artista attingono per interposto, ineludibile filtro formale. Investito dalle evidenze del reale, e dall’onda di ritorno delle loro suscitazioni interiori, le emozioni e memorie personali e culturali ad esse legate, la realtà egli la osserva, dunque, al filtro della mente: ne assume a modello gli aspetti che trova confacenti al proprio disegno, e li elabora per restituirli, nella compiutezza della forma idealizzata, come figure

Stefania Valentini

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Viaggio nella memoria, 2016, olio su tela, cm 100x100 Pagina successiva Alchimie, cm 70x50

dell’immaginario, fonte di rapimento e di incanto visionario. Così accade nel laboratorio interiore e artistico di Stefania Valentini. Quel dolce incantesimo..., la tanto suasiva definizione della pittura di Algarotti compariva ad apertura del catalogo della mostra da Valentini tenuta presso l’Accademia della Chionchina, a Pistoia. Al modo d’un motto araldico e come indicazione di lettura delle “nature morte” sui generis là esposte, quella verbale insegna la poneva in exergo Roberto Giovannelli, pittore e studioso d’arte che di rapimenti nel sogno, nell’incanto ammaliante della pittura è stato ed è magistrale intendente e creatore. Sempre attingendo all’Algarotti, dei dipinti e degli oggetti ivi raffigurati Giovannelli ripeteva poi dolci cose a vedere, e dolci inganni, nella nota al catalogo che sotto specie di lettera affettuosa ed evocativa, quanto criticamente rivelatrice, indirizzava a Valentini, già sua allieva a Firenze. Valentini dichiara essere stata « ...

una vera fortuna l’aver frequentato l’Accademia di Belle Arti di Firenze quando ancora si manteneva attiva la tradizione dell’apprendistato storico ... Per me l’imitazione poetica degli oggetti e della natura è a fondamento del fare artistico. Per questo motivo penso che il disegno sia la fonte essenziale tesa ad alimentare questa meravigliosa e apparentemente semplice idea ...». Una totalizzante “natura morta” esemplifica la sua idea dell’imitazione poetica del reale alimentata dal disegno. È Alchimie, un complesso, architettato microuniverso di oggetti/presenze testimoni concepito come una stanza metafisica, un figurato manifesto del proprio laboratorio visionario. Valentini fa ribalta d’un angolo dello studio, dove raccoglie ed esibisce i materiali fisici e artistici il cui oculato uso, la cui manipolazione e combinazione determina l’incantesimo della forma idealizzata. Li dispone occupando l’intero spazio scenico, senza lasciare vie di fuga allo sguardo: una

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tela al rovescio fa da fondo, quindi, in sequenza di piani sino al primo vieppiù affollato, lo sguardo viaggia nel poetico inventario degli oggetti, strumenti, attrezzi, modelli, simulacri che abitano lo studio, ognuno diversamente posizionato e orientato a suggerire innumerevoli percorsi nello spazio. Accolto in un plastico di nicchia architettonica a ridosso della tela, il Libro dell’Arte – la biblia artis – di Cennino Cennini compare al centro prospettico della stanza metafisica, come a sostenere la centralità e il carattere sapienzale delle sue pagine. Non a caso, sulla diagonale ai due terzi laterali della scena, il libro sta centrato tra l’uovo filosofale a sinistra in basso, simbolico del processo alchemico di permutazione della materia non qualificata in materia idealmente formata, e il foglio disegnato con la testa del bronzeo Atleta della Croazia (I° sec.) che sta per l’arte, citazione d’un ideale modello artistico riconoscibile anche nel Giasone del polittico degli Argonauti.



Dalla definizione della pittura dell’Algarotti ripresa e argomentata da Giovanelli nella mostra Dolci cose a vedere, e dolci inganni del 2015, emergeva dunque il profilo di un’artista che nelle immagini delle apparenze sensibili delle cose, restituisce l’eco delle suscitazioni interiori, insieme l’emozione e la meraviglia del loro rivelarsi come figure dell’immaginario, che non possono prescindere dai princìpi ordinatori della forma fondata sul disegno. Le dolci cose erano allora esclusivamente composizioni di oggetti, baroccheggianti per dovizia di notazioni visive, che si stenta a collocare ed esaurire nella convenzione formale del genere “natura morta”, in interno e in esterno, Mi piace pensare allo specchio di quelle composizioni, come a teatri visionari per lo più affollati di oggetti d’uso e memoriali e d’affezione, di tralci e fiori e frutti disposti con sommo studio in primo piano, facendo ribalta d’un tavolo o d’una mensa ricoperta da sontuosi tessuti versicolori o da tovaglie trinate. Sullo sfondo, i medesimi tessuti sciorinati a ricevere in parte assorbendola, in parte Polittico degli Argonauti, riflettendola e rifrangendola la luce, 2017-2018, olio su tela, come simulassero, con le loro piework in progress ghe e trame e decori, la morfologia e i paramenti dei paesaggi; oppure Orfeo canta sulla nascita di tutte le cose, 2017, olio aperti paesaggi collinari, marini e lacustri non meno animati di frasegsu tela, cm 150x130

gio pittorico e riflessi; o cieli abitati e solcati da nuvole, non romantici nembi annunciatori di tempeste, ma velari idonei a filtrare e restituire morbida e cangiante quella luce di scena, che sugli oggetti, al contrario, tende a esaltarsi. Ho chiamato figure dell’immaginario le restituzioni delle apparenze sensibili delle cose, per gli artisti votati alla rivelazione visiva. Nel caso di Stefania Valentini potrei dirle maschere, o meglio dramatis personae, volendo usare una metafora rispondente al carattere particolarmente ostensivo, esibitorio allo specchio del proscenio, per la massima loro visibilità d’insieme, di tutte le componenti iconiche e morfologiche dei dipinti qui documentati. Personaggi per statuto formale, quali si danno già solo con il loro mostrarsi, sono gli ambienti, le creature, gli oggetti figurati, direi perfino i grafemi plasticamente stilizzati, in riduzione simbolica, degli elementi naturali, abbiano o meno un qualche dichiarato ruolo attivo nell’azione drammatica. Intendo una funzione recitante in un ipotetico racconto: favolistico, per esempio, oppure epico o intimista che di volta in volta suggeriscano i quadri scenici e i siparietti dei tre tempi, o atti della rappresentazione pittorica, qui raccolti in una sola Arca della memoria e dati sotto la specie allusiva del viaggio della e nella memoria mitografica.

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In primis, la memoria arcaica mediterranea. Valentini la consegna a uno dei miti fondativi più compositi e affascinanti del mondo greco, generatore d’un innumerabile leggendario, antico e moderno, di avventurate navigazioni ad ardue sfide e mete utopiche, che chiamo il sogno e sono, nel traslato della pittura, l’ideale della pura visione immaginaria. Le partenze verso l’ideale oltre l’orizzonte, e i nòstoi: i ritorni degli eroi, gli approdi alla terra, alla casa, al luogo dell’incubazione del sogno. Sulle cui fondamenta il viaggiatore ora può erigere un palazzo della memoria alla Matteo Ricci, un’iconostasi che con la memoria originaria, nel tempo e come ponte tra le civiltà e le culture, ne rinverdisca il senso e lo rinnovi allo stesso linguaggio dei contemporanei. È l’impresa degli Argonauti, i valorosi eroi – tra i quali Castore e Polluce, Ercole, Orfeo a loro volta portatori di miti – guidati da Giasone nella Colchide alla conquista del Vello d’oro. Dei uomini semidei amori avventure insidie sfide prove iniziatiche magie incantesimi prodigi mostri, mirabilia della natura e degli uomini, e altro: sono i fili che si intrecciano, si annodano, si sciolgono, si dipanano, intessono la trama e l’ordito della costellazione di storie generate l’una dall’altra, come per gemmazione, nel mito degli Argonauti. Che Valentini incrocia in tre sculture (La fuga di Frisso e Elle - Medea e Giasone - Orfeo canta sulla nascita di


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La fuga di Frisso e Elle, 2017, olio su tela, cm 90x90 La fuga di Frisso e Elle, 2017, scultura in bronzo, cm 39x39x20

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tutte le cose) e in quattordici episodi composti come quadri scenici nella forma poematica del polittico, il suo “palazzo della memoria” visiva, opera volutamente in progress perché questo di Valentini è anche un viaggio nei procedimenti della pittura: solo preparate a ricevere i disegni delle relative scene, le quattro tavole delle predelle; dipinte a monocromo le scene delle quattro tavole al terzo registro; eseguite al finito le cinque scene principali del registro centrale e il sovrapposto rombo de La fuga di Eriso e Elle, da dove prende avvio il leggendario viaggio degli Argonauti, e di Stefania Valentini. Il medesimo carattere del viaggio verso una terra nuova e l’utopia di una nuova, migliore umanità, ha la memoria biblica incontrata nel mito originario del diluvio, una narrazione leggendaria che Valentini letteralmente “svolge” su un rotolo – La mia arca – dipinto al modo d’un Exultet medievale, dove si rappresenta la

scena dell’imbarco delle specie nella provvidenziale arca di Noè, e non mancano la letizia del canto e il luminoso annuncio della salvezza, nella zoologia naturale e fantastica là dipinta con un gusto da atlante naturalistico dai fantasiosi e vividi paramenti cromatici. Infine, ma solo nell’ordine della mia esposizione, la memoria autobiografica – come la chiama l’artista – sottesa alle precedenti arcaica e biblica. Memoria e storia interiorizzata che si esprime, un po’ come nella Recherche proustiana, con la puntuale ricognizione negli “arcipelaghi” degli oggetti testimoniali di età e di vissuti personali e generazionali, microcosmi incrociati sotto la specie delle Nature morte, tanto repertoriali di oggetti, appunto, e notazioni pittoriche e così totalizzanti in estensione ambientale, da travalicare le convenzioni e i modelli storici del genere. Per quanto non manchino le contaminazioni stilistiche, le assimilazioni indirette di

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La mia arca, particolare La mia arca, 2018, gouache e oro zecchino su carta con supporto in ferro battuto, cm 1000x34


La mia arca, particolare

La mia arca, particolare

stilemi, persino, talora, le citazioni dal repertorio barocco del Ligozzi, dello Scacciati, soprattutto del Bimbi. Ossia, al solito, lo sguardo retrospettivo nella storia dell’arte per l’esercizio della discreta contaminazione formale e persino della citazione in inserto figurale. E se per le nature morte, ma poi nel senso più generale ed intimo del pensiero poetico di Valentini, nella sua nota Giovannelli evocava a consonanza ideale “l’immaginario di una pittrice di sublimi meditazioni come Anne Vallarey-Coster”, facendo poi un “salto acrobatico” nel Novecento toscano dei Glighia, dei Carena, dei Colacicchi da Valentini amati sin dagli anni formativi, quali ascendenti sottesi delle sue luminose tessiture pittoriche, io non esito a riconoscere anche una certa iperreale polarizzazione pop dello sguardo.

Specie quando nel suo teatro di visione indaga e raccoglie i riflessi un po’ da vetrina degli oggetti/personaggi di appartenenza ludica. Per tutti il Pinocchio smaltato e il suo corredo di oggetti e immagini che rimandano al viaggio di formazione e trasformazione dell’argonauta burattino nella vita, disposti ad arte a comporre una scena, a evocare una situazione o un accadimento nella sospensione dello spazio e del tempo. Nelle nature morte, come del resto nei soggetti mitologici le cui componenti morfologiche alquanto frammentate in genere si affollano sul piano del boccascena e paiono anch’esse parti d’una natura morta, gli ambienti, le creature, gli oggetti sono chiamati non tanto ad illustrare, per quadri, una storia, che dove sussiste ha in ogni caso una valenza

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proiettiva, quanto a farsi rappresentazione drammatica ossia esibizione scenica di sé quali pure presenze della pittura, prima che portatrici di miti e di vicende, anche personali, ad esse legate. Nella rappresentazione per figure consiste dunque la vera historìa – “ispezione” visiva – nel teatro della pittura la cui verità è la finzione. Ne consegue che Stefania Valentini, dipingendo, racconta la pittura e si racconta per interposta pittura: le cifre grafiche e ideogrammatiche, i morfemi e gli stilemi, le figure simboliche e quelle iconiche sono i materiali con i quali costruisce il suo mondo di visione, praticando sostanzialmente il metalinguaggio del visibile parlare per immagini, del fare arte pienamente attuale rigenerando le forme mai stereotipe dell’arte.


La mia arca, particolare

Stefania Valentini nasce a Firenze e si diploma come Disegnatrice Stilista di moda con la costumista Anna Anni, dopo alcuni anni di lavoro nel settore, frequenta l’Accademia di Belle Arti di Firenze sotto la guida dei professori Roberto Giovannelli, Adriano Bimbi, Vairo Mongatti, Alberto Manfredi. Si diploma nel 1987 e da allora si dedica alla pittura. Nel 1998 organizza la sua prima personale a Lido di Camaiore. Nel 2000 partecipa alla mostra “Armonia nei colori“ a Pontassieve. Nel 2001 partecipa alla decorazione della cripta della chiesa di San Donato a Livizzano, dove dipinge una parete dedicata al grande Giubileo del 2000. Segue la mostra In nuce a Firenze, presentata da Timothy Verdon. Nello stesso anno dipinge il ritratto del Dalai Lama per l’iniziativa I volti della pace, che dà vita ad una collezione permanente nel convento di San Domenico a San Miniato al Tedesco. Nel 2007 vince il concorso nazionale I fiori nell’arte presentato alla Fortezza Vecchia di Livorno. Nel 2008 realizza uno studio della pala d’altare raffigurante la Madonna con Bambino e i santi Michele, Pietro, Paolo e Maddalena dal Ridolfo del Ghirlandaio per la Pieve di San Pietro a Pitiana, intervento seguito da Caterina Caneva, Antonio Paolucci e Timothy Verdon. Quest’esperienza pittorica si pone come punto di partenza della mostra personale Percorsi organizzata a Reggello. Segue nel 2008 una personale alla Galleria Spagna di Firenze. Nel 2010 prende parte alla Grand Exhibition of selected paintings of Chinese, Italian and International artists presso l’International Convention Center di Shangai, in occasione dell’Expo mondiale 2010. L’anno successivo gli stessi dipinti vengono esposti prima al Wison Art Center, poi alla New Pudong Library di Shangai. Nel 2012 realizza una serie di ventitré ritratti di artiste donne del passato come illustrazioni per il libro Svelate. Il segno femminile. I disegni saranno presentati nello stesso anno in una omonima mostra presso il Palazzo Pretorio di Figline Valdarno. Nel 2013 organizza la mostra personale Natura artis magistra nella Sala delle Colonne a Pontassieve. Nel 2014 è a Firenze con la mostra personale Racconti di luce e colore a Palazzo Medici Riccardi, curata da Daniela Fontanazza e presentata da Pierfrancesco Listri; nello stesso anno allestisce anche una personale nel Comune di Rufina Bacco e Venere, la donna nell’arte e, partecipa a Capriccio italiano nello Spazio Italia presso l’ambasciata italiana di Pechino. Dal 2013 sta collaborando con Luciano e Ricciardo Artusi, con i quali ha realizzato per la collana Le piazze di Firenze, un quadro per ogni libro uscito. Nel 2015 è Roberto Giovannelli che cura la mostra personale a Pistoia Dolci cose a vedere, e dolci inganni. Nel 2016 Toscana Energia dedica il calendario alle sue opere. il Comune di Reggello presenta la serata La gioia di dipingere. Stefania Valentini con una sua mostra alla Biblioteca Comunale e sempre nello stesso anno esegue un dipinto per il Teatro Niccolini a Firenze. Nel 2017 prende parte all’iniziativa culturale Pinocchio al Pinocchio curato da Filippo Lotti nel comune di San Miniato. Nel 2018 nella Sala delle esposizioni dell’Accademia delle arti del Disegno di Firenze allestisce la mostra personale Arca della memoria curata da Nicola Micieli.

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Campeggi

un maestro cartellonista fiorentino per il cinema Marco Moretti

Manifesto per Via col vento, 1949 Cavalli al galoppo, Ben Hur, acrilico su carta, cm 100x142

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i firmava Nano, ma per l’immensa attività grafica poteva considerarsi un gigante. Classe 1923, Silvano Campeggi fiorentino di Costa San Giorgio era sopravvissuto di gran lunga alla conclusione della sua epoca che lo aveva visto tra i maggiori protagonisti d’illustratore di manifesti per il cinema, concludendo la sua lunga vita il 29 agosto scorso alla bell’età di 95 anni. Incalzato dai tempi nuovi, il delicato compito dei cine-cartellonisti era andato declinando sul finire degli anni Sessanta, ma non per questo Campeggi, pittore nell’anima, aveva deposto pennelli e colori, rafforzando al contrario il suo status di artista riconosciutogli fin da giovanissimo da Ottone Rosai che aveva casa e

studio in via San Leonardo, qualche centinaio di metri più sopra lungo il medesimo nastro viario della Costa San Giorgio, il quale fu anche suo maestro al liceo artistico. Campeggi aveva iniziato la sua carriera grafica illustrando pubblicazioni per diverse case editrici fiorentine, ma sarà con il trasferimento a Roma nel primissimo dopoguerra, prima presso lo studio del pittore Orfeo Tamburi, poi entrando in contatto con il cartellonista Martinati che inizierà l'attività di pittore cinematografico. La felice destrezza di mano e l’innato senso del colore lo fecero conoscere alle produzioni di Cinecittà, ma quasi contemporaneamente anche alle maggiori case americane, tra cui la Dear film, la Metro Goldwin Mayer,

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l’Universal, la Paramount, che gli affidarono le rappresentazioni dei loro film: da Via col Vento a Casablanca, da Un americano a Parigi a Cantando sotto la pioggia, da Il selvaggio, a Il Gigante, da Colazione da Tiffany a Venere in visone, da La gatta sul tetto che scotta a Ben Hur, tanto per citare alcuni fra i titoli più famosi. Ma furono oltre tremila i manifesti da lui eseguiti lungo la più splendida era del cinema, quando questi era l’elemento principe dell’attrazione di massa, non ancora sopraffatto dalla televisione. Nessuno saprebbe dire quanta gente ha fatto sognare Campeggi con i suoi manifesti firmati da Hollywood con lo pseudonimo di Nano in quegli anni in cui, dicevamo, la promozione dei film passava attraverso il riferimento grafico affisso per le strade e riprodotto su giornali e riviste. I cosiddetti trailer erano di là da venire, e nemmeno era in uso la pubblicità fotografica. A fare entrare un film negli occhi del pubblico era dunque compito del creatore d’affiches, la cui bravura doveva riassumersi in almeno tre doti: abilità di ritrattista, originalità creativa, senso grafico razionale dell’insieme per una rapida visualizzazione. Il successo incontrato da Campeggi presso le maggiori case cinematografiche nazionali e americane stava nell’accuratezza di creare ogni manifesto tenendo conto del senso etimologico del termine: cioè manifesto quale sinonimo di esplicito, chiaro, evidente, lampante. In che modo raggiungere l’obiettivo? Nano si teneva a un suo concetto: far "campeggiare" su un unico sfondo colorato la scena da rappresentare, così da avere, anche a distanza, la massima visibilità rispetto agli altri fogli illustrati che allora più di oggi


Marilyn Monroe, tecnica mista su carta, cm 100x70 Autoritratto, acrilico su tela, cm 110x70 Ava Gardner, tecnica mista su carta, cm100x70 Liz Taylor, Venere in visone, tecnica mista su carta, cm 100x70

tappezzavano le vie, riproducendo un’immagine che a suo giudizio avrebbe richiamato la massima attenzione. Per ottenere ciò, certe volte l’artista dovette affermare la propria volontà contro i pareri della produzione, come accadde nel 1959 per il manifesto di Ben Hur: Nano volle dare del film un’interpretazione dinamica, raffigurando la corsa travolgente dei cavalli della gara fra le quadrighe, fiancheggiata dal titolo del film a caratteri cubitali e granitici, accennando solo in parte alla monumentalità delle costosissime scenografie che avrebbero voluto porre in evidenza quelli della Metro Goldwin

Mayer per meglio pubblicizzare quel kolossal costato 15 milioni di dollari, poi campione d’incassi e vincitore di undici premi Oscar. Un’altra responsabilità non indiffe-

rente consisteva nel realizzare le figure dei protagonisti. Dipendeva dalla maestria dell’artista, dalla sua abilità fisionomica e sensibilità psicologica rendere sulla carta la concentrazione seducente di Humphrey Bogart, l’introverso distacco di James Dean, la sensuale tracotanza di Marlon Brando. E ancora più impegnativo era dar significati agli sguardi, chiave di volta dello charme femminile: da quello magnetico di Áva Gardner a quello "viola" di Liz Taylor; da quello sbarazzino di Audrey Hepburn a quello doloroso di Anna Magnani. E poi le labbra, espressione carnale di passionalità, da quelle ammiccanti di Marilyn a quelle procaci di Sophia. Riguardo alla sensualità dei corpi, Nano doveva giostrarsi tra il mostrare e il celare, lasciar intuire più che ostentare, ché la censura dell’epoca stava bene allerta. Così anche nell’impaginazione scenica, dove occorreva grande accortezza per far quadrare un’immagine galeotta con la realtà dei costumi vigenti; dunque scolli misurati ma in grado di far risaltare le forme sottostanti. Infine, attenzione suprema richiedeva il bacio tra i protagonisti (che sul manifesto doveva apparire come una promessa di ciò che sarebbe seguìto nel buio della sala), raffigurando l’espressività degli sguardi ravvicinati e l’indicibile pathos che precedeva il contatto fisico delle labbra, come Nano riuscì magistralmente a rendere tra l’irresistibile Clark Gable e Vivien Leigh nel manifesto di Via col vento. Argomento scabroso, il bacio poteva costar censure alla pellicola, come ben documenta Giuseppe Tornatore nella sequenza dei baci tagliati nel suo Cinema Paradiso; figuriamoci per un’immagine 70/100 in vista agli occhi di tutti, clero compreso. Nella realizzazione dei suoi manifesti Campeggi dovette far fronte a tutto ciò, riuscendovi grazie all’abilità di pittore e all’estro grafico, come anche all’innata capacità di saper cogliere psicologie umane. Con la sua prolifica opera, Silvano ha avuto la soddisfazione di aver contribuito a far registrare ai film numerosi record di incassi e assistere alla vittoria di 64 premi Oscar. Testimone di un’epoca ormai lontana, ora Nano si è riunito ai grandi protagonisti dei "suoi" film. Anche lui protagonista, sebbene in misura più appartata, per grazia della sua forza evocatrice.

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o il pesce-cane Gianfranco Schialvino

Il Bestiario sei xilografie cm 30x200 di Gianni Verna ispirate a Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi verrà esposto nella Sala del Tesoro del Castello Sforzesco a Milano e presentato il 18 ottobre da Claudio Salsi, Giovanna Mori, Pier Francesco Bernacchi, Matteo Lutrani, Gianfranco Schialvino

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inocchio cianciava con tutti, anche con gli animali in cui gli capitava di imbattersi. Per primo il Grillo-parlante (che fece un brutta fine, o no?, perché curiosamente lui o la sua ombra qua e là tornano a sdottoreggiare), e fu anche l’ultimo, se non si considera il Ciuchino-Lucignolo, triste epilogo anche per lui! Poi il Pulcino, il Gatto e la Volpe, il Merlo bianco, che bel boccone!, e via via il Can barbone, il Corvo, la Civetta, e Conigli, Picchi, Pappagallo, Gorilla, Lucciola, Faine, Colombo, Delfino, Granchio, Lumaca, Marmottina, Ciuchino, Capra, Tonno... (penso di averli ricordati tutti, o quasi). Beh, a dire il vero Pinocchio non ha intrattenuto una conversazione con tutti quanti: non con gli abitanti spelacchiati di Acchiappacitrulli e non con i mastini gendarmi, e neppure col Pesce -cane, ma questo è ovvio, i pesci – acqua in bocca – non parlano! Ma il tonno... penserete. Certo, col

dov’è tonno ci ha parlato: ma il tonno non è un pesce comune, così come non lo sono l’acciuga e la sardina, che ieri vivevano sotto sale nei barili, e oggi sott’olio, in comodissime scatolette variopinte. Ma questo è un altro discorso, non tergiversiamo. Se provassimo a contare, nella sterminata bibliografia riferita al nostro burattino, un libro che ci enumeri, racconti e descriva gli animali che Collodi ha ospitato nei 36 capitoli delle Avventure di Pinocchio, ci troveremmo smarriti tra cielo e mare, senza una luce a farci da guida. Vecchi e nuovi, pressoché tutti illustrati, con interpretazioni, sfumature e significati che sembrano inesauribili, nel catalogo della “Biblioteca Collodiana”, alla Fondazione Nazionale Carlo Collodi, si contano oltre 700 illustratori del nostro eroe, registrati nei 6000 libri collegati alla vita e all’opera del suo autore. Una valanga! E allora questo che vi accingete a sfo-

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gliare che motivo ha, vi chiederete, di intrufolarsi tra cotanto precedente sapere? In effetti una ragione c’é, ed è affatto valida. In un mondo di immagini, alcune straordinarie, e molte stereotipe, le xilografie di Gianni Verna portano una ventata di spontaneità. Fingendo a bella posta di ignorare l’illustre antologia delle rappresentazioni degli artisti storici, Mazzanti Chiostri e Mussino, le xilografie di Sigfrido Bartolini, le terrecotte di Marco Bonechi, le chine di Franco Bruna, le raffinatissime cromie di Luigi e Maria Augusta Cavalieri (prima donna a cimentarsi nel dar forma alla figura del burattino), l’espressività dolcissima di Massimiliano Frezzato, le “strisce” di Galep e Benito Jacovitti, guardacaso pressoché contemporanee, e di poco successive al film di Walt Disney subito diventato un simbolo universale, gli opposti toni artistici e caratteriali di Mino Maccari e Lorenzo Mattotti,


gli intensi profumi mediterranei di Lele Luzzati e Francesco Musante, e ancora Bobò, Schifano e Scarabottolo, Bisi e Faorzi, Ferenc Pinter e Sergio Toppi, Roland Topor e Mimmo Paladino. Il racconto “animalier” (il burattino compare sempre a margine tranne che negli ultimissimi capitoli) per immagini del Pinocchio di Verna parla un linguaggio tutto suo. Se troviamo il Gatto e la Volpe a rappresentare l'umanità malandrina e sfruttatrice, sarà la tavola del processo-farsa a simboleggiare l’aleatorietà della giustizia terrena e la danza dei Ciuchini a dettare la legge del contrappasso. Le allegorie si susseguono: i falsi sapienti tronfi e narcisi, i profittatori viscidi e untuosi, la generosità nel cuore dei poveri e l’avidità negli artigli dei ricchi. Emblematica la rappresentazione di Alidoro, il cane che i carabinieri gli aizzano dietro, dapprima accanito inseguitore che, mentre cerca di fare il

suo dovere (catturare il burattino fuggiasco) cade in mare, ma Pinocchio lo salva, diventeranno amici, e quando sarà Pinocchio a dover essere salvato dalla padella dove il pescatore lo vuol friggere non esiterà con un balzo a strappargli dalle mani quel bocconcino infarinato: «In questo mondo bisogna tutti aiutarsi l'un l'altro», gli dirà. Le pagine dove le umanizzazioni delle bestie scorrono pacate sono spezzate dalle tavole tenebrose ove prevalgono le oscurità, i notturni, le ombre dense e cupe che si risolveranno in luminosità improvvise nei fogli successivi. Qui i riferimenti collodiani alla classicità letteraria, già riscontrati nei nomi – Alidoro è un protagonista dell’Amadigi di Bernardo Tasso, Melampo era un mitico veggente greco con il dono di comprendere le voci degli animali, le orecchie che trasformeranno il burattino e l’amico Lucignolo in somari sono le stesse che fecero impazzire il re Mida –, si accompagnano

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a quelle determinate nelle immagini inventate dallo xilografo: il buio fuori dell’osteria “così buio che non ci si vedeva da qui a lì” è popolato dagli uccellacci del Goya di “Las resultas”; la piazza di Acchiappacitrulli affronta la metafisica di De Chirico; la grotta del pescatore è illuminata dalla luce vivida della lampada di Guernica; l’incontro con Geppetto nello stomaco del Pesce-cane è nobilitato dalle mani dei due protagonisti che si toccano al pari del primo incontro di Adamo col suo Creatore. Non è un Pinocchio facile, quello di Verna: non ammicca né cerca consensi o complicità; è duro, anzi, e potrebbe qua e là sembrare persino scostante, poco gentile, irriguardoso. Ma tocca punti alti di estro e di suggestione, con l’acme nei capitoli di fondo, quando sulla vicenda nell’autore prevale l’intento etico che porterà al lieto fine, e l’artista ha ormai definito la caratterizzazione estetica dei protagonisti della storia.


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Pontormo in

Roberto Giovannelli

... il vago, alto lavoro, D’orror, di meraviglia, e d’Arte pieno... Bronzino

C Roberto Giovannelli, Campionarietto di panni e pieghe, pontormesche intonazioni, 1976, scampoli di seta in cornice dorata, cm 18x51 Roberto Giovannelli, L’asinello di Carmignano, 1967, sanguigna su carta avoriata, cm 35x50 Niccola Monti, Sculture del Pergamo di San Giovanni Fuor Civitas in Pistoia, [1812 circa], tav. XXXIX, in Storia della scultura italiana di L. Cicognara, 1823

C armignano

armignano, chiesa di San Michele. Ho realizzato qualche schizzo in lapis e colori intorno alla Visitazione di Jacopo Carrucci da Pontormo. Enigmatica pala, magica visione dipinta tra il 1526 e il 1530 per la famiglia fiorentina de’ Pinadori «fornitori di colori per artisti» che in quella località aveva villa e possedimenti. Delle quattro protagoniste in scena ho fissato su una paginetta la traiettoria dei reciproci sguardi di Maria e di Elisabetta, e quella degli occhi incrociati su di noi dalle due donne che le affiancano, genericamente descritte come “ancelle”. In altro foglio ho segnato punti e linee per ordinare in pianta e in alzato la disposizione dell’intero gruppo, conformato in struttura poligonale simile a quella di un iridescente cristallo di rocca. In altri fogli ho steso all’acquarello le masse predominanti delle vesti e la combinazione dei corrispondenti accordi cromatici (rosa geranio, verde azzurro, verde acido, giallo aranciato, verde vescica); ho trovato, in consonanza

con la fonte di luce situata a sinistra, gli scuri e i cangianti raggruppamenti delle pieghe: vuoti e pieni plasmati secondo l’attitudine dei modelli in posa, ho infine cercato i lumi e le ombre degli incarnati e campito d’azzurro uno spicchio di cielo gravato dal turchiniccio passar di una nuvola. La materia pittorica vigorosamente modulata fluisce sulla tavola per dense campiture e sottili trasparenze, quali vibrazioni, quasi sonoro accordo di misure gravi, mezzane e acute, ottenute per sapiente accostamento di toni e conseguenti sfumature di colore. Ariosità e dolcezze talvolta generate da stratificate investigazioni del disegno, in virtù di quell’affiorante lavorio dello stilo e del pennello, che non sempre è ripensamento o pentimento, ma un cercare e trovare per medianica fertilità di mente e di mano «genio e natura». Contribuisce poi a questi mirabili effetti la preparazione del fondo, ottenuta credo attraverso una leggera stesura di terra di Siena o d’ocra d’oro. Le vesti, concepite come autonome membrature, appaiono di un «rilievo grandissimo» in guisa di rivestimenti o corazze, scudi o conchiglie a complementare definizio-

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ne dei corpi: avvolgenti scorze come sorgenti da terra (quasi una sfida o un dialettico gioco con la forza di gravità). Le nude membra potrebbero uscirne lasciando intatto il proprio guscio nella sua splendida, colorata monumentalità. I panni delle due gestanti grandeggiano quali invogli di tessuto lievitante sui grembi prodigiosi, irradiati dal calore intimo di due vite germinanti: quella appena concepita dalla Vergine e quella che da sei mesi reca dentro di sé Elisabetta, che «appena udì il saluto di Maria» sentì il bambino sobbalzarle in grembo. In questa composizione sant’Elisabetta, «by his “Nemesis” reversed», scrisse il Clapp. Qui il Carrucci converte il mistero della Concezione in gemmazione della pittura; le vesti delle gestanti appaiono come mongolfiere colorate di carta sul punto di elevarsi nell’aria. Meravigliosi studi, realizzati forse approntando trabiccoli e grucce panneggiate o, com’era costume di Jacopo, «modelli di terra tondi e finiti». Nel panneggio rosa geranio dell’”ancella” a sinistra di chi guarda, si nota un “aggiustamento”, una semplificazione rispetto alla sottostante complessa disposi-


zione delle pieghe, che affiora per trasparenza in superficie. Anche nella veste di Maria, lungo la linea ove il panno scopre il ginocchio e il polpaccio destro di lei, s’intravedono i segni di una prima idea diversa dalla soluzione definitiva dell’opera, che per altro si distacca per molte varianti anche dalla sorgiva, quasi rustica sintassi del disegno preparatorio conservato agli Uffizi (GDS, 461 F). Avverto la tua sagacia, Jacopo, nell’avvolgere con un’increspatura di tessuto il calcagno del piede sinistro di Elisabetta, sottile artifizio escogitato per non interrompere l’andamento complessivo delle pieghe; la stessa acutezza che hai avuto nel celare con un lembo della medesima cangiante veste aranciata il difficile (forse sgradevole) scorcio del suo piede destro sul selciato. A terra le ombre si spandono leggere «come in fumo», quasi non si trovano (secondo quel tuo stravagante condurre «senz’ombre» sconsolatamente notato da Giorgio Vasari nella Deposizione in Santa Felicita a Firenze). Vedo che hai dipinto la mano sinistra di Elisabetta nel punto aureo della tavola, ove convergono salendo dal basso, come a formare uno sghembo triangolo equilatero, la linea inclinata della sua gamba in primo piano e quella della snella compagna posta sull’altra banda del quadro. In un gioco di trascendente complementarietà il profilo della testa di Elisabetta è lucidato su quello soave della Vergine, benché reso più scabro dalla piega degli anni. Ecco la magica specularità dei volti e degli sguardi delle due cugine: un fluire d’ipnotici balenii, articolati – già vi accennavo – in una geometria di traiettorie visive e insieme intreccio del pensiero che si propaga fuor di scena come filtrato dagli occhi delle due “ancelle”. Avviene come se in un sapiente congegno di specchi la vista e i sembianti della giovane Maria e dell’anziana Elisabetta, confluissero sdoppiati in quelle compagne (la giovane e l’anziana) per saettare di rimbalzo i loro magnetici lumi su di noi. La conformazione di codesto gruppo mi ricorda un precetto dell’Albani ricavato dall’amato Raffaello (che in quanto a Jacopo profetò grandi esiti), vale a dire: Che converrebbe mostrare più cose in un solo atto, e formar le figure operanti in modo, che si conoscesse, in fare quello che fanno, quello ancora che han fatto, e che sono per fare.1 Severa è la serrata ambientazione che accoglie le figure, risolta con poche quinte da scena in apparato di torri e casamenti d’arenarie di varia intonazione. Una donna in lontananza, quasi spettrale figura, si affaccia dall’alta finestra di un nobile palazzo (ne ritrovo l’eco nella tela di Jacopo da Empoli raffigurante San Carlo Borromeo e la famiglia Rospigliosi, conservata nella chiesa di san Domenico a Pistoia). In basso, lungo la strada ombrosa discendente a sinistra, si vedono due personaggi in abiti di foggia moder-

na, certo contemporanei di Jacopo (consanguinei alla coppia di figurini schizzati nel foglio degli Uffizi, GDS 6697 F r). Il primo dal mento barbato è seduto sulla panca di via dello stesso edificio e indica a braccio teso la muliebre assemblea, volgendosi contemporaneamente al dinoccolato compagno dalla testa rapata, che, con una rossastra berretta in mano, sta per uscire dal vicino portale. Cosa si diranno? Cerco nell’aria come in un cartiglio trecentesco il fluttuare delle loro parole così animatamente pronunciate. Intanto, sul fondo della prospicente strada, la stessa che Maria deve aver risalito per recarsi da Elisabetta, in corrispondenza di un crocicchio, si staglia su un lembo di selciato lumeggiante la testa di un asinello in riposo, forse sarà lo stesso asinello dipinto da Jacopo nella tavola raffigurante Giuseppe venduto a Putifarre? O forse sarà l’asinello destinato ad accompagnare episodi salienti della vita di Gesù: Betelemme, la fuga in Egitto, l’ingresso in Gerusalemme. Al tempo della prima stesura di questi appunti nel marzo del 1967, quella bestiola ancora non si vedeva perché coperta da uno strato di colore che è stato rimosso a seguito di un recente restauro. La rivelata presenza di quel mite animale mi ricorda un episodio che oggi mi appare come un segno premonitore: infatti, incamminandomi allora da Carmignano verso casa, ebbi la sorpresa d’incontrare un asinello che se ne stava immobile e pacifico tra le stanghe di un rosso baroccio al margine della strada. Questo si presentava sul mio cammino quale grata apparizione e soggetto in posa per alcuni disegni che realizzai felicemente a sanguigna su un album da schizzi. Ora mi piace pensare che quell’asinello fosse proprio lo stesso nascosto nella pala del Pontormo, che si presentava dal vivo per qualche momento, forse per mettermi sull’avviso di apprendere e coltivare l’arte della pazienza o di stare alla larga dall’asinina scuola, e di non calcare il basso e l’acuto ragliar dei suoi simili, come probabilmente mi avverrà di fare nel corso di queste righe; e certo non potranno essermi di consolazione quei versi di Giuseppe Giusti: Non crepa un asino Che sia padrone D’andare al diavolo Senza iscrizione. Tra i precedenti compositivi della nostra Visitazione sono stati proposti alcuni accostamenti, quali certi rilievi antichi di soggetto nunziale, o il non troppo convincente riferimento a Le quattro streghe di Dürer. Comunque, sfumando sui tanto richiamati spiriti düreriani e volgendo l’occhio a un più domestico ambito territoriale, mi pare di ritrovare una non peregrina risonanza della Visitazione di Jacopo con l’episodio della Visitazione sbalzata da Fra Guglielmo da Pisa nella formella laterale sinistra del pulpito di San

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NOTE 1 In F. Algarotti, “Saggio sopra la pittura”, in Opere, II, Livorno 1764, p. 202. 2 Dell’intera formella, costituita dagli episodi dell’Annunciazione e della Visitazione, realizzò una tavola al tratto Niccola Monti per la Storia della scultura italiana di Leopoldo Cicognara (1823), incisione ove la figura dell’Arcangelo Gabriele è rappresentata mancante del braccio benedicente che vi sarà applicato in un successivo restauro. 3 Un simile schema compositivo si ritrova nel tondo della Visitazione nel fregio robbiano dell’Ospedale del Ceppo a Pistoia.

Giovanni Fuorcivitas a Pistoia (1270).2 Anche qui, benché rispetto alla Pala pontormesca le quattro donne si trovino dislocate secondo una scansione geometrica che pone le “ancelle” ai margini della scena, rimane vivo quell’aureo, magnetico richiamo dell’occhio, evidenziato dall’incontro delle mani di Elisabetta e di Maria, ora saldamente congiunte.3 Vi noto inoltre, quasi fosse un divagante fuor d’opra – che immagino non sarebbe dispiaciuto al Carrucci – la singolare movenza della giovane presso Elisabetta, la quale, mentre una spallina della veste le scivola negligentemente al seno, solleva col braccio il suo avvolgente manto, come per variar posizione o avanzare un piedino in aggraziato passo di danza. RINGRAZIAMENTI Ringrazio Francesco Bertini per la collaborazione concernente le immagini fotografiche.

Roberto Giovannelli, Maria ed Elisabetta, 2016, studio dalla Visitazione di Jacopo da Pontormo, spolvero e olio su tavola, cm 50x35 Pontormo, Visitazione, 1528-1529 circa, olio su tavola, cm 202x156, Carmignano, Pieve di San Michele Arcangelo. Foto anteriore al restauro attuato nel 2014. Attualmente la pala, sottoposta a una lunga trasferta americana, è in mostra alla Pierpont Morgan Library di New York, successivamente e fino al 28 aprile 2019, sarà al Jean Paul Getty Museum di Los Angeles


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Love story Fabrizio Breschi letteralmente oltre ogni limite Roberto Russo

Inaugurazione delin Piazza della Vittoria a Livorno in data 15 settembre 2018. Da sinistra: architetto Luca Barsotti, artista Renato Spagnoli, sindaco Filippo Nogarin, Fabrizio Breschi, storica dell'arte Veronica Carpita, critico d'arte Roberto Russo, architetto Alessandro Aurigi assessore ai lavori pubblici

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na volta, visitando una galleria d’arte, ho chiesto a una scenografa quale fosse il signi cato dell’arte astratta, e lei mi ha risposto: “Va- nessa, vuol dire quello che vuoi che dica: quello che c’è dentro di te risponderà o no a quello che c’è nel quadro”. Vanessa Redgrave, Roma 2017 A ben vedere per fermarsi e guardare un’opera d’arte in mezzo a una piazza ci vuole tanto coraggio. È una delle azioni più dense di libertà che si possano compiere: vale a dire che possiamo sentirci liberi dal tempo esterno, liberi dai bisogni millimetrati dell’homo technologicus, liberi di ascoltare la mente e il cuore. È il tempo dell’anima che all’inizio o al termine di una lunga passeggiata nel centro di Livorno possiamo ritrovare di fronte alla grande opera, che Fabrizio Breschi ha donato alla città. Love story è il titolo che l’artista ha dedicato alla V in acciaio, figlia di un lungo ed ininterrotto percorso d’arte, che comincia alla fine degli anni ‘50 tra le spiagge di breccia di Do-

noratico e gli scogli di Livorno. La piazza Attias entra fin dal 1969 nel percorso artistico di Breschi. Durante l’estate conosce lo scultore e pittore Vitaliano De Angelis, che proprio nella piazza aveva lo studio. L’artista fiorentino dal cuore labronico sarà uno dei maestri di vita e d’arte che inciderà non poco su certe note stilistiche della pittura di Breschi. La crescita personale e l’acquisizione delle competenze tecniche presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze rendono Fabrizio un pittore completo, ispirato e attento al dettaglio. Non contento, però, della tradizione naturalistica toscana, egli cerca instancabilmente uno o più scenari dove applicare le proprie straordinarie capacità. L’improvvisa corrispondenza d’intenti creativi, accesa nel 1973 con il maestro prima, poi amico Aldo Turchiaro, offre gli spunti per trovare la contestualizzazione delle opere in un mondo contemporaneo e post moderno. È un’altissima tela di Turchiaro, intitolata Il traliccio, che Breschi vede al premio “Il Fiorino” a Firenze, a stravolgere i punti di vista, le convenzioni fin allora adottate a favore di una cifra stilistica stabile e di contenuti originali. Cominciano, così, le opere con teorie di paesaggi industriali, presto animati da laboriosi omini robotizzati, che vi lavorano, viaggiano, amano. Precisione del tratto e nettezza delle campiture sono elementi distintivi che il nostro pittore sviluppa e perfeziona a partire dal 1974. L’artista arriva ad una tale nitidezza espressiva da cristallizzare il mondo figurativo in schemi di tipo monumentale: «volevo che il contesto rispondesse al mio rigore morale.

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Avevo bisogno di dipingere al meglio delle mie possibilità» ribadisce il pittore. Il suo ego oltrepassa ogni interpretazione figurativa e lo si può riconoscere nelle costanti evoluzioni geometriche delle membrature tubolari o in paesaggi assolutizzati da omogenee campiture di colore. Tra gli anni ‘80 e ‘90 Breschi crea veri e propri capolavori con molteplici composizioni e misure. Esiste però un trittico di opere, dipinte tra il 1976 ed il 1977, dove si trova il primo accenno alla volontà di contestualizzazione urbanistica dei propri contenuti artistici: si tratta di Pomeriggio caldo di una famiglia piccolo borghese, che vive tutta la propria incertezza esistenziale da un appena profilato parapetto marino, nonché del Gruppo di famiglia in duplice versione. Le misure dei dipinti si ampliano e la super cie pittorica assume una contestualizzazione monumentale. L’artista adotta a tal fine degli espedienti scenografici e magniloquenti, come l’accenno di una balaustra lungo un’ampia scalinata. Si apre un fitto ragionamento progettuale che estrae le opere dal loro già flebile limite pittorico (la cornice o il con fine della tela) e che si applica a riprodurre le proprie azioni artistiche all’interno del contesto urbano. Breschi progetta e realizza sculture e installazioni, propaggini della sua intenzione di incontrare lo spettatore dappertutto, non solo in un accademico contenitore museale. È peraltro un’inclinazione dell’uomo Breschi, che fa del suo spontaneo approccio un momento caratteristico e piacevole. Ai primi anni 2000 si affermano definitivamente – dopo i primi affiora-


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Fabrizio Breschi con Love Story, 2018 Cycladico oggi, 2012 Isola A, 2001 Every days, 1981

menti degli anni ’80 – le CAPITAL LETTERS, lettere di maiuscola finezza inserite dentro scenari pittorici, sovente marini, in cui una grande lettera dell’alfabeto campeggia sopra una massicciata di breccia, memento di dediche furtive o rievocazioni di sentimenti perduti. Appariva quindi naturale e quasi inevitabile la scelta di incontrare per l’ennesima volta lo spettatore in uno scenario diverso, che non è più di tela, bensì articolato al centro degli itinerari di una comunità. La piazza diventa un medium formidabile per i messaggi dell’artista, che dipinge una storia sul lastricato dell’Attias. Storia d’amore è, infatti, la traduzione che l’artista ha scelto ed interpre tato per l’opera che si affaccia su piazza della Vittoria e che la introduce per chi viene dal centro cittadino. Come in tutte le storie d’amore riusciamo a trovare l’intimo nesso nella forma di due V incastrate tra di loro a sancire un avvincente amplesso (che in particolare prospettiva diventano M di Magenta) e negli incontri reali che si intrecciano di continuo sull’ampia pavimentazione della piazza. La creazione pittorica non è più un

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cimento personale ed autobiografico, ma affronta direttamente la Storia e si fa pluridimensionale, oltre la cornice del tempo. L’opera di Fabrizio Breschi può finalmente accompagnare pedissequamente la memoria della comunità ed arricchirla di nuovi significati e di inesplorate emozioni. Una CAPITAL LETTER è scesa dalla tela di un tempo e si è fatta CAPITAL SYMBOL in un altro luogo, diventando un segno indelebile nel variegato DNA labronico.


DAL 1884 SPECIALISTI DI TERRITORIO

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WHAT IS A YOUTH

ROMEO E GIULIETTA DI FRANCO ZEFFIRELLI Vittoria Pepi

Palazzo Piccolomini, Pienza 28 luglio – 6 gennaio 2019

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’esposizione, promossa dalla Società di Esecutori di Pie Disposizioni Onlus che ha la cura per la valorizzazione del Palazzo Piccolomini di Pienza e dalla Fondazione Zeffirelli, è prodotta e gestita da Opera-Civita group e celebra I 50 anni dell’uscita del capolavoro cinematografico del maestro fiorentino Franco Zeffirelli che scelse il palazzo come incantevole scenario per girare il suo Romeo e Giulietta, la tragica storia d’amore scritta da Shakespeare sui due giovani discendenti delle rivali famiglie veronesi, i Montecchi e i Capuleti. Il palazzo progettato nel 1459 da Bernardo Rossellino per volere di papa Pio II conserva la sua armoniosa architettura e il suo carattere autentico di dimora rinascimentale con I suoi arredi e le sue collezioni d’arte; dunque un luogo ideale per il maestro dove ricostruire la casa di Giulietta Capuleti interpretata nel film da una giovanissima Olivia Hussey. L’eccezionalità dell’architettura pientina non sta dunque solo nel carattere di gran-

dioso palazzo immerso nel suggestivo paesaggio della Val d’Orcia, ma anche nell’autenticità che ancora oggi conserva: le sale sono arredate con mobili, suppellettili, dipinti, sculture d’epoca che rendono gli ambienti ancora vivi come se fossero sempre abitati. Gli interni e gli esterni del palazzo, che si affacciavano sulla piazza della città ideale di Pio II, erano un set naturale in riferimento al periodo scelto dal regista fiorentino per la ricostruzione storica della tragedia shakespeariana. Il film fu girato oltre che a Pienza a Gubbio, a Tuscania e Artena, città coinvolte nella celebrazione di questo anniversario, che nella finzione divennero la Verona del primo Quattrocento. Nelle strade e negli interni dei monumenti più rappresentativi di queste città, si muovevano gli attori vestiti con costumi disegnati da Danilo Donoti liberamente ispirati alla pittura e alla scultura tardo-gotica e rinascimentale della prima metà del Quindicesimo secolo. Suggestivo è l’ingresso a palazzo, accolti dalle musiche di Nino Rota che compose per il film What is a youth? titolo scelto per la mostra e titolo della musica che risuona all’interno del cortile durante le scene del ballo in cui Giulietta e Romeo si sono conosciuti. La mostra curata da Maddalena Sanfilippo e Costanza Contu si snoda su due livelli: il loggiato con il cortile e il piano nobile del palazzo con la sala d’ingresso, la sala da pranzo, la sala della musica, la camera di Pio II e la biblioteca; questi I luoghi scelti dal maestro fiorentino per girare le scene del film. In questi ambienti sono state collocate le foto di scena e le foto di set messe a disposizione dalla Fondazione Zeffirelli in modo da far rivivere gli ambienti come se I personaggi del

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film si muovessero negli interni e li animassero di nuovo offrendo al visitatore uno spaccato più autentico della vita quotidiana del Rinascimento e la visione di un set cinematografico allestito nuovamente. Insieme alle foto ed ad alcuni preziosi bozzetti disegnati di proprio pugno da Franco Zeffirelli, sono esposti alcuni dei costumi di scena realizzati da Danilo Donati e vincitori nel 1969 del premio Oscar, oggi di proprietà della Fondazione Cerratelli. Camminando lungo le sale del palazzo si possono vedere ed ammirare questi capolavori di alta sartoria cinematografica collocati all’interno dell’ambiente per cui sono stati concepiti e realizzati. Gli interni di Palazzo Piccolomini si animano dunque di una nuova vita, offrendo al visitatore uno spaccato ancora più autentico della vita quotidiana del Rinascimento, magistralmente ricostruita dal regista e dai suoi collaboratori.


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Bobò

Isole Vulcani e altre storie la mostra a casaconcia Alessandro Bruschi

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sole Vulcani e altre storie” è un viaggio all’interno delle strade figurative percorse dell’artista livornese Antonio Bobò, classe 1948, tra eleganza, figurazione fantastica e simbologia: cifre stilistiche riconosciutegli da molti degli addetti ai lavori. La mostra verrà inau-

gurata sabato 22 settembre alle ore 17.30 presso casaconcia, la sede del Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale. La mostra Isole Vulcani e altre storie; e l’arte di Bobò. «Antonio è un giocoliere dei colori primari, delle partiture, del ritmo, dei contrasti e ha strumenti tecnici che gli permettono qualsiasi avventura», così lo descrive Romano Masoni, altro importante artista locale e già stato ospite con le sue opere negli spazi di casaconcia nei mesi scorsi. Bobò è un artista eclettico, poliedrico. Alcuni intravedono nei suoi tratti e nei suoi colori il simbolismo, mentre per altri il neoromanticismo sembra essere la cornice perfetta per la sua arte. Le definizioni possono essere molte ma Bobò con le sue opere non ricerca un ideale di bellezza in senso assoluto. Attraverso la sua arte inganna continuamente la natura e si prende gioco della storia e delle storie raccontate. Un artista completo che non si ferma all’ordinario ma che si inerpica su strade nuove, mai provate e ne accetta il rischio con determinazione e serenità allo stesso tempo. Perché in fondo l’obiettivo di Bobò è reinterpretare a suo modo e in chiave contemporanea alcuni schemi dell’arte classica e tradizionale. Non uno stravolgimento ma una rivisitazione personale. Un’arte, ma soprattutto una fantasia visionaria, che viene resa agli occhi di chi osserva utilizzando i rossi, i grigi caldi e i mezzi toni, il cui fine è andare oltre, esplorare con estrema facilità sogni e misteri, inventare paesaggi mentali da far vivere e in cui accompagnare le persone. Un pittore, ma definirlo così sembra

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essere riduttivo, d’altri tempi la cui figura si pone al centro della scena come un cavaliere antico ma senza nessuna ombra, tenebra o angoscia. Le altre mostre in programma. L’esposizione Isole Vulcani e altre storie sarà il quarto evento artistico in programma per l’anno 2018: un secondo anno di attività espositiva che si è posto l’obiettivo di proseguire sulla strada dei buoni risultati ottenuti nella scorsa annata e di far diventare lo spazio, attraverso questo e altri progetti, uno dei centri culturali di riferimento di Ponte a Egola e non solo. Il progetto culturale di casaconcia prosegue nella sua missione di creazione di un contesto strutturale in cui la cultura ed il saper fare toscano possano essere rappresentati e veicolati. Per quest’anno è in programma un’altra importante mostra, quella di Cesare Borsacchi, artista conosciuto a livello internazionale per la tecnica dell’acquaforte e della litografia, oltre che per la sua attività pittorica. Questa mostra sarà inaugurata sabato 10 novembre e si concluderà venerdì 7 dicembre.


reality

nella

Va l l e

Olmo

dell'

un albero, dei colombi, un angelo musicante di Sciavolino

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l vento soffia leggero sull’olmo, quasi fosse una tenue melodia che sfiora le foglie, una ad una, e le scompiglia appena accompagnandole in una danza composta. Il canto degli uccelli viaggiatori risuona tra i rami i quali si son fatti casa, nido intrecciato dal sapiente lavoro della natura e dell’età. Nella pace, il suono di uno strumento ferma il tempo riportando il sogno nella valle, un sogno legato ad un’epoca in cui gli olmi definivano il luogo. All’ombra delle fronde, l’angelo musicista fa vibrare le corde e dà un nuovo impulso alla Creazione. L’albero è giovane e accoglie, ancora inesperto, nuove vite che ad esso si accostano. Le sue radici bevono l’acqua dalla fontana sepolta che ancora si dona nelle profondità della terra. L’angelo è l’artista che lavora in silenzio e pazientemente e così come le note compongono nuove armonie allo stesso modo le mani sapienti forgiano ogni singola foglia generando una “voce” che risuona potente in un brusio inatteso. Bronzo “animato”, bloccato in un momento nel suo divenire, testimone positivo e benevolo del suo paese, pregno delle tante anime del luogo. Enzo Sciavolino è l’angelo musicista, è la melodia che risuona tra i rami, è ogni singola foglia modellata e fusa; è l’ala che sosta sul bronzo, il tronco che si innalza e si apre al cielo. Dopo tanti anni di vita piemontese, Sciavolino è tornato, anche se per poco, alle sue radici, al suo paese natio (Valledolmo) e lo ha fatto portando con sé un olmo bronzeo in segno di omaggio a ciò che fu, un tempo, il vero protagonista di quel luogo. L’artista valledolmese ha sempre visto negli alberi la forza della natura stes-

sa e dell’uomo (prova ne sia che molti sono i monumenti da lui realizzati che hanno come protagonisti proprio gli alberi); ne ha fatto i suoi portavoce privilegiati, che traggono messaggi amorevoli dalla terra elevandoli fino al cielo, quasi fossero dei totem magici intrisi di cultura e di forze simboliche e naturali che affondano le radici in una consapevolezza ancestrale dei luoghi. Essi sono testimoni vivi del tempo che passa e portatori di speranza nel no-

stro mondo. Così come l’albero è una creatura simbolica, allo stesso modo lo sono l’angelo e gli uccelli che vi si trovano presso. L’angelo musicista, come già detto, è una trasposizione del lavoro dell’artista che aleggia in tutta l’opera mentre le ali sono pensieri di libertà che elevano al cielo l’anima. Tutta la scultura è una preghiera, una composizione in cui nascono e si diffondono intime armonie musicali generate dal cuore.

Vinny Scorsone

Enzo Sciavolino: Armonie nella Valle dell’Olmo, 2018 bronzo, cm 300x160x100

La scultura in bronzo che lo scultore Enzo Sciavolino ha creato appositamente per Valledolmo è installata nel corso principale del paese (Corso Vittorio Emanuele III), sulla sommità della ex fontanella posta sotto la piazza della Chiesa Madrice. Il Sindaco Angelo Conti con l’Assessore alla Cultura Piera Vallone alla presenza dello scultore, delle personalità e della cittadinanza, hanno inaugurato la scultura il 28 luglio 2018. Per l’occasione la banda musicale Vincenzo Bellini, diretta dai Maestri Prof. Orazio Dispenza e Prof. Castrenze Borzellieri, ha eseguito in prima assoluta l’Inno per Valledolmo, creato appositamente dallo scrittore Luca Antonini e dal compositore Igor Sciavolino.

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COURBET E LA NATURA

MARINA ABRAMOVIC

WATERBONES

22 settembre 2018 6 gennaio 2019

21 settembre 2018 20 gennaio 2019

24 giugno 2018 3 dicembre 2018

Firenze

FIRENZE

Ferrara Palazzo dei Diamanti

Palazzo Strozzi

Gallery Hotel Art

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a rivoluzionaria pittura paesaggistica di Gustave Courbet in mostra a Ferrara con pregevoli opere chiamate Fanciulle sulle rive della Senna, Bonjuor Monsieur Courbet e il celeberrimo autoritratto, provenienti da importanti istituzioni internazionali. Panorami naturalistici racchiusi su tele dalle sfumature cromatiche sorprendenti immortalano terra natia, grotte carsiche, vedute marine in tempesta, nudi costellati da una rigogliosa natura bucolica, battute di caccia. Scrutatore attento della fenomenologia naturale impressa nelle sue opere, il maestro francese proietta il tradizionalismo pittorico verso una nuova dimensione realistica esternante sensibilità visiva sul mondo armonicamente intrisa dalla cultura del bel dipingere occidentale. Scorci della natia Franca Contea, le mediterranee coste presso Montpellier, laghi svizzeri rivaleggiano nelle tele custodite nelle sale espositive a Palazzo dei Diamanti.

arina Abramovic, colei che assurge il corpo a mezzo comunicativo nelle sue sorprendenti opere, evidenziandone potenzialità, perfezione, limiti, dinamismo. Dipinti, foto, video, installazioni, oggetti, riesecuzioni di esperti performer raccontano una straordinaria carriera sublimante potenzialità artistico-espressive della perfetta macchina chiamato corpo umano. Dopo Bill Viola e Ai Weiwei, nella principesca dimora fiorentina ritorna la fortunata tradizione offrente al grande pubblico esposizioni dedicate a celebri maestri contemporanei. Innamoratissima dell’Italia, Marina Abramovic si confronta dunque con l’architettura rinascimentali grazie a pregevoli creazioni esaltanti l’esteriorità comunicativa dell’uomo attraverso la sua eccezionale dimensione corporale, tematica nobilissima racchiudente la lezione umanistica dell’individuo quale centro universale.

allery Hotel Art nuovamente agghindato grazie alla suggestiva installazione by Loris Cecchini, curata dal celeberrimo Centro Pecci. Sinapsi in acciaio cromato invadono una intera parete, armonico rampicante cosparso di singolare brillio, struttura reticolare in crescita squisitamente artistica. L’opera esprime un amore ossequioso verso lo sviluppo cellulare, principio generativo assoluto, interpretata secondo contenuti scientifici e filosofici inerenti creazione, proliferazione, rigenerazione. Effettivamente, concepimento digitale, fattura industriale, montaggio a mano riassumono la macchina operativa messa in essere per questa bellissima creazione esprimente dinamismo generativo, che trova altresì supporto nel riuscito catalogo realizzato da Gruppo Editoriale, rivestito in originale “tessuto molecolare”, ideato da Cecchini e realizzato da Manteco Tessuti.

SOTTO IL CIELO D’EGITTO

9 novembre 2018-24 febbraio 2019 Trento

Castello del Buonconsiglio

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uggitiva in Egitto, una mirabile Madonna con Bambino di Francesco Hayez trova degna collocazione in mostra. Scomparso per tanto tempo, il dipinto si avvale di una completa documentazione storico-artistica insieme ai disegni preparatori provenienti da Brera. Per concessione degli attuali proprietari, si scopre che questa preziosa pittura è ancora viva, così l’evento tridentino racconta vicissitudini ma anche valore artistico, evidenziandone virtuosismi di scuola raffaellita superati dal fermento realistico caratterizzante l’impianto scenico e abbellito da un idolo egizio in armonia col contesto naturalistico. L’esposizione vanta altre due opere a carattere sacro dell’artista, che permettono il raffronto tra ambienti collezionistici locali e Milano, città delle scuole avanguardiste.

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Carmelo De Luca

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ZOODIAC 20 luglio 2018 30 dicembre 2018 FIRENZE Four Seasons

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29 settembre 2018 13 dicembre 2018 PISTOIA PRIVACY

Vannucci Arte Contemporanea

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Un operato artistico degnissimo trasuda manualità plastica, che dona al bronzo potere illustrativo dialogante tra sacro e profano, rilettura in chiave contemporanea del classicismo culturale, richiamo ai grandi maestri del passato insieme alla fan art amalgamati da una prorompente dote creativa. Dinamismo scultoreo e morbidezza delle forme costituiscono l’originale dualismo imprigionato in meravigliose sculture esposte nei giardini del patinato Four Seasons, non plus ultra tra i luxury hotels fiorentini. Voluta dalla Galleria Frilli, arcinota istituzione del bronzo artistico, Zoodiac rappresenta la nuova fatica del maestro danese: dodici segni zodiacali materializzati in possenti corpi del regno animale, creature dalle squisite sembianze appartenenti alla cultura greco-romana, le cui fattezze fisiche e comportamentali si approcciano alla lezione rinascimentale dell’individuo quale centro universale, rivisitato in forme marcatamente espressive, morbide nei lineamenti, voluttuose nella possanza corporale, perfette nella fattezza anatomica idealizzata sotto forme mitologico-sacrali.

La mostra inaugura il nuovo spazio che la Galleria Vannucci ha scelto a due passi dal centro, adiacente la stazione ferroviaria e l'entrata, o l'uscita, dell'autostrada. Un modo per ribadire che è bello e importante continuare a operare con e dentro la città ma che è altrettanto necessario e fisiologico, per chi ha fatto dell'arte una passione e un mestiere, uscire dal proprio orto, addentrarsi in nuovi territori e al tempo stesso, fare dell'accoglienza un punto di forza. Il 29 settembre sarà l'occasione per visitare la mostra e la Galleria, che davvero è un affare di famiglia. Ermanno apre i battenti nel 1959, e subito le sue stanze nel cuore della città diventano luogo di esposizione - la vocazione naturale - e punto di raccolta di idee, progetti, infaticabili dibattiti che hanno fatto di Pistoia un polo culturale illuminato. Proseguono i figli Enrico e Alessandro. Ora è la volta di Massimiliano, figlio di Enrico. Con il padre felicemente al suo fianco, ha consolidato i rapporti con gli artisti storici e aperto a nuovi arrivi, portando in galleria e in città un vento fresco ed elettrico. La giornata dell'inaugurazione sarà festa grande.


IL CODICE LECEISTER 29 ottobre 2018 20 Gennaio 2019 FIRENZE Museo degli Uffizi

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egno tributo a Leonardo, Firenze ospita il celeberrimo Codice Leceister, gradito prestito del magnate Bill Gates per omaggiarne i 500 anni dalla morte. Ben 72 pre-

da magritte a duchamp 11 ottobre 2018 17 febbraio 2019 PISA Palazzo Blu

di Silvia Pierini

La Fondazione Palazzo BLU, il Centre Georges Pompidou di Parigi e MondoMostre tornano a collaborare per proporre un nuovo grande evento espositivo in occasione del decino anniversario della Fondazione. La mostra verrà inaugurata l’11 ottobre. L’esposizione, accende i riflettori su capolavori che

ziose pagine raccontano l’immane sapere leonardesco in tema acquatico ed ambientale, ricchissime in preziose annotazioni supportate dai disegni arcinoti per fattura artistica, dovizia in particolari, disarmante fotografia del reale. Nella città del giglio divenuta fucina mondiale del sapere e dell’arte grazie alla presenza di letterati, architetti, artisti, Leonardo diventa un vulcano del sapere spaziando tra anatomia, volo, studi avveniristici per rendere l’Arno navigabile ed il prezioso volume in mostra ne rappresenta il sancta sanctorum. Gli scritti in esso contenuti esternano la grande conoscenza dell’elemento acqua, studiata attraverso i suoi movimenti, forza modellante e capacità distruttrice. L’opera trasuda una raffinata maturità del genio vinciano, artista squisitissimo, attento osservatore, ingegnere straordinario, genuino interprete della fenomenologia cosmica, prezioso manoscritto del sapere universale. Grazie al codescope, il visitatore potrà sfogliare storici fogli in digitale, supportati da accurate informazioni sui temi trattati. L’esposizione vanta, altresì, disegni di alto spessore artistico prestati da importanti istituzioni. accompagneranno i visitatori di Palazzo Blu a scoprire le meraviglie di quel surrealismo che ha profondamente mutato l’arte del XX secolo. Il visitatore potrà vedere una grande varietà di opere di primaria importanza, per la maggior parte realizzate tra il 1927 e il 1935. Tra queste, il capolavoro di Magritte intitolato Le double secret. Opera di grandi dimensioni e tra le più iconiche del grande maestro. Si contano inoltre circa 90 opere, tra capolavori pittorici, sculture, oggetti surrealisti, disegni, collage, installazioni e fotografie d’autore per mostrare la straordinaria avventura dell’avanguardia surrealista. Attraverso la quasi totalità dei capolavori surrealisti conservati dall’istituzione francese di René Magritte, Salvador Dalí, Marcel Duchamp, Max Ernst, Giorgio De Chirico, Alberto Giacometti, Man Ray, Joan Miró, Yves Tanguy, Pablo Picasso e molti altri, questo ambizioso progetto scientifico mira a presentare le opere, le interazioni, le visioni estetiche dei principali artisti surrealisti considerati per antonomasia tra i più grandi Maestri del Novecento.

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Papa Borgia all’Argentario

l’annessione dello stato di Piombino alla Chiesa nel 1501-1502 Paola Ircani Menichini

Cesare Borgia nel ritratto di Sebastiano del Piombo (+ 1547), Collezione Rotschild, Parigi, da https:// it.wikipedia.org/wiki/ File:Ritratto_di_Cesare_ Borgia,_Sebastiano_del_ Piombo.jpg Porto Ercole nel 2018 (foto di P. I. M.)

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apa Alessandro VI Borgia e suo figlio Cesare, duca di Valentino, tra il settembre 1501 e il marzo 1502 ebbero uno stretto legame con Piombino e l’Argentario. L’antefatto. Cesare, protetto dal padre, in pochi anni aveva riportato alla Chiesa alcune città di antica giurisdizione feudale occupate dai signori capitani della guerra. E, dopo aver conquistato militarmente Forlì e Cesena (1500), Rimini e Faenza (1501), aveva rivolto lo sguardo a Piombino e all’Isola d’Elba considerando sia la strategia di guerra che le lucrose miniere qui presenti. Porto e isole erano allora sotto il dominio di Iacopo IV Appiani, del quale il Borgia voleva vendicarsi per diverse ragioni: ad esempio le prepotenze perpetrate sui beni della Chiesa di Massa Marittima e sulle miniere di Mon-

tione, contese per anni, e il servizio militare prestato a favore dei senesi e dei fiorentini in guerra contro i Veneti protettori, tra l’altro, di Piero dei Medici. Aveva dunque progettato la spedizione ricevendo l’aiuto dei fidati compagni d’arme Vitellozzo Vitelli da Città di Castello e Giampaolo Baglioni da Perugia. Innanzitutto, per agire meglio, aveva sgombrato il campo dai peggiori ostacoli - i fiorentini -, e chiesto loro il passo e le vettovaglie per il suo esercito, senza però comunicare l’itinerario da intraprendere. Dopo di che si era messo ad aspettare. Giustamente: perché i fiorentini, forte popolo non certo privo di denaro e di spirito bellico, erano stati presi da eccezionale timore e nel maggio avevano firmato una prudente convenzione di non belligeranza: le due parti non

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dovevano aiutare nemici l’una dell’altra e tantomeno la Repubblica doveva impicciarsi nella guerra contro il signore di Piombino per quanto quest’ultimo fosse sotto la sua protezione. Cesare quindi aveva radunato l’esercito in Val di Cornia e in pochi giorni conquistato Suvereto, Scarlino, le isole d’Elba e di Pianosa. L’Appiani, saputo dell’accordo, era partito da San Miniato per recarsi nella sua città. Non trovando difensori, il 7 agosto l’aveva abbandonata e si era imbarcato per Livorno e di là per la Francia con il fine di implorare l’appoggio del re Luigi XII. Il quale gli aveva fatto fare una lunga anticamera … Il primo settembre 1501 i piombinesi senza il loro principe si erano arresi consegnando la città e le fortezze ai nemici. Il piano dei Borgia era riuscito. Occorreva perfezionarlo. Così, qualche mese dopo si recarono a Piombino per annettere ufficialmente lo stato alla Chiesa. Il viaggio e il soggiorno sono narrati nei Diaria Caerimonalia del contemporaneo Giovanni Burcardo1. Alessandro dunque partì da Roma il 17 febbraio 1502 con Cesare, sei cardinali, sette prelati, e circa 150 persone al seguito. Fece tappa a Palo (Cerveteri) e Corneto (Tarquinia) e da qui, il 20 febbraio mandò a precederlo a Piombino il nipote cardinale Giovanni con 80 persone. Da parte sua prese invece la comoda via del mare e con sei triremi sbarcò nel porto toscano verso mezzogiorno del 21. Rimase in città fino al 24, dopo di che si trasferì all’Isola d’Elba con i sei cardinali e ritornò la sera del 26. La domenica 27, terza di Quaresima, intervenne alla messa solenne celebrata dal cardinal Giovanni all’altar maggiore del-


la chiesa di Sant’Agostino. L’evento si svolse come se fosse stato nella cappella pontificia: la sacra mensa fu ornata con la croce preziosa e per la celebrazione il nipote indossò i paramenti violacei e venne assistito dal diacono e dal suddiacono. Il papa stesso vestì il piviale e la mitra di gran valore e stette con gli altri cinque cardinali, due dei quali facevano la funzione da diaconi e uno da primo prete. I cardinali restanti e il duca Valentino invece sedettero in “banco ordinario”. La messa solenne fu l’atto conclusivo dell’annessione; dopo la partenza, Michelotto da Coreglia, compagno d’armi di Cesare, sarebbe restato a Piombino in qualità di governatore. Il 28 febbraio i Borgia si prepararono con cura al ritorno e mandarono avanti a cavallo verso Corneto il vescovo di Narni, Pietro Guzman, con cento familiari pontifici. Il primo marzo Alessandro salì sulla sua galea e il Valentino su una seconda imbarcazione. Pensavano ad un breve e confortevole viaggio … se non che il tempo si fece ostile e, presi alla sprovvista, rimasero a lungo in mare, incerti su dove andare perché non volevano tornare a Piombino. Solo la mattina del venerdì 4 marzo si decisero a prendere la rotta verso l’Argentario e approdarono a Porto Ercole. Nel piccolo golfo una bellissima nave inglese apparve ai loro occhi; ma su di essa il papa non volle salire. Rimase sulla sua galea e il giorno dopo, sabato 5, fece rotta di nuovo verso il lido di Corneto. Il tempo però non era ancora stabile. Il Valentino, presentendo il peggio, verso l’ora di pranzo andò a terra su una barchetta e poi si diresse a cavallo verso la città; Alessandro restò sulla galea, non potendo sbarcare. La previsione era giusta: il mare cominciò subito a infuriare e a far spavento, e tutto l’equipaggio della galea terrorizzato si sdraiò sul ponte per salvarsi. Solo il papa rimase seduto e fermo nella sua residenza di poppa; e, quando il mare incrudelì maggiormente imperterrito disse Jesus, si fece il segno della croce e sollecitò i marinai a preparare il pranzo. Naturalmente l’equipaggio si scusò di non poter accendere il fuoco a causa delle onde e dei venti. La cronaca non dice quanto infuriò la tempesta. Ma ricorda che quando finalmente si calmò, il papa fu accontentato con una frittura di pesce che mangiò di gusto. La sera Alessandro volle riprendere la navigazione verso

Porto Ercole, dove il 6 marzo ascoltò la messa nella chiesa parrocchiale. Solo la notte fece levare di nuovo le ancore e raggiunse Corneto. Qui restò fino al mercoledì, indi passò a Civitavecchia e l’11 del mese rientrò a Roma 2. Così scrive Giovanni Burcardo, il quale, ci sembra, fa intendere tra le righe il forte carattere di Alessandro VI. Ovvero il papa mostrò un grande

orgoglio per le belle triremi pontificie tanto da non voler salire sulla altrettanto pulcherrima nave inglese pronta ad accoglierlo all’Argentario, e ebbe un’incredibile lucidità di mente nel dare esempio e incoraggiamento ai marinai spaventati dalla tempesta. Oltre a ciò, ci pare di cogliere in lui l’ammirazione per la bellezza dell’Argentario (come dargli torto!), dove volle ritornare una seconda volta.

Note Giovanni Battista Gattico, De itineribus Romanum pontificorum, pp. 6-7, da Diaria Caerimonialia di Giovanni Burcardo (Johannes Burckardt, + 1506), Iter Alexandri PP. VI Plumbinum. 2 Il dominio della Chiesa sullo stato di Piombino fu breve. Iacopo Appiani ne ottenne l’investitura dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo e lo riprese nel 1503, dopo la morte di papa Alessandro avvenuta il 18 agosto. Perso il padre, la buona stella abbandonò Cesare che, dopo varie disavventure, morì nel marzo 1507 all’assedio di Viana in Navarra. 1

La Costa di Piombino e dell’Argentario secondo la mappa di Piri Re’is, 1526, riprodotta nella Mostra permanente della “Cartografia storica della Costa d’Argento” (2016) allestita nel cortile del Centro di don Pietro Fanciulli di Porto Santo Stefano (foto di P. I. M., 2018) Papa Alessandro VI interpretato da Jeremy Irons nella serie televisiva “I Borgia”, seconda stagione (2012), da https:// www.cinefilos.it/serietv/iborgia-no-alla-quartastagione-19821

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chi era costei? uva salamanna

Saverio Lastrucci

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va salamanna! Chi ne vuole? Compratela, l’uva salamanna!». Il Principe, che non aveva mai sentito nominare l’uva salamanna perché al suo paese non cresceva, domandò: – Com’è quest’uva che vendete? –. «Si chiama salamanna – disse il fruttivendolo –. È l’uva più squisita che ci sia…». Italo Calvino, Fiabe italiane, “L’uva salamanna” (Montale pistoiese). La famiglia botanica delle Vitaceae annovera molte piante arbustive con

prevalenti tralci, lunghi e flessibili, quali le viti americane, il cisso, le clematidi e la pianta detta comunemente vite, con la specie più nota del genere: la Vitis vinifera, il cui frutto è l’uva. La vite è nota anche come vite europea o meglio, euroasiatica e compare in Europa verso la fine del Terziario, ma la sua utilizzazione risale al Neolitico distinguendosi per area: nell’Europa mediterranea veniva coltivata per produrre uve da vino; nell’Europa caucasica per la produzione di uva da tavola. Scritture sumeriche risalenti alla prima metà del III millennio a.C. testimoniano che la vite veniva già allora coltivata per produrre vino. L’inizio della coltivazione in Italia è incerto ma le prime testimonianze nell’Italia del Nord risalgono al X secolo a.C. in Emilia. Le viti coltivate si possono suddividere in viti orientali e viti mediterranee. Nel tempo sono state selezionate e realizzate delle varietà specifiche per assolvere la produzione in aeree geografiche diffuse e nei diversi ambienti climatici o per assecondare i gusti dei consumatori arrivando fino alla creazione di vitigni di uve senza semi, adatte alla essiccazione. Le uve destinate all’essiccazione devono avere determinate caratteristiche, in particolare devono essere bianche, ad acini uniformi e a grappolo con chicchi radi e, tra le varietà di questo gruppo, rientra ad esempio la Sultanina Bianca. Fra varietà essiccate ma con semi si trova lo zibibbo, un vitigno a bacca bianca (chiamato anche Moscato d’Alessandria). La parola “zibibbo” deriva dalla parola araba zabīb che vuol dire “uvetta“ o “uva passita“ ed è impropriamente

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utilizzata per indicare un vino (come il Moscatellone) e uve come Salamonica e Salamanna. La vite è una pianta arborea rampicante che per crescere si attacca a dei sostegni (tutori) mediante i viticci; se la pianta non viene potata può raggiungere larghezze e altezze notevoli attaccandosi agli alberi, su pareti rocciose, o coprendo il suolo. È dotata di un apparato radicale molto sviluppato, che può superare anche i 10 metri di lunghezza. Ha un fusto di lunghezza notevole da cui si dipartono numerosi rami, detti tralci. Le foglie, dette pampini, con le nervature che partono da un medesimo punto (palminervie, alterne, sono semplici e costituite da cinque lobi principali più o meno profondi, su una forma di base a cuore. Le foglie sono un carattere diagnostico molto importante per il riconoscimento dei vitigni delle varie specie, e all’interno della vite coltivata europea (Vitis vinifera sativa). I frutti sono delle bacche (acini) di forma e colore variabile: gialli, viola o bluastri, raggruppati in grappoli. Presentano una buccia spesso coperta di brina e una polpa con cellule piene di succo da cui si ricava il mosto, inoltre uno strato di cellule che delimita le logge contenenti i semi (vinaccioli). Nel periodo compreso tra il 1858 e il 1862 comparve in Europa la Fillossera della vite (Viteus vitifolii), afide proveniente dal Nord America, che si diffuse rapidamente in tutte le zone viticole dimostrandosi esiziale per i pregiati vitigni europei. In Italia arrivò nel 1879 estendendosi progressivamente su tutta la penisola, dalla provincia di Como fino a Messina, e distrusse due milioni di ettari di vigneti.


Le radici della vite europea, a differenza di quella americana, sono sensibili alle punture della Fillossera con grave disorganizzazione dei tessuti radicali e spesso aggravata da successivi insediamenti di microrganismi patogeni. La pianta deperisce notevolmente e quindi muore. Il problema della Fillossera, gravissimo per la viticoltura europea, diede luogo sul finire dell’800 alla promulgazione di tutta una serie di misure contenitive e di lotta, risolto mediante l’innesto della vite europea, produttrice di vini di qualità, su piede di vite americana o di suoi ibridi, resistenti agli attacchi della Fillossera: tale metodo è tuttora di generale applicazione. Questa esigenza di lotta fitosanitaria consentì anche la maggiore espansione della vite risolvendo i limiti di esigenze del terreno o del clima e favorendo la creazione di ibridi e nuove specie riducendo così quelle originarie storiche. La Salamanna Ottaviano Targioni Tozzetti (Firenze, 10 febbraio 1755 – Pisa, 6 maggio 1826), medico e botanico italiano direttore dell’orto sperimentale dello Ospedale di Santa Maria Nuova e dell’orto agrario dell’Accademia dei Georgofili, annota nel suo Dizionario Botanico Italiano (1809) le piante note in Toscana con indicazione del nome scientifico e quello locale. Fra queste si ritrova la vite Seralamanna distinta per diversa origine. Registra infatti una Vitis vinifera Bumastos come “Vite e Uva Salamanna e Seralamanna tonda grossa o lunga” e una “Uva passa major” come “Uva Seralamanna lunga o Zibibbo bianco vero”. Successivamente un altro illustre autore, Giorgio Gallesio (1772-1839), nella sua opera Pomona Italiana, la prima e più importante raccolta di immagini e descrizioni di frutta e alberi fruttiferi realizzata in Italia, scrive: La Salamanna è la più bella e la più gustosa delle uve e quella che primeggia specialmente fra le Uve da mensa. Il suo fusto è forte, vigoroso, e di molta cacciata; i tralci grossi e rigogliosi; le foglie grandi, appena lobate, a lobi ottusi, liscie al di sopra, scabre al di sotto, qualche volta sparse d’un poco di peluria bianca ma rada e interrotta, e col picciuòlo grosso, e colorito di rosso. I grappoli grandi, lunghi, spargoli, portano degli acini grossi, tondeggianti, spesso ovati, composti di una buccia verde-biancognola che si volge nella maturità in un giallo sfumato di rosso, e di una polpa consistente, zuccherina, sugosa ed esalante un odore e un gusto di moscato soavissimo, che la rende grata a mangiarsi tanto fresca che secca, e che dà al vino che ne sorte un profumo delizioso.

Oggi si ritrovano indicazioni a questa varietà della vite Salamanna (o Alamanna) come altro nome del Moscato di Alessandria o Zibibbo, una uva da tavola bianca, assai pregiata, dai grossi acini ovoidali polposi e dolci. L’origine della vite Zibibbo è incerta sebbene appaia certo che la pianta sia originaria dell’Egitto e poi diffusa da tempo antico lungo le coste del mediterraneo; sembra che il nome derivi dal Capo Zibibb in Tunisia oppure dall’arabo zabeb che significa appassito. Conosciuto con tanti sinonimi come “Moscato d’Alessandria”, “Moscato di Pantelleria”, Salamanna in Toscana. Il nome prevalentemente diffuso in Toscana di uva Salamanna deriva da Ser Salviati Alamanno di Averardo, uomo politico fiorentino, morto a Pisa nel 1509 (la cui figlia Maria sposò lo storico Francesco Guicciardini), cui si deve l’arrivo dalla Catalogna di questa pregiata uva da tavola, di sapore moscato, con grappoli voluminosi e acini grossi, ovoidali, di colore giallo ambrato. È certo che l’uva Salamanna, con grappoli grandi, allungati, spargoli e buccia giallo-verdastra fino a giallo dorato a piena maturità, sia una varietà antica a duplice attitudine, pressoché scomparsa, recuperata da alcuni appassionati viticultori locali come uva da tavola, da appassire e da vino. Come uva da vino è presente in quantità solo nell’isola di Pantelleria dalla quale si ottengono i famosi passiti Siciliani (Moscato e Passito) o veniva vinificata assieme ad altre uve a bacca bianca per conferire particolari aromi e sentori al vino. Come uva da tavola, da mangiare allo stato fresco con la sua polpa croccante, dolce dal sapore intenso e tipico di moscato, è ormai quasi introvabile, salvo presso qualche piccolo produttore. L'UVA DELLA MIA INFANZIA Saletta è una località a 4 chilometri da Fiesole (Firenze), soprastante un’ampia valle che lo scrittore Bruno Cicognani (1879-1971) descrive ne Le Fantasie: «… E in questa cerchia che è proprio il tuo cuore, o Toscana, le cose più care e più belle del mondo – del mio mondo – i luoghi ch’io conosco ad uno ad uno, la mia fanciullezza, la mia giovinezza, i miei sogni, i miei canti, l’amor disperato di libertà randagia che voi soltanto siete riusciti, incantando a quietare. Oh, come chiaro è a Voi questo fanciullo antico, non stanco; oh come chiara è a me ogni vostra voce: la stessa della prima volta e si rinnova ad ogni primavera!». Il 6 Marzo 1928, Fazzini Teresa vedova Cantinelli, comprò da Marchesini Giulia Carli la proprietà in Saletta: due case coloniche, una di civile abitazio-

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ne, un’aia e un pozzo. È ipotizzabile che Alamanno Salviati abbia importato dalla Grecia i vitigni del bumastos, moscatello grosso, o zibibbo bianco. Da lui il nome uva Salamanna. La pianta che ammiro da circa 80 anni deve la sua sopravvivenza all’esposizione a mezzogiorno. Riparata dalle pareti della corte è irrorata da una miriade di venuzze di acqua che confluiscono nel pozzo ivi esistente, provenienti da una vena principale a monte, individuata dal Maestro Orlando Bonechi, radiestesista. L’uva è particolarmente dolce; i grappoli variano dai 600 grammi al chilogrammo. La pianta richiede solo la potatura annuale. Ho riprodotto il vitigno per diffonderlo nella zona. Paolo Cantinelli


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una donna da non dimenticare Alice Hallgarten Franchetti pioniere dell'educazione Margherita Casazza

Alunni della scuola a Villa della Mantesca Città di Castello Prima edizione del libro della Montessori pubblicato dai Baroni Franchetti

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lice Hallgarten nasce a New York da Adolph e Julia Nordheimer, entrambi ebrei askenaziti tedeschi. Il padre – uomo di affari di successo nel campo farmaceutico e socio della banca Hallgarten & Co., presidente del Mount Sinai Hospital di New York, tutt’ora esistente – rientra in Germania nel 1882 causa malattia e muore a Wiesbaden nel 1885. Alice trascorre l’adolescenza a Francoforte: suo riferimento e “secondo padre” diviene lo zio Charles, da cui ella erediterà l’atteggiamento risolutivo nell’affrontare la vita con moderna capacità organizzativa e manageriale. Alice ebbe una sorella, Eleanore nata nel

1890 e ritornata a vivere a New York col marito von Koppenfels nel 1920 e un fratello, Walter Nordheimer Hallgarten, ricordato per il mecenatismo che esercitò con grandissima discrezione nelle arti della musica, del dramma e della letteratura. Charles promosse e sostenne attività assistenziali, istitui una casa di accoglienza a Francoforte per ragazze madri, assistite da una giurista e la progettazione ed edificazione di nuovi quartieri per le classi non abbienti in cui ogni unità abitativa doveva avere una sala riunioni per discutere, per celebrare le feste, i compleanni e anche un luogo per custodire i bambini; inoltre, a chi intendeva costruire la

casa veniva regalata la terra: un modo di agire di cui si sente chiaramente in tutte le iniziative che Alice intraprese. Alice, il 9 luglio 1900 sposa Leopoldo Franchetti, ebreo livornese sefardita deputato e senatore del nuovo Regno unito – incontrato a Roma. La baronessa Franchetti apre la sua prima scuola rurale sulle colline di Città di Castello, al secondo piano della villa della Montesca, di sua proprietà. L’anno successivo, viene inaugurato un secondo istituto nella tenuta di Rovigliano. Per offrire istruzione elementare gratuita ai figli dei contadini, Alice raccoglie quanto di meglio esista in fatto di educazione infantile, e chiama ad insegnare pedagogiste europee ed americane d’avanguardia, da Lucy Latter a Vida Dutton Scudder. I bambini sono spinti all’osservazione diretta delle cose, e alla loro riproduzione attraverso il disegno. Si impegnano nello studio

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della natura, delle scienze e della geografia, coltivano orti e giardini, si dedicano al canto e alla tessitura. Nel 1908 nasce il laboratorio di tela umbra con caratteristiche imprenditoriali allora assolutamente innovative «per la conservazione dell’antica arte umbra della tessitura, che avrebbe dovuto contribuire a migliorare le difficili condizioni di vita della maggior parte delle contadine o operaie inurbatesi che, oltre a fare le “bucatare”, sapevano solo tessere. Privilegiate nell’assunzione, come si legge nello Statuto, specialmente le ragazze-madri. Oltre all’asilo-nido impiantato nella sede stessa del laboratorio, funzionava una scuola pomeridiana settimanale di economia domestica per le ragazze e una serale di falegnameria per i giovani (entrambi i corsi erano in funzione delle future esigenze della vita coniugale e familiare) e un consultorio medico per imparare a prendersi cura dei neonati detto “Aiuto Materno”, in collabora-

zione con l’ospedale pubblico. L’incontro fra Alice Franchetti e Maria Montessori avviene a Roma, sul divano della scrittrice Sibilla Aleramo, femminista, attiva nell’educazione dei bambini dell’Agro pontino. Sono anni in cui molto si discute di promozione sociale dei contadini, di educazione popolare e riscatto femminile. Idee riformiste e rivoluzionarie si fronteggiano sul tema dell’emancipazione umana. La Montessori è una neuropsichiatra, studiosa di turbe del comportamento, molto attiva nel movimento femminista. Come prima donna italiana laureata in medicina è già famosa, ma la strada davanti a lei sembra troppo lunga e lenta per la sua fame di risultati. Per Alice il nuovo metodo è una folgorazione intuisce la potenza innovatrice dell’idea della pedagogista, visita la sua Casa dei Bambini e da quel momento decide di battersi per promuovere lei e il suo nuovo modello educativo.

Maria Montessori fu invitata nella loro villa Wolkonsky a Roma a scrivere delle sue scoperte. È il 1909, il Metodo della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle case dei bambini, scritto in venti giorni, è pronto per essere diffuso. I baroni finanziano la stesura e la pubblicazione del manuale, stampato appositamente presso la tipografia Lapi di Città di Castello per essere sicuri di preservarne l’originalità ed evitare eventuali modifiche. Le prime due e la quarta edizione saranno dedicate ad Alice, è la stessa Montessori in uno dei suoi discorsi a sottolineare che «solo la baronessa Franchetti ha compreso» l’importanza di un’opera «che avrebbe rinvigorito l’umanità». La baronessa fiduciosa della validità del metodo, scrisse un articolo pubblicato sul “London Journal of education” che portò alla diffusione del pensiero montessoriano anche in America incrementando le visite nelle Case dei Bambini. Alice continuava a promuovere l’intuizione Montessoriana presentando a Maria innumerevoli importanti personalità tra cui la regina Margherita, contribuendo, così, alla conoscenza di ciò che avveniva nelle Case dei Bambini in tutto il mondo. Il libro si diffonde. Per un (breve) periodo si parla addirittura del Metodo Franchetti-Montessori, anche perché la nuova pedagogia – nata per gli asili – viene introdotta alla Montesca, trovando per la prima volta applicazione in una scuola elementare. I tempi sono maturi per una conferenza, qualcosa che incida, che spinga alla divulgazione dell’”educazione nuova”. Nell’agosto del 1909 le porte della villa si aprono ancora una volta, per ospitare il primo “Corso di pedagogia scientifica”, organizzato dalla Montessori per maestre e direttrici di scuole infantili di tutta Italia. Il patrocinio è ancora Franchetti. «Ho l’onore di presentare la dottoressa Montessori – afferma il barone Leopoldo nel suo discorso di apertura del Corso – venuta fra noi per parteciparci i frutti degli studi con cui

fa progredire la pedagogia sulla via aperta dai grandi educatori degli ultimi secoli…». Nel giro di pochi anni, tutto cambia: interviste, congressi, inviti all’estero, la Dottoressa è ormai lanciata. Ma Alice non c’è più, e non può assistere al trionfo della sua protetta. Si è spenta nel 1911 in un sanatorio svizzero, uccisa dalla tubercolosi, cosi come era successo al padre, al fratello, allo zio prima di lei. Leopoldo Franchetti – che non riuscirà mai a riprendersi dalla morte della moglie – si suicida la notte del 4 novembre 1917, appena saputo della rotta di Caporetto. Lasciando tutte le sue terre ai contadini.

Maria Montessori con una scolaresca alunni della scuola Villa della Mantesca Barone Leopoldo Franchetti e Alice Hallgarten

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Un uomo

molte vite

Gabriele D’Annunzio: il poeta inimitabile Piergiorgio Pesci

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abriele D’Annunzio fu un poeta scrittore e un personaggio di spicco del Novecento. Oltre alla fama di poeta è ricordato anche per essere stato tra i primi a inventare slogan pubblicitari, ad impegnarsi nella politica del tempo e per aver vissuto con l’obiettivo di fare della propria vita un’opera d’arte. Nasce a Pescara nel 1863 da una famiglia benestante. Mostra subito un grande interesse per la letteratura ed è proprio negli anni del collegio che pubblica la sua prima raccolta poetica, Primo Vere. Lo si potrebbe definire una sorta di ragazzo prodigio. Si

iscrive alla Facoltà di Lettere ma non termina gli studi, aprendosi così un periodo di lavoro giornalistico, vita mondana, frequentazione di salotti letterari e aristocratici ma anche di grandi amori e di grandi tradimenti. Per un letterato a quel tempo poteva essere facile ritrovarsi in questi vortici di passioni e vita sregolata. D’Annunzio stesso definisce la sua vita inimitabile: è un’esistenza carica di esperienze estreme, dalla vita nel pieno lusso, agli amori infedeli, alla relazione con Eleonora Duse fino alla partecipazione, nell’aviazione, alla prima guerra mondiale.

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Lotta infatti perché il nostro Paese entri in guerra. E in effetti partecipa direttamente al conflitto, è presente in alcune battaglie aeree (come pilota) e per un periodo, in seguito alle ferite riportate, perde la vista a un occhio scrivendo quello che è il romanzo della sua convalescenza, Il Notturno. Ma l’influenza del poeta sulla politica del paese non finisce certo qui. D’Annunzio ebbe un rapporto molto stretto con il fascismo e a dir poco controverso. Il poeta certamente esercitò una notevole influenza, anche di natura retorico-linguistica, sul movimento mussoliniano. In particolare durante la fase iniziale, D’Annunzio dovette riconoscere nel fascismo un’espressione concreta del vitalismo che, in modi diversi, attraversa gran parte della sua opera. Ma presto i rapporti con Mussolini diventarono tutt’altro che semplici e D’Annunzio non mancò di criticare aspramente le scelte politiche del Duce, dal delitto Matteotti all’alleanza con Hitler. D’Annunzio definiva il rapporto con Mussolini come una cordiale inimicizia. Il regime, mentre lo celebrava come Vate nazionale e ne faceva il monumento della letteratura nazionale, lo relegava sempre più ai margini. Mussolini definì il poeta come un dente cariato, «o lo si toglie o lo si ricopre d’oro». D’Annunzio fu isolato fino alla sua morte nel Vittoriale degli Italiani. ll Vittoriale è un complesso di edifici, vie, piazze, un teatro all'aperto, eretto tra il 1921 e il 1938 a Gardone Riviera, sulle sponde del lago di Garda, da D’Annunzio su progetto dell’architetto Giancarlo Maroni, a memoria della vita del poeta-soldato e delle imprese degli italiani durante la Prima guerra mondiale. All’interno del


complesso è situata La Priora, dimora in cui il poeta ha trascorso gli ultimi anni di vita. La sommità del Vittoriale è occupata dal Mausoleo, monumento funebre realizzato dall’architetto Maroni dopo la morte di d’Annunzio. Il monumento è ispirato ai tumuli funerari di tradizione etrusco-romana ed è costituito da tre gironi in marmo. Al centro la sepoltura di D’Annunzio e intorno le arche di dieci fra eroi e legionari fiumani cari al poeta. Una delle parti più importanti e affascinanti del Vittoriale è appunto la Priora. Arredata e decorata seguendo il suo gusto: «Tutto qui mostra le impronte del mio stile nel senso che io voglio dare al mio stile». Da una semplice villa colonica, già appartenuta al critico d’arte tedesco Henry Thode, D’Annunzio creò una casa museo simbolo del suo vivere inimitabile. Nelle stanze della Prioria sono conservati circa diecimila oggetti e trentatremila libri, che si abbinano a frasi enigmatiche e motti, leggibili su architravi e camini, in un gioco continuo di rimandi simbolici. L’atmosfera è cupa, sacrale, e le stanze sono poco illuminate. Vetrate dipinte, finestre con pesanti tendaggi, luci soffuse, fanno della Prioria un luogo misterioso e suggestivo in cui il poeta fotofobico poteva ben vivere. Il poeta è anche il caso più noto di scrittore-pubblicitario. Creò slogan per l’Amaro Montenegro, l’Amaretto di Saronno, per Saiwa, diede il nome al grande magazzino La Rinascente. Fu anche un grande pubblicitario di se stesso e delle sue opere. Con la sua condotta eccessiva e dispendio-

sa, era convinto che lo scandalo e il clamore fossero necessari e propedeutici al coinvolgimento del pubblico e alla fama, in linea con le teorie dei futuristi Marinetti e Soffici. D’Annunzio fu una vera icona pop: tutti volevano essere lui, tutti lo imitavano e volevano vestirsi come lui. Gabriele D’Annunzio fu testimonial e soprattutto copywriter di tantissimi prodotti di largo consumo. Subito dopo la Prima Guerra Mondiale divenne infatti simbolo di una vita elegante e ricercata e fu quindi un attivo testimonial non solo di se stesso, contribuendo alla fortuna di molte attività industriali e commerciali, battezzando nomi di prodotti e imprese e ideando slogan che avrebbero fatto la storia della pubblicità in Italia. La grande creatività del poeta si scova anche dietro la coniazione di nuovi termini come appunto il tramezzino, ex sandwich da ordinare “tra” o “in mezzo” ai due pasti. “Fisso l’idea” è uno dei molti motti pensati e realizzati per la pubblicità: fu creato per gli inchiostri Sanrival nel 1921. Suggerì ai fratelli Bocconi nel 1917, per i loro grandi magazzini ricostruiti accanto al Duomo di Milano dopo un gigantesco incendio, il nome altisonante La Rinascente: araba fenice, uccello mitologico, rinascente dalle proprie ceneri dopo la morte. E poi, chi non ha mai mangiato un wafer Saiwa? Il nome della società venne coniato da Gabriele D’Annunzio, che contribuì anche ad alcune campagne pubblicitarie, quando il successo di quella che era una piccola azienda genovese si concretizzò in

una delle principali industrie dolciarie italiane. Nel 1920 l’azienda di Pietro Marchese viene registrata come S.A.I.W.A. (Società Accomandita Industria Wafer e Affini). Insomma, un poeta, un soldato, un creatore di slogan pubblicitari, un pilota di aerei, una vita futurista, e tutto questo concentrato in un’unica personalità. Non si può certo dire che la sua vita non sia inimitabile.

il Vittoriale

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Gaetano

detto

Nunù

le braccia dolci del poeta

Vania Di Stefano

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’anno 1951 nella casa (ormai demolita) di via Pietro Carrera 19, contrada Cibali in periferia di Catania, era un mistero come facesse il giovane Gaetano (1931-1993) a staccarsi dalle braccia con smorfie di dolore bei pezzi di mostarda di fichidindia che poi mi dava da mangiare. Capii subito, senza palesarlo, che glieli passava di nascosto sua

madre, Savina Manzella (1893-1982). Della sorella minore di mio nonno Titomanlio restano lettere che raccontano la difficile quotidianità del Novecento affrontata da una donna coraggiosa, ferita dalla morte di una figliolina di pochi anni, Maria, e poi del marito Salvatore Zappalà (18891941), ma tenace, altruista e a suo modo allegra, dedita sino all’ultimo ad accudire l’anziana genitrice Giuseppina (1862-1960) secondo rituali, che osservavo in silenzio, come ad esempio la preparazione serale della conca, un vecchio catino riempito di carbonella poi accesa per attutire il gelo invernale. La zia Savina mi mandava spesso ora alla fontana a pren-

dere l’acqua per bere e per cucinare (quanto pesava u bùmmulu camminando al ritorno tra i sassi!), ora nell’orto, già di guerra, per cogliere margherite, per togliere le lumache da lattughe e cavolfiori. Dopo i temporali estivi, che trasformavano la strada dissestata in un rumoroso torrente, arrivavano greggi di capre e con Nunù e mia madre Myriam, assaggiato un sorso di latte appena munto, partivamo verso San Nullo, esplorando a piedi, nel divino silenzio della natura, zone sperdute della sciara vulcanica riconquistata dal sole e coperta da una vegetazione multicolore. Imparavo a leggere e a scrivere "pensierini" seguìto da Carmelina Passarello, maestra bella e dolcissima. Spesso ascoltavo i versi che Gaetano e Myriam recitavano, ora intenti

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a modulare con eleganza i toni della voce, ora scossi da interne vibrazioni, ora distesi, quasi abbandonati sulle immagini evocate, sui sentimenti svelati. Esaurita l’ispirazione i due cugini passavano allo scherzo, dissacrando persino Dante, che un giorno si vendicò quando Nunù, dopo la celebre battuta "e caddi come corpo morto cade", si lasciò andare dritto e rigido sul letto sfasciandolo completamente tra generali risate. Nel volumetto Insonnia delle fresie leggo di sua mano la dedica "A Titom che mi è stato maestro, amico, "fratello maggiore" la prima copia dell’opera prima con profondo affetto Nunù, gennaio 1962. Pubblicò

poi Cristo muore ogni giorno (1972) e Scomposizione dell’Universo (1983). In ogni pagina trovo ricordi, affetti familiari espressi da un’anima sensibile, ostaggio d’un corpo schiavo del tempo, ma partecipe di un’immortale capacità immaginativa che coglieva, trasformava e godeva i dettagli di un’esistenza narrata attraverso episodi reali, sentimenti da assaporare, impeti vibranti, enigmi da sciogliere, proiezioni fantastiche, verità materiali e simboliche sparse a piene mani in grembo al creato. Con lui torno ad Acitrezza per abbracciare l’amata ninfa salmastra, bianco, seducente profilo corporeo partorito da un nero scoglio di lava profumato d’alghe.

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Il poeta Gaetano Zappalà detto "Nunù" Savina Manzella, Salvatore Zappalà, Gaetano e Maria (4 gennaio 1936) Vania nell’orto di guerra Scrittura di Vania (22 ottobre 1951) Savina Manzella (1919) Dedica sul retro della foto Insonnia delle fresie (1961) Catania, via Pietro Carrera 19 (agosto 1967)

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un'Americana

a Firenze

eccitante passerella in uno scatto storico davanti al caffé Gilli Roberto Lasciarrea

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ella nostra città i “poveracci fiorentini” si accontentavano, “obtorto collo”, di bere nelle “bettole dei grecaioli” o nelle osterie, un pessimo vino di origine misteriosa, greco (anche della malvasia), mentre i nobili o i benestanti si sorbivano bevande ghiacciate o, secondo la stagione, bevande calde di primissima qualità. Era il 1668. Un fiorentino, chiamato il Gobbo di Panone, di professione “acqua cedraio” (diventerà successivamente un personaggio storico), lasciando la sua originale professione, “lancia sul mercato”, come si dice oggi, intuendone il successo, un prodotto venuto da Venezia: il cioccolato, cui si aggiunse un altro prodotto: il caffè.

La guerra dei nuovi prodotti era iniziata. Sorvolerò su questa “querelle” nella quale fu coinvolta anche “la medicina”. In compenso nacquero come funghi tanti locali. Eccoci in piazza della Repubblica qui in Firenze. Ecco il Caffè Gilli, “Data di nascita” il 1733 dalla famiglia svizzera engadina, la cui sede fu, inizialmente, via dei Calzaiuoli, per poi trasferirsi in via degli Speziali. Infine la sede di piazza della Repubblica. Siamo nel 1800. All’interno del locale è esposta, da decenni, una fotografia scattata il 22 agosto 1951 dalla famosa fotografa americana Ruth Orkin. La prestigiosa fotoreporter e regista, era nata a Boston il 3 settembre 1921 (morirà a New York il 16 gennaio 1985). Divenne famosa per aver fotografato,

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scattato immagini della città di New York e molti personaggi celebri fra cui musicisti classici come pure molti altri soggetti. Le celebrità, si chiamavano, “niente popò di meno che” Lauren Bacall, Doris Day (oggi un’arzilla signora di 96 anni), Tennessee Williams, Marlon Brando, Henry Fonda e il grande Alfred Hitchcock. Nel 1943, Orkin si trasferì a New York cercando di intraprendere la carriera freelance. È nel 1945 che il “The New York Times”, la invita a fotografare Leonard Bernstein «Il più grande pianista tra i direttori, il più grande direttore tra i compositori, il più grande compositore tra i pianisti… un genio meraviglioso» come lo ha definito Carlo Serra. La fotografia più famosa di Ruth Orkin si intitolò American Girl in Italy (Una ragazza americana in Italia). Il soggetto dell’immagine è considerata, ormai, un’icona. Si chiamava Ninalee Craig (all’anagrafe Ninalee «Jinx» Allen Craig, nota a quel tempo come Jinx Allen), un’ avvenente 23 enne. La fotografia faceva parte di una serie originaria intitolata Don’t be afraid to travel alone (Non aver paura di viaggiare da sola). L’immagine raffigura la Craig, giovane donna proveniente appunto dagli USA, più esattamente da Indianapolis, che passa per via Roma, all’angolo con piazza della Repubblica qui a Firenze, come già detto. Proprio davanti al Caffè Gilli, la statuaria signora, cammina fra un corridoio di occasionali “spettatori” nonché dichiaratamente e mascolinamente “ammirati” da quella bellezza. Così passa fra uno stuolo di antesignani “play-boys” (se ne contarono 15). Era uso in quel tempo, anche negli anni a seguire, di sostare in quell’angolo. Non sfoggiava-


no macchine di lusso sportive, come succederà qualche decennio più tardi, quindi niente Ferrari, Maserati, Jaguar, ma al massimo una “Lambretta”. Nella fotografia sono presenti due giovani proprio a “bordo dello status symbol” di quell’epoca. Il play-boy del caso è certo Carlo Marchi, ventunenne studente d’ingegneria, fratello di Bona Frescobaldi, di Mariella Pallavicino e Grazia Gazzoni Frascara, sposato con Gioia Falk (l’ingegner Marchi morirà all’età di 83 anni, il 23 dicembre 2012). Come si seppe più tardi, tra quei giovanotti che osservavano l’americana, c’era - casualmente - anche il futuro cognato. Seduto sulla sella posteriore della mitica lambretta, Bruno, il ferroviere. Poi ancora Sergio Limberti, Roberto di piazza dell’Olio, oltre all’amico soprannominato “Jean Marais”, per una vaga somiglianza con “l’originale” Jean-Alfred Villain-Marais, attore francese. In alcuni articoli scritti sulla coppia Craig-Orkin, quest’ultima afferma che l’immagine non è stata organizzata ed è stata una delle tante scattate per tutto il giorno, con lo scopo di mostrare il divertimento di viaggiare da soli. Torniamo ai “play-boys”. Il loro portabandiera era, come già detto, Carlo Marchi. Il giovane, “dannazione” di suo padre, fu spedito dal genitore negli USA con ben 1500 $. Per Marchi jr. è difficile mettere la testa a posto. Così, fra varie avventure, lavora come ingegnere idraulico. Fa amicizia con Frank Sinatra. Poi incontra una sciatrice d’acqua, certa Marina Doria. Dalla Florida corre nel New Mexico, California dove conosce Gregory Peck (lo definisce un “tirchio tremendo”). Diventa amico di Liz Taylor, Henry Fonda, Rock Hudson. Il nostro lettore si chiederà il perché di questa “strana” storia. Un po’ perché questo “scatto” fece epoca. Era un modo per rassicurare le giovani turiste americane che in Italia non c’erano pericoli di sorta (la guerra era finita da pochi anni e forse viaggiare poteva non essere tanto sicuro). Poi per un doveroso omaggio alla bella signora scomparsa il 3 maggio di quest’anno a Toronto, in Canada, dopo lunga malattia all’età di 90 anni, essendo stata immortalata in una foto-icona del Novecento. Aveva deciso di partire, appunto, per l’Europa da sola, fatto abbastanza insolito per l’epoca. In un paese ancora devastato dalla guerra, come già detto, Ninalee si fermò a Firenze, dove fece amicizia con la fotografa Ruth Orkin, allora 29enne fotografa free-

lance. L’amica scattò una serie di immagini che volevano essere un inno al divertimento, ma quando la fotografia divenne famosa - molti anni dopo - diventarono anche una critica allo sguardo “maschilista“ con cui Ninalee era stata fissata, in strada. Orkin sperava di poter vendere quello “scatto” all’Herald Tribune. Se fosse riuscita, avrebbe guadagnato 50 dollari, due settimane di albergo. L’ Herald Tribune non la prese. «… e io di quella fotografia non ne ho saputo niente per anni. Certo non ci ho mai ricavato un centesimo», raccontò invece la Craig. Per anni si è sentita chiedere - “soprattutto dalle donne”se fosse stata infastidita da quegli sguardi. «Not at all» - confessò -. «Mi stavo divertendo. Stavo camminando attraverso un mare di uomini. Mi stavo godendo ogni minuto. Erano italiani e io amo gli italiani», disse, rivendicando il diritto di passare indisturbata in mezzo a quel gruppo con la sicurezza della sua giovane età, un album da disegno sotto braccio e il famoso scialle. «Era caldissimo, di color arancione, lo avevo acquistato in Messico e lo usavo per coprirmi quando dovevo entrare in una chiesa». «Mi sentivo Beatrice. Studiavo la Divina Commedia ed era come se a ogni passo, ogni momento, Dante dovesse vedermi e dedicarmi una poesia. Ero la sua ispirazione. Ero Beatrice». Ancora: «Avevo una piccola borsa con me e pochi bagagli, dato che sarei rimasta sei mesi in Europa… e nelle mani avevo del materiale per disegnare e dipingere dal momento che per professione dipingevo» ricordò Craig. Come si conobbero le due donne? Ruth doveva rientrare negli Stati Uniti dopo un servizio in Israele per Life, Craig era in vacanza. Le due trascorsero una giornata insieme: Orkin chiese all’amica di posare per lei. Lo scatto fece parte di un progetto nel quale Ninalee veniva ritratta in diverse situazioni: mentre beveva un caffè espresso, passeggiava sotto la Loggia dei Lanzi e ancora chiedeva informazioni a un vigile. Tutti quei giovanotti della fotografia più celebre la guardano e seguono il suo ancheggiare. Il ragazzo più vicino le fa un fischio. Una cosa che negli anni non ha mancato di destare scandalo, ma che era un semplice spaccato della vita dei giovani italiani negli anni Cinquanta, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando in Italia si cominciavano ad avvertire i primi sintomi di quello che sarebbe stato definito il ”Miracolo economico”.

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«Il dopoguerra per l’Italia fu un periodo molto difficile - raccontò Ninalee in un’intervista al Guardian -. Ero straniera, chiaramente destavo curiosità». Sposò Achille Passi, un conte veneziano rimasto vedovo nel 1959 e si occupò anche della crescita del figlio di lui, Alex Passi. I due divorziarono alla metà degli anni ’70. Lei tornò a New York dove incontrò l’industriale canadese Robert Ross Craig che sposò nel 1978. Un’ultimissima precisazione. Nel locale vi è una saletta, dedicata a Donatello. Sulle pareti sono esposte, incorniciate, quadretti nei quali sono collocati 41 medaglioni (del diametro di circa 6 centimetri), dei personaggi che hanno dato lustro al famoso caffè. Incontriamo Montanelli, Luzi, Spadolini, A. Bueno, Mina Gregori, Valerio Cheli, Marcello Fantoni, Antonio Paolucci, Vangi, Metha, Guasti, Roberto Cremoncini, Faraoni, Marcello Vannucci, Piero Farulli, Narciso Parigi, Margherita Hack, Campeggi, Franco Cardini, Severa, monsignor Angiolo Livi, Eugenio Giani, sir Harold Acton, Michelucci, Silvio Loffredo, Sergio Staino, Mitterand, Giorgio La Pira (dal 5 luglio di quest’anno beatificato), Piero Bargellini, Marino Marini, Nardini, Francesco Mazzoni, Italo Gamberini, Primo Conti, Giovanni Nencioni, Fernando Farulli, Giovanni Colacicchi, Paula Barocchi, Bona Frescobaldi, il professor Renzo Marchi (dell’Istituto Ximeniano) e il baritono Rolando Panerai (premiato per il 2017). Auguri e complimenti al “Caffè Gilli”. Grazie per questo ennesimo “colpo di classe” regalato alla nostra Firenze. Grazie al suo direttore Massimo Tanzini, alla signora Raquel Lopez, alla signora Beatrice Bertuccioli. Grazie davvero.


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Lee

Vernon

Scrittrice “inglese di nazionalità" “italiana per scelta” Massimo De Francesco

John Singer Sargent, Ritratto di Vernon Lee (1881) La fiorentina villa Il Palmerino dove la scrittrice dimorò per quasi mezzo secolo

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ernon Lee, pseudonimo della scrittrice Violet Paget, nasce il 14 ottobre 1856 da famiglia inglese colta e cosmopolita a Boulogne-sur-Mer nel dipartimento francese di Pas-de-Calais da Henry Ferguson Paget e Matilda Lee-Hamilton. È sorellastra del poeta tardo vittoriano Eugene Lee-Hamilton, nato dal primo matrimonio della madre. Definitasi “inglese di nazionalità” e “francese per caso”, Vernon è “italiana per scelta”, in quanto trascorre più di mezzo secolo nel Bel Paese. Qui forgia amicizie influenti nei salotti intellettuali internazionali con personaggi in vista come Henry James, Mario Praz, Telemaco Signorini, Carlo Placci, Bernard Berenson e Edith Wharton, autrice de L’Età dell’Innocenza, la quale le dedicherà il suo libro Ville Italiane e loro Giardini, essendo Vernon Lee spunto di ispirazione per la sua omologa americana. Praz

definisce la scrittrice una “miniera di idee”. A quest’ultimo la scrittrice commissiona una rubrica chiamata Letters from Italy (Lettere dall’Italia) da pubblicare sulla rivista The London Mercury. In Italia i Paget si spostano frequentemente e nel 1873 si stabiliscono a Firenze, dove la scrittrice trascorrerà il resto della sua vita. Nel 1878, al fine di “essere considerata seriamente dal pubblico”, Violet inizia a scrivere sotto il nom de plume maschile di Vernon Lee. Poliglotta sin da bambina, condivide il suo anno di nascita con un illustre e colto pittore espatriato, l’americano, ma nato a Firenze, John Singer Sargent, con il quale stringe una forte e duratura amicizia. Il loro primo incontro risale al 1862, anno in cui le famiglie, i Sargent e i Paget, vivono a Nizza. Sargent diviene uno dei più eminenti pittori dell’Ottocento e per Vernon Lee la pittura riveste il ruolo di estensione delle sue espressioni letterarie. Nel 1872 esplorano insieme la storica scuola di musica di Bologna, dove si incontrano brevemente, e lì danno sfogo alla loro sete di cultura, immaginando di “abitare” la scuola con i compositori settecenteschi i cui ritratti li circondano. Questa esperienza immaginaria dona alla scrittrice le basi per il suo racconto breve del 1881 L’Avventura di Winthrop. (Nello stesso anno posa per Sargent il quale la immortala in uno dei suoi più importanti ritratti). L’anno prima, grazie alla sua passione per la musica italiana del “secolo dei lumi”, Violet pubblica all’età di ventiquattro anni Studies of Eighteenth Century in Italy (Stu-

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di del Diciottesimo Secolo in Italia). È la prima letterata a introdurre il concetto di Einfühlung, o Empatia (letteralmente Immedesimazione) nello studio dell’estetica nel mondo letterario anglofono. Belcaro, saggi su diverse questioni di estetica pubblicato nel 1881, è una delle sue opere più significative riguardanti l’estetica, oltre a essere un’autorità in materia di Rinascimento, di cui dà prova per mezzo delle opere Euphorion, pubblicato nel 1884, e Passioni e Studi sul Rinascimento del 1895. (Sempre nel 1884 la scrittrice pubblica nel The Magazine of Art una descrizione di Barga, in Lucchesia, da lei visitata nel 1882, corredata con immagini realizzate dall’illustratore statunitense Joseph Pennell che la visitò nel 1883). Nel 1903 le spiccate doti letterarie di Vernon Lee danno vita all’opera Arianna a Mantova, un testo teatrale in cinque atti, ennesima prova della sua genialità. A partire dal 1888, vive nella Villa il Palmerino, alle pendici delle colline di Fiesole, dove condivide la sua dimora con la scrittrice e teorica dell’arte scozzese Clementine (Kit) Anstruther-Thomson, dalla quale viene lasciata nel 1899. Nel 1911 conosce la scrittrice e avvocatessa inglese Irene Cooper-Willis. Con lei vivrà al Palmerino fino al termine della vita. Violet Paget si spegne il 13 febbraio del 1935 e viene sepolta nel Cimitero Evangelico degli Allori al Galluzzo, alle porte di Firenze. Il patrimonio di oltre quattrocento volumi antichi di proprietà della scrittrice viene donato da Irene Willis-Cooper, divenuta beneficiaria ed esecutrice testamentaria della Lee, al fiorentino British Institute.


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CON PUCCINI A PECHINO

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a 20 anni dalla Turandot in Cina Roberto Mascagni

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ono trascorsi venti anni dalla storica rappresentazione, nel Palazzo Celeste a Pechino, della Turandot di Puccini: il 5 settembre 1998. L’avvenimento era tanto ricco di significati, non solo per l’esclusività del luogo, dove la leggenda vuole siano avvenuti i fatti, ma per la presenza, sul podio, di Zubin Mehta, alla guida dell’Orchestra del Maggio Musicale in tournée insieme con il Coro. Ed ecco Firenze e Pechino “gemellate” quasi per miracolo. Un evento che, dati i tempi, sembrava impensabile. Per la verità, si trattava di uno scambio di cortesie perché l’anno precedente, con la regìa di Zhang Yimou, esordiente nella lirica, e quasi tutti gli stessi interpreti, lo spettacolo era stato rappresentato al Comunale di Firenze: in coproduzione con l’Opera di Pechino e per la prima volta allestito nell’interno della “Città Proibita”. È doveroso ricordare che Zhang Yimou è il regista del film Lanterne rosse (1991). Da quel momento, il suo nome si inserì fra i più noti e creativi in area in-

ternazionale. Altra circostanza di forte emozione fu l’idea di realizzare la produzione all’aperto: una delle rare opportunità per apprezzare la parte musicale, generalmente sacrificata in occasioni di spettacoli en plain aire. Ma il “segreto” consisteva nel materiale con cui era stato edificato il Palazzo Imperiale, dalle dinastie Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911), in larga parte eretto in legno, che notoriamente favorisce l’acustica. Alzando gli occhi verso il cielo si poteva ammirare il sorgere della Luna, quella vera, nel primo atto, salutata da un coro femminile, che intonava un’antica melodia cinese, perfettamente intonata: «Perché tarda la luna? Faccia pallida, mostrati in cielo! (…) Ecco… Laggiù! Un barlume dilaga in cielo la sua luce smorta!». Altro colpo d’occhio indimenticabile i variopinti costumi indossati con eleganza e finezza di portamento, elemento che contraddistinse il corpo di ballo e le comparse: dalla raffinata bellezza. I costumi erano stati firmati da Gao Guaglian e Zeng Li.

Due fastose scene dell'opera. (New Press Photo - Firenze)

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In platea, allestita per l’occasione nel vasto piazzale antistante il Palazzo, avevano trovato posto oltre 3500 spettatori, incantati e plaudenti in perfetta sintonia con le pagine più intense del melodramma di Puccini. La compagnia era la stessa che agiva a Firenze con Sharon Sweet e Kristján Jòhannsson nei ruoli principali sostenuti con efficacia di mezzi vocali, con maggiore perizia dalla Sweet. Barbara Hendricks vestiva con sensibilità i panni di Liù. Negli altri personaggi erano impegnati Aldo Bottion (Altoum), Carlo Colombara (Timur), Josè Fardilha (Ping), Carlo Allemano (Pong), Francesco Piccoli (Pang). Al termine gli applausi premiarono tutti gli interpreti. E accanto a Zubin Mehta (acclamatissimo) bisogna ricordare Josè Luis Basso, istruttore del coro. Ma lo spettacolo correva qualche rischio, per esempio, la pioggia. Eravamo nella prima settimana di settembre, quando, frequentemente, improvvisi e violenti acquazzoni, sono capaci di penetrare anche il denso spessore dello smog che grava sulla metropoli. Fenomeno che puntualmente avvenne (meno male non alla “prima”) nel corso di una delle repliche previste: tutte esaurite. Zubin Mehta, non còlto di sorpresa, fu costretto, durante uno di questi inattesi fenomeni meteorologici, a stringere i tempi del finale del terzo atto per scansare il minaccioso maltempo. Dopo il trionfale èsito di Pechino, si replicò a Firenze, nella stagione 2001/2002, per quel pubblico che non ebbe l’opportunità di applaudire gli artefici del successo ottenuto durante la tournée in Cina, che comprendeva anche recite a Shanghai. Testimone di questo storico evento fu il musicologo Marcello de Ange-


lis. «Raggiunsi Pechino incaricato dal quotidiano “il Giornale”, allo scopo di recensire lo spettacolo: oltre Turandot, era in programma il Requiem di Verdi, sempre condotto da Zubin Mehta in un modernissimo auditorium (Century Theatre) non lontano dalla celebre piazza di Tienanmen. Sharon Sweet sostituì magnificamente Barbara Frittoli a causa di un abbassamento di voce; gli altri interpreti erano Vincenzo La Scola e Carlo Colombara. Nel vasto ambiente non c’era una poltrona vuota. Il pubblico, composto da persone di ogni età, seguiva con la massima concentrazione le splendide note verdiane, avendo in mano il libretto stampato nella doppia versione latina e cinese. Al termine gli entusiastici applausi sembravano interminabili». «Nella stagione del Maggio Musicale 2001/2002 — continua Marcello de Angelis — fu combinato un incontro pubblico nel Teatro Comunale con Zhang Yimou, in occasione della citata ripresa di Turandot, eseguita dagli artefici del successo cinese. In quella circostanza il regista poté chiarire alcuni significati della ricca e impegnativa simbologia utilizzata sulla scena: costumi, decorazioni e ogni altro elemento scenotecnico che distingueva lo svolgimento della fiaba. Accennai — prosegue Marcello de Angelis — a una interpretazione di quel mondo fantastico e il regista approvò con mia soddisfazione quanto avevo intuito, rivolgendogli alcune domande». Così, questa lunga parabola tra Firenze, Pechino e ritorno, si concluse nell’apprezzamento generale, segnando quasi un record nella traiettoria delle rappresentazioni di Turandot, che dal 1926, quando per la prima volta la diresse Toscanini alla Scala, ebbe successivamente meno fortuna di quanto non si pensi rispetto alle altre opere di Puccini. TURANDOT Dramma lirico in tre atti e cinque quadri. Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni sulle indicazioni drammaturgiche di Puccini; dall’omonima fiaba di Carlo Gozzi. Prima rappresentazione al teatro La Scala di Milano, il 25 aprile 1926, sul podio Arturo Toscanini. Atto primo – Dentro le mura di Pechino il popolo affolla il piazzale. Un funzionario di Palazzo legge la condanna a morte di un principe persiano che ha voluto sfidare Turandot. La Principessa, figlia dell’Imperatore Altoum, ha fatto voto di sposare il nobile pretendente che sarà capace di risolvere tre suoi enigmi. Chi non li indovinerà, sarà decapitato. Turandot vuole così vendicare il rapimento e

l’uccisione dell’antenata principessa Lo-u-ling, compiuti da un re barbaro migliaia di anni prima. Confusi tra la folla ci sono il vecchio re tartaro spodestato Timur e la sua fedele schiava Liù. Essi riconoscono Calaf, figlio di Timur, creduto morto in battaglia. Il giovane per il popolo di Pechino è considerato un nemico. L’apparizione di Turandot turba Calaf che chiede di poter affrontare le prove per conquistarla. Timur e Liù, insieme con i dignitari di Palazzo (Ping, Pang, Pong), tentano, ma inutilmente, di dissuadere Calaf dal rischio della vita. Nel finale dell’atto, il terribile suono di un gong conferma la volontà di Calaf: lo sconosciuto sfiderà la crudele Turandot. Atto secondo – Al centro di un vasto piazzale e ai lati di un’alta scalinata di marmo, è riunita la corte, in presenza dell’Imperatore, per assistere alla sfida. La Principessa spiega i motivi del suo comportamento e lo esorta a rinunziare. Ma Calaf scioglie il mistero delle risposte: “Speranza, Sangue, Turandot”. Lei si appella all’Imperatore per non diventare schiava di uno straniero. Il voto però deve essere rispettato. Calaf propone di liberarla dall’impegno purché prima dell’alba si sappia il nome e l’origine dello sconosciuto. Se ciò avverrà, il vincitore è disposto a subire la punizione mortale. Atto terzo – Nel giardino della reggia gli araldi annunciano il decreto di Turandot: «Nessun dorma» finché non sarà conosciuto il nome dello straniero. Calaf è certo di conquistare Turandot con un bacio, ma non vuole, ancora, pronunciare il suo nome, di cui è a conoscenza solo Liù che, per non rivelarlo, si uccide. Il Principe e Turandot rimangono soli. Lui improvvisamente la bacia e con questo gesto scioglie il “gelo” secolare che “imprigiona” la nobildonna; così comprende di amare Calaf e solo ora lui può rivelarle il proprio nome. Turandot, rivolgendosi alla Corte, lo annuncia: “Amore”. L’opera si conclude nell’esultanza generale. Puccini trascorse gli ultimi quattro anni della sua vita angustiato dalla tormentata composizione di Turandot. L’opera fu musicata compiutamente dal Maestro fino alla “morte di Liù” (3° atto), ma senza aver concluso il duetto finale e definita la redazione del testo. Come è noto, il compito di concludere la partitura fu affidato al noto compositore Franco Alfano che, accettato l’impegno, con umiltà elaborò gli appunti tracciati dal Maestro sopra oltre venti pagine della partitura, seguendo, per quanto possibile, i propositi del compositore, ma chissà come lo stesso Puccini avrebbe utilizzato i suoi

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appunti se fosse tornato guarito da Bruxelles? Puccini aveva portato con sé le ultime pagine della partitura soltanto abbozzate, quando, il 4 novembre 1924, partì in treno da Viareggio diretto all’Institut Médico-Chirurgical in Avenue de la Couronne 1, a Bruxelles, con la speranza di poter curare con la radioterapia il minaccioso papilloma diagnosticato sotto l’epiglottide: che lo angosciava e lo condusse a morte il 28 novembre, dopo aver subìto anche una tracheotomia. La “prima” assoluta dell’opera andò in scena a La Scala il 25 aprile 1926, quasi un anno e mezzo dopo a morte del Maestro. Al termine della scena della morte di Liù, un esitante e commosso Arturo Toscanini, rivolto verso il pubblico disse: «Qui finisce l’opera lasciata incompiuta dal Maestro, perché a questo punto il Maestro è morto». Toscanini scese dal podio e calò il sipario. Nel silenzio assoluto della grande sala, una voce che gridò: «Viva Puccini!» fece balzare in piedi tutto il pubblico e le lacrime, non è un modo di dire, scorsero a fiumi. Soltanto a partire dalla seconda serata Turandot venne eseguita con il finale completato da Alfano, diretta sempre da Toscanini.

Il regista Zhang Ymou e il maestro Zubin Mehta applauditi dal pubblico cinese. (New Press Photo Firenze) Galileo Chini: manifesto della "prima" di Turandot a La Scala (1926).


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BERNA CAPUT HELVETIAE Carlo Ciappina

foto di swisse-image.ch

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roverbialmente sfarzosa per essere nazione operosa, la Svizzera sorprende nella stessa capitale. Ci si aspetterebbe una grande città tecnologica e ordinatamente affollata, invece, Berna ostenta una dimensione raccolta ma resa aristocratica dall’eleganza. Manifestamente affascinante, il suo medievale centro storico si sviluppa a serpentina lungo l’ansa del fiume Aare, filare architettonico di incomparabile bellezza avvolto nel verde rigoglioso. In effetti, l’urbe elvetica ha nomea di realtà eco-green. Lo si nota nei giardini, fiori e fontane ed edifici storici, offrendosi ai turisti come destinazione decisamente romantica. Ben sei chilometri di antichi porticati riparano da piogge e neve, in cui si affacciano boutique, locali, librerie à la mode, strutture importanti per edifici carichi di fascino storico. Un’atmosfera rilassante caratterizza il ritmo cittadino scandito dallo Zytglogge, orologio incastonato nella duecentesca torre, una gioia per bimbi intrepidi nell’aspettare mezzodì:

Goffi danzatori sfilano intorno al gallo canterino e dio del tempo, personaggi del movimentato carillon. Poco a sud, il Palazzo Federale ingentilisce Bunsplatz animata dalla grande vasca con ben 26 fontane rappresentanti i cantoni elvetici. Insomma, parola d’ordine nell’Highlights è guardare avanti, intorno, in alto, scoprendo una magica realtà urbana fatta di secolari edifici in mattoni dai tetti spioventi tra vicoli decisamente suggestivi, rendendo l’insieme una sorta di prezioso dipinto finemente lavorato. A pranzo rilassatevi presso Café Fédéral Entrecôte, ristorante decisamente chic dove gustare buona carne locale a prezzi abbordabili: Ottimo il tortino di patate con salsiccia e salsa alle cipolle, ma non perdete le favolose fondue! Rifocillati, Heiliggeistkirche in Spitalgasse offre il gotha della sontuosità barocca svizzera e poi, intersecando l’arteria principale sinora battuta, incontrerete diametralmente il

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quattrocentesco Municipio in stile gotico abbellito da doppia scalinata, la maestosa cattedrale dedicata a San Vito, armonioso groviglio gotico di vetrate, guglie, torre campanaria incastonata nella splendida facciata, e la fontana dedicata a Mosè. Insomma, la città vecchia ha charme da vendere, non risparmiandosi nemmeno in cinema, teatri, musei, iniziative culturali, di cui vanta gran numero. Lo sa bene Kunstmuseum coi suoi 3000 dipinti dal trecento italiano al grande Paul Klee. Cortesia e gentilezza riassumono il carattere dei bernesi, rendendo ancor più gradevole il soggiorno ai numerosi turisti ma, se stanchi, rilassatevi presso il Giardino Botanico, esplosione multicolore di piante e fiori alpini. In serata, cena tipica presso l’ex stazione tramviaria, all’Altes Tramdepot: Cucina bernese autentica accompagnata da ottima birra con affaccio sulla celebre Fossa degli Orsi appagheranno pancia, gola, vista.


Andar per

borghi d'Italia di Lucard

CASTELLO DI CASOLE

Austero castello risalente al decimo secolo, provvisto di corte interna abbellita da una grande fontana e cantina, il territorio circostante vanta passato agricolo etrusco, i cui reperti sono esposti nei suoi storici saloni. Intorno un delizioso borgo vanta la chiesetta adorna di cappelle e romantiche costruzioni rurali.

Castello di Casole

WINE&FOOD: L’elegante Bar Visconti possiede un variegato menu per pasti veloci, la pizzeria Pazzia sforna pizze cotte nel forno a legna e, dulcis in fundo, Tosca Restaurant offre cucina raffinata in ambiente super chic, accompagnata da blasonati vini privat label “C” prodotti nella tenuta e non solo! PERNOTTAMENTO: Castello e pertinenze ospitano il lussuoso resort con eleganti camere, suite, appartamenti. Bagni a vapore, saune, invitante piscina, Spa, lussureggianti giardini, luxury boutiques sollazzeranno il vostro soggiorno. Castello di Casole località Querceto 53031 Casole d’Elsa (SI)

CASTELLO DI MONTEU ROERO

Maestoso castello del X secolo con pertinenze, la dimora vanta ospiti illustri come Federico Barbarossa e Federico II. Scenografici interni custodiscono affreschi, dipinti a soggetto classico-cristiano, mobilio d’epoca. La biblioteca annovera antichi volumi di arte farmacologica e medica. Nelle vicinanze, favolose tenute della famiglia Berta meravigliano la vista per bellezza architettonica in un paesaggio mozzafiato.

Castello di Monte Roero

Wine&Food: Lungimiranti mecenati, i Berta producono liquori distillati pregiatissimi, il morbido amaretto di Mombaruzzo e, agli esigenti, si consigliano raffinati piatti insaporiti da grappe distillate, creati nel ristorante di Villa Castelletto. Quanto ai vini, troverete una carta decisamente superlativa. Pernottamento: Villa Castelletto è un elegante relais con piscina, regno del confort, design, eleganza: Cosa desiderare di più! Castello di Monteu Roero Via XXV Aprile 35, Monteu Roero (CN)

CASTELFALFI

Borgo medievale di eccezionale bellezza, l’abitato si sviluppa ad arco lungo una lussureggiante collina, caratteristico nelle sue splendide costruzioni rurali in pietra, romantiche stradine e il turrito maniero dove si fondano arte, storia, architettura militare-signorile, il tutto immerso tra giardini ed una ridente vegetazione spontanea.

Castelfalfi

WINE&FOOD: Castelfalfi vanta un’azienda agricola ricca in vigneti, uliveti e seminativi, i cui raccolti costituiscono biologica materia prima per raffinati piatti del ristorante La Rocca, supportanti carni e pescato mediterraneo abbinati agli ottimi vini della tenuta, in primis l’arcinoto Sangiovese IGT. PERNOTTAMENTO: Il 5 stelle Tui blue Selection è un inno al life style italico, caratterizzato dal lusso immerso nella natura, design toscano, Spa strabiliante. La vicina Tabaccaia completa l’offerta hospitality all’insegna del comfort raffinato. Intorno, piscine e l’arcinoto Golf Club Castelfalfi rappresentano l’appetitosa ciliegina sulla torta! Castelfalfi Località Castelfalfi, 50050 Montaione (FI)

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La classica vacchetta

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le sensazioni di un conciatore Manuel Casella *

* consigliere del Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale

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he bella la pelle al vegetale, questa è la “classica vacchetta”. Ecco uno dei commenti che apprezzo di più quando mostro il risultato della fatica, ma soprattutto della passione e dell’attenzione adoperate in conceria. Non è tanto l’aggettivo “bello” che mi fa piacere perché si sa, al giorno d’oggi, il bello e il brutto sono delle categorie talmente ampie e soggettive da includere o escludere prodotti di qualità insieme ad altri di scarso valore. Quello che veramente apprezzo sono le parole classica e vacchetta. Mi stupisco sempre un po’ che qualcuno, ancora oggi, si ricordi di quell’appellativo un po’ desueto per chi non è del settore. Ma, forse, la ragione per la quale il termine vacchetta abbia resistito alle intemperie degli anni è dovuta al fatto che ad esso si associa quell’aggettivo importantissimo di classica. La vacchetta e quel sapore “classico”

In un mondo sempre più in preda ad un’ossessiva voglia di modernità e d’avanguardia, tanto da scadere nelle pacchianate kitsch che infestano molto di ciò che ci circonda, l’unica salvezza è aggrapparsi al classico. Ma cos’è il classico? Si potrebbe aprire

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una parentesi enorme sul significato del termine e della sua etimologia, ma qui non siamo nella sede adatta, non filosofeggiamo né vogliamo diventare noiosi. Tuttavia, si può dire, senza tanti giri di parole, che il classico rimanda al concetto di storia e quindi anche alla cultura che si cela dietro il sostantivo al quale si associa. Pensando alla “vacchetta”, allora, il fatto che sia “classica” ne accresce estremamente il senso: se, nel gergo comune, si è soliti attribuire alla pelle al vegetale il termine “classica”, significa che nel corso degli anni le si è riconosciuto un valore immenso grazie a tutta quella serie di fattori che vanno dalla storia del luogo nel quale è sempre stata prodotta: la Toscana; passando consecutivamente e immediatamente per il tipo di produzione con la quale è sempre stata realizzata: la concia al vegetale; fino ad arrivare a quel look e quell’odore e quel misto di sensazioni inconfondibili che l’hanno resa riconoscibile sino ad oggi. Allora sorge spontanea la domanda: la “classica vacchetta” è ancora di moda? In una scena del film The September Is-


sue del 2009, Anne Wintour, redattrice di Vogue America, diceva: «la moda non guarda indietro, guarda sempre avanti». Per un lettore disattento basterebbero queste parole a far sì che si considerasse qualsiasi “classico” (e quindi anche la “classica vacchetta”) come fuorimoda, come contrario alla moda, cioè a quel processo effimero e passeggero che coinvolge il “qui e ora”, che “coglie l’attimo”, nella convinzione che il nuovo sia migliore di quel che è venuto prima. In realtà, troppo spesso la gente si dimentica che se le mode raccontano dei nostri tempi, esse raccontano soltanto di brevi periodi che si susseguono alternandosi uno dopo l’altro e, talvolta, ripetendosi. Ma qualora si voglia davvero trovare qualcosa d’attuale, qualcosa di sempre presente, di mai vecchio, di mai andato e, perché no, persino di contemporaneo, ecco che ci si rivolge al classico. Perché acquistare qualcosa di classico? Se le mode del momento ci portano ad acquistare oggetti validi oggi, ma destinati ad essere assorbiti dal ciclo severo della moda e quindi ben presto consumati e rigettati per noia o perché ormai già “andati”, scegliere un “classico” come una borsa, un portafoglio, o un qualsiasi altro oggetto in pelle al vegetale, non significa scegliere un prodotto d’altri tempi, ma di sempre. Scegliere la pelle al vegetale significa ricordare i valori di un luogo, la fatica e il sudore di generazioni di persone che hanno mantenuto vivo quel luogo grazie al loro lavoro e così significa rispettarne e apprezzarne la tradizione e la cultura, scegliendo un qualcosa non di “fuorimoda”, non “contro la moda”, ma sempre di moda, sempre attuale, sempre contemporaneo. Per questo adoro quando la chiamano la “classica vacchetta”, perché come scriveva Marc Fumaroli, il classico: «è la luce che non cambia. È il tempo che trionfa sul tempo, del quale siamo diventati poveri, pur avendone oggi bisogno”.

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POLLOCRAZIA dalle urne i rappresentanti del potere di molti, non di tutti Fernando Prattichizzo

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lle elezioni politiche dello scorso 4 marzo l'affluenza alle urne è stata del 72,90% per la Camera e del 72,99% per il Senato, raggiungendo il livello più basso del nostro Paese. Nel 1948 si superava il 92%. Più di 12 milioni e mezzo di Italiani non hanno votato. Le schede annullate sono state oltre 1 milione e, quindi, hanno votato meno di 33 milioni. Nella Toscana l'affluenza è stata del 77,58%. Non siamo più di fronte alla “democrazia”, cioè al potere del popolo, che lo esercita mediante rappresentati liberamente eletti, ma alla “pollocrazia”, cioè al potere di molti, non di tutti i cittadini. Occorre che questo neologismo, derivato dal greco “pollon” (di molti) entri a far parte della lingua italiana. Giustamente la classe politica ha cercato di porre rimedio a tale situazione, mantenendo stretti contatti con la base degli elettori attraverso i “social”, oramai diffusissimi, ma caratterizzati dalla estrema fuga-

cità. Il Movimento 5 Stelle ha reso disponibile la piattaforma Rousseau per consentire un collegamento diretto e stabile con la base elettorale, consentendo agli iscritti finanche la proposta delle leggi. Secondo l'intenzione degli ideatori si tratta di promuovere la democrazia diretta e la cittadinanza digitale, consentendo la partecipazione diretta dei cittadini al processo decisionale. Tale proposta è stata attaccata da giornalisti ed esponenti politici, che hanno bollato l'dea del “populisno” come foriera di catastrofe economica. Tale corrente di pensiero, quindi, ritiene vantaggiosa soltanto la promulgazione di norme giuridiche ad opera di un'oligarchia, che nasce prima delle elezioni e che poi riesce a vincerle. Il problema maggiore da affrontare è, invece, quello della pollocrazia e della rappresentanza o meglio rappresentatività del popolo ad opera di eletti da molti, ma non da tutti i cittadini. Poco importa che una proposta di legge sia avanzata da un politico o da un cittadino qualunque. Soprattutto per i grandi

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temi, ad elevato impatto sociale o economico, occorre che si esprima il popolo. Da tempo questo avviene in Svizzera, dove il popolo è chiamato a decidere spesso, attraverso i referendum. Peraltro, con l'imponente evoluzione tecnologica nel campo delle comunicazioni nulla vieta di pensare che i referendum siano indetti più frequentemente in Italia e si effettuino sulla rete. Il web, quindi, potrebbe salvare la democrazia.


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SCINTILLE E DIALOGO il Rinascimento di Vittorio Sgarbi

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ronia. Ironia e vis polemica non sono mai mancate a Vittorio Sgarbi. Dopo le recentissime dimissioni da sindaco di Sutri, nel Viterbese, per incompatibilità caratteriali, - «una delle mie proposte era d'avviare scambi commerciali con la fiorente artigianalità ceramichense di Deruta» - , il famoso critico d'arte nonché saggista, politico, opinionista, grintoso personaggio televisivo (immancabili le scintille al Maurizio Costanzo Show, anche se proprio Costanzo lo stima come uomo d'intelligenza rara), gode continuamente d'esser figura senza peli sulla lingua confermando di conseguenza il suo status di giacobino. «All'ultimo incontro di TourismA salone di archeologia e turismo culturale», eclettico come sempre... «Sono il più cacciato d'Italia ma sono sereno», parlò di arte e di donne, antiche e moderne, nonché della sua personalissima rivisitazione letteraria dei Promessi Sposi»... «Don Rodrigo! Un bel maniaco sessuale! E sventurata Lucia, che. se l'avesse data senza tanti complimenti al malvagio signorotto locale... beh, poveretta, non avrebbe sopportato tutti quei lunghissimi anni di matrimonio col suo Renzo!» Logorroico come sempre, segnalò poi che tale Fiera del Turismo doveva godere dei finanziamenti di Stato per l'importanza del ruolo che riveste, calcando poi parole sulla gratuità nelle visite museali. «Perché la cultura gode della propria bellezza e i beni debbono essere goduti e sfruttati per il buon sapere della cittadinanza. Cimabue, Giotto, Paolo Uccello ed altri ancora, sono come dei libri e quindi

degni di studio! Il mondo ha il compito di salvare la magnificenza: ricordiamoci che i luoghi della mente sono luoghi di tutti!» Intervistato poi dai vari media sul suo ruolo di Assessore ai Beni Culturali della regione Sicilia osservò: «Il ponte di Messina? Lo faranno per il prossimo terremoto!». Soffermandosi poi sul Tempio di Selinunte: «Questa isola deve tenere ben alti i valori dell'esaltazione e della resurrezione in quanto portatrice di questo Tempio greco d'ordine dorico, considerato giustamente una delle otto meraviglie del mondo! Fondamentale pertanto chiederne i finanziamenti! E togliamo per favore quelle pale eoliche, simbolo di scempio in questa regione meravigliosa!» Più tardi alle mie varie domande sulla mafia, sulla letteratura, sui personaggi siciliani da approfondire...” «Questa è una terra che necessita di una vivibilità che in parte ha perduto. Bisogna andarci senza timore d'essere considerato un mafioso o inquisito senza esserlo. Personalmente ho rimesso in ordine la mia apertura sulla Dea di Morgantina poiché il patrimonio siciliano deve essere valorizzato non solo per quello che è, ma si conservi nella misura esistente evitando speculazioni, abbattimenti ed altre brutture ancora. Penso ancora a quel soprintendente che a Messina demolì un palazzo del '700 in quanto non l'aveva vincolato. Lo cacciai immediatamente chiamando gli ispettori; non a caso parliamo d'una città che è stata terremotata nel 1909, ed è assurdo buttare giù un edificio di quell'epoca.» «Un personaggio da ben appro-

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fondire - prosegue - è Leonardo Sciascia, un autore straordinario da leggere e rileggere sopratutto alla luce di una violenza che quest'isola patisce dalla mafia e dall'antimafia. Fu lui a parlare di professionismo dell'antimafia: persone che traggono beneficio dalla sua esistenza combattendola. Se la combatti dove c'è fai un'opera importante, viceversa, sei un approfittatore! Lui questa cosa l'aveva ben compresa, facendo un articolo sul Corriere che io ritengo sia ancora utile per capire che è vitale opporsi a tale fenomeno. Ed è terribile combatterla per finta o per trarne vantaggio. Questo è un messaggio da dare ai giovani abituati a molta retorica: ci vuole un messaggio non retorico che dica le cose come si vedono». Altri ancora? «Citerei Federico II che poi era nato a Jesi, Tullio D'Alcamo, l'inizio della poesia italiana, Giacomo Da Lentini, altro valente poeta, Pirandello che non ha bisogno d'esser rivalutato come del resto Tomasi di Lampedusa, Vitaliano Brancati, uno dei grandi romanzieri del '900 e forse Lucio Piccolo, cugino dell'autore del Gattopardo; grande figura, purtroppo parzialmente dimenticato ma che ha una bellissima fondazione che meriterebbe di essere più sostenuta. Dal mio canto ho dato un finanziamento per tenerla aperta quale luogo di grande bellezza.» Da pochi mesi Vittorio Sgarbi si è dimesso dal ruolo di Assessore ai Beni Culturali per divergenze varie scegliendo il Parlamento. Chissà se Zeus non ci abbia messo lo zampino. Che ci sia bisogno di un bel "Rinascimento"?

Carla Cavicchini

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mediterraneo mare di pace

Craxi e la Tunisia nella memoria di Stefania

Carla Cavicchini

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'interessante convegno “Tunisia faro del Mediterraneo”, a Palazzo Vecchio a Firenze, ha visto relatori italiani e stranieri tra i quali il senatore Stefania Craxi, capace di ricordare che proprio quella terra garantì la libertà a suo padre Bettino, seppur in momenti delicati e drammatici che tutta la famiglia attraversò. «Proprio per questo nutro un grande affetto per chi lo accolse, nonché verso il cimitero di Hammamet dove riposano le spoglie, senza dimenticare, come diceva Chirac, che il Mediterraneo è una buona comunità di destini. Con piacere convengo che il Console onorario di Firenze, Zatterini, è instancabile nella tessitura dei rapporti tra popolo italiano e tunisino, ne è prova anche questo convegno. Da parte mia credo che noi popoli mediterranei abbiamo il dovere di fare di quel mare un mare di pace, di scambi ed incontri con culture diverse nei confronti degli italiani, europei e mediterranei.» Piacevole più tardi l'osservazione di un relatore che l'ha definita “la tunisina più italiana e l'italiana più tunisina”. È stato poi ricordato che il desiderio del leader socialista era quello di un Mediterraneo pacificato. Proprio lui, ospitato in un paese straniero ma non per questo estraneo. «Cartagine divenne una delle capitali del Cristianesimo occidentale osservano durante il prosieguo dei lavori - e sotto l'impero romano prosperò notevolmente a livello agricolo, con poi successivo potenziamento urbano. Il cristianesimo nel nordafrica racconta l'intreccio con la cultura berbera, poiché i berberi erano cristiani grazie all'opera di religiosi come Sant'Agostino, la cui missione era quella di convertirli. Più tardi l'Editto

di Costantino, grazie all'accordo dei due Augusti, Costantino per l'Occidente e Licinio per l'Oriente, operò in virtù di una politica religiosa comune a entrambi gli imperi.» «Da ricordare inoltre che tra i rifugiati politici sull'altra sponda del Mediterraneo, vi fu anche Giuseppe Garibaldi. A Tunisi, durante l'esilio, si recò due volte. Lo ricorda la lapide posta a Palazzo Gnecco in suo onore. È fondamentale inoltre osservare che la Tunisia combatte il terrorismo di matrice islamica: è assolutamente ingiusto lasciarla sola, potrebbero accadere risvolti negativi in Europa e non solo.» La conclusione arrivava poi citando anche il comparto della moda: sul forte rapporto tessile Italia-Tunisia, con i big nostrani, capace di generare un potenziale economico incredibile.» Varie le domande che pongo all'onorevole Stefania Craxi: bionda, ferma e decisa (Bettino aleggia), mi fissa drittamente negli occhi quando osservo che sulla intitolazione di vie o piazze per suo padre esistono oltre un centi-

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naio di luoghi pubblici a lui intitolati. «Milano? Mah... vedremo, la richiesta è stata fatta anche al sindaco di Firenze Nardella e la risposta è in attesa». Quanto alle polemiche... «Alza le spallucce osservando che oggigiorno la maggior parte degli italiani è disposta a riconoscere a Craxi i meriti che gli spettano». «La politica della sinistra non ha fatto i conti con sé stessa - termina - purtroppo l'attuale generazione conosce veramente poco la storia d'Italia, nonché varie pratiche del sistema democratico, e i continui attestati di stima che ricevo rivelano che la cronaca di questi anni ci ha dato ragione prima ancora della Storia.» Non sembra molto ottimista sul panorama odierno. «Lo trovo semplicemente miserevole, bisognerebbe ristabilire le regole che c'erano nella Prima repubblica, in quanto checché se ne dica, le regole c'erano. La nostra è una democrazia di partiti, tranne i partiti che non ci sono più.»


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NOINOI INSIEME! INSIEME! PERPER I GIOVANI I GIOVANI 9 anni 9 anni d’impegno d’impegno per per il territorio il territorio Lo stile Lo estile la filosofia e la filosofia del Gruppo del Gruppo Lapi richiamano Lapi richiamano ai piùaitradizionali più tradizionali valorivalori etici.etici. Serietà Serietà ed impegno ed impegno non soltanto non soltanto orientano orientano le scelte le scelte e e le decisioni le decisioni nellenelle diverse diverse aree aree di business di business delledelle aziende aziende ma, ma, sonosono ancheanche i presupposti i presupposti di un'attiva di un'attiva di promozione di promozione di progetti di progetti socialmente socialmente utili soprattutto utili soprattutto a sostegno a sostegno dei giovani. dei giovani. L'attività L'attività del Gruppo del Gruppo è profondamente è profondamente radicata radicata nel territorio, nel territorio, legata legata alla vocazione alla vocazione del Comprensorio del Comprensorio del Cuoio, del Cuoio, da qui dalaqui decisione la decisione di investire di investire risorse risorse nellanella formazione formazione e nell’educazione e nell’educazione delledelle generazioni generazioni future. future. Diverse Diverse le iniziative le iniziative che ilche Gruppo il Gruppo Lapi ha Lapiracchiuso ha racchiuso in uninprogramma un programma denominato denominato "Progetto "Progetto Giovani", Giovani", un progetto un progetto a fianco a fianco di enti di eenti e istituzioni istituzioni locali,locali, che ha chel'obiettivo ha l'obiettivo di veicolare di veicolare un messaggio un messaggio positivo positivo di unione, di unione, collaborazione collaborazione e rispetto e rispetto che parte che parte dall’ambito dall’ambito scolastico scolastico fino afino contesti a contesti di gioco di gioco e sport e sport con l’aspirazione con l’aspirazione di essere di essere estesiestesi alla vita alladi vita tutti di tutti giorni, giorni, nellanella famiglia famiglia e nella e nella società. società.

ai blocchi di partenza… BACCO, TABACCO TABACCO E... CENERE. E... CENERE. 2010 2010 - 2012 - 2012 BACCO,

Il progetto Il progetto “Bacco, “Bacco, tabacco tabacco e... cenere”, e... cenere”, un’iniziativa un’iniziativa che ha checoinvolto ha coinvolto 35 classi, 35 classi, quasiquasi 850 850 ragazzi ragazzi delledelle scuole scuole medie medie del Comprensorio del Comprensorio del Cuoio del Cuoio Toscano Toscano con l’obiettivo con l’obiettivo di fardicapire far capire comecome il fumo il fumo e l’alcol e l’alcol sianosiano i principali i principali fattori fattori di rischio di rischio per laper salute la salute per loper piùlodei piùgiovani, dei giovani, costituendo costituendo così la così prima la prima causacausa evitabile evitabile di malattia di malattia e di morte. e di morte.

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FABBRICHE APERTE er chiad ha ad aoggi cheoggi fare con i FABBRICHE gio- APERTE 2011 2011 Un’iniziativa Un’iniziativa patrocinata patrocinata da Federchimica da Federchimica divenuta divenuta un appuntamento un appuntamento ricorrente ricorrente nel vani, settembre è sinonimo di

nel di attività che ilche Gruppo il Gruppo Lapi dedica Lapi dedica ai ragazzi ai ragazzi del Comprensorio. del Comprensorio. inizio anno. Il Gruppo programma Lapi,programma im- di attività Ogni Ogni anno circa circa 100 ragazzi 100 ragazzi delledelle scuole scuole superiori, superiori, ad indirizzo ad indirizzo chimico, chimico, sonosono invitati invitati ad una ad una pegnato da oltre un decennio con le anno visita visita guidata guidata all’interno all’interno delledelle aziende aziende del Gruppo. del Gruppo. Un’esperienza Un’esperienza coinvolgente coinvolgente per mostrare per mostrare scuole del Comprensorio del Cuoio, comecome la chimica la chimica studiata studiata tra i banchi tra i banchi di scuola di scuola vieneviene applicata applicata ai processi ai processi industriali. industriali. apre le porte ad un nuovo anno ricco di progetti. Tra i primi appuntamenti, la conseRISPETTO... RISPETTO... A CHI? A CHI? (la vita (la in vita classe) in classe) gna dei Camici da Laboratorio alle a Chi?” “Rispetto… “Rispetto… a Chi?” un progetto un progetto ludico ludico educativo educativo rivolto rivolto a tutte a tutte le 36leprime 36 prime classiclassi delledelle scuole scuole matricole dell’indirizzo chimico dell’Imedie medie del Comprensorio, del Comprensorio, con lo con scopo lo scopo di accrescere di accrescere la qualità la qualità delledelle relazioni relazioni graziegrazie ad unad un stituto Cattaneo di San Miniato. sviluppo sviluppo delledelle “abilità “abilità utili alla utili vita”. alla vita”. 819 ragazzi 819 ragazzi sonosono stati stati coinvolti coinvolti in situazioni in situazioni che hanno che hanno Per l’anno scolastico 2018-19, sarà la gestire potuto potuto gestire solo attraverso solo attraverso un alto un livello alto livello di cooperazione di cooperazione e collaborazione e collaborazione tra partecipanti, tra partecipanti, Conceria Gi-Elle-Emme ad omaggiaalunni alunni e professori. e professori. re gli studenti. L’inizio della ad scuola coincide con l’iCODICE ETICO ETICO PER LO PERSPORT LO SPORT ad oggi oggiCODICE nizio della stagione sportiva. Connato nato Progetto Progetto con con l’obiettivo l’obiettivo di diffondere, di diffondere, attraverso attraverso le società le società sportive sportive giovanili, giovanili, un un settembre, alcune società messaggio sportive messaggio positivo positivo per vivere per vivere lo sport lo sport in modo in modo leale,leale, sano sano e collaborativo. e collaborativo. del comprensorio insieme al10Gruppo regole 10 regole di comportamento di comportamento che racchiudono che racchiudono semplici semplici principi, principi, tutti tutti basatibasati sul RISPETTO, sul RISPETTO, Lapi si faranno portavoce del Codice presupposto presupposto fondamentale fondamentale alla base alla base di ciascuna di ciascuna relazione. relazione. Alla Società Alla Società Sportiva Sportiva vieneviene richiesto richiesto l’impegno l’impegno di riconoscersi di riconoscersi nel nel codice codice eticoetico e die farlo di farlo condividere condividere e rispettare. e rispettare. Seguici sulla pagina Etico per lo Sport, decalogo di regoAd oggi Ad ioggi ragazzi i ragazzi coinvolti coinvolti sonosono oltreoltre 2.000. 2.000. Facebook “Progetto Giovani” le di comportamento alla base del quale c’è il Rispetto. MARIO E MARIO E MARIO PER IPER GIOVANI I GIOVANI ad ad oggioggi MARIO Ed è Mario proprio il Rispetto il filo condutRealizzato Realizzato in collaborazione in collaborazione con la con Fondazione la Fondazione Mario Marianelli, Marianelli, il progetto il progetto ha loha scopo lo scopo di di tore di un triennio che vede in questo favorire favorire la crescita la crescita professionale professionale e l’avviamento e l’avviamento al lavoro, al lavoro, offrendo offrendo a studenti a studenti capaci capaci e e anno scolastico ladisua Ille aziende meritevoli meritevoli dell’IT dell’IT Cattaneo Cattaneo di San di Miniato, San Miniato, l’opportunità l’opportunità di fare uno fareconclusione. stage uno stage presso presso le aziende Progetto a colori. Pittudel Gruppo del Gruppo Lapi oLapi un otirocinio un tirocinio retribuito retribuito in concerie in concerie del“Rispetto… Comprensorio. del Comprensorio. riamo la Vita” ha già coinvolto circa 1000 studenti del comprensorio, veiCAMICI DA LABORATORIO DA LABORATORIO ad ad oggioggiCAMICI colando attraverso laboratori ei quali atti-i quali Rivolto Rivolto agli studenti agli studenti delledelle PrimePrime deglidegli indirizzi indirizzi chimici chimici dell’Istituto dell’Istituto IT Cattaneo, IT Cattaneo, sonosono vità creative, il concetto del Rispetto omaggiati omaggiati ogni ogni annoanno del loro del camice loro camice da laboratorio. da laboratorio. Ad oggi Ad sono oggi sono stati stati distribuiti distribuiti circa circa 430 430 dell’Arte come patrimonio di tutti e camici. camici. il Rispetto della Libertà Espressiva degli altri. Quest’anno saranno coinRISPETTO... RISPETTO... A COLORI. A COLORI. Pitturiamo Pitturiamo la Vita! la Vita! volte le prime medie degli istituti di Questo Questo progetto, progetto, che nell’arco che nell’arco del triennio del triennio coinvolge coinvolge oltreoltre 950 ragazzi, 950 ragazzi, è dedicato è dedicato a tutte a tutte le le Santa Croce sull’Arno e Castelfranco 40 prime 40 prime classiclassi delledelle scuole scuole medie medie del Comprensorio. del Comprensorio. Attraverso Attraverso coinvolgenti coinvolgenti “laboratori “laboratori di Sotto. d’ARTE” d’ARTE” e attività e attività divertenti divertenti e creative, e creative, ha l’obiettivo ha l’obiettivo di far disprigionare far sprigionare la creatività, la creatività, la fantasia, Quindi ai blocchi di partenza nonla fantasia, facilitare facilitare la libertà la libertà di espressione di espressione dei ragazzi dei ragazzi facendo facendo comprendere comprendere che l’ARTE che l’ARTE è un patrimonio è un patrimonio solo gli studenti ma anche l’emoziodi tutti, di tutti, un tesoro un tesoro da scoprire, da scoprire, preservare preservare ene rispettare. rispettare. Ogni anno viene viene allestita allestita una mostra una mostra ee la gioia di Ogni tuttoanno il Gruppo Lapi pubblica pubblica dedicata dedicata alle opere alle opere realizzate realizzate dai ragazzi dai ragazzi al termine al termine della della quale quale sarà sarà eletta eletta la classe la classe per la continuazione di un percorso e vincitrice vincitrice l’avvio di nuove iniziative rivolte alle Scuole eCASA ai Giovani. 21eAPRILE 21 APRILE presso presso CASA CONCIA CONCIA a Ponte a Ponte a Egola. a Egola. Vi Vi La MOSTRA La MOSTRA si terrà si terrà il 20ile20 aspettiamo aspettiamo per ammirare per ammirare con icon vostri i vostri occhiocchi i capolavori i capolavori realizzati!!! realizzati!!! Comitato Progetto Giovani

2013 2013 - 2015 - 2015

2013 2013

2013 2013

2014 2014

2016 2016 - 2018 - 2018

2018… 2018… . .

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ben tornato

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all'Eden Montagne Russe di Livorno nell'estate 1897 Tommaso Pagni Fedi

Il successo de "Il varo della corazzata Varese a Livorno"

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ell’estate del 1897, il Cinematografo dei fratelli Lumière ritorna a Livorno ancora più agguerrito e organizzato dell’anno precedente. Dopo il debutto estivo del 1896, nel periodo invernale dello stesso anno e nella primavera del successivo non si registrano altri spettacoli sia nella città labronica, che negli altri centri toscani, quali Firenze, Pisa, Siena e Lucca. I macchinari costruiti nei laboratori francesi non sono in numero tale da consentire una loro capillare diffusione, e nello stesso tempo i fratelli lionesi intendono mantenere il controllo sulla commercializzazione dei loro apparati. Nonostante queste problematiche, il successo del 1896 persuade gli inviati dei Lumière a scegliere ancora Livorno nell’estate dell’anno successivo. Sulla Spianata dei Cavalleggieri, l’Eden-Montagne Russe inaugura la nuova stagione l’1 di luglio, offrendo fin da subito la possibilità di partecipare alle sue principali attrattive: «Una gita sulle montagne russe, un’ora di pattinaggio e una rappresentazione al Cinematografo». I proprietari dell’Eden informano che l’apparecchio è dotato di un largo corredo di film, con particolare rilievo dato a due pellicole sulle Feste giubilari della Regina Vittoria a Londra, che la stampa livornese sostiene essere presentate per la pima volta in Italia. La proiezione più seguita dell’estate arriva il 12 di agosto con Il Varo della corazzata Varese a Livorno, rappresentante l’omonima cerimonia avvenuta in città il 25 di luglio. Il giorno successivo alla prima escono commenti di plauso su tutti i giornali: «Lo spettacolo - scrive ”Il Tirreno” - riuscì una meraviglia»; «L’effetto fu magnifico - scrive ”Il Telegrafo” - nulla di più vero si può ideare». Il varo della Varese resta in programma

fino al 6 di settembre, cioè per ventitre giorni consecutivi. Il motivo di tale successo è dovuto all’effetto illusorio della reale cerimonia, a cui livornesi e villeggianti hanno già assistito in presa diretta: «Non solo la grandiosa scena d’insieme - scrive ”Il Telegrafo” - ma tutti i più minuti particolari sono fedelmente riprodotti […] sono resi così bene, che chi ha assistito in realtà al varo, crede di esservi presente un’altra volta, chi non vi ha assistito ne ha l’impressione stessa che avrebbe avuto assistendovi». Le proiezioni terminano solo una settimana prima della chiusura del grande parco, ma questa volta i livornesi non intendono salutare il cinèmatographe con la fine dell’estate: l’occasione è data dal Cinematografo di Dello Strologo, un ambulante che resta a Livorno fino al 10 di ottobre, dopo essersi accaparrato uno dei pochi macchinari Lumière in circolazione. Dopo la prima ai Bagni Rinaldi il 7 di agosto con un filmato concernente luoghi, usi e costumi egiziani, il successo di Dello Strologo è tale che il 27 di agosto il suo Cinematografo si sposta in un vero e proprio locale ap-

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positamente attrezzato in via Vittorio Emanuele. I quotidiani riportano ogni giorno la locandina/reclame in terza pagina, mentre in cronaca i commenti si sprecano: «...divertimento adatto a grandi e piccini», «...enorme successo», «applausi alla fine di ogni scena». L’estate è finita da un pezzo e con essa sono scomparsi i villeggianti, chiusi tutti i ritrovi estivi e alcuni caffè-concerto, ma lo spettacolo cinematografico è ormai entrato nelle abitudini dei livornesi che frequentano senza soluzione di continuità il locale di via Vittorio Emanuele. Nella serata d’addio si susseguono diversi spettacoli, fra i quali un film girato in una villa livornese, relativo alle prossime elezioni comunali, e il graditissimo Varo della corrazzata Varese nei cantieri Orlando. Così, dopo il battesimo del 1896, nell’estate del 1897 Livorno accoglie a titolo definitivo il Cinematografo dei Lumière, terminando proprio con la pellicola più esemplificativa della sua caratteristica principale: quell’effetto illusorio con l'evento reale che fornisce «l’impressione stessa» che vi possiamo avere «assistendovi».


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Venezia La notte di San Lorenzo premiato come miglior restauro Andrea Cianferoni e Giampaolo Russo

Suspiria Tilda Swinton Willem Dafoe Alfonso Cuaron Leone d'Oro Vanessa Redgrave Mario Marton Fabio Attanasio At Eternity's Gate Willem Dafoe Stefano Accorsi A Star is Born, Lady Gaga Natalie Portman Naomi Watts Valeria Golino Guan Xiaotong

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en dieci minuti di standing ovation per i Fratelli Taviani e per il loro La notte di San Lorenzo”, presentato nel programma Venezia Classici; per il film capolavoro del 1982 di Paolo e Vittorio Taviani, i fratelli per “antonomasia” del cinema italiano, che hanno portato la loro San Miniato nell’olimpo del cinema internazionale, grazie al film ambientato nella città toscana nel 1982, il riconoscimento è arrivato durante la serata conclusiva del Festival di Venezia: il Premio per il Miglior Restauro. A ritirare il riconoscimento è stata Lina Nerli Taviani, costumista, moglie di Paolo Taviani. Un premio ancora più significativo, ricordando Vittorio Taviani, morto lo scorso aprile. Il restauro della pellicola è stato realizzato in collaborazione fra Centro Sperimentale di CinematografiaCineteca Nazionale e Istituto LuceCinecittà, ed è stato scelto dalla giuria di studenti di cinema presieduta dal regista Salvatore Mereu, che nel corso del festival di Venezia ha visionato molti restauri di film. Il restauro di La notte di San Lorenzo è stato

curato da Giuseppe Lanci, docente di fotografia al Csc e direttore della fotografia che ha firmato i film dei fratelli Taviani da Good Morning Babilonia (1987) in poi, da Federico Savina per quanto riguarda il restauro del suono e da Pasquale Cuzzupoli, apprezzato tecnico che lavora ai restauri realizzati a Cinecitta. «La notte di San Lorenzo è il nostro film più autobiografico – ha dichiarato Paolo Taviani durante la proiezione veneziana – quello in cui Vittorio ed io abbiamo messo i nostri ricordi della guerra, che abbiamo vissuto da ragazzi. La bambina protagonista, che da adulta racconta il film al suo figliolo appena nato, siamo noi. Il film rievoca un tragico episodio avvenuto nel nostro paese natale, a San Miniato, nell’estate del 1944.» Per quanto riguarda gli altri premi, a trionfare quest’anno con il riconoscimento del Leone d’Oro è stato il messicano Alfonso Cuaron, con il suo Roma distribuito da Netflix, il gigante americano che solo pochi mesi fa a Cannes era stato snobbato dalla cinematografia d’Oltralpe. Cuaron è ancora protagonista

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a Venezia, dopo appena cinque anni dal suo Gravity, film fantascienza da Oscar che aveva debuttato proprio alla Mostra veneziana. Il Leone d’Argento per la regia è stato assegnato a The Sisters Brothers, un western fuori dagli schemi, del regista francese Jacques Audiard, alla sua prima prova in inglese e assente alla premiazione perché a Toronto. Willem Dafoe, mimetico protagonista di At eternity’s gate di Julian Schnabel che racconta gli ultimi anni della vita di Vincent van Gogh, è stato invece premiato con la Coppa Volpi maschile. L’attore americano, ormai italiano d’adozione (come ha ricordato nel discorso di ringraziamento) da quando ha sposato la regista Giada Colagrande, che lo ha accompagnato sul red carpet, interpreta il grande artista olandese ribaltando alcuni cliché, dopo aver raccontato la sua lucida follia. Il regista del film, Julian Schnabel, rifiuta l’idea di un artista depresso e tormentato che sceglie di morire ma propone un’alternativa al suicidio ipotizzando un furto finito male da parte di alcuni ragazzi. Ma


al di là della questione biografica, che per Schnabel non è così importante, il film si poggia molto sull’intepretazione dell’attore americano, che restituisce la complessità di un personaggio così controverso capace di grandi slanci di generosità ma anche di furori e scatti violenti. La Coppa Volpi femminile è stata assegnata a Olivia Colman, incredibile regina Anna nel film La Favorita storia - poco conosciuta - della regina Anna e delle due donne che se ne contesero i favori durante i suoi 12 anni di regno, mentre l’Inghilterra e la Francia erano impegnate in quella

che viene considerata la prima guerra mondiale dell’epoca moderna. Il premio Mastroianni a un interprete emergente, assegnato da Naomi Watts è andato al giovane attore di The Nightingale che interpreta la guida aborigena Billy, Baykali Gananbarr che ha ringraziato «le tre donne che hanno reso possibile questo film: la regista, la produttrice e la sua collega Aisling Franciosi». Il film ha anche ottenuto il Premio speciale della giuria ritirato dalla regista australiana che dal palco ha detto: «Il cinema è nel mio cuore, essere qui è un grande onore».

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The Royal Kiss Harry e Meghan, l’amore sui campi di Polo Giampaolo Russo

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port e solidarietà sui campi da polo, in occasione della partita organizzata sul campo di Beaufort, nel Gloucestershire, nella sfida tra il Team Maserati e il Team Dhamani 1969, che ha visto la vittoria di Team Maserati. La partita sullo storico campo inglese ha visto anche la partecipazione di un ospite “speciale“: l’erede al trono inglese, William, che ha indossato i colori Maserati e giocato nel Team al fianco della star del polo internazionale Malcolm Borwick, insieme a Bruce Merivale-Austin e Josh Cork. Sua Altezza Reale ha partecipato al torneo a sostegno di Centrepoint, l’ente benefico che sostiene giovani senzatetto e del Royal Marsden Cancer Charity, dei quali il Duca di Cambridge è rispettivamente Patron e Presidente. Dal lato opposto del campo, la squadra Dhamani 1969, il cui team è composto dal Karan Thapar, Mark Tomlinson, Antonio Manzorro and Antonia Carlsson. Il 2018 è il quinto anno consecutivo in cui Maserati e il suo storico partner tecnico, La Martina, collaborano per realizzare un Tour di polo internazio-

nale, di cui il match inglese ha fatto da seconda tappa delle tre previste quest’anno. Per celebrare questo prestigioso evento, La Martina ha creato per il Team Maserati una polo elegante ed unica nel suo genere. Realizzata in piqué finissimo italiano, è un capo unico destinato esclusivamente ai quattro giocatori della squadra del Tridente. Mike Biscoe, General Manager Maserati GB, ha commentato: «Siamo estremamente lieti di essere tornati al Beaufort Polo Club. Maserati è un brand prestigioso nel settore automobilistico e l’esperienza del lusso che Maserati offre con i suoi modelli si ritrova nell’eleganza e nello stile di questo evento. Questo è il quinto anno in cui Maserati è Title sponsor di questa straordinaria iniziativa. La potenza e l’agilità mostrate oggi sul campo ben riassumono lo spirito delle nostre auto, in particolar modo del SUV Levante, perfetto partner per uno stile di vita legato ai cavalli». Enrico Roselli, CEO di La Martina Europe, ha affermato: «Al quinto anno della nostra collaborazione con Maserati, siamo sempre emozionati nel ren-

Nacho Figuare, Principe Harry e Ashley van Metre Busch Principe Harry e Meghan Duchessa del Sussex

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dere omaggio al mondo del polo e ai suoi grandi valori, assistendo in prima persona a talenti straordinari, passione bruciante ed eccellenza sportiva. La Martina è orgogliosa di onorare la partnership dei nostri marchi e di riconoscere il forte legame con la famiglia reale, fonte continua d’ispirazione per le nostre collezioni fashion. Disegnare polo uniche ed esclusive per vestire i giocatori e S.A.R. il Duca di Cambridge è un modo per riunire atleti che lavorano duramente, rispettano le regole del fair play e condividendo le nostre radici culturali e la passione per lo sport e rappresentando al contempo il carattere prestigioso dell’evento.» Non da meno è stato il fratello minore di William, il principe Harry, che insieme alla sua amata Meghan, ha partecipato alla Sentebale Polo Cup, organizzata per la raccolta fondi da destinare ai malati di Aids del Sud Africa. Nel corso della premiazione i giovani duchi del Sussex hanno abbandonato ogni protocollo reale, lasciandosi andare ad un lungo bacio con l’approvazione del pubblico.


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!M A G N E S I O

morte allo

stress

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l magnesio è uno ione con carica positiva, cioè un catione, fondamentale per l'organismo: è direttamente implicato nell'attivazione di oltre 300 differenti reazioni biochimiche necessarie al corpo umano per un adeguato funzionamento; per abbondanza nell'organismo umano è il quarto catione dopo calcio, sodio e potassio. Svolge un ruolo fondamentale nella regolazione dell'equilibrio acido-base, nella regolazione dell'eccitabilità neuro-muscolare, nella produzione e nel trasporto di energia; è un elemento fondamentale per il metabolismo della cellula nervosa, quando c'è carenza di magnesio si può verificare una compromissione della trasmissione degli stimoli nervosi con manifestazioni di eccessiva irritabilità e nervosismo. Nel corpo umano sono contenuti circa 25 g. di magnesio, pari allo 0,34 della massa corporea; circa il 60% del magnesio totale si trova mineralizzato nell'osso insieme al calcio e al fosforo, la restante quota è localizzata nei liquidi intracellulari e nel plasma dove svolge funzioni importanti sul piano biologico intervenendo nelle reazioni enzimatiche dove è coinvolto l 'ATP. È necessario in svariati processi biochimici, quali la sintesi proteica,la produzione di energia cellulare, la digestione, il metabolismo del glucosio. Stimola l'assorbimento di altri minerali (calcio, fosforo, potassio) e di molte vitamine; è importante per l'accrescimento scheletrico e la formazione dello smalto dei denti. Il fabbisogno giornaliero di magnesio è di 300mg., che aumenta a 500mg. nella gravidanza e nell'allattamento. È presente in una vasta gamma di alimenti, in particolare in tutti i vegetali verdi essendo elemento essenziale della clorofilla; si trova anche nei fagio-

li, nel germe di grano intero, nelle noci, nelle mandorle, nei pistacchi, e in nocciole, banane, fichi, albicocche, mele. È carente in tutti i cibi raffinati e nei vegetali coltivati con metodi che utilizzano pesticidi e concimi chimici poveri di magnesio; inoltre la cottura dei cibi ne riduce sensibilmente la disponibilità. L'assorbimento di magnesio avviene a livello intestinale, è favorito dal contenuto plasmatico di vitamina D e dal paratormone, mentre è inibito da elevate concentrazioni di calcio e fosfato nella dieta. Questo minerale viene eliminato con le feci e sopratutto con le urine. Alcune patologie che causano alterazioni renali come iperaldosteronismo, acidosi diabetica, iperparatiroidismo, possono determinare una carenza di magnesio. Alcune sostanze provocano un aumento dell'escrezione renale di magnesio come i diuretici, alcuni antibiotici, lo zucchero, il caffè. Altri fattori che accelerano il consumo di magnesio sono una ridotta funzionalità tiroidea, un regime alimentare ricco di latte e latticini per la presenza di calcio: il latte apporta circa otto volte più calcio che magnesio; l'eccesso di calcio nell'organismo formerà depositi come calcoli biliari e renali, depositi di calcio nelle giunture ossee. Il Magnesio e il calcio devono essere presenti nelle corrette proporzioni, altrimenti l'eccesso di calcio può diventare un reale problema. Infine il moderno stile di vita spesso causa di stress, la malnutrizione, l'abuso di alcool, l'abuso di lassativi e il vomito prolungato indotto, come nei disturbi alimentari, esauriscono le riserve di magnesio molto più rapidamente. Altre condizioni che causano ipomagnesemia sono le sindromi da malassorbimento intestinale come coliti

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ulcerose, morbo di Chron, tumori del colon, diarree gravi. La carenza di magnesio provoca astenia, debolezza, tremori, crampi muscolari, confusione mentale, disorientamento, vertigini; in caso di carenze più gravi e prolungate si possono verificare anche aritmie, ipertensione, convulsioni e coma. Per evitare l'ipomagnesemia, nei casi in cui non ci siano patologie organiche a determinarla, è necessario condurre uno stile di vita sano e un'alimentazione equilibrata; in alcuni casi l'integrazione con il magnesio può essere utile per mantenere gli equilibri idro-elettrolitici intra e extracellulari, anche in associazione con altri ioni come sodio e potassio. Sono consigliati integratori di magnesio organico tipo gluconato o citrato che sono le forme più assimilabili. La condizione di ipermagnesemia altrettanto subdola, si verifica di frequente nei pazienti con insufficenza renale; ma può essere presente anche nel diabete scompensato, nell'ipotiroidismo, o essere determinata da farmaci come alcuni antiacidi e psicofarmaci a base di litio. www.baggianinutrizione.it

Paola Baggiani


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Nasce un nuovo appuntamento per Reality una sezione dedicata ai libri, ai Premi Letterari e agli eventi che ne promuovono la diffusione

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ono tantissimi, da Nord a Sud, i festival letterari, le fiere del libro e i premi, un ricco calendario che percorre tutta Italia e non solo:

Cesena. Festival Internazionale di Poesia e Arti Sorelle Como e Cernobbio. Festival dei libri e della cultura "Parolario" Firenze. Libro Aperto

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Lecce. Terza edizione di Picturebook Fest Mantova. Ventiduesima edizione del Festivaletteratura

lcuni dei premi dedicati alla letteratura:

Mantova. Suzzara. NebbiaGialla Suzzara Noir Festival Milano. Quarto Salone Internazionale del Libro Usato

Premio Andersen – Il mondo dell’infanzia

Milano. Bookcity

Premio Bancarella

Modena. Buk – Festival della piccola e media editoria

Premio Calvino

Pistoia. Dialoghi sull’uomo, Festival dell’Antropologia Contemporanea

Premio Campiello Premio De Sanctis per la Saggistica

Ravenna e Lugo di Romagna. ScrittuRa Festival

Premio Letterario Internazionale Mondello

Salerno. Festival Salerno Letteratura

Premio letterario Giovanni Comisso

Torino. Festival della Letteratura

Premio Pulizter Premio Giorgio Scerbanenco Premio Strega

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Festival del Libro & della Cultura Gastronomica

al Tettuccio di Montecatini Terme, parte la seconda edizione del Festival

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l Tettuccio di Montecatini Terme parte la seconda edizione del Festival

Scrittori, chef, sommelier, degustazioni, cene, laboratori, convegni, formazione, villaggi Junior per la sesta edizione di Food&Book che invaderà le storiche terme liberty Tettuccio di Montecatini Terme con la direzione di Sergio Auricchio e Carlo Ottaviano.
Dal 12 al 14 ottobre presentazioni dei più recenti volumi di saggistica e narrativa, cene con l’autore, banchi di assaggio, e degustazioni dedicate, si alterneranno incontri e work-shop.
Tra gli ospiti ci saranno lo Chef Alfonso Iaccarino, uno dei grandi maestri dell’alta cucina italiana, il Prof. Franco Cardini nel duplice ruolo di storico ed esperto gourmet e l’ex magistrato Gian Carlo Caselli, a capo dell’Osservatorio sulla criminalità nel settore agroalimentare, con il suo ultimo volume dedicato alla pericolosità di certi cibi, frutto di filiere illegali.
Evento unico per celebrare il ventennale della trasmissione televisiva “Eat Parade” quello che coinvolgerà il giornalista Bruno Gambacorta, ideatore del programma, insieme agli chef e produttori che, nel corso degli anni, ne hanno contribuito al successo.
L’ingresso agli eventi è libero, salvo alcuni laboratori e le cene.

Da segnalare l’eccezionale apertura notturna del Palazzo Comunale – Moca il 12 ottobre per la visita guidata alla mostra Geniale. Gli invasori dell’arte, a cura dell’Assessore alla Cultura di Montecatini Bruno Ialuna, e la presentazione, il giorno successivo della Guida Slow Wine 2019, una anteprima nazionale che culminerà con la più grande degustazione di vino in Italia (circa un migliaio di etichette per 500 produttori).
Da non perdere anche la tradizionale Corsa dei Camerieri, una

Ada Neri

sfida all’ultimo piatto che vedrà competere, in velocità e abilità per il centro storico di Montecatini, gli allievi degli Istituti alberghieri e camerieri professionisti.
Spazio, infine, anche ai bambini con il villaggio allestito e curato dalla Cooperativa Giodò nel quale verranno organizzati laboratori creativi

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e inviti alla lettura per piccoli appassionati dai 5 ai 10 anni.
Food&Book è un’iniziativa organizzata dall’Associazione Leggere Tutti in collaborazione con Agra Editrice, Comune di Montecatini Terme, Terme di Montecatini Spa, Istituto Alberghiero di Montecatini Terme, Slow Food.

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a Venezia Rosella Postorino vince con Le assaggiatrici

Irene Barbensi

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a giuria dei letterati guidata da Carlo Nordio ha scelto la cinquina dei finalisti: Francesco Targhetta, Ermanno Cavazzoni, Rosella Postorino, Helena Janeczek e Davide Orecchio. Sabato quindici settembre, durante l’elegantissima serata al Teatro La Fenice di Venezia condotta da Mia Ceran e Enrico Bertolino, i trecento lettori anonimi hanno proclamato vincitrice Rosella Postorino con Le Assaggiatrici (Feltrinelli). Romanzo liberamente ispirato alla vera storia di Margot Wolk, che a 96 anni aveva raccontato di essere stata assaggiatrice di Hitler. Il libro ci mette di fronte a un aspetto poco conosciuto del nazismo ma soprattutto ci fa riflettere su fino a che punto sia lecito spingersi per sopravvivere. Queste le sue parole: “Sono felicissima. Voglio ringraziare tutti quelli che mi sono stati vicino mentre scrivevo questo libro. E grazie al Campiello che mi ha fatto fare un’esperienza bellissima.”

Prima della proclamazione, c’è stato un lungo applauso in ricordo dell’editore Cesare De Michelis. La cerimonia, tutta dedicata alla grande lette-

Il Premio Campiello, istituito nel 1962 dagli industriali del Veneto, è promosso e gestito dalla Fondazione Il Campiello, formata dalla associazioni di industriali del Veneto e dalla Federazione regionale.

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ratura, ha alternato momenti ironici e musicali. Oltre mille gli invitati a La Fenice: importanti nomi della grande editoria italiana, industriali veneti tra cui Matteo Zoppas, presidente di Confindustria Veneto e della Fondazione Il Campiello, esponenti di spicco del mondo dell’arte come Philippe Daverio e il cantautore e scrittore Roberto Vecchioni. Tra i nomi della politica la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati e il ministro della Cultura Alberto Bonisoli. Durante la serata sono stati premiati anche Valerio Valentini, vincitore del Campiello Opera Prima con Gli 80 di Campo Rammaglia (Laterza), Marta Morazzoni vincitrice del premio alla carriera e la giovane trionfatrice del Campiello Giovani, Elettra Solignani di Verona, 18 anni, vero talento della scrittura, che ha conquistato il premio con il racconto Con i mattoni, in cui narra la storia di una ragazza che inizia una dieta per poi precipitare nell’abisso dell’anoressia.


LIBRI

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cco una guida pratica su come aprire un blog che possa avere successo e trasformarlo da semplice hobby in uno strumento di lavoro a tutti gli effetti, collaborando con aziende, enti e concessionarie di pubblicità. Partendo dall’analisi di dati e statistiche e dalla sua esperienza personale di blogger e social media strategist, Anna Pernice racchiude in questo libro alcuni consigli pratici su come avvicinarsi al mondo del blogging attraverso la tecnica dello storytelling e su renderlo uno strumento remunerativo. Dalla scelta del nome dominio a quello della piattaforma, dalle tecniche di scrittura fino alla gestione dei social network, tanti consigli su come scrivere per emozionare i lettori e fidelizzarli diventando un punto di riferimento per il tuo settore, con un ampio focus su come approcciarsi ai social network e come sfruttarli per portare visite al tuo blog.

Manuale per aspiranti blogger II edizione di Anna Pernice Dario Flaccovio editore srl

SOCIETà

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allicella, una cittadina situata in un importante distretto produttivo della Toscana. Il libro parte dal suicidio di Marco un impenditore calzaturiero in difficoltà che, in realtà, è la difficoltà di un piccolo centro, dall'aspetto splendente ma soffocato da rancori, tradimenti, giochi di potere. Ognuno può riconoscersi fra i personaggi del libro poiché rispecchiano: vizi, virtù e i segreti che caratterizzano il vivere quotidiano di ogni cittadina dove tutti si conoscono e sanno tutto di tutti. La morte di Marco: uno sparo con la pistola ricordo del padre e nella mente la foto con i compagni del collegio, è la sintesi di una vita - e di un mondo - che passo dopo passo viene raccontata ripercorrendo all'indietro la sua storia e i rapporti con gli abitanti di Vallicella.

LA VALLE IMPERFETTA di Letizia Quaglierini Edizioni La Gru

ROMANZO

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na storia ambientata fra le colline toscane in provincia di Pisa, protagonista un affascinante agente immobiliare inglese di nome Thomas. Playboy incallito prossimo alla cinquantina, inizia ad essere stanco di questo ruolo e alloggiando per motivi di lavoro in un agriturismo, Attimo fuggente, gestito da sole donne, incontrerà una donna che gli farà perdere la testa oltre a scoprire che è la sorella di una sua vecchia fiamma. Sorpreso e turbato per l’intensità delle sue emozioni che lo travolgono e ammaliato dalla bellezza di quei luoghi, attraverso il viaggio dei suoi ricordi passati riuscirà a dare una svolta al suo futuro.

Perfect DAYS di Daniela Pasqualetti Edizioni Ensemble

ROMANZO

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ell’Appennino bolognese si trova un paesino governato da una giunta tutta femminile: si chiama Monterocca, ma è anche nota come la Città delle Donne, una realtà di provincia isolata e immersa nella natura montana. Qui si ritrova Micol Medici, giovane e brillante ispettrice che sta indagando su alcuni crimini sanguinosi e inquietanti, tutti accomunati da una particolare caratteristica: il killer sembra essere intenzionato a vendicare tutte le donne che non hanno mai ottenuto giustizia per la loro morte violenta e, per farlo, si occupa di stanare e uccidere tutti coloro che non sono stati processati per i femminicidi commessi, e dopo aver ucciso una donna e averla fatta sparire sono riusciti a evadere la pena. Per individuare il vendicatore delle “spose sepolte”, Micol dovrà affrontare tutti i segreti che il paese nasconde sotto un’apparente tranquillità, mettendo a rischio la sua stessa vita…

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LE SPOSE Sepolte di Marilù Oliva HarperCollins

Angelo Errera

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noir storico

nel cuore dell'Amiata

frati streghe povera gente nella Toscana del XVI sec. Ernesto Fedi

Albatros editore 535 pagine - 20 Euro

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opo la pubblicazione, nel 1980, del best seller Il nome della rosa di Umberto Eco, tradotto in quarantaquattro lingue, c'è stata una ripresa a tutti i livelli del giallo storico. Ed è in questo filone che si inserisce Due corvi neri volarono sul campanile della chiesa di Renzo Mezzacapo, anche se piuttosto che un giallo, dove il protagonista è sempre un investigatore, si tratta di un noir stori-

co, la cui figura centrale è soprattutto una vittima. Più in particolare rientra nel genere che Jean Claude Izzo ha definito noir mediterraneo, dove la bellezza del paesaggio contrasta profondamente con i crimini che vi si incontrano. Nel romanzo di Mezzacapo (noto pittore di ispirazione fantastica) le tragiche vicende che vengono narrate si svolgono in un contesto paesaggistico tra i più belli d'Italia: la provincia di Siena ed in particolare il Monte Amiata e la Val d'Orcia, dove l'autore è nato e dove si respira ancora a pieni polmoni lo spirito di quel tempo antico. La vicenda si colloca nel 1500, glorificato giustamente come un secolo di particolare importanza, tale da far dire a Winston Churchill che, se non fosse stato per il Rinascimento, la storia del mondo sarebbe stata ben diversa. Ma quel periodo non fu soltanto caratterizzato dal trionfo dell’arte, del pensiero e della scienza, non fu solo il secolo della Riforma Luterana, della stampa e delle grandi scoperte geografiche. Fu anche un secolo pieno di contraddizioni. La Chiesa Cattolica e quella Protestante, condussero un'attività persecutoria senza precedenti, mandando al rogo intellettuali, teologi, cavalieri e soprattutto tante donne, accusati tutti di eresia o stregoneria. Il merito di Mezzacapo è quello di aver messo a nudo questo aspetto, focalizzando la sua attenzione sull'attività dell'Inquisizione e sulle decisioni dei tribunali del Sant'Uffizio, realizzando nell'insieme quello che si può a pieno titolo definire un vero e proprio inno contro la superstizione e il fanatismo. Il romanzo si incardina sulla storia dei conti Cervini, una famiglia nobi-

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liare di Vivo d'Orcia, che ha dato alla Chiesa un Papa: Marcello II. Ed inizia proprio quando la contessina Matilde, una discendente del Papa, viene coinvolta in un fenomeno paranormale: la visione di un fantasma nel Campo Santo di Pisa. Da qui parte il viaggio a ritroso nel tempo, che porterà lei ed il fratello a rivivere, con un sacerdote, vicende dei loro antenati svoltesi nel '500. La meccanica narrativa del fantasma ci ricorda la Madeleine inzuppata nel tè, cioè l'espediente letterario con cui Proust dà inizio alla sua Ricerca del tempo perduto. Il romanzo, come ci tiene ad evidenziare l'autore, è nato in una camera di ospedale dove lui era ricoverato. In situazioni del genere si vede il mondo da un'insolita visuale e il sogno e la fuga dalla realtà, come sostiene Mezzacapo, sono l'unico rimedio per vincere la sofferenza. L'autore ha così reinventato racconti e storie vere della sua terra, dove preti, streghe, cavalieri, principi illuminati e povera gente si incontrano nella fantasia popolare. Ma la sofferenza resta alla base di tutta la narrazione, in particolare nella seconda parte del romanzo, dove aleggia il senso del dolore e della morte. E questo anche dal punto di vista iconografico. Infatti l'unica opera pittorica a cui si fa riferimento è "Il trionfo della Morte" di Buonamico Buffalmacco, un rappresentante di primo piano della pittura gotica toscana. I personaggi, trattati a tutto tondo, sono ben indagati psicologicamente. Il romanzo è avvincente. Il linguaggio è quanto mai scorrevole, essenziale e conciso. Nel suo insieme è un libro che merita di essere letto con attenzione.


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Pensieri

Alcune frasi sul perdono in amore, in amicizia e nella vita

Perdona sempre i tuoi nemici. Nulla li fa arrabbiare di più. (Oscar Wilde) Come sembra difficile tante volte perdonare! Eppure, il perdono è lo strumento posto nelle nostre fragili mani per raggiungere la serenità del cuore. Lasciar cadere il rancore, la rabbia, la violenza e la vendetta sono condizioni necessarie per vivere felici. (Papa Francesco) Il perdono è per chi si pente. Il perdono è per chi cerca di riparare al male che ha fatto. (Giorgio Faletti) Il debole non è mai capace di perdonare. Il perdono è una caratteristica del forte. (Mahatma Gandhi) Colui che non riesce a perdonare agli altri, rompe il ponte su cui lui stesso deve passare. (Confucio) Perdona i tuoi nemici, ma non scordare mai i loro nomi. (John F. Kennedy) Ad Hollywood si dice che bisogna sempre perdonare i propri nemici, perché forse un giorno ci dovrete lavorare insieme. (Lana Turner) 75

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il pipistrello e il corvo Matthew Licht

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el mio caso la società industriale non ha colpa,” disse il pipistrello. Il suo squittire echeggiò per la grotta. Non si sentiva affatto bene. “Ehi stai zitto,” squittì qualcuno in fondo alla caverna dov’era più freddo e buio. “Stiamo cercando di dormire.” La colonia di pipistrelli aveva spinto Bifus verso l’entrata, dove faceva caldo e c’era più luce. Tutto è al contrario per loro: caldo e luminoso è peggio. Il muso di Bifus era ricoperto da una polverina bianca che lo faceva assomigliare a un cocainomane umano. Era intasato. Non aveva forza per volare, ma gli sarebbe stato comunque impossibile cacciare insetti: pure il suo apparato sonar era in panne. “Sto perdendo la pelliccia,” pensò. “Il mio guano è acquoso. Persino stare appeso all’ingiù mi duole. Ho gli artigli carenti di chitina.”

“Che bei pensieri negativi,” gracchiò qualcuno. Nessuno disse, stai zitto. Bifus aveva grosse orecchie, e gli funzionavano ancora. Guardò miope nella direzione dalla quale era arrivata la lugubre voce. Fuori imbruniva. Una formidabile sagoma di uccello oscurava la bocca della grotta. “Un pennuto,” pensò Bifus. “Un grosso uccellaccio nero.” Uccelli e pipistrelli volano, ma non hanno molti altri punti in comune. Gli uccelli nidificano. I pipistrelli si intrufolano in pertugi preesistenti. Gli uni non scomodano gli altri. Sono entrambi insettivori, ma ci sono insetti per tutti. Sul regno insetto perlomeno ci si può contare. “Chissà cosa vuole l’uccello,” pensò Bifus. Ma sapeva già la risposta: nulla di buono, almeno non per lui. “Ora entro,” gracchiò l’uccello. Si buttò nel buio della caverna e sem-

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brò svanire. Così Bifus lo vedeva meglio. Era un corvo. Le sue piume brillarono nel cono disegnato dal bagliore della luna. Il corvo saltellò per il fondo della grotto come un sinistro giocattolo meccanico. Gli altri pipistrelli della colonia si destavano per uscire dalla grotta. Il tramonto è l’ora migliore per i pipistrelli, quindi quella peggiore per gli insetti volanti notturni. Nessuna delle due specie può cambiare le abitudini. Bisogna mangiare è l’universale regola numero uno. Bifus fletté i muscoli alari. Cigolavano sempre più fievolmente, come la sua voce. “Forse riesco a uscire un’ultima volta,” pensò. “Scordatelo,” gracchiò il corvo. Il primo squadrone di pipistrelli alfa uscì, sbattendo con potenza le ali. Persino il loro odore era forte. Il corvo li guardò partire. Gli luccicavano gli occhi. Bifus guardò giù verso il corvo. Sembrava un’ombra sul fondo della grotta imbiancato con guano di pipistrelli. Il corvo guardò su verso di lui. Bifus era confuso. Chi stava su? Chi stava giù? Verso quale direzione era puntata la terra? Chi decideva cosa costituiva giorno e notte? Nel frattempo, i pipistrelli che aveva sempre considerato parenti e amici se ne andavano al volo verso il nutriente buio esterno. C’erano sempre più insetti. Coprivano il mondo in una nebbia di chitina, ma la popolazione di pipistrelli non cresceva. Dalla grotta uscivano sempre meno roditori alati. Bifus era consapevole di far parte del problema. “Cosa c’è che non va?” chiese al corvo di sotto. “Intendo, cosa c’è che non va con me?” “Secondo te?” gracchiò il corvo. Do-


vette gracchiare piuttosto forte, per farsi sentire al di sopra del cuoioso batter d’ali. Bifus cercò di pensare. Gli era sempre più difficile, non che i pipistrelli siano grandi filosofi. Il problema era il naso. L’aveva ficcato in un posto dove musi di pipistrelli non si dovrebbero azzardare. Ma dove? Non riusciva a immaginarselo. Anche i suoi ricordi olfattivi erano stati azzerati dalla polvere caccolosa che gli incrostava la proboscide. Passò in revisione fiori e frutta, tutto in bianco e nero. Rivide la mantide religiosa albina che aveva divorato tanto a lungo. Risentì il sapore di quella croccante testolina triangolare, di quegli occhi liquidi, di quelle chele spigolose. Che abbuffata. La vita era sempre stata così dolce. “È tutto sballato,” squittì Bifus. “Prendo ogni respiro coi denti. Mi gira la testa, mi sento debole.” “Dici bene,” gracchiò il corvo. “Tutto è fuori equilibrio. Non c’è più armonia. Per gli insetti è una cuccagna. Per loro, e le meduse. Sono insetti le meduse?” Uno scorpione, forse offeso dalla domanda, o per dimostrare la supremazia degli insetti, si lanciò verso le caviglie del corvo. Scarafaggi cavernicoli clicchettarono eccitati. Guano di pipistrelli era buono, animale morto era meglio. Dovevano solo pazientare per ingozzarsi. Migliaia di secoli di esperienza li hanno resi persistenti. Pipistrelli morti farciti di insetti semi-digeriti erano una leccornia. Solo insetti mangiano corvi morti. I corvi si nutrono di carogne. Insetti, vermi, e altri invertebrati poco evoluti sono ancora meno schifiltosi. “Credevo di essere superiore ai coleotteri,” squittì Bifus. “Più ne mangiavo, più mi sentivo forte. E quando ero carico, mi sentivo utile alla colonia, nel senso di aumentarla. Le femmine sono attratte solo dai più forti. Funziona così.” “Dillo a me,” gracchiò il corvo. “Non più,” squittì Bifus. Le strelle oramai lo evitavano. Dicevano ai loro piccoli di stare alla larga del relitto crostoso. “Hai vissuto la tua vita, magari ti sei anche divertito.” Il corvo abbassò la voce. Gli ultimi pipistrelli sani avevano lasciato la grotta. I cuccioli miagolanti rimasti indietro zittirono. Fai silenzio e rimani vivo, era il loro motto nella caverna vuota. “Ora ti sei beccato il fungo. Brutta storia, per voi pipistrelli. Bella notizia per noi corvi, almeno quelli che non hanno paura di entrare nelle grotte. Una pacchia per tutti questi bagherozzi, scorpioni e millepiedi carnivori.” Per schivarli stava praticamente ballando il tip-tap. Bifus starnutì. Le onde sonore echeg-

giarono, spaventando i piccoli. I cuccioli di pipistrelli tremavano, speravano che le loro madri sarebbero tornate presto all’ovile per leccare i loro ani e nutrirli di vomito. Con ogni respiro, starnuto e tosse il fungo penetrava più profondamente dentro la sua proboscide. Bifus si rese conto che il corvo stava per il verso giusto. Aveva sempre visto il mondo da una prospettiva sbagliata, ma ora non importava. Soffriva di vertigini. Non si era mai sentito così male, così solo. Pensò a sua madre, a come gli aveva leccato l’ano e come lo aveva nutrito di vomito. Sentì il battito del cuore materno. Sentì il suo alito, fresco come foglie a terra dopo una notte di pioggia. “Sto per cadere,” squittì. Non era mai caduto, prima. Né si era mai imbattuto in qualcosa senza volerlo. Aveva mancato prede, fallito nell’attirare femmine, mangiato insetti velenosi che gli causarono mal di pancia, ma se non fai errori non impari. Se però fai gli errori sbagliati, muori. “Non ti preoccupare, pupo,” gracchiò piano il corvo. “Ti prendo io.” Bifus, che si reggeva appena per gli artigli, si sentì sollevato. Gli scorpioni, le formiche e i grilli-talpa fosforescenti aspettavano che cadesse. Gli sembrava anche giusto. I pipistrelli divoravano mondi interi di insetti. Li staccavano dagli alberi, volavano in mezzo alle loro involontarie piste di volo sbattendo le fauci come forbici. Pipistrelli morti erano la riscossa degli insetti. “Grazie,” squittì. “Lo apprezzo.” “Nessun problema.” Il corvo scansò appena la carica di un crotalo delle caverne non-vedente, una specie sconosciuta alla scienza. Pensò, “Smettila di pensare, pipistrellino mio. Sbrigati a crepare. Ho fame, e questa grotta puzzolente non mi piace per niente.” Bifus vide un nuovo buio, a lui sconosciuto, freddo e silente.

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Il corvo ne faceva parte: quella calda, viva, dolce. Il corvo gracchiò, “Ehi mi faresti un ultimo piccolo favore?” Bifus non era ancora sordo. Squittì una risposta appena udibile. “Se posso.” “Ti dispiacerebbe volare fuori dalla grotta?” Il corvo non disse, “Così non devo evitare scorpioni e serpenti mentre mangio.” Nemmeno disse, “Noi corvi non riusciamo a trascinare le carogne.” Per essere un corvo, aveva tatto. Bifus considerò la richiesta del nuovo buio. Non riusciva più a vedere la bocca della grotta, sentì solo un lieve respiro di aria fredda e umida sulla pelliccia diradata. “Potrei provare,” squittì. “Te ne sarei grato,” gracchiò il corvo. Guardando su, tenendo d’occhio Bifus, saltellò verso l’apertura della ferita nella terra. “Bisogna essere pazzi per vivere qua dentro,” pensò. Bifus spiccò il volo. Sembrò cadere, ma poi le sue ali si spiegarono come sventole e afferrarono manciate della corrente della notte. “Bellissimo,” gracchiò il corvo. “Sei il dio del volo.” Esilarato, stava per decollare anche lui, ma non voleva confondere il goffo animaletto mezzo morto sospeso per aria. Saltellò tra gli stalagmiti e uscì nella notte. Bifus lasciò la caverna, entrò nel buio sotto le stelle e schiantò a capofitto contro un acero. L’albero veniva demolito da dentro da coleotteri cornuti arrivati dall’Indonesia sui carrelli degli aeroplani del turismo di massa. Le sue ultime foglie secche fluttuarono con grazia a terra. Bifus invece piombò. L’erba era morbida come il velluto nero tra le stelle irraggiungibili. Chiuse gli occhi su Marte, una macchia di sangue nel cielo notturno. Il corvo aspettò un pochino. Quando risorse il sole rimanevano solo ossicini e qualche ciuffo lanugginoso.


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Chi ha visto il

Linchetto?

giurano di averlo incontrato in Garfagnana e in Versilia Alfredo Scanzani

La pieve di San Giovanni Battista a Monsagrati

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a bella Nina non era più la stessa, col passare dei giorni dimagriva a vista d’occhio e il padrone, un contadino di Valpromaro, era molto preoccupato nel vederla sempre più fiacca, anche perché senza il latte della mucca i problemi della famiglia si sarebbero moltiplicati. Succedeva nel 1954 tra le povere case della piccola frazione di Camaiore, dove sulla via Francigena in antico si incrociavano i pellegrini diretti a Roma, in Terrasanta o verso l’Ovest, sulla rotta che porta ancora a Santiago di Compostela. Fatto sta che il contadino una mattina scese nella stalla: mise acqua e foraggio alla Nina, governò il vitello, le galline e i conigli, dette il fieno all’asino poi prese bastone e cappello, uscì dalla stalla e s’incamminò verso Monsagrati, a un tiro di schioppo da Pescaglia. In segno di rispetto, si scoprì il capo attraversando il piazzale della millenaria pieve di San Giovanni Battista poi, scollinato sì e no di cento passi, il campagnolo bussò al casolare dei cipressi. Gli aprì un ometto tutto rughe ed energia che, ascoltata la faccenda di Nina, fece cenno di aver capito e gli disse

d’aspettare seduto lì accanto, mentre lui spariva dietro il muro dell’orto; passata una mezzoretta tornò con una bisaccia a tracolla e un vecchio sacco da patate che trascinava dietro senza sforzo, quindi s’avviarono insieme e parlando del più e del meno arrivarono a Valpromaro ch’era già quasi mezzogiorno. Suonavano le campane di San Martino quando l’ometto con le rughe aprì il sacco, tirò fuori un ramo di ginepro pieno zeppo di coccole, salì con una scala fatta alla buona e piazzò la fronda fra la trave principale e le assi dello sgangherato soffitto: «Così - spiegò al contadino che l’osservava ammutolito - appena viene buio e torna qui, quel sudicio d’un Linchetto si sentirà obbligato a contare le coccole, ma non avendo un briciolo di pazienza non lo farà e arrabbiatissimo dovrà andarsene per sempre, smettendola di dar noia alla Nina». Non contento, il mago di Monsagrati, scese dalla scala e abbracciato stretto stretto alla Nina recitò a lungo una strana cantilena. Il contadino non capì nemmeno una parola, però s’accorse che alla fine, dopo un quarto d’ora buono, l’ometto di Monsagrati era sudato fradicio, senza fiato, come se avesse zappato terraccia infame un giorno intero. E in cambio d’un coniglio verace, la Nina si riprese e guarì alla grande. Questa è solo una delle mille storie legate ai capricci del folletto più famoso della Versilia e della Lucchesia, in particolare dei paesi e delle valli della Garfagnana, dove non esiste angolo che non abbia assistito al passaggio del Linchetto, personaggio da schiaffi che imperversa da secoli nei paesi, nei boschi, ai fontanili, nei crocicchi, nelle camere e nelle stalle, sempre in vena di peripezie, di ripicche e di provocazioni,

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al pari dei suoi simili che vivono sparsi nel mondo intero. Annodano le code dei cavalli, rovesciamo il latte, fanno perdere l’appetito, sbattono gli armadi da dentro, ti soffiano sul capo mentre dormi, rubano, nascondono le cose a cui tieni maggiormente, ti sbaciucchiano, insomma se ti prendono di mira sono dei gran rompiscatole, oppure ti aiutano a vincere al gioco, ad allevare gli animali, a conquistare una femmina che loro sono abituati a prendere in giro. A Viareggio un Linchetto chiamato Giosalpino si divertiva a trasformarsi in pietra, in un palo, in un foglio di carta. Roba da far impazzire persino chi è nato da quelle parti. Alla fine del 1800 il giornalista e insegnante Giovanni Giannini lo descriveva nel testo Canti popolari della montagna lucchese: «Il Folletto o Linchetto, che è tutt’uno, è uno spirito allegro e bizzarro, che si nasconde nei tini al tempo della vendemmia, arriccia i crini ai cavalli e si prende gusto a bussare la notte alla porta di quelli che dormono, spingendo alle volte lo scherzo al punto di entrare in camera e di buttare per terra i lenzuoli e di mettersi a sedere sul petto del povero dormiente, impedendogli così di respirare...». Impossibile elencare quanti sulla Vergine e sulla testa dei figli hanno testimoniato d’aver incontrato lo spavaldo e curioso Linchetto (tenero coi bimbi, diabolico con le vecchie signore) a Lucignana, a Careggine, Santa Maria a Giudice, Cerretoli di Castelnuovo, Fabbriche di Vallico, Loppeglia, Gallicano, Brucciano, San Romano, Colognora di Pescaglia, Vagli di Sotto e Vergemoli, Fiano, Borgo a Mozzano... Chi lo rappresenta simile a una scimmietta, chi lo paragona a un mostriciattolo. Ildefonso Nieri, invece, all’inizio del 1900 alla voce Linchetto del Vo-


cabolario Lucchese spiegava: «Spirito non cattivo ma dispettoso, che va di notte, entra per le camere, scopre le persone, sconvolge, tramuta gli oggetti che ci sono e sghignazza delle burle che fa». A Pegnana, vicino Barga, fino al tempo della Seconda guerra mondiale, quando televisori, lavatrici, telefonini e diavolerie elettroniche erano fantascienza, tanta gente del posto sosteneva convinta che i Linchetti adoravano fare la vita del pastore, curando le pecore, preparando ricotta e formaggi, trattando bene animali e uomini che ritenevano simpatici e, al contrario, in maniera villana uccelli, quattrozampe e persone poco socievoli con i folletti. Tipo le ragazze d’ogni dove che rifiutavano la loro corte sfacciata e assillante. A proposito, sapete come incastravano una volta il Linchetto le donne più furbe per fargli passare la voglia di fare lo scemo durante la prima notte di nozze? Quando cioè lo spudorato e gelosissimo folletto era solito pizzicare e sculacciare l’eccitato giovanotto per innervosirlo e farlo litigare con la mo-

avrebbe dovuto lisciarle e raddrizzarle i peli arricciati sparsi in tutto il corpo, prima che il gallo cantasse. Un trabocchetto perché lui, intollerante e indo-

gliettina ansiosa di amoreggiare? Stesa sul letto, la femmina si spogliava ben bene, faceva uscire il Linchetto guardone dal suo nascondiglio e gli assicurava baci e carezze ad una condizione: lui

cile ad ogni comando e alla pazienza, se la dava a gambe stizzito fino all’osso, stregato da un ordine al quale non poteva disobbedire. Non si sa perché, e nemmeno agli sposini interessava, fi-

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nalmente liberi di giocare in pace nel sospirato lettone. Fu sempre una donna, giurano a Sassi, nel comune di Molazzana, che mise in pratica un altro sistema per liberarsi di un Linchetto che la perseguitava standogli sul petto ogni volta che cercava di dormire. «Prima di infilarti sotto le coperte – le consigliò una zia – vai dietro l’orto con una fetta di polenta e mangiala mentre fai i tuoi bisogni». Seguì il consiglio, e mentre era sul dunque una vocina stizzita cominciò a insultarla gridando «Porcella, porcella, sei una porcella!...». E da quella volta il Linchetto sparì dalla circolazione giacché il sudicione non sopporta le porcherie fatte da altri. Lo conferma lo stesso Giannini che, in mancanza di una sana benedizione del prete, per mettere in fuga il folletto suggeriva, nel fare i propri bisogni, di addentare pane e formaggio sbandierando ai quattro venti: «Mangio e caco pane e cacetto alla faccia del Linchetto». Da almeno trent’anni del Linchetto si parla sempre meno, non si sa che fine abbia fatto. Ma non fateci la bocca, magari ci sta leggendo, è un’acqua cheta...

Boschi di castagni fra i quali il Linchetto ama rifugiarsi Veduta panoramica della Garfagnana


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